Fiori Di Ghiaccio - Storie Di Natale 541l1a

FIORI DI GHIACCIO

Storie di Natale raccontate da

Silvana Sanna

La foto di copertina è di Gianluigi Corte

La proprietà di questo eBook è dell’autrice e sono vietati, in qualunque forma, la riproduzione e l’uso anche solo parziali del contenuto

Casa gatta, Fiori di ghiaccio, Il primo Natale di Ada, Lettere per il Natale futuro, sono i titoli dei quattro lunghi racconti contenuti in questa raccolta che profuma di Natale. Una festa che a volte riesce a contagiare, con la sua magia, anche i più disincantati, suscitando nel cuore pensieri di gioia, di pace e di perdono, ribaltando magari un modo di intendere la vita che fino a quel momento era parso l’unico possibile e inducendo a recuperare gli affetti perduti. Quattro storie di donne alle quali un Natale speciale porta una nuova consapevolezza capace di cambiare il corso della loro esistenza. I racconti, già pubblicati in precedenza, vengono ora riproposti in eBook.

Silvana Sanna Insegnante elementare a riposo con la ione per la scrittura, sposata con tre figli, vive in un piccolo paese di campagna sulle colline del tortonese. Da molti anni collabora con due noti settimanali femminili con racconti e romanzi, ha pubblicato in volume il romanzo “Sul filo dei ricordi” che è stato molto apprezzato dai lettori, mentre è possibile trovare in rete diversi suoi eBook.

INDICE

CASA GATTA FIORI DI GHIACCIO IL PRIMO NATALE DI ADA LETTERE PER IL NATALE FUTURO

CASA GATTA (Dicembre 2001)

“ Stanotte nevicherà” pensava Sandra guardando il cielo grigio. Era di quel grigio particolare, né chiaro né scuro, un po' opalescente, quel grigio speciale che preannuncia quasi sempre la neve. L'aria era fredda, ma non ghiacciata, e il vento, che nella notte aveva ululato incessantemente sbatacchiando i rami del lauroceraso contro le persiane della camera d'angolo, durante la giornata pareva aver esaurito pian piano la sua rabbia, e ora si era quietato del tutto. - Nevicherà di sicuro stanotte - disse a voce alta. In tanti anni, ormai, aveva imparato a riconoscere i segni che precedono la neve, la neve che un tempo aveva tanto amato facendosi contagiare dall'euforia dei suoi figli bambini. - E ne verrà parecchia - aggiunse parlando ancora a voce alta. Nei lunghi periodi di solitudine aveva preso l'abitudine di parlar forte da sola, e a volte si faceva le domande e si dava le risposte, tutta da sé. - I ragazzi saranno contenti, speriamo che duri fino a Natale, ma magari da qui a là ne verrà dell'altra. Diceva questo mentre faceva il giro della casa per chiudere le persiane del pianterreno. Erano appena le quattro del pomeriggio, ma a dicembre viene buio presto e non voleva ritrovarsi a far quel lavoro allo scuro. Doveva stare attenta a non scivolare sul marciapiede ghiacciato e intanto tenersi ben stretto lo scialle attorno alla testa e alle spalle: l'anno precedente si era presa una brutta bronchite che non ava mai... Chiuse tutte le persiane, davanti e dietro la casa, poi tornò camminando adagio verso la porta d'ingresso. Era un lavoraccio, quello delle persiane, alla sera e alla

mattina. Doveva per forza uscire di fuori, tutte le finestre del pianterreno avevano le inferriate e dall'interno non riusciva a togliere o mettere il fermo. Quando c'era ancora Gianni era lui che lo faceva e ogni volta diceva: - Potremmo anche farle levare queste inferriate, tanto se i ladri vogliono entrare, il modo lo trovano lo stesso. Ma le inferriate erano ancora là. E prima di Gianni per tanti anni l'avevano fatto i ragazzi, rincorrendosi di sera al buio, e ridendo e facendosi bau agli angoli scuri della casa e gridando di spavento e di allegria, e inciampando a volte nelle mattonelle di cemento sollevate dal tempo e dalle radici dei pini, e arrivando in cucina a valanga, ansanti e spesso colle ginocchia sbucciate. Ma Gianni se ne era andato ormai da... Si fermò un attimo a riflettere. Al ventitre di marzo facevano quattordici anni. O erano quindici? Fece mentalmente il conto: erano proprio quindici, quindici anni che lei stava lì da sola, in quella casa grande come un convento, con tutte quelle stanze vuote sopra la testa, con tutto quel silenzio attorno e dentro di lei. Quando Gianni se ne era andato i ragazzi erano già via tutti e tutti lontani. Ognuno con la sua famiglia, tutti ben sistemati col lavoro, grazie a Dio, erano ragazzi bravi e intelligenti, avevano fatto carriera, poteva essere contenta e orgogliosa dei figli. Ma pareva avessero fatto a gara ad andare il più lontano possibile. Quanti chilometri c'erano da lì a Brindisi, per esempio? Un'infinità, c'era da traversare tutta l'Italia per lungo... Quanto è lunga l'Italia? Un tempo lo sapeva, chissà quante volte l'aveva chiesto ai suoi scolari all'esame di licenza della quinta elementare. Ma la memoria cominciava a far capricci. Delle volte si ricordava benissimo cose senza importanza, ad esempio il nome dei figli di qualche attrice sentiti alla televisione, e poi non riusciva a rammentarsi come si chiamava la nipote della Ginetta, quella che si era sposata l'anno ato non più tanto giovane, che era stata anche sua alunna e lei l'aveva persino tenuta a cresima. Ma pazienza, gli anni c’erano, a luglio facevano ottantasei (o erano ottantasette?) che cosa poteva pretendere. Rientrò adagio in casa, chiuse a chiave la porta di ingresso, poi rifece il giro delle stanze per assicurare le persiane dell'interno. Nero e il gatto erano in cucina accucciati sotto il tavolo. Quel gattaccio dispettoso ne approfittava sempre per infilarsi in casa tra le sue gambe quando

