Ornella Calcagnile
Fil Rouge
© 2014 Ornella Calcagnile I edizione: Ottobre 2014 Tutti i diritti riservati. Grazie per aver acquistato questo ebook. È vietata la riproduzione totale o parziale dell’opera e la sua messa a disposizione di terzi, sia in forma gratuita che a pagamento.
Cover: Progetto grafico cover © Ornella Calcagnile Immagini di base: pixabay.com
Questo libro è un’opera di fantasia. I personaggi e i luoghi di questo libro sono invenzione dell’autore e hanno lo scopo di conferire veridicità alla narrazione. Qualsiasi analogia con fatti, luoghi e persone, vive o defunte, è assolutamente casuale. I riferimenti a personaggi ed eventi storici sono funzionali alla storia e sono anch’essi basati su di uno sforzo di fantasia.
Indice Capitolo 1
Capitolo 2
Capitolo 3
Capitolo 4
Capitolo 5
Capitolo 6
Capitolo 7
Capitolo 8
Capitolo 9
Capitolo 10
Capitolo 11
Capitolo 12
Capitolo 13
Capitolo 14
Capitolo 15
Capitolo 16
Capitolo 17
Capitolo 18
Capitolo 19
Capitolo 20
Epilogo
“Fil Rouge” ovvero “Filo Rosso”
Ringraziamenti
Autrice
Capitolo 1 Nuova casa nuovo vicino
Ovviamente, come se il trasloco non fosse già una faccenda complicata, la pioggia non mancò di dare il suo apporto e rendermi le cose ancora più difficili. Alcune strade furono interrotte e il camion della ditta di traslochi non poté raggiungere il mio nuovo domicilio nei pressi di Montmartre. Certo, non potevo lamentarmi, insomma, i mobili di base c’erano, mi mancavano solo le altre mille cose non-indispensabili, ma volevo sentirmi a casa il prima possibile. Avevo iniziato a lavorare come digital-artist da un bel po’ ormai e avevo bisogno di più spazio per gestire materiali e immagini pubblicate, quindi era proprio giunto il momento di vivere da sola, o almeno provarci, e quale luogo migliore se non una viuzza nei pressi del quartiere degli artisti? Adoravo eggiare e vedere tanta arte e tanti colori. Conclusi gli studi mi cimentai da autodidatta in grafica e fotoritocco e, raggiunto un buon livello di esperienza, finii a lavorare come freelance in un’agenzia di comunicazione che mi aveva aperto le porte nel mondo della pubblicità, certo piccole cose come: locandine, manifesti, cover, ma questo impegno mi divertiva e tanto bastava. Il mio appartamento si trovava in una palazzina di cinque piani mansarda compresa, in un approssimativo stile vittoriano che riprendeva le linee tipiche delle abitazioni di Notting Hill, dove sono nata e cresciuta per i primi dodici anni della mia vita, finché mio padre non decise di spostare l’attività per seguire quella di mia madre a Parigi. L’edificio nel quale ero approdata, era di un leggero color zabaione ed era di recente restaurazione. Con la pioggia sembrava tutto più triste e cupo, il grigiore del cielo sembrava ricoprire gli edifici come un lenzuolo cenerino e la pioggia bagnava tutto rendendo lo scenario molto meno piacevole di quanto in realtà fosse. Parcheggiai di fronte l’ingresso del palazzo, non potevo portare scatolame e ombrello, quindi dovetti optare per lo scatolame
sacrificando la messa in piega e gli abiti. Con le chiavi del portoncino pronte in una mano e in braccio il box di cartone con oggetti di primaria importanza, mi accinsi a varcare la soglia di quello che sarebbe stato il mio nuovo nido. Saliti i primi scalini, trovai riparo sotto il piccolo portico delimitato da due colonne lisce; varcai l’ingresso lasciando le mie orme sul pianerottolo e, dopo un paio di i, a un soffio dalla mia porta, lo scatolo si schiuse sul fondo facendo cadere tutta la mia roba e provocando un gran fracasso che rimbombò tra le pareti vuote della piccola tromba delle scale. «Dannazione!», sbottai. In quel momento un ragazzo sbucò sull’ultima scalinata e, sorridendo in modo contenuto, mi offrì il suo aiuto. «Serve una mano?» La sua voce aveva un guizzo vivace e contemporaneamente un tono composto ed elegante. Secondo me, in realtà, voleva scoppiare a ridermi in faccia. Era vestito in modo abbastanza formale, completo spezzato e camicia, ma senza cravatta. Il suo incarnato era di una splendida tonalità cappuccino e i suoi occhi chiari risplendevano sulla pelle bronzea. Il viso era luminoso e giovane, nonostante il velo di barba. I capelli bruni erano rasati e contribuivano a rendere la sua bellezza fresca e briosa. «Oh beh, a questo punto credo mi servano lo straccio e il secchio che non ho ancora!», sbuffai guardando il sapone liquido allargarsi sul pavimento come una macchia d’olio. «Ho la soluzione!» Dischiuse le labbra in un tenue sorriso e, sceso l’ultimo scalino, si diresse verso il fondo del corridoio. Nel sottoscala c’era una porticina quasi invisibile, lo vidi scomparire per un attimo per poi riapparire con un secchio e un mocio. «Ecco qua!», esclamò soddisfatto. «Mio eroe!», recitai con tanto di mano sulla fronte in posa plastica. Il ragazzo guardò l’orologio.
«Accidenti, non mi ero reso conto di essere così in ritardo. Piacere mi chiamo Joël Charrier, abito all’ultimo piano», disse porgendomi la mano dalle fini dita affusolate. «Kylie, piacere mio Joël.» «Ma tu non… non sei se? Giusto?» «No, ma lo studio da quando ero bambina, si nota tanto?» «No, al contrario ma hai un qualcosa di diverso», chiarì tranquillamente. «Devo andare, mi spiace non poter esserti di maggior aiuto ma…», continuò impacciato. «Hai fatto abbastanza, grazie», lo anticipai. Prese un ombrello dal vaso di finta porcellana accanto al portone e, salutandomi un’ultima volta con la mano, uscì sotto la pioggia. A quel punto, mi rimboccai le mani, sistemai il pasticcio sul pavimento del pianerottolo, recuperai gli oggetti sparpagliati sul pavimento e poi, finalmente, potei rilassarmi nel mio appartamento. ando davanti a uno specchio all’ingresso, vidi i miei capelli arruffati e il mascara leggermente colato intorno agli occhi, non potevo credere di essermi presentata in tali condizioni a quello splendore d’uomo che era il mio vicino dei piani alti. «Oh mamma mia, che figuraccia!», esclamai lentamente fissandomi bene. Intanto spiovve, così presi il resto dei miei bagagli e li portai in casa. Mi cambiai e asciugai i capelli con uno dei pochi teli che avevo con me. Pian piano ripresero il loro colore castano sfumato di biondo. Sì, ero vittima della moda degradè, ma la mia carnagione era chiara e la chioma bruna sembrava incombere eccessivamente sul mio viso, così avevo provato a schiarire le punte attenuando quel marrone pieno e intenso fino a ottenere un effetto sfumato che mi piacque a tal punto da farlo per sempre mio. Dopo aver indossato vestiti asciutti e legato i capelli in una coda laterale, per tenere frenate le onde scompigliate, cercai di metter a fuoco la situazione. Avevo fatto proprio bene a scegliere quell’appartamento. Era al primo piano,
appena entrati, ci si trovava in un ambiente aperto. Il salotto era ampio e luminoso grazie alle alte finestre che davano sulla strada, alle spalle della zona giorno, separato da un moderno bancone accessoriato di sgabelli, vi era l’angolo cottura, piccolo ma efficiente. Infine, oltre una tenda verde menta, usata al posto di un banale separé, si trovava la stanza da letto. Appena in camera si aveva di fronte una parete verde acqua liscia, mentre le altre dell’appartamento erano ruvide e verniciate di bianco. Il mobilio era essenziale, in toni chiari e smaltati, i colori vivaci erano affidati ai dettagli: cuscini, lampade, tappeti e quadri, che speravo arrivassero presto. L’appartamento aveva bisogno di tinte e suppellettili, oltre che di elettrodomestici. Al posto della cabina armadio a muro, oltre la porta a soffietto, avevo organizzato un piccolo studio, perché era uno spazio davvero sprecato per appendervi abiti. Ovviamente, tra gli ambienti, vi era anche una porta che dava al bagno, una piccola toilette, ma abbastanza agevole. Il tutto si tingeva di bianco, ghiaccio, bigio, su un pavimento altrettanto anonimo di un lucente grigio perla ma, dopotutto, quell’appartamento mi piaceva proprio per la sua “neutralità”. Per me era come una tela bianca da dipingere. Squillò il cellulare, il responsabile del trasloco mi comunicò il ritardo. Non avevo dubbi a riguardo, così mi misi l’anima in pace e mi sistemai al meglio delle mie possibilità. Uscii per comprare qualcosa al supermercato e, per non sporcare e comprare stoviglie di cui non avevo bisogno, feci scorta di noodles e bacchette. Mi piaceva molto il cibo orientale, soprattutto il sushi. Verso le 17.00 del pomeriggio arrivò il camion, gli addetti si scusarono del ritardo e si misero subito all’opera. Per non dar loro fastidio mi accomodai sulle scale del pianerottolo. Il palazzo era silenzioso, quasi fosse ancora vuoto, o forse gli inquilini si nascondevano da me: la rumorosa ragazza e il suo fastidioso via vai di operai. Per fortuna, la ditta era in buoni rapporti con la mia famiglia e non mi fecero problemi per lo straordinario. Alle 21.00 finalmente ero spaparanzata sul divano ad ammirare il mio salottino parzialmente adornato ma almeno accessoriato di TV a schermo piatto. Avevo ancora alcuni scatoloni da sistemare, ma il mobilio c’era tutto: era minimale e più che adeguato. Stavo bevendo una Coca Light e facendo zapping quando bussarono alla porta. Spensi il televisore, infilai le pantofole e andai ad aprire. «Ehi, tutto a posto?» Joël, quale visita gradita. Anche con l’aria stanca quel ragazzo era divino come lo ricordavo. Strano, ma avvertii subito una certa “elettricità” tra noi.
«Sì, ho ancora un po’ di cose da sistemare ma posso farcela.» Lo vidi gettare un’occhiata all’interno dell’appartamento. «Mi fa piacere, l’arrivo non è stato fortunato», sorrise. «No, ma sicuramente profumato. L’uscio di casa è aromatizzato all’eucalipto.» «Già è vero», sorrise ancora più ampiamente, deliziandomi con la sua smagliante dentatura, candida come quelle delle migliori pubblicità dei dentifrici “white action”. «Ti inviterei a entrare e ti offrirei da bere ma è ancora tutto in disordine e ho il minimo per sopravvivere», confessai ironicamente. «Dovrei essere io a invitare te per darti il benvenuto nel palazzo, ma… Ehi ben venuta!», esclamò raggiante allargando le braccia. «Grazie.» Feci un mezzo inchino. «Ora ti lascio riposare, buona serata.» «Anche a te», sospirai guardandolo salire le scale. Anche se in un pantalone classico, sembrava avere proprio un bel sedere. Povera me, che vaneggiamenti! Non ero lì neanche da ventiquattro ore e già avevo la bava alla bocca per il vicino di casa.
Capitolo 2 Vicini, magari più vicini
Il giorno dopo, come ogni giorno da un paio di anni a questa parte, uscii per andare in ufficio. La giornata trascorse come al solito tra telefonate, appunti e chiarimenti con i clienti. Prima di ritirarmi a casa, feci la spesa e comprai un po’ di bevande, nel caso mi ritrovassi il mio fascinoso vicino nuovamente fuori la porta. Stavo per entrare nel mio appartamento quando vidi al portoncino del palazzo una ragazza con un sacchetto di carta pieno di viveri. La situazione mi parve familiare, così poggiai la mia roba sul pavimento di casa e mi apprestai a soccorrerla. Il mio intervento non fu abbastanza tempestivo e tra il mantenere il portone aperto e lo stringere la spesa, gli acquisti della giovane non poterono fare a meno di rovesciarsi sul pavimento. Era per lo più frutta quindi il disastro fu contenuto. Recuperai un paio di mele e le porsi alla legittima proprietaria. «Grazie, mi succede sempre, odio questi stupidi sacchetti di carta», bofonchiò la ragazza. «Aspetta, ti prendo una busta», la fermai correndo verso il mio appartamento. Svuotai una delle mie shopper e la portai alla biondina in difficoltà. «Grazie davvero», disse prendendo delicatamente la busta di plastica. «Io sono Liza», aggiunse. «Io Kylie e, come avrai capito, abito qui.» Indicai la porta socchiusa al piano terra. «Sì, lo avevo intuito», sorrise radiosa. «Io invece abito in mansarda», aggiunse. Quella ragazza era un raggio di sole: i capelli erano dorati, gli occhi smeraldini e il viso roseo e sano. Minuta, snella e di una finezza quasi eterea. Vestita con un
grazioso vestitino floreale con giacchetto rosa e una croce d’oro al collo che brillava altezzosa, come se volesse farsi notare per forza. «Ti serve una mano?», domandai. «Non occorre, hai fatto abbastanza. Spero di rivederti», disse affabilmente iniziando a salire le scale. «A presto», la salutai per poi rintanarmi nel mio appartamento. Quella ragazza mi trasmise positività e pensai immediatamente potessimo diventare amiche. Il sabato seguente ebbi modo di fare acquisti per la casa e prendere tutto con più calma. Tra ufficio e lavoro a casa, non avevo mai davvero il tempo di fare qualcosa con tranquillità. Quella mattina, di ritorno dalle compere, trovai il corriere di fronte la mia porta. «Posso aiutarla?», chiesi. «Lei è Kylie Harrison?» «Sì, sono io», confermai curiosa. «Questo pacco è per lei», disse scaricandolo sul pavimento per poi posarmi l’apparecchio elettronico tra le mani per la firma digitale. Scrissi in modo approssimativo il mio nome e guardai l’enorme scatola sul pavimento. Il corriere si congedò e io mi accovacciai per scoprire il mittente: Sébastien Duval. Quando lessi il suo nome, mi illuminai di gioia. Erano arrivati! I miei lavori erano finalmente giunti nella loro nuova dimora. A casa dei miei genitori non potevo esporre ciò che volevo, per loro non esiste arte senza la firma di un buon pittore o fotografo affermato e, quindi, i miei manufatti digitali non erano all’altezza per esser esposti. Ora però le cose erano cambiate. Provai a sollevare lo scatolone, ed era davvero pesante. «Kylie, sei tu lì a terra?» Alzai il capo e vidi alla balaustra Joël, che mi guardava curioso. Quella volta,
almeno, ero in ordine. Scese velocemente e mi raggiunse. «Sollevamento pesi?», scherzò. «Quasi!» «Ti do una mano, aspetta.» Arrivò accanto a me e sollevò il pacco, io mantenni la porta aperta per consentirgli il aggio. «Poggialo pure sul divano», dissi, indicando il centro del salotto. «Wow, devi essere un tipo molto sbarazzino», affermò osservando i colori dei cuscini, il tappeto variopinto e i vari suppellettili dai toni e dalle forme esuberanti. «Avrei detto creativo, ma anche sbarazzino va bene», sostenei, aprendo il cassetto del mobile all’ingresso per prendere un taglierino. «Non volevo essere offensivo», precisò. «Lo so», risposi tranquillamente accostandomi a lui per aprire lo scatolo. Appena spalancate le ante di cartone, balzò fuori un nevischio di polistirolo dal quale sbucavano alcuni pizzi di legno. «Ecco, ora capisco perché pesava tanto», enunciai estraendo con cura una prima cornice. Joël la esaminò curioso. «Quadri?» «Non proprio», dissi mostrandogli ciò che avevo tra le mani. «Una stampa? Sembra una pubblicità. Credo di averla già vista.» «Probabilmente l’hai vista su qualche rivista», commentai guardando l’immagine attraverso il vetro e quasi mi scappò una lacrima.
Sébastien era il responsabile dell’aria creativa con cui collaboravo e mi aveva promesso una stampa di tutti i miei lavori, ma non pensavo mi inviasse il tutto già incorniciato e pronto all’esposizione. Aveva anche indovinato perfettamente il mio stile: cornici sottili e scure. Niente di pomposo che mettesse in ombra il contenuto. «Hai tanti lavori nel tuo curriculum. Queste sono cover di libri?», chiese guardandomi sistemare le varie cornici. «Sì, ogni tanto lavoro per autori e case editrici, ho anche delle copie omaggio dei libri con le mie illustrazioni», asserii fiera. «Quindi sei un’artista?» «Non so, ma mi piace questa definizione. Per me più che un lavoro è una ione.» «Sei incredibilmente piena di sorprese. Hai ragione, ti si addice più il termine “creativa” che “sbarazzina”.» «Te l’avevo detto», sorrisi. «Posso offrirti da bere?» «Oh, non posso, ho un appuntamento e devo proprio andare. Grazie comunque, sarà per un'altra volta.» «Grazie a te per l’ennesimo aiuto. Mi sdebiterò.» «Certo che dovrai.» Strizzò l’occhio e si avviò verso la porta. Lo seguii per accompagnarlo. «A presto, Joël.» «Ciao creativa», salutò allegro affrettando il o. Tornai con i piedi per terra, smettendo di pensare a quegli occhi luminosi e celestiali, e allo splendido sorriso di quel ragazzo. Mi armai di chiodi e martello e appesi tutti i miei progetti. A lavoro concluso, mi posizionai al centro del salotto per osservare il risultato.
Con i giusti accorgimenti anche le pareti, da anonime, presero vita e un tocco di personalità. Mi sentivo felice. Le mie, pur non essendo opere di grande valore, rappresentavano piccole parti di me. Il weekend seguente, finalmente, tutto era al suo posto e la casa divenne accogliente, anche se abbastanza disordinata, tipica espressione di una mente confusionaria come la mia. Avrei dovuto inaugurarla ma avevo ancora troppe cose per la testa e mi limitai a un party intimo tra me e me, cenando con dei gustosi pancakes. Conservai parte dell’impasto anche per fare colazione la mattina seguente, sperando di svegliarmi prima di pranzo, altrimenti avrei dovuto usarli per un brunch. Adoravo cenare con la colazione, a volte mi trovavo di fronte alla televisione con latte e cereali o croissant e cappuccino. L’indomani, alle 9.30 ero già ai fornelli. Preparai i pancakes e ci versai sopra una buona dose di cioccolato e panna. Allestii un vassoio e andai all’ultimo piano con le mie delizie ancora calde e profumate. Speravo di prendere il mio vicino per la gola. Bussai delicatamente con la mano, il camlo la domenica mattina lo trovavo troppo invasivo, un po’ come lo squillo del telefono appena svegli, magari dopo una serata di bagordi. Sentii dei i pesanti, come se qualcuno camminasse sui talloni piuttosto che sulla pianta del piede. Joël, quando mi aprì, era in deshabillé, con indosso solo un pantalone leggero. «Buongiorno. Dormivi ancora forse?» «Sì, si nota eh?», sorrise dolce e assonnato. «Ti ho portato la colazione, per ringraziarti dell’accoglienza.» «Oh mamma, che gentile! Vieni entra», invitò, grattandosi appena la testa. «Gli ai accanto e sentii l’essenza della sua pelle. Non un deodorante, non un sapone, non un profumo, ma proprio il suo odore, maschile e avvolgente. Come se avessi percepito qualcosa di intimo e confidenziale in quell’istante. Il completo classico non gli rendeva giustizia e nonostante cadesse a pennello sulle linee del suo corpo, senza maglia si poteva ammirare il fisico asciutto sul
quale si disegnavano, in tenui e sexy chiaroscuri, addominali e pettorali. «Accomodati, dammi un minuto. Sai, per sciacquarmi la faccia e assumere un’espressione più decorosa», pronunciò facendo cenno col dito intorno al suo viso. Mi fece sorridere, era autoironico, mi piaceva questo lato in un ragazzo. Poggiai il vassoio su un tavolino da caffè e curiosai in giro. La stanza era ancora in penombra, così aprii le tende e feci entrare la luce del sole. A guardare bene l’appartamento, non sembrava molto nel suo stile. Immaginavo qualcosa di più moderno, minimalista, attuale; invece mi ritrovai in un salotto molto caldo e accogliente, con qualche tocco rustico. «Eccomi, sono stato veloce non trovi?», esordì mostrandosi pimpante. «Sì, un lampo.» «Che ci fai in piedi, accomodati», continuò. «Okay», replicai breve. Andò verso la cucina e torno con due tazze, tovaglioli e posate. «Dammi un solo istante che porto il latte e metto la macchina del caffè in funzione», espose gentile. «Oppure preferisci un succo di frutta?», aggiunse. «Va benissimo il caffè. Non volevo darti tutto questo disturbo», proferii. «Nessun disturbo. Io adoro i pancakes!», esclamò e, dopo aver preso la caraffa di caffè, finalmente si accomodò accanto a me. «Allora Joël, cosa fai nella vita? Oltre ad amare i pancakes, è ovvio.» Trattenne un sorriso masticando un pezzo di frittella. «Mi occupo di medicina estetica.» «Cioè?» «Cioè sono un chirurgo estetico», precisò. «Davvero?» Non riuscii a trattenere il mio stupore e la faccia da pesce lesso con
tanto di occhi sgranati. «Ehi, tutto bene? Non vorrei ti andasse la colazione di traverso», disse porgendomi la tazza. «Sembri così giovane, non avrei mai detto fossi un chirurgo!» «Neanche tu sembravi un’artista, eppure…» «Artista? Esagerato! Beh, tu plasmi sederi, nasi e… insomma, tutto il resto. Sei un artista anche tu! Hai maneggiato qualche star?» «Maneggiato? Non è troppo “materiale” come termine?» «Dici? Tu inserisci e prelevi materia, no?» Rise. «Sì. Comunque non posso parlare dei miei pazienti e dei loro finti nasi», rispose con spirito. «Capisco: il segreto professionale. Dove eserciti?» «In una clinica privata, ma basta parlare di lavoro. Come ti trovi nella tua nuova casa?» «Bene, ho un posto tutto mio e cose esclusivamente mie, è una sorta di liberazione!», dichiarai entusiasta. «Capisco che vuoi dire. Finché si resta in famiglia si è sempre un po’ chiusi e limitati.» «Esattamente!» «Davvero buoni questi pancakes», disse a bocca piena cambiando discorso. «Grazie, ma non sono una cuoca provetta, riesco in poche cose ma quelle poche sono deliziose.» «A me piace cucinare ma non ho tempo o non ho voglia, quindi non mi cimento quasi mai.»
Era bello, spiritoso, medico e cuoco. Se fossi stata un personaggio dei manga avrei avuto gli occhi a cuoricino in quel momento. «Che programmi hai per oggi?», domandai continuando a scrutare ogni linea del suo viso. «Pranzo dai miei genitori, ogni tanto mi tocca farmi vivo», enunciò con una smorfia contrariata. «Tu cosa farai invece?», domandò a sua volta. «Devo terminare un lavoro, quindi non credo di uscire. Forse stasera stacco per un aperitivo», spiegai. «Un programma sicuramente migliore del mio», dichiarò. Finimmo di bere i nostri latte e caffè e ci salutammo per dedicarci ai nostri reciproci impegni. Mi accompagnò sino alla porta e poi, in modo delicato e innocente, ma anche seducente, si poggiò allo stipite guardandomi intensamente. «Grazie mille Kylie», scandì in modo provocante e quasi vidi le labbra muoversi a rallentatore. «Figurati, è stato divertente.» «Buona giornata», tentennò ancora. «Anche a te», dissi lieve, non riuscendo a staccarmi dal suo sguardo. «Okay, ora chiudo», avvisò. «Certo», rilanciai io. «Ciao», salutò ancora. «Alla prossima», squittii come se non avessi più fiato. Sembravamo due idioti ma finalmente quella dannata porta si chiuse e io ripresi a respirare a pieni polmoni. Che scena penosa! Come tornai al mio appartamento mi gettai sotto la doccia, quello scambio di battute così innocente mi aveva fatto avvampare più di una scena erotica da romanzo rosa.
Non volevo essere avventata però, forse, c’era attrazione da entrambe le parti. Sicuramente da parte mia e speravo vivamente di non scambiare una semplice simpatia per qualcosa di più.
Capitolo 3 Inquilini
Era una solita giornata di lavoro, la differenza stava nella pausa pranzo, che avrei trascorso a casa a prepararmi per un appuntamento. Arrivai verso le 12.00 e, sulle scale che antecedevano il portoncino, vidi due figure salire ed entrare nel palazzo. Mi avvicinai e una volta entrata riconobbi le due persone. «Accidenti, da quanto non facevamo tutta questa spesa!», disse lei. «Non capita spesso di avere entrambi ore libere al mattino», si accodò lui. Li guardai cercando di capire la situazione. Joël e Liza erano così amichevoli tra loro che mi parvero conoscersi da una vita. Per come si guardavano, come si rivolgevano l’uno all’altra, persino la comunicazione non verbale dei loro corpi indicava una certa confidenza. «Accidenti, queste scale e questa spesa sono una pessima accoppiata», aggiunse lei. «Hai voluto l’appartamento in una tipica palazzina stile inglese, allora ti tocca fare le scale», rise lui. «Di sicuro, in questo modo non avrò mai bisogno di uno dei tuoi interventi», rise a sua volta. Improvvisamente si accorsero di me. «Ehi, ciao Kylie», salutò lei vispa. I suoi capelli accarezzarono l’aria e il suo sorriso illuminò il pianerottolo. Joël mi guardò con il suo solito sguardo, intenso e cristallino, ma questa volta sembrava quasi a disagio dinanzi a me. La sua espressione per un attimo si
irrigidì e mostrò tensione. «Ciao ragazzi», dissi avvicinandomi alla porta del mio appartamento. ando accanto a loro notai la mano sinistra di Liza: aveva una fedina argentata. Automaticamente ai in esame la mano di Joël e lì non c’era traccia di anello. Pensai, allora, che fossero amici da tempo perché abitanti dello stesso palazzo e non per altri fantasiosi motivi. «Joël mi ha raccontato dei tuoi fantastici pancakes», pronunciò improvvisamente Liza. «Sono già famosi? Beh, allora credo che dovrei riproporli, potremmo fare colazione insieme domenica», suggerii. «Sono golosissima, non potrei permettermelo ma mi piacerebbe assaggiarli!», affermò entusiasta. Ci pensai su un attimo: ma cosa stava dicendo? Era talmente magra che avrebbe potuto spazzolarsi via un quintale di pancakes senza mettere un kilo e are tranquillamento sotto l’uscio di una porta. Ma sorvolai, avevo sempre detestato le magre con la fissa per la linea. «Domenica prossima allora alle 9.30 da me, vi preparerò una colazione con i fiocchi», dichiarai determinata. «Grazie, non mancheremo», pronunciò Joël come risvegliatosi dal torpore. «Okay vi aspetto. Ciao ragazzi», salutai entrando in casa. Seguii il programma della giornata non pensando più a Joël né a Liza: appuntamento, capatina in ufficio e poi ritorno a casa per le 19.00. Il pomeriggio fu di fuoco, i clienti potevano diventare davvero una spina nel fianco. Il buio stava calando e l’aria rinfrescando, era una serata piacevole. Vidi uscire dal portone un omino un po’ calvo e paffuto, con i baffetti brizzolati, che portava a so un cagnolino. Quello doveva essere uno degli inquilini del palazzo che mancava alla mia lista di conoscenze, ma ero troppo stanca per approfondire in quel momento. Appena rientrata mi tolsi le scarpe, i tacchi mi demolivano anche solo per mezza giornata.
Andai verso la cucina, presi un bicchiere e una bottiglia di vino e, con andamento cadente, andai verso il divano, dove abbandonai completamente ogni decoro, stravaccandomi come una pigrona. Mi aprii la giacca e mi misi comoda. Con il calice di rosso in una mano e il cellulare nell’altra, iniziai a riposare le membra e a svagare la mente, ma l’idillio termino con visite improvvise. Un po’ scocciata, sentendo il bussare alla porta, mi alzai, mi levai completamente la giacchetta ormai stropicciata e rimasi in blusa. «Chi va là», tuonai come il guardiano di un castello. «Ser Sébastien Duval», mi rispose a tono la persona dall’altro lato. Aprii e mi gettai al collo del mio caro amico. «Da quanto tempo non ti vedo, eh ragazzina?», esordì con un gran sorriso, abbracciandomi. «Lo so, lo so, non ci incrociamo mai.» «Non ho tue notizie da due settimane o più. A parte quello striminzito “grazie” per sms.» Chiusi la porta e lo feci accomodare. «Oddio Séb, ho avuto una marea di cose da fare e poi tu sei sempre in giro.» Sébastien guardò la bottiglia di vino sul tavolino di fronte al divano e il calice mezzo vuoto. «Da quando bevi da sola?» Prese il bicchiere e se lo portò alle labbra bevendone il contenuto. «Da quando ho voglia di viziarmi. Gradisci?», dissi ironica indicando il vino che già stava tracannando. «Con piacere», sorrise lui accomodandosi come se fosse a casa sua. Andai verso l’angolo cottura e presi un secondo bicchiere. Sébastien era un ragazzone di trentacinque anni, alto, massiccio, ma di una
raffinatezza e dolcezza infinita. I suoi occhi nocciola con sfumature verde muschio erano incorniciati da folte ciglia da bambola, guardarli era come trovare la pace. Il viso era ovale dai contorni delicati, il naso era un po’ pronunciato e la bocca era ben delineata, con il labbro inferiore leggermente più pieno del superiore. Aveva l’aspetto del classico bravo ragazzo. «Dunque, com’è la vita solitaria?» «Un casino devo dire. Faccio il possibile per non sporcare e per non dover sfacchinare per pulire. Mangio spesso per strada o mi riduco a latte e biscotti», confessai. Sébastien abbozzò un sorriso, in quel modo amabile e unico che fa sentire a proprio agio una persona anche quando straparla raccontando sciocchezze o fatti imbarazzanti. «Avresti potuto invitarmi per inaugurare l’appartamento», rimproverò bonario guardandosi intorno con la coppa di vino in una mano. «Le hai affisse tutte?», domandò infine. Intuii si riferisse alle stampe. «Certo, finché avrò un angolo di muro libero le appenderò tutte», rimarcai. «Hanno il loro fascino», commentò. «Vero. Comunque, scusami se non ho pensato a festeggiare e se non ti ho coinvolto in questa mia nuova avventura.» «Non devi scusarti, però da quando ci conosciamo abbiamo sempre condiviso i momenti importanti con una bevuta, una festa o una serata fuori, mi è dispiaciuto non sentirti.» «Hai ragione, forse dovremmo organizzare qualcosa.» «Fammi sapere quando e sarò disponibile.» «Oh, ma che dolce!», esclamai abbracciandolo. Sébastien era sempre il primo a sostenermi o ad avere una parola carina per me. La nostra conoscenza è cresciuta poco alla volta e non nego che all’inizio ero infatuata di lui, ma avevo lasciato
scemare i miei sentimenti per non rovinare la nostra collaborazione sul lavoro e poi, lui, non aveva mai mostrato un interesse romantico nei miei riguardi. «Ehi Kylie, ora devo andare, ho da controllare dei progetti per domani.» «Capisco, ti congedo Séb», diedi il mio benestare. «Conosco la strada, resta seduta okay?», disse mettendosi in piedi e facendomi un grattino sulla testa spettinandomi i capelli. «Ciao Séb», salutai con la mano. «Notte bimba.» Ero più piccola, più bassa, più smilza di lui: al confronto ero proprio una bimba, ma era lui quello fuori misura! La porta si chiuse e mi distesi completamente sul sofà. Guardai il soffitto e cercai interiormente la forza di alzarmi e andare a mettermi a letto, ma non ci riuscii. Il giorno dopo, mi svegliai a causa di strane urla e l’abbaiare di un cane. Afferrai il cellulare ed erano le 6.00 del mattino. Nella mia testa aleggiò un: are you fucking kidding me? «Che diavolo succede, sono impazziti?», tentai di sbraitare ancora intorpidita. Mi alzai svogliatamente e, scalza e stropicciata, andai a vedere cosa stesse succedendo. Aprii appena la porta e mi fermai sulla soglia. «Monsieur Toussaint, vedo che è tornato!», esclamò Joël. «Scusami ragazzo, ieri si è rotta la muola e stamattina Muffin doveva fare i suoi bisogni. Andrò a comprarne una nuova in giornata.» «Questo piccolo quadrupede si chiamerà anche Muffin ma è una belva!», ribatté Joël. Vidi il barboncino della sera prima abbaiare insistentemente contro Joël che era in completo e stava rientrando.
«Che hai dormito in ufficio?», domandai. Lui fece spallucce. Improvvisamente il cucciolo corse verso di me. Il suo abbaiare divenne sommesso e amichevole: iniziò a guaire e farmi le feste. «Ciao bello!», salutai carezzandogli il capo. «Buongiorno signorina, mi spiace averla svegliata.» «Non si preoccupi.» Il cane iniziò a fissarmi e a scodinzolare. «Signore, il suo cane inizia a inquietarmi. Cosa si aspetta che faccia?» «Nulla signorina, a quanto pare lei piace a Muffin», spiegò l’anziano. «Ah che onore!», affermai. «Monsieur Toussaint, cerchi di tenere a bada questa piccola belva», disse Joël indicando il cagnolino. In quel momento io e Joël ci scambiamo un paio di sguardi fuggevoli, come se fosse un delitto guardarci, come se stessimo commettendo un peccato capitale. Non capivo, proprio non capivo il perché di questo cambiamento, sembravamo così in sintonia. Cosa c’era tra lui e l’inquilina dell’attico? Perché sentirsi improvvisamente colpevoli e a disagio? Rientrai e cercai di riposare almeno un’altra oretta: era troppo presto per ragionare. La giornata non era iniziata nel migliore dei modi e come se non bastasse il lavoro a martellarmi, di ritorno a casa, alle 19.00 di sera, mi toccava mettere in ordine l’appartamento. Avevo il bucato da fare perché ormai non sapevo più cosa indossare. In casa non avevo lavatrice e asciugatrice, ma fortunatamente nel seminterrato dello stabile vi era una lavanderia a disposizione dei condomini.
Presi un cestello e con cura disposi gli abiti da lavare. Mi infilai i pantaloni della tuta, una canotta e una felpa, e scesi nello scantinato. Era vietato lasciare i vestiti incustoditi, ma sinceramente non mi andava di aspettare la fine del ciclo, così tornai di sopra. Vidi entrare i due anziani coniugi Toussaint dal portone, mi fecero un mesto sorriso e con il loro scodinzolante cane, si avviarono verso le scale. Tornata in casa pulii il pavimento grossolanamente e spolverai qua e là. ata un’oretta tornai in lavanderia. Svoltai l’angolo e, quasi, mi scontrai con Liza. «Ehi!», esclamai sorpresa. «Ciao. Anche tu con il bucato stasera? Allora è tua la roba di sotto.» «Sì. Ogni tanto mi tocca», sbuffai. «Io cerco sempre di non rimanere in arretrato con le faccende», sorrise. «Fai bene», commentai breve. «Ascolta, tu sicuramente abiti da più tempo di me in questo palazzo, cosa mi sai dire degli inquilini?», domandai cercando di carpire informazioni su Joël. «Oh, i Toussaint sono un amore mentre l’appartamento al terzo piano è in affitto, cambia spesso locatari.» «Oh, ho capito», esclamai delusa. «Okay ti saluto, metto la biancheria ad asciugare e riprendo la mia seratina da allegra massaia», continuai. «A presto, Kylie», rispose affabile. Gettai un occhio al suo bucato, in alto c’era un camice bianco che copriva il resto degli indumenti. Andai in lavanderia e spostai il bucato in asciugatrice, avrebbe impiegato un’oretta ad asciugarsi così feci la spola tra seminterrato e appartamento. Ad asciugatura ultimata, misi tutto nel cestello e mi accinsi a tornare di sopra. Improvvisamente, sulla porta, comparve Joël, sembrava aver fatto le scale di corsa. Era in t-shirt e la maglia gli fasciava delicatamente i pettorali e la vita
evidenziandone le linee. «Ehi, tutto bene?», domandai. «Sì. Credo sia rimasto il mio tesserino in una delle lavatrici. Non è che l’hai visto?» «Uhm, no.» Feci cenno anche con il capo. L’occhio di Joël cadde sulla mia biancheria. Non ero tanto accorta come Liza, avevo messo tutti gli indumenti alla rinfusa e il caso volle che in alto spiccasse il mio perizoma portafortuna rosso sgargiante. Non ero solita mettere intimo di quel colore , ma lo usavo per incontri importanti o situazioni che richiedessero una particolare dose di buona sorte. L’espressione di Joël si fossilizzò, tra l’accigliato e il divertito. Io, invece, stavo prendendo il colore del mio underwear. «Ehm, sì ti conviene controllare anche l’asciugatrice, non si sa mai», cercai di distoglierlo. «Sì lo farò», assentì, alzando l’indice in modo da enfatizzare la sua affermazione. Mi ò accanto e approfittai per nascondere sotto una maglia quel capo imbarazzante. «Ehi, senti un po’, cos’hai contro Muffin?», chiesi. «Contro chi?», disse Joël con la testa in un oblò. «Muffin, il cane!» «Ah, io non ho nulla è lui che mi odia! Non fiata mai, ma quando mi vede si rianima», sostenette sbucando dalla prima lavatrice. «Forse sente che non ti piace e reagisce di conseguenza.» «In effetti, non ho un gran feeling con gli animali», ammise. «Ne hai mai avuto uno?»
«No, non me l’hanno mai permesso. I miei genitori sostengono che i cuccioli siano solo fonte di sporco: perdono pelo, fanno i bisogni, sbavano e sono troppo rumorosi per esser tenuti in casa.» «Ferrei i tuoi genitori.» «Sì e anche germofobici», sorrise mettendo in mostra i suoi bianchissimi denti e gli zigomi alti. «Ah eccolo!», strepitò vittorioso con un tesserino plastificato tra le mani. «Grandioso!», esclamai. Insieme tornammo ai piani superiori. Giunta al mio appartamento lo salutai. «Ci vediamo Joël.» «Ciao Kylie e… bel perizoma», ridacchiò salendo i primi scalini. «Ehi!» Mi voltai offesa per qualche strano motivo. «Dico davvero, il fiocco posteriore sul filo rosso è un dettaglio delizioso», puntualizzò, dando un bacio all’aria con il tocco delle dita. «Ma dai, sei proprio antipatico!», sbottai, aprendo la porta di casa per nascondermici dentro. «Sono così cordiale», obiettò sempre col sorriso cercando di trattenere una ancor più dispettosa risata. «Beh, sei poco carino a far presente che hai notato il mio intimo.» «Forza, che vuoi che sia?» «Oh certo, non è della tua biancheria che stiamo parlando!» «Io ho un paio di boxer neri aderenti, se vuoi posso mostrarteli.» «Che cosa?», pronunciai stridula diventando paonazza.
«No, non intendevo quello che hai potuto intendere… Cioè, non volevo dire quelli che indosso, non era un’avance sessuale, credimi! Perdonami!», iniziò a blaterare confuso, agitandosi nel tentativo di spiegarsi. Almeno depose il sorriso divertito e compiaciuto di poco prima. «Okay, okay, d’accordo! Ho capito. Buona serata», salutai ancora stordita. Chiusami la porta alle spalle, non potei fare a meno di pensarlo in boxer neri aderenti con quel fisico modellato alla perfezione e tutte le linee sinuose del corpo maschile in mostra. Scossi la testa. Dovevo smetterla. Ma da quanto tempo non stavo con qualcuno?
Capitolo 4 Non è come sembra, è molto peggio.
L’ultima relazione seria era finita un anno prima, più o meno, e durava da circa due anni. Stavo con un ragazzo davvero in gamba, un omaccione alto, spalle larghe e fisico possente. Era impiegato in una ditta di forniture d’ufficio. Una persona molto tranquilla e posata che i primi tempi placò anche me, sempre iperattiva e anche un po’ matta. Quando iniziai a lavorare in agenzia come grafico, cominciò a diventare asfissiante e piuttosto geloso. Non capiva il mio lavoro, non comprendeva il perché perdessi tempo dietro una professione, secondo lui, non matura, così aumentarono le discussioni e le divergenze di opinione. Quando presi parte a un progetto più impegnativo, iniziai a intrattenermi in ufficio oltre l’orario di lavoro in compagnia del mio supervisore, Sébastien. Una sera, il mio fidanzato dell’epoca venne a trovarmi e ci beccò insieme a parlare e a ridere e, pensando a chissà cosa, entrò in ufficio strepitando come un pazzo. Fu l’esperienza più umiliante della mia vita, anche peggio della storia del perizoma rosso. Mancava solo che venisse alle mani, attaccando un Sébastien a dir poco sbalordito. Allora, presi in disparte il mio compagno e discutemmo. «Io non voglio che mia moglie lavori, soprattutto fino a tardi con un uomo che potrebbe approfittare della situazione!», esclamò gesticolando. «Che cosa? Moglie? Vuoi che non lavori? Andiamo per gradi Maurice!» «Voglio sposarti Kylie e voglio che mia moglie si dedichi alla famiglia, una famiglia numerosa.» Deglutii. «Vuoi che io non lavori? Vuoi che resti a casa a fare la casalinga disperata dietro una squadra di bambini mentre tu fai carriera? Inoltre, in che epoca vivi? Quello lì è un mio collega, dannazione! No, io non voglio questo, non ho studiato per fare solo la mamma, dovrei rinunciare ai miei sogni per il tuo desiderio di
famiglia? Non hai pensato neanche a propormi un compromesso o quanto meno ad avvisarmi dei tuoi progetti? Io per ora non ci penso proprio al matrimonio e a scarrozzare bambini nella mia pancia!» «Pensavo che fossimo sulla stessa lunghezza d’onda.» «Pensavi male.» La nostra storia terminò con quella sfuriata e Maurice sembrò accettare la fine della relazione scomparendo nel nulla. Dopo un po’ ricomparve in vie amichevoli, presentandosi anche a casa con fiori o cioccolatini. Era un bravo ragazzo ed era rimasto in buoni rapporti con la mia famiglia, anche perché gestiva gli ordini di cancelleria e attrezzatura per gli uffici di mio padre. Dopo di lui, non ho avuto altre relazioni serie, forse anche per lo shock, ma ero felicemente single, dedita al lavoro e alla gestione del mio primo appartamento. Avevo conquistato una certa indipendenza e stavo bene così. Certo, ogni tanto cedevo al fascino maschile, ma non cercavo un impegno, non per forza almeno. Finita la settimana, nel weekend mi dedicai alla spesa. Domenica mattina avevo la tanto attesa colazione con i miei vicini dei piani alti e volevo non mancasse nulla. Decisi di invitare anche Sébastien, di solito dormiva fino a tardi la domenica perché il sabato sera andava in discoteca o a bere fino all’alba, ma tentar non mi avrebbe nuociuto e, difatti, Séb accettò, anche se magari sarebbe arrivato in ritardo. Quella mattina preparai tutto, allestii il tavolo da caffè in modo impeccabile, preparai l’impasto per i pancakes, gli sciroppi, la panna fresca, che montai appositamente per evitare quella spray poco saporita, e comprai anche i riccioli di cioccolata per abbellire le pietanze: scaglie al cioccolato fondente e bianco, che avrebbero risaltato sul marroncino chiaro della cioccolata in barattolo. Alle 9.30 ero pronta ai fornelli, ma i miei vicini non si fecero vedere. Alle 10.00 iniziai a preoccuparmi: che si fossero dimenticati? Per avere conferma o smentita, andai dai diretti interessati. Stavo per bussare alla porta di Joël quando sentii delle urla e mi stoppai repentinamente. A tuonare dall’altra parte era la voce di una donna. Il tono era molto arrabbiato e il timbro della voce mi faceva pensare a una persona matura.
«Joël André Charrier, cosa diavolo ti è saltato in mente?» «Questi sono affari miei, mamma!» «Tuoi? Tuoi? E alla tua famiglia non ci pensi?» «Non credo abbiate voce in capitolo!» «Certo che ce l’abbiamo. Perché è del nostro patrimonio che si parla. Delle nostre fatiche! Il solo pensiero che possa finire nelle mani di una contadinotta ci fa rabbrividire!» «Io non voglio i vostri soldi Madame Charrier», intervenne una debole voce. Era Liza e sembrava mortificata. «Allora perché sposarsi in Costa Azzurra? Perché fare tutto di nascosto?» «È stata un’idea mia, mamma», affermò Joël. «Tu sei uno stupido! Da quanto la conosci, eh? Avete mai parlato seriamente di un futuro insieme? Provenite da due realtà diverse, come vi è saltato in mente di anticipare tanto i tempi?» Ero rimasta come pietrificata davanti alla porta di quell’appartamento. Joël e Liza erano sposati? Joël non aveva nessun anello e poi vivevano in due appartamenti separati da quel che avevo capito. Il mondo non mi cadde addosso perché tra me è Joël c’era solo una simpatia e oltre ai suoi sguardi, alle sue frecciatine e alla tensione sessuale che percepivo, non avevamo nulla di concreto, cioè io non avevo nulla di concreto per poter fantasticare su di noi. No, non c’era un noi, solo un “io” e “lui”. «Ora basta mamma, non starò qui a discutere della mia vita sentimentale con te o con papà!» «Mi stai cacciando?» «No signora, vado via io, così può parlare tranquillamente con suo figlio», disse
Liza affranta. Sentii dei i avvicinarsi, così pensando che Liza stesse per uscire, mi precipitai verso le scale per non farmi trovare a origliare. Mi rintanai nel mio appartamento in men che non si dica con la tachicardia. Mi lasciai scivolare sul pavimento sedendomi per terra con la schiena contro la parete. Sospirai. Un attimo di silenzio prima di esser sorpresa dal bussare alla mia porta. Sgranai gli occhi. Possibile che qualcuno mi avesse visto? «Kylie, sono Liza.» «Arrivo», recitai come se fossi chissà dove. Feci dei i sul posto per simulare il mio avvicinarmi e poi le aprii. Ero ridicola! «Ciao, pensavo non arrivaste più», esordii cercando di sembrare naturale. «Oh Kylie, sono distrutta», dichiarò con voce addolorata. Era strano per me vederla così sconsolata, mi appariva sempre solare e piena di vita e trovarmela di fronte spenta e infelice mi appesantì il cuore, mi sentivo in colpa per aver fatto pensieri peccaminosi su suo marito. Già, marito! «Dai siediti.» La feci accomodare. «Hai bisogno di qualcosa?», aggiunsi apprensiva. «Forse un tranquillante o forse un antidepressivo, o forse una suocera che non mi odi!», pronunciò nevrotica iniziando a piangere. «Spero ti basti una camomilla», proferii andando verso il cucinino. Con l’infuso caldo, presi posto accanto a lei e posai la tazza tra le sue mani. Quell’anellino argentato brillava troppo per essere insignificante, forse era oro bianco. «Allora, vuoi raccontarmi cosa è successo?», la spronai a sfogarsi. «Questa mattina ci stavamo preparando per venire da te, ma la madre di Joël ci ha fatto un’improvvisata. Io la conoscevo solo di vista.» Liza parlava dando per scontato che io sapessi del loro matrimonio.
Probabilmente pensava che il suo compagno mi avesse reso partecipe della loro unione. No, non l’aveva fatto l’idiota! «E…», articolai per darle l’attacco e continuare il discorso. «E lei non è contenta di noi. Pensa stia con Joël per i suoi soldi, ma io lo amo non mi importa del suo conto in banca.» «Mi spiace, deve essere una brutta situazione.» «Non dovevamo agire così d’impulso, abbiamo solo peggiorato la situazione.» «Che vuoi dire?» «Siamo andati in Costa Azzurra per una vacanza e, un po’ brilli, abbiamo deciso di sposarci non dovendo giustificare nulla a nessuno. Siamo marito e moglie da un mesetto anche se ci frequentiamo da tempo, ma i nostri rispettivi genitori non si sono mai incontrati. La madre di Joël pensa che io sia una contadinotta che vuole fare la gran donna di città.» «Perché la signora è così malpensante?», brontolai. «Già non mi vedeva di buon occhio quando io e il figlio lavoravamo insieme in clinica. Abbiamo decisamente sbagliato con la nostra fuga d’amore.» «Non lavorate più insieme?» «No, per non dare alito a cattiverie e pettegolezzi, ho cambiato luogo di lavoro, ora sono in ospedale, reparto pediatria.» «Sei contenta di aver stravolto la tua vita?» «Sai una cosa? Sì. Amo Joël e in ospedale mi trovo molto meglio. Una clinica per interventi quasi esclusivamente estetici è frequentata da persone molto superficiali ed egoiste, e non mi piaceva rapportarmi con gente di questo genere. Ci stavamo anche organizzando per andare a trovare i miei genitori in Bretagna e spiegare loro la situazione. Sono molto religiosi, potrebbero uccidermi per questo matrimonio fuori programma», disse stringendo la croce al collo. «E tu non lo sei. Deduco…»
«No, non come loro», confermò. «Uhm, sei coraggiosa io non so se sarei riuscita a sposarmi all’improvviso e a raccontare l’accaduto ai miei genitori.» A quelle parole Liza scoppiò in lacrime. «No, no, no. Andrà tutto bene!», esclamai cercando di rimediare alla mia boccaccia sincera. «Su, bevi, ora ti preparo anche qualcosa di solido da mettere nello stomaco, gli zuccheri faranno effetto e ti riprenderai in un baleno!» Bussarono nuovamente alla porta. Servii al volo un paio di pancakes a Liza e andai ad aprire. «Ciao, Liza è qui?», domandò Joël preoccupato. «Sì, sta mangiando qualcosa. Vieni, accomodati», dissi lieve, con amarezza e distacco. Non avevo motivo di avercela con lui, eppure lo avrei preso a schiaffi. Joël sospirò, si sentiva in difficoltà, glielo leggevo in faccia. «Tua madre?», sollecitò Liza. «Andata via. Ti va se torniamo di sopra e parliamo?» «Sto facendo colazione con Kylie, non sarebbe carino», obiettò quasi offesa. Forse era in collera con Joël per non averla difesa con vigore, o forse si aspettava che non la lasciasse uscire, o forse… Non ne avevo idea. Servii i pancakes davanti a Joël. «Mangiate tranquillamente, io approfitto per dare una sistemata nell’altra stanza», dissi andando verso la camera da letto e chiudendo la tenda verde menta che separava gli ambienti. «Mi spiace Liza. Ho calmato mia madre e ti ho raggiunto appena ho potuto.» «Grazie del pensiero! Potevi intervenire in mio favore con più grinta, sembravi così ivo di fronte a lei!»
«Ero sorpreso e sconvolto, è stato tutto così veloce.» «Come posso convincerla che non sono interessata ai tuoi soldi?» «Un modo ci sarebbe.» «Ovvero?» «Un contratto post matrimoniale.» «Che cosa? Oddio, non ci posso credere. Siamo a questo punto?», urlò. «Sssh. Calmati.» «D’accordo, firmerò quello stupido contratto!», accettò stridula lei. Improvvisamente si zittirono. Forse si stavano abbracciando o, peggio, baciando. «Kylie, vieni su, facciamo colazione», mi chiamò Liza rasserenata. Tornai dai miei amici, finii di preparare i pancake e li mangiammo insieme, annaffiandoli con un bel po’ di caffè… e camomilla! In quell’atmosfera improvvisamente calda e accogliente pensai: dove diavolo è finito Sébastien? Mi sentivo il terzo incomodo!
Capitolo 5 I peccaminosi noodles
Dopo la colazione drammatica a base di pancakes, dove Séb mi diede buca perché troppo assonato e dove i due piccioncini dei piani alti fecero pace, io e Liza diventammo molto amiche. Spesso la sera scendeva al piano di sotto per bere una tazza di tè e raccontarmi della sua giornata o semplicemente per sfogarsi. Scoprii che prima l’attico era abitato da Joël mentre l’ultimo piano da Liza. Dopo il matrimonio Joël si era trasferito da lei, allestendo uno studio nel sottotetto. Il ragazzo era un gran partito e compresi quindi l’origine dei dubbi di sua madre. Joël era di buona famiglia, il padre era un chirurgo estetico che da subito si era distinto per abilità e professionalità. In poco tempo, anche grazie a una buona dose di fortuna e a parola, aveva messo su uno studio privato, investendo in seguito in una clinica con più dottori e più agi. La moglie, di ceto medio-basso, era una studentessa di medicina che in seguito aveva lasciato gli studi a causa dei costi elevati. I genitori si erano incontrati proprio durante i corsi universitari. Liza poteva sembrare una provincialotta arrampicatrice sociale, ma aveva studiato, lavorava, e aveva modi molto fini. Madame Charrier doveva solo esser fiera di una nuora così. Joël e io ci vedevamo di tanto in tanto in lavanderia o sul pianerottolo, chiacchiere convenzionali e un rapporto amichevole che parve perdere la “chimica” iniziale. Quella sera, di ritorno dall’ufficio, mi fermai a prendere la posta e lo incrociai accanto alla buca delle lettere. «Ciao, come va?», salutai vispa. «Ehi, tutto bene. Insomma…» «Tutto bene e insomma non sono un po’ discordanti?», sorrisi con alcune lettere
tra le mani. «Sì, lo so. Sono un po’ agitato per questo weekend.» «Vuoi parlarne? Magari posso aiutarti. Tranquillizzarti», mi offrii. «Oh, certo, mi aiuterebbe. Non saprei con chi parlarne, tutti i miei amici lavorano con me e non voglio si lascino scappare una sola parola in clinica. I miei genitori hanno occhi e orecchie ovunque.» «Se vuoi, dopo cena puoi are con tua moglie.» A quelle parole Joël si irrigidì. «Non posso parlarne neanche con lei e comunque ha il turno di notte. Mi farò un panino e poi magari tornerò a farti visita.» «Ti inviterei a cena ma questa sera ho solo noodles da fare in brodo o in padella.» «Oh, io adoro i noodles, soprattutto saltati con verdure.» «Davvero? Beh, ne ho una valanga, puoi metterti comodo e raggiungermi tra una mezz’ora, magari un’ora, quando vuoi», farfugliai veloce. Joël sospirò e mi regalò un ampio sorriso. I suoi occhi parvero illuminarsi, come se sorridessero anch’essi. «Allora a dopo», disse salendo di corsa le scale. Mossi la mano e stridei qualcosa che doveva essere un saluto. Rientrata in appartamento fui presa dal panico. Mi dovevo vestire, non indossare una tuta ma neanche mettermi in tiro, dovevo sembrare “naturale”. Okay, qualcosa avrei trovato. Poi avrei dovuto tagliare a julienne una zucchina e un paio di carote. Avevo ancora qualcosa in frigo? Che memoria del cavolo! Respirai a pieni polmoni e ragionai con calma. Potevo farcela, era solo una cena con un amico. Dopo la doccia, con l’asciugamano intorno al corpo andai vicino al cassettone,
aprii quello dell’intimo e in mezzo alle tonalità pastello spiccava il sottile filato del perizoma scarlatto. Non so perché, forse volevo un po’ di fortuna quella sera, ma lo afferrai e lo indossai. Poi calzai un leggings e una maglietta lunga monocolore lilla scuro. Mi rimboccai le maniche, infilai il grembiule da cucina per darmi un tono e non sporcarmi, e poi presi gli ortaggi dal frigo. Poco dopo le mie peripezie con il taglia-verdure, bussarono alla porta. Era arrivato. Mi sciacquai le mani e ancora con il panno da cucina tra le mani, andai ad aprire. «Accomodati!», esclamai emozionata. «Grazie», sorrise quasi imbarazzato. Vogliamo cenare al bancone, al tavolino o come preferisco io: sul tappeto schiena poggiata al divano e TV frontale? «Molto informale, mi piace la terza proposta! Vivo già abbastanza ingessato che questi momenti sono il massimo per me.» «D’accordo», assentii e iniziai a prendere tovagliette e posate da mettere sul tavolino da caffè. «Faccio io», disse venendo a prendersi le stoviglie dalle mie mani. Le dita si sfiorarono appena ma quel contatto fu piacevolissimo. Avvertii come una scintilla. «Grazie», pronunciai in un soffio e andai di nuovo ai fornelli. Presi i noodles dalla dispensa, una padella larga e iniziai a metter tutto sul fornello. «Cosa beviamo?», chiesi restando di spalle. «Direi birra giapponese, ma dubito tu ne abbia», scherzò Joël. «Ho una birra occidentale, va ugualmente bene?» «Mi accontenterò», sostenne giocoso sedendosi per terra. Indossava una camicia
bianca dalla linea morbida, i primi due bottini erano aperti e i polsini slacciati e tirati su sino al gomito. Sembrava tranquillo e rilassato. La pasta fu pronta in dieci minuti circa, impiattai e lo raggiunsi al tavolino. «Ecco qua, adoratore di noodles.» Lo servii. «Ottimo, non ne mangio da una vita.» «Come mai?» «Liza non sopporta il cibo stravagante, soprattutto spezie e pietanze orientali. Infatti, evitiamo come la peste il quartiere ebraico e tutte le viuzze suggestive di Place des Vosges che sono impregnate di odori forti e particolari.» «Un vero peccato», sentenziai. «Sai, so usare anche le bacchette», dichiarò fiero. «Ah sì? Allora voglio metterti alla prova.» Presi una coppia di bacchette e gliele porsi. «Prego, dimostramelo», lo esortai. Con fare smorfioso, Joël scartò le bacchette, mi mostrò come impugnarle e iniziò a mangiare. «Wow! Sei un dannatissimo mago!», esclamai e Joël per poco non sputò fuori il boccone per ridere. Afferrò il tovagliolo e se lo portò alla bocca, poi tossì. Gli versai immediatamente della birra. «Ehi, tutto bene?» Mi avvicinai automaticamente, ponendogli un braccio dietro la schiena. «Sì ma non farmi ridere mai più mentre mangio, una volta uno spaghetto mi uscì dal naso per questo scherzo!» «Cosa?», iniziai a ridere incredula. «Non ci credo!» «Ti assicuro che è vero e non è stato divertente!»
Cenammo in un discreto silenzio con la televisione come sottofondo. «Allora», esordii. «Vuoi dirmi cosa ti preoccupa?» Joël si volse verso di me e sembrò riflettere un istante. «Questo weekend andrò in Bretagna con Liza per conoscere la famiglia. Sono tradizionalisti e ho un po’ paura della loro reazione.» Investita di tutta la calma di questo mondo, posai una mano sulla sua spalla. «Vedrai che andrà tutto bene, sei un ragazzo d’oro e lo capiranno», pronunciai spontaneamente con un’inflessione mielosa nella voce. «Grazie, lo pensi davvero?», si accigliò stupito. «Certo!», dichiarai con decisione. «Una volta superato l’ostacolo del matrimonio solitario, ti adoreranno!», punzecchiai. «Oddio è terribile!» Si prese la testa tra le mani. «A proposito, come mai non porti la fede?», chiesi di getto. «La porto», disse aprendo la camicia di un altro paio di bottoni. Così vidi una catenina lunga con l’anello posto come ciondolo. «Non la indosso quando dormo, ma la porto sempre. Alla mano è fastidiosa per me, perciò ho trovato un’alternativa.» Mi venne da pensare che, forse, la fede alla mano non fosse tanto fastidiosa in quanto oggetto fisico ma, più che altro, il suo essere simbolo rivelatore. Un segnale pesante da gestire. Ma magari mi sbagliavo e per lui era solo un semplice impiccio. «Fatti forza e procurati una zampa di coniglio», lo presi in giro. «Che dovrei farci?» «Si dice porti fortuna…» «Vuoi farmi credere che tu hai un portafortuna?», domandò.
Avvampai imbarazzatissima. «No», mugugnai alzandomi e sparecchiando. «No, no, ora confessi.» Mi raggiunse all’angolo cottura. «Okay, sì ho un portafortuna», ammisi mordendomi il labbro come per punire la mia bocca larga. «Sarebbe?», insisté lui curioso di fronte a me. Divertito da quella scoperta. «Un perizoma rosso», dissi tra i denti con un filo di voce. «Come scusa?» «Un perizoma rosso!», sbottai sentendo la terra aprirsi in due per inghiottirmi. «Oh, quindi il perizoma che ho visto era il tuo ninnolo fortunato? Non credo che a me starebbe bene», rise. «Smettila di fare il cretino! Lo uso solo per “situazioni” importanti, mi fa sentire più sicura!», dichiarai iniziando a colpirlo a mo’ di frusta con il cencio per asciugare i piatti. «Ohi, ohi, basta ho capito», disse arrendevole ma poi si ribellò bloccandomi le mani e spingendomi verso la parete. Senza accorgercene ci trovammo vicinissimi, io spalle al muro e lui talmente vicino da percepirne la pelle. Il gioco si era fatto duro e inaspettatamente non solo il gioco, giacché avvertii “qualcosa” verso il basso. Prima che potessi accertarmene, Joël scattò indietro e andò verso l’ingresso. «Devo andare, si è fatto tardi ho delle carte da esaminare, grazie per la cena!», pronunciò d’un fiato chiudendosi la porta alle spalle. Io ero rimasta mani in aria con lo straccio tra due dita e strani formicolii al basso ventre. No, era sbagliato! Non dovevo pensare a lui in quel modo… Dannazione!
Capitolo 6 Versioni diverse
Dopo quella sera non rividi Joël, ma sapevo che sarebbe andato fuori per il weekend così non mi stupii più di tanto e non pensai che mi evitasse di proposito, anche se sarebbe stato plausibile. La domenica sera di quel fine settimana, dalla finestra vidi scendere Liza dall’auto, capii che erano tornati. Ero indecisa se aspettare che Joël parcheggiasse e incontrarlo casualmente sul pianerottolo o lasciar perdere e non forzare le cose. Decisi di affidarmi al caso ma il destino fu assai spiritoso e verso le 22.00 io e Joël ci incontrammo al bidone dell’immondizia entrambi con i sacchi della spazzatura da gettare. «Ehi», salutai. «Ehi», rispose mesto, quasi triste. «Tutto bene?» «Sì, credo di sì. Insomma…» «Sempre contradditorio tu.» «Scusa, non mi va di parlarne.» Gettò i rifiuti e tornò verso il palazzo. Feci spallucce, buttai anche il mio sacchetto e tornai in casa a lavorare su una fotomanipolazione, dimenticandomi di Joël e i suoi comportamenti strampalati.
Il giorno dopo in ufficio fu il delirio a causa di un nuovo cliente sbucato dal niente e con delle pretese assurde. Io ero già oberata di telefonate da fare e accordi da prendere per potermi interessare oltre alla faccenda. Prima di tornare al mio appartamento, andai a prendere un drink con Sébastien. Ci vedemmo in
un locale moderno, superfici lucide scure e luci chiare: era carico di riflessi e forse, eccessivamente brillante. «Ciao Séb, che giornataccia», cominciai. «Il lunedì non è mai piacevole», sentenziò. Ordinammo due cocktail e ci mettemmo comodi al bancone. «Stavo pensando di lasciare l’ambito grafico, non riesco più a tenere certi ritmi.» «Cosa? Non mi puoi mollare», obiettò. «Non vorrei, mi piace tantissimo lavorare in agenzia, ma iniziano a mancarmi le forze.» «Se riuscissi a farti avere un contratto a tempo indeterminato e più rilievo? Ci penseresti su?» «Mia madre non la prenderebbe bene, per lei questo settore è un gioco.» «Non prendere decisioni affrettate, okay?», mi pregò poggiando una mano sulla mia. «D’accordo.» Bevemmo ancora, sgranocchiamo qualcosa e poi ci ritirammo alle nostre rispettive dimore. Inaspettatamente trovai Liza alla mia porta con un vassoio. «Ciao, ti ho portato un kouign-amann per addolcirti la serata», esordì. Alzai un sopracciglio. Che cosa voleva rifilarmi? «Oh, ma grazie», dissi avvicinandomi alla porta con le chiavi in mano. «Lo ha fatto mia madre, è davvero brava con i dolci», spiegò. «Accomodati», la invitai. Aveva un sorriso che partiva da un orecchio e terminava all’altro, capii che voleva parlarmi di qualcosa. Io ero davvero sfinita ma cercai di trattenermi dall’essere scortese. Mi tolsi la giacca, sbottonai un po’ la camicetta e andai verso la cucina.
«Ne mangiamo una fetta insieme?», proposi. «Volentieri», rispose esaltata. Ci sedemmo sugli sgabelli al bancone e, tra un boccone e l’altro, iniziò a raccontarmi del suo weekend. Quella specie torta di sfoglia era troppo dolce e burrosa per i miei gusti, ma ero stanca anche per inventare una scusa decente per rifiutarla. «Non so se lo sai, ma ho presentato Joël alla mia famiglia questa settimana ed è stato divino!» «Wow, congratulazioni!», esclamai con troppa enfasi, ma non si accorse della falsità delle mie parole. «C’è stato un po’ d’attrito per via del matrimonio non convenzionale, ma i miei genitori hanno adorato Joël e le mie sorelle lo venerano.» «Ah, hai sorelle», osservai. «Sì quattro, io sono la maggiore.» «Famiglia numerosa!» I miei vorrebbero che ricelebrassimo il matrimonio in fattoria, per coinvolgere il resto della famiglia. «Hai una fattoria?» «Sì, non te l’ho raccontato? Abbiamo galline, polli e maiali. Avevamo anche cavalli un tempo, ma mantenerli era costoso e non avevamo cuore poi di venderli o mandarli al macello, così abbiamo rinunciato all’allevamento. «Ah. Peccato. Quindi è andata bene, sono contenta. Joël come si è sentito?» «Coinvolto. Sembrava davvero felice, non ha smesso un attimo di sorridere e ridere con le mie sorelle.» «Fantastico.» Quindi, Liza era al settimo cielo per quel weekend, ma perché Joël non mi aveva
dato la stessa impressione?
Capitolo 7 Tutti desiderano la verità, ma poi non l’accettano
Ero davanti alla televisione dopo cena, stavo bevendo del liquore dolce e mi stavo completamente rilassando. Il mio binomio perfetto era alcool più divano soffice; in piacevole compagnia sarebbe stato meglio, ma mi accontentavo anche così, quando bussarono alla porta e mi chiesi se qualcuno da lassù non mi stesse ascoltato. «Ciao, scusami se piombo qui all’improvviso.» Mi sorprese Joël. «Stai tornando adesso dalla clinica?», domandai notando il suo abbigliamento formale. «Sì, in questi giorni cerco di restare a casa il meno possibile.» «Ti vedo teso. Vieni entra, lì sul tavolino c’è del liquore, credo ti serva per rilassarti.» Joël si mise a sedere si levò la giacca e allentò la cravatta. «Che succede?», sollecitai avvicinandomi. Ero indubbiamente curiosa e, sì, anche un po’ preoccupata. «So che non dovrei parlarne con te, non sono affari tuoi ma…» «Sputa il rospo», lo esortai. «Sai che sono stato in Bretagna, no?» «Certo.» Era la notizia principale della settimana. «Ecco. È stato atroce. Una famiglia opprimente che mette bocca su tutto. Sorelle impiccione e ciliegina sulla torta il tanfo della fattoria. Mi sono sforzato talmente
tanto di sorridere che mi facevano male le guance. I genitori di Liza sono adorabili ma hanno iniziato a parlare di figli, di prendere una casa lì, are le feste insieme e… No, io non sono pronto a questo.» «Oddio, ti capisco. Ho vissuto una cosa simile, certo non con maiali e galline al seguito ma…» «Ora Liza è presa da questa fantomatica festa nuziale che per me è inutile ed è solo per compiacere la sua famiglia. Non pensa a quanto sia avvilente il non avere anche la mia famiglia presente o almeno favorevole al nostro matrimonio? Penso tu sappia come siamo messi…» «Sì, Liza mi ha raccontato a grandi linee la vostra situazione.» «Che rabbia. Se tornassi indietro forse…», si stoppò improvvisamente, rendendosi conto di star per pronunciare parole infelici. «Devi confessarle quello che provi. Dille la verità e trovate un compromesso», consigliai sedendomi sul bracciolo del divano. «Ho paura che Liza non la prenda bene.» «Non hai scelta, Joël.» Il ragazzo abbandonò il cicchetto e si attaccò alla bottiglia. «Okay, te la regalo», dissi guardandolo torva mentre trangugiava il liquore. «Scusami sono distrutto!» «Lo vedo.» «Dei tuoi genitori che mi dici?», domandò. «Sono un tantino fissati con lo studio e l’educazione. Sono due persone molto razionali», risposi breve. Non c’era molto da dire su di loro e non volevo sbilanciarmi. «E tu sei l’artista, la pecora nera della famiglia?» «Quasi», sorrisi.
«Che fanno i tuoi?», indagò. «Lavorano insieme, mio padre è un costruttore e mia madre un’arredatrice», raccontai vaga, non mi piaceva parlare della mia famiglia. «Ah, ci vuol coraggio a lavorare insieme.» Joël prese un altro lungo sorso dalla bottiglia. «Torna a casa Joël, riposati», consigliai alzandomi e tirandolo su. Lo accompagnai alla porta e sul pianerottolo incontrammo Monsieur Toussaint e il suo Muffin con tanto di muola. Il cane come vide Joël cercò di aggredirlo anche se impossibilitato ad abbaiare. «Accidenti, prima o poi, chiederò che gli animali siano tenuti fuori dallo stabile!», s’irritò Joël. «Oh no Joël, non prenderla così male», si dispiacque l’anziano. «Al massimo buttano fuori te», dissi acida guardando Joël. «Ah preferiresti il cane a me?», si stupì lui, accigliato e divertito. «Lui ha un musino adorabile e per colpa tua ha una muola!» lo rimproverai assumendo una posa severa con le mani sui fianchi. «Senza quell’affare, me lo troverei attaccato alle chiappe!», precisò. «No, lui è tutto fumo è niente arrosto», intervenne Monsieur Toussaint. «Ecco, vedi Joël? Sei tu il problema», lo presi in giro. «Buona serata ragazzi, si congedò l’anziano.» Io e Joël ci guardammo fintamente in cagnesco, per restare in tema, e poi scoppiammo a ridere. «Buonanotte», lo salutai. «Notte e grazie…» Perché sentivo questo nefasto e inopportuno feeling con lui? Perché diavolo mi
interessavo alla sua maledetta vita matrimoniale? Come avevo fatto a diventare tanto amica di questi due scellerati che mi avevano preso come loro terapista personale?
Capitolo 8 Sbilanciarsi
In studio stavo rivedendo alcuni progetti proposti dagli stagisti, dare bacchettate correttive mi piaceva, era forse segnale di una ione per il sadomaso?
La settimana dal punto di vista lavorativo fu piena. Venerdì trovai una “bella” sorpresa sulla scrivania, un nuovo lavoro e non mi sarei mai aspettata di vedere quel nome sul fascicolo: Charrier – Beauté de Vénus. No, non poteva essere la famiglia di Joël. Non doveva esserlo. Ormai avevo concluso le mie ore di lavoro per cui decisi di rimandare a lunedì.
Tornata al mio appartamento trovai Joël sul pianerottolo. «Cosa ci fai qui?», domandai rallettando il o. «Sono nei casini.» «Di nuovo?», cercai di non ridere troppo e lasciarmi scappare solo una debole risatina. «Liza mi aveva chiesto dei biglietti per una fiera dedicata alle nozze e ai novelli sposi. Sai, oggettistica da cerimonia e per la casa da “perfetti sposini”.» Mimò le virgolette con le mani. Mi accinsi ad aprire la porta dell’appartamento ma le chiavi mi cascarono di mano. Mi accovacciai per raccoglierle e nel farlo il pantalone si abbassò di un paio di dita svelando il mio intimo. «Oh Kylie», sospirò come eccitato.
«Joël!», rimproverai tirandomi su e coprendomi. «Dai, che vuoi che sia vedere un perizoma, pensa che vedo gente in intimo, se non addirittura nuda, quasi tutti i giorni!», si giustificò. «Che centra? Significa che allora puoi vedere il mio perizoma perché tanto sei abituato? Oppure che magari puoi vedermi nuda senza batter ciglio?», replicai scontrosa. «No, credo che lì a batter sia un’altra cosa…» «Che sei ubriaco?» «Forse», confessò a metà. «Forse?», ripetei io. «Ho preso un paio di drink.» «Più di un paio direi.» Infilai le chiavi nella toppa e lo lasciai entrare. Joël si lasciò cadere sul divano, ormai era routine. «Allora, dicevi?», incalzai. «L’ho dimenticato.» «Cosa?», insistei. «Di comprarli. I biglietti. Ho dimenticato di comprarli e sono terminati.» «Mi spiace, è grave?» Lo guardai impietosita. «Si è arrabbiata da morire. Ha detto che non le presto abbastanza attenzioni, che penso solo al lavoro e che sono un insensibile», brontolò. «Prima di andare al lavoro mi ha fatto una sfuriata con tanto di lacrimoni. Cosa c’è che non va in me?», sbottò afflitto. «Oh Joël, si calmerà, vedrai», dissi versandomi da bere. «Mi sento il fallito della coppia. Non so come spiegarti, ma non sono mai all’altezza del suo amore, non do abbastanza e mi sento malissimo.» Si prese il
volto tra le mani chinandosi sulle ginocchia. «Oh…», commentai guardando il dispiacere oscurargli lo sguardo. Era davvero sconsolato. «Posso provare a recuperarteli io, un paio di biglietti», dichiarai senza pensare. Lui scattò in piedi dal divano. «Davvero?», enunciò avvicinandosi. «Posso provare», ribadii. «Un amico bazzica nelle pubbliche relazione e nell’organizzazione di eventi, magari ha qualche contatto», spiegai. «Oddio, te ne sarei grato», disse prendendomi le mani. I suoi occhi speranzosi si piantarono nei miei, in attesa di risposta. «Farò una telefonata», assicurai, anche se non ero certa di riuscire nell’impresa. «Ti lascio sola, fai quello che devi, quello che puoi!», pronunciò sgattaiolando fuori dal mio appartamento. Mi faceva piacere vederlo risollevato, ma ora mi toccava davvero fare quella telefonata.
Sul tardi, Sébastien mi raggiunse nel mio appartamento. «Eccomi Kylie», esordì dinanzi alla mia porta. «Mio eroe! Vieni, accomodati.» «Ho trovato un bagarino che ha dei biglietti per questa fiera e accetta di venderceli se andiamo lì e sganciamo una discreta sommetta.» «Oh, wow. D’accordo! Discreta quanto?», m’interessai. «Lo scopriremo. Su, prendi una giacchetta che è già tardi e la zona non è delle migliori», esortò Séb. Lo abbracciai appendendomi a lui come Cita a Tarzan. Sébastien rimase fermo come una statua poi mi abbracciò, ma in modo diverso: mi cinese lentamente, posando le mani sulla schiena con un tocco leggero e quasi sensuale. Una delicatezza nuova, accompagnata da una pressione delle dita
quasi impercettibile. Poi mi accarezzò le braccia facendo scorrere le sue enormi mani calde sulla mia pelle e mi staccò da lui. «Andiamo», ripeté. Infilai una maglia sopra la canotta, poi un giubbino leggero e, prendendo la borsa, filai fuori con lui. Dopo circa trenta minuti di auto, arrivammo nelle banlieue di Parigi, teatro di disordini e costituita per lo più di abitazioni popolari e locali mal ridotti. Tipi loschi erano piazzati a ogni angolo e scrutavano il aggio: mi davano i brividi. Ci addentrammo in un vicolo e bussammo a una porticina. Aprì un ragazzo ben piazzato anche se non muscoloso, con indosso una maglia a righe da carcerato a strisce bianche e nere e un pantalone di jeans stracciato e macchiato di grasso. «Ehi, ciao amico. Sei qui per i biglietti della fiera?» «Sì. Ce li hai, no? Mi avevi assicurato di averli», mise in chiaro Sébastien. «Li, ho», disse il tipo estraendoli dalla tasca posteriore dei pantaloni. «Sono centoventi euro», ghignò sventolandoci i davanti al naso. «Cosa? Ma è un furto», esclamai indignata scattando di un o in avanti. «Beh, potremmo raggiungere accordi diversi io e te, piccolina», proferì squadrandomi da capo a piede. In quel momento il mio viso si rabbuiò e assunse una smorfia di disgusto. Sébastien fece un o in avanti, mise un braccio tra me e l’uomo facendomi arretrare. «Vanno bene i centoventi euro “amico”», dichiarò scontroso Séb, prelevando i soldi dal portafogli. Quel suo gesto protettivo mi lusingò. «Arrivederci», salutò l’individuo chiudendosi la porta alle spalle. «Grazie», mormorai. «Non è niente, ora lasciamo questo postaccio», espose infastidito attirandomi a sé. «Come conosci certi soggetti?», domandai.
«Quando organizzavo eventi erano sempre appostati fuori con i loro biglietti, era inevitabile conoscerli.» «Capisco, mi fa piacere tu non abbia più a che fare con questi loschi personaggi.» «Sì anche a me.» «Mi spiace averti fatto arrivare sin qui, tra questa gentaccia», asserii rammaricata. «Per te questo e altro, ma spiegami una cosa: perché lo fai? Cioè, darti tanta pena per il tuo vicino con “crisi matrimoniali” a solo un paio di mesi dal “sì fatidico” mi sembra davvero troppo. Hai fatto abbastanza ascoltando lui e la sua dolce metà», mi rimproverò in modo indiretto. Forse non avrei dovuto raccontargli proprio tutto durante il viaggio in auto. «Hai ragione, mi spiace, se avessi saputo che razza di tipi ci avrebbero procurato i biglietti non mi sarei permessa di…» «Non importa», mi fermò. «Almeno io so perché lo faccio e non me ne pento, non me ne pentirò mai», mormorò di sottecchi colpendomi positivamente anche se destabilizzando le mie convinzioni. Tornammo al mio appartamento e offrii da bere a Sébastien, poi andai a darmi una rinfrescata e a cambiarmi: mi sentivo sudicia. Raggiunsi il mio amico in salotto e lo accompagnai nella bevuta. «Ti ringrazio davvero tanto, puoi darmi i biglietti? Voglio concludere definitivamente questa faccenda», affermai agitata. «Vuoi portarglieli adesso? È notte fonda Kylie.» «Lo so, ma ho una tensione addosso e un nervoso che voglio assolutamente scaricare. Non mi importa di svegliarlo e sua moglie non c’è, quindi, dammi un paio di minuti che chiudo la questione e torno da te, così ci scoliamo un altro paio di birre.» «D’accordo», mi assecondò prendendo i biglietti dal portafogli.
«Grazie. Torno subito.» Salii le scale di corsa cercando di non fare troppo rumore, fortunatamente c’era una sorta di tappeto vermiglio a coprire l’intera scalinata, che attutiva i miei i elefantini. Arrivata all’apportamento di Joël, bussai con decisione due volte, sperando bastassero e di non dover ricorrere al camlo. La porta si aprì lentamente. «Ehi, che ci fai qui a quest’ora?», domandò assonnato. «Eccoti i biglietti», dissi secca sbattendoglieli addosso. Lui, goffamente, li prese e mi guardò ammirato. «Oh mio Dio. Grazie, non so che dire. Quanto ti sono costati?» «Molto più di quel che pensassi. Non sono più disposta a entrare nei vostri problemi matrimoniali. Non voglio farmi coinvolgere, okay?», esclamai innervosita e acuta. «Mi spiace io…» «No, tu niente. Tu, tu non sai. Sono capitata in un postaccio con gentaccia che vuole essere pagata in natura e non intendo frutta e verdura, e tutto questo solo per te. A causa di questa insana indole che ho nel voler aiutare il prossimo e di questo controproducente feeling che sento con te. Non posso continuare così e spero lo dirai anche a tua moglie. Sono a disagio e non so come comportarmi», parlottai a raffica. «Io, io, non capisco. Che volevano da te? Cosa stai dicendo?» «Dico solo che siamo amici ma non voglio sapere più nulla della tua vita sentimentale, suoceri, consuoceri e liti», asserii andandomene senza voltarmi indietro. Tornai nella mia umile dimora alleggerita. Andai alle spalle di Sébastien e mi abbassai su di lui, cingendolo con le braccia e scoccandogli un bacio sulla guancia: «Grazie Séb. Sei unico, sempre al mio fianco quando ho bisogno di te. Ti voglio un mondo di bene», pronunciai stranamente mielosa. Lui voltò il capo nella mia direzione e mi guardò negli occhi.
«Sbilanciati Kylie», sussurrò. «Come? In che senso?», domandai portandomi avanti a lui che, da seduto, si alzò sovrastandomi con la sua mole. «Sbilanciati, credo tu sappia cosa intendo Ky», ripeté sfiorandomi una guancia con il dorso della mano. Sospirai e il cuore iniziò a correre per qualche motivo. «Non te ne pentirai, fidati di me. Ti sei sempre fidata, no?» «Sébastien, cosa stai cercando di farmi dire?», pronunciai spaesata. Lui mi scostò i capelli dal volto e li spostò dietro le spalle. «Non cerco niente, ma vorrei di più. Se lo senti, sbilanciati nei miei riguardi.» Occhi languidi, espressione dolce, lui così vicino a me. Il cuore andava da sé e il mio corpo provava un gradevole tepore, un misto tra affetto e imbarazzo. Come un raggio di luce che sbuca impertinente tra nuvole bige di un cielo autunnale, un’idea si fece largo tra i miei pensieri, un’illuminazione: Sébastien era sempre stato gentile con me, perché preso da me e non perché volesse essere il mio miglior amico. Ora capivo il decadere di ogni sua relazione e il perché rimanessero un mistero. Dio, ero stata così cieca e ingenua. «Tu… Tu… Tu…», iniziai a farfugliare come una linea telefonica caduta e lui, stanco, prese la situazione in mano baciandomi, trascinandomi nel suo vortice di ione, o per meglio dire, trascinandomi sul divano. Mi trovai a cavalcioni su di lui ad assecondare i suoi baci roventi e le sue labbra morbide. Iniziai a sentire l’eccitazione cresce in lui, dentro e fuori. Con calma e lentezza, tirò giù la zip della mia felpa, quasi gustandosi quell’attimo, facendo cadere morbido l’indumento sulle mie spalle, lasciandomi semi scoperta, con il reggiseno di un adorabile color rosa antico e merletti neri in mostra. Sébastien iniziò a baciarmi il collo e le spalle, poi, con un atto vigoroso, mi distese e si adagiò su di me continuando a baciarmi e viziarmi con la sua bocca. La sua lingua lasciava scie calde e umide sulla mia pelle. La zip giunse al termine della sua corsa in discesa, la felpa si aprì completamente. Mi accarezzò il ventre, il fianco, arrivò all’altezza del seno per poi bloccarsi e
tornare giù verso i lembi del pantalone. La sua mano si insinuò sotto il tessuto per afferrare il gluteo e poi con pazienza portò l’indumento sempre più giù, per scoprirmi le gambe e non solo. Il divano non era comodissimo ma riuscì a lasciarmi in intimo e con la felpa aperta a coprirmi schiena e braccia. Ora toccava a lui, si sfilò la maglietta e riprese a baciarmi con foga. Notai i suoi pantaloni stargli stretti. Con intraprendenza, gli sbottonai il primo bottone dei jeans e cercando di mostrarmi più collaborativa, ne sganciai uno dopo l’altro. Sébastien era in ginocchio e sentivo il suo respiro profondo e pesante, come se si stesse trattenendo. Quando il pantalone fu slacciato e lasciato al pavimento, Séb si lanciò su di me con impeto. Mi aggrappai con le gambe a lui cercando di portarlo verso di me, poiché sembrava titubante, nonostante fossimo seminudi e in posizione più che esplicita. A quel punto, intuendo il mio benestare, mi prese nuovamente a cavalcioni e da seduti “lo sentivo” decisamente meglio. Il mio cuore continuava a battere frenetico e, posando la mano sul suo petto, sentii che anche il suo andava come un treno. Ci fermammo a guardarci per un secondo, prima di capire come procedere e chi dovesse fare il prossimo o deciso. ai un dito all’interno del bordo degli slip e con lentezza lasciai uscire la sua erezione. Lui spostò il lembo del mio tanga con altrettanto tatto e così ci unimmo: lentamente, con gesti cauti. I suoi respiri riempivano a pieno i polmoni. Cercava di frenarsi e non capivo perché si inibisse così tanto. Il pensiero durò poco perché lo baciai e iniziai a muovermi su di lui sinuosa e lenta. Lui subito gemette mordendosi il labbro inferiore. Allora capii il perché di tutto quel controllo, mi desiderava talmente tanto che ormai era giunto al culmine, all’esasperazione, era una bomba pronta a esplodere. Così, presi il suo viso tra le mani e lo guardai negli occhi: «Lasciati andare», sussurrai dandogli un bacio sul naso. Improvvisamente sentii i suoi muscoli rilassarsi. Sorrise sghembo e avvicinò il viso al mio. «Sicura. Sei pronta? Potrei essere… un po’ irruento.» «Oddio, da quanto desideravi tutto questo?», dissi accarezzandogli i capelli. «Oh, non hai idea», ansimò e strinse i denti. Non potei replicare che, inaspettatamente, mi sollevò di peso e mi portò velocemente in camera da letto. Mostrò una ione e un’eccitazione da non lasciarmi fiato, ogni colpo dentro di me era un sussulto, un gemito, una vocale e un’invocazione a santi e entità
innominabili che avrebbero dovuto voltare lo sguardo altrove in quel momento. La pelle bruciava, gocce di sudore iniziarono a imperlare la sua fronte, il fiato a spezzarsi a causa dei movimenti vigorosi e veloci, talmente energici da far vibrare il letto come l’asfalto sotto i colpi di un martello pneumatico e sconquassare me di un assurdo piacere aggressivo e turbolento. Chi avrebbe pensato che la dolcezza di Sébastien riservasse ben altro in camera da letto. Quella notte mi addormentai tardi e per la prima volta da quando ero single, nel mio letto avevo qualcuno al mio fianco. Fu una sensazione strana ma piacevole, Sébastien era speciale, gli volevo un gran bene eppure mi sentivo in colpa per quello che avevamo fatto, nonostante fosse stato incredibilmente bello e sì, appagante, un vero sfogo di pulsioni…
Capitolo 9 Compatibilità
La mattina seguente mi sentivo a pezzi, non ero più abituata a tutto quel movimento alle parti basse e l’interno coscia mi doleva un po’. Mi misi seduta con le gambe a penzoloni dal materasso e mi portai una mano alla testa spostandomi i capelli all’indietro. Presi la mia vestaglia poggiata all’angolo della testiera del letto e la indossai. Guardai Sébastien avvolto nelle lenzuola immerso in un sonno profondo, era di schiena e sembrava ancora più possente. Accipicchia quel corpo aveva posseduto il mio, dovevo essere più resistente del previsto. Andai a farmi una doccia, mi vestii e uscii per prendere la colazione, non avevo voglia di pasticciare. Tornai con un sacchetto ancora caldo di croissant appena sfornati e due schiumosi cappuccini. C’era una meravigliosa boulangerie a Montmartre, che preparava ogni tipo di pane e brioches e, anche se ero fedele ai pancakes fatti in casa, ogni tanto mi piaceva perdermi in quei profumi e quei sapori, tipicamente parigini, che era difficile trovare altrove. Posai tutto sul ripiano della cucina e andai verso la camera. Sentii lo scrosciare dell’acqua, Sébastien doveva essere sotto la doccia. Stavo per chiamarlo, bussando alla porta della toilette, quando mi sentii improvvisamente invadere da un discreto disagio. Ci avevo fatto sesso e ora mi sentivo a disagio? Avrei dovuto sentirmi così ieri, quando ero nuda a cavalcioni sul mio miglior amico e non in quel momento, o sbagliavo? Che confusione! Immersa nei miei pensieri, Séb mi colse fuori la porta con aria assorta e un pollice in bocca che stavo torturando tirandone le pelli. «Ehi, ma che fai?», disse togliendomi la mano dal viso. «Buongiorno», scattai improvvisamente.
«Buongiorno», ricambiò tenero, accarezzandomi la guancia e baciandomi dolcemente sulle labbra. Aveva un minuscolo asciugamano in vita e alcune gocce puntellavano il suo corpo come la rugiada si adagia sulle foglie. «Ho preso la colazione», annunciai con voce vibrante per la tensione. «Ehi, che succede?», domandò seguendomi verso la cucina. Sospirai profondamente facendo oscillare le spalle, poi mi voltai velocemente verso di lui. «Tu-tu mi ami?», chiesi arrossendo. La domanda doveva averlo colto impreparato perché tentennò guardandosi attorno spaurito. «Ho paura di darti questa risposta», ammise abbozzando un sorriso nervoso. «Cioè? Perché?» Scossi la testa non capendo. «Perché se ammetto di amarti sembra ti stia mettendo pressione, se affermo il contrario sembra che ti abbia portato a letto solo per il gusto di farlo e non è così.» «E com’è?», domandai mesta. «Che con te è stato fare l’amore. Forse più furioso che romantico, ma l’ho fatto con sentimento Ky. Ti ho desiderata così tanto e aspettata ancora di più che quasi non pensavo che questo giorno potesse finalmente arrivare», proferì avvicinandosi per abbracciarmi ma io istintivamente feci un o indietro e alzai un braccio ponendo le distanze. Non meritavo dei sentimenti così puri. «Cosa ti succede?», chiese intristendo lo sguardo, come se avesse già intuito la mia indecisione. «Io non lo so. E se avessimo sbagliato? Se andasse storto qualcosa? La tua amicizia è un punto saldo della mia vita e non avrei dovuto rovinarla», pronunciai diretta e sincera. «Rovinarla?», alzò la voce offeso e, incupendo lo sguardo, aggrottò la fronte.
«Non voglio dire che…» «No, ho capito che vuoi dire, non provi un sentimento sufficientemente forte da voler rischiare. Non sono abbastanza per te», sbraitò. «Non ho detto questo.» «Se provassi quello che nutro io, non avresti dubbi», sostenne fermo, stringendo il pugno. «Non sono così sicura di quello che affermi…» «Meglio che vada. Prenditi tempo per riflettere o per fare quello che diavolo ritieni opportuno», disse recuperando i vestiti dal salotto e filando a ricomporsi. «Oddio», sibilai tra me e me comprendendo il gran casino. Mi appoggiai al bancone della cucina con una mano in fronte come per sorreggere il peso dei miei pensieri. A o celere, Sébastien attraversò l’open space e giunse alla porta. «Ormai la nostra amicizia è già rovinata Ky. Non riuscirei a tornare indietro», proferì rammaricato. Cercai di rispondere ma lui lasciò l’appartamento a sguardo basso negandomi la possibilità di replica. Ci pensai un attimo: il mio cuore era diviso mentre la mia mente confusa. Dovevo raggiungerlo o darmi il tempo di riflettere? Non potevo fare mosse false perché ero già in bilico su una lama di coltello. Il cuore batteva a ritmo irregolare e non capivo più cosa provavo, non comprendevo se ero turbata o infatuata, ma sentii di doverlo raggiungere perché non volevo perderlo, di questo ero certa. «Aspetta. Aspetta ti prego», dissi alle sue spalle sul marciapiede. Sébastien si voltò e il suo sguardo mi sciolse, come potevo non amare un ragazzo così? Affrettai il o e di fronte a lui mi alzai sulle punte per baciarlo. «Proviamoci», asserii lieve e con dolcezza. Séb sorrise e mi prese il viso tra le mani. In quel momento sembrò un raggio di sole.
«D’accordo», gioì baciandomi. Quello fu l’inizio di un rapporto “cuore a cuore”. Sébastien era il tipico ragazzo che donava tutto se stesso, a dir poco perfetto ma iniziai a pensare che non fosse perfetto per me anche se presente, premuroso, protettivo e strabordante di qualità. Insieme stavamo bene, ma nelle piccole cose mancava complicità e poi, a dirla tutta, eravamo piuttosto diversi solo che questa diversità nell’amicizia non era un problema mentre in un rapporto di coppia si sentiva maggiormente. Io adoravo il cibo orientale, lui il cibo raffinato. Io preferivo cena e cinema, lui una serata in discoteca o a bere in qualche bel localino alla moda. Lui era un tipo flemmatico, io adrenalinico. Lui amava le commedie, io gli horror. Lui voleva che stessimo assieme ventiquattro ore su ventiquattro, mentre io avevo bisogno dei miei spazi. In poche parole, viaggiavamo su lunghezze differenti e sentivo la mancanza della scintilla, della partecipazione, del sentirsi in sintonia. Mi chiedevo cosa ci fosse di sbagliato in me per non apprezzare un ragazzo come lui…
Capitolo 10 Sushi!
Dalla domenica notte al venerdì seguente, ai quasi ogni secondo di quelle giornate con Sébastien, fortunatamente la toilette era ancora off-limits! Apprezzavo il suo voler esserci, ma nonostante fossero solo i primi giorni di quella tentata relazione, io già mi sentivo soffocare. Sabato sera Séb e un amico dovevano occuparsi di un evento privato, una festa in discoteca, ma io non avevo nessuna voglia di trovarmi immersa tra gente ignota ad ascoltare una musica martellante per ore e ore, così lo feci presente al mio ragazzo che, anche se controvoglia, accettò la mia posizione. Il mio programma per quella serata libera era take-away giapponese, film, e poi un bel libro a letto. Volevo sprofondare nella pace e nel relax. Ero da poco rientrata dal ristorante giapponese, avevo preso davvero una caterva di cibo, che sarebbe bastato a sfamare tutti gli inquilini della palazzina, ma io di sushi e simili non ne avevo mai abbastanza. Apparecchiai sul bancone, accesi la TV per farmi compagnia e, dopo una rapida rinfrescata, mi accinsi a impugnare le bacchette, che avrei mollato nel giro di pochi minuti in favore di una più comoda forchetta. Mi ero appena accomodata sullo sgabello, ammirando la varietà si sake maki che avevo portato a casa trionfante, ma nel momento in cui stavo per infilzare il primo boccone con la bacchetta a mo’ di pugnale, bussarono alla porta. Sull’uscio trovai Joël, in abiti casual e un po’ sfatti. «Ehi», dissi stupita. Era la sera della fantomatica fiera degli sposi che tanto interessava a Liza, quindi lui era tra le ultime persone che mi sarei aspettata di trovarmi davanti.
«Ciao, sono solo e pensavo fosse il momento ideale per venirti a parlare.» Oddio. Di cosa voleva parlare? Non lo vedevo da quasi una settimana. «O-okay, accomodati. Non dovevi esser fuori stasera?» «Liza mi ha chiesto di cedere il mio biglietto a una sua amica. Due donne si divertiranno sicuramente di più, io non sarei stato molto di compagnia.» «Capisco», conclusi secca. Joël rimase in piedi, era visivamente nervoso e non riusciva a star fermo, sembrava preso dai tic. «Allora?», lo esortai. «Sono rimasto spiazzato dalla tua scenata. Mi rendo conto che io e mia… moglie, siamo stati un po’ invadenti con i nostri problemi e che soprattutto io sono stato pesante. Ho trovato in te una confidente come non avevo da tempo e ho sbagliato, in fondo non ti conosco da molto, solo che ho provato da subito uno strano…», si interruppe in cerca della parola giusta. «Feeling?», aggiunsi io comprendendo pienamente quella sensazione. Lui annuì, poi gettò uno sguardo sul bancone. «Stavi cenando e ti ho disturbato, ora mi dileguo e ti lascio in pace», pronunciò sconsolato. «Vuoi favorire?», invitai di getto, intenerita dai suoi modi e dalla sua voce. «Sul serio?», domandò perplesso eppur speranzoso. «Sì, ho portato a casa mezzo ristorante giapponese non finirei comunque tutto quel ben di Dio.» Indicai le varie pietanze. «Adoro il sushi!», sorrise. «Mangiamo allora!», esclamai vivace. Presi una tovaglietta, un piatto e delle posate e gli feci cenno di sedersi. Stappai un paio di birre e poi mi accomodai. Fianco a fianco, iniziammo a mangiare. Lui usava le bacchette con maestria
facendo sentire me una sciocca occidentale impedita. «Oh mamma. Questo è delizioso, lo hai provato?», disse mettendomi davanti al viso un sake maki fritto, quasi a volermi imboccare. «Ha una punta di piccante che è una goduria», aggiunse, ancora con la bocca piena, poi si rese conto del gesto invasivo e fuori luogo e si zittì istantaneamente, ingoiando faticosamente. Guardai quel boccone di cibo giapponese davanti al mio naso, i suoi occhi celesti e da batticuore e, senza pensare, mi feci imboccare. Sembrò un gesto erotico e peccaminoso, ma non era altro che un po’ di riso con alga fritta. Calò il silenzio e guardammo entrambi nei nostri piatti, palesemente imbarazzati per l’accaduto. «Pensi che desiderare un’altra persona sia tradimento?», domandò Joël d’un tratto, facendo esplodere una vampa di fuoco nel mio stomaco che si irradiò fino alle gote. Un vulcano altro che farfalle. «No, non credo lo sia. Insomma, le fantasie sono fantasie», sibilai. Sentii lo sguardo di Joël su di me e mi voltai per accoglierlo e ricambiarlo. Eravamo molto vicini, quasi spalla a spalla. Lui accostò appena il viso per riflettere perfettamente i suoi occhi nei miei. Il mio cuore non capiva più nulla, era impazzito, batteva velocemente e quasi con prepotenza, lo percepivo come un peso che scuoteva il mio petto reclamando attenzione. «Pensi che quell’attimo prima del bacio sia da considerarsi tradimento?», chiese ancora e io pensai alle nostre labbra così vicine e a quell’atmosfera calda e vibrante che si era creata tra noi. «Non è tradimento se non c’è bacio», affermai lieve. Il suo sguardo sulla mia bocca mi fece quasi mancare il respiro. A entrambi mancava il coraggio di annullare quella breve distanza tra le nostre labbra che tanto desideravano unirsi, ed era chiaro più che mai. «Perché non ti ho conosciuta prima?», sussurrò e a me sembrò quasi una dichiarazione. «Perché non ti sei sposato dopo?», replicai io. Joël si mise in piedi pronto ad andarsene. Sembrava confuso e spaesato, non
sapeva cosa fare, dove guardare e che altro dire e lo stesso valeva per me. Fece un o verso la porta e mi misi in piedi anche io pronunciando delle scuse insensate. «Perdonami», dichiarai non sapendo perché, forse mi sentivo in colpa per lui, per Liza e per Sébastien. Lui deglutì e mi lanciò uno sguardo. «Sono stata troppo “amichevole” forse», continuai. Joël scattò nella mia direzione, mi prese con impeto e mi spinse verso il bancone. Con un braccio, urtai un piatto che cadde a terra facendo un fastidioso fragore ma in quel momento poteva anche cascar il cielo che noi non ci saremmo mossi da lì. Joël mi stava baciando e con una mano spogliando. Abbassò prima lo scollo oltre la spalla, iniziando a scorrere con le labbra dal viso alla scapola, poi tornò alla bocca e il suo tocco delicato si spostò sulla pelle nuda del mio fianco fino a salire. Sentii da subito la sua erezione contro di me, quasi istantanea come i movimenti dei giocattoli a molla. Avrei dovuto fermarlo ma non volevo, anzi, presi a sollevargli la camicia e attirarlo verso di me. «Aspetta, aspetta, aspetta», esclamò improvvisamente Joël. Lo guardai a occhi spalancati. «Hai ragione. Forse non dovremmo…», iniziai col dire, ma mi tappò la bocca con due dita. «No, intendevo aspetta, andiamo di là», precisò per poi incollare nuovamente le sue labbra sulle mie. Iniziammo a spostarci quasi danzando e tra un o e l’altro un indumento cadeva sul pavimento. Lasciammo una scia di vestiti fino al letto dove completammo l’opera rimanendo completamente nudi. Il livello di sensualità e di eccitazione era alle stelle e lui su di me, così bello e ionale era il sogno erotico di ogni donna. I suoi movimenti decisi ma armoniosi, così accordati ai miei, mi fecero provare sensazioni uniche, come un susseguirsi di note atte a comporre una sinfonia orgasmica. Era talmente bello e sembrava così giusto che stessimo insieme. Come poteva una cosa talmente divina essere anche completamente sbagliata?
