Clara Bartoletti
528
Youcanprint Self - Publishing
Titolo | 528 Autore | Clara Bartoletti ISBN | 9788891141149 Prima edizione digitale: 2014
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“Se non sei capace di prendere decisioni per te stesso gli altri le prenderanno per te, e vivrai una vita in catene.” Stephen Littleword
“Soltanto il viaggio è scritto, non la destinazione. Il futuro non è scolpito nella pietra; esso cambia costantemente in base alle nostre decisioni.” Vianna Stibal
In memoria di Marco R. Scenografo, pittore, fotografo, grande matematico.
Prologo
Mi sono avvicinato a Nick. Lui ha sollevato le mani come in segno di resa. Io ho esitato. Poi ho fatto altrettanto. I nostri palmi si sono accostati. Per una frazione di secondo non ho sentito nulla. Improvvisamente ho sentito un forte calore, e spingendo le mie mani contro le sue, attraversandolo ho provato un'emozione indescrivibile, di vertigine e felicità. Era molle, caldo, come nuotare in un mare fatto di gelatina e spugna morbida. Ci siamo attraversati a vicenda. Ci siamo voltati. Lui era me, io ero lui. Io adesso ero Nick. Nick Vattelapesca.
Uno
Trieste, 30 novembre 2014
Robert Blanc uscì dalla sua automobile. Lanciò uno sguardo tutto intorno, e si levò la giacca. Per essere autunno inoltrato quel pomeriggio faceva davvero caldo. Prese la valigia dal bagagliaio, e si apprestò a prendere la borsa del computer portabile lasciata sul sedile anteriore del eggero, quando una mano grande e nodosa fu più veloce. Riconobbe immediatamente in quel gesto fulmineo il buon Gianfranco, l'amico di suo padre. L'uomo di fatica, il tuttofare per eccellenza, il fedelissimo della famiglia. Robert lo lasciò fare, e non lo salutò. Gianfranco era un tipo di poche parole, ma di sostanza. Gli afferrò anche la valigia, portandogliela via dalla mano e gli indicò con un cenno del capo la casa paterna. Robert sorrise. Tornare a casa dopo anni di peregrinazioni in lungo e largo per il mondo lo stava emozionando sul serio. Riconobbe gli odori che amava da bambino, foglie cadute e umidore, l'odore del sole che si confonde con quello della pelle, mele e forse vino. Seguì il contadino, con le mani in tasca, e la testa rivolta verso il cielo. Qui, si disse, avrò modo di rigenerarmi e togliermi di dosso quel peso assurdo chiamato il blocco dello scrittore. Una cosa che succede spesso a chi arriva in alto, in alto come lui poi, non è certo cosa da tutti. Il miglior romanziere del 2014 con decine di libri, scritti in se, il tema caro del mistero. Aveva iniziato come ghost writer per un noto personaggio pubblico che non sapeva in realtà neppure postare uno status su Facebook senza infarcirlo di strafalcioni ed errori grammaticali, e poi il resto era venuto come conseguenza. Poi, quell'estate, il buio. Robert mai si era sentito in uno stato simile, d'apatia e noia mortale, come se niente avesse più un senso. Non vi erano motivi né entusiasmo, e il suo agente a fine estate lo aveva caldamente invitato a prendersi un periodo di meditazione, relax, o per lo meno di fuga dal quotidiano.
Robert era stato a casa della sua ex moglie una settimana, con i bambini, in Provenza, e le aveva confidato i suoi malumori. Patrizia, con cui aveva da sempre un bellissimo rapporto d'amicizia nonostante il divorzio, gli aveva
preparato una tisana di frutta e fiori, e poi, serenamente, lo aveva invitato ad andarsene. - Tu qui non riesci a fare niente, trésor. Lo vedo da come giochi coi ragazzi.- Lui si era stretto nelle spalle e giustificato immediatamente: - Io non gioco coi ragazzi.Patrizia era stata lapidaria: - Appunto.- Robert aveva pensato un paio d'ore dove sarebbe stato meglio fuggire, e poi improvvisamente ebbe un'illuminazione. Trieste. Nella vecchia casa paterna. Il giorno stesso era ripartito, sulla nuova fiammante Mercedes grigia dotata di tutti gli accessori, alla volta dell'Italia. Attraversando le Alpi, si era sentito come sempre più vicino ad una svolta, come se la distanza dalla sua mancanza d'idee andasse via scemando avvicinandosi alla terra natia. Il viaggio fu lungo, e lui fece pochissime fermate. Giusto per un caffè, giusto per un bisogno corporale, animato da una fretta e una furia che non si sentiva sue. Adesso, seguendo il gigante buono di Gianfranco, sperava che la casa avesse conservato gli angoli bui, il verde prato dietro che finiva sul limitare della faggeta e che la polvere formasse ancora alla luce quegli strani riflessi dei colori dell'iride che tanto lo affascinavano da bambino. “Si, mio Dio, è ancora come l'ho lasciata.” Pensò, una volta girata la chiave nella toppa. Gianfranco mise i bagagli nell'entrata, e poi andò al quadro elettrico, e tirò su gli interruttori. - Il caminetto, lo accendo?- Aveva chiesto mentre trafficava con il rubinetto per far uscire la prima acqua, scura e scoppiettante d'aria trattenuta da anni. - Fa caldo, no?- Aveva detto Robert, sperando che Gianfranco insistesse per accenderlo. Il fascino del caminetto, in montagna, è un must. Robert divertito s'immaginò vestito come un vecchio scrittore inglese, con le pantofole e quelle giacchette verdi da caccia al fagiano. “Non sono smilzo abbastanza, per certe giacchette.” Considerò fra sé, mentre Gianfranco entrava e usciva dalla porta principale portando fra le braccia ciocchi di legno ben stagionato. - C'è vino buono, in cantina. Ci sono anche le castagne. Le ho raccolte io. Stasera farà freddo, molto freddo.- Robert lo osservò, con quel misto di curiosità e referenza, da piccolo ne aveva avuto anche paura. Non che fosse cattivo, solo immensamente grosso. Lo aveva visto spellare conigli, lo aveva portato a caccia diverse volte, e mai lo sguardo del piccolo daino aveva lasciato i suoi ricordi
tristi, ucciso e poi preparato per la cena. - Freddo? E' una giornata d'estate, non senti? Ci saranno trenta gradi fuori.Aveva detto Robert, iniziando a tirare fuori i suoi appunti e il computer dalla borsa di pelle nera. - Pioverà, ci sarà un bel temporale. Poi il freddo, la nebbia sarà come un manto bianco che si trascinerà nel bosco per ore.- Gianfranco lo aveva detto senza voltarsi, con una voce profonda e leggermente inquietante. Robert aveva pronunciato un debole “Ah”, senza scomporsi. In realtà l'idea di are una notte con la nebbia e il freddo, da solo, lo aveva spaventato. Gianfranco, come a leggere nella sua mente, si era girato verso di lui e aveva detto, piano: - Sei grande, Robert. Non te la farai ancora sotto, vero?- Il tono bonario lo risvegliò da antiche ansie infantili. Fece una risatina nervosa in risposta e chiese subito dove fosse la chiave della cantina. “Nel solito posto.” Gli indicò la chiave appesa al muro, accanto alla porta d'entrata. - Il fuoco ha preso. Sai come mantenerlo, qualcosa avrai pure imparato.- Disse l'omone, congedandosi. - Questo è il mio numero di cellulare, se hai bisogno chiama. Sempre che ci sia la linea.- Robert lo guardò con disapprovazione. - Vuoi farmi venire le paranoie infantili? Ci stai riuscendo. Non voglio andare da uno “strizzacervelli” per colpa tua. Me la caverò.- Si rese conto che si stava auto convincendo di una cosa di cui non era veramente sicuro. - A domani, Robert. Buona notte.- Gianfranco si allontanò camminando piano verso la stretta strada polverosa che portava alla sua casa, lontana quasi mezzo chilometro da quella dello scrittore. Il luogo era isolato, il paese più vicino era a quasi due chilometri, e non si poteva affermare che fosse una metropoli, bensì una decina di vecchie case che formavano un caratteristico borgo. - Domani farò la spesa. Stasera a quanto ho capito non mangerò che castagne arrosto.- Rispose Robert, piccato. -Sul tavolo della cucina c'è la spesa per un reggimento. Basta solo usare il coltello. Sai cosa intendo.- Lo apostrofò di lontano il vecchio amico. “So cosa intendi” disse fra sé Robert e chiuse la porta. Si diresse in cucina e rimase sorpreso dalla quantità di cose buone comprate dal
contadino. Robert affamato frugò in cerca di pane e salame, trovò anche una mortadella e diversi tipi di formaggi. Allestì un'apparecchiatura improvvisata, corse a prendere due bottiglie di vino, un sacco di castagne, e si mise al tavolino. Fuori la notte arrivò prima del previsto. Alle diciannove era già buio pesto, e improvvisamente iniziò a piovere. “L'uomo del meteo, c'indovina sempre." Pensò fra sé. Riavviò il fuoco, e salì nel bagno, che si trovava al primo piano. Osservò il suo viso nello specchio, notò che le zampe di gallina erano più profonde del previsto, e si dedicò con cura alle sue sopracciglia, al ciuffo ribelle brizzolato che ricadeva sugli occhi azzurri, si rasò, si massaggiò il viso con una crema “anti-età”, indossò un colorato pigiama a quadretti rossi, e scese di nuovo al piano terra. La pioggia veniva giù come a secchiate, e cominciarono i tuoni e i lampi, come nelle migliori storie di fantasmi. Robert si accoccolò nella vecchia poltrona del padre e controllò il cellulare. Nessun segno di GSM, anzi, no tacche di ricezione. Tutto morto, e sepolto. “Sono fuori dal mondo, me la sono cercata, e questo il modo migliore per scrivere. Me lo devo, lo devo ai miei lettori.” Appoggiò il mento sul dorso della mano destra, e guardò i guizzi del fuoco. Poi, andò via la luce. Robert ebbe un sussulto. Fuori da ogni comunicazione con il mondo, il temporale che urlava fuori dalle finestre, la luce andata. S'infuse coraggio, e iniziò ad abbrustolire le castagne sulla vecchia pentola sforacchiata di ferro. Il profumo dei frutti lo avvolse, si aprì la seconda bottiglia di vino. “Mi ubriacherò, questo è certo.” Pensò. Mentre era intento alle operazioni, desideroso solo che tornasse la luce, sentì un rumore insolito provenire dal prato. Sentì un fruscio, che gli fece alzare i peli del braccio dalla paura. “Gianfranco, sarà lui. Sarà preoccupato a morte per me. A morte, no. Un po' preoccupato e basta, non tiriamoci la sfiga. Odio quegli scrittori che scrivono queste frasi angoscianti. Ti amo da morire. Sei bello da urlo. Sei un figo da paura. Le trovo frasi “sfiganti”. Meglio un ti amo, punto. Sei bello, punto. Sei figo, punto.” Si allontanò dal caminetto e si avvicinò guardingo alla finestra che dava sul prato, armato dell'attizzatoio. “Il colpevole è il maggiordomo, e la fine della vittima è un classico. Testa fracassata da un attizzatoio. Meglio, avvelenato dal vino adulterato dalla belladonna. Sono patetico. Qui non c'è anima viva. Altra frase molto spaventosa e “sfigante”. Se non ci sono anime vive, è probabile che ci siano anime morte. La devo smettere d'auto suggestionarmi. Non c'è nessuno!” Era tornato alla poltrona, senza aver guardato fuori, l'idea di trovarsi a faccia a
faccia con un marziano arrivato per rapirlo e trapiantagli aghi in testa lo stava quasi paralizzando. Fece per sedersi, che sentì di nuovo, tra un tuono e l'altro, il solito frusciare, come i sul corridoio esterno. Un brivido gli corse sulla schiena, la mano che stringeva il bicchiere si rilassò e per una frazione di secondo quasi gli cadde. Lo recuperò a due mani e tremando come una foglia fece alcuni i incerti verso la finestra. In quel momento un lampo accecante illuminò la sagoma di una donna che in piedi lo fissava dal vetro. - Ma che...- Non finì la frase, non riusciva mai a dire parolacce. La donna bussò due volte alla porta che dava sul prato. E con voce ferma disse: - Fammi entrare.Robert avanzò tentoni, affascinato dalla voce, come improvvisamente incuriosito e spalancò la porta. Lei era davanti a lui. Bellissima. Era vestita di grigio, con un completo pantalone, giacca e camicia, e portava un cappello nero. Assomigliava in modo impressionante a Marlene Dietrech. Stesso sguardo magnetico, labbra sottili, occhi chiari, capelli leggermente mossi sotto il cappello. Guanti e stivali neri, dal tacco basso. - Buonasera, Robert. Hai un bicchiere di vino anche per me?- La donna era entrata, leggera, muovendo appena l'aria e con lo stesso o frusciante e delicato che l'aveva annunciata. Si era seduta nella poltrona di Robert, accavallando le lunghe gambe. Non era bagnata, nonostante il maltempo. Impeccabile, come uscita in quel momento da un film in bianco e nero, gli sorrise beffarda. - So che sei in crisi. Capita a molti.- Lui, impietrito sulla porta, stentava a credere ai suoi occhi. Era una donna davvero in bianco e nero, anzi era grigia, con tutte le sfumature di grigio delle vecchie pellicole. Il viso era grigio, come il resto. Eppure un secondo prima gli era sembrato che fosse bionda, con gli occhi chiari. Invece era una figura senza identità, grigia e maledettamente bella da levare il fiato. Lui richiuse la porta e si avvicinò al camino. Sopra la mensola c'era la bottiglia, e un bicchiere vuoto che lui si apprestò a riempire. Glielo porse, lei lo afferrò, con la mano inguantata e gli fece un cenno, come di brindisi. - A te, Robert, alle tue storie.- Robert, sempre in piedi, in pigiama, spogliato della sua autorità di scrittore di fama internazionale, pensò che fosse un'accanita lettrice. Chi poteva sapere che lui era in ritiro a Trieste? Il suo agente, e Gianfranco. Patrizia, i bambini, nessun altro.
- Chi sei?- chiese Robert, con un filo di voce. - Non ha importanza, adesso. Vuoi che ti racconti una storia?- Lei aveva portato il vino alle labbra, e per un misterioso gioco di luce dovuto al fuoco del camino e alla penombra della stanza, sembrò che le sue labbra fossero rosse, come truccate da un artista impressionista. - Non saprei. Di che si tratta?- Aveva chiesto lui, avvicinandosi piano. - Di una storia d'amore.- Aveva detto la donna, facendo girare il vino nel bicchiere. Il movimento, quasi ipnotico, catturò lo sguardo di Robert che si perse per un lungo momento nei suoi pensieri. - Non ci pensare troppo, caro. Dimmi di sì. Tu vuoi un'idea, e io l'ho.- Robert ebbe un gesto di stizza. - Non accetto idee di altri, io so cosa voglio scrivere.Lei si piegò da una parte, come accoccolandosi meglio dentro la poltrona e disse solo: - Sono qui apposta. Se mi ascolti, lo capirai. Arrivò un tuono fragoroso, inaspettato, che lo fece trasecolare. La donna rise, divertita. - La mia storia è d'amore, ma non solo. E' una storia vera, come siamo veri io e te, ci sono gli ingredienti per una trama complicata, con personaggi al limite dell'assurdo. Si parla di morte, di paura, di vendette, di psicosi, di rinascite, di consapevolezza. Sei sicuro di non volermi ascoltare? Ho solo questa notte, poi dovrò andare. Prendere o lasciare.- Lei fece per alzarsi, gli occhi grigi e vacui piantati dentro i suoi. - Piove, non vorrei ti ammalassi. Solo stanotte? Ci sto, prendo il pacco, anche se fosse un “pacco” davvero. Che cosa devo fare?Lei si rimise comoda, guardò dentro il bicchiere il vino che si era scaldato fra le sue mani e sussurrò... : - Ascoltami. Devi solo ascoltarmi, senza mai interrompermi. Devi lasciare che le parole entrino nella tua anima. In silenzio. Il silenzio che aprirà il tuo cuore alla conoscenza.Robert si sedette davanti a lei, ormai senza timori. E in silenzio sorseggiò il suo
vino, senza mai interromperla.
Viareggio, 26 novembre 2014
Aveva piovuto tutta la mattina, e arrivare in ufficio era stata una vera impresa. La macchina aveva schivato a malapena le pozzanghere, e l'ultimo tratto, a piedi, era stato un disastro. Julia era entrata nell'androne del palazzo completamente bagnata, senza ombrello, con le scarpe allagate. Era salita al quarto piano, senza prendere il vecchio ascensore poiché in manutenzione, e poi, una volta entrata, si era precipitata in bagno a tentare di rimediare – inutilmente- al problema. Aveva così telefonato alla collega, che entrava sempre un'ora più tardi, se poteva are da casa, da sua madre, e prenderle una felpa e un paio di jeans asciutti, se non le scarpe da tennis e i calzini di cambio. Adele aveva sghignazzato divertita al telefono, e le aveva promesso che lo avrebbe fatto, appena fatta colazione, e appena consegnato i marmocchi alla scuola elementare. Adele era la figlia del capo, Ambrogi Saverio, ma si comportava come una dipendente sfaticata, con la scusa dei figli, il marito e altre cose, aveva sempre una scusa per entrare più tardi, non fare un tubo, e uscire alle tre del pomeriggio. Invece lei, la dipendente, faceva orari da titolare, e anche da manodopera cinese sottopagata. Ambrogi diceva sempre che Julia era il cardine dell'azienda, su cui tutti potevano contare. Al che lei ribatteva pronta, con un ghigno feroce sulla faccia, "un due tre", e si rimetteva alla scrivania senza dire altro. Julia aveva ventiquattro anni, anche se ne dimostrava una decina di più, era single per vocazione, bella e femminile, ma anche con un che d’androgino che in certi momenti la faceva sembrare un’istitutrice tedesca priva d’emozioni. Non aveva mai avuto un marito né tanto meno figli, e conduceva una vita quasi monastica, tra la casa editrice dove lavorava come traduttrice e editor, e la sua casa, un appartamento all’ultimo piano di un palazzo, nel quartiere Città Giardino. Atea, anarchica, diversa dalle sue amiche, sia nel portamento sia nelle vedute, non si scoraggiava mai davanti alle critiche che, regolarmente, doveva affrontare. La madre non si era mai rassegnata, e sperava in un matrimonio riparatore, ad una fuga d'amore, mentre il padre, un arzillo settantasettenne con la fissa della motocicletta, ripeteva a chiunque che sua figlia ci aveva visto giusto a non confondersi con il primo stronzo capitato per caso. Si era laureata in lingue e letterature straniere a Pisa, lavorando anche all'estero sei mesi come interprete e traduttrice negli Stati Uniti
per aiutare il fratello del suo migliore amico, che si era dato alla politica per qualche tempo. Poi qualcosa le aveva fatto venir voglia di tornare a casa, accettando il posto per quella piccola e famosissima casa editrice di Viareggio, Ambrosia Editore, che ormai aveva un posto d’assoluto rispetto nell'ambito letterario nazionale. Ambrosia Editore aveva lanciato giovani talenti, e vinto numerosi premi quali il Rapaci e lo Strega, e il suo capo sapeva benissimo che a scovare queste nuove penne era stata lei, con il suo fiuto incredibile, e il coraggio di osare, e la voglia di credere che tutto fosse possibile. Adele le scodinzolava intorno, facendo pettegolezzi e ficcando il naso su internet, e le faceva da dama di compagnia, poiché non aveva nessun’altra intenzione di cooperare per la ditta. Viveva nel suo mondo di ferie d'agosto da programmare sei mesi prima, dei saldi della eggiata, e del gossip frenato su attori di fiction e cantanti di grido. Adele era in ogni caso simpatica e priva di boria, e questo la faceva amare da Julia, che solitamente odiava tutti e tutto senza farsi troppi problemi d’etica e d’educazione. Quella mattina aveva già tirato giù tutti i santi del paradiso, infilando uno dietro l'altro dieci imprecazioni riguardo al tempo, la pioggia, e maledicendosi più volte di essere nata povera, che questo era il motivo di tutte le sue rabbie e delle sue nevrosi. Aveva una montagna di lavoro da sbrigare, e la scrivania era ricoperta da faldoni cartacei, che più il posto di lavoro di un editor sembrava quello di un avvocato penalista. Infreddolita, aveva messo al massimo il termoconvettore e il Mac su cui lavorava sempre ingobbita, poi con le mani davanti al viso nel tentativo di scaldarle con il fiato caldo, aveva cominciato a scaricare la posta elettronica. Inaspettatamente Adele arrivò quasi subito, forse preoccupata che Julia potesse ammalarsi, e quindi piuttosto che doverla sostituire, aveva sganciato i figli al marito e le aveva portato una sua maglia di lana nera, firmata da un noto stilista, e i pantaloni neri di velluto con i ricami di Swaronsky che lei usava solo per andare alle terme di Saturnia. Julia si cambiò in pochi secondi e nel ringraziarla si accorse che Adele adesso sembrava molto più tranquilla. - Esco a far colazione, non ho messo giù niente. Ti porto qualcosa? - No, grazie. Ho già fatto. Fai pure con calma, Adele. Tanto qui ci penso io.La risposta le era venuta automaticamente, e Adele sorrise contenta. Avrebbe ato almeno un'ora al bar pasticceria di Via Garibaldi, abbuffandosi con la crema pasticcera e il caffè con la panna, in barba alla linea che nonostante tutto era perfetta, e non le creava brutti rotoli di grasso indesiderato. Adele uscì, velocemente com'era arrivata, e Julia si fece un caffè amaro alla macchina delle
cialde, e uscì sul terrazzino sul retro a fumarsi una sigaretta. Ambrogi aveva smesso di fumare dieci anni prima, e non sopportava il fumo delle sigarette. Guidando la sua macchina, a volte spegneva l'aria condizionata quando si accorgeva che nella macchina davanti a lui qualcuno fumava, sostenendo che il fumo, uscendo dal finestrino, entrava nel suo filtro particolato di serie travolgendo di puzza l'abitacolo e corrodendo, in modo irreparabile, il suo impianto di condizionamento. Sapeva del "vizietto" di Julia, e ogni giorno le tirava un'occhiata di traverso, ricordandole che era inutile fumare sul terrazzo, che lui l'odore di quella merda la sentiva lo stesso, e che impregnava i fogli e i muri, ma poi, davanti alla sua indifferenza, cambiava discorso, e alla fine rimandava la paternale il giorno dopo. C'era nella vita di Julia questa ripetersi costante, il lavoro, la ramanzina per il fumo, scoprire il talento, vendere il prodotto, tornare a casa dal gatto, vedere i genitori la domenica, che ormai ogni piccola cosa diversa le procurava una leggera ansia. Il fatto di indossare quella tuta nera e quel maglione, che profumava di Chance di Chanel, non le apparteneva e cozzava con la sua personalità. Per quel giorno ci avrebbe fatto l'abitudine, il giorno dopo avrebbe portato un cambio anche se ci fosse stato il sole. Così quando vide il postino, sotto la pioggia, scendere dal motorino e suonare al camlo, spense la sigaretta nel conchino dei gerani morti, e scese le scale. Probabilmente una raccomandata, se no il postino avrebbe lasciato tutto nella cassetta in fondo all’androne e sarebbe ripartito subito. - Arrivo. – Disse a voce alta mentre faceva gli scalini due alla volta. Il postino era Gaetano. Lo conosceva da quando lavorava da Ambrogi, e che lui nutrisse un interesse per lei era talmente palese che si poteva spalmare come burro su una fetta biscottata. - Ciao Julia. C'è una posta straordinaria per voi, oggi. Con questa pioggia non sarei venuto, ma è un plico particolare, e non me la sono sentita di rimandare, oltre.Aveva detto "oltre" lasciando la parola come in sospeso, per dargli importanza, ma Julia non lo notò, perché lei non badava mai a certe sfumature, pensando sempre al sodo delle questioni. - Quando saprai di cosa parlo, ti lascerò di stucco. Firma qui, per favore.Gaetano non si era tolto il casco, bagnato, che gocciolava sul registro delle firme
che le aveva messo davanti. - Cosa è? Una raccomandata? - Aveva chiesto Julia, osservando il voluminoso plico che Gaetano teneva sotto il braccio, bagnato anch'esso, una busta marroncino, e parecchio stropicciata. - No, ma devo farti firmare lo stesso, per lo scarico di responsabilità, se vogliamo usare questo termine. - Non capisco.- Ieri abbiamo spostato un mobile, giù alle Poste Vecchie di Viareggio. Sai, alla stazione, una volta da lì partivano e arrivano i pacchi, c'era la pesa, ormai è chiuso da anni. - Okay, allora?- Allora, siccome lì bisognava sgomberare, non so il motivo, forse ci faranno un deposito, spostando questo bancone, incastrato contro il muro, abbiamo trovato questa busta. Indirizzata a voi. Sai qual è la cosa straordinaria? Che è stata spedita nel 1989, e che sopra c'è riportato il tuo nome e cognome, è personale per te.Il silenzio cadde fra i due, Julia allargò gli occhi, temendo di aver frainteso. - Se è uno scherzo, Gaetano, lo trovo di pessimo gusto. Io lavoro qui da pochi anni, e non arriva mai posta indirizzata personalmente a me, io qui sono una ghost, una dipendente fantasma. Qui tutto arriva ad Ambrogi, dovresti saperlo. - Guarda tu stessa, non sto scherzando. - Aveva replicato il postino, allungandole subito il plico. - Vedi com'è vecchio? E' usurato dal tempo, la carta è polverosa, il francobollo, poi, parla da solo. - A me sembra una stronzata, però conferma quanto le Poste Italiane facciano pietà. - Julia aveva troncato l'entusiasmo di Gaetano in un nanosecondo, aveva firmato la ricevuta ed era risalita senza neppure salutarlo. Lui aveva fatto una faccia dispiaciuta, non riusciva mai a mantenere un minimo
di conversazione con lei, e quando l'occasione arrivava, lei si dimostrava ancora più distaccata e priva d'interessi. Gaetano le urlò dietro un "potevi almeno dirmi grazie, che sono venuto con questo tempo schifoso", ma lei gli fece solo un gesto, nervoso, dall'ultima rampa delle scale. Entrò nella stanza attigua alla sua, quella che lei considerava la "stanza delle idee", poiché ci teneva i manoscritti e le opere da valutare, e lanciò il plico in un angolo della scaffalatura metallica. - Se hai aspettato tutto questo tempo, puoi aspettare ancora un paio di giorni. Disse a voce alta. Poi chiuse la porta e tornò al computer. Roma, 26 novembre 2014
Marco aveva ricevuto la richiesta dall’ufficio stampa di studiare un servizio fotografico per l’intervista a Mia Zeller per un famoso giornale. Mia, una giovane scrittrice divenuta celebre con il genere fantasy. Marco aveva accettato volentieri il lavoro, ormai sulla piazza era molto conosciuto come il fotografo dei divi, e il suo studio, nel centro di Roma, era attrezzato come si conviene ad un vero professionista del settore. Aveva diversi collaboratori, ma era lui che decideva dove e come realizzare un set. Il bianco e nero era il suo stile preferito, e usava il più delle volte una vecchia Hasselblad cui era affezionato, e che considerava un portafortuna. L'aveva comprata da ragazzo, ad una bancarella del mercato, trattando il prezzo finché non l'aveva spuntata per poche lire. L'aveva usata subito, il pomeriggio stesso. Aveva chiamato l'amica Mirella, una procace tutta curve che ambiva a fare l'attrice, e l'aveva immortalata in pose accattivanti, mai volgari. Lei possedeva, infatti, un'aura sensuale e selvatica, aveva i capelli ricci e neri che le incorniciavano il viso, e una bocca capricciosa, quasi insolente, che non la facevano mai are inosservata. Ma lui aveva catturato in lei l'animo quieto, e quelle foto furono il primo piccolo capolavoro della sua carriera. Esposte ad una mostra, Marco riscosse il favore d'alcuni critici, che lo invitarono a continuare. Dopo Mirella fu la volta d'Erika e altre compagne d'università, che si offrirono volontariamente a posare per lui. Mirella, grazie a quel servizio, fu scelta ad un casting, e per un po’ di tempo calcò i palcoscenici di mezza Italia, rivelandosi poi un'attrice mediocre, ma di grande impatto scenico. Marco, invece, decollò. Le richieste si fecero sempre più interessanti, e dopo la laurea in architettura e il diploma in scenografia, ottenuti entrambi con il
massimo dei voti , decise di trasferirsi nella capitale e aprire un piccolo studio. Le cose con il tempo erano cambiate: dallo sviluppo fatto in modo artigianale nel bagno di casa, dove la madre lo esortava ad uscire che tutti dovevano fare le fila solo per espletare i bisogni fisici, adesso lavorava con quattro computer, e usava tutti i tipi d'applicazione possibili per catturare, rifinire, esaltare il viso o il corpo dei suoi soggetti. Marco non conosceva Mia, n'aveva sentito vagamente parlare da sua figlia Emma che l’aveva descritta come una "gran bella donna, oltre che un cervello fuori della norma". Emma, un'adolescente alta ed eterea, come la madre, e l'aria spaventata di un'aliena scaraventata in un mondo che non le apparteneva, era caparbia e risoluta come lui, e con obiettivi fissi nella testolina. Studiava con profitto, ma ogni tanto si eclissava in quella parte di realtà che Marco considerava inutile, della musica e delle stupidaggini giocose dei ragazzi della sua età. Forse perché Marco non era mai stato veramente un "giovane" a tutti gli effetti, ma solo uno studioso dell'arte, un sognatore pragmatico, che evitava come la peste gli scherzi e le perdite di tempo. Ancora adesso, fuori della scuola, ogni tanto prendeva i vecchi libri di matematica e li apriva a caso, guardando gli esercizi di algebra, e sorrideva pensando che appena dato una scorsa veloce al quesito, aveva già in mente se la parabola nel grafico sarebbe stata discendente o ascendente, e in quale settore delle ascisse e ordinate sarebbe finita. “Sono questi i giochi che mi stimolano” si ripeteva con un sorriso di gratitudine verso la matematica. E quindi che Emma si dilettasse a scrivere su Facebook le sue massime citrulle su questo o quel cantante, lo urtavano moltissimo. Si conteneva, però, perché sapeva che lei avrebbe dovuto seguire la sua strada, senza consigli indesiderati o costrizioni di alcun genere. Quando gli scappò detto, a tavola, che avrebbe fotografato Mia Zeller, lei aveva mollato la forchetta, e lo aveva guardato con stupore, allargando gli occhi come fari, e lasciando la cena a metà. - Papino, ti prego! - la sua supplica era stata all'ennesima potenza. Lui sorrise, pensando che anche lei era come un'equazione, ma senza misteri per lui, e che in quel momento lei dovesse avere il cervello in ebollizione all'idea di poter conoscere la sua scrittrice preferita. - Non se ne parla nemmeno. Vedrai le foto, ma niente presenza fisica sul set.Era stato categorico. Come sempre, del resto. Ma Emma questa volta si era comportata in modo insolito. Non aveva insistito, e come se non gliene importasse nulla, aveva replicato,
mesta: - Dovevo immaginarlo. Il lavoro è lavoro. Vero?A quella dichiarazione, triste ma spontanea, a Marco venne uno strano groppo in gola. Avrebbe preferito un pianto, una mezza scena infantile, le solite bizze dove lui avrebbe potuto rimproverarla, invece quest'esternazione lo aveva messo in fallo. La sua compagna, Valentina, lo aveva lasciato ormai da due anni, e mai come in quel momento aveva desiderato che lei fosse lì, a tirarlo fuori del guaio. Le donne sarebbero state solidali, lui avrebbe protestato un po’, ma poi alla fine avrebbe detto di sì. Invece, dover ammettere che voleva fargli conoscere quella scrittrice tanto amata, di sua iniziativa, lo metteva a disagio. La guardò, pregando lei dicesse ancora qualcosa, che insistesse quel tanto che bastava per commuoverlo, ma lei dimostrò che stava crescendo, che era un'adolescente in piena evoluzione, e si limitò a mettere la testa sul piatto, senza dire altro. L'imbarazzo li accompagnò per qualche minuto, e alla fine lui dovette tornare sull'argomento, per far in modo che quel silenzio finisse e mormorò, con la sua voce quieta e calda: - Volevo farti una sorpresa. Ma se ti arrabbi in questo modo... - Emma si voltò, il viso s'illuminò all'istante e il broncio le sparì di colpo dal viso. - Papino, sei un grande, lo sai?- Marco sorvolò sulla risposta, e le disse solo di finire di mangiare, che il giorno dopo Mia Zeller sarebbe arrivata, in pompa magna per il servizio fotografico. Emma doveva essere in forma per incontrarla. La ragazzina mangiò per due, e poi si portò con la sua sedia a rotelle in camera, per cercare quale trucco e quale mise avrebbe indossato per il grande evento.
Floridia incontrò Lorenzo sulle scale. Lui fece finta di non vederla, lei si scansò appena e scese in cucina, veloce e senza voltarsi. Lorenzo salì in camera, prese dal letto la giacca, e ridiscese immediatamente. - Flori, dobbiamo parlare, io e te.- Lorenzo aprì il frigorifero e prese una bottiglia d'acqua. Cercò un bicchiere, aprendo tutti i pensili della cucina, finché non ne trovò uno e si versò due dita di acqua. Floridia, appoggiata al muro, vicino al tavolo, guardava altrove. - Non ti capisco più, ma certo andare avanti così è inutile. Hai un altro, per caso? Qualche stronzetto belle maniere?- aveva detto poi sbattendo il bicchiere sul piano di marmo del piano cottura. Non si ruppe, ma il suono prodotto la fece
sobbalzare. - Lory, non c'è nessun altro. Sono solo stanca. - Lorenzo era già arrivato sulla porta che dalla cucina dava sul retro del bellissimo giardino, e l'aveva guardata in modo neutrale. - Sei stanca? E di cosa? Hai ottenuto quello che volevi. Hai un lavoro entusiasmante, sei bella, ammirata, io sono pazzo di te, quest'immensa casa è solo nostra. Cosa ti manca?Floridia aveva abbassato lo sguardo e detto con la voce rotta dal pianto trattenuto: - Voglio un figlio.Lorenzo, l'aveva guardata per un lungo istante e poi, facendo no con la testa, si era allontanato, poi entrato in macchina, senza guardarla più, era partito sgommando alla volta della città.
Roma, 27 novembre 2014
Mia si alzò dal letto al suono della sveglia. Quella doveva essere una giornata estremamente importante per lei, e il suo nuovo libro, il terzo della serie fantasy "I labirinti della Città di Ferro". Si fece una doccia caldissima, scelse una crema per il corpo profumata e si dedicò alla cura della pelle per un'intera ora. Non si truccò, le aveva detto l'assistente del fotografo che ai costumi e al make up ci avrebbero pensato alla redazione del giornale quindi avrebbe dovuto posare e rilasciare la sua intervista. Non era la prima volta che usciva un articolo su di lei, ma era la prima volta che il tutto sarebbe stato gestito dalla testata giornalistica e di gossip più conosciuta in Italia, e non solo. Si andava ripetendo le risposte che si era preparata, e che aveva già inviato alla ragazza che seguiva la sua intervista per email; domande molto profonde, in cui il ritratto di lei usciva come una semi eroina della narrativa. Si era guardata nello specchio con ammirazione: c'era riuscita. Era diventata la scrittrice numero uno del fantasy, i suoi libri erano stati tradotti in ventidue lingue, persino in armeno, e con il ricavato solo del primo volume si era comprata una Porche grigia e fatto l'agognato viaggio in Australia, durato un mese. “ So soddisfazioni”, si era detta, con un misto di commozione e di orgoglio. Il prossimo o sarebbe stato quello di acquistare l'appartamento
di Via Arbia dove stava in affitto, e dove aveva scritto per anni, luogo culto ormai di ispirazione e di magia. Indossò un paio di stivali di camoscio altissimi, finì con il sistemarsi un poco i capelli ribelli, e si decise ad uscire da casa. Prese l'ascensore e schiacciò il piano zero. Le porte si chio automaticamente, ma l'ascensore non partì subito, rimase come un attimo immobile nell’attesa. Lei conosceva bene quel tipo di momenti "fermi", come sospesi, ma non ci badò. Immaginò cosa stesse per succedere ed, infatti, i numeri sul display dell'ascensore si accesero a caso, in modo convulso per qualche secondo, poi la luce rimase bloccata su 5, 2, 8. Mia incrociò le braccia, in modo insolente si guardò attorno, poi sorrise burlona. - Farò presto, non ti preoccupare. Sarò presto di ritorno. Acqua in bocca, tranquillo. Non dirò niente di stravagante.Le luci si spensero, poi si accese lo zero del piano terreno, e l'ascensore, con uno scossone, partì.
Viareggio, 27 novembre 2014
Gaetano era arrivato davanti alla palazzina alle dieci in punto. Aveva citofonato a Julia, anche se non aveva niente da consegnare. Aveva smesso di piovere, durante la notte, la città appariva grigia e nevrotica, ma niente a che vedere con il giorno prima. Si era tolto il casco, e messo sul cavalletto il motorino, poi aveva cominciato a contare nei numeri in sequenza, tanto per tranquillizzarsi. Che fosse innamorato di quella donna, ormai, erano anni, e lei non si era mai degnata di un gesto di intesa, ma ormai era arrivato il momento di parlarle. Se avesse detto di no, pazienza, almeno sapeva in cuor suo di aver tentato. Lei rispose al citofono dopo qualche minuto. Si faceva sempre attendere, come se fosse sempre piena di lavori da terminare. La sua voce, per niente dolce, chiese chi fosse. - Sono il postino. C'è posta, da firmare. - Non si era neppure presentato, sono il postino, non aveva neppure avuto il coraggio di dire il suo nome, Gaetano. La cosa era cominciata male, Gaetano si fece prendere da una sorta di sconforto, di ansia interiore. eggiò davanti al motorino in silenzio, a testa bassa, rimuginando il da farsi. Adele aprì la porta. Lui rimase basito, la sua bocca si aprì in modo incondizionato, e farfugliò qualcosa, imbarazzato. Adele sorrise, e
lo invitò ad entrare. Adele aveva letto nei suoi occhi sfuggenti, il dolore e la sorpresa e lei intuendo immediatamente le sue intenzioni, raccolse il momento con la sua prontezza di riflessi, e disse : - Sali su, da lei. Io aspetto qui. Gaetano, quasi in un inchino di riverenza, fece gli scalini a due alla volta, e entrò nell’ufficio di Julia, che era nel terrazzino, a fumare. Come sempre. Lui la chiamò, lei si voltò immediatamente, colpita dal fatto che ci fosse di là una voce maschile che chiamava il suo nome. Era da un bel po’ di tempo che non succedeva un fatto simile, e gettando immediatamente il mozzicone nel vecchio vaso di fiori, si precipitò nell’ufficio. Si trovò davanti il postino, con la giacca gialla e azzurra e il casco in mano, il viso stirato in un sorriso che pareva di più una smorfia nervosa. Le sue labbra tremarono, mentre in un battibaleno le chiedeva se voleva uscire con lei, dopo l'orario di lavoro, per un aperitivo, per far due chiacchiere. Julia, quasi stordita dalla proposta, incrociò le braccia, in segno di rifiuto e auto protezione, ma poi inspiegabilmente fece spallucce dicendo : - Va bene. Ma non stasera, ho già un impegno improrogabile. Domani, va bene al Club Nautico? - Aveva poi sorriso debolmente, come per incoraggiarlo a parlare. Gaetano fece solo di sì con la testa due volte, visibilmente contento, sollevato che la faccenda avesse preso un corso più facile. Julia allora si trovò nella situazione di dover proseguire la conversazione lacunosa, e improvvisò un discorso articolato. - Sai, il Club Nautico è molto carino, ecco. A volte quando esco da qui faccio una eggiata fino alla Madonnina, prima di cena. E noto che è sempre pieno di giovani. Oh, per carità, io sono giovane, ma ci sono anche quelli che più su di età, intendo. Stanno tutti fuori, con il freddo o con il sole, insomma, con ogni tempo, e stanno assieme, ridono. Allora, va bene? Alle sette?- Gaetano aveva di nuovo fatto di sì con la testa, la bocca gli si era riarsa come il letto prosciugato di un fiume d'estate, e avendo la lingua impastata, non riuscì a dire niente. Si girò su se stesso, e quando fu nel pianerottolo, rimise dentro la testa, e disse solo : Alle sette!- Julia fece un cenno con una mano, che a ripensare come lo aveva salutato, si dette della sciocca. Si era immaginata di vedersi, vestita di tutto punto come una perfetta segretaria impalata e timida, fare dei gesti piccoli e veloci con la mano, come una dama di un’altra epoca. Rimase in piedi continuando a fissare il corridoio, come aspettandosi che lui cambiando idea, risalisse le scale per darle un bidone, ma quando vide invece Adele, si girò fulminea per non far vedere la marea di emozioni contrastanti di cui era vittima.
Adele, come se non fosse successo niente, si era rimessa alla sua scrivania, e poi, con voluta indifferenza aveva detto, semplicemente, che era giunta finalmente l'ora. - Ha fatto le scale quattro gradini alla volta, sembrava volare, quel Gaetano. Mi raccomando, adesso. Non rovinare tutto. Julia l'aveva guardata nel suo solito modo impersonale, e con tutta la tranquillità di cui fu padrona, le rispose. - Non credo che uscirò con lui. Domani sera uscirò prima del solito. Così smetterà di importunarmi. - Con uno scatto nervoso si sedette alla scrivania, cercando con furia una sigaretta nella borsa. Adele si mise accanto, e con molta dolcezza le parlò, come si può parlare ad una vecchia amica, anche se loro amiche non si poteva sostenere che lo fossero. - Julia, tu hai bisogno di un uomo. Ti stai annichilendo, tra il lavoro e la tua vita abitudinaria. Sei bellissima, dentro e fuori, eppure ti travesti di amarezza e freddezza, mica vorrai rimanere sola tutta la vita?Julia, trattenendo a stento un gesto di stizza, la guardò dritta negli occhi e disse : - Ti ho riportato le cose che mi hai prestato ieri. Ti sono grata, ma non voglio assolutamente consigli su come gestire la mia vita. - Si spostò di nuovo sul terrazzino, dove si accese l'ennesima sigaretta della giornata.