rientrava, eppure lo sapeva che lei di notte non ce lo voleva a combinar disastri. Il cane, invece, lo lasciava dormire in cucina, perché così si sentiva più sicura. Non che avesse paura dei ladri, in casa da rubare non c'era proprio niente, ma insomma non si poteva mai sapere. Riaprì la porta per metter fuori il gatto. Aveva cominciato a nevicare. I primi fiocchi scendevano adagio, come controvoglia, come trattenuti, ma erano larghi, grandi, soffici. - Ne verrà davvero tanta - disse sentendo in fondo allo stomaco l'antico pizzicore dell'allegria. - Devo telefonare alla Mariuccia, domattina presto. Dobbiamo cominciare, mancano solo quindici giorni, non sono mica tanti per riuscire a far tutto. C'è da andare al supermercato a far la spesa grossa, c'è da tirar giù le tende del salotto e portarle in tintoria, c'è... - disse ancora elencando le prossime incombenze mentre carezzava la testa del Nero che le stava sempre appresso, e la gioia la riscaldava di dentro e di fuori. Viveva sola ormai da quindici anni, vedeva raramente i suoi figli lungo l'anno, qualche volta durante l'estate venivano a turno, magari di aggio per altri luoghi, si fermavano qualche giorno e poi via... Ma a Natale! A Natale erano tutti lì, Natale era il suo giorno, era il suo trionfo, Natale era tutto suo, loro erano tutti per lei, in tanti anni non avevano mai mancato all'appuntamento, anche se erano in capo al mondo. E la casa si riempiva di nuovo di volti sorridenti, era di nuovo viva, piena di voci, piena di luci, di canti, di risate, di i giovani e impazienti lungo le scale di lna ormai consumate... e tutto sembrava come prima, meglio di prima, se non fosse stato che all'appello mancava il suo Gianni, perché c'erano, coi figli, le nuore e il genero, e i nipoti, che ogni anno erano più alti, più belli, più monelli... e ultimamente sempre più insofferenti e desiderosi di andar via... Ma pazienza, avevano ragione, la vedevano così poco, una due volte l'anno, che cosa poteva pretendere, a casa avevano i loro interessi, i loro amici. A Natale lei si scatenava, tornava ad essere la Sandra di prima, quella piena di forze e di entusiasmi, piena di voglia di giocare, la Sandra che in fondo non era mai cresciuta del tutto e si emozionava ancora davanti al presepe col Bimbo di terracotta a cantare Tu scendi dalle stelle.

