Disabile… chi io?
Antonella Nini
EDIZIONI SIMPLE
Via Weiden, 27 62100, Macerata
[email protected] / www.edizionisimple.it
ISBN edizione digitale: 978-88-6259-667-1 ISBN edizione cartacea: 978-88-6259-702-9
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Prima edizione cartacea gennaio 2013 Prima edizione digitale gennaio 2013
Copyright © Antonella Nini
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Dedica
Se dovessi nominare, una per una, tutte le persone a cui dedico questo libro, l’elenco dei nomi sarebbe così lungo che non basterebbe una pagina intera scritta fitta, fitta. Allora lo dedico a un amico immaginario.
A te, che mi svegli al mattino con il tuo buon giorno e mi addormenti alla sera con la tua buona notte.
Ma invisibile
A te, che mi sei accanto, ogni secondo, minuto, ora, della mia giornata.
Ma invisibile
A te, che nella tristezza, nella sofferenza, nel dolore, mi consoli.
Ma invisibile
A te, che nella gioia, nella serenità, nella pace, mi allieti.
Ma invisibile
A te, che nel momento del bisogno, allunghi le tue braccia per sorreggermi.
Ma invisibile
A te, amico mio invisibile, che rappresenti tutte le persone che amo, a te amico mio, dedico questo libro.
Premessa
Questo libro cos’è… … … Questo libro è un insieme di: pensieri, emozioni, esperienze dolorose e gioiose di una bimba che ha attraversato l’adolescenza e infine è diventata donna in compagnia della sua inseparabile amica, “la Poliomielite”.
Questo libro è la storia di una persona che ha vissuto e vive la sua vita con dignità evitando di mettere in primo piano la propria condizione di disabilità.
Questo libro è la mia vita.
La copertina è stata disegnata dal la mia amica Loredana che ha dato questo significato:
“Questa rappresentazione è una metafora della vita e del tu o essere: la corda tesa rappresenta l’esistenza tesa tra finito e infinito, il nodo è la fede, intesa come fiducia in qualcuno o qualcosa a cui attaccarsi, e il palloncino nella sua sensiblità e fragilità rappresenta il tuo essere che non vuole volare via e si attacca con i denti alla vita, fermandosi volutamente sopra il nodo che la può sostenere”.
Le mie origini
Le mie origini nascono a Modena, città d’arte, capitale del Ducato Estense.. Essa racchiude, nel suo cuore antico, gioielli architettonici apprezzati in tutto il mondo. Soffermatevi a visitare il Duomo, la Torre Ghirlandina e Piazza Grande, inoltre potete ammirare il seicentesco Palazzo Ducale, oggi sede dell’ Accademia Militare, che ospitò la corte Estense, trasferitasi a Modena da Ferrara nel 1598, tutto ciò merita veramente la vostra attenzione. Modena è una città molto ricca di verde, dotata di bellissimi parchi: per citarne qualcuno: il “Parco Ducale Estense”, in pieno centro, oggi divenuto giardino pubblico, il “Parco della Repubblica” con moltissimi sentieri lungo i quali si innalzano dei bellissimi alberi secolari. Non dimentichiamo il “Novi Sad” l’ex ippodromo, dove veniva presentato il “Pavarotti & Friends” organizzato dall’illustre e compianto grande tenore “Luciano Pavarotti”; Inoltre..., Parco Ferrari, Parco Amendola e altri.
L’intero territorio di Modena è in tutto il mondo sinonimo di buona tavola. Un primato antico conquistato nel nome della genuinità, del rispetto della tradizione e della salvaguardia dei sapori. I ristoranti propongono menu tradizionali e innovativi per il piacere d’ogni palato. Tigelle e Gnocco fritto, i Borlenghi, Zampone con lenticchie o con fagioli, Tortellini in brodo, ecc… tutto accompagnato da un ottimo Lambrusco, sono l’orgoglio della cucina italiana. Modena, anche terra di motori, ha dato i natali al più celebre costruttore nel mondo di auto da corsa, parlo del grande mito Enzo Ferrari. Qui la ione per la meccanica ha una lunga tradizione., la velocità è parte integrante della cultura, è nel DNA di tutti i modenesi. Auto da corsa e vetture di lusso sono entrate nella leggenda, diventando “pezzi da collezione” e portando nel mondo il nome di questa città emiliana. La Galleria Ferrari, meta di tutti gli apionati di automobilismo italiani e stranieri e museo testimone del mito Ferrari, è situata a Maranello, dove nel raggio di pochi chilometri vi sono diversi luoghi legati ai motori, fabbriche, musei, collezioni private ecc…. Solitamente, chi tratta la propria biografia parla della sua città natale con maggiore enfasi e con più conoscenza delle cose, ma purtroppo non ho mai potuto frequentare Modena, in quanto sono sempre stata una involontaria nomade; posso solo descrivere ciò che ho letto, visto, sentito dai racconti dei miei e vissuto nelle rare volte che ho
potuto vivere questa mia città. Per questa mia mancanza chiedo venia scusa a tutti i modenesi che leggeranno questo mie memorie, e in modo particolare alla mia famiglia.
È in questa città che il dieci marzo del 1958 sono nata io, Antonella, da mamma Gina e papà Filippo. Mia madre lavorava come ausiliaria presso un istituto di sordomuti. Di lei e della sua famiglia non ho conosciuto quasi nessuno essendo morti quasi tutti giovanissimi. Di mia madre, fino al mio diciottesimo compleanno non conoscevo neppure il volto. Mio padre non mi aveva mai mostrato una sua foto, ed io, quando è morta, ero troppo piccola per ricordarla Compiuti i 18 anni, quando per legge hai la facoltà di decidere e i genitori non hanno più la patria podestà… mio padre, alla mia ennesima richiesta, mi diede ciò che era rimasto e che era appartenuto a mia madre, incluse alcune foto, facendomi comunque firmare una lista con la descrizione degli oggetti per l’avvenuta consegna.
Papà, secondo di cinque figli, faceva il camionista. Egli ha avuto sempre un carattere difficile, era una persona a cui piaceva solo divertirsi e sprecare soldi a destra e a sinistra, tant’è vero che mia madre, per poter risparmiare, era costretta a nasconderglieli perché non gli spendesse in cose inutili. Anche nel lavoro era molto instabile, infatti, per il suo carattere irascibile, dovuto spesso a qualche bicchiere di vino di troppo, ha cambiato molte volte tipo di lavoro. Comunque, nel bene e nel male, era una famiglia abbastanza normale. Purtroppo i due sposi non furono molto fortunati con la mia nascita: venni alla luce con due mesi d’anticipo, si vede proprio che volevo conoscere il mondo…… chissà cosa pensavo di trovare…… !? Fui immediatamente messa in quella scatoletta chiamata “Incubatrice” per sopravvivere.
Ero appena uscita dalla mia “scatoletta” e fui subito punita per insubordinazione alla natura. fu così che mi venne a far visita una malattia, a quei tempi letale: la POLIOMIELITE, un’infezione virale della sostanza grigia del midollo spinale, che colpisce prevalentemente i bambini e, a quei tempi, più comunemente chiamata < paralisi infantile >. Immaginate la paura e la disperazione di queste
due persone nel ricevere una simile notizia: < Signori la vostra bambina ha contratto la Poliomielite e non ha nessuna probabilità di sopravvivere! > Ogni genitore fa dei progetti per il proprio figlio… e i loro erano andati in fumo per colpa di quella parola: POLIOMIELITE. Così cominciò il tour degli ospedali nella speranza di vincere la malattia. A nulla valsero gli interventi chirurgici e le varie terapie per raddrizzare le mie piccole ossa.
Il mio corpo
Poliomielite, quest’amica inseparabile e fedele, con cui condivido la mia vita da quando avevo due mesi. Quando mi vide fece una gran festa, si divertì da matti con i miei arti sia inferiori che superiori e con il tronco; se guardate le mie gambe…. Avete presente quelle della Carrà…? Beh… le mie sono proprio il contrario, sono girate sottosopra; se poi penso ai miei piedi, mi viene una gran paura, perché se li vede un macellaio li scambia per i piedini del maiale e magari li fa bollire in una pentola con i fagioli.
Le mie braccia, invece, sono in condizioni migliori; il braccio sinistro, quando è piegato assomiglia ad un’ala di pollo, quello destro invece si presenta abbastanza bene. Il braccio destro è la mia colonna portante, la mia libertà. Con il braccio destro riesco ad espletare tutte quelle mansioni che una persona durante la giornata deve svolgere, sono in grado di gestire la mia persona nel lavarsi, vestirsi, andare a letto, cucinare, lavare i piatti, ed inoltre scrivere, usare il computer, usare la carrozzina elettrica, che mi permette di uscire da casa per fare la spesa e tutte le altre commissioni; anche se tali azioni, con l’andare del tempo, diventano sempre più faticose e richiedono sempre più l’aiuto di mezzi tecnologici e il o di una persona, cerco di mantenere sempre la mia autonomia trattando bene e rispettando il mio braccio destro.
Non parliamo poi della colonna vertebrale: è tutta curve. Per caso siete stati nel Trentino e avete percorso il <o Pordoi> ? Se la risposta è si allora capirete quello che scrivo. I miei organi vitali, poverini, con l’andare del tempo si sono dovuti trovare una sistemazione più consona al loro funzionamento e questa mia condizione fisica mette sempre in crisi i vari medici nel momento in cui devono visitarmi.
Come avrete capito dalla mia descrizione, non ho proprio un corpo da top-model
ed ha ragione il mio amico Enrico quando dice che sono un’extraterrestre. Tutto questo ha caratterizzato il mio modo di rapportarmi con il corpo, nell’infanzia, nell’adolescenza e nella maturità. Da bambina preferivo trenini e pistole invece di bambole o pentole…, i miei compagni di gioco erano sempre dei maschietti con i quali giocavo ai cowboy o giochi simili e con loro ero in piena sintonia. Ricordo un episodio poco simpatico ma significativo: < avevo circa 4-5 anni e, come tutti i bambini, a Natale scrissi la mia letterina a “Babbo Natale” chiedendogli come regalo un completo da cowboy. Arrivò il giorno Natale, il momento di aprire il mio regalo, e, come ogni bambino della mia età, ero super agitata. Quando aprii il mio pacco, al suo interno vi trovai una bellissima bambola, una di quelle con il viso di porcellana e vestiti vaporosi che si mettono sul letto per bellezza. La delusione fu talmente grande che scoppiai in un pianto disperato e non ci fu nulla che potesse consolarmi. Non ho mai più scritto lettere a Babbo Natale. >
L’infanzia
Non avevo ancora compiuto i tre anni, quando, una sera d’inverno, una signora vestita di nero bussò alla porta della mia casa; si chiamava < MORTE >. Prese mia madre per un braccio e, senza tanti complimenti, se la portò via. Era il 29 dicembre 1960. Sin da giovane era una persona dalla salute cagionevole, soffriva di una malattia renale chiamata nefrite e di tutte le conseguenze che essa comporta, quindi dover accudire una bambina, anch’essa ammalata e bisognosa di cure particolari, sarebbe stato molto pesante e anche molto doloroso. Una cosa è certa, il destino fu clemente con lei (un po’ meno con me), evitandole così inutili sofferenze sia fisiche che psicologiche.
Mio padre, uomo giovane, si ritrovò solo con una bambina da allevare. Già è difficile per un uomo avere a che fare con una bambina normale, pensate alle pappe, i pannolini da cambiare ecc…, figuriamoci se la bambina in questione è anche affetta da poliomielite grave. Tutte le cose si complicano ed è logico che avvenga anche un rifiuto psicologico nei riguardi della bambina. Egli non perse però molto tempo a ricostruirsi una nuova vita. Non era neppure trascorso un anno dalla morte di mia madre che il 30 settembre del 1961 si risposò e il 6 aprile del 1962 venne al mondo un’altra bambina. A lei doveva essere dato tutto, affetto, attenzione, e cure. Lei era perfetta. E la mia “nuova mamma”, si rifiutò categoricamente di accudirmi, non aveva tempo per me e le mie esigenze che purtroppo erano maggiori causa il mio stato di salute. Così come ogni favola che si rispetti ebbi anch’io la mia matrigna! Mi chiedo ancora se fu “amore, bisogno o riparazione”. I nonni presero in mano la situazione: a turno venivano a casa per soddisfare tutte le mie necessità obbligando spesso anche zia Marina, sorella di mio padre, a quei tempi giovanissima, ad occuparsi di me dopo l’uscita della scuola. Ma tra la nonna e la nuova nuora non correva buon sangue e una mattina nonna Marietta, stanca dell’ennesimo insulto, mi portò a casa sua. Era troppo bello perché ciò potesse durare!
Per i miei genitori ero ugualmente un intralcio, una limitazione ai loro progetti in
funzione della loro nuova famiglia; io ero diventata un peso per cui non valeva la pena fare dei sacrifici. Così cominciarono i miei “viaggi della speranza”, speranza di trovare il posto ideale (istituto, ospedale o ricovero), dove, una volta entrata, non ne sarei più uscita. Dicevano che era necessario per il mio bene, per aiutarmi a guarire, in modo che da grande avrei potuto camminare come le altre bambine. Sarei anche potuta andare a scuola ed ottenere così un’istruzione. Anche se questo non era il vero motivo, mi sento comunque di dire che per me quella fu la mia fortuna, poiché, se fossi rimasta in famiglia, sicuramente non sarei diventata quella che sono. Ma, di questo, parleremo più avanti. Non sono mai riuscita a capire, e ancora non capisco, cosa ci abbia trovato mio padre in lei. Si dice che l’amore sia cieco…. ma era poi amore…??? E quello che provava per mia madre, cos’era….??? Che cosa aveva di speciale questa donna che, nel giro di nove mesi, era riuscita a farsi sposare e a concepire un bambino….? Era riuscita non solo a far dimenticare a mio padre la moglie e la mamma della sua bambina, ma anche a considerare sua figlia come macchina da soldi…. A questo punto mi chiedo se mio padre abbia mai amato veramente mia madre e se il mio concepimento non sia stato solo un incidente di percorso…, mi piace comunque pensare che fu per amore. Non sono mai stata orgogliosa di lui, come una figlia avrebbe dovuto essere del proprio genitore, ma, nonostante tutto, nel mio profondo lo amavo. Il mio orgoglio, la mia rabbia, il mio dolore hanno impedito a questo sentimento di uscire, anzi hanno reso il mio cuore nei suoi confronti indifferente, apatico, quasi a voler scongiurare il rischio di dover soffrire di nuovo. Ora è morto e non si è potuto ne voluto ricucire i rapporti familiari interrotti molti anni prima, anche se, a suo tempo, quando io avevo 17 anni e mia sorella 13 provai ad istaurare quel rapporto che dovrebbe esistere tra due sorelle e cercare di ricostruire la mia famiglia, ma ancora una volta venni allontanata! All’epoca era solo una bambina e potevo anche comprendere… ma poi è diventata una donna, capace di ragionare con la sua testa….. In seguito l’ho rivista due volte a distanza di anni in occasione del testamento di mia nonna e alla morte di nostro padre. Con l’avanzare degli anni per mio padre era arrivato il tempo di fare i conti con la sua coscienza: egli cercò, a modo suo, di rimediare agli errori fatti nel ato con telefonate o visite quando durante le festività natalizie mi recavo a Modena a casa della nonna paterna. Io cercavo di prendermi una rivalsa nei suoi confronti, così ho fatto in modo che fosse sempre lui a cercarmi e mi ero imposta di non essere più io ad elemosinare il suo affetto: così è accaduto negli ultimi 30 anni. Credo che abbia sofferto per questo, ma la mia sofferenza era troppo grande per
poter perdonare il male ricevuto. Con il are del tempo e con la maturità acquisita negli anni, sono riuscita anche a perdonare, ma… non potrò mai dimenticare.
I Nonni
All’epoca della mia nascita la famiglia era così composta: i nonni Savino e Marietta genitori di cinque figli: Carolina, Filippo, Gaetano, Anna e Marina. Zia Carolina, la primogenita, e mio padre non vivevano più in casa con i genitori in quanto erano sposati. Con la famiglia viveva anche la bisnonna (madre di mio nonno) di nome Giusta, ma affettuosamente chiamata “Nonna Bella”, una dolce vecchietta che morì alla veneranda età di 103 anni (buon sangue non mente !)
I nonni erano di origini contadine perciò abituati al duro lavoro e ad affrontare enormi sacrifici per il buon andamento della famiglia. Se non ricordo male, nonno Savino ha lavorato per molti anni alla Fiat di Modena; di lui non ho molti ricordi visivi e, se vado indietro con la memoria, lo rivedo dapprima che cammina con un bastone e in seguito seduto su una carrozzina ridotto ad uno stato vegetale. Si ammalò molto giovane e ò diciotto anni della sua vita tra il letto e la carrozzina, dipendendo in tutto e per tutto da mia nonna, la quale doveva accudirlo come si fa con un bambino.
Nonna Marietta invece ha fatto diversi lavori, tra cui la fornaia e anche la balia da latte, lavoro a quei tempi abbastanza comune e richiestissimo, oggi con le nuove tecnologie e il progresso è quasi ormai scomparso. In tutti i modi ciò le assicurò un tetto sulla testa per lei e per tutta la sua famiglia. Voi direte, che fortuna….ma, quella fortuna se l’era guadagnata: dovette lasciare la sua famiglia, compresa la sua bimba di pochi mesi, per andare a Milano, dove una famiglia ricca e facoltosa l’aveva chiamata come balia. Questa famiglia, come ringraziamento, le aveva fatto costruire una casa…. Avevano compreso in pieno il sacrificio della nonna.
Non credo che la sua vita sia stata molto facile, se pensate che per diciotto anni ha assistito il marito, ha vissuto il dispiacere di vedere un figlio restare vedovo
giovanissimo, con una bambina ammalata da accudire e, come se ciò non bastasse, ha subito il distacco voluto da mio padre, a causa mia e del Dio denaro. Tutto ciò è stato fonte di grande sofferenza per mia nonna, sofferenza che io ho vissuto da vicino, che ho toccato con mano: mi dispiaceva molto per questa donna che, a causa mia, non poteva né vedere né sentire suo figlio. Non dobbiamo poi dimenticare che mia nonna ha vissuto per 50 anni con la suocera e, anche se tra loro esisteva un ottimo rapporto…, sono prove molto dure da superare….Ma la nonna aveva un carattere molto forte e, soprattutto, furono forti l’amore per l’uomo che aveva sposato e l’amore per i figli! Ciò le dava la forza di continuare a gestire la sua famiglia senza mai lamentarsi. Credo che molti dovrebbero imparare da lei.
Il mio girovagare
Il mio primo anno di vita è stato caratterizzato da continui ricoveri all’ospedale di Modena, successivamente mi portarono all’ospedale “Rizzoli” di Bologna e immediatamente dopo all’ospedale del Lido a Venezia, ma di questo ricovero non ho alcun ricordo. Dopo diversi anni, quando approdai nuovamente al Lido, venni a sapere da un’infermiera che si ricordava molto bene di me che mio padre e mia nonna mi accompagnarono all’Ospedale al Mare (così si chiamava) e li mi lasciarono in un pianto disperato! Poi ci fu il Piccolo Rifugio di Verona, successivamente quello di Trieste, ma andiamo per ordine evitando di fare confusione. I “Piccoli Rifugi”, erano e sono chiamate le case di accoglienza per persone disabili e disagiate autogestite da Suore Laiche chiamate “Volontarie della Carità”, una congregazione nata per volere di una certa “Lucia Schiavinato”, ma affettuosamente chiamata da noi ospiti e dalle Volontarie “Mamma Lucia”, che aprì il primo Piccolo Rifugio a San Donà di Piave, l’antivigilia di Natale del 1935.
Nel 1960, rispondendo all’invito di Mons. Giuseppe Carraro, Vescovo di Verona, Lucia Schiavinato diede inizio al Piccolo Rifugio a Villa Mirandola di Settimo di Pescantina (Vr). E fu così che arrivai a Verona. Il Piccolo Rifugio era un’enorme villa, circondata da un parco bellissimo; all’interno vi erano grandi saloni con vetrate che ricoprivano tutte le pareti, così che da ogni parte una persona guardasse vedeva luce e sole. In esso si viveva un’atmosfera serena e famigliare. All’epoca credo di essere stata una delle ospiti più piccole, infatti avrò avuto all’incirca 5 o 6 anni ed ero super coccolata da tutti, ma in modo particolare da Gabriella e Marilena, allora Direttrici dei rispettivi “Piccoli Rifugi” di Trieste e Verona, che io affettuosamente chiamavo “Zia Gabriella e Zia Marilena”. Ero una bambina molto socievole: chiunque entrasse al Piccolo Rifugio diventava automaticamente mio amico, la mia chiacchiera e spigliatezza facevano il resto, nessuno poteva sottrarsi. Purtroppo però avevo una salute molto cagionevole, i mali che mi tormentavano erano dei dolori alle ossa, difficoltà nel mangiare e soprattutto soffrivo di bronchiti asmatiche, che condizionavano sensibilmente la mia qualità di vita.
Queste ultime mi portavano spesso a dei ricoveri ospedalieri in fin di vita, tant’è vero che ho perso il conto di quante volte mi è stato somministrato il sacramento della Unzione degli Infermi, sacramento che viene dato alle persone che stanno per morire per rendere il aggio dalla vita alla morte in pace con Dio se uno è credente.. A quell’età non capivo il significato di essere credente, come non capivo il significato di tali sacramenti; l’unica cosa che capivo è che dopo, superata la crisi stavo bene, tutto il resto per me non contava.
In queste circostanze venivano chiamati i miei genitori per farmi assistenza. Erano le uniche volte che vedevo mio padre, il quale accompagnava nonna Marietta, che si fermava finché non mi fossi ristabilita completamente. I medici quando la vedevano dicevano: “ecco, è arrivata la medicina di Antonella” e lo dicevano con cognizione di causa, perché immediatamente dopo l’arrivo della nonna le mie condizioni cominciavano a migliorare sensibilmente. Ma volete sapere una cosa……? Ero quasi contenta di ammalarmi perché così avevo modo di vedere la mia famiglia! In uno dei miei ultimi ricoveri, forse il più grave, decisero che, oltre al sacramento della Estrema Unzione, dovevano essermi somministrati anche i sacramenti della Cresima e della Comunione per presentarmi al cospetto dell’Altissimo con tutte le carte in regola. Fu così che venne chiamato al mio capezzale l’allora Vescovo di Verona, Monsignor Giuseppe Carraio, assiduo frequentatore del Piccolo Rifugio.
Lo ricordo come una persona imponente…a guardarlo incuteva soggezione, ma allo stesso tempo dava sicurezza; ogni volta che veniva a far visita al “Piccolo Rifugio”, dopo aver fatto il “vescovo”, si spogliava del suo ruolo, giocava e parlava con me come un nonno fa con la propria nipotina. Un episodio molto simpatico e dolce, legato a questa persona, si riferisce ad una delle sue visite in prossimità della S. Pasqua, quando mi portò per regalo non il solito uovo di pasqua, ma un tenerissimo agnellino vivo, al quale io mi dilettavo a dare il latte col biberon, come si fa con i neonati. Fu una bella esperienza che ancora oggi a distanza di molti anni ricordo sempre con simpatia. Fortunatamente i medici anche quella volta si sbagliarono, mi ripresi completamente e dopo qualche tempo, come ogni bambina, ricevetti la Cresima e la Comunione con il mio bel
abitino bianco. Ma sono convinta che forse non erano proprio i medici a sbagliare: il mio attaccamento alla vita era più forte, oppure ero troppo scomoda anche per il Padre Eterno.
La mia permanenza ai Piccoli Rifugi di Verona e di Trieste, credo durò all’incirca 3 anni. Poi ci fu il ricovero presso l’ospedale di Vittorio Veneto dove subii un intervento all’anca sinistra, intervento doloroso e pieno di complicazioni che a mio avviso non diede i risultati sperati, purtroppo non tornai più ai “Piccoli Rifugi” ma da lì fui trasferita, con mio grande dispiacere, al “Burlo Garofolo” sempre a Trieste. Sono tornata poi ai Piccoli Rifugi per un viaggio attraverso i ricordi…., ed è stata un’emozione grandissima scoprire come tante persone, ospiti e volontarie, si ricordassero di me, di quella bambina con una chiacchiera infernale….
Il Burlo Garofolo nasce il 18 novembre 1856, quando, in occasione della visita a Trieste dell’imperatrice d’Austria, viene inaugurato “l’Ospedale infantile” con lo scopo di assicurare gratuitamente ai fanciulli di genitori poveri adeguato asilo. Nel 1928 Alessandro De Manussi elargisce, in memoria della moglie Aglaia, una cospicua somma, lascito, che viene legato alla costruzione di un padiglione per il ricovero di bambini con malattie croniche, incurabili e con malattie mentali. Cambia la denominazione dell’ospedale,: “Ospedale infantile e Pie fondazioni Burlo Garofolo e dott. Alessandro e Aglaia de Manussi”. Diventa quindi anche un ospedale per bambini poliomielitici a lunga degenza; qui ho frequentato le scuole elementari e contemporaneamente facevo kinesiterapia per migliorare le mie condizioni fisiche. Fare la kinesiterapia non era una delle cose che preferivo, anzi, quando potevo, cercavo di evitarle.
Ad oggi rimpiango quelle terapie, avrei avuto sicuramente meno problemi di salute e, soprattutto, più autonomia fisica, pensate che erano riusciti anche a farmi stare in piedi!
Il primo impatto non fu dei più felici, venivo da un ambiente dove ero
considerata la reginetta, la bambina da coccolare, la piccola…, invece mi sono ritrovata a dividere questo mio ruolo con altre bambine, ero uguale alle altre, con gli stessi diritti e doveri. Andavo a scuola con profitto, avevo, una bravissima insegnante, ricordo ancora il suo nome, la maestra “Elsa Turchetto”. Ogni sabato, per darci l’input dello studio e far sì che la scuola non la sentissimo solo un dovere ma anche un piacere, si giocava a “Rischiatutto”, ricordate il gioco a quiz di Mike Buongiorno..? Con questo metodo, oltre che a toglierci la paura dell’interrogazione , faceva in modo che durante la settimana studiassimo ciò che ci aveva insegnato; inoltre alla fine del gioco, oltre al bel voto, c’era sempre qualche premio. Ed è così che imparai ad amare lo studio, erano metodi di studio molto all’avanguardia per quei tempi, la ricordo ancora con molto affetto.
Nel periodo che ero al Burlo, tanto per gradire, presi anche l’epatite virale, 4 mesi di isolamento; ma ero quasi contenta, ero più coccolata e non avevo alcun obbligo e costrizione. A parte il fatto di dover stare a letto, rinchiusa in camera in quanto contagiosa, ero però in compagnia di altri 3 bambini. Dopo i primi giorni di fase acuta della malattia, il tempo residuo ò abbastanza bene, il personale era meno severo e più arrendevole nel lasciarci guardare la tv, ci portava giornalini da leggere e si intratteneva a giocare con noi nei ritagli di tempo; inoltre la maestra ci mandava i compiti con tutte le spiegazioni del programma e, visto le lunghe giornate da trascorrere, fare i compiti e studiare era diventato per noi una gioia; fummo tutti promossi con il massimo dei voti. Comunque al regime del Burlo mi adattai presto, a parte qualche scappatella….come quella di vedere di nascosto “La freccia nera” (una fiction a puntate che trasmettevano dopo Carosello) o leggere, sempre di nascosto, un fumetto chiamato “Diabolik”, per poi essere scoperta e magari punita senza tv o senza andare in giardino per qualche giorno…. Nonostante tutto anche lì avevo trovato persone che mi volevano bene, una fra tutte Suor Margherita, a quei tempi caposala del mio reparto, con la quale intrattengo ancora una piacevole corrispondenza.
Ci siamo incontrate dopo circa 30 anni e, rendendosi conto dei miei limitati miglioramenti fisici, bonariamente mi ha detto: “Ma non ti ho proprio insegnato niente….?” Io ho risposto: “No, Sr Margherita! Sono io testona che ho capito i suoi insegnamenti quando ormai era troppo tardi!!!” In quegli anni cominciai a capire la realtà che mi circondava; l’ospedale, durante le festività natalizie e
pasquali e nei periodi estivi, quando terminavano le scuole, dava dei permessi di uscita ai bambini ricoverati, per dare loro la possibilità di trascorrere tali giorni insieme ai propri familiari. Così i reparti si svuotavano, vi rimanevano solo pochissimi bambini e tra questi c’ero anch’io. Per moltissimi anni le feste per me furono veramente un incubo; Natali, Pasque, estati in attesa che la caposala venisse a dirmi: “Dai Antonella, ti prepariamo, oggi viene il tuo papà a prenderti per portarti a casa o per portarti fuori….”, ma questo non è mai accaduto eccetto una volta. Di solito, anno dopo anno, puntualmente arrivava una telefonata: “Il papà non può venire, deve lavorare, perché altrimenti i soldini per curarti non bastano, (premetto che il mio ricovero e le mie cure erano pagate dallo stato), tu fai la brava…..mi raccomando….!” .
Questi erano gli auguri che ricevevo dai miei genitori. Se, da una parte, mi dispiaceva per mio padre perché doveva lavorare, e mi sentivo in colpa nei suoi confronti per essere ammalata, dall’altra avevo una gran rabbia, specialmente, quando le vacanze terminavano. Gli altri bambini che tornavano dalle vacanze portavano sempre con loro i regali che avevano ricevuto dai genitori e poi, crudelmente ma inconsciamente, mi facevano vedere i doni ricevuti. Per me era sempre un dramma dover dire che i miei genitori erano talmente poveri da non potersi permettere di farmi dei regali (cosa tra l’altro non vera).
Non ho mai ricevuto in tutta la mia vita, da parte di mio padre, una bambola, un gioco o un vestito, nulla per cui potessi dire: “questo me lo ha regalato il mio papà……”. Senza poi contare l’incubo di quando si tornava a scuola, immancabilmente l’insegnante ci dava il classico compito: “Raccontate cosa avete fatto durante le vacanze”. Per me era un vero supplizio dato che avevo sempre pochissimo da raccontare. Cosa potevo raccontare restando sempre nello stesso posto e con le stesse persone? Allora partiva la fantasia….e con quella si sa, si va dove si vuole e la direzione era sempre “la famiglia”. I miei sogni ad occhi aperti mi facevano sviluppare dei bellissimi temi, con i quali mi aggiudicavo sempre il voto più alto, suscitando l’invidia degli altri bambini: era pur sempre una consolazione!
Poi un bel giorno, la caposala del reparto mi chiama; sinceramente ero un po’ spaventata, credevo di dover prendere una sgridata o di ricevere un castigo (dato che ne andavo abbastanza soggetta), e invece, con mio grande stupore, pronunciò quella fatidica frase da me lungamente sognata: “Antonella, ti dobbiamo preparare perché viene il tuo papà a prenderti per portarti a casa, la tua sorellina fa la Prima Comunione, è un gran giorno e vogliono che tu sia a festeggiare insieme a loro”. È indescrivibile ciò che ho provato in quel momento, si avverava un sogno, finalmente andavo a casa anch’io!!!. Ero al settimo cielo dalla gioia, quel giorno avrei potuto ricevere tutti i castighi di questo mondo, avrei fatto anche il triplo delle ore di terapia che di norma non gradivo moltissimo, insomma avrebbero potuto farmi di tutto e nulla avrebbe minato la gioia del momento. Provavo per la prima volta la vita in famiglia con più consapevolezza di quanto accadeva intorno a me dato che avevo già 12 anni, avrei dormito per la prima volta nella cameretta con mia sorella, avremmo giocato insieme, parlato insieme, ecc…..Insomma avrei fatto tutte le cose che fanno due sorelle. Ero molto felice, per me era tutto nuovo, tutto da sperimentare.Voi vi chiederete: “ma cosa ci sarà di tanto straordinario in tutto questo, tutti i bambini lo fanno”. Per me, capirete, dormire in una cameretta a due letti, con coperte e muri colorati, era il massimo che potessi desiderare, essendo abituata ad enormi cameroni da ospedale con letti e muri bianchi, tutti uguali, senza vita né colore; tutto ciò che avrei vissuto in quei giorni era gioia! Finalmente arrivò mio padre e andai a casa. Ricordo che tutti venivano per salutarmi e vedermi, quasi, quasi, ero più festeggiata io della festeggiata stessa (chissà se mi ha un po’ odiata, la capirei), parenti ed amici le portavano doni in occasione della sua Prima Comunione e c’era sempre qualcosa anche per me. Furono gli unici tre giorni che ai in casa con mio padre, con chi allora consideravo mia sorella e mia madre, che io ricordi abbastanza bene.
Credo che per loro fu un grande sforzo, dal quale non poterono esimersi. Che figura avrebbero fatto trovandosi di fronte a parenti ed amici, se io non fossi stata presente all’evento…? Tutta la famiglia aveva dato la propria disponibilità per aiutarli nella mia gestione personale, di conseguenza la mia presenza era d’obbligo. Venni in seguito a sapere che la mia matrigna prendeva dei permessi speciali per allontanarsi dal lavoro, che svolgeva presso l’ospedale di Modena come infermiera, con la scusa che doveva portarmi a casa ed assistermi; con quei permessi, tra l’altro retribuiti, lei e sua figlia avano le vacanze estive in
montagna in un paese dell’Appennino modenese, a Serramazzoni, dove avevano affittato una casa. L’aria di montagna era salutare per mia sorella che soffriva di asma. Con parenti ed amici, invece, diceva che ero troppo grassa e non riusciva a gestirmi, che ero troppo capricciosa e sarebbe stato un problema poi riportarmi in istituto. Con questa scusa era riuscita anche a convincere tutto il resto della famiglia. La mia permanenza al Burlo Garofolo si prolungò fino al termine delle scuole elementari, poi, scaduti tali termini scolastici, dovevo essere obbligatoriamente trasferita in un altro centro di riabilitazione a lunga degenza, dove avrei continuato le scuole dell’obbligo e la kinesiterapia. Fu così che, con armi e bagagli, fui depositata all’ “Ospedale al Mare” al Lido di Venezia, che aveva questi requisiti. Uso di proposito il termine “depositata”, poiché ogni qualvolta dovevo subire un trasferimento, mio padre, dopo avermi accompagnata a destinazione e consegnato i documenti necessari, ripartiva senza più farsi sentire e tanto meno vedere se non quando veniva chiamato dalle varie direzioni per problemi che riguardavano la mia persona. E ogni volta, aveva sempre un comportamento inqualificabile come uomo e come padre.
L’adolescenza
E così arrivarono anche per me gli anni dell’adolescenza, età compresa tra i 12 e i 20 anni.
Che periodo ragazzi!!!!! Un miscuglio di sensazioni, di esperienze, una metamorfosi del corpo e della mente, cambiava il mio corpo, cambiava la mia mente e cambiava la mia vita, fu uno sconvolgimento totale di tutta la mia persona. Cominciai a notare che il seno iniziava a crescere, poi la prima peluria, e dulcis in fundos arrivarono loro……le mestruazioni…. Ricordo che era di domenica, mi ero svegliata con dei forti dolori alla pancia, suonai il camlo affinché venisse un’infermiera, mi sentivo bagnata e mi spaventai….credevo di essere diventata incontinente e la cosa non mi piaceva per niente, sapevo cosa volesse dire….avevo la mia vicina di letto che lo era; l’infermiera arrivò e, dopo avermi scoperta per vedere cosa mi era accaduto, scoppiò in una gran risata e mi fece i complimenti…. “Complimenti Antonella, sei diventa signorina” disse, come se fosse stata una cosa bellissima…. Io la guardavo senza capire, lei rideva e continuava a complimentarsi con me, mentre io mi sentivo male ed ero spaventata da questa macchia di sangue sotto di me che continuava a crescere… stavo per mettermi a piangere e pensavo….. “Adesso questa che razza di malattia sarà…. e che cosa dovrò fare per curarla….?”. L’infermiera mi disse solo che, non era una malattia e che ciò accadeva a tutte le donne, certo che chiamare me “donna” che pesavo sì e no 14 chilogrammi e avevo 12 anni e mezzo, ci voleva proprio un bel coraggio…..! Mi disse che per quel giorno era meglio che stessi a letto in riposo e che all’indomani sarei stata sicuramente meglio.
Nel tardo pomeriggio, come al solito ò Leone, e trovandomi a letto mi chiese se stessi male….., gli risposi scusandomi di non essere potuta andare in chiesa poiché ero diventata “signorina” e chiesi a lui di darmi le spiegazioni del caso. A quel punto egli pazientemente mi spiegò ciò che mi era capitato; a dire il vero non è che dopo la spiegazione sia stata meglio, anzi la cosa mi disturbava
moltissimo. Sapere che, per una buona parte della mia vita, tutti i mesi, avrei avuto questa compagnia scomoda, mi dava enormemente fastidio, era per me un’ulteriore sofferenza fisica, e del lavoro in più per chi doveva accudirmi, senza contare il disagio che tutto ciò comportava. Sogni e desideri non sono più quelli di bambina, niente più bambole o trenini, il mondo che ti circonda cambia volto ed è sempre tutta una scoperta.
Eccoli…..!!! Sono loro……, sono gli ormoni, si stanno svegliando….. e allora tu da bimba, cominci a sentirti donna…. (anche se in realtà non lo sei), non vuoi più giocare ai cowboy o agli indiani, cominci a capire che tra te e l’altro sesso c’è una bella differenza e non solo anatomica: tutto questo cominciava ad incuriosirmi. Vivere tutte queste sensazioni era emozionante, si sa che per ogni ragazzo o ragazza, è sempre un aggio importante, figuratevi per me, costretta su una carrozzina, con poche possibilità di movimento, ricoverata in un ospedale dove i miei unici punti di riferimento erano infermieri, medici, suore ecc…. Non fu facile, volevo credere che un giorno avrei avuto anch’io un ragazzo con cui andare al cinema, a ballare o magari solo a fare una eggiata in riva al mare… come facevano alcune mie amiche, ma, nello stesso tempo, ero consapevole che non era così. Allora reprimevo, cancellavo tutte quelle sensazioni che la mia mente e il mio corpo volevano vivere, cercavo di mettere a tacere gli ormoni fino al convincimento completo che non ne avevo il diritto… ero disabile, di conseguenza dovevo essere asessuata, certe “voglie” non mi appartenevano. Così per soffrire meno, ti ritiri in buon ordine, chiudendo le porte a tutto questo, facendo finta che non esista. Comunque all’Ospedale al Mare mi trovai subito bene, mi integrai con l’ambiente che era un po’ meno militaresco del “Burlo Garofolo”, la scuola e la terapia erano sempre d’obbligo, ma il clima umano era molto diverso. Quello era un ospedale a tutti gli effetti, i reparti erano tanti padiglioni costruiti su due piani,con i nomi delle città o personaggi veneti, il mio si chiamava “Venezia”. Collocato sul mare per un estensione di circa due chilometri, dove all’interno vi era di tutto, il cinema, dove proiettavano tre volte la settimana dei film e spettacoli vari (incluso quello di invitare, ogni qualvolta si svolgeva al Lido il “Festival del Cinema”, gli attori in voga del momento) vi erano inoltre uno spaccio, un bar, una mensa, giardini ecc… e una bellissima spiaggia. Come dicevo, al Lido mi trovai subito bene, ma tre furono le persone con cui istaurai un rapporto particolare: Antonietta, Elisabetta e P. Leone.
Antonietta
Antonietta era un’ausiliaria del reparto in cui ero ricoverata, alta, mora, anche lei imponente, al primo impatto incuteva soggezione, dava l’impressione di essere una persona burbera, menefreghista, in realtà aveva, ed ha, un cuore grande come una casa. Si era affezionata a me in modo particolare, mi aveva praticamente, in senso metaforico, adottata. Tutte le feste, e alle volte anche la domenica, quando non lavorava, mi portava a casa sua per farmi trascorrere delle giornate di gioia e darmi una parvenza di famiglia poiché ero diventata della famiglia e lei, non essendo sposata e non avendo figli, mi considerava come una figlia. Ricordo, le dicevo che assomigliava a mia madre, anche se in realtà mia madre non sapevo proprio com’era fatta! Ma proprio per la sua imponenza fisica destava in me un senso di sicurezza e protezione che solo una madre può dare.
Spesso portava con se all’interno dell’ospedale i suoi nipoti Vanni e Monica quasi miei coetanei, per farmi compagnia specie quando era costretta a stare a letto a causa delle bronchiti. Il mio rapporto con Antonietta con il are degli anni non si è mai interrotto, e ancora oggi, a distanza di più di 30 anni , ci si sente ogni tanto.
Elisabetta
Elisabetta, una ragazza che abitava al Lido, faceva parte di un gruppo di ragazze che frequentava l’Ospedale al Mare, ella era di un anno più grande di me e tra noi era nata spontaneamente una grande amicizia, era come avere una sorella più grande a cui raccontare tutto e con cui fare di tutto. Il loro gruppo organizzava uscite, feste ecc…..ed io ero sempre presente. Ricordo che una volta, credo fosse una specie di campo-scuola, tipo quelli che organizzano le parrocchie, sono stata fuori con loro: fu una bella esperienza, assaporavo per la prima volta la libertà e vivevo, almeno in parte, una vita uguale ad altri ragazzi normodotati. Sicuramente vi chiederete come facevo non essendo per niente autonoma. Risposta: facevano loro per me. Quella esperienza, senza ombra di dubbio, mi ha fatto capire che essere disabili non sempre è discriminazione e ciò ha influito sull’andamento della mia vita. Il rapporto con Elisabetta andò avanti per molti anni, poi gli eventi della vita per un lungo periodo ci hanno separate, ma sempre gli eventi della vita ci hanno fatto ritrovare con grande gioia da ambe le parti. Oggi è sposata e madre di due ragazzi e, guarda caso, fa la fisioterapista: si vede che l’esperienza vissuta da ragazza ha lasciato il segno.
Padre Leone:
Parlare di “Padre Leone”, anzi di “Leone” (perché per me non è, e non sarà mai, “P. Leone”, ma “Leone”) non è semplice, ma ci proverò.
E’ una persona dal carattere dolce, ma nello stesso tempo forte, una sua grandissima dote è l’umiltà, la semplicità con cui vive, la schiettezza nel dire le cose senza però offendere le persone. Leone sa ridere di sè ma, nello stesso tempo, è severo con se stesso, intransigente con sè e con gli altri. E’ una di quelle persone che se entrano nella tua vita, difficilmente riusciranno ad uscirne. Ho visto Leone per la prima volta che era un seminarista, venne con altri ragazzi seminaristi all’ospedale di Vittorio Veneto dove io ero ricoverata per un intervento chirurgico (tanto per cambiare!) Questi giovani ragazzi venivano a far visita ai malati ed io, essendo una bambina di 6-7 anni, attirai la loro simpatia, ricordo che mi portavano dolci e giornalini da leggere.
Ritrovai Leone sei anni dopo all’Ospedale al Mare del Lido di Venezia, doveva ancora prendere i voti, lo fece poco dopo. Partecipai alla cerimonia religiosa con grande emozione e gioia: vivevo il momento più importante della persona a me più cara al mondo! Tra noi ci fu subito un’intesa, si instaurò un rapporto particolare, io ero una ragazzina di 12 anni mentre lui un uomo di 27-28 anni e nacque tra noi un’amicizia che il tempo e la lontananza non hanno deteriorato, anzi hanno rafforzato. Leone capì subito che nonostante la spigliatezza, l’allegria, l’incoscienza che dimostravo, in fondo ero una ragazzina con un estremo bisogno di affetto. Mi fece da padre e madre, da fratello, da amico e credo anche che fu la prima persona a farmi battere il cuore. Padre e madre che per me erano assenti……. Lui, in quegli anni al Lido, li ha egregiamente sostituiti! Fu lui che una volta, beccandomi con un pacchetto di sigarette (avevo 13 anni), mi rimproverò aspramente, togliendomele dalle mani, con l’ordine di non provarci mai più. Era lui che con la scusa di pagarmi perché andavo a cantare in chiesa, manteneva le mie necessità e anche qualche mio capriccio, come dovrebbe fare ogni buon padre di famiglia, è lui che quando sono diventata
donna ed ebbi la prima mestruazione, mi ha spiegato cosa mi stava accadendo, a cosa andavo incontro e come il mio corpo sarebbe cambiato, come fa una madre nei confronti della propria figlia. Sempre lui rimaneva al capezzale del mio letto quando mi venivano le bronchiti che mi costringevano a lunghi periodi di convalescenza, senza poter uscire. Allora veniva e stava con me per tenermi compagnia.
C’era sempre Leone a consolarmi nei momenti tristi o a gioire con me nei momenti allegri, oppure ancora a essere complice, come fa un fratello coprendo qualche mia marachella per evitarmi la sgridata della caposala o del medico di reparto. Era ancora lui a darmi i soldi per organizzare la festa del mio compleanno con gli amici alla quale, tra l’altro, partecipava. Mi ha sempre detto che festeggiare il compleanno per me era un obbligo di vita; infatti io rigorosamente festeggio sempre il mio compleanno con gioia. A Leone ho sempre confidato le mie ansie, gioie, dolori, speranze, desideri, amori, paure e crisi esistenziali nelle varie fasi della mia vita. Sino al punto che ormai non abbiamo più bisogno di parlare, non serve per capirci, abbiamo fatto tutti e due un cammino insieme pur essendo lontani e prendendo strade diverse. Leone è stata l’unica persona che quando ho deciso di dare una svolta alla mia vita, uscendo dall’istituto, mi ha incoraggiata, anzi mi ha detto che era sicuro che ce l’avrei fatta, e se anche non fosse stato così, almeno ci avevo provato. E dovunque Leone sarà e qualunque cosa farà, per me Leone resterà sempre Leone, l’amico, il fratello, il padre e la madre che non ho mai avuto.
Nuova partenza
Gli anni trascorsi al Lido di Venezia furono molto belli. Frequentai due anni delle scuole medie con profitto, avevo molti amici ed ero circondata da persone che mi volevano bene. Ero convinta che la mia vita sarebbe stata per sempre all’ Ospedale al Mare e di questo ne gioivo, anche se mi pesava non avere una famiglia alle spalle; mi consolava il fatto che non mi sarei più dovuta preoccupare di niente, avrei studiato e, chissà…, forse un giorno lavorato. Comunque sarei rimasta lì per sempre! Ma nei primi anni ‘70 le politiche sociali riguardo al handicap stavano mutando, si proiettavano verso un inserimento totale del disabile all’interno della società, anche se ciò non accadeva in tutta Italia. Le lunghe degenze, ovvero i ricoveri in istituti, dovevano scomparire e lasciare il posto a ricoveri prettamente ospedalieri: questo sia per gli alti costi a carico del SSN, sia per una migliore integrazione sociale in seno alla famiglia d’origine del disabile. Ed è così che dovetti affrontare un nuovo trasferimento, poiché sapevo benissimo che mio padre non mi avrebbe mai portato a casa. Di conseguenza mi si prospettava un nuovo istituto o un nuovo ospedale. Ricordo che andai da Leone piangendo disperata: “Leone, fa qualcosa, non voglio andare via, cosa farò, con chi sarò, che futuro avrò……..? Cerca di convincere tu i medici che io ho bisogno di stare qui………!!!!” Contrariamente alle altre volte, Leone non mi consolò, anzi mi mise davanti alle mie responsabilità, lo fece sicuramente con la morte nel cuore, ma per il mio bene doveva farlo e allora mi disse: “Smetti di piangere, non sei più una bambina, è ora di crescere, prendi atto che la tua famiglia non ti vuole e, purtroppo , non potrai stare qui per sempre, io non ci sarò per sempre fisicamente per proteggerti, sono un frate e debbo obbedienza e se mi trasferiscono dovrò andare…. tu cosa fai ti trasferisci con me? Perciò Antonella, rimboccati le maniche perché se vorrai avere un futuro dovrai creartelo da sola, rischiando in prima persona, nessuno si farà carico di te” (parole sante!) Non avevo ancora compiuto 15 anni, ma disse che era sicuro che avrei potuto farcela, mi diede fiducia, credeva in me.
Sono ati più di 30 anni, quelle parole rimasero fisse nella mia mente e mi furono da sprono, tant’è vero che cominciai a sognare ad occhi aperti…… sognavo che un domani avrei avuto un posto tutto mio, una casa, forse un marito
e dei figli, insomma un posto dove nessuno mi avrebbe mai più mandato via, avrei avuto finalmente quella stabilità e certezza che tanto desideravo. E’ stato proprio sognando che alla fine ho realizzato qualcosa per la mia “indipendenza” fisica (anche se parzialmente), economica e soprattutto mentale. Mio padre, per paura di dovermi portare a casa, si mosse molto rapidamente alla ricerca di un altro posto dove collocarmi; lo trovò nel Trentino, precisamente ad Arco di Trento, un istituto, anche questo, gestito da suore laiche, una congregazione chiamata “Silenziosi Operai della Croce ” del “Centro Volontari della Sofferenza”. L’anno che trascorsi ad Arco fu il peggiore di tutta la mia vita, il periodo ribelle, dovuto all’età critica, unito alla grande delusione di non essere potuta stare al Lido di Venezia, dove avevo lasciato le persone a me più care. Fattori questi che non contribuirono certo ad una buona integrazione presso l’istituto stesso. Come struttura era bellissima, una villa in mezzo alle montagne del Trentino, ristrutturata per poter ospitare persone disabili, con camere a due o tre letti, sale molto grandi e luminose e molto ben arredate; all’interno della struttura vi erano anche due laboratori, uno di ceramica e l’altro di sartoria, dove si tenevano i corsi professionali obbligatori, e in più una grande aula dove si teneva il corso professionale di dattilografia e stenografia, anch’esso obbligatorio. Essere chiamata “Volontaria della Sofferenza” a 15 anni per me fu proprio un vero trauma; cosa significava essere volontari della propria sofferenza….? Voleva forse dire che dovevo ringraziare quel Dio tanto buono per avermi fatto incontrare la Poliomielite, impedendomi così di camminare, di muovermi, di fare tutto ciò che ogni essere umano poteva fare…???? O forse dovevo dire grazie perché ogni giorno mani diverse da quelle di mia madre si posavano sul mio corpo, ognuno alla sua maniera, più o meno delicatamente, mani professionali, ma allo stesso tempo estranee, mani indifferenti….. che lavavano il mio corpo con abitudine…(diciamo come lavare un tavolino), dove il pudore, la vergogna, dovevano essere soppressi….??? Non si poteva avere vergogna, altrimenti non riuscivi ad andare avanti…., allora, quando arrivano per alzarti, lavarti, vestirti…, ti convinci che quello non è il tuo corpo…, ma un qualcosa che neppure ti appartiene. Così piano, piano il pudore e la vergogna se ne vanno, lasciando posto ad un’indifferenza totale per ciò che ti stanno facendo; non importa più se mentre queste mani estranee stanno lavando le tue parti più intime, altre persone entrano ed escono dalla tua camera; non importa se ti lasciano scoperta, mezza nuda, poiché si sono scordati di prendere un
asciugamano o qualunque altra cosa…
Tutto questo diventa una routine quotidiana, tutto diventa di dominio pubblico, anche le tue mestruazioni e i peli che naturalmente crescono sul tuo corpo. Se Dio era tanto buono perché permetteva tutto ciò ? Me lo continuavo a chiedere… e mi dicevo tra me e me “dov’è finita la bontà di Dio? Come fa un essere tanto buono a privare una bambina di 2 anni della madre, dopo che già gli aveva tolto la possibilità di vivere una vita normale costringendola a grandi sofferenze, fisiche e morali?
Che cosa avevo fatto di male al buon Dio….??? Questi pensieri erano la mia continua ricerca di un perché, ricerca di risposte che poi non ci sono, ma a 15 anni non lo sai, speri sempre che prima o poi, qualcuno, quelle risposte te le dia.
Come tutte le cose, anche le sofferenze ano; al loro aggio lasciano un segno profondo nella tua anima, ma hanno un grandissimo pregio: ti rendono forte per continuare ad affrontare la vita. In ogni modo, al di là delle proprie idee e convinzioni religiose, la vita ad Arco era molto dura, avevo l’obbligo della S. Messa tutte le mattine, a cui mi ribellavo fortemente; ciò faceva di me una sovversiva, anche perché incitavo le altre ospiti alla ribellione.
Dovevo terminare l’ultimo anno di scuola per prendere il diploma di licenza media inferiore, con relativo esame, ma, come ho già detto, ero anche obbligata a fare uno dei corsi professionali che si tenevano all’interno della struttura.
Dopo 6 ore di corso (io facevo quello di ceramica e lo odiavo !) andavo alla scuola serale per conseguire il tanto sognato diploma: era l’unico motivo che mi dava la forza di sopportare quello stile di vita.
Proprio in quel periodo, nonostante tutto, contro ogni logica e al di là della mia volontà, mi innamorai per la prima volta. Innamorarmi fu fantastico e nello stesso tempo doloroso; come da copione mi innamorai della persona sbagliata. Era più grande di me di parecchi anni, non era disabile come me e mi considerava come una sorella più piccola. Quando sei innamorato, specie a 15 anni, non pensi, non valuti, vivi sulle nuvole, così mi buttai…., esternai questi miei sentimenti con una lettera alla persona interessata; mi è sempre piaciuto essere chiara e onesta nei miei rapporti con le persone, in qualsiasi tipo di rapporto. Poi a 15 anni speri sempre che il tuo “lui” ricambi tale sentimento, ma, si sa, il primo amore non è mai quello giusto, peccato che lo scopri sempre quando ormai è troppo tardi. Comunque sia feci questo o: ero in ansia e avevo anche paura. Ero in attesa di una risposta che non tardò ad arrivare…… logicamente fu negativa……, ma allo stesso tempo positiva, non rise dei miei sentimenti, anzi ne fu dispiaciuto, fu onesto, disse che per me provava dell’affetto e amicizia, mi disse che spesso le persone scambiano un sentimento per un altro forse per solitudine o semplicemente perché si cresce. Ne soffrii molto, dissi a me stessa che non mi sarei più innamorata, ma il tempo guarisce le ferite e poi, all’orizzonte, altre sofferenze molto più grandi mi aspettavano. Il nostro rapporto di amicizia durò negli anni, con una fitta corrispondenza che con il are del tempo diventava sempre più rada fino al punto di scambiarci solo gli auguri per Natale e per Pasqua, ma non ci siamo mai persi di vista, anzi tuttora ogni tanto ci si vede da buoni amici.
Poi finalmente la scuola finì e, nonostante tutto, con buoni voti; allora mi feci letteralmente cacciare dall’istituto, per cattiva condotta, come persona indesiderata non adeguata alla morale di quella congregazione. Interruppi il corso, contestavo su tutto e tutti e questo mio comportamento indusse la direzione a telefonare a mio padre affinché mi venisse a prendere. Non avete neppure la più pallida idea di cosa successe: mio padre si infuriò terribilmente, il suo pensiero principale era sapere dove mi avrebbe portato. Ma risolse il problema molto velocemente, infatti trovò un istituto a Rimini.
Fu un viaggio da incubo…, io e mia nonna sedute sul sedile posteriore e davanti
mio padre e forse anche lei (la mia matrigna), ma questo non lo ricordo bene. Mio padre bestemmiava e urlava dicendo che mi avrebbe buttato in mare, se nell’istituto nel quale mi stava portando non mi avessero accolto. Continuava a urlare che non sapeva dove mettermi….e, anche se la nonna continuava a ripetergli che mi avrebbe ospitato lei a casa in attesa di una sistemazione adeguata, lui non ascoltava. Era solo furibondo con me… In quel momento ho quasi desiderato che mi buttasse veramente in mare, almeno tutte le mie sofferenze sarebbero finite….. Non ho mai avuto il coraggio di chiedere alla nonna come andò il viaggio di ritorno… Io, oltre ad essere terrorizzata dal comportamento di mio padre, ero anche spaventata per quello a cui andavo incontro, non sapevo ciò che mi aspettava… Ricordo molto poco di quel nuovo istituto poiché la situazione cambiò tanto velocemente che non ebbi neppure il tempo di capire il nuovo ambiente; rimasi in istituto solo tre giorni, poi mi ricoverarono con urgenza per una broncopolmonite nell’ospedale di Rimini.
Quando arrivai al pronto soccorso in ambulanza non respiravo: il medico di turno, che secondo me non era degno del camice che indossava e neppure di essere chiamato medico, sentenziò che potevo benissimo restare nel corridoio dato che secondo lui non ci sarei arrivata viva al mattino dopo …. Il bello fu che lo disse in mia presenza, convinto che io non potessi udirlo. Stavo malissimo e avevo tantissima paura….., non conoscevo nessuno, volevo qualcuno accanto a me, pensavo che se anche fossi stata la persona più cattiva di questo mondo non meritavo certo di morire da sola come un cane…… Poi improvvisamente mi portarono in camerata e dopo poco arrivarono mio padre e la nonna. Ho pianto dalla gioia, pensate che non ero neppure più arrabbiata con mio padre, avevo perdonato anche le parole che mi aveva detto solo tre giorni prima, ero ancora viva e non ero sola! Era il massimo che potessi desiderare. Rimasi a Rimini per un bel pò di tempo, anche perché all’istituto dove mio padre mi aveva portato non potevo più tornarci in quanto avevo superato i limiti di età; si vede proprio che per togliersi l’ impiccio della mia presenza non si era neppure informato bene sull’istituto in questione. Io nel frattempo ero rimasta in contatto con l’Ospedale al Mare e riuscii, con l’aiuto di Leone e degli assistenti sociali, a convincere mio padre a riportarmi al Lido anche per un breve periodo, finché non avesse trovato un nuovo posto. Credo che accettò solo per il semplice motivo che altrimenti avrebbe dovuto portarmi a casa con lui e questo era totalmente fuori discussione. Ero felice di
tornare al Lido, avevo bisogno di un po’ di tranquillità e di stare un po’ con le persone che mi amavano veramente. Il mio ricovero avrebbe dovuto essere breve, ma si prolungò a causa delle difficoltà di individuare un’altra sistemazione a me più idonea.. A quei tempi, avendo molto più fiato di quanto ne abbia oggi, mi piaceva molto cantare. Appena trovavo qualcuno che mi portasse a eggio con la carrozzina lungo i viali, accendevo il mio mangianastri, regalatomi da qualcuno in occasione di qualche evento particolare, cantavo a squarciagola le canzoni in voga in quel momento. Posso anche affermare che avevo una bella voce! La mia tappa obbligatoria, era la mitica “Casa Frati” (così era la dicitura sul camlo), essa era come un piccolo convento all’interno dell’ospedale, in cui vivevano tre frati scani: Padre Eusebio, il più anziano ma anche il superiore del piccolo convento e gli altri due giovani frati, Padre Renato e Padre Leone.
Tutti e tre erano cappellani dell’ospedale. All’interno della casa vi era una piccola rivendita di pile di ogni genere e per ogni genere di cose come radio, registratori, mangianastri, ecc… Io ero una grandissima consumatrice di queste cose ed ecco perché la mia tappa era d’obbligo. Arrivata sotto le finestre cominciavo a chiamare Leone affinché mi rifornisse di pile suscitando l’indignazione delle suore che abitavano anche loro poco lontano; mi sentivano e mi sgridavano perché dicevano che non avevo rispetto per P. Leone, poiché non anteponevo al nome la fatidica parola “padre”. Dovete sapere che dopo l’esperienza di “Arco” mettere piede in una chiesa non era neppure nelle mie più lontane intenzioni, anzi ne stavo più al largo possibile, ma Leone da bravo frate, e anche da bravo amico, trovò il sistema per farmi riavvicinare almeno un po’…….. Prima di partire per andare in Trentino avevo lasciato anche un piccolo coro di ragazzini e ragazzine, che Leone aveva costituito affinché cantassimo in chiesa durante la messa domenicale dove lui suonava l’organo.
Di questo coro io ero parte attiva, anzi ero addirittura solista….. e come ricompensa, oltre a portarci al bar per un gelato o una cioccolata, ci regalava qualche soldo per piccole spese che volevamo fare; a me naturalmente dava sempre qualcosa in più, oltre a pagare le cose di prima necessità come
dentifricio, sapone, shampoo ecc…. Fu così che Leone, per non farmi sentire a disagio ogni volta che gli chiedevo i soldi, mi propose di tornare a cantare in chiesa durante le messe domenicali e le feste comandate. Molto spesso mi chiedevo… “ Ma possibile che oltre ai genitori, non vi siano altri parenti che possano intervenire in mio favore o che si occupino di me? Perché NON VEDONO, NON SENTONO, NON PARLANO ? ” Questa sì che è una bella domanda, che richiede una risposta non facile da dare alla quale io non avevo la risposta
Mi soffermai un attimo a pensare….. “Non vedevano ero troppo lontana, non sentivano, io non parlavo, non parlavano, non erano a conoscenza.” Vorrei essere il più chiara e veritiera possibile, perciò mi spiegherò meglio.
Del breve periodo che sono stata a Modena, prima a casa con i miei e in seguito a casa con i nonni, non ho molti ricordi, ero troppo piccola, nella mia memoria mi rivedo dentro a una cesta di vimini a cui avevano applicato delle ruote oppure su un eggino con cui potevano spostarmi da un posto all’altro. Ricordo, specie mentre ero dai nonni, che la casa era sempre piena di gente e che tutti si davano un gran da fare per accudirmi, coccolarmi dandomi ciò di cui ogni bambino ha bisogno, affetto e protezione e soprattutto una famiglia. Poi, come ho detto, i miei decisero di portarmi in un istituto e da quel momento, i parenti per me furono solo delle figure marginali che vedevo sporadicamente o quando mi ammalavo ed ero costretta a qualche ricovero ospedaliero. Ma questa è una cosa normale, la nonna oltre che dover accudire il nonno infermo, aveva anche in casa sua suocera, la Nonna Bella, senza contare i nipoti da badare, i miei zii avevano il lavoro, figli, marito e casa da portare avanti, ed io ero lontana….al sicuro in un istituto dove avrei avuto tutto ciò che mi serviva, ma non sapevano che mi mancava la cosa principale, l’affetto di una famiglia. Le persone che sono lontane, anche se sono parte della famiglia, le vivi sempre in modo marginale, come se la persona in questione, dato che è lontana, non è più parte integrante di quel nucleo famigliare che vivi tutti i giorni. È una cosa abbastanza naturale ed umana, magari la mente sfiora il pensiero per quella persona, ma poi si è subito catapultati da cose più tangibili, che vedi, che tocchi con mano che fanno parte del vivere quotidiano; istintivamente il pensiero che ha appena attraversato la tua mente si volatilizza per poi ritornare dopo qualche tempo.
Allora chiedi notizie, ti informi se tutto procede secondo i canoni stabiliti….se stai bene, se a scuola sei brava, se fai le terapie per guarire ecc…., e ogni qualvolta chiedevano mie notizie o manifestavano il desiderio di venire a trovarmi gli venivano date queste risposte: “Antonella sta bene, ci siamo appena stati” oppure “È meglio che non andate perché poi fa i capricci e l’istituto non vuole che si agiti” e “se andate non portatela fuori a pranzo perché non può uscire dall’istituto ecc…” e altre risposte simili. Così le loro visite si facevano sempre più rade e quelle poche avevano le ore limitate, dato che, appena arrivava l’ora del pranzo mi riaccompagnavano in refettorio o nella mia stanza…. Ogni volta mi chiedevo perché potevo uscire con altre persone e con i miei parenti no: questo rimase un mistero per un bel po’ di tempo. Lo capii più tardi: mio padre, da buon ostruzionista, era riuscito a tenermi lontano dal resto della famiglia e anche quando ero io a chiedere di loro, lui aveva mille motivazioni da argomentare per farmi credere ciò che gli faceva più comodo. in quanto a loro si guardavano bene dal disubbidire a queste direttive, in fondo che motivo avevano per non credere a ciò che abilmente mio padre si inventava, tanto più che tra loro esisteva anche un discreto rapporto. In fondo nessuna madre, sorella o fratello può pensare che tutto ciò che gli veniva raccontato in tutti quegli anni erano solo un cumulo di bugie.
Accidenti che anni di fuoco…., mi sembrava di essere una valigia che nessuno voleva, il suo contenuto era troppo scomodo da indossare, una valigia con dentro della roba che non metti più e che quindi nascondi in soffitta, in modo che non dia fastidio, finché non si decida il da farsi. Così è stata la mia vita fino al mio arrivo nelle Marche.
In tutti quegli anni ero stata sballottata da un istituto all’altro, da un giorno all’altro arrivava mio padre e mi portava in un istituto nuovo, senza mai avvisarmi, senza mai sapere dove sarei andata, senza mai dirmi il perché di questi repentini cambiamenti, senza mai sapere quanto tempo sarei rimasta nel nuovo posto e con l’incubo di dover ricominciare tutto da capo, nuovo ambiente, nuove regole, nuovi amici….insomma una nuova vita e se provavo a chiedere
spiegazioni, la risposta era sempre quella: “Devi obbedire senza fare domande perché noi facciamo molti sacrifici per te”. Per questo io dovevo essere loro grata. Scoprii più tardi che tutti quegli spostamenti erano dovuti esclusivamente ad una questione economica; in parole povere ogni volta che cessava la convenzione del Ministero della Sanità con questi istituti, mio padre mi cambiava istituto pur di non pagare la retta.
Finché sei piccolo non hai coscienza di ciò che ti accade intorno, vivi la vita un po’ come un gioco, a volte bello, a volte crudele, ma tu non puoi fare nulla per cambiarla e allora la subisci…, poi sei costretto a crescere, guardi dentro di te, vedi quello che sei e quello che sarai o farai e vedi le cose in un’ottica diversa. Io cominciavo a ribellarmi a tutto questo, non facevo in tempo ad ambientarmi che già dovevo partire, lasciare gli amici che faticosamente mi ero fatta, riadattarmi a nuovi ambienti e nuove persone, ero stanca di tutto questo pellegrinare, ero un peso per i miei genitori e cominciai a lottare per il mio futuro.
Nel periodo che va dalla mia prima dimissione dall’Ospedale al Mare alla mia venuta nelle Marche, con l’aiuto di Leone, medici e assistenti sociali finalmente è scoppiata la guerra.
Essa diede i suoi frutti: anche gli zii poterono vedere con i propri occhi, sentire con le proprie orecchie e soprattutto parlare con la propria bocca! Grazie!
All’interno della famiglia, la persona con cui avevo una fitta corrispondenza era mia zia Teresa (moglie dello zio Gaetano) a cui cercavo di far capire come stavano realmente le cose dato che era molto vicina a mio padre; le chiedevo di intercedere per me di dirgli che desideravo sentirlo più vicino e che si occue più di me, volevo una famiglia presente. Per lei era difficile capire le mie richieste e continuava a ripetermi che dovevo essere grata ai miei genitori che facevano tanti sacrifici per me. Tutto questo mi mandava in bestia e riflettevo: “Che ne sa lei della mia vita, se viene una volta ogni tanto e spesso insieme con i miei fermandosi solo qualche ora.” Cercavo di farle capire che non volevo più
essere trattata come un oggetto da spostare in qua e in là a proprio piacimento affinché non dia fastidio, volevo essere considerata come una persona con sentimenti e aspirazioni, ma soprattutto pretendevo di vivere al meglio la mia vita nonostante le mie limitazioni.
Il personale medico, paramedico, infermieristico, gli assistenti sociali, Leone e gli amici, notavano tutti i giorni questa mia sofferenza psicologica che molto spesso sfociava anche in una sofferenza fisica, con l’acutizzarsi di stati bronchiali che mi costringevano a lunghi periodi a letto. Dopo l’ennesima telefonata che ricevevo, uno dei medici del reparto prese in mano il telefono e…..ne disse di tutti i colori a mia zia Teresa intimandole anche di non telefonarmi più in quanto per me era molto deleterio e non faceva altro che peggiorare il mio stato psicofisico. Le disse che non avevano alcun pudore ed alcuna vergogna a continuare a tormentarmi con telefonate ipocrite, dato che in realtà nessuno si interessava a me da moltissimi anni: ero stata abbandonata al mio destino come si fa con un pacco che non si vuole ritirare e questa situazione durava da sempre (stando anche a quanto riferito all’Ospedale al Mare dalle Direzioni degli Istituti che mi avevano ospitato precedentemente). Il medico aggiunse infine che nessuno della mia famiglia aveva mai provveduto al mio sostentamento. Credo che per mia zia fu un colpo durissimo, si sentì trattata come la peggiore delinquente della terra, non poteva credere che ciò corrispondesse a verità e, d’altra parte, neppure pensare che un medico affermasse il falso. La sua sofferenza fu ancora più grande nel rendersi conto che, anche se involontariamente, aveva contribuito alla mia. A questo punto gli zii Gaetano e Teresa, Anna e Sante, insieme alla nonna Marietta, vennero al Lido per parlare con il famoso P. Leone, nominato spesso nelle mie lettere e per verificare lo stato delle cose.
L’incontro con Leone fu molto particolare: non si aspettavano una persona giovane, si erano immaginati un frate con più di cinquanta anni e invece si trovarono di fronte un ragazzo non ancora trentenne. Credo che per un attimo (ma questo è un pensiero mio) abbiano avuto qualche dubbio……. Ad ogni modo Leone riuscì a conquistarli con il suo modo di parlare schietto ma calmo. Anche se a volte un po’ duramente, raccontò loro come avevo vissuto in tutti quegli anni, svelando cose che non sapevo neppure io; chiese loro dov’erano
stati per tutto quel tempo e il motivo per cui mio padre non provvedeva al mio sostentamento visto che, secondo gli assistenti sociali, percepiva una pensione di reversibilità di mia madre, intestata a me in quanto persona disabile. Fece presente che spesso gli assistenti sociali erano costretti ad intervenire per provvedere almeno allo stretto necessario oppure per affidarmi al buon cuore delle persone che mi conoscevano e che mi volevano bene. I discorsi furono tanti, lunghi ed elaborati, tant’è vero che andammo a pranzo insieme, i miei zii invitarono anche Leone perché avevano ancora sete di sapere. Fu una giornata memorabile, era la prima volta che pranzavo con loro; mio padre aveva sempre detto loro che non era possibile per me uscire dall’ospedale e si meravigliarono quando invece venne accordato il consenso. Si resero conto allora che per tutti quegli anni mio padre li aveva sempre abbindolati. Decisero allora di porvi rimedio, affrontarono mio padre e gli offrirono un aiuto concreto affinché finalmente potessi avere una vita tranquilla, senza più il trauma degli spostamenti. Mio padre fu irremovibile.
Mentre ero parcheggiata all’Ospedale al Mare e tutti si davano un gran da fare nella ricerca del posto per me, espressi il desiderio di tornare al “Piccolo Rifugio di Verona” dove da piccolissima mi ero trovata bene e dove, forse, avrei ritrovato una parvenza di famiglia. Ma ecco apparire il primo problema. I Piccoli Rifugi, essendo auto-gestiti, si mantenevano, oltre che con delle offerte fatte da qualche benefattore, anche con le rette che ogni ospite pagava. E’ proprio qui che casca l’asino! Io ero minorenne e non percepivo alcuna pensione (almeno così credevo allora), perciò era compito di mio padre provvedere al mio mantenimento presso questi Istituti. Egli invece si rifiutò categoricamente, disse: “La pensione non si tocca!!!”
Ed è così che venni a sapere che per i miei genitori (se così si possono chiamare) ero, e sarei sempre stata, solo un’ottima fonte di guadagno (ma chi lo ha detto che i disabili non sono un buon affare…?) A mia insaputa per tredici anni avevano arrotondato il loro stipendio con la mia pensione di reversibilità che cominciai a percepire subito dopo la morte di mia madre, essa permetteva loro di avere un appartamento in affitto in montagna e di mandare a scuola privata mia sorella! Inoltre ricevevano dalla Previdenza Sociale di Modena dei pacchi dono, contenenti vestiario e materiali di altro genere, per il mio mantenimento. Si
facevano are per persone indigenti e perciò impossibilitate a garantire adeguatamente tale mantenimento .Tutto questo però non sarebbe stato un gran male, se non fosse che quei pacchi non mi arrivarono mai, tranne qualche rara volta. Fu proprio una di queste volte che mi arrivò un pacco contenente un bel completo, come quelli che si usavano negli anni ‘70, giacca e pantalone uguali: peccato che era talmente grande da stare bene solo a una persona adulta e per giunta di taglia maggiorata! Se invece parliamo di soldi, la questione era ben peggiore: per moltissimi anni ho subito l’umiliazione di dover chiedere i miei soldi, guadagnati da mia madre nella sua breve esistenza, per assicurarmi un eventuale futuro. Mio padre puntualmente mi rispondeva dicendomi che lui i soldi li sudava e non gli piovevano dal cielo. Per lungo tempo ho dovuto ricorrere al buon cuore della gente per comperarmi alcune cose necessarie (spazzolino, dentifricio, assorbenti, magliette, asciugamani, mutandine ecc…)
Mio padre, come era da immaginarsi, non cedette mai di un millimetro, anzi continuava a torturarmi con mortificazioni e minacce. Ad esempio mi diceva: “Visto che hai i tuoi zii non considerarti più nostra figlia” oppure “se non fai come diciamo noi ti spediamo in Sicilia, lontano da tutto e da tutti, non ti vergogni a comportarti così con noi che facciamo tanti sacrifici per te…?” ecc….. Ciò alterava sensibilmente il mio stato psicofisico e questo costrinse i miei zii e mia nonna (paterna) ad agire di conseguenza. Presero la decisione di fare un esposto alla magistratura presso il tribunale di Modena. Raccontarono al giudice dei minori quanto avevano scoperto e gli chiesero di intervenire affinché fossero tutelati i miei diritti. Convocate le parti, il giudice costrinse mio padre a prendersi le proprie responsabilità minacciandolo di togliergli la patria potestà, e stabilì quanto segue: < I miei genitori avevano l’obbligo di farmi visita una volta al mese e provvedere al mio mantenimento finché non fossi stata maggiorenne.> Dato che continuavano a dichiararsi “povera gente” e non in grado di sostenere le spese per i viaggi, il giudice sentenziò che tali viaggi sarebbero stati pagati con la mia pensione, comprensivi di benzina, autostrada e pranzo per 4 persone ( 4 perché erano costretti a portare anche me al ristorante) Praticamente dai 15 ai 18 anni pagavo i miei genitori perché fero i genitori! Questo sarebbe stato niente se queste visite fossero state serene, tranquille nell’intento di recuperare il rapporto filiale. Purtroppo non era così, anzi sentendosi obbligati, tirarono fuori il peggio di loro. Ogni visita era caratterizzata da lunghe liti alternate da grossi divieti. L’unico fatto positivo era che finalmente avevo, come si dice, la mia “paghetta” mensile che mi permetteva di comprare le cose necessarie senza
dover chiedere l’elemosina. Un altro elemento positivo era che nel frattempo stavo recuperando il rapporto con i miei zii i quali, a turno,venivano a trovarmi e avo con loro bellissime giornate che mi facevano sentire ,per la prima volta, il calore di una famiglia.
Il giudice disse ai miei zii che, se avessi voluto, avevo il diritto di chiedere la restituzione di tutti i soldi con gli interessi, che per circa 13 anni mi avevano sottratto. Questo però significava voler fare veramente del male: non era questo ciò che volevo! Il mio desiderio era solo quello di avere una famiglia, perché quella famiglia non c’è mai stata. Fu un periodo molto brutto per me, mi sentivo figlia di nessuno, in balia delle onde. Tutti pensavano di sapere cosa era meglio per me. Intanto io continuavo ad essere parcheggiata al Lido di Venezia.
Porto Potenza Picena
Dopo lunga e penosa malattia finalmente i miei riuscirono a trovare il posto adatto a me o, per meglio dire, adatto a loro. E fu così che il 5 novembre del ‘74 approdai a Porto Potenza Picena un paesino delle Marche lungo il Mare Adriatico in provincia di Macerata. Il paese è situato su una collina e anticamente veniva chiamato “Montesanto”; ma nel 1862 fu ribattezzato col nome di “Potenza Picena” per le sue origini romane. Le mura e la Rocca del porto dove oggi sorge Porto Potenza Picena, rappresentano il resto di un’antica fortezza eretta a protezione del luogo contro le incursioni piratesche, la cosiddetta “Torre di Sant’Anna”, attorno alla quale si è sviluppata la città. Porto Potenza Picena è una discreta stazione balneare, le spiagge sono ampie, in prevalenza sabbiose, con qualche zona mista a sassi levigati e brevissimi tratti di scogliera. Il paese ha comunque un grosso disagio urbanistico, purtroppo è attraversata in tutta la sua lunghezza di circa 11 km dalla ferrovia, che è proprio sul mare , e dalla strada statale adriatica, senza contare che più internamente a anche l’autostrada e precisamente la “A 14 Adriatica”; tutto ciò, oltre a creare disagi perché il paese è tagliato in due, costituisce anche un fattore deturpante per il paesaggio.
Il comune oggi ha una popolazione di circa 14.524 abitanti, residenti nel capoluogo e nei centri di Porto Potenza Picena, S. Girio (ove sorge un santuario del XX secolo molto amato e frequentato), Montecanepino e Castelletta. Le attività economiche principali sono l’industria, l’artigianato, la pesca e l’agricoltura; inoltre un mestiere di origine antica, rimasto tutt’oggi, è la lavorazione di damaschi, broccati di lana e seta eseguiti a mano dalle “Suore dell’Addolorata” chiamate in marchigiano “le Monachette”. Porto Potenza Picena detiene un primato a mio avviso è degno di nota: la più alta concentrazione di abitanti disabili (circa il 12% della popolazione). Siamo primi in Italia e in Europa, secondi nel mondo! Questo fenomeno si è creato grazie alla presenza del “S. Stefano”, in un primissimo tempo colonia per bambini orfani dell’Umbria, in seguito trasformato in ospedale e poi centro per
la cura della tubercolosi ossea. Alla fine degli anni ‘60, su richiesta del Ministero della Sanità, divenne “Istituto Elioterapico di Riabilitazione S. Stefano”, un centro per la riabilitazione di giovani portatori di handicap. L’Istituto ha cominciato con l’ospitare ragazzi provenienti da tutta Italia e in particolare dal sud. Al tempo del mio arrivo esso contava circa 1000 posti letto e, con il are degli anni, alcuni dei moltissimi ospiti si sono creati il proprio nucleo famigliare, abbandonando l’Istituto e stabilendosi definitivamente nel paese, creando così il suddetto primato. Un’altra realtà degna di nota è la scuola per allievi ufficiali e sottoufficiali dell’aeronautica militare, compresa la presenza di un radar molto importante per tutto il centro sud. Aeronautica e S. Stefano hanno contribuito sensibilmente allo sviluppo economico, urbanistico e sociale del paese creando numerosi posti di lavoro, favorendo così un’immigrazione spontanea. Credo che queste due realtà e la conseguente immigrazione abbiano portato questo paese a crescere all’insegna dell’accoglienza e dell’accettazione, alle volte mi sembra di vivere nella famosa “Torre di Babele” per il grande miscuglio di dialetti! Provate ad immaginare un paese prevalentemente fatto di contadini e pescatori….., invasi improvvisamente da esseri alquanto strani che si muovono per le vie con barelle, carrozzine, girelli, stampelle ecc… e non dimentichiamo tutti quegli omini vestiti di azzurro, anche loro inseriti nel contesto sociale del paese. Certo, non sono tutte rose e fiori….. e le varie amministrazioni avrebbero dovuto e potuto fare molto di più per rendere più agibile il territorio ai disabili, considerando il fenomeno esistente; ma si sa come vanno queste cose…… In tutti i modi mi sento di dire che sono stata accettata bene in questo paese dove ho già vissuto più di un quarto di secolo, dove mi sono guadagnata rispetto e fiducia, dove il mio handicap è diventato una cosa secondaria. Un handicap che molti amici, ognuno con pensieri diversi, nel corso degli anni, mi hanno fatto accettare sempre di più. A loro devo dire “Grazie”!
Arrivo al S. Stefano
Nella mattinata del 5 novembre del 74, mio padre, accompagnato da mia zia Anna, vennero a prendermi all’Ospedale al Mare al Lido di Venezia, per portarmi in un posto a me sconosciuto. Non sapevo neppure il nome del paese o città in cui stavo andando, neppure in che tipo di istituto o ospedale sarei finita; l’unica cosa a me ben chiara e conosciuta era la certezza, unita alla speranza di mio padre, nell’aver finalmente trovato il posto da cui non sarei più uscita. Quel giorno fu dolorosissimo, avevo sperato in un miracolo, ma questo non avvenne: ancora una volta venivo allontanata dai miei affetti!
Così partimmo, ricordo che ci fermammo a pranzo a Modena dalla nonna Marietta, vi era un po’ di confusione, ma una cosa la ricordo bene e mi rimase impressa: la visione del nonno, seduto sulla carrozzina, con un’espressione da demente sul viso, quella fu l’ultima volta che lo vidi. Dopo un viaggio, non lunghissimo, ma pesante per l’atmosfera e la situazione che vivevo, arrivai nel tardo pomeriggio all’istituto “S. Stefano”. Il primo impatto fu veramente traumatico, vidi delle persone dall’espressione e dal comportamento diverso dal mio, urlavano, piangevano e ridevano contemporaneamente, parlavano in modo strano, si picchiavano e facevano un sacco di cose strane….. fu il mio primo incontro con dei disabili mentali. Il mio primo pensiero è stato: “Bravo papà, finalmente ci sei riuscito a rinchiudermi in un manicomio!”.
Fortunatamente mi ero sbagliata, l’istituto ospitava pure disabili mentali, ma la maggioranza degli ospiti aveva handicap simile al mio; vi erano poliomielitici, distrofici, spastici, para-tetraplegici ecc…., insomma una miscellanea di patologie. Collocato tra la statale 16 e la ferrovia, ha una lunghezza di circa 600700 mt ed è composto da 3 padiglioni di 3-4 piani ciascuno, a quei tempi chiamati: “Centrale, S. Stefano, Scuole” (quest’ultimo chiamato così perché vi erano le scuole elementari e medie, e un distaccamento della scuola di elettrotecnica); è dotato di una bellissima spiaggia a cui si accede attraverso un sottoo ferroviario e, di fronte all’ingresso dall’altra parte della statale, c’è
una pineta. Appena arrivata mi accompagnarono subito nel reparto a me assegnato, al secondo piano del padiglione centrale, tra la sezione femminile e maschile, dove vi era un piccolo reparto chiamato “chirurgia” (in quegli anni vi era una sala operatoria per chi necessitava di un intervento correttivo). Fui messa lì momentaneamente a causa di carenza di posti letto nella sezione femminile.
Mi misero in una camera a 4 letti, vi erano due signore e una ragazzina di 11 anni bionda e tutta lentiggini, Maria Grazia (ma di lei vi parlerò in seguito). Mentre mia zia sistemava le poche cose che mi ero portata, mio padre sbrigava la parte burocratica e appena terminato volle ripartire subito, facendomi le solite raccomandazioni…… Ero nuovamente sola. Ma questa volta la solitudine era pesante come un macigno, non avevo più punti di riferimento a cui rivolgermi nel momento del bisogno……. li avevo lasciati al Lido di Venezia.
Ho sofferto molto per questo distacco, manifestavo la mia sofferenza con interminabili lettere alle persone a me più care. Ma si sa, lo spirito di sopravvivenza è forte, ai cambiamenti e ai riadattamenti ero abbondantemente collaudata. Così nuovo personale, nuove regole, nuovi amici, furono la mia nuova sfida della vita. I miei primi 4 anni al S. Stefano furono di adattamento e inserimento sia all’interno che all’esterno dell’Istituto ovvero nella realtà sociale del paese in cui, anche se ancora non lo sapevo, avrei messo le mie radici.
La prima persona con cui feci amicizia fu Maria Grazia: si trovava in chirurgia perché doveva subire un intervento ai piedi, con lei conobbi anche la sua famiglia, era marchigiana e il suo paese distava circa 50 km, i suoi genitori venivano a farle visita una o due volte la settimana. Grazia, di sei anni più giovane di me, era una ragazzina dai bellissimi occhi azzurri e dai capelli lunghi ricci e biondi. Timida e paurosa, mentre io ero sfrontata e senza paura, aveva fatto emergere in me un senso di protezione nei suoi confronti e anche quel senso di potere che si ha da giovani nei confronti dei più piccoli; qualsiasi cosa dicessi o fi per lei era legge e alle volte baravo un po’ nel raccontarle le cose, insomma, questo rapporto aveva innalzato molto la mia autostima. Anche la sua famiglia si era affezionata a me, specie la madre, diciamo che mi aveva
quasi adottato (in senso metaforico) e qualsiasi cosa portavano per la figlia la portavano anche per me, così ogni volta che venivano per me era una festa…..mi portavano sempre cose buone da mangiare! Ma ciò che ho apprezzato di più e che non scorderò mai era la fiducia e la stima che la mamma di Grazia aveva riposto in me, diceva di essere contenta di avere un’alleata alle frequenti ribellioni o capricci della figlia. A questo proposito ricordo un episodio molto simpatico: arrivò il giorno del tanto atteso intervento, Grazia era particolarmente agitata (cosa normale), aveva una gran paura, sul suo comodino, non so come fosse arrivata, c’era una piccola cioccolata “duplo”, velocemente la prese in mano minacciando la madre di mangiarla, immaginate la disperazione della madre….. “Pallina, (cosi la chiamavano i suoi) fai la brava…., domani quando tutto è finito te ne compro una scatola grande, ma ora non mangiarla….”, non fu facile, quando si intestardiva su una cosa era difficile farla desistere…… Non ricordo cosa le dissi, ma non mangiò quella cioccolata e finalmente fece l’intervento.
L’Istituto mi fornì di una carrozzina elettrica, ciò mi rese più autonoma e migliorò la mia vita sociale, anzi la cambiò radicalmente…..finalmente non ero più costretta a chiedere “per favore mi porti in cortile, mi accompagni in camera, dovrei andare al refettorio, ecc……..” Una grande conquista, con il semplice movimento di una mano mi spostavo da sola con la carrozzina, avevo anch’io le gambe!!! Oggi è diventata una cosa naturale, ma a quei tempi non conoscevo neppure l’esistenza di certe tecnologie. Imparai in fretta a guidare la carrozzina e questo servì ad integrarmi maggiormente sia all’interno, sia soprattutto all’esterno dell’Istituto nel contesto sociale del paese. Entrare nei negozi, al cinema, andare al mercato o a mangiare una pizza in piena autonomia fu la mia prima integrazione nel mondo dei cosiddetti “normali”.
Mi è sempre piaciuto studiare e, quando mi proposero di iscrivermi all’istituto magistrale “Stella Maris”, accettai con entusiasmo. Nell’ambiente scolastico mi trovai subito bene sia con i docenti che con le compagne di scuola, essendo di qualche anno più grande di loro avevo un piccolo vantaggio ed ero sicuramente più motivata di loro ad andare bene a scuola. Quando mi chiedevano se potevano venire a studiare con me, ero felice e orgogliosa. Purtroppo la mia avventura scolastica terminò presto a causa della mia salute cagionevole; a torto o a
ragione mio padre non firmò più l’autorizzazione ad andare a scuola. Fu un boccone amaro da ingoiare…… masticai abbondantemente e……dopo un po’ ingoiai. Dopo aver abbandonato la scuola, la mia vita all’Istituto era abbastanza insignificante, mi ero creata un mio stato di vivibilità sia col personale che con gli alti ospiti, ma le giornate erano tutte uguali, mi alzavo al mattino, poi pranzo, cena e alla sera a letto; durante la giornata non facevo altro che girovagare con la mia carrozzina senza meta e senza un senso.
L’aver lasciato la scuola mi aveva svuotato di ogni energia, non avevo più voglia di fare nulla, dicevo a me stessa: “A che serve iniziare qualcosa se poi sei costretta a interromperla….?” Mi ero proprio demoralizzata. L’unica cosa positiva era la vicinanza dei miei zii, non ero più la ragazzina di cui nessuno si occupava. Essi venivano spesso a trovarmi e una o due volte la settimana telefonavano per avere mie notizie. Quando si è in Istituto, l’interessamento da parte della famiglia ha un certo peso sul trattamento della persona ospite, inoltre io ero ancora seguita dal tribunale dei minori di Modena, a causa dell’ingiunzione, di cui ho parlato precedentemente, fatta dai miei zii nei confronti dei miei genitori.
Un giorno mio padre decise di mandare mia sorella al mare da me, per dieci giorni, ospite presso una famiglia originaria di Modena, ma residente a Porto Potenza Picena: decisi allora di recuperare, almeno in parte, la famiglia e cercai di imbastire un rapporto con mia sorella, non potevo incolparla di cose che non sapeva e non poteva capire, all’epoca aveva solo 12 anni. Dopo un periodo di standby, avevo ripreso a darmi da fare, comprai una macchina da scrivere e imparai ad usarla, iniziai con lo scrivere a pagamento le tesi per i terapisti che facevano la scuola presso l’Istituto. Non spesi una lira di quei soldi, mi sarebbero serviti per far are una bella vacanza a mia sorella. I nostri genitori purtroppo mi remavano contro: ogni sera, al mio rientro, mi aspettava una telefonata corredata da mortificazioni e proibizione.
Finalmente la vacanza di Pina finì e, dopo un po’ di tempo, mi arrivò un pacco con i jeans che le avevo regalato; dentro vi era un biglietto con su scritto: “la
Pina queste cose non le mette”. Questo fatto mi ferì molto, non tanto per i soldi, ma per il disprezzo dimostratomi. Fortunatamente avevo sempre gli zii al mio fianco e, in occasione di una loro visita, espressi il desiderio di trascorrere le vacanze di Natale a Modena in casa della nonna paterna. Naturalmente questa cosa a mio padre non andò a genio, ma, dopo un duro scontro, vinsi la mia battaglia, scrivendo io stessa una dichiarazione firmata anche da due testimoni, dove sollevavo mio padre da ogni responsabilità durante il periodo in cui sarei rimasta a Modena a casa della nonna paterna.
Così a 18 anni iniziai la mia prima vera esperienza di vita in famiglia. Fu magico, tutto e tutti ruotavano intorno a me, si prodigavano a rendere la mia permanenza il più possibile serena e famigliare, quasi a voler cancellare le sofferenze del ato. Per me era tutto nuovo, fare il presepe, allestire l’albero, la cena della vigilia, lo scambio degli auguri e dei regali allo scadere della mezzanotte e il pranzo del giorno dopo con tutte le sue tradizioni…… Alla sera della vigilia ci si riuniva a casa della nonna con le zie Anna e Marina e con le loro famiglie, si metteva la tovaglia rossa che piaceva tanto al nonno e si mangiava rigorosamente a base di pesce, il menù era una zuppa di brodo con sedano e pane raffermo tagliato a dadini, spaghetti e tagliatelle con sugo di tonno a acciughe, le tagliatelle fatte in casa, senza uova, solo acqua e farina, da noi chiamate “tagliatelle matte”. Come secondo regnava sempre il baccalà. Al mattino dopo, come voleva la tradizione deI famiglia, lo zio Gaetano, suo figlio Luca e mia cugina Silva, venivano a fare colazione con la pasta avanzata la sera prima. Tutto questo era molto emozionante, ma l’apice dell’entusiasmo arrivò alla mezzanotte, allo scambio degli auguri e dei regali: in quel momento scoppiai a piangere! Non so il perché di quel pianto, oggi, a mente fredda e dopo molti anni, posso pensare che sia stata la grande emozione dell’esperienza che stavo vivendo. L’istituto dava dei permessi di uscita agli ospiti per trascorrere le festività natalizie e pasquali oltre al mese di vacanza estiva, in seno alla propria famiglia: andavo a Modena due volte l’anno, a Natale e in estate. Zii e cugini facevano a gara per invitarmi a casa loro durante le vacanze di Natale; per il capodanno e i fine settimana andavo a casa dello zio Gaetano. In estate invece andavo nella casa di Riccò, un paesino in montagna nel modenese. Era tutto sempre molto bello, la casa della nonna era sempre piena di gente, le amiche della via al pomeriggio venivano a fare la partita, l’andare e venire dei miei zii
per aiutare la nonna e le serate con i loro amici, senza poi contare i colleghi di lavoro dello zio Gaetano…. Tutti insieme contribuivano a farmi sentire a mio agio, mano a mano recuperavo il tempo perduto! Era bello ritrovarsi in questa numerosa famiglia che nonna Marietta sapeva ben tenere unita. Due erano gli appuntamenti importanti e fissi: il primo per l’Epifania, quando la nonna invitava i figli al ristorante come regalo di Natale, il secondo era il 27 luglio di ogni anno, per festeggiare il compleanno della Nonna Bella, la quale aveva superato i 95 anni. Amo molto i miei zii, che hanno saputo darmi, ognuno in maniera diversa, la famiglia che non avevo, che ho potuto conoscere nei suoi pregi e difetti. Amo molto i miei cugini, certo con loro i rapporti non erano tutti della stessa intensità. Tra me e Silva esiste un legame particolare….e forse ha ragione mia zia Anna, sua madre, quando afferma che deve essere successa una magia il giorno del funerale di mia madre, quando lei rimase a casa a badare me, proprio perché aspettava Silva. Tutte le volte che io andavo a Modena, con Silva ne combinavamo di tutti i colori… . Vivevo con lei quelle esperienze dettate dall’età giovanile, o, come la chiama mia zia Teresa, “l’età della cretinella”, ma dico un grazie particolare a Silva per avermi fatto vivere, almeno per un po’, la giovinezza e l’incoscienza che ogni persona ha diritto di vivere.
Anche il legame tra me e Luca era molto intenso; come ho già detto, spesso ero a casa sua e per me era come avere un fratello, anche se, essendo un ragazzo, certe affinità venivano a mancare. Insomma, io Silva e Luca per un lungo periodo abbiamo formato proprio un bel trio!
Il Centenario
Il 27 luglio 1978 Nonna Bella compiva 100 anni. Ci fu una grande festa, parenti e amici, vicini e lontani, erano tutti riuniti per il centenario. Ricordo che il pranzo era paragonabile a quello di un matrimonio, cucina tipica emiliana con una gran torta dove vi erano 100 candeline accese. Logicamente lei non era in grado di spegnerle tutte da sola…..e allora venne in suo aiuto un amico di famiglia che si chiamava Bruno, era un personaggio un pò particolare, ma di una bontà e sensibilità d’animo, che si trovano difficilmente nella vita. Terminato il pranzo, si rientrava, io ero in macchina con mio zio e nonostante fosse stata una bella festa, mi sentivo molto triste, non l’avevo vissuta molto bene, non per colpa di qualcuno in particolare, ma per un mio disagio personale. Mi sentivo fuori luogo di fronte a tutte quelle persone per la maggior parte sconosciute: i loro sguardi, il loro modo di rivolgersi a me mi facevano sentire compatita……come se provassero pietà….pietà per il mio stato fisico e per la situazione che vivevo. Se c’è una cosa che non ho mai digerito e che non digerisco tuttora è la pietà della gente! a vent’anni se qualcuno mi diceva poverina……ero capace anche di dare delle brutte risposte, oggi, se qualcuno mi dice “poverina”, cerco di valutare prima la persona che ho davanti. Quel giorno di epiteti “poverina” ne avevo sentiti molti, ma non avevo potuto dare nessuna risposta….. Un ulteriore disagio era causato dall’assenza di mio padre, chi non conosceva la situazione ( la maggior parte), chiedeva……, e le risposte non erano sempre facili da dare….. Lo stress di quella giornata si allentò dopo un pianto liberatorio che, purtroppo, fece star male i miei, ma fece star bene me.
La Comunità
All’incirca nel ‘78, l’istituto creò al suo interno due nuovi reparti, da noi chiamati “Case Comunitarie”. In quegli anni si parlava molto di integrazione e inserimento del disabile nel contesto sociale, per cui anche il S. Stefano seguiva la moda del momento. In realtà erano due reparti attaccati al padiglione chiamato “le scuole”, il “Palazzo Pitti”( e non chiedetemi perché venne chiamato così: non saprei proprio rispondervi). Per noi era una vera casa, visto che, oltre alle camere a due o tre letti e a due bagni, vi era anche una cucina, una sala da pranzo e un salotto, proprio come un appartamento completo. Credo che il criterio della scelta delle ragazze candidate ad entrare in casa comunitaria fosse basato sulla indipendenza fisica e mentale nel gestire la propria persona. Quando sr Cecilia, assistente sociale del mio reparto, con la quale avevo istaurato un ottimo rapporto, mi parlò del progetto delle case comunitarie, mi spiegò che chi sarebbe andato lì doveva avere almeno un minimo d’indipendenza fisica e che su di me c’era un grosso punto interrogativo. Mi disse che la casa sarebbe stata composta da 10 ragazze con lei come responsabile. Non potevo certo farmi scappare un’occasione del genere….. Allora chiamai sr Cecilia e le dissi: “Cecilia, tu non lo sai, ma io sono in grado di andare a letto da sola, l’ho imparato per necessità, se non volevo andare a letto alle 9 di sera sia in inverno che in estate; anche al mattino mi basta un aiuto per lavarmi, un aiuto settimanale per la doccia e poi sono autonoma! Non dirmi che sarò penalizzata per un bidè e una doccia…..?”. Fu così che riuscii ad entrare a far parte del gruppo. La vita nella casa comunitaria era totalmente diversa da quella di reparto, ognuna di noi aveva compiti ben precisi, tipo lavare, stirare, pulire e cucinare, il mio compito era quello amministrativo, la spesa, e tutte quelle mansioni di ufficio come andare in banca, in posta o in Municipio. Oltre ad imparare a gestire una casa, in comunità abbiamo imparato ad avere rispetto per noi stesse e per gli altri, ma soprattutto abbiamo imparato la solidarietà. Certo, spesso vi erano discussioni, contrasti, esigenze e desideri diversi, non era facile mettere d’accordo 11 teste……, dico 11 perché quando ci si scontrava con sr Cecilia, la faccenda era molto dura…….., specialmente se ti prendeva di mira…. Personalmente non posso fare altro che dire “grazie” a questa donna che ha fatto qualcosa per toglierci
dall’apatia in cui vivevamo. Lei era responsabile anche di una casa comunitaria maschile esterna all’istituto, per cui spesso si organizzavano le cose insieme come uscite o cene. Ci inserimmo anche in un contesto giovanile di un gruppo religioso, appartenente alla congregazione di “S. Vincenzo de Paoli”, il gruppo in questione era di Corridonia (MC), un paese non molto lontano. Avevamo poi anche altri amici, Agostino che da tempo frequentava l’istituto, Giorgio ed Emanuela di Loreto con cui ho ato molte bellissime giornate, ed altri ancora. C’era anche un’altra persona che veniva da Roma, diciamo per aiutare sr. Cecilia, ma che in realtà veniva perché le piaceva stare con noi: la mitica sr Rosalba una persona molto gioviale, con uno spiccato senso dell’umorismo e anche un po’ anticonformista.
Tutti insieme organizzammo anche un campo- scuola a Sarnano (MC), paese di sca, la mia compagna di camera e anche questa ricordo che fu una bellissima esperienza. Come tutti i campi- scuola, vi erano momenti di riflessione e momenti di divertimento, eravamo ospitati presso un asilo, nel paese fummo accolti benissimo, eravamo amici di sca e suo padre ci aveva fatto un ottima pubblicità. Avevamo anche formato un piccolo coro, dato che nella comunità maschile vi erano tre ragazzi che sapevano suonare e cantare molto bene, così ogni tanto si andava a fare qualche spettacolo in giro. Quei quattro anni di comunità mi avevano fatto crescere fino al punto di desiderare qualcosa di più. Ma tutte le cose belle, prima o poi, finiscono. Improvvisamente siamo stati catapultati indietro nel tempo….., la casa comunitaria chiusa e noi riportate nei rispettivi reparti. Ma io non ci stavo più ad essere ancora una volta un oggetto che si spostava a proprio piacimento, ero stanca di far decidere sempre agli altri il mio futuro e quindi…… ricominciai a lottare!
Con sr Cecilia cercammo qualche soluzione paragonabile alla casa comunitaria, girammo in lungo e in largo, accumulando solo tante promesse, poi non mantenute. Stavo anche vagliando la possibilità di trasferirmi a Modena, a casa dei nonni, ma dentro di me sentivo che non era la soluzione giusta, non perché non erano in grado di ospitarmi, ma perché sicuramente sarei diventata una di quelle persone disabili che, solo per il fatto di esserlo, sono convinte che tutto gli
sia dovuto.
Poi c’era l’incognita del “dopo”, se la natura seguiva il suo corso, la nonna se ne sarebbe andata prima di me, per cui….. Stare a casa dei nonni minava fortemente la mia indipendenza fisica, chi ti è vicino tende istintivamente a farti le cose piuttosto che spronarti a farle da solo; ti fa pena vedere una persona a te cara faticare tanto per esplicare le piccole cose giornaliere quali lavarsi, vestirsi, alzarsi o andare a letto….. e allora ti senti dire “dai ti aiuto io che facciamo prima…..”. In quel momento può sembrare vantaggioso per entrambi (pensate che solo per fare il aggio tra carrozzina e letto ci impiego 15 minuti quando va tutto liscio, mentre se lo fa qualcun altro per me ci impiega 5 minuti compreso spogliarmi e mettersi il pigiama), la differenza di tempo è notevole ma a lungo andare questo si rivela estremamente dannoso.
L’ho sperimentato io stessa ogniqualvolta andavo a Modena: al ritorno mi ci volevano almeno due giorni per riprendere il ritmo normale nel fare le mie cose. Oltre a questo, un aspetto molto importante per la mia salute era il clima: l’aria del mare e il sole sono la cura migliore per i miei problemi bronchiali ed ossei. Così dovevo cercare altre soluzioni nel posto in cui vivevo ormai da circa otto anni consecutivi, un record per me che volevo migliorare. In mezzo a tutte queste decisioni da prendere, pensieri che spesso mi tenevano sveglia la notte, mi innamorai…… Più grande di me di alcuni anni, umbro, impegnato…..un mix di situazioni non semplici da vivere e da gestire.
Era arrivato un’estate all’istituto per un ciclo di terapie, mi colpì il suo sorriso aperto e scanzonato. La nostra relazione durò poco più di un anno, fu molto intensa, ma nello stesso tempo sofferta: vivere la mia “prima volta” in una macchina, anche se davanti al mare, non è ciò che avevo sognato, ma era quello che ci potevamo permettere, complicata e faticosa, ma anche molto dolce.
Mi sentivo felice e soprattutto donna…
Ma accanto alla felicità regnava l’angoscia, incoscientemente non avevamo preso alcuna precauzione…. Non avete idea di come ho benedetto le mestruazioni che seguirono. Di comune accordo decidemmo di troncare la nostra relazione, non poteva durare, vedersi poco, sentirsi ancora meno e sempre con la paura; oggi sarebbe stato più facile, ma a quei tempi non c’era la tecnologia di adesso. Morì dopo qualche mese per un blocco renale. Intanto, io continuavo a pensare a come uscire da quella situazione di parcheggio forzato che l’istituto mi aveva imposto. Restare parcheggiata non era proprio nelle mie intenzioni e decisi di rischiare il tutto per tutto.
Una nuova avventura
Nella casa comunitaria con me c’era una ragazza, anche lei arrivata in estate per un ciclo di terapia e per fare un po’ di mare, le venne fatta la proposta di iscriversi al corso per terapisti della riabilitazione che ogni anno si svolgeva presso il S. Stefano. Di primo acchito mi risultò proprio antipatica, il suo modo di parlare mi dava fastidio. Gina, contrariamente a me, aveva vissuto la maggior parte della sua vita in famiglia, per cui quando arrivò presso di noi, sapeva assolvere a tutte le incombenze quotidiane (lavare, stirare, cucire, cucinare ecc…) La convivenza in casa comunitaria mi diede la possibilità di conoscerla meglio, fino al punto che si consolidò una bella e forte amicizia.
Gina, appena diplomata, incominciò a lavorare, anche se in modo precario come consulente, in un primo tempo all’interno dell’Istituto, successivamente a Roseto degli Abruzzi. Ricordo che i fine settimana tornava su a volte accadeva che, di contrabbando, dormisse nel mio letto: era stata dimessa dall’istituto perché lavorava e non aveva un posto a cui appoggiarsi. Nel piccolo reparto di chirurgia, non più attivo, Sr. Cecilia aveva ricavato, da uno stanzino con lavandino, una mini cucina con fornellino elettrico e frigorifero, dove potevamo arrangiarci in qualche modo. Gina ogni volta portava da mangiare per lei e anche per me.
Ma non potevamo andare avanti così, tutte e due volevamo una situazione più stabile, quindi prendemmo la decisione di provare a vivere per conto nostro. La prima cosa da fare era quella di trovare un appartamento, impresa non facile: non ve ne erano al piano terra e non potevamo comprare ai piani superiori poiché con la carrozzina non sarei entrata negli ascensori di allora. Un’altra cosa da non sottovalutare: avevamo pochissimi soldi… tenemmo duro. La nostra costanza fu premiata, un amico, anche lui disabile, ci comunicò che vendeva il suo appartamento per comprarne uno più grande. Andammo subito a vederlo, era piccolo ma aveva un grande pregio, era al piano terra, ingresso autonomo, portico con corte privata.
Avevamo fatto tombola !!!! Non potevamo lasciarcelo sfuggire, lo bloccammo con una scrittura privata, con due testimoni d’eccezione, sr Cecilia e sr Rosalba, dopo un mese andammo a rogito. Come ho detto i soldi erano veramente pochi e quella che ne aveva meno ero io, ma questa inferiorità non mi fece desistere; dovevo assolutamente trovare i soldi che mi mancavano per mettere la mia parte di quota (il mio 50%). A chi chiedere se non alla famiglia ritrovata??? Quando lo dissi agli zii e alla nonna fu come un fulmine a ciel sereno….., credo che si aspettassero di tutto, magari che con Sr. Cecilia avessimo trovato una sistemazione o un’altra casa comunitaria, dove sarei stata protetta e avrei sempre avuto qualcuno che si prendesse cura di me. Invece disattesi tutte le loro aspettative: non solo compravo un appartamento con un’altra ragazza quasi mia pari, ma uscivo da quella protezione rappresentata dagli istituti che per venticinque anni li aveva fatti stare tranquilli. Le paure erano tante, alcune forse anche giustificate, ma, vista la mia tenacia, accettarono la mia decisione e mi diedero i sette milioni che mi mancavano, con la promessa che li avrei restituiti non appena avessi riscosso gli arretrati del sussidio statale chiamato “assegno di accompagnamento”, soldi che sarebbero arrivati dopo poco più di un anno e che, con il sollievo di tutti, restituii alla nonna che mi aveva fatto il prestito. Essa, come regalo di Natale, me ne abbonò uno. Quando in Istituto si venne a sapere della mia nuova situazione si scatenò una serie di considerazioni (se avessi giocato a scommettere avrei sicuramente stravinto) La domanda ricorrente era: “ma come farai….??”. Ora però non potevo più tornare indietro, lasciavo un posto sicuro, da dove nessuno mi avrebbe mandato via e dove il problema più grande, per molti anni, sarebbe stato quello di non sapere come trascorrere la giornata. Un salto nell’ignoto, ma dovevo dare un senso alla mia vita.
Comprato l’appartamento, sorgeva il problema di cercare le persone giuste per sistemarlo, gli impianti erano già tutti fatti ma si sa che ogni persona ha le proprie esigenze; la prima cosa in assoluto da fare era quella di imbiancare, a questo punto ne parlai con il mio amico Angelo, a quei tempi ausiliario presso l’istituto, un ragazzo timidissimo (bastava guardarlo che diventava rosso come un peperone !) ma dal cuore più grande di una montagna. Gli chiesi se conoscesse un imbianchino che non costasse troppo, viste le poche finanze e le
molteplici cose da fare e comprare. Lui rispose: “Perché vai a spendere dei soldi ? Se non avete eccessivamente fretta e vi accontentate del lavoro, ci penso io nelle ore libere con altri miei amici”; logicamente accettai con piacere. Oltre ad aver fatto uno splendido lavoro, non volle neppure essere rimborsato del materiale che aveva comprato, disse semplicemente: “Omaggio ad un’amica coraggiosa”; con Angelo e la sua famiglia siamo tutt’ora ottimi amici anche se ci si vede di rado, lavora come tecnico radiologo presso l’ospedale di Loreto e ogni volta che ho bisogno di fare dei controlli, i tempi del SSN con lui si accorciano moltissimo.
Dovevamo comprare tutto, dalla A alla Z, elettrodomestici, biancheria, tovaglie, piatti bicchieri e posate, pentole, ecc…., un buon aiuto ce lo diedero sia i miei zii sia i genitori di Gina, certo non era tutta roba nuovissima, ma a noi andava più che bene, era importante che funzionasse, noi comunque comprammo i mobili, pagandoli a rate e finalmente la casa era pronta. Era il 1° ottobre del 1983, quando uscii definitivamente dall’istituto. Quella notte non dormii per la grande emozione, cercavo di capire tutti i nuovi rumori che venivano dall’esterno e anche dall’interno, rumori diversi da quelli che sentivo in istituto, niente urla o camli che suonavano, il personale che entrava improvvisamente nella tua camera, niente di tutto questo, finalmente eravamo a casa nostra, quelle mura, quei mobili, e qualunque cosa ci fosse al suo interno era nostro, ma soprattutto da quella casa nessuno mi avrebbe mai mandata via.
I miei quattro anni di convivenza con Gina, furono di dura crescita, mentre lei, come ho detto prima, sapeva fare tutto, io invece ero proprio nulla in tutto ciò che riguardava la gestione della casa, pensate che non distinguevo una zucchina da una melanzana….., vi farà ridere ma chi le aveva mai viste….? Ma da qualche parte dovevo cominciare se volevo diventare totalmente indipendente…… Gina era fuori tutto il giorno per lavoro ed io volevo almeno essere in grado di gestire la mia persona, in special modo per i bisogni fisiologici. Essendo lei terapista, lavoro che faceva con ione, dopo un po’ di tempo mi rese quasi totalmente autosufficiente. Non fu facile, né per me né per lei, però se quando sono uscita dal S. Stefano la mia autonomia era pari al 35%, con il suo
aiuto arrivò al 95% e ciò mi ha permesso, negli anni che seguirono, di restare nella mia casa.
Per prima cosa mi insegnò ad usare la carrozzina manuale, per i profani quella senza motore, con la quale per spostarmi da una stanza all’altra dovevo spingermi con la forza delle braccia; poi, se non volevo sporcarmi, usando mezzi di fortuna quali possono essere un scrivania, una sedia, ecc…sono riuscita a mettere al sicuro i miei bisogni fisiologici. Certo che se penate ai primi tempi di gestione che erano molto lunghi, (solo per fare pipì, ci impiegavo circa trequarti d’ora) in seguito sono riuscita a dimezzare i tempi necessari per tali manovre. Così facendo ho conquistato un altro importante traguardo per la mia autonomia. E, come dice il proverbio….. “il fine giustifica i mezzi” e il mio fine era quello di arrivare a tutti i costi, e quando mi metto in testa qualcosa…..Aiuto…..!!!
Tra alti e bassi la nostra vita in comune andava avanti discretamente, ma qualcosa era in agguato…... Una sera mi ruppi un braccio e provate a indovinare? Non si fratturò il braccio sinistro, quello che assomiglia a un’ala di pollo, bensì quello destro, la mia colonna portante: tre mesi di gesso.
Gina telefonò subito al nostro medico di base, il Dr. Marino, medico che avevo scelto appena uscita dall’istituto e del quale ebbi modo di apprezzare la professionalità e umanità (una mosca bianca fra i tanti medici che lavoravano in istituto). Innanzitutto trattava il paziente con rispetto, si rivolgeva dandogli del lei e gli spiegava quanto gli stava accadendo. Questo suo modo di fare al quale non ero abituata mi indusse a sceglierlo come medico di base. Il Dr. Marino venne subito in nostro soccorso, mi immobilizzò il braccio con l’unica cosa disponibile, la scatola di cartone degli stivali di Gina, nel frattempo arrivò l’ambulanza che mi portò all’ospedale; al pronto soccorso dopo avermi fatto delle radiografie mi misero in asse il braccio senza neppure sedarmi e mi ingessarono. Il dolore sofferto in quel momento è indescrivibile, Gina ha pensato che sarei svenuta….ma la cosa andava fatta, la frattura dell’osso era a stuzzicadenti e un frammento osseo rischiava di bucare una vena. Verso mezzanotte mi rimandarono a casa senza farmi l’antitetanica; allora chiamammo
Angelo affinché mi scaricasse dalla macchina e mi sistemasse sul divano-letto, poiché Gina non era in grado data l’ingessatura. Ricordo che quella notte mi addormentai verso le quattro del mattino dopo aver bevuto un bicchiere di latte con della grappa dentro. Per i primi giorni avevo bisogno di assistenza continua, così venne Anna, una nostra amica; con Angelo invece concordai per tutta la durata del gesso il momento della doccia e dell’andare in bagno in base ai suoi orari di lavoro. Quando poi mi alzai, non so come ma riuscii a guidare la carrozzina elettrica, così potevo uscire ed anche andare in bagno, recandomi in Istituto dove trovavo sempre qualcuno disposto ad aiutarmi. La mia paura più grande era quella che il braccio non avrebbe ripreso la stessa funzionalità e ciò sarebbe stato veramente un grosso problema, ma sono stata fortunata: nel guidare la carrozzina elettrica i muscoli non si erano atrofizzati, tutto tornò come prima e le nostre vite ripresero il loro corso.
Poi Gina s’innamorò di Gianni e decisero di sposarsi. Scoppiò proprio un vero caso internazionale, parole, giudizi, commenti e pronostici furono dispensati gratuitamente; tutti sapevano cosa dire, cosa fare, si erano accaparrati il diritto di esprimersi sulla nostra situazione pur non sapendo come stavano le cose, né quali fossero i nostri sentimenti e le nostre ansie.
Mentre fuori infuriava la tempesta, noi dentro le mura di casa nostra cercavamo di prendere una decisione molto importante. Gina, erroneamente, si sentiva in colpa nei miei confronti, io invece mi sentivo pronta ad accettare questa nuova sfida; ne parlammo tutti e tre per giorni e giorni, avevamo messo sul piatto qualsiasi possibilità anche quella di una possibile convivenza a tre, ma non sarebbe stato giusto né per loro né per me. Non considerai neppure l’idea di rientrare in Istituto! Dovevo almeno provare, per la prima volta mi sentivo padrona della mia vita e questa era una sensazione bellissima.
Associazione “Comitato la Rinascita”
Mentre ero ancora ospite dell’Istituto e poi in seguito negli anni, facevo parte di un’associazione, si chiamava: “ Associazione “Comitato la Rinascita” ”. Il suo scopo era quello di tutelare e promuovere le potenzialità dei disabili soci e non ed era iscritta nel registro del volontariato sia a livello Comunale che a livello Regionale. Il suo statuto contemplava svariate cose, organizzare manifestazioni o proporre incontri, vegliare sull’abbattimento delle barriere architettoniche e quant’altro, ma il lavoro principale era quello di organizzare gite turistiche per persone disabili. Il presidente era Enrico ed è stato lavorando con lui che ho imparato a conoscerlo e ad apprezzarlo. Siamo due caratteri completamente opposti: lui più cauto, riflessivo, sempre pieno di dubbi, diplomatico ma molto scaltro, molto pigro e ipocondriaco; io, più intraprendente (zero in diplomazia), più avventurosa….. Nel lavoro ci compensavamo, quando partivo in quarta…lui mi frenava e, viceversa, quando c’era da reagire io lo spronavo….. Poi l’associazione venne chiusa, non aveva più senso, eravamo rimasti solo io ed Enrico a volerla veramente, tant’è vero che alla riunione annuale dei soci, demmo le dimissioni dalle nostre cariche io da segretaria e tesoriere, lui da presidente, invitando altri a prendere il nostro posto, ma nessuno lo fece.
Dopo che fu chiusa l’associazione continuammo ad essere grandi amici, al punto che molta gente pensa che sia mio marito o il mio ragazzo. Una volta una persona ha anche avuto l’impudenza di chiedermi: “Ma come fate a…….messi così tutti e due….????” Al che io risposi: “Lo facciamo da dio!!!!!”, purtroppo l’ignoranza in certe persone è regina; per mia fortuna non è toccata a me la disgrazia di essere sua moglie, ma a quella santa donna di Carmela, una ragazza dolce e dal grande cuore e di un’infinita pazienza!
Enrico ha uno spiccato senso dell’umorismo, sia nel male che nel bene; simpaticamente, per il mio stato fisico e per ciò che riesco a realizzare, mi
chiama “marziana”; è una persona molto intelligente e aperta a ogni tipo di discussione in quanto, essendo videodipendente, è sempre informato su qualsiasi cosa: è un amico discreto e non invadente ed ottimo ascoltatore. Come ho già detto, il “Comitato la Rinascita”, organizzava gite turistiche, così abbiamo visitato le più belle regioni italiane, Puglia, Sardegna, Sicilia, Valle d’Aosta, Trentino ecc…, ma anche le più belle nazioni europee come Francia, Austria, Spagna, Grecia ecc….per poi arrivare fino in Tunisia e Israele. Quando l’incarico di organizzare le gite ò a me, mi creai il mio team personale, costituito da ex dipendenti dell’istituto, come Marcello, Ennio, Gilberto e Marina l’infermiera del gruppo, persone che venivano come volontari a fare gli accompagnatori, ma non dimentichiamo Luigino, l’autista del pullman che ci accompagnava ad ogni viaggio, ma di lui e della sua famiglia vi parlerò più avanti
Non crediate che organizzare viaggi per persone con disabilità diverse tra loro, con le loro carrozzine ortopediche, sia facile; cercare gli accompagnatori, il medico e l’infermiera, reperire il materiale di o, avere la certezza dell’accessibilità dell’albergo e dei percorsi durante le escursioni, ecc… era un lavoro impegnativo, ma anche avventuroso e, modestia a parte, mi riusciva anche bene. La mia prima esperienza di organizzazione di una gita fu nel Trentino; ne successero di tutti i colori, dall’andare a cercare una carrozzina in affitto poiché un partecipante non se l’era portata, fino al punto di dover chiamare i meccanici della SAP, la società di cui ci servivamo, per un guasto al nostro mezzo, non vi dico lo stress….ma tutto si risolse nel migliore dei modi. In seguito organizzai altre gite, tutte con qualche aspetto avventuroso, come quella in Tunisia quando partimmo con 22 carrozzine e i rispettivi accompagnatori: il comandante ci comunicò che avrebbe imbarcato solo 7 disabili con carrozzina e i successivi avrebbero dovuto imbarcarsi il giorno dopo. Questo perché l’ autorizzazione che noi avevamo dalla Tunisair di Roma era scritta in italiano e lui invece la voleva scritta anche in tunisino. Bloccammo il volo e partimmo con 2 ore e mezzo di ritardo, un inizio veramente drammatico. Ma poi fu la più bella gita e quella che rimase più nel cuore di tutti. Vivere l’esperienza del Comitato la Rinascita per me fu molto positivo, sono sempre stata una persona che ama viaggiare e con l’associazione ho imparato molto come muovermi in questa realtà.
Marcello
Ho conosciuto Marcello quando ero ancora al S. Stefano, era un ausiliario, lavorava in un reparto maschile dove io avevo alcuni amici che andavo spesso a trovare, una persona dal fisico imponente che emanava sicurezza da tutti i pori, dal carattere gioviale e con una bontà d’animo quale si riscontra in poche persone. Non ricordo com’è nata la nostra amicizia, ma con il are del tempo il rapporto si trasformò in un qualcosa di molto simile a quello tra padre e figlia.
Mi sono completamente appoggiata a lui, non esistevano ore del giorno o della notte in cui io non potessi chiamarlo, né feste né tempo brutto o bello; qualsiasi cosa dovessi fare lui inforcava la sua bicicletta e si presentava all’appello. Quando, per motivi fisici, non sono stata più in grado di alzarmi da sola, non ho avuto bisogno di chiedere, mi ha aiutato nella nuova situazione; quando dovevo partire per viaggi di piacere o di dolore e di qualsiasi distanza, lui era sempre pronto. E’ sempre stato una persona incline ad aiutare chi ne avesse bisogno, ma io venivo sempre al primo posto, se qualcuno chiedeva il suo aiuto o se doveva prendere degli impegni anche famigliari, prima di tutto sistemava me, o li prendeva in orari che non interferissero con le mie esigenze. Dunque una presenza fissa e instancabile a cui potevo chiedere di tutto… Ogni volta che dovevo andare a Modena mi diceva sempre, “non far venire giù i tuoi a prenderti, ti porto io e quando devi rientrare, ti vengo a prendere, ci sono io o non ti servo più?” Così quando alle volte volevo risparmiargli un viaggio o qualcuno dei miei si offriva, mi dovevo inventare qualche buona scusa altrimenti ci stava male. Per questo motivo, alle volte, avevo anche delle discussioni con i miei, che non riuscivano a capire, pensavano che io approfittassi della bontà di Marcello, senza sapere che lui intendeva essere presente sempre. Quando andai per la prima volta a Modena con il mio amico Irmo, la prese proprio male, semplicemente perché stava prendendo il suo posto, piano, piano si abituò alla presenza di Irmo, fino al punto che, quando dovetti partire per Modena per la morte di mio padre, mi chiese se potevo chiedere a Irmo di accompagnarmi; mi disse che non se la sentiva di affrontare il viaggio per il troppo caldo. Da quella volta ho sempre evitato di fargli fare viaggi lunghi, aveva già 75 anni.
Sono ormai 25 anni che Marcello è presente nella mia vita, ora è alla soglia degli ottant’anni e le forze non sono più le stesse, così comincia a tirare i remi in barca, ma senza eclissarsi completamente. Ancora oggi tutte le mattine e le sere, si presenta all’appello e la sera, quando ci salutiamo, mi dice: “Ciao, ci vediamo domattina, se hai bisogno chiama”. E’ stata la mia fortuna averlo incontrato e conosciuto, nessuno della mia famiglia è riuscito a darmi ciò che mi ha dato lui, men che meno mio padre in tutta la sua esistenza.
Credo però di aver dato anch’io qualcosa a lui e non parlo in termini economici, ma in termini di affetto; come lui con me, l’ho sempre messo in primo piano facendolo sentire importante e utile. Anche Maria, sua moglie, ha avuto un ruolo importante: ha sempre acconsentito che il marito venisse tutti i giorni a casa mia, che alle volte partisse per molti giorni o che lo impegnassi tutta la giornata…. Sicuramente senza di lui non avrei potuto fare tutto quello che ho fatto. Perciò, un grazie a Maria che lo ha sempre lasciato libero di aiutarmi e un riconoscimento e un grazie speciale a Marcello che mi ha regalato 25 anni del suo tempo!
Luigino e Rita
Nel 1985 io e Gina decidemmo di partecipare a una gita della “Rinascita”, avevamo bisogno di staccare un po’ la spina, dopo due anni abbastanza pesanti: partimmo alla volta della Valle D’Aosta. Ci colpì subito l’autista, l’organizzatore: quando prenotava il pullman, faceva specifica richiesta alla ditta affinché fosse lui ad accompagnarci.
Luigino era una persona che andava oltre al lavoro che gli competeva, che non si estraniava dal gruppo magari mangiando da solo e che la maggior parte dei partecipanti conosceva; era affabile con tutti, fossero stati disabili fisici o mentali, o accompagnatori, non si tirava mai indietro nell’aiutare o nel dare loro il saluto. Colpite da questa sua spontanea disponibilità nei confronti del gruppo, io e Gina, altrettanto spontaneamente, facemmo amicizia con lui. Ricordo che dovevo scendere dal pullman, mi si presentò davanti e semplicemente disse: “Ti fidi se ti faccio scendere io???”. Logicamente non feci nessuna obbiezione, anzi ne ero felicemente sorpresa e da quella volta divenne un fatto naturale; infatti gli altri volontari avano e dicevano. “Tu scendi con l’autista vero???”. E fu così per tutta la durata di quella gita e nelle altre che seguirono. Da questo incontro tra noi nacque una bella amicizia, ci presentò la sua famiglia, la moglie Rita e le due figlie Alessandra di nove anni e Maria di un anno e mezzo, ci si scambiava gli inviti, loro frequentavano casa nostra e viceversa. Quando Gina si sposò e si trasferì, devo ammettere di aver pensato che, data l’assenza di Gina, le loro visite e i nostri incontri si sarebbero diradati, non essendo io in grado di invitarli a pranzo o a cena, soprattutto credevo di essere una figura marginale a confronto con Gina; ma sbagliavo, sbagliavo di grosso. Con l’andare del tempo il nostro rapporto si è intensificato, un po’ perché Rita veniva a farmi la doccia 2 volte la settimana, avendo anche trovato in me un’amica a cui confidare le sue ansie di moglie, madre e figlia. Entrambi hanno educato le figlie a vedere me come persona e non ……la carrozzina che mi porta a so.
Il nostro è un rapporto oserei dire paritario, non il solito tra disabile e persona “sana”, non c’è atteggiamento di pietà nei loro gesti, nelle loro azioni, c’è solo una reciproca amicizia fatta di ascolto, sostegno, fiducia e discrezione, non si sono sentiti a disagio di fronte al mio handicap, sono andati al di là di esso ma senza mai dimenticare che esiste ed è una realtà; conoscono i miei limiti e quando siamo fuori insieme o sono a casa loro (pranzo o cena che sia) non ho bisogno di chiedere: “mi tagli la carne, mi versi il vino, ecc…”, mi aiutano con naturalezza, quasi fosse una cosa automatica. Non è però un o a senso unico: casa mia è un punto di riferimento, un punto d’appoggio, magari per un “pipì-stop” improvviso, per cambiarsi prima di andare in palestra o per qualsiasi cosa, certo sempre all’insegna del rispetto, della fiducia e della privacy. E’ un vero scambio nel dare e nel ricevere.
L’11 giugno del 1987 Gina e Gianni si sposarono e andarono a vivere per conto loro. Quattro occhi sono meglio di due, perciò ricordo che i primi tempi, prima di andare a dormire, controllavo che tutto fosse spento e chiuso; di giorno, loro e anche altri amici avano per assicurarsi che tutto andasse bene. Iniziai la mia nuova vita da single, avevo sistemato le cose con Gina e mi ero anche tutelata nei confronti di mio padre; finalmente potevo dire “Questa è casa mia!”. Sì perché, da quel momento, tutto era esclusivamente mio e qualsiasi cosa fosse successa in seguito, non avrebbe mutato le cose. Il mio orgoglio era quello di poter dimostrare che ero in grado di star fuori dall’Istituto e da sola, senza nessuno che vivesse con me per occuparsi di me.
Certo, di qualcosa avevo bisogno, come le pulizie settimanali, la doccia e lavanderia, ma per queste cose avevo fatto domanda al comune affinché mi mandasse una donna da me pagata, per il resto ero completamente autonoma. Poi c’era M. Grazia, la ragazzina bionda tutta lentiggini, che nel frattempo era cresciuta, con la quale avevo sempre un ottimo rapporto, sia mentre ero ricoverata, sia dopo che uscii dall’Istituto. Lei dopo essersi diplomata, iniziò a lavorare come cassiera alla Standa; naturalmente l’Istituto non le permetteva più di vivere al suo interno e così mi chiese se poteva venire ad abitare a casa mia per un breve periodo.
Nel giugno del ‘93 venne a mancare mia nonna, fui presente al funerale ma non riuscii a piangere…., per me la nonna era morta il giorno in cui la vidi a casa degli zii Gaetano e Teresa: rientrando dalla mia vacanza in Olanda, mi fermai a pranzo da loro, purtroppo la nonna era stata colpita da demenza senile, mi resi conto che non avrei più avuto accanto la nonna Marietta e in silenzio ne soffrii. La convivenza con Grazia, per un lungo periodo andò molto bene, lei si occupava dell’andamento della casa, io della parte amministrativa, ci eravamo divisi i compiti e anche le spese vive di gestione, per me era la sorellina più piccola da aiutare. Abbiamo condiviso momenti gioiosi e tristi, e ci siamo sostenute nei momenti di bisogno. Ricordo ancora quando, a causa di un piccolo intervento, il medico mi consigliò di restare almeno una notte in ospedale, giusto per tranquillità, Grazia prese le sue cose, venne in ospedale e ò la notte insieme a me. Sapeva che fuori casa non ero in grado neppure di prendere un bicchiere d’acqua da sola. Ricordo anche di una volta che si sentì male nel bagno ed io mi alzai per cercare aiuto e chiamai l’ambulanza, come ricordo il suo rientro da Milano: festeggiammo la riuscita dell’intervento che le ha poi cambiato la vita. Ma quello che avrebbe dovuto essere un breve periodo, si prolungò più del previsto, un po’ per dei problemi seri che Grazia aveva avuto, un po’ perché si era adagiata in questa situazione ed io non trovavo il coraggio di farle capire il disagio che cominciavo a provare in casa mia.
Avevamo stili e modi diversi di vivere, esigenze diverse, forse avrei dovuto impormi, in fondo era casa mia……. Ma lentamente e inesorabilmente avevo fatto in modo che tutto ruotasse intorno alle sue esigenze, eclissando completamente le mie. Con il are del tempo la situazione mi faceva stare sempre più male, fino al punto in cui una sera diedi in escandescenza: “Mi sono rotta i …….. di questa situazione……, non mi sento più padrona di niente e ogni cosa che dico o faccio non va mai bene…!”; me ne andai in camera piangendo. Il carattere di Grazia era cambiato, aveva assunto un atteggiamento di superiorità al quale non era facile opporsi e non solo con me. Tuttavia io ci vivevo insieme e di conseguenza percepivo più strettamente il disagio. Nei giorni che seguirono i nostri rapporti si erano un po’ raffreddati, io mi sentivo in colpa, non era nel mio stile…… ma pian piano tutto tornò nella normalità. Non ò poi molto tempo che lei e Gaetano sono andati a convivere nell’appartamento che avevano comprato; forse la mia ribellione aveva dato a Grazia l’input per reagire, fui felice per loro e sollevata per me.
Di quell’ episodio non ne abbiamo mai più parlato, ma ha lasciato un’ombra dentro di noi. Io ripresi in mano la mia vita, ma il mio affetto per Grazia non è mai mutato. Oggi lei non c’è più, un tumore se l’è portata via dopo atroci sofferenze. Non meritava tutto questo. Dopo una vita di tribolazioni e sofferenze sia fisiche che morali, era riuscita a costruire qualcosa, ma all’età di 41 anni morì in un letto di ospedale, dopo aver lottato fino all’estremo contro quella bestia: voleva vivere e lo urlava con tutte le sue forze. Spesso mi sento dire che Dio ha un disegno per ognuno di noi, credo che quello di Grazia gli sia venuto molto male. Mi sentivo un po’ in colpa nei suoi confronti per due motivi: per non averle mai chiesto scusa del mio sfogo e per non averla saputa o potuta proteggere come avevo promesso a sua madre.
Nella vita me ne sono capitate di tutti i colori, ma ancora non mi era mai successo di dover chiedere ai medici di avere la facoltà di scegliere il modo in cui sarei dovuta morire.
Da un po’ di tempo soffrivo di problemi mestruali, il mio ginecologo, una persona squisita e sensibilissima, mi disse che dovevo subire un intervento di isterectomia (asportazione dell’utero) causa di un grosso fibroma ormai non più curabile; mi consigliò inoltre di rivolgermi ad una struttura dotata di sala di rianimazione vista la mia precaria capacità respiratoria. Dopo aver girovagato un po’, optai per ciò che credevo il meglio, il top, ovvero il Salesi di Ancona.
Il mio medico di base, che non era più il Dr. Marino, mi suggerì giustamente di andare a fare prima una visita dal primario della struttura, visto la particolarità del caso. Logicamente mi accompagnò Marcello, come per tutte le altre visite. Faccio molta fatica a descrivere questo episodio per la grandissima umiliazione che ho subito. Spiegai al professore il mio problema, dicendogli anche che ero consapevole dei rischi a cui andavo incontro; lui in qualche maniera cercò di dissuadermi, ma visti gli esami mi visitò. Marcello mi posizionò (non essendoci
un’infermiera doveva per forza farlo lui) e mentre ero in quella posizione……, sento il primario dire rivolgendosi a Marcello: “E qui dove metto le mani…?” Marcello di rispose: “Se non lo sa lei…., basta che lei non voglia che la visiti io….!?”. Rimasi senza parole, forse stavo sognando…., la voglia era quella di tirargli un bel calcio là dove non prende mai il sole…., ma non potevo farlo, fisicamente ero impossibilitata e poi c’era la mia vita in ballo, così ingoiai rabbia, umiliazione e delusione.
Dopo la visita mi disse che prima di operarmi voleva il parere degli anestesisti, se questo fosse stato favorevole mi avrebbe operata.
Arrabbiata, umiliata e delusa, pagata la mia bella visita, tornai a casa (per la cronaca 300 mila lire senza fattura). Presi appuntamento e andai a fare la visita anestesiologica; anche qui mi trattarono in modo indegno, mi parlavano come se fossi una disabile mentale, con frasi del tipo: “Ma lo sai che potresti non svegliarti? Capisci cosa vuol dire?” Poi, forse rendendosi conto che non ero proprio scema come pensavano, arrivarono alla conclusione dicendo: “Noi non ci sentiamo di prenderci questa responsabilità, le consigliamo di arrivare al punto di essere ricoverata in regime di urgenza così se succede qualcosa nessuno ha delle responsabilità.”. lo scrissero anche sulla cartella di dimissione dal day-hospital.
A quel punto non sapevo più cosa fare; prima ero stata umiliata, ora era stata offesa la mia intelligenza ed è questo che mi ha fatto ancora più male, mi sentivo annientata, vuota dentro, mi volevo arrendere. Per fortuna non sono una persona che desiste facilmente, avevo parlato di questo con Venanzo e Letizia, anche loro medici e miei grandi amici.
La famiglia Marini
Ho conosciuto Venanzo e Letizia quando ancora abitavo insieme a Gina anzi, per essere più precisi, la prima a conoscerli fu proprio Gina. La cosa che mi colpì di queste due persone fu la grande conoscenza che avevano del mondo. Girando in lungo e in largo, tra America, Africa, Europa ecc…incontrarono moltissime persone di ogni razza e ceto sociale, per cui avevano notevole esperienza di vita. Cominciai a frequentare tutta la famiglia, in particolare Venanzo. Andavo abbastanza spesso al poliambulatorio dove lavorava, mi piaceva molto parlare con lui, aveva una mente aperta a ogni tipo di discussione, ma con un suo modo particolare di vedere le cose; alle volte i nostri pensieri erano opposti, ma questo non ci toglieva il gusto di parlare e di essere amici, lui vegetariano D.O.C., io carnivora D.O.C. e quando ci si trovava a pranzo insieme lo provocavo sempre chiedendogli di tagliarmi la carne.
Avevamo preso l’abitudine di andare una volta all’anno a fare un giro nelle nostre montagne (lui amava molto la montagna), in qualche posto caratteristico, fermandoci poi a pranzo; spesso si univano a noi i fratelli di Letizia che arrivavano da Siena. Purtroppo negli ultimi tre o quattro anni le mie visite si sono diradate, un po’ per colpa del mio lavoro al computer che è aumentato di giorno in giorno e un po’ per l’invecchiamento di Marcello. L’ultima volta che vidi Venanzo fu nel giugno del 2006, era stato da poco operato per un tumore, morì un anno dopo; non andai più a casa sua, non volevo rivivere la sofferenza che avevo vissuto con Grazia.
Penso spesso a lui, anche se ultimamente non sono stata molto presente, ma sono certa che Venanzo mi abbia capita e, se è vero che esiste il paradiso, mi guarda e sorridendo mi dice: “fai la brava se ti riesce….!”
Parlando con Venanzo e Letizia, mi dissero che, se volevo, avrebbero parlato con
Boninzella, sorella di Letizia, anestesista presso l’ospedale di Siena, per avere un altro parere. Conoscevo già la sorella di Letizia e come persona mi piaceva molto, simpatica e schietta nei modi e affabile con le persone. Inviai tutti gli esami che mi aveva richiesto, ricordo che mi telefonò dicendomi che non erano per nulla incoraggianti, ma per valutare bene la situazione mi propose di andare a Siena per un ulteriore consulto con un suo collega: fu la prima persona che non mi chiuse la porta in faccia. Partimmo alla volta di Siena io, Marcello e Venanzo, ci venne incontro la Boninzella la quale disse che il suo collega avrebbe parlato con me. Parlai con l’anestesista per circa due ore e alla fine mi disse: “l’intervento di per se non è nulla di complicato, ma i suoi problemi respiratori sono molto seri, le possibilità sono al minimo consentito, ma c’è sempre una speranza! Ci ha colpito una cosa che gioca a tuo favore: hai parlato con me per due ore senza mai andare in apnea e questo è un buon segno, poi in queste cose aggiunse la Boninzella - conta molto la bravura dei medici, ma conta soprattutto la volontà del paziente e mi sembra che tu ne abbia da vendere !”, il medico era rimasto colpito dal mio modo di fare, quando nello spiegare tutte le mie disavventure gli dissi: “Se devo morire, almeno lasciatemi la facoltà di decidere in quale modo”.
Ora sorgeva il problema del chirurgo, andammo da un primario chirurgo di cui la Boninzella si fidava, aspettammo che uscisse dalla sala operatoria e mi visitò; al termine della visita disse: “Sì, si può operare, ma c’è un piccolo problema…” ho subito pensato
e il primario continuò: “Non possiamo garantirle un taglio dritto per cui la cicatrice sarà storta. ” a queste parole a momenti scoppiai a piangere dalla gioia e risposi: “Ma mi ha guardata bene? Secondo lei io sono dritta ???” Scoppiammo tutti a ridere.
Programmai l’intervento per settembre, per due erano i motivi, il caldo estivo e la mia preparazione fisica, psicologica e organizzativa. Dopo aver ringraziato e salutato andammo a mangiare a Piazza del Campo dove tutti gli anni si disputa il “Palio di Siena”. Toccavo il cielo con un dito dalla gioia anche se le possibilità di farcela erano esigue. Almeno qualcuno mi aveva dato un barlume di speranza. Ora non restava che parlarne con gli zii. Voi vi chiederete perché non lo avevo
ancora fatto. Non ho voluto allarmarli in anticipo, pensando che comunque nessuno di loro avrebbe potuto concretamente aiutarmi.
In ogni caso prima o poi dovevo diglielo visti anche i rischi a cui andavo incontro.
Purtroppo l’occasione si presentò ad un tristissimo evento, la morte di mio zio Luciano, marito di mia zia Marina, il quale era stato operato di un tumore alla gola. Devo dire che ho vissuto marginalmente il susseguirsi della sua malattia, la lontananza e le varie situazioni che stavo affrontando, mi tenevano un po’ distaccata materialmente ma ci pensavo spesso. Mi rammarico di non essere stata molto presente dopo l’intervento, avrei voluto parlare di più con lui ma la sua difficoltà nell’emissione della voce gli creava disagio, anche se con me lo faceva volentieri perché diceva che rispettavo i suoi tempi e che riuscivo a capirlo. Andai a Modena per il funerale e presi la palla al balzo per dir loro ciò a cui sarei andata incontro di lì a qualche mese.
La prima reazione fu un minestrone di sentimenti che si mescolavano tra loro, la paura per come sarebbero andate le cose, visto l’alto rischio dell’intervento, lo stupore nel constatare che avevo già organizzato tutto (fin nei minimi particolari) e il dispiacere di non essere stati coinvolti prima. Subito ci fu uno scambio di considerazioni abbastanza vivace, poi finalmente spiegai le mie ragioni ed elencai tutti i loro problemi, facendo capire che, se avessi raccontato loro cosa che stava accadendo, gli avrei fatti stare in ansia ed io non potevo farmi incarico delle loro preoccupazioni.
Per tutta quella estate mi preparai fisicamente e psicologicamente. Non fu molto difficile trovare la persona che mi assistesse in ospedale; lo chiesi alla mia amica Marina (vi ricordate l’infermiera del gruppo gite “Rinascita”? Di lei ve ne parlerò più avanti), che prese le ferie per venire con me. La preparazione fisica consisteva nel fare moltissima ginnastica respiratoria, sia al mare che con la terapista, l’organizzazione del prima e del dopo era sistemata, in caso fosse
successo qualcosa avevo predisposto tutto affinché non si creassero problemi di alcun genere. Psicologicamente mi sentivo come in trance, vivevo le mie giornate come se non fossi io quella che di lì a poco sarebbe stata ad alto rischio per colpa dei suoi polmoni. Dentro di me c’era una tempesta di pensieri e alla sera, quando ero sola nel mio letto, li facevo uscire tutti, domandandomi e rispondendomi da sola; le domande erano sempre le stesse <e se non mi svegliassi? – se dovessi restare troppo a lungo senza respiro subentrerebbero danni celebrali? – se dovessero farmi la tracheotomia? – potrei finire in coma permanente?>. Facendo un resoconto della mia vita fino a quel momento, dicevo che non era giusto che tutto dovesse finire; avevo ancora molto da fare e da vivere, visto che solo da poco avevo cominciato a farlo in completa autonomia. Così dopo aver fatto uscire tutto il negativo mi rispondevo
In poche parole me la cantavo e me la suonavo, ma tutti questi discorsi fatti in solitudine mi davano la carica per affrontare al meglio la situazione.
Finalmente venne il momento di partire, arrivammo a Siena abbastanza presto, Boninzella mi aveva fatto avere una camera a due letti, in modo che io e Marina fossimo libere di gestire la mia degenza; dopo che ci fummo sistemate salutai Venanzo e Marcello con un sorriso, anche se in cuor mio pensavo
. Tra esami e controlli arrivò il giorno dell’intervento, come ogni sera Boninzella venne a salutarmi, mi chiese se mi sentivo tranquilla e se volevo qualcosa per dormire; risposi che non volevo nulla e, strano a dirsi, quella notte dormii meglio di tutte le altre. Al mattino dopo, insieme all’infermiere, mi si presentarono davanti mia cugina Silva e zia Teresa; fu veramente una bellissima sorpresa, erano partite all’alba per essermi vicine, credo che non lo scorderò mai. Entrai in sala operatoria con un senso di pace, qualcuno della mia famiglia mi era vicino, Marina mi mise sul tavolo operatorio, le chiesero se voleva assistere, rifiutò per scaramanzia. Logicamente tutto andò benissimo, nessun tipo di complicanza respiratoria, mi e stubarono e mi svegliarono tranquillamente Credo che anche Boninzella tirò un grosso sospiro di sollievo, in fondo aveva posto la sua firma. Mentre mi
portavano, per precauzione, in rianimazione vidi Silva e mia zia con le lacrime agli occhi per la gioia. Guardandole ho pensato: “questa volta l’ho messa nel sacco a tutti!!!”.
Rimasi in rianimazione 24 ore, poi mi riportarono in reparto. ato un po’ l’effetto dell’anestesia, cominciai a realizzare un po’ di cose: non ero intubata, non avevo il catetere né il sondino gastrico, ma soprattutto realizzai che ero viva!!! Ce l’avevo fatta, a dispetto di tutte le previsioni, avevo, insieme ai medici, vinto la mia battaglia. Che gioia poi rivedere la zia Teresa e Silva, quando sono venute a trovarmi già in rianimazione e gli amici più stretti, quando qualche giorno dopo, da Porto Potenza, mi sono venuti a trovare! Era come rinascere un’altra volta! Il giorno delle mie dimissioni fu proprio un giorno che non dimenticherò mai. Vi ricordate il terremoto dell’Umbria? Bene, Marcello ci è ato in mezzo per venirmi a prendere, si vede proprio che qualcuno di lassù lo ha protetto e alle 11, quando arrivò in ospedale, era stata tanta la paura che lo aggredii dandogli dell’incosciente, ma subito dopo, per la gioia di vederlo sano e salvo, lo abbracciai piangendo. Sbrigate tutte le formalità, partimmo alla volta di Modena dove avrei trascorso la mia convalescenza.
Marina
Come vi ho anticipato sopra, ora parlerò di Marina. Per alcuni anni ha lavorato come infermiera presso l’Istituto “S. Stefano”, poi ha vinto il concorso per entrare all’Ospedale di Civitanova Marche, un paese limitrofo che è anche il suo paese. L’ho conosciuta meglio quando ha cominciato a partecipare alle gite della “Rinascita” come infermiera. Ricordo un episodio particolare che caratterizzò la nostra collaborazione nell’organizzazione delle future gite per quanto riguardava la parte medica e infermieristica e che diede inizio a una bellissima amicizia. Durante la nostra gita a Vienna, Marina venne in camera piangendo, pronta a fare le valige per tornare in Italia. Aveva litigato con il capogruppo,non ricordo per quale motivo; fatto sta che, se fosse partita, ci avrebbe lasciato proprio nella c…….. Cominciai a parlarle dicendole che se avesse abbandonato l’incarico, si sarebbe messa dalla parte del torto e che non valeva la pena mettersi nei guai. Pian piano si calmò e per fortuna decise di non partire. Non ci vediamo spesso e non ci sentiamo tutti i giorni, ma lei c’è. C’era quando sono stata ricoverata a Siena restando con me per tutta la durata del ricovero, giorno e notte, senza ricevere il cambio da nessuno! Fu così anche per i molteplici ricoveri a Milano, barattando cambi di turno e ferie: tutto ciò senza mai chiedere nulla, dandomi la sua piena disponibilità ogni volta che ne avevo bisogno.
Purtroppo durante la mia convalescenza, anche zio Sante, marito di zia Anna, morì. Questa morte un po’ ci sorprese: non scoppiava di salute, ma non ce l’aspettavamo che fosse prossimo a morire. Nonostante la malattia gli avesse tolto da molto tempo gran parte della lucidità intellettiva, egli era una presenza costante e dolce nella mia vita ogni qualvolta mi recavo a Modena per le vacanze. Ancora oggi, a distanza di anni, ogni tanto mi viene istintivo guardare in sala da pranzo, dove si era creato il suo regno e salutarlo con un semplice “Tutto bene capo???”.
Rimasi a Modena circa un mese, poi tornai a casa riprendendo i miei ritmi di vita che la lunga convalescenza aveva molto rallentato. Un mese senza fare movimento attivo per me era deleterio, ma mi ripresi molto rapidamente.
Molte donne vanno in crisi psicologicamente quando vanno in menopausa anticipata. Io no, anzi ne ero felice, niente più mestruazioni! Ogni volta era un dramma, la fobia di sporcarmi, la fatica nel lavarmi e cambiarmi, ecc…. Insomma, è stata proprio una vera liberazione. Ma il corpo umano è la macchina più perfetta del mondo: tutti i suoi organi e le sue parti si incastrano tra loro e ognuno ha la propria funzione. Anche se i miei non sono collocati proprio nel punto giusto, funzionano tutti discretamente, per cui quando subii l’isterectomia totale, qualcosa cominciò a funzionare male. Il calcio invece di fissarsi sulle ossa, che ne avrebbero un estremo bisogno, si depositava sui reni.
Ebbi la mia prima colica renale. Dovevo nuovamente rimettermi in moto, una nuova avventura stava per iniziare. Per prima cosa feci una visita nefrologica; anni prima mi era stato detto che avevo un rene solo, per cui la cosa si presentava seria…. ma, sorpresa delle sorprese, quando feci l’urografia (esame radiologico con metodo di contrasto per vedere il funzionamento del rene) scoprii che i reni sono due. Il rene destro, un po’ più piccolo, si era trovato una collocazione più consona per funzionare al meglio, nascosto dietro la colonna vertebrale, era invisibile con una semplice ecografia. Dopo vari tentativi falliti per fare una litiasi renale (in gergo popolare “bombardamento”), ancora con l’aiuto della d.ssa Boninzella approdai a Milano, al “S. Raffaele”. Fu più dura e sofferta di quanto mi aspettassi. Avevo il rene sinistro pieno di calcoli, alcuni dei quali abbastanza grandi, per cui prima di fare il “bombardamento” dovevano mettermi uno “stend” (catetere renale), per evitare ulteriori coliche, ma soprattutto, il blocco dell’uretere alla fuoriuscita dei calcoli frantumati. Una manovra di routine in condizioni normali e con un corpo normale…. Di solito viene fatta l’epidurale per non far sentire il dolore; per me era impossibile, il “o Pordoi” (la mia colonna vertebrale), glielo impediva, dovevano addormentarmi, ma. anche allora, ebbero paura. Mi fecero tutto da sveglia e, dopo tre tentativi di due ore ciascuno, finalmente ci riuscirono. La mia conformazione fisica impediva di vedere bene il tragitto.
Ho portato lo stend per sei mesi: è stata durasia fisicamente che psicologicamente. Sono sempre stata una persona con la soglia del dolore molto alta, ma lo stend mi faceva veramente male. Ogni movimento, anche se piccolo, era fonte di dolore. Ero diventata molto intollerante a tutto e spesso mi accadeva di trattare male il povero Marcello che, con santa pazienza, continuava a prodigarsi per tutto ciò che mi serviva, senza badare ai miei “esploit” di intolleranza. Tutto ciò stava minando fortemente la mia autonomia e questo stato di cose mi mise veramente in crisi. Con lo stend ho dovuto, in nome dell’autonomia, modificare un po’ di cose inerenti la mia personale gestione giornaliera. Non era molto facile da accettare, ma mi rendevo conto che tali modifiche erano necessarie. Impossibilitata ad andare in bagno da sola, cosa che dovevo fare molto spesso per eliminare i calcoli, modificai il mio sedile, evitando così molti spostamenti e sgravando Marcello da un ulteriore lavoro; era già abbastanza impegnativo per lui dover venire alla sera per mettermi a letto visto che già al mattino veniva ad alzarmi, figuriamoci se ogni ora doveva anche portarmi a fare pipì….!!! Dopo aver sistemato a puntino il sedile e assimilato bene dentro di me questa mia nuova condizione, decisi che, con le dovute accortezze, avrei potuto mantenere queste modifiche anche dopo aver tolto lo stend. Ho voluto guardare avanti.
Con il are degli anni e il peggiorare della malattia, le forze diminuiscono sensibilmente, mentre le fatiche aumentano; quindi la nuova condizione mi avrebbe permesso, in un futuro non troppo lontano, di continuare ad essere autonoma, preservando le forze per continuare a fare ciò che ancora oggi riesco a fare come l’andare a letto da sola.
La Nostra Voce e la L.I.L.T
Nel 97 quando mi recai a Modena per il funerale di zio Luciano conobbi Claudio e sua moglie Brunella. Claudio, presidente sia dell’associazione “La Nostra Voce” che della “L.I.L.T” (Lega Italiana per la Lotta contro i Tumori) Sez. Prov. di Modena. Colpito da tumore e laringectomizzato, ha consacrato con abnegazione la sua vita al volontariato per essere di aiuto ai malati colpiti da questo male che causa solo dolore e sofferenze e alle loro famiglie. Avevo già sentito parlare di loro da zia Marina e, devo dire, sempre in modo molto buono. Volendo sempre andare contro corrente, nella mia mente, avevo deciso a priori che queste due persone non mi piacevano, ma non ci eravamo mai incontrati. L’occasione purtroppo non era delle più felici e di certo non pensavo che da quell’ incontro sarebbe poi nata una bella e sincera amicizia. Dovendomi recare spesso a Milano, facevo tappa dalla zia e alle volte accadeva che prolungassi le vacanze natalizie per evitare qualche viaggio.
Così ebbi modo di frequentarli e conoscerli meglio, erano assidui frequentatori della casa, dove spesso si riunivano per una partita a carte; per essere sincera era Brunella a giocare, mentre Claudio restava a farmi compagnia e facevamo lunghe chiacchierate sulle nostre esistenze scoprendo così di avere moltissime cose in comune. Ho conosciuto e toccato con mano, in più occasioni, la loro sensibilità, discrezione e generosità nei miei confronti standomi vicino nel momento del bisogno, sempre silenziosamente. Il rapporto di amicizia istauratosi con Claudio è uno di quei rapporti che poche persone riescono a vivere e capire, so di non sbagliare nel dire che siamo stati fortunati entrambi nell’esserci incontrati.
Fidarsi, Credere, Stimare
Negli ultimi dieci anni altre cose sono cambiate nella mia vita, ad esempio la casa, la macchina e l’incontro con nuovi amici. Iniziamo dalla casa: fu proprio un’avventura. Da un po’ di tempo mi ero messa alla ricerca di un appartamento più grande, pensando al futuro mi rendevo conto che mi serviva almeno una camera in più. A fronte di una necessità improvvisa, di un’eventuale assistenza continuata, nei miei 33mq sarebbe stato davvero un problema; così avviai la mia ricerca che purtroppo ebbe esito negativo, forse il mio aspetto non ispirava fiducia, ma, non avendo alcuna fretta, non disperavo.
Un giorno, una persona che conoscevo, venne da me con il giornale degli annunci sulle aste. Un annuncio riguardava proprio il locale che confinava con il mio appartamento, che colpo di fortuna…! Era da molto tempo che lo puntavo…., conoscevo il proprietario e sapevo che era molto particolare per cui non c’era molto da fidarsi, ma ora il locale era all’asta e la cosa cambiava. Come fare per saperne di più…??? Come funzionava un’asta…..? L’unica persona a cui potevo rivolgermi era il mio amico avvocato, Tommaso.
L’ho conosciuto tramite chattonline. Sì, avete letto bene, proprio tramite Chat, così chattando, chattando, siamo diventati amici. Si sostiene spesso che le Chat siano sinonimo di fregature: io ho trovato un amico e per di più avvocato. Gli chiesi se poteva informarsi riguardo l’asta in questione e lui, oltre che acconsentire, si offrì di darmi assistenza, in nome della nostra amicizia, nel caso decidessi di partecipare. Mi spiegò il funzionamento dell’asta, dentro di me avevo già deciso di provare, non potevo farmi scappare un’occasione simile, ma, prima bisognava fare quattro conti….. Dove si fanno i conti se non in banca…??? Andai subito a parlare con Armando, il direttore, che conosco da moltissimi anni; il nostro rapporto di amicizia è basato soprattutto sulla stima e la fiducia. Avevo già usufruito precedentemente di prestiti dalla banca e, data la mia correttezza nei pagamenti, mi diede il benestare per accedere ad un mutuo. Era arrivato il gran giorno, avevo concordato con l’avvocato di non superare i 40
milioni con l’offerta. Iniziò l’asta, mi sembrava di vivere in un film, le offerte andavano così veloci che quando sentii dire “39 !!!”, il mio cuore quasi si fermò, ero arrivata al capolinea, se l’avversario rilanciava io avevo chiuso! L’avversario disse: “40!!!”. A quel punto l’avvocato mi disse che avrebbe rilanciato di 1 milione….e …. “41!!!”.
Rimasi col fiato sospeso nell’attesa che avano quegli interminabili tre minuti…. “41 e 1….. 41 e 2….. 41 e 3….!!! Aggiudicato alla sig.ra Antonella Nini!!! Congratulazioni !!!” disse il giudice nonché il battitore dell’asta. A quel punto tutti applaudirono, Marcello e Tommaso mi abbracciarono…. Erano felici per me. Che esperienza ragazzi !!! Quanta emozione e quanta paura…., ma era fatta, stentavo ancora a crederci, mi sembrava un sogno…..
Ora non restava altro che ristrutturare l’appartamento, c’era tutto da rifare e non era un lavoro da poco. Contattai subito muratore, idraulico, elettricista, fabbro e imbianchino che mi diedero la loro sicura disponibilità. Alcuni di loro avevano già fatto dei lavori per me e oltre ad essere miei amici da molti anni, conoscevano benissimo le mie esigenze soprattutto riguardo agli spazi, inoltre conoscevano la mia precisione nelle cose, quindi stabiliti modi e tempi di lavoro, non ebbero nessun problema e fra loro ci fu un ottimo affiatamento. Nel giro di tre mesi mi riconsegnarono l’appartamento così composto: 2 stanze da letto, 2 bagni, un tinello con retro cucina e uno sgabuzzino, tutto a misura di carrozzina e rigorosamente automatizzato. Non dimentichiamoci poi il porticato con corte privata che comprende tutta la lunghezza dell’appartamento. Io mi ero in precedenza organizzata: la mia amica Marina (non l’infermiera) mi aveva svuotato tutti gli armadi e imballato tutto, il mio amico Rosario, marito di Teresa (anche lei mia amica), con l’aiuto di Marcello e Luigino smontarono tutti i mobili. Rimasi in casa gli ultimi giorni con solo il letto che mi sarebbe servito a casa di Enrico che, con molta generosità, mi ha ospitato per tutto il periodo dei lavori. Per dimostrare di aver fiducia di una persona non servono gesti eclatanti, basta dire: “Antonella, sei a casa oggi pomeriggio? Posso lasciare Filippo a casa tua?”
oppure “Ti porto Giorgio, puoi tenerlo finché non torna Enrico dal lavoro?”. Filippo e Giorgio, sono i figli di Sandra ed Enrico, abitano nel mio stesso palazzo. Sandra inoltre è stata per dieci anni la mia terapista, per cui conosceva bene le mie condizioni fisiche. Nonostante tutto mi affidava i suoi figli! Non è mai troppo tardi…. “Il lavoro”
Conoscete il detto: “Non è mai troppo tardi”? Nonostante la mia disabilità, non sono mai stata una persona iva; fino a una decina di anni fa mi dilettavo a fare dei piccoli lavori con l’uncinetto che, in parte usavo per fare dei regali a Natale e, in parte, incrementavano le mie finanze oltre a farmi trascorrere meglio il mio tempo. Ho dovuto abbandonare l’uncinetto a causa di dolori alla schiena e alle braccia. Non volendo restare inattiva, mi venne in mente che forse col computer avrei potuto realizzare qualcosa; non mi entusiasmava molto l’uso del computer, ma in fondo esso rappresentava il futuro…., valeva la pena provare. Venni a conoscenza, tramite Gianni, di un corso gratuito di “videoscrittura”, riservato alle persone disabili, sovvenzionato con i fondi CEE e mi iscrissi. Dopo il corso, dove imparai le nozioni di base, costatando che alla fine cominciava ad entusiasmarmi, comprai il computer. In seguito frequentai altri corsi di perfezionamento, come quello di Video, Terminalista, Grafica pubblicitaria e Web Master. Essi avevano lo scopo di inserirci nel mondo del lavoro. Avevo saputo che il Comune aveva un programma chiamato “BorseLavoro”, finalizzate all’inserimento in ambiente di lavoro di persone non collocabili in ambiti lavorativi veri e propri. Ciò faceva proprio al caso mio, un’entrata- extra fissa mi faceva assolutamente comodo. Prima di fare la domanda, valutai la sede pubblica o privata più vicina a casa mia dove avrei potuto svolgere il lavoro.
La sede più vicina era la “Farmacia Comunale”, così andai a parlare con Moreno, il direttore della stessa. Lo informai che volevo fare richiesta al Comune di una Borsa-Lavoro, che mi avrebbe fatto piacere poter lavorare presso di lui come addetta all’informatica e che mi avrebbe anche fatto comodo data la poca distanza tra la mia abitazione e la struttura. Moreno, con molta onestà, mi disse che non era molto intenzionato a causa di una precedente esperienza
negativa, ma, in nome della nostra amicizia nata nel lontano 1990 (quando aprì la farmacia io ed Enrico andammo a verificare e collaudare l’accesso alle carrozzine sia manuali che elettriche), accettò la proposta. Fu così che il 1° febbraio del 2003 iniziai a lavorare in farmacia.
Al mio primo giorno di lavoro ero abbastanza emozionata, un po’ come i bimbi, il primo giorno di scuola. E’ vero, conoscevo tutti e sono miei amici, ma nell’ambito del lavoro, come è giusto che sia, sono sempre i miei superiori. Mi misero subito in condizione di poter lavorare e mi adattai velocemente. Il lavoro in sé e per sé non è pesante, anzi nei momenti di standby approfitto per fare delle cose mie. Ho un ottimo rapporto di collaborazione con tutti i componenti e mi sento stimata e apprezzata da tutti; lo dimostra il fatto che una volta per un tentennamento del Comune a rinnovare la mia borsa-lavoro, Moreno disse loro che se avevano tanti problemi, egli poteva inserire il mio stipendio nel budget della farmacia. Fui orgogliosa, voleva dire che svolgevo bene il mio lavoro e che ero utile.
Ma il mio lavoro non si limita solo a quello in farmacia. Con il modello del tanto decantato “Telelavoro”, da circa quattro anni collaboro con le due Associazioni sopramenzionate. Per loro svolgo ricerche iconografiche per lo sviluppo di presentazioni, gestisco e aggiorno il database dell’elenco soci, CD e DVD e altro ancora. Quando Claudio mi fece la proposta ne fui felice per due motivi: l primo realizzava il mio modo di lavorare e concretizzava lo scopo di tutti i miei corsi, il secondo non conosceva le mie capacità, ma si è fidato. Oltre a ciò svolgo lavori occasionali, più o meno soddisfacenti, ma tutti molto vari. Come vedete la mia giornata è discretamente piena e questo mi piace poiché mi fa sentire viva. L’utilizzo del computer ha incrementato sensibilmente la mia già ottima integrazione sociale, dandomi ulteriori occasioni di conoscere gente nuova e di rapportarmi con loro.
La casa era sistemata, ora avevo un’altra cosa a cui pensare…”la macchina!!!” . Ormai il pulmino acquistato quindici anni prima, aveva fatto la sua parte.
Era diventato rischioso e dispendioso affrontare lunghi viaggi e, non essendo adibito al trasporto disabile, con il are del tempo diventava per me e per chi mi accompagnava, sempre più pesante e scomodo. Pensando che desideravo ancora viaggiare, cosa che adoro moltissimo, e spostarmi in autonomia, decisa a fare le cose seriamente optai per fare un nuovo acquisto, l’auto….Claudio mi disse che, quando avrei preso una decisione avrebbe parlato con la concessionaria dalla quale lui si serviva e che mi avrebbe messo in contatto con loro
Dopo uno scambio di telefonate e di e-mail, concordammo per un “Doblò Malibù” della Fiat, rigorosamente attrezzato per il trasporto disabili. Ventimila euro non sono uno scherzo e voglio ricordare che da parte di Claudio fu proprio un gesto di fiducia nei miei confronti: la concessionaria conosceva lui non me. Non so quante persone lo avrebbero fatto, devo dire grazie a questo amico che non ha esitato a presentarmi come persona fidata!
Il 13 luglio del ‘95 andai a Modena col mio nuovo “Doblò” e con il mio amico Irmo. L’ho conosciuto a casa di Venanzo, un ragazzo di poche parole, discreto e buon osservatore, ma soprattutto una persona dal cuore grande, sempre disponibile al momento del bisogno. A questo posso aggiungere che tra noi c’era una reciproca confidenza, stima e fiducia: sapevamo di poter contare uno sull’altro.
Con una scusa, preventivamente, telefonai a zia Anna affinché c’invitasse a pranzo; come sempre acconsentì felicissima, nessuno sapeva di questa cosa, doveva essere una sorpresa. L’ appuntamento con Claudio presso la concessionaria era fissato per le 9, ero stata sveglia tutta la notte per l’agitazione! Alla zia non avevo dato un orario preciso del mio arrivo, non sapevo quanto mi ci sarebbe voluto per sbrigare tutte le formalità e per dire addio al mio “Nissan”.
Arrivai a casa di zia Anna con il mio nuovo mezzo, essa tentennava ad aprirci il cancello, aveva riconosciuto Irmo, ma i conti non tornavano, non era il solito pullmino e, non vedendomi seduta sul sedile accanto a Irmo come al solito, era piuttosto perplessa e non riusciva a capire. Finalmente decisi di scendere dalla macchina… descrivere la faccia di zia Anna è impossibile, era incredibilmente stupita e visibilmente contenta ed emozionata della sorpresa. Poi alla spicciolata arrivarono anche gli altri parenti e per tutti fu una bellissima sorpresa. Visto che gli zii Gaetano e Teresa non sarebbero venuti a salutarmi, perché dovevano fare i nonni, con il mio nuovo bolide caricai mia cugina Paola e zia Anna e andai io da loro. Arrivati davanti al cancello, Paola scese e suonò il camlo, un po’ meravigliati della sua visita che non si aspettavano, aprirono. Entrai con la mia macchina che guardavano con stupore e anche per loro fu un’emozionante sorpresa.
Ho scelto volutamente, in più di un’occasione, di raccontare i fatti avvenuti o, in modo parziale, alcuni momenti della mia vita (come l’acquisto di un immobile o quello della macchina, onde evitare il più possibile alcuni atteggiamenti decisamente troppo iperprottettivi nei miei confronti, anche se sono dettati dal troppo voler bene. Per ogni genitore è difficile far volare il proprio figlio o figlia e, d’altra parte, per ogni figlio è invece importante imparare a volare. Così anch’io, sentendomi figlia, avevo e ho tutt’oggi il bisogno e la voglia di volare da sola. E’ una cosa estremamente difficile da accettare da parte di chi ti vuole bene e diventa ancora più difficile nel mio caso dove, a fianco della mia mente “sana”, esiste un “corpo malato.
Ho costruito la mia vita in modo che le parole “per favore” e “grazie”, che per diversi anni hanno risuonato nella mia testa solo come forma obbligatoria di riconoscimento in virtù della mia disabilità, non viaggiassero su una strada a senso unico, ma su una grande strada a doppio senso dove, ad un certo punto, ci si incrocia e si vivono insieme le esperienze della vita
Ho cercato di vivere la vita con dignità, evitando, laddove mi era possibile, di mettere in primo piano la mia condizione di disabile, guadagnando la stima e il rispetto delle persone. Sono fermamente convinta che dobbiamo essere noi in prima persona ed esporci, la gente si trova impreparata di fronte al “diverso”, non sa cosa fare, non sa come comportarsi, dove guardare, ha paura di ciò che non conosce: è nostro compito far capire che la “diversità” è solo nel corpo mentre la mente, il cuore e l’anima sono uguali, pieni di desideri, aspirazioni, sentimenti, dolori e gioie. Con questo spirito ho vissuto e continuo a vivere la mia vita.
L’orgoglio e la testardaggine sono i miei più grandi difetti, difficilmente abbasso la testa o chiedo consigli nel prendere decisioni, se mi metto in testa di ottenere qualcosa, vado avanti anche a costo di rimetterci, ma non mi pento mai di averci provato. In tutti i miei rapporti, di qualunque genere essi siano, sono sempre sincera nel dire le cose e pretendo la stessa sincerità dalle persone. Mi piace terminare questo mio scritto con una preghiera Cherokee che leggo tutti i giorni quando accendo il computer.
“Concedimi la Serenità di accettare le cose che non posso cambiare.
Il Coraggio di cambiare le cose che posso cambiare e la Saggezza di capirne la differenza”
Indice
Dedica
Premessa
Le mie origini
L’infanzia
L’adolescenza
Porto Potenza Picena
Una nuova avventura
Fidarsi, Credere, Stimare
Disabile...chi io? - Antonella Nini
Stampato nel mese di gennaio 2013 da www.stampalibri.it - Boon on demand - Macerata
Versione digitale realizzata da: Eugenio De Angelis nel mese di gennaio 2013