Roma, 27 novembre 2014
Emma era seduta alla scrivania di Marco, in modo che non si potesse vedere che era seduta su una sedia a rotelle. Ultima generazione di carrozzella, in titanio e carbonio, con delle belle rifiniture rosse, era ormai diventata la cosa più necessaria della sua vita, vita che aveva avuto un incidente di percorso, per questo le priorità di Emma era radicalmente cambiate. Marco stava allestendo il set, nello studio attiguo. Alcune costumiste avevano portato diversi abiti per fare il servizio a Mia, uno era uno splendido abito color ecrù e oro con un copricapo favoloso che ricordava la protagonista dei suoi romanzi, la Fata Gerea. Ma c'era anche un completo nero, da ballerina parigina del Moulin Rouge, e un abito da
sera di seta rosso con scarpe abbinate. Emma aveva guardato le donne appoggiare gli abiti su un lungo tavolo, e il truccatore sistemare davanti allo specchio una serie infinita di colori, boccette, lacche ed estenscion per capelli. Mia Zeller fu puntualissima. Emma la vide entrare con un gran sorriso sul viso. Se l'era immaginata bellissima ma piccola di statura, invece Mia superava il metro e settanta, era molto più magra delle foto trovate su internet, e le sue gambe lunghissime, negli stivali neri di camoscio, le conferivano un'aria marziale. - Scusa, cercavo Marco.- Aveva chiesto alla ragazzina. - Io sono Emma. Marco è mio padre. Si trova nell'altra stanza. Puoi accomodarti qui, ti verrà a chiamare quando saranno pronti. - Emma, così dicendo, sperò che lei entrasse e si mettesse a parlare con lei, voleva ad ogni costo poter parlarle a quattrocchi. Mia si guardò attorno, e poi decise di entrare. Si sedette su una bellissima Petit Sofà di pelle nera di Le Corbusier, e a mani giunte si sporse verso Emma, incuriosita. Dalla porta non riusciva a capire su cosa fosse seduta, ma poi notò le gambe lunghe ma molto magre e comprese che quella era una sedia speciale, una sedia per chi non può più camminare. Osservò Emma e cominciò a leggerla, come usava dire Mia a proposito delle persone appena conosciute. "I visi parlano anche se la bocca tace", diceva sempre la sua Fata Gerea. Ed era vero. Emma le sembrò intelligente, molto intelligente. Lo poteva notare dallo sguardo ipnotico, dal modo di appoggiare il mento alla mano sinistra, come se stesse riflettendo su problemi più grandi di lei. Notò la postura, orgogliosamente eretta, come se il peso delle gambe inutilizzabili fosse una cosa di poco conto. - Sono Mia Zeller, piacere. - Si era alzata e le era andata incontro, con la mano e il braccio tesi, il sorriso luminoso. Emma ricambiò, con evidente entusiasmo. - So chi sei, Mia. Ho letto la tua trilogia, penso che “Il mondo fatato della Città di Ferro” sia molto realistico. Nel senso che quando leggo le tue pagine, m'immergo completamente, perdo il senso della logistica e dell’orientamento. Io non sono più nella mia camera. Sono nelle Foreste di Immaginor, con i Nani del Dispetto e le creature del bosco, e non mi rendo conto del tempo che a. Io sono lì, nei tuoi libri io posso camminare. Camminare, capisci. Correre, ritrovare quella parte di me che ormai è andata perduta, le mie gambe. Mia trasalì alle parole genuine della ragazza, e temette di commuoversi. Questo
prima di un servizio fotografico non era il massimo da consigliare ad una modella. - Sono felice che ti abbiano coinvolto in questo modo, per me l'importante è emozionare i miei lettori. Sopra ogni cosa. - Emma ascoltò le parole, ma poi il suo viso si rabbuiò, improvvisamente. - Sai già cosa ti chiederanno per la stupida intervista?- Mia fece di no con la testa. Stava mentendo, aveva già risposto da una settimana alle domande, ma per ovvi motivi, nessuno doveva conoscere le risposte prima della pubblicazione. - Beh, allora ti dico io cosa ti chiederanno. Cose emozionanti per il loro pubblico. Cose che riveleranno la parte buia di te, quella che non vuoi far conoscere. Ti faranno apparire come una donna fragile, o che ha sofferto, una donna che ha lottato per riuscire, che si è drogata, o magari avvelenata di psicofarmaci per uscire dalla depressione. Faranno di te un'eroina distrutta dalla vita che ha trovato il modo di essere unica con i suoi libri. Insomma, una schifezza. Un'intervista assurda che non ti rappresenta. - Mia la guardò con maggior attenzione, Emma era non intelligente, ma intelligentissima. Ripensò alle domande fatta dalla redazione, e si sorprese a riconoscere che Emma aveva ragione: la sua intervista era una sorta di trappola per pubblico affamato di gossip. Nessuna domanda chiariva veramente chi fosse, ma dava un'idea di lei che non le apparteneva. - Forse sbaglio, sono esagerata? - Disse Emma, come ripensandoci. - Beh, effettivamente, credo che dovrò leggere attentamente le domande. Sei stata preziosa, non mi sarei mai aspettata da una ragazzina una tale finezza psicologica. Sei in gamba.- Rispose Mia, nervosamente. - Non volevo metterti in imbarazzo. Non far parola con mio padre della nostra conversazione, o quello mi pianta un casino. Dice sempre che non mi faccio mai gli affari miei, e questo mi comporterà grossi problemi relazionali... - ma fece l'occhiolino, a significare che la questione era pane quotidiano per loro. - Un'altra cosa, Mia. Posso? - La domanda arrivò subito dopo, e con una sicurezza spiazzante. - Dimmi pure. - Aveva risposto Mia, a disagio. Aveva cominciato a toccarsi nervosamente i capelli. Qualche esperto sosteneva che era una forma di interesse
verso la persona che si aveva di fronte, altri assicuravano che era semplicemente una forma nervosa per nascondere la timidezza. Mia riteneva che nei suoi capelli ci fosse la forza necessaria per affrontare le situazioni, e arricciolarsi la ciocca sfuggente era un modo per tenere sotto controllo l'ansia. - Ma Zeller non è il tuo vero cognome, no? E' un nome d'arte, immagino. E poi, come riesci ad ottenere le tue ispirazioni, a cosa pensi, chi o cosa ti apre la mente a questi mondi immaginari?- Emma spinse il viso in avanti, ghiotta della risposta. - Emma, io non posso risponderti, ora. E' presto, o forse in realtà non so cosa dirti.- Mia adesso era nel panico, e si alzò di scatto dalla poltroncina. - Credo che darò un'occhiata al set, non vorrei pensassero fossi in ritardo. Ciao. La salutò con un sorriso contrito sul viso, e uscì dalla stanza senza aspettare commenti. Entrò in quell'attigua, dove la confusione regnava sovrana. Persone che andavano e venivano, in un chiacchiericcio forte e pasticciato, ma sembrava che tutti sapessero perché erano lì e cosa dovessero fare. La sua entrata fu come un'apparizione. La guardarono tutti per un milionesimo di secondo e il silenzio cadde come un muro, ma immediatamente tutti ripresero da dove si erano fermati, e solo Marco le fece un cenno. - Siamo quasi pronti. Piacere, Marco. - Le allungò la mano lunga e asciutta, la sua stretta fu decisa ma non troppo forte. - Ero di là, non volevo avesse pensato che ero in ritardo.- Balbettò quasi Mia. Marco la guardò negli occhi e sorrise : - Immagino che abbia già conosciuto Emma. La sua faccia atterrita dice tutto. - No, assolutamente. E' una ragazzina dolcissima. - Ribatté Mia preoccupata. - Non le credo, so che Emma è un panzer quando ci si mette, ma in fondo è innocua. Vuole accomodarsi per il trucco e parrucco? - La fermò per un braccio e la fissò a lungo. - Lei ha un'aria molto metropolitana, niente a che vedere che le fatine e i nanetti dei suoi libri. Credo che non le permetterò di indossare i vestiti scelti dalla redazione, la voglio fotografare all'aria aperta. In bianco e nero. Con solo quella
canottiera e i jeans stretti. Il pubblico deve sapere che lei è viva e vegeta, e non un'ammuffita scrittrice tutta casa e pantofole.Mia rise e obiettò che lei era veramente una scrittrice tutta muffa e pantofole, ma Marco fu inamovibile. Chiamò a raccolta il suo staff e decise che fuori, nella Roma dei romani, la sua immagine sarebbe stata valorizzata molto meglio. - Dove abita, a Roma?- Via Arbia, perché?- Quartiere Trieste, interessante. Zona sacra ai vip, ma anche luoghi di mistero. Andremo lì. Mi piace.- Mistero?- Mai sentito parlare dei Villini Coppedè, o della fontana delle Ranocchie?- Ci o spesso davanti, ma io non sono romana, non ho idea a cosa si riferisca. - La porta dell'inferno, esorcismi, cosette del genere.- Disse Marco ridendo. - Non hanno a che vedere con il mio genere letterario, però.- Disse Mia, allargando le braccia. - Sarà, ma sono convinto che dietro il talento e il successo ci sia sempre qualcosa di sfuggente, e di arcano. Fortuna? Chi lo sa. Mi piace pensare che ci sia sempre un'indefinibile verità nascosta dietro l'ovvietà. - la guardò, lei sembrava perplessa. - Basta con le chiacchiere, Mia. Il tempo è denaro. Mi perdoni se ho divagato, volevo solo spaventarla. Le emozioni si rivelano con gli occhi, e nelle foto gli occhi sono tutto. Andiamo. - E senza aspettare altro la invitò a seguirlo.
Roma, due anni prima.
“Quando qualcuno mi vede, mi accorgo seduta stante. Mi sento come se due spilloni mi fossero stati conficcati dentro. Quando provo questa sensazione, so che è arrivato il momento. Il momento di lavorare, di darsi da fare. Mi hanno cercato, voluto, e ora non posso sottrarmi al mio destino. Insomma, per farla breve, ero ai Fori Romani. Mi spiego meglio, lei mi ha visto la prima volta ai Fori Romani. Mi sono subito guardato le mani. Si, è difficile da spiegare, ma quando mi "vedono", io prendo consistenza. Se non solitamente bivacco da un posto all'altro, senza meta, e senza forma, ma non sono uno spirito. Sono una musa. Si, una di quelle muse ispiratrici tante care agli artisti. Noi muse andiamo per il mondo, vagabondando, senza fare un bel niente. Nessuno ci ferma, non ci dice niente, finché poi, un artista si rende conto di noi, e ci chiede di collaborare. Così mi capita da sempre, dagli albori. Ho fatto da musa a grandi scrittori, e nessuno si è lamentato dei miei metodi, anche perché li ho portati ai vertici del loro successo. Lei mi ha piantato gli occhi addosso, e quando ho visto le mie mani prendere forma, ho notato che mi aveva dato sembianze maschili. In tutti questi secoli di onorato servizio alle menti altrui, ho potuto stimare un buon novanta per cento di scelta al maschile, tant’è che io mi prendo sovente in giro definendomi “muso ispiratore”, e non musa. Se vogliamo fare un o indietro, le Muse erano tre, poi siamo diventate sette, poi nove. La realtà che loro sono lassù, nell’Olimpo, e commissionano noi, novecentonovantanove presenze, ad accontentare gli umani. Solitamente, e direi per fortuna, duriamo pochissimo. Il tempo di scrivere una cinquantina di pagine, a dir tanto, e poi gli scrittori si dimenticano di noi. Ci “perdono”. A sentir loro, perdere l’ispirazione è fatto grave, per me che devo lavorare, un sollievo. Aiutare uno scrittore, quasi sempre un principiante, a tirar giù idee, è faticosissimo. S'impuntano sulla forma, e non danno spazio alla fantasia, che è quella che fa muovere il gioco. Il più delle volte sonnecchio in un angolo, guardando il mio cliente del momento, che annaspa sulla carta bianca per poi ignorarmi. Al che, sparisco di nuovo, e mi metto sulla piazza, nell'attesa di essere di nuovo avvistato da chi ha occhi e cervello per usufruire della mia genialità. Perché voglio che sia chiaro, sono io che do linfa vitale alla scrittura, e non è per niente semplice immedesimarmi in cavalieri, prostitute, fantini e naviganti che magari parlano e ragionano in venti lingue diverse. A volte mi annoio terribilmente, specialmente quando lo scrittore parte in virtuosismi che comprende solo lui, ma non sono pagato per correggere e rivedere, e quindi poi mi godo lo spettacolo, quando un’opera è ignorata o demolita. Poi ci sono quelli
che sanno come lavorarmi per benino, e allora nascono i capolavori. Noi novecentonovantanove ci siamo specializzati in varie tematiche, a me personalmente viene bene il thriller, ma ogni tanto mi sovviene di cimentarmi in fantasy, ma quando si tratta di parlar d’amore, divento recalcitrante. Ma tornando al nostro primo incontro, Mia era alle mie spalle. Prima di voltarmi per salutarla, come si conviene ad una musa educata, mi sono guardato l’abbigliamento. Lei per me aveva scelto un paio di pantaloni chiari, una camicia bianca di lino, e un paio di scarpe basse, chiare. Un vero damerino, un dandy di prim’ordine. Adoro quando mi danno un’aria sofisticata, e anche un tantino narcisistica. Perché in quel momento capisco che fra me e lo scrittore può nascere un bel connubio di intenti. Mi sono toccato la faccia: barbetta, baffetti, capello leggermente lungo, mio dio, ho pensato, sono anche bello. Questo mi ha esaltato, e non poco. Avrei voluto ringraziarla di tanta generosità, ma mi sono limitato a girarmi, facendo finta di niente. Lei ha sorriso, estatica. E te credo, amica mia, sono favoloso. Io ho sorriso, immaginando che doveva avermi dotato di denti bianchissimi e regolari, e infatti lei ha alzato le sopracciglia, evidentemente soddisfatta del suo stesso inconscio. Mi s'è avvicinata, è stato facile l’auto abbordaggio e mi ha chiesto, con una punta di civetteria, se fossi italiano. Evidentemente le dovetti sembrare un indiano, o forse un messicano, fatto sta che le risposi nella sua lingua. Sono italiano, per adesso. Lei ha fatto una faccia stupita, e poi, ridacchiando come fra sé, si è presentata. Ha detto di chiamarsi Mia, e io ho risposto, Cinquecentoventotto. Lei è scoppiata a ridere, e ha detto, no, il nome, non il cognome. Non ho cognome, che strana usanza, ho ribadito. E’ il mio nome, ma puoi anche chiamarmi Cinquecentoventotto. Lei mi è parsa molto divertita, si, anche questo fa parte del copione. Una volta m'inventavo nomi bizzarri, ricordo per Edgar Allan Poe scelsi Reynolds, e infatti quando quel povero diavolo morì, invocò il mio nome invano tutta la notte. A quel tempo Reynolds era un gran bel nome. Lui mi aveva immaginato brutto e vecchio, con un pessimo carattere e l’attitudine all’omicidio, e infatti fu per quei motivi che lo mollai. Per questo è morto, perché me ne sono andato, ma nessuno lo sa, o almeno nessuno lo sospetta. Lavorare per uno squattrinato con problemi di alcolismo non è semplice. Io sono una musa dedita al lavoro, precisa, senza vezzi. Se si lavora assieme, bisogna fare le cose come si deve, Poe mi aveva veramente stancato. Quindi per un po’ mi sono attribuito nomi giusti per l’occasione, ma ultimamente il mio orgoglio si è rafforzato, e se mi chiamo Cinquecentoventotto, un motivo c’è e non posso negarmi. Mia mi ha chiesto che ci fi ai Fori, le ho annunciato che aspettavo lei. La verità a volte spiazza. Lei non so cosa ha pensato. O meglio, so cosa può aver pensato. Ragazzo carino e simpatico, con
ironia da vendere, ben vestito, è un ottimo partito. Non avevo proprio voglia di raccontargli della Musa su misura, mi volevo divertire anche io che erano ormai tre settimane che non avevo forma umana, e le ho detto che mi sarebbe piaciuto conoscerla meglio. Che fai nella vita ha scatenato l’input che aspettava. Sono scrittrice. Di fantasy. Oibboè, era meglio una fissata di crimini, che lì do il meglio, ma insomma, magari lavorandoci sopra… Fantastico, ho detto. Io di mestiere faccio l’ispiratore di scrittrici principianti, e lei, di nuovo, si è fatta una risata. Farsi capire da sta gente è sempre difficile, non ti credono mai. Anzi, pensano sempre a forme subdole di seduzione casalinga, ma io, musa, la sono davvero, cazzo! Non devo dire parolacce, anche questo me lo sono imposto. L’ultima creazione è stata un macello, ma non è stata colpa mia, ma di Trecentoundici. Trecentoundici è la mia collega specializzata in porcate. Lei predilige i libri erotici, ultimamente lavora da matti, e infatti ogni tanto io e Seicentouno la dobbiamo aiutare se non rimane indietro e gli editori le stanno alle costole. Beh, l’ultima volta ho dovuto ispirare porcate e parolacce per almeno metà del romanzo, e si parla di un romanzo di quasi quattrocento pagine. Alla fine del lavoro ho parlato sboccato come uno scaricatore di porto per quasi un mese. Non è una bella cosa, lo ammetto. Però un cazzo e una merda ogni tanto fanno il loro fottuto effetto. A-Ah! Okay, tornando al punto, lei aveva frainteso e magari pensava già di sposarmi, o che avessi una Porche Argento parcheggiata in giro, fatto sta le ho indicato una bicicletta mezza disintegrata chiusa con un lucchetto ad un palo della luce, e le ho detto che ero con quella. Ogni tanto per infiltrarmi bene commetto dei piccoli illeciti, ho fatto comparire una chiave e ho rubato la bicicletta per essere credibile. Anche se, detto fra noi, preferisco andare a cavallo. Fa molto più nobile, e poi le mie origini sono divine, non lo dimentichiamo. Insomma, prendo sta bicicletta con disinvoltura e le chiedo se ha voglia di farsi un giro. Lei, contenta matta, si è messa al mio fianco e ci siamo fatti una lunga eggiata. Io ascoltavo tutto quello che diceva, facendo di sì con la testa, ma filtrando solo quello che potesse interessarmi, al fine del romanzo, certo. Lei ha detto che era apionata di folletti, di nani, di maghetti, io con orrore ho ripensato alla saga di Harry Potter e a quanto sudore fosse costato. Film al seguito e compagnia cantante. Mettermi a pensare alle saghe comporta una certa energia, e io, sono anche pigro. Ad ogni modo siamo arrivati ad un chiosco che vendeva macedonie di frutta, e lei se n’è comprata una. Ha chiesto se io ne volessi, ma ho rifiutato. Il gran vantaggio di essere un essere divino è anche quello di non mangiare. Mangiamo solo quando il nostro mondo entra veramente in contatto con quello umano, ma io non ci penso neppure. I miei amici hanno avuto non pochi problemi quando si sono mischiati alle vicende terrene, e io tendo sempre a mantenere le distanze.
Ho notato anche che anche il tipo del chiosco l’ha guardata in modo strano, perché lei ai suoi occhi stava parlando da sola, ma certo non si deve essere stupito più di tanto. A Roma circolano strani individui, e in posto di interesse storico si trovano turisti di tutti i generi. Ho lasciato la bicicletta, lei non se n’è accorta, e abbiamo ripreso a camminare, a ritroso, verso l’Altare della Patria. Poi lei mi ha chiesto cosa avrei fatto la sera. Mi sono offerto di are da lei, e lei ha annuito con entusiasmo. Le ho detto che conoscevo il suo quartiere, lei non ha idea di quanta gente io conosca e di quanta n'abbia frequentata di nascosto, specialmente qualche anno fa quando andavo a trovare Seicentosessantasei che stava ispirando Dario Argento per le sue piumette di cristallo, e quindi ci siamo dati appuntamento alle venti, a casa sua. Me la sono presa comoda, ho fatto un giro lungo nel pomeriggio, sono finito fino al Gianicolo a godermi il panorama e poi alle venti, preciso come un orologio svizzero, ho suonato il camlo del suo citofono. Lei era tutta truccata, messa sul casual, però. In pantofole. Io adesso avevo i jeans blu e una t-shirt orribile, ma che lei quando l’ha vista ha fatto un gridolino di ammirazione. C’era sopra un teschio bianco, enorme, che mi copriva tutto il petto. Mi sentivo meglio nella mise della mattina, io a queste cose ci tengo. Lei mi ha offerto un bicchiere di vino, ho nicchiato, e poi le ho detto, con calma serafica che io ero un essere divino. Non so, veramente, se fosse stato l’effetto del vino su di lei, ma mi ha guardato allucinata ed è scoppiata a ridere. Una risata fragorosa, si è quasi piegata in due, e poi, con il bicchiere pieno in una mano, e l’altra sulla bocca ha detto solo : ma dai. Ma dai, si. E così, alla fine, è iniziata la nostra collaborazione.”
Roma, 27 novembre 2014
Floridia arrivò a casa e non trovò Lorenzo, la casa era vuota e fredda, non era neppure partito il riscaldamento. Buttò la borsa sul divano e si accese una sigaretta, cosa che sapeva benissimo avrebbe fatto arrabbiare il marito, ma non potendone fare a meno, rischiando le conseguenze. Prese il cellulare dal cappotto arancione di Casentino, e lo chiamò. Prima di rispondere, lui la fece attendere almeno per cinque squilli. - Dove sei? – Aveva esordito Flori con una nota di preoccupazione nella voce.
Lui arrivava solitamente mezz’ora prima di lei, non era un tipo da arrivare in ritardo dal lavoro. - Ciao. – Il tono della sua voce era laconico. Si schiarì la voce prima di proseguire la conversazione. - Non rientro a casa. Ho pensato che una pausa sia necessaria, per noi due.Lei temette di aver capito male. Strinse il telefono con tutte le sue forze e con voce tremante e leggera lo apostrofò debolmente:- Stai scherzando? Se è uno scherzo, io non … - Si fermò, paralizzata dalla sua stessa voce, così incredibilmente insolita. - Flori, per favore. Non ce la faccio più a fingere. Abbiamo obiettivi diversi. Tu sei confusa, non sai veramente cosa vuoi dalla vita. Sei stanca, non capisci. Un periodo di lontananza non potrà che farci bene.- Lorenzo aveva detto la frase, preparata da tutto il pomeriggio, senza un filo di ansia o di emozione. Lei era quella stanca, quella confusa, ma era lui che avrebbe aggiustato tutto. Gli uomini aggiustano sempre quello che incasinano le donne. E’ la legge fra le coppie. Lei ansimò, in preda ad un attacco vero e proprio di panico, e singhiozzò un “che vai dicendo” che lui appena percepì. - Non ti chiedo di tornare da tua madre o di lasciare la casa, sono io che mi allontano. Mi cercherò un posto, per stasera dormirò in albergo. Non chiedermi altro. Io sono convinto che erà, e torneremo assieme, ma non posso tollerare oltre il fatto che tu voglia un figlio. Ho appena cambiato il lavoro, sai delle mie responsabilità, sai quanto sia importante per noi, per me, e oltretutto ho bisogno di concentrazione. La finanza, in questo momento di crisi, è una questione delicata, e non posso concedermi il lusso di pensare a cambiare pannolini e fare le ore piccole. Sono certo che converrai con me, quindi, prendiamoci qualche settimana di vacanza. Tu esci con le tue amiche, divertiti, fai come se io fossi all’estero per un convegno, come è già successo in ato, e stai serena. Tutto si aggiusterà, ma io adesso ho bisogno di stare solo, di ritrovare il gusto per il mio lavoro e i miei impegni. Ah, per favore, non mi chiamare. Mi faccio vivo io. – Non aspettò la sua reazione, ma riattaccò il telefono, e poi per precauzione, lo spense del tutto. Floriana lasciò cadere il cellulare, e si rannicchiò su se stessa, scivolando sul parquet di teak, e scoppiò a piangere. Lo conosceva da sempre, era stato l’unico
uomo della sua vita, e in quell’istante temette per il loro matrimonio. Lorenzo aveva una pazienza da elefante, ma quando si scocciava, non ammetteva ripensamenti, o invasioni di campo nei suoi pensieri. Lui decideva per tutti, e lei comprese che chiamarlo o cercarlo sarebbe stato tutto inutile. Pianse per tutta la notte, senza mangiare, e poi chiamò sua madre, cui disse che aspettava un bambino, che era incinta da due mesi, che a lui non aveva detto niente per paura di perderlo. E adesso, che forse era arrivato l’atteso momento di dirglielo, lui aveva già preso una decisione a senso unico. Sarebbe stato tutto più difficile, o forse, come le disse la madre nel suo modo dolce e affettuoso, sarebbe stato tutto più facile. Prese il pacchetto delle sigarette e lo tirò nella spazzatura. “Senza di te, o con te, questo figlio ci sarà.”. Poi, lentamente si preparò per andare a lavorare.
Rientro a casa, aspettandomi di trovare Cinquecentoventotto al solito posto. Lui si mette sempre alla finestra, seduto sulla sedia che dà sul terrazzo, in meditazione. Tutte le volte che lo vedo, mi prende un nodo alla gola. Non posso credere di aver immaginato una musa così bella, espressiva, un uomo in carne ed ossa, moro, con lo sguardo indiano. Riflettendoci attentamente, deve essere un ricordo d’adolescenza. Tanti anni fa, per pagarmi gli studi, cosa che ho cominciato a fare subito durante le superiori, andavo a lavorare al guardaroba di un famoso ristorante della mia città. Ogni sera arrivavano donne bellissime, impellicciate, uomini d’affari, politici, turisti di ogni nazionalità, molto spesso dei vip del mondo dello spettacolo, attricette e registi, calciatori e quanto di più si potesse desiderare. Quella volta, era una fredda notte d’inverno, stavo sulla porta del ristorante nell'attesa di un possibile cliente, arrivò quello che definii un principe arabo. Entrò un giovane, bellissimo, i capelli impomatati come non usava da qualche tempo, i capelli nerissimi tirati indietro, lo sguardo magnetico. Indossava un cappotto di pelo cammello che mi allungò con disinvoltura, e fu allora che notai l’anello d’oro massiccio al mignolo. Mi sorrise, e io non potei mai dimenticare i denti, bianchissimi, regolari, le fossette alle guance. Imbambolata, quasi in soggezione, raccolsi il cappotto e mi precipitai a depositarlo nel grande armadio di noce, per poi porgergli timidamente il numero per la riconsegna. Cenò, da solo, in un tavolo che potei osservare strategicamente dalla mia visuale, attraverso una pianta di beniamino gigante che ci divideva. Pacato, con flemma, sollevava con la sinistra la forchetta per portarsi alla bocca il risotto all’aragosta gratinata, e le fragole flambé. Quando se n'andò, mi dette venti euro, che allora erano una fortuna, l’ingresso per la
domenica in discoteca. Nell’andarsene mi rivolse ancora un sorriso, enigmatico e profondo, e io, rivolgendomi al Maitre chiesi chi fosse. Il mio datore di lavoro si strinse nella spalle e mi rispose di non averlo mai visto prima. Forse un nababbo, forse un attore straniero. Ancora non so. Ed ecco il mio Cinquecentoventotto che gli assomiglia come una goccia d’acqua. Solo che non indossa niente di formale, ma jeans e scarpe da tennis, e non ha niente di oro addosso, neppure un orecchino. Ma stasera, non c’è. Devo raccontargli del mio servizio fotografico. Lui è attento alla mia carriera, è il mio mentore e agente, se vogliamo. Lui ne sa una più del diavolo. Lui è spietatamente cinico, ma anche dotato di una sensibilità fuori del comune. La prima volta che l’ho visto è stata come un’apparizione. Ero fermamente convinta che fosse un uomo in carne ed ossa, quando ho capito che era una trasposizione celebrale della mia mente fervida, lo ammetto, mi sono delusa da sola. Però, quello che ha lui, è che mi ascolta. Avevo sentito dire da qualche parte in televisione che le donne non hanno bisogno in realtà di partecipare con la testa ad un confronto con un uomo, ma solo di pathos inguinale, ma io sono di altra idea. Mi piace un uomo con cui parlare di tutto, sapere cosa pensa di qualsiasi argomento, e Cinquecentoventotto ha una mente allenata alle parole, ai pensieri, alle considerazioni, e sento il bisogno impellente di parlarci ogni santo giorno. Ho girato fra il tavolo e il frigorifero, ho la televisione, mi sono fatta una doccia veloce. Quando sono tornata in salotto, finalmente era lì. Mi sei mancato, gli ho detto, ma lui non si è neppure voltato. Mi ha fatto capire, più di una volta, che le smancerie sono robaccia da umani, e che lui non ne vuole sapere niente. Io, da donna, ho chiesto se dipendesse dal fatto che, magari, in ato, fosse rimasto coinvolto in una storia sentimentale con un’umana, ma lui ha fatto un ghigno feroce e ha detto solo : manco per il cazzo. Si, anche questa cosa delle parolacce, a volte mi fa ridere. E’ impostato, come un damerino, poi si lascia andare ad esternazioni pesanti, ma lui si giustifica dicendo che è colpa di altre muse che lo hanno coinvolto in racconti erotici o moderni. Lui aspira ad ispirarmi romanzi che possano coinvolgere i lettori, ma sa anche come prendere gli editori, è uno che sa quello che fa. Quando arrivò a casa mia la prima volta, fece tutto il giro della casa, ficcando il naso dappertutto, per poi uscirsene con un : - E come sei finita a Roma, scusa?-. Ecco, adesso devo riesumare i cadaveri della mia vita insulsa. Ho pensato. Non che avessi niente da nascondere, ma è anche buona regola non raccontare subito la propria vita al primo che a, ma lui, sostenendo di essere divino, mi ha come incoraggiato ad esternare i miei sentimenti. L’ho presa larga. Tergiversando. Gli ho raccontato che tre anni prima avevo conosciuto, nella mia città, un ragazzo di Roma. La ione era esplosa subito e questo mi aveva promesso di voler vivere con me. Di amarmi. Le solite cose che si dicono. Io mi
ero infervorata, lui era a Trieste solo di aggio, e abbiamo iniziato un amore a distanza. Avevo notato strani comportamenti, ma lui, essendo in Guardia di Finanza, mi raccontava di missioni impossibili e di tempi precari per la nostra comunicazione. Balle. Era sposato. Anzi sposatissimo. Io, idiota fino al midollo, e speranzosa come una Cenerentola, mi ero attivata per la grande sorpresa. Avevo chiesto a Mara, la mia amica che studiava alla Sapienza, e che ormai viveva a Roma, di trovarmi un alloggio. Lei si era prestata di farmi dormire da lei per un periodo, e io ero partita, litigando in casa con i miei, per raggiungere l’amore della mia vita. Arrivata a Roma, fu impossibile avvicinarlo per diversi giorni, ma quando seppe che ero arrivata nella capitale, scoppiò il casino. Mi urlò contro della pazza, che ero fuori come un balcone, tutte le cosine gradevoli che mi ero aspettata da lui, insomma, e alla fine vuotò il sacco. La missione speciale si chiamava Olimpia – nome tipicamente romano – e che c’era pure Marcolino, in altre parole suo figlio, in arrivo. Centoventotto mi è scoppiato a ridere in faccia. Sei delicato come un elefante in cristalleria, io ci sono rimasta malissimo. Ho sofferto come un cane per tanto tempo. Ma lui, asciugandosi le lacrime, aveva detto che era un classico, fidarsi di una divisa, e che io avevo fatto la mia parte da copione, la stupida innamorata. Bon, gli ho risposto. Non volevi sapere perché sono a Roma? Ora lo sai. Ebbi una gran voglia di spaccargli la faccia, ma era troppo bello per farlo. Lui allora, finito di sghignazzare, mi chiese. – E come mai sei rimasta qui? Non sei tornata dai tuoi chiedendo perdono?- L’orgoglio si sa, è una gran brutta bestia, come l’invidia e la gelosia. Tutto un repertorio che mi appartiene a livello genetico, e io gli ho solo risposto che ho cominciato a lavorare, come cameriera e come modella, per pagarmi gli studi. Mi ero iscritta ad un corso, volevo provare a fare l’attrice. Mi ci vedevo, mi sentivo abbastanza fornita di talento. Lui ha alzato gli occhi al cielo, e sbuffato. – Beata te che vivi di sogni. Forse per quello che riuscirai a diventare scrittrice. Ti hanno spiegato che il mondo della notorietà in genere è composto di gente senza scrupoli?- Io l’ho guardato per benino. Stavo ormai somatizzando le sue critiche, ma dovetti riconoscere che aveva ragioni da vendere. – Mi hanno chiesto di girare un porno. Una volta. – ho detto schifata. Lui ha fatto un sorriso sbilenco e ha detto:- Perché no? Da qualche parte si deve pur cominciare.- Al che sono partita quasi urlando, spiegando che io ero una persona che non sarebbe mai scesa a compromessi, o trucchetti, o altre cose per arrivare. Lui si è seduto al tavolo, e ha detto solo “Come no”, che non era una domanda, neppure un’affermazione, ma come un gelido presentimento. Poi io ho mangiato, con lui davanti, seduto al tavolino, che mi osservava guardingo e poi si è alzato da solo, è andato allo scrittoio dove tengo il computer, e lo ha . Conosceva la , e io non ho fiatato. E’ entrato nei miei files, e ha letto il titolo del mio
romanzo, poi si è girato verso di me e ha detto:- “C’è tanto da fare, qui. Anche il titolo fa schifo”. Io non ho replicato, e ho capito che avevo a che fare con un tipo con le palle. “Non l’ho aspettata come il solito. Ho fatto in modo che si sentisse a suo agio, e dopo la doccia, quando l’ho vista in accappatoio, sono comparso. Lei è terribilmente bella, cosa che farebbe perdere la testa a Eros e a tutti gli dei dell’Olimpo, e sono contento che i tempi siano cambiati. Una volta per una donna potevano scoppiare guerre, e io ne so qualcosa. Oggi è tutto diverso. Gli dei se ne guardano bene di entrare in contatto con gli umani, e hanno lasciato campo aperto agli alieni. Ogni tanto questi se ne vengono, rapiscono qualcuno, e chi s’è visto s’è visto. Però, lei, accidenti, ci sono momenti che mi fa perdere lucidità. Con i capelli raccolti a turbante, che mettevano in evidenza due occhi egizi, come solo Cleopatra aveva – una ragazza pessima, ma con grande personalità- mi si è messa davanti, con le braccia sui fianchi e mi ha chiesto dove fossi stato. Lei ha sempre questo atteggiamento femminile che mi irrita, ma non posso pensare altro che sia nel suo dna. Le donne, si sa, fanno sempre delle sceneggiate, anche coi personaggi immaginari. O con me. Io ho sbuffato, infastidito, e le ho chiesto se il servizio fotografico fosse andato come avevo immaginato. Lei ha sorriso, e ha detto solo di sì. Lo sapevo, lo sapevo, che quel fotografo non avrebbe resistito al suo fascino naturale, e che l’avrebbe fotografata senza orpelli o costumi. Poi lei mi ha chiesto come diavolo fi a prevedere ogni mossa, di qualunque persona andasse incontrando, e io ho detto solo che mi veniva naturale. E’ una dote. Mica ho studiato per essere quello che sono. Poi lei ha fatto una cosa insolita. Ha tergiversato, parlando prima di una ragazzina su una sedia a rotelle – non era prevista, ho pensato – che le ha fatto una gran pena, e descrivendola come molto intelligente e creativa. Poi è ata ad altro. In modo brusco. “Sai, pensavo.” Cinicamente avrei voluto ribadire un “Na, davvero tu pensi?”, ma mi sono trattenuto. Invece ho detto:- “Wa, dimmi tutto, cara”. Lei si è volatilizzata in camera, e vestendosi, come fanno di solito le donne, ha cominciato la tiritera. “Pensavo, tu mi ispiri così bene, sto avendo un successo planetario per merito tuo. Tu sei il mio agente, il mio editor, il mio correttore di bozze e di atteggiamenti. Una specie di personal trainer della scrittura. Ma forse dovresti perfezionarti ancora un pochino. Oh si, parli di ogni argomento, ma sei troppo didattico. Non ci metti i sentimenti.” Io mi sono affacciato alla porta della camera, incurante che fosse nuda o meno, e ho detto fra i denti:- Non ci provare, il mio approccio al sentimento è giusto così. Non voglio perdermi in stronzatelle da adolescente brufoloso, né in quelle da comato cinquantenne con le fregole.” Lei ha sorriso, si è infilata la
maglietta sul reggiseno viola – il viola mi piace molto – e mi ha fatto cenno di seguirla in cucina. Senza dire niente, ha tirato fuori la spianatoia, la farina, i pomodori pelati. L’olio, e ha riempito un bicchiere d’acqua. Poi, sale alla mano, mi ha fissato negli occhi e ha detto:- Stasera pizza. Non sai quanto puoi imparare da una pizza.- Sbalordito, mi sono allontanato da lei, e mi sono accucciato sul divano. Lei si è messa ad impastare, poi, dopo pochi minuti, è venuta da me. Mi ha messo la pizza davanti al naso. Mi ha guardato ancora dritto negli occhi, l’avevo molto vicina, solo la pagnottella ci divideva, e lei mi ha detto, con un sussurro:-Prendila in mano. Senti come è morbida al tatto. Come è soffice, questa pasta più sollecitare le tue mani, con un dolce massaggio.-Penso che se mi avesse chiesto una cosa erotica mi avrebbe sconvolto meno. Mi sono sentito arricciare la pelle della nuca, ho provato una sensazione mai sentita prima. Non riuscivo quasi a respirare. Ci fosse stata Trecentoundici avrebbe improvvisato una scena da film, io che mi butto su di lei, baciandola dappertutto, e la pastella tutta imbrattata sulla sua maglietta e la mia faccia, ma io non mi sono mosso. Poi , mi sono alzato, scansandola da me, senza toccarla, e ho balbettato che delle sue tecniche di seduzione non avrebbero mai fatto centro con me. Mia si è voltata, con uno scatto, come fanno le donne bellissime e preziose, e ha commentato un “pazienza, peggio per te”. Io sono scomparso, subito. Mi sono nascosto sul tetto del condominio, sotto forma di niente, e ho rimuginato tutta la notte di come lei potesse mettermi in difficoltà. Che usasse quelle ridicolaggini con gli uomini, veri, non con la sua musa, la sua musa preferita, accidenti a lei ed a tutti gli umani, portatori sani di idee balzane e demenziali. Poi, verso mezzanotte, sono tornato da lei. Dormiva, supina. Mi sono sdraiato accanto a lei, osservando il suo profilo, e annusandola come fosse stata una preda, e ho respirato i suoi sogni caotici. Che sognasse così tanto non avrei mai immaginato neppure io: mare, montagne, boschi, strani personaggi, così ho rubato tutto per lei. Mi sono avvicinato piano al suo viso, e ho ato le mie labbra sulle sue, sfiorandola appena, e ho sentito di nuovo quella vibrazione interna che mi ha fatto venire la pelle d’oca. Lei si è mossa appena, e io mi sono scansato, ma le ho dormito accanto di notte, per poi dissolvermi nelle prime ore del mattino. Se pensava che l’avessi vegliata come un tenero amante, mai. Tutto i, anche la pizza da manipolare, ma il resto mai. Ho una reputazione da difendere, io”.
Viareggio, 27 novembre 2014
Julia aveva osservato il via vai delle auto dal terrazzino, fumando a più non posso, e guardando l’orologio da polso ogni tre secondi. Doveva scappare da Gaetano, tirargli il bidone, e sparire. Non si era truccata, vestita come sempre, aveva trovato una scusa con Adele. – Devo uscire prima, stasera. Ho un problema a casa.- Adele l’aveva guardata allibita, in tanti anni non è mai successo. – Successo qualcosa di grave?- Julia aveva fatto spallucce, e senza rispondere si era infilata la giacca nera, velocemente, ed era corsa alla porta, come se fosse stata inseguita da un animale feroce. – Ciao Ade, a domani.- Aveva fatto gli scalini quasi correndo, poi, una volta sul portone, si era guardata attorno con fare guardingo, e tirato su il bavero della giacca quasi a nascondersi, si era diretta alla sua auto. Ma non aveva fatto i conti con Gaetano, che si era immaginato una sua fuga preventiva. – Dove corri, bellissima. – Le aveva gridato dietro, svoltando l’angolo dove si era nascosto. Lei aveva sospirato rumorosamente, infastidita. Nel voltarsi, il viso contratto dalla sorpresa, aveva detto subito di dover scappare a casa, che l’appuntamento era saltato. Gaetano senza scomporsi, si era avvicinato con un sorriso disarmante. – E’ una cosa brutta, sai, tirare il bidone. Potevi avvertirmi.Lei aveva voltato lo sguardo alla strada, colta in fragrante, e con una piccola punta di imbarazzo aveva mugugnato un “non ho il tuo numero”. Il postino si avvicinò ancora, adesso le era di fronte e ancora con ottimismo da vendere, disse che per farsi perdonare avrebbe dovuto bere con lui qualcosa al Club Nautico. Per lei fu terribile dover dire di sì, ma ormai la brutta figura l’aveva fatta, e non voleva che lui pensasse che fosse peggio di quanto fosse, e quindi, con rammarico acconsentì. Gaetano aveva parcheggiato poco distante: si avviarono verso l’auto in assoluto silenzio, come se fossero diretti ad un funerale, ma una volta dentro l’abitacolo, lui sciolse il ghiaccio con una risatina divertita. – Cosa ci trovi da ridere, adesso?- Aveva replicato Julia con una smorfia. – Sapevo che sarebbe stata dura con te, ma non da costringerti alla fuga ancor prima di are un’ora con me.- Lei aveva sbuffato, infastidita, ma poi davanti al mohjito che le mise davanti il cameriere, si lasciò andare un sorriso soddisfatto. Erano rimasti a guardarsi negli occhi per qualche minuto, poi, lui,
aveva iniziato a parlarle, in cerca di un aggio segreto per farla rispondere. – Non riesco a capire come una donna, bella ed intelligente come te sia ancora a piede libero.- Era partito lui, in vena di complimenti. – Non attacca, con me. Se vuoi possiamo parlare del tempo. Il tempo è migliorato, non piove da due giorni.– Era stata la laconica risposta. Lui per un momento aveva accusato il colpo, ma poi era entrato il venditore di rose, e lui, sbracciando con entusiasmo, l’aveva fatto venire al tavolo. Lei scocciata si era lasciata andare un “ma per favore”, ma Gaetano le aveva comprate tutte, tutte e venti. – Le rose si comprano dispari.- Aveva obiettato Julia con acredine. – Diciannove per te, e una per me.- Aveva replicato Gaetano con un sorriso, poi aveva staccato il gambo della più brutta, quella leggermente spampanata e storta, e se l’era appuntata all’orecchio. Lei si lasciò scappare un messo ghigno divertito. – Non credi che sembro un gitano? Olè!- lui si era alzato e fatto un mezzo giro, per poi inchinarsi a lei. – Sei un idiota. Smettila, ci guardano tutti.- Aveva mormorato lei, rossa in viso. - Pensi che io sia un misero provolone? Un tacchino speranzoso?- aveva detto Gaetano rimettendosi a sedere, con la rosa penzoloni fra i capelli. Lei lo osservò con nuovo interesse. Aveva notato i suoi occhi verdi come quelli dei gatti, e con i capelli finalmente liberi dal casco, e la barba incolta, per un attimo si rese conto che assomigliava a Giancarlo Giannini, l’attore di “travolti da un’insolita ione”. Un bell’uomo, a tutti gli effetti, che la stava corteggiando in modo buffo, solo per scongelarla un po’. -E tu pensi invece che io sia una scopa allampanata?- Aveva detto, lei, cercando con un leggero tremito della mano le sigarette nella borsa. - No, direi più un’acida scopa allampanata!- Poi era scoppiato a ridere, senza alcuna cattiveria. - Vuoi fumare, qui?- Lei si era alzata, senza aver finito il suo bicchiere, e si era allontanata.
– Dai, paga e andiamo a farci una eggiata sul mare. Mi sono rotta. – Lui era corso come un fulmine a pagare, e con l’intero mazzo di rose al seguito, l’aveva raggiunta fuori del locale. Lei si era seduta su una panchina, davanti al vecchio faro. Assorta e fumante, come una ciminiera impazzita. - Molla quello schifo. Se poi dovessi baciarti? Mica voglio baciare un portacenere.- aveva esclamato disgustato. - Io fumo quanto mi pare e piace. Prendere o lasciare. Non ho voglia di trovarmi fra i piedi un genitore assillante, ne ho già due.- Ma l’aveva gettata subito, nel molo. - Complimenti. Lo sai quanto ci mette a distruggersi un filtro di sigaretta?- Lei aveva sbuffato ancora. – Non lo so, ma morirò prima io che possa succedere qualcosa di male a quella sigaretta, stai tranquillo.- Si era avviata lungo il molo, le mani in tasca, il bavero ancora alzato, i capelli raccolti alla rinfusa sulla testa. Si era alzato un lieve vento di scirocco, era più caldo del previsto. Lui le era trottato al fianco, con le rose, e senza dirle niente. Arrivati in fondo, alla Madonnina, lui l’aveva presa per la vita, con decisione. – Che vuoi, adesso?- aveva chiesto lei, ma senza rabbia. – Voglio farti due coccole, non hai bisogno di un po’ di tenerezza?- Lei si era staccata da lui, visibilmente incerta sul da farsi. Ma non aveva detto niente. Lui si era girato, e l’aveva presa per la vita, con decisione. I loro occhi adesso navigavano gli uni negli altri, mescolandosi dal colore acciaio di quelli di Julia, ai profondi e dolci del postino. – I postini sono tipi romantici. Ho bisogno di dimostrartelo. Sono due anni che voglio darti un bacio.- Il fascio di rose appoggiato sui glutei la facevano apparire come un pavone. – Non mi sembra il caso. Noi non stiamo assieme. Non ci conosciamo.- Lei si era ritratta, ancora più confusa. – E’ perché non sono abbastanza intelligente? So tutto di te. L’ho letto su Wikipedia!- Aveva detto Gaetano lasciandola andare deluso. – Su cosa?- Lei era paonazza.
– Sei un’editor di successo, hai scritto un romanzo che è divenuto un best seller, eri una promessa dell’editoria, poi sei scomparsa. Hai mollato, ti sei nascosta da tutti, cosa ti è capitato? Non hai trovato un uomo abbastanza interessante?Gaetano sapeva di essersi spinto oltre, ma tanto valeva che lei si arrabbiasse, era meglio del suo distacco, dopotutto. – Ho mollato perché non sono affari tuoi, io sto bene nella mia vita insulsa, e sapevo, sapevo che non dovevo uscire con te. Io non devo uscire con nessuno, sto bene da sola.- Si era incamminata a o svelto per tornare indietro. – Portami alla mia macchina.Gaetano le fece fare ancora due i e poi la raggiunse. La tirò indietro per una spalla, con determinazione ma anche dolcezza. – Julia, per favore. Non voglio che questa sera sia un disastro. Tu mi piaci, capisci? Non so come fare a …- Julia lo interruppe, brusca:- Sedurmi? Vuoi sedurmi? Farmi credere che ti piaccio, e poi tanto lo so come va a finire. Sms senza risposta, email non lette, cellulare spento, avrai sicuramente una moglie, un’amante sotto il letto, altre donnine da conquistare, e io, poi, idiota e somara, che ti corro dietro per sapere con chi sei, o cosa fai? Ah, no, non fa per me. Io ho già dato.- Lo disse con forza, come se stesse spiegando una cosa nota e arcinota da secoli. – Ma io non posso mandarti sms! E neppure mail, e non posso telefonarti.Aveva replicato il postino, esasperato. – Ah, si, e come mai. Quali scuse avresti per dirmi una cosa simile?Lui l’aveva guardata con un misto di esasperazione e divertimento:- Lo hai detto tu che non hai il mio numero. Io non ho il tuo, se non me lo dai, è logico che non posso prendere contatto con te, ma se lo farai, ti sommergerò di messaggi. Giuro. – Si gettò in ginocchio, con le rose che ormai si erano mezze sbriciolate per il continuo maltrattamento e aveva detto :- Posso avere il suo numero, signorina Julia?Lei lo aveva guardato, indecisa se mandarlo a quel paese, o andarsene senza risposta, quando dalla sua bocca uscirono delle parole che neppure lei avrebbe immaginato:- Non cercarmi mai più, Gaetano. La mia vita è un inferno, e non sono la donna che credi. Te lo chiedo per favore. –
Lui si era alzato. – I procioni sono animaletti docili?- Non cambiare discorso, accidenti! Cosa c'entrano i procioni, adesso? - Lui aveva gettato il mazzo di rose in terra, e poi aveva fatto spallucce. - Sei morbida come un animale selvatico, ma mordi. Forse hai ragione, la tua vita fa schifo, e io non sono quello mandato dal cielo per aiutarti. Arrangiati. L'aveva lasciata lì, allontanandosi a spalle curve, mentre lei, con un sospiro di sollievo, aveva cercato nella borsa l'ultima sigaretta della giornata.
Roma, 28 novembre 2014
Mia sentì un tonfo sordo provenire dal corridoio in comune con gli atri condomini. Sentì alcune voci, e incuriosita si mise a guardare dallo spioncino della porta. L'appartamento davanti al suo aveva la porta aperta, e sull'uscio due uomini parlavano, a voce alta. Appoggiò l'orecchio per sentire meglio, ma non riuscì a distinguere di cosa stessero parlando. Evidentemente i nipoti della vecchia proprietaria si erano decisi ad affittarlo. La signora Martini era morta diversi mesi prima, da sola, abbandonata a se stessa, e alla sua divorante ed inesorabile malattia, l'Alzheimer. Mentre pensava a chi fossero, uno dei due si voltò, come se avesse intuito di essere spiato, e suonò al suo camlo. Lei si ritrasse, spaventata. Aspettò che lo fe di nuovo, e poi dal citofono chiese chi fosse. L'uomo si presentò come il nuovo vicino, e le chiese si aprirgli. Lei fece scattare le diverse serrature, e si ritrovò davanti un uomo sulla quarantina, alto, dall'aspetto distinto e piacevole. - Sono Lorenzo i, sono il suo nuovo vicino di pianerottolo, ho preferito presentarmi, lei si chiama?- Le aveva allungato la mano, e con fare deciso, ma formale, le aveva stretto la sua. - Sono Mia Zeller, non sono la classica vicina che può aiutarla con sale e zucchero all'occorrenza, per quello può sentire le signore del piano di sopra. - I loro sorrisi scattarono all'unisono. L'altro uomo si presentò come Gabriele, il migliore amico di Lorenzo, ma trovò velocemente una scusa per dileguarsi. Sembrava avesse una gran fretta di andarsene. Lorenzo tentò di trattenerlo, invitandoli entrambi a bere qualcosa all'interno dell'appartamento, ma lui disse
che doveva andare al lavoro, che era in tremendo ritardo, e si infilò nell'ascensore salutando a malapena con un cenno della mano. - Gabriele è arrabbiato con me. - Aveva detto Lorenzo a Mia, senza perdere l'affascinante sorriso. - Forse perché gli ha soffiato l'affare? Era lui che voleva venire a vivere qui? Questi appartamenti sono molto prestigiosi, sa.- Aveva detto Mia. - No, il fatto è, che. - Si era fermato, indeciso se proseguire. - Il fatto è che mi sto separando, è stata una decisione affrettata la mia, lo riconosco. Ma non avevo intenzione di are mesi in hotel. Almeno qui posso ricostruire gli avvenimenti che sono successi, e prendere una decisione definitiva. E' la prima volta che mi allontano da mia moglie, spero sia solo un momento eggero, ma chi può dirlo?- Aveva concluso con un gesto delle braccia come dire, vivo la giornata. Mia era rimasta sorpresa dalla schiettezza di Lorenzo, ma sospettò che sotto la spavalderia ci fosse comunque una certa inquietudine, un sottile velo di disperazione al pensiero di essere di nuovo solo, a tentare di ricominciare la vita. - Beh, allora non posso che augurarle buon soggiorno, poiché non sarà una sistemazione definitiva. Immagino che ati i primi giorni di quasi euforica libertà, venga automatico il desiderio di tornare sui propri i.- Lorenzo la studiò per un attimo e poi :- Sembra che lei ne sappia qualcosa. E' separata?Mia fece un mezzo sorriso imbarazzato ma non disse niente. Non aveva mai fatto il grande o, e iniziò a spiegare quanto fosse difficile trovare un uomo serio e coi piedi per terra il giorno d'oggi. Lui scoppiò a ridere, dicendole che era proprio quello il motivo del suo problema con la moglie: lui voleva una relazione stabile, orientata al futuro, al lavoro, alla concretezza, mentre lei era solo un'inguaribile sognatrice, e con la pessima abitudine di fare shopping selvaggio. Volutamente non raccontò della sua avversione ai bambini, per non are da insensibile, e questa fu una scelta saggia. Mia lo trovò irresistibile e simpatico, e la conversazione durò parecchi minuti. Quando il telefono di Mia squillò, lei si congedò; Lorenzo le promise che la chiacchierata sarebbe continuata molto presto. Quando arrivò al cellulare, sul display lampeggiava il numero 528. Irritata, rispose. - Adesso mi telefoni? Che novità non è mai questa? Tu non hai un cellulare? Dove sei?Dall'altra parte Cinquecentoventotto fece un sospiro, poi le rispose, regolando la
sua voce in modo che fosse la più bassa e sensuale possibile. - Tu piuttosto. Con chi stavi facendo la cretina? Ti ho visto. E sentito. - Mia ebbe un sussulto. - Ma non eri in casa, è da ieri sera che sei sparito. Mi controlli?Cinquecentoventotto non rispose subito, poi:- Ero sul tetto. Mi godevo l'aria autunnale di Roma. E ti controllo, certo. Tu sei mia, Mia. Ricordalo. E' grazie a me che pubblichi le tue storie chilometriche. Fossi stato un editore ci avrei fatto dei fermaporta, altro che best seller.- Mia rimase senza parole, non l'aveva mai offesa, si era sempre limitato a prenderla in giro, ma senza cattiveria. Il tono della sua voce si era trasformato quasi in uno stridulo, era evidentemente arrabbiato, o per lo meno, era in piena crisi di gelosia. Strano, per un dio come si riteneva, provare sensazioni umane a questi livelli. - Cinquecentoventotto, sei un cafone. Sappilo. Non stavo facendo la cretina, ho conosciuto il nuovo vicino e stavo facendo gli onori di casa. Tutto qui. Cosa ti salta in mente?- Lo aveva aggredito, e poi riattaccato. Che assurdità, una musa ispiratrice dotata di GSM che ti chiama per rimproverarti, una follia. Fu allora che si accorse di aver lasciato la porta aperta, e Lorenzo aveva sentito tutto. - Problemi con il tuo ragazzo? Mi spiace, non vorrei fosse stata colpa mia. - Non è il mio ragazzo, è un amico un po' pressante. Siamo colleghi di lavoro, ma lui ogni tanto se ne esce con delle sue priorità, diciamo. E' afflitto da senso di controllo, sono due anni che lavoriamo assieme ad un progetto. Per carità, senza di lui non ci sarei mai riuscita, ma si sente in diritto di possedermi. - Neppure lei seppe come le fossero uscite quelle parole, che la spaventarono e colpirono anche Lorenzo. - Sarebbe meglio che tu gli parlassi chiaro. Ci sono persone strane in giro, hai notato quante denunce per stalking? Se vuoi posso dirgli qualcosa io. - Mia si accorse di aver esagerato, e tentò di rimediare. - No, Lorenzo, davvero. Lui è meraviglioso, un po' appiccicoso, ma è generoso e dolce. Scusami, ho esagerato, l'ho dipinto come un pazzo, ma non è così, credimi. - Lorenzo la guardò negli occhi, e mentre rientrava nel suo
appartamento, si voltò e le fece okey con la mano. Come dire, se hai bisogno sono qui. Mia chiuse la porta, ma appena girata, si ritrovò Cinquecentoventotto davanti alla faccia. Era arrabbiatissimo, quasi livido di rabbia, ma lei, che ormai lo conosceva da due anni, notò sopratutto la paura incontenibile che aveva di perderla. - Con chi voleva parlare quell'idiota? Con me? - Aveva esordito Cinquecentoventotto piazzando il suo naso contro il viso di Mia. - Ma lascia correre, gli ho detto che non si debba preoccupare. Spostati. - Lo aveva dribblato con uno scatto, ma lui le era corso dietro, come un falco. - Ho sentito tutto, Mia. “Lui è dolce, ma appiccicoso.” Sei una stupida. - Le aveva fatto il verso, in falsetto. - Io non sono dolce, né tanto meno generoso. Io sono tutto, e con questo credo che ci siamo spiegati. E non ho un cellulare. Sappilo. Mi infilo nelle rete telefoniche, è un gioco da ragazzi. Vorrei vederlo il tuo supereroe di cosa è capace. Mi sono informato, sai. Ha piantato la moglie, incinta. Ti dice niente? Ah, ma certo. A te gli sposatissimi con prole ti mandano in estasi. Hai già pensato di portatelo a letto?Era quasi senza fiato. Incredulo di aver detto tutte quelle cose, come un qualsiasi umano innamorato e geloso. - Tu stai fuori di testa, e voglio che tu te ne vada da casa mia. Mia gli indicò la finestra, da dove lui spariva ogni volta. - Ah, è così? Adesso mi mandi via? Ma se ogni volta che me ne vado stai male e speri nel mio ritorno. Sei patetica. - Mia non si mosse di un millimetro. - Vai a rinfrescarti le idee. Fatti un giro, fatti un volo. Fai qualcosa lontano da me. Chilometrici! Scrivo libri che potrebbero essere dei fermaporta... come hai potuto dirmi queste cattiverie?- Cinquecentoventotto la guardò per un lungo istante. Arrabbiata e bellissima, accidenti a lei. - Ok, mi spiace. Vado a farmi un giro. Non volevo. Non so cosa accidenti mi abbia preso. Ho temuto per te. Quello è un marpione, me lo sento. Di quelli che ti fanno perdere la testa. Hai idea di quanti personaggi del genere io abbia visto nella mia esperienza di musa? Sbucano da ogni parte e riempiono pagine di
romanzetti rosa per shampiste, sono quelli per questo le donne impazziscono e soffrono. Non voglio questo per te. Per te voglio il meglio. I due rimasero in silenzio un minuto, senza fare niente, Mia iniziò a singhiozzare, e Cinquecentoventotto, non potendo sopportare quella vista, si dissolse. Come ghiaccio in un bicchiere d'acqua.
“Ero in salotto. In "modalità invisibile". E' la parte che preferisco, in certe situazioni. Osservo il mio cliente, e mi faccio idee della sua vita, delle sue abitudini. La sera prima la storia della pizza mi aveva turbato, e quella mattina ero scivolato sul suo divano, e la guardavo far colazione. Il rumore nel pianerottolo l'ha distolta dalla quotidianità, e l'ho vista precipitarsi allo spioncino, come affamata di curiosità. Ho assistito alla conversazione con il nuovo arrivato, e non so come, mi sono sentito morire. Ho visto come distruggersi i miei progetti. Lo so, sbaglio. Anche in ato ho combinato qualcosa che ha esulato dalle mie normali attività, e questo ha provocato dei problemi. Anche grossi. L'ultima volta sono stato, per usare un termine moderno, bannato dall'associazione Muse. Mi hanno messo in aspettativa, mi hanno dato ottantasette anni e otto mesi di ferie. In quel periodo non ho fatto altro che viaggiare, da un paese all'altro, per distrarmi, ma la solitudine di non essere riconosciuto da alcun artista mi ha mandato in uno stato di profonda tristezza. Ho visto nascere scrittori di cui io non avrei scommesso un centesimo, e non decollare altri che avrei impalmato al premio Nobel per la letteratura. E' stato fino al 1989, e mi sono perso la creazione di veri capolavori. Lo hanno fatto per limitare la mia personalità, per darmi una lezione. Perché io sono diverso dalle altre muse. Loro si confondono con l'umanità, e alla fine molte richiedono di farne parte, di perdere il loro spirito divino per riciclarsi come carne ed ossa. Io no. Io metto solo il becco, rompo gli schemi, cambio il destino degli scrittori, ne faccio idoli o li uccido, e mi sento come se fossero di mia proprietà. Con Mia ho esagerato. Sperai che non ci fossero conseguenze. Mi eclissai per tutto il pomeriggio, e la sera, quando fui per tornare da lei, pensai che avrei dovuto consigliarmi. Ero ancora furioso, ma allo stesso tempo ero terrorizzato di dovermi fare vedere da lei. Immaginavo scene apocalittiche, volevo assolutamente evitare. Così volai sopra la città. Mi piazzai sopra la cupola di San Pietro e mi fece un pisolino. Da questa visuale Roma è incredibile. Pensai alla mia Grecia, lontana, di cui ormai ho un vago ricordo e a quanto ci siamo divertiti. All'inizio, quando si girava nudi o poco più, le fonti d'acqua
raccontavano storie, e il cielo era sempre blu. Ma queste ormai, sono il ato.”
Viareggio, 28 novembre 2014
Julia non si presentò al lavoro. Questo non era mai successo, e Adele si allarmò. La chiamò a casa due volte, non ottenendo alcuna risposta, decise di andare a casa sua a cercarla. Non era mai andata da lei, quindi cercò l'indirizzo esatto su Google prendendolo dalla busta paga, e notò che abitava in un appartamento a Città Giardino, il quartiere “estivo” per eccellenza, che si animava solamente in estate, appunto, con l'arrivo dei bagnanti. Guardò il citofono del grande palazzo, e vide che molti nomi non comparivano. Però fu come attratta, immediatamente, da un numero. Sulla targhetta di plastica stava scritto a pennarello Duecentotrentasette. Così, in lettere. Pensò che solo una donna stravagante come Julia potesse aver avuto quella brillante idea, e suonò decisa. Julia, con la voce impastata dal sonno, rispose quasi subito. Irriconoscibile. Adele, spaventata, le chiese cosa fosse successo, e le chiese di poter salire al piano. Julia borbottò delle scuse, la voce tremante e soffocata dal pianto, si negò, ma dopo che Adele ebbe insistito con fermezza, non poté far altro che farla salire. Adele si sentì emozionata. Non aveva idea di cosa l'avrebbe aspettata, anche se ricordava che Julia le aveva raccontato di vivere ancora coi genitori. Genitori che in quel momento, non sembravano presenti. Prese l'ascensore e salì al quinto piano, l'ultimo. L'attico. La porta dell'appartamento era aperta. L'ingresso era buio, e Adele fece fatica a riconoscere un'immensa libreria piena di volumi di ogni genere che riempiva tutta la parete, lunga e stretta. Il silenzio regnava assoluto, non c'erano odori particolari, come se la casa fosse vissuta, si, ma forse non tutti i giorni. Adele chiamò Julia con un filo di voce, e lei dalla stanza da letto in fondo a destra, la invitò ad entrare. La sua voce era debolissima, e Adele temette che la pioggia di qualche giorno prima le avesse fatto prendere una terribile influenza. Quando tentoni quasi, arrivò nella sua camera, colse solo la presenza della donna nella stanza, raggomitolata come un fagotto sul letto. La stanza era enorme, dai soffitti alti, e le due finestre con le tapparelle abbassate al massimo, che non entrasse neppure un filo di luce. - Julia, stai male? Cosa ti succede? - Adele corse ad una finestra e armeggiò con
la cinghia dell'avvolgibile per alzarlo, almeno il minimo indispensabile per vederci. - No – sospirò Julia alzando un braccio verso la finestra. - Non sei mica diventata un vampiro, spero.- Scherzò Adele, aprendo uno spiraglio. La luce entrò come un fascio colorato, muovendo la polvere. Adele si voltò, sorridente, ma quando vide Julia, le corse subito accanto, preoccupata. Julia aveva bevuto, o aveva preso dei tranquillanti, o sonniferi. Tre boccette di plastica vuote erano sul pavimento, alcune pasticche azzurre e bianche erano finite sotto il letto e il comodino, e una bottiglia di Jack Daniels, quasi vuota era ai piedi del letto. - Julia, che diavolo hai fatto?Julia si rovesciò sul lato, tentando di guardare l'amica. Adele le vide gli occhi, pesti, e allora notò la chiazza di vomito sul letto, che però non emanava alcun odore. - Non ho fatto niente, ho bevuto un po', ero giù. Sai, quando ti senti un po' giù. Ti capita mai? A me tutti i santi giorni, mi capita. Mi capita. - Provò a tirarsi su, ma il gomito la tradì, e ricadde sul letto. Adele sollecita, l'aiutò, andando ripetendo come un automa, cosa diavolo hai fatto? Poi prese il cellulare e compose il numero del 118. Alle domande del centralinista spiegò nel dettaglio la situazione, e si raccomandò di sbrigarsi. - Sto bene, perché li hai chiamati? Che figura meschina.- Julia tentò di arrabbiarsi, di mostrare la sua solita faccia imperturbabile, ma il tentativo si mostrò inutile. Scoppiò a piangere. Adele si sedette accanto a lei. Le prese una mano nella sua, e tentò di consolarla. Mai si sarebbe aspettata una simile visione. - Julia, ti prego. Non piangere, se c'è qualcosa che ti disturba, ci sono io. Dove sono i tuoi? - Julia spalancò gli occhi, come se la domanda fosse la cosa più stupida che non avesse mai sentito. - I miei, chi?- Borbottò. - I tuoi genitori. Tu hai sempre detto che vivi con loro, da sempre. - Julia abbassò lo sguardo, un leggero rossore di vergogna le colorò le guance per una frazione di secondo. - Io, ho mentito. - Lo disse così piano che Adele temette di non aver capito bene.
- Oh Julia... - Disse di rimando la collega, non sapendo davvero a quel punto cosa dire. Julia, il mostro sacro dell'editoria, quella che non si scomponeva davanti a nulla, era ridotta a un mucchio di stracci e alcool nella sua stanza da letto, e nella attesa di essere ricoverata d'urgenza. - Julia, chi sei?- La domanda le sorse spontanea, le era uscita dalle labbra a velocità sorprendente. Julia si lamentò, come se la risposta le costasse un taglio vene, e fece un gesto con la mano come dire lasciami stare. Le due donne rimasero in silenzio, stringendosi a vicenda le mani, finché non arrivò l'ambulanza. I paramedici, fatte le prima verifiche, sdraiarono Julia sul lettino e chiesero a Adele se si poteva occupare lei di chiudere casa e prendere le chiavi. Adele, rimasta sola, accese le luci della camera, e cercò nell'armadio un pigiama, qualcosa di pulito per Julia. Preso anche un paio di vecchie ciabatte di feltro, fece per uscire che la sua attenzione fu catturata da una foto, incorniciata che intravide proprio all'ultimo. Brillava nella stanza attigua al corridoio d'entrata, il salottino. Era posta su una credenza antica, ritraeva un uomo, un primo piano color seppia. Era una foto da documenti, ingiallita dal tempo e l'uomo era un ragazzo magro, dal naso greco e i capelli ricci che cadevano sugli occhialini rotondi. Il sorriso dell'uomo era grande, si vedeva dagli occhi quanto fosse felice. Una foto che esprimeva tutta la gioia di vivere. Adele non resistette, e sollevò la piccola cornice, rigirandola fra le mani. D'argento, con un motivo di fiori intrecciati, il vetro era pulitissimo. Julia doveva pulirla ogni giorno. La ripose al suo posto, e allora, spaziando con gli occhi a tutto tondo, notò che non c'erano altre foto, né dell'uomo né di nessun altro attaccata alle pareti. Come pure di Julia, nulla. Adele fece un rapido giro nella stanza, osservò ogni oggetto, scoprendo che Julia collezionava piccoli oggetti d'arte, scatoline cesellate e decorate, di smalto e argento, e considerò che era un appartamento accogliente, dove sarebbe stato bello stare in buona compagnia, seduti sul divano, a parlare di viaggi e di amicizia. Arrivò alla porta di casa, con il sacchetto di nylon e la borsa penzoloni dalla spalla. Spense la luce e chiuse a due mandate il portone. Telefonò a suo padre per avvertirlo che andava all'ospedale da Julia e scese le scale, senza smettere di pensare al volto del giovane della foto.
Roma, 29 novembre 2014
“Mi sono alzato con il torcicollo. Non c'ero più abituato a dormire per i tetti, di solito mi accoccolo accanto a Mia, e devo dire, onestamente, mi rilasso. Roma si è svegliata con me, ed è diventata un formicaio. Il centro è pieno di formiche nel vero senso della parola, perché a vederli dall'alto, i politici con le loro guardie del corpo, che vanno a Montecitorio o a so per le strade, tutti neri e grigi, paiono insetti. I turisti invece sono sgargianti, anche in autunno e inverno, specialmente gli americani li noti subito. Sono di taglia abbondante e hanno felpe con le scritte delle squadre di football, e scarpe di taglie esagerate. I giapponesi sono più minuti, ma questo lo sanno tutti, e non ho certo voglia adesso di mettermi ad elencare chi ho visto quella mattina, perché voglio arrivare al sodo. Il mio “sodo” è Seicentosessantasei. Bighellonavo in giro, con la testa piena di pensieri che l'ho beccato seduto su una panchina. Era un uomo, stavolta. La testa spaccata quasi in due da un'accetta, il sangue gli scendeva sulla faccia, un occhio penzoloni gli usciva da un'orbita. Si stava tranquillamente grattando la barbetta, seduto un po' scomposto, e guardava, con l'occhio buono, i piccioni che zampettavano nel prato. Ci trovavamo a Villa Ada, dove a me piace molto eggiare per vedere chi ci sta in giro. Osservo e traggo ispirazione per altri. Mi piace l'aspetto faunistico di Villa Ada, ci stanno i cipressi, l'erbetta fresca. Insomma. Diciamo che è un buon posto per meditare. E poi ci sono i sentieri, lo sgambatoio per i cani. A me i cani non piacciono poi tanto, che da quando ho letto Cujo di King ancora ho gli incubi, ma è bello vedere che ci sono anche cani di piccola taglia. Sono strano, eh. Me lo dico da solo. Facciamola breve, vedo Seicentosessantasei e lui mi ammicca. Mi siedo accanto a lui, e vedo che è circondato da mosche. Ci credo, con tutto quel sangue e il cervello spappolato. Però lui è di buon umore. Ci è abituato a vedersi in quelle mise, per forza. Ispirare degli horror e delle storie da brivido comporta questo.
- Amico, ciao. - ho detto, e gli ho dato un cinque. Una volta in Grecia non si facevano queste manfrine, ma ora va di moda. Ci siamo adeguati. Lui ha fatto per rimettere l'occhio devastato nell'orbita, senza successo, e si è scusato per la puzza. - Non fa niente. Come butta?- Lui ha fatto un sospiro. - Fratè, butta sangue. Sono dieci giorni che sto ispirando un film splatter di due registi romani. Ancora non si sono decisi di come fare il finale, e io barcollo
mezzo morto sperando facciano presto. Sai, le conosci. Le storie splatter, con trama idiota del tipo: due ragazzi in un bosco, col matto con la mannaia, e questi dicono dividiamoci, e così schiattano nei primi dieci minuti di ripresa. Riempire gli altri settanta minuti di pellicola manderebbe in trance chiunque. Le mosche poi sono decisamente fastidiose, a quanto ho capito, loro mi vedono, e mi sentono. E tu, sei tornato alla grande, mi dicono. - Il fatto che io sia stato anni senza lavorare lo sanno anche i sassi. Ho scrollato le spalle. - Tu sei il migliore, fattelo dire, fratello. - Ha detto lui, e mi ha dato una pesante manata sulla spalla. - Dai, smettila. Sono fuori del giro da una vita. Non so davvero cosa ispirare a questi pseudo scrittori. Tutti si credono dei maghi della penna, e invece mi tocca vedere delle cose, delle cose. Che te le raccomando. Già.- Ho risposto. - Ma se lo sanno tutti che sei tu lo scopritore di King. Mica io. Io ho preso il tuo posto. Ma tu lo hai visto per la prima volta in quella roulotte, in preda alla frenesia, e lo hai segnalato.- Si, roba di tanto tempo fa. Carrie. Era una storia “stramaledettamente” tosta, per dirla nel gergo. La tipa schizzata, e delusa dal mondo, che rivela poteri straordinari che usa in modo vendicativo e diabolico. Mi rispetta. Rispetta le mie vedute. Io sono un tipo molto vendicativo. - Ho detto, e mi sono allungato sulla panchina, osservando le ragazze che facevano jogging. Ce n'era qualcuna di veramente da solleticare l'appetito. - Infatti Poe lo hai steso. Steso nel vero senso della parola.- Non mi dava più retta. Era come impazzito. A me devono dar retta i miei scribacchini, o sai di cosa sono capace. Poi l'ammenda è arrivata in ritardo, con tempi biblici, per non dire divini, e mi hanno punito quando stavo per far diventare King quello che è. Merito tuo che hai lavorato bene, come sempre.Seicentosessantasei è un tipo molto modesto, e non si vanta mai di quello che fa. Al contrario di me, che sono un fissato con l'auto celebrazione. Se mi sento il numero uno ci sarà un motivo, anche se nel nostro lavoro Uno è un tipo di un'antipatia unica. Il suo ego è spaventoso. Infatti ispira roba che poi leggono in pochi, pochi eletti, tipo quelle cose filosofiche che dopo tre pagine non sai di cosa stai leggendo. Avete presente? Eh, roba da chiodi. Comunque, per tornare mi hanno dato alcuni moniti che devo rispettare. Primo: non farmi coinvolgere
dalle storie che ispiro, e mantenere un contegno divino. Ci provo, per carità. Ma non mi riesce molto, lo dimostra il fatto che quando ho aiutato la collega con le Sfumature, ho imparato a dire parolacce a tutto spiano, e ora so persino come funziona il sesso. A noi non serve, noi divini, dico. Non possiamo farlo. Tanto meno non possiamo amare nessuno, ma a qualcuno ogni tanto, scappa. Scappa di fare sesso con un umano, o di innamorarsi. Mi hanno raccontato storie raccapriccianti al riguardo, che i film horror di Seicentosessantasei sono favolette per bambini. Poi mi hanno detto, come seconda cosa, di non vendicarmi dei torti subiti dagli scrittori. Fosse facile, ci sono giorni che vorrei prendere una pala e staccargli la testa dal collo a questi esaltati. Ma devo tenere tutto sotto controllo. E per terza cosa mi hanno detto che devo variare. Mi spiego meglio, io ispiro storie di paura e gialli, e storie surreali ricche di pathos e di nevrosi. Invece loro, gli Dei, si sono raccomandati. Cambia il genere, non ti fissare. Ci sono i vampiri, le streghe, le commedie d'amore, le fanfiction, i video musicali, le web series. Quando mi hanno detto delle web series volevo licenziarmi in tronco. Giuro. Ma dico, avete mai visto le web series? Sono delle storie assurde e idiote, dove ci sono dei tizi che fanno qualcosa e tu, da casa, da computer, scegli che finale vuoi. Clicchi A o B. Ma non è finita. Diventa una catena di sant'Antonio, ogni cliccata ti propone una storia nuova e tu decidi il finale. All'infinito. Uno dice, ganzata. E certo, tanto noi che dobbiamo ispirare questa spazzatura, stiamo giorni e giorni ad inventarci storie e finali diversi, così a caso. Senza un senso. La web series è il futuro. Allora dico stiamo messi male. Seicentosessantasei ne ha fatte alcune, in America, non male. Va beh, in America tutto viene meglio. Per tornare al mio statuto di comportamento, ho provato a protestare, ma non c'è stato verso, e così quando Mia mi ha visto, ho detto fra me, speriamo che le piacciano gli omicidi. No, pozioni e bacchette magiche: sono arrivato. Arrivato al capolinea. Però non è male, Mia. Anzi, è un bel bocconcino. - Ho fatto il mio dovere. Non mi piace sempre farlo. Ma qualcuno dovrà pur farlo, questo maledetto lavoro. - Lo ha detto con aria depressa, ho capito che stare con un'accetta in testa non deve essere gradevole. In quel momento è ata una ragazza. In tuta da jogging, super attillata, con la fascia nei capelli biondi, e le cuffiette dell'Mp3. Ha sollevato lo sguardo, poi lo ha abbassato, poi, di scatto, lo ha alzato di nuovo. Verso di me. Ha sorriso. E ha continuato a correre, con quel sorriso malizioso sulla faccia. - Ti ha visto. Non va bene per niente, lo sai?- ha detto Seicentosessantasei voltandosi verso di lei che spariva in lontananza.
- Perché non va bene? Con Mia è successa la stessa cosa. Con me capita quasi a tutti gli scrittori. - Lui ha incrociato le braccia sul petto, pensieroso. - Io, in tanti anni, non sono mai stato visto da nessuno. Sono immaginato, ma non visto di persona. E' diverso. Non c'è una vera interazione con il mondo umano. E' pericoloso. Dovresti saperlo. A parte il fatto che tu te ne freghi, e fai sempre di testa tua. - Sono rimasto zitto. Non sapevo se fosse bene confidarmi o no con lui. Ma a qualcuno dovevo dire le mie perplessità. Così ho fatto il vago per qualche secondo, soffermandomi ad osservare come era combinato, ho provato a fare una battutaccia sul suo aspetto, e poi di getto ho detto: - Lei è diversa da tutti. – Lui si è girato lentamente, non ho capito se per colpa del peso dell’accetta sulla testa, o perché volesse fare il melodrammatico, e poi se n’è uscito con un: - Lo sapevo. Ci risiamo. – Io sapevo dove volesse andare a parare, che io faccio tanto il distaccato e poi mi infilo nelle peste. – Cosa avrebbe di diverso, è carina? Ti ascolta come se tu fossi l’Oracolo? – ha detto poi Seicentosessantasei con una smorfia di commiserazione.
– In linea di massima, si. Ma poi si intestardisce e fa quello che le a per la testa. Non è ubbidiente. – Lui si è accomodato meglio sulla panchina, e poi:- Sei già stato ripreso più volte per la stessa questione, siamo noi ad essere “a disposizione” dell’artista, al limite se proprio ci accorgiamo che abbiamo a che fare con una capra, ci dileguiamo e gli facciamo venire il “blocco dello scrittore”, e stop. Non dobbiamo neppure immaginare di interferire con il mondo umano. Lo sai come la pensa il Grande Capo. Mica vorrai che ti infilzi con una saetta? Sarebbe un bello spettacolo, e penso che te lo meriteresti. – Ho fatto finta di non aver sentito, e sono andato avanti per la mia. – Lei vuole che io arrivi al punto di emozionarmi, di provare cose inaspettate, come tastare la pasta della pizza. Capisci?Lui mi è scoppiato a ridere in faccia. – Cosa vuoi provare palpeggiando della pasta? Non ho mai sentito niente del genere, dovresti mollarla. Ormai lei è famosa, che faccia da sola il resto del percorso. Tu sarai la rovina di te stesso.
Dovresti sapere che io di “rovine” me ne intendo. – Mi ero quasi indispettito, adesso. Così ho dato delle sbirciatine nel parco, per calmarmi. Ho rivisto la ragazza di prima che tornava indietro, sculettando nei pantaloncini elasticizzati, e mi sono appoggiato allo schienale della panchina, incuriosito. Lei ha sorriso di nuovo nella mia direzione, e ha fatto un gesto eloquente: ha alzato una mano nella mia direzione. Seicentosessantasei ha sbottato. – Visto? Sei ormai più di là che nel nostro universo, questo non va bene. Sento puzza di guai. – Ma io, subito, ho risposto facendo l’occhiolino. Lei ha allargato il sorriso. Accidenti, mi aveva visto e non era neppure una scrittrice. Con tutta probabilità era un’infermiera o una segretaria di uno studio notarile. - Cosa dovrei fare?- ho detto quasi più a me stesso che al mio amico. - Assentati per un periodo. Prenditi delle ferie. - L'ho guardato in faccia, e sono scoppiato a ridere. - Eh no, bello. Comincio ora a divertirmi, vedrai che so. - Lui ha scosso la testa, gocciolando vistosamente sangue e materia celebrale, mentre un nugolo di mosche danzavano sopra la sua testa. - So? Guai. Guai. -Ha detto sommessamente. Poi si è alzato, tenendosi la testa alla belle e meglio e ha detto: - Devo andare. Sono sul set fra dieci minuti. Tu vai a casa, chiuditi nell'armadio di Mia, e non farti vedere per almeno un mese. - Si è allontano barcollando, e io ho mi sono alzato in volo. Temevo che Mia fosse arrabbiata con me. Beh, poco male, come dicono tutti gli umani una donna arrabbiata non è brutto. Anzi, è stimolante. Ho sorvolato la città, di nuovo. Sono entrato dalla finestra, e mi sono seduto al solito posto. Lei non c'era. Dopo poco è arrivata, trafelata. Teneva sul braccio una borsa di nylon piena di abiti eleganti. Appena mi ha visto, ha buttato tutto in terra e mi ha fatto una sparata: dove eri finito? Mi hai fatto preoccupare, razza di cretino. Si, quando è arrabbiata mi piace assai, ma è meglio che lei non lo sappia.”
Mia aveva dimenticato le chiavi di casa, era scesa di corsa alla macchina, le aveva trovate sul tappetino. Aveva borbottato qualcosa, e poi aveva preso l'ascensore. Un invito last minute, una cena importante. Appena entrata in casa
lo aveva trovato, la sua musa impertinente, seduta sulla poltrona, le gambe accavallate, gli occhiali neri da sole sulla punta del naso. L'aria strafottente da bullo di quartiere. Lo aveva odiato, per tutto quello che combinava alle sue spalle, per come la trattava, un fidanzato avrebbe avuto almeno l'accortezza di telefonarle. Ma lui, ovviamente, chiamava solo quando doveva fare scenate inopportune. Lo aveva subito apostrofato, dove era stato per tutto quel tempo? Aveva temuto di non vederlo più. Lui si era accomodato meglio, aveva fatto un ghigno tra il sorpreso e l'accomodante e poi aveva risposto con una domanda. - Dove vai stasera? Esci con il nostro Lorenzo, il tuo solerte vicino di casa? - Lei aveva sostenuto il suo sguardo con fierezza. - Prima di tutto è il mio vicino di casa, tu non abiti qui. Secondo sono stata invitata dal fotografo a casa sua per una cena. Vuole parlarmi del servizio. - Oh, forse vuole un servizio, invece. - Aveva replicato Cinquecentoventotto con uno sbuffo. - Sei indecente. Vuole che faccia amicizia con sua figlia. Te ne ho parlato, è disabile. Cretino! - Lui si era stretto nelle spalle, come a scusarsi. - Sei troppo bella, scusami, ma penso sempre che qualcuno possa farti la festa.- Sei geloso come un tamarro. - Aveva replicato lei, mentre si accingeva a smistare dalla busta gli abiti comprati. In fondo però, era soddisfatta della sua gelosia, si sentiva protetta e confortata dalla sua presenza. - Non sono geloso. E' una prerogativa umana, io sono solo preciso e cinico. Noto delle cose e le faccio presenti. Mica vorrai diventare una che salta da un letto all'altro per fare carriera. - Si era messo a spulciare il divano, come in cerca di invisibili pilucchi. - Beh, adesso mi cambio. Mi dici come sto?- Aveva detto lei spogliandosi. Lui se la ritrovò in due secondi in slip e reggiseno. Un nodo gli strinse la gola così forte che sospettò di avere una sincope. Lei per niente imbarazzata, si mise un abito nero, con strass sul davanti che scendevano come gocce, e un paio di scarpe dal tacco vertiginoso. Con noncuranza si ravviò i capelli, mentre lui imibile ma cianotico la osservava dalla poltrona. - Non posso dire parolacce, sai. Ma qui un ...ci starebbe come ciliegina sulla torta. - Lei aveva fatto una piroetta, poi era andata nel bagno, per truccarsi. Lui si era alzato, e l'aveva seguita con o
felpato. Si era appoggiato allo stipite, e si era calzato bene gli occhiali. Mia si era voltata e aveva riso. - Sembri uscito da Man in Black, vuoi sparaflesciarmi? - Lui aveva alzato una spalla, contrariato. - Non so di che parli, non conosco l'idioma o il contenuto di questa battuta. Ma immagino sia una stupidaggine. Meno rimmel, ragazza. Non voglio che ti involgarisci. Sei una favola anche acqua e sapone. - Mia aveva spalancato gli occhi, poi si era accorta che lui non era riflesso nello specchio. Come i fantasmi, e i demoni. - Come sei premuroso. Ci tieni a me, devo dedurre. - Lui si era allontanato borbottando. Poi quando lei fu sulla porta per uscire sbottò. - Vengo anche io. - Mia a quel punto si arrabbiò di nuovo. - Tu non vieni da nessuna parte. Tu ti ficchi nell'armadio, e dormi. - Cinquecentoventotto la interruppe. - Te l'ha detto Seicentosessantasei che devo stare nell'armadio? Quando vi siete visti? - Non so di cosa parli? Chi è sto qui? Un tuo collega? - Lui spazientito cominciò a gesticolare indicando la stanza da letto. - Ti prego, Mia. Voglio venire. Non voglio stare dentro l'armadio. E' una cosa spaventosa, lo capisci? Non dirò niente. Mi metto buono in un angolo e ascolto solo. Lo faccio per te, non si sa mai. - Mia non rispose, prese la borsetta dall'attaccapanni e uscì. Lui la guardò dalla finestra entrare in auto, e girare l'angolo. Cinquecentoventotto non si perse d'animo. Ricordava perfettamente Richiard Gere in American Gigolò quando sceglieva le camicie. Una bella scena, scritta da Ottocentoquattro, un tipo veramente tosto. Si mise a sculettare nella stanza, e il suo aspetto cambiò in rapida successione. Era adesso in smoking, con una camicia bianca immacolata, e scarpe stringate di vernice. Si aggiustò il farfallino, e sparì. Sapeva dove andare, anche senza tassì e senza teletrasporto.
Marco aprì la porta a Mia. La salutò con entusiasmo e la invitò in salotto. Lei si tolse la giacca imbottita e chiese immediatamente di Emma.
– E’ in camera sua. Ci vorrà un pochino. Non so bene cosa stia architettando. Accomodati intanto. Ti prendo un bicchiere. Bianco o rosso?- Aveva risposto il fotografo. – Preferisco bianco. Con una fetta di limone. – Orribile scelta. Vedo se ho un limone nel frigo. – Le disse di rimando, arricciando il naso. Mia si accomodò sul divano di pelle, e cominciò a guardarsi attorno. Alle pareti c’erano foto in bianco e nero di diversi personaggi dello spettacolo. – Sono bellissime. Sei molto bravo. – Aveva detto lei a voce alta. – A volte è solo fortuna, ma la tecnica non basta mai. – aveva detto Marco dalla cucina. Era poi tornato. – Facciamo un brindisi. All’uscita del reportage. Vuoi vederle in anteprima?- Le aveva dato un’occhiata persuasiva. – Ma certo, sono curiosissima.- Lui era andato verso il suo computer portabile, appoggiato su un mobile scuro. Si era seduto accanto a lei. – Voilà. Che te ne pare?- le aveva adagiato il tablet sulle ginocchia. Lei aveva solo sgranato gli occhi. - Non sono io. – - Sei tu, eccome. – Aveva replicato Marco.
Cinquecentoventotto si era sporto dalla finestra della cameretta di Emma e aveva picchiato con le nocche due colpi lievi. Emma si era voltata. Poi aveva girato su se stessa sulla sedia a rotelle e aveva aperto la finestra. – Sei il fidanzato di Mia?– Fa un freddo cane. Con lo smoking non è una scelta intelligente volare per raggiungere gli amici. Ti disturbo, posso entrare? – Aveva replicato Cinquecentoventotto facendosi largo sul davanzale.
– Non ci sono problemi. Entra. Puzzi di freddo. Come i cani. – Aveva detto Emma, imperturbabile. – Non sono il suo fidanzato, mi chiamo Cinquecentoventotto, musa a domicilio. – Le aveva sorriso. – Interessante. Lo avevo immaginato che ci dovesse essere qualcosa di strano nella vita di Mia. Sono anni che la seguo. Che non fosse tutta farina del suo sacco mi sembrava ovvio. – Emma si era ritratta da lui, con una faccia pensierosa. – Mia è molto in gamba. Ha solo bisogno di qualche spintarella. Cinquecentoventotto si era seduto sul letto. – Chi è questo tizio? – aveva poi chiesto indicando il poster di un cantante attaccato sulla porta. – E’ Tiziano De Rossi. Un cantante emergente. Ha vinto X Factor due anni fa. Mio padre gli ha curato la copertina del suo nuovo CD. E’ antipatico. Ma è bravo, innegabile. – Cinquecentoventotto osservò il poster. – Ah, mi sembra di ricordare qualcosa. Non ci sta tanto con la testa. Un egocentrico. Deve essere stato ispirato da Uno o da Centouno. Si vede da come sta in posa. Ma parliamo di noi. Come mai stai su quella sedia?- Lei gli rivolse uno sguardo di stizza. – Sono ammalata. – Poi si voltò verso lo specchio per finire di truccarsi. La porta della cameretta si spalancò. Era Marco. – Tesoro, stai parlando da sola? Quando ci raggiungi? Mia è di là da almeno cinque minuti. – Emma non rispose. – Ok. Vedi di non farla durare troppo a lungo l’attesa, siamo d’accordo?- E richiuse la porta. – Mi sta addosso come un segugio. Adesso crede che parli da sola. – Aveva borbottato. – Lui non mi vede. Mica mi vedono tutti. Insomma, dicevamo. Che razza di malattia hai? –
Emma abbassò lo sguardo. – Non lo sappiamo. Ho fatto un milione di Tac e analisi. Gli specialisti non hanno un quadro clinico esatto. Parlano di sindromi dai nomi impronunciabili, ma alla fine la Tac dice che non c’è niente. Le cure che mi fanno mi indeboliscono, invece di aiutarmi. Qualcuno parla di tumore. Non ho più speranze di camminare, se è questo che mi stai chiedendo.Cinquecentoventotto si era alzato, e si era avvicinato. I suoi occhi neri come la pece le scrutarono il viso in cerca di una conferma. – Perché mi guardi così, mi fai venire i brividi. Sembri un demonio. – Si era ritratta. – Ho le ali. Le vuoi vedere? – Aveva risposto lui, ignorando le sue paure. – Se è necessario.- Aveva replicato lei, poco convinta. – Ti racconto un po’ di me. Se hai tempo. Tanto che ti importa di ascoltare Mia. E’ di una banalità disarmante. Spero non abbia cucinato la pizza tuo padre. Lei è capace di farci di tutto. – Emma si era messa a ridere. – Salti di palo in frasca, non segui un filo logico. Devo vedere le tue ali? Dobbiamo parlare di te? Della mia malattia? Non abbiamo tempo. Adesso. Forse dopo cena. – Lui si era di nuovo messo sul letto, sdraiandosi completamente. – Per le ali, un’altra volta. Insomma, di me dicono che io sia una divinità minore. Appartengo al culto di Apollo, sai quello della pelle di pollo, ma sono figlia di Zeus. Figlia, perché musa è una parola femminile, ma io sono muso maschio. In questo istante. E’ una storia lunga. Insomma Zeus e Mnemosine avevano una storia, lui è sempre stato istrionico, si era presentato a lei sotto forma di pastore. Adesso non avrebbe senso, sarebbe meglio vestirsi come un tronista, o un impiegato di banca, ma a quei tempi il pastore è una figura molto figa. Ascoltami bene, che so cose serie. Beh, hanno fatto sesso per nove giorni e sono nate le Muse. Fin qui lo sanno tutti, basta aprire internet. Poi dopo parecchi secoli le Muse si sono ritrovate a lottare per la sopravvivenza. Scrivevano e componevano e recitavano tutti, indistintamente. E seguire ed ispirare tutti era diventato un problema. Così ci hanno generato noi, le Novecentonovantanove Sottomuse. Siamo uguali alle nostre progenitrici, non sopportiamo le offese, sappiamo vendicarci dei torti. Solo che una volta trasformavamo la gente in oche starnazzanti, o in ragni pelosi, adesso gli facciamo arrivare la cartella Equitalia o un avviso di garanzia. I tempi cambiano. – Emma era scoppiata a ridere.
– Ma tu sei veramente fuori di testa. Ma ti rendi conto se andassi a scuola e dicessi alla mia prof questa storia? Mi darebbe subito un quattro. – Cinquecentoventotto sorrise. – Quattro è una musa formidabile, sarebbe capace di scrivere un’opera lirica in una settimana. Magari un giorno te lo presento. Ma tu allora cosa hai? Una malattia immaginaria? – Emma si era di nuovo scurita in volto. – Immaginaria un par di palle, io non cammino. Da tre anni. – La Musa chiuse gli occhi. – Non dormire adesso. Abbiamo una cena, sono in ritardo accidenti a te. – Ti sei ammalata subito dopo la lettura di quel maledetto sms, vero? – Emma cominciò a tremare. – Non so di cosa parli. – Lui aveva riaperto gli occhi. Erano neri come il buio. Come la morte. – Quando per caso hai letto gli sms dell’amante di tua madre, che le confermava l’appuntamento. Le gambe hanno cominciato a tremare in modo incontrollabile. Ti sei lasciata cadere in terra. Il dolore era insopportabile. Hai chiamato tua madre, urlavi di dolore, piangevi. Lei ti ha soccorso, per modo di dire, ti ha rimesso in piedi ma ti diceva solo “Non dire nulla a papà, ti prego. Papà non deve sapere” e tu le scivolavi fra le braccia, perché non riuscivi a stare in piedi. Non capivi più dove eri, ti sentivi morire dentro e fuori. Poi ti sei accasciata, svenuta. E per due giorni non hai camminato. Poi ti sei ripresa, ma solo per un paio di settimane, e poi i dolori sono tornati, sempre più forti, dalla spina dorsale, ai muscoli, alle ossa. E dopo due mesi non camminavi più.- Le labbra di Emma adesso erano bianche, e le lacrime le scendevano copiose sulle guance rosse di rabbia.
– Come fai a saperlo? Chi te lo ha detto? – Cinquecentoventotto si era di nuovo alzato, e si era messo davanti a lei. Lo sguardo fermo ma anche pieno di tenerezza. – Non ha importanza come lo so. Importante è che so cosa hai. Sei ammalata di sclerosi multipla, ma i tuoi neurologi non ci sono ancora arrivati. A questo
aggiungi che hai un blocco emotivo. Dovrai lavorarci su, sarà difficile ma non impossibile. L’impossibile non esiste. Solo la morte ferma tutto. Anche i respiri. Andiamo adesso? Non vuoi sapere tutto della tua scrittrice banale preferita? – aveva preso un fazzolettino di seta dalla sua giacca e le aveva asciugato le lacrime. – Emma impietrita lo guardava con un misto di gratitudine e odio. – Sei sicuro che sia sclerosi multipla? Lo hanno escluso. Dicono che sono capricciosa e testarda, che forse è solo un trauma da abbandono. Non so veramente come prendere questa notizia. Penso di odiarti.– Tu vuoi aiutarti o vuoi lasciarti andare? Sapere in certe circostanze può essere molto doloroso. Ma la consapevolezza aiuta. Vieni con me, adesso? Dimmi che non sei arrabbiata. – Emma fece un lungo sospiro, si sentì leggera. La notizia in fondo l’aveva in qualche modo rassicurata. Era una malattia terribile, ma doveva pensare solo a non farsi scoraggiare ulteriormente. - Ti seguo. Voglio proprio vedere come va a finire la serata. – Lei gli aveva stretto la mano, quella con il fazzoletto. – Grazie Cinquecentoventotto. Sei stato brutale, di questo non ti perdonerò mai. Ma dovevo sentire qualcuno che mi dicesse come stanno le cose. – Ed insieme uscirono dalla stanza. Mia quando vide la ragazzina, le andò incontro. L’abbraccio e notò il viso spento di chi ha pianto. Lanciò un’occhiata a Cinquecentoventotto, che alzò le spallucce come a dire io non ho fatto niente. Marco invece finse di non vedere e molto allegramente invitò le ragazze a raggiungerlo in sala da pranzo. L'apparecchiatura era molto bella, piatti in porcellana bianca e candelabri d'argento. Emma si mise a capotavola, dove il padre le aveva lasciato il posto per la sedia a rotelle. Marco arrivò con l'antipasto di pesce e l'atmosfera si fece più familiare. Per rompere il ghiaccio Marco iniziò a parlare di quando era giovane, e della sua ione per la matematica. Mia annuiva e lo interrompeva senza scavalcarlo, aggiungendo le sue esperienze scolastiche. Cinquecentoventotto, davanti alla televisione spenta, mimava gli argomenti in modo buffo, cercando di ridicolizzare la scrittrice, simulando sbadigli, in modo plateale che lei lo vedesse e Emma alla fine non riuscì a trattenere una grassa risata. - Stasera mi sembri più strana del solito, mica hai fumato a scuola uno spinello, mi auguro. - Le disse Marco con evidente preoccupazione. - Pà, i miei amici non fumano. E se fumano non certo vengono a proporlo a me. Io sono una secchiona, ricordatelo. La mia vita a scuola è fatta di studio e poche
conoscenze. Ridevo perché stasera mi sento allegra. Credo di aver capito di cosa sono ammalata. Ho la sclerosi multipla, e in più sono depressa. Ci hai mai riflettuto sopra? Da quando mamma se n'è andata, qui niente è più lo stesso. Lei ci ha abbandonati, se l'è svignata come una ladra sorpresa a rubare galline, non chiama mai. Si è dimenticata completamente di noi. Ormai non ho quasi più ricordo del suo viso. Al telefono, le poche volte che si degna, sembra di parlare con una centralinista di una multinazionale. - Gettò la forchetta nel piatto. Centoventotto le lanciò uno sguardo di approvazione. Che vuotasse il sacco. Mia imbarazzata invece abbassò il viso nel piatto, e con finta noncuranza si portò un boccone di insalata di mare alla bocca. Marco non disse niente. Poi le prese una mano nella sua e quasi in un sussurro tentò di rassicurarla. - Mamma è un medico, ha molte cose da fare. Ha impegni in tutta Italia, ma ti vuole bene. - Emma si discostò dal gesto paterno e disse, con voce roca, che essendo un medico avrebbe dovuto occuparsi ancor di più di lei, invece ad ogni visita medica era dovuta andare con lui, o da sola. Le mancava la madre, e che lui cercasse di far apparire la situazione normale ormai non lo avrebbe più tollerato. - Lei non mi hai mai voluto. Non voleva figli. Mi ha avuto solo per accontentarti. Ma qui ci sono solo io che ne pago le conseguenze. Voglio parlare con un bravo neurologo e uno psichiatra. Al più presto. Voglio sapere di cosa sto soffrendo. Si rivolse a Mia. - Tu sei molto fortunata. Hai accanto una persona che ti ama, dovete solo limare le intemperanze del vostro carattere. - Mia, sorpresa, fece un risolino nervoso. - Emma, io non sono fidanzata. Sono single. Non capisco cosa ti faccia pensare che io... - Ma la ragazzina la interruppe. - Ha detto che ha le ali. Tu le hai mai viste? Devono essere bellissime, magari piumate. Ha detto me le farà vedere, prima o poi. E' bello, ma sa anche il fatto suo. Certo la diplomazia non è il suo forte, ma se così non fosse, non sarebbe altrettanto affascinante. - Marco le portò via il piatto che aveva davanti, e chiese di chi stavano mai parlando. - Emma mentì. - Del cantante che ho in camera. Si, di Tiziano De Rossi. Lei lo ha conosciuto ad un concerto. - Marco fece un cenno con la testa e disse solo che di gente convinta ne aveva conosciuti tanti in vita sua, ma quel Tiziano era veramente un
narcisista senza speranze. E poi pure un fanatico del surreale, era convinto di parlare coi morti. - Se è per quello io parlo con personaggi mitologici. - disse Emma e in quel momento a Mia fu chiaro che la ragazzina avesse parlato con la sua musa, la quale, sentitosi in ballo, si stava allontanando dalla stanza fischiettando. - E' un cretino. Prima te ne rendi conto meglio é. Un adorabile cretino, non c'è che dire. Non posso amarlo. Vuoi vedermi uscire di senno dall'oggi al domani? Lui n'è capace. - Si giustificò Mia. Marco portò il dolce, la conversazione era partita in modo insolito, ma poi gli argomenti erano diventati i più disparati, persino sul funzionamento di una pentola a pressione. Nel momento di congedarsi Emma si allungò al collo di Mia, e la strinse con affetto. - Grazie Mia, stasera mi avete fatto stare bene. Voi due.- Marco gongolò, anche se Mia comprese che il vero destinatario del complimento era Cinquecentoventotto. La musa, da canto suo, sorrise compiaciuto. Poi si avviò sulle scale, aspettando che Mia lo raggiungesse. - Sei stato invadente. Che cosa hai messo in testa a quella povera bambina? Adesso sei anche medico? Sai che ti stai prendendo una grossa responsabilità? Cinquecentoventotto la prese sotto braccio. - E' giusto che sapesse la verità. E' piena di dolore, sta somatizzando la perdita della mamma. Inoltre è ammalata di sclerosi multipla, ma nessuno lo ha ancora capito. Fino a quando lei non capirà di essere ammalata sul serio non riuscirà neppure a reagire. E sua madre…Brava donna, vero? L'ha piantata nel momento più delicato della sua giovane vita, l'ha gettata nel mondo gridando arrangiati. Ce la farà, ne uscirà. Ha grinta per tre, io le persone le capisco al volo. Tu piuttosto, banale. Banale! Mia, un po' di brio, per la miseria. A volte penso che dovresti trovarti un'altra musa. Che so. Euterpe, ad esempio, ti avrebbe infuso allegria. Stai sempre tutta piegata su te stessa come una vecchietta di cent'anni. Sguardi imbarazzati, faccina da pesce lesso. Sei capace di fare la cerbiatta solo con il nostro caro vicino di casa. Lorenzo. Detto U Magnifico! - Mia si mise a ridere, lo strattonò per la giacca e gli diede uno spintone. - Vacci piano, tesoro. Questa giacca l'ho presa a prestito da un noleggio per casting. L'avrà indossata come minimo Al Pacino. - Si fermò, aspettò che lei asse avanti ancheggiando e si morse un labbro. Che sfiga, essere una musa!
Viareggio, 30 novembre 2014
Il medico uscì dalla stanza dove Julia era stata ricoverata e dove le avevano destinato un letto da sola. Adele le era rimasta accanto tutto il giorno precedente, e fatto la notte, alternandosi con il padre della ragazza, che si era presentato insieme alla madre, ed erano entrambi molto provati dall'accaduto. Adele si era scambiata qualche parola con loro, che avevano detto brevemente che Julia era sempre stata una donna solitaria, quasi evitante. Non sapevano cosa fe, oltre al lavoro di editor, e non avevano la più pallida idea di dove avesse comprato casa. - Quando esce di casa pensiamo sempre che vada a fare delle eggiate, che veda qualcuno. Non potevamo immaginare che si chiudesse in un'altra casa a leggere, e a farsi strani pensieri. Siamo addolorati e ci sentiamo incapaci, inutili, come se Julia non fossimo mai riusciti a capirla e proteggerla. - La madre era scoppiata in un pianto dirotto. Adele le mise un braccio sulle spalle. Chiese se sapessero chi fosse l'uomo della foto, ma loro dissero no. Quell'uomo andava trovato. Forse un amore di Julia, non corrisposto, o finito prima del dovuto. Forse lei aveva tentato il suicidio per dimenticare, per farla finita con un ato mai accettato. Adele aspettò che Julia si rivestisse e poi si sedette accanto a lei. - Non ho niente da dirti. Te lo leggo in faccia che vuoi sondarmi. Io sono vuota. Come un bicchiere dove un ubriaco si è appena dissetato. Non ho né parole né episodi da esporre. - Adele fece un gesto strano con il viso, come di disgusto, ma anche di delusione. - Se la metti in questo modo, chiamerò Gaetano. Lo farò venire in ospedale a trovarti. Ti vedrà così come sei, messa male. Magari smetterà una buona volta di corteggiarti, tanto ormai a sentire te, non hai bisogno di niente. Ma un bicchiere vuoto non è fatto anche per essere pieno? Julia abbozzò un sorriso di resa. - Cosa vuoi sapere? Vuoi farmi da psicologa? Vuoi sapere perché?- Adele fece un cenno affermativo con la testa.
- Hai tempo? Tuo padre non ha bisogno di te in ufficio? Ci vorrà tempo. E ci saranno cose che non crederai. Cose che ti rifiuterai di credere, mi darai della pazza visionaria. Ma quando saremo arrivati in fondo, forse avrai una visione della vita ben diversa da adesso. Mi guarderai con occhi nuovi, forse susciterò in te pena e pietà, o forse ammirazione, o forse solo malinconia. Ti siederai spesso in ufficio, ripensando a oggi, e una lacrima ti scenderà dagli occhi, o forse no, ti verrà rabbia inespressa, o forse ti chiederai del perché esistono certe cose brutte nel mondo. Poi ci saranno giorni che crederai di aver sognato le mie confessioni, e scuoterai la testa in cerca di altre risposte. Ti cullerai con il ricordo dell'odore della neve che sentirai nelle narici, e proverai orrore quando sentirai quello delle feci, e delle urine, e del sangue. Quando con i tuoi occhi ripercorrerai con me i corridoi della morte, vedrai i sassi, il filo metallico e spinoso che corre intorno ai casamenti di legno. Vedrai i volti di gente che non ha più niente, non ha più speranze, non ha più carne da esibire, né sogni da mettere nei cassetti, né casa dove sentirsi al sicuro, né prati verdi da correre, né spiagge da costruire castelli, né cielo da guardare, né sole da ammirare, né luna a cullare. Vedrai che non c'è più mare, non ci sono più fiumi, non c'è più calore, c'è solo grigio, grigio e bianco. E sentirai l'aleggiare della morte are sopra di te, come un mantello. Vuoi questo, Adele? Lo saprai. Lo vedrai. Lo sentirai. Ti solleverà e ti schiaccerà, e dopo non ci saranno più vestiti alla moda, né scarpe comode, né ombrelli, né chiavi. Ci sarà solo uno spirito indomabile di sopravvivenza. La speranza. L'amore per la vita e libertà. Vuoi sapere tutto questo? - Adele la guardò per la prima volta da quando la conosceva come se avesse avuto davanti una sconosciuta. Ma disse si. Raccontami.
Roma, notte, casa di Marco.
Marco aiutò Emma a mettersi a letto. – Tesoro, quello che hai detto a tavola mi ha colpito. C’era un ospite e non ho volutamente approfondito. Cosa ti fa credere di avere la sclerosi multipla? I medici lo hanno escluso. – Le rimboccò le coperte e si sedette sul letto. Accese la lampada sul comodino e spense quella del lampadario. Emma lo guardò nella penombra, e fece un labile gesto con le spalle.
– Non ha importanza come lo abbia saputo, importante è trovare una cura, o per lo meno, cercare di stare meglio. Vorrei fare ulteriori esami, sei d’accordo? – Suo padre fece un cenno rapido di assenso. – Mia ti piace, vero? Non solo come scrittrice, dico. – Emma sorrise. – Oh si, è molto dolce. Non vedo l’ora esca la sua intervista. Mi sono permessa di metterla in guardia. – Marco le dette un buffetto sulla fronte. – La mia intelligentona. Avrei dovuto immaginarlo che appena beccata da sola le avresti fatto il lavaggio del cervello. Cosa ti incuriosisce di lei? – Emma socchiuse gli occhi, come un detective su una buona pista. – Il suo nome. Ci scommetto che non è il suo. Una non può chiamarsi Mia Zeller, secondo me si chiama Barbara Vattelapesca. – Marco scoppiò a ridere. – Effettivamente si chiamasse Vattelapesca non sarebbe proprio un gran cognome da scrittrice in auge. A proposito dei tuoi vip, vuoi uno “speteguless” in anteprima? – Emma si eccitò subito. – Di chi stiamo parlando, prima di tutto? – Marco alzò gli occhi verso il poster sulla porta. – No, di TDR? Il mio cantante preferito? Cosa sai? – Marco la prese comoda. Si schiarì la voce, e assunse un’espressione melodrammatica. – Il tuo antipatico credo abbia un flirt in corso. – E tu come lo sai? Cioè, questa cosa è fresca? Sul web dicono che è single, singolissimo! – Marco gongolò ancora. Essere un informatore di gossip con Emma era un vero divertimento. – Ti ricordi che tempo fa ho dovuto curare la copertina del suo nuovo album? Beh, per l’occasione ho preso una freelancer di aiuto, una fotografa. Una ragazza molto brava. – Ah! – disse Emma, gli occhi sbarrati. – E cosa è successo? Dimmelo subito!- Quando si sono visti, entrambi hanno sussultato. A quanto sembra si conoscevano già. Si solo salutati con imbarazzo, lei rossa in viso, lui guardava per terra. Io allora ne ho approfittato. Ho detto: cominciate da soli. – Marco fece
un risolino soddisfatto. – Ma dai, pà. Hai fatto la Maria De Filippi della situazione? Non ci credo, tu odi queste cose. Perché non me lo hai detto prima? – Marco continuò a ridere. – Lui è troppo pieno di sé, e lei lo ha sciolto come un cubetto. Alla fine lui le ha scodinzolato intorno come un matto, chiedendole di nuovo il suo numero. Di nuovo, capisci? Secondo me avevano avuto una storia e lei lo aveva cambiato. Dopo un po’ di insistenze, lei ha ceduto.– Ah, ma questo non significa niente. Magari poi lui mica l’ha chiamata. – - Invece ti devo contraddire. Stasera all’uscita dallo studio, sai chi è venuto a prenderla su un bel Lamborghini nero?– Marco fece una pausa. – Quindi mi stai dicendo che Tiziano non è più sul mercato? Ce lo siamo perso, pure lui. – Emma fece un sospiro, ma si vedeva che non era invidiosa. – Lei è salita sull’auto come un fulmine, aveva un sorriso che le arrivava sulla nuca. Ah, l’amore! – disse Marco alzandosi per uscire. – Sai come dice sempre il mio compagno di scuola Carlo? – fece Emma alzando il lenzuolo fin sotto il mento. – “L’amore è una cosa meravigliosa”, ma poi sghignazza. Sarà attendibile? – Marco spense la luce sul comodino e mormorò: si, l’amore è una cosa meravigliosa.
Roma, notte
“Mia si era messa comoda, dopo la cena, indossando una vestaglia verde che le donava molto. La guardai prepararsi una tisana dal profumo intenso, forse cannella, e sistemarsi davanti alla televisione. Io seduto con lei sul divano, spaziavo i pensieri. Mi aveva incollato addosso uno strano pigiama a fiorellini, e indossavo le pantofole pelose, a forma di orsetto. Non feci commenti, mi sentivo a casa. Poi improvvisamente qualcuno bussò alla porta. Erano le tre
ate, lei mi guardò spaventata. Io le feci un cenno di rassicurazione: se fosse stato un ladro lo avrei fatto volare dalla finestra. Lei si mosse piano, e dette un’occhiata dallo spioncino. Era Lorenzo, Lorenzo U Magnifico! Gli aprì, ma era sconcertata, direi finalmente infastidita. Lui si scusò, aveva una faccia tetra, e le occhiaie. Le chiese di poter entrare. Lei gli fece un cenno come ad invitarlo, ma mi lanciò uno sguardo come dire – che cavolo vuole alle tre di notte? Lui iniziò una tiritera, sul fatto che era una successa una cosa che lo aveva terribilmente sconvolto. Mi girai sul divano per seguire meglio la scena, e mi accorsi che le mie ali cominciavano a darmi un fastidioso prurito nell’attaccatura alla schiena. E’ un brutto segno. Mi succede quando sta per prendermi un attacco di rabbia, quando solo geloso, quando sento la situazione sfuggirmi dalle mani. Mi sono grattato sullo schienale, come un gatto impaziente. Ero pronto a lanciarlo di sotto, in quattro secondi. Lui le disse che era stato chiamato dalla suocera. Finalmente confessava di essere sposato, il pirla, e non lo splendido single tutto sorrisi. Mia si sedette al tavolino della cucina, e lui fece altrettanto. Essendo una stanza “open space” dal mio punto di osservazione era come stare al cinema. Stavano di fronte, lei con la tazza fumante, lui i pugni stretti sulle cosce. – Cosa è successo? Qualcosa di grave?aveva chiesto Mia. La conosco, era una domanda di cortesia, non gliene importava un fico secco. Ottimo. Lui si era agitato sulla sedia, poi aveva esordito : - Mia suocera mi ha chiamato prima di cena. Mi ha detto che mia moglie è incinta. Non sono riuscito a dire niente. Lei ha insistito di tornare a casa, che lei ha bisogno di me. Sarebbe tutto semplice, ma io ero stato chiaro che non volevo figli. Ho una carriera davanti e i tempi sono durissimi. La crisi, le bollette sempre più care. Vorrei che mio figlio avesse tutti i benefici di cui io ho goduto. Fortunatamente la mia famiglia è benestante, ho studiato nelle scuole migliori, non mi è mai mancato niente. Viaggi, sport, belle auto, capisci? Se non fossi all’altezza del compito mi sentirei un fallito. Vorrei che abortisse, e che tornassimo la coppia di prima, senza problemi. – Mia ha girato il cucchiaino nella tazza sempre più veloce, ha creato un vortice e ho intuito che il vortice era anche nella sua testa. Forse le stavano tornando vecchi ricordi, quando il suo bel militare l’aveva illusa, ma in ogni caso questo non aveva piantato la famiglia per lei, mentre questo si rifiutava di prendere una responsabilità pur non avendo altre storie in corso. Gli umani sono complicati, neppure la psicanalisi fa qualcosa, rimango dell’opinione che essere musa ha molti più vantaggi. Diciamolo: essere immortali è una lagna, a volte, ma alla fine c’è sempre qualcosa che ti dà da riflettere. Lorenzo si aspettava una risposta, e si agitava sempre di più, ad un certo punto ha sbuffato. Mia lo ha guardato dritto negli occhi e ha detto: - Non credo che io sia la persona giusta
per darti un consiglio. Non ho un compagno e non ho figli. Ma credo fermamente che in un frangente simile io non esiterei nel tornare a casa e accettare questa benedizione del Cielo. Ma io sono io, e tu sei diverso da me. – Lorenzo ha aspettato qualche secondo e poi se n’è uscito con una richiesta folle. Io mi sono alzato, ero furioso. Mia mi ha fatto capire che poteva cavarsela da sola. – Tu mi piaci, Mia. Dal primo momento che ti ho visto, e ho immaginato cose con te. Non posso tornare a casa senza essere certo di aver lasciato un’opportunità. – Quale opportunità? – ha chiesto lei, ben sapendo cosa intendesse Lorenzo. – Di conoscerti, di stare con te, di …- Non ha finito la frase, si è alzato, le è andato vicino. – Di fare l’amore con te. Mi basterà una volta per capire se sei tu la donna giusta. – Ero esterrefatto. Non pensavo che quel coglione si spingesse a tanto. Avevo gli occhi fuori dalle orbite, le mie ali hanno cominciato a spingere fuori dal pigiama. Una scossa fortissima mi ha pervaso tutto il corpo, come se si fosse impossessato di me una forza sconosciuta. Ma io la conosco bene, questa forza. Mi prende dalla pianta dei piedi fino alla punta dei capelli, il mio corpo esplode di energia e di calore, divento sempre più grande e le ali si aprono, all’improvviso e sono nere, enormi, e riempiono la stanza. Così è successo. In piedi, pervaso di rabbia ed indignazione, ero diventato grandissimo, quasi la testa piegata dal soffitto della stanza, e le mie ali neri brillavano, toccando da una parete all’altra. Non avevo un bell’aspetto, il pigiama era scomparso, la mia pelle era nera, lucida e ruvida come quella degli squali, il mio sguardo da seduttore impavido era sparita. Il mio ghigno era feroce, e mi sporsi su Lorenzo. Ero incattivito e furioso. Mia aveva assistito alla trasformazione con gli occhi atterriti, e Lorenzo che non poteva sapere stava cercando di rimediare al danno. Ripeteva non volevo, scusami, ho frainteso. Ma io non potei fargliela are liscia, e gli ai la mia testa accanto alla sua. Mi fermai con la bocca rossa di sangue e odio accanto al suo orecchio e dissi solo – sparisci. Lorenzo si alzò, di colpo. I suoi capelli erano diventati bianchi come quelli di un centenario. La sua bocca era aperta. Formava un'O di stupore e paura. Cominciò a tremare, da capo a piedi, i capelli cominciarono a salirgli sulla testa, come spaghetti. Balbettò qualcosa, arrivò alla porta in un nano secondo. Cominciò a trafficare con la maniglia, era talmente spaventato che non riusciva nemmeno a aprire la porta, cominciò a mugolare di impazienza e terrore, poi sparì, senza nemmeno girarsi indietro per verificare chi lo avesse tanto spaventato. Mi ricomposi lentamente, le ali ripresero il suo posto, sparirono nelle spalle. Mi rimpicciolii, come piaceva a Mia, statura media, mi tornò il sorriso, lo sguardo da piacione, il pigiama ridicolo. Mia ancora mi guardava, senza espressione, come fosse in un’altra dimensione. Aveva gli occhi pieni di lacrime. – Mia, è tutto a posto. E’ già un miracolo che non lo abbia
tirato giù dalla finestra. E’ l’ora della nanna, andiamo? – Lei non rispose. Si alzò, andò alla scrivania del salottino, e cercò con mano tremante in un cassetto qualcosa. Tirò fuori un pacchetto di sigarette, e se ne accese una. Dopo tre anni che aveva smesso, una a quel punto ci stava proprio bene.”
Due
Trieste, notte 30 novembre 2014
La donna misteriosa interruppe il suo racconto. Il suo aspetto adesso era ancora più sbiadito, sembrava a Robert di guardare una vecchia pellicola di un film muto. Lei sorrise, e gli chiese cosa ne pensasse del racconto. Lui che si era riproposto di ascoltare come chiesto, e di non fare domande, rimase spiazzato per una frazione di secondo. – Una storia molto strana. Non ci ho capito molto. Non mi dire che finisce così. – Lei si spostò leggermente e inclinò la testa sulla spalla. Divenne quasi triste, o per lo meno, sembrò che un’ombra le fosse ata negli occhi. – Oh no. Adesso arriva la sostanza. E’ difficile ricordare per filo e per segno gli accadimenti, è ato molto tempo. Cercherò di essere precisa. Adesso siamo a Fiume, in Croazia. Ma la storia si svolge durante la Seconda Guerra Mondiale. A quei tempi Fiume era italiana. – Robert si animò, interessato. – La mia famiglia è di qui. Ma non so molto di loro. Non sembra abbiano mai avuto molta voglia di parlarne. Non mi dire che tu ne sai più di me. – La curiosità adesso era ben visibile nei suoi atteggiamenti. Si era sporto verso di lei, come affamato di novità. – Può essere, ma dovrai avere pazienza. La storia è complicata, dovrai prestare attenzione. – Rispose la donna. Robert Blanc fece di sì con il capo. Adesso sarebbe arrivato il “bello” della storia.
Fiume, ottobre 1937
Appena aperto il negozio, neppure il tempo di entrare e togliersi il cappello che
Birgit lo aveva raggiunto. Si era girato sorpreso, poi era scattato il sorriso. Lei era una bionda alta e formosa, con i capelli tirati di lato, come usava allora. La divisa da una parte e poi lunghe onde attaccate alla testa, corti. Indossava un delizioso cappellino di lana marrone, un cloche hat downton abbey con la visiera alzata e un fiore da una parte, un cappottino beige dal collo sciallato aperto sulla collana di perle, e una piccola borsa in tinta con le scarpe. Con le mani protette dai guanti teneva un piccolo pacco chiuso in carta da pacchi e legato da spago. Si era scusata per l'urgenza, ma cercava una cornice speciale per un regalo. Una cornice per un acquarello. Eric la fece accomodare in negozio, e aprì il pacco. Dentro c'era una marina di Fiume, un delicato affresco del porticciolo incorniciato dalle verdi colline. Lo guardò attentamente per un lungo istante, e poi notò la firma, fatta con inchiostro e pennino. B.Hermann. Lo aveva fatto lei. La conosceva di vista. La notava spesso seduta lungo il molo, intenta a disegnare e colorare con mano sicura ed esperta, davanti ad un particolare di una casa, o di un vicolo. Era brava, Birgit, senza ombra di dubbio. - E' un regalo? - Aveva ripetuto lui, la voce bassa, quasi un sussurro. - Si, è per Philippe Blanc, l'antiquario. Non voglio fare brutta figura. E' il suo compleanno. Lei era arrossita, poi con una mano alla bocca aveva aggiunto:- Crede sia da sfrontate regalare un acquarello? Voglio dire... l'ho fatto io. Non è un'opera di valore, non mi prenderà per una sciocca?- Eric sollevò le sopracciglia, divertito. Non si era aspettato tanta confidenza da lei, che era tedesca, arrivava dalla Svizzera ed era molto ricca, ambita da tutti. Lui, ebreo, aveva non pochi problemi, i clienti facoltosi e quelli di origine ariana era ormai un anno che non si facevano più vedere in negozio. Per non perdere altro tempo le mostrò subito alcune cornici. Lei si soffermò a lungo, chiese alcuni particolari, non parlò mai di prezzi, poi alla fine scelse quella più costosa, intarsiata e ricoperta da fini scaglie dorate. - Ottima scelta, le costerà un po'. - Disse Eric e le chiese il nome e l’indirizzo per poterla consegnare a domicilio, ma lei disse che sarebbe riata da lì a qualche giorno a ritirarla personalmente. - Ci vorrà molto? - Chiese lei, sempre più rossa in volto. Improvvisamente sembrava imbarazzata oltremisura.
- Non c'è molto da fare in questi giorni, forse anche domani. O dopo domani. Lei sillabò il suo nome come se volesse essere ricordata per sempre e lui annotò in un taccuino dalla pelle lucida, con accanto la descrizione e misure della cornice. La sua calligrafia, pulita e inclinata verso destra le parve un messaggio nascosto, come a richiamare la sua attenzione al gesto. Eric allora si spinse oltre, e le chiese come mai vivesse a Fiume. Lei si animò di entusiasmo, e gli raccontò di essere nata a Vienna, e della Svizzera tedesca dove aveva vissuto da ragazzina e di come la madre si fosse innamorata di Fiume, una volta di aggio per una gita, e di come avesse subito comprato un casale appena fuori dalla cittadina, al limitare di un bosco. - Sarei felice di averla mia ospite, per una cena. Che ne dice? - Aveva poi concluso, la speranza nella voce. Eric si era stretto nelle spalle, come incapace di credere alle sue orecchie. Invitato a cena dalla signorina Hermann, che non era ebrea. Declinò l'invito. Birgit raccomandò nuovamente l'urgenza per la consegna della cornice e fece per uscire, girandosi con una leggera piroetta. E fu così che vide il quadro. Era appeso sulla porta e solo uscendo era possibile ammirarlo. Era una tela ad olio, un dipinto abbastanza grande che ritraeva una donna seminuda allattare un bambino. Birgit alzò un dito verso il quadro e chiese di chi fosse. Eric si schiarì la voce. - E' mio. Ma non è niente di che. - Birgit non disse niente. E senza voltarsi, uscì, lasciandosi dietro un rivolo di profumo persistente che non abbandonò le mura del negozio per molti giorni. L'attesa non durò che un giorno. Il mattino dopo all'apertura Birgit era già ad aspettarlo. Lui era arrivato sulla sua bicicletta nera, e fu felice di vederla. - Non è ancora pronta, posso lavorarci subito. - Si era giustificato, ma lei abbassando lo sguardo disse che era lì perché voleva riguardare il suo quadro. - Ce ne sono altri? - Aveva chiesto speranzosa. - Si, di sopra. E' il mio laboratorio. - Lo aveva seguito, senza indugi. Lui aveva chiuso di nuovo a chiave la porta, e aveva iniziato a salire una scala di legno, dietro il bancone. Lei era salita con lui, quasi attaccata ai suoi i. Sopra il negozio c'era una stanza della stessa grandezza, illuminata da due finestre poste sul tetto. All'interno c'era un cavalletto con una tela coperta da un vecchio lenzuolo bianco, e appoggiate per terra, in modo apparentemente confusi c'erano
diversi quadri, senza cornice. I colori violenti, i tratti nervosi, il genere astratto misto a figure umane non definite conferivano alle opere un'aria moderna, insolita. Lei si era chinata, osservandoli uno per uno, in uno stato vicino all'eccitazione. Lui, rimasto in disparte, prese una sigaretta, senza accenderla. Poi timidamente le chiese cosa ne pensasse. Lei si voltò e con un sorriso sincero ammise che erano straordinari, fuori dal comune. - Cosa c'è sotto il lenzuolo? - Lui si avvicinò, e la prese per un gomito con dolcezza. - E' incompiuto per adesso. Devo finirlo. - Lei gli indirizzò uno sguardo seducente. - Sono curiosa. - Lui aveva fatto un sorriso tremolante. - Tutte le donne lo sono. - Poi aveva sollevato un lembo, lentamente. Lei intravide un profilo femminile e fece un'espressione di meraviglia. - Ma sono io! - Balbettò. - Sono mesi che ti osservo. Spero questo non ti metta inquietudine. Ti trovo bellissima, questo quadro è solo per me. Non lo avrei fatto vedere a nessuno, sia chiaro.- Il silenzio imbarazzato era adesso palpabile. Poi come d'improvviso loro “sentirono” quell'aroma, quel profumo inconfondibile che il corpo emana in determinate situazioni di emozione ed eccitazione. Una fragranza che sapeva di sole e di leggero sudore, e contemporaneamente si guardarono negli occhi. Fu più forte di loro, tutto sbagliato da farsi, ma senza controllo. Lui le prese le mani, e le portò alla bocca per baciarle. Lei mosse le spalle in un inconscio tentativo di sottrazione, ma poi si rilassò e si avvicinò ancora di più a lui. Adesso erano uno di fronte all'altro, e il silenzio era come rotto dai loro respiri caldi e impazienti di unirsi in un bacio che non tardò ad arrivare. Le loro bocche si avvinghiarono, e lui quasi perse l'equilibrio, andando a sbattere sul tavolo dove alcune boccette di trementina tintinnarono. Quello dei pennelli cadde facendoli rotolare sul pavimento. La loro ione non si curò dell'accaduto: in pochi minuti furono in terra, vinti dallo struggente desiderio che da mesi covava come cenere nei loro ventri, e che solo adesso potevano placare. Si amarono per un'ora, senza soste, graffiandosi a vicenda, strappandosi quasi gli abiti da dosso. Poi giacquero sul pavimento macchiato di colori senza dirsi una parola, solo guardandosi a vicenda i corpi esausti. Birgit fu la prima ad alzarsi, si ricompose e afferrò la borsa
caduta. - Eric, non vorrei che tu pensassi... - Ma si bloccò. Non aveva idea di cosa dire e se fosse stato il caso di continuare. Lui si era alzato piano, e le aveva accarezzato il volto arrossato dalla sua barba. - Birgit, non sei obbligata a giustificarti, a dire nulla. E' stata la cosa più bella che mi sia capitata da cinque anni a questa parte. Ma capisco. La situazione là fuori è al limite del delirio, e potrebbe precipitare. Se hai paura di tornare qui, io capirò. - Lei a quel punto non poté trattenere un singhiozzo di dolore. - Eric io sono confusa, ma sono mesi che ti osservo, come tu fai con me. Ho notato come mi spiavi al molo, e se sono qui è perché so benissimo cosa sto facendo. Ti amo, e non ci sarà niente che potrà farmi smettere di provare quello che provo. - Lo abbracciò d'istinto e sentì il suo petto sulla sua guancia, caldo e odoroso di sesso. Doveva andarsene, o sarebbe rimasta lì per sempre. Lui le aveva ato con dolcezza una mano fra i capelli arruffati. - Birgit... non so cosa ci riserverà il futuro, ma ti dico fino da questo momento che anche io ti amo, e non amerò mai un'altra. Scusa se non riesco a pensare positivo, ma la realtà è che nessuno approverebbe mai la nostra storia alla luce del sole. Io sono ebreo, tu sei ariana. Dovremo stare molto attenti. Ci sono spie capaci di denunciarci per molto meno, figuriamoci per una storia d'amore. - Lei non smetteva di stringerlo, poi lui la spinse indietro e con un dito le asciugò le lacrime. - Promettimi che non farai mai niente per metterti in pericolo. Giuramelo.- Lei fece sì con la testa tre volte, senza guardarlo, e poi se ne andò, lasciandolo solo e ancora nudo nella stanza. Lui si rivestì senza fretta e si accese la sigaretta, che era rotolata sotto il tavolo dove era finito anche un suo orecchino di perle. Lo rigirò fra le dita, pensieroso, e poi se lo mise nel taschino della giacca, in attesa di restituirlo al prossimo appuntamento.
Si prese due giorni interi per fare la cornice. Il desiderio di rivederla era immenso, ma temeva troppo per le loro incolumità. Una settimana prima qualcuno aveva tirato un sasso spaccando il vetro della sua vetrina, avvolto in un foglio con scritto “Giudeo”, e la cosa lo aveva spaventato. Il suo carattere mite non gli aveva mai creato problemi con nessuno, ma la follia nazista era sempre
più evidente, e molti che si erano considerati tolleranti fino a poco tempo prima stavano rivelando aspetti del loro carattere inaspettati e preoccupanti. Lei mandò la sua cameriera a ritirare la cornice che avrebbe poi regalato all'antiquario, un se di nome Blanc che aveva aperto la sua attività qualche anno prima, ma che si diceva in giro non amasse l'Italia e che parlasse in continuazione di un suo ritiro in Svizzera dove abitavano alcune sue conoscenze. Il clima in città era apparentemente sereno, ma ognuno dentro di sé pensava seriamente a come sarebbero potute evolversi le situazione e già molti se ne erano andati via, chi verso la Romagna, chi verso la Svizzera, chi in Toscana, chi in Francia. Qualcuno si era già procurato aporti e carte di identità false, migrando altrove. Lui non lo aveva mai preso in considerazione, amava Fiume e avrebbe voluto viverci per sempre. Philippe Blanc gradì il regalo e si complimentò con la ragazza, sia per l'acquarello che per la cornice, e lei fece arrivare una missiva ad Eric dalla sua giovanissima cameriera. Era una richiesta per un appuntamento. A casa di lei, la notte seguente. Lui scrisse un breve messaggio affermativo e lo consegnò alla donna, che se lo infilò nella tasca del cappotto senza dire una parola. La conversazione fra loro continuò in questo modo per mesi, esclusivamente tramite missive portate dalla cameriera, e gli incontri avvenivano sempre a casa di Birgit, che lasciava aperta la porta del giardino che dava sul retro e potevano così stare assieme. Gli incontri erano scanditi da ritmi alterni, quando in modo continuativo per giorni, quando ogni tanto, per non creare il minimo sospetto. Ma a Fiume accadde un fatto che avrebbe poi cambiato il loro amore. Nel 1938 Benito Mussolini scelse proprio Trieste per leggere le nuove disposizioni in merito alla condizione ebraica italiana, e lo tenne con un discorso, tenuto alla popolazione dal terrazzo del Municipio, il 18 settembre dello stesso anno, in occasione alla sua visita alla città. Le leggi razziali erano discriminatorie non solo nei confronti degli ebrei, ma anche verso i bambini nati da relazioni fra ebrei e stranieri, o nati da donne ebree e paternità ignota o da chi seppur ariano professasse la religione ebraica. Le leggi, una serie di provvedimenti amministrativi, leggi e circolari, proibivano l’unione e il matrimonio fra ebrei e italiani, come impedire di avere per gli stessi anche domestici di razza ariana, come per banche e assicurazioni di avere alle proprie dipendenze gli ebrei, la revoca della cittadinanza italiana a quei soggetti nati dal 1919 in poi, oltre ad altre limitazioni di carattere amministrativo, pure l’annotazione sullo stato civile d'essere ebreo. Eric e Birgit capirono che la loro relazione stava diventando molto pericolosa. Sarebbe bastata una spiata di chiunque per creare grossi problemi. Da quel momento presero la decisione comune di diradare gli incontri il più possibile. La cameriera, una donna di campagna molto devota a Birgit e che si chiamava Mirella ma che tutti
chiamavano Mia, si adoprò ugualmente per fare da tramite fra i due. Si scrissero per molto tempo, confidandosi a vicenda i dubbi, le paure, il loro amore, decidendo ogni volta di bruciare la corrispondenza, con profondo dolore e rammarico, per non lasciare alcuna traccia. Il negozio fu perquisito alcune volte, per motivi di sicurezza, come gli fu detto dalla Polizia Italiana, ma non trovarono che ricevute e i suoi quadri, e per qualche tempo sembrò che le cose procedessero senza intoppi. Poi Eric prese un’amara decisione. Riuscì ad incontrare Birgit una notte d’estate del 1940, nel suo negozio. Operazione rischiosa che però ò inosservata da tutti. Lei era molto tesa, e continuava a stropicciare le mani in modo ossessivo. Eric l’abbracciò, con una forza quasi da levarle il fiato. Poi le comunicò la decisione presa: non si sarebbero più visti. Nell’agosto del 1938 lo Stato aveva chiesto il censimento, ed Eric era risultato ebreo e possessore del negozio, oltre che di un piccolo appartamento. L’articolo 10 del Regio Decreto 1728 fu determinante per tutta una serie di provvedimenti e limitazioni sugli immobili e sulle attività commerciali d'appartenenza ebrea, e anche Eric non ne fu esonerato. Praticamente avrebbe dovuto cedere i suoi i beni allo Stato, come molti altri ormai era solo questione di tempo che succedesse qualcosa di terribile. Birgit parlò pochissimo, ascoltò in lacrime Eric che senza guardarla negli occhi, camminando avanti e indietro per la stanza, le diceva di lasciarlo andare, e di farsi una vita con un altro. Philippe Blanc era l’uomo giusto. Ariano, benestante, giovane e molto affabile, un vero gentiluomo. Un uomo capace di proteggerla, di farle fare una vita dignitosa, magari in Svizzera dove entrambi avevano proprietà e non sarebbero stati toccati dagli eventi. Birgit tentò un debole rifiuto ben consapevole che Eric aveva tutte le ragioni per dirle quello che riteneva giusto per loro, ma anche tristemente convinta che non lo avrebbe mai amato, per lei esisteva solo Eric. Lui si tolse gli occhiali tondi dalla montatura d’oro e le consegnò l’orecchino, custodito per quasi due anni e lei si sorprese. Non le aveva mai detto niente in proposito, pensava fosse andato perduto chissà dove. – Tieni. Non posso più tenerlo, mi fa male il solo toccarlo. – Lei fu scossa da un pianto dirotto. Ma negò di prenderlo con sé. – Ormai ti appartiene. Tutte le volte che lo guarderai, io sarò vicino a te. – Fecero l’amore, ma non riuscirono a godere di quel momento. Ogni istante era una lacrima, e un gemito soffocato d'annientamento. Lei iniziò a frequentare assiduamente Philippe, che la stava corteggiando da parecchio tempo, ma ogni volta che a braccetto ava davanti al suo negozio, una pena straziante le lacerava il cuore. Si sentiva in colpa, d'essere ariana, perché essere diversa – e
non lui diverso da lei – le aveva precluso il futuro. Nel 1943 Birgit mandò un biglietto tramite Mia ad Eric. Ci aveva messo una settimana a scriverlo. Ogni volta che le sembrava fosse la missiva giusta, rileggeva le sue parole e strappava il foglio. Alla fine scrisse solo “Io e Philippe ci sposiamo, il mese prossimo, ma io amo e amerò solo te.”. Quando Mia varcò la porta del negozio, Eric la guardò e disse subito :- Ho un regalo per te. – Mia era una ragazza giovane, un po’ sovrappeso ma dai lineamenti del viso sorprendentemente belli, gli occhi azzurri brillavano come il cielo d’estate sul viso dalla pelle chiarissima. Mia si avvicinò al bancone, scoprendo Eric che le stava girando un suo ritratto. – E’ per dimostrarti la gratitudine di quello che hai fatto per noi in questi anni. Non hai mai detto una parola, ma dai tuoi occhi ho capito che non ci hai mai giudicato. Sei una donna onesta, e spero che questo disegno possa farti piacere. – Mia prese il ritratto, visibilmente commossa. Invece del bigliettino, gli consegnò l’ambascia a voce. – Sono desolata, signor Eric. La signora si sposerà con l’antiquario fra un mese. Stanno già facendo i preparativi. Ma so per certo che la signora Birgit non ha altro nel cuore che lei. La vedo molto dimagrita, è sofferente anche se sa che è l’unica cosa da fare. La sera, quando le preparo il letto per la notte, la vedo spesso sul terrazzino della camera guardare il mare, e ogni suo gesto è l’emblema del suo dolore. Ma non dovete disperare, Eric. Sono certa che la vita vi porterà di nuovo ad incontrarvi, magari non a Fiume, magari nel mondo. Ma abbia fiducia, non si faccia prendere dallo sconforto. – Eric non le rispose. La notizia lo aveva sconvolto. Si sentiva come se qualcuno gli avesse tirato un macigno nella faccia. Lei uscì. Lui la rincorse sulla porta. – Mia, solo un favore. La prego. – La ragazza rientrò sulla porta, guardandosi attorno che nessuno la notasse. – Ogni tanto i di qui, se avrò da comunicare qualcosa a Birgit, le manderò ancora una missiva tramite lei. Non so, magari non ce ne sarà bisogno, ma se dovesse … - Si fermò. Non sapeva cosa aggiungere, ma Mia lo rassicurò. Gli mise una mano sulla spalla e lo guardò con la tenerezza di una madre. Poi si allontanò nella strada. A settembre 1943 Philippe e Birgit si sposarono. Durante gli ultimi anni si era aggravato il problema dell’annessione alla Provincia di Fiume d'alcune isole jugoslave. Questo aveva portato alla formazione di gruppi partigiani che vennero repressi con estrema ferocia dalle
forze militari italiane. Lo stesso prefetto Temistocle Testa autorizzò la deportazione dei ribelli e delle loro famiglie, ma la situazione cambiò nuovamente nell’ottobre 1943, quando Fiume tornò alla sua formazione originaria, ma nel frattempo ò dal controllo italiano dello Stato Sociale a quel tedesco della Werhmacht. Dal 1943 al 1945 Fiume fu sottoposta all’occupazione nazista che prese nome come “Zona d’operazione del Litorale Adriatico” e si susseguirono deportazioni di massa tant’è che divenne il quarto posto in Italia per gli stermini nei campi di concentramento. In quel periodo anche il questore di Fiume, Giovanni Patalucci venne arrestato e deportato quale traditore nel campo di concentramento di Dachau, dove morì di stenti nel 1945. Dal quel momento Fiume divenne territorio controllato dalla Gestapo, e la situazione diventò insostenibile. Birgit a due giorni dalle nozze parlò con Philippe. Ormai non aveva più senso rimanere a Fiume. L’Italia di Badoglio aveva dichiarato guerra a Hitler, e il Terzo Reich tramite il Supremo Commissario Rainer aveva preso in mano l’amministrazione pubblica e civile della città. Bisognava fare presto, e Philippe aveva già organizzato il loro rientro in Svizzera. Lei ammise che era giusto. Ma chiamò la sera stessa Mia, per inviare una missiva ad Eric. Era importante incontrarsi, per vedersi un’ultima volta. E così accadde, la notte prima di sposarsi. L’incontro durò una ventina di minuti, e lei si donò a lui in un atto di disperazione e amore che non riuscì mai più in tutta la sua vita a ripetere. Lui la strinse in un abbraccio vitale tentando di trasmetterle tutta la speranza che ancora aveva nell’anima, e Birgit si sposò che aveva già in grembo la figlia di Eric. Lei partì da Fiume il 3 novembre del 1943, e lui non la vide mai più.
Il 15 dicembre del 1943 Eric vide la bambina per la prima volta. Era una giornata di pioggia, e il mare batteva sul molo onde fragorose. Era uscito a piedi, per andare dal barbiere, il suo amico Arturo, quando la vide con un cappottino azzurro, aggirarsi sola sotto la pioggia battente. – Ti sei persa? Dove è la tua mamma?- Le aveva chiesto preoccupato, mettendola sotto il suo grande ombrello nero. – Non ho la mamma. Sono una Musa.- Aveva risposto la bambina. Era nera di capelli come se le avessero messo la testa nella pece, e pure gli occhi erano scuri e grandissimi. Non era bagnata, perfettamente asciutta, con un gonnellino rosa sopra le calzette di lana.
– Non capisco. Una Musa? – Aveva balbettato lui. – Si, mi chiamo Duecentotrentasette. Se mi hai visto, ci sarà un motivo. Vai pure dal barbiere, ti aspetto in negozio. – Come stordito, si era allontanato velocemente. Quando si era voltato, lei non era più là. “Sto diventando pazzo.” Si era detto. Poi però, quando era tornato a lavorare, l’aveva trovata sulle scale. Seduta. – Ma da dove vieni? E’ pericoloso che tu stia qui. Se ti cercano e ti trovano potrebbero pensare che ti ho rapito! Posso chiamarti Musetta? – Non si era mosso dalla porta, incerto sul da farsi. – Lo hai sempre l’orecchino di Birgit, vero? Cucilo nella tasca interna della giacca, che non si possa vedere né perdere. - Aveva detto la bambina. Dimostrava dieci anni, e si teneva la testa con le mani appoggiate sui ginocchi. Lui prese un foglio, immediatamente, per ritrarla. – Come fai a sapere dell’orecchino? Chi te l’ha detto? – Era confuso, spaventato ma anche incuriosito. – Lo so. So un sacco di cose. Purtroppo alcune non sono belle. Giura che cucirai l’orecchino nel taschino interno.– Sembrava molto decisa sulla questione. – Va bene. Quanti anni hai? – Ho gli anni che mi dai. – Si guardò. – Che dici? Dieci. Facciamo undici. Sono molto carina. Grazie. – Lui scrollò la testa. Non aveva mai bevuto in vita sua. Doveva essere un’allucinazione, ma il ritratto venne bene. – Ti piace? – Le aveva chiesto. – Molto. Adesso devo andare. Cuci quell’orecchino nella tasca interna del taschino. E’ importante. – Lui sbuffò, che bambina saccente e petulante. – Dove andresti con questa pioggia? A casa di chi? – Duecentotrentasette fece spallucce. – Volerò nella pioggia, e poi andrò a dormire sui tetti. Lo faccio da sempre. – Si dileguò. Svanì, come la nebbia al sole. Lui nascose il ritratto nell’intercapedine
di legno della parete del negozio, e andò a casa. Ormai nessuno più veniva a far cornici, tra la guerra, la crisi, le deportazioni e la paura l’arte era diventata un opercolo facilmente trascurabile. Il giorno dopo trovò il negozio devastato. Qualcuno nella notte era entrato e aveva bruciato i suoi quadri, sul muro era stato scritto con della vernice nera “sporco ebreo”, e tutti i suoi documenti erano stati strappati. Impossibile denunciare, anzi, sarebbe stato peggio presentarsi alla Polizia per una questione simile. Ci avrebbe rimesso, magari lo avrebbero arrestato. Tentò di sistemare le cose alla più e meglio, e fu in quel momento che si sentì male. Si portò la mano al cuore, non seppe riconoscere se fosse stato un male eggero, o un principio di infarto, fatto sta che si sedette in terra, tentando di respirare con calma. Con la mano destra toccò l’orecchino che aveva nella tasca, come a trovare rassicurazione, e si ricordò che doveva cucirlo. Quando si riprese, cercò filo e ago in un cassetto. Fece di meglio, lo cucì nell’imbottitura della spalla, all’interno, nessuno avrebbe sentito al tatto che era nascosto. Ormai l’idea di nascondere era diventata un chiodo fisso. Fortunatamente i suoi disegni erano salvi nell’intercapedine, e anche i pochi spiccioli li nascondeva dappertutto, preoccupato di rimanere senza neppure la possibilità di comprare un pezzo di pane. Meditò la fuga. ò due giorni come avvolto nella pazzia, doveva trovare qualcuno di fidato che potesse procurargli una carta d’identità nuova, o un aporto. Al mercato nero c’erano personaggi che si prodigavano per questo, alcuni lo facevano mossi da spirito umanitario, molti invece solo per guadagno. Ma i soldi non sarebbero bastati. E forse non sarebbe stato possibile scappare. I tedeschi rastrellavano ovunque in cerca di ogni tipo di vittima: ebrei, senza tetto, ragazze madri, ribelli, partigiani, possibili traditori, jugoslavi, italiani, rom, disabili, omosessuali, prostitute. Nessuno sembrava corrispondere ai loro dictact, ognuno era un possibile deportato. Le carceri abbondavano di poveretti senza speranza. Le cifre di sui si parlava non erano certe: chi diceva duemila, chi diceva ottocento, chi migliaia di migliaia. La Risiera San Sabba si raccontava in città non era solo un carcere, ma un forno crematorio. Dicevano voci che pure i carcerieri uccidevano senza motivo gli arrestati. Si parlava di torture. Nessuno veniva mai a confermare di persona, la gente non ritornava a casa. Ogni giorno. Nessuno si faceva più vivo. L’atmosfera era diventata irrespirabile, ognuno si guardava d’intorno con paura e terrore di essere denunciato. Ogni notte qualcuno spariva, arrivano pattuglie della Gestapo e si facevano aprire le porte di casa con intimidazioni. Chiedevano conferma al padrone di casa sulle generalità dei presenti, e poi non si preoccupavano d’altro di caricare le persone come bestie sui camion e portarle chissà dove. Le case
venivano confiscate. La città era diventata lo spettro di se stessa. Eric sapeva che doveva fare qualcosa o presto avrebbe fatto la fine di molti altri. Nel gennaio 1944 la Sinagoga di Fiume fu bruciata. Esisteva sul territorio dai primi anni del novecento e rappresentava il luogo di culto di tutta la regione Est d’Italia, maestosa e imponente. Fu come apprendere di essere arrivati alla goccia che fa traboccare il vaso. Eric si decise a crearsi una nuova identità e finalmente nel maggio del 1944 un tizio si presentò in negozio con la scusa di comprare una cornice e gli ò di sottobanco i documenti. Aveva finito i soldi, sapeva che avrebbe abbandonato i suoi ricordi e i suoi disegni nel suo amato negozio, ma ormai era tangibile che era finita. Doveva andare. Provare ad andare in Svizzera. Tornare da Birgit. Lei avrebbe lasciato Philippe o per lo meno sarebbero rimasti amici. Doveva provare. Era troppo importante. Si era sentito vigliacco. Per non aver osato prima, almeno sette o otto anni prima, quando sarebbe dovuto andarsene con la donna della sua vita. Rischiare. Allora. Adesso era anche peggio: era diventata una questione di vita o di morte, una questione di sopravvivenza. Mentre era indaffarato a preparare una minuscola valigia di cartone, Duecentotrentasette gli apparve in camera. – Ciao Musetta. Sono di fretta. – Lei si sedette sul bordo del letto, le labbra corrucciate. – Scusa se non sono tornata. Avevo da fare in giro. Posso venire con te? – Aveva detto. – Non credo proprio. Devo andare con un camioncino, e poi farmela a piedi. Nei boschi. Trovare dei aggi. Vivere di notte. Mangiare di nascosto. E tu dovresti anche fare la brava bambina, e tornare dai tuoi. – Lei aveva sbuffato. – Io vengo con te. Magari volo così faccio meno fatica. Credo che avrai bisogno di compagnia. Con chi parlerai durante il viaggio? Potrei aiutarti. – Lui era stato categorico. – No, faccio da solo. Tu dammi un’occhiata al negozio mentre sono via. – Lo aveva detto in modo spiritoso, ben sapendo non sarebbe stato possibile. Ma lei fece di sì con la testa. – Va bene. Ma ti verrò a trovare. Senza di te qui mi annoio. – Poi gli era arrivata davanti, come un soffio. I suoi occhi neri parevano senza fondo. – Ciao Eric. Fai buon viaggio.- Lui si accese una sigaretta, l’ultima che aveva
comprato all’emporio come usava allora, sfusa e le aveva sorriso. – Dai che tra qualche giorno andrà meglio. Andrà meglio sicuro. – Tolse dall’intercapedine alcuni disegni e li mise nella valigia. Robert interruppe la donna, anche se aveva promesso che non lo avrebbe fatto. Era molto agitato, stava sudando e si sentiva un groppo allo stomaco. – Di cosa vai farneticando? Philippe Blanc e Birgit Hermann sono i miei genitori. Non mi hanno mai parlato di questo primo amore di mamma, ti pregherei di smetterla. Mia sorella Eloise non è figlia di questo fantomatico Zeller. Se sei venuta per prendermi in giro stai sbagliando persona, stai sbagliando di grosso. – La sua voce era stridula, si era alzato in piedi, deciso a cacciarla fuori. Lei, imperturbabile, lo guardò con freddezza. – Chi me lo avrebbe fatto fare, precipitarmi di notte, con questo tempo pessimo se non la scelta di dirti la verità. Eloise è la tua sorellastra, ma neppure lei n'è a conoscenza. Hanno tutti tenuto la bocca chiusa, prima per paura, poi per abitudine, o forse per dimenticare un periodo della loro vita molto triste. Se però non vuoi sapere il resto, sei libero di farlo. Me n'andrò come sono venuta. Ognuno è consapevole delle proprie decisioni. – Tacquero, mentre fuori il vento sbatteva la pioggia contro i vetri, nel buio rischiarato solo dalle candele e da qualche fulmine sporadico. Robert si accucciò davanti a lei, sedendosi in terra, la sua mente piena di dubbi e di sconforto. La donna sollevò una mano, in segno di resa. – Va bene. Me ne vado. – Ma lui la trattenne, con il solo sguardo. Implorava verità, ma che non fosse come lui temeva.
Fiume, giugno 1944
Eric si sentiva molto male. Si era reso conto che avrebbe dovuto agire per tempo. Si sentiva un codardo, un fallito. Niente avrebbe presagito il disastro, ma avrebbe potuto provvedere prima, anni prima. Appena resosi conto dell’amore che provava, sarebbe dovuto andarsene, come molti altri dall’Italia. Gli era mancata la volontà, o forse dentro di sé aveva nutrito la speranza di un cambiamento che arrivò, ma contrario alle sue aspettative. Così decise di lasciare
il suo quartiere Zudecca per avventurarsi al Nord, verso la frontiera svizzera. Nel giugno del 1944, quando ormai l’Europa era nel completo delirio, chi da una parte cercava si salvarla con i partigiani, chi arrivava a salvarla dall’America, chi dall’altra deportava e uccideva in massa, lui tentò di raggiungere in qualsiasi modo Birgit. Birgit a quell’ora era ormai arrivata al nono mese di gravidanza, e si stava preparando per la nascita della figlia che avrebbe chiamato Eloise. Ogni giorno sperava di rivedere Eric ma si comportava come una brava moglie. Era devota a Philippe che ignorava il fatto che lei aspettasse la nascitura da Eric. Lui era rimasto sorpreso ed immensamente felice della gravidanza della moglie, rimasta incinta proprio la notte seguente alle nozze, e si riteneva fortunato di aver salvato l’attività, di essere ormai fuori dai problemi europei, poiché dove risiedeva la guerra sembrava un evento lontano dai ricordi. Il 14 giugno del 1944 Eric lasciò Fiume. Accompagnato da alcuni personaggi che a quel tempo si adopravano per aiutare i fuggitivi partì di notte, con altre sei persone, una famiglia ebrea per arrivare a Chiasso. Da lì avrebbe dovuto cavarsela da solo. La Svizzera aveva tenute aperte le frontiere fino al settembre 1943, ma successivamente le forze tedesche assunsero il controllo delle frontiere con la V sezione della Grenzwache: il che significò che ogni ebreo correva il serio pericolo di non riuscire ad entrare, anzi di cadere nella mani delle SS. Non sarebbe stato certo che lo avrebbero fatto entrare. In caso positivo sarebbe stato comunque internato in un campo profughi, in attesa di essere riconosciuto libero. In caso negativo, sarebbe dovuto scappare ancora. Purtroppo il suo destino gli avrebbe riservato un futuro orribile. La bambina che diceva di chiamarsi Duecentotrentasette non salì sul camioncino coperto con lui e gli altri, ma lo seguì dall’alto, accompagnandolo solo spiritualmente. Eric parlò poco. La famiglia che era con lui era composta da padre e madre, tre bambini sotto i dieci anni e la nonna, un’anziana ammalata che riusciva a stento a camminare. Il viaggio durò due giorni. Gli autisti conoscevano bene il territorio e avano tra strade sterrate, viottoli fra i campi e percorsi alternativi per nascondersi. Finalmente arrivano quasi al confine, ma c’era da fare un percorso a piedi, fra i boschi. La vecchia nonna era lenta, e le guide cominciarono ad innervosirsi. La insultarono e strattonarono, ma nessuno ebbe il coraggio di ribellarsi. La paura di non mettersi in salvo era più forte del rispetto alla loro dignità. Ad un certo punto accadde un fatto che avrebbe ribaltato tutto. Dopo l’armistizio intorno al confine si era creato un vero ed intenso traffico clandestino. Gli italiani che si offrivano come guide e che conoscevano a menadito il territorio diventarono contrabbandieri di carne umana. Alcune volte furono mossi da comione e si accontentarono di pochi soldi, ma per lo più sapevano bene che il traffico dei profughi era fonte di guadagno, sia da una parte sia dall’altra e quindi arrivarono
a chiedere cifre astronomiche per un aggio o furono disposti a vendere un ebreo ai tedeschi per la somma ragguardevole di cinquemila lire . Quando il gruppo arrivò in una rada circondata da alte conifere, Eric vide Duecentotrentasette. Era vestita nell’identico modo come le altre volte, ma aveva un’espressione corrucciata. Le guide dissero di fermarsi con la questione da risolvere dei soldi da pagare per il aggio. A quel punto Eric obiettò che aveva già pagato a Fiume, al tizio che gli aveva portato i documenti. Uno dei tre uomini, armato fino ai denti gli dette subito una spinta. – Non so di cosa parli, ebreo. Se vuoi are il confine dammi quello che hai. Lo stesso valga per tutti. – Disse girando lo sguardo truce sui componenti del viaggio. La madre dei bambini scoppiò a piangere. Non avevano più niente. – Scommetto che troverete qualcosa nelle vostre valigie, sono belle piene. O peggio per voi. – La nonna disse con un filo di voce di consegnare l’oro, che consisteva in un paio di catenine e il candelabro d’argento a sette bracci che era nel suo bagaglio. L’uomo rovistò nella valigia, e dopo averlo osservato un attimo disse che non era abbastanza per tutti. Eric disse di avere dei disegni a carboncino. La guida li afferrò, poi li strappò dicendo che non valevano niente. Nel silenzio che seguì, rotto solo dai singhiozzi della donna e di bambini, si sentì un fruscio fra i cespugli poi delle voci concitate in tedesco. Duecentotrentasette disse a Eric di scappare. – Eric, scappa. Stanno arrivando. – Ma Eric rimase impietrito, non riusciva a muovere un muscolo. Era terrorizzato. Arrivarono otto tedeschi, con la divisa delle SS. Il piano era stato combinato per farli prendere: evidentemente non erano ebrei ricchi da meritare la salvezza. Un tedesco biondo e grasso, cominciò ad urlare frasi incomprensibili, e a spingerli tutti. La nonna cadde per terra. Eric fece per aiutarla a rialzarsi, ma si prese un pugno nello stomaco. Chiesero in tedesco ad uno delle guide di intimare i presenti di consegnare i documenti. Quando fu il turno di Eric il tedesco fece un ghigno feroce. – Italiano. – E sputò per terra con disprezzo. Ordinarono a tutti di seguire i militari, mentre le guide incassarono la taglia. Il percorso fu breve, di lì a pochi i, dietro un dosso ricoperto di felci c’era una stradina sterrata con un furgone blindato. Li fecero entrare a calci e pugni, e li portarono via. Destinazione Fossoli, il campo di concentramento italiano da dove sarebbero partiti per destinazione ignota poco tempo dopo.
Duecentotrentasette assistette all’arresto senza muoversi. Poi quando anche le guide ebbero lasciato il posto dopo aver contato due volte il bottino, si avvicinò ai disegni strappati. Vi lesse la gioia di vivere nei volti catturati dal carboncino di Eric, la speranza e la luce che solo volti felici possono avere. Non li prese, ma fece una buca nel bosco, dove li ricongiunse alla terra profumata di muschio.
Fossoli era un campo di concentramento nato per tenere prigionieri militari stranieri durante la guerra ma dal 1943 si era trasformato in un campo di raccolta e transito per gli ebrei e i dissidenti politici. Il loro furgone arrivò a destinazione la mattina dopo del loro arresto. Ci furono due soste, durante le quali i militari mangiarono e s'incontrarono con altri militare per i controlli, ma a loro non badarono e dettero niente da mangiare. Nel buio del blindato nessuno parlò per tutto il tragitto, quando uno dei bambini provò a chiedere cosa stava succedendo la risposta del padre fu solo un incoraggiamento che non sarebbe successo niente di grave. Arrivati al carcere ci fu il controllo dei documenti che non vennero a loro restituiti. L’addetto compilò diversi fogli di entrata con le loro generalità e anche un gran volume con la numerazione progressiva. Vennero poi divisi, gli uomini da una parte e la donna coi bambini da un’altra. Era il 17 giugno del 1944 e faceva molto caldo. Eric si strinse nella sua giacca, non l’avrebbe lasciata per niente al mondo. Gli perquisirono i bagagli: poi gli assegnarono un numero. Il suo numero era duecentotrentasette. Casualità della vita. Lui non seppe darsi una risposta. Vennero condotti alla loro baracca, che dividevano con altri. Consisteva solo in un gruppo di lettini di legno a castello. Lui ne scelse uno vuoto. Il suo occupante era stato trasferito altrove qualche giorno prima. I suoi pensieri adesso erano cupi. Durante il viaggio della speranza si era fatto forza solo sulla possibilità di rivedere Birgit, adesso stava cominciando a capire che non ci sarebbe stato più niente da fare. Le umiliazioni erano state troppe, la sua dignità di uomo e di libero pensatore erano state annullate nel giro di pochi mesi. Lo consolava solo l’aspetto surreale della vicenda ovvero aver incontrato Duecentotrentasette. Fra sé considerò che era solo un frutto della sua immaginazione, della sua mente provata. Però era quasi tangibile la sua presenza eterea, e decise che l’avrebbe messa in sostituzione al pensiero fisso del suo amore. Sarebbe stata la piccola Musa il pretesto per non mollare. Dopo poco, mentre era sul letto in attesa di ordini, la bambina arrivò. La vide solo lui, e quindi si ripromise di non parlarle. Gli altri con lui nella stanza avrebbero potuto pensare che era un folle, e una guardia avrebbe magari deciso di dargli una lezione. Duecentotrentasette invece gli parlò. Prima di tutto gli confidò il suo
rammarico. Aveva visto tante guerre, dagli antichi Greci fino alla prima guerra mondiale, essendo lei un richiamo per gli artisti che, rivelò, erano stati da sempre tizi tosti che non si facevano intimidire dalle situazioni, anche le più sgradevoli. – Gli artisti hanno un’anima pura. Anche se sono alcolizzati, anche se fanno della loro vita una depravazione sotto certi aspetti. La loro anima è forte. Tu sei forte Eric, io lo so. Ti starò sempre vicino. – Lui avrebbe voluto chiederle come mai il numero assegnatogli era come il suo nome, ma non lo fece. Ancora una mancanza di coraggio, si disse. Nascondersi sempre da tutto, dagli oltraggi ma anche dai pregiudizi. Non avere fegato per scappare prima, e non averlo neppure per far capire a tutti che era diventato completamente pazzo. Rimase a Fossoli solo nove giorni, neppure il tempo per ambientarsi che venne trasferito al carcere di Verona. Il problema a Fossoli stava diventando grosso: la presenza degli arrestati aumentava ogni giorno, e fuori delle mura la situazione peggiorava a causa dell’occupazione tedesca ma anche delle rivolte partigiane e dell’arrivo delle forze alleate. I tedeschi il 26 giugno, giorno del suo trasferimento a Verona, inviano un convoglio ad Auschwitz, l’ultimo da Fossoli, prendendo poi provvedimento per il cambio d’uso del dulag. Fossoli dall’agosto 1944 diventerà un campo di lavoro per l’ingaggio nel settore bellico per la Germania, uomini e donne costretti a dare la loro manovalanza in modo coatto. Eric fece un sospiro di sollievo nell’apprendere di essere stato trasferito a Verona, molto più vicino a casa di Carpi nel modenese. Purtroppo a Verona rimase fino al 2 agosto 1944, quando fu chiamato senza preavviso per un nuovo trasferimento: Auschwitz. Il convoglio aveva un numero, il quattordici. Faceva molto caldo. I deportati furono disposti in fila, e indossavano abiti ormai consunti, erano denutriti perché durante la detenzione avevano mangiato poco. Molti avevano i pidocchi, altri erano ammalati. La fila era composta e mista. C’erano uomini e bambini, donne e ragazzine, alcuni ancora con la stella di David cucita nel petto. Le loro valigie erano impolverate, come lo era lo spiazzo dove erano nell'attesa dell’arrivo del treno. In fila da un pezzo, qualcuno svenne dal colpo di calore. Nessuno disse niente, se non le guardie che li esortarono ad alzarsi se non volevano morire con un colpo di pistola seduta stante. C'erano molte persone, l’aria era come rarefatta, nel silenzio, sospesa sotto il sole impietoso. Eric guardò il cielo, continuò a fissarlo, come ad imprimere nella memoria quella giornata bellissima. La natura aveva avuto il suo corso, gli uomini avevano determinato il destino di altri, l’impotenza aveva preso il sopravvento su tutti. Ognuno stava guardando al treno come una nuova speranza, come se avessero tutti deciso di ignorare che quello era solo un viaggio per l’inferno.
Birgit partorì con dieci giorni di ritardo sul tempo previsto il 26 giugno del 1944. Fu un parto veloce e pressoché indolore, caso quasi raro. Alle prime spinte la testolina d'Eloise uscì dal suo ventre. Il suo strillo poderoso riempì la stanza, appena aprì bocca. Aveva un sacco di capelli neri, e le labbra a forma di cuore. A Philippe per un milionesimo di secondo ricordò il volto di qualcuno che non seppe materializzare nella mente, poi annunciò che era identica a sua nonna. La strinse a sé, la cullò e poi nel riconsegnarla a Birgit distesa sul letto raggiante disse: - Sei stata bravissima. E’ stupenda. – Birgit si toccò l’orecchino e abbassò lo sguardo. Sperò che nessuno venisse mai a sapere che Eloise non era sua figlia, conscia del fatto che Eric era il ritratto sputato della sua bambina.
Agosto 1944
Eric salì sul treno, in un vagone chiuso completamente se non per un paio di feritoie piccolissime sul tetto da cui non sarebbe ata neppure la testa di un neonato insieme ad altre persone. Non c’era spazio per tutti, si strinsero gli uni agli altri, tentando di respirare nell’afa insopportabile. Nel vagone c’era un solo secchio di ferro, ed Eric dedusse che servisse per i bisogni personali. Sperò fra sé che il viaggio non durasse un’eternità, ma solo poche ore. La destinazione per loro era ignota, qualcuno aveva sussurrato di aver sentito alcune guardie parlare di un campo forzato di là dall’Italia, forse in Polonia, forse in Austria. Rifecero la conta altre due volte, per essere sicuri, e poi chio i vagoni, uno dopo l’altro, assicurandosi che fossero ben chiusi da doppia mandata con due barre di ferro. Il treno partì due ore dopo, e qualcuno si sentì male per il caldo. L’attesa era interminabile e quando si sentì il fischio del treno in partenza, inaspettatamente qualcuno ne fu felice. Il viaggio durò sei giorni. Sei giorni di patimenti e di dolore. Le persone ammassate i primi due giorni tentarono di consolarsi a vicenda, di parlare, ma ben presto la fame, gli stenti e le privazioni ammutolirono i deportati. C’era solo ormai chi riusciva a malapena a lamentarsi, con un filo di voce. Il secchio era stato riempito di bisogni solo dopo poche ore, qualcuno se l’era fatta addosso e si teneva i proprio escrementi negli abiti in piena vergogna. Il vomito aveva imbrattato il pavimento di legno, l’odore nauseabondo era spesso come cemento, una donna che aspettava un bambino
incinta di sei mesi morì. A qualcuno era venuta la febbre e stava appoggiato agli altri in stato di semi incoscienza. Eric pregava. Confidava al suo Dio la pena in attesa di misericordia, di un miracolo, come molti altri con lui. Il treno non fece soste. Sferragliò sui binari ardenti dal caldo fino a destinazione. Rallentò solo perché era arrivato davanti al cancello del campo. Ci fu una breve procedura di controllo, poi lentamente il treno entrò e il cancello si richiuse alle sue spalle. Il binario detto Judenrampen. Ci fu un’altra mezz’ora d'attesa mentre da dentro si sentivano grida in tedesco, e lo scalpicciare di molti stivali. Eric istintivamente portò la mano all’imbottitura della giacca, cominciò a frugare nell’ovatta, trovò l’orecchino e lo ingoiò. Alla fine il portellone con un rumore metallico si aprì. L’aria inspiegabilmente fresca entrò come un vento nel vagone. Fu come uno schiaffo di liberazione. I militari fuori urlavano come posseduti, e facevano cenni nervosi di uscire, di mettersi in fila, di camminare per alcuni metri nel piazzale. Alcune persone furono calciate e spinte, i deportati si sorreggevano a vicenda, sporchi, affamati, sfiniti. L’aria che in precedenza gli era sembrata fresca e pulita, Eric ora la cominciò a percepire mista ad un odore insolito e pungente, come di carne cotta. Non come quella dei bovini, era acre, con uno spunto che dava senso di nausea e che lo fece spaventare moltissimo. Lui stava sorreggendo un vecchio con la barba bianca, quando gli fu intimato di staccarsi da lui. Lo fece ed il vecchio cadde nella polvere. Davanti ai tanti militari in divisa verde, c’era un uomo magro, con il viso astuto da faina, e lo sguardo predatore. Si presentò come il medico del campo. Accanto a lui la figura imponente del Comandante del Campo, che disse di chiamarsi Rudolf Hoess. Scandì bene il suo nome, come volesse essere ricordato soprattutto per quello. Il medico prese dei fogli su cui erano accuratamente riportate le generalità dei presenti e cominciò a parlare, tradotto da un uomo molto basso che stava con lui e che dall’accento doveva essere un italiano della zona veneta. – Questo è il campo chiamato Auschwitz-Birkenau e si compone di due sezioni. E’ un campo di lavoro dove voi lavorerete per la gloria della Germania. Sarò io a stabilire chi dovrà andare nel primo e chi nel secondo campo. – Il medico iniziò la selezione. Eric capì immediatamente che egli si basava sulle condizioni fisiche e non sui nominativi, e quindi quando fu il suo turno alzò il petto e fece un viso convincente. – Tu, a sinistra. – Gli disse il medico per poi are immediatamente ad un altro. Lui si spostò. Con lui c’erano parecchi uomini ancora in piedi e
dall’apparente stato psicofisico buono, a destra c’erano ammassati molti vecchi, donne e bambini. Alcuni, sentendosi strappare il marito o la moglie o i figli, iniziarono a rumoreggiare. Si attaccarono ai propri cari, e le guardie dovettero intervenire in modo efficace. Una donna fu uccisa subito, con un colpo di pistola. L’odore di quello sparò sovrastò gli altri per una frazione di secondo. Eppure nessuno tentò di ribellarsi, come un mucchio di pecore che avevano perso il pastore, aspettavano con gli occhi pieni d'orrore il loro destino. Come pecore al macello. Finita una prima selezione, il medico parlò di nuovo. Sembrava avesse un tono stranamente dolce, quasi accondiscendente, il che fece rizzare i capelli ad Eric che ormai aveva intuito le intenzioni del nazista. – A questo punto dovete sapere, voi del campo a sinistra, che dovrete percorrere ancora dieci chilometri a piedi per raggiungere le vostre baracche. So che siete stanchi, ma presto avrete di che mangiare e dormire. Invito chiunque del campo a sinistra di raggiungere i propri cari alla mia destra, se preferite, e l’invito vale anche per chi si senta stanco e provato tanto da sapere di non riuscire a camminare per questi chilometri a piedi. Sappiate che il campo a destra è questo, non dovete fare altro che andare a riposare. – Come previsto ci fu un fuggi fuggi generale verso le persone messe a destra. I mariti raggiunsero le mogli, alcune donne tornarono dai loro bambini. Quelli che avevano preferito riposare subito nel campo a destra furono accontentati. Eric non si mosse, anzi guardò in terra, facendosi piccolo e tentando di nascondersi dietro altri uomini più alti di lui. Al medico però non sfuggì il particolare, abituato ormai a scrutare nei comportamenti umani ormai arrivati alla disperazione e lo provocò. – Tu, lì dietro. Non sei stanco? – Eric finse di non aver capito che la domanda era per lui. – Tu, con gli occhiali. Si vede proprio che sei un ebreo, corrispondi anche da una prima occhiata che hai tutte le caratteristiche. Hai il naso giusto, le orecchie a tazzina, i capelli neri come la pece. Ripeto: non sei stanco? Non hai nessuno di là da raggiungere? – Eric avrebbe voluto urlare ma ebbe paura. Disse solo:- No, signore. Sto bene. Dieci chilometri si fanno presto, sono un buon camminatore. – Il medico sorrise. Adesso assomigliava di più ad una iena. – Ottimo. Allora se abbiamo finito, possiamo andare. – Il comandante del campo parlò con il medico, solo poche parole e poi ordinò di trasferire i due gruppi. Il gruppo del campo di destra arrivò in pochi minuti alle docce che si trovavano
dall’altra parte del campo, chiamato Birkenau dove c’era il forno crematorio e le camere a gas. Ordinarono loro di spogliarsi per farsi una doccia veloce in quello che sembrava uno spogliatoio, li privarono di tutto e li uccisero. Eric invece su condotto dentro il campo, dove si spogliò degli abiti e consegnò il suo bagaglio. Fu poi rasato completamente in tutto il corpo e i suoi capelli neri e ricci, lunghi alle spalle finirono sopra altri, dei malcapitati arrivati sotto i rasoi prima di lui. Gli consegnarono una giacchetta, un pantalone e un paio di zoccoli, duri, troppo grandi. Infine gli consegnarono un numero di matricola, che inspiegabilmente era Duecentotrentasette ripetuto tre volte. Gli tatuarono il numero sul braccio, ma presto l’inchiostro scomparve e rimasero solo tre numeri, il 2, il 3 e il 7. Gli fu permesso di tenere la cintura, che fu una benedizione giacché i pantaloni erano enormi. Gli fu consegnato il suo riconoscimento da cucire alla giacca e ai pantaloni. Consisteva in un triangolo blu dal vertice basso sovrapposto ad un giallo capovolto. Lo indicava come immigrato forzato straniero, nonché ebreo. Avrebbe dovuto lavorare, e duramente. E se voleva vivere non avrebbe mai dovuto ammalarsi, cosa quasi impossibile perché nel campo c’era in atto un’epidemia di tifo e le condizioni igieniche inesistenti. Non esistevano bagni né assistenza medica. Era questione di fortuna, vivere. Ma lui confidava, nonostante tutto nutriva una speranza. La sua baracca era di legno, con letti a castello tipo militare ma i posti non erano abbastanza e lui divise il letto con un giovane ungherese che si faceva chiamare Geza. Il giorno dopo gli assegnarono il suo lavoro. Avrebbe lavorato per un’industria chimica che si chiamava I.G. Farben che era quella che produceva il gas Zyklon B, proprio quello che serviva al campo per gassare i deportati. Questo succedeva nell’agosto 1944. Nessuno di loro, Eric compreso sapeva cosa stesse succedendo fuori di quei reticolati. Se avesse solo immaginato che di lì a poco l’Armata Russa sarebbe arrivata per liberarli forse non avrebbe ceduto alla depressione. Già nel novembre 1944 l’Armata era molto vicina ad Auschwitz e il comandante del campo ordinò di distruggere i forni per impedire che la verità venisse a galla. Era solo questione di tempo e di forza d’animo. La donna smise di parlare. Robert mentre l’ascoltava si era bevuto una bottiglia di vino, e adesso stava trafficando con un’altra bottiglia. – Ti piace bere? – Gli chiese. – Affatto. Solo un bicchiere nei momenti di riflessione. Ma tu mi stai scaraventando addosso cose di cui non ero a conoscenza, e questo mi rende
nervoso. In vino veritas? Sì. Infatti le tue parole mi stanno facendo pensare molto. – A cosa in particolare? – Disse lei. Adesso era quasi buio, le candele erano quasi alla fine, e il riverbero della luce soffusa non riusciva più a metterla in evidenza come al suo arrivo. – Pensavo a Sabrina. – Tacque e si attaccò alla bottiglia con un lungo sorso. – Sarebbe? Vuoi parlarmene? – Lui fece di no con la testa. Ma aveva un bisogno impellente di sfogarsi e lei lo intuì. – Non voglio farti perdere tempo. Eric che fine ha fatto? Mi fa arrabbiare pensare che ha lasciato andare mia madre, che si sia tirato indietro quando poteva stare con lei. Per carità, mio padre è la persona più splendida del mondo. Ma lasciare che il destino prenda il sopravvento. – Rifletteva quasi fra sé. – Parlami di Sabrina, e io ti racconterò d'Eric e di cosa successe dopo. E’ ancora una lunga storia. – Robert si sdraiò sul tappeto davanti al camino, gli dava come l’idea di essere da un analista. – Sono stato sposato. Un matrimonio felice per tanto tempo. Poi siamo rimasti amici, per fortuna, dopo la separazione. Non c’erano altri nella nostra vita, semplicemente ci siamo resi conto che ci volevamo molto bene. Qualche anno fa ho aperto la mia pagina Facebook. Non ci capivo molto, invece del profilo classico ho fatto la pagina in se e italiano dei miei libri. La gestivo io quando avevo tempo. Si sono iscritti tantissimi utenti. Mi mettevano commenti, mi chiedevano consigli. Tutti volevano farmi leggere le loro opere. Io sulle prime rispondevo che non era il mio mestiere, poi mi sono stancato e non ho risposto più. Un giorno mi ha mandato un messaggio privato Sabrina. Era una bellissima donna, e molto colta. Inaspettatamente ho trovato piacevole conversare con lei. Mai invadente, ma sempre presente. Ho iniziato a fare il cretino. La corteggiavo, m'intrigava sapere che lei mi ammirasse incondizionatamente. Lei aveva sempre da suggerirmi qualcosa di buono per i miei libri. Mi stimolava ma n'ero invidioso. I miei due ultimi best seller li devo in qualche modo a lei. Le mandavo alcuni pezzi da correggere, lei aveva sempre qualche idea pazzesca. Me ne sono approfittato. Un bastardo in piena regola. Lei mi ha chiesto più volte di incontrarla. Io fissavo gli appuntamenti, poi glissavo e non mi presentavo. Sabrina ci rimaneva molto male, e una volta su Skype le ho
detto che amavo farla soffrire, che il suo patire mi dava la garanzia del suo amore. Capisci? Lei andava oltre il fatto che io fossi il tal dei tali, scrittore tradotto in svariate lingue, vincitore di premi a livello internazionale. Lei amava le mie insicurezze. Amava il mio essere depresso e sempre alla ricerca di novità. Lei cominciò a scrivermi poesie. Erano molto belle e profonde. Lo spazio per i poeti nell’editoria è ancora più risicato che di quello della narrativa, ma lei non voleva essere pubblicata da me, voleva solo darmi piacere. Invece io ho cominciato a sospettare delle sue vere intenzioni. Il mio cervello elucubrava continuamente a quanto fosse falsa. Ho iniziato a non risponderle, a prenderla in giro. Eppure sapevo di amarla, anche se non l’ho mai ammesso. Ci giocavo, le facevo complimenti sul suo aspetto, per poi ignorarla per giorni. Poi tornavo con una piazzata, senza motivo, per umiliarla. Lei non ha mai ceduto. Fingeva che andasse tutto bene, e questo m'infastidiva. Ritenevo che il suo placido modo di comportarsi fosse solo un tentativo di manipolazione. Un giorno me la trovai davanti a casa. Non ho idea da chi avesse avuto il mio indirizzo. Io mi sono preso un colpo. Quasi un attacco di panico. Sono rimasto come un fesso sulla porta per mezzo minuto, oltreandola con lo sguardo. Non riuscivo nemmeno a reggere il suo, così bello. Lei con una spontaneità che ho invidiato, mi ha chiesto di entrare in casa. Le ho fatto spazio, con un gesto. Il mio pensiero è stato solo quello di portarmela a letto. Sabrina era bellissima, e non dimenticherò mai il movimento del vestito sui fianchi, che ondeggiava come mosso dal vento. – Sei venuta per scoparmi, eh? – Ho detto. Improvvisamente il mio ego era salito al cielo, mi sentivo un Dio. Eppure con la mia calvizie incipiente, la pancia da consumatore di hot dog e la barba lunga di una settimana dovetti sembrarle un povero sfigato. Lei non ha abbozzato, ha ignorato la mia domanda che pareva invece un’affermazione. – Mi sono fatta un sacco d'illusioni. Ti credevo migliore.– Ecco, cara amica mia, questa frase fatta, che milioni di donne ti rammentano nei momenti di sconforto, la odio. Le ho detto che allora poteva anche andarsene. Io ho citato il repertorio del caso : sono impegnato, ho la mia vita, non ti amo, non m'interessi, non voglio legami, non sono pronto, non sono pronto per te, ti ringrazio per tutto ma io ho la mia vita. Lei non ha battuto ciglio, mi ha fatto una carezza, come si fanno ai cuccioli di cane, e se n’è andata. Puff, nel giro di cinque minuti l’avevo trattata come una escort, no peggio. Quelle lo fanno per mestiere, lei era innamorata. Il giorno dopo mi sentivo sollevato: finalmente libero. Poi sono iniziati i rimorsi, lei non era più on line. Sparita per sempre. Mi
sentivo solo. Ero combattuto fra l’egoismo della mia libertà, e la consapevolezza che lei era la donna giusta per me. Mi sono convinto che com'era andata fosse stata la cosa giusta. Ma ero roso dalla vergogna. Roso dal fatto d'averla ingiustamente maltrattata ed ingiuriata. Continuavo a scrivere ma niente era più come prima. Le parole sulla carta perdevano di valore, volevo scrivere anche per lei, come una sorta di richiesta di perdono, ma poi strappavo i fogli, cancellavo files e guardavo fuori dalla finestra, in cerca di un’ispirazione che non arrivava. Il mio agente mi ha telefonato diverse volte, sulle prime era comprensivo poi mi ha minacciato. Scrivi qualsiasi cosa, questo è il momento, se a non torna più. Con egoismo l’ho ricercata, inutilmente. Sabrina aveva cambiato il numero di cellulare e io, preso dalla foga di possedere i suoi sentimenti, non le avevo mai chiesto di dove abitasse, cosa fe. Lei in tutti quegli anni aveva cercato di comunicare con me, di raccontarsi e di scoprire chi fossi, ma io l’avevo impedito. Per pigrizia, per narcisismo, per stupidità, per coglioneria, per paura. Adesso non si torna indietro. Sono arrabbiato con Eric perché non ha avuto il coraggio al momento giusto. Quando ha capito che aveva perduto mia madre per sempre si è buttato come un folle, coltivando una speranza che ormai la vita gli aveva tolto. Carpe diem, e la vigliaccheria che alberga dentro certi uomini sono due cose che vanno solo in contrasto fra di loro. So d'amare Sabrina, e so che non ci sarà perdono. Lei è troppo intelligente per me. Si, forse è questo che mi ha trattenuto. L’idea che lei potesse scrivere nella mia mente, al mio posto, e darmi ancora il successo. Volevo cavarmela da solo, come agli inizi, ma non è così. Tu m'insegni che c’è sempre bisogno di una musa. Vero? – Finalmente si era girato per guardare la donna sul divano, che stava girando un dito sul bordo del bicchiere, assorta e concentrata nel racconto. – Sai Robert, io non so cosa dirti. Non sono uno psicologo, ma una messaggera. Nei tempi che furono per una donna gli uomini erano disposti alla battaglia, alla morte. Ma dietro c’erano sempre comunque ragioni di stato. Gli uomini si affidavano agli dei, a volte si mischiavano con loro solo per amore. La ione. Non so cosa sia giusto per te, dovrai pensarci. Io sono qui solo per raccontare i fatti. Come dice Eric ci sono uomini che decidono il destino di altri, e anche tu hai deciso per te e per Sabrina, senza possibilità d'appello. – Robert chiuse gli occhi. - Com’è finita con Eric? E’ morto?Auschwitz 1944
Geza era un giovane ungherese ebreo e gay. Condivideva il letto con Eric, e parlava poche parole d'italiano, ma sapeva bene il tedesco. Era magro, apparentemente gracile, ma era anche un fascio di nervi, e quindi molto forte. Si rammaricava in continuazione per la situazione di scarsa pulizia, era ossessionato e pregava che tornasse presto l’inverno per potersi lavare con la neve. Con il caldo, i block erano pieni di mosche e zanzare. I morti di tifo erano all’ordine del giorno e Geza non voleva ammalarsi, aveva un paura folle del contagio. Costatò che Eric era un ragazzo pulito, e che si faceva gli affari suoi. Questo si dimostrò determinante per la loro amicizia. Nel block c’era anche un soldato molto gentile, il che era una benedizione. Si chiamava Franz Kowalski, ed era un uomo immensamente grosso. Alto due metri, dalle spalle larghe, portava il 49 di scarpe. Ad Eric ricordava certe illustrazioni di personaggi mitologici, un eroe greco, o un barbaro unno dalla forza disumana. Franz era diverso dai suoi camerati. Si trovava lì perché lui era nativo di Brzezinka , il paese lì vicino che ha dato il nome al campo di sterminio, e un graduato vedendolo are vicino al filo spinato che andava a lavorare lo aveva fermato. Gli aveva chiesto se voleva lavorare dentro il campo, come guardia. La possibilità di carriera, disse, era a portata di mano. Franz pensò che era una buon'opportunità, quello era solo un campo di lavoro, avrebbe dovuto solo occuparsi di controllare dei volontari che erano andati lì per cooperare al sistema bellico. Appena fu arruolato e mise piede ad Auschwitz si rese conto che non era proprio come immaginava. Franz era buono nell’animo, di quei ragazzi che ti prendono in braccio per farti prendere la mela più succosa dell’albero, che ti difendono dai compagni cattivi e lì dentro era chiaro a tutti che non c’entrava un bel niente con gli altri carcerieri. Però era anche molto intelligente, e preferì avere un profilo basso per non mettersi in evidenza. Iniziò da subito a portare pane e patate ai deportati, pregandoli di tacere in caso di verifiche. Lui li avrebbe aiutati, per quanto possibile, ma loro avrebbero dovuto tenere la bocca cucita onde evitare il suo allontanamento dal block. O peggio ancora la sua fucilazione. Franz riusciva persino ad intrattenersi con loro per parlare. Aveva imparato bene l’italiano e il se, e gli piaceva ascoltare le storie. A casa, quando aveva un permesso speciale nonostante abitasse a pochi chilometri dal campo, raccontava ai genitori le storie, pregandoli di non farne parola con nessuno. Il paese di Birkenau viveva nell’ignoranza assoluta su quanto succedeva all’interno del campo, pensava anzi che il lavoro dei dissidenti fosse in qualche modo pagato, nonostante fossero stati arrestati. Un giorno di settembre, Franz sorprese Eric fuori dalla baracca che con un bastoncino disegnava un volto nella polvere.
– Ehi! – esclamò alle sue spalle. Eric velocemente ò la mano sul disegno e lo cancellò. – Quello era Geza. Incredibile. Sei molto bravo.- Eric si schermì facendo spallucce. Era diventato ancora più solitario, parlava poco anche con gli altri detenuti. – Posso portarti dei fogli. Una matita. Faresti il ritratto di mia madre? – Aveva detto Franz. I suoi occhi blu erano pieni d'ammirazione. – Se non è pericoloso, se non comporta problemi. Preferirei un carboncino. – Franz gli dette una poderosa pacca sulla spalla che lo fece traballare. – Scusa. Volevo essere gentile. – Disse Franz imbarazzato. Eric stava in piedi per miracolo. Era già ato dai settantacinque ai cinquanta chili scarsi. – Domani ti porto tutto. – Disse poi e lo lasciò stare. Il giorno dopo Franz arrivò con due fogli bianchi, una matita corta, usata e un carboncino nuovo. E una scatolina metallica dove contenere le sue cose. Eric si commosse alle lacrime. Prese il tesoro con reverenza. Ci mise anche l’orecchino, che era riuscito a salvare con l’accorgimento di ingoiarlo. Franz gli mise in mano una foto della madre, un primo piano in bianco e nero. – Riuscirai a farla? – A quel punto Eric sorrise, sarebbe stato un gioco da ragazzi. Si chinò in terra, appoggiò il foglio e iniziò a fare uno schizzo con la matita coi i tratti generali, poi con il carboncino delineò il viso, lo sguardo, esaltò la dentatura della donna, gli mise una luce dentro che la foto al cospetto sembrava sfocata. I presenti nella baracca si erano messi intorno a lui. Lo guardavano lavorare, notarono il suo entusiasmo, in quel momento lui non era lì, ma libero altrove. Duecentotrentasette era fra il pubblico, ed era felice. Franz prese il ritratto. Non disse una parola, il suo viso non fece trapelare emozione, ma la sera tornò con pane e bucce di patata. E altri due fogli bianchi per Eric. – Disegna tutto quello che ti viene in mente. Se ti fidi di me, li conserverò per te. Per quando uscirai da questa macelleria. Li terrò come se fossero miei, ma quando uscirai li riconsegnerò. Tu dovrai pubblicarli, tu devi diventare qualcuno. Si chiama talento, e i talenti non vanno sprecati, anche se ti chiamano ebreo. La razza non c’entra niente con quello che hai qui. – Gli pose il grosso pugno sul petto. Gli prendeva quasi tutto il torace. Geza considerò che se gli avesse sferrato un pugno invece di appoggiarlo lo avrebbe ucciso all’istante.
– Sei buono, Franz. Se tutti fossero come te, tutto questo non sarebbe successo. – Franz si girò verso tutti e poi uscì dalla baracca. Avere un amico dentro quelle mura era motivo di sollievo.
Robert alzò una mano dal pavimento. Voleva dire qualcosa. La donna gli fece cenno di parlare. – Mia sorella Eloise è stramba. – Lei fece un sorriso. – Stramba? - Robert si girò verso la donna e fece un ghigno soddisfatto. – Lei è sempre stata la cocca di casa. Mia madre l’adorava. Mio padre stravedeva per lei. Ma Eloise sembrava non badare mai a queste premure. E’ come Eric, umile e sognatrice. Noi siamo tre fratelli. Io sono l’ultimo, il letterato. Marc, il mezzano, ha seguito le orme di papà e ha ancora il negozio di antiquariato a Lucerna. Mia sorella ha aperto una mostra di quadri a Parigi e a New York. L’ha sostenuta mamma in questa scelta. Eloise non sa disegnare, ma è sempre stata affascinata dall’arte. Ha esposto anni fa anche gli acquarelli di Fiume della mamma. Hanno avuto pure un discreto successo. Eloise ha sempre vissuto nel suo mondo, taciturna, ingenua direi. Sempre con gli occhi spalancati di stupore ad ogni novità. Occhi neri e una valanga di riccioli neri che niente hanno a che vedere con noi. Marc è uguale a mia madre, fine nei portamenti, biondo e occhi chiari, io sono come mio padre. Un armadio a tre ante, e il viso da vecchio. Mio padre l’ho sempre visto vecchio. Lui però ha classe da vendere. Nel suo negozio di antiquariato con il gessato grigio, il fazzolettino alla tasca della giacca in pendant con le calze, la camicia immacolata. Io sono allo stato brado. Sempre sullo sportivo. Eloise invece sempre con gli abiti svolazzanti e pieni di fiori, con l’aria vagante di una ragazzina anni settanta. Senza una ruga in viso, forse perché mangia pochissimo, è vegetariana, segue corsi di yoga, va dai pranoterapeuti, legge i tarocchi, credo pure che sia buddista. La vita è proprio strana. Come pensi che la prenderà la verità? Mia madre e mio padre sono morti, lei di un tumore, lui di un infarto, a distanza di un anno l’uno dall’altro, e non so se sia il caso di dire a mia sorella le sue vere origini. – La donna fece un gesto di impotenza. – Questo dipende da te. Saprai tu cosa fare. –
Arrivò l’autunno e le cose cominciarono a cambiare in modo convulso. Le
uccisioni nei forni erano arrivate a diecimila al giorno, l’aria era irrespirabile. Non arrivavano gli approvvigionamenti di cibo in modo regolare, e ormai i detenuti erano alla fame e allo stremo delle forze. Qualcuno aveva ipotizzato che sicuramente era dovuto al fatto che stava arrivando la salvezza, ma quasi la maggioranza pensava invece che ormai erano alla fine dei loro giorni, e che i tedeschi li avrebbero uccisi tutti, quale soluzione finale del problema. In quei giorni Geza capì di essersi ammalato di tifo, nonostante avesse cercato nel suo piccolo di tenersi pulito. Geza pesava ormai poco più di trenta chili, e il suo corpo si stava ricoprendo di pustole rosse. Aveva la febbre da giorni e non riusciva quasi più ad alzarsi dalla branda. Franz non poté fare altro che avvertire i medici. Un contagio è pur sempre pericoloso e anche se avesse voluto risparmiarlo capì che non poteva fare altrimenti. Il 13 ottobre lo portarono via, e nessuno lo vide più. Eric nel frattempo lo aveva ritratto in ogni momento, anche durante la malattia e aveva consegnato i disegni a Franz. Il mattino che portarono Geza alla morte, Eric era fuori al lavoro e quando la sera tornò alla baracca, vedendo il letto vuoto, comprese. Duecentotrentasette era lì accanto, e guardava il materasso pulcioso e sporco con gli occhi pieni di lacrime. Non si erano mai più parlati, per evitare di compromettere Eric da non are per pazzo. In quel momento entrò Franz e la vide. Si accorse anche che nessuno la stava guardando, chi nel proprio letto, chi camminando su e giù per la stanza pensava al proprio destino. Franz guardò Eric negli occhi, poi un impercettibile gesto della testa ammiccò alla bambina. Non riusciva a credere che nel suo block ci fosse in quel momento una bambina pulita e ben vestita. Da dove era arrivata? – Geza non ha avuto scampo. La bambina chi è? – Chiese in italiano. – Non so chi sia. Viene e Va. Pensavo fossi io l’unica a vederla. Se la vedi anche tu non so se è buon segno.– E’ un angelo, vero? – Chiese Franz ma guardando lei e non lui. – Se lo fosse mi avrebbe portato via da questo posto. – Aveva risposto Eric. Franz era uscito, molto scosso dall’accaduto. Eric rimase a vegliare la branda senza salirvi. Pregava e guardava Duecentotrentasette che non si era mossa di un millimetro. – Devo andarmene da qui. – Aveva detto in un sussurro. – Non ce la faccio più. Mi ammalerò lo sento. Stamattina avevo i brividi. Sono il primo sintomo. Non voglio crepare in questo posto come una bestia. - Duecentotrentasette gli rispose.
– Non posso dire cosa puoi o devi fare. Quando ho provato a dirti scappa, non ci sei riuscito. Chissà, forse ti avrebbero sparato nel bosco. Chi può essere certo delle proprie azioni? Geza è morto, lo hanno bruciato oggi pomeriggio. Però non so dire se è meglio aspettare in un miracolo, o provare a scappare, o lasciarsi andare. Sono impotente. – Era piena di rabbia, e di disperazione. – Voglio andare al filo. – Andare al filo era l’espressione per dire voglio suicidarmi. Molti disperati si buttavano contro il filo dell’alta tensione e si levavano dal mondo con le proprie mani. – Duecentotrentasette non rispose. Eric non aveva mai saputo di sua figlia, anche se lei conosceva i fatti, ma non se la sentì di dirglielo. Temeva che avrebbe commesso una pazzia. O che sarebbe morto con un peso sul cuore ancora più grande di quello che stava sopportando. La raccomandazione dei suoi dei, “non entrare troppo nella vita degli umani” mai come in quel momento le tornò alla mente. “Non sono come noi. Ci abbiamo provato all’inizio dei tempi, ma gli umani hanno sempre fatto in modo di cambiare la storia. Di modificarci. Loro devono stare nella loro dimensione, noi nella nostra.” Le venne in mente un certo Cinquecentoventotto che era stato esiliato per aver fatto impazzire un grande scrittore, e quindi non disse nulla. Il mattino dopo Eric si alzò dal pavimento dove aveva dormito, con un terribile mal di testa. Gli sembrava di sentire le cannonate nel cervello, la febbre era salita, se la sentiva come un ruscello freddo scorrergli sotto la pelle. Si era ammalato, la sua fine era vicina. Non sarebbe sopravvissuto, gli avrebbero impedito di lavorare, sarebbe finito in quarantena senza cure e sarebbe morto. E nessuno avrebbe mai raccontato la sua storia. Dimenticato, per sempre. Nessuno avrebbe detto a Birgit del suo amore immenso e smisurato. Di come avrebbe voluto invecchiare con lei, ritraendola fino alla morte. Franz entrò nel block. Aveva un barattolino di miele e del pane raffermo. – Sei stanco amico mio? Non ti sei alzato per andare al lavoro, ti ho coperto, ma domattina potrei non riuscire a farlo. – Si era chinato sul letto, dove c’era anche Duecentotrentasette. – Mangia, ti farà bene. – Lo imboccò, ma Eric non riusciva nemmeno a deglutire. – Miele. Che sapore fantastico. Sono anni che non lo mangio. Anzi, mi è sempre piaciuto poco, adesso è la cosa più buona io non abbia mai assaggiato. – Si mise a piangere. Che fallimento la sua esistenza. Magro finito, vestito di cenci, i piedi spaccati dagli zoccoli e pieni di croste e pustole, adesso il tifo. – Mi sono ammalato Franz. Ho il tifo, stammi lontano. – Franz si girò verso la
bambina. – Farò il possibile per lui, ma ormai posso fare proprio poco. Vorrei sollevarlo di peso, e portarlo in un ospedale. Farlo guarire. E’ così difficile prendere decisioni qui, ne va della vita di tutti. Di me, di lui e di tutti i componenti della baracca. – Eric lo ascoltò e disse:- Promettimi che se muoio tu porterai i miei disegni a Birgit Hermann, in Svizzera, a Lucerna. Promettilo. Di tutto il resto non m'importa. Se devo morire per questo, morirò anche domani, ma tu non mi dimenticare. Non voglio che la mia storia sia dimenticata. – Franz gli prese una mano. Nella sua grossa mano calda quella di Eric era quella ormai di uno scheletro. – Te lo prometto. – Pochi giorni dopo il suo corpo si ricoprì di petecchie emorragiche, e i dolori addominali gli impedirono di alzarsi anche solo per urinare. Però si fece forza. La notte del 27 ottobre 1944 si alzò. Andò a piedi scalzi fino alla porta del block, lasciata sempre aperta da Franz, e s'incamminò verso il filo dell’alta tensione. La torretta di osservazione in quel momento illuminava un’altra parte del campo e lui si lanciò con un ultimo balzo contro i fili. L’urto scatenò la carica voltaica che lo uccise all’istante. Duecentotrentasette dietro di lui, urlò. Il suo corpo si trasformò immediatamente, grandi ali grigie uscirono dal suo corpo che si era ingrandito fino quasi a tre metri. Era l’urlo di disperazione che aveva trattenuto fino ad allora. L’aria fu come investita da un’onda d’urto, e tutto attorno tremò. Le sentinelle sulla torretta girarono la luce sul corpo di Eric illuminandolo, mentre la loro postazione stava tremando come investita da un terremoto. Ballò sotto il loro piedi, senza crollare. Franz sentì il suo letto come sollevarsi e sbattere, e si svegliò. Era vestito, e dovette solo infilarsi gli stivali. Corse fuori, certo che Eric avesse combinato qualcosa. Arrivò al block e sentì gli urli dei militari che dicevano “è andato al filo” ma lui fu più veloce di loro. Accanto al corpo esanime del suo amico c’era Duecentotrentasette, alta tre metri, grigia, un essere sovrannaturale, con ali grandissime e il ghigno di un demone. Respirava con affanno, e aveva gli occhi rossi puntati su entrambi. – Non dovrà essere dimenticato. – La rassicurò, poi aspettò l’arrivo degli altri, che si adoperarono per levare il povero Eric dai fili che ancora sfrigolavano. Lo avvolsero in una coperta sudicia e Franz lo sollevò da terra. Gli altri rinchiusi erano usciti dai block e guardavano la scena senza dire niente, i loro volti contratti. Franz lo portò fino ad un camioncino con il cassone aperto dove
giacevano altri corpi e lo mise sopra il mucchio. Poi tornò nella sua camerata, e cercò i disegni che si erano accumulati in tre mesi a cinquantadue ritratti a carboncino. I più scioccanti erano i primi piani dei prigionieri malati o denutriti, scavati nel viso, e con gli occhi spenti. Li guardò ad uno ad uno e poi li nascose del suo bagaglio. I russi non avrebbero tardato ad arrivare, era solo questione di giorni, si disse. Li avrebbe consegnati a Birgit, ad ogni costo. Si rimise a dormire, e sognò che da Auschwitz si libravano in aria milioni di libellule colorate, che volavano verso la libertà.
Nei due mesi seguenti che anticiparono l'arrivo dell'Armata Rossa il Comandante del Campo ordinò di distruggere i forni crematori di Birkenau e di uccidere i prigionieri sistematicamente, questo in un debole tentativo di cancellare le prove del genocidio. L'Armata Russa varcò il cancello di Auschwitz il 27 gennaio 1945, liberandolo. I superstiti erano circa diciassettemila, e versavano i condizioni disperate, tanto da essere stati chiamati morto vivente, spettro, morto che cammina. I tedeschi si erano dati alla fuga, e non erano riusciti a sopprimerli tutti. Agli occhi dei giovanissimi soldati russi apparvero i primi “vecchi minuti” che dopo un'ulteriore verifica si capì che erano bambini. Le baracche erano state aperte e molti prigionieri erano usciti, accovacciandosi nella melma di ghiaccio e neve, scalzi, malati. C'erano file di corpi nelle fosse comuni, ammonticchiati uno sull'altro, morti per fucilazione. L'odore di morte era dappertutto. Nessuno sembrava capire che era tutto finito. I russi gridavano che erano venuti per liberarli, molti non capivano il russo, molti non riuscivano a rendersi conto. Non fu un giorno di gioia, incredibilmente fu un giorno come un altro. Il fuoco che i tedeschi avevano appiccato distrusse 29 depositi su 34 dei beni sequestrati ai prigionieri, le baracche erano piene di malati che dormivano sulle loro feci. Non avevano la forza per gioire, non riuscivano a realizzare che presto sarebbero tornati a casa. Franz era scappato il giorno dopo del suo sogno, il 1 novembre del 1944. La confusione che regnava all'interno del campo permise che nessuno si accorse della sua fuga. Scappò nei campi e nei boschi e raggiunse illeso il confine italiano quattordici giorni dopo. Indossava abiti civili e masticando l'italiano come aveva imparato chiese ospitalità a Trieste ad una famiglia contadina. Lì conobbe Aldo, un giovane soldato italiano che aveva disertato, e che divise con lui il rifugio per il tempo necessario. Rimasero nascosti fino alla fine della guerra nel vecchio fienile. Nel 1945 a guerra finita si trovò a decidere di cosa fare del suo futuro. La spartizione dell'Europa era stata decisa, e la Polonia sarebbe ata sotto il dominio russo di
Stalin. Dopo il trattato di Yalta molti dovettero decidere se emigrare all'estero o tornare in patria. Franz considerò il suo futuro esclusivamente in base alla missione che si era prefissato. Se fosse rimasto a casa sarebbe diventato impossibile muoversi per l'Europa, partire per la Svizzera in piena libertà. Così decise di andare in Italia. Franz diventò così uno dei mezzo milione di Polacchi che aveva preferito trovare fortuna all'estero. Rimase in Italia solo fino al settembre del 1945 poi si trasferì in Gran Bretagna dove poté entrare con facilità, quasi fosse protetto da qualche stella in Cielo. Trovò lavoro in una fattoria del Galles dove divenne pastore. Amava stare all'aria aperta con il gregge. In questo modo poteva godere della natura e al contempo non doveva intrattenere rapporti con estranei. Conobbe Audrey, di nove anni più giovane, e se ne innamorò. Si sposarono nel 1956, proprio nell'anno in cui il suo Paese si stava ribellando contro il regime russo, e un anno dopo i suoi fratelli gli comunicarono che sua madre era venuta a mancare. Nella lettera i fratelli gli ricordarono l'impegno preso con Birgit come aveva detto suo madre loro in diverse occasioni. Duecentotrentasette gli fece visita la notte successiva. Dopo la sua trasformazione non era più accaduto. Franz pensò di averla sognata, in realtà le era comparsa nei prati dove pascolava le pecore. Si era avvicinata, vestita nell'identico modo del periodo di detenzione di Eric. Era livida in viso, come se non avesse mai superato il trauma del suicidio dell'amico. - Franz, se temi qualcosa, sappi che niente ti succederà. Sarò io la destinataria dei disegni, so che in un modo o l'altro arriveranno a me e io saprò cosa farci. Ma se tu non prendi l'iniziativa di portarli a Birgit, tutto andrà perduto. - L'uomo si era messo a piangere. I ricordi di quei giorni lo presero come in una morsa, e le confidò i suoi timori. Avrebbe preferito dimenticare per sempre. Duecentotrentasette gli rammentò i crucci dell'italiano. - Lui aveva capito che ogni possibilità che ti offre la vita va presa sul momento. Rimandare non è il più delle volte produttivo, anzi è deleterio. Ti ricordi della sua amarezza, di quanto fosse affranto per non aver inseguito l'amore al momento giusto? Lui non voleva essere dimenticato e tu sei il custode della sua vita. Vuoi essere il custode o la tomba dei suoi disegni? E' della sua arte e della sua vitalità di cui stiamo parlando. Della sua bontà, del suo animo libero ma fragile. Lui necessita di un riscatto. Tutti devono vedere le condizioni dei suoi compagni deportati, dei loro sguardi persi nel vuoto. Delle sofferenze. Del male. Perché non ci sia una reiterazione dell'Olocausto, che tutti prendano coscienza di fatti che andranno inevitabilmente dimenticati. Molti contesteranno il fatto che sia mai esistita la Shoah. Alcuni metteranno in atto delle calunnie, delle diffamazioni. Franz, ti prego. Non dimenticare. - Franz rimase sotto shock per alcuni giorni, la moglie
non sapendo cosa gli fosse capitato iniziò ad esortarlo a parlare. Franz alla fine decise di parlarne con Audrey. La donna rimase molto colpita dalla storia, e si commosse. Franz le fece vedere il ritratto della madre, l'unico che avesse conservato per sé. Gli altri disegni erano dentro una busta nascosti in un vecchio baule, e Audrey volle vederli ad ogni costo. Sfiorò i fogli con le dita, e guardandolo negli occhi decise per lui. - Devi trovare Birgit, prima che sia troppo tardi. Oggi questa donna avrà circa quarant'anni, quindi non è troppo tardi. Ti accompagnerò io, se lo desideri. - I due misero da parte i soldi per il viaggio, e nel dicembre 1957, in auto, presero la volta della Svizzera. Lucerna si presentò in tutto il suo splendore. La città appartenente al cantone tedesco si affacciava sul fiume Reuss, racchiusa da alte montagne. Franz e Audrey arrivano il giorno dopo il Natale. Girarono la città percorrendo le strade di acciottolato, osservando le altre guglie dei palazzi, molti di loro affrescati. Una città dall'aspetto romantico e quasi fiabesco. Rimasero colpiti da quanto fosse curata, e di quante persone vi abitassero. Una città molto grande, con tanti turisti. Convennero entrambi che la scelta di Philippe non fosse stata casuale. Era stato protettivo nei confronti di Birgit, e lo si evinceva anche dal posto che lui aveva scelto per aprire il suo negozio e far vivere la famiglia. Fu molto facile scoprire dove fosse l'attività di Philippe Blanc, che era molto conosciuto e benvoluto. Dopo mezza giornata lo individuarono in una bella strada centrale. La vetrina era pulita, ed in esposizione c'era un grande mobile intagliato di noce con sopra appoggiato un set d'argento da tè inglese. La coppia rimase in osservazione per qualche minuto. Franz aveva cominciato a sudare, incapace quasi di muoversi. Fu la moglie a prenderlo per un gomito e spingerlo dentro. Una volta entrati il profumo di cera per mobili, un misto di prodotti naturali quali la cera d'api e la carnauba e il pungente della trementina li avvolse. Dentro vi regnava il silenzio, che ben si legava alla presenza di mobili d'epoca, e di oggetti di valore. Non c'era nessuno, o almeno parve a Franz. Improvvisamente si materializzò d'incanto il proprietario. Franz lo scrutò da capo a piedi. Distinto, altissimo. Il viso molto segnato, gli parve molto più vecchio dei suoi probabili cinquant'anni. - Buonasera. - disse Philippe senza muoversi. Gli aveva parlato in tedesco e Franz poté rispondergli. Philippe però corrugò la fronte. Conosceva bene la cadenza dei tedeschi svizzeri, come dei tedeschi di madre patria, ma quell'omone gigantesco non poteva essere nell'uno nell'altro. Eppure i lineamenti, il colore intenso dei suoi occhi lo mettevano senza ombra di dubbio fra gli ariani. Aveva l'aspetto di un barbaro, lo immaginò con i capelli biondissimi lunghi a cavallo,
munito di spada e scudo. - Mi chiamo Franz Kowalski, lei è mia moglie Audrey. Siamo arrivati dal Galles per parlare con il signor Philippe. E' lei? - Philippe si ritrasse leggermente, senza perdere la compostezza. - Dipende. Chi siete e cosa volete? - Adesso sì aveva capito. La pronuncia era polacca, con una leggera sfumatura anglosassone. Si allarmò, la guerra non era finita da molto, giravano strani personaggi in cerca di fama, o disperati alla richiesta di prestiti. - E' una lunga storia e io non sono bravo a raccontare. Ho conosciuto Eric Zeller ad Auschwitz nel 1944, mi ha parlato di lei. Anche di sua moglie Birgit. Philippe sbiancò, e barcollò. - Non ho idea di chi stiate parlando. - Negò ma con poca fermezza e Audrey si intromise. Parlò in inglese, ma Philippe afferrò il senso delle sue parole. - So che possa essere difficile tornare a quei momenti, anche per mio marito non è stata una eggiata. Tutt'altro. La prego di ascoltarlo. E' veramente importante.- Philippe corse alla porta, e girò il cartellino, che diceva “chiuso”, ed invitò la coppia a seguirlo nel retro. Nella stanza dove lui teneva il telefono sull'antico scrittoio da dove effettuava le compravendite c'erano anche due sedie dove Franz e Audrey presero posto. - Sentiamo. Ricordo vagamente, molto vagamente questo signor Eric. - Esordì con noncuranza, facendo ben attenzione che arrivasse il messaggio di totale indifferenza alla questione. - Questi sono i disegni di Eric. - Franz partì dalla fine della storia. - Mi ha chiesto prima di morire che li avesse Birgit. L'ha conosciuta perché lei andò nel suo negozio per incorniciarle un acquarello per il suo compleanno. - Philippe ebbe un gesto incondizionato e si voltò verso la parete. L'acquarello era lì, era sempre stato lì dal giorno dell'apertura del negozio. I due seguirono il suo sguardo e rimasero il silenzio ammirando il piccolo quadretto. - Ora ricordo. - Ammise l'antiquario. Poi toccò la busta. - Posso vedere? - Franz annuì. L'uomo l'aprì con delicatezza. Li osservò uno ad uno, un groppo gli strinse la gola.
- Volete venderli? Non c'è mercato per questa roba. La gente vuole solo dimenticare, superare. - Franz si irrigidì, offeso e mortificato. - Le ho detto che li ho portati per sua moglie, sono le ultime volontà di un uomo che ha sofferto in modo indicibile. Io stesso ho visto il suo percorso, l'ho vissuto e le posso assicurare che io stesso mi maledico ogni giorno per non aver fatto qualcosa per salvarlo. E lei mi accusa di volerli vendere? - Era diventato paonazzo e Audrey lo prese per un braccio, temendo che potesse perdere la pazienza per lanciarsi contro Philippe. - Non credo a mia moglie possano interessare. Lei lo conosceva appena, non erano amici. Anzi, lei ne aveva paura. Quando lo incontravamo si voltava sempre dall'altra parte. Avete perso il vostro tempo. Andate a guardarvi il lago, lo troverete più interessante. - Era furioso, si stava rendendo conto che fra Birgit e Eric doveva esserci stato qualcosa di cui non era a conoscenza. Franz fece per riprendersi la busta, ma Philippe fu più veloce di lui, e li trattenne. - Cosa volete insinuare? - Philippe aveva la voce spezzata dalla rabbia. - Diglielo Franz, levati questo peso. - A parlare era stata Audrey. - Cosa dovete dirmi? Che erano amanti? Ma per favore, Birgit è una signora. Non si sarebbe mai mischiata con quell'...- Non terminò la frase. - Ebreo. - Disse Franz con veemenza. - Sì, appunto. Ebreo. Quelli hanno fatto solo danni. - Franz si alzò. Tremava e allo stesso tempo respirava affannosamente, tentando di controllarsi. - Lei è sempre stato in questa bella città, ignaro di cosa stesse succedendo in Europa. L'Europa è uscita a pezzi da un conflitto ma anche dalle proprie follie. L'antisemitismo è stata una follia. Io l'ho vissuta in prima persona e posso testimoniarlo. Birgit e Eric si amavano, fu Eric a lasciarla perché potesse vivere una vita migliore. L'ha affidata a lei, per non vederla rimanere vittima di persecuzioni. Il minimo che possa fare è consegnare i disegni a sua moglie, lei capirà. Se lei non riesce ad arrivare al concetto non so proprio cosa dirle. La mia missione finisce qui. Sono venuto nonostante la paura, affrontando gli spettri che ogni notte vengono a trovarmi. Sono venuto per Eric, perché non sia mai dimenticato. La vita ci mette davanti delle scelte e io ho sbagliato abbastanza da non dover trovare almeno uno spiraglio alle mie mancanze. Buona giornata. -
Afferrò Audrey per le spalle. - Andiamo cara, al signore non dobbiamo più niente. Sarà sua responsabilità il destino delle memorie di Eric. - Nell'uscire chiuse la porta con un colpo, facendola sobbalzare sui cardini. Audrey si strinse al marito e se ne andarono. Philippe non li vide mai più. Rimase il resto del pomeriggio con la busta in mano, poi la mise nel cassetto della scrivania, assieme alla cornice che tanto aveva amato e che non avrebbe mai voluto ricevere.
Robert alzò gli occhi sulla donna. - Mio padre non è un bastardo. Non credo ad una sola parola di quello che dici. Lo disse debolmente, aspettandosi una conferma alle sue parole. - Mi spiace ma andò così. - Robert si alzò e fece un giro nella stanza. Barcollava, era ormai completamente ubriaco. Aprì un'altra bottiglia. Ne offrì un sorso alla donna, che rifiutò. - Bere non ti servirà. - Robert scolò una lunga sorsata, e si versò del vino sul pigiama. - Insomma tu vieni qui a dirmi che mia madre ha messo al mondo una figlia che non è propriamente mia sorella e che mio padre ha negato l'evidenza? Che fine hanno fatto i disegni? Non mi dire che sono in questa casa. La smonterò pezzo per pezzo per trovarli e tirarli dentro il camino. - La donna osservò il fuoco. - Credo che dovresti metterci un ciocco, si sta spegnendo. - Ah, sei tale e quale Gianfranco, mi stai dicendo che non so neppure tenere il fuoco. - Borbottò, poi tirò con forza un pezzo di legno nel camino. - Soddisfatta? Dove sono quei disegni?-
Nel 1957 Birgit aveva già messo al mondo, oltre ad Eloise nel 1944 anche Marc nel 1949 e Robert nel 1956. Da Fiume si era portata dietro la fedele Mia che però nel 1949 decise di tornare a Fiume, dalla famiglia. Il suo fidanzato storico l'aveva attesa per tutto il tempo, e appena tornata da Lucerna la sposò. L'anno
successivo nacque un bambino che chiamò Eric. La stima per quell'uomo buono e gentile non l'aveva mai perduta, e purtroppo nessuno a Fiume ormai si ricordava di lui. Sapevano che aveva tentato la fuga, e che probabilmente era stato arrestato, ma non c'erano state informazioni certe sulla sua fine. Fine certa,visto che non era più tornato nella sua città. Arturo il barbiere, sopravvissuto da Bergen Belsen ipotizzava che fosse rimasto vittima in qualche campo di concentramento. Fatto sta che il suo negozio di cornici era stato venduto. Come pure il suo appartamento, e durante la ristrutturazione il nuovo proprietario aveva trovato alcuni fogli ormai sbiaditi dall'umidità che una volta dovevano essere dei disegni e li gettò nell'immondizia. Di Eric ormai rimaneva solo il pensiero di un ricordo in Birgit e Mia. Philippe invece dopo l'incontro fece orecchie da mercante, e non disse niente a nessuno. Osservava la moglie con occhi diversi. Era pur sempre innamoratissimo, ma il fatto che lei gli avesse nascosto il suo rapporto con Eric non gli dava pace. Adesso guardava anche Eloise con occhi nuovi, pur non avendone certezze, ipotizzava che lei non fosse sua figlia. Non gli assomigliava per niente. Né di aspetto né di carattere. Lei era sempre sulle nuvole, in cerca di cose nuove da scoprire, e del negozio non le importava niente. Solo Marc si era apionato alle vecchie sedie Luigi XIV e studiava con profitto. Robert poi non se ne parli. Sfaticato, senza alcuna velleità se non scrivere. Mia aveva lasciato la casa di Birgit con molto dispiacere. Quegli anni erano stati felici con loro, e non aveva mai avuto problema alcuno. Si era messa da parte un bel gruzzoletto e tornare a Fiume era solo il suo obiettivo. Sposarsi e avere anche lei tanti bambini. Lo fece nel 1949 e nel 1950 nacque un bambino che chiamarono Eric. Suo marito dopo la nascita di Eric decise di trasferirsi a Trieste. Nel frattempo Duecentotrentasette fece visita a Franz un’ultima volta nel 1958. Franz era fuori dalla porta di casa che stava intagliando un pezzo di legno, quando la bambina gli apparve davanti. Lui la salutò. – Ciao Musetta, ho fatto come avevamo stabilito. Ma temo di aver sbagliato. Avrei dovuto consegnare i disegni a Birgit. Credo che il signor antiquario li terrà nascosti per l’eternità. – Duecentotrentasette era molto triste. – Per molti umani prendere coscienza dei fatti è molto difficile. Credo che dovrò intervenire personalmente. Tu come stai? – Franz dette uno sguardo al verde prato davanti alla casa. – Molto meglio, anche se mi è impossibile dimenticare. Certo i ricordi si appannano in continuazione, suppongo sia una forma di protezione che opera il cervello sulle memorie. A volte mi sorprendo a pensare che sia stato solo un
incubo, poi mi sveglio e capisco che purtroppo non lo è stato. Sono stato un ingenuo. All’inizio quel lavoro mi sembrava un’ottima alternativa all’arruolamento vero e proprio. Non mi andava di andare ad uccidere ragazzi della mia stessa età. Lì dentro credevo di trovare solo delle persone che dovessero lavorare, reclusi certo ma non destinati ad una fine atroce. Mi sono ricreduto immediatamente, ma cosa avrei dovuto fare? Ho chiuso per quanto potessi gli occhi e il cuore, e ho tirato avanti. Quando ho visto che non c’era più niente da fare ho disertato. Nessuno si è accorto della mia assenza. Come se non fossi mai esistito. Ho vagato per le campagne. In quel momento ricordo era pericolosissimo attraversare un campo a cielo aperto. C’erano soldati russi, cecchini, tedeschi. Ne sono uscito illeso, avo senza essere neppure visto e devo ammettere che considerando la mia statura e mole, sia stato un miracolo. Poi a Trieste, non in città, ma appena fuori una famiglia mi ha adottato. Ricordo che eravamo nascosti in due, il figlio della signora che mi ospitava e me. Il ragazzo, Aldo, era un disertore italiano, e parlava sempre della sua fidanzata Mia che era andata a lavorare in Svizzera presso una famiglia facoltosa se o forse tedesca, e sperava solo nella fine del conflitto per ricongiungersi con la sua donna. Io non ho mai parlato di me, e l’ho pregato di non confidarsi. Non avevo voglia di storie, volevo solo sopravvivere e starmene per i fatti miei. Avevo lasciato in Polonia tutti i miei cari, e pregavo ogni minuto che non gli capitasse niente di brutto. Devo molto a quelle persone. Quando ho capito che potevo di nuovo uscire alla luce del sole è stato come nascere di nuovo. Tornando al signor antiquario non penso abbia capito molto di quanto sia successo; lui vive nella sua gabbia dorata. - Duecentotrentasette lo ascoltava con gli occhi bassi. – Franz, la vicenda di Eric mi ha turbato profondamente. Non riesco più ad essere la stessa di prima. Ho tentato in ogni modo di respingere l’umanità ma adesso sento di farne parte. Voglio avere un ruolo attivo. Sono stanca di assistere alle vicende umane, coinvolgendomi ma anche tentando di non farne parte. Eric mi ha fatto vedere il lato impotente della vita. Quando le decisioni sono prese da altri e tu non puoi agire. Un po’ come capita a noi muse, che dobbiamo solo stare al servizio degli artisti. Ho chiesto un incontro per la mia umanizzazione. I vertici stanno discutendo la questione da mesi. Mi è giunta voce che fino al 1989 questo sarà impossibile, in quanto aspettano la fine dell’esilio di un certo Cinquecentoventotto che dovrebbe sostituirmi. A quanto si dice in giro questa musa non si è mai preoccupata di seguire le regole. Fa di testa sua, al contrario di me che sono sempre stata ligia. Quando mi concederanno il libero arbitrio e una forma umana, saprò cosa fare dei disegni di Eric. Tu hai fatto il possibile, adesso tocca a me. – Gli mostrò un orecchino. Piccolo, una perla montata su oro giallo.
– Questa è di Birgit. L’ho trafugata insieme ai tuoi documenti e quelli di Eric. Li ho fatto sparire dagli occhi del mondo. Tu rimarrai per sempre invisibile, lui tornerà ad essere ricordato al momento giusto. – Franz osservò il gioiello. – Come farai a recapitarlo?– Non lo so ancora. Ci sto pensando. – Si dileguò, scomparendogli davanti agli occhi. Audrey si affacciò alla porta. – Con chi stavi parlando? – Franz le rivolse un sorriso disarmante. – Con un angelo. O un demone. Non lo so. Forse solo con me stesso. –
Lucerna - Trieste, 1957-1975
Una mattina di marzo del 1957, quando Robert aveva solo pochi mesi, Birgit si svegliò bruscamente dopo aver fatto uno strano sogno. Nel sogno volavano libellule colorate nel cielo di Fiume. Una fitta di nostalgia l'assalì. Lucerna era una splendida città dove vivere, ma il mare Adriatico ormai ce l'aveva nel sangue e dopo colazione e aver allattato il piccolo, decise di parlarne con Philippe. Philippe ebbe una reazione molto forte, che la colse impreparata. Il marito snocciolò tutti i vantaggi del vivere in Svizzera, e affermò che la Jugoslavia non era ancora pronta per accoglierli nuovamente. La Jugoslavia di Tito non era certo l'Italia. Purtroppo Birgit non aveva mai conosciuto il lato testardo del marito, e riuscì a convincerlo solo dopo molto tempo. Alla fine la spuntò a metà: avrebbero comprato un casale nei dintorni di Trieste, e non a Fiume. Birgit acconsentì: erano ati undici anni. Philippe comprò il casolare tramite l'intermediazione di un uomo del posto, il padre di Gianfranco e Trieste dette loro il bentornato nel 1969. Negli anni precedenti l'Italia aveva iniziato un periodo fiorente per la sua ripresa economica, caratterizzato dal boom economico degli anni sessanta. L'Italia aveva subito una radicale trasformazione da paese agricolo ad una delle sette potenze industriali a livello mondiale. Il cambiamento era tangibile anche nei costumi e nella mentalità giovanile. La rivoluzione del '68 aveva visto la nascita di una nuova consapevolezza politica, nonché la nascita di gruppi di estrema sinistra. Anche l'Europa dell'Est conobbe la Primavera di Praga, ossia il tentativo della Cecoslovacchia di sottrarsi
all'egemonia russa. Erano gli anni di Aldo Moro e di Enrico Berlinguer, e quelli dell'autunno caldo del '69 quando i movimenti studenteschi si trovarono uniti nella protesta coi movimenti operai dei sindacati. Philippe mosse un'ultima debole protesta quando ci fu la strage di piazza Fontana a Milano nel dicembre dello stesso anno, pregando la moglie di tornare in Svizzera ma lei negò categoricamente. Si era stancata di scappare, negli anni della maturità si era sentita più forte per affrontare il suo futuro senza farsi troppi pensieri. Sarebbe rimasta in Italia, volente o nolente. La prima cosa che vide sulla televisione fu un duetto fra Sylvie Vartan e Lelio Luttazzi che cantavano “Ritorno a Trieste”, e la cosa la fece sorridere. “Più che si diventa vecchi, più che viene voglia di piangere come i bambini”. Forse era davvero così. Appena arrivata si mise in contatto con Mia che viveva in città con Aldo, il disertore italiano che aveva condiviso con Franz i mesi della fuga. Il loro Eric si era sposato l'anno prima con una donna ebrea, Rachel, molto più grande di lui e che aspettava una bambina. Birgit cercava una domestica e Mia si prestò per tornare al suo lavoro. Poi qualche anno dopo fu Rachel a prendere il suo posto. Philippe alla fine si era quasi abituato al pendolarismo. Il negozio a Lucerna non aveva mai visto un giorno di crisi, Marc lo seguiva con profitto. Eloise viaggiava molto per via delle sue mostre, e nel 1972 ci fu l'inaugurazione di una mostra permanente a New York di arte contemporanea che le fruttò successo e fama. Robert, il piccolo di casa, bighellonava, viaggiava per diletto, e non pensava minimamente né allo studio né al suo futuro. Scriveva maledettamente bene, era l'unica cosa che gli veniva senza sforzo. Mia e Birgit avevano avuto diverse occasioni per parlare di Eric. Birgit lo ricordava sempre con malinconia, e gli occhi le si velavano di lacrime. Mia lo menzionava sempre quando doveva fare un paragone su qualcuno visto in televisione. - Eric era un vero signore. Non un pagliaccio del genere. - E aveva confessato alla sua padrona che il nome Eric per il figlio lo aveva scelto per quel motivo. Per lo stile e la classe, per la pacatezza e la raffinatezza dei modi del corniciaio. Nessuna delle due aveva idea di cosa gli fosse capitato, e quindi in un certo modo era diventato per loro come un ricordo indolore. Però qualcosa ancora doveva accadere per cambiare il corso dei disegni di Eric. Duecentotrentasette visto che Philippe non si era mai deciso di rendere pubblici i ritratti, e visto che non aveva mai fatto parola con la moglie del tesoretto che teneva in un baule in soffitta, decise di tentare un'ultima carta. Ormai il tempo per essere musa era finito. I vertici avevano deciso che sarebbe nata umana nel dicembre 1989, e quindi il tempo era agli sgoccioli. Una mattina di ottobre del 1975 Duecentotrentasette comparve a Sarah, la figlia di Rachel. Le due erano in
cucina, e la bambina di cinque anni faceva compagnia alla madre, pasticciando con la pasta fresca. Duecentotrentasette si sedette accanto a Sarah, al tavolo. La madre era uscita in giardino, a stendere i panni. - Ciao. Chi sei? - Aveva chiesto Sarah, incuriosita. - Sono un'amica di Birgit. Lo sai che tiene un tesoro, di sopra nel baule?- Un tesoro? - Si. Vorresti vederlo? Seguimi. - Sarah seguì la musa, mentre si puliva le mani nel grembiulino bianco. Quando furono in soffitta, la musa indicò il baule a Sarah. Lei cominciò a trafficare, e in quel momento entrò Rachel che l'aveva seguita. - Che stai facendo? Non si guarda nelle cose degli altri.- Sarah aveva tirato fuori i ritratti. - Mamma, guarda. Sembra quello che ha la nonna. - Rachel si chinò e sorrise. - Ma si, è vero. Sono di Eric Zeller, l'amico di nonna. Che belli che sono. - Fece per rimetterli al suo posto che vennero sorprese da Philippe. Rachel strinse la bambina a sé. - Mi scusi signor Blanc. Non abbiamo toccato niente, è la bambina che...- Lui la interruppe. - Che tocca le cose dei grandi e che non sono sue. Mi auguro che questo sia solo un fatto spiacevole che non si ripeterà, o dovrò prendere seri provvedimenti. Sua suocera non si sarebbe mai permessa, aveva la nostra totale fiducia. - Rachel si sentì trattata da ladra, e arrossì. - Non si ripeterà.- Disse. Ma Philippe, ati due mesi la licenziò. Quei dannati disegni saltavano fuori come dotati di anima. Ci mise un lucchetto, molto grosso, e lo infilò sotto un vecchio letto di ferro. E pregò che fosse l'ultima volta che doveva averci a che fare.
Robert ormai completamente ubriaco inveì contro la donna. – Stai facendo apparire mio padre come un essere diabolico. Lui amava mia
madre, il suo era solo senso di protezione. Non voglio sapere altro. – Si accasciò davanti a lei, esausto. – Non sono qui per giudicare nessuno. Espongo i fatti come sono andati. Qui si tratta di decisioni. Decisioni prese da tutti. Ognuno ha fatto quello che riteneva giusto, o quello che riteneva necessario, o solo quello che gli era stato dettato dall’anima. Decisioni prese dalla paura, dalla rabbia, dalla gelosia, dall’amore. Gli umani sono i soli responsabili delle loro azioni. L’istinto animale prevede il nutrirsi, il ripararsi, la continuazione della specie. In un ritmo ciclico e difficilmente tramutabile. Gli umani pensano, e il solo pensiero cambia il naturale ciclo delle vicende. Si parla spesso di valori: amicizia, amore, rispetto per l’altro. Però non sempre si seguono gli ideali. A volte si è costretti a subire le decisioni di altri, a volte ci si deve far forza per mutare il destino. Ogni personaggio di questa storia ha preso strade, e ha subito decisioni altrui. Gli umani non sono soli, e sono i rapporti che creano disagi, o meraviglia. Philippe era in buona fede, in cuor suo. Birgit faceva altrettanto. Solo che un giorno hanno dovuto prendere atto che le bugie erano state per troppo tempo usate come copertura. Sei sicuro di non voler sapere? E’ una tua decisione. Che potrebbe ancora cambiare il futuro. – Robert sospirò. Era abile la donna a manipolarlo. O forse non lo stava facendo. Lo metteva davanti alle cose. – Okey, mi sta bene. Spero solo che sia un resoconto conclusivo.-
Trieste, 1989
Birgit si ammalò di cancro ai polmoni nel 1988. Fu una notizia sconvolgente, perché lei non aveva mai fumato in vita sua, come del resto i suoi familiari. La diagnosi non fu rassicurante, le probabilità di guarire erano veramente poche. Di ritorno da una visita all’ospedale, mentre sistemava il soprabito nell’armadio, le cadde un’occhiata al mazzo di chiavi di Philippe. Mazzo di chiavi da cui non si separava mai. Se l’era dimenticato sulla toilette della camera, in mezzo alle sue spazzole dal manico d’avorio. Rigirò le chiavi fra le mani, tentando di capire cosa mai potessero aprire. Una volta non lo avrebbe mai fatto; fra loro esisteva un tacito patto di riservatezza. Lui non aveva mai letto i suoi diari, lei non aveva mai ficcato il naso negli affari del marito. Quel pomeriggio, invece lei sentì
come un’urgenza dentro da colmare. Nelle chiavi c’era forse un invito implicito a scoprire qualcosa di importante. Si gingillò per qualche minuto, confrontando la piccola chiave che aveva attirato la sua attenzione con le toppe presenti in camera. Non c’era corresponsione. Quella chiave aveva un nastrino blu attaccato, logoro e sporco. Non era la chiave di una porta, ma bensì di un lucchetto. La provò ugualmente alla scrivania del marito, nello studio di sotto. Poi girò per la casa, infine si diresse in soffitta. Ormai era una settantenne, e non era semplice inginocchiarsi per guardare sotto il vecchio letto di ferro, ma lo fece. E quando sollevò la vecchia coperta vide il baule. Con fatica lo tirò fuori. Il lucchetto fece uno scatto metallico, e lei poté sollevare il coperchio. Un buon odore di carta le arrivò alle narici. I suoi occhi si spalancarono. Non poteva credere a cosa stavano vedendo il quel momento. Sopra un mucchio di fogli c’era il suo orecchino. Quello che aveva perduto nel laboratorio di Eric. Lo prese con delicatezza. Lo osservò e si commosse alle lacrime. Poi con la mano tremante, prese il primo foglietto, che era un indirizzo. C’era un appunto, scritto a matita da una mano infantile. “Gentile Signora Birgit, quando troverà i disegni di Eric la prego di inviarli a Julia presso la casa editrice Ambrosia di Viareggio. Lei saprà cosa farne. La ringrazio.” La firma era un numero, 2 3 7. Sollevò i disegni, erano cinquantadue, tutti firmati da Eric in basso a destra. I più erano a carboncino, ed erano bellissimi quanto inquietanti. Erano ritratti di detenuti, immortalati nella loro terribile quotidianità, dietro i loro volti c’erano le torrette di sorveglianza, il filo spinato o file di baracche fatiscenti dove stavano appoggiati uomini vestiti con pigiami a righe. Figure indistinte, ma drammatiche nel loro modo di stare lì, come se esprimessero la loro inutilità, la loro impotenza. Prima dell’ultimo disegno trovò un foglio piegato. Era una lettera di Eric, che nessuno aveva inspiegabilmente mai visto. La lettera era scritta a matita. Le sue mani cominciarono a tremare. I suoi occhi erano talmente pieni di lacrime che le parole le si offuscarono davanti, e dovette rileggerla più volte.
Birgit, amatissima. Chissà se mi leggerai mai. Chissà se mai ci rivedremo. Riuscirai mai a perdonarmi? Ogni giorno ripenso ai nostri brevi incontri e mi pento di non aver preso la decisione giusta per noi. Sono stato un vigliacco, e ti ho perduta. I rimorsi e i rimpianti non mi abbandonano mai. Potevo solo amarti e non ci sono riuscito. In questo posto fatico a stare in piedi; vorrei solo avere la forza per camminare verso di te. Aspetto solo il giorno che tutto qui finisca, perché lo
sento che tutto questo debba finire, prima o poi. Avrò solo un unico scopo, che è il ricongiungermi a te. Non ti ho mai dimenticata, anche se ci sono giorni quasi di buio in cui il tuo volto si confonde con quello di chi mi sta accanto. Ho provato a ritrarti, e non riesco. Perdonami, Birgit. Non è per mancanza di amore, che è immenso per te. E’ solo che in questo posto si perdono le memorie, ci si dimentica anche di chi siamo. Spero solo di essere ancora importante per te, e che non mi dimenticherai. A volte mi manca il respiro, e allora mi immagino che una bambina, coi capelli neri e ricci venga a farmi compagnia. Certi giorni vorrei gridare al mondo che esisto, altre vorrei nascondermi per dimenticare che sono finito. Direi una bugia nel confessarti che sei la mia unica speranza per sopravvivere: io non ho più sogni. Spero solo un giorno di camminare con te, al tuo fianco. Anche solo per vedere un’ultima volta il tuo sorriso. Con tutto l’amore che posso. Eric
Auschwitz, 25 settembre 1944.
Birgit fu scossa da un pianto disperato. Quando si sentì meglio, telefonò a Mia. I rapporti dopo il licenziamento di Rachel si erano raffreddati, anche se Birgit non aveva mai creduto alla versione di Philippe che l’aveva accusata di avergli rubato un cammeo di corallo. Mia sembrò non particolarmente sorpresa. Si fece accompagnare da Aldo a casa della donna, che le consegnò una busta. Indirizzata a Julia, una ragazza che abitava sulla costa tirrenica. – Sono le ultime volontà d’Eric. Spedisci questa busta domani mattina. Mi scuso ancora per il comportamento di Philippe. In certi casi la paura della verità può far arrivare le persone a brutti comportamenti. Sarah come sta? – Mia era diventata molto grassa, e questo aveva mantenuto il suo viso rubicondo e senza rughe. – E’ incinta. Così giovane. Ha solo vent’anni. Si è innamorata di un ragazzo che lavora nei cantieri di Monfalcone, un calabrese. Gelosissimo, ma anche molto premuroso. Si sposeranno l’anno prossimo. Hanno deciso di tramandare il mio
nome. Si chiamerà Mia, come la bisnonna. – Fece un sorriso compiaciuto. – Sono certa che sarà una bambina meravigliosa, come la bisnonna. – Mia si schernì. – Abbiamo fatto le cose in fretta, in famiglia. Non credo ci siano tante bisnonne di sessantasette anni in giro. – Birgit l’abbraccio e baciò sulle guance. – Non so veramente cosa avrei fatto senza di te. Sei stata sempre vicino a me e ai miei bambini. Non potrò mai dimenticarlo. – L’accompagnò alla porta, dove era rimasto Aldo con il cappello in mano. – Buonasera signora Birgit. – disse l’uomo, accennando un movimento d’assenso con il capo. – Quando se ne furono andati si sedette alla scrivania dello studio, il mazzo di chiavi ben in evidenza, e si mise ad aspettare l’arrivo del marito.
Robert sorrise. - Quell'indirizzo lo avevo scritto io. Non so come, una notte feci un sogno. Sognai una bambina che mi disse di segnarmi quel nome, Julia. Mi svegliai pieno d’ansia, e lo trascrissi in un foglietto. Ero piccolo, forse otto o nove anni. Ma il giorno dopo era scomparso. E me ne dimenticai. Mi stai dicendo che è comparso anni dopo, in un baule di cui io non avevo conoscenza. La tua storia è strana, amica mia. Ricordo la sera che i miei ebbero quella discussione. E' stata la prima e ultima volta che li vidi scossi. Avevo poco più di trent'anni e avevo visto i miei genitori sempre rispettosi l'uno verso l'altro; mai una parola brutta, mai uno screzio. Quello che si pensa debba essere un matrimonio. Senza problemi né scossoni. Ma tu ne sai sicuramente più di me, vero? Io ricordo solo la voce alta che usciva dallo studio, ma non capii di cosa stessero parlando. Quando mia madre venne a tavola aveva due profonde occhiaie, che io attribuii alla malattia. Ma evidentemente avevano discusso. Come andò?La donna guardò il fuoco ormai quasi spento. Brillavano i tizzoni sotto la cenere, la stanza ormai era fredda. Fuori pioveva ancora, ma con meno potenza. - Tua madre attese nello studio e quando Philippe entrò, lui notò immediatamente le chiavi. I loro sguardi s’incrociarono. Lui fece un balzo, per prenderle. Lei fu fulminea, e ci mise una mano sopra, senza smettere di guardarlo.
- Birgit. Per favore. - Il tono della sua voce era una supplica. - Vogliamo vivere di menzogne per il tempo che ci rimane? - Chiese lei, affranta. - Non cambierà niente, Birgit. Dove hai messo i disegni? Voglio bruciarli, sono trent'anni che mi ossessionano. - Birgit lo guardò con aria di sfida. - Certo, bruciarli. Dimenticare gli ultimi mesi di un uomo che aveva perso tutto. Facile. Non te lo permetterò. - Philippe fece un giro su se stesso, non voleva parlarne, ma quando fu alla porta, tornò sui i. - Tu parli di menzogne durate una vita. Bugie fatte are per verità. Non hai il diritto di parlare. Credi che non sappia d’Eloise? Mi hai ingannato da sempre, eppure io non ho mai smesso di amarti. Invece per te sono stato solo un volgare ripiego. - Birgit arrossì. - Philippe ciò che dici è ingiusto. Ti ho amato e ti amo ancora. Non avrei mai potuto sposarti e restarti fedele e darti dei figli, altrimenti. - Lui fece un sorriso amaro, pieno di tristezza. - Dei figli, hai detto bene. Non tre figli. - Birgit si alzò dalla sedia dietro la scrivania. Era furiosa, ma anche piena di vergogna, una sensazione che non aveva mai provato e che non aveva idea di com’esprimere. - Philippe, per Dio, calmati. - Philippe fece una risata. - Dio, quale Dio? Oh si, bisogna parlare di fede. Di averne tanta. Io n’avuta per tutti, in questa casa. Essere consapevole delle tue menzogne e fingere che andasse tutto bene, vedere Eloise che non mi appartiene per niente, che ha preso evidentemente dal tuo amore lontano... tu pensi che io non abbia mai visto nulla, invece ho ingoiato il rospo. Quando è venuto quel polacco con i disegni avrei dovuto eliminarli subito, ma invece no. Stupidamente li ho conservati, perché li vedesse la ficcanaso della donna delle pulizie, sua figlia, tu e chissà chi altri. Certo per te è semplice. Onoriamo la figura di questo fantomatico uomo perfetto, pubblichiamo i suoi ritratti, gridiamo al mondo che Eloise è la figlia, e la mia dignità andrà a farsi benedire. Ridicolizzato, sarò, come minimo. Ma tu non te ne curi. L'importante è solo il tuo egoismo sia salvo. Vita facile, senza alcun problema, soldi, benessere. Un disgraziato che muore da qualche parte in Europa che ti ha amato nonostante tu abbia scelto l'antiquario, il tonto. Colui che protegge, che fa in modo che tutto fili liscio. Che accudisca ad una bastarda. - La
sua voce si alzava ad ogni frase, era sudato e i suoi occhi diventati come fessure. Birgit non l'aveva mai visto in quelle condizioni. - Perdonami, Philippe. Perdonami se ho tenuto in grembo Eloise, che è tua figlia. Tu l'hai amata e preferita ai ragazzi, l'hai viziata, coccolata, le hai permesso di fare ogni cosa le saltasse in testa. Lei ti ha sempre ricambiato. Non è il padre biologico che l'ha amata da sempre, Eric non sapeva neppure della sua esistenza. E anche io ho coltivato dubbi fino alla sua nascita. Ad ogni modo – fece una pausa per respirare, visto che urlava anche lei – sono felice di aver dato ad Eric tutto l'amore di cui potevo. Non aveva niente. Non aveva famiglia, affetti, gli portarono via tutto, negozio, casa. Era solo, disperato. Noi non possiamo neppure immaginare cosa abbia ato per anni. Di come sia arrivato ad arrendersi, perché ormai sapeva che non c'era più niente da fare. Ci ha lasciato qualcosa di sé, per non essere dimenticato, per non dimenticare quanto gli uomini possano essere spietati e crudeli in nome di un ideale folle. Saresti dovuto venire da me, mostrarmeli, avremmo parlato, ci saremo chiariti. Accusi me di menzogne, e tu, che hai nascosto qualcosa che mi era stato mandato? Sono miei quei disegni, anzi se vogliamo essere precisi, sono d’Eloise. Sono la memoria d’Eric. - Philippe le puntò un dito contro, tremava da capo a piedi. - Tu non dirai mai niente ad Eloise. Un segreto che ci siamo tenuti dentro dal 1944 rimarrà tale. Un segreto. O me n’andrò in Svizzera e non sentirai mai più parlare di me. Parlerò con Marc e Robert, sono grandi ma penseranno che sei solo una madre che ha sulla coscienza una figlia nata da una relazione clandestina, e credo non potranno mai perdonarti. Decidi tu. E dimmi subito dove sono finiti quei disegni! - Lo disse gridando, completando l'ultima frase con un pugno che tirò sulla scrivania. - Non te lo dirò mai dove sono. Adesso ho capito. Ho dovuto procedere io o tu non n’avresti mai fatto nulla. Ti saresti portato nella tomba tutto, anche la rabbia e l'orgoglio. Non dirò niente ad Eloise: il tempo farà il suo corso, e lei un giorno saprà tutto. Spero non arrivi ad odiarti. - Fece il giro della scrivania, ed uscì. Sulla porta, prima di voltarsi per andare in stanza da letto vide Robert, in piedi in cucina, molto allarmato. - Mamma, tutto bene? - Aveva detto con un filo di voce?- Certo. Non ti preoccupare, quando s’invecchia si diventa polemici. - Gli aveva lanciato uno sguardo triste, e poi si era allontanata. Robert era entrato nello
studio, suo padre gli dava le spalle. - E' successo qualcosa, papà? Ho visto la mamma piuttosto scossa. - Philippe non si era voltato e con la voce rotta dalle emozioni disse solo che la malattia l'aveva spaventata molto, e che tutti sarebbero dovuti starle vicino. Robert annuì. Richiuse la porta e con essa tutti i segreti di famiglia.
Robert si avvicinò barcollando alla finestra. Aveva quasi smesso di piovere e si stava alzando una nebbiolina morbida dal terreno. - Gianfranco ha sempre ragione. Dovrebbero metterlo in televisione a fare le previsioni meteo. - La donna non gli rispose. - Quindi, nel 1989 i disegni sono stati spediti, a Julia. Non ricordo la città, però. Che fine hanno fatto? Perché ancora la verità non è saltata fuori, i miei sono morti senza dirci mai niente. Il segreto è morto con loro. Come dovrei fare per... - Si voltò. La donna non c'era più. Il fuoco con un guizzo si spense del tutto. Una leggera luce cominciò a far capolino dalle finestre. L'alba. E tornò anche la luce elettrica. Nella stanza non c'era nessuno, il bicchiere che la donna teneva in mano era appoggiato in terra, ancora pieno. Fece due i verso il camino e allora lo notò. Sulla poltrona del padre, accartocciato e ingiallito c'era un foglietto. Riconobbe la sua scrittura. Pensò che era arrivato il momento di scoprire dove fossero finiti quei disegni.
Tre
Roma/Viareggio, 1 dicembre 2014
Lorenzo aprì la porta di casa. Erano le prime ore del mattino, ed era ancora sconvolto e sudato. Aveva guidato come un pazzo per arrivare dalla moglie, incurante dei semafori rossi e degli stop. Chiamò Flori a gran voce, senza fare un o per entrare. Come non fosse stata casa sua. Flori lo sentì e si alzò di scatto, poi entrò in salotto, in vestaglia, ancora assonnata. Appena lo vide gli corse incontro e gli buttò le braccia al collo. Lorenzo la strinse a sé e sentì il profumo della sua pelle; la baciò sul collo e la strinse per la vita. – Sono un deficiente. Lo sai vero che hai sposato un deficiente.- Non erano domande, affermazioni. Lei si spostò e accese la luce, e vide i suoi capelli bianchi, dritti sulla testa. Sbigottita indicò con un dito la sua testa. – Che ti è successo? Hai visto un fantasma? – Lorenzo la riabbracciò. – Flori non farmi domande, non chiedermi mai niente di questa notte. Tua madre mi ha chiamato per dirmi del bambino, la notizia mi ha sconvolto, lo ammetto. Mi devo essere addormentato, ho fatto un terribile incubo. Ho capito che il posto è qui accanto a te, e non ho perso tempo. Sono qui, ti chiedo scusa. Questo figlio è una benedizione e io sono un deficiente. – Flori lo baciò. Adesso si stava per commuovere ma non voleva farlo, non voleva che capisse quanto fosse stata male per quei giorni di lontananza. – Non ne parliamo più. Scarica pure la valigia, è in macchina? – Lorenzo si animò, spaventato come poche ore prima. – No! La valigia non c’è, non ho avuto tempo. Non m’importa degli abiti, io in quell’appartamento non ci torno. Manco da morto. Mi comprerò abiti nuovi e poi la cosa più importante è nostro figlio. Il resto può aspettare. – Finalmente entrò nel salotto, e si accasciò sul divano come se una molla lo avesse abbandonato. Flori si sedette accanto a lui.
– Vuoi un caffè? – Lui le strinse una mano, con gratitudine. – Doppio, e corretto. – Flori andò in cucina ma nel voltarsi lo vide mettere le mani al viso. – Andrà tutto bene, Lory. Lo ha detto la mamma. – Lui si voltò a guardarla e quello che riuscì a fare fu solo un debole sorriso.
“Quella mattina sono andato a farmi un giro a Villa Ada. Volevo vedere a tutti i costi Seicentosessantasei. Alla panchina non c’era, ho aspettato un po’. Mi sono crogiolato al sole, sdraiandomi all’indietro, per abbronzarmi. Faceva un gran freddo, ma il cielo era terso e senza nuvole. Dopo una mezz’oretta quando già pensavo di levare i tacchi, è arrivato. Camminava tenendosi la testa con le mani, in grembo. Gliela avevano mozzata, alla fine. – Che schifo, fratè! – ho detto disgustato. – Non ne parliamo, per favore. Mi sto seccando di tutte queste mutilazioni. Insomma, te ne vai in giro fighetto con la t-shirt ultimo grido e io sono un mostro. Credo manderò una missiva di protesta. Come mai da queste parti? – Io ho fatto il vago. – Ho capito. Hai fatto una cazzata.- Ha detto lui. – Ieri sera ho perso il controllo. Credo d’averla spaventata. Mi sono balzate fuori le ali. – Seicentosessantasei ha girato la sua testa verso di me, e io mi sono ritrovato a guardarlo negli occhi all’altezza della pancia. Sembra assurdo, ma è la verità. – Cosa ti ha fatto arrabbiare? Deve essere stato un fatto molto grave. – Io ho fatto di no con la testa. Mi sono tolto gli occhiali e li ho messi sulla testa. – Ero geloso di quel cretino che le stava intorno. Gli ho fatto prendere un bell’accidente. Credo non le si avvicinerà più. Amico, io ho un problema. – Lui mi ha guardato sornione: - Solo uno? Interessante. – Io mi sono spazientito, e gli ho risposto male. – E non sfottere. A me una cosa simile non è mai capitata in tanti secoli d’onorato servizio. Voglio umanizzarmi e stare con lei. Penso di amarla. – L’ho detta di getto sta cosa, e poi mi sono messo a braccia conserte a guardare altrove. Lui si è finalmente seduto e la sua testa sul grembo pareva un pallone da rugby rotto. – Cinquecentoventotto, parliamoci chiaro. Parliamoci tra muse. Sai benissimo che innamorarsi è un gran rottura di coglioni! – L’aveva detto. Si, pensandoci bene a fidanzarsi con un dio greco non sarebbe poi stato così male se i suoceri non fossero tanto prepotenti. Un pensiero in comune a noi due era sempre stato questo: non puoi avere come suocera Minerva, quella non ha altro per la testa che serpenti pronti ad ucciderti, e Zeus non se parli. Quello se sgarri ti fa prendere la 380 senza are da un contratto
Enel. E mischiarsi con gli umani peggio del peggio. Ma io ero innamorato. Ero geloso. L’amore non è forse una cosa meravigliosa? Più che farfalle nello stomaco io ci sentivo le pantegane, rosicchiarmi dentro. Seicentosessantasei però non si è mostrato solidale coi sentimenti romantici che stavo esternando e mi ha detto solo che avrei dovuto parlarne con Duecentotrentasette, la musa che anni prima aveva deciso di lasciare l’organizzazione. – E dove la trovo? E poi sarà capace di vedermi? Sarà disposta a parlarmi? – Lui si è arrabbiato tantissimo. – Ma non so se sarà disposta, è un tentativo il mio per rimetterti le ali per aria, accidenti. Lei non se la a mica tanto bene. Ha scelto di diventare umana per non so più quale scopo, è ato tanto tempo, e non so neppure se è riuscita nei propositi. Fatto sta che lei come ex musa si ricorda benissimo della sua vita ata, ti vede e anche molto bene e può parlarti. Voci di corridoio la indicano al Nord, sulla costa tirrenica. Credo si sia messa a fare la libraia, o una cosa del genere. D’altronde non potrebbe fare altrimenti. Ce la vedi un ex musa che guida un pullman? Non siamo ridicoli, per favore. Duecentotrentasette ti dirà quale sia l’iter necessario per la parte burocratica. Inoltre le puoi chiedere se si trova bene, al mondo. Senza voli sulla città e doversi comprare da mangiare, da bere e da vestirsi. E soggetto a malattie, sai! Tu potresti ammalarti. Invecchiare e diventare un vecchio rimbambito e rugoso. – L’idea di invecchiare mi ha rimesso le ali in cielo. Effettivamente. Seicentosessantasei mi ha lanciato un'occhiata di sufficienza. - Chiamo La Segretaria. Ha un debole per me, arriverà in un lampo. - L'ho guardato stranito. Lui conosce un sacco di gente, io mi limito sempre a rapporti superficiali, e ho chiesto chi fosse. - La Segretaria è quella che si occupa delle nostre faccende nei confronti dell'Olimpo. Ti spiegherà un sacco di cose, così smetterai di farmi domande. Nessuno meglio di lei potrà consigliarti. - Si è messo zitto con gli occhi chiusi e dopo pochi istanti si è materializzata una splendida creatura. Altissima, capelli neri a caschetto, le labbra a cuore, truccatissima. La sua minigonna di lattex nero è stato un duro colpo da guardare. Lei non mi ha degnato di uno sguardo, si è chinata sulla testa mozzata di Seicentosessantasei e gli ha dato un bacetto sulla testa. - Amore, ma come ti sei conciato? - Ha esordito, facendo una mossa di finto disgusto. - Tesoro, lo sai che la mia vita è un inferno. - Ed è scoppiato a ridere, seguito da lei. Evidentemente era una battuta, ma io non l'ho capita subito. - E' da almeno un anno che non ti fai sentire. Sono rammaricata, per non dire arrabbiatissima. Non mi pensi mai, deduco. - Ha aperto leggermente le gambe affusolate e fasciate da stivaloni alti fino al ginocchio, e io ho tossito. Seicentosessantasei ha avuto un sussulto. - Non fare così baby, non sono in condizioni di saltarti addosso. Ho perso la testa per te. - Altra risata incontrollata e lei pure. Doveva essere un'altra battuta, e io mi
sono sentito un tantino fuori luogo. Questi si stavano stuzzicando come due amanti. - Lui è Cinquecentoventotto, il mio amico combina casini. - Lei si è voltata lentamente, mi ha squadrato con disprezzo, e poi rivolta a Seicentosessantasei ha detto, acida: - Il cretino che mi ha fatto lavorare per anni dietro la sua pratica di esilio. Quello che ha ammazzato Poe. Bella musa. Avrei preferito fossi stata chiamata per altro motivo. Cosa vuole da me?- Insomma, era come se non fossi presente. - Ehi, io non ho ammazzato Poe, questa è una leggenda metropolitana. Era esaurito, e gli ha preso un accidenti.- Ho esclamato, offeso. - Taci, per favore. Non complicare le cose, se La Segretaria ti snobba non saprò che fare. - Seicentosessantasei accompagnò la frase con uno sguardo di supplica. Si vede che sapeva con chi aveva a che fare. - Spara, musa dei poveri. Non ho molto tempo. Anzi, per te ne ho perso anche troppo. - Io le ho chiesto a cosa si riferisse. - I tuoi comportamenti sono umani, il più delle volte. Non segui il prontuario. Fai di testa tua. Diciamo che l'ultima volta sono intervenuta per non farti incenerire dal Boss in persona. Ti ho fatto avere la “condizionale”, esilio dalle pratiche per ottantatre anni e spicci. Dici niente, a quest'ora eri già stato levato di mezzo. Poi ho dovuto preparare le pratiche per la tua riabilitazione. Il tutto per permettere ad un'altra musa di compiere la sua missione. Ma è inutile parlarti, sei così stupido che non capiresti. - Io ho guardato prima lei poi il mio amico, dovetti sembrare sinceramente sorpreso, perché Seicentosessantasei ha abbassato gli occhi come dire, mi dispiace. - Mi sono innamorato di un'umana, e voglio dimettermi e chiedere il permesso per diventarlo anche io. - C'è stato un lungo attimo di silenzio, molto imbarazzato, e poi La Segretaria è scoppiata a ridere, così forte che tirando indietro la testa gli uccelli posati sulle fronde di un albero si solo levati in volo come avessero sentito uno sparo. - Che ci trovi da ridere? - ho chiesto. - Lei si è ricomposta e poi mi è venuta sulla faccia, il suo naso perfetto contro il mio. - Lei lo sa che la ami? - Io ho fatto no con la testa. - E lei ti ama? Sei corrisposto? - Io ho fatto spallucce. - Non saprei, non ne ho parlato con lei. Deduco dai suoi comportamenti... - ma lei mi ha interrotto. - Hai dato certezza ai miei dubbi. Tu sei proprio scemo. - e Seicentosessantasei ha cominciato a ghignare, la sua testa gli ballonzolava sulle gambe, come in preda ad un attacco di convulsioni. Nessuno mi prende sul serio. - Ho detto e ho fatto per alzarmi. Lei mi ha bloccato, la sua mano era ferma come una morsa sul mio braccio. - L'amore è una cosa seria, sbruffone. Non diamo libero arbitrio a casaccio, noi. Tu sei una musa e non sai fare bene neppure quello, figuriamoci mandarti in giro umano, con la memoria retroattiva al tuo ato, sapendo quanto sei privo di valori. Pieno di te e convinto che il mondo ti giri attorno. Non dirò niente ai vertici, o stavolta ti beccherai una scarica che te la ricordi per l'eternità. - Mi ha umiliato.
Io sono una musa con tutti gli attributi. Sono la migliore. Poe confermerebbe subito. Ma anche no, a ripensarci bene. - So benissimo cosa è l'amore o non ti avrei scomodato. Mia è bella, e io voglio aiutarla nel suo percorso. Voglio proteggerla. Non è amore questo? - I due mi hanno guardato, e fatto un leggero movimento con la testa a dire “non ci siamo”. - Mi sono spazientito. - Non voglio parlare con voi. Non siamo sulla stessa lunghezza d'onda. - La Segretaria a quel punto mi ha chiesto se era vero che la sera prima avessi mostrato le mie ali e il reale aspetto a Mia. - Si, non succede spesso. Ma capita. - Lei ha fatto un sospiro e ha cominciato a parlarmi come se fossi un tantino tardo. Cinquecentoventotto, lo sai che hai commesso una violazione? Sai che dovrei fare rapporto? Sai cosa comporta? - Ho pensato ad un nuovo esilio. Allontanamento dalle pratiche? - Lei ha fatto un cenno a Seicentosessantasei e gli ha detto : - Ma questo ha mai letto il prontuario? - Ero proprio stanco. Quella era veramente una Segretaria, ma anche un magistrato, un poliziotto e un'istitutrice tutto insieme. - Non l'ho mai letto e me ne frego. Io sono libero. E voglio fare quello che credo della mia vita. - Seicentosessantasei ha obiettato che la nostra non era una vita, ma un eterno viaggiare. Senza fine. E che avremmo dovuto occuparci di creare capolavori d'arte invece di star dietro agli umani. - Non potete aiutarmi? Non c'è nessuno con cui io possa parlare? - Ho fatto un ultimo tentativo, la mia voce era quasi un pigolio. - Digli di Duecentotrentasette. Digli dove può trovarla. - La Segretaria finalmente ha ascoltato il mio amico. - Va bene. Ma fra qualche giorno, oggi è in ospedale. Ha tentato il suicidio. Domani dovrebbero dimetterla. - Il modo come lo ha detto mi ha colpito. Sembrava ci tenesse molto alla vita di questa ex musa. - La conosci bene, vero? - Ho chiesto e mi sono seduto di nuovo. La Segretaria ha perso per un momento il suo tono severo, e credo che fosse commossa. O per lo meno, ho visto un luccichio improvviso nelle sue ciglia nere e girate all'indietro. - Lei è stata l'unica musa a cui abbiamo concesso la dispensa di diventare umana e abbandonare lo stato divino. La sua storia ci ha colpito tutti. Ha sofferto molto. Era una musa allegra e piena di idee e vitalità, poi mentre tu soggiornavi alle Maldive o chissà dove, prima dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale ha conosciuto un umano di una sensibilità fuori dal comune. Un uomo buono, gentile, che aveva il massimo rispetto per tutti. Senza distinzioni. Un artista. Un pittore che amava ritrarre gli altri nei momenti di vita quotidiani. Un uomo che aveva talmente paura di ferire gli altri da lasciarsi trascinare nel baratro dell'orrore. Un uomo che ha finito le speranze. Duecentotrentasette gli è stata vicina, ma questo l'ha destabilizzata. Ha chiesto di diventare umana per portare avanti una missione: fare in modo che lui non fosse dimenticato. Che non fosse mai dimenticato cosa gli fosse capitato. Questo è amore, capisci, questo è
amore. - Non ha detto altro, poi si è rivolta a Seicentosessantasei. - Amore mio, devo andare. Mi ha fatto piacere rivederti. Ma non voglio più vederti sanguinante e senza testa. - Lui le ha confidato che il suo prossimo lavoro sarebbe stato fare una suora assassina in un film horror americano. Lei ha fatto un sorriso dolce e lo ha baciato, sulla bocca. Poi è scomparsa avvolta da luci soffuse. - E adesso. Dove trovo Duecentotrentasette? - Lui ancora sotto beatitudine del bacio de La Segretaria Pitonessa ha mormorato che mi avrebbe portato lui, tra qualche giorno. Non mi restò altro che tornare a casa.”
Robert Blanc venne svegliato dal bussare alla porta di Gianfranco. Stava picchiando le nocche con violenza da quasi cinque minuti. Si alzò barcollando da terra, toccandosi la testa. Aprì all'amico, ma stava a stento in piedi. - Cosa è successo stanotte? Cosa è quel casino? - disse l'omone appena entrato. Sul pavimento c'erano i vecchi diari della mamma di Robert, aperti alla rinfusa. Un vecchio baule aperto regnava nel centro della stanza, davanti al camino. - Ho mal di testa. Devo aver fatto un incubo. Non ricordo. Ho trovato le memorie di mamma. Ho letto cose che forse non avrei dovuto. - Gianfranco si spostò veloce in cucina a preparare un caffè doppio. - Ci sono delle aspirine nel mobiletto del bagno. Prendine una e mezzo. Quanto hai bevuto, non ti ricordavo alcolista. Se dovessi dire la tua bevanda preferita non esiterei a dire latte e menta. - Robert entrò nel bagno, e tenendosi al lavabo rovistò nel mobiletto dietro lo specchio in cerca di un analgesico. - Cercavo un'ispirazione, e ho trovato la verità. Fa lo stesso? Non lo so neppure io. Tu sapevi dell'ebreo? - Gianfranco grugnì. - Eh si, lo sapevi. Solo noi poveri figlioli eravamo all'oscuro. Immagino. Gianfranco mise su la macchinetta del caffè da sei e tirò fuori da una vecchia credenza una grossa tazza bianca. - Quando avrai preso il caffè ne parliamo. - Robert si chiuse in bagno, stette sul gabinetto per un tempo interminabile. Si sciacquò la faccia e si lavò i denti. Uscì tutto spettinato. In condizioni spaventose. - Cosa sai della storia? - Mormorò, facendo attenzione nel sedersi al tavolo della
cucina di non cadere per terra. - Tutto. Ma Mia sa anche che fine hanno fatto i ritratti. - Robert dette un'occhiata al giardino. Il sole era alto nel cielo e creava chiazze dorate sull'erba ancora bagnata. - Dove la trovo? - Chiese. Gianfranco prese il cellulare e compose il numero. Esitò nel premere invio, ma Robert con un cenno del capo gli fece capire che poteva chiamarla. - Pronto, sono Franco. Si, ciao Sarah. Mamma come sta? Stazionaria, va bene. Senti, ho qui davanti a me Robert Blanc. Si. Ha scoperto di Zeller. Tua madre potrebbe parlarci? No, capisco. Non è in condizioni. Capisco, si. La malattia, non ricorda, capisco. Tua figlia come sta? Bene. Bene. A Roma, si. Scrive. Si, ho saputo. Ma non ho trovato i suoi libri, come si intitolano. Ah, nome d'arte? Gianfranco fissò Robert mentre ascoltava Sarah dall'altra parte dell'apparecchio. - Capisco. Non avrei mai pensato. Ad ogni modo i ritratti furono spediti a Viareggio. Si. Non ha mai chiamato nessuno per confermarne il ricevimento. Andati perduti, temi? Ah, capisco. Si. L'indirizzo era stato scritto sulla busta da Birgit. Julia. Ok. E' ato tanto tempo. Robert sta bene, ma ha alzato il gomito, ieri sera. Te lo saluto. Riferisco. Ti faccio sapere. Grazie Sarah, ciao. - Robert aspettò che Gianfranco dicesse qualcosa, intanto il caffè era venuto su. L'uomo corse in cucina, e spense il fuoco prima che il caffè uscisse a sporcare l'acciaio della cucina. Lo versò fumante nella tazza e l'aroma riempì la stanza. - Il tuo caffè è il migliore del mondo. - Borbottò Robert. - Che ti ha detto di Mia? - Gianfranco disse che la vecchietta ormai non era in grado di parlare, ormai la senilità l'aveva ridotta a momenti di lucidità e momenti di assenza. Mia, invece, la nipote, stava a Roma. Robert lo guardò con aria interrogativa. Mia chi? - Mia Zeller. Si chiama Mia come la bisnonna. Ha cambiato il cognome come le suggerì già quando era piccola e scriveva le favole per i compagni delle elementari. Mia le ha dato retta. Mia Zeller è la scrittrice di fantasy che a quanto si dice in giro è molto brava, e famosa. - Robert scoppiò a ridere. - Non ci credo. Ricordo, adesso ricordo. L'anno scorso a Roma ad una presentazione del mio ultimo libro si presentò questa giovanissima e molto carina, che mi chiese di autografarle il libro. E in cambio mi regalò il suo. Mia Zeller. Mia come la governante di mia madre, Zeller come il padre di mia
sorella. La vita è strana. Questo mal di testa mi manderà all'ospedale. Buffo. Molto buffo a pensarci bene. - Gianfranco si versò un dito di caffè in un bicchiere di vetro, lo corresse con un goccio di stravecchio e lo tirò giù con una sorsata. - Julia. Sarah si ricorda del nome Julia, e della città di Viareggio. Non sarà facile verificare. - Disse Gianfranco. - Ho l'indirizzo completo. Mamma non ha gettato via il foglietto su cui era scritto. Lo sai che l'ho scritto io? - Fece un sorriso malinconico. - Non capisco. Spiegati. - disse Gianfranco. - E' una lunga storia, ci sono particolari che tu non sai. Fammi un favore, prendi il mio portatile. Credo che sarà facile. Se la Casa Editrice Ambrosia è sempre attiva, trovare il numero su internet sarà un gioco da ragazzi. - Robert Blanc digitò nel motore di ricerca “Ambrosia Editore” e immediatamente comparve il link del sito. Prese il cellulare e compose il numero. C'era la segreteria telefonica. “Siamo momentaneamente assenti. Lasciate il vostro numero. Sarete richiamati quanto prima”. - Robert esitò, e riattaccò. “Proverò più tardi”, si disse. Poi guardò l'ora. A New York erano le tre del mattino. Eloise magari stava ancora dormendo. O forse era appena rientrata da qualche party esclusivo di artistoidi radical chic. O da un convegno vegano filo buddista. Chiese a Gianfranco di rifare un caffè e decise di chiamarla più tardi.
Mia si alzò verso le undici del mattino. Non ricordava bene cosa fosse successo la notte precedente. Ricordava la cena da Marco, Emma. Poi Lorenzo. Già. Era venuto a parlarle, avevano avuto una discussione, lei lo aveva colpito con un ombrello. No. Si convinse di aver fatto un sogno orribile e si fece una doccia veloce. Stentava a ricordare. C'era un ragazzo, pure. Un bel ragazzo moro. Trovò sul cellulare una chiamata persa. Sua madre. Sarah. Preoccupata che fosse successo qualcosa la chiamò subito. La donna era di buonumore, invece. - Ho visto il giornale, sei in copertina. Sei bellissima. Sono orgogliosa di te. Mia spalancò gli occhi, molto sorpresa. - La redazione mi aveva detto che sarebbe uscito la prossima settimana. Ma è una notizia fantastica. Corro a comprarlo. E dell'intervista che ne pensi? - Sua madre tentò di nascondere una certa commozione che le aveva preso la voce.
- Sono felice che tu abbia raccontato di come ti sei inventata il tuo nome d'arte. Ho letto tutto alla nonna, sai che lei sembra ultimamente sempre nel suo mondo. Invece ha annuito e ripetuto: la mia ragazza, Mia. Eric, bravo. Era bravo. Un uomo buono. E poi è successa una cosa stranissima. Mentre leggevo il giornale alla nonna, ha chiamato Gianfranco, ricordi? Il tuttofare dei Blanc. Mi ha fatto domande su quei ritratti di cui parla sempre la nonna. Ha scoperto la verità, non sappiamo come. Non si sarebbe mai sognato nessuno di dirlo, come promessa a Birgit. Credo che però l'abbia presa bene. Te lo dico perché non si sa mai. Magari ti chiamerà per sapere qualcosa di più. - Mia la rassicurò. - Dirò solo quello che nonna mi ha detto. Nessun giudizio o pregiudizio. Peccato solo che i ritratti siano andati perduti. - Sarah abbassò il tono della voce. - Mia, non è detto. La nonna mi ha detto che tutto sta per concludersi. Detto da lei, con lucidità, mi ha fatto venire la pelle d'oca. Erano anni che non la vedevo come stamattina. Sembra avere di nuovo voglia di vivere.- Mia le disse di darle un bacio da parte sua. Si cambiò e uscì per andare all'edicola.
Julia finì di raccontare la sua storia ad Adele alle prime luci dell’alba. Come se il suo racconto fosse arrivato sotto forma di musa fino a Robert. Raccontò le stesse cose per filo e per segno, mentre Adele non era riuscita a fare alcun commento. Adele le sprimacciò il cuscino, e l’aiutò a sollevarsi. La schiena le doleva. Julia stava molto meglio, ed era già decisa di tornare a casa. Firmare il suo rilascio ospedaliero e tornare al lavoro. – I ritratti sono in ufficio, nella stanza delle idee. – Concluse. Adele la guardò incuriosita. Quella parte era stata omessa. – L’altro giorno, il postino. Quel plico andato perso. E’ stato spedito da Trieste, ho visto il timbro postale. Ho compreso immediatamente che era la cosa che aspettavo da settanta anni. Ti rendi conto, Adele? Settanta anni. Eppure ho reagito come mai avrei pensato. Mi ero immaginata in questi anni di prenderli uno a uno, di toccarli, di rimirarli per ore. Invece, mi sono spaventata. Li ho mollati sul tavolo. Come se non avessero niente a che fare con me. Ti chiederai il motivo. Il motivo sono i ricordi che li accompagnano. Per voi umani i ricordi, per fortuna o per dispetto, abbandonano la mente. Se ne vanno, in angoli remoti del cervello, dove il ripescaggio a volte è impossibile, o se ne estraggono
miniature, cammei spersonalizzati, o immagini sfocate. I ricordi vengono filtrati, smussati, accorciati, cambiati, ingigantiti, sono diversi dall’accaduto. Il più delle volte è come pensare ad un film che non abbiamo vissuto in prima persona, ma interpretato da altri. E’ il nostro cervello che ripara i traumi. Se le persone avessero percezione dei loro dolori per tutta la vita nello stesso identico modo di come li hanno vissuti, nessuno vivrebbe a lungo. Nessuno sarebbe sano di mente. Ma noi muse non succede questo. Noi abbiamo la memoria dell’immediato che non ci lascia mai. L’idea di dover riprendere in mano i disegni mi ha sconvolta. Ho tergiversato per giorni, poi ci si è messo pure Gaetano con la sua corte serrata. I fantasmi del ato sono venuti fuori come mosche da un sacco di spazzatura. Ho rivisto i momenti più bui in quei giorni. Persone trattate peggio delle bestie, spostate come merci da una parte all’altra. Ho rivisto i loro occhi dapprima meravigliati poi tristi a seguire, ed infine vuoti. Le loro carni floride sparire negli vestiti a righe, diventare ossa spolpate. Quando pioveva diventava tutto un mare di fango. Non riuscivano a camminarci dentro, perdevano gli zoccoli nella melma, rimanevano incollati al terreno. Camminavano come zombie, lo sguardo a terra per non inciampare. Nessun segno di rivolta, di opposizione. Sembrava che accettassero il loro destino senza ribellione. Muti, ciechi, senza ormai speranze, privi di ogni dignità. Ho visto la storia da sempre, il suo ripetersi, ho visto guerre e carestie. Ho sempre reagito bene. Se vogliamo. Questa volta non è successo. Ero arrabbiata. Sgomenta. Vedevo Eric trascinarsi ogni giorno verso il campo di lavoro, tornare la sera stremato. Appoggiarsi alle pareti della baracca, senza parlare. Il suo unico momento era quando poteva usare i carboncini. Non poteva sempre. Se lo avessero trovato sarebbe stato un uomo morto. Si nascondeva fuori dalla baracca, tra gli altri corpi dei suoi compagni di sventura, li osservava. Li ritraeva. Sono disegni crudi, fanno riflettere. Fanno piangere e urlare. Sono immagini che se li guardi una volta niente potrà essere più lo stesso. Ricordo teneva i carboncini in una piccola scatola di latta, che gli aveva regalato Franz. Verde. Una volta credo contenesse pasticche per la gola, o forse tabacco. Non saprei. La custodiva gelosamente sotto il pavimento di legno. Spostava una tavola marcia, e la metteva lì sotto. Io percorrevo in lungo e in largo il campo. Osservavo e la mia reazione era sbigottimento. L’odore era insopportabile. E’ un odore che quando ti entra nelle narici ti mescola il cervello. Ti entra nella pelle e nelle ossa. Non riesci più a tirartelo via. Spesso mentre dormo, lo sogno. Un puzzo acre di carne umana bruciata, di malattia, di sangue, di escrementi. I giorni avano e speravo la mia rabbia scemasse con la quotidianità. Invece non era così. Ogni giorno la mia rabbia aumentava. Perché era la consapevolezza che loro sarebbero restati immobili, incapaci di una qualsiasi reazione difensiva.
C’erano baracche adibite ai test medici. Le donne più sane e belle venivano scelte per esperimenti all’apparenza innocui, che poi si rivelarono di natura genetica. Le stesse dovevano prostituirsi. La scusa era che non volevano omosessualità né perversioni tra i detenuti, la realtà è che ne abusavano i carcerieri per i loro comodi. Fuori dal campo rapivano i bambini alle donne che nonostante fossero ebree, avevano concepito bambini ariani perfetti. Li portavano via alle madri, le madri erano costrette a riprodursi di nuovo con soldati e tedeschi geneticamente perfetti, per poi essere deportate e uccise. Molte non hanno più rivisto i loro figli. Molte non hanno mai saputo che fine avessero fatto. Nel campo c’erano donne a cui avevano chiesto di scegliere la vita o la morte dei propri figli, c’erano uomini a cui avevano ucciso moglie, figli, genitori. I vecchi erano i primi a morire. Molti avevano fatto a tempo solo ad uscire dai treni per essere gasati e cremati. La liberazione da parte dell’Armata Rossa trovò persone incredule, persone che non sapevano più se fossero ancora vive o morti viventi. Quando la guerra finì sperai veramente in una presa di coscienza mondiale del fatto. La mia rabbia aumentò quando mi resi conto che il problema doveva essere nascosto. La vergogna delle atrocità, e la dichiarazione che “molti non fossero ancora pronti per la verità”, fece in modo che dopo i processi ai nazisti, e liquidate le faccende, la gente dovesse dedicarsi ad altro. A ricostruire, a togliere le macerie, a far piazza pulita della guerra, a rimettere su l’economia. Sperai che gli Stati Uniti fero di più, ma non accadde nulla. Loro ed i russi avevano visti per primi i sopravvissuti e le loro condizioni, ma ognuno pensò bene di badare alle proprie faccende. Dimenticare era la cosa che andava fatta. Come se dimenticare ristabilisse ordine. Molti hanno temuto di non essere creduti. Come se la mente umana non fosse affidabile, chissà. ò molto tempo prima che qualcuno cominciasse a parlarne. Finalmente gli ex deportati cominciarono a trovare il coraggio di scoperchiare le verità celate. Con fatica, andando a cercare nel loro cuore momenti drammatici e volutamente cacciati nel fondo della memoria. Il pubblico cominciò ad interessarsi, ma la mia rabbia non scemò. Non era abbastanza, non si faceva abbastanza. Non comprendevo, probabilmente, che la speranza di rinascere era più forte del dolore subito. Non tolleravo l’idea che si dimenticasse in fretta, come trovare un proprio congiunto che ci ha tradito e chiudere un occhio. Era un fatto troppo grave. La responsabilità era di tutti. Di chi aveva messo in atto il procedimento, e di chi aveva ignorato volutamente e permesso. Una vergogna incancellabile. Diventando umana pensavo di essere più forte, ma come vedi anche io ho barcollato davanti alla busta. Mi sono rivista fragile. Sono settanta anni che mi sento la missione addosso e per essa ho sacrificato la mia vita. Non ho mai amato nessuno, non voglio nessuno. Non mi fido di nessuno. Eric mi avrebbe
rimproverato. Mi avrebbe dato un buffetto e detto di smetterla di strafare. Trovati un uomo e amalo. Ho avuto paura d’amare. Ho visto Gaetano ed è troppo. Troppo gentile. Troppo simpatico. Troppo bello. Ha mille qualità. Ma adesso che mi sono liberata dal peso, ho capito cosa devo fare. – Adele finalmente aprì bocca, ma solo per fare un sorriso.
Alle tre del pomeriggio Robert chiamò Eloise. Dovette aspettare il quinto squillo per la risposta. La sorella si era appena svegliata e per un secondo non riconobbe la voce del fratello. Non si sentivano spesso, e solitamente era lei che lo cercava. Entusiasta iniziò a parlare dell’autunno newyorkese, di come gli alberi avessero preso una bella colorazione gialla e rossa, di come fosse già freddo, e di come aspettasse con trepidazione l’inverno, la neve. Raccontò delle sue mostre, del fatto che lì si percepisse la libertà quasi in modo tangibile, di come avesse fatto amicizia con Nick, un ragazzo indiano che le aveva fatto conoscere persone diverse, tutti artisti, di come fosse felice. Robert l’ascoltò pazientemente, ogni tanto interrompendola con dei – ma va, che bello- senza riuscire a trovare un modo per portarla sull’argomento che gli premeva di più. Quando fu il suo turno, perché lei si era fermata per riprendere fiato, lui le disse di essere in Italia, a Trieste. Lei lo invitò ad aprirsi. Fu un fatto eccezionale. Solitamente lei parlava solo di se stessa, non perché fosse egocentrica, ma semplicemente genuina, spontanea. Il suo amore per la vita, per le piccole e grandi cose lo esprimeva senza reticenze, noncurante del giudizio altrui. Aveva sempre un aneddoto, una storia strampalata da raccontare. Robert si divertiva sempre a sentirla riportare con accuratezza tutte le figure barbine che faceva e di cui si vantava. Eloise era una donna innocente. Nonostante l’età dentro era sempre una ragazzina pasticciona. Il viso fresco, senza rughe, di un bianco porcellanato le conferivano un’aria persa, come se fosse senza tempo. Robert si schiarì la voce e disse solo che voleva parlarle di papà. Lei si ammutolì. Il dolore per la perdita di Philippe lo sentiva ancora, legata come era a quell’uomo che l’aveva viziata a dismisura, concedendole sempre di avere l’ultima parola. – E’ una storia lunga, tesoro. Non posso spendere un milione di euro in telefonate. Preferisco venire a New York. Mi vuoi lì da te, sei felice di rivedermi? – Eloise disse di si, e chiese quando sarebbe partito. – Ho bisogno di un paio di giorni. Ti chiamo io. Tu pensa a cercare un buon ristorante carnivoro: se pensi che mangerò zuppa di patate per una settimana te
lo puoi scordare. – Lei rise. – Dormirai con Nick nella sua stanza. O se vuoi potrai usare il divano. – Questa volta la risata se la fece lui, fra sé. Aveva già capito che avrebbe dovuto conoscere un bel po’ di gente di cui poco gli importava e che doveva essere strana come la sorella.
Finita la telefonata, riprovò con Ambrosia Editore. Il signore che rispose, dal marcato accento toscano, chiese con chi stava parlando. – Sono Robert Blanc. Vorrei parlare con Julia, lavora sempre da voi? – Ambrogi disse che la signora era in convalescenza. – Ha avuto un piccolo incidente, ma domani sarà di nuovo al lavoro. Non possiamo permetterci di allentare un solo giorno, lei mi capisce. Julia è la colonna portante dell’azienda, e se mi lascia il suo numero la farò richiamare. Una domanda, ma lei è “quel” Robert Blanc, o si tratta di un caso di omonimia? – Sono lo scrittore. In carne e ossa. O meglio, in linea telefonica, per il momento. Non le posso lasciare il mio numero, ma domani richiamerò. Stia tranquillo, è una questione importante. – Saverio Ambrogi lo salutò in modo cerimonioso: un altro cavallo di razza stava per aggiungersi alla sua scuderia. Pensò.
“Sono rientrato a casa a sera tardi. Mia era al computer che scriveva. Ho esclamato un ciao più amichevole possibile ma lei non si è voltata. Mi sono avvicinato e le ho soffiato un buffetto sulla guancia. Lei ha mosso una mano infastidita, come se avesse a che fare con un moscerino. Non mi ha visto! Mi ha preso il panico. Ho cominciato a parlare a voce sempre più alta. Lei era stranita, come se qualcosa la stesse disturbando, ma niente d più. A quel punto ho capito cosa intendesse La Segretaria quando mi ha rammentato il prontuario. Me lo ero scordato. Dice, alla menzione 89 comma bis: se mostri una sola volta ad un umano le tue ali, non è detto che dopo questi possa riuscire a vederti di nuovo. Mi sono seduto accanto a lei, affranto. Non so spiegare cosa stessi provando, ma ero come un relitto alla deriva. Mi sentii solo, abbandonato. Lei scriveva, e io lessi. Era l’inizio di un nuovo romanzo, e lo stava facendo senza di me. Aveva già scritto due pagine, ed era un incipit riguardante un tizio che si era risvegliato su una spiaggia deserta. Insomma: non c’entrava un fico secco con i maghi e i castelli incantati. Stava provando a scrivere qualcosa di diverso, forse
in lei stava maturando un nuovo modo di vedere la scrittura. Mi ha preso un magone incredibile. Mi sono sentito inutile. Superato. Dimenticato. Lei non mi aveva mai amato, e questo lo dimostrava. I dubbi mi scuotevano dappertutto, non sapevo più da quale parte rifarmi. Se avessi cercato Seicentosessantasei per dirglielo avrebbe fatto un sospiro e detto “fattene una ragione”. Non volevo arrendermi, Mia doveva essere mia ad ogni costo. Mi giravo i pollici, curvo su di lei. Leggevo le sue pagine mano a mano che scriveva e sarei intervenuto volentieri. Metterci del mio, la forma non c’era. Non era abbastanza fluida, accidenti. Un bambino di dodici anni avrebbe fatto meglio di così. Poi ho avuto un’illuminazione. Non era il mio amore, ma controllo. Non le stavo concedendo la libertà di cui tutti necessitiamo. Forse era troppo tardi. Forse no. Ho deciso di farmi un volo da Emma. Ho spalancato la finestra e Mia ha sussultato. Ha pensato fosse il vento, e mentre me ne andavo per i tetti l’ho sentita richiuderla con violenza. Emma era nella sua cameretta, a letto. Stava leggendo un giornale. Quando mi sono affacciato ho visto che c’era Mia in copertina. Mi era sfuggito anche questo. Zeus cane! Sono ato attraverso il vetro, lei mi ha fatto un cenno che non poteva aprirmi. Sono filtrato e mi sono ricomposto davanti a lei. Emma è deliziosa, ho notato che ha un bel po’ di lentiggini dorate sul nasino. Era di buonumore anche se pensierosa. Le ho chiesto di farmi vedere il giornale. – Che figa! Tuo padre è geniale con la fotografia. L’intervista ti ha soddisfatto, hai potuto sapere qualcosa che non conoscevi della tua noiosissima scrittrice? – Le ho chiesto. Lei ha fatto un faccino soddisfatto. – Lo sapevo che era un nome d’arte. A me non la si fa. Come mai qui? Successo qualcosa? Hai una faccia da funerale. – Ha detto lei, l’intelligentona. – Da grande dovresti fare lo strizzacervelli, tu hai la capacità di capire la gente al volo. – Ho ribadito. – Di medici in casa basta mia madre. Ah, la sai la novità? – Ha chiesto. – Beh, sono un tipo che riesce a sapere un sacco di cose in anteprima, ma non sono ancora Frate Indovino. Spara. – e mentre lo dicevo le ho restituito il giornale. – Stamattina ha chiamato mia madre. Non potevo neppure credere alle mie orecchie. Stavo preparandomi per andare a scuola, era molto presto. Ha risposto pà. Lui più sorpreso di me, mi ha lanciato uno sguardo interrogativo. Lei si è messa a piangere. Gli ha detto che si vergognava di parlare con me e di rivedermi per tutto il male che mi ha fatto in questi anni. Si è giustificata dicendo che quando ha capito che ero ammalata si è spaventata. Voleva per me il meglio. Voleva diventassi un’attrice, o una scalatrice, o chissà cosa che dovesse comportare l’uso di tutto il fisico e in quel momento mi ha visto difettosa. Ha usato questo termine, ha detto pà, mentre piangeva e singhiozzava disperatamente. Mi ha visto come se mi mancasse qualcosa, lei invece è sempre stata perfetta. Allora, ha detto, è come se fosse scattato un relais dentro di lei.
Invece di trovare in sé la forza di starmi vicino, la reazione che ha avuto è stata di ribellione alla sua vita. Come se farsi un altro, andarsene, potesse far tornare tutto al suo posto. Ha messo la testa sotto la sabbia, non si è presa alcuna responsabilità di madre e moglie. Pà cercava di consolarla. Pà è straordinario, non prova rancore né astio neppure se lo picchiano con un randello. Lei ha chiesto perdono, ha detto che secondo lei sono ammalata di sclerosi multipla, se lo sente dalla prima volta che mi ha visto star male. La sua relazione con l’altro uomo era appena iniziata e lei stava già prendendo la decisione di chiuderla quando la mia malattia l’ha disorientata. Ha detto proprio così: disorientata. Alla fine ha preso la decisione che le sembrava meno dolorosa. Era pentita, disperata. Ha chiesto di me e pà mi ha chiesto se volessi parlarle. Ho tentennato ma mi sono detta questo – perché non darle una possibilità. Perché rimandiamo sempre le decisioni importanti, perché ci facciamo prendere dalla paura.- Le ho parlato, o meglio l’ho ascoltata per quasi tutto il tempo. Poi le ho detto che voglio vederla, che voglio parlarle vis a vis. Domani pomeriggio sarà qui. Sento di aver fatto bene. Non ho chiesto consiglio a nessuno, neppure a pà. Dopo lui mi ha abbracciato e ha detto che sono una ragazzina matura e che sono la figlia migliore del mondo e che sono capitata proprio a lui. E tu? Non mi dici niente? Hai litigato con Mia? – L’avrei ascoltata per ore. Una piccola grande guerriera. Vuoi che fosse per l’età, o per quello che aveva ato, ma io l’ammiravo. Per il coraggio, per la forza d’animo che le scaturiva da ogni parola e gesto. – Sono stato un codardo, Emma. Ho fatto diversamente da te: quando ho capito che ero innamorato di Mia invece di dirlo e almeno sentire cosa ne pensasse, ho fatto il geloso. Il cretino. La controllavo come un generale e la prendevo in giro. Mi imbambolavo nel guardarla e la vegliavo nel sonno, sfiorandola e poi da sveglio la canzonavo. Ultimamente poi mi sono roso il fegato per il vicino di casa, quel cavaliere dei miei stivali e li ho seguiti, ascoltati senza invece rivelare i miei sentimenti. Certo per me che sono musa è complicato, lo ammetto, ma ho preso i difetti dagli umani come la vigliaccheria, invece di esaltare i miei pregi divini. Ho combinato un disastro. Già i miei colleghi non nutrono stima per la storia di Poe. In fondo ammetto che non sono stato corretto. Il poveretto non stava molto bene in quei giorni e io mi sono arrabbiato con lui. Lo volevo spingere a scrivere e smettere di bere, e quel giorno mi sono talmente alterato che mi sono trasformato davanti a lui in quel che sono. Si è preso un colpo. Balbettava Reynolds, Reynolds… incredulo di quanto fossi orribile e poi se n’è andato. In un mondo migliore. Il mio eccessivo controllo sugli altri, la mia invadenza e presunzione lo hanno ucciso. La mia riabilitazione, nonostante l’esilio non è servita. Ho fallito con Mia. Cosa devo fare? – Emma ha fatto spallucce. – Fossi stato un uomo sarebbe diverso. Se lei non ti vede più e non ricorda chi sei,
nascondendoti nella memoria, sarà difficile tornare indietro. Ma se l’ami davvero, dovrai avere pazienza. E determinazione. Anche una buona dose di coraggio. Magari se riesci a buttare fuori tutto l’amore che provi succede qualcosa. Ha detto pà che l’amore è una cosa meravigliosa. Lo credi anche tu? – Non ho saputo risponderle. Era confuso. Anzi, disorientato. L’ho salutata e me ne sono andato. A dormire sui tetti, col freddo che c’era.”
Roma / Viareggio, 2 dicembre 2014
Roma si era svegliata con uno splendido sole. Faceva molto freddo, e antistante il palazzo di Via Arbia si era formata un leggero strato di ghiaccio. Mia aveva preso l’auto ed era partita per andare a fare un giro verso Ostia, al mare. Quando arrivò trovò lo stesso strato, anche se più leggero, su parte della spiaggia. Si incamminò per una eggiata, ogni tanto fermandosi per raccogliere un bastoncino o una conchiglia. Il mare era quasi fermo, e le onde si frangevano impercettibilmente sulla battigia. Cinquecentoventotto era accanto a lei. eggiarono per circa un’oretta. Lui con le mani in tasca, infreddolito. Lei si era dimenticata di lui, e quindi non gli aveva fornito un abbigliamento adeguato. Lei si era fermata, e seduta su un tronco straccato dai marosi e si era messa a scrivere appunti sul suo nuovo romanzo. Verso mezzogiorno lei si era diretta in un ristorante sul mare, con la piscina, e aveva ordinato pesce. Con la musica dell’Ipod e le cuffiette, e un buon bicchiere di vino, si era goduta il sole caldo sul viso. Cinquecentoventotto non l’aveva mollata un secondo, e le aveva parlato d’amore. Lei ogni tanto sorrideva fra sé, forse in qualche modo le sue parole le cominciarono ad arrivare. Al cuore.
Viareggio si era ritrovata lo stesso bel tempo. Mare calmo, un tiepido sole che andava scaldandosi con l’avvicinarsi del pomeriggio, il cielo terso senza nuvole. Julia aveva lasciato l’ospedale e accompagnata da Adele, tornò a casa sua, quella che neppure i genitori non avevano mai visto. Julia entrò per prima e andò subito agli avvolgibili in modo che potesse entrare il sole. La vista dal suo terrazzo era impagabile. Adele l’aiutò a sistemare le cose, a rifare il letto, a mettere le lenzuola nella lavatrice. Poi le chiese se volesse fare una bella colazione in
eggiata. Sarebbe bastato attraversare la strada. Julia sul momento sembrò indecisa sul dal farsi, ma poi disse si. Se voleva cambiare, doveva cominciare presto. Si diressero a piedi fino a Fappani, dove presero un caffè forte e dei dolcetti. Una volta uscite, incontrarono Gaetano. Cosa ci fe lì, che non era la sua zona di consegna della posta, non si seppe mai. Fatto sta che Julia se lo trovò davanti. Lui l’abbracciò, visibilmente contento di vederla. – Sei sul giornale. Meglio di Wikipedia. Anzi, sempre più importante. – Julia si allarmò, non poteva credere che la stampa si fosse occupata del suo tentato suicidio. “Robert Blanc famoso scrittore sceglie Ambrosia Editrice nella figura della sua editor Julia per l’uscita del suo nuovo giallo” – Gaetano aveva fatto una risata. – Capisco perché non vuoi uscire con me, tu sei una VIP, mica una poveraccia, come me. – Adele sgranò gli occhi. – Ma quello deve essere stato mio padre, tipico di lui fare il grandone. Ma dove ha tirato fuori questo nome? Io non ho detto niente, sia chiaro. Sono due giorni che sto con te, Julia e sai che non gli ho detto niente. – Julia non si arrabbiò, anzi. Disse a voce alta che ormai Eric aveva trovato il modo di farsi sentire. E che non bisognava più perdere tempo che n’era ato anche troppo. – Andiamo in ufficio, Adele. Prendiamo in mano la situazione. Gaetano, scusa. – Si era rivolta al postino con uno sguardo seducente. – Scusa, che fai domani sera? Avrei voglia di una bella bistecca al sangue. – Gaetano rispose immediatamente. – Alle otto, ti vengo a prendere dove vuoi. Andiamo al Chiodo a Massarosa. Bistecca e patate e ottimo vino. – Julia lo abbracciò, e disse solo- grazie.
“Seicentosessantasei mi ha comunicato che Duecentotrentasette era tornata al lavoro. Non ho perso tempo e ho fatto un volo nel cielo freddo fino a Viareggio. Come un'anatra migratrice. Per dirla meglio, un germano del Paleartico Occidentale che migra appunto in questo periodo. Magari lo incontro pure, mi son detto, così viaggio in compagnia. Ma le anatre vanno a Sud? O a Nord?” Julia entrò in ufficio, seguita da Adele. Ambrogi le accolse con entusiasmo. Cosa mai era quella storia di Robert Blanc? Aveva forse fiutato un affare? Adele lo
rimproverò, non solo per aver dato una notizia fasulla, ma sopratutto per non aver chiesto alla collega del suo stato di salute. Ambrogi disse che non aveva alcun dubbio che stesse bene e lo dimostrava in quel momento, nel fatto che avrebbe subito recuperato la giornata di assenza. Julia non si arrabbiò, e si infilò nella stanza delle idee, dove si chiuse dentro per quasi due ore.
Cinquecentoventotto non bussò alla porta, ci ò attraverso, salì gli scalini due alla volta. Si intrufolò negli uffici, ando davanti ad Adele e suo padre senza essere visto. Ambrogi si stava lamentando con la figlia: cosa diavolo sta facendo là dentro? La musa li ascoltò per qualche secondo, e poi scivolò attraverso la porta.
Duecentotrentasette era seduta al tavolo con la busta aperta in mano e stava osservando i disegni. Avevano una forza primitiva e inquietante. I disegni erano quasi tutti dei portrait in cui il viso era il protagonista assoluto. Le teste era quasi sempre sfumate nel bianco del figlio, come mancanti. Delle strisce nere violente deturpano le fronti e i capelli dei modelli. Tutto era concentrato sugli occhi, che avevano riflesso all'interno la visuale dell'esterno, come di specchio riflettente. Negli occhi di una donna si vedeva la baracca, in quella di un bambino svettare le ciminiere. In altri solo filo spinato. Le bocche erano o aperte in un grido muto di paura, o dalle labbra piegate in una smorfia di malcontento, o apatia. Rughe sui volti, marcate. Ogni ruga rappresentata un addio. Gli zigomi scavavano le gote. Al più si vedeva il bavero delle giacche a strisce, dietro solo alberi lunghi come la fame. In ogni foglio c'era un messaggio che non aveva niente a che fare con la speranza. Julia li guardava con attenzione uno ad uno, cercando di fissarli per sempre nella memoria, anche se si rendeva conto che non era necessario. Ogni volta che ava al successivo le veniva d'istinto di pensare al momento in cui era accaduto. Si ricordava. Eric che disegnava come una furia, quasi temesse di non avere tempo abbastanza, sempre guardandosi attorno per non essere colto in fragrante. La sera poi Franz li voleva vedere e non diceva mai niente. Borbottava qualcosa, e faceva di no con il capo. In quel suo gesto silenzioso arrivava il suo sentire: questa cosa non ha senso. Poi li prendeva per i lembi, per paura di sciuparli e li restituiva a Eric a cui si serrava la mandibola e il collo si irrigidiva. Non c'erano mai parole ad accompagnare i loro movimenti. Era così che andava, e che doveva andare. Julia adesso si sentiva travolgere da antiche
emozioni. Nessuno aveva fatto niente per fermare l'orrore, si potevano solo raccogliere gli effetti. Anche a distanza di settanta anni, come se fossero successi il giorno prima. Cinquecentoventotto la osservava dalla porta, senza parlare. Lei lo aveva visto con la coda dell'occhio, ma non lo aveva invitato a sedersi. - So chi sei. Tu sei la musa che è stata reintegrata prima del previsto per prendere il mio posto. Sei qui per chiedere se è meglio o peggio la mia vita o dopo la scelta, vero? - Fu diretta, esplicita. Lui venne fuori dall'ombra. - E' una domanda banale? Sono davanti ad un bivio. E' l'amore che lo chiede. Ah, penserai che sono un superficiale, l'amore tanto decantato dalle nostre liriche, che ha fatto commettere idiozie persino ai nostri dei, che ha smosso guerre e tradimenti forse non è la miglior ragione per un o simile. Ma così non posso andare avanti. Ho perso ogni stimolo. Mi sento inutile. - Julia alzò un braccio per farlo tacere. - Stai parlando solo di te. Di cosa provi tu, di come ti senti tu. Di prendere decisioni perché sei convinto che questo ti farà felice. Te la faccio io una domanda: le decisioni come vanno prese? Per coraggio, per paura, vanno rimandate, vanno prese subito? Cosa comporta decidere un cambiamento radicale nella propria vita? - Cinquecentoventotto si appoggiò al muro, e accavallò le gambe. Scosse la testa, e i suoi capelli neri ebbero un movimento leggero come se nella stanza ci fosse stato un rivolo di vento dispettoso. - E' una domanda bastarda. Se posso dirlo. Non lo so. L'ho chiesto a tutti cosa sia meglio per me, e nessuno lo sa. - Julia rise. - Sei incorreggibile, mi hanno detto che sei un po' presuntuoso. Stiamo ancora parlando di te, non in generale. Non hai risposto alla mia domanda, perché neppure tu sai cosa vuoi. - Lui si mosse in avanti, e si sedette davanti a lei, a cavalcioni della sedia girata. Come un cow boy. - Spiegami. Duemila anni e ancora non capisco un cazzo. Il buon Poe si sta rigirando nella tomba. Dalle risate.- Julia gli porse i disegni. - Questo mi ha cambiato. Sapere che decisioni altrui possano distruggere vite. Sapere che Eric era un indeciso, un ragazzo troppo ben educato per ribellarsi. Eric è stato martire di se stesso e degli eventi. Cosa provassi per lui, e che provo adesso è comione. E' l'impotenza che ti frega, caro Cinquecentoventotto. La paralisi emotiva, il terrore di pensare che cambiare possa essere peggio che
subire. Un po' come in amore. A volte ci si adegua alle circostanze, non si lotta per avere ciò che si desidera. Birgit ha preferito non lottare, Eric pure. Philippe ha lottato invece per mantenere i segreti, Mia ha avuto costanza e determinazione: tornare a casa e avere una famiglia con l'uomo che amava da sempre. Sua nipote Mia si è illusa, ha inseguito un sogno, Robert si è adagiato al successo dando per scontato che Sabrina lo amasse solo per quello. Franz ha scelto di allontanarsi dalla sua casa e gli affetti, per ritrovarsi come uomo nuovo fuori dalla Polonia e dai ricordi. Tutte queste scelte hanno fatto sì che gli eventi avessero il suo corso statico, e che non venisse fuori la ione, il coraggio. Io ho fatto una scelta che ritengo la migliore: ho deciso di vivere per Eric, per le sue opere. Per poterle toccare con mano, per lanciare un messaggio. Non ho mai pensato a me in questi anni, mai una volta. Posso dire che il mio fosse amore incondizionato? Non so, sta agli altri dirlo. Io so che dovevo farlo, a costo di rinunciare al divino, all'eterno. Le muse provano sentimenti, ma poi le esperienze sono molteplici, e i ricordi sono infiniti. Non ci si concentra mai su qualcuno. Io ho conosciuto Raffaello Sanzio, Mozart, ho seguito Thomas Chatterton, un genio. Ma nessuno di loro mi ha spinto al cambiamento. Solo Eric, con la sua semplicità e la sua onestà. Tornassi indietro rifarei tutto quello che ho fatto. Non dico che lo spingerei alla fuga, perché non lo farei. E' stato come doveva essere. Se tu ami la tua scrittrice come dici, lo sentirai dentro di te cosa fare. Ti reputi di essere “quello giusto”? Se si, abbi coraggio. Buttati. Se non dovesse andare bene, non rimpiangere mai le scelte. Le scelte sono dure da prendere, possono essere le più assurde e catastrofiche, ma non si possono lasciare a marcire nelle soffitte. Noi muse non abbiamo libero arbitrio, dobbiamo fare quello che ci chiede l'artista e il nostro collegio direttivo. Ma una volta umano, non potrai mai esimerti da dire chi sei e cosa vuoi. Cinquecentoventotto la guardò negli occhi. Com'era diverso osservare lo sguardo umano, da uno divino. Dentro uno sguardo possono scintillare sentimenti di rabbia, di felicità, o l'ansia. Ricordò quando seguiva Shakespeare nel suo periodo buio di come avesse gli occhi vitrei, come coperti da una patina satinata. E di come improvvisamente li spalancasse e diventassero lucidi, e svegli. Una sorta di interruttore emotivo che fe trapelare il bianco degli occhi. In quel momento Julia era raggiante. I suoi occhi ridevano, di felicità per l'obiettivo raggiunto. Aspettava solo la chiamata di Robert Blanc. Per lei era arrivato il momento di tirare un sospiro e dedicarsi a se stessa. Lui rimase con lei in silenzio per un'altra buon ora. Guardarono ancora i ritratti, nello stesso identico modo di come lo facevano Franz e Eric, ma questa volta senza angoscia.
Adele rispose al telefono. Lo fece al primo squillo, convinta che fosse lo scrittore se. Si era aspettata un accento diverso, invece la voce di Robert era senza inflessioni. Una bella voce calda e bassa, cosa che se fosse stata abbinata anche ad un uomo bellissimo sarebbe stato il massimo della libidine. Andò alla porta della stanza delle idee e chiamò Julia. La donna uscì subito, e Cinquecentoventotto la seguì indisturbato. Ambrogi si alzò dalla poltroncina girevole, in evidente stato di eccitazione. - Si. Sono io. Li ho io. Quando? Dopo domani, va bene. So di potermi fidare. La ringrazio. La ringrazio dal profondo del cuore. Si voltò, tornò indietro, chiuse la porta della stanza delle idee a chiave e prese la borsa. - Mi prendo un'altra mezza giornata. Voglio andare a fare una eggiata. Problemi?- Disse rivolta al suo capo, in modo risoluto. - No, Julia. Vai. A domani. Brava, brava. - Ambrogi ripiombò sulla sedia, senza aggiungere altro. Quando le donne sono nervose, è meglio assecondarle, si disse. Adele uscì dall'ufficio come sollevata, e Cinquecentoventotto riprese il volo, verso casa.
Epilogo
New York, 27 gennaio 2015
Eloise Blanc sistemò le ultime cose nella mostra permanente che stava per inaugurare. Robert era con lei, e commentava quello che era stato fatto. Quando era arrivato a New York coi disegni custoditi gelosamente nel bagaglio a mano, un solerte poliziotto all'uscita del gate gli aveva chiesto cosa contenesse la busta. Aveva risposto – arte, e quello fortunatamente non aveva approfondito e non si era curato di aprire la busta, lasciandolo are. Eloise lo aveva accolto nel suo loft stratosferico arredato con mobili essenziali e minimali. Nel frigorifero della cucina c'era solo acqua e succhi naturali di ravanello, pomodoro e carote, e lui aveva optato per un bicchiere d'acqua con uno spicchio di limone all'offerta della sorella di ristorarsi dopo il viaggio. Eloise gli sembrò molto più giovane dei suoi settant'anni suonati. Notò il suo stravagante abbigliamento colorato e svolazzante, il turbante di seta che raccoglieva i capelli, gli occhi grandissimi, ancora neri senza alcun velo d'età. Affrontare l'argomento non fu facile per lui, combattuto fino all'ultimo di inventarsi qualcosa di non traumatico. Si era ripetuto che forse fosse meglio dirle che erano disegni di un vecchio amico di papà, ignorando il fatto che fosse il vero padre, ma alla fine non ce la fece a tacere. Le raccontò tutto, nel farlo le mostrò il contenuto della busta. Inaspettatamente Eloise la prese molto bene, anzi si commosse. Dopo alcuni minuti di silenzio, che dedicò ai disegni paterni, guardandoli uno ad uno con molta attenzione, disse che Philippe era stato il miglior padre che lei potesse avere, ma che aveva sempre sospettato di non essere “veramente” una Blanc. C'erano stati sogni, percezioni indefinibili, deja vu di cui non era mai riuscita a trovare collegamenti con il suo ato. Era però consapevole di una sua diversità tangibile: nel modo di pensare, di esprimere sentimenti ed emozioni che poco avevano a che fare con la rigidità di Philippe, tanto meno non si era mai sentita una donna di classe come Birgit, ma solo una donna piena di talento e genialità astratte, un'artista a tutto tondo. Fu entusiasta dei ritratti e chiede a Robert se pensasse giusto farne una mostra in memoria del padre. Il fratello ammise che l’idea fosse fantastica. L'inaugurazione sarebbe avvenuta il 27 gennaio 2015, giorno della memoria della liberazione del campo di Auschwitz-
Birkenau. Poi avrebbe intrapreso una ricerca con gli organi competenti, come la Fondazione del Museo della Shoa per sapere se loro avessero notizie sulla deportazione di Eric. Robert le raccontò di Franz, e dell'incontro che ebbe con il padre: forse anche lui sarebbe stato disposto a raccontarsi, bastava solo cercarlo e trovarlo. Eloise decise di stampare delle gigantografie di due metri per un metro di base di disegni. Avrebbe messo gli originali accanto agli ingrandimenti, in una cornice a giorno, protetti da un semplice vetro. Tutta la mostra avrebbe contenuto le opere artistiche di Eric Zeller, e per le altre opere a venire di altri artisti avrebbe cercato una nuova location. Nel pomeriggio, dopo un pranzo in una vicina Steak House – dove Eloise si limitò a mangiare patate al cartoccio con il burro e una gigantesca insalata mista, lei gli presentò Nick. Il cognome era talmente strano, Chandrasekar, che Robert lo tradusse in un nostrano Vattelapesca. Nick era un giovane trentacinquenne dalla pelle leggermente olivastra, non altissimo, coi capelli neri, e i baffi. Sua madre italiana e il padre indiano si erano trasferiti in Australia anni prima e lui si era arrangiato con mille lavoretti e la pittura in cerca di fama e successo. Nick indossava jeans strappati e larghi, consumati e un'orribile maglietta sporca con un uccello morto a zampe in su con scritto “I'm Dead”. Gli allungò la mano, e strinse e agitò la sua con vigore. Sembrava felicissimo di conoscerlo. - Devo molto ad Eloise. Non avevo un tetto, non avevo un lavoro, stavo morendo di fame. Lei mi ha accolto in casa sua, mi permette di occuparsi della sua mostra, mi manda in giro a cercare talenti. Lavoriamo bene assieme e quello che mi dà è quello che mi serve per continuare a studiare, ad aggiornarmi con la pittura. Mi parla sempre di lei. - Robert non se l'aspettava. Aveva sempre creduto che Eloise pensasse solo a se stessa. - Mi parla sempre dei suoi libri. Li adora. Spera tanto che lei ne faccia presto un altro. Non è che ha il blocco dello scrittore? Mi scusi, sono stato indelicato. Disse Nick in un americano armonico e leggermente musicale. Si capiva che aveva delle inflessioni italiane e indiane. Ascoltarle era divertente, sembrava un ruscello di montagna che sommesso mormora e crea note. Robert lo interrogò. - Ammirevole il tuo impegno ed è innegabile che mia sorella sia una brava persona. Credo di capire da chi abbia preso. L'aiuterai anche nel progetto dei ritratti? - Nick disse di si, e disse anche una cosa che nessuno dei due capì sul momento. - Ho avuto un'offerta di lavoro, ieri. – I due fratelli lo guardarono incuriositi.
- Si tratta di un lavoro fuori dal comune. Io non ho accettato per rispetto ad Eloise, ma la donna con cui ho parlato ha detto che invece la proposta farà si che potrò aiutare Eloise e non solo lei in molti progetti futuri. Ci sto pensando. L’ho incontrata al parco. Dava del becchine ai piccioni. Era grigia. Non so come spiegarmi. Sembrava una pellicola in bianco e nero, assomigliava in modo impressionante ad un’ attrice del ato di cui non ricordo il nome. Mi ha proposto uno “scambio”, a sentir lei molto proficuo per me. Però devo far presto, non ha molto tempo. Non ho capito se ha altri artisti in valutazione, ma a me sembra tenerci proprio. Non trovate la cosa emozionante? - Eloise e Robert si guardarono a vicenda. Robert fece un sorriso indecifrabile. Forse aveva intuito cosa sarebbe successo, e chi fosse la donna grigia. Furono due settimane piacevoli, poi Robert tornò in Italia per i figli e per parlare con il suo agente. Aveva un'idea in testa: in cinque massimo sei mesi avrebbe avuto il suo romanzo sulla scrivania. E pubblicato da Ambrosia Editore.
“Mentre ero su un tetto a contare i eri, è arrivato Seicentosessantasei trafelato. Aveva volato per tutta Roma per trovarmi, aveva da dirmi una cosa importante. Volava con la testa sotto il braccio, e non teneva la rotta. Pareva un lenzuolo in balia del vento. Gli ho fatto un cenno, e lui è caduto giù, in picchiata, con il rischio di sfracellarsi. – Ehi amico, come stai? – Lo so, non devo dire parolacce, ma in quel momento ho trattenuto qualcosa di pesante. – Sono distrutto. Mia non mi vede più, le giro attorno come un cagnolino, batto pure la coda e le faccio le feste, le urlo contro, la imploro. Niente. Ho smesso di ispirarla, non ispiro più nessuno, sono un essere divino finito. Come dovrei stare? – Seicentosessantasei mi ha strizzato l’occhio, quello buono. – Io e La Segretaria ci siamo dati da fare. Il boss vuole vederti. Se lo convincerai, sarai umano dall’oggi al domani e tutto filerà liscio. Ti sposerai con Mia, avrai tanti marmocchi, ti prenderai finalmente le tue responsabilità. Insomma, la vita del cazzaro finirà. Per sempre. – Io non ho battuto ciglio. – Non ho mai visto Zeus. Che tipo è? Come mi devo comportare? – Il mio amico ha fatto spallucce:- Sii naturale. Almeno non si farà troppi problemi nel caso volesse fulminarti. – Poi è scoppiato a ridere, nel farlo si è tenuto ben stretto la testa, onde evitare che cadesse nel vuoto. – E quando succederà? – Ho chiesto, impaziente. – Ora. Seguimi. Vola piano, ho dei problemi alla centralina.- Ha detto Seicentosessantasei picchiandosi un dito sulla tempia. Abbiamo volato per un po’, sopra Roma. Ci siamo ritrovati in Piazza di Spagna, sulla scalinata. C’era un sacco di gente, anche se faceva un freddo cane. Il mio amico mi ha indicato una
donna grigia, seduta su un gradino, che rimescolava una granita alla menta. Con sto freddo. Forse aveva le caldane dell’età. Fatto sta, e non mi perdo in preamboli, la donna mi ha fatto cenno di sedermi accanto a lei. Era grigia, molto bella, e continuava a guardare nel bicchiere di plastica, come certe maghe leggono i fondi di caffè. – Tu saresti il ribelle, la musa autodidatta, se vogliamo. – Ha esordito senza guardarmi. – Salve Zeus, sono Cinquecentoventotto. – Lei mi ha guardato in tralice, come a dirmi, “lo so, idiota”. – Dopo secoli di onorato servizio, ho deciso di congedarmi. Ma non so se è possibile. Però ci terrei tanto. – Zeus ha appoggiato il bicchiere sulle ginocchia e ha fatto un sospiro che le persone presenti hanno dovuto tenersi stretto il cappotto. Pareva una bufera, alcuni hanno perso il cappello e si sono messi a rincorrerlo per la scalinata. Capisco, in un certo modo. Sono secoli che faccio questo lavoro, e anche io avrei voglia di smettere. Non posso farlo. Io sono Zeus. Capisci? Siamo sempre stati degli Dei entranti, in ato. Ci interessava l’umanità, ci siamo divertiti a pasticciare le vicende, a volte ci siamo pure arrabbiati. Con i tempi che corrono è faticoso star dietro a tutto. Mia moglie è insopportabile, ha sempre un serpente per capello, e non è mai contenta. Ha voluto pure una Jacuzzi con il latte di capra. Si intasano gli ugelli, è sempre in manutenzione. Quindi capisco che are a “miglior” vita, intendo non schiattare ma vivere nell’altro mondo potrebbe essere interessante. Mai scontato. E poi dura un periodo, mica per sempre. Vivere per sempre è il più delle volte una noia pazzesca. Spesso vado al cinema, a vedere i film americani di fantascienza, un modo come un altro per are una serata. Sapere invece che torni a casa dal lavoro, stracco morto, e c’è una donna amorevole che ti aspetta, beh. Ci ho pensato su. La Segretaria e Seicentosessantasei mi hanno comunicato che tanto come Musa non produci più. Te ne stai sui tetti a sospirare parole d’amore – ma non mi sembra che tu sia mai stato la musa di Leopardi, smentiscimi se sbaglio! – e non rendi. La mia azienda ha bisogno di muse motivate, di spiriti divini pronti alla competizione. Che seguano attentamente le operazioni di marketing, che credano nella pubblicità. Tu non sei più la musa che ho assunto al tempo. Hai fatto cose belle, hai fatto delle stupidaggini, hai eliminato il più grande scrittore americano, ti abbiamo esiliato, data un’altra opportunità, ma tu sei un cane sciolto. Fai come ti pare. Tu ti sei preso il libero arbitrio, e non cedi alle regole del suo stato. Direi che possiamo anche fare a meno di te. Basta solo che non ti metti fra un anno a piagnucolare che hai cambiato idea, perché ti faccio a fette. Sei deciso? – Volevo obiettare che la morte di Poe non era proprio colpa mia, ma l’aspetto di Zeus, in quel momento vestito da donna, e la granita mi stava facendo capire che non dovevo polemizzare né insistere. Dovevo solo dire di si, al resto avrebbe pensato lui, con i suoi poteri straordinari. Nessun rimpianto, nessun dolore. – Okey, capo.
– Ho esclamato, felicissimo di accelerare i tempi da tornare da Mia il primo possibile. – Ok capo… - ha bisbigliato Zeus con rabbia. Non dimenticherò mai il suo sguardo. Se fossi stato umano me la sarei fatta sotto come un bambino davanti al babau.”
Robert ed Eloise erano di nuovo insieme per verificare che tutto fosse pronto per l'apertura della mostra. La notizia era esplosa sul web: ritrovati cinquantadue disegni del periodo di deportazione nazista dopo settant'anni. Il web aveva fatto circolare l'evento in tutto il mondo. Eloise era stata chiamata dalla CNN e dalla BBC e da altre testate giornalistiche internazionali. Si prevedeva un boom di visite ed infatti fuori dall'ingresso principale si era formata una lunga fila. I giornali parlavano di centomila visite prevista, ma Eloise disse poi che erano stati molti di più. Presenti il sindaco di New York e le massime autorità della città, nonché i rappresentanti della comunità ebraica. Il sindaco di Trieste e un ministro di Roma sarebbero stati presenti con una piccola delegazione di reduci italiani dell'Olocausto. Robert e Nick organizzarono anche un servizio di sicurezza interno, la mostra non era grandissima, e bisognava fare in modo che tutto scorresse senza incidenti. Un piccolo buffet per le rappresentanze sembrò alla fine non idoneo e venne spostato in un ristorante italiano stellato nelle vicinanze. Sulle prime avevano pensato di mettere delle panchine davanti ai disegni, in modo che le persone potessero sedersi, ma capirono presto che per l'inaugurazione avrebbero creato intralci, e permisero solo a dei camerieri di are fra le persone con dei vassoi contenenti bicchieri di vino bianco fresco e qualche tartina. Mentre i due osservavano fuori dall'ingresso di vetro le persone in fila, Seicentosessantasei, La Segretaria, Cinquecentoventotto e Zeus, sempre in tenuta da signora misteriosa assomigliante a Marlene se ne stavano appoggiati ad una parete. Seicentosessantasei era una suora, bassa e vecchia, La Segretaria impeccabile nelle sue calze a rete e codini ai capelli come una bambina petulante, Cinquecentoventotto logoro nei suoi abiti pareva un senzatetto. Occhiaie e muso lungo, la barba incolta. Da quando Mia non lo aveva più visto, due mesi prima, lui si era lasciato andare all'apatia. Zeus guardava l'orologio con impazienza. - Allora il nostro uomo cosa ha deciso? - Aveva chiesto agli altri, in modo brusco. - Non ho tutto questo tempo da perdere. Mi sembra che abbiate fatto non pochi casini. Se non ci parlavo io con Robert Blanc eravamo sempre punto e a capo. -
Seicentosessantasei la rassicurò. - Capo, non ti preoccupare. Nick e Cinquecentoventotto sono disposti al cambio. Noi avremo una musa nuova con tante idee e voglia di fare e nello stesso tempo faremo una buona azione. Vissero a lungo felici e...- Zeus lo interruppe con un gesto. - Risparmiami le frasi ad effetto. Bisogna agire prima che aprano le porte. Dopo ci sarà un caos incredibile, rischiamo di farci vedere. Dove è finito Nick?Chiese ancora, visibilmente spazientito. Proprio in quel momento dal retro arrivò Nick trafelato. Eloise si girò e disse solo “finalmente” in coro con i quattro che gli andarono incontro. Nick li vedeva tutti. - Presto. Congiungetevi, alternatevi, prima che arrivi tutta quella gente là fuori. disse Seicentosessantasei. Ci fu un attimo di panico. Cinquecentoventotto obiettò che non era bello come lui. Che era più basso e Mia non si sarebbe mai innamorata di Nick Vattelapesca.
“Mi resi conto in quel momento che stavo per lasciare il mio stato divino. Mi stava prendendo una mezza malinconia, o non so come diavolo chiamarla. Si, avrei continuato ad avere le mie memorie e avrei ancora potuto vedere i miei colleghi, e parlare con loro. In più avrei assorbito le memorie di Nick Vattelapesca, e non avrei avuto problemi ad interagire con i suoi amici e parenti. Vero anche che l’esperimento al contrario non era mai stato provato e questo poteva comportare il mio annullamento e la morte di Nick, ma questo a lui non l’avevamo detto né scritto nelle clausole del contratto. Non si sa mai. La Segreteria ha detto che meglio omettere che avere casini futuri. Le ho dato ragione. D’altronde un amore vero vale di rischiare di morire. No? No! Però ormai a quel punto ci ero arrivato, e non volevo are da vigliacco. Magari poi Mia non si sarebbe mai innamorata di me. Per dire: come musa sono sempre stato uno schianto, Nick è basso, ha una faccia poco sveglia, e sapere di portare in giro i suoi connotati per anni non mi entusiasmava. I giorni precedenti allo scambio le mie amiche muse mi hanno fatto il lavaggio del cervello, per convincermi. La Segretaria ha detto poi che un tipo come Nick non si incontra tutti i giorni. Fascino in persona. Sarà, ma io di bella gente ne ho vista tanta, e lui non mi pare un gran che. Però ho rischiato, d’altronde stavo diventando una larva, consumato da un amore impossibile e non corrisposto. Mi sono chiesto nella letteratura quanti amori ano inosservati, quante pene hanno scosso
scrittori e scrittrici di ogni epoca. Fin a quel momento non avevo mai compreso che significasse “pena d’amore”. Ora si. E quindi non potevo neppure fare lo schizzinoso. Mia doveva essere mia, e buonanotte.”
Zeus lo incenerì con gli occhi. - Tu hai una pallida idea di cosa abbia fatto per voi in due mesi? Prima di tutto ho dovuto convincere questo giovane a prendere il tuo posto. Gliel'ho infiorettata come si deve. Vita eterna, poteri infiniti, possibilità di carriera, il merito di poter ispirare artisti in tutto il mondo, credi che tutti siano lì ad aspirare a diventare una musa? Poi tu che sono secoli che mi dai dei problemi. Se non fosse stato per Seicentosessantasei ti avrei già trasformato in una capra belante o in albero secolare. Direi che stai approfittando della mia pazienza, musa dei miei co...- si fermò. Zeus non si poteva dire che fosse un campione di pazienza e comprensione umana. Cinquecentoventotto disse solo “sono pronto, non ti agitare” e si avvicinò a Nick che non vedeva l'ora di trasformarsi in musa.
“Mi sono avvicinato a Nick. Lui ha sollevato le mani come in segno di resa. Io ho esitato. Poi ho fatto altrettanto. I nostri palmi si sono accostati. Per una frazione di secondo non ho sentito nulla. Improvvisamente ho sentito un forte calore, e spingendo le mie mani contro le sue, attraversandolo ho provato un'emozione indescrivibile, di vertigine e felicità. Era molle, caldo, come nuotare in un mare fatto di gelatina e spugna morbida. Ci siamo attraversati a vicenda. Ci siamo voltati. Lui era me, io ero lui. Io adesso ero Nick. Nick Vattelapesca.”
E' durato tutto poco meno di un minuto, quando mi sono voltato verso Eloise lei già mi stava prendendo per un gomito. - Ci siamo, vai ad aprire la porta, grazie di tutto amico mio.- Mi ha abbracciato e per la prima volta ho sentito un vero contatto umano: una sorta di benessere psicofisico mi ha scaldato il corpo. Una sensazione bellissima. Mai provata. I primi ad entrare sono state le autorità, le personalità. A seguire c'era una
signora che si è precipitata verso Robert, e lui l'ha abbracciata visibilmente commosso mormorando “Sabrina, come hai fatto a trovarmi... sono così felice di vederti.” Lei ha risposto “Potenza del web”. Sabrina non aveva mai perso i contatti, si era semplicemente nascosta da Robert, ma aveva continuato a informarsi sulla sua vita. Sapeva del blocco dello scrittore, ma non aveva mai fatto niente per tornare da lui. Lo aveva osservato, sperando in un suo ritorno. Ma con il tempo aveva compreso che il suo orgoglio non lo avrebbe mai abbandonato, e nello scoprire della mostra di Eric, aveva deciso di dargli un’altra possibilità. Poi è entrato Marco con la moglie Valentina, tutta sobria in tailleur blu a fianco di Emma che camminava da sola, con l'aiuto di due stampelle. Emma mi ha strizzato l'occhio, contenta. Ho compreso anche in questo caso che le decisioni prese in ato erano state perdonate. Come se gli umani sapessero riconoscere i loro errori e in qualche modo tentassero sempre di riparare. Marco ed Emma avevano perdonato Valentina, che aveva prima di tutto dovuto perdonare se stessa. Con loro c'era Mia. Appena l’ho vista il cuore mi è salito nella trachea a velocità supersonica. Emozione pura, mista a paura, a terrore, a felicità. Ce l’avevo davanti, finalmente. Quando mi ha visto poi il cuore è ripiombato nello stomaco, e ho tremato come se mi avessero dato una scossa. Mi sono avvicinato a lei, ho trascurato tutti, volevo essere certo che lei mi vedesse. Certo ero Nick Vattelapesca, un ragazzo non certo figo e bellissimo come ero in precedenza, ma doveva essere la mia ragazza ad ogni costo. Le ho detto in italiano – che voce pessima ha Nick!- Ciao, chi sei? - Lei mi ha sorriso, e mi ha guardato incuriosita, studiandomi da capo a piedi. - Mi ricordi qualcuno, qualcuno che ho conosciuto tanto tempo fa. Era un signore indiano, forse, non saprei. Molto carino. Forse un principe.Io ho gonfiato il petto come un tacchino e ho risposto, nel più seducente che Nick potesse permettersi :- Sono solo una musa, non un principe. Va bene lo stesso? – Lei è scoppiata a ridere, nello stesso identico modo del nostro primo incontro e io ho capito in quel momento che, presunzione a parte, quella donna
meravigliosa sarebbe stata mia. Per sempre. E che niente sarebbe stato più lo stesso.
#Come è complicato, l’uomo. Secoli di travagliate vicende non lo hanno ancora cambiato. L’amore sempre al primo posto. La guerra, la smania di potere, le afflizioni dell’anima sono solo ingredienti della vita. Sono secoli ormai che osservo come da uno schermo 3D le mirabolanti imprese di ognuno di loro e ancora non mi capacito di tanta perseveranza. L’uomo si divincola in verità e menzogna, senza alcuna serietà, in bilico fra l’aspirazione e l’insoddisfazione. Vedo l’uomo che si accontenta di briciole, come un altro che non demorde e osa. Rimangono solo misere consolazioni, perché la vita è breve e troppo impegnativa per realizzare i sogni. Ci sarà sempre malinconia, o un aspro sentiero, una montagna invalicabile, un amore non corrisposto, una morte annunciata, un punto astratto dell’universo irraggiungibile. Combatte da sempre l’uomo per la sua rivincita personale, per non essere dimenticato e poco importa se il suo ricordo sarà positivo o negativo. L’ego personale è la spinta di ogni atto, che sia finalizzato al piacere, all’amore, o al terrore. L’uomo fragile e altresì temibile, che detta leggi sul cosmo, sopraffatto da una natura ribelle ed impietosa. Solo ad essa si sottomette, ma il più delle volte tenta di combatterla, di asservirla ai suoi obiettivi. Spesso e meno male, invano. La Terra gira inesorabilmente su se stessa, intorno al Fratello Sole, in una danza circolare senza fine, mentre l’uomo impotente davanti alla bellezza di tale meccanismo, riversa le sue ansie e le invidie contro il prossimo, cercando felicità e serenità, distruggendole allo stesso tempo. Insoddisfatto. Oh, quante cose ho visto che mi lasciano ancora dubbioso e spocchioso sull’utilità dell’umanità. Anche io, nonostante la mia natura divina, ho preso i difetti degli uomini. Ho provato rancore e rabbia, una smania o per meglio dire, un delirio di controllo sulle cose, ma ora sono in pausa. Rimango nelle nebbie soleggiate di un Olimpo perduto e psichedelico, impalpabile, cercando di non intervenire. Contemplo la natura selvaggia, mi immergo nelle profondità, mi scaldo al sole e mi bagno sotto la pioggia, mi lascio trasportare dai venti. Evito l’umanità, sono un Dio misantropo e solitario, e questo mi rilassa. Osservo senza giudizio le nostalgie ed i dolori, le disillusioni e le speranze, guardo con un sorriso mesto i giovani uomini che si apprestano alla vita. Chiudo gli occhi davanti alle atrocità, mi girò dall’altra parte, mi dissocio dalle paure e dalle false sicurezze. Sono saggio, finalmente. Ogni tanto agisco, mosso da comione. Certo che i miei interventi sono gocce nel mare. Affido le mie speranze alle mie novecentonovantanove Muse,
sperando che l’arte, la cultura, la musica, le pagine scritte, i quadri, le sculture, il design e il genio insito in pochi dotati di talento, esplodano, cambiando l’uomo. Per renderlo migliore, o chissà utopicamente perfetto. Perfetto per se stesso, per l’umanità, per il divino. Novecentonovantanove Muse a cui io devo la mia eternità.#
Personaggi (La storia e i personaggi sono completamente inventati. Un unico riferimento storico è che nel convoglio 14 destinato ad Auschwitz c’erano uno Zeller, ed un Eric di cui non si è mai saputo la fine, la data di morte e non sono mai stati trovati i corpi. Pertanto ogni riferimento a vicende realmente avvenute è da considerarsi casuale.)
ERIC ZELLER – FIUME 1919/AUSCHWITZ 1944 BIRGIT HERMANN- VIENNA 1919/LUCERNA 1989 PHILIPPE BLANC – LIONE 1916/LUCERNA 1990 ELOISE BLANC- LUCERNA 1944 MARC BLANC – LUCERNA 1949 ROBERT BLANC – LUCERNA 1956 MIA – (la domestica) FIUME 1923 FRANZ- CRACOVIA 1925 SARAH- TRIESTE 1970 MIA – TRIESTE 1990 LORENZO E FLORIANA- ROMA 1980 NICK VATTELAPESCA- NEW YORK 1980 GAETANO- VIAREGGIO 1979 ADELE – VIAREGGIO 1978 JULIA – VIAREGGIO 1989
AMBROGI- VIAREGGIO 1956 GIANFRANCO- TRIESTE 1938 LE MUSE: 528-666-237-LA SEGRETARIA-MARLENE(Zeus)
Ringraziamenti:
Ringrazio Elisabetta per l’aiuto sull’argomento mitologico; Carlo per aver ispirato la frase “l’amore è una cosa meravigliosa”, diventato ormai un tormentone; Serena per la frase “è giusto essere custodi di una memoria, ma non tomba” e per aver corretto le bozze; Cristina per la pazienza e l’aiuto tecnico informatico, Simone per aver scelto il nome Sabrina. Ringrazio la mia Musa, perché mi dà sempre idee bislacche ma sempre nuove. Ringrazio i vecchi lettori e i nuovi, tutti quelli che mi hanno sostenuto e che trovano piacevole leggermi. Spero sempre di avervi dato un’emozione.
Nota dell’autore:
Una curiosità: Nicola Tesla diceva che i tre numeri principali che costituiscono l’universo sono 3,6,9. La frequenza 528Hz (la somma è pari a 6) è definita la frequenza “Miracolo” ed è la stessa delle eliche che compongono il DNA. 528 è al centro di tutto. E’ la differenza fra fare l’amore e la guerra. E’ l’energia che guida la prosperità universale, la bioenergia della salute e della longevità. E’ la vibrazione armonica di autostima e auto-amore che solleva il cuore e la voce divina in armonia con il cielo. Quando si entra in armonia coi 528Hz si è in sintonia con lo spirito creativo, in una perfezione amorosa, e tutto scorre in rima e in ritmo perfetto. Nota anche come Mi (Mi-racoli Gestorum) apre la persona alla possibilità di profonde esperienze spirituali o di illuminazione spirituale. Rigenera ed armonizza il DNA. In genetica è usata per il fissaggio del DNA e per neutralizzare i possibili difetti del codice genetico ereditario. Elimina i disturbi della struttura cristallina delle molecole d’acqua nel liquido cellulare, restituendo al DNA la sua struttura originale. Il processo di riparazione dà seguito a numerosi benefici fisici: maggiore quantità di energia vitale, consapevolezza, lucidità mentale, risveglio e attività creativa, estasi, pace interiore, gioia. Questa frequenza, più di ogni altra, incarna il campo unificato della metafisica musicale nella matrice a spirale dell’universo frattale. Può essere utilizzata prima di andare a dormire, per cancellare le “basse frequenze” derivanti da pessime situazioni vissute o emozioni provate durante il giorno.
Per le vicende storiche mi sono documentata, e spero di non aver scritto inesattezze. Nel caso vi prego di correggermi. Non si finisce mai di imparare.
10 febbraio 2014
Indice
Prologo
Uno
Due
Tre
Epilogo
Personaggi
Ringraziamenti, Note dell’autore