- Domani si comincia, domattina quando viene la Mariuccia, se non c'è troppa neve, andiamo a prendere il muschio sul muro dietro la chiesa, e poi le dico di mandarmi Giuseppe per aiutarmi a portar giù gli scatoloni con le statuine e gli addobbi dell'albero. Sarà meglio che mi faccia portare addirittura il pino dall’Oreste, se no poi rischio di dovermi accontentare di uno piccolo. E già con la mente faceva tutti i preparativi. E metteva ghirlande sugli usci, e festoni di edera e di rami di tasso lungo la ringhiera di ferro delle scale, con le meline verdi e le noci indorate, e stelline di carta stagnola attaccate ai vetri delle finestre, che dopo ci volevano giorni per levarle coll'acqua calda e collo spirito, ma pazienza, e candele sui davanzali, e mazzi di pungitopo nei vasi, bacche rosse e fiori di cardo sui mobili, e legna d'abete profumata nel camino della sala da pranzo, pronto da accendere. E il presepe ogni anno più bello, colle statuine dipinte a mano che erano ancora quelle dei suoi figli, comprate poco per volta una o due ogni anno, i cammelli per ultimi perché erano cari, e "in fin dei conti se andavano da Gesù che era tanto povero i Magi potevano anche farsela a piedi" (risentiva ancora la vocetta di Marco fare questo sensato ragionamento per consolarsi) e la capretta e il coniglietto bianco accanto alla cullina, ma proprio vicini vicini, a far divertire il Bimbo, "perché il bue e l'asino lo scalderanno anche ma bestie tanto adatte per giocarci non le sono mica". E pastori e zampognari e le donnine colle galline e i maialini, pecore e pecore col cane lupo che le rincorreva e il laghetto fatto collo specchio con i cignetti e le anatre a nuotarci dentro… E Gianni serio, ma con gli occhi divertiti: - Ma non vi pare che questo presepio sia un po' troppo affollato? Era mezzanotte, mica mezzogiorno. E l'albero così splendente che ogni anno i suoi nipoti restavano a bocca aperta, col puntale rosso e oro ad aspettare nella bambagia che il più piccino, in braccio al suo papà, lo mettesse sulla cima... E poi, via le fodere ai divani, aria e luce alle camere di sopra, i letti pronti colle lenzuola colorate e le coperte pesanti, il riscaldamento a brandare giorno e notte da una settimana prima, così trovavano la temperatura a cui erano abituati, e torte fatte in casa, e bamboline di pastafrolla e il cappone ripieno di mostarda,

l'aveva già ordinato alla Gemma che glielo mettesse via il più grosso, il più bello. E quell’anno... quell'anno anche il vestito nuovo! Erano almeno dodici o tredici anni che non si faceva un vestito nuovo. Era ancora in cucina, glielo aveva portato alla mattina Rosetta la sarta, bene a posto sulla gruccia appesa all'attaccapanni dietro la porta: un vestito bello, di flanella grigia, col colletto di pizzo macramè a darle un po' di luce al viso. Si sarebbe messa la collana di perle di sua suocera, buonanima, non se la metteva mai e le perle erano diventate un po' opache e spente. Che cosa avrebbero detto le sue nuore? Da anni la vedevano ricambiata sempre colla solita gonna di pannino nero e la maglia di lana nuaset che non ne poteva più. Che cosa avrebbe detto Dolores, le sarebbe piaciuto? Ai regali aveva già provveduto. Le piaceva pensarci per tempo, così gli ultimi giorni poteva dedicarli tutti ai preparativi della casa. A ogni telefonata dei figli si informava come per caso, che cosa pie a uno, che cosa volesse l'altro, e un pomeriggio dei primi di dicembre si faceva portare giù in città colla macchina dal Giuseppe, il figlio della Mariuccia, e si faceva aiutare a girar per i negozi (lo pagava, e anche bene, mica aveva la pretesa che lui glielo fe gratis!) e comprava anche rotoli di carta e nastri e bigliettini e poi a casa confezionava i pacchetti con cura, pregustando in anticipo la sorpresa e il divertimento di chi li avrebbe aperti. E non dimenticava mai di farne due speciali, uno per Nero e uno per il gatto, quel gattaccio dispettoso, ma insomma da quando si ricordava, lì nella casa, anche le bestie avevano avuto sempre il loro Natale. Anche questo faceva parte dell'allegria.

Dall'ingresso arrivò il suono impaziente del telefono. A malincuore si staccò dai suoi pensieri felici per andare a rispondere, mentre Nero, colla lingua di fuori, aspettava già vicino all'apparecchio. - Sandra, stamani sono tornati da me quei milanesi che vorrebbero comprare. E' la terza volta, se gioco bene riesco ad alzare il prezzo. Siamo d'accordo che tornano dopo le feste. La voce del Carletto, il mediatore, era, come al solito, troppo ossequiosa e assolutamente sgradevole. Da quando suo figlio Giacomo, che era venuto a trovarla nel mese di luglio, aveva ventilato la possibilità, anzi la necessità, per la sicurezza sua e la tranquillità loro, che lei se ne andasse a stare al pensionato, e aveva parlato davanti alla Mariuccia, che ne aveva spettegolato per tutto il paese,

il Carletto non le dava più requie. - Possono fare a meno di tornare - rispose asciutta - tanto io non vendo e non intendo ripeterlo. - Sandra, non mi rispondete adesso - chissà perché le dava sempre del voi, quello lì, come se fossero ancora al tempo del fascio - parlatene coi vostri figli a Natale e poi ci risentiamo. - Non ho bisogno di parlarne con nessuno, non vendo e basta. Qui sono e qui resto e chiuso il discorso. - Non fate così Sandra, tanto prima o poi dovete decidervi. E magari è tardi. E' una casa difficile da vendere, lo sapete anche voi, troppo grossa, troppo isolata, c'è da rifarla tutta... Di sicuro, se gli sto dietro, da questi riesco a ottenere più di quel che vale, hanno figlioli piccini, tre mi pare, una ha l'asma per lo smog e l'aria cattiva di Milano, vogliono venire via, e hanno anche due anziani, i genitori non so se di lui o di lei, sono in tanti, ecco perché gli andrebbe bene, un'occasione così non vi capita più. Sandra detestava tutta quella insistenza, certo lui aveva nell'affare il suo tornaconto, e si sentiva in diritto di seccarla continuamente perché era un lontano parente di suo marito. - Buonasera, Carletto, ho da fare, tanto non cambio idea. E mise giù la cornetta Vendere la casa? Mai, mai e poi mai. - Finché sono viva me ne sto qui, non mi smuove nessuno. Non voglio andare al pensionato a farmi servire e a farmi comandare. Grazie a Dio stava benino e la testa ce l'aveva ancora a posto. Con la pensione, pur dovendo pagare la Mariuccia, che veniva due o tre volte alla settimana soprattutto per andare a farle la spesa, e stando attenta a non sprecare luce, gas e riscaldamento, ce la faceva discretamente, lei mangiava come un uccellino, di altre spese non ne faceva, anzi riusciva ogni mese a metter via qualcosa per gli imprevisti, e per il Natale, ringraziando il Signore, arrivava la tredicesima, perciò problemi non ne aveva.

- Ad andare al pensionato non ci penso nemmeno, - si ripeté - me ne sto qui a casa mia, dove ho tutte le mie cose, dove ci sono i miei ricordi dappertutto persino nell'aria che respiro, e il Nero dove lo metto, al pensionato mica ce lo vogliono. E poi come avrebbe fatto negli anni e venire, se era al pensionato, a riunire tutta la famiglia per Natale? Rinunciare al Natale? Rinunciare al Natale, che era il giorno per cui riusciva a sopravvivere tutto un anno alla solitudine, alla disperazione che a volte la prendeva la notte, nel letto, quando allungando le gambe verso destra, al posto di piedi tiepidi e conosciuti pronti a riscaldare i suoi, trovava solo le lenzuola gelide, e sentiva accanto al suo il cuscino vuoto, e le stanze mute sopra la sua testa, e mille pensieri dentro la sua testa, che si affollavano, premevano, si rincorrevano per tutto il corpo fino ad arrivare al cuore, a schiacciarlo di malinconia e di rimpianto... Rinunciare al suo Natale, che era l'unica occasione in cui sentiva di essere ancora viva, con tutti i suoi figli, i suoi nipoti, lì nella loro casa... Mai! - Non vendo - disse ad alta voce - la mia casa non la vendo - ripeté mettendosi a sedere sulla poltrona mezza sfondata, della cucina.

E si rivide giovane in quella casa, quella casa di cui si era innamorata immediatamente, quella casa dove era entrata a braccetto di un marito bello, allegro, pieno di vita, e con al seguito quattro figli maschi scatenati.

Quando l'avevano vista la prima volta, sarà stato il quarantanove, forse il cinquanta, Tonino aveva sei o sette anni, e Marco non andava ancora all'asilo, era primavera, ma forse era autunno, insomma una stagione di mezzo, ma di sicuro era domenica. La domenica, se era bello, prendevano la corriera che andava verso le colline, poi scendevano alla fermata che li ispirava di più, correvano nei campi e traversavano vigne, coglievano i fiori, raccoglievano more e tralci secchi di quercia con le ruvide bacche legnose, facevano merenda in un prato, coi panini colla mortadella, i formaggini di surrogato di cioccolato Ferrero, la bottiglia dell'acqua Idrolitina. E una volta i bambini più grandi erano corsi avanti su una strada sterrata, Marco viaggiava ancora a cavalluccio sulle spalle di Gianni, e li avevano trovati con la faccia contro una cancellata che

chiudeva il giardino di una villa. E al di là del cancello c'era un cane rossiccio enorme, con una lingua enorme penzoloni, con due enormi occhi marroni e una coda immensa che si dimenava tutta all'impazzata, e che, invece di abbaiare agli intrusi, ugghiolava teneramente come se avesse visto la più bella cagnolina del mondo, invece di tre bambini sudaticci, sporchini e spettinati. E i tre bambini erano rimasti fulminati dal cane, che intanto mugolando di piacere si era pappato l'avanzo di panino che il Tonino gli aveva allungato tra le sbarre, e la loro mamma, sudaticcia e spettinata anche lei, era rimasta fulminata dalla casa che si intravedeva attraverso gli alberi, al termine di un vialetto bordato di cespugli di lavanda e di ligustri, perché quella lì era la casa che aveva sempre sognato: grossa, a tre piani, piena di finestre, con la vite americana arrampicata sui muri, su su fino al tetto, su su fino alla torretta quadrata con tanto di vetrate colorate gialle e azzurre, e poi un balcone che correva lungo tutta la facciata, e intorno un giardino pieno di alberi grossi, pini e aceri, persino due magnolie e una palma, pianta straordinaria e inusuale per quel clima freddo, e cespugli, e piante da frutta, e tutto un groviglio di verde incolto, che pareva quasi il giardino della bella addormentata, e in mezzo al groviglio un bersò di ferro a volute eleganti che si rincorrevano verso un tettino a pagoda in egual misura pieno di fascino e di ruggine. Sul pilastro che reggeva il cancello c'era una targa di marmo e c'era scritto, a lettere di ottone annerite dal tempo: VILLA GATT (villa gatto? villa gatti? l'ultima lettera non c'era più). In cima al vialetto, sotto la prima finestra del pianterreno, all'ombra di un fronzuto lauroceraso, c'era una panchina di pietra, e seduta sopra la panchina c’era una signora anziana, bianca come la neve, e rotondetta e soffice come un panetto di burro. La signora si era alzata, era venuta verso di loro camminando adagio sul vialetto, e intanto richiamava il cane: - Leo - diceva - Leo vieni qui, stai buono. E quando era stata vicina al cancello aveva detto con un sorriso: - Dovete proprio essergli simpatici, perché di solito abbaia come un matto quando vede facce nuove. E dopo quella domenica ce n'erano state tante altre, coi bambini a giocare a nascondino nel giardino incantato, mentre Gianni potava le piante e riparava i rubinetti della casa, e lei teneva compagnia alla vecchia signora, e la vecchia signora le raccontava di come fosse sola e anche un po' malandata, e che sarebbe

andata a vivere col suo unico figlio a Roma, appena arrivava l'inverno, e che voleva vendere la casa, ma non trovava né il coraggio, perché lì c'erano i suoi ricordi di sposa, né un compratore, perché era isolata, troppo grande, piena di magagne, avrebbe avuto bisogno di esser sistemata da cima a fondo, e nessuno voleva più vivere in campagna, i giovani se ne andavano tutti a stare in città, e così il tempo ava e lei l'avrebbe chiusa e lasciata lì vuota a rovinarsi del tutto cogli anni, perché suo figlio era una persona importante e aveva una casa al mare e una ai monti, e non se lo sognava di venirci nemmeno una settimana nell'estate.

E c’erano state sere di discussioni, nell'appartamento di città piccolo piccolo, con solo cinque finestre che davano tutte sulla strada, e niente balcone, sere di discussioni, di speranze, di conti: - Se riusciamo a vender bene l'appartamento, se chiediamo un prestito in banca sul mio stipendio, se impegno tutti i gioielli di tua madre (e giù a ridere perché erano due cosine da niente che valevano quattro soldi), se vendiamo il servizio di posate d'argento della zia Rosina buonanima, peccato, ma non vale mica poco, se la signora ci fa un po' di credito e ha pazienza per qualche tempo, se... magari ce la facciamo. E quando col batticuore l'avevano detto alla signora, il prezzo richiesto era stato così tanto più basso di quello che si erano immaginati e la soddisfazione della proprietaria era stata così sincera, perché lasciava la sua casa in mano a gente con bambini che l'avrebbero fatta rivivere, a gente amica che l'avrebbe accolta volentieri se per caso le fosse venuto in mente di tornare a rivederla e soprattutto si sarebbe presa, e gli avrebbe voluto bene, insieme alla casa anche Leo, con tutta la sua mole e le sue bave, che loro due, anzi loro sei, avevano creduto di scoppiar dalla gioia.

E davvero la casa era tornata a vivere. Che anni erano stati i primi, quando il vecchio riscaldamento a carbone era sempre rotto e non avevano i soldi per farlo aggiustare, i rubinetti cedevano uno dopo l'altro, i water dei due bagni si intasavano misteriosamente, il tetto faceva acqua da tutte le parti, lo scaldabagno a legna del bagno grande faceva un fumo d'inferno così dovevano fare a turno il bagno in cucina nella tinozza del bucato con l'acqua scaldata sulla stufa, e poi

formiche e ragni, e topolini anche, che di notte a volte venivano in gita fino alla cucina a fare allegri pic-nic in dispensa, e le scarpe dei figli sempre piccole e non si potevano are agli altri perché erano già sfasciate, e Leo, quel figlio di un cane (Gianni lo diceva sottovoce come una parolaccia), che continuava a pretendere di dormire in camera da letto, come aveva sempre fatto, lui e tutte le sue pulci, e ululava di fuori, sotto le finestre che chiudevano male, in un modo da strappare il cuore e far perdere la pazienza anche al padreterno, finché per comione e più che altro per poter dormire, lo lasciavano entrare. E le mattine d'inverno, con un freddo dell'altro mondo, vestire tutti i bambini perché Gianni li portasse poi a piedi a scuola e all'asilo in paese, e lei di corsa, tra la nebbia lungo la stradetta sterrata, a prendere la corriera giù al crocevia, col foulard di lana in testa e le scarpe di para coi calzettoni pesanti, per andare a scuola, giù in città.

Che anni belli, pieni di allegria, di confusione, di bambini che crescevano bene in salute, di giovinezza... Ma erano ati e all'improvviso, ecco, erano arrivati gli anni tranquilli. La maestra del paese era andata in pensione, il posto era toccato a lei che, essendo residente, aveva subito ottenuto il trasferimento, Gianni abituato all'incertezza del suo lavoro indipendente, poteva ora permettersi di andare almeno due volte l'anno a sciacquare i panni, così diceva, nel Reno, era molto richiesto anche per le traduzioni più delicate e difficili e guadagnava bene. I ragazzi andavano a scuola in città, due già al liceo, la casa aveva il riscaldamento nuovo a gasolio, i bagni erano stati rifatti e anche il tetto. Il giardino era meno arruffato, ma non tanto, il bersò, le inferriate, il cancello ben smaltati, e la scritta sulla targa sistemata. Avevano saputo che in origine VILLA GATT voleva dire Villa Gatti, dal cognome del primo proprietario. Ma nel sistemarla erano stati tutti d'accordo di adattarla meglio ai loro gusti. Villa era troppo pretenzioso, non piaceva a nessuno. Le letterine di ottone erano state staccate a una a una e sostituite con altre a scrivere CASA e l'ultima lettera tra quelle tolte era andata a completare le seconda parola: CASA GATTA. Perfetto e adatto, perché nel frattempo a far compagnia a Leo, che diventava ogni anno più vecchio e più incontinente, faceva pipì e popò nei posti più impensati e meno adatti allo scopo, erano arrivati Agamennone, detto Ago, miciotto magrolino e pazzerello, gran cacciatore di topi e di cavallette, e la Giovanna, gatta sdegnosa e supponente, e

per fortuna anche sterile, perché gliela aveva rifilata un suo scolaro, neonata appena, giurandole che era un maschio. La Giovanna aveva silenziosamente preso possesso del giardino e soprattutto della casa e se la ritrovavano dappertutto, ma preferibilmente dove c'erano letti e divani, ma siccome era pulitissima e sonnacchiosa avevano finito per lasciarla fare. Insomma erano arrivati gli anni del benessere anche per loro, e avevano potuto permettersi la Seicento prima, e dopo una macchina più grossa ed anche un paio di settimane ad Arenzano nel mese di luglio. Che cosa mancava? Niente, anzi per i loro gusti semplici ne avevano d'avanzo.

- Siamo sempre stati poco pretenziosi, ai lussi non ci abbiamo mai tenuto, né noi, né i ragazzi - disse Sandra alzandosi dalla poltrona. Erano già le cinque e mezza, ava presto il tempo quando la testa era occupata in pensieri belli, allegri. Prese una sedia e l'avvicinò alla stufa, era ancora quella di tanti anni prima, non avevano mai voluto darla via anche quando avevano messo il riscaldamento nuovo, e menomale perché adesso era la sua salvezza, ci si sedette e allungò le gambe verso il caldo. Con la vecchiaia aveva cominciato a patire in modo esagerato il freddo che da giovane non le aveva mai dato noia.

Non avevano mai tenuto ai lussi, il loro unico vero lusso erano la casa, l'aria buona, e tutto quello spazio fuori e dentro. Era proprio questo che aveva detto Gianni una sera a cena, guardando dritto negli occhi i suoi quattro ragazzi e tenendole stretta la mano sotto la tavola. - La casa è grande - aveva detto - c'è un sacco di posto, in quattro occupate solo una camera. Nella casa c'erano sei stanze da letto e quando c'erano entrati l'idea grandiosa dei figli, dopo le ristrettezze della cameretta da dividere in quattro dell'appartamentino di città, era stata quella di "una camera per ciascuno, a ciascuno una camera". Ma avevano retto solo qualche giorno alla solitudine, poi

avevano scelto la stanza più grande e se ne erano tornati a dormire tutti e quattro insieme, nel disordine indescrivibile di sempre. - La casa è grande, la mamma lavora solo al mattino, io anche se lavoro tutto il giorno sono quasi sempre in casa, i soldi non mancano, la mamma e io avremmo pensato, se anche voi siete d'accordo, che c'è posto anche per qualcun'altro e ci sono un mucchio di bambini all'orfanotrofio, meno fortunati di voi, che aspettano una famiglia. E così avevano fatto domanda di adozione e contro ogni previsione, credevano di dover aspettare chissà quanti anni, il bimbo era arrivato presto, e contro ogni previsione non era un maschio "perché tu sei abituata ad allevare maschi e quello ci daranno", ma una bambina, una bimba di sette anni, spaurita, silenziosa, bruttina e magra magra, due enormi occhi neri, i dentini tutti guasti, una testa di capelli scuri e stopposi, e due gambette così storte da far pietà. Un povero ragnetto. E si chiamava Addolorata. - Ma chi avrà avuto il coraggio di chiamare così una neonata - diceva lei al marito quando i figli non potevano sentirla - è come volerla destinare di proposito a un futuro di dolore e di sofferenza! - Addolorata prima, quando stava da sola senza una mamma, un papà e quattro fratelli che le vogliono bene. Ora è felice e contenta e noi la chiameremo, vediamo un po', Dolores, che poi è la stessa cosa in spagnolo ma è più carino, oppure Dodò - aveva detto Gianni quando l'avevano portata a casa. La piccola stava zitta, a testa bassa. - Preferisci che ti chiamiamo col tuo vero nome? - le aveva chiesto lei sottovoce prendendole una manina che la bimba aveva immediatamente ritirato. Si sentiva in soggezione davanti a quell'esserino striminzito, si sentiva in soggezione e piena di paura, e non di non riuscire ad amarla, ché l'aveva amata subito con tutto il suo cuore di mamma e di donna, già dalla prima volta che l'aveva vista per mano alla suora, così spaventata e bruttina, aveva paura di non riuscire a farsi amare, di non essere capace di capirla, lei che da quando aveva diciotto anni aveva sempre lavorato coi bambini, di renderla felice. La piccola aveva fatto di no colla testa, adagio, guardando per terra. E per tutti, da allora, era stata Dolores, o anche Dodò, a seconda delle occasioni e

dell'umore. E per tutti era stato amore a prima vista. Dolores invece ci aveva messo parecchio a sciogliersi. Era una bambina tranquilla, riservata, poco incline al sorriso e ai complimenti. Aveva accettato senza commenti la stanza che le avevano preparato, colorata, allegra, piena di cosine belle e di bambole, e non aveva voluto dormire assieme ai nuovi genitori, come loro le avevano proposto facendole vedere la brandina sistemata accanto al lettone, nemmeno la prima notte. La teneva in ordine da sé, i giochi tutti in fila, le bambole divise in due gruppi, da una parte le femmine ben sedute col vestitino allargato, dall'altra i bambocci maschi, le pantofoline da notte ben appaiate ai piedi del letto, il pigiamino coi coniglietti piegato alla perfezione, le matite nel barattolo tutte colla punta in su, con meticolosa pignoleria. Anche tutto questo ordine in una bimba così piccola, metteva Sandra in soggezione: si lamentava continuamente della confusione tremenda che c'era sempre nella camera dei maschi, ma erano figli suoi, tanto ordinata e precisa non la era nemmeno lei. Dolores aveva avuto la sua scrivania, nuova e graziosa, non i tavolacci di fortuna dei suoi fratelli, nella "stanza di tutti". Questa stanza occupava praticamente tutto l'ultimo piano non tramezzato, dove c'era la scala a chioccola chiusa dalla botola che portava alla torretta, dove ci faceva un caldo tremendo d'estate e un freddo terribile d'inverno. Ma era un posto speciale, pieno di luce, tutti avevano lì la loro scrivania, un vecchio mobile, un appoggio, per fare i traffici e le cose che più piacevano. Tonino, ad esempio ci lavorava il legno, Filippo ci costruiva modellini di aerei usando una colla schifosa, così puzzolente da togliere il fiato, lei ci correggeva i quaderni di scuola o ci cuciva colla macchina a pedale che era stata di sua suocera. Dolores pareva un po' intimorita dalla stanza di tutti e ci andava solo quando c'erano anche i ragazzi, a sfogliare libri o a disegnare e intanto con la testolina abbassata li teneva d'occhio per vedere che cosa fero. Giocava poco colle bambole e anche con gli altri giocattoli da femmina che i suoi fratelli più grandi le compravano, prendendo buoni ogni occasione e ogni motivo e più spesso senza motivo.

Sandra si alzò a malincuore dalla seggiola accanto alla stufa. Erano già le sei meglio se cenava, così non ci pensava più, e poi andava a letto presto e l'indomani mattina, colla Mariuccia, cominciava tutti i traffici del Natale bella e

riposata. Prese il latte dal frigo e lo scaldò sul fornello. Ne diede un po' anche al Nero, gli aveva dato il vizio e doveva mantenerglielo, poi, prima di mettersi a tavola, riaprì l'uscio per vedere se nevicava ancora. Veniva giù fitta fitta, un muro impenetrabile di farfalle bianche e leggere. Il gatto era accucciato sul gradino contro il legno della porta. Con un sospiro lo fece rientrare e diede un po' di latte anche a lui. Si versò il suo nella scodella e adagio cominciò a intingere il pane.

Piaceva tanto il latte alla Dolores! Povero grillino, giocava poco e mangiava ancora meno. Una cosa non le andava, l'altra neanche. Sarebbe vissuta di latte. E lei, che non aveva mai avuto problemi coi maschi che spazzolavano via a tempo di record qualunque cosa gli mettesse davanti, lei che le faceva il filetto di vitello col formaggino Mio sopra, e l'uovo sbattuto e la Dolores lasciava tutto lì, lei ogni volta ne restava sconvolta e le pareva che fosse colpa sua. - Forse non è contenta - si diceva - forse non si trova bene, sono io che non le piaccio e difatti non mi chiama nemmeno mamma e neanche come mi chiamano i ragazzi e anzi non mi chiama proprio, e preferisce Gianni a me. Ed era vero, preferiva suo marito, era chiaro a tutti. Ma lui per consolarla, quando lei di sera a letto ci piangeva, le diceva che era di sicuro per via del gatto. Dolores non aveva mai voluto toccare Ago e la Giovanna. - Sono di loro - diceva piano indicando col dito i fratelli. Così un pomeriggio Gianni (perché non ci aveva pensato lei, a cosa le era servito aver studiato psicologia alle magistrali?), le aveva portato a casa un gatto piccolo piccolo, col pelo scuro come i suoi capelli, glielo aveva messo in mano e le aveva detto col riso negli occhi: - Questo è tutto tuo. Dolores se lo era accostato al petto con delicatezza, le unghiette pungenti attaccate al grembiulino a quadretti rosa, e non se ne era più separata, se lo portava a letto con lei di notte, e loro, che non avevano mai permesso ai figli

maschi di fare altrettanto, si scioglievano di tenerezza. L'aveva chiamato Paco, che era il modo con cui i ragazzi chiamavano il padre. Paco e non papà. Quella dei soprannomi strani era la mania di Giacomo. Lui li trovava, poi li appiccicava agli interessati e questi non se li levavano più di dosso, perché i fratelli ben volentieri lo assecondavano. Anche tra loro si chiamavano con nomi assurdi e lei, lei la chiamavano da tempo immemorabile Topò, che era l'abbreviazione di Topotta, che a loro dire significava grossa topa o, forse per blandirla, bella topa. Lei si sentiva compiaciuta per questo nomignolo grazioso, le bestie le piacevano da matti, anche i topolini, purché non andassero nei cassetti a rosicchiar la biancheria, ma diceva: - Qualche volta chiamatemi anche mamma, tanto per non perder proprio del tutto l'abitudine, se no, quando starò per andare al Creatore e tutti intorno al letto mi direte "Topò, Topò, non ci lasciare", se c'è qualcun'altro nella stanza che vi sente, che so il prete o il dottore, morirò tra le risate”… che in fondo non le sarebbe nemmeno dispiaciuto.

- Chissà come me ne andrò quando sarà il mio momento - disse mentre lavava la scodella e la riponeva - me ne andrò sola soletta, col silenzio attorno, all'ospedale tra facce estranee, altro che tra le risate e coi miei figli vicini. Nero la guardava colla lingua di fuori, le goccioline di saliva cascavano sul pavimento, in attesa del pezzetto di pane che lei aveva avanzato. Quella bestia senza fondo, aveva sempre fame, non gli bastava che gli comprasse le scatolette al supermercato, che le costavano un occhio, spendeva quasi più per lui che per sé, era sempre pronto a mangiare a qualunque ora del giorno e della notte.

Anche Dolores aveva, dopo un po', cominciato a mangiare con più appetito, aveva messo su un po' di carne, dentini nuovi bianchissimi e forti e un bel colorito roseo sulle guance. Niente più gambine storte e capelli stopposi, pian piano era diventata una vera bellezza. Una bambina bellissima, ma sempre quieta e riservata, con un non so che di aristocratico nel parlare, nel modo di fare, mai sguaiato o chiassoso, anche quando giocava con Marco, che non era poi tanto più grande di lei, che era tremendo nello stuzzicarla, nel volerla coinvolgere a tutti i costi nei suoi giochi scatenati e fracassoni.

Gianni se la covava con gli occhi: - Questa qui - diceva - di sicuro è il frutto della colpa di qualche baronessa siciliana, non è plebea come noi e i quattro manigoldi! E poi un pomeriggio, era estate se lo ricordava bene, quando ormai non ci sperava più, Dolores era entrata in cucina di corsa e aveva detto: - Mamma dove sei, vorrei la merenda! E lei, che era nella dispensa, aveva cominciato a piangere e non riusciva più a fermarsi, e non sapeva come fare a rientrare in cucina perché non voleva farsi vedere in quello stato.

Ancora adesso le veniva da piangere quando pensava a quella prima volta che Dolores l'aveva chiamata mamma. E da allora non aveva più smesso e la chiamava proprio mamma e non Topò come i suoi fratelli. Chissà perché da un po' di tempo non ci voleva nulla per farle venire l'acqua agli occhi. Bastava un film qualunque alla televisione, o una roba dei ragazzi che le capitava in mano per caso, