a cura di Sandro Pergameno
Kristine Kathryn Rusch
Fast Cars
Racconto lungo
Traduzione di Alberto Meletto
Prima edizione ottobre 2015 ISBN 9788867759323 © 2015 Kristine Kathryn Rusch Titolo originale: Fast Cars Traduzione: Alberto Meletto Copertina: Tiziano Cremonini Edizione ebook © 2015 Delos Digital srl Piazza Bonomelli 6/6 20139 Milano Versione: 1.0 Font Exo Sans by Natanael Gama, SIL Open Font Licence 1.1
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Indice
Il libro
L'autore
Fast Cars
Agosto 1988
Febbraio 1978
Agosto 1988
Gennaio 1978
Agosto 1988
Aprile 1978
Agosto 1988
Maggio 1978
Agosto 1988
Delos Digital e il DRM
In questa collana
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Il libro
Cinque ragazzi e una pozione magica. Una storia drammatica sulla natura umana della poliedrica K.K. Rusch
La storia di Carren si svolge su due livelli temporali. Da una parte c’è il presente, che racconta il suo ritorno a casa, nella piccola cittadina dove è cresciuta assieme ai suoi quattro inseparabili amici, dopo dieci anni ati nella grande metropoli. Dall’altra c’è invece il ato, quello di dieci anni prima, che ci mostra gli ultimi giorni assieme di questo gruppo di giovani di provincia che, un po’ per noia un po’ per rincorrere un sogno più grande di loro, si addentrano in un territorio sconosciuto, in un esperimento mai testato che, come in un terribile patto col diavolo o con l’ignoto, li condurrà in una situazione senza possibilità di ritorno. Una storia drammatica che dimostra ancora una volta le poliedriche capacità di Kathryn Kristine Rusch.
L'autore
Nata il 4 giugno del 1960 a Oneonta (New York, USA), Kristine Kathryn Rusch ha raggiunto il successo come editor di Magazine of Fantasy & Science Fiction, che ha guidato per sei anni, dal 1991 al 1997, vincendo anche un premio Hugo come miglior editor professionale. In seguito ha abbandonato l’editing per concentrarsi sulla produzione narrativa, diventando in breve una delle scrittrici di punta del mercato americano. Dotata di grandi doti narrative, la Rusch si è dimostrata autrice competente e prolifica in numerosi campi, ando con disinvoltura dalla fantascienza hard al romance, fino ai romanzi gialli. Nel campo prettamente fantascientifico si è fatta notare per i suoi magnifici racconti e romanzi brevi, come Millennium Babies (premio Hugo 2001 come miglior novelette), Recovering Apollo 8 (Il recupero dell’Apollo 8, Delos Odissea), Echea, del 1999, finalista a tutti i maggiori premi del settore, dallo Hugo al Nebula, allo Sturgeon e al Locus. Sono inoltre assai celebri due cicli di gran successo di pubblico e critica: il ciclo delle Immersioni e della Tecnologia dell’Occultamento (Stealth), di cui abbiamo pubblicato Un tuffo nel relitto (Diving into the Wreck) e Stealth, e quello dell’Artista dei recuperi, che inizia con L’artista dei recuperi (The Retrieval Artist, 2001, finalista al premio Hugo come miglior novella).
Dello stesso autore
Kristine Kathryn Rusch, Echea Biblioteca di un sole lontano ISBN: 9788867753864 Kristine Kathryn Rusch, Un tuffo nel relitto Biblioteca di un sole lontano ISBN: 9788867754892 Kristine Kathryn Rusch, Stealth Biblioteca di un sole lontano ISBN: 9788867756391 Kristine Kathryn Rusch, L'artista dei recuperi Biblioteca di un sole lontano ISBN: 9788867758593
Agosto 1988
La sensazione fece ritorno quando sbucai dai boschi diretta verso Allouez, colpendomi allo stomaco e schiacciandomi contro la parete dell'auto. Persino in quella tersa mattinata d'estate gli edifici erano grigi, le macchine arrugginite e la gente sovrappeso. Il Lake Superior puzzava di pesce morto e dovetti reprimere l'impulso di chiudere il finestrino. Non era così che mi ero immaginata il mio ritorno a casa. Mi figuravo mio padre ancora vivo, i miei amici rimasti come li avevo lasciati, e io alla guida di un'auto da sogno con al fianco un uomo ricco e famoso (preferibilmente mio marito). Ovviamente, secondo i miei calcoli avrei già dovuto farcela. Non era un'impresa troppo irrealizzabile: molti politici hanno iniziato la loro carriera verso i trent'anni. Io di anni ne avevo ventotto, con alle spalle una laurea in legge, però lavoravo come avvocato d'ufficio, evitavo le telecamere e ignoravo gli amici che mi proponevano i casi "importanti". ai sotto il ponte dove ci eravamo fermati durante la selvaggia notte alcolica del ballo di fine anno. In quel luogo i ricordi erano intatti e pericolosi; ero fuggita da questo paese la sera successiva alla mia laurea, senza mai guardarmi indietro. Estrassi la cartina inviatami da Johnny e la dispiegai sul volante. Svoltai nel reticolato di viuzze, ricordando vagamente dove abitava, e infine trovai la casa, lungo quella che un tempo era una strada alberata qualche chilometro a nord della East Junior High School. Si trattava della magione vittoriana di un magnate del legname, convertita in appartamenti quand'ero ancora bambina. Johnny sedeva in veranda. Fui scossa da un brivido. Probabilmente era già lì che mi aspettava; dopotutto gli avevo comunicato la data del mio arrivo. Tuttavia, la sua presenza rendeva ancora più pesante quella sensazione opprimente. Mi ricordò quei giorni in cui sollevavo il telefono per chiamarlo e lo trovavo ad attendermi all'altro capo del filo, o le notti quando andavo a piedi a casa sua e lui se ne stava già sotto il porticato; secondo sua madre, Johnny sapeva che stavo arrivando. Avevo persino ricevuto la lettera con la cartina lo stesso giorno in cui gli avevo spedito la comunicazione del mio arrivo.
Sembrava che nulla fosse cambiato, in quel paesino.
Febbraio 1978
La neve mandava bagliori sulle colline di Duluth. In piedi sulla spiaggia rocciosa che sovrastava il Lake Superior, mi strofinavo le mani sulla giacca di panno aperta. Il gelo mi penetrava a fondo nelle dita, facendomi dolere le ossa. Gettai uno sguardo all'automobile. Johnny era raggomitolato contro il finestrino del eggero, coi capelli neri scarmigliati contro il vetro. Diceva di essere rimasto in piedi a leggere tutta la notte, ma avevo i miei dubbi. In alcune occasioni mi si presentava a casa con gli occhi rossi e gonfi. Mi era capitato di sfogliare il suo diario, imbattendomi in un brano in cui si chiedeva quale sarebbe stata la morte più rapida: con le pillole o con una rasoiata lungo i polsi. A volte sentivo l'impulso di controllargli la pelle in cerca di segni. Rientrai in macchina e spinsi fuori dal lato del guidatore tre lattine di birra vuote. Il rumore del metallo sul marciapiede di cemento smosse Johnny, che si tirò a sedere. – Che stiamo facendo, Carren? – bofonchiò assonnato. – Saliamo alla Enger Tower. – Ha nevicato. Feci spallucce. – Sono brava a guidare. Si stiracchiò e si sistemò sul sedile, senza fare obiezioni. Mi chiesi cos'avrebbe detto se avesse saputo che i pneumatici erano lisci e che, l'ultima volta che avevo tentato la salita, la macchina era slittata indietro di oltre tre metri lungo Skyline Drive. Sbattei la portiera e l'auto ondeggiò all'impatto. Avviai il motore, alzai il volume della radio quando sentii che ava i Doobie Brothers e scivolai nella circolazione. Il volante vibrava sommessamente sotto le mie dita. Ero un'autista nata, quando volevo. – Pensi mai a cosa farai finita la scuola? – Gli gettai un'occhiata di sbieco. Aveva posto la domanda all'improvviso, sputandola come se ci stesse pensando da un sacco di tempo.
– Credo che sarò la prima Presidente donna degli Stati Uniti, – ribattei in tono ironico, senza che in realtà intendessi scherzare. Sarei davvero diventata qualcuno. Avevo già programmato tutto. – E tu? – Non saprei. – Continuava a guardare fuori dal finestrino mentre attraversavamo l'High Bridge. Sotto di noi rilucevano le acque nere del Lake Superior. – Ultimamente le cose sono cambiate un bel po'. Lo fissai di sottecchi. La sua voce era così triste che avrei voluto carezzargli i capelli, tirarlo a me e consolarlo. Era lui quello destinato al successo. Sapevo cos'aveva in mente suo padre: il college, una carriera, una famiglia numerosa. Però non lo toccai. Quel genere di cose era vietato fra i migliori amici, specialmente in presenza di un rapporto stretto come il nostro. Le strade che si inerpicavano lungo la collina mandavano un bagliore umido. Grosse macchie di sale e neve punteggiavano l'asfalto. Far salire quelle gomme lisce sarebbe stato complicato, una vera prova per le mie abilità. Girai il volante quando Johnny poggiò la mano sulla mia. – Accosta, – intimò. – Cosa? – domandai, chiedendomi se per caso sapesse dei pneumatici consunti e della strada insidiosa che ci attendeva. – Accosta, cazzo. – Usava quel linguaggio solo quando era spaventato. Sterzai bruscamente verso destra e fermai la macchina a lato della strada, a fianco di un magazzino che dava sul porto. – Okay, che c'è? Mi aspettavo che mi desse della sciocca, ma non faceva che sporgersi in avanti e scrutare su per la collina. Teneva le labbra così serrate che stavano diventando bianche. – Johnny, per l'amor di Dio… – Zitta! – scattò. Mi lasciai andare sul sedile, più confusa che arrabbiata. Fra un minuto mi avrebbe spiegato: lo faceva sempre. Poi udii lo stridio dei freni, delle urla a
pochi isolati di distanza e l'ululato di sirene lontane. Una vena prese a pulsare sulla fronte di Johnny, che stringeva il cruscotto fino a farsi sbiancare le nocche. Qualcosa andò a sbattere in cima alla collina, fra il gemito del metallo. Mi voltai e vidi il furgone. Si delineò nei miei ricordi in un lampo: un fuoristrada rosso, nuovo, con targa del Minnesota, il muso graffiato e leggermente ammaccato, e il guidatore con i capelli appiccicati al cranio, occhi sbarrati, denti serrati, che stringeva a sé il volante come se potesse tirarlo indietro per far decollare il veicolo tipo film di James Bond. Ci sfrecciò accanto, così rapido che quasi non facemmo in tempo a vederlo; sbandava per evitare le auto sulla strada dove Johnny mi aveva fatto accostare, l'ultima prima del porto, troppo affollata per il furgone che saettava impazzito. Si diresse verso il molo, travolgendo dei barili per ridurre la velocità ma con l'unico risultato di scivolare sul ghiaccio. Perso totalmente il controllo, si tuffò nelle acque gelide. Alcune volanti della polizia si facevano strada giù dalla discesa seguite da una singola ambulanza a sirene spiegate. – Perché non è saltato giù? – sussurrai. – Poteva farlo quando sono partiti i freni, in cima alla collina. – Johnny fissava la superficie del lago. Le auto della polizia si erano fermate. – Ma ha deciso di restare alla guida, in modo che il furgone non ammazzasse nessun altro. Non chiesi come fe a sapere tutto ciò. Nelle ultime settimane avevo imparato che non me l'avrebbe rivelato. – Starà bene? – Dipende da come intendi la morte, – ribatté Johnny. Respirò a fondo, mi guardò e perse i sensi.
Agosto 1988
Accostai di fianco al cordolo, controllando costantemente il retrovisore e gli specchietti laterali per accertarmi di aver parcheggiato in maniera corretta. A un certo punto avevo perso fiducia nella mia guida, e mi sentivo a disagio anche nel parcheggiare a lato del marciapiede. Afferrai il cappotto, chiusi la portiera del eggero e caracollai fuori dall'abitacolo. Johnny era in piedi di fianco alla casa. Nel corso degli anni era cresciuto all'interno del corpo segaligno, riempiendolo e facendolo suo. Ora sembrava che ci vivesse dentro; quando me n'ero andata era come se fosse in affitto. – Lo sapevo che saresti diventata una stangona. Gettai uno sguardo al mio metro e sessanta. – Lo sapevo che a volte ti sbagliavi. Ci sorridemmo. Non era proprio come ai vecchi tempi, ma ci eravamo abbastanza vicini. Salii sul cordolo mentre lui scendeva lungo il pendio erboso. Quando ci incontrammo sul marciapiede, ci abbracciammo. Mi sentii come se stessi abbracciando un mezzo sconosciuto. Aveva cambiato profumo e shampoo ed ora aveva un sentore lievemente aromatico e orientale, ma il suo odore era sempre lo stesso, quello secco e polveroso dell'estate nel deserto. Prima non avevo mai saputo classificarlo. Ora sì. – Me l'aspettavo, che saresti venuta una settimana dopo la rimpatriata, – disse, parlando dietro la mia spalla. Mi ero scordata della rimpatriata. Quando Anderson, l'avvocato di mio padre, mi aveva di nuovo telefonato a proposito della casa, avevo deciso che non potevo più lasciarla vuota e inutilizzata. Interessante, che avessi inconsciamente scelto di fare ritorno al Superior lo stesso fine settimana in cui avevo promesso di tornare così tanti anni prima. – Eccomi qui, no? – Stasera c'è la festa di Rennie. – Merda. – Mi ritrassi dall'abbraccio. La vecchia banda di nuovo unita. Una festa
organizzata dieci anni prima. Un controllo per verificare se l'esperimento aveva funzionato. Forse con gli altri era riuscito, ma io avevo perso i contatti. Per quanto mi riguardava, non credevo più nell'importanza di essere qualcuno, di poter "fare la differenza", dalla notte in cui avevo lasciato quel luogo. Mio padre non l'aveva mai capito. Fino alla sua morte si era domandato cosa fosse accaduto alla sua figliola così promettente. – Quindi com'è andata la rimpatriata? – chiesi, con un po' troppo brio. Johnny alzò le spalle, forse un po' troppo disinvolto. – Gran bella festa. – Tutti ingrassati e con un principio di calvizie? – E con figli. Tutti eccetto Glonski. Si è data una bella sistemata. Ha fatto il colpaccio. Nessuno l'ha riconosciuta. – Glonski, eh? – Josie Glonski era stata la mia prima avversaria nelle simulazioni di dibattito. Non era la più grassa della scuola, ma era il tipico esempio di cicciona. – Tutti hanno chiesto di te. Non avevo molto da dirgli. – Non c'era molto da dire, – risposi. Improvvisamente mi sentivo inquieta. Avrei voluto trovarmi lontana da quella casa, da Johnny, essere di nuovo nella mia macchina e guidare a rotta di collo. Per dieci anni avevo cercato di dimenticare che questa parte della mia vita avesse avuto luogo. Eppure eccomi lì, di ritorno, come un salmone vincolato al suo ciclo di riproduzione e morte. Johnny rilevò subito la mia inquietudine e mi afferrò per il cappotto. – Lascia che lo posi in casa, – disse, – e poi possiamo rivangare i vecchi tempi. – Annuii ma non entrai. Mi voltai invece verso la strada. A un isolato da qui, il 18 dicembre 1973, Daniel West mi aveva baciata mentre tornavamo a casa dal ballo di Natale. Quella sera faceva meno due, e io non ero che un fagotto informe nel mio parka. Danny, però, non se ne curava. Mi tolse il cappellino fatto a maglia, se lo infilò in tasca e mi baciò con tutta la calma a cui può far ricorso un tredicenne. Assaporavo quel bacio da mesi. E anche lui. Il cappellino non me lo ridiede mai. – Pronta? – chiese Johnny. Mi toccò il braccio come se fosse al mio fianco da parecchio tempo. Lo guardai di sbieco, chiedendomi se potesse leggere anche
nei ricordi. – Guido io. Dovetti reprimere un sospiro. Ora si cominciava. – Okay. – Lo seguii lungo il marciapiede fino al vialetto d'ingresso. Sul ghiaietto era parcheggiata una grossa motocicletta. Mi diede il casco rosso e si mise in testa quello blu. Mi infilai il casco e sentii come se il mondo si fosse ridotto ulteriormente. Avanti di questo o, fra poco non sarei stata più in grado di muovermi. Montai in sella dietro a Johnny, e sentii la vibrazione del motore che prendeva vita rombando. Non impazzivo per le moto, ma in questa cittadina ero pronta a provare quasi tutto. Johnny levò il pollice in su verso di me, ed entrò nella carreggiata. Di fianco a noi sfrecciavano i vecchi quartieri, lampi di ricordi troppo fugaci per essere più di un'impressione. Da qualche parte in quelle vie c'era la casa dove ero cresciuta, quella che l'avvocato non voleva più gestire. A pensarci rabbrividii. Ma soltanto quando svoltammo nella Ventottesima iniziarono i crampi allo stomaco. Man mano che ci avvicinavamo alla buona vecchia Superior Senior High School, il mondo attorno a me iniziò a luccicare. Ancor prima che il bagliore si spegnesse, sapevo cos'avrei visto: la SSHS, gremita in una mattina infrasettimanale, prima della campana dell'entrata. Automobili, ragazzi, insegnanti. E nessuno era invecchiato di un giorno da quando me n'ero andata.
Gennaio 1978
La musica fluttuava dalla caffetteria, giungendo attraverso il Link nelle sale vuote. Un pianoforte dal timbro metallico accompagnava la voce di Danny West, che cercava di suonare profondo e potente: Se fossi un uomo ricco… Io ascoltavo, in piedi fuori dal laboratorio di chimica. Le prove per lo spettacolo invernale. Il primo che mi perdevo in tutti i miei anni di scuola. Secondo JB, l'insegnante di teatro, terminato il progetto di biochimica avrei potuto fare la direttrice di scena, ma non era la stessa cosa. Mi piaceva essere il centro di tutto, sul fronte del palco, fra gli applausi del pubblico. JB mi aveva proposto i ruoli di Hodel o Golda, personaggi chiave nel Violinista sul tetto, ma ero dedita a questo progetto da troppo tempo per tirarmi indietro durante la fase finale. – Vieni, Carren? Tutti e quattro i ragazzi mi guardavano. Era Dale che aveva parlato, alto e slanciato, con occhi scuri e accesi dall'eccitazione. Sedeva sulla grossa cattedra nera dalla parte opposta della stanza e picchiettava coi piedi contro il telaio di legno. Al suo fianco, sulla superficie di formica, erano allineati cinque becher in pirex, ciascuno con un liquido chiaro sul fondo. Craig stava appoggiato alla cattedra, Johnny fissava i fogli delle formule e Rennie eggiava nervosamente avanti e indietro. Ci chiamavamo i Quattro Moschettieri più Uno. I ragazzi davano per scontato che fossi Costanza, e benché non mi spie il paragone con Raquel Welch, preferivo pensare a me come a un'altra D'Artagnan, giunta in loro soccorso senza troppo successo. – Sì. – Entrai nella stanza e chiusi la porta. Lo scatto della maniglia echeggiò nel silenzio. Feci un profondo respiro, inalando i fumi di progetti terminati da tempo. Le mani mi tremavano. – Hai messo le proporzioni giuste e tutto quanto? – domandò Rennie, probabilmente per la quinta volta.
– Ho appena ricontrollato, – rispose Dale. Le sue Nike producevano tonfi sordi contro il legno. Mi arrestai di fronte alla cattedra, appoggiandomi a una delle sedie. Quando gli attori lo facevano nei film, i miscugli di fronte a loro fumavano minacciosi. Il liquido in quei becher, invece, sembrava acqua. – Sono un po' spaventata. Johnny alzò lo sguardo. Un ciuffo di capelli gli era scivolato fra gli occhi. – Nemmeno io ho un buon presentimento. – Ragazzi, – spiegai strofinandomi le mani sui jeans. – Abbiamo tutti i documenti. Abbiamo fatto le previsioni. Non dovremmo fare questo tipo di prove. Il signor Diller andrebbe su tutte le furie se sapesse che siamo quassù. – È per questo che non lo sa, – ribatté Rennie. Aveva occhi tondi e chiari. Occhi da innocente. – Non devi farlo per forza, se non vuoi, – intervenne Dale balzando giù dalla cattedra e mettendosi di fronte a me. – Nessuno è costretto a farlo. – Lo sapevo che voi conigli vi sareste tirati indietro. – Rennie prese il posto di Dale sulla cattedra, tamburellando nervosamente con le dita. – Dimenticate la ragione stessa per cui lo stiamo facendo. – È una ragione stupida. Uno sciocco sogno a occhi aperti. – Craig sedette al banco più vicino a lui e allungò i piedi nel corridoio. Era ben piazzato, e fra noi era il più atletico. – Come se bere una pozione magica potesse migliorare le nostre vite. – Non è una pozione magica. Sai esattamente cosa c'è dentro… – Sì, – interruppe Craig, – Ali di pipistrello, occhio di salamandra… – Probabilmente non succederà un bel niente. – Dale mi sorrise. – Io stesso spero più in un effetto placebo. – Be', direi che ora questo ce lo siamo giocato, – commentò Johnny. Dale lo ignorò. – Su, Carren, che male può farci? – Non ha tutti i torti, – disse Craig. – Non sappiamo con cosa stiamo
cazzeggiando. Sospirai. Conoscevo tutte le argomentazioni. Ne avevamo discusso venti volte. Non era più pericoloso dei funghetti o dell'LSD. E non avevamo in mente di sballarci di brutto. Afferrai un becher. Rennie ne scelse un altro e così fece Dale. Johnny mi fissò per un lungo istante, poi afferrò il proprio. Infine ne prese uno anche Craig. – Tutti per uno, – disse Rennie, levando il becher in un brindisi. La mezza oncia di liquido sciabordò contro i lati. – E uno per tutti, – rispondemmo noi, vuotando i becher come shot di tequila. Quella roba mi attraversò la bocca così in fretta che avvertii solo una vaga sensazione di bruciore, che divenne poi un formicolio in gola e nello stomaco. Mi sedetti. – Io non sento nulla, – commentò Craig. – Come si fa a sentire se si sta diventando più intelligenti? – chiese Rennie. Nessuno rispose. Ce ne restammo seduti a fissare l'orologio sul palco di osservazione. Ad ogni minuto che ava, scattava. Era scattato quindici volte quando Dale chiuse il quaderno. – Credo che dovremo restare assieme in caso accadesse qualcosa, – propose. – A qualcuno va una pizza? – Non succederà niente, – rispose piano Johnny. – Almeno, niente che ci saremmo aspettati.
Agosto 1988
Era buffo come alcune cose non cambiassero mai. Johnny spinse la moto nel vialetto di fronte agli impianti sportivi. Il parcheggio vuoto, illuminato dalla luce particolare, ricordava un sabato pomeriggio all'inizio dell'autunno. La scuola attendeva addormentata il lunedì, quando gli studenti l'avrebbero riportata alla vita. Scesi dalla sella, percorsi il marciapiede di cemento e premetti il naso contro le porte a vetri. I trofei stavano come sempre allineati contro la parete, e attraverso una minuscola fenditura colsi un vago odore di cloro. La Superior Senior High School era stata costruita verso la fine degli anni Sessanta con mattoni rossi. La facciata era a pianta circolare, vuota al centro e con le classi che davano verso l'esterno. La zona della palestra e della caffetteria era separata dalla facciata dal Link, un corridoio dove si susseguivano porte e vetrate. Era lì che si attardavano i ragazzi fra una lezione e l'altra, poiché, essendo centrale, era il posto più adatto per incontrare tutti. Desideravo entrare, percorrere i corridoi vuoti, sentire l'odore di sudore, cloro e detergenti mescolarsi a quello stantio dei libri e della carta. Johnny comparve di fianco a me con una chiave in mano. – Dove l'hai presa? Il suo sorriso recava una traccia di sofferenza. – Ora lavoro qui. Faccio l'inserviente notturno. – Cristo, John. Scrollò le spalle. – Per un po' me ne sono andato a zonzo, ho fatto qualche cosetta qua e là. Sono tornato qui l'anno scorso. Come se qualcosa mi avesse richiamato, hai presente? Avevo presente, ma rifiutavo di ammetterlo. Johnny aprì la serratura, spinse la porta e attraversò l'ingresso. Aprì un armadietto a muro di fianco ai trofei e disinserì un sistema di allarme. Apparentemente, qualcosa dopotutto era cambiato.
Non molto, però. L'odore era lo stesso che ricordavo, e con esso si fece vivo il ricordo della mia prima esperienza in quella scuola. Non potevo avere più di dodici anni, tenevo il costume da bagno arrotolato in un asciugamano sotto il braccio e attendevo che i miei amici mi mostrassero la stanza degli armadietti. Nel corso dell'estate la piscina era aperta al pubblico, e io ero determinata a sfruttarla. La luce entrava dalle ampie porte a vetri che chiudevano il corridoio, e attraverso di esse scorgevo gli armadietti allineati sull'attenti lungo il pavimento di piastrelle lucide. Alla scuola elementare ne avevo uno piccolo, da bambina, e prima d'allora non avevo mai visto neanche una scuola media. Ora, visti dallo stesso corridoio sedici anni più tardi, gli armadietti parevano minuscoli. L'intero posto sapeva di vecchio, di ricordi e di violenza e sogni perduti. Mi voltai verso Johnny e gli posai una mano sul braccio. Non riuscivo a immaginare di lavorare qui ogni notte, osservare gli studenti, notare quanto erano giovani, avvertire i vecchi ricordi che svanivano a poco a poco, un dettaglio dopo l'altro; tutto questo finché, in primavera, non venivano affissi gli striscioni del ballo di fine anno, facendo tornare i ricordi violenti come uno schiaffo. Johnny non si mosse, ma guardò dritto davanti a sé, come se stesse affrontando i miei stessi ricordi. – Perché te ne sei andata? – chiese. Mi aspettavo che la domanda mi irritasse, ma non fu così. Nel corso degli anni mi ero preparata a questo momento un migliaio di volte, pensando a cento risposte diverse senza mai indovinare quella che mi sarebbe uscita dalla bocca. – Dovevo farlo, Johnny. Annuì, come se la mia non-risposta gli avesse confermato ciò che voleva sapere. Poi si scosse come fanno alcune persone quando si alzano di soprassalto, e iniziò la mia visita guidata della scuola superiore. Ci scambiammo appena qualche parola mentre superavamo le stanze. Quasi mi aspettavo di vedere Danny West girare l'angolo, o Josie Glonski seduta nel Link, ma l'edificio era vuoto, eccezion fatta per noi. Noi e i fantasmi. Salimmo infine le scale per fermarci al di fuori del laboratorio di chimica. Aprì la porta ed entrammo. L'odore pungente di prodotti chimici che non ero più in grado di identificare mi assalì e svanì man mano che il mio naso ci si abituava. La stanza pareva più
grande di quanto ricordassi, e ovviamente era stata ammodernata. Nella mia memoria il luogo era minuscolo, al punto che la voce di Dale mi sfondava ancora le orecchie, e avvertivo la pressione fisica data dalla presenza degli altri tre. Su, Carren, che male può farci? Avevo rivissuto nella mia mente quella scena, quel singolo frammento, così tante volte che non sembrava più reale. Ai nostri cervelli da adolescenti, così perennemente logici, appariva chiaro: se il litio aiutava i maniaci depressivi e altri agenti chimici davano sollievo alle menti squilibrate, allora altri reagenti potevano aumentare la potenza cerebrale, come se il cervello non fosse un complesso strumento organico, bensì una provetta contenente una soluzione che l'evoluzione aveva man mano diluito, rendendola fiacca. Forse da bambini eravamo stati contagiati dalla follia degli anni Sessanta, quando si riteneva che le droghe fossero la soluzione a tutto, poiché avrebbero espanso la coscienza invece di limitarla. Forse saremmo invece giunti a quella conclusione da soli: una combinazione di persone sbagliate nel posto sbagliato al momento sbagliato. Il progetto di biochimica ci aveva portato via ore e ore di lavoro dopo la scuola. Per quel progetto io avevo lasciato il teatro, Rennie aveva abbandonato la squadra di pallacanestro, Dale era stato quasi rimandato in inglese, mentre Craig era stato bocciato all'esame per la patente, almeno al primo. Solo Johnny era riuscito a restare al o con il resto. – Sembra diverso, – dissi infine. – Già. – Johnny si appoggiò a un banco da laboratorio nero e spinse di lato un bruciatore Bunsen. – Come stanno gli altri? – chiesi. Alzò le spalle. – Mi sono fatto vivo solo io. – Allora come fai a sapere che ci sarà qualcosa da Rennie? Mi fissò. Sapevamo entrambi che era una domanda stupida.
Aprile 1978
Me ne stavo seduta sul portico di casa in pantaloncini, a fumare una sigaretta cercando di non tossire. Malgrado non ci fossero nemmeno cinque gradi, sembrava quasi caldo. Dale sedeva sul marciapiede a gambe incrociate. Sopra di noi, Rennie dormiva contro la porta, un fatto che stava diventando così frequente che Johnny lo aveva soprannominato Dormitorio. – Io voto per scaricarli, – disse Dale. Gettai la sigaretta fra i cespugli di rose, l'unica cosa che mi restava di mia madre fuggita. – Diamogli un quarto d'ora. Ultimamente ci mettono una vita. Aspettammo. Non ci sembrava del tutto giusto andare da qualche parte senza Craig e Johnny. Per quanto Dale e Rennie mi piero, semplicemente non bastavano. Pareva che fossimo necessari tutti e cinque per essere di buon umore, in quei giorni. L'auto di Craig, una Ford Falcon bianca del 1962 senza una chiazza di ruggine, si accostò. Ne aveva tre, e ogni volta che quella funzionante si guastava, la aggiustava con le parti di avanzo. Era solo. Dale ed io ci guardammo. Avevamo organizzato l'uscita noi cinque, così da non are la sera del ballo a gironzolare nella depressione. Sarei potuta andare con Trevor Fredericks o Danny West, ma avevo scelto di restare col gruppo. Mi alzai strofinandomi il retro dei pantaloncini. – Dov'è Johnny? – Non lo so. – rispose Craig sollevando due confezioni da sei di birra. Craig offriva sempre qualcosa quando mentiva. Dale ed io tornammo a guardarci. Entrambi sapevamo cos'era accaduto. Avevano litigato ancora. Da quella sera nel laboratorio di chimica, Craig era diventato sempre più irritato nei confronti di Johnny. Johnny era l'unico a mostrare segni di cambiamento. Toccai Rennie su una spalla e scendemmo gli scalini. All'improvviso non ero più
così sicura di volermi trovare in compagnia di quei tizi. Sarebbe stato meglio lasciare che Trevor mi portasse al ballo, guardarlo mentre mi appuntava un mazzetto di fiori alla spallina sottile, sentire le sue grandi dita che mi carezzavano sopra il seno e vedere come sarebbe proseguita la cosa. Anzi, in realtà lo sapevo già. Alcuni amici avevano fatto quella fine davanti ai miei occhi: stelle del football della SSHS che sparivano nella Murphy Oil Company e ingrassavano nel giro di un paio d'anni. In qualche modo la notte del ballo sembrava una promessa del destino, ed io ero intenzionata a vederla realizzata. Presi una delle confezioni dalle mani di Craig mentre mi sedevo sul sedile anteriore accanto a lui. – Andiamo a prendere Johnny. Dobbiamo esserci tutti e cinque. Craig divenne paonazzo di rabbia, ma riuscì a controllarsi. Gettai un'occhiata agli altri due, domandandomi se anche loro avvertivano quella radiazione così potente. Ma Rennie era impegnato a togliere una birra dalla confezione sul sedile posteriore. Dale ne aveva già iniziata una. Si profilava una notte di bevute pesanti e chiacchiere scarse. Perfetto. Ultimamente avevamo parlato anche troppo. Craig mi mise una mano sul ginocchio. Il suo palmo era caldo sulla mia coscia scoperta. Mi voltai verso il sedile posteriore e mi scostai allo stesso tempo, sperando che non lo notasse. Dale mi allungò una birra, che ai a Craig. – Peccato non ci sia Johnny, – fece Rennie con uno sbadiglio. – È l'unico che riesce a trovare la gente senza cercarla. – Io lo so dov'è, – dissi. La vettura si mise in moto. Gli alberi ci avano a fianco sfiorati dalla luce dell'imbrunire. – Già, come no? – Craig stringeva il volante così forte che le nocche gli erano sbiancate. – Cosa sei, sensitiva anche tu, adesso? – No. – Mi rincantucciai ancor più lontano da lui. – Quindi dov'è? – Dale si era schierato con me. Sembrava l'unico in grado di comprendere quanto stessi cominciando a sentirmi irritata dal resto del gruppo. Mi appoggiai alla portiera. Il bracciolo mi premette contro il fianco. – Dalle parti del campo caravan ad Allouez.
– E che diavolo ci fa laggiù? – domandò Craig. Si sporse verso il retro e afferrò una birra, una mano sul volante e lo sguardo sul sedile posteriore. Mi rizzai a sedere con gli occhi sulla strada, pronta a prendere il controllo dell'auto. – Sta solo facendo un giro. – Johnny usciva sempre a piedi quando era inquieto. In tal modo non doveva concentrarsi sul mondo attorno a sé, come se il movimento lo mantenesse sano di mente. Inoltre, se lui e Craig avevano litigato, ciò doveva essere avvenuto nei pressi di casa sua, cioè al parcheggio dei caravan. Craig tornò a rivolgere l'attenzione alla strada. Sterzò con le ginocchia mentre strappava la linguetta e fece una lunga sorsata. Per fortuna il traffico sulla Highway 2 era scarso, perché aveva aumentato la velocità. Sentii il tintinnio delle lattine sul sedile posteriore quando Rennie e Dale terminarono la prima birra. Quando raggiungemmo il ponte se n'erano già quasi scolati un'altra a testa. Johnny procedeva a piedi sul ciglio della statale. Nella luce fioca del crepuscolo sembrava un'ombra che camminava a lato della strada. Aveva un'andatura inconfondibile, con o svelto e portamento deciso. Quando Craig diede un colpo di abbaglianti, rifletté la luce come un fantasma fosforescente. – Eccolo lì, – feci, ma Craig non sembrò udirmi. Spinse la macchina lungo la strada, facendola scivolare sul ciglio. Con il volto carico di concentrazione premette il piede sull'acceleratore. Dale si sporse in avanti fra i sedili anteriori e afferrò il volante. L'auto sbandò leggermente, finendo quasi nella corsia opposta prima di raddrizzarsi. – Cristo! – sbottò. – Ferma questo cazzo di rottame. Di colpo mi rizzai sull'attenti come se fino a quel momento avessi dormito. Craig accostò. Le tempie mi martellavano e il mal di testa mi stava esplodendo nella parte posteriore del cranio. Mi sporsi sul retro e agguantai una birra. – Potevi ammazzarlo, stronzo. – La portiera di Dale si aprì di scatto. – Ora guido io. – No. – Craig parlava con voce impastata. – Adesso sto bene.
– Cazzate – lo apostrofò Dale mezzo fuori dall'auto. – Sei sbronzo e incazzato, e non sei in condizioni di guidare. – Non è ubriaco, – dissi io. Gli altri si zittirono voltandosi verso di me. – Quindi lo lasceresti guidare, Carren?– Johnny era sbucato di fianco alla mia portiera. –Ti facevo più sveglia. – Piantala, – dissi. – Non sono responsabile di tutto quello che succede. Sei tu che l'hai fatto incazzare. – Oh, ma sì che sei responsabile, – rispose Johnny. Spinse Dale in macchina. – Torna dentro. Vengo anch'io. Dale prese posto sul sedile posteriore e Johnny si sedette di fianco a lui. Quando chiuse la portiera l'aria si impregnò del puzzo di whisky, ma non appariva ubriaco. Io tenevo le mani giunte con forza tale che le unghie mi scavavano la carne. Craig mise in moto, guidò per qualche isolato fino al Black Steer Restaurant e svoltò nel parcheggio. Iniziavo a sentirmi intontita. Rennie aveva perso conoscenza. Craig accartocciò la lattina e la scagliò fuori dal finestrino. Poi si sporse indietro, afferrò l'ultima birra della confezione da sei, la scolò e la lanciò fuori. Io ero sempre più frastornata. Johnny aveva ragione: avrei dovuto impedirgli di guidare. Craig mi avrebbe dato ascolto. Ruttò, si pulì la bocca e disse: – Pronti, ragazzi? Più che annuire, feci ciondolare la testa. Craig riportò il mezzo in strada, lo mandò su di giri e infine accelerò a tavoletta. L'auto schizzò in avanti, dirigendosi a tutta velocità verso il ponte. Mentre gli edifici ci sfrecciavano a fianco, improvvisamente sentii sulla schiena una folata d'aria gelida. Mi voltai. Johnny aveva aperto la portiera. Si appoggiava ad essa, in equilibrio sul telaio della macchina lanciata dritta verso il ponte. Se ci fossimo ati sotto, la portiera sarebbe stata strappata via. – Gesù Cristo! – Dale afferrò le gambe di Johnny e le strattonò. La portiera oscillò leggermente. Sentii il cuore che mi martellava in gola come se l'avessi inghiottito. Mi voltai e mollai uno schiaffo a Rennie, che scosse la testa e praticamente senza pensarci
artigliò la caviglia di Johnny. La lama affilata della paura squarciò il mio mal di testa e dissipò le ragnatele che mi soffocavano la mente. Il mio migliore amico stava per morire. Gettandomi verso i sedili posteriori, lo afferrai per una coscia e tirai. La porta si chiuse dietro a Johnny mentre sfrecciavamo attraverso il ponte e sotto il cavalcavia che portava all'East End. Neanche un graffio. – Ferma questa cazzo di macchina, – urlò Dale. Craig continuava a guidare. – Ferma questa cazzo di macchina o quant'è vero Iddio ti ammazzo, Craig Stener, pezzo di merda! Non potevo lasciare la coscia di Johnny, quindi tirai un calcio a Craig. – Ferma la macchina, stupido. La vettura sbandò e tornò a raddrizzarsi. – Ferma questa cazzo di macchina, – ripetei. Un dolore sordo mi percorreva la schiena e il fianco per poi scendere lungo la gamba. L'auto rallentò e si accostò man mano al ciglio della strada. Craig aprì la portiera e uscì tenendosi il fianco, dove probabilmente l'avevo colpito con il calcio. Infine lasciammo la presa su Johnny. La portiera si aprì cigolando e lui quasi cadde all'esterno. Lentamente si tirò in piedi. Aveva la camicia tutta sgualcita sulla schiena, e sembrava respirare a fatica. – Cristo, amico, che diavolo volevi fare? – domandò Rennie. – Niente. – Johnny scosse il capo e quasi perse l'equilibrio. – Proprio come sarà d'ora in poi. – Sogghignò senza che il sorriso raggiungesse gli occhi. – Alcuni ci riescono entro i cinquant'anni. Alcuni ci riescono prima dei diciotto. Lo sapevate? Mi aveva depresso. Non volevo che il punto più alto della mia vita fosse diplomarmi come prima della classe. – Monta in macchina. Mi squadrò. – Ora non ce n'è più motivo. Potrei annegare stasera nel Lake Superior e non farebbe un cazzo di differenza. I miei sarebbero sconvolti, ma lo supererebbero. E anche voi. Il mondo non cambierebbe. – Monta in macchina, Johnny, – ripetei assicurandomi di addolcire il tono. Lui scosse la testa, ma salì nell'auto comunque. – Non ho neanche il fegato di
dimostrare la mia teoria, – disse. Dale spinse via Rennie, spalancò l'altra portiera e si trascinò fuori dall'abitacolo. – Mica lo sapevo, che da sbronzo ti prendono le manie suicide, – disse a Johnny. Io però sapevo che non era così solo quando era ubriaco. Johnny si sentiva sempre più un fallito, e l'esperimento aveva finito per peggiorare le cose. Dale fece scivolare Craig di fianco a me. Quest'ultimo aveva lo sguardo velato, e sapevo che se non lo avessimo portato a casa in fretta si sarebbe sentito male. – Gran bel ballo scolastico, eh? – scherzò Dale. – Sì, come no? – Cercavo di mantenere una certa distanza fra me e Craig. – Da ricordare per il resto delle nostre vite.
Agosto 1988
Fermai la macchina di fronte a casa di Rennie. L'abitazione, che in realtà era dei genitori, non era cambiata. Si ergeva al centro dell'isolato di East Fourth Street, circondata da querce e pini. Il piccolo ingresso ad arco, semisepolto dai rampicanti, lasciava appena intuire il colore rosso della costruzione. La Studebaker del padre di Rennie era parcheggiata sulla ghiaia del vialetto, con la targa da collezione che riluceva fiera contro il metallo cromato. Johnny scese e fissò la casa per un attimo prima di richiudere la portiera. Un brivido freddo mi percorse la schiena. Forse si sbagliava. Forse, dopo tutti questi anni, aveva finalmente perduto quel dono per il quale Craig lo aveva quasi ucciso. O forse era nervoso tanto quanto lo ero io. Uscii dall'auto. L'aria aveva un vago sentore di pini e terra umida. Inspirai a fondo. Se ci eravamo sbagliati, se Johnny si era sbagliato, potevamo fare una breve visita ai genitori di Rennie, e poi cenare in pace in qualche posto che non ci fosse familiare. Johnny mi attese sul vialetto. Gli posai una mano sul braccio e insieme superammo il ciottolato. Il primo gradino presentava una spaccatura, in cui Johnny incespicò. Gli strinsi il braccio più forte. Quando giungemmo alla soglia, fui io a bussare. Nella casa risuonavano delle voci, con una tenue musica jazz in sottofondo. Stavo per bussare di nuovo quando Rennie aprì la porta. – Carren, – disse in un sospiro. Il suo viso era paffuto, rotondo, come quello di un bambino che debba ancora perdere il grasso dei neonati. – E Johnny. Gesù. – Ci fissò come se non riuscisse a crederci, poi fece un o indietro. – Entrate. Craig e Dale sono già dentro. ando attraverso uno stretto atrio entrammo in un piccolo salotto. Il fuoco ardeva nel camino; la scatola del Risiko giaceva chiusa sul tavolo, come in tanti venerdì sera ati. Craig sedeva nervoso e ingobbito sulla sedia a dondolo di fianco alla finestra. Dale si era servito un drink e stava esaminando le fotografie
incorniciate che i genitori di Rennie avevano apposto al muro. Quelle foto, il videoregistratore sopra la televisione e il telefono a tasti erano gli unici indizi del fatto che fossero trascorsi dieci anni. – Quasi mi aspettavo di vederti, John, – disse Rennie. – Ma dove hai trovato Carren? – È stata lei a trovare me. – Johnny si staccò dalla mia presa e si accomodò sul divano. Ero ancora al centro del salotto. Craig non alzò lo sguardo, ma sentivo su di me gli occhi di Dale. Mi voltai a guardarlo, e fui sbalordita dall'intelligenza che ne segnava i lineamenti. – Ci stavamo chiedendo di te, Carren. – Mosse il bicchiere in cerchio e fissò il mulinello al suo interno come se con quell'unica frase avesse già detto troppo. – Suppongo che ti sia andata bene. – Craig gettò nel fuoco lo stuzzicadenti che stava usando. Ancora non mi guardava. – Non so cosa intendi con "andata bene", – risposi. Le mie parole furono seguite dal silenzio. Eravamo di nuovo assieme, i Quattro Moschettieri più Uno dieci anni più dopo, con tutte le implicazioni di quel "dieci anni dopo". Ma non importava. Da un decennio eravamo sconosciuti che conservavano solo il ricordo di un'amicizia, o giù di lì. – Dove sono i tuoi? – domandò Johnny a Rennie. Rennie si avvicinò al bar situato nella parete. – Sono usciti con mia moglie. Dicono che i vecchi amici è meglio rivederli da soli. – Prese un bicchiere dallo scaffale contro lo specchio. – Vi verso qualcosa? Scossi la testa e così fece anche Johnny. Era difficile immaginare Rennie con una moglie. Era anche difficile immaginare che mi trovassi in quella stanza con quelle persone. Craig si distese sulla sedia a dondolo. Il legnò scricchiolò. – Io voglio sentire ancora di Carren. – Se mi fosse andata bene avresti già sentito di me, – scattai. Tutti e quattro mi guardarono. Su ogni volto era dipinta la stessa emozione: paura con una punta di rimorso e un accenno di qualcosa che non riuscivo a decifrare.
– Saresti dovuta restare,– disse Dale a nome di tutti. Mi voltai dall'altra parte. – Credo che ora accetterò quel drink. Scotch, se ce l'hai. Rennie prese una bottiglia dal fondo del bar, la stappò, annusò il contenuto e versò. Gli tremavano le mani. – Suppongo, – cambiò discorso Dale, – che, dato che siamo venuti tutti, come avevamo deciso in origine, si debba proseguire con il piano originale. – Cioè? Confrontare gli appunti? Verificare come ce la siamo cavata dopo il nostro piccolo esperimento? – Craig si levò. Si era fatto in carne, quasi grasso, ma le sue movenze emanavano un senso di potere. – Okay. Iniziamo per primo dal fallimento. – Incrociò le braccia accanto al caminetto. – Io sono qui solo perché sei mesi fa mi hanno dato la condizionale. – Riuscì infine a incrociare il mio sguardo. – Omicidio colposo. Il mio avvocato ha provato a chiedere la legittima difesa, ma non sono stato in grado di aiutarlo perché avevo rimosso ogni ricordo dei fatti. Sono riuscito a farmi scontare un po' di tempo per buona condotta, il che per quei tizi era incredibile, dato che ho dei problemi con l'aggressività. Non male, vero, Carren? Non sapevo perché se la stesse prendendo con me. Era vero che me l'ero cavata meglio, ma neanche più di tanto, considerando tutto ciò che mi ero ripromessa. – Craig, guarda… – Merda, parla Carren e noi tutti ad ascoltare. Non è cambiato niente. Lo sai quant'era difficile allora per me interromperti? – Fece scorrere nervosamente una mano sul grosso braccio. – Merda. – Io sono andato per un po' alla clinica di Minneapolis specializzata in disturbi del sonno, – riprese Rennie. Gettò una rapida occhiata a Craig, sperando forse di calmarlo parlando in maniera gentile. – La diagnosi è arrivata solo l'anno scorso. Narcolessia. Ora prendo la speed un paio di volte al giorno. Mi aiuta. – Oh sì, – sogghignò Dale. – Dovreste vedere sua moglie! Rennie arrossì. – Dale mi ha aiutato a trovare la clinica. Lavora alla Mayo Clinic di Rochester. Uno dei dottori più giovani che abbiano mai avuto. E tutti dicono che è bravo sul serio.
– Piantala – lo interruppe Dale con un sorriso. Camminò verso Craig. – Sai, a volte anche l'aggressività è causata da uno squilibrio chimico. Craig si avvicinò al fuoco, voltando quasi le spalle al gruppo. – Un successo, due se conti il matrimonio. Tu non sei sposata, vero, Carren? – No, – risposi con un filo di voce. Nessuno me l'aveva mai chiesto, e non avevo mai trovato nessuno a cui mi interessasse chiederlo. Era buffo: non mi ero mai sentita triste per questo finché Craig non aveva tirato fuori il discorso. – Neanch'io, – aggiunse Johnny. – Lavoro come inserviente alla Senior High. – Cazzo – sibilò Dale a denti stretti. – Mi aspettavo che stessi in qualche agenzia di intermediazione esclusiva, o che fi qualcosa con quella tua capacità di prevedere il futuro. Johnny sorrise. – Ti avevo già detto dieci anni fa che non avrei combinato granché. Ogni volta che dobbiamo prendere una decisione, i nostri destini si dipanano di fronte a noi come una manciata di arcobaleni. Ogni arcobaleno porta con sé una rete di sentieri. Una volta che abbiamo fatto la nostra scelta i sentieri si assottigliano, finché spesso non ne resta che uno solo. Sembra che dopo i diciotto anni io abbia avuto solo arcobaleni piccoli: quelli più grandi li ho scartati chissà come molto tempo fa. Riflettemmo tutti su quel concetto. Presi il drink dalle dita di Rennie. Il bicchiere era freddo contro il mio palmo. Mi premeva più tenerlo in mano che berlo. – E tu che ci dici, Carren? – chiese Craig. – Non ho ancora sentito nulla. – Sono un avvocato. – Ingollai un sorso di scotch. Mi bruciava in gola come quel liquido chiaro dieci anni prima. – Lavoro come avvocato d'ufficio a Milwaukee. Prendo diciottomila dollari l'anno e vivo sola. Ho sempre vissuto da sola. Ho frequentato Legge all'università e mi sono laureata summa cum laude. Questo è stato il massimo da me raggiunto. Altro non ho combinato. Craig si abbandonò a una serie di scoppi di risa simili a latrati. Si voltò del tutto verso di noi, continuando a ridere. Lo osservavamo. Gli ci volle un momento per riprendere fiato, poi scosse la testa. – Arcobaleni, inservienti e ubriaconi incazzati. Mi aspettavo che ormai fossimo tutti ben avviati. Ma a ben pensarci avrei dovuto capirlo quando Carren se n'è andata.
Strinsi il bicchiere fra le dita. Sentivo quanto era fragile e sapevo che di lì a un minuto si sarebbe infranto. – Non dare tutta la colpa a me. – Perché no? – Si appoggiò contro il divano con portamento felino, celando il balzo predatore sotto una parvenza rilassata. – Eravamo un gruppo. E tu potevi spingerci a unire le nostre forze, a usare ciò che avevamo… – Eravate così impegnati a litigare su chi fosse stato più fortunato che non potevo fare altro per tenerci uniti. Craig si posò le mani sulle ginocchia. – Tu avresti potuto farci smettere di litigare. – L'ho fatto. – Attesi una sua risposta, ma un lento rossore gli tinse le guance. Alla fine posai il bicchiere. Lo scotch fuoriuscì oltre il bordo, lasciando un piccolo cerchio sul tavolino da caffè. Rennie prese un tovagliolo e lo depose sulla macchia. Anche Dale mise giù il drink. – Ti davamo sempre ascolto, – disse. – Avresti potuto dirci di smetterla. La sensazione di soffocamento cresceva, una pressione sul petto e sulla parte posteriore del cranio. – Ero una ragazzina di diciott'anni, – replicai. – Non sapevo se portare o meno il reggiseno, non sapevo cos'avrebbe fatto mio padre se fossi tornata tardi per troppe sere di fila, e pretendete che controllassi le vostre vite? Che scegliessi il nostro destino e guidassi tutti quanti nella terra promessa? Gesù, è stupido come bere una pozioncina magica fatta chimicamente per aumentare il proprio QI. – Su di me ha funzionato, – fece notare Dale a bassa voce. – Certo, e ha reso Johnny un ESP, ha aumentato l'aggressività di Craig e ha fatto dormire Rennie. Io sono l'unica su cui non ha avuto effetto, e proprio per questo vi aspettate tutti che vi guidi, come se mi avesse concesso un pizzico di saggezza in più come premio di consolazione. – Oh, ma qualcosa te l'ha dato, – fece Johnny. Se ne stava disteso sul divano, il corpo teso come quello di Craig. – Sei sempre stata attraente e interessante, Carren, ma fino a quella notte non eri mai stata al centro dell'attenzione. – Carisma,– proseguì Dale. – E così tanto che non riesco a credere che tu sia
riuscita a nasconderlo per tutti questi anni. Puntai lo sguardo su di lui, e man mano che lo fissavo iniziai a tremare. Tutte le persone che volevano che mi occui di un certo progetto o che dessi una mano con un altro. Tutti gli uomini che mi approcciavano con cautela al bar o alle feste. Tutti gli anni trascorsi a dire no, a chiudere la porta o a voltarmi dall'altra parte. La gente non mi lasciava stare, un atteggiamento che a quanto pare contagiava tutti. O almeno, mi ero convinta di ciò dopo la notte della laurea, tanto tempo prima.
Maggio 1978
Il parcheggio dietro la palestra era gremito di auto. Le persone uscivano a frotte, reggendo i vestiti chiusi nelle sottili confezioni di plastica. Mio padre mi lasciò scendere e andò a cercare un posto libero. Col vestito sotto il braccio, mi diressi con cautela lungo il marciapiede sconnesso. I tacchi alti ticchettavano sul cemento, il suono quasi sovrastato dall'andirivieni di voci eccitate. – Ehi, Carren! – Un paio di ragazze mi raggiunsero, chiedendo la mia opinione sul loro abbigliamento per la cerimonia. Raddrizzai un colletto, optai per non dire a Glonski che sembrava un palloncino e tirai dritto. Le persone seguitavano a salutarmi mentre guadagnavo l'ingresso laterale, di fianco alla sala dell'orchestra. All'interno udii lo stridio dei violini, gli squilli sbuffati delle trombe e il cinguettio di un ottavino. Qualcuno batteva con forza il Do sul piano nel tentativo di convincere gli orchestrali a tacere e accordarsi. Per la prima volta non avrei partecipato alla laurea come musicista. Stavolta ero proprio nella processione. Gli studenti si andavano radunando attorno ai cartelli che riportavano l'iniziale del loro cognome. Cercai la B nella grande sala, facendomi strada verso di essa quando l'ebbi individuata. Mentre superavo la S, Craig mi agguantò per un braccio. – Vediamoci dopo la cerimonia. Mi divincolai. – Vado alla festa di laurea di Trevor. E poi a casa. – E dai, Carren. Gli altri ci sono. Il suo volto coperto di acne sembrava serio. Avrei potuto dire di no, ma sarei rimasta con la curiosità di scoprire cosa avevano architettato. Inoltre, in teoria quelle persone erano i miei migliori amici. Sospirai. – Solo se non è una cosa lunga. Voglio veramente andare da Trevor. – Non lo sarà. Ci vediamo da Rennie. – Lessi l’invidia sul suo viso. Trevor dava
sempre le feste più popolari, e a nessuno era consentito imbucarsi. Alcuni ci avevano provato più o meno un anno prima e da allora l'intera scuola li aveva messi alla berlina. Trevor non ci andava leggero con le persone che non gli davano retta. Lo superai e riuscii ad arrivare alla fila della B. Ci stiparono contro i trofei; saremmo stati i secondi a fare il nostro ingresso. – Meglio che ti prepari, Carren, – mi disse ando il preside, il signor Bellen. Annuendo appesi la stampella sulla vetrinetta delle coppe e strappai la plastica che avvolgeva il vestito blu marino con il colletto bianco. Attaccate al cappello pendevano due nappe: una bianca, ad indicare la mia appartenenza alla società degli onori, e una rosa a significare che mi laureavo come seconda della classe. Quella sera, il fatto di essere seconda fu per me un sollievo. Danny West, primo in graduatoria, doveva tenere un discorso. Io non avrei avuto idea di che diavolo dire. Feci are il vestito dalla testa, sistemai il colletto e mi guardai nel mio specchietto. Niente era fuori posto. Una delle ragazze mi aiutò ad aggiustare il berretto. Vidi le nappe dondolare con la coda dell'occhio, simili a soffici ciocche di capelli. Avvertii le farfalle nello stomaco, e mi sentii infine come se la mia vita stesse procedendo in avanti. Facemmo un o indietro per far are l'orchestra. La porta principale si aprì sbattendo un'ultima volta. Johnny scivolò al mio fianco, ponendomi le mani sulle spalle. – Dici che permetteranno a una C di stare nella fila B? – Improbabile, – risposi. – Si va in ordine alfabetico. Sorrise, con la bocca ma non con gli occhi. Quelli non sorridevano più dalla notte del ballo. – Craig ti ha detto che ci vediamo dopo da Rennie? – domandai. Scosse il capo. – Craig non mi parla più molto. – Credo che faremo qualcosa. – Se mi avesse voluto me l'avrebbe detto, Carren. Gli sfiorai il volto scostando la nappa. – Ti voglio qui.
L'avevo detto con più trasporto di quanto desiderassi. Johnny lo avvertì e fermò la mia mano fra guancia e spalla. – Abbiamo fatto una cazzata, Carren, – disse. Scossi la testa. Quella notte era il mio inizio. Non volevo sentir parlare degli sbagli ati. – Stiamo andando bene. La fila iniziò a muoversi. La signorina Holmes, insegnante di educazione fisica incaricata dello svolgimento della processione, batté le mani. – Tutti ai vostri posti. Le farfalle nello stomaco ballavano il tiptap. Le scuole superiori stavano finendo. Il college, l'età adulta ne avrebbero preso il posto. Ero pronta. Ero pronta da molto tempo. Forse era per quello che avevo preso parte all'esperimento di biochimica. Lo vedevo come un'occasione per crescere più in fretta, per scegliere più in fretta, per cogliere opportunità che altrimenti non avrei avuto. I miei punteggi di ammissione erano alti e sapevo che sarei entrata in una buona scuola, ma sembrava che ci fosse di più, altri doni che quell'intelligenza mi avrebbe concesso, come la libertà di essere me stessa. A volte capivo il risentimento di Craig nei confronti di Johnny. Volevo che quell'esperimento funzionasse più di quanto fossi disposta ad ammettere. L'interno della palestra era opprimente. La calura della giornata si era accumulata nel tetto, e persino i ventilatori situati in tutto l'edificio parevano impotenti. L'orchestra stava suonando "Pomp and Circumstance" quando entrammo tutti e cinquecento in fila. Genitori e ospiti scrutavano giù dagli spalti, imitati dagli studenti del terzo anno in veste di uscieri, i quali si domandavano cosa si prova a stare lì sul pavimento di assi tirato a lucido, aspettando di spostare le nappe sull'altro lato del cappello. Sul podio, il signor Bellen stava in piedi di fianco a Danny West e ad alcuni insegnanti. La stanza puzzava di sudore, scarpe da tennis vecchie e legno, e un'improvvisa tristezza piombò su di me. Era l'ultima volta che avrei calpestato quel parquet da studentessa. Il mio diritto alla Senior High terminava qui; il mio regno da diplomanda, la cima del totem, era finito. Affrontavo un futuro senza gli amici con cui ero andata a scuola negli ultimi dodici anni, un luogo con gerarchie nuove ed evanescenti, dove avrei dovuto fare delle scelte non preventivate. Mi sedetti sulla fredda sedia pieghevole di metallo, ascoltai il brano che avevo suonato svariate centinaia di volte, e attesi. Attesi durante tutti i discorsi, durante i sorrisi di mio padre e durante diverse
decine di battute di "Pomp and Circumstance". Quando la mia fila si mosse al centro dell'auditorium, tra il caldo intollerabile e la falsità della cerimonia, attesi ancora. I miei i echeggiarono sulle assi mentre attraversavo il palco. Il signor Bellen mi fece l'occhiolino quando mi strinse la mano, consegnandomi la cartellina di plastica contenente il diploma. Mi fermai, spostai la nappa sull'altro lato del cappello e avvertii un'ondata di delusione. Non era cambiato niente. Il diploma era un imbroglio, come quella pozione. Un lieve bruciore, la sensazione di un attimo, ma niente di realmente diverso. Scesi dal palco e tornai alla mia sedia, guardando gli amici salire lassù uno dopo l'altro. Dopo qualche altra battuta di "Pomp and Circumstance", tutta la manfrina era terminata. La cerimonia di diploma, di quel diploma per cui avevo lavorato dal giorno in cui ero entrata all'asilo, non era durata che un'ora e mezza. Mio padre mi portò a casa. Mi abbracciò, mi disse quanto era fiero di me e si mostrò più entusiasta del diploma di quanto lo fossi io. Poi mi cambiai, presi la Astre e mi misi al volante verso casa di Rennie. Le luci erano accese in tutte le stanze. La Studebaker era sparita: i genitori di Rennie erano sempre così buoni da lasciarci soli. La porta anteriore era aperta. Il cuore mi batteva all'impazzata. Indossavo ancora i tacchi e un po' di trucco, abbinati con jeans e camicetta. Ero vestita alla perfezione per casa di Trevor, dove tutti avrebbero sfoggiato un abbigliamento il più possibile casual ma ben studiato; tuttavia mi apparve decisamente inadatto per ciò che mi attendeva all'interno di quella casa. Mentre percorrevo il marciapiede lastricato riuscii a distinguere delle voci. Voci alterate. – …imbrogliati. Ecco perché non ti ci voglio qui. – Craig. – Mi ha invitato Carren, – ribatté Johnny. – Io però Carren non la vedo. Mi affrettai. Un tacco si infilò nel gradino e dovetti smuoverlo. – Hai mischiato tu la roba. Che c'è, ti sei preso quella vera e a noi non hai dato un bel niente?
– Craig, rallenta. – Dale, la voce rotta dal panico. – Ci hai imbrogliati, non è vero? Non è vero? – Lo schiocco secco di un pugno mi spinse a correre. Raggiunsi la soglia e sbirciai all'interno. Johnny era mezzo disteso sul divano, con Craig che gli tempestava il volto di pugni e Rennie e Dale che tentavano di dividerli. Johnny non faceva nulla per difendersi. Stava a guardare, come se sapesse che qualcosa o qualcuno lo avrebbe soccorso. Craig aveva un aspetto spiritato, rivoli di saliva che gli colavano ai lati della bocca mentre percuoteva Johnny senza sosta. Il sangue andò a sporcare il soggiorno pulito, e Rennie aveva un sussulto ad ogni colpo. Neanche con l'aiuto di Dale riusciva a contenere Craig, ed io non ero certo più forte. Mi sfilai le scarpe col tacco, ne brandii una come un'arma ed entrai a grandi i nel salotto. – Basta, Craig. All'inizio non mi udì. Era così assorto a massacrare Johnny che la mia voce non lo raggiunse nemmeno. Mi portai sull'altro lato del divano, stesi il braccio oltre Johnny e spinsi Craig con la punta del tacco. – Piantala. Lascia stare Johnny. Craig mi fissò, e per un istante pensai che avrebbe picchiato anche me. Poi si fece indietro con gli occhi velati di lacrime. Johnny si accasciò in avanti con un gemito. Non lo guardai neppure. Il fatto che avesse rifiutato di difendersi, per la seconda volta nelle ultime tre settimane, mi disgustava. – Dale, trova qualcosa per dargli una pulita. – Feci di nuovo il giro del divano e mi fermai fra Craig e Johnny. Ero più bassa di Craig e molto meno muscolosa, ma in quel momento mi sentivo alta due metri e più. – Finiscila di prendertela con lui. Il nostro esperimento era semplicemente quello: un esperimento. Nient'altro. Niente di speciale. È andato storto e potevamo farci male tutti quanti. Lo odi per una cosa che non può controllare, e voglio che tu la smetta. Trovati qualcun altro da odiare, ma lascialo in pace. Johnny non ha mai inteso farti del male o imbrogliare nessuno di noi. Abbiamo fatto lo stesso errore tutti assieme, lo capisci? Assieme, come diciamo sempre, tutti per uno, uno per tutti. – Con mani tremanti mi rimisi la scarpa. – Che poi non vuol dire nulla. – Invece sì, – si intromise Rennie. – Siamo una squadra…
– Eravamo una squadra. – Gettai un'occhiata a Craig. – Ma non lo siamo più. Dale stava pulendo il volto di Johnny con una pezza. Rimosso il sangue, incominciavano a vedersi i lividi e il labbro spaccato. Lo cinsi con un braccio e per aiutarlo a rimettersi in piedi. – Lo porto a casa. – Vai da Trevor, – disse Johnny. Riusciva a malapena a muovere le labbra. – Non ci vado, da Trevor. Ti porto a casa. Ci incamminammo verso la porta. Dale ci seguì. – Carren, – mi chiamò. Mi voltai. Devo averlo raggelato con lo sguardo, perché fece un o indietro. – Prenditi cura di lui, okay? – Johnny dovrebbe essere in grado di badare a sé stesso, – scattai, e lo feci are attraverso l'uscio. All'esterno, l'aria sembrava essersi fatta più fredda. Aprii la portiera del eggero della Astre, aiutai Johnny a entrare, poi mi infilai dalla mia parte. Quando misi in moto sussurrò: – Non andartene, Carren. – Ce ne stiamo già andando. – Accesi i fari e feci rombare il motore. Poi mi staccai dal marciapiede. – No, – disse, faticando per tirarsi a sedere. – Intendo, non lasciarci. Abbiamo bisogno di te. Fino a quel momento non avevo realizzato che stavo pensando di andarmene. Cos'aveva in serbo per me il Superior? Un padre troppo impegnato per darmi retta, amici che non erano amici e una scuola che non era più la mia. Mi sentii vecchia, costretta e parecchio sola. – Le mie scelte le faccio io, – risposi. E Johnny non disse più nulla per il resto del tragitto verso casa.
Agosto 1988
– Eravamo come una persona perfetta, – disse Dale riportandomi alla realtà. – Tu eri in prima linea, con me e Johnny come consiglieri e i lati ivo e aggressivo separati. Eravamo solo così giovani… L'organizzazione perfetta. Per la prima volta in quella casa sentii la necessità di sedermi. Mi diressi verso il divano e affondai fra le sue morbide pieghe. I cuscini si modellarono attorno a un corpo che non era il mio. Johnny mi guardava dall'altro lato del sofà. Qualsiasi politico sognava un'organizzazione simile. Una persona brillante alla guida, fiancheggiata da individui ancora più brillanti, uno dei quali in grado di predire il futuro con precisione accettabile, e altri a tenere a bada i mansueti e i riottosi. Reagan aveva un'organizzazione simile. Anche Roosevelt. E anche Hitler. Scossa da un brivido guardai gli uomini che mi circondavano. Craig stava facendo chissà cosa. Rennie si era appena sposato. Dale aveva un buon lavoro e Johnny si lasciava andare alla deriva, sapendo che questo momento sarebbe alla fine giunto. Gli sorrisi. – Ho un bel po' di arcobaleni davanti, no? Mi restituì il sorriso senza una parola. – Ne abbiamo tutti un bel po', – disse Dale con un'espressione intensa dipinta in volto. Anche lui attendeva questo momento, e a giudicare dalla sua espressione pensava che non sarebbe mai arrivato. – E come al solito, – fece Craig, – la decisione spetta a Carren. La sua acredine mi colpì, e ricordai di quando avevo visto il sangue di Johnny insozzare la stanza, Johnny che mi aspettava come mi aspettava ora, come aspettavano tutti che prendessi le decisioni al loro posto.
Era così facile per tutti. A parte me. Craig stringeva e apriva i pugni. Aveva detto di aver iniziato ad affrontare il problema di aggressività. Dale era brillante e aveva un ottimo impiego. Rennie era finalmente riuscito a controllare la sonnolenza. E Johnny, Johnny sembrava aver accettato il fatto che non sarebbe mai diventato qualcuno, per come intendevamo allora quel concetto, ma che era divenuto una persona interessante in sé. Se fossi rimasta avrei cambiato tutto ciò, sarei divenuta nuovamente responsabile per loro, e in qualche modo li avrei utilizzati a mio vantaggio. Da parte loro, avrebbero seguitato ad aspettarmi, aspettare le mie decisioni, aspettare come faceva Johnny mentre Craig gli spaccava la faccia la sera del diploma. Da soli non avrebbero mai fatto nessuna scelta, non sarebbero mai cresciuti veramente. Sembrava che potessero davvero essere persone migliori senza di me, come io sarei stata una persona migliore senza di loro. – Mi dispiace,– dissi. Avevo già preso la decisione corretta molto tempo prima. E da allora non avevo fatto che fuggire. Era tempo di affrontare la scelta che avevo compiuto. Per quanto la mia vita potesse sembrare fuori da ogni controllo, dovevo sapere, come l'autista di quel furgone che era schizzato impazzito giù dalla collina di Duluth anni addietro, che mi ero costruita un mio futuro. Da sola. – Mi dispiace, Dale. Annuì, distogliendo quegli occhi intelligenti mentre abbassava la testa. Rennie esalò un sospiro dietro di me e Craig tornò a voltarsi verso il fuoco. Solo Johnny non si mosse. Il sorriso rimase, accennato e misterioso, il sorriso di mio padre quando era fiero di me. Finii lo scotch e gettai uno sguardo al Risiko. Ne avevo abbastanza di giochi. – Dio, quanto vorrei una sigaretta. Qualcuno ne ha? Craig si batté sul taschino e ne trasse un pacchetto e un accendino. Presi una sigaretta e stavo per fare il primo tiro dopo cinque anni quando Rennie mi interruppe: – Devi fumarla fuori, però. Il viso grassottello era atteggiato a un'espressione di scuse, ma per me non era un problema. Fuori andava bene. Anzi, andava benissimo. Andava a meraviglia. Mi
alzai e uscii sugli scalini anteriori. Mi tremava tutto il corpo, la sensazione di inquietudine era tornata. L'indomani mattina avrei visto l'avvocato, gli avrei detto di vendere la casa. Il Superior non aveva più nulla per me, a parte i ricordi. Era giunto il momento di rientrare a Milwaukee e di smettere di nascondersi. Fare un po' di favori, uscire con qualcuno, farsi notare dalle telecamere. I quattro moschettieri erano finalmente scesi a patti con i loro problemi. Era ora che lo fe anche quello in più, che fosse Costanza o un altro D'Artagnan. Sentii dietro di me un leggero fruscio. Poi Johnny si sedette. – Non l'hai accesa. Fissai la sigaretta che tormentavo in mano. – Ho smesso qualche anno fa. Mi tolse l'accendino e se lo infilò in tasca. – Odio baciare una donna che sa di nicotina. – Si sporse e sfiorò le mie labbra con le sue. – In memoria dei vecchi tempi, – mormorò. Poi mi prese il volto con la mano destra e mi baciò lentamente, esplorandomi l'intera bocca. – E per quelli nuovi. Sorrisi. Mi cinse con le braccia e mi lasciai andare contro di lui, godendomi la sensazione di lasciarmi andare con un'altra persona, senza promesse né pozioni magiche, né sciocchi sogni. Tutti quegli anni prima mi ero sbagliata. I migliori amici si possono abbracciare senza rovinare l'amicizia. – Resti? – domandò. – C'è da chiederlo? – risposi. Anche se i suoi poteri ESP non funzionavano, la mia decisione di ripartire doveva apparire ovvia. – No. – Sospirò piano, tristemente, e mi strinse più forte. E per quei brevi momenti, sotto il cielo del nord inondato dalla luna, mi sentii come se fossi tornata a casa.
FINE
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