Centopelli 345o4h

MIRIAM NICOPEZZ CENTOPELLI LETTERE ANIMATE EDITORE

ISBN:9788868821777

COPYRIGHT LETTERE ANIMATE 2014 WWW.LETTEREANIMATE.COM

Le Ombre

E’ sera. Quando il sole che tinse di rosso il cielo non è che un ricordo lontano, io guardo il cielo immenso sopra di me e ti vedo amore, amore mio che non sei mio perché non m’ami. Mentre io darei la vita per un tuo sguardo che non fosse indifferente. Ma ti sento lontano, più lontano di quel cielo di sera dopo il tramonto, più freddo di quel freddo che mi pervade la sera quando scendon le ombre e a casa ritorno. Sola.

Mina Albertinelli

Ama e ridi se amor risponde piangi forte se non ti sente ….

F.D.A.

CAPITOLO I

A ogni angolo di strada le foglie sembravano formare infinite scale a chiocciola verso il cielo. Il vento, insieme a cartacce e buste di plastica, le sollevava di qualche metro per poi dimenticarsene e lasciarle ricadere. Alle foglie però non importava. Per loro un posto valeva l’altro, in fondo erano morte. Elide Centopelli invece era viva. E quell’ultimo giorno di ottobre camminava a o svelto lungo le strade lastricate del suo paese. Era stata lontano vent’anni, eppure i muri delle case, le vie e il suono dei suoi i sul selciato, si sarebbero detti gli stessi. Così come la sua casa d’infanzia. Nell’entrare, a Elide era sembrato di essere stata lì solo il giorno prima: il tappeto rosso a rombi marroni correva ancora lungo lo stretto corridoio, il salotto era in perfetto ordine. E l’aria, quasi sua madre e i suoi gelsomini fossero appena ati di lì, profumava di fiori freschi. Elide si era addentrata con circospezione, accendendo tutte le luci. Si era guardata attorno, fermandosi ad accarezzare i muri freddi. Poi aveva raggiunto quella che un tempo era stata la sua stanza. Con uno strattone aveva rimosso il cellophane lasciato a protezione del materasso e ci si era buttata a pesce. Aveva chiuso gli occhi solo un istante, per tornare facilmente indietro nel tempo. Ma si era addormentata. Così, con la luce accesa e con ancora indosso il suo cappotto verde muschio. Si era risvegliata solo al suono dei rintocchi delle campane delle cinque e mezzo. Disorientata e nello stesso tempo spaventata. Non ci aveva messo molto però a raccapezzarsi. E ancora un po’ assonnata, si era costretta ad alzarsi per andare in bagno. Una volta sciacquato il viso e ravvivato i ricci capelli a cespuglio si era guardata

allo specchio: “Come sarebbe stato rimettere piede nel negozio di suo padre?” aveva domandato agli occhi scuri che non erano altro che i suoi. Però non aveva indugiato molto, attendendo una risposta che di lì a poco avrebbe ottenuto da sé, ed era corsa fuori chiudendosi alle spalle la porta del bagno e quella di casa. Per molto tempo non aveva pensato all'ultima volta che aveva calpestato la soglia del negozio Centopelli. Per anni non aveva voluto far altro che dimenticare. Tuttavia, quella dannata vetrina coperta di carta di giornale ingiallita e quella vecchia serratura, a un certo punto, avevano cominciato a chiamarla. A infilarsi nei suoi sogni. Prima le erano apparse in bianco e nero, poi a colori. I titoli in grassetto delle vecchie pagine di giornale lasciate a oscurare il vetro le si erano mostrati a chiare lettere. E l’odore rancido di ruggine della serratura le aveva punzecchiato spesso le narici. Avevano smesso di tormentarla solo quando si era finalmente decisa a tornare. Per il negozio però, l’aver stravolto la sua vita fino a portarla nuovamente lì, non era sembrato essere sufficiente e non aveva alcuna intenzione di lasciarla entrare. “No che non la cambio!” era solito sbraitare suo padre. “Questa serratura non è mai stata forzata. E sai in quanti ci hanno provato? Non ti ricordi quel tale che…” Oh sì! Elide ricordava benissimo quel tale. E anche tutti gli altri ignari clienti che, almeno una volta nella loro vita, si erano trovati imprigionati nel negozio di suo padre. In quelle straordinarie circostanze Mario Centopelli, a differenza dei suoi avventori, non si faceva affatto cogliere dall’agitazione. Armato di un sincero sorriso, si faceva spazio tra la gente accalcata alla porta e, una volta raggiunta, vi si accucciava accanto. Sussurrando, le sue labbra si muovevano disegnando parole piene di mistero. Parole imbonitrici vista la gestualità che le accompagnava. Ricche e golose come un soufflé al cioccolato, considerando quanto gonfiava le guance. Malauguratamente, nell’immediato, quest’approccio delicato, non era solito

sortire l’effetto sperato. Così accadeva sovente che qualche cliente spazientito estraesse dalla tasca un coltellino multiuso e mostrando l’improbabile arma al Sig. Centopelli, quasi fosse una palese minaccia, lo invitasse ad allontanarsi. Nonostante la baldanza con cui molti erano soliti accostarsi a quell'archibugio, quasi sempre la porta rimaneva saldamente chiusa. Alle volte però il miracolo accadeva. Persino senza farsi troppo attendere: la serratura cominciava a rumoreggiare producendo un suono metallico. La porta si staccava di netto dallo stipite e uno spiffero d’aria annunciava a tutti la fine della prigionia. Solo allora il sorriso di Mario Centopelli si trasformava in una risata fresca e contagiosa. Solo allora tutti i “prigionieri” potevano abbandonare il negozio. D'improvviso i fari di un'auto veloce lungo la statale illuminarono la vetrina del negozio. Elide, sconsolata, alzò gli occhi dalla serratura e sbirciò tra i buchi della carta di giornale nella speranza che quel posto si ricordasse di lei. A quell'ora buia di mattina e con il vento freddo del lago ormai padrone del suo cappotto, avrebbe pagato oro per conoscere le parole magiche di suo padre. O semplicemente perché quella dannata serratura si aprisse da sé. Invece non accadeva niente. Solo la sua immagine, riflessa nel vetro sporco, si muoveva seguendo la direzione delle luci delle auto che sempre più numerose sfrecciavano alle sue spalle. Quanti giorni aveva messo tra lei e il suo ato! L'ultima volta che si era riflessa in quella vetrina aveva ancora i capelli del suo lucido color castagna, e portava dei tacchi vertiginosi. Scarpe rosse con tacco altissimo, se lo ricordava bene. Allora era giovane, non aveva ancora trent'anni e credeva di poter decidere il suo destino. Ma le cose erano andate diversamente. E quella stessa estate, era il 1990, suo padre era morto. Quando ricordava quel giorno, a Elide sembrava ancora di sentire lo sbattere ritmico dei suoi tacchi sul linoleum del pronto soccorso. Di provare ancora quella fatica a stare in piedi. A vedere oltre le lacrime.

D’improvviso, come se i ricordi avessero parlato direttamente alla serratura, la chiave fece uno scatto e il meccanismo compì un giro completo. Elide distolse lo sguardo dall'immagine della donna grigia che era diventata e spinse la porta. Mettendo un piede oltre la soglia estrasse una torcia elettrica dalla tasca del cappotto e la accese. Richiuse la porta alle sue spalle e, con i lenti, si diresse verso il contatore dell'Enel. Quando sollevò la leva dell’interruttore, una luce color miele abbracciò il negozio. Elide, però, non fece in tempo a muovere un o che tre scoppi simultanei accompagnarono il rumore di piccoli vetri in caduta libera sul pavimento. Rimasta nuovamente al buio si ritrovò a sorridere alla sola luce della torcia e a guardarsi intorno. Rivedendo suo padre dietro al bancone, suo padre sulla porta, suo padre ovunque. Solo quando il aggio di un camion sulla strada di fronte fece tremare i vetri, Elide si ridestò. Affondando una mano in borsetta recuperò la confezione di lampadine che con previdenza aveva portato con sé e le sostituì. Una a una. Il color miele tornò presto a illuminare le stanze del negozio e la luce del giorno cominciò a filtrare la coltre nera del cielo. Il traffico sulla statale si era intensificato e il marciapiede brulicava di studenti diretti alla fermata del traghetto. Elide si ritrovò a osservarli per qualche istante dalla soglia del suo negozio, domandandosi da quanto tempo il suo paese, affacciato sul piccolo lago d’Iseo, fosse diventato così popoloso. Poi lasciando la porta socchiusa e le luci accese, provò a seguire il flusso di studenti pendolari. Duecento metri più avanti avrebbe trovato la ferramenta e avrebbe acquistato una grossa bombola del gas. Faceva davvero freddo in quel negozio. Troppo freddo.

CAPITOLO II

Il buio della notte non ci mise molto a riprendersi la tavolozza del cielo e della strada. E a sorprendere Elide ancora nel pieno delle pulizie del negozio. La fiammella del gas aveva subito colorato di azzurro il bugigattolo in cui riposava la vecchia caldaia, ma i termosifoni in ghisa ci avevano messo un po’ per riscaldare l’ambiente. Tuttavia l’aria satura di polvere era diventata presto irrespirabile ed Elide era stata costretta a spalancare le finestre, permettendo all’umidità del lago di riprendere possesso dei muri del negozio. Alle sei del tardo pomeriggio comunque il più poteva considerarsi fatto: vetri puliti, pavimento lustro, ragni e scarafaggi sterminati. Restava soltanto da spolverare una vetrinetta all’angolo destro del bancone. Solo quello. Elide non doveva spostarla o rimuoverne il contenuto. Sapeva bene che quelle palle di vetro grandi e piccole, con la neve o con i brillantini, non dovevano essere mosse. Che solo quelle vuote sarebbero servite. E solo in casi eccezionali. Suo padre le aveva sistemate in quella vetrinetta, proprio davanti al bancone, per un motivo ben preciso. I clienti dovevano vederle subito. Appena messo piede in negozio. Molti avrebbero perso alcuni secondi ad ammirarle per poi procedere all’acquisto di cartoline, francobolli e souvenir con inciso in qualche angolo il nome in oro del paese. Alcuni invece avrebbero deliberatamente evitato di guardare la vetrinetta di sfere innevate e luccicanti. Sarebbero entrati osservandosi le punte impolverare delle scarpe, alzando lo sguardo solo per cercare gli occhi buoni di Mario Centopelli. Perché sapevano che lui avrebbe capito al volo di che genere di articolo erano in cerca. E di quanto coraggio c’era voluto per arrivare fin lì. Anche Elide aveva dovuto far ricorso a tutto il suo coraggio per tornare ad affacciarsi dietro a quel bancone di legno pregiato. E per racimolarlo aveva percorso chilometri. Trascorso stagioni.

Stava osservando la vetrinetta impolverata quando il suono ben conosciuto del camlo della porta la fece sobbalzare. Un vecchio stava sulla soglia. Un vecchio nelle cui linee del viso seppe immediatamente riconoscere un amico. “Gianni” disse Elide con la voce rotta. “Gianni” ripeté ancora una volta. E l’uomo, con un perfetto sorriso da dentiera, si avvicinò al bancone. Non sembrò notare la vetrinetta che, anche se impolverata, risplendeva di luce propria. Né si guardò attorno chiedendo aiuto alla memoria per riposizionare negli scaffali tutti gli articoli che per anni aveva osservato riposare sempre nello stesso posto. Elide vide Gianni sorridere ma tenere lo sguardo basso sul pavimento. Fisso sulle punte impolverate delle sue tristi scarpe ortopediche. Per poi sollevarlo e cercare, oltre il bancone, gli occhi buoni del suo miglior amico Mario Centopelli. Perché Gianni sapeva dove poterli trovare. “Non preoccuparti Gianni!” gli aveva detto tante volte Mario Centopelli. “Se dovessi andarmene per primo, a te ci penserà Elide. Lei sa cosa fare. Lei è una Centopelli. Non scordarlo mai!” Elide non era a conoscenza delle promesse di suo padre, però conosceva bene il significato di quei i lenti. E poteva chiaramente leggere, negli occhi di Gianni, la ragione per cui si trovava lì. “Oh no Gianni! Io non posso… Il negozio non è ancora... E le palle di vetro… Tu l’avrai già scelta, lo so. Ma …” Gianni interruppe la staffetta di proteste di Elide alzando semplicemente la mano destra e portandosela vicino al cuore. Le dita nodose faticarono a insinuarsi sotto la stoffa blu della giacca a doppio petto. Ma quando riuscirono a intrufolarsi nella tasca interna e ad afferrare ciò che stavano cercando, gli occhi di Gianni presero un taglio furbesco. A Elide non sfuggì il cambiamento e il cuore cominciò ad arrampicarsi su per la gola. Quando la mano di Gianni riapparve, tra le dita stringeva una fotografia

ingiallita e spiegazzata. La distese sul bancone d'ebano, proprio sotto il naso di Elide, e una volta lisciata la girò dalla sua parte. La fotografia mostrava un giovane Gianni circondato dalla famiglia Centopelli al completo. Elide alla sua destra, poco distante dalla madre, e Mario alla sua sinistra. Lo sfondo grigio era il lago perché la fotografia era stata scattata sul terrazzo di casa Centopelli. Elide, guardandola, ricordò la fantasia dipinta sul tavolino inquadrato per metà. E la mente le riportò alla memoria le immagini perfette di quel giorno: Gianni aveva pescato un luccio enorme che nella fotografia si vedeva per intero, disteso ai loro piedi. “Che bella giornata fu quella,” scappò detto a Elide, “anche la mamma aveva un tale sorriso! Eppure stava già male. Ed io non lo sapevo. Nessuno lo sapeva. Neanche papà.” Nel sentire quelle parole uscire dalle labbra di Elide, Gianni allungò una mano per riprendersi la fotografia così da poter provare anche lui a toccare con mano quei vecchi ricordi. ò l'indice sui visi in bianco e nero di tutte le persone ritratte e alla fine si fermò accarezzando con il polpastrello i contorni della figura del suo amico Mario. Poi si rivolse nuovamente a Elide e fece cadere sul bancone una chiavetta di ottone poco più grande di quella che era stata una moneta da cento lire. Elide, quasi scottasse, allungò cauta la mano per toccarla: l’aveva consegnata lei stessa a Gianni quando se n’era andata. Ormai una vita fa. Gianni, intuendo i pensieri di Elide, si rabbuiò. La felicità appena sfiorata scomparve dietro al sipario della sua memoria. E nel suo cuore tornarono ad albergare quel dolore pungente e quel senso di solitudine che, dal primo giorno trascorso senza Mario, aveva scoperto come nuovi inquilini del suo cuore.

CAPITOLO III

Gianni e Mario si erano incontrati per caso. Ed erano diventati amici in età matura, proprio negli anni in cui non ci si aspetta che una così grande fortuna possa ancora capitare. Mario era un uomo con una moglie casalinga e una figlia alle scuole medie. Possedeva un negozio di souvenir e aveva una tradizione familiare da perpetuare. Era un uomo buono. Di quelli che profumano di latte e di cui ti fideresti anche solo guardandolo di spalle. Era di media statura, di media istruzione. Ma unico. Gianni invece era uno scapolone. Di soli tre anni più giovane di Mario, non ambiva ad avere né moglie né figli. Solo a infiorettare quante più donne possibili. “Purché profumino di buono”, era solito dire a Mario. “Le donne devono essere profumate! Poi belle o brutte che ti frega. L’importante è non ritrovarsi con i pidocchi attaccati ai peli del culo!” Eh sì! Gianni era così. Diceva quello che pensava e non si curava dei giudizi della gente. Nel paese in cui abitava, a due i da quello di Mario, gli uomini lo indicavano puntando il mento nella sua direzione e muovendo la testa come fosse il muso di un cavallo. Le donne invece abbassavano gli occhi e mentre le giovani ridevano sommessamente, quelle più vecchie recitavano orazioni. Tutte però avevano fatto almeno un giro sulla giostra di Gianni. Sposate e vedove. Vergini e attempate. Gianni poi vestiva da marinaio. Aveva la faccia abbronzata trecentosessantacinque giorni l’anno. E un’ancora tatuata sul bicipite. Sapeva di sale come i veri uomini di mare, anche se nella realtà di tutti i giorni portava il traghetto che metteva in comunicazione la terra ferma con la montagnosa isola lacustre che svettava proprio di fronte al paese di Mario. In quaranta minuti, se il tempo non era cattivo e il lago agitato, andava, scaricava la gente e ritornava.

Gianni lo faceva dalle sei del mattino alle due del pomeriggio. Poi era Livio a prendere il suo posto. Il buon vecchio Livio che per una vita aveva fatto il postino e che di punto in bianco aveva deciso di imparare a portare le barche. Lavorando mezza giornata, Gianni aveva avuto solo la metà delle possibilità di incontrare Mario. Al posto suo, infatti, avrebbe potuto esserci il buon vecchio Livio. E allora chissà come sarebbero andate le cose. Ma il destino li aveva scelti e, per ironia, messi sulla stessa barca. Mario non prendeva mai il traghetto. Non era un isolano e non stava andando a farsi una scampagnata con la famiglia. Però conosceva un mastro vetraio. Renzo, così si chiamava. Era un uomo anziano, senza figli e senza famiglia. E abitava sull’isola. Renzo aveva dedicato la vita all’arte della lavorazione del vetro. Tutte le ville costruite sulle rive del lago vantavano almeno una sua vetrata o un suo artistico lampadario. Ma Mario non era interessato a quel genere di articoli. Lui, a Renzo, aveva commissionato delle semplici sfere di vetro. Tutte trasparenti, vuote e con un foro alla base. A ben guardare le avrebbe potute soffiare anche il più scarso apprendista vetraio. Sennonché Mario voleva la perfezione e la purezza delle bolle di sapone. Il riflesso di uno spicchio di arcobaleno nel momento in cui la luce incontra il vetro. Lo spessore perfetto che avrebbe impedito all’immagine o alla miniatura che poi sarebbe stata inserita all’interno della sfera, di essere distorta o malvista dall’esterno. E questo solo Renzo era in grado di farlo. Soltanto Renzo sapeva dove trovare la sabbia più bianca e pura da mettere nel calderone e trasformare in magia. Tutti i giorni, per due settimane di seguito, sabato e domenica compresi, Mario si era recato sull’isola. Alle sei in punto saliva sul traghetto condotto da Gianni e alle sette era già di ritorno. In tempo per aprire il negozio prima che la gente andasse al lavoro e i bambini a scuola. All’inizio Gianni non aveva neppure notato Mario. Se solo fosse stato una donna, allora sì che si sarebbe accorto di lui! Ma un uomo? Per di più la mattina presto! Con la bocca e la mente impastata di sonno e la testa ancora addormentata sul petto prosperoso dell’amante con la quale aveva trascorso la

notte… No. Non era possibile. Il martedì della seconda settimana però, Mario, seppur non avesse labbra dipinte di rosa e guance di pesca, catturò l’attenzione di Gianni. La faccia di quell’uomo era entrata a far parte della quotidianità delle sue mattine. Per questo quel martedì Gianni, nel prendere posto nella cabina di comando, non ò accanto a Mario come fosse un eggero qualunque ma lo salutò augurandogli il buon giorno e facendogli un largo sorriso. Mario rispose al saluto scoprendo i denti davanti, leggermente accavallati e, incuriosito, seguì Gianni con lo sguardo fino al momento in cui non scomparve dalla sua visuale. La stessa cosa accadde il giorno seguente e quello dopo ancora. Semplici buongiorno e bianchi sorrisi a inaugurare la giornata. Fino a quando domenica Mario spezzò la routine. “Buongiorno” gli disse Gianni. “Ah Buongiorno” rispose Mario. E, sempre a voce alta in modo che Gianni potesse sentirlo, aggiunse “Oggi è il mio ultimo giorno. Ritiro la merce che ho ordinato a Mastro Renzo. Lo conosce il vetraio dell'isola, vero? “Anzi, non è che ha un posticino sul traghetto, sicuro e pulito, in cui poter riporre la mia merce? Sono quattro scatole poco ingombranti. Sa, sono articoli davvero delicati.” Gianni si era fermato a pochi i da lui e lo aveva guardato con un'espressione sinceramente dispiaciuta. “Certo,” era riuscito a rispondere a Mario nell’accorgersi del suo sguardo vacuo, “quando risale mi bussi alla cabina che vediamo cosa fare.” E così dicendo, Gianni era scomparso ancora una volta dalla vista di Mario. Due ore dopo avrebbero giù saputo tutto uno dell'altro e memorizzato i nomi dei membri delle rispettive famiglie. Mario avrebbe saltato l'apertura domenicale del negozio e Gianni si sarebbe offerto di accompagnarlo direttamente a casa, costringendo il traghetto a una piccolissima deviazione. Avrebbe scaricato l'amico e le sue preziose palle di vetro direttamente sul terrazzo della sua abitazione, tra lo stupore della moglie Mina e gli applausi della piccola Elide.

“Tua figlia mi stava aspettando” era solito dire Gianni quando Mario cercava di cacciarlo bonariamente fuori dal negozio perché con le sue chiacchiere da osteria gli faceva perdere un mucchio di tempo. “Già il primo giorno mi ha accolto applaudendo come fossi una celebrità. Lei sì che mi ha voluto bene sin da subito. Non come te che non mi stai neanche ad ascoltare!” Ma Gianni non diceva sul serio. E non pensava nemmeno tutte quelle cose. Lo diceva solo per solleticare lo spiccato senso di comione del suo amico Centopelli. E prima di uscire dal negozio, immancabilmente, si voltava verso il bancone e strizzava un occhio a Mario. Ci sarebbero voluti anni a Gianni per trovare l'adeguata durata delle sue scenette. I giusti tempi per illudere Mario di essersela presa veramente per poi, nel momento esatto in cui sentiva i i dell’amico muoversi nella sua direzione, correre fuori dal negozio ridendo di gusto. Purtroppo quando accadde, di lì a poco, il suo amico Mario morì. Lasciandolo solo con i suoi teatrini senza protagonisti.

CAPITOLO IV

Fu Gianni a soccorrere Mario quel pomeriggio d'inizio estate. ò in negozio, come ogni giorno al termine del suo turno sul traghetto. E trovò il suo amico a terra, imbrattato di sangue dalla testa ai piedi. Con il suo aggressore ancora lì, il braccio alzato armato di bastone, pronto a colpire per l'ennesima volta. Gianni non esitò nemmeno un istante e non pensò a sé. Sottrasse il bastone all'assalitore di Mario e lo colpì. Prima con il suo stesso bastone, in mezzo al torace. Poi con un calcio in pieno volto. Sentì bene la forma della mascella dell'uomo sotto la tela della sua scarpa da tennis. Ma lo colpì lo stesso di collo pieno, come stesse calciando una punizione. Investito dal calcio, l’uomo perse i sensi e rotolò su un fianco. Solo allora Gianni guardò Mario. Ma non lo soccorse. Con un balzo superò il suo corpo rannicchiato davanti alla vetrinetta delle palle di vetro e corse dietro al bancone del negozio. Tremando afferrò il telefono per chiamare i soccorsi e quando finalmente l’operatore gli ripose, gridò “Aiuto!” con tutta la voce dalla sua disperazione. E, per interminabili minuti, restò incollato al telefono ripetendo, come fosse un giradischi inceppato, l'indirizzo del negozio Centopelli. Solo quando alla voce della cornetta si sostituì un rapido “tu-tu-tu-tu-tu...” Gianni lasciò cadere l'apparecchio e corse dall’amico. Chinandosi su di lui gli sollevò delicatamente la faccia dal pavimento per adagiarla sulle sue ginocchia. Gianni sapeva che non avrebbe dovuto muoverlo! Che avrebbe dovuto aspettare i medici! Ma Mario respirava appena e Gianni, pur non essendo un dottore, aveva intuito che quelli sarebbero stati gli ultimi istanti che avrebbe trascorso con Mario. Perciò, con tutta la premura di cui fu capace, si sfilò dalla tasca del giubbino color cachi un fazzoletto immacolato e lo ò sul viso del suo amico per ripulire il sangue che, imperterrito, usciva a fiotti da naso

e bocca. Era così scuro quel liquido! E così tanto! L'unica occasione in cui a Gianni era capitato di vederne altrettanto era stata quella volta in cui, proprio con Mario, avevano assistito all'uccisione del maiale. Il norcino allora aveva raccolto il sangue dell’animale in un piccolo contenitore e glielo aveva regalato. “È buono per fare la torta di sangue” aveva detto l'uomo. “Buono per fare la torta di sangue” ripeteva in tilt la mente di Gianni mentre il suo miglior amico gli moriva tra le braccia. I soccorsi furono velocissimi e quando Gianni riuscì a lasciare Mario alle cure dei medici, si appoggiò alla vetrinetta che il suo amico aveva difeso a costo della vita e cominciò a chiedere aiuto al Dio cui mai nella vita aveva chiesto qualcosa. E restò lì. Senza salire sull'autoambulanza. Avrebbe voluto ma il negozio e le sfere di vetro sarebbero rimasti incustoditi. E questo Mario non lo avrebbe mai acconsentito. A meno che non ci fossero stati lui. O Elide. Elide. Doveva chiamarla. Gianni staccò le spalle dalla vetrinetta e cercò il coraggio per oltreare la pozza di sangue in cui navigavano le suole delle sue scarpe. Un giovane carabiniere gli si avvicinò mettendogli una mano sulla spalla in segno di conforto mentre sullo sfondo altri due carabinieri, più grossi e più vecchi, trascinavano fuori il pazzo che aveva assalito Mario. Gianni, nel vederlo in piedi sulle proprie gambe, sentì montare la rabbia. Percepì la gola secca e un incontrollabile formicolio alle mani. Allora alzò gli occhi sul giovane carabiniere che ancora gli teneva una mano sulla spalla e disse: “Io lo ammazzo con le mie mani se Mario non ce la fa.” Il giovane carabiniere fece finta di non aver sentito e abbassò gli occhi sulla pozza di sangue che continuava ad allargarsi. E probabilmente pensò che anche lui, al posto dell’uomo che stava cercando di confortare, avrebbe fatto lo stesso.

Dalla strada in cui il traffico di auto e persone sembrava scomparso, giunsero le urla dell’uomo che aveva picchiato Mario. “Io volevo solo sapere dove aveva nascosto mio figlio! Mio figlio, Brigadiere! Capisce! Marco ci è andato per una settimana in quel negozio. E venerdì l’ho seguito. L’ho visto entrare e sono rimasto ad aspettarlo ore su quella panchina là!” e l’uomo, seppur ammanettato e trascinato a forza sul selciato del marciapiede, si fermò indicando il punto esatto in cui quel venerdì aveva atteso suo figlio. “Brigadiere!! Marco non è più uscito da quel negozio. E quando mi sono deciso a entrare e ho chiesto informazioni a quel bastardo, lui ha persino negato di averlo visto! “Brigadiere! Mi dica lei. Me lo dica! Che cosa ha fatto quel bastardo a mio figlio! Io voglio saperlo! Io voglio giustizia! “Marco era un drogato. Mi ha picchiato, derubato, umiliato. Marco aveva l’AIDS. Sarebbe morto presto Brigadiere! Ma avremmo potuto are insieme ancora qualche mese. Qualche settimana. Se quel maledetto Centopelli non me lo avesse portato via! “Brigadiere! Se ne occupi lei. Lo faccia confessare! Mi dica cosa ne è stato di mio figlio! Me lo dica! Per favore… per favore”. E così, supplicando il Brigadiere, l’uomo si lasciò cadere in ginocchio sul marciapiede e cominciò a piangere. I carabinieri, per qualche secondo, ebbero rispetto per il dolore di quel padre, ma nello stesso tempo ricordarono il viso martoriato di Mario Centopelli. Con uno strattone sincronizzato rimisero in piedi l’uomo e lo caricarono sull’auto di servizio. Gianni aveva sentito ogni parola. E capito. Il giovane carabiniere che aveva di fronte invece fissava le palle di vetro alle sue spalle. Probabilmente domandandosi come mai quella fosse l’unica vetrina sopravvissuta all'attacco dell’uomo armato di bastone. Per fortuna, pensò Gianni, né il carabiniere, né nessun altro, avrebbe mai immaginato che quel ragazzo, Marco, era ancora nel negozio di Mario. Lì

davanti agli occhi di tutti. Dentro la sfera di vetro che personalmente aveva scelto. E che grazie all’aiuto di Mario avrebbe abitato per sempre.

CAPITOLO V

Era stata Elide a rispondere al telefono dell’erboristeria in cui lavorava. E quando aveva riconosciuto la voce di Gianni che con fatica sillabava il suo nome, il cuore aveva cominciato ad accelerare. Il suo cervello aveva registrato solo le parole “aggredito” e “ospedale di Santa Rita” e aveva inconsciamente fatto muovere le gambe. Con i strascicati Elide si era avvicinata al Dottor Tinelli, il proprietario dell’erboristeria, e gli aveva sussurrato che doveva andare. Che suo padre era stato aggredito e ricoverato in ospedale. Il Dottor Tinelli non ci aveva pensato due volte e aveva estratto dalla tasca le chiavi della sua auto. Allungandole sul bancone di marmo gelato le aveva spinte verso Elide. Lei aveva afferrato il grosso portachiavi di metallo con la scritta “FIAT” ed era corsa fuori dal negozio con ancora indosso il camice bianco da lavoro. Elide e Mario si erano visti quella stessa mattina. E nonostante lui avesse fatto di tutto per non darlo a vedere, lei aveva capito di averlo deluso. Si era presentata da lui poco prima delle otto. Ed era rimasta fuori dal negozio qualche minuto a osservarlo, approfittando del fatto che fosse girato di spalle, intento a spolverare con la massima cura le sue preziose palle di vetro. Aveva guardato lui così magro e invecchiato e poi si era soffermata sulla sua immagine di giovane donna quasi sposata, riflessa nella vetrina. Quasi sposata. Ecco. Era venuta a dire proprio quello a suo padre. Che il mese venturo si sarebbe sposata. Pietro glielo aveva chiesto ancora un mese prima ma lei non era mai riuscita a trovare le parole per informare suo padre. Avevano già fissato la data per il giorno dopo Ferragosto. Lo sapeva il prete del paese. Lo sapevano le comari che frequentavano la sagrestia e che, appesa al braccio di Pietro, l’avevano vista più volte entrare a colloquio nell’abitazione del

parroco. Ma non suo padre. Perché sposare Pietro voleva dire trasferirsi a Genova, dove lui aveva già una casa, un lavoro. E questo lei non sapeva proprio come confessarlo. Dal canto suo Mario Centopelli aveva sempre saputo che, alla fine, quel bravo ragazzo genovese si sarebbe portato via la sua Elide. Tuttavia aveva sempre continuato a sperare che il destino rimescolasse le carte e potesse così cominciare una nuova partita. Ma quella mattina, appena vide Elide presentarsi in negozio di buon’ora, con i capelli lucidi, gli occhi grandi e le scarpe col tacco alto, capì che nessuna delle sue speranze si sarebbe realizzata. La ascoltò mettendosi dietro al bancone in modo che lei non si potesse accorgere di quanto l'emozione gli impedisse di tenere le gambe ferme. Però quando Elide rimase in silenzio sperando nella sua approvazione, fu pronto a superare la barriera dietro alla quale si era rifugiato e stringerla tra le braccia. La lasciò uscire dal negozio mantenendo un sincero sorriso sulle labbra e seguendo con lo sguardo, fin che poté, la sua andatura di donna felice e innamorata. Solo quando non fu più in grado di riconoscere i contorni della sua figura lasciò che la paura per quello che sarebbe stato irrompesse nei suoi pensieri. Senza Elide non ci sarebbe più stato futuro. Il negozio Centopelli sarebbe morto. E con lui anche le sfere di vetro. Questo Elide lo sapeva bene. Eppure aveva fatto la sua scelta.

CAPITOLO VI

Elide aveva amato molto suo padre. Anche se, a dir la verità, lo aveva conosciuto poco. Sapeva che “Grandi speranze” di Charles Dickens era il suo libro preferito e che “Una carezza in un pugno” di Adriano Celentano era la canzone che portava nel cuore. Quella che aveva fatto innamorare lui e sua madre. Avrebbe saputo riconoscere il suo sorriso irregolare in mezzo a migliaia di bocche, così come la piega all’ingiù dei suoi occhi buoni. Con minuzia sarebbe stata in grado di descrivere le sue mani piccole e il profumo dei suoi maglioni con scollo a V. Il suo parlare dimesso, quasi silenzioso, e il suo tenere gli occhi bassi. Sempre. Ricordava bene come lui l’aveva fatta sentire da bambina. Così unica e straordinaria perché depositaria di una magia buona che aiutava le persone. Che ridava loro la speranza. Mentre a lei regalava un caldino sul viso e nella pancia cui mai avrebbe voluto rinunciare. Però Elide ricordava bene anche le frasi che avevano scandito i suoi pomeriggi da quando, all’età di sette anni, aveva sorpreso suo padre a rinchiudere una persona in una sfera di vetro. “Eli vieni in negozio oggi e ripetiamo insieme la preghiera?Vediamo di riuscire a controllare un po’ l’emozione? D’infondere coraggio a chi hai di fronte?” E ancora “Devi m-a-n-g-i-a-r-e!! Non stai crescendo Eli… La tua testa spunta a malapena dal bancone del negozio!” Ecco. Erano tutte queste. Elide se le ricordava bene, quasi suo padre fosse ancora lì a ripetergliele. Dal giorno in cui le magiche sfere erano entrate nella sua vita, lei aveva cominciato a provare timore nei suoi confronti. O meglio, un reverenziale rispetto.

Suo padre era diventato molto più di un papà. Un semidio ai suoi occhi. Però quanto si era reso insopportabile a volte! Quanto lo aveva odiato nei panni di maestro severo ed esigente e quanto le erano pesate le sue improvvise mancanze. Perché le coccole finalizzate al semplice stare assieme, non c’erano più. Le carezze tanto per toccarsi e per sentire calore, nemmeno. Al loro posto c’era solo una falsa copia di tutto: coccole mentre si disquisiva sulle magiche sfere. Carezze mentre si versava una lacrima per chi non c’era più e una per chi era rimasto. E i rimproveri per un bicchiere rotto o per i vestiti e le mani sporche, dov’erano finiti? Per la famiglia Centopelli sembrava non contassero più. Solo le ramanzine per non aver ricordato per bene le parole della preghiera smuovevano la lingua di suo padre. Solo i richiami per essere arrivata tardi in negozio. E soprattutto per non aver dimostrato coraggio quando invece non c’era alternativa. Esisteva anche il silenzio in realtà. Un silenzio cui era stata abituata: quello di sua madre. Diventato forse un po’ più duro. Da bambina però, a Elide, tutto era sembrato incredibile e fantastico. Un circolo magico da cui mai si sarebbe immaginata di voler un giorno fuggire. “Perché non lo fanno tutti, papà?” aveva chiesto spesso Elide a suo padre. “Chi non vorrebbe vivere per sempre nel momento più felice della propria vita?” Suo padre non aveva mai risposto a quella domanda. E il perché Elide se lo era chiesto spesso. Ma mai avrebbe immaginato che sarebbe stata proprio Mina, sua madre, a spiegarglielo. Lei non aveva voluto farsi imprigionare in una delle magiche sfere di vetro di suo marito. E per paura che Mario ed Elide lo potessero programmare a sua insaputa, aveva taciuto a tutti la sua malattia. Malauguratamente il giorno in cui aveva mostrato alla sua famiglia il volto del male che la stava uccidendo, era stato anche l'ultimo. “Perché? Perché, tu che avresti potuto vivere per sempre nell’attimo tuo più intenso, hai scelto di morire?” aveva letto negli occhi di entrambi.

Avrebbe voluto rispondere, Mina. Giustificarsi, magari discutere. Ma sapeva che non sarebbe servito. E che avrebbe sprecato attimi preziosi in inutili ragionamenti. Così, le sue risposte le aveva messe nero su bianco in una lettera che Elide, per molti giorni dopo la sua morte, non fece altro che leggere. “Il ato è magico e perfetto perché non può più essere cambiato” aveva scritto. “Perché è visto e rivisto con gli occhi del dopo. Con la consapevolezza del poi. “Il futuro invece è un’incognita. Una sfida. E con il tempo ho imparato che è migliore del ato. Perché il futuro, l’attimo che ancora deve schiudersi, l’azione che ancora deve compiersi, sarà sempre capace di stupirci. Sempre.” Questo era ciò che pensava Mina. La verità che si era tenuta dentro per tutti gli anni in cui aveva visto il marito rinchiudere in magiche sfere di vetro persone provate dalle avversità della vita. Parole semplici. Ma nello stesso tempo complicate. Parole che nel futuro pieno di certezze che Elide aveva fino allora immaginato, aprirono voragini enormi. Ma che furono niente rispetto ai burroni che spalancarono Michael e Nela.

CAPITOLO VII

“Elide!” gridò Gianni rialzandosi da terra. Era chino davanti alla vetrinetta delle palle di vetro che Mario aveva così strenuamente difeso. Stava cercando di ripulire la macchia di sangue scuro che, quasi fosse una voglia color ciliegia, era diventata tutt'uno con la mattonella. “Devo prendere la sua palla di vetro...” disse Elide telegrafica provando a superarlo. Gianni però non la lasciò proseguire e, afferrandola per un braccio, la costrinse ad arretrare fino alla soglia del negozio. “Non c'è tempo! Devi andare in ospedale!” urlò spalancando la porta e spingendo Elide sul marciapiede. “Lascia perdere la palla di vetro! Tuo padre… tuo padre…” le lacrime non lo lasciarono finire. Gianni provò a ricacciarle in gola ma non ci fu verso. Quando le sentì superare la barriera delle palpebre, si portò le mani al viso e le strappò via come fossero pagine di un libro pieno di menzogne. Solo allora Elide lo vide. Il sangue incrostato che imbrattava le mani grosse di Gianni. Il rosso mattone infilato sotto le unghie e seccato nelle pieghe della pelle. Quello era il sangue di suo padre. Lo stesso sangue che Gianni stava cercando di togliere dal pavimento e che, chissà come, sulla sua maglia azzurra da comandante di traghetto, aveva disegnato una farfalla dalle ali vermiglie. Elide s’immaginò suo padre coperto da quel sangue scuro e solo allora, per la prima volta, prese coscienza della realtà. Guardò Gianni negli occhi ed ebbe l’impressione che il suo dolore la investisse come un tornado. Se non avesse avuto i tacchi infilati nelle fessure del selciato, probabilmente sarebbe caduta. Solo quando Gianni abbassò gli occhi e si mosse per abbracciarla, il tornado si

placò. Ma rimase la distruzione. Il disordine dei sentimenti e delle emozioni. Elide si lasciò cullare per lunghi secondi dall’abbraccio di Gianni. Poi aggrappandosi a un sottile filo di speranza, riuscì a sfilarsi e, prima che lui potesse trattenerla, corse dentro il negozio. In un lampo ne uscì stringendo la sfera di vetro che suo padre, un giorno di tanti anni fa, aveva scelto. “Forse faccio ancora in tempo” disse a Gianni con un sorriso tirato. E senza guardarlo in faccia si mise a correre. Elide aveva mentito. A Gianni e a se stessa. Perché sapeva che il tempo era scaduto. Che suo padre era morto senza averla avuta accanto e senza averla vista sposa. Che era morto solo, in una maniera che tanto diversa, in vita, non avrebbe mai osato immaginare. E sapeva Elide, che la palla di vetro e le maledette preghiere che da bambina aveva imparato a memoria, non le sarebbero servite a niente. Suo padre non avrebbe abitato nessuna sfera di vetro. Il suo “mentre perfetto” sarebbe per sempre rimasto unico e irripetibile. Proprio come quello di sua madre. Quando Elide finalmente arrivò in ospedale ad attenderla trovò ciò che si era aspettata. Ma vedere quanto le sue speranze ridotte in frantumi fossero reali, la lasciò vuota come la testa di una bambola. “Sto cercando mio padre. Mario Centopelli. L'hanno portato qui poco fa in autoambulanza. Sono sua figlia.” aveva detto Elide tutto d’un fiato al primo infermiere del pronto soccorso. L’uomo non l'aveva saputa aiutare e aveva chiamato una donna dal camice azzurro che aveva fatto cenno a Elide di seguirla. L'infermiera celeste l'aveva fatta accomodare in una stanzetta ornata da due sedie di legno malconce. Qualche minuto dopo alla porta era comparso un altro infermiere che, senza proferire una parola, le aveva consegnato un plico di carte da firmare. “Ma dov'è mio padre?” aveva chiesto Elide faticando a far uscire la voce. “In camera mortuaria, signorina” aveva risposto l'infermiere senza nemmeno alzare gli occhi dalla cartelletta su cui stava annotando chissà cosa. Allora Elide aveva stretto i fogli nel pugno e si era messa a correre verso la stanza mortuaria.

Ascoltando il rintocco dei suoi tacchi sul linoleum grigio dei corridoi non aveva voluto pensare a quanto ogni scalpiccio in realtà sembrasse il suono di una campana a lutto. Din - Don. Din - Don. “Non è troppo tardi! Non è troppo tardi!” continuava a ripetersi. Non poteva essere. Si stavano sbagliando tutti. Quello in camera mortuaria non poteva essere suo padre! Lei aveva ricevuto la telefonata di Gianni solo un’ora prima! Non poteva essere già morto! Non così in fretta! Elide arrivò davanti alla porta della camera ardente con il fiato corto e una speranza irreale. Quando entrò però, nonostante l'odore di morte che le pareti di quella stanza trasudavano, sentì il profumo di suo padre correre a bussare alle narici. Ma non un profumo caldo. Un profumo gelido. Spento. Elide allora frugò con gli occhi il corpo nascosto dal lenzuolo, disteso sulla barella al centro della stanza e per qualche istante li abbandonò sul quel manto bianco. Cercò un movimento impercettibile, un sussulto del petto che potesse indicare un respiro. Ma tutto restò immobile. Elide, come se qualcuno avesse reciso i fili da marionetta che la sostenevano, si lasciò cadere sul pavimento. Appena toccò terra, la palla di vetro, umida di sudore e lacrime, le sfuggì di mano e rotolò verso suo padre. Elide la osservò riflettere il bianco del lenzuolo. Poi provando a trattenere le lacrime estrasse dalla borsetta la fotografia che suo padre avrebbe sicuramente scelto. La distese sulle gambe rannicchiate osservando i giovani sorrisi dei suoi genitori e la perfetta bocca a farfalla della neonata che stringevano al petto. Infine, sussurrando l’antica preghiera che un tempo suo padre le aveva insegnato, provò a fare quello per cui era nata. “Le mie condoglianze signorina” la interruppe l’infermiere dopo un tempo indefinito. “Il dottore sta arrivando e le spiegherà tutto. Se intanto vuole avvisare i suoi familiari, lì c’è un telefono a gettoni.” “Un telefono a gettoni” ripeté Elide ad alta voce. Ma l’infermiere non la sentì e tenendo gli occhi bassi tornò da dove era venuto.

La palla, intanto, era rimasta vuota. Immobile. La fotografia giaceva ancora sulle ginocchia di Elide, e Mario Centopelli era ancora lì, in quell’attimo impresso su un pezzo di carta, sbavato dalle lacrime di sua figlia.

CAPITOLO VIII

Se chiudeva gli occhi, Elide ancora rivedeva lo sguardo di Michael, fisso sulle punte impolverate delle sue scarpe. Non ci aveva creduto allora come ancora faticava oggi. Eppure era accaduto veramente. Michael aveva sette anni ma ne dimostrava a malapena cinque. La sua mamma, Nela, sulla carta ne aveva meno di venticinque ma nella realtà era più vecchia di Mario Centopelli. Le disgrazie invecchiano. Il dolore ruba la giovinezza. A quindici anni Elide già lo aveva compreso. Non erano italiani Michael e Nela, ma da che parte dell’Europa dell’est venissero, Elide non lo seppe mai. “Da uno di quei paesi sempre in guerra” le aveva detto una volta suo padre. Però mai più era ritornato sul discorso. Aveva fatto male a tutti conoscere Michael e Nela. Sia lei che suo padre ne erano usciti a pezzi. E divisi. Era stato Michael a trascinare la madre nel negozio. Lo vedeva tutte le settimane quando l’autobus che lo accompagnava all’ospedale di Milano, si fermava proprio davanti alla vetrina del negozio Centopelli. Le aveva intraviste da lì le palle di vetro, così lucenti e ordinate su mensole di cristallo. E qualcosa, dentro, gli si era . Non aveva speranze Michael. Il cancro se lo stava divorando pezzettino dopo pezzettino. Era già due anni che lottava e sapeva che altrettanti non gliene sarebbero rimasti. Michael non aveva più capelli. E nemmeno ciglia leggere a protezione dei suoi grandi occhi color del grano.

La sua pelle era chiarissima, trasparente e fragile come un’ostia. Pochi denti per sorridere oltre il muro di due labbra sottili e tagliuzzate. Sembrava un manichino in miniatura quando camminava: i vestiti se lo portavano a so. E Nela non era da meno: più un manico di scopa che una donna. Però in lei si vedeva che la vita scorreva. Amara e tiranna ma pur sempre c’era. Michael era entrato la prima volta nel negozio Centopelli non sapendo cosa chiedere. Era avanzato lento trascinando Nela come se la malata fosse lei. Si era fermato ansimando davanti al bancone del negozio Centopelli, ed Elide e Mario avevano dovuto alzarsi in punta di piedi e allungare il collo per riuscire a vedere qualche cosa di più della sua testa pelata. “Chi c’è dentro queste sfere?” aveva chiesto in un italiano perfetto. Ed Elide era rabbrividita: “chi c’è” aveva chiesto quel bambino. Non “cosa c’è”. Lei era rimasta impalata dietro al bancone mentre suo padre si portava accanto a Michael e piegava un ginocchio sul pavimento per diventare piccolo quanto lui. “Davvero lo vuoi sapere?” aveva domandato Mario Centopelli. Elide aveva cercato nella voce di suo padre un’incrinatura. Una nota dolente che le potesse far capire che anche lui, proprio come lei, aveva paura. Ma non l’aveva trovata. E si era sentita sola. Debole. Lei e Nela si erano guardate sentendosi fatte della stessa pasta. Era stato allora che Mario Centopelli si era alzato prendendo la mano di Michael e l’aveva condotto dinanzi alla vetrinetta delle palle di vetro. “Qui c’è mio padre” aveva sussurrato Mario Centopelli indicando una sfera con all’interno una moneta da 500 lire che Michael non aveva mai visto. Le vele della caravella impressa nel metallo soffiavano al contrario. E Michael si meravigliò. “Vale un sacco di soldi sai questa moneta...” disse Mario Centopelli “ma a mio padre non è mai importato. Per lui significava solo fortuna. Libertà. Oltre a ricordargli un giorno fantastico tutto suo.”

“E tu, Michael, hai un giorno fantastico cui ami pensare? Il ricordo di un attimo perfetto?” No. Elide non ci poteva credere. Suo padre voleva davvero spiegare a quel bambino il mistero delle sfere di vetro? “Papà…” disse. E guardò Nela che fino a quel momento aveva seguito il figlio come un automa. Ma che non lo guardava. Perché osservava lei. Con un’aria smarrita e piena di domande impronunciabili. Con quegli occhi scuri e appuntiti che svisceravano consapevolezza. “Eli, vieni qui” disse Mario Centopelli pochi attimi dopo aver sentito Elide chiamarlo. “Aiutiamo Michael a scegliere la sua sfera.” Elide rimase di pietra: come poteva suo padre fare questo? Michael era solo un bambino di sette anni! Perché non lo convinceva a lottare per vivere? Perché non provava a infondergli speranza? Lui non era come tutti gli altri! Non era un adulto disperato. O solo. Michael era un bambino! Malato, questo sì… ma quanti bambini guariscono dal cancro? Tanti! Tanti! E allora perché non dare anche a lui una possibilità? Perché assecondare quella sua follia? “Eli, ti stiamo aspettando…” insistette Mario Centopelli. E a quel sollecito Michael si voltò verso Elide. La osservò qualche secondo, poi sgattaiolò dietro al bancone porgendole la mano. “Andiamo Eli. Io voglio scegliere la mia sfera!” le disse. Elide guardò quegli occhi che non erano affatto da bambino ma più adulti di quanti ne avesse mai visti. Esitò torcendosi le mani e cercando di ricordare come, con quelli che avevano preceduto Michael, fosse stato tutto semplice. Naturale. Diede la mano a Michael quasi senza accorgersi e lui, con un impeto che mai si sarebbe aspettata, la trascinò davanti alla vetrinetta che Mario Centopelli, nel frattempo, si era preoccupato di aprire.

Michael si avvicinò con la bocca spalancata e il fiato sospeso. Osservò le palle di vetro, una per una, senza domandare nulla. Poi, deciso, si accucciò a terra e si allungò per recuperare una piccola sfera vuota dal ripiano più basso. “Eccola” disse guardando solo Elide “scelgo questa. Mi ci puoi infilare subito?” “Michael!” gridò Nela facendolo rialzare con uno strattone e attirandolo a sé. Aveva pronunciato il nome di suo figlio nella sua lingua. Arrocando la C e facendo cadere l’accento sulla I. Quanta disperazione aveva sentito Elide nella voce di Nela. Quanta rabbia. “Vuoi lasciare tua mamma sola davvero? Davvero Michael?” strideva Nela rompendo ogni parola con le lacrime. “Andiamo via. Via di qui!” gridava cercando di forzare il figlio a seguirla. Però non lo strattonava. Non lo costringeva con la forza. Quasi la volontà di Michael si fosse messa tra di loro come uno scudo. “Ragazzina, dì qualcosa a Michael… Perché tu non sei convinta come tuo padre, vero?” “Tu, non sicura?” insisteva Nela speranzosa frugando gli occhi e il volto di Elide. Ed Elide, sotto il fuoco di quello sguardo nemico sarebbe sicuramente caduta. Perché cadere a terra morta stecchita, senza aver alcuna possibilità di rialzarsi, era la sola cosa che in quel momento desiderava. Almeno non avrebbe dovuto partecipare a quella follia. Perché questa volta non era come le altre! Non lo era! Era stato suo padre a scuoterla. E gli era bastato uno sguardo duro. Eloquente. Doveva fare la Centopelli, Elide, lo sapeva. Dismettere immediatamente i panni di ragazzina indecisa. E convincere Nela. Ma non sapeva proprio dove andarlo a pescare il coraggio. Dove trovare le parole. Quelle giuste.

Così, nel tentativo di trovarle, Elide aveva guardato Michael, talmente sereno e deciso. Si era inginocchiata sul pavimento accanto a lui e finalmente era riuscita a parlare. “Non sono io quella che si deve convincere” aveva detto “basta che lo sia lui”. E sfiorando con una carezza la testa senza capelli di Michael, aveva fissato gli occhi in quelli di Nela. Non credeva fino in fondo in quello che stava dicendo ma quel bambino… lui sì. “Mamma, è quello che voglio” aveva ribadito Michael. E aveva consegnato a Elide la sua piccola sfera vuota. Era stato allora che Nela era crollata in ginocchio sul pavimento. E un rumore di ossa rotte aveva scosso il silenzio del negozio. Si era arresa Nela, arresa alla volontà del figlio. Proprio come tutti. Elide si era rigirata più volte la sfera di Michael tra le sue mani da ragazzina, mentre suo padre, con i apparentemente sicuri, raggiungeva la porta del negozio Centopelli. Per chiuderla a chiave. “Non è necessario farlo oggi, Michael” aveva detto con voce flebile mentre aiutava la chiave a girare lenta nella toppa. “Puoi anche tornare sai?” aveva sussurrato quasi temesse di farsi sentire. Ma Michael aveva scosso la testa testardo. E si era asciugato il sudore sui pantaloni di cotone consumato. Nela allora l’aveva attirato a sé e se lo era stretto forte. L’aveva baciato in ogni angolo del viso, del collo, delle manine. Aveva provato a divorare il suo profumo di piccolo angelo e la sua immagine di bambino dagli occhi di grano. Si era battuta il petto come se la colpa di tutto fosse sua. Non della malattia. E lo aveva stretto ancora, per poi lasciarlo andare. Una, dieci, cento volte. Tutto con Elide lì ad un o. Quasi a toccare con mano quel legame tra madre e figlio che lei stava per spezzare. Aveva pianto Elide. In silenzio. E non era riuscita a muovere un dito fino a quando, ancora una volta, suo padre non le aveva sfiorato la testa con una carezza, proprio come lei aveva appena fatto con Michael.

“Qual è il tuo mentre perfetto Michael?” aveva chiesto cercando di trattenere il tremolio nella voce. E Michael, guardando Nela con un amore indescrivibile, glielo aveva descritto.

CAPITOLO IX

Il trillo della camla della porta riecheggiava ancora nel silenzio di nebbia calato all’interno del negozio Centopelli. Nela se n’era appena andata. Sola. Suo figlio invece era rimasto. E Mario Centopelli stava sistemando la sua nuova dimora in uno dei ripiani di cristallo della vetrinetta. Dal momento in cui aveva terminato la preghiera, Elide non aveva più fiatato. Aveva abbracciato Nela accarezzandole il viso come avrebbe fatto una madre. Ma la sua lingua non si era mossa se non per deglutire le lacrime che non era riuscita a versare. Solo quando suo padre le si era avvicinato per provare a confortarla, il suo silenzio si era frantumato. “Lasciami stare…” aveva sibilato. Ed era corsa nel retro bottega. Mario Centopelli era rimasto sconcertato, ma forse non troppo. Lentamente si era girato per tornare dietro al bancone. Non avrebbe affrontato subito sua figlia. Avrebbe aspettato che il dolore si attenuasse un po’. Che il rimorso si fe più tenero. Ma Elide non era dello stesso avviso. Lei voleva chiarire subito la questione. Aveva un miliardo di parole nella pancia che si prendevano a pugni per salire su per la gola e uscire allo scoperto. Era la rabbia a spingerle. Il dolore e il rimorso. “Lo sai che c’è un mondo oltre a questo, papà?” aveva gridato tutto d’un tratto uscendo dal retrobottega. “Perché dovrei trascorrere la mia vita dietro ad un bancone di legno, in un negozio microscopico affacciato su di una pozza d’acqua?” aveva continuato rabbiosa sbattendo i pugni sul bancone d’ebano. “Aveva ragione la mamma. È il futuro che rende vivi. Il futuro che può stupire. “Io mi fermo qui papà. Non voglio vedere oltre. Sapere oltre. Non voglio più trovarmi costretta a rinchiudere un bambino di sette anni in una palla di vetro!

Non voglio! Perché, poi, lo dovrei fare? Ho quindici anni! Quindici, papà! E invece di vivere come fanno tutte le mie coetanee sono qui costretta. E metto fine alla vita delle persone. Ho messo fine alla vita di un bambino…” “Non è così Eli!” aveva provato a replicare Mario Centopelli. “Lo sai…” aveva aggiunto andando a sfiorare le mani di sua figlia ancora chiuse a pugno sul bancone di legno. Elide però si era sottratta e guardando suo padre con una maschera d’odio, aveva battuto ancora una volta i pugni digrignando i denti per la rabbia e la disperazione. Poi era scappata via. Sbattendo la porta sul suo ato e lasciando suo padre a bocca aperta e con le mani livide.

CAPITOLO X

Elide aveva ripulito quasi tutti gli scaffali, e la vetrina, un tempo traboccante di articoli, era ormai completamente sgombra. Alcuni raggi di sole superavano agevolmente il vetro sottile che dava sulla strada e illuminavano le particelle di polvere sospese nell’aria intorno a lei. “Se non sapessi che sei fatta di carne e ossa” disse d’un tratto una voce conosciuta “penserei di aver appena visto un angelo”. Elide non alzò gli occhi dallo scatolone. “Ciao” sussurrò amara quando il cambio di luce l’avvisò della vicinanza di Pietro. “Ciao” rispose lui sforzandosi di ignorare la ruggine nella sua voce. E si chinò per baciarla. Trovò solo polvere.

Erano trascorsi dieci giorni da quel tardo pomeriggio in cui Pietro aveva trovato Elide rannicchiata contro un’asettica parete della sala mortuaria. E lei l’aveva guardato con due occhi opachi. Due occhi irriconoscibili. Lui si era seduto comunque sul pavimento accanto a lei. L’aveva avvicinata e sentita resistere al suo tentativo di abbraccio. Per poi convincerla a cedere piano, fino a stringerla a sé. Erano rimasti così a lungo. Avvolti dal silenzio della morte e dalle urla delle sirene delle autoambulanze. Ed era stato proprio allora che Pietro l’aveva vista. La sfera di vetro. Identica a quelle esposte nel negozio di Mario Centopelli. Solo che questa volta si trovava sotto a una barella. Non nella solita vetrina.

Pietro l’aveva fissata curioso, domandandosi cosa ci fe lì. Quella sfera, grande quanto un pugno, non poteva essere caduta dalle tasche del Sig. Centopelli… E nemmeno dalle sue mani. Forse era stata Elide a lasciarsela sfuggire. Sì, ma perché l’aveva con sé? Pietro si era fatto mille domande mentre il respiro apparentemente calmo di Elide scandiva il tempo. Quando però lei lo aveva guardato ancora una volta con gli occhi grigi e le guance rigate di rimmel, si era domandato che diavolo gli importasse, in quel momento, di una stupida palla di vetro. E si era costretto a non guardarla più. Contava solo la sua Elide. Il suo bene. Aveva fatto così in fretta Pietro ad amarla. Era bastato un contatto. Un profumo. Si trovava nell’erboristeria del Dottor Tinelli per lavoro. Era concentrato e deciso a prendere a tutti i costi quell’importante commessa. Ma nell’aprire la porta aveva urtato una scala facendo perdere l’equilibrio a chi ci stava sopra: Elide. L’aveva presa al volo, evitandole il pavimento per un soffio. Prima aveva visto i capelli a cespuglio, poi gli occhi scuri e solo alla fine il corpo di giovane donna che inspiegabilmente si stringeva al petto. Quando se n’era accorto l’aveva riposta a terra, quasi l’aveva lanciata. Non voleva lasciarsi distrarre da un paio di occhi belli incorniciati da impossibili capelli da bambola. Tuttavia, mentre contrattava con il Dottor Tinelli, una parte del suo cervello pensava a Elide. A quando l’avrebbe rivista. Tenuta ancora tra le braccia. Se ne era andato stringendo la mano al Dottor Tinelli e guardandosi intorno per cercare d’incrociare lo sguardo di Elide. Così non aveva visto il sorriso sornione del Dottor Tinelli. Un sorriso di chi già ha capito tutto. E se n’era andato deluso nonostante si fosse aggiudicato con successo la grossa commessa di lavoro. Quando, due settimane dopo, era tornato nuovamente a far visita al Dottor Tinelli, non aveva tentennato come fanno molti uomini. Pietro aveva subito invitato Elide a uscire. E altrettanto velocemente era venuto al dunque, baciandola sulla soglia di casa.

Lo sapeva! Era l’amore che tanto aveva atteso. La sua metà della mela. Ecco perché non andava a rimorchiare con gli amici. Ecco perché lui di donne non ne aveva avute tante. Tra loro però c’era il problema della distanza: Genova non era Roma ma ci volevano comunque quasi quattro ore di macchina, o dieci di treno… Si era domandato da subito Pietro se Elide lo avrebbe seguito. Lui, a causa del suo lavoro, Genova non avrebbe potuto lasciarla. Ma Elide, quel luogo tranquillo sospeso tra lago e montagna lo avrebbe abbandonato? E suo padre? Il negozio? Eppure Elide gli aveva detto sì. Subito. Non aveva mostrato tentennamenti nemmeno quando lui le aveva elencato i motivi per cui almeno il suo cuore avrebbe dovuto esitare. Si era mostrata decisa. Forse troppo. Ma Pietro non aveva approfondito la questione. Era troppo felice, troppo ansioso di cominciare una nuova vita con lei. Con il senno di poi invece Pietro si sarebbe dato dello stupido per non aver chiesto subito una spiegazione. E aver chiuso gli occhi quando invece avrebbe dovuto spalancarli di più. Perché dal giorno della morte di Mario Centopelli tutto era cambiato. Le giornate erano trascorse luminose e sempre più calde. L’estate era scoppiata con i suoi profumi e i suoi colori. Ma lo sguardo di Elide sul mondo era rimasto opaco. Alla sfera sotto la barella di Mario Centopelli Pietro non aveva più pensato. Così come al suo matrimonio, al suo lavoro. A riempirgli la testa erano rimasti soltanto quegli occhi impossibili, quasi affetti da cataratta, comparsi senza preavviso sul viso di Elide. Aveva provato, Pietro, a non pensarci. A lasciar vivere a Elide il suo dolore, nella speranza che presto avrebbe cercato in lui due braccia dalle quali farsi sostenere. Ma quando, anche quel pomeriggio lei aveva evitato il suo bacio, Pietro aveva capito che niente si sarebbe risolto. E che quegli occhi malati sarebbero sempre rimasti lì. Al posto di quelli che aveva tanto amato.

CAPITOLO XI

“Cosa c’è Eli” aveva sbottato Pietro, quel pomeriggio dopo che Elide aveva così palesemente evitato il suo bacio. “Guardami e dimmi cosa c’è” le aveva detto piegandosi sulle ginocchia e tentando di strapparle lo scatolone dalle mani. Elide non aveva accennato a mollare la presa. Ma alla fine si era lasciata andare sul pavimento pieno di briciole di cartone e si era messa a piangere. Pietro era rimasto con lo scatolone tra le mani, aspettando senza fare o dire altro. “Ti devo mostrare una cosa” aveva detto Elide dopo un po’. E asciugandosi gli occhi con la manica della maglietta, si era fatta scivolare una mano lungo il collo per richiamare a sé una catenina d’oro. C’era una chiavetta d’ottone appesa. Ed Elide l’aveva mostrata a Pietro come se quella, da sola, bastasse a spiegare tutto. “Apri la vetrinetta e prendi una palla di vetro dal primo ripiano. E una dall’ultimo” aveva detto porgendogliela. Pietro l’aveva guardata un po’ stupito ma aveva afferrato la chiave e si era alzato. Nel tragitto aveva abbandonato la giacca estiva da rappresentante sul bancone d’ebano e si era arrotolato le maniche della camicia, quasi dovesse fare a pugni con qualcuno. Quando era tornato da Elide, in una mano teneva una sfera piena d’acqua, petali e brillantini, nell’altra una vuota, liscia e perfetta. “Ecco,” aveva così ripreso Elide, “in quella dove ci sono quei bellissimi petali lilla riposa mia nonna Marta. “Mio padre, quand’ero bambina, mi raccontava spesso la storia fantastica di quella scelta…” Pietro aveva gli occhi fissi sulla sfera di vetro. I brillantini e i petali giocavano a rincorrersi come bambini e lui non riusciva a distogliere lo sguardo.

“Vedi,” aveva proseguito Elide, “mia nonna ha conservato per tutta la vita il fiore raccolto nell’angolo di strada in cui vide mio nonno per la prima volta. Questi petali sono proprio di quel fiore. Perché lei, quando è stato il momento, ha voluto tornare in quel preciso istante. Era quello il suo “mentre perfetto”. I petali, così come i brillantini, quasi avessero udito le parole di Elide, precipitarono sul fondo della sfera disegnando la forma di un sentiero. “Cosa stai cercando di dirmi?” aveva chiesto Pietro. “Io… io non penso di aver afferrato…” “Tu hai un momento perfetto?” aveva risposto Elide stizzosa. “Un episodio felice che ami ricordare? Un attimo preciso che ti piacerebbe poter rivivere all’infinito?!” Pietro non aveva risposto. “Allora?” Lo aveva incalzato lei. Ma la sua voce era spaventata. “Ce l’hai sì o no? Tutti ce l’hanno! È impossibile che tu…” “Ok. Ok” l’aveva interrotta Pietro. “Certo che ce l’ho! Ma cosa c’entra il mio attimo perfetto con quello di tua nonna, e con queste palle di vetro? Ah Eli io… io” “C’entra eccome” aveva gridato Elide cercando di raddrizzare la voce incrinata. “Perché se io volessi, un giorno, o magari oggi stesso se tu me lo chiedessi, potrei rinchiuderti in questa stramaledetta palla di vetro”, e aveva strappato la sfera vuota dalla mano di Pietro, “e lasciarti lì dentro a vivere e rivivere il tuo “mentre” perfetto!!! “Hai capito? Non è difficile! “Certo, mi servirebbe un qualcosa che ricordi quel momento! Un sasso, un fiore, una fotografia. Mi basta anche una descrizione sommaria. Scritta però! Di tuo pugno. “Chiaro. Mica posso scrivere io. Altrimenti che luogo e che tempo potrei ricreare? Solo quello che la mia fantasia sarebbe in grado di immaginare. Non sarebbe la stessa cosa e tu… tu finiresti a ripetere all’infinito un attimo non tuo.

“Un “mentre inverosimile” amava definirlo mio padre. “Mio padre.” Al suono di queste ultime parole Elide si era arrestata bruscamente. Aveva sfilato dalla mano di Pietro la sfera di vetro in cui riposava sua nonna Marta, e si era alzata per riportare entrambe alla vetrinetta. Pietro era rimasto seduto per terra cercando di trovare un senso logico alla storia che aveva appena ascoltato. “Ho provato nella camera mortuaria” aveva ripreso Elide fissando le spalle curve di Pietro che la polvere dorata accarezzava al posto suo. “Ho provato a esaudire il desiderio di mio padre. “Sapevo qual era la sua sfera e conoscevo il suo mentre perfetto! Conoscevo la preghiera! Sapevo cosa fare! Per anni mi sono preparata. Per anni ho vissuto solo per quello. E quando è stato il momento io… Io non c’ero. Ero al lavoro a pensare a te. Al nostro matrimonio, al nostro futuro. “I Centopelli fanno una promessa quando vengono iniziati all’arte del “mentre perfetto”. E la promessa è quella della sorveglianza, dell’osservazione e della protezione di chi ci affida la sua vita. Ma anche di chi, ignorando quella scelta, resta. “È un lavoro di squadra il nostro! “Mio padre non poteva accorgersi che il padre di questo ragazzo”, e aveva mostrato a Pietro una sfera nuova di zecca, con dentro una piccola fotografia di famiglia, “li aveva osservati per giorni… Che aveva visto suo figlio entrare nel nostro negozio e mai più uscirne. Non si è accorto perché era solo. Perché io l’ho lasciato solo. E così è morto.” Senza parlare Pietro si era avvicinato per accarezzarla. Ma ancora una volta Elide l’aveva evitato. “Sono vuota Pietro. Vuota come una vecchia camera d’aria di bicicletta. Piena di buchi rattoppati più e più volte. Solo per riuscire ad andare avanti. Per evitare di

buttare via tutto. “Mi sono ribellata al mio ato e guarda come sono ridotta. Mi è rimasto un presente che disprezzo. Un ato fatto di ricordi cui non voglio pensare … e il futuro che doveva stupirmi? Che doveva portarmi via da qui? È qui che mi guarda. Ma a me non interessa più. “Non ho più niente da darti Pietro. “Se ti è più facile, semplicemente non ti voglio più.” Queste parole Elide le disse guardando Pietro con i suoi occhi grigi come la strada. Occhi malati di una cataratta incurabile che chiunque avrebbe saputo riconoscere come senso di colpa. E forse qualcosa di più. Ma non Pietro. Pietro così coinvolto. Così preso. Così innamorato. No. Lui non lo vide il senso di colpa e nemmeno quel qualcosa in più. Vide solo la donna che amava porgergli la sua giacca da rappresentate e girargli le spalle. Per non voltarsi più.

CAPITOLO XII

In cuor suo Elide sperò che Pietro protestasse. Che gridasse “No!”. O che almeno la serratura della porta del negozio lo trattenesse. Per avere il tempo di pentirsi, il tempo di ritrattare. Ma niente del genere accadde. Anzi. Il cigolio della porta accompagnò fuori dal negozio i i strascicati di Pietro e il selciato li rese ancora più traballanti. Lo vide bene, Elide, mentre ava davanti alla vetrina: Pietro con una mano sugli occhi. Pietro con il corpo buttato in avanti, quasi sulle spalle portasse un grosso peso. Fu questione di un attimo. E immediatamente seppe che quella sarebbe stata l’immagine che la sua memoria avrebbe pescato dai ricordi ogni volta che avrebbe pensato a lui. Un ricordo impietoso, sì. Ma un’immagine che diceva la verità. D’istinto Elide corse alla porta e girò la chiave: il mondo fuori doveva restare fuori. Non ci sarebbe più stata Genova per lei. E nessun mare ad accoglierla. La casa di Pietro, quella casa dalle pareti bianche di calce, posata come una perla ai margini del nero del porto industriale, non sarebbe più stata sua. Non ci sarebbe più stato il matrimonio, il paese in festa per lei. Né suo padre ad accompagnarla all’altare. Non sarebbe più esistito il futuro che aveva immaginato. Sognato. Ma nemmeno il negozio Centopelli.

CAPITOLO XIII

Impruneta. Firenze. Nemmeno sapeva Elide come aveva fatto a scegliere quel posto. Solo poche ore prima, dopo mesi di scartoffie e dolore, di solitudine e sensi di colpa, aveva lasciato la sua casa. Il suo negozio. Era riuscita a lasciarsi tutto alle spalle e salire sul primo autobus diretto a Milano. Faceva freddo. L’autunno stava lasciando il o all’inverno che marciava spedito nella sua direzione. Tuttavia il cameriere del bar di Piazza Castello non sembrava sentire gli aghi gelati che il vento andava a infilare nelle trame della sua camicia bianca. Era in piedi sulla soglia della caffetteria come se fosse primavera, con le maniche rimboccate e le mani umide. Stava sfoderando a Elide un elenco di destinazioni che contemplava tutte le regioni d’Italia, isole comprese. I nomi delle città erano tutti in ordine alfabetico. “Agrigento, Alessandria, Ancona, Aosta, Arezzo, Ascoli Piceno…” lesse Elide ad alta voce mentre il cameriere già le girava le spalle. Era solo alla lettera A e già aveva l’impressione che l’Italia fosse troppo grande per lei. Ancona dov’era per esempio? L’aveva sentita nominare spesso in televisione, al telegiornale, ma non si ricordava in che regione fosse. Non troppo a sud ma nemmeno vicino alla Lombardia. Magari le sarebbe piaciuta… Ma in fondo perché fermarsi al terzo nome sulla lista? Proseguendo avrebbe potuto trovare qualche idea migliore. “Roma!” si disse sentendo l’entusiasmo accendersi sulle guance e cercando nella lista il nome della capitale. Quando però lo trovò, scritto in grassetto mentre tutte le altre città erano scritte a caratteri standard, ci ripensò: in una metropoli sarebbe stato tutto ancora più difficile. Lei voleva trovare solo un posto lontano da casa e lontano da Genova. Ma non troppo.

Così ricominciò a leggere la lista ripartendo dalla lettera B: “Bari, Barletta, Belluno, Benevento… Cagliari, Caltanissetta, Campobasso… Enna, Fermo, Ferrara, Firenze.” Firenze. Elide immaginò le colline toscane, gli uliveti, i vigneti. Pensò agli Uffizi che non aveva mai visitato. A Ponte Vecchio. E decise all’istante: sarebbe arrivata a Firenze e poi lì avrebbe cercato qualche borgo poco distante. La Toscana sarebbe stata la sua terra di mezzo. Una distesa di colline profumose e verdi che non avrebbe mai messo troppi chilometri tra lei e il suo ato. Con l’indice umido premuto sul nome della città di Firenze (scritto a caratteri standard) tornò a rivolgersi al cameriere del bar di Piazza Castello. Acquistò un biglietto dell’autobus e, nonostante fossero le sette e mezzo del mattino, decise di aspettare fuori dal locale, sedendosi su una sedia bagnata di brina. Ora che aveva deciso Elide si sentiva un po’ più rilassata. Tuttavia il sudore freddo delle scelte importanti continuava a bagnarle fronte e mani. L’autobus arrivò puntuale alle otto e un quarto. Elide strinse i braccioli di ferro della sedia, mischiando il suo sudore con una grigia rugiada, e si alzò. Lasciò salire tutti e quando fu certa di essere l’ultima, afferrò la sua unica valigia e si avvicinò alla porta del bus. “È quello per Firenze?” chiese all’autista prima di salire il primo gradino. “Sì. Signorina.” Le rispose un uomo dalla voce graffiata da troppe sigarette “Firenze è l’ultima fermata. Poi si torna indietro.” Elide sorrise alla battuta e salì sull’autobus. Prese posto più o meno a metà e sistemò la valigia sotto al sedile in modo che non desse fastidio a nessuno. Si sfilò il cappotto e se lo distese sulle ginocchia. Tenne il biglietto in mano in modo da farsi trovare pronta quando il controllore fosse ato per obliterarlo. E chiuse gli occhi pesanti di sonno. Non sentì le porte chiudersi con un soffio cigolante, né il rumore del potente motore diesel pompare tanto da far vibrare il pavimento del bus. Si addormentò in meno di un minuto, rinfrancata dal tepore dell’abitacolo e dal brusio delle chiacchiere degli altri eggeri.

E sognò. Suo padre, Michael e se stessa ancora quindicenne. Erano tutti nel negozio Centopelli e Michael era alto, aveva i lineamenti da uomo. Forse aveva vent’anni. Elide l’aveva riconosciuto dal colore dorato degli occhi e dalle labbra rimaste sottili e rosse. Urlava Michael, le urlava contro in una lingua sconosciuta. E lei non riusciva a interromperlo per fargli capire che non capiva le sue parole. Ma neppure riusciva a tenerlo lontano. Michael le si avvicinava sovrastandola con la sua altezza e costringendola ad arretrare continuamente. Quando alla fine lui era arrivato a un o, l’aveva guardata pieno d’ira e le aveva afferrato una mano. Non per farle del male ma per posarla sul suo petto. Elide aveva sentito il calore e l’ansimo di Michael. L’aveva guardato sorridendo, gioendo perché era vivo! Ma subito qualcosa era cambiato. “Avrei potuto essere questo,” le aveva detto Michael con la sua voce da bambino, “se non fosse stato per te.” E a quelle parole la mano di Elide aveva sentito quel petto caldo diventare immobile. Freddo come nuvole dense. Come neve gelata. E tornare piccolo e ossuto come quello di uno scheletro. Come quello di Michael. Elide allora aveva spinto via quel corpo fatto di niente e di tutto e, questa volta, era stata lei a gridare in una lingua sconosciuta. E lo aveva fatto a lungo, fino a sentire la voce rauca e la gola in fiamme. Poi qualcuno l’aveva cinta per la vita e sussurrandole parole buone l’aveva costretta a sederglisi in grembo. E ad addormentarsi cullata dal suo profumo buono. Profumo di papà.

CAPITOLO XIV

Quando Elide si era svegliata, il cappotto le era scivolato dalle ginocchia. La gola era secca e si sentiva le guance tirare da lacrime secche. L’incubo da cui era appena sfuggita si stava riavvolgendo lento dietro alle palpebre. La luce del luminoso mezzogiorno l’avrebbe cacciato in fretta e il cielo azzurro, imbandito da linde tovaglie bianche, si sarebbe sostituito al suo buio. Erano anni che Elide non faceva quel sogno. Probabilmente la morte di suo padre aveva risvegliato tutto. Il ricordo, in fondo, si era solo assopito sotto a una coperta di foglie secche. E ora che era arrivato il vento freddo a spazzare via ogni cosa, i segreti e i dolori non avevano più un posto dove nascondersi. Le colline toscane sfilarono lente fuori dal finestrino accompagnando i pensieri di Elide. Lei le guardò sospesa tra sogno e realtà allungando una mano verso il finestrino per toccarle. Qualcuno alle sue spalle aprì un finestrino per buttare una cartaccia e un intenso profumo di mosto e foglie secche invase la cabina dell’autobus. Elide se ne riempì le narici respirando forte e non potendo fare a meno di pensare a Michael. A suo padre. A Pietro. Nei mesi appena trascorsi si era domandata spesso perché lui non avesse mai provato a rivederla. A chiamarla. Non capiva quella facile rassegnazione. Quel non fare niente se non il prendere atto della sua decisione. Era come se per lui quel “noi” di cui tanto entrambi si erano nutriti, non fosse mai esistito. E fosse bastato un niente per cancellarlo. Tuttavia in un angolo lucido della sua coscienza, una semplice verità non smetteva di spingere per venire alla luce. “Cos’altro avrebbe dovuto fare Pietro?” provava a gridare. “Tu non ti sei ascoltata mentre proferivi quelle parole. Non le hai viste

trasformarsi in pietre una volta uscite dalla bocca. Non sai cosa si possa provare a sentirsi dire “non ti voglio più.” Era vero. Lei non aveva idea di come si potesse crollare se investiti da una tale pioggia di pietre. Però, a sua discolpa, poteva dire di sapere bene cosa significasse scappare dal luogo in cui era nata e cresciuta. E scegliere, consapevolmente, un dolore grande quasi quanto la perdita di suo padre e metterlo davanti al primo. Per fargli ombra. Per non vederlo. Per imparare, col tempo, ad affrontare quello più piccolo con il solo intento di trovarsi, un giorno, di fronte al gigante per un attimo oscurato, ed essere in grado di poterselo caricare a spalle senza ritrovarsi in ginocchio. Ecco, questo sì lo sapeva bene. Invece, a quella remittenza da parte di Pietro, a quell’uscire dalla sua vita senza far rumore, senza gridare, litigare, farsi del male, no, non riusciva ad attribuire una ragione. Si sentiva abbandonata. Come se a lasciarla fosse stato lui. E non poteva sapere, Elide, che in un certo senso le cose stavano proprio così. Che qualcuno aveva detto a Pietro ciò che lei, volutamente, aveva scelto di non dire.

CAPITOLO XV

I cartelloni verdi dell’autostrada, con la scritta “Firenze” in grassetto bianco, si succedettero, uno dopo l’altro, molto velocemente. Alla fine, all’una appena ata, l’autobus entrò in città e, dopo aver percorso alcune strade del centro, si fermò in una grande stazione con decine di pullman parcheggiati. Elide, che non vedeva l’ora di scendere e cercare un alloggio, s’infilò in fretta il cappotto e scese tra i primi. Salutò l’autista con un timido sorriso e seguì il fiume di gente che correva nella medesima direzione. Arrivata davanti a un “Sali e Tabacchi” che faceva anche da edicola e da biglietteria, Elide si fermò. “Dove vado adesso? Centro o periferia?” si chiese. E mettendosi di fronte a una pianta della città grande quanto un quadro di Michelangelo, con l’indice premuto sul vetro, provò a ipotizzare diversi percorsi. Linee di svariati colori evidenziavano le tratte degli autobus: quella rossa indicava le fermate nelle vie del centro, quella gialla ci girava attorno e quella blu portava fuori Firenze. Sembrava tutto così semplice e chiaro. Eppure lei non riusciva a decidersi. D’un tratto qualcuno la urtò facendole perdere l’equilibrio e ruzzolare a terra. “Scusami tanto sai” le disse una voce con un accento tutt’altro che fiorentino. E una mano piccola quanto quella di un bambino, le si parò davanti. Elide l’afferrò più per cortesia che perché davvero avesse bisogno d’aiuto. Ma la forza di quella piccola mano la sorprese. Soprattutto quando vide a chi apparteneva. Elide non poteva sicuramente definirsi una donna alta, arrivava appena al metro e sessanta. Però la ragazza che prima l’aveva fatta finire con il sedere per terra e che poi l’aveva issata in piedi con la stessa forza di un uomo ben piantato, era

veramente bassa. “Non ti sei fatta male vero?” chiese a Elide la piccola donna. “Non ti sei sporcata? No?” insistette chinandosi per spolverarle il cappotto. Elide la lasciò fare pensando a dove aveva già sentito quell’accento. “La tua valigia” disse la piccola donna smettendo di lisciarle il cappotto. “Sorvegliala cara.” E con la punta di una stampella indicò a Elide un uomo che, alle sue spalle, sembrava avere un occhio di riguardo proprio per il suo bagaglio. “Grazie” rispose Elide arretrando di qualche o e afferrando al volo la sua valigia. La ragazza bassa le sorrise e appoggiandosi alla stampella scese dal marciapiede. A una velocità sorprendente si avviò verso la biglietteria ed Elide pensò bene di seguirla. Allungò il o più che poté ma a causa del peso della valigia non riuscì mai a raggiungerla. Tuttavia la poté osservare bene: capelli castani portati lunghi fino a metà schiena, sedere importante e gambe corte. Piedi piccoli e)… uno mancante: le All Star grigie, tutte consumate, che la piccola donna aveva ai piedi, non erano riempite solo da carne e ossa. La scarpa sinistra, ne era sicura, era calzata da una protesi. “Ecco perché zoppica!” pensò Elide. E la ragazza bassa entrò nella biglietteria. Elide arrivò poco dopo e per riprendere fiato si sedette su di una panchina poco distante dai “Sali e Tabacchi”: finalmente era arrivata a Firenze ma ora doveva trovare un alloggio. Dove andare. Così, seduta sulla panchina, Elide si perse in mille considerazioni. Non accorgendosi dello scemare del fiume di gente che prima l’aveva guidata fino al “Sali e Tabacchi”. Del silenzio fatto di motori d’autobus calato sulla stazione. Né tantomeno delle parole della ragazza bassa affacciata alla porta del negozio. “Aspetti qualcuno?” gridò nella sua direzione. “Ehi Pizzinna, aspetti qualcuno?” disse di nuovo la ragazza mettendo il piede finto fuori dal negozio. Solo allora Elide la sentì. “No. No…” rispose vaga mentre la parola “Pizzinna” gli martellava la tempia

ricordandogli che il suo significato era “bambina”. “Va bò” disse allora la ragazza, scrutando Elide un’ultima volta. Poi zoppicando rientrò nella biglietteria lasciando sbattere la porta sulla quale era affisso un manifesto. “Fiera di San Luca. Impruneta 1990” lesse Elide. “Accorrete numerosi.” Ma era lo sfondo a colpire nel segno. Erano le colline verde smeraldo, il cielo d’un azzurro mai visto e il borgo ricco di piazze e campanili a lasciare di stucco. Elide rimase per qualche istante con gli occhi appiccicati a quell’immagine da cartolina. Poi si decise ad alzarsi ed entrare nel negozio della piccola donna.

CAPITOLO XVI

L’accolsero due occhi neri del tutto inaspettati. E la voce con quell’accento famigliare che poco prima l’aveva chiamata “pizzinna”. “Deciso il da farsi?” domandò la ragazza bassa, sorridendole come fossero già amiche. Elide si voltò in direzione della porta per indicare il manifesto della fiera di San Luca. “Dista tanto Impruneta da qui?” chiese Elide “Ed è veramente come si vede in quella fotografia?” La ragazza bassa oltreò il bancone dietro al quale nascondeva il suo piede fantasma e si avvicinò al manifesto indicato da Elide. “Oh che peccato!” disse guardandolo “Ti sei persa la festa! Quest’anno la corsa dei cavalli è stata sensazionale sai! “Comunque. Impruneta dista circa venti minuti da qui, con la Linea blu ci arrivi tranquillamente. Vuoi un biglietto? Dovrebbero essere…” la ragazza bassa ritornò dietro il bancone. Guardò un modulo stampato in bianco e nero, tutto ingiallito e consumato, e continuò “sono quattromila. Sì, quattromila lire.” Elide mise subito mano al portafoglio e senza indugiare acquistò un biglietto. “Sapresti anche indicarmi un affittacamere?” aggiunse ritirando il resto delle cinquemila lire. “Ummm sì. Aspetta un secondo.” E ancora una volta la ragazza bassa superò il bancone. Si accostò a un mobiletto che aveva visto tempi migliori e da un cassetto sfilò la guida telefonica di Firenze. Sfogliando con irruenza le pagine di carta velina, cercò il comune di Impruneta e con l’indice dall’unghia rosicchiata scorse mille cognomi. D’un tratto però s’interruppe e sembrò ripensarci. Aprì il secondo cassetto del mobiletto e cercò un pezzo di carta su cui scrivere.

“Giglio Vittorio” disse a Elide mentre rovistava tra una marmaglia di cianfrusaglie. “Non so perché non c’ho pensato subito… Lo conosco bene sai! È un brav’uomo. E solitamente affitta le stanze agli studenti. Anche se l’anno ato ha avuto sfortuna. Gli hanno distrutto due stanze quei disgraziati. Così quest’anno ha deciso di affittare solo a gente a posto. E tu… tu sei a posto vero?” Elide nemmeno stavolta udì la domanda; la sua attenzione era tutta puntata sull’oggetto che la ragazza bassa aveva estratto dal cassetto e che, viste le dimensioni, faticava a rimettere a posto. “Pronto? Mi senti?” chiese la piccola donna. Poi, intercettando lo sguardo di Elide, fisso sulla sfera di vetro che stringeva in mano, aggiunse: “Che c’è?! Non hai mai visto una palla souvenir?” e scuotendo la sfera fece sollevare dal fondo la neve e i brillantini che da chissà quanto tempo riposavano ai piedi della statuetta di San Luca. “Certo, sicuro… io sono a posto” rispose finalmente Elide. “Sono a posto. Certo…” Poi Elide, come avesse dato alla ragazza la spiegazione più ovvia del mondo, sorrise e cercò di far riposare la sua agitazione sulla gran quantità di bustine di zucchero che impedivano a San Luca di tornare al buio del suo nascondiglio. Ce n’erano a centinaia, tutte sigillate in sacchetti trasparenti. E tutte con la scritta Segafredo. Sandra, così si chiamava la piccola donna della biglietteria, guardò Elide alzando gli occhi al cielo e abbandonò accanto al telefono la palla di vetro con San Luca sotto la neve. Su di un pezzo di carta scrisse il numero di telefono e l’indirizzo del Sig. Giglio Vittorio di Impruneta. Poi lo porse a Elide. “Digli che ti manda Sandra. Quella della stazione dei bus. “E mi raccomando non farmi fare brutte figure pizzinna. Mi fido di te.” Elide ritirò il biglietto dalle mani di Sandra e buttò un occhio alla palla di San Luca. “Grazie mille.” Riuscì a dire. E avrebbe aggiunto altro se una massa di urlanti turisti cinesi non fosse entrata nella biglietteria riempiendo l’aria di parole

incomprensibili. Elide si mise in un angolo in attesa che Sandra si liberasse. I cinesi la urtarono ripetutamente e nonostante il colore rosso della sua valigia attirasse l’attenzione, s’inciamparono e la calpestarono in continuazione. Quando se ne andarono, un altro sciame di persone fece irruzione nel negozio ed Elide decise di uscire e aspettare che il peggio asse. Non aveva chiesto a Sandra l’orario dell’autobus, tantomeno in quale “binario” aspettarlo. Certo, seguendo le istruzioni appese al muro della stazione, avrebbe potuto trovare da sola la via. Ma Elide voleva parlare ancora una volta con quella piccola donna. Sentirsi chiamare “pizzinna”. E provare a ricordare.

CAPITOLO XVII

“Il nonno di Pietro!” esclamò Elide mentre incollava l’indice al camlo a bottone della palazzina del signor Giglio Vittorio. “Era lui a chiamarmi pizzinna… lui veniva dalla Sardegna” si disse. E pensò a Sandra. Che sicuramente veniva dallo stesso posto. Che era così lontano da casa. E forse, come lei, senza nessuno. Non era riuscita nemmeno a parlarle un'ultima volta. Aveva trovato da sola l’autobus. Ed era arrivata a Impruneta. “Che tu vuoi?” le disse un paio di baffi bianchi da sparviero, infilato nel piccolo spazio concesso dalla porta semiaperta. “Ahh buongiorno” si affrettò Elide osservando i baffi arretrare “Mi chiamo Elide Centopelli e …” “Non mi serve niente signorina” la interruppe una voce piena di sospetto dopo aver gettato un occhio alla valigia ai suoi piedi. E le sbatté la porta in faccia. Elide rimase basita. Si attaccò nuovamente al camlo e aspettò che il signor Giglio Vittorio si affacciasse. Suonò più volte, ma nessuno si accostò mai alla porta. Eppure ne era sicura! Oltre la soglia qualcuno stava goffamente tentando di non farsi sentire. Forse addirittura stava trattenendo il respiro! Elide restò a lungo in ascolto, in piedi sul secondo gradino dell’ingresso di quell’antica palazzina sperando che un piede malmesso o un colpo di tosse tradisse l’evidente presenza del Sig. Giglio Vittorio. Ma i minuti trascorsero lenti senza che niente accadesse. Elide, sconfortata, si girò verso gli archi e la piazza che poco prima aveva visto solo su un manifesto e, abbracciando con lo sguardo le colline, si appoggiò alla

porta del Sig. Giglio Vittorio. “Meglio andarsene” si disse. Ma prima di afferrare la valigia suonò un’ultima volta. E gridò: “Comunque Sig. Giglio io sono a posto. Mi mandava Sandra. La ragazza della stazione dei bus! Quella…” Elide non fece in tempo a terminare la frase che la stessa porta, rimasta fino a pochi istanti prima saldamente incollata al suo stipite, si spalancò mostrando il Sig. Giglio Vittorio, in tutto il suo ingobbito metro e sessanta. “Sandra hai detto?” disse il vecchio a Elide. “Sicura?” aggiunse mimando la mancanza di un piede. Elide mosse il capo in cenno d’assenso e il Sig. Giglio Vittorio, di tutta risposta, afferrò la sua valigia rossa e la trascinò nell’atrio della palazzina. “Che tu fai? Che tu non vuoi più una camera?” e guardando Elide con un’espressione impaziente, scomparve oltre un angolo cieco. “E chiudi la porta per piacere! Questo paese è pieno di grulli!” gridò appena sentì la sua nuova inquilina varcare la soglia. Elide si affrettò a serrare la porta e a girare il chiavistello tipico delle case di una volta. Dopodiché, quasi correndo, girò lo stesso angolo che poco priva aveva inghiottito il Sig. Giglio Vittorio. E sorrise perché, lo sapeva, aveva trovato una casa.

CAPITOLO XVIII

La camera che il Sig. Giglio Vittorio affittò a Elide fu la migliore che potesse capitarle. Certo, era proprio una camera, niente di più. Però occupava l’ultimo piano e il soffitto era alto, tutto in legno. Inoltre aveva il bagno privato, appena rimesso a nuovo. Nelle mattonelle bianche e lucide Elide ci si poteva quasi specchiare. L’unica pecca era che le due finestre di cui era dotata la stanza, non si affacciavano né sulla piazza né sulle colline. La palazzina del Sig. Giglio Vittorio infatti era una vecchia, enorme casa, dotata di corte interna, a mo’ di convento: ballatoi con massicce ringhiere in legno facevano da perimetro, dal basso verso l’alto, a un giardinetto ben curato e a un pozzo antico, proprio nel mezzo. Anche il tetto, in corrispondenza della corte, non c’era, perciò quando pioveva fuori, pioveva anche dentro la casa, seppur lasciandola all’asciutto. Inoltre, il piano inferiore, occupato per intero dal Sig. Giglio Vittorio, ormai vedovo, aveva le pareti decorate da affreschi di epoca a Elide sconosciuta. Ma la cosa più bella di quella casa, era l’odore. Un odore d’intonaco di chiesa, di muschio e di roccia bagnata. A Elide ricordava tanto casa sua. La sua stanza, purtroppo non aveva muri decorati perché ristrutturata da poco, però aveva un vecchio armadio di legno con fiori intarsiati. E un sacco di tarme. Da quando viveva lì le era capitato spesso, durante la notte, di svegliarsi e udire il rumore di migliaia di mandibole al lavoro. Milioni di bocche che si cibavano del suo armadio intarsiato. Una domenica mattina Elide stava proprio cercando di debellare le tarme quando qualcuno aveva bussato alla sua porta. “Cavolo!” aveva sussurrato tenendo la bocca a fessura. E in un lampo aveva fatto scomparire nel cassetto ai piedi dell’armadio lo spray di ultima generazione appena acquistato. Se fosse stato il Sig. Giglio Vittorio avrebbe avuto delle grane. Chissà che storie

le avrebbe fatto quando, nell’aprire la porta, avesse visto la stanza ridotta a ghiacciaia. Con il termosifone spento e le finestre spalancate sul cielo grigio di novembre. Per non parlare del letto, nudo di coperte e lenzuola, ma rivestito di un cellophane antitarma acquistato insieme allo spray. “Cavolo!” si disse nuovamente Elide non sapendo se aprire la porta o sperare che il silenzio cacciasse il suo visitatore. Qualcuno bussò la seconda volta. Stavolta più a lungo e più forte. Elide allora, abbassò il fazzoletto con cui, prima di cominciare a disinfestare l’armadio, si era coperta naso e bocca e sospirando spalancò la porta. “Ciao Pizzinna!” disse una ragazza bassa con un piede finto. “Sandra!” esclamò Elide stupita e nello stesso tempo sollevata. La piccola donna sorrise e si fece avanti. Elide osservò la stampella e le cedette il o, permettendole di entrare nella sua stanza. E nella sua vita.

CAPITOLO XIX

Gianni piangeva e le sue lacrime luccicavano più della piccola chiave di ottone posata sul bancone appena tirato a lucido. Elide non riusciva a staccare gli occhi da lui: la sua pelle non era più color caramello come lei la ricordava. E le sue iridi verdi sembravano annegare in una pozzanghera di acqua paludosa. L’artrite lo aveva deformato. Ora camminava curvo, trascinando i piedi malandati. E le mani, che tante donne in gioventù avevano accarezzato, somigliavano a due ragni bianchi, coperti da macchie scure e tutti raggomitolati. Elide le aveva entrambe davanti, abbandonate sul bancone, in attesa che lei acconsentisse a quanto gli era stato chiesto. “Ti mostro qual è” aveva detto Gianni a un certo punto ponendo fine a quel silenzio di attesa. Poi, asciugandosi le lacrime con una mano e aggiustandosi il nodo della cravatta con l’altra, si era diretto verso la vetrinetta delle palle di vetro. Quella sera aveva indosso il suo vestito migliore. Lo aveva messo di proposito perché quel pomeriggio, nel are in autobus lungo la statale, aveva visto le luci nel negozio. Niente carta di giornale ingiallita sulla vetrina. E niente porta sbarrata come negli ultimi vent’anni. “Elide è tornata” si era detto. Così, appena arrivato a casa, si era infilato nella vasca da bagno, lavato con scrupolo e profumato le ascelle con il borotalco. Rasato al meglio delle sue capacità e agghindato con il suo abito migliore. Solo le scarpe l’avevano lasciato un po’ titubante, perché erano ortopediche e proprio da vecchio. D’altronde che alternative aveva? Quella stupida artrite guadagnava terreno

giorno dopo giorno e se non voleva trovarsi ancora una volta con la faccia sul pavimento, come già gli era capitato, doveva indossarle per forza. Per fortuna l’abito era perfetto: pantaloni di taglio classico con pinces in vita e giacca a doppio petto. Tutto color blu notte. Bellissimo. Nella tasca interna della giacca poi, quella vicino al cuore, aveva già riposto tutto. Se ne era occupato un giorno di quattro anni prima. Ancora si ricordava la data, era l’undici di novembre. Quel giorno era uscito dall’ospedale e dopo quasi tre settimane era tornato a dormire nel suo letto. Oh Dio, dormire era una parola grossa! Bazzicare da un’allucinazione all’altra era la definizione migliore. Lo avevano operato alla prostata e gli era stata asportata una massa tumorale grande quanto una mela. L’andrologo gli aveva assicurato che il suo amichetto, laggiù in mezzo alle gambe, avrebbe subito delle conseguenze minime. Ma a Gianni quelle “conseguenze minime” erano da subito apparse giganti. Non è che funzionava poco, non funzionava per niente! Defunto! Come la proboscide di un elefante morto. Quello per lui era stato il colpo di grazia. Il fato gli aveva giocato un brutto tiro, aiutato dal medico che, pur di operarlo e salvargli la vita, si era riempito la bocca di bugie. Già, salvargli la vita. Ma cosa se ne sarebbe fatto lui così, senza donne, di tutti i giorni a venire? Un lavoro non l’aveva perché era in pensione; l’auto nemmeno, perché dopo l’ultima sbronza gli avevano ritirato la patente; il suo migliore amico era morto anni prima e suo figlio nemmeno sapeva della sua esistenza… Sì, suo figlio. Proprio così. Nessuno sapeva di lui. Però tra poco a Elide lo avrebbe detto. “È proprio quella, brava!” gridò Gianni costringendosi a tornare alla realtà. Elide gli stava indicando una sfera solitaria, panciuta e perfetta, posta nel ripiano più basso della vetrinetta. Un centimetro di polvere ricopriva la sua volta e il vetro non sembrava trasparente e luminoso come un tempo. Però era la sua sfera,

Gianni ne era certo. Elide l’afferrò, se la strinse al petto come suo padre le aveva insegnato, e accarezzandola come fosse un cucciolo d’animale, la depose sul bancone. “Sei sicuro?” chiese. “Oh sì bella mia!” rispose Gianni. “Ma prima, devi vedere questa…”. Si portò ancora una volta la mano alla tasca interna, sul lato del cuore e tra le sue dita nodose fece capolino una polaroid a colori. Raffigurato c’era un bambino di circa dieci anni, impolverato dalla testa ai piedi, ma con un sorriso tale che anche il diavolo ne sarebbe rimasto conquistato. Indossava una maglietta azzurra a maniche corte e sulla schiena, inquadrata per metà, s’intravedeva il numero sette. Giocava a calcio in un campo di sabbia, probabilmente in una giornata secca e afosa, eppure era il bambino più felice del mondo. E si fidava della persona a cui stava sorridendo. “Lui è Gino,” disse Gianni quasi sussurrando, “mio figlio.” Precisò. Con l’indice rugoso accarezzò i contorni della fotografia. Poi, senza dare tempo a Elide di fare domande, cominciò a raccontare. Iniziò da una domenica di primavera del 1995, giorno in cui, quella strega della madre di suo figlio era salita sul traghetto accompagnata da un bambinetto di otto anni. All’epoca era appena rimasta vedova. Il corpo del marito era così fresco che probabilmente i vermi del campo santo non ne avevano ancora sentito l’odore. Eppure Erminia, così si chiamava la strega, era già in cerca di un nuovo sposo. E quella mattina era salita sul traghetto convinta di trovarne uno. “Gino è tuo figlio” gli aveva detto indicando un mocciosetto poco lontano quando lui, per cortesia, le si era avvicinato per farle le condoglianze. “Hai capito?” aveva insistito lei con voce acida. Lui aveva fatto sì con la testa. Perché sì, aveva capito. Tuttavia, nello stesso tempo, non credeva di aver ben compreso.

Con Erminia era andato a letto un sacco di volte, ed era stato anche piacevole. Ma da lì a metterla incinta e a venirlo a sapere dopo otto anni ce ne voleva! Poi, chi gli diceva che quella strega non stesse mentendo? Non aveva smesso di andarci a letto mica per niente! Quella era una vipera. Si ricordava bene lui, quando di punto in bianco, si era messa in testa di lasciare la buon’anima del marito per dedicarsi alla sua conversione in uomo per bene! E per bene s’intendeva maritato. Non altro! Un’assurdità considerando il fatto che lui non era neppure l’unico con cui andava a letto! “So cosa pensi, ma è tuo” aveva insistito Erminia quasi gli avesse letto nel pensiero. E con il mento rigido e gli occhi severi gli aveva fatto cenno di osservare bene il bambino. Così Gianni l’aveva guardato. E lo stomaco gli si era subito attorcigliato. Gino era la sua fotocopia: un po’ di barba incolta, qualche decina di centimetri in più e sarebbe stato un giovane Gianni. “Ti credo” era riuscito a spiccicare dopo un po’. Ed Erminia aveva preso la palla al balzo. “Lui ha bisogno di un padre ed io di un marito. Che dici, ci stai Già?” “Ma ché sei pazza!?” aveva risposto lui d’istinto. E l’aveva squadrata centimetro per centimetro, sentendosi rabbrividire. Erminia aveva un sorriso sghembo e come se gli ultimi otto anni fossero ati due alla volta anziché singoli, della beltà di un tempo non c’era più traccia. Però c’era Gino. Gianni l’aveva osservato correre spensierato per tutta la lunghezza del ponte del traghetto e si era riconosciuto in lui come se si stesse specchiando in un ricordo d’infanzia. Quel bambino correva dinoccolato, sbattendo le braccia qua e là come non sapesse dove metterle. E metteva i piedi storti, tutti all’interno. Era un insieme di disarmonie sorprendenti, proprio com’era stato anche Gianni alla sua età. “Senti Erminia,” si era sentito dire senza che il cervello lo avesse avvertito, “io posso tenere Gino quando non lavoro, darti i soldi per la sua istruzione, per i

vestiti, eccetera. Posso anche venire a scaldarti il letto una volta ogni tanto. Ma io non sono uomo da matrimonio. Lo sai!” A quelle parole Erminia non aveva risposto. Aveva tenuto gli occhi bassi e la fronte corrugata come se, con il solo sguardo, fosse stata in grado di incenerire tutto il traghetto. Chiaramente partendo dalle assi sotto ai piedi di Gianni. “Crepa brutto bastardo” gli aveva vomitato addosso tutto d’un tratto. “Non ho bisogno di te che mi scaldi il letto” aveva ribadito. “E Gino non è tuo figlio! Allocco che non sei altro! Secondo te mi facevo mettere incinta da un buono a nulla come te? Comunque te ne pentirai! Ahhh, Dio solo sa quanto!” aveva concluso a denti stretti. Poi, afferrando Gino per un braccio, aveva raggiunto di corsa l’angolo più remoto del traghetto. Dopo quell’incontro, con Erminia, Gianni non aveva più parlato. Ma in fondo di cosa avrebbe dovuto discutere? Le sue ultime parole, insieme al gesto di afferrare il bambino e portarlo il più lontano possibile da lui, avevano ammesso molte più verità di quante ne avrebbe mai dette. “È proprio mio figlio” aveva pensato Gianni quella mattina osservando Gino un’ultima volta prima di tornare alla familiarità della sua cabina di comando. E da allora non era trascorso giorno in cui non trovasse il modo di vedere suo figlio almeno per cinque minuti. “A modo mio, sono riuscito a fare il padre” aveva concluso Gianni guardando la foto di Gino appoggiata sul bancone. E cercando gli occhi di Elide aveva aggiunto: “Penso che tuo padre, sarebbe stato fiero di me.” A quell’affermazione Elide si era allungata sul bancone e aveva cercato le mani di Gianni. Le aveva accarezzate e intrecciate alle sue domandandosi perché lo avesse escluso a quel modo dalla sua vita. Sentì ancora una volta le lacrime farsi strada ma fece di tutto per impedire la loro discesa: era giunto il tempo di assecondare il destino di Gianni.

CAPITOLO XX

“Cosa intendi fare con le fotografie?” chiese Elide lasciando le mani di Gianni e ingoiando le lacrime . “Voglio dire, quale scegli?” “Non scelgo, cara. Le voglio tutte e due” rispose Gianni allargando la bocca in un sorriso pieno di sicurezza. “Non si può, lo sai…” insistette Elide. Ma Gianni non si diede per vinto. E allungandosi in direzione del registratore di cassa, afferrò un rotolo di scotch mettendosi all’opera. Faticò nel far combaciare i bordi di una vecchia fotografia di carta ingiallita con quelli di una plasticosa polaroid, ma quando ebbe finito il collage si dimostrò perfetto. “Sai,” disse mostrando a Elide il suo lavoro certosino, “in queste fotografie ci sono le persone che più ho amato. E purtroppo non c’è un momento unico che le accumuna tutte… Come posso scegliere? Invece così, forse, avrò due “mentre perfetti”. Salterò per l’eternità da questo dove a questo quando.” E indicando le due fotografie mimò a Elide il breve volo di una cavalletta. “È rischioso Gianni, lo sai. E io...” “Che cosa ho da perdere?” la interruppe Gianni. “Guardami! Sono un vecchio malato che ha i giorni contati. Lasciami fare. In fondo… è la mia vita…” A quelle parole Elide restò con la bocca semiaperta in un principio di protesta. Ma non disse nulla e ricordò le parole che suo padre si era raccomandato di tener bene a mente quando, da piccola, le aveva insegnato il “mestiere”. “Non dissuadere chi è arrivato fin lì guardando le punte impolverate delle sue scarpe,” diceva, “perché il coraggio l’ha smarrito lungo il tragitto. E in quel momento avrà bisogno del tuo.”

Elide si scrutò dentro e cercò il coraggio che suo padre tanto aveva declamato. “Va bene. Cominciamo” disse con una voce così solida da non parere la sua. E posizionò le fotografie all’interno della sfera di vetro. Gianni le sorrise con gratitudine. Cercò di muovere i nodosi legni secchi che aveva per gambe e aggirò il bancone d’ebano. Quando la raggiunse se la strinse forte al petto e accarezzò con nostalgia la foresta sale e pepe quale era ormai la chioma di Elide. Accolse con gioia le sue lacrime calde ed ebbe cura di lasciare scivolare fino alla riga del colletto della camicia, in modo da tenerle strette e portale con sé nell’eterno viaggio che stava per intraprendere. Elide lo lasciò fare. E s’impegnò a ricordare ogni istante di quel lungo abbraccio. Respirò il forte odore di naftalina che impregnava l’abito di Gianni e, in fondo in fondo, le riuscì scovare anche quel profumo di amico che sempre gli aveva sentito addosso. Si lasciò cullare e accarezzare dalle braccia di Gianni e alla fine, quando lui parlò, la realtà tornò evidente. “Per chi sei tornata?” le sussurrò Gianni. “Per Pietro?” le chiese. Elide per un attimo si sentì confusa nel sentire quel nome pronunciato da Gianni. E fu lì per domandare perché sarebbe dovuta tornare per Pietro. Cosa l’avesse spinto a pensare che il motivo del suo ritorno fosse quello. Ma non lo fece. E disse a Gianni solo la verità: “Per Sandra”. E ascoltando la sua voce pronunciare quel nome, restò china su di lui, diventato così piccolo, al punto da sentirsi come un gigante che abbraccia un bambino.

CAPITOLO XXI

“Allora Gianni,” esordì Pietro con fare poco cortese, “cos’è che non so ancora? Perché in realtà, penso di saperne già abbastanza…” Gianni, di tutta risposta, con la mano gli indicò la sedia di legno pesante della cucina e lo invitò a sedersi. Poi, sentendo il suo ospite sbuffare, gli voltò le spalle andando a recuperare dal frigorifero una bottiglia di vino bianco, fermo e ghiacciato. Con un tonfo la posò sul tavolo insieme a due bicchieri e si sedette al suo solito posto. Mentre versava quel liquido color del sole e osservava i bicchieri appannarsi, rifletté ancora una volta su quanto stava per fare. Perché intromettersi a quel modo? Perché non lasciare che il destino fe da sé? “Perché il destino a volte va aiutato” disse ad alta voce. E guardò Pietro. I suoi occhi scuri lo fissavano spazientiti e nervosi. Volevano correre e posarsi nuovamente su Elide. E lui li stava trattenendo. “Parla Gianni” lo incalzò Pietro buttando giù un sorso di vino gelato. E Gianni, prendendo un lungo sospiro, parlò. “Pietro, tu hai la faccia di un uomo disposto a tutto pur di riprendersi la donna che ama. E per questo, a dir la verità, un po’ ti ammiro… A me, come ben sai, non è mai accaduto. Però, stai commettendo un grosso errore andando a convincere Elide che tutto si può risolvere…” “Scusa Già, ma questi non sono fatti tuoi…” lo interruppe Pietro vuotando tutto d’un sorso il vino rimasto nel bicchiere e alzandosi dalla sedia “perciò, non avercene a male, ma io me ne vado senza ascoltarti.” E così dicendo batté una mano sulla spalla di Gianni e si diresse verso l’uscita.

Gianni non fece una piega. Disse solamente “Non ti ha parlato di Michael vero? Tantomeno di suo madre. Non è così?” Pietro si bloccò sulla porta lottando contro la voglia di sapere tutto e quella di correre da Elide. Alla fine vinse la curiosità e tornò sui suoi i. “So, Pietro, cosa le dirai” esordì immediatamente Gianni. “Che sarai tu a trasferirti qui. Che per te non sarà un problema fare su e giù da Genova. “Che per amore si fanno sacrifici, no? E tu li farai pur di non perderla, pur di non farla rinunciare al negozio di suo padre, alla sua casa. A ciò che fanno i Centopelli… “Ma questo, restare qui, anche se con te, è proprio ciò che Elide non vuole.” “Non capisco…” disse Pietro muovendosi inquieto sulla sedia. “Michael era un bambino bellissimo di soli sette anni. E il giorno che è entrato nel negozio Centopelli è anche rimasto. Nella sua sfera, a rivivere il suo mentre perfetto. “Aveva il cancro, Michael. E non voleva morire. Così ha chiesto a Elide e a suo padre di recitare la loro preghiera e metterlo nella sfera di vetro che aveva scelto. Per Elide è stato un duro colpo. Non voleva. Non ha mai compreso che quella era davvero la sua volontà. La cosa giusta da fare. Così ha cominciato ad alzare un muro tra lei e suo padre. Giurandosi che mai, un’altra volta, nella vita, si sarebbe trovata in una situazione simile. “È da quel giorno che Elide organizza la sua fuga. E da quando suo madre le ha messo in testa l’idea che inseguire il proprio sorprendente futuro sia la sola cosa per la quale valga la pena vivere. “Ma sai, Pietro, ogni persona è a sé. Ognuno fa le sue scelte. Uomini, donne. Adulti e bambini. Ed Elide amava essere una Centopelli. Non avrebbe potuto desiderare di far altro

nella vita! Ma la vita l’ha messa alla prova e lei è caduta, si è fatta male. Ma si rimetterà in piedi. Ne sono sicuro.” Pietro, questa volta, si alzò definitivamente dalla sedia: niente l’avrebbe più trattenuto. “Lei ha fatto la sua scelta, Gianni. E io e te non possiamo far altro che rispettarla. Proprio come ha fatto suo padre.” E così dicendo si avviò verso l’uscita. “Non capisci!” gridò Gianni rincorrendolo e afferrandolo per un braccio “Se tu tornerai da lei e insisterai fino a convincerla, lei ti seguirà a Genova... Non vorrà restare. E non tornerà più qui. Non sarà più una Centopelli. Mai più Pietro! “Pensaci. Lei è l’unica in grado di portare avanti questa cosa magnifica. Pensa a quanti potrebbe aiutare! È vero, non sarà oggi, né domani. Ma sono sicuro che un giorno lei tornerà. Riaprirà quel negozio e Mario non sarà morto per niente…” Con queste ultime parole Gianni lasciò il braccio di Pietro e cercò i suoi occhi neri. Li fissò con tutta la disperazione che aveva nel cuore e poi li abbandonò per voltargli le spalle e tornare a sedersi al tavolo della cucina, di fronte al suo bicchiere di vino ghiacciato.

CAPITOLO XXII

“Abbi cura di te Gianni” disse Elide allontanandolo delicatamente per guardarlo negli occhi. “È ora” sussurrò Gianni osservandosi le punte impolverate delle scarpe. Tornò dall’altra parte del bancone cercando di asciugarsi il sudore delle mani sulla giacca dell’abito e di rallentare un po’ l’improvvisa corsa del cuore. Quando giunse nuovamente di fronte a Elide, lei aveva già cominciato a recitare l’antica preghiera. Il negozio era spazzato da un vento di parole incomprensibili. Le mattonelle del pavimento ondeggiavano come il mare e la vetrinetta con le palle di vetro seguiva il moto ondoso quasi avesse preso le forme di una barchetta di cristallo. Gianni faceva lo stesso: con il corpo assecondava il movimento mentre con le mani cercava di tenersi ancorato al bancone d’ebano. Elide aveva gli occhi chiusi. Non sembrava rendersi conto di quanto succedesse intorno a lei. Era concentrata sulla sfera di vetro. Solo su quella, così bella, così affascinante, così luminosa. Il negozio d’un tratto s’illuminò come un’alba. E Gianni, si scoprì a temere che la gente fuori potesse esserne accecata. O attratta. Si voltò istintivamente in direzione della porta. Ma alle sue spalle non vide nulla. Né la porta, né la vetrina, né la strada e il marciapiede. Solo un mare di mattonelle bianche a fare su e giù. Su e giù. Gianni si sentì sollevato e, per la prima volta, davvero spaventato. Tornò a guardare la sfera e vide le sue fotografie diventare una sola fino a ingrandirsi e riempire interamente lo spazio della palla di vetro. Osservò la cellulosa spalmarsi sulle curve di vetro e i volti, prima di Mario e poi di Gino, si succedettero sulle pareti della sfera. “Vieni Gianni!” sentì gridare Mario. “Vieni a fare la foto con noi!”

Gianni non credette alle sue orecchie. Poi, quando vide il braccio di Mario materializzarsi fuori dalla sfera e tendergli la mano, non credette più nemmeno ai suoi occhi. “Vieni Gianni” sentiva gridare. Ed era vicino, a un o da lui. Gianni deglutì forzatamente e prese coraggio. Alzò un braccio verso la sfera e vide Mario e Gino sorridergli. Fu allora che il mare di mattonelle bianche s’imbizzarrì producendo un’onda alta quanto i muri del negozio Centopelli. Gianni la sentì alzarsi alle sue spalle. La immaginò possente e con la stessa forza distruttrice di una mandria di tori lanciata al galoppo. Ma questa volta, invece di voltarsi a guardare, tenne gli occhi fissi sulla sfera e costrinse la sua mano a lasciare definitivamente la presa dal bancone. Quando l’onda anomala lo raggiunse, lo sollevò a mezz’aria e lo strizzò spingendolo nella piccola palla di vetro. Gianni non sentì dolore né paura. Ebbe solo timore che il suo abito buono si sgualcisse e non fosse presentabile al momento dell’incontro con Mario. Aveva dimenticato che, nel suo mentre perfetto, non sarebbe più stato il Gianni di quel momento. Ma il Gianni di vent’anni fa. Quell’uomo giovane e forte che aveva pescato un luccio gigante. Quell’uomo felice.

CAPITOLO XXIII

Bam. Vetro contro legno. La palla di Gianni precipitò sul bancone. Elide riaprì gli occhi e la vide, immobile e unica come doveva essere. Lei e tutti i mobili del negozio facevano su e giù, sospinti dalla risacca della possente onda che aveva travolto Gianni. La porta e la vetrina del negozio non s’intravedevano ancora e al loro posto c’era solo un’interminabile distesa di mattonelle bianche fatte d’acqua. Acqua. “No!” gridò Elide “L’acqua, l’acqua, l’acqua!” continuò disperata portandosi le mani al viso. “Me ne sono dimenticata. Dimenticata! E ora che faccio. Dove la prendo? La chiesa. Certo. La chiesa.” Elide farfugliò altre parole incomprensibili e barcollando corse nel retrobottega, s’infilò il cappotto, afferrò la borsetta e tornò dietro il bancone. Si mise in tasca la palla di Gianni e aguzzò lo sguardo per riuscire a scorgere la porta del negozio. Quando fu sicura di averla individuata si avventurò nel mare di mattonelle bianche e raggiunse il marciapiede. Attraversò la strada senza aspettare che l’omino del semaforo diventasse verde e

affidandosi alla memoria, s’inerpicò per le vecchie stradine del centro storico, in direzione dell’unica chiesa del paese. Per completare l’incantesimo l’acqua benedetta era necessaria. Era quello il liquido che riempiva le sfere di vetro. Il collante che diventava un tutt’uno con il vetro della sfera e che magicamente la sigillava. Elide non aveva scordato l’importanza dell’acqua, solo che Gianni era capitato in negozio così all’improvviso! Con il vestito buono, gli occhi grandi e la decisione già presa. Pensava che allungando la mano sotto al bancone l’avrebbe trovata pronta come sempre. E invece… Quando arrivò nei pressi della chiesa il fiato era già corto e i piedi avanzavano sul selciato per inerzia. Il portone era evidentemente sbarrato. Dalle finestre di quei muri alti e imponenti non filtrava nemmeno la luce di una candela. Elide si fermò in mezzo al sagrato e osservò l’edificio che di sacro, in quel momento, per lei, aveva ben poco. L’orologio, grande e rotondo, in bella vista sul campanile, indicava le otto meno un quarto. “Troppo tardi” si disse procedendo comunque a piccoli i. “Nessun vespro, nessuna recita del rosario. Niente.” Continuò a dirsi Elide scivolando nell’ombra delle porte laterali e girandole maniglie di tutti gli accessi secondari trovandoli inevitabilmente sigillati. D’un tratto un petardo esplose nella strada adiacente. Elide sobbalzò portandosi le mani al viso per trattenere un strillo e per un soffio la palla con dentro Gianni non le sfuggì di mano. Sentendo le gambe molli si lasciò andare contro il legno del portone principale fino a sentire gli angoli degli intarsi diventare spilli tra le scapole. Poi, di colpo, il portone scricchiolò e cominciò ad aprirsi verso l’interno. “Oh Dio!” disse Elide. E nello stesso istante in cui l’eco della sua voce annullò il silenzio di marmo della chiesa, la corsa del portone si arrestò: una trave di legno massiccio gli impediva di spalancarsi. “Chi va là?” chiese qualcuno dal buio della chiesa.

Elide si ritrasse. Intravide una fiammella, poi due, tre e quattro, che danzando lungo la navata e si muovevano nella sua direzione. Scomparvero solo nel momento in cui furono tanto vicine da poter essere toccate. Poi la chiesa s’illuminò a giorno e un profumo di candele spente si diffuse nell’aria. “Ha bisogno di me Signora?” chiese un vecchio in tonaca nera e colletto bianco. I suoi occhi scuri la scrutarono con severità. “Mi serve solo un po’ d’acqua benedetta…” disse Elide d’istinto. E mentre il suo ginocchio si sbucciava sul pavimento in un tentativo di genuflessione, si maledì per le parole appena pronunciate. “Centopelli?” domandò il prete. Elide, rialzandosi, lo guardò sconcertata. Gli occhi del sacerdote ora sembravano accoglienti come un abbraccio paterno. Elide si arrischiò a fare cenno di sì con la testa. Il prete le sorrise. Gettò uno sguardo indagatore alla palla di vetro che Elide stringeva nella mano sinistra e a bassa voce, scuotendo la testa con dolcezza, disse: “Ahhh Gianni…” Poi si girò e con o veloce ripercorse la navata fino a scomparire nella sagrestia. Elide rimase sola e immobile nel rettangolo della sua mattonella. “Gianni aveva parlato al prete delle sue intenzioni? Aveva parlato di lei?” si domandò spaventata e confusa. “Eccole” la sorprese nuovamente il vecchio in veste nera e colletto bianco. Era stato fulmineo e silenzioso come un gatto. Il prete le mise in mano una busta di cartone all’interno della quale era facile scorgervi due bottiglie di vetro. Elide le soppesò con cautela. Non sapendo cosa dire si limitò a guardare il prete

con gratitudine e a ondeggiare nell’area della sua mattonella. Però, prima che lui potesse chiederle qualunque cosa, corse fuori dalla chiesa. Il prete la seguì con lo sguardo fino a quando non la vide girare l’angolo e scomparire nei viottoli del centro abitato. Poi, avvicinandosi al portone per sbarrarlo nuovamente, disse ad alta voce: “Bentornata Elide.”

CAPITOLO XXIV

Sandra non aveva il piede sinistro dall’età di dieci anni. Ma a Impruneta, così come a Firenze, tutti immaginavano che il piede sinistro non ce l’avesse mai avuto. Che fosse nata così. In pochi sapevano. Mentre in tanti, immaginavano. Del resto come dar loro torto? A vederla camminare così svelta, mai nessuno avrebbe pensato che quel modo di ondeggiare da pendolo Sandra lo avesse dovuto apprendere anziché avercelo in dote genetica. Comunque i pochi che sapevano, sapevano. E nel gregge degli altri, di sicuro, nessuno avrebbe mai immaginato che Sandra si allenasse a scappare da qualcuno. Neppure lei, in fondo, lo sapeva. Che il reale merito della sua spigliatezza fosse però da accreditare al rancore, di quello sì, ne era cosciente. Ogni mattina era quel sentimento che la spingeva a mettere una gamba e mezza fuori dal letto, a incastrare il piede di vetroresina sul moncherino. Per Sandra il rancore aveva i contorni di una pietra liscia e nera che picchiava e batteva come un secondo cuore, prendendo energia dai brutti ricordi del ato. Perché si sa, il ato ha poteri straordinari… e quello di Sandra non era da meno. Anzi. Il suo ato poteva essere racchiuso tutto in unica figura: quella del vecchio che aveva sulla coscienza (sempre che una coscienza, quell’uomo, l’avesse davvero) il suo piede di carne e di ossa. Il vecchio era suo nonno. Ma Sandra, fin da quando aveva memoria, non lo aveva mai considerato tale. Lo chiamava nonno solo per abitudine e perché non aveva idea di quanto, nella realtà, i nonni veri fossero ben diversi. Sandra lo odiava dal profondo, come solo i bambini sono in grado di fare. Ancora ricordava il giorno in cui un adulto le aveva detto che lei e il nonno

erano come due gocce d’acqua. Che avevano lo stesso sangue. Doveva essere stato un complimento per chi aveva pronunciato quella frase, ma alle orecchie di Sandra quelle parole erano giunte come una bestemmia. Ci aveva rimuginato sopra per gran parte della giornata, restando ore davanti allo specchio a confrontare i tratti del suo viso con quello decrepito del nonno. E sì, qualche punto in comune l’aveva trovato, tuttavia una risposta evidente non era stata in grado di darsela. Così, a fine giornata, si era costretta a prendere una decisione coraggiosa ma fondamentale per la sua esistenza: era corsa in cucina, aveva afferrato un coltello e, senza pensarci due volte, si era aperta a metà il palmo della mano. Il sangue si era mostrato immediatamente e Sandra lo aveva osservato, annusato, assaggiato. Una volta memorizzate le caratteristiche visive e olfattive, aveva nascosto la mano ferita dietro la schiena ed era corsa dal nonno. L’aveva colto alla sprovvista come meglio non avrebbe potuto. Il vecchio sonnecchiava con la schiena appoggiata al muretto a secco e la bocca spalancata a dar aria alle mosche. Non la sentì neppure avvicinarsi ma all’improvviso ZAC! Un dolore tagliente al braccio e una sensazione di caldo. Come se non bastasse sua nipote svettava accanto a lui, con una luce assassina negli occhi, un coltellaccio in una mano e l’altra, chissà perché, nascosta dietro la schiena. “Avrà mica una pietra per fracassarmi il cranio?” si era domandato. E nel rispondersi che forse poteva essere, era stato un attimo mettersi in movimento e disarmare la piccola. In verità Sandra non lo avrebbe più colpito. Ciò che voleva scoprire le era già diventato evidente. “Che schifo!” si continuava a ripetere mentre il vecchio la trascinava in casa e, con un calcio nel culo ben assestato, la faceva rotolare sul pavimento della sua stanza. “Che schifo. Sembra proprio uguale al mio” aveva concluso tristemente sfregando il fondoschiena dolorante sulle mattonelle fredde. Ed era rimasta così per un po’, sentendo lo sgomento salire dal fondo della pancia seguito a ruota dalle lacrime.

Era stato proprio allora, nel sollevare lo sguardo per impedire alle lacrime di scendere, che le aveva viste: due gocce di sangue, nitide e definite. Sporcavano il pavimento vicino alla porta. “Sangue di nonno” si era detta. E gli si era avvicinata cautamente, strisciando sulle ginocchia e sulla mano ancora chiusa a pugno. Una volta vicino le aveva osservate, annusate e infine assaggiate. “Stesso sapore” aveva constatato. “Stesso colore” aveva aggiunto. Allora le lacrime, questa volta in vantaggio sullo sgomento, avevano ripreso a salire dalla pancia e a scendere lungo le guance. Sandra aveva pianto per dieci minuti, seduta sul pavimento freddo a contemplare due goccioline rosse che sembravano rubini. E si era addormentata così, pensando a quando odiava il nonno. A come disprezzava quegli occhi verde scuro, identici a quelli di una serpe. Serpe nera, viscida, silenziosa. Serpe d’altri tempi, dotata di un veleno di cui nessuno avrebbe mai trovato l’antidoto. E che dire della bocca? E di ciò che usciva da quella che sembrava una fornace sempre accesa? “Sputa sentenze” l’aveva sentito soprannominare dalla sguattera che, tre volte a settimana, veniva a rassettare la casa e a rifornire di viveri la dispensa che avevano per cucina. Eppure quella donna era una di quelle che considerava suo nonno un uomo affascinante. Li aveva visti più d’una volta Sandra, avvinghiati in una danza di gonne alzate e pantaloni abbassati. Una danza che lei si era augurata di non dover mai apprendere. Sicuramente era meglio essere considerata scema. Cosa che il nonno non lesinava mai di rammentarle. “Non sono scemo come te” era la sua tipica affermazione. E gliela propinava ogni volta che lei gli domandava una cosa da bambini, tipo perché le stelle cadono? Perché i pesci muoiono fuori dall’acqua? Perché il fuoco scotta? “Non sono scemo come te” le rispondeva sempre. Niente di più. Non le dava alcuna spiegazione perché tanto lui quelle cose le sapeva.

Era un uomo colto e intelligente il nonno. Ma anche ignorante. Di quell’ignoranza tipica di chi nemmeno di Dio ha paura, figuriamoci di una bambina. Giovanmaria si chiamava. E seppure la parte finale del suo nome rievocasse la madre di Gesù, in lui di dolce, materno e santo non c’era proprio niente. Purtroppo Sandra, a parte lui, non aveva nessuno. Non una mamma, non un papà. Nemmeno il loro ricordo. Se ne erano andati a cercar fortuna in continente quando lei aveva appena due anni e con la scusa di trovare un lavoro e non avere un bambino d’intralcio l’avevano lasciata alla cura dei nonni paterni. Dopo poco più di un mese però la nonna era morta e i suoi genitori, quasi il fato ci avesse preso gusto a mettere in piedi quel macabro teatrino, avevano incontrato la stessa sorte. Erano tornati sull’isola sotto forma di polvere grigia e comodamente alloggiati in vasi d’alluminio alti due spanne. Lei e il nonno, il primo novembre di ogni anno, andavano a trovarli al cimitero. Ed era stato proprio lì, in quel luogo benedetto da Dio, che Sandra aveva incontrato per la prima volta il medico che in seguito le avrebbe amputato il piede. Si chiamava Dottor Giglio Vittorio e a quel tempo la sua professione di medico l’aveva portato a Lei, paesino di settecento anime, in centro alla Sardegna. “Che uomo strano…” aveva pensato la prima volta al cimitero quando le aveva accarezzato la testa. La stessa considerazione l’aveva sfiorata quando, al loro incontro successivo, il Dottor Giglio Vittorio e il suo vestito di tessuto spesso e scuro, erano apparsi sull’uscio polveroso della casa del nonno e lì, in attesa che qualcuno li invitasse a entrare, si erano fermati. Il Dottor Giglio Vittorio non era giunto da loro per caso. Stretto in una mano, quasi a farsi aria, aveva un foglio con il loro indirizzo. Quel giorno aveva deciso di andare di casa in casa a visitare chi all’ambulatorio non ci poteva andare. Oppure chi, come lei e il nonno, non immaginava neppure che un ambulatorio ci fosse.

Il Dottor Giglio Vittorio aveva visitato il vecchio, poi era ato a Sandra. Le aveva osservato il fondo degli occhi, auscultato il cuore, pesata, misurata in altezza e toccata sotto il mento, tastando le due palline vicino alla gola. Le aveva accarezzato la pelle secca del viso e preso la manina per ispezionare lo spazio a triangolo tra le dita. Poi aveva estratto una cartina stretta e lunga quanto il suo mignolo e, con uno spillo magico, le aveva punto il dito indice. Sandra aveva visto comparire sul polpastrello un pallino rosso che subito il Dottor Giglio Vittorio si era preoccupato di raccogliere sulla cartina. Dalla borsa dei ferri poi aveva estratto una macchinetta grande quanto una grattugia a mano e quella cartina, rossa del suo sangue, era stata infilata in quell’aggeggio. Dopo qualche secondo la macchinetta aveva emesso un suono e sputato uno scontrino con dei numeri. Sandra aveva sorriso e aveva cercato gli occhi del medico per ritrovare il suo stesso entusiasmo. Ma non li aveva incontrati nonostante l’insistenza nel cercarli. “È facile che sia diabetica la bambina...” aveva detto il Dottor Giglio Vittorio rivolgendosi al nonno che fino a quel momento era rimasto in silenzio. “Se le analisi del sangue lo confermeranno… ehh dovrà fare iniezioni d’insulina. E star attenta acciò che mangia. Venga, venite all’ambulatorio giù al paese che così le mostrerò come fare. Va bene?” “Son dispiaciuto,” aveva aggiunto il Dottor Giglio Vittorio scrutando il volto scuro del nonno, “non sarà mica una eggiata tenere sotto controllo ‘sti zuccheri nel sangue, ‘stà glicemia, ma si può viver lo stesso cent’anni sa!” Il medico si era lasciato andare a un sorriso, nella speranza che anche l’uomo che aveva di fronte si sentisse un po’ speranzoso. “E pigliala tu la pizzinna allora! Che aspetti!” aveva gridato il nonno spalancando la fornace che aveva per bocca. E dopo quelle parole ne erano seguite altre, gridate in dialetto. Il vecchio le aveva sputate tutte come fossero denti marci, investendo il dottore con goccioline di saliva al veleno. Le aveva viste annaffiargli gli occhiali e aveva goduto. Il Dottor Giglio Vittorio però non aveva battuto ciglio, si era limitato ad alzarsi dalla sedia e a sfilarsi dai calzoni un fazzoletto immacolato. Aveva lasciato che il vecchio terminasse il suo sproloquio e in seguito, con la stessa calma con cui si era lucidato gli occhiali, si era mosso per rimettere a posto i ferri del mestiere.

Il vecchio tuttavia non aveva gradito quei movimenti lenti e misurati e con un gesto istintivo gli aveva strappato di mano la borsa, gettandola fuori dalla finestra. Il Dottor Giglio Vittorio in un primo momento era rimasto con una faccia di marmo. Poi, d’improvviso, le parole gli erano uscite da sole, direttamente dalla pancia: “La piglio sì la bambina! Ignorante codardo! Che tu vuoi dirmi? Parla bene e nella lingua che conosciamo tutti e due! Non ti nascondere dietro al tuo dialetto! Che tu hai paura? Paura che ti possa zittire con una parola sola?!” E così dicendo era uscito dalla cucina, aveva raccolto dalla polvere della strada la sua borsa e se ne era andato. Si era voltato solo per cercare Sandra e farle segno con la testa che sì, la promessa l’avrebbe mantenuta. Il nonno, di colpo ammutolito, aveva osservato il Dottor Giglio Vittorio andarsene. Poi aveva guardato la nipote e con gesto stizzoso della mano le aveva fatto capire di allontanarsi. Sandra non era mai stata più contenta di obbedire. Aveva un mucchio di cose cui pensare e non vedeva l’ora di mettersi seduta e guardarsi bene il dito. Quella coccinella di sangue raggrumato infatti non faceva altro che gridarle che quella cosa, il diabete, forse l’avrebbe salvata.

CAPITOLO XXV

Quel martedì di fine estate, Sandra per la prima volta comprese cosa significasse davvero aver fame. Il nonno decise d’interpretare alla lettera le parole del Dottor Giglio Vittorio. La diagnosi del medico non era certa ma cosa gli importava? Una bella lezione alla bambina e a quel medico maleducato, lui Giovanmaria Sulis, doveva dargliela. Ma se per il Dottor Giglio Vittorio avrebbe dovuto attendere, per la nipote non sarebbe stata un cattivo inizio, cominciare con una dieta ferrea che, oltretutto, gli avrebbe anche permesso di risparmiare qualche lira sulla pensione. Così, quello stesso giorno per pranzo, Sandra si ritrovò due uova sode, ancora con il guscio sporco di sterco, e quattro fagiolini lunghi e stretti che se non fosse stato per il colore si sarebbero detti spaghetti al dente. A lei non piacevano le uova, in nessuna salsa. E il nonno lo sapeva bene. Perciò Sandra affondò i denti della forchetta solo nei fagiolini e se li mise in bocca cercando di masticarli lentamente. La fame e la tristezza l’accompagnarono per tutto il giorno e quando arrivò l’ora di cena Sandra si scoprì disposta a divorare le gambe del tavolo. Ma si trovò sole le uova e perciò decise di andare a letto senza cena. La mattina seguente, quando il nonno la scosse violentemente perché era già tardi, non si svegliò. Non diede alcun segno neppure quando il vecchio bastardo la schiaffeggiò fino a farle colorare le guance. Questo, a Sandra, glielo raccontò la sguattera. Perché quella mattina, per fortuna, a casa del nonno c’era anche lei. Fu lei a chiamare il dottore. Fosse stato per il nonno… Quella fu l’unica grave crisi ipoglicemica. Con tanto di coma e annessi e connessi. Sandra stette dieci giorni in ospedale a Nuoro e a riaccompagnarla a casa ci pensò non il nonno ma il suo nuovo angelo: il Dottor Giglio Vittorio. Lui l’assistette per tutta la durata del ricovero in ospedale e le spiegò, in termini

semplici, cosa fosse il diabete, i cibi che avrebbe potuto ingurgitare a tonnellate e quelli di cui invece avrebbe dovuto scordarsi. Al termine di quella lunga chiacchierata, Sandra aveva ben inteso che lo zucchero bianco, in zollette o in bustine, a seconda del caso, sarebbe diventato il suo miglior amico o il suo peggior nemico. Solo la raccomandazione di tenere d’occhio le dita dei piedi, decise di mal interpretare. “Che non diventino blu!” si era premurato di dirle il Dottor Giglio Vittorio ma aveva usato le parole sbagliate. O meglio il colore sbagliato. “Blu” si era ripetuta Sandra nella testa appena lo aveva udito. E una lampadina dalla luce azzurrognola aveva illuminato la sua idea malsana. Si era guardata le vene del polso e quel colore livido le aveva dato coraggio. Lo aveva deciso in un secondo: lei voleva il sangue blu. Non vedeva l’ora di vederlo scorrere sotto la pelle sottile delle dita del piede. Guizzare gioioso spodestando quello rosso. Così non avrebbe più avuto il sangue come quello del nonno.

CAPITOLO XXVI

C’erano voluti due mesi di scarpe strette e annegate di sudore freddo. Due mesi a sopportare un freddo strano. Alla fine però, sulla punta dell’alluce sinistro, la prima lunetta blu era comparsa. Quando l’aveva vista, Sandra si era prima commossa, e poi arrabbiata: quella maledetta lunetta, appena la schiacciava con il dito, scompariva fino a diventare di un colore rosato e non faceva poi così male. I taglietti aperti tra le dita del piede invece, quelli le davano speranza. Bruciavano da matti anche se erano rosso ciliegia e non blu come invece avrebbe voluto. Comunque non avrebbe desistito. Sandra, il piano, già lo aveva chiaro in testa. Se il prezzo per vivere lontano dal nonno era il suo piede, beh, quel prezzo lo avrebbe pagato. In fondo era solo un pezzo di lei. Cinque dita inutili, un mucchietto di ossicini fragili e poca carne. Ok, non avrebbe più potuto correre, ma camminare sì! Così come andare a scuola, disegnare, cucinare, accarezzare il cane, nuotare, suonare uno strumento, guidare l’auto (anche se di quello non era tanto sicura), prendere il treno, la nave, l’aereo, il bus, sposarsi, avere un bambino. Insomma senza un piede si potevano comunque fare un sacco di cose. Senza una mano l’elenco si sarebbe ristretto un po’, così come senza un occhio o addirittura senza entrambi. No, no. Aveva fatto una scelta ed era stata una decisione meditata. Non aveva ancora dieci anni ma, a differenza di quanto pensava il nonno, non era scema. L’unica cosa a cui doveva prestare attenzione era che il blu non si estendesse sopra la caviglia, perché immaginava che a quel punto avrebbe dovuto rinunciare a molto di più del suo piede. E il ginocchio le piaceva, così come la coscia e tutto quello che ci stava sopra. Sandra si vedeva bella, con i capelli e gli occhi neri, una pelle del colore delle olive quando si fa la raccolta. Sarebbe stata carina anche con un piede solo.

Avrebbe somigliato a un fenicottero rosa, quegli uccelli che dormono su una zampa sola. La gente, di loro, diceva che erano bellissimi e lei non sarebbe stata da meno. Da quando aveva preso la decisione di rinunciare al suo piede sinistro non ava giorno che non si mettesse di fronte allo specchio e restasse in equilibrio più che poteva su una gamba sola. Eretta, con le braccia lungo i fianchi, il mento alto in segno di sdegno verso il mondo e il piede che poi non avrebbe più avuto, nascosto dietro a quello che invece l’avrebbe sempre sorretta. Restava così fino a quando le prendeva un crampo al polpaccio o alla natica e allora doveva smettere. “Non sarà così terribile” si era detta spesso, al termine di quelle estenuanti prove di vita. Tuttavia, quando era accaduto, le era bastato poco per ricredersi. Dal momento in cui era comparsa la prima mezzaluna blu, Sandra era riuscita ad accelerare il processo di cancrena non togliendosi più la scarpa per due settimane consecutive. Per i primi giorni aveva sopportato il caldo, il prurito e l’odore sgradevole che durante le ore diurne sfuggiva alla plastica della scarpa da tennis. Era riuscita a liberarsi di questi fastidi muovendo le dita del piede come fossero i tasti di un pianoforte che, da soli, suonavano la scala musicale. All’inizio della seconda settimana però questa divertente operazione era cominciata a riuscirle sempre meno facile. E negli ultimi giorni del suo castigo era arrivata a provare così tanto dolore che ogni volta che le dita sfioravano la tela della scarpa, aveva l’impressione che un porco spino le rotolasse di schiena sulla pelle marcia. Quando, alla fine si era decisa a liberare il piede, lo spettacolo che si era trovata di fronte l’aveva fatta vomitare. Ma l’aveva comunque delusa. Il suo piede non era del blu che aveva immaginato. Non aveva nulla a che fare con quello dei pastelli Giotto che teneva nell’astuccio di scuola. Né tanto meno con l’inchiostro sbavato delle penne Bic. Il suo piede aveva il colore del lutto. Della morte. Il suo piede era viola! Sandra si era sentita tradita. Tradita dalla sua stessa intelligenza, dalle sue speranze. Non aveva immaginato che le dita sarebbero state così gonfie, così

brutte. Che non sarebbe riuscita a muoverle e nemmeno a separarle le une dalle altre. Che le unghie sarebbero rimaste incollate alla plastica della scarpa, come le ostie della comunione al palato. Per non parlare dell’odore che emanava la sua pelle macera. Era terribile. Le ricordava il tanfo che una volta aveva sentito provenire dai resti di un gatto spiaccicato sulla strada e lasciato evaporare al sole. “E adesso cosa faccio?” aveva detto ad alta voce, al termine dell’attento esame del suo piede. Nessuno, per fortuna, le aveva risposto. Era sola in camera sua. E sola a decidere cosa fare. Era andata oltre il traguardo stabilito. Molto oltre. E ora rischiava grosso. “Ok. Vado dal Dottor Giglio.” Aveva detto a un certo punto a se stessa. I minuti correvano veloci e il piede era sempre più gonfio, quasi la scarpa l’avesse contenuto tutto quel tempo. Sandra non provò nemmeno a rinfilarsi la scarpa. Anzi si tolse anche la destra e srotolando i lunghi risvolti della tuta che indossava, si avvolse entrambi i piedi. Provando un dolore cieco e sordo, fece qualche o, caricando tutto il peso sul tallone. Riuscì a raggiungere la bicicletta e a spingerla fino al primo tratto di strada in discesa. Solo allora si decise a montarci sopra e darsi la spinta necessaria per avviarsi lungo il serpente di asfalto e sassi. Fu un’impresa mantenere l’equilibrio. Con la gamba proiettata in avanti e quel piede gonfio, la bicicletta non riusciva a seguire una traiettoria precisa e ogni sasso rischiava di farla rovinare a terra. Fu così per un paio di chilometri poi arrivò la salita. Sandra si accorse solo all’ultimo del cambio di pendenza. Non riuscì a frenare né a rallentare. Affrontò il primo tratto di salita sfruttando lo slancio della piccola discesa appena percorsa e quando tentò di pedalare, con la sola gamba destra, la bicicletta la disarcionò, guizzando sotto di lei come un’anguilla. Sandra, si ritrovò riversa a terra con il piede tumefatto impastato di sangue,

ghiaia e un dolore a tenaglia che, per fortuna, le impedì di gridare. Quando il cerchione della sua bicicletta, rivolto al cielo azzurro, smise di girare, lei era già svenuta.

CAPITOLO XXVII

Questa volta Sandra non ebbe la stessa fortuna della sua prima crisi glicemica. Quando riprese conoscenza infatti non si ritrovò in ospedale ma nel suo letto, a casa. Se ne accorse ancora prima di aprire gli occhi. Lo percepì dell’aria calda che respirava. Che odorava di veleno. Odorava di nonno. Ma c’era anche un odore di cadavere nell’aria e improvvisamente l’idea che già le avessero tagliato il piede la scosse dal torpore. Si mise seduta e spalancò gli occhi nello stesso tempo. Il dolore le fece capire che il piede era ancora attaccato alla gamba. Svenne e, quando si riprese, aprì gli occhi restando sdraiata. Sentiva il respiro del nonno vicino e non si sbagliava. Lui la sovrastava con aria greve e minacciosa. “Mi sono sbagliato” le disse con quel suo accento duro. “Non sei scema.” E, nel dire quelle parole, calò violentemente la punta del bastone che solitamente infilava nei fianchi delle pecore sul suo piede in cancrena. Sandra sentì il rumore del legno contro la sua pelle gonfia e livida. E niente più. Il mondo si spense un attimo prima che il dolore cominciasse a urlare forte e le spaccasse i timpani. Fu un bene perché così si risparmiò il ghigno del nonno e il tocco della sua mano sporca e rugosa in mezzo alle gambe. Il vecchio, infatti, aveva tutta l’intenzione di farle apprendere quanto prima la stessa danza di calzoni abbassati e gonne sollevate che era solito praticare con la vecchia sguattera. Nella sua mente malata aveva immaginato di aspettare ancora un paio d’anni. Ma quando aveva visto quel piede viola e intuito il piano della nipote, la rabbia gli aveva offuscato la mente. L’idea di infliggere a Sandra una punizione

esemplare non aveva trovato ostacoli e si era fatta avanti. Al vecchio, il pene divenne duro solo al pensiero. Quando poi accarezzò il corpo seminudo di Sandra, l’urgenza dell’eccitazione lo costrinse a slacciarsi in fretta i pantaloni e a montare a cavalcioni della nipote. Lei aveva gli occhi chiusi e il viso girato su un lato. Fu una fortuna. Perché quando il nonno le rovinò addosso, cadde proprio a un centimetro dal suo viso e non la imbrattò di sangue. Il Dottor Giglio Vittorio fu agile e silenzioso. Lungo la strada era inciampato nella bicicletta di Sandra e se in un primo momento era sceso dall’auto sorridendo e l’aveva caricata nel baule, dopo qualche centinaia di metri un dubbio aveva cominciato a insinuarsi. “Che fosse accaduto qualcosa?” Si era domandato. Il Dottor Giglio Vittorio aveva tentennato il tempo necessario a intravedere da lontano la casa di Sandra. Poi si era deciso: aveva spento il motore dell’auto e l’aveva lasciata proseguire lentamente lungo la discesa, fino a farla fermare. Allora aveva inserito la marcia per impedire che si muovesse ed era sceso. Quando era entrato nel cortile della casa era stato il silenzio tombale a colpirlo. Le pecore erano lontane, mute. E il nonno, nonostante fosse pomeriggio inoltrato, non si trovava coricato sotto il grande ulivo, a ridosso del bianco muretto a secco. Il Dottor Giglio Vittorio aveva già le nocche ripiegate per bussare alla porta d’entrata, quando la voce del vecchio gli era giunta nitida e chiara come se ce l’avesse alle spalle. Il Dottore si era girato di scatto facendo stridere i sassolini intrappolati sotto alle suole delle scarpe. Un sospiro di sollievo gli era nato e morto dentro: il vecchio non era alle sue spalle. Ma forse lo aveva sentito. Il Dottor Giglio Vittorio era rimasto immobile prestando ascolto. Poi improvvisamente la porta si era mossa e un maledetto rivolo di vento l’aveva spalancata per metà. “Chi c’è?” aveva sentito dire al vecchio, avendo sempre la sensazione di averlo

alle spalle. Questa volta però il Dottor Giglio Vittorio non si era mosso. E quando dei i pesanti si erano mossi nella sua stessa direzione, aveva teso i muscoli per rimanere immobile e non respirare. Il vecchio era arrivato fino alla porta e l’aveva spinta senza guardare oltre la soglia. Stava già tornando sui suoi i quando si era reso conto di non averla chiusa a dovere. Il Dottor Giglio Vittorio aveva udito i i del vecchio arrestarsi per poi proseguire nella direzione opposta rispetto alla sua. Si era appena calmato un po’ quando un ansimo di piacere gli era giunto all’orecchio. “Che diavolo …?” si era detto il Dottore pensando che fino a quel momento non aveva udito alcuna voce di donna all’interno della casa. Dopo il primo ansimo ne era seguito un secondo. Poi era arrivato il turno del tintinnio di una fibbia di metallo e il caratteristico rumore di una cerniera che si abbassa. “Oh Sandrina …” Aveva sentito sussurrare il nonno. Il Dottore si era sentito gelare dentro ed era entrato in casa come un fulmine, dirigendosi verso la stanza di Sandra. Lì, lo aveva accolto il sedere e la schiena nuda del vecchio, già a cavalcioni della nipote. Ansimava mentre le mani vecchie e ruvide frugavano tra le gambe di Sandra. Il Dottor Giglio Vittorio, a quella vista, si era sentito bruciare il viso, le mani, tutto. Aveva impugnato il bastone che il vecchio, poco prima di slacciarsi i pantaloni, aveva appoggiato alla parete e, con un colpo secco, lo aveva colpito alla testa. Così il Sig. Giovanmaria Sulis era caduto riverso sul letto con il viso accanto a quello di Sandra che neppure si mosse.

CAPITOLO XXVIII

“Vieni via con me…” le aveva sussurrato una voce conosciuta al momento del suo risveglio. E Sandra aveva aperto con fatica gli occhi sporchi di lacrime asciutte e aveva visto i baffi del Dottor Giglio Vittorio. L’aveva guardato come fosse un miraggio, con la stessa speranza e intensità di un uomo che nel deserto sta morendo di sete ed ecco apparirgli un’oasi. “Dov’è nonno?” aveva chiesto con un filo di voce. “Non è qui.” Le aveva risposto il Dottore scoprendo, in un sorriso pieno di tenerezza, i denti macchiati di tabacco. “Non è qui” aveva ribadito stringendole forte la mano. Allora Sandra aveva notato le pareti immacolate intorno a lei. E alle narici le era giunto un odore molto diverso da quello che impregnava ogni cosa a casa del nonno. Rassicurata aveva così chiuso gli occhi e un’emozione grande quanto un pallone pieno d’acqua le era scoppiata nel petto. Senza riuscire a controllarsi aveva cominciato a singhiozzare e a stringere più che poteva la mano del Dottor Giglio Vittorio. “Niente più nonno? Basta nonno?” aveva chiesto in un sussurro al Dottor Giglio Vittorio, cercando ancora una volta la conferma che non si sarebbe stancata di ascoltare. “Niente più nonno” aveva semplicemente ripetuto il Dottore. Ma i suoi occhi erano improvvisamente diventati lucidi. “Però piccola mia, c’è una cosa che devi sapere…” e aveva abbassato lo sguardo sul lenzuolo candido. Sandra terrorizzata l’aveva seguito a ruota. Non era certa di aver perso solo il

piede. I ricordi, che come sassolini appuntiti le stavano piano piano pungendo la memoria, le avevano mostrato un piede viola fino a poco sotto la caviglia. “Cosa mi è rimasto?” aveva biascicato osservando un rigonfiamento sotto il lenzuolo che arrivava fino al ginocchio. A quelle parole il Dottor Giglio Vittorio era rimasto di sasso. Aveva osservato l’espressione rassegnata sul viso di Sandra e non aveva impiegato molto tempo a indovinare tutto: il piede ridotto a quel modo, il tentativo di fuga con la bicicletta, la violenza del Sig. Giovanmaria. “L’hai fatto di proposito…” gli scappò detto, incredulo lui stesso di avere simili pensieri. Per tutta risposta Sandra tese le braccia verso di lui. “È solo il piede a non esserci più… vero?” aveva chiesto mentre quel petto stretto in un camice bianco, raccoglieva tutte le sue lacrime, “vero?” “Sì, solo il piede. Solo il piede” gli aveva ribadito più volte il Dottor Giglio Vittorio. Poi, il tempo tra un singhiozzo e l’altro si era accorciato e il dottore aveva trovato il coraggio di sollevare il lenzuolo e mostrare a Sandra la nuova realtà. “Tutto il resto è qui, lo vedi?” le aveva detto. Gli occhi di Sandra allora erano corsi a misurare i centimetri di pelle che le restavano. E nel momento in cui avevano intravisto un bel pezzo di gamba oltre il ginocchio, il sollievo li aveva finalmente fatti socchiudere. Sentendosi leggera Sandra si era lasciata ricadere sul cuscino. Il Dottor Giglio Vittorio le aveva rimesso a posto il lenzuolo e accarezzato i capelli. Se ne era andato solo quando l’aveva vista addormentata. Ma era rimasto nei paraggi. Come fanno tutti i buoni padri.

SECONDA PARTE

CAPITOLO XXIX

Sandra dormiva ancora. Elide, da quando era arrivata, la sorvegliava costantemente. Temeva che il cambiamento di clima potesse nuocerle. Invece, quasi l’acqua del lago avesse poteri curativi, Sandra sembrava star meglio. Dormiva solo un po’ di più. E questo a Elide faceva paura. Non riusciva a convincersi che per Sandra era semplicemente un bisogno e non un avviso che presto sarebbe sopraggiunto il peggio. La guardava dormire tutte le mattine, per qualche minuto. Si accucciava accanto al suo letto e ascoltava il suo respiro regolare. Le osservava le rughe intorno alla bocca. Qualche filo bianco tra i capelli sfuggito alla tinta fai da te. E memorizzava. Ogni particolare. Ogni tratto. Non voleva farsi sfuggire nulla Elide. Aveva il terrore che il tempo le avrebbe fatto dimenticare il viso della sua migliore amica. Scordare le sue espressioni, la forma dei suoi occhi, il suo sorriso. Certo, per ricordare esistevano le fotografie, i filmati video. Ma il profumo, il calore, quelli dove si potevano imprigionare per non perderli mai? Elide non lo sapeva e per questo si era specializzata nel raccogliere e godere delle emozioni, dei piccoli attimi. In modo da riuscire a tenerli con sé il più possibile e stiparli, alla meglio, in tutti gli anfratti della memoria. Era tornata per Sandra, Elide. Per scegliere la sfera che presto l’amica avrebbe abitato per sempre. È vero, quando era una ragazzina si era giurata che mai sarebbe stata una Centopelli. Che mai più si sarebbe trovata nella condizione di mettere un bambino come Michael in una palla di vetro. Ma ora che aveva quasi cinquant’anni si era trovava costretta a rimangiarsi la promessa. E a tornare a casa.

Il destino ce l’aveva ricondotta. O forse, più che il destino, non era forse stato l’amore? In fondo Sandra per lei era tutto. Tutto il suo mondo. E una volta rinchiusa in una delle magiche sfere non l’avrebbe più vista. Mai più abbracciata. Allora perché assecondarla? Perché non lottare per convincerla del contrario, proprio come avrebbe voluto fare con Michael? Perché finalmente Elide cominciava a capire. A comprendere quanto Michael, a soli sette anni, aveva già inteso. Lui aveva scelto di vivere in eterno quel giorno magnifico in cui non era ancora malato e suo padre era ben lontano dal partire soldato per non tornare più. Però aveva fatto molto di più: aveva regalato a sua madre la possibilità di vivere. Vivere nel vero senso della parola. Perché non l’avrebbe mai fatto se l’avesse visto morire in agonia. Se avesse visto il corpo di suo figlio squagliarsi e i suoi occhi riempirsi di sangue. Elide, allora, questo non l’aveva capito. Invece, suo padre, sì. Era per questo che l’aveva spinta ad assecondare il desiderio di Michael. Il suo fine era salvarli entrambi. Non condannarli. Elide era fuggita da questa verità per quasi una vita. Però non aveva sprecato il tempo. E nemmeno la vita. Le cose erano semplicemente andate in maniera diversa. Era come se avesse fatto il giro completo del mondo fuggendo da qualcosa. Per poi tornare al punto di partenza e, guardando tutto con occhi di chi ha vissuto, rendersi conto finalmente di poter restare. E ricominciare dal momento esatto in cui, una volta, tutto era mutato. Perché non c’era più nulla che costringesse alla fuga. Più nulla. Così, non era stato difficile riaprire le finestre della sua casa dal grande terrazzo sul lago. Arieggiarla e decorarla con fiori freschi. Per poi fare altrettanto con il Negozio Centopelli. Imbiancandolo di nuovo e trasformandolo in un’erboristeria. Perché in fondo quello era il suo lavoro. Lo era stato anche a Impruneta, seppur non da subito. C’erano voluti anni prima che Elide si decidesse ad accettare i soldi in prestito da Sandra. Ma per fortuna gli affari erano andati a gonfie vele e, in breve tempo, Elide aveva estinto il suo debito.

La loro amicizia aveva avuto inizio il giorno in cui Sandra aveva bussato alla sua stanza. Insieme avevano dato l’antitarma all’armadio poi erano finite a mangiare un boccone al piano di sotto. Dal padre di Sandra. Elide non aveva subito capito. E si era persino spaventata un po’ quando la sua nuova amica si era fermata proprio davanti alla porta del Dottor Giglio Vittorio. “Ciao babbo!” l’aveva sentita gridare mentre calava la mano sulla maniglia e faceva avanzare il suo piede finto oltre la soglia. “Ciao babbo??!” si era ripetuta Elide tra sé. Ed era rimasta impalata sul gradino d’entrata “Babbo? Sei in cucina?” aveva sentito urlare Sandra mentre avanzava lungo il corridoio. Poi una porta si era spalancata sul corridoio e un uomo piccolo, con il grembiule dello stesso colore dei baffi, era comparso sulla soglia. Sandra gli si era avvicinata per spostargli un baffo perfettamente impomatato e depositargli un bacio umido sulla guancia. “Babbo, stasera abbiamo ospiti!” aveva detto voltandosi a indicare Elide “Cos’hai preparato di buono? Uhmmm senti che profumino…” “Cotiche coi fagioli” aveva risposto il Dottor Giglio Vittorio arrossendo un po’. E sorridendo a Elide, come se la vedesse per la prima volta, le aveva fatto cenno di avanzare. Quella sera avevano cenato tutti insieme. Così come fecero molto spesso negli anni a seguire. “Tengo due figlie io! Non una! Due figlie!” era solito dire il Dottor Giglio Vittorio a chi gli domandava. “Una è Sandra, la conoscete, e l’altra è Elide! Sì quella dell’erboristeria! Che tu non l’hai mai vista? Ma sì è quella con quei capelli! Eh? Quanto è brava? Ma è bravissima! Un angelo per me. E per Sandra. Stanno sempre assieme quelle due. Sempre! Eh dire che la cacciai via la prima

volta che la vidi davanti a casa! Mentre adesso mi fa garbo avercela qui! Son tanti anni ormai. Si proprio tanti… ehhh non li conto più.” Neppure Elide li contava più, così presa dal suo presente incalzante. Dalla vita che piano piano aveva reso sopportabile il ricordo di Pietro, l’assenza di suo padre e il marchio a fuoco lasciato da Michael. Questo, fino a una domenica di dicembre baciata da una brina così bianca e tenera da sembrare neve. L’orologio segnava già le dieci quando Elide si era resa conto di non aver ancora visto il Dottor Giglio Vittorio. “Cosa strana” si era detta. E con lo stomaco in subbuglio era scesa al pian terreno. Una volta entrata in casa, un subdolo silenzio l’aveva messa in allerta. Ma aveva proseguito lo stesso fino alla porta della camera da letto. Elide aveva accostato l’orecchio e dopo essere rimasta in ascolto per qualche istante si era decisa ad entrare. Ed eccolo lì il Dottor Giglio Vittorio. Ancora a letto, con le coperte rimboccate fin sotto al mento. I baffi morbidi a tenere le labbra secche al calduccio. E gli occhi spalancati al soffitto con una lacrima arida a disegnare una strada a curve sulla pelle immobile. Nessun movimento sotto le coperte. Nessun respiro. “È morto” aveva sussurrato Elide mentre osservava le pareti della stanza, temendo di veder apparire la morte in carne e ossa. Sforzandosi, era riuscita a uscire dalla stanza per correre a telefonare a Sandra. Aveva faticato a schiacciare i tasti del telefono. E a trovare le parole. Quando alla fine aveva riattaccato, a casa del Dottor Giglio Vittorio, non era più sola. Il Dolore, insieme al ato, era seduto al tavolo della cucina e tutt’e due la aspettavano per banchettare. Avevano un mucchio di cose da raccontarsi. Negli ultimi anni non si erano frequentati più di tanto e avevano ancora dei conti in sospeso.

“Che dici Elide,” diceva il ato, “non pensi che anche il Dottor Giglio Vittorio avrebbe voluto poter scegliere di vivere il suo mentre perfetto?” “Già,” ribatteva il Dolore, “perché non gliel’hai mai chiesto? Perché?” Elide avrebbe voluto tanto cacciare tutti e due. O correre via. Ma non sarebbe servito perché presto sarebbe arrivata Sandra. Senza saperlo si sarebbe accostata alla tavola imbandita e il Dolore l’avrebbe costretta a sedersi e a tenerlo accoccolato in grembo. Si sarebbe preso il buono della sua amica. Ed Elide se ne sarebbe accorta dallo sguardo vacuo, dalle spalle curve, dalla pelle grigia. Dalle parole ostili, dalla rabbia. Elide l’avrebbe sorvegliato e avrebbe fatto di tutto perché non confortasse Sandra così a lungo come aveva fatto con lei. Ma di più, cosa avrebbe potuto fare? Forse parlare. Metterla in guardia. E risolvere quei conti in sospeso. Così, un giovedì di Gennaio, con ancora la terra fresca sulla tomba del Dottor Giglio Vittorio, Elide decise di raccontare a Sandra tutto sulla sua famiglia. Sulle sue colpe. Di Pietro e di Michael. “Ti piace?” aveva chiesto Elide appoggiando sul bancone dell’erboristeria una sfera di vetro del negozio Centopelli. La sua, esattamente. Sandra, che anche quel giorno aveva lavorato solo per qualche ora, chiudendo il “Sali e Tabacchi” ancora prima di mezzogiorno, non sembrò neppure sentirla. Il piede finto a penzoloni e i gomiti sul bancone, la facevano rassomigliare a una fantoccio senz’anima. Elide accarezzò la sfera e spostandola da una mano all’altra catturò alcuni raggi di sole: degli spicchi di arcobaleno cominciarono a rincorrersi lungo le pareti del negozio. “Bella. Cos’è?” disse Sandra notandoli. Elide la guardò prendendo un bel respiro. Si ò una mano fra i capelli e si avviò a chiudere a chiave la porta del negozio.

Era nervosa. L’unica volta che aveva raccontato quella storia la persona che aveva davanti se ne era andata per sempre. Certo, era stata lei a cacciarla dalla sua vita. Ma la sostanza, alla fine, non cambiava. “C’è qualcosa che non sai. Qualcosa che riguarda me” aveva detto Elide afferrando nuovamente la sfera di vetro. Sandra, stupita, l’aveva guardata, rivedendola alla stazione degli autobus di Firenze, con la valigia rossa del primo giorno che si erano incontrate. Non aveva mai pensato che Elide le potesse nascondere qualcosa. Si erano sempre confidate tutto, come fossero sorelle di sangue. Ma mai, nei pomeriggi piovosi delle domeniche invernali, con entrambe raggomitolate sullo stesso divano e nella stessa coperta, Elide aveva parlato del suo ato. Né del reale motivo per cui aveva deciso di lasciare il suo paese. “Che fosse quello?” si era chiesta allora Sandra. E appoggiando i gomiti sul marmo freddo, si era messa in ascolto.

CAPITOLO XXX

Elide parlò per quasi un’ora restando in piedi, ferma dietro al bancone. Sandra ascoltò nella stessa immobilità. Non fece domande. Lasciò che Elide parlasse senza incalzarla nei lunghi silenzi che fecero da intermezzo al suo monologo. Tenne a freno le domande che le cavalcarono la lingua e represse l’incredulità per le storie delle persone rinchiuse nelle palle di vetro. Solo quando Elide raccontò di suo padre, di Michael e di Nela, Sandra si mosse dalla sua posizione statica per allungarsi e riuscire a stringerle le mani. Le circostanze avrebbero consigliato lo stesso slancio anche quando l’argomento divenne Pietro, ma Sandra non ci riuscì. “Che ti è saltato in testa?” pensò. “È un’assurdità” le scappò detto. Ed Elide la guardò stupita, con le labbra improvvisamente tirate da un sorriso amaro. Sandra abbassò lo sguardo. “Già, un’assurdità, ” ammise Elide con la voce incrinata dai ricordi, “me ne rendo conto.” E cercando di calmare le lacrime che salivano dalla gola, girò le spalle a Sandra. “Sono scappata lo so” proseguì. “E ho lasciato Pietro aggiungendo un dolore a un altro. Ma mi è servito. Perché sai, una volta superato un ostacolo, affrontarne uno più grande non sembra poi così impossibile. E questo penso che tu lo sappia meglio di me.” Così dicendo Elide tornò a guardare Sandra. Era rimasta nella stessa posizione. Il freddo del marmo, attraversando i gomiti, le

era entrato nelle ossa. Però si sentiva le mani e il viso incandescenti. Capiva molto bene i sentimenti di Elide. Lei, ancora bambina, era arrivata a sacrificare il suo piede sinistro per salvarsi. E aveva avuto fortuna perché il Dottor Giglio Vittorio era diventato suo padre, Impruneta la sua città. E soprattutto non aveva più avuto a che fare con il nonno. Ecco, lui lo avrebbe volentieri rinchiuso in una delle sfere magiche di Elide. Non per permettergli di vivere in eterno il momento più magico della sua vita, ma per condannarlo per sempre. Se avesse potuto Sandra si sarebbe fatta teletrasportare indietro nel tempo. Avrebbe cercato nei rifiuti dell’ospedale quanto era rimasto del suo piede putrefatto e sarebbe corsa a nasconderlo sotto al cuscino del letto del nonno. Chissà che faccia avrebbe fatto il vecchio, risvegliandosi, nel sentire il tanfo che lei ricordava così bene. Nel sollevare il cuscino e trovare il suo piede mozzato, con il sangue rappreso, l’osso in vista e brandelli di pelle marcia ovunque. Sicuramente avrebbe vomitato e sarebbe svenuto cadendo nel suo stesso vomito. E non avrebbe potuto fare a meno di avere rimorsi. Di morire per i rimorsi. Elide posò una mano sul braccio gelato di Sandra. I brutti pensieri si volatilizzarono all’istante. Le due amiche si osservarono per qualche secondo e poi si abbracciarono. Sandra sbirciò la palla di vetro, ancora posata sul bancone, oltre le spalle di Elide. “Eli…” disse sciogliendosi dal suo abbraccio “potresti spiegarmi meglio la cosa sulle palle di vetro? Si, insomma… come…” e gesticolando Sandra le fece capire che non si capacitava di come una persona in carne ed ossa potesse finire strizzata in una palla di vetro. E restare lì per sempre, rivivendo il suo momento indimenticabile, anziché finire in Paradiso, all’Inferno o chissà dove. Elide non rimase affatto sorpresa dalla titubanza di Sandra. In fondo lo era stata anche lei un tempo. Proprio come sua madre, Gianni, Pietro. “Capisco,” disse Elide rompendo l’imbarazzo di Sandra, “è più che comprensibile.” Aggiunse. E tenendo lo sguardo fisso oltre le spalle di Sandra, quasi non fosse convinta completamente di ciò che stava per fare, allungò una

mano sotto al bancone, sfilando un block-notes e una penna. Poi li porse a Sandra. “Prova a descrivere il tuo “mentre perfetto”. Concentrati e mentre scrivi, cerca di tornare con la mente a quel giorno. Poi strappa la pagina, piegala in modo da renderla il più piccola possibile e quando hai fatto chiamami.” Sandra guardò la sua amica con un mezzo sorriso inclinando la testa di lato, come era solita fare quando una cosa non la convinceva fino in fondo. Alla fine afferrò penna e block-notes. Elide aggirò il bancone e sparì nel retro del negozio. Sandra restò qualche istante con il naso per aria senza apporre sulla carta nemmeno un puntino blu. Poi, nel momento in cui i suoi occhi si smarrirono inseguendo le curve di un ricamo dipinto sull’ansa di un vaso di erbe, il ricordo di Betta bussò alla memoria del suo cuore. E prese a scrivere. D’un tratto fu facile mettere nero su bianco l’attimo consumato sull’uscio di casa Giglio, nella mattina umida in cui lei e il Dottor Giglio Vittorio giunsero a Impruneta. Aprendo la porta li aveva accolti un profumo di torta al cioccolato appena sfornata. E il suo pancino aveva subito protestato mettendosi a brontolare perché di quel dolce non ne avrebbe potuto assaggiare neppure una briciola. Tuttavia, sulla porta del salotto era apparsa Betta che con il suo sorriso di benvenuto le aveva immediatamente fatto scordare la torta. Sentendo una punta di paura e riverenza per la donna che le avrebbe fatto da madre, Sandra aveva stretto la mano del padre affondandoci le unghie. Lui aveva ricambiato la stretta, poi l’aveva lasciata andare. Nello stesso tempo Betta, che fino a quel momento era rimasta ferma sulla soglia, si era piegata sulle ginocchia, allungando le braccia in segno d’invito. Sandra, incantata dai suoi capelli lunghi e morbidi e da quegli occhi buoni, non aveva esitato a muovere un o verso di lei. Ma allo scricchiolio della sua protesi si era immediatamente fermata, diventando rossa in viso per la vergogna.

Era stato allora che Betta aveva scosso la testa e allungandosi l’aveva attirata a sé abbracciandola forte. “Non hai più il piede, questo lo so” le aveva detto tra le lacrime. “Ma tu sei mia figlia. Il mio amore. Pensi che ti potrà bastare?” “Mia figlia. Il mio amore.” Si era ripetuta Sandra sottovoce. E dentro di sé non aveva creduto di star veramente udendo quelle parole. Non rivolte a lei. Eppure quella donna con gli occhiali da vista infilati tra i capelli, il collo lungo e delicato, impreziosito dai merletti di una camicetta di seta, glielo stava dicendo. E già a Sandra sembrava di sentirlo il suo amore. Il suo calore. Sandra allora aveva fatto sì con la testa e aveva stretto ancora di più le braccia intorno al collo di Betta. Alle sue spalle aveva sentito rumoreggiare i i molli del Dottor Giglio Vittorio e in un attimo l’abbraccio era diventato a sei braccia. Era stato un mentre perfetto quello. Il suo. Assaporando il miele di quel ricordo Sandra smise di scrivere. Appoggiò la penna sul bancone e strappò la pagina cominciando a ripiegarla. “Eli” chiamò. Ed Elide uscì dal retro del negozio rimettendosi dietro al bancone. Senza dire una parola afferrò il foglietto e lo infilò delicatamente nella palla di vetro. “Ora scendi dallo sgabello e allontanalo da te. Mettilo contro quella parete laggiù, per favore” disse. Sandra eseguì l’ordine sentendo un filo di ansia srotolarsi nelle vene. “E adesso aggrappati forte da qualche parte e cerca di mantenere l’equilibrio” aggiunse Elide. “Il pavimento diventerà un po’ instabile.” E pensando forte agli occhi color grano di Michael, si concentrò: dopo anni, stava per fare di nuovo ciò per cui era nata.

CAPITOLO XXXI

“In che senso il pavimento diventerà un po’ instabile?” chiese Sandra con la voce arrochita dalla paura. Elide di tutta risposta alzò un sopracciglio e continuò a borbottare parole incomprensibili. Sandra la guardò esterrefatta ma non fece in tempo a replicare perché il pavimento cominciò a sussultare. D’istinto si aggrappò al corrimano d’ottone che disegnava il perimetro del bancone dell’erboristeria. Fece appena in tempo perché le piccole tavole di parquet sotto ai suoi piedi si animarono in fretta e ancora più rapidamente si trasformarono in onde. Prima basse e lente. Poi alte e quasi minacciose. Sandra fece di tutto per assecondarne il moto, lasciandosi sollevare e riportare a terra. Tuttavia, quando per la prima volta le sentì montare ruggendo dietro le spalle, le gambe le si piegarono assai per la paura. “Eli!” gridò quando un’onda un po’ più alta la sollevò quasi fino al soffitto. “Se non la smetti finirò lunga e distesa in questo mare di legno! Facendomi male… molto male! “Ti credo sai! Giuro!” Elide questa volta non sembrò proprio sentirla: ormai era una statua che muoveva appena le labbra e produceva brusii. D’un tratto la palla di vetro si sollevò dal bancone e illuminando a giorno il negozio, si fermò a mezz’aria. All’istante Sandra si dimenticò del mare di legno cui era in balia e incollò gli occhi alla sfera: il foglio di block-notes al suo interno aveva cominciato a spiegarsi. Quando si aprì completamente, le parole scritte con l’inchiostro blu si staccarono una a una dalla carta. Come impazzite cominciarono a vorticare all’interno della palla spalmandosi sulle sue pareti fino a dar vita all’immagine di una donna con un paio di occhiali da vista dalle lenti spesse, infilati tra lunghi

capelli castani. Sandra smise di respirare: sua madre era lì, a un soffio da lei. E non era solo un’immagine. Era viva, profumata, calda. Indossava la camicetta con i merletti di seta bianca che Sandra ricordava bene. E si muoveva tra la cucina e il salotto per servirle, su piatti di candida porcellana, la torta di cioccolato senza zucchero che le aveva preparato come regalo di benvenuto. Sandra non riuscì a trattenere le lacrime e quando un’onda la sollevò fino a lambire la sfera, le venne naturale allungare una mano per provare a toccare sua madre. Fu allora che Elide apri gli occhi e interruppe l’incantesimo. O almeno così pensò accadesse. Perché qualcosa non funzionò. La sfera di vetro che nel momento in cui Elide riaprì gli occhi avrebbe dovuto ricadere sul bancone, rimase invece sospesa nell’aria. Il pavimento, allo stesso tempo, non smise di ondeggiare. Elide cominciò a sudare freddo. Per qualche secondo fissò Sandra, a pochi centimetri dal soffitto del negozio, con la mano tesa verso un’altra mano che sbucava dalla palla di vetro. “Non è possibile! Non deve!” disse Elide mentre Sandra, sospinta da una nuova onda, si protendeva per afferrare quella mano. “Sandra no!!” Gridò Elide. E montando in piedi sopra il bancone afferrò la palla di vetro. Nel momento in cui le sue dita vennero a contatto con la superficie della sfera, tutto divenne nero. Il pavimento tornò piatto senza preavviso e Sandra cadde malamente a terra. Elide riuscì a mantenere l’equilibrio ma la sfera le sfuggì di mano andando a infrangersi sul pavimento. “Dio grazie!” pensò Elide rimanendo qualche istante in piedi sul bancone a

fissare quel che restava della sua sfera. Ma quell’attimo di sollievo fu ben presto spodestato dalla triste realtà che improvvisamente le ghermì le caviglie e la costrinse a sedersi sul marmo ghiacciato. Sandra non si avvide di nulla perché era ancora distesa a terra con gli occhi immobili e spalancati nell’intento d’impedire all’immagine di sua madre di fuggire via. “Eli, quando me lo rifai?” riuscì a sussurrare. Elide non rispose. “Eli!” chiamò Sandra con più forza. Ancora silenzio. Sandra provò a resistere ancora un po’ ma alla fine gli occhi le si chio a forza e lacrime tiepide cancellarono l’immagine di sua madre. Si diede qualche minuto per raccogliere le idee e finalmente si rimise in piedi. Pochi i e la polvere di vetro sparsa sul legno tenero scricchiolò sotto le sue suole. Elide, seduta sul bancone freddo a dondolare le gambe e a osservarsi le punte dei piedi, a quel rumore reagì di scatto. Con una spinta saltò giù dal bancone. I frammenti di vetro stridettero anche sotto le sue suole. Alzò gli occhi e trovò di fronte se l’amica, con il rimmel a truccarle il viso come quello di un Pierrot. “Cosa non ha funzionato Eli?” chiese Sandra osservando quel sorriso amaro. “Perché qualcosa non è andato per il verso giusto, non è vero? È per questo che sei turbata?” Sandra scrutò gli occhi di Elide, bassi e rivolti alle punte delle sue scarpe basse. “Già. È proprio così” rispose finalmente Elide. “La sfera è andata oltre. La magia è andata oltre.” “La mano di tua madre non avrebbe dovuto uscire dalla sfera. L’incantesimo avrebbe dovuto spezzarsi nel momento in cui io ho interrotto la preghiera. Ma così non è stato.” Elide camminava in tondo, sempre a testa bassa e con una mano stretta alla gola quasi non volesse permettere a tutte le parole di uscire.

“E questo succede solamente in due casi” concluse fermandosi dietro Sandra e affondando le mani nel cespuglio di capelli. “Quando qualcuno vuole con tutta l’anima abitare la sfera e rivivere in eterno il suo mentre perfetto…” “Oppure?” chiese Sandra continuando a mostrare a Elide le spalle. Silenzio “Oppure?” Ripeté Sandra girandosi spaventata. “Oppure quando quel qualcuno sta per andarsene.” sussurrò Elide. “Andarsene? In che sen…” Sandra incontrò gli occhi di Elide. Erano grandi, le pupille avevano ridotto l’iride marrone a un cerchietto insignificante. E avevano un mare di lacrime nel mezzo che stava per riversarsi all’esterno. “Io?” disse con labbra di cartone “Ma io sto bene” aggiunse con enfasi. “Sto bene!” gridò. Elide non si trattenne e un urlo basso, scortato dai singhiozzi, irruppe dalla gola. Sandra si guardò le mani e i polsi piccoli con le vene blu in evidenza. Blu. Il destino non poteva essere così infame. Si era privata di un piede per sfuggirgli, aveva rinunciato a una vita “normale”. Ma ecco che ancora una volta lui bussava alla sua porta. A pretendere ciò che lei, con il suo gesto sconsiderato e fuori dagli schemi, aveva solo rimandato. A prendere ciò che non si era preso il nonno. “Quando? Quando sarà?” ebbe la lucidità di chiedere a Elide. Ma Elide piangeva, inginocchiata a terra quasi stesse supplicando qualcuno. Con una mano si teneva distante dal pavimento e con l’altra si stringeva il torace per placare i sussulti. “Quando?!!!” gridò Sandra prendendola per le spalle in modo da farla smettere. “Dimmelo! Quando? Quando?!!!!!” Sandra scosse più volte l’amica che però restò muta. Immobile nel dolore che presto le avrebbe fatto visita e che nuovamente l’avrebbe lasciata sola e stremata anziché portarsela finalmente con

sé.

CAPITOLO XXXII

Quel pomeriggio Sandra era uscita come una furia dall’erboristeria di via Nazionale, a Impruneta. E davvero, in quell’occasione, nessuno avrebbe notato la sua zoppia. Elide invece, una volta arginato l’assedio del dolore, si era rimessa in piedi e aveva ripulito il pavimento del negozio dai frammenti della palla di vetro. Mentre li raccoglieva con paletta e scopa l’idea di mollare tutto e correre a cercare Sandra l’aveva tentata più di una volta. Tuttavia la ragione l’aveva sempre trattenuta per la manica del maglione celeste che da quel giorno, per dimenticare, non avrebbe più indossato. La polvere del pavimento aveva contaminato le briciole di vetro della sua sfera. E in quei piccoli iceberg luccicanti era rimasta ben poca magia. Elide era dispiaciuta. Quella sfera era differente da tutte le altre, era uno dei primi esperimenti di suo padre. Ed era imperfetta, proprio come lei. “Dovrò tornare al negozio e sceglierne un’altra, prima o poi… ” si era detta. Ma il pensiero di un prossimo ritorno a casa si era fermato lì. Il camlo della porta del negozio aveva trillato comunicando l’arrivo di una cliente. Elide, di riflesso, si era guardata l’orologio stretto al polso. 15,31. “Sono da Lei tra un secondo” aveva detto alla signora in cappotto cammello già in piedi davanti al bancone. E raccogliendo scopa e paletta era corsa nel retro del negozio. Ignorando il bidone nero e lucido, impettito all’entrata come una sentinella, si era diretta all’appendiabiti dal quale penzolava la sua borsetta. L’aveva aperta e rovesciato il contenuto della paletta al suo interno. Così, senza cura. Seppellendo il portafogli e gli occhiali da sole sotto a uno strato di frammenti magici divenuti improvvisamente cenere.

Poi, battendosi le mani per disfarsi della polvere rimasta appiccicata alle dita, era corsa dalla cliente dal cappotto cammello provando a non pensare che niente, da quel momento, sarebbe più stato lo stesso.

CAPITOLO XXXIII

Sandra, una volta fuori dal negozio, era salita in auto e lasciando fare al suo inconscio, aveva imboccato la strada a scorrimento rapido per Firenze. All’inizio se n’era infischiata della spia arancione della benzina che a ogni battito di ciglia le balzava davanti agli occhi. Ma dopo qualche minuto la sua ragione le aveva riportato alla mente gli ultimi due viaggi percorsi da Firenze a Impruneta, mettendole addosso l’ansia da serbatoio vuoto con conseguente richiesta d’aiuto in mezzo alla strada. “Lu Santu chi ti na criaddu” aveva imprecato immaginandosi la scena pietosa di una storpia in corsia di emergenza. Ma subito si era zittita. Quelle parole non le appartenevano. Quei suoni non erano più suoi. Quella era la lingua del nonno. Non la sua. Non la sua! Il ricordo del nonno provò a insinuarsi nell’abitacolo dell’auto ma Sandra fu pronta a sterzare a destra all’ultimo secondo e a parcheggiarsi nella corsia “Servito” della stazione di servizio. “Ciao, quanto fai?” le chiese un giovane in salopette grigia. Sandra abbassò il finestrino e respirò a fondo. “Lo sa che sto per morire?” disse. “Davvero?” rispose il giovane benzinaio. Ma non la stava ascoltando. La sua attenzione era tutta per la bionda ossigenata al volante di un’improbabile Mini gialla che, dalla parte opposta della pompa, aspettava i suoi servigi. Sandra lo guardò con gli occhi pieni di lacrime. Neppure la notizia della sua morte certa valeva qualcosa a confronto di quella chioma vaporosa e quel seno in bella vista. Il ragazzo, come a dar credito alle sue considerazioni, svitò il tappo del serbatoio della sua anonima auto e inserì la pompa blu del diesel. Pigiò un qualche

pulsante vicino al display indicante il costo e i litri del carburante e poi la lasciò sola. Sandra sospirò e aspettò pazientemente che il pieno del suo serbatoio fe scattare la riduzione del getto della pistola, quindi il giovane benzinaio tornasse da lei. Non avrebbe ripetuto la domanda. Avrebbe pagato e sarebbe corsa via. Le mancava forse un quarto d’ora per raggiungere il suo “Sali e Tabacchi”. E sì, quello era l’unico posto in cui avrebbe potuto rifugiarsi. Non aveva intenzione di aprirlo ma al contrario desiderava chiudersi dentro. A luci spente. Respirando la polvere di sconosciuti angoli di mondo che lei non avrebbe mai visitato ma che i turisti, da anni, dimenticavano sul pavimento. Pregustando gli attimi di autocommiserazione che già l’attendevano, Sandra fermò l’auto nel parcheggio per disabili della stazione degli autobus di Firenze. Scese rapida, senza neppure girare la chiave nella serratura della portiera e si confuse con la gente. Camminò più veloce che poté trascinando non poco il suo piede sinistro. Comunque, nell’indifferenza generale, riuscì ad avvicinarsi alla porta del negozio e a intrufolarsi al suo interno come fosse una ladra. Non la vide nessuno. Ad eccezione dell’uomo con un bastone in pregiato legno d’ulivo che, seduto sulla panchina arrugginita poco distante dal negozio di Sandra, appena la riconobbe chiuse gli occhi fingendo di dormire.

CAPITOLO XXXIV

Sandra aveva sempre pensato che la morte fosse fredda, rigida. Cieca. Invece, nello spostare il corpo di quel gattino, un giorno di tanti anni prima, si era dovuta ricredere, sorpresa da quanto la morte, in realtà, fosse calda, morbida. Accogliente. E per nulla cieca. Perché il gatto aveva gli occhi spalancati su un mondo sconosciuto. Un mondo che l’aveva sorpreso a tal punto da costringere le pupille nere e lucide a cacciar via ogni pagliuzza di iride per poter accogliere e vedere più di quanto sarebbe stato in grado. Sandra l’aveva investito per errore poi, già morto, l’aveva delicatamente spostato al lato della strada. Non si era curata delle auto che le strombazzavano per farla spostare, non si era preoccupata del sangue che l’aveva sporcata un po’ ovunque. Aveva dedicato al gatto il tempo che riteneva opportuno e prima di andarsene aveva avuto il buon gusto di chiudergli gli occhi, in modo che nel loro umor vitreo non si riflettesse più il grigio-blu dell’asfalto, insieme al bianco della carrozzeria della sua auto assassina.

Sandra, con la palla souvenir di San Luca stretta nella mano sinistra, non seppe mai spiegarsi perché in quel momento le tornò alla mente l’episodio del gatto. Forse, considerò poi, perché le sue mani si sporcarono di sangue come allora. Oppure perché la morte, ancora una volta così vicina, le si mostrò con una nuova veste. Una veste flaccida, insanguinata e terrificante. Priva di alcun cenno di accoglienza e calore. Sandra aveva colpito quel vecchio alla testa. O meglio gliela aveva proprio fracassata. Ma era stato lui, con l’inganno, a intrufolarsi nel suo negozio. Lei l’aveva spiato per tutto il pomeriggio dalle veneziane abbassate della vetrina

del negozio. Aveva provato a farsi i fatti suoi ma la vista costante di quel corpo ridotto all’osso e apparentemente immobile, buttato come uno straccio sulla panchina, alla fine aveva fatto breccia nella sua coscienza costringendola ad assicurarsi che stesse bene. Non l’avesse mai fatto. Una ragazza con un piede finto non deve aiutare proprio nessuno. Quando si era avvicinata Sandra non aveva notato il bastone di legno pregiato stretto al petto del vecchio e nascosto dal cappotto consumato. I suoi occhi erano a zonzo lungo il marciapiede della stazione degli autobus. Accarezzavano le persone che incrociavano lungo il cammino invidiando i loro problemi qualunque. Per questo motivo non si accorse della sua errata valutazione riguardo lo stato di salute del vecchio. E lui, comunque, fu più veloce. Più lesto. Appena lei gli fu vicino, estrasse il bastone da sotto il cappotto e con un gesto da maestro le falciò le gambe all’altezza delle caviglie. Prima di sentire il piede finto staccarsi dolorosamente dal moncherino, Sandra percepì un lancinante dolore alla testa. Ma quando aprì gli occhi vide solo le mattonelle grigie e sporche della stazione. I suoi capelli scuri, strisciare come vermi neri in mezzo alla polvere, fino a diventare di un bianco sporco. Fu questione di un attimo e si ritrovò sul pavimento rosso mattone del suo negozio. Con qualcuno che, con il respiro grosso, si precipitava a chiudere a chiave la porta. Dall’interno. Fu in quell’istante che Sandra sentì la paura farsi avanti e accanirsi come un lupo affamato sul suo moncherino. Stringendo i denti e provando a tenere a bada il terrore, tentò comunque di rimettersi in piedi. Ma l’uomo, appena la vide con la schiena sollevata dal pavimento, non le permise di guadagnare un centimetro di più e la rimandò al tappeto con un calcio in pieno petto. Sandra, che in quella subdola semioscurità, non vide arrivare il colpo, si schiantò una seconda volta sul pavimento, sentendo le fughe delle mattonelle tatuarsi sul cuoio capelluto. Per la sorpresa, e non solo per quella, spalancò gli occhi. C’era un tanfo

nell’aria! Un odore che ben conosceva! Proprio quello che da bambina le spaccava il respiro! “Nonno” sussurrò Sandra mentre cominciava a intravedere i contorni di una figura aggirarsi lenta dietro al bancone del negozio. Le rispose un rantolo. Sandra rabbrividì ma i suoi gomiti si puntellarono al pavimento e la issarono in piedi. L’uomo non se ne avvide, troppo impegnato a riprendere fiato. “Che fai qui?” chiese Sandra con una calma innaturale. “Riprendo ciò che è mio” rispose il vecchio in affanno. E Sandra, per la prima volta da quando era una donna e non più una bambina, gli fu vicino. Così vicino da poterlo guardare negli occhi e constatare, nonostante la poca luce, che niente in lui, rispetto a quanto aveva racchiuso nei cassettini della memoria, era cambiato. Sorrise per impedire alla pazzia di prendere il sopravvento. Per spaventarla. Per cacciarla via. Poi avanzò verso di lui.

CAPITOLO XXXV

Nel breve tragitto che percorse trascinando la protesi rimasta incastrata nell’orlo del pantalone, Sandra decise che non voleva sapere che cosa il nonno intendesse con la frase “riprendo ciò che è mio”. Non aveva intenzione d’impegnare nemmeno una manciata dei suoi neuroni per ipotizzare se stesse parlando di lei o dei soldi che la sua adozione non aveva fatto entrare nella sue tasche. Anche se, considerando la scala delle priorità del nonno, il denaro era sicuramente molti gradini sopra il desiderio di possederla. Ma forse si sbagliava. Con gli occhi ben piantati in quelli del vecchio, seduto dietro al bancone a riprendersi dallo sforzo dell’averla trascinata fin lì, Sandra raggiunse il mobile nell’angolo. Aprì il primo cassetto, colmo di bustine di zucchero, e spazientita le scaraventò a terra. Non si distrasse e continuò la ricerca del tagliacarte, l’unica arma sulla quale avrebbe potuto contare. Frugò freneticamente, affondando le braccia fino al gomito e voltandosi a più riprese verso il nonno in modo da non perderlo di vista. Il tempo correva veloce e il rantolo della serpe che sedeva dietro al bancone si faceva sempre meno pesante. Le sue mani invece non facevano altro che spostare ciarpame. Fino a quando non si scontrarono con qualcosa di liscio. E pesante. Sandra quasi si tuffò nel cassetto per rimuovere l’oggetto che intralciava la sua ricerca. E il nonno ne approfittò. Le diede giusto il tempo di posare sul vecchio mobile la palla souvenir con dentro San Luca in miniatura e la colpì. Alla schiena, infilandole la punta del bastone e facendo forza. Proprio come era solito fare con le sue pecore. Sandra gridò di dolore. D’istinto si voltò afferrando l’estremità del bastone e provando a resistere s’incollò al vecchio mobile, richiudendo il cassetto spalancato a tagliola.

Il nonno, di tutta risposta, avanzò alzando il tiro e mirando al cuore. “Beninnai unpari a mie (verrai con me)” disse digrignando i denti. E con uno strattone sfilò la punta del bastone dalle mani di Sandra, caricò un colpo a frusta e sorprendendola la colpì dritta alla gola. Sandra rovinò addosso al vecchio mobile e poi a terra. La palla di San Luca cadde insieme a lei e la base si separò dalla sfera aprendosi in due. Sandra non se ne accorse. Non respirava. Aveva la bocca spalancata e tutte e due le mani sfregavano e percuotevano la gola perché si aprisse e ingurgitasse aria. Ma non succedeva niente. Il cuore pompava, i polmoni si contraevano ma lei non respirava. Intanto il nonno, con gli occhi a fessura, restava immobile a guardarla contorcersi. Sandra lo vedeva sorridere oltre il sudicio sipario dei suoi capelli. Lo sentiva ridere anche se la sua bocca era serrata in un ghigno malefico. Poi per un attimo vide nero e un qualcosa che solo in seguito si seppe spiegare, si sostituì all’aria che le mancava. La sfera di San Luca scivolò nella sua mano sinistra e il nonno le fu vicino. Così vicino che Sandra sentì il soffio del suo respiro sulla pelle. Sugli occhi che vedevano nero. Poi nulla più. Anzi colori. Rosso. Rosso. Rosso. Giallo. Giallo. Giallo. E Bianco. Sandra avvertì un conato di vomito salire dalle viscere e sentì finalmente la trachea aprirsi di quel tanto da consentire all’aria di are. Ma anche a qualcos’altro. Qualcosa di salato e dolce nello stesso tempo. Di viscido e caldo.

Sandra a quel sapore tornò a vedere. Non vide il nonno, ma il suo sangue sì: era dappertutto. Anche sulle sue labbra.

CAPITOLO XXXVI

“È nonno Eli! È nonno!” disse una voce sottile prima che una tosse impellente la costringesse a zittirsi. Elide fece mezzo giro su se stessa e finalmente la vide. Sandra era riversa a terra, poco distante dalla pozzanghera di sangue in cui giaceva suo nonno. La protesi era ritorta in una posizione innaturale mentre la mano, imbrattata di sangue, stringeva una palla di vetro in cui ancora vorticava una finta neve bianca. “Stai bene? Ma che è successo?” chiese Elide precipitandosi a soccorrerla. Sandra di tutta risposta fece ruotare la sfera del santo, mostrando all’amica la crepa da cui zampillava acqua benedetta. Elide la osservò con occhi grandi e ricordò la testa fracassata che l’aveva accolta appena messo piede in negozio. Solo in seguito spostò lo sguardo sulle centinaia di bustine di zucchero sparpagliate sul pavimento e ormai inzuppate di sangue. Poi si ò una mano tra i fitti riccioli provando a cercare un pensiero lucido cui aggrapparsi. Lo sapeva, aveva aspettato troppo tempo a decidere di chiudere l’erboristeria e correre a cercare Sandra! E adesso erano entrambe nei guai. Si guardava in giro Elide e, ascoltando il rantolo della sua amica, cercava di mettere ordine alle idee. Non sapeva cosa fare, il terrore la stava per ghermire. Poi il suo sguardo si fissò sulla palla di vetro che Sandra ancora stringeva. Era simile alle sfere magiche che suo padre faceva soffiare a mastro Renzo. Certo, era colma d’acqua, chissà se davvero benedetta, e la statuetta di San Luca svettava al suo interno. Però… Elide tentennò più volte prima di convincersi che non aveva altra scelta. Prima di darsi una mossa e decidere per entrambe. Con un balzo superò il corpo del vecchio e raggiunto il bancone svuotò il contenuto della sua borsetta. Chiavi, portafoglio e occhiali da sole rimbalzarono sul legno scuro. Seguirono a pioggia le scaglie e la polvere di vetro che qualche

ora prima, senza un perché, si era rovesciata in borsetta. In fretta Elide le ammucchiò e raccolse in un pugno. Poi, scavalcando nuovamente il nonno, corse da Sandra. “Se sei d’accordo,” le disse inginocchiandosi accanto e sfilandole la sfera da sotto le dita, “io penso… penso di poterlo mettere qui dentro… “Lui non ce la farà Sandra” aggiunse. “E io… io non so come sono andate le cose ma se non ti conoscessi e capitassi qui per caso non potrei fare a meno di pensare che se in questa stanza c’è un colpevole non è sicuramente il vecchio scheletrico che sta agonizzando sul pavimento” disse tutto d’un fiato. “Come puoi pensare…” provò a controbattere Sandra. “Ma io non lo penso!” l’interruppe Elide. “Però ho paura che lo penseranno loro! Che incolperanno te! Lasciami provare! Non si può più fare niente per lui! Niente Sandra! Lasciami fare…” Tenendo gli occhi incollati a quelli di Sandra, Elide si strofinò sul maglione turchese la palla con dentro San Luca genuflesso su un prato di neve bianca. Un alone rossastro colorò la stoffa poco sopra il suo seno e l’acqua che zampillava dalla crepa la ingrandì ulteriormente. Respirava veloce Elide, e Sandra invidiava quella sua facilità a catturare l’aria. Poi osservò la macchia sul maglione di Elide e, come molti anni prima, si ritrovò a pensare che il sangue del nonno era proprio uguale al suo. Era ancora uguale al suo. “Ok” sussurrò a Elide. E si lasciò andare incollando le spalle al vecchio mobile.

CAPITOLO XXXVII

Elide cosparse la palla di San Luca con la polvere della sua sfera e iniziò a recitare la preghiera. In quel momento le venne tutto facile, naturale. Non per un istante pensò a suo padre. E alla sua promessa di non rinchiudere più anima viva in una palla di vetro. Il pavimento del negozio mutò in un mare rosso agitato e i muri, la vetrina, il rumore dei bus, scomparvero. Sandra, rimasta sul pavimento, si lasciò cullare dal dondolio delle onde. Tenne gli occhi fissi sul nonno, contando il numero di volte che il corpo del vecchio salì e ridiscese l’onda. E osservando come la pozzanghera di sangue gli fe da tappeto, senza mai fondersi con le acque già rosse del mare. Per un po’ non successe nulla. Tant’è che Sandra quasi credette che Elide non sarebbe riuscita. Invece, a un tratto, il sangue cominciò ad animarsi. A ribollire come se sotto ci fosse fuoco. E prese a risalire le onde fino a tornare a riempire la testa rotta del nonno. Fu un attimo per il vecchio tornare in posizione eretta, con il bastone d’ulivo ancora saldamente in pugno e gli occhi spalancati su Sandra. Per sua fortuna non vide subito il braccio di San Luca, enorme, bianco e liscio, ondeggiare sopra di lui. Così, per qualche istante, poté godersi l’immeritata vittoria. Quando però due dita enormi gli accarezzarono la testa costringendolo ad alzare lo sguardo, il sorriso vittorioso che fino a un attimo prima gli aveva pervaso il volto, si tramutò in una smorfia di terrore. “Aggiuddami” disse alla nipote cercando la comione nei suoi occhi. Ma Sandra distolse lo sguardo. E non si mosse.

Subito dopo il braccio inumano di San Luca circondò il nonno all’altezza della vita e se lo portò via. Dentro la sfera. Sandra rimase con gli occhi rivolti alle bustine di zucchero inzuppate di acqua e di sangue, pensando che, finalmente, il nonno non c’era più. E con lui neppure il suo sangue. Dopo poco Elide terminò la preghiera e, stupita lei stessa di quanto era riuscita a fare, si sedette a riprendere fiato sul pavimento ancora instabile. Rigirandosi più volte la sfera tra le mani notò come la crepa si fosse perfettamente rimarginata. E osservò il nonno, alto circa un quarto rispetto alla statua di San Luca, barcollare su un terreno di biglie bianche, cercando con lo sguardo un orizzonte che mai avrebbe scovato. Chissà cosa avrebbe pensato suo padre di questa sua improvvisazione? Non ne sarebbe di sicuro andato fiero ma, in un certo senso, l’avrebbe approvata. Perché aveva avuto coraggio. Un enorme coraggio. Elide fissò ancora per qualche istante la palla di vetro. Poi, la porse a Sandra. L’amica afferrò la sfera soppesandola nel palmo come volesse scagliarla lontano. Non la guardò se non di sfuggita. Alla fine, spostando lo sguardo altrove e sorprendendosi per l’ordine e la calma di nuovo padroni del negozio, disse a Elide: “Andiamo a casa.”

CAPITOLO XXXVIII

Sandra ed Elide lasciarono il negozio con il buio delle sere invernali. Lungo il tragitto verso casa nessuna delle due fiatò. Una volta arrivate, Sandra scese dall’auto, guidata dall’amica, senza recuperare la sfera del nonno dal sedile posteriore. Salì in casa, fece una doccia e si medicò il moncherino ferito. Poi, come se niente fosse accaduto, s’infilò sotto le coperte addormentandosi all’istante. Non ripensò agli occhi del nonno che per la prima volta aveva visto pieni di paura. E non si soffermò sul suo “aggiuddami” gridato prima della fine. Anche nelle settimane a seguire tutto fu come se nulla fosse accaduto. Sandra non pensò e non parlò mai di quanto successo. Né con Elide né a se stessa. Tuttavia, un giorno qualsiasi, senza che accadesse qualcosa di particolare, la Colpa l’aggredì in pieno petto. Era una sera di fine febbraio ed Elide dormiva nella stanza accanto. Sandra guardava la TV tenendo il volume basso e la mente altrove quando, sentendo una canzone in sottofondo, si scoprì a canticchiarla:

“Onora il padre, onora la madre e onora anche il loro bastone, bacia la mano che ruppe il tuo naso perché le chiedevi un boccone: quando a mio padre si fermò il cuore

non ho provato dolore. Quando a mio padre si fermò il cuore, non ho provato dolore.”

Sandra pronunciò ogni parola come se quella canzone non l’avesse mai ascoltata prima di allora. E si mise a riflettere. Lei non aveva potuto onorare il padre e la madre perché erano morti che ancora era una bambina. Avrebbe dunque dovuto onorare il nonno che per due lustri ne aveva fatto le veci. Baciare la sua mano. Onorare il suo bastone. Invece non ne era stata capace. Anzi, sacrificando il piede sinistro lo aveva abbandonato. Senza rimorsi. O rammarichi di sorta. Mai però avrebbe pensato di non provare dolore nel momento in cui il cuore del nonno si fosse fermato. Ma era stato così. “Perché?” si chiese Sandra per la prima volta quella sera. E provando a cercare una risposta trovò la Colpa ad attenderla. Purtroppo ancora non è nato il buono che, nel fare i conti con la propria coscienza, ne esca assolto.

CAPITOLO XXXIX

“Non ho sentito dolore perché il veleno del nonno ce l’ho nel sangue” sentenziò Sandra da sola. E immaginando i suoi globuli rossi con un cuore colmo di fiele, li vide permeare persino i sottostrati del cuore. “A nulla è servito farlo diventare blu. Perdere il piede. Scappare.” Aggiunse sentendosi sprofondare tra i cuscini del divano. “Lui è stato sempre fermo lì. Ben nascosto e invisibile. Aspettava solo che gli dessi un’occasione.” E ripensando a quella cosa che, mentre stava soffocando, si era sostituita all’aria e le aveva dato la forza per afferrare la sfera di San Luca e colpire il nonno, Sandra tornò a quel giorno in negozio. Rivisse ogni attimo e sotto alle vene sentì pulsare ancora il veleno. Si guardò le mani come se al loro posto avesse artigli. E si rivide nell’attimo esatto in cui il nonno le aveva chiesto aiuto. Con gli occhi buttati per terra a contare le bustine di zucchero piuttosto che guardarlo con il coraggio e la pietà che avrebbe dovuto avere. “Sono una perfetta allieva, nonno” disse Sandra ad alta voce. E spense la tv. Avrebbe dato l’altro piede, un braccio o chissà cos’altro pur di tornare indietro. Tuttavia, ora che era una donna e non più una bambina, Sandra sapeva benissimo che non ci sarebbe stato espediente o sotterfugio in grado di ribaltare la sorte. Non ci sarebbe più stato nessun Dottor Giglio Vittorio a curarle il corpo. E anche fuggire lontano sarebbe stato inutile. Perché, a parte da quella persona così simile al nonno quale ormai si era amaramente scoperta, non c’era nessun altro da cui scappare. E questo non era possibile. O forse sì. Un colpo di tosse proveniente dalla stanza accanto interruppe per qualche istante il succedersi frenetico delle considerazioni di Sandra. Dei i leggeri si

mossero sul parquet fino alla cucina. Lo sfrigolio dell’aspirina effervescente si confuse con il ciarlare basso della televisione. Sandra restò immobile senza voltarsi e ascoltò Elide bere a piccoli sorsi la sua medicina. Riaccompagnò i suoi i fino in camera da letto e, prima di spegnere la televisione, attese di sentirla respirare forte. Chissà come avrebbe fatto, l’indomani, a dirle che lei, di quella vita, non se ne faceva più niente? A spiegare le sue ragioni? Sandra non lo sapeva. Ma la Colpa sì che le suggerì un’idea fantastica. Le spiegazioni non sarebbero state necessarie: il diabete avrebbe parlato e mostrato al posto suo! Lei avrebbe solo dovuto lasciarlo agire. Permettergli d’insinuarsi e avanzare distruggendo tutto come fanno le spighe d’avena, una volta infilatesi negli anfratti. Non doveva dubitare. Già in ato lui, il Diabete, aveva corrisposto le sue aspettative. E questa volta poi, il piano era ancora migliore e confermava, con certezza matematica, che in meno di un anno, lei si sarebbe ritrovata pronta per rivivere in eterno il suo “mentre perfetto” e abitare per sempre una sfera di vetro. Sandra avrebbe solo dovuto lasciarlo fare. Cominciando da subito, andando a dormire come se nulla fosse. Nello stesso letto di Elide. Perché presto anche lei sarebbe stata libera. Libera di essere nuovamente una Centopelli.

CAPITOLO XXXX

Si svegliava presto, Elide, da quando Sandra non c’era più. Faticava a dormire, sola in quella grande casa. Con così tanto spazio. Costì tanto silenzio. Non aveva potuto niente contro il Diabete. Quel bastardo aveva agito in sordina mangiandosi Sandra dall’interno e preservando alla meglio l’involucro esterno. Se l'era portata via in poco tempo. Ma per fortuna non del tutto, perché Sandra era rimasta nel negozio Centopelli, insieme a Gianni e a tutti gli altri che come lei avevano scelto un “mentre perfetto” come futuro. Elide la salutava ogni mattina, quando verso le sei sgattaiolava nel negozio Centopelli e, prima di aprirlo al pubblico, si sedeva dietro al bancone con la sfera dell'amica sulle ginocchia. E Sandra era lì che la guardava dal fermo immagine di una fotografia dai colori sbiaditi. Era ritratta in braccio a Betta e in quella particolare foto, a differenza di tutte le altre, era senza protesi, con il moncherino libero. “Questa sono io!” le aveva detto quando gliela aveva mostrata la prima volta. “Proprio come lo sono qui” aveva aggiunto facendole vedere il retro della fotografia sul quale aveva incollato una foto di loro due, riprese in primo piano, con i visi accostati a formare un cuore. Sandra aveva scelto quel collage come “mentre perfetto”. E un giorno qualunque, senza che il Diabete si mostrasse con la sua veste più lussuosa, o che apparentemente qualcosa l’avesse portata a decidere, aveva chiesto a Elide di rinchiuderla nella sua sfera. Ed Elide, da brava Centopelli, lo aveva fatto. Senza provare a farle cambiare idea. Senza elencarle tutti i suoi “ma”. Proprio come avrebbe dovuto fare con Michael. Da quel momento non era trascorso giorno senza che lei si rigirasse tra le mani la sfera dall’amica. E riflettesse sul fatto che, nonostante tutto, ancora non

sarebbe stata in grado di scegliere se il futuro sorprendente in cui tanto sua madre aveva confidato, fosse davvero migliore di un “mentre perfetto”. Ma in fondo, alla fine, a cosa sarebbe servito fare una scelta se non c’era più nessuno, oltre a lei, che avrebbe potuto rinchiuderla in una sfera di vetro?

CAPITOLO XXXXI

La ragazza non era del posto, questo Elide lo aveva capito. Ciò che faticava a comprendere invece era il suo capitare in negozio ogni venerdì, più o meno alla stessa ora, per acquistare gli articoli più disparati. Di settimana in settimana, aveva avuto modo di imparare ad apprezzare la sua inventiva circa il perché avesse una volta necessità di una candela profumata e una volta di un estratto di valeriana. Tuttavia la sua valigia con le rotelle sempre al seguito, aveva, in più episodi, raccontato ben altre verità. Verità che Elide pensava di avere ormai ben chiare. Per questo restò spiazzata quando all’improvviso, un venerdì, la ragazza non si presentò. Così come quello successivo e quello seguente ancora. L’aveva quasi scordata Elide. Ancora un po’ di tempo e il viso della ragazza si sarebbe cancellato dalla sua memoria. E al suo posto sarebbe rimasto solo il sollievo per non essere stata costretta a richiudere una così giovane anima in una palla di vetro. Un sabato sera però, all’orario di chiusura, la ragazza si presentò in negozio. Vestita elegante, quasi dovesse andare a un matrimonio. E senza valigia con le rotelle. “Ciao” esordì timida. “Se non hai impegni,” continuò prendendo un bel respiro, “possiamo mangiare qualcosa insieme?” Elide restò a guardarla con la bocca aperta per la sorpresa. “Io sono Rosa, piacere” incalzò la ragazza allungando la mano. Elide, girata di spalle per metà, finì di abbassare la serranda del negozio. Un rigurgito amaro le salì dallo stomaco.

“Perché?” chiese Elide non riuscendo a mascherare la rabbia nella voce. La ragazza, forse intimorita, abbassò lo sguardo e ritirò la mano per infilarla in borsetta. “Non avrei mai pensato che lo avrei fatto sul ciglio della strada” sussurrò. E una palla di vetro comparve nella sua mano. Per Elide fu come ricevere uno schiaffo. Per non cadere, si lasciò andare pesantemente contro la serranda, producendo un rumore metallico che per un istante coprì quello del traffico della statale. Rosa restò impalata a guardarla. “Come fai ad averla? ” balbettò Elide. “Dove l’hai trovata? No, non ha senso. Nessuno avrebbe conservato una palla di vetro vuota per tutti questi anni se non...” e si fermò. Perché Rosa stava infilando nella palla di vetro una fotografia un po’ sgualcita. La fioca luce della sera non permise a Elide di distinguere chi fosse ritratto in quella foto. Tuttavia comprese, da come Rosa la guardava, che la scoperta l’avrebbe inchiodata definitivamente a quella serranda. “Vieni a casa” disse Elide secca. E obbligando le gambe a sorreggerla s’incamminò verso casa. Rosa la seguì borbottando qualcosa per tutto il tragitto. Cosicché Elide, per i primi istanti, ebbe la sensazione di stare in processione. E di essere non il chierichetto ma il prete che detta il o del gregge e non comanda, ma asseconda, la scelta dei salmi delle comari. Quando arrivò a casa però a quella sensazione si sostituì la paura. Ma non paura di sapere. Paura di tenere ancora tra le mani la palla di vetro di suo padre. E risvegliare il ato.

CAPITOLO XXXXII

Rosa seguì Elide fino in cucina. E senza che lei glielo dicesse, si sedette al tavolo. Elide la osservò ripiegare le gambe lunghe e giovani a un lato della sedia mentre con le mani si lisciava la gonna del vestito. Quando Rosa estrasse dalla borsetta la sfera di vetro e la fotografia, per poi posarle sul tavolo, Elide le diede le spalle. Per prendere tempo aprì il mobiletto della cucina e prese la pentola della pasta. La riempì d’acqua, la mise sul gas e finalmente, per niente calma, tornò a guardare Rosa. La ragazza accarezzava la palla di Mario Centopelli. “L’ha presa lui. All’ospedale” disse allungando a Elide la fotografia e indicando con l’indice l’uomo a cui si riferiva. Elide, tutto avrebbe immaginato, fuorché la sfera l’avesse presa lui. E invece era così logico! Era stato il primo a correre da lei all’ospedale. Il primo a provare a darle conforto. Dovette sedersi Elide, perché i ricordi riaffiorarono prepotenti e giovani: anche se il viso ritratto in quella foto era invecchiato e ingrigito come il suo. Però i suoi occhi neri, quegli occhi che lei aveva così tanto amato, erano rimasti identici. Quasi poteva sentire sulla pelle il loro calore, la loro carezza. A un tratto però un brutto pensiero si fece strada: “Perché, qui seduta di fronte a me c’è lei? Perché non lui?” si chiese Elide. E con gli occhi aridi guardò Rosa. “Se n’è andato l’anno ato, di cancro” disse avendo intuito la domanda che stava per farle. “Ma mi ha raccontato tutto di te, molto tempo prima…” aggiunse.

A quelle parole Elide sentì un caldo diffondersi nel petto e finalmente le lacrime le riempirono gli occhi. Stringendo la fotografia di Pietro, come fosse il suo unico appiglio alla vita, si lasciò andare contro lo schienale della sedia e nel silenzio fatto solo di respiri corti, lasciò libero sfogo alle lacrime. Rosa si limitò a prenderle la mano e ad attendere che si calmasse. Aveva un sacco di cose da raccontarle. E un bisogno enorme di conoscere quella donna, apparentemente così simile a tante altre, che invece suo padre aveva amato a tal punto da far sì che anche lei sentisse nel profondo un sentimento molto simile. Così quando Elide terminò le lacrime, lei riprese a parlare. “Devi sapere che io sono cresciuta convinta che mia madre fossi tu. No, non guardarmi così! Non sono pazza! È stato lui a farmelo credere. Ma solo per proteggermi dalla verità. “Rosa,” mi diceva quando ero piccola, “tua madre non è qui con noi perché svolge un lavoro troppo importante! Addirittura più importante di quello dei medici e degli infermieri! “Cioè?” gli chiedevo io. “È un segreto!” mi rispondeva. “Però un giorno, quando sarai più grande, ti porterò nel suo negozio. Così potrai vedere con i tuoi occhi di quali magie è capace! “Magie? Domandavo io incantata, mentre t’immaginavo con l’abito azzurro della fata turchina. “Magie, Rosa. Magie” mi diceva sussurrando. “Con quelle parole, e con un dito sulle labbra per convincermi a restare in silenzio, mi ha incantato per molti anni. O meglio, mi ha protetto. “Sai, Elide, penso che oltre a te, mio padre non abbia mai amato nessun’altra.

Anche se a parole mi ha ribadito spesso di aver provato un sincero sentimento per mia madre. Ma dai! “Sincero sentimento” che modo di parlare è? Non ti sembra un modo cortese per dire tutto e niente? Va beh, comunque, tornando a noi… o meglio a mia madre: ecco, lei lavorava in questo locale, faceva la cameriera e a quanto pare anche qualcos’altro. Sì insomma capiscimi. E per caso sono nata io. Sorpresa! Solo che mio padre si è preso le sue responsabilità mentre lei no. Lei, neanche un mese dopo avermi partorita, ha bussato alla porta di casa di mio padre e ha detto “tienila tu, io devo andare via per qualche tempo!” Aveva promesso che avrebbe scritto, telefonato. E che sarebbe tornata presto a prendermi. Ma non è andata così. Lei non è mai più tornata. Mio padre l’ha cercata anni fa ed è ancora viva sai?! Vive in Germania e ha una famiglia, dei figli. Non so quanti, papà non me lo ha voluto dire. Forse per non ferirmi. Fatto sta che io non le interesso. Non sono più nei suoi pensieri, se mai lo sono stata. Comunque, tornando a noi, siccome io avevo bisogno di una “figura femminile” (come lui amava definirla) e l’unico suo riferimento eri tu, beh ecco che tu sei d’un tratto diventata mia madre. Quella vera, quella con un volto e un sorriso rassicurante. Quella con dei capelli a cespuglio che la distinguevano da chiunque. Ho decine di tue foto, sai. Però non chiedermi di ridartele, perché fanno parte della mia infanzia. Ormai mi appartengono…” Finalmente Rosa si fermò. Si cercò in bocca un po’ di saliva per inumidirsi le labbra e aspettò Elide, rimasta a fissarla con gli occhi asciutti. E un abbozzo di sorriso.

“Perché sorridi?” chiese Rosa. Elide non rispose ma continuò ad allargare il sorriso. Non avrebbe trovato le parole per spiegare a Rosa come si sentiva: non esistevano nel suo vocabolario. Forse “sollievo” sarebbe stata la parola più vicina, ma non del tutto appropriata. Perché provava gioia per aver finalmente avuto la certezza che Pietro non l’aveva creduta pazza. Ma anzi aveva continuato ad amarla. Però lui non c’era più. E lei, a differenza di quanto nel profondo si era sempre ripromessa, non avrebbe più potuto andare a cercarlo. Provare a farsi perdonare. Provare a spiegarsi. Non avrebbe più potuto guardare i suoi occhi neri nella speranza di scorgervi ancora un briciolo d’amore per poi, da lì, ricominciare. E recuperare il tempo perduto. Parlargli di Sandra, del Dottor Giglio Vittorio. Di Gianni. Sapendo che finalmente lui l’avrebbe capita e le sarebbe sempre stato vicino. Ecco, quello era l’amaro, il nero che andava a sporcare il significato della parola sollievo. Che spingeva quel caldo nel petto ad allargarsi sempre più fino a trovare sfogo nelle lacrime ma che non impediva alle sue labbra di portare gli angoli della bocca verso l'alto per sorridere. Sorridere a Pietro.

CAPITOLO XXXXIII

Rosa stava ancora aspettando che Elide si decidesse a rispondere, a dire qualcosa, quando l’acqua della pasta cominciò a bollire e a tracimare fuori dalla pentola. All’inizio fu qualche goccia, poi la quantità divenne maggiore e la fiamma del gas si spense. Solo allora Elide si decise ad alzarsi. Stando attenta a non scottarsi, spostò la pentola su un altro fuoco e riaccese il gas. Poi, rovesciando in una mano un mazzo di spaghetti, si girò verso Rosa: “Aglio e olio?” domandò. “Come piaceva a tuo padre?” Rosa sorrise. E dalle labbra le uscì un flebile sì. Però dallo stomaco, o comunque da un posto lì nei paraggi, le salì alle labbra anche qualcos’altro da dire. “Posso restare?” si sentì chiedere. “Posso restare con te? Sì, insomma, aiutarti in negozio e… fare quello che fai tu… fare ciò che fa una Centopelli?” A Elide, per la sorpresa, scivolarono gli spaghetti di mano. Molti caddero in acqua e molti si sparpagliarono a shanghai sul piano della cucina. Anche Rosa rimase scioccata dalla sua stessa proposta perché mai, fino a quel momento, quell’ipotesi l’aveva sfiorata. Aveva programmato le visite al negozio di Elide per conoscerla e raccontarle ogni cosa riguardo a suo padre. Riguardo lei. Ma non aveva mai guardato oltre. Pensato al dopo. Invece il suo cuore sembrava averlo fatto, e avere le idee ben chiare.

Una Centopelli!? Voleva davvero essere uno di loro? Rosa pensava di sì, perché quel desiderio le era maturato dentro già da bambina. Il seme lo aveva piantato suo padre nel momento in cui aveva cominciato a parlarle di magie. E aveva scelto Elide per dare un volto e una storia alla mamma magica che un giorno o l’altro sua figlia avrebbe conosciuto e sicuramente amato. “Posso Elide?” chiese Rosa un’ultima volta. Elide raccolse gli spaghetti uno a uno e con mani tremanti li ributtò nell’acqua bollente. “Ho scordato il sale” disse parlando tra sé. E nulla più.

Epilogo

Io ci sono stata nel negozio Centopelli. E dietro al bancone ho trovato ad accogliermi una ragazza dagli occhi neri e dall’accento genovese. Pensavo fosse sola, invece dal retro, proprio mentre stavo ammirando le palle di vetro custodite nella vetrinetta accanto al bancone d'ebano, è sbucata una signora con dei capelli a cespuglio di uno splendido color castagna. Mi ha sorriso e mi ha chiesto cosa volessi. Ma io non smettevo di guardarle le scarpe. Rosse, lucide e con il tacco alto. Quando ho recuperato l’uso della parola ho fatto la domanda per la quale mi ero recata fin lì: “È meglio l’incertezza del futuro o la sicurezza di un “mentre perfetto”?” La Signora Centopelli e la giovane ragazza mi hanno guardato un po’ dubbiose. Quasi spaventate. Poi Elide mi si è avvicinata e prendendomi le mani ha risposto. “Io ancora non lo so. E lei, ha già fatto la sua scelta?” “No” ho risposto. Ma il mio sguardo era rivolto alle punte impolverate delle mie scarpe.