Respiri profondi scandivano il are del tempo che ormai era agli sgoccioli. «Dovrei andare», disse Joël accarezzandomi i capelli. «Lo so», convenni non staccandomi dal suo petto. «Dovrei farmi una doccia e levarmi il tuo profumo di dosso, eppure vorrei tenerlo sai, come ricordo di questa sera», confessò mantenendo un tono calmo, velato di rammarico. Alla parola “ricordo” mi salì il magone perché quello che era appena accaduto veniva subito impacchettato e catalogato in un qualcosa che riguardava il ato, da dimenticare e non ripetere, mentre io avrei voluto Joël nel mio presente. «Vuoi fare una doccia?», domandai. «Insieme?», chiese lui. «Vorresti?», domandai nuovamente. «Da morire, ma non riuscirei a tenere le mani a posto. Ho talmente voglia di stare con te che…», sospirò interrompendosi. «Forza, alzati e torna di sopra. Metti i vestiti nel cesto del bucato, perché se Liza dovesse scoprirci ne morirebbe», proferii cercando di mantenere un certo contegno. Non volevo mostrarmi triste, debole, o comunque alla sua mercé. «Hai ragione. Hai dannatamente ragione», dichiarò alzandosi. Prese i boxer dal pavimento e se li infilò velocemente raccattando poi il resto dei vestiti. «Ho sbagliato a sposarla. Ho fatto tutto di corsa e mi sono schiantato contro un muro di errori. Non sono felice e non sono me stesso e l’ho capito solo incontrando te.» «Io… cosa? Me?», farfugliai. «Non voglio farti sentire in colpa, sto solo dicendo che l’alchimia che ho con te non l’ho avuta con nessun’altra e vorrei tanto vivermela.»
«Ti prego smettila», implorai come se stesse rigirando il dito nella piaga. Joël si ammutolì, si rivestì e con titubanza mi lasciò sola avvolta in un lenzuolo, ancora stravolta da quella tempesta di emozioni. Andai a farmi una doccia e quando uscii dal bagno trovai un messaggio di Sébastien sul cellulare. Voleva portarmi a pranzo fuori quella domenica. Non potevo neanche immaginare di guardarlo in faccia, figuriamoci averlo di fronte, così lo evitai, annunciando un pranzo inderogabile con i miei genitori. Certo, Séb fece resistenza, ma sapeva bene che i rapporti in famiglia erano altalenanti e che, quindi, in occasioni del genere non potevo esimermi. Dopo un po’ di proteste si acquieto è accetto la situazione, mostrandosi comprensivo come al solito. La sera svincolai l’incontro lamentando stanchezza e l’alzata al mattino presto: almeno, per quella lunga giornata, schivai il confronto. Lunedì mi immersi nel lavoro prendendo in mano quella fastidiosa cartella accantonata il venerdì precedente. Un lavoro per la famiglia Charrier, proprio tra le mie mani. Mia mamma aveva seguito il grosso del progetto, gli stagisti avevano proposto vari elaborati per gli ultimi arredi e toccava a me visionarli, sarebbe stata una giornata lunga, non era un incarico di poco conto. Tornata a casa trovai Liza sul pianerottolo con gli occhi rossi e una valigia pronta. Il panico si impadronì di me. «C-che succede?», balbettai a stento, sentendomi la lingua impastata. «Joël vuole lasciarmi», dichiarò apertamente stringendo il labbro inferiore tra i denti. «Oh», dissi aprendo la porta dell’appartamento. «Accomodati», le feci cenno e lei mogia trascinò la valigia per entrare. «So che non vuoi essere coinvolta ma sono davvero a pezzi», singhiozzò. Ero la persona più orribile del mondo, era colpa mia. «Ieri sono tornata da una fiera bellissima, tutto su sposi e matrimonio, un ambiente romanticissimo ed ero entusiasta ma a casa Joël mi ha accolto in modo
molto freddo. Ho iniziato a raccontargli le mie idee per la nostra festa di nozze e lui mi ha bloccato immediatamente, sbottando che non voleva quel genere di cose, non voleva una relazione così e che cercava altro.» «Oddio», mormorai quasi tra me e me, con il senso di colpa che mi teneva in pugno. «Mi vuole bene e mi ha amata ma ha capito che il rapporto che desidera e diverso, vuole sentire la scossa e altre sciocchezze del genere!», strepitò acuta. «Non sono sciocchezze. Se manca la scintilla allora è tutto tempo perso», replicai io a voce sommessa, quasi con paura. «Qui-quindi tu sei d’accordo con lui? Ti ha già parlato?» «Liza, dico solo che forse avete affrettato i tempi e non vi siete conosciuti abbastanza.» «Io lo amo e questa situazione mi distrugge!» Pianse. «Beh e ora dove pensi di andare?», domandai quasi esasperata da quella situazione. «Ho chiesto a un’amica di ospitarmi», spiegò asciugandosi gli occhi con il dorso della mano. A quel punto mi sedetti accanto a lei e le presi le mani tra le mie. «Liza se non è innamorato meriti di stare con chi ricambia i tuoi sentimenti, okay? Cerca di riflettere e pensare ai pro e ai contro di questa situazione. Meglio ora che più in là, con dei bambini di mezzo magari.» «Maledizione, non mi sei di conforto! Io lo amo, lo capisci?» Scattò in piedi. «Ora calmati, non posso fare una magia e cambiare i suoi sentimenti per te!», sbottai alzandomi a mia volta. Bussarono alla porta e quel principio di lite si interruppe. Come se la situazione non fosse già abbastanza ostica, si presentò a casa mia
Sébastien che mi salutò con un bacio. «Ecco, cosa ne vuoi sapere tu di problemi di cuore quando sei felicemente innamorata», esplose Liza uscendo di casa a o svelto e dirigendosi verso il portone. «Ho interrotto qualcosa?», chiese Séb sgranando gli occhi a quella piazzata. «No, non direi.» Mi portai una mano alla fronte sentendo il mal di testa affiorare pian piano. «Tutto bene?», domandò lui apprensivo. «No», risposi prontamente con tono afflitto e imbarazzato. «Posso fare qualcosa?» «Torna a essere mio amico», esclamai supplichevole. «C-cosa?» «Non posso stare con te, non siamo compatibili e mi spiace, io ci ho provato.» «N-non siamo cosa? Come puoi dirlo? Stiamo talmente bene insieme», dichiarò sconcertato. «Siamo come il giorno e la notte, andare d’accordo non significa essere compatibili, anime gemelle o la coppia perfetta.» La mia espressione doveva manifestare tutta la mia pena e il mio malessere in quel momento. Non mi ero mai sentita così meschina. «Okay, quindi stiamo rompendo?» Non risposi ma il mio sguardo fu eloquente. «D’accordo credo non sia il caso di restare e… No. Scordati la mia amicizia», dichiarò dandomi le spalle e andando per la sua strada. Sbuffai e buttai uno sgabello per aria. Che inizio settimana del cavolo!
Capitolo 11 Una relazione sotto esame
Avevo ato due giorni davvero orribili. Quella sera, stavo mettendo una cena precotta nel microonde e il mio morale era sotto le pantofole rosa a pois verdi che avevo ai piedi. Non avevo sentito più Sébastien, né visto Liza. E Joël? Sparito. Improvvisamente il suono del cellulare attirò la mia attenzione, un messaggio breve: Aprimi! Andai alla porta e quando la spalancai mi trovai Joël carico di sacchetti di cibo da asporto. «Permesso», disse sorandomi ed entrando in salotto. «Che cosa stai facendo? Che ci fai qui? Che fine hai fatto?», chiesi a raffica. «L’ultima volta il sushi è finito sul pavimento e nella pattumiera, ti dovevo una cena», espose con entusiasmo. «Che pensiero carino. Davvero. Ma puoi spiegarmi cos’è successo?», perseverai. «Che intendi?», fece il finto tonto. «Oh andiamo. Lo sai», seguitai. «Ah. Intendi con Liza?» Si rabbuiò di colpo. «Già.» «Ho chiesto la separazione, o meglio l’annullamento, ma se la vedranno i miei
avvocati. In questi due giorni ho parlato con i miei genitori e i loro legali.» «Wow, allora è una cosa seria», considerai. Joël si avvicinò e mi baciò. «So che è brutto dirlo ma mi sento leggero. Mi sono lasciato sottomettere dai desideri di Liza che pensavo fossero anche i miei ma non è così. Non voglio una famiglia numerosa, non voglio una fattoria, non voglio imporre a mio figlio un credo e non mi vergogno del mio lavoro.» «Sei stato subissato dalla dolce Liza. Incredibile…» Scossi la testa, sorpresa che quel fuscello zuccherino e biondo avesse tanto potere. «Proprio per quella sua dolcezza era difficile dirle di no o replicare in modo deciso. Avevo sempre il timore di offenderla e scatenare un pianto isterico. Camminavo in punta di piedi in quella relazione.» «Stai cercando di farmi sentire meno in colpa per aver incentivato la tua separazione?» «Perché? Ti senti in colpa?», domandò come se non fosse ovvio. «Sì. Ti sembrerò presuntuosa ma credo di aver…» «No, è stata una mia scelta. Tu sei solo lo splendido evento che mi ha aperto gli occhi e, ti prego, non roviniamo questa cena con complessi e rimorsi. Il mio matrimonio, i miei sbagli, sono un problema mio e non voglio impensierirti, voglio vivere questo rapporto con te serenamente.» «Stai dicendo che non sono solo un “evento illuminante”?», replicai subdola, guardandolo con un pizzico di malizia. «Non è chiaro? Voglio stare con te, voglio provare quel brivido che ho sentito dalla prima volta che ti ho vista.» «Dalla prima?», domandai intenerita. «Sì, dalla prima», confermò smielato.
Arrossii. «Allora se dobbiamo stare insieme, i tuoi problemi saranno anche i miei. Non tentare di escludermi», asserii. «Non lo farò, ma andiamo con calma. Ah, e ti dirò di più, ti tratterò come una principessa», sorrise vivace. Era gioioso come non l’avevo mai visto. «Sei serio?» «Serissimo», confermò prendendomi per i fianchi e facendomi volteggiare appena. Il richiamo della pelle era forte, profumi e sensazioni ci tenevano in pugno e le nostre labbra si unirono in un dolce bacio. Joël mi guardò ammaliandomi: «E se iniziassimo dal dolce?»
Joël e io iniziammo a stare insieme, all’inizio non fu semplice con le continue telefonate di Liza ma, dopo l’intervento dei legali, parve placarsi. Non le restò che rivolgersi a sua volta a un avvocato. Per quanto riguarda me, notai immediatamente la differenza tra lo stare con Joël e lo stare con Séb. Con lui mi divertivo e soprattutto non mi sentivo soffocare. La prima settimana volò e la ammo come una giovane coppia innamorata: uscite fuori, film accoccolati, baci e dispetti, ma soprattutto baci! Il giorno più romantico forse fu quello del giro sul bateau mouche. Quando arrivati al pont des Arts, la voce guida decantò il suo punto strategico per artisti e innamorati, luogo di una splendida vista e tante effusioni, io e Joël ci baciammo come ragazzini impacciati, elevando i gridolini divertiti alle nostre spalle dei bambini in gita.
Poi, come a voler recuperare la ione repressa, ogni notte era un “Tour de force” tra le lenzuola… o sul divano, o nel seminterrato, e quasi quasi anche sul pianerottolo. Ogni occasione era buona per perderci nei sensi, nella lussuria e
nell’amore. Quella domenica mattina, preparammo la nostra prima colazione insieme nel suo appartamento, cucinammo i pancakes e ci divertimmo come matti. Seduti sul divano, con una pila di frittelle, sciroppi vari e panna spray, avidi e golosi, ci accingemmo a mangiare il lauto pasto che per l’ora tarda era quasi un brunch. «Hanno un profumo. Credi che abbiamo esagerato con la vaniglia?», domandò Joël. «Ma no...», feci cenno di diniego, poi presi la panna e la agitai, per ricoprire i pancakes. «Ehi, da qui non esce un bel niente. Sarà finita?», dissi e goffamente puntai il beccuccio verso di me continuando a premere. Proprio in quel momento, uno spruzzo di panna mi investì la faccia e Joël scoppiò a ridere trattenendosi la pancia. «Non è divertente!», protestai indispettita, prendendo un tovagliolo e facendo il broncio. Mi pulii il viso e quando mi voltai verso Joël, lo vidi impugnare la panna spray come un’arma carica. «Che cosa vorresti fare?», domandai intuendo le sue cattive intenzioni. Il suo sorriso sghembo era indisponente e sexy. «No, no, no», ripetei facendo anche il gesto con il dito. Lui si avvicinò e mi sbottonò i primi tre bottoni della blusa del pigiama. «Joël, che vuoi fare?», richiesi tra il preoccupato e l’eccitato. «Girati», disse solamente. Lo guardai incuriosita ed eseguii. «Ti ho mai rivelato quanto io adori la panna?», esordì spostandomi i capelli da un lato. «No, non è mai stato argomento di discussione», replicai mentre la sua mano faceva scivolare pian piano la casacca del pigiama, scoprendo collo, clavicola e spalla. Sentii lo scuotere della bomboletta di panna e poi una striscia fredda
scorrermi sulla pelle scoperta. «Ehi…», pronunciai sussultando, poi quel fresco fu sostituito da una scia calda e stuzzicante. Joël stava leccando la panna dal mio corpo come se fossi una cialda di biscotto. La sua mano dal ventre si posò sul seno e iniziò a mordermi il collo, provocandomi deliziosi brividi di piacere. «Abbiamo i pancakes», sussurrai voltando parzialmente il viso all’indietro. Lui si avvicinò al mio orecchio: «In questo momento ho tutt’altra voglia», disse. «Dai, scemo, poi divento appiccicosa», mormorai sorridendo e toccando il suo naso con il mio. «Potremmo farci una doccia dopo», proferì baciandomi amabilmente. La sua lingua era fresca e dolce, e la sua danza era lenta e sensuale. Fu un momento tenerissimo anche se con fini più audaci. In quella quiete, in quella pigra e intima mattina, si intrufolò un irritante bussare alla porta che distrusse il nostro gioco erotico. «Aspetti qualcuno?», chiesi allacciando velocemente i bottoni della casacca del pigiama. «No, assolutamente», dichiarò Joël andando a vedere chi fosse. Io mi rannicchiai in un angolo del divano e quando sentii: «Mamma? Che ci fai qui?», mi si drizzarono i capelli in testa. Fossero stati di colore blu, sarei sembrata Marge Simpson. Madame Charrier entrò con prepotenza nell’appartamento, nonostante il figlio le impedisse il aggio e, subito, gettò uno sguardo verso di me per poi tornare a Joël, notevolmente contrariata. Si piazzò nel bel mezzo della stanza guardandoci inviperita. Io indossavo la casacca del pigiama di Joël, mentre lui solo i pantaloni. Non ci volle molto a tirare le somme di quella divisione di indumenti. Sulla donna vidi un misto di frustrazione, delusione e rabbia. Fosse stato un toro e io il matador, probabilmente mi sarei trovata incornata.
«Vuoi spiegarmi questo?», proruppe la donna indicandomi. «Mamma, lei è Kylie, stavamo facendo colazione», rispose con voce nervosa. «Non ti abbiamo neanche svincolato dal tuo insensato matrimonio che ti trovo già con un’altra squinzia?» «Ehi!», replicai offesa. «Chi sarebbe lei? La vicina artista di cui mi ha parlato tuo padre?» «Papà ti ha detto di lei? Proprio il massimo della discrezione!», protestò contrariato Joël. «Hai parlato di me con tuo padre?» Mi sorpresi. «Possibile che non ti accorgi di quanto tu sia usato da queste donne? Magari vuole esser solo mantenuta per far la bella vita. Cosa può offrirti una spiantata disegnatrice?» «Ma porca miseria, io sono qui!» Mi alzai in piedi arrabbiata. «Come si permette di offendermi? Ma che ne sa lei di me?» «Kylie perdonala, non voleva offendere, è solo furiosa con me perché non la rendo partecipe della mia vita», disse mettendosi tra noi. «Tanto per la cronaca, signora, mi mantengo benissimo da sola e la bella vita la faccio quando mi pare solo che, forse, al contrario di lei, a me piacciono le cose semplici!», affermai decisa. «Immagino quale vita tu possa fare», denigrò Madame Charrier arricciando il labbro. «Mamma, smettila! Ti prego Kylie non ascoltarla.» Joël non sapeva che pesci prendere. «Lei non merita di sapere altro di me, signora», dissi con sdegno, per poi andare nell’altra camera a recuperare le mie cose e tornare così nel mio appartamento. Sentii urlare Joël, che almeno si prese la briga di difendermi. Quando uscii da casa sua, mi supplicò di non dare peso all’accaduto, ma come potevo? La sua
famiglia mi additava come opportunista, arrampicatrice e sgualdrina, senza conoscermi neanche di sfuggita. Se volevo stare con Joël, avrei dovuto esser sempre sotto esame?
Capitolo 12 Questione di status?
Avevo ancora quel lavoro sul centro benessere della famiglia Charrier da portare avanti e mi presi completamente l’incarico di supervisore, occupandomi dei preparativi e le decisioni finali, fin nei minimi dettagli. Ovviamente da dietro le quinte. I contatti umani con la famiglia Charrier li affidai agli staggisti, non volevo sentir parlare né loro né i loro portavoce. Iniziai a fare anche tardi in ufficio, tanto che mia madre, sorpresa, si precipitò da me per capire cosa mi stesse succedendo. A proposito di mia madre, lei era una donna in carriera, un’arredatrice d’interni acclamata e molto richiesta ed era anche il mio capo: Paulette Maurel, della Maurel Décoration d'Intérieurs. Io lavoravo nella sua azienda ed ero anche piuttosto brava. Mio padre invece era un costruttore e, quando capitava, un restauratore di vecchi edifici, proprio come quello in cui alloggiavo. Non mi piaceva sbandierare al vento l’attività della mia famiglia perché nel loro ambiente erano prezzi grossi e io non volevo la loro ombra addosso, per questo evitavo inaugurazioni e party: l’ambiente sfarzoso e snob mi irritava, mi irritava proprio come la madre di Joël. Se solo avesse saputo chi fossi, si sarebbe vergognata da morire. Al confronto con la mia famiglia, lei e il marito erano il proletariato. Non mi ero mai arrabbiata tanto in vita mia. Era mercoledì e dopo domenica io e Joël ci eravamo visti solo fuggevolmente, un po’ per il lavoro, un po’ perché cercavo di evitarlo fintanto che non avessi sbollito la rabbia. Al telefono mi ripeteva di quanto fosse dispiaciuto e che avrebbe aggiustato le cose ma io ogni volta che sentivo quella storia mi indispettivo paurosamente.
Il lavoro che riguardava la famiglia Charrier era un progetto piuttosto grosso riguardante l’arredo completo del nuovo centro benessere: Beauté de Vénus. Mia madre lo aveva avviato e poi ato la patata bollente al suo staff. Io ero sopraggiunta nell’impresa solo in un secondo momento, prendendo le redini mollate dalla mia genitrice piena di impegni. Quando finalmente l’arredo fu ultimato, si iniziò a parlare di inaugurazione e la mia famiglia fu ovviamente invitata. I miei genitori non erano soliti partecipare alle aperture e mandavano spesso e volentieri un loro rappresentante. Scioccando tutti, soprattutto mia madre, mi proposi come portavoce. «Sto sognando? Non posso crederci, tu che vuoi fare le nostre veci?» Non mi avrebbe apprezzato poi tanto, se avesse saputo il mio reale intento: far mangiare il fegato a Madame Charrier! Una sera, di ritorno a casa, vidi Monsieur Toussaint a eggio con Muffin. Sembrava piuttosto depresso. «Monsieur Toussaint, è tutto a posto?» Muffin cercò di farmi le feste nonostante la muola. «Oh signorina, non posso dire che vada tutto bene, oggi ci hanno comunicato che nel palazzo gli animali non sono più ben accetti, c’è un cartello proprio nell’atrio e non sappiamo cosa fare con Muffin.» «Cosa?», mi stupii. «Sì, i coniugi Charrier, a quanto pare, hanno mostrato all’amministrazione il loro dissenso sulla politica dello stabile e avendo due piani in affitto le loro richieste sono state assecondate.» «Oh, no, no», dissi io tra il riso e lo sgomento. «Lui è uno di famiglia», spiegò l’anziano guardando il suo barboncino. «Stia tranquillo, non verrà sbattuto fuori. Posso assicurarglielo.» «Co-come?», balbettò. «Per la settimana prossima quell’avviso sparirà», lo rincuorai posandogli una
mano sulla spalla, ma Monsieur Toussaint non sembrò convinto delle mie parole. Sul pianerottolo trovai Joël, vestito di tutto punto e pronto a uscire. «Ehi», esclamò vedendomi e un sorriso gli illuminò il viso su cui poco prima vi era un’espressione pensierosa. «Ciao», ricambiai. «Non riusciamo a vederci ultimamente, non vorrei che fosse per quello che è accaduto domenica», espresse dubbioso. «Joël, ti mentirei se ti dicessi che va tutto bene, ma se non abbiamo avuto modo di parlare è perché sono stata molto impegnata con il lavoro.» «Ma come puoi essere così impegnata facendo l’artista freelance?», chiese quasi accusatorio, come se gli stessi mentendo e come se un creativo non potesse avere realmente da lavorare. «Sai, credo che tu abbia preso un po’ della supponenza di tua madre», affermai assottigliando gli occhi come per fulminarlo. «No, non intendevo dire che…» «Basta per favore, sono stanca e voglio solo distendermi e bere qualcosa», lo fermai immediatamente. Sospirò vistosamente, vidi il suo petto alzarsi e abbassarsi e le sue labbra stringersi. «Beh, riuscirai a trovare due minuti per me?», domandò quasi irritato. «Se ai questo tono, direi di no. Buona serata.» «Ti prego non prendertela con me per azioni che non mi appartengono», supplicò. «Tranquillo Joël, fammi sbollire», dissi infilandomi frettolosamente nel mio appartamento.
Sabato mattina giunse in fretta, con Joël mi ero vista per un caffè e niente più,
così decisi di chiamarlo e invitarlo a uscire per la colazione. Si precipitò al piano terra e mi salutò con un gran bacio. «Quanto entusiasmo!», osservai. «Mi sembra di non vederti da una vita!», confessò senza pudore. «Ho avuto la stessa sensazione. Mi sei mancato.» «Non sai quanto mi solleva sentirtelo dire, avevo paura che non ne volessi più sapere di me», espose, consapevole di avere una madre complessa e arrogante alle spalle. «Sai, neanche io voglio essere giudicata in base alla mia famiglia, perciò io non farò questo errore con te», spiegai. Anche se accettarla, era un altro paio di maniche. «Ti amo», pronunciò a bassa voce e, appena pronunciate quelle due parole, si paralizzò. Gli erano sfuggite, era chiaro, e avevano lasciato di stucco anche me. Eravamo una coppia da poco e già minata da grande tensione, eppure, nel momento in cui aveva articolato quella fatidica frase, mi sembrò sincero e completamente spontaneo. «Scusami mi sono lasciato prendere dall’entusiasmo», si giustificò. «Sei…», mi fermai un attimo, «Davvero un amore», dissi accarezzandogli una guancia. «Forza, andiamo a fare colazione», enunciò sereno prendendomi per mano. In quel paio d’ore staccammo la spina e ci dedicammo l’uno all’altra e sia all’andata che al ritorno, camminammo mano nella mano, una romanticheria dei più classici film sentimentali. Joël poteva anche avere dei difetti, ma come dimenticarsi dei pregi?
Capitolo 13 Liti di famiglia Lunedì sera, di ritorno dall’ufficio, notai che l’avviso contro gli animali domestici era sparito dalla parete del pianerottolo e gongolai per aver esercitato, una volta tanto, il potere del mio cognome. Non mi andava che Monsieur Toussaint rinunciasse al suo Muffin, così, avevo contattato l’amministrazione del condominio facendo la voce grossa. Ovviamente, avvisai prima mio padre che, pacioso come sempre, mi aveva dato il via libera. Ero proprio una figlia di papà, non c’era cosa che mio padre non mi concedesse. Monsieur Harrison era un pezzo di pane con la famiglia, ma sul lavoro era molto serio e professionale, se sbagliavi ti puniva; punto. Mia madre invece era ferrea sia nel privato che nel pubblico, era sempre pronta con la bacchetta in mano a rimproverare il prossimo e, forse, il mio spirito ribelle era dovuto proprio a quel suo atteggiamento e alla voglia di fuggire dalle sue imposizioni. Anche se era assente, era come averla sempre alle spalle con il suo fare moralizzatore. Stavo controllando la posta quando un uomo di colore, dal fisico palestrato e l’aspetto distinto, varcò la soglia del palazzo. «Buonasera», salutò imboccando le scale. Lo guardai salire e pensai che potesse essere un nuovo inquilino dello stabile, ma in seconda battuta immaginai potesse essere un parente di Joël. Aveva gli occhi chiari e anche se i lineamenti erano meno caucasici di quelli di Joël, dovevano sicuramente avere parte del DNA in comune. «Signorina», richiamò l’uomo voltandosi nella mia direzione. «Le spiace seguirmi?» «Io?» Mi auto-indicai con l’indice. Lui annuì. Feci spallucce e obbedii, sperando di non cacciarmi nei guai. Arrivammo all’appartamento di Joël che quando ci aprì rimase di sasso. «Papà?», esclamò per poi guardarmi.
«Salve, figliolo.» I miei occhi rotearono in direzione dell’omone al mio fianco e per poco la mascella non mi cascò per lo stupore. Era un gran bell’uomo e si portava davvero bene i suoi anni, ma non dovevo stupirmi, in fondo era un chirurgo estetico e magari aveva ceduto a qualche ritocchino per mantenersi più tonico. «Entrate», pronunciò Joël stranito facendoci strada. Prendemmo posto nel salotto e mi sentivo tremendamente a disagio. Ero chiusa a riccio, con le braccia unite e le ginocchia congiunte, stretta in un minuscolo spazio vitale. Joël ci versò dell’acqua minerale. Pensai servisse a digerire la situazione. «Joël, sono qui per parlare in favore di tua madre», iniziò col dire Monsieur Charrier. Avrei voluto esibirmi in un facepalm. «Non posso credere che abbia mandato te», replicò stizzito Joël. Facendomi fintamente gli affari miei, presi il bicchiere e iniziai a bere. «Joël, devi esserci all’inaugurazione, anche se tua madre ha sbagliato. È il primo progetto di cui si occupa personalmente», spiegò Monsieur Charrier e io per poco non mi affogai, sputacchiando, come un geyser, l’acqua nel bicchiere da cui stavo bevendo. Iniziai a tossire come se avessi rischiato di annegare in quei soli duecento millilitri d’acqua. «Tutto bene?», chiese Joël sporgendosi verso di me dalla poltrona, toccandomi la spalla in modo premuroso. «Sì, sì, scusate», dissi mortificata. «Okay, vuole che venga? Verrò con lei!», esclamò rivolgendosi a me. Cos’ero? Un’arma da guerra? Un modo di fare dispetto alla madre? «Signorina, lei deve scusare mia moglie, pensa che ogni ragazza di nostro figlio miri ai suoi soldi, ma non è cattiva», precisò Monsieur Charrier. «Joël non starò qui a dirti cosa fare, ma sarà una serata speciale, cerca di non provocare tua madre», aggiunse più severo.
«Tu non c’eri papà. Non c’eri quando è venuta a farmi la scenata con Liza e non c’eri quando ha fatto una piazzata davanti a Kylie!», sfuriò alzandosi in piedi per farsi valere. «Beh, ma sulla prima aveva ragione, no? Quanto è durata? Un mese? Che bisogno avevi di sposarti così di fretta, un capriccio? Una ripicca?», replicò in modo deciso l’uomo alzandosi a sua volta. Le loro figure torreggianti mi stavano mettendo sempre più a disagio. «Ora vado figliolo, ti consiglio di riflettere sulle tue azioni.» «Tu consiglia alla mamma di scendere dal piedistallo. Ricordale che viene dal ghetto di Marsiglia…» «Joël!», lo rimproverò il padre accigliato. «Papà!», fece lui di rimando. Stavo per alzarmi e unirmi al coro autonominandomi, almeno non avrei fatto la figura dell’acaro di polvere anonimo adagiato sul divano. Monsieur Charrier se ne andò guardando sbieco suo figlio, poi si addolcì per salutarmi con un piccolo gesto della mano e un cenno del capo. Quando fummo soli, Joël iniziò a inveire sottovoce, camminando avanti e indietro per la stanza. «Calmati per favore», lo pregai. «Io, io non so come gestirli.» «Sai, credo non sia saggio fuggire da loro e usare le tue “ragazze” come provocazione.» «Oh, andiamo Kylie. Ho ato i trenta e mia madre pretende ancora di cercarmi la fidanzata? Quanto lontano devo andare per scrollarmeli di dosso?» «Forse dovresti lavorare per conto tuo, in un’altra clinica magari.» «Stavo costruendo uno studio qui, ma ormai ho lasciato perdere. Voglio
trasferirmi prima di compiere questo o. Non mi piace vivere in queste palazzine e non mi piace questo arredo: questo appartamento non è mio!» S’innervosì, portandosi un dito alla bocca e iniziando a torturare le pellicine. «Ho sempre pensato non ti rispecchiasse», ridacchiai guardando lo stile rustico dell’appartamento. «Quindi, vuoi trasferirti?», aggiunsi. «Sì in un palazzo moderno, magari in un attico.» «Certo. Di poche pretese. Senti Joël, io ti lascio solo, pensa seriamente a cosa vuoi.» «So che voglio te…» «Credo che il volere ragazze che non piacciano a tua madre sia una sorta di rivalsa e magari ti convinci anche di tenere alla sprovveduta di turno, ma forse non è così», proferii insicura, infondo tra le sprovvedute c’ero anche io. «Stai insinuando che ti sto usando per far andare in bestia mia madre?», sbottò accigliato e oltraggiato. «Io non so più che pensare. Se tu fossi un’illusione, penso non la prenderei bene», calai i toni finendo quasi nel piangente, davvero triste al pensiero che Joël si rivelasse un buco nell’acqua. I suoi occhi si spalancarono; luminosi e languidi mi osservarono accompagnati da una bocca altrettanto aperta. «No, io ci tengo a te, è stato subito un colpo di fulmine, come se una scossa elettrica mi avesse risvegliato i sensi, e quella scarica sei tu. Tu mi hai portato di nuovo alla realtà, a capire cosa desiderassi per me e da una donna. Non voglio solo un bel viso, un bel corpo e tanta dolcezza. Voglio energia, complicità, comprensione, risate e libertà: Kylie sei il mio pezzo mancante.» «Wow!», esclamai scattando di mezzo o indietro. «Cosa? Cosa c’è? Che ho detto di male? Ti ho spaventata?», farfugliò immediatamente ansioso. «Mi hai...», pronunciai flebile come senza fiato. «Spiazzato», conclusi guardandolo negli occhi. Lui con un paio di falcate coprì la distanza che ci separava, mi prese il volto tra le mani e mi baciò.
Il mio cuore si librò in aria scoppiettando e io mi aggrappai alle braccia di Joël come se mi stessi levando da terra e avessi bisogno di un’ancora. Provai una sensazione dirompente, delicata e forte al contempo, che stende e rianima, proprio come una scossa.
Capitolo 14 Voglia di rivalsa «Indovinate chi è a casa per cena?», esordii urlante varcando la soglia della casa genitoriale. «Ehi c’è nessuno? Vostra figlia vi onora di una cena e questo è il ringraziamento?», aggiunsi accomodandomi e posando il cappotto all’ingresso nell’apposito vano. «Buonasera signorina Harrison.» Mi accolse la vocina di una giovane domestica che non ricordavo di aver mai visto. Mia madre era esigente con il personale, dopo il terzo sbaglio eri fuori. «Salve, i miei genitori?», domandai. «Suo padre è nella sua sala relax e sua madre sarà di ritorno a breve, signorina», rispose pacata. «Posso offrirle qualcosa?» «No grazie, raggiungo mio padre», dissi avanzando per l’atrio e imboccando il corridoio che conduceva alla sala relax e cioè uno studio privato dove mio padre non solo analizzava le sue scartoffie, ma si godeva anche un televisore cinquantacinque pollici e un minibar con i suoi liquori preferiti. Bussai alla porta ma, molto probabilmente, con il fragore del film western di sottofondo che perforava anche le mura di casa, non riusciva a sentirmi. Aprii con garbo e mi affacciai all’interno della stanza vedendo il mio “panzuto” papà stravaccato sul divano a dormire con il telecomando ancora in mano. «Tipico», commentai scuotendo la testa. «Ehi papà», lo chiamai. «Papà!» richiamai urlando. Lui si destò con un sussulto. «Ehi, sei arrivata presto?», disse con gli occhi semichiusi e la bocca impastata. «No, veramente sono stata puntualissima, è mamma che è in ritardo. Non mi dire che è ancora in ufficio», pronunciai con le mani sui fianchi. «No, è andata controllare il lavoro ultimato, l’arredo di una certa clinica o spa e benessere, insomma, diavolerie del genere», spiegò sommariamente mio padre
che non capiva neanche la differenza tra centro estetico e chirurgia estetica, per lui la donna doveva essere naturel. «Ah. Ho capito. Certo, questo fine settimana c’è l’inaugurazione», considerai. «Vado a darmi una rinfrescata, tu mi aspetti in sala da pranzo?» «Certo papà», risposi, poi lui si avvicinò, mi diede un bacio sulla guancia e continuò verso la sua camera. Mi avviai in soggiorno, dove mi attendeva la tavola apparecchiata e un aperitivo nella zona living quando, ando per l’ingresso, incrociai mia madre di ritorno. «Ah finalmente. Com’è andata?» «Ciao Kylie. Tutto bene, e devo dire che con il salone principale hai fatto un lavoro davvero spettacolare, si vede che è opera tua: moderno, lineare e fresco.» «Wow, grazie, un complimento e non è il mio compleanno», canzonai. «Smettila», disse levandosi il soprabito e la giacca. «Allora, andrò io all’inaugurazione?», chiesi. «Se ci tieni. Io con Madame Charrier non voglio averci più a che fare, è di una tale spocchia», mormorò infastidita. «Non lo dire a me…» «Che intendi dire?», s’interessò improvvisamente. «In pratica mi ha dato dell’artista poco di buono senza conoscermi.» «Che cosa?», sbottò mia madre con espressione a dir poco offesa. «Indubbiamente, dovresti smetterla di perdere il tuo tempo con quella stupida agenzia e gli scarabocchi da freelance, ma come diavolo si è permessa? Sa chi sei?» «No, non mi ha collegato a “vostra signoria”, ma in ogni caso non doveva permettersi», specificai infastidita al ricordo di quell’incontro. «Ah, allora all’inaugurazione le farai cadere la lingua, preparati un breve
discorso e sfoggia l’abito più bello che tu abbia.» «Non ho abiti come i tuoi “Miss eleganza da costoso atelier”», cantilenai sarcastica. «Adesso mi seguirai in camera, sceglierai un abito e te lo proverai.» «Mamma, ti devo ricordare che ho il doppio del tuo seno, del tuo sedere e delle tue cosce? Non voglio fare l’insaccato!» «Iniziamo a vedere cosa può starti bene, poi compreremo un abito simile o uguale, chiamerò la sarta, sistemeremo tutto», espresse d’un fiato, infervorata da quella sfida. Mi prese a braccetto e mi trascinò nel suo guardaroba. Addio aperitivo! «Com’è che la signora a questa “alta” opinione su di te?», domandò. «Frequento il figlio…» «Quale novella, questa me la devi raccontare», disse mentre ci avviavamo alla sua camera. Tra le varie chiacchiere su me e Joël, visionammo un’enormità di vestiti eleganti, ahimè tutti troppo lunghi e sofisticati per i miei gusti, così decidemmo che per me era più adatto qualcosa di più sbarazzino e magari corto fino al ginocchio. Mia madre prese nota delle misure, dei tessuti e dei colori che mi stavano meglio. Cioè si comportò come al suo solito con gli arredi, facendomi sentire un divano da rifoderare. Tornai a casa con la pancia piena di cibo e la testa piena di chiacchiere da parte dei miei genitori che, rispetto ai primi tempi, trovai notevolmente addolciti nei miei confronti. Che sentissero la mia mancanza? Certo, quella casa grande e vuota doveva emanare un senso solitudine e senza di me a metter disordine in giro mancava sicuramente di brio. Forse avevano bisogno di un cane o una dozzina di gatti per rimpiazzarmi. Mi venne da sorridere al pensiero di mia madre: gattara in tailleur.
Ero in camera mia a cambiarmi, mentre Joël ai fornelli era intento a preparare
due tisane. Probabilmente era l’unico ragazzo che avessi mai conosciuto a farmi compagnia con un infuso davanti alla televisione senza arricciare il naso e avere l’aria disgustata. Stavo per tuffarmi sul divano quando Joël si avvicinò con le tazze fumanti. «Ehi, allora com’è andata?», chiese posando le tisane sul tavolo dinanzi al sofà. «Benone», commentai. «Ascolta», pronunciò serio e pacato, prendendomi lentamente le mani nelle sue. «Forse non dovrei chiedertelo, ma mi farebbe piacere se mi accompagnassi all’inaugurazione del Beauté de Vénus della mia famiglia.» «Vuoi far andare di traverso lo champagne a tua madre?» La mia espressione lasciò lo stato iniziale di stupore per uno più divertito. Non sapeva che ci sarei andata anche senza il suo formale invito. «Ci sarò», sorrisi sghemba. «Sì?», chiese conferma incredulo. «Già», annuii col capo, attenta a non ridergli in faccia. Tirò un sospiro di sollievo, prese la tazza con la tisana e si mise comodo con un braccio posato sullo schienale e lo sguardo rivolto verso la televisione: «Uhhh, non mi aspettavo fosse così semplice», mormorò quasi tra sé e sé. Non dissi nulla, lo guardai di sottecchi e continuai ad avere il mio bel sorrisino divertito sulle labbra, poi mi accinsi a bere anche io il mio infuso, accoccolandomi a lui.
Capitolo 15 Nodi al pettine
Giunse la fatidica domenica pomeriggio, quella sera il Beauté de Vénus avrebbe aperto i battenti, offerto da bere e da mangiare ai suoi ospiti e magari qualche trattamento di bellezza. Io avevo proprio bisogno di una ristrutturata dopo la mia pennichella, avevo gli occhi stanchi, i capelli arruffati e i segni del cuscino sul viso. Joël era andato a casa sua dal mattino, per partecipare attivamente all’evento familiare. Si offrì di venirmi a prendere ma io controproposi di vederci direttamente al ricevimento, così almeno non lo avrei avuto intorno durante la mia seduta di disperato trucco e parrucco. Mia madre mi aveva comprato un bel vestito verde pino, molto luminoso, con scollo simil-cuore ma con spalline. Sul seno c’erano dei ricami di un verde più scuro con alcuni punti luce, lo stesso decoro percorreva le maniche del coprispalle trasparente. La gonna era lunga fino al ginocchio e scendeva morbida, ma non larga. Era un abito molto fine e anche scarpe e borsetta erano molto eleganti e discrete, in un leggero color cipria. Mia madre aveva puntato sulla raffinatezza. Con i capelli armeggiai poco, tenni il liscio e le punte mosse da un accenno di boccolo. Infine, dopo un leggero velo di trucco su occhi e guance, e una linea di eyeliner, appuntai un paio di orecchini, infilai un bracciale brillante e aggiunsi al collo un luccicante Swarovski. Non mi riconoscevo davanti allo specchio, in quelle vesti avrei reso sicuramente fiera mia madre. Aspettai il taxi e prima di uscire mi ricordai di prendere la busta con l’invito. Ero un po’ ansiosa, dovevo ammetterlo a me stessa. Giunta nella proprietà dove si estendeva il moderno centro estetico, notai una gran bella organizzazione. La hall era stata allestita per la serata con fiori e candele da atmosfera; c’era un vasto buffet e tanto champagne; come era
prevedibile. Mentre i camerieri sfilavano tra gli invitati con flûte colmi, alcune ragazze vestite con una sorta di tunica greca, cercavano di convincere le ospiti a provare dei trattamenti o prodotti specifici etichettati Charrier - Beauté de Vénus. In sottofondo vi era una musica lenta, molto tranquilla che accompagnava le parole e non le subissava. L’evento sembrava andare alla grande. Al centro, tra le due scalinate che portavano al piano superiore, vi era una fontana e avanti un piccolo palco, dove avrebbero parlato i VIP della serata. Da un lato notavo persone molto sofisticate e a loro agio, dall’altro personaggi impacciati e imbarazzati che avevano l’aria spaesata e avrei detto fossero dipendenti. «Ehi amore mio», sentii esclamare gioiosamente alle mie spalle. Mi voltai e trovai Joël in un bellissimo completo nero, avvitato: era estremamente elegante, sembrava un divo. «Sei uno spettacolo», mi accolse abbracciandomi. «Grazie e tu sei strepitoso. Che eleganza. Forse avrei dovuto indossare qualcosa di più distinto», dissi. «Sei fresca ed elegante: perfetta. Pensavo mi aspettassi all’ingresso», pronunciò dandomi un bacio senza badare alle persone intorno a noi. «Sono intraprendente.» Feci spallucce e lui sorrise accondiscendente. «Vogliamo mangiare qualcosa?» aggiunse prendendomi per mano «Ho giusto visto qualche tartina invitante.» Indicai uno dei tavoli stracolmi di prelibatezze. «E così l’hai portata qui!» La frase aleggiò sprezzante nell’aria. «In realtà, mi sono portata da sola Mad…» «Mamma, per favore!», m’interruppe Joël mettendosi davanti a me.
«Dillo che vuoi farmi vergognare! Che vuoi farmi dispetto!», esclamò nervosa e piagnucolante la donna. «Ma ti senti? Non posso crederci, vi sono stato dietro tutto il giorno, sono venuto qui per te e tu continui a tenere questo comportamento scorretto nei confronti di una persona a cui tengo!» «Cara è ora del discorso», annunciò Monsieur Charrier alle sue spalle, prendendo delicatamente il braccio della moglie. Madame Charrier era infagottata in un bel vestito bordeaux con la parte superiore dell’abito fatta di ricami floreali e trasparenze minime, ovviamente adatte a una donna prosperosa e di quell’età, che doveva essere elegante e non volgare. Prima di andare via, la donna mi guardò storto ma sembrò tranquilla appena salita sul palco. Doppiafaccia. Il discorso iniziò con un caloroso benvenuto agli ospiti, proseguì con la presentazione della struttura e dello staff. Infine, giunse il momento dei ringraziamenti. «E voglio esprimere la mia gratitudine per la splendida arredatrice di interni: Paulette Maurel e il suo staff hanno reso questo centro bellezza e benessere semplicemente divino. Purtroppo, Madame Maurel non è potuta presenziare stasera ma so che c’è un suo portavoce qui, che invito a farsi avanti.» Io e Joël eravamo in un angolo a bere champagne e a ridacchiare per i fatti nostri quando quella frase stuzzicò il mio orecchio. Per un attimo mi assalì il dubbio, andare o non andare? «Ehi, è tutto a posto?», chiese Joël vedendomi distratta. «Allora, c’è qui in sala un rappresentante della Maurel Décoration d'Intérieurs?», continuò Madame Charrier dal palco. Così, impettita, mi mossi per accontentarla e presentarmi. Posai il mio calice tra le mani di Joël e avanzai. «Ehi, ma dove vai?», domandò lui stranito. «Lo vedrai Joël», dissi ammiccando. Quando mi avvicinai al palco, il mio
accompagnatore strabuzzo gli occhi, quell’espressione perplessa fu impagabile. Con il sorriso più falso dei soldi del monopoli, mi presentai a Madame Charrier lontano dal microfono, bisbigliando sotto voce e con tono orgoglioso: «Salve forse non ci siamo presentate. Sono Kylie Harrison, figlia di Abner Harrison e Paulette Maurel. Ho curato io il salone in cui state banchettando e ho supervisionato insieme a mia madre lo stile di tutto questo ben di Dio che trova, appunto, divino», puntualizzai andando poi al microfono. «Salve a tutti, sono lieta che il posto sia di vostro gradimento…», iniziai a sproloquiare sull’attività di mia madre accennando alla nostra filosofia aziendale e terminai impudentemente il mio discorso con una frecciatina «Beh, concludo dicendo che come per le persone, è importante il lato esteriore quanto quello interiore e se avete voglia di migliorare i vostri interni sapete dove trovarci.» Il pubblico rise e ci fu un applauso che accompagnò la mia discesa strafottente dal palco sotto lo sguardo attonito e colpevole di Madame Charrier. Non vidi Joël e così decisi di fare una capatina al bagno, perché nonostante l’ostentata sicurezza mi ero notevolmente agitata e le mani avevano iniziato a sudare. Imboccai uno dei corridoi, sperando in una toilette, e improvvisamente mi sentii afferrare da dietro e spingere contro il muro. «Dio, mi hai fatto impazzire», esordì Joël baciandomi con foga. «Ehi, ehi, vacci piano», lo rimproverai boccheggiando tra i suoi baci. La sua mano iniziò a salire sotto il vestito arricciando la gonna e scoprendomi le gambe. «Joël e se a qualcuno?» Gli diedi un buffetto sulla spalla. Lui mi tappò la bocca con prepotenza, posando le sue labbra sulle mie e cercando con bramosia la mia lingua. Trovai tremendamente eccitante quella sua determinazione e quel suo volermi lì, a costo di fare una figuraccia. Non lasciando la presa, mi trascinò verso una porta, che aprì per nasconderci al suo interno. Ci ritrovammo in una toilette. «Joël e se qualcuno…» «I bagni in funzione sono nell’altro corridoio», mormorò ando a baciarmi il
collo e posando la mano sul mio seno. «Oddio, ma sei serio? Vuoi farlo qui?», biascicai rapita dal suo sfiorarmi e assaporarmi. Lo sentii aderire maggiormente al mio corpo, prendendo posizione più stabile tra le mie gambe. Ormai la gonna era arrivata a scoprirmi quasi anche l’intimo. Sentivo la sua virilità premere contro di me ansiosa di entrare e di possedermi. Joël era preso da un raptus di ione senza eguali. Cercai di moderare il volume e mugugnai di piacere a labbra strette, mentre lui con la lingua saggiava il mio seno. L’indice teneva aperta la scollatura mentre la lingua andava a lambire i capezzoli. «Joël», pronunciai, cercando di ritrovare il buon senso e fermarci in tempo, ma lui si abbassò la zip e oramai il “gioco si era fatto troppo duro” per abbandonarlo senza finire la partita. Spostò il mio perizoma di lato e si insinuò in me con un colpo deciso. Io ero già molto recettiva dopo quei preliminari e provai immediatamente piacere. Lui era pronto, accaldato e febbricitante. Mi baciò e sorridendomi, appoggiò la sua fronte sulla mia e mi disse ansimante: «Credo che ci andrò pesante questa volta.» «Credo che mi piacerà», lo incitai posando la mano dietro la nuca e aggrappandomi fortemente a lui, che subito iniziò a spingere, entrare e uscire furiosamente. I lavabi erano in muratura fortunatamente e ressero tutta quella pressione. Joël gemeva come non aveva mai fatto e quando velocizzò i movimenti, mi sentii stravolgere da capo a piede. «Sei con me?», disse pronto a esplodere. «Sono con te», sibilai al suo orecchio stuzzicandogli il lobo, e quel gesto lo fece scattare vigorosamente per i colpi di grazia che mi mandarono in orbita. Avevamo l’affanno, ci eravamo sfrenati, eravamo sudati, soprattutto lui nel suo completo nero e spiegazzato. I nostri guardi si perdevano l’uno nell’altro, mentre cercavamo di rallentare il respiro. Poi Joël, in un gesto dolcissimo, mi prese il mento in una mano e mi baciò con delicatezza, tutt’altro contatto rispetto ai baci lussuriosi di poco prima. «Abbiamo fatto la nostra comparsa andiamo via?», domandò. Annuii, non distogliendo lo sguardo dai suoi brillantissimi occhi celesti. Mi tirò giù la gonna sistemandomela per bene e poi ò ai suoi pantaloni. Mi accarezzò il viso e mi aggiustò una ciocca di capelli volata al lato opposto della
testa. Sei bellissima, queste guance rosse e queste labbra che sembrano ciliegie, non mi stancherei mai di ammirarle.» «Uhhh…», espirai, «Tu continua così e vedrai spesso questo rossore sul mio viso», dissi dandogli un paio di pacche sul petto. «Sarà un piacere», sorrise aggiustandosi il colletto. Uscimmo dal bagno, mano nella mano, con un sorriso ebete in faccia, decisamente appagati ma anche divertiti da quella situazione. «Non mi avevi detto che eri una “creativa”?», chiese d’un tratto. «Non ho detto che ero esclusivamente una “creativa”», feci notare. «Sei ricca di sorprese, oltre che ricca in senso letterale, ma per me sarai sempre la mia artista, creativa e sbarazzina», riprese le parole di una delle nostre prime conversazioni e rimasi piacevolmente colpita. «Scusami se non ti ho detto del mio lavoro ufficiale, ma la mia famiglia è un bel fagotto da portare sulle spalle, a volte non so se gli altri parlano con me o parlano al mio cognome.» «Sei davvero fuori dal comune», dichiarò con affetto. Ci dirigemmo in sala, Joël mi posò una mano dietro la schiena e mi sospinse verso l’uscita, quasi fosse ansioso di andarsene. «Ehi Joël.» Sentii chiamare alle nostre spalle. Joël si voltò e si trovò Liza di fronte. «Speravo di incontrarti», esordì con un sorriso radioso. Era sempre un raggio di sole quella ragazza, anche se nel parlare con Joël lessi un certo timore nella sua espressione. «Liza, che ci fai qui?», domandò Joël preso alla sprovvista. «Hanno mandato l’invito anche a me, non mi hanno ancora cancellato dai
database suppongo. Ascolta, so che non dovremmo parlare e che gli avvocati stanno provvedendo alla separazione, ma pensavo che potremmo risol…» Improvvisamente, come se un occhio di bue mi avesse puntato, Liza spostò lo sguardo su di me. «Kylie?», pronunciò stupita e appena accigliata. «Sono qui perché… Beh, immagino tu non abbia visto la presentazione, ho curato l’arredo», esposi in modo un po’ confuso palesando disagio. Speravo di non creare problemi con quella spiegazione e salvare Joël da attacchi isterici. Lui non era solito fare piazzate, ma poi intervenne come mai mi sarei aspettata e mi scioccò e lusingò al tempo stesso. «Liza, non è solo questo il motivo. Io e Kylie ci frequentiamo, io la amo», confessò e mi girai nella sua direzione con aria persa. Era il caso di essere così schifosamente sincero? Ammetto che fu anche infinitamente romantico oltre che fin troppo diretto. Liza sembrò ricevere un pugno nello stomaco, smise di respirare e sbiancò. «Da quanto?», domandò con un filo di voce. «Che importanza ha?», replicò Joël. «Ha importanza! Mi hai tradito? Mi avete tradito?», pronuncio enfatizzando l’ultima domanda colpendo entrambi. «Liza, sono io che ho cercato lei, tu non sei adatta a me, tutto qua.» «E-e lei lo è?», iniziò a piangere. «Non fare scenate qui per favore», ammonì Joël rigoroso. Liza rimase senza parole e se ne andò a bocca aperta e occhi spalancati, con l’incredulità dipinta in volto oltre che una profonda delusione. Doveva avere il cuore a pezzi. Ecco che tornava a galla il senso di colpa che fino ad allora era affondato in un mare di belle emozioni e batticuori, oltre che di amplessi peccaminosi.
Lasciammo l’inaugurazione, diretti verso l’auto di Joël, quando, improvvisamente, lui si fermò vicino alla portiera rivolgendomi uno sguardo preoccupato. «Cosa provi per me?», domandò. «Come cosa provo? Lo sai…» «No, non lo so. Sei sembrata distante quando Liza ha chiesto il motivo della tua presenza qui e ho notato che tendi a mettere in dubbio il nostro rapporto come se non ti fidassi abbastanza di me. Hai detto che pensavi ti usassi per far innervosire mia madre ma… forse sei tu che usi me come toy-boy.» «Perché dici questo?» «Non sembri innamorata, mentre io sono pazzo di te», confessò imbarazzato con un sorriso trattenuto. «Ma…», riuscii solo a dire pietrificata. Ero davvero così fredda? «Non mi hai mai detto che mi ami, non hai mai scandito quelle due parole e non osare dirmele ora, non voglio un contentino», concluse salendo in auto e io lo seguii occupando il lato eggero. Tornammo a casa in silenzio e ci demmo la buonanotte sul pianerottolo, poi ognuno si trincerò nel proprio appartamento. Lui era serio, dannatamente serio e consapevole dei suoi sentimenti. Io di cosa avevo paura?
Capitolo 16 In famiglia
Riflettei tutta la notte, seriamente e attentamente. Se la storia con Joël fosse durata, avrei dovuto convivere con il pensiero di essere accolta per il mio cognome e non per come ero davvero. Non solo, avrei anche dovuto accettare di essere la causa del fallito matrimonio di Joël. Non mi piaceva questo e non mi piaceva Madame Charrier. Joël avrebbe amato allo stesso modo la Kylie modesta, disordinata e creativa; e la Kylie figlia di un imprenditore e di un’affermata arredatrice d’interni?
Il buon giorno si vedeva dal mattino? Beh, non è proprio un buon dì se dopo una nottata agitata ti vengono a svegliare alle 7.00 quando hai un giorno di ferie. Infilai la vestaglia e andai alla porta, dove trovai Joël pronto per andare al lavoro, con il braccio poggiato allo stipite e una posa piuttosto rigida. «Non voglio andare in clinica sapendo che tra noi c’è qualcosa che non va.» «Va tutto bene, hai ragione, per me fidarmi è difficile, non ho mai avuto una relazione seria», ammisi. «Ti amo», replicò semplicemente. «Oh, anche io.» Mi alzai sulle punte e lo baciai. «Devo andare, ci sentiamo a pranzo?» «Quando vuoi.» «Davvero? Non disturbo?»
«Che sciocco. No, non disturbi. Chiamami, messaggiami, mandami un piccione, io ti aspetterò.» «Avrei anche altre cose in mente, ma le rimanderemo», disse schioccandomi un bacio e filando via. Me la presi comoda, poi decisi di are da mia madre nella pausa pranzo. Raggiunsi La Défense e, come sempre, mi soffermai ad ammirare Le Grand Arc, un’opera architettonica che continuava, giorno dopo giorno, ad attirare la mia attenzione: imponente e moderna, era difficile non contemplarla e rimanere senza fiato Quando varcai la soglia dello studio di mia madre, per poco non la vidi cadere dalla sedia per lo stupore. «Sei davvero qui? Nel mio ufficio in un giorno di ferie? Non ci posso credere.» Finse uno svenimento. «Sì, sì, sì, quante chiacchiere. Andiamo a mangiare un boccone o resti chiusi nella tua tana?» «Procediamo.» Prese la borsa e uscimmo. Andammo in un bistrot semplice, pulito e raffinato. Scegliemmo le nostre pietanze e ci sedemmo. «Allora di cosa devi parlarmi?», domandò mia madre. «Chi ti dice io debba parlarti di qualcosa?» Mi guardò sbieca come se nascondessi il segreto del senso della vita. «Okay, okay. Il ragazzo che frequento, il figlio di Madame Charrier, sembra tenere a me e io con lui sto bene, però è uscito da poco da uno strano matrimonio.» «Che vuol dire strano matrimonio?», s’incupì. «Sai, uno di quelli celebrato in fuga d’amore, tipo Las Vegas», accennai. «Ah», fu il suo commento.
«Comunque, credo che con gli affari di cuore sia troppo frettoloso. Non so come si sia comportato con le sue ex, ma con me è tutto un “ti amo” e “ti voglio”, “ci tengo” e cose del genere…» «Magari è davvero così, forse ha paura di perderti. Figlia mia, sei tu un po’ sterile nelle relazioni, o almeno all’inizio sei tutta presa poi ti tiri indietro come se avessi paura…» «Io non ho paura e se stai alludendo alla relazione con Maurice, lui ero un retrogrado, mi voleva a casa con una sfilza di figli al seguito e io non ho intenzione di finire in questo modo», sentenziai chiara. «Tu cosa provi per lui?», domandò diretta, guardandomi fissa mentre con la forchetta affondava nello sformato. «Io lo adoro. Condividiamo tante cose, è presente ma non invasivo e… non sopporto sua madre.» «Tesoro, non devi stare mica con sua madre?», rise. «Hai presente Madame Charrier? Che mette bocca su tutto e ha paura che gli sciupino il figlio? Se penso che ora possa stimarmi solo perché sono di buona famiglia, mi sale il nervoso!» «Questa è dura da accettare ma, se ami il ragazzo…» «Se amo Joël, dovrei accettare e andare oltre?» Annuì. Ci pensai. Ci pensai davvero molto. Tornai a casa e chiacchierai con Joël durante il tragitto. «Mia madre ci ha invitato a cena», mi avvisò e rimasi a bocca aperta davanti al ricevitore. «Ci? Cioè entrambi? Improvvisamente le sto simpatica?», scattai indispettita. «Ti prego. È importante per me», supplicò dolce e immaginavo i suoi occhi
scintillanti farsi grandi e luminosi come quelli dei cuccioli imploranti d’attenzioni. Ricordavo ciò che provava Joël nel non poter condividere con i suoi genitori il suo matrimonio e non volevo privarlo di questo bisogno. «D’accordo, a che ora?» «Sul tardi. Vorrei tornare a casa e farmi una doccia prima di andare dai miei. Facciamo per le 20.00?» «D’accordo Joël, mi troverai pronta e sorridente per quell’ora.» «Non sai quanto questo conti per me.» «A stasera», salutai. Che Madame Charrier non mi fosse particolarmente simpatica era palese, ma era pur sempre la madre del mio ragazzo e quella cena era come un debutto ufficiale per me e Joël, quindi, oltre a un certo disagio, sentivo anche la necessità di non sgarrare. Indossai un pantalone classico beige stretto alla caviglia e sopra una maglia morbida bianca con decori laminati, ravvivata ulteriormente da una collana lunga a doppio filo. Avevo scelto una mise tra il casual e il classico, non volevo eccedere ma farmi conoscere per quella che ero e, cioè, una ragazza semplice, nonostante i genitori ricchi alle spalle. Forse, la mia unica pecca era l’intimo sconnesso, reggiseno rosa pallido con perizoma rosso portafortuna. Quella sera avevo bisogno del mio amuleto. Joël si presentò puntualissimo alla mia porta: in jeans, camicia e giacca blu notte. «Kylie sei splendida», esordì attirandomi delicatamente a sé per un tenero bacio. «Stai bene anche tu e ti vedo molto sereno», sorrisi. «In realtà sono ansioso.» Si mosse nervoso. «Andrà tutto bene, non sarò indisponente», assicurai prendendo borsa e soprabito. Ci avviammo verso il garage, l’aria era pungente, il fresco si sentiva distintamente sulla pelle.
«Okay, ora ti vedo inquieto», confessai arrivati alla sua auto. «Sì, lo sono, ma più che altro sono insicuro», ammise. Salimmo in auto e continuai a indagare nei suoi pensieri. «Pensi andrà male? Sei stato tu a pregarmi di accettare.» «Hai ragione. La mia paura è di averti spinto troppo.» Mi rivolse uno sguardo pentito e preoccupato. «Allora temi davvero che io non tenga abbastanza a te», proferii seria e delusa. «Il problema è mio Kylie, anzi forse sono proprio io il problema, o magari lo è la mia famiglia. Ho paura che qualcosa nel mio atteggiamento non ti permetta di avvicinarti del tutto a me, o che addirittura finisca per allontanarti», farfugliò confuso. «No, niente di tutto ciò.» «Allora perché ho la sensazione che da quando hai conosciuto mia madre i tuoi toni si siano raffreddati?» «Perdonami, anche io ho le mie turbe interiori, ma questo non significa tener meno a te», spiegai. Joël accettò quella spiegazione e in parte si acquietò. I signori Charrier abitavano in un appartamento sui Champs-Élysées, erano a circa venti minuti dalla nostra zona. «Sei pronta?», domandò Joël in ascensore. «Non ho scelta a questo punto, no?» Presi un gran respiro. Ad accoglierci fu Madame Charrier. «Benvenuti, benvenuti», esordì a braccia aperte, richiamando la domestica per i soprabiti. «Kylie sei splendente», aggiunse poi. «Grazie, signora», dissi atona e Joël mi lanciò un’occhiata esaminatrice, come
per capire il mio stato d’animo. «Poiché è tardi, abbiamo pensato a una cena leggera ma comunque gustosa», illustrò la padrona di casa. Io rimasi ammutolita, osservandomi intorno. La casa era moderna e caratterizzata da colori chiari. Il bianco dominava. «Bentrovati ragazzi», salutò il padre di Joël. «Gradite un drink?» «No grazie, Monsieur Charrier.» Forzai un sorriso. «Allora, direi di procedere con la cena. Prego seguitemi in sala da pranzo», invitò gioiosa Madame Charrier. Per quanto mi sforzassi, oltre a sfoggiare falsi sorrisi, non riuscii a essere molto loquace. Mi amareggiava sentirmi così ben voluta dalla madre di Joël solo per la famiglia a cui appartenevo e questo pensiero mi tappava la bocca. Forse anche per questo, per me, era più facile rivolgere la parola a suo marito che a lei. Dopo l’insalata, mi congedai per un paio di minuti andando alla toilette. Poco prima che chiudessi la porta, un piede la tenne aperta e la spalancò nuovamente. «Joël, ma che fai?» Entrò di forza e chiuse la porta, guardandosi attentamente alle spalle. «Che ti prende?», chiese diretto. «Cosa intendi?» Scossi la testa. «Sei altrove, sembri disinteressata, fredda, con la testa su un altro pianeta. Conosco bene i tuoi sorrisi e stasera sembri paraplegica!», mi riprese. «Questa cena per te è solo una gran rottura, ammettilo.» Mi portai una mano alla fronte e spostai i capelli all’indietro. «Come ti permetti di dire una cosa del genere?», ribattei offesa dandogli le spalle e poggiando le mani sul lavabo. Il silenzio ci avvolse. Mi levai gli anelli e mi lavai le mani, rinfrescandomi le guance e il collo.
Joël mi osservò senza dir nulla, aspettando che aggiungessi qualcosa. Goffamente feci cadere un anello per terra e mi abbassai a raccoglierlo, quando mi alzai Joël era vicino a me con occhi sgranati come se avesse visto un fantasma. «Che-che c’è?», domandai. «Ce l’hai», disse. «Cosa?» Non capii. «Ti sei abbassata e l’ho visto.» «Di che stai parlando?», esplosi gesticolando sempre più confusa. «Il perizoma, quello delle occasioni importanti», precisò finalmente con un tenero sorriso. «Ti sembra il momento di parlare del mio perizoma?» Mi abbracciò e mi accarezzò la testa. «Credo mi sia sfuggito qualcosa», mormorai prendendomi quelle coccole. «Se hai indossato quel filo interdentale rosso, è perché hai ritenuto la serata importante. Oh ti amo, scusami se sono così paranoico.» «E tu hai compreso tutto questo da un capo d’intimo?» Rise sommesso. «Per capirti meglio, sono costretto a cogliere certi dettagli.» «Ma ti ho sempre dimostrato ciò che provo.» «Pensavo andasse a finire male, pensavo davvero ti saresti stancata di me, di mia madre, di mio padre e delle mie ossessioni.» «Smettila», dissi guardandolo in viso con aria seria. «Okay taccio», concesse, avvicinando la sua bocca alla mia e iniziando a giocare
con il mio labbro inferiore. «Joël?», mormorai sommessa, trovando la situazione disdicevole, mentre lui percorreva le mie labbra con la lingua. «Joël…», sospirai appena, ma lui mi chiuse definitivamente la bocca baciandomi con ione, infilando le mani nel mio pantalone e afferrando con decisione i miei glutei, scoperti dal perizoma che tanto aveva ammirato. «Joël non possiamo, siamo a casa dei tuoi», lo rimproverai staccandomi da lui. «Hai ragione, io esco per primo tu… seguimi tra un po’», disse accaldato, poi uscì dal bagno cercando di assumere un atteggiamento disinvolto.
Capitolo 17 Farsi da parte
Stavo rientrando a casa in pausa pranzo, volevo terminare un lavoro grafico e poi tornare in ufficio. Durante il tragitto mi trattenni al telefono con Joël, incrociai Monsieur Toussaint e lo salutai con un cenno e un sorriso, dopodiché, entrando nel palazzo, mi gelai di fronte alla vista di Liza, seduta sulle scale del pianerottolo. «Sono arrivata, ti saluto, a dopo», mi congedai freddamente e Joël non ebbe il tempo di ribattere. Il viso della ragazza era contratto, segno di profonda rabbia e tensione. «Liza io…» «No, non voglio ascoltarti. Sei tu che devi ascoltare me!» Deglutii, non era mai stata così determinata e tagliente, tutta la dolcezza della sua voce era un lontano ricordo ma lo comprendevo. «Devi lasciarlo», ordinò breve. «Liza, io lo am…» «Sono incinta!», sbottò lei irritata interrompendomi immediatamente e in quel momento il mio cuore sembrò fermarsi. «Dio», sussurrai. «Capisci che se non ti fai da parte questo bambino crescerà senza un padre solo per un capriccio? Noi siamo ancora una famiglia in fondo e tu sei quella che la sta distruggendo!»
Ero una rovina famiglie. «Fatti un esame di coscienza, sgualdrina!», disse scuotendo la chioma bionda e andando via. Non so se il cuore avesse smesso battere, ma ero quasi sicura di avere un buco dove prima c’era il muscolo cardiaco. Nella mia mente non faceva che lampeggiare la parola “bambino”. Come potevo mettermi in mezzo a una cosa del genere? Rovinare la vita a una creatura non ancora nata? Mi ritrovai a casa dei miei genitori a piangere a dirotto con il flusso di una fontana. Dopo la scioccante notizia della gravidanza di Liza, presi giusto una borsa con il minimo indispensabile e lasciai l’appartamento di corsa. Spensi il cellulare e mi isolai fino a sera, quando mia madre mi trovò rannicchiata sul mio letto da bambina a disperdere lacrime. Corse immediatamente al mio fianco e mi abbracciò accarezzandomi la testa. «Che è successo?», domandò apprensiva. «Avrà un bambino. Il mio ragazzo avrà un bambino con la sua ex moglie… o attuale moglie, non so a che punto siano, ma so che c’è una creatura in procinto di nascere e non posso rovinarle la vita.» «Oh», pronunciò mia madre non aspettandosi una notizia del genere. «Capisci? Non posso stare con lui. Magari ha ragione sua moglie, io sono un capriccio e quando se ne renderà conto, tutto sarà rovinato.» «Ma lui ti ama Ky, non mettere in dubbio questo.» «E io amo lui ma non posso mettermi in mezzo, non me la sento. Non posso farmi trovare, non devo neanche parlargli mamma. Sarebbe troppo difficile…» «Allora ci tieni davvero a lui.» «Capisci il valore delle cose solo quando le perdi e io credo di aver perso il cuore in questa faccenda.»
«Oh, Ky.» Mi abbracciò. Le parlai di tutta la mia storia con Joël, tra lacrime e sorrisi, evitando ovviamente il lato piccante di quella relazione. Mia madre mi ascoltò intenerita, per una volta dolce nei miei confronti, risparmiando ogni tipo di rimprovero per lasciar spazio alla comprensione e al sostegno che solo una mamma poteva darmi. «Che vuoi fare? Lasciarlo?», domandò. «Devo. Con me non potrà mai affrontare lucidamente la situazione», piagnucolai tirando su col naso. «Devi dirglielo in faccia però. Non puoi lasciarlo con un sms o una telefonata, merita di più.» «E come posso fare a non scoppiare in lacrime?» «Pensa a quanto detesti sua madre, pensa a tutto ciò che ti fa saltare i nervi, e cerca di andare via prima che tu possa crollare. Sono fiera della tua morale Ky, ma non so se sia una cosa giusta farsi da parte in questo modo.» «Non sono pronta a una relazione di questo tipo mamma. Non posso convivere con una suocera superficiale e una famiglia allargata in cui l’ex moglie mi odia. Non posso avere a che fare con un figlio non mio quando il mio istinto materno è sepolto nel mio essere. È tutto fuori tempo, è tutto sbagliato, è tutto così ingiusto», finii con parole sommesse e cariche d’amarezza. Cercai di riprendere il controllo di me stessa, mi sciacquai il viso, mi truccai nuovamente e mi infilai un vestito decoroso andando incontro al mio destino nefasto. Dovevo andare in clinica e affrontare lì Joël, per evitare scenate e accorciare i tempi di quella rottura. Arrivai sul posto, era un ambiente molto austero, ma più confortevole ed elegante rispetto a un ospedale. Il personale si contraddistingueva per la bella presenza, ma non poteva essere altrimenti. Il ragazzo al bancone aveva un volto angelico e ricordava vagamente Zac Efron con il fisico attuale, ma con capello alla High School Musical. «Salve, vorrei vedere il dottor Charrier, Joël Charrier.»
«Ha un appuntamento?» «No, ma è un affare privato piuttosto urgente, ci vorranno due minuti», assicurai. «Non so se può riceverla.» «Chiami il suo interno e risolveremo questo enigma», dissi sarcastica sfoderando un sorriso quasi maligno. L’addetto obbedì e, dopo essersi messo al telefono, mi concesse di salire al piano superiore. «L’ufficio è in fondo al corridoio sulla destra», indicò il ragazzo. Dopo aver ringraziato in modo freddo, avanzai verso le scale scandendo nella mia testa il discorso che avrei dovuto ripetere da un momento all’altro. Lo studio di Joël era sgombro, fortunatamente non aveva pazienti ad aspettare. Le vetrate che lo dividevano dal corridoio affacciavano su scrivania, poltrone e null’altro. Uno stile molto minimale. Vidi Joël seduto allo scrittoio, il suo sguardo era rivolto al pc e sembrava molto preso da ciò che stava facendo. Era dannatamente sexy oltre che professionale e con il camice bianco aveva un fascino del tutto nuovo per i miei occhi innamorati. Già, innamorati, dovevo cancellare quel termine dal mio vocabolario se non volevo cambiare idea e dileguarmi. Bussai per attirare l’attenzione, lui mi fece cenno di entrare e si alzò per venirmi incontro. Stava per abbracciarmi quando lo fermai tendendo il braccio e fu un gesto che mi costò davvero molto. Il suo sguardo si rabbuiò e rimase attonito, quasi sospeso nel tempo aspettando una mia spiegazione. «Che succede?», domandò visibilmente preoccupato. Probabilmente la mia espressione non lasciava presagire nulla di buono. «Ci ho pensato Joël, ci ho davvero riflettuto tanto e credo che la nostra storia non possa andare avanti. Hai ragione, io non tengo abbastanza a te e non mi va di essere coinvolta nella tua famiglia perché francamente non mi piace. Alla fine sei un bel faccino, un bel corpo, ma tante complicazioni.» Feci spallucce. «Semplicemente, non mi va che la relazione diventi seria e mi sembrava giusto dirtelo prima che la situazione ci sfugga di mano.»
Joël abbozzò un sorriso nervoso. «È uno scherzo? Stai scherzando Kylie?», ripeté scioccato, come se fosse l’ultima cosa che si aspettasse al mondo. «Sono seria, Joël.» Distolsi lo sguardo. «Non capisco, sembrava andare così bene.» «Joël, poi, parliamoci chiaro: la tua famiglia non è all’altezza della mia», continuai a infierire. «Me la stai facendo pagare per ciò che ti ha detto mia madre? Per la cena che ti ho costretto a subire?», domandò confuso, atterrito, con sguardo perso nel vuoto. «Sì Joël, per tutto. Senza rancore okay?» Tesi la mano, ma lui si rifiutò di stringerla e andò verso la scrivania poggiando di colpo le mani sulla sua superfice, come se cercasse un sostegno. «Ti saluto», dissi mortificata e devastata, tentando di mantenere quella rigidità che mi ero imposta. Uscii dal suo ufficio, incrociai nel corridoio Madame Charrier che vagliò la mia espressione e poi posò il suo sguardo alle mie spalle, verso l’ufficio del figlio, dove vide Joël sprofondare nella sconsolazione. Senza indugiare oltre, avanzai per dileguarmi il più in fretta possibile. Arrivata all’uscita, le porte scorrevoli si aprirono e in quel momento il suono del mio nome scosse la quiete della clinica, attirando verso la hall tutti gli sguardi dei presenti. «Kyle», urlò Joël dal piano superiore correndo per raggiungermi. Il cuore batté forte ma io non lo ascoltai, uscii dall’edificio e filai via come se avessi un cane infuriato alle calcagna.
Capitolo 18 Coalizione inaspettata
Non potevo tornare a vivere con i miei e tanto meno potevo rimanere nello stesso palazzo con Joël ai piani alti. Di certo, vivere sotto i ponti non era un’opzione da prendere in considerazione, ma magari avrei potuto arrangiare qualche giorno dai miei genitori. Dopo la mia visita in clinica, il cellulare iniziò a squillare come posseduto dai “demoni del trillo”. Ogni tipo di numero iniziò a comparire sul mio display da numeri fissi a numeri privati, più una sfilza di prefissi mobili. Si scatenò l’inferno, tant’è che a un certo punto decisi di spegnerlo. Andai immediatamente al mio appartamento, preparai una borsa con qualche cambio e cercai di abbandonarlo al più presto. Ero quasi fuori, quando aprii la porta e sulla soglia trovai Madame Charrier con lo sguardo di un drago pronto a sputare fuoco. Mi sentivo Bilbo Baggins di fronte a Smaug, ma senza l’anello. «S-salve, scusi ma vado un po’ di fretta», fui categorica ma la signora con il suo corpo imponente, avvolto in un tailleur color prugna, mi fece arretrare e chiuse la porta alle sue spalle. Bene, ora mi avrebbe abbrustolito. Io sono fuoco... Io sono... Morte, aleggiava nella mia testa la frase di Smaug. «Tu hai ferito mio figlio come nessuno al mondo ha mai osato fare», dichiarò a labbra strette e con gli occhi ridotti a fessura, quasi mi volesse sparare un raggio laser in mezzo alla fronte. «Signora, con tutto il rispetto, non sono affari suoi», dissi mantenendo la calma
ma sempre con le mani in avanti per pararmi gli organi vitali. «No, sono affari miei invece. Hai demolito mio figlio, hai posto fine al suo matrimonio, hai avuto con me una faccia tosta indescrivibile, e ora lo lasci? Non mi bevo le scuse che gli hai raccontato ragazzina, ora sputa il rospo o sarò costretta a cavarti la verità di bocca con le maniere forti. Vengo dal ghetto dovresti saperlo!», minacciò. «Signora, è proprio per il suo matrimonio che lo lasciò, è ancora in tempo per fare un o indietro e…», mi interruppi. «No, no, ti sbagli, è tutto avviato, non tornerà indietro neanche sotto tortura.» «Liza è… incinta», confessai. «Cosa?», sbottò incredula Madame Charrier e direi anche divertita. «Non ci credo. Avrebbe usato la gravidanza in sede legale. No, no, no. Sta mentendo per portarti via mi figlio e per impersonare la martire. Ne sono certa, quella gatta morta dovrà are sul mio cadavere prima di mettere in scena questa commedia da quattro soldi e tu», marcò enormemente il tu, «Non le darai corda!» «E se fosse vero? Se volesse mantenere il segreto, per privacy? Infondo voi incutete un certo timore signori Charrier», dichiarai apertamente. «Oh, ragazzina, scoprirò se quella biondina ossigenata sta mentendo», ghignò sicura di sé. «Perché? Perché vuole che io non lasci suo figlio?» «Tu signorina hai spina dorsale, cosa che non ho riscontrato in quelle bamboline che ho visto girare attorno a mio figlio dal liceo a oggi è non permetterò che l’unica nuora con un po’ di sale in zucca mi sfugga», espresse tra il serio e lo scherzoso. «Okay, ma se Liza è incinta, io sparirò e lei non dovrà mettersi di mezzo nelle scelte di Joël. Stiamo parlando di un bambino e, se così fosse, questa creatura avrà la precedenza su tutto e tutti.» «Vedremo a tempo debito, mia cara ragazza, ma se la contadinotta non è
incinta…» «Le strapperò i boccoli con le mie mani!», sbottai io seria con aria da psicopatica e Madame Charrier annuì col capo. A essere psicopatiche, forse, eravamo in due…
Capitolo 19 Inutili dettagli
Ed eccomi appostata dietro la vetrata di un bar, o meglio dietro un albero davanti alla vetrata di un bar. Mi mancavano l’impermeabile e il cappello in testa per sembrare un investigatore privato. Madame Charrier aveva invitato Liza a una conversazione informale, con la scusa di chiarire la sua posizione riguardo al rapporto tra lei e Joël, dandole una fantomatica speranza di riappacificazione. Avevamo scelto un bar abbastanza frequentato, che serviva cocktail alcolici di ogni tipo e davvero buoni. Spesso mi fermavo lì per l’aperitivo, ma quella era altra storia. Madame Charrier e Liza si erano appena sedute e parlavano tranquillamente. La madre di Joël ribolliva, eppure mostrava molto selfcontrol in quel momento. Io ero pronta con il cellulare in mano a immortalare il momento in cui Liza avrebbe buttato giù un alcolico o si sarebbe lasciata sfuggire un indizio rivelatore. «Ehi, che ci fai qui?» Mi sorprese una voce alle mie spalle. Mi voltai lentamente e mi trovai di fronte Sébastien. «Oh, wow, già fuori dall’ufficio?», mi meravigliai. «Beh, sono le sette, sai, anche io torno a casa prima o poi», ironizzò. Sembrava tranquillo, forse un po’ pungente, ma piuttosto disteso, almeno nell’espressione. «Allora, che fai appostata qui? Chi stai spiando?», domandò guardando nella mia direzione. «Una signora di colore e una biondina, beh dovrai spiegarmelo.» «Non so se sia il caso…», lasciai la frase in sospeso. «Oh dai. Credi non possa capire? Dopo aver realizzato che tra noi non c’è storia,
posso comprendere anche tutto il resto», affermò tagliente cercando di farmi sentire in colpa. «Quella ragazza millanta di essere incinta del figlio della signora di colore al suo fianco. Io e la donna cerchiamo di capire se è vero.» «E tu c’entri perché?» Ed ecco arrivare alla parte difficile. «Perché io frequentavo il figlio», dissi stringendo i denti. «Ah!», esclamò secco. «Scommetto che è il “vicino dei biglietti”.» «Già, è lui.» «Sbaglio o ho intravisto quella biondina il giorno in cui mi hai piantato?» Scrutò serio. «Séb, per favore», lo ammonii. «Ehi, Ehi, era solo una domanda», fece l’innocente. «Sì e lei», ammisi. Vidi Liza bere e fotografai l’attimo. «Ascolta, vederla bere un alcolico, ammesso che lo sia, non prova che non sia incinta. Magari è solo una madre degenere.» «Per questo spero si faccia sfuggire qualcosa», mormorai. «Ah, che piano!», schernì lui rimanendo appostato con me. Lo sentii talmente vicino che iniziai a provare un certo imbarazzo. Il suo fiato sul collo, il suo petto contro la mia schiena, la sua mano sul mio fianco. «Séb… non occorre tu rimanga», feci notare. «Oh, ma la situazione è estremamente interessante», dichiarò sornione. Alzai gli occhi al cielo e sbuffai, per poi tornare sulla scena all’interno del bar.
Improvvisamente, Madame Charrier iniziò ad alterarsi, sbatté il contante sul tavolo e uscì furiosa. Io raggiunsi l’entrata, attenta a non farmi vedere, e quando uscì, la braccai. «Allora? Si è tradita?» «No, ha bevuto uno stupido drink alla frutta e mi ha decantato l’amore per mio figlio. Tutto qua… Le ho persino offerto dei soldi per sparire, ma non molla.» «Beh, questo è immorale», mormorai con un briciolo di coscienza. Sébastien ò lo sguardo da me a Madame Charrier come se stesse studiando la situazione. «Lui chi è?», sbottò la donna facendo cenno col capo in direzione di Séb. «Un amico di aggio», spiegai sommariamente. «Quest’amico può essere utile. Scusatemi…», disse smarcandosi ed entrando nel locale. «Oddio che vuoi fare?» Cercai di afferrarlo ma non ci riuscì e Madame Charrier mi trattenne per la manica del giubbino. «Non farti vedere», predicò. Per non dare troppo nell’occhio, ci rintanammo in un negozio sul lato opposto della strada. Sébastien attaccò bottone con Liza e la vidi ridere di gusto alle sue battute. Dopo tre quarti d’ora uscirono insieme, Sébastien la accompagnò a un taxi e la salutò. Appena l’auto fu lontana, raggiungemmo il mio amico e pretendemmo spiegazioni. «Si può sapere che hai fatto?», domandai dandogli un colpetto sul torace. «L’ho corteggiata», rispose come se fosse ovvio, facendo spallucce con sorriso sghembo in viso. «E…?», perseverai. «Ho registrato la conversazione. Non mi pare sia incinta. Ha rifiutato le mie
avance parlando di un marito e della volontà di mantenere unita la sua famiglia. Quando gli ho chiesto dei figli, ha detto che non ne ha e che non sono in programma, vuole prima dedicarsi alla coppia e al suo uomo. In pratica mi ha dato picche.» «Non ti ha riconosciuto?» «No, non credo, in fondo anche io non l’ho riconosciuta subito», concluse Séb. «Se quella contadinotta è incinta, io sono Beyoncé», dichiarò Madame Charrier. «Non potete semplicemente parlare con l’ipotetico padre e far sistemare a lui questa storia? Andiamo, è grande e vaccinato, se si è sposato, è anche in grado di gestire una moglie fintamente gravida», scoppiò Sébastien. «Il punto, Séb, è che non voglio ritrovarmi di mezzo se c’è davvero un bambino perché lui potrebbe…» «Potrebbe non tornare con la moglie per te?», dedusse lui. Annuii. «Beh, non sono d’accordo. Non puoi spingerlo verso un concetto giusto, se la cosa giusta, per lui, sei tu! E tu sei una persona davvero giusta per chiunque Ky», disse dolcemente. «Dovremmo parlare con Joël e dirgli delle pressioni fatte da Liza», si accodò la madre. «Oh, no! No! Non vi permetterò di plagiarmi!» dichiarai innervosita dai loro discorsi. «Me ne vado a casa, buona serata Madame Charrier. Ciao impiccione!», mi congedai con toni aspri e non avendo più voglia di pensare, presi gli auricolari del cellulare, li attivai e premei play sul touch-screen per lasciarmi andare a un po’ di musica.
Capitolo 20 Solo se verrai con me
Ero cresciuta in una grande casa per lo più vuota, con la sensazione si avere sempre un genitore mancante. Mio padre sempre in viaggio, o mia madre che rientrava tardi quando io ero prossima ad andare a letto. So che significa avere una famiglia a metà, eppure io non avevo neanche i genitori divorziati. Come potevo far vivere la stessa solitudine, la stessa mancanza, a un altro bambino quando io per prima ne avevo sofferto? Questo mi ripetevo nella mia vecchia camera da bimba, questo mi tormentava e mi induceva a non tornare da chi amavo. Amavo, che parola grande, bella e triste. Il camlo suonò, la cameriera avrebbe dovuto aprire, ma non accadde, è questa volta lo scamlio fu più insistente. Misi le pantofole e corsi ad aprire. Arrivai nell’atrio e la domestica aveva aperto, lasciando entrare in casa Joël. Andai nel panico neanche fosse Freddy Krueger. «Puoi andare…», ordinai lieve con un gesto della mano rivolgendomi alla cameriera. Lei fece un piccolo inchino e si volatilizzò. «Che ci fai qui?», domandai. «No, tu che ci fai qui, che non torni a casa!», sbraitò. «Dovevo pensare…» «A cosa? A come evitarmi?», gesticolò furioso. «Joël…»
«Kylie, no. Non posso accettare che sia finita così. Non riesco a crederci», ammise frustrato portandosi una mano alla fronte. Quanto avrei voluto abbracciarlo, appendermi al suo collo e respirare il suo profumo tra colonia e disinfettante. «Non ti amo. Okay? Per questo non te l’ho mai detto chiaro e tondo. Non ti amo, questo è quanto.» Nei suoi occhi potei quasi vedere il cuore infrangersi. «Non mi importa se Liza è incinta. Hai capito?» «Co-cosa?» «So tutto», confessò incrociando le braccia e guardandomi serio. «Beh, io non me la sento di stare con un padre, okay? No.» «Se mi ami…» «Non ti amo abbastanza!» urlai aprendo le braccia in uno scatto di furore e la mia voce rimbombò nell’atrio. Mentii, ma fui incredibilmente convincente. Joël strinse le labbra, inforcò la porta e se ne andò adirato e deluso. Respirai a tratti e mi accasciai sul pavimento a piangere. Quel momento sembrò interminabile, così come le mie lacrime.
Ripresi a lavorare e a cercare un nuovo appartamento, ma mi resi conto di essere troppo esigente. Stavo camminando per la città quando mi arrivò una telefonata. Con mia gran sorpresa, scoprii essere Madame Charrier. «Ma? Come ha fatto ad avere il mio numero?», esordii stupita. «Niente facezie. Mio figlio si sta preparando a partire per l’Asia. L’Asia, capisci? Se ne va. Con un solo biglietto d’andata! Tu devi fermarlo», disse
nevrotica. Se ne va. Quelle tre parole echeggiarono nella mia mente. «Pe-perché va via?» «Perché vuole te, è infelice, deluso e non ha niente per cui valga la pena rimanere. Niente!», marcò l’ultima parola. «Mi scusi, devo riattaccare», tagliai corto. Andai in rubrica e ripescai il numero di Liza. «Pronto?», rispose melliflua. «Sono Kylie.» «Ah. E cosa vuole la rovina famiglie?» «Sei incinta?», chiesi diretta. «Mi par di avertelo già detto.» «Sì ma le parole vanno al vento. Sei incinta, Liza?» ripetei. «Cosa vuoi da me?», sbottò. «La verità! Sei una donna di valori. Giocheresti su una gravidanza per fare dispetto al prossimo? Sei religiosa dannazione, mentire non è peccato?» «Lo è come desiderare l’uomo d’altri!» «Lui ha scelto me, non te l’ho portato via. Fattene una ragione e porgi l’altra guancia. Come potrai venire a patti con la tua coscienza sapendo il male che ci hai fatto? Non tornerà più da te, anzi, sta lasciando il paese pur sapendo che tu potresti essere incinta! Se lo hai amato, dimmi la verità», piagnucolai dopo la sfuriata iniziale. «Non lo sono. Non sono incinta.» Tirò su col naso. «Grazie», pronunciai flebile, riattaccai e corsi verso un taxi.
«Dove andiamo, signorina?», chiese l’uomo. «Solo un attimo», dissi alzando il dito indice. Richiamai Madame Charrier chiedendo dettagli sulla partenza del figlio. Poteva partire da Paris Orly, oppure da Paris Charle de Gualle, e io non potevo permettermi di tirare a indovinare. Il cellulare di Joël era prevedibilmente staccato e sperai ardentemente di arrivare in tempo per fermarlo. All’aeroporto c’era gente ovunque, trovarlo sarebbe stato impossibile. Andai all’ufficio informazioni e richiesi la diffusione di un annuncio. Non valse a niente, lui non arrivò e il tempo stava per scadere. Chiesi il favore all’impiegata di poter parlare al microfono ma non le era possibile concedermelo e allora lasciai cadere qualche lacrima. «La prego, rischio di perdere la persona che amo», supplicai. La ragazza, intenerita, mi concesse due secondi e io usai quei due secondi per pronunciare quelle due parole mai dette a Joël, dinanzi a tutto il pubblico di un aeroporto internazionale. «Ti amo. Ti amo Joël non partire», riuscii a dire prima che si avvicinasse la sorveglianza. Tutti gli occhi furono su di me e si levò un applauso che mi fece arrossire fino alla punta delle orecchie. Imbarazzatissima mi allontanai guardinga, cercando il meraviglioso viso di Joël ovunque. Camminavo con la testa nel pallone e guardando indietro non mi accorsi di finire addosso a una persona. «Scusi», dissi con un filo di voce e, quando alzai lo sguardo, mi ritrovai gli occhi più belli del mondo a fissarmi: Joël a un palmo dal mio naso. «Oh mio Dio, Joël.» Mi lanciai ad abbracciarlo. «Hai detto che mi ami davanti a un mucchio di gente», osservò incredulo stringendomi a sé. Aveva l’aria stanca e un po’ sfatta, la barba incolta e un vestiario insolito per lui sempre ordinato. Un pantalone chiaro, una maglia scura e una camicia di jeans, mentre in spalla trasportava un borsone. Sembrava proprio pronto all’avventura. Strinsi i lembi della sua camicia tra le mani e appoggiai la testa sul suo petto.
«Quanto mi dispiace Joël.» Trattenni i singhiozzi ma stavo per esplodere e la mia voce tremolante lo rivelava abbondantemente. «Perché mi hai fatto tutto questo? Perché mentirmi?», disse dispiaciuto, con l’aria afflitta di chi non capiva il perché di tanto dolore inutile. Quasi pianse. «Liza mi aveva detto che era incinta di te e io…» Mi asciugai una lacrima. «Volevo mettermi da parte per il bambino, per darvi un’altra chance», spiegai con il cuore pieno di amarezza. «Sei una sciocca.» Mi prese il viso tra le mani. «Una sciocca», ripeté posando la sua fronte sulla mia. «Partirai? Vuoi ancora andare via?», domandai deglutendo e con le lacrime in punta di ciglia. «Solo se tu verrai con me», rispose.
Epilogo «Hai preso tutto?» «Smettila di chiedermelo mi metti ansia», ammonii Joël. «Scusa e che sono… emozionato.» «Emozionato?», ripetei incuriosita. «Il primo viaggio insieme. O meglio, l’inizio di una nuova vita insieme e altrove, se permetti, è decisamente emozionante.» «Concesso», gli sorrisi. «Dai, ammettilo che anche per te è entusiasmante. È un o importante per noi», continuò Joël euforico, e pensare che l’ultima volta in quell’aeroporto eravamo due stracci. «Dai, cammina», lo esortai. «Possibile che tu non mi dia mai soddisfazione?», protestò bonariamente, anche se con un fondo di verità. Improvvisamente accelerò il o e mi prese alle spalle, abbondando per un attimo la valigia. Si avvicinò e mi tirò i lembi del jeans da dietro, infilando un paio di dita all’interno. «Ma che fai?», strepitai coprendo il mio fondoschiena. «Ecco, il segno rivelatore. Il tuo perizoma rosso!», dichiarò trionfante. Gli rivolsi una smorfia dispettosa e mi sentii le guance accaldate. Joël si mise al mio fianco e mi attirò a sé. «Adoro quel sottile filo rosso.» Strizzò l’occhio. «Sei un pazzo!», esclamai. «Vero, un po’ lo sono, a causa tua!», replicò. «Sì, diamo sempre la colpa a Kylie», mormorai.
«Ehi, il volo per Londra è da quella parte.» Joël mi prese per mano guidandomi amorevolmente. Tutto si era sistemato, volevamo iniziare daccapo in un altro luogo e, poiché io ero nata a Londra, ci sembrò giusto cominciare da lì la nostra vita insieme, in un appartamento a Notting Hill, una bella palazzina stile londinese tutta per noi. Amavo Joël e, ora, ero pronta a gridarlo al mondo, a me stessa e soprattutto a lui, sicura più che mai.
“Fil Rouge” ovvero “Filo Rosso”
… è un termine utilizzato in molti ambiti ma quello che ispira il romanzo rimanda alla credenza orientale del “filo rosso del destino”. Tale leggenda sostiene che tutti noi nasciamo con un filo rosso legato al mignolo della mano sinistra, filo che ci lega alla nostra anima gemella.
Non importa quanto tempo, quali avversità, separino le anime ai capi del filo, perché esso non si romperà mai e niente e nessuno potrà impedire alle due metà affini di unirsi.
Ringraziamenti
Dedico questo romanzo alla mia amica e socia Elena Serboli, un po’ la madrina di tutte le mie auto-pubblicazioni ma in special modo di questo romance. Grazie mia cara Ele, senza il tuo tocco e la tua attenzione, il romanzo non avrebbe lo stesso “charme”. Ti voglio bene.
Per la nuova cover, ringrazio le indicazioni di Alessia Coppola, autrice e artista che stimo molto e ho avuto il piacere di conoscere grazie a un progetto editoriale comune. Grazie mille per la vicinanza Ale.
Grazie ovviamente anche alla mia famiglia e al mio ragazzo, che sostengono me e il mio sogno dall’alba dei tempi.
Un ringraziamento anche a tutti i blog che danno spazio agli emergenti. Grazie di cuore per ciò che fate.
Infine, ma non per importanza, grazie a voi lettori, che avete deciso di perdervi tra le pagine del mio romance e della mia fantasia.
Autrice
Ornella Calcagnile è nata a Napoli il 2 gennaio 1986. Diplomata all’Istituto D’Arte, laureata in Scienze della Comunicazione, ha sempre avuto un debole per tutto ciò che riguarda la creatività: grafica, disegno, fotografia, video-editing, fumetto e cinema.
Inizia a scrivere nel 2008 per dare sfogo alla sua fantasia ma con il tempo nasce una vera e propria ione che la induce a creare un blog di racconti e a lavorare sei mesi come copywriter, avvicinandola ulteriormente al mondo dell’elaborazione testi e della comunicazione.
Nel 2012 apre un lit-blog “Peccati di Penna” dedicato alle recensioni e alla presentazione di giovani autori.
Nel 2013 esordisce come scrittrice con il romanzo urban fantasy “Helena”, pubblicato con Ute Libri.
Nel 2014 mi cimento con alcune auto-pubblicazioni: - Black –The Hunter, racconto urban fantasy, spin-off di Helena; - È la mia natura, racconto horror con contaminazione urban fantasy; - Fil Rouge, romanzo rosa contemporaneo;
- Spicchi di Luna, racconto urban fantasy. Nel 2014 scrivo alcuni articoli per MeBook. Nel 2015 pubblico: - La Dannazione Della Sirena, racconto urban fantasy dark, Lettere Animate Editore; - Il tocco dell’aldilà, racconto urban fantasy, Dunwich Edizioni; - Un cuore per un cuore (serie Once upon a steam), Dunwich Edizioni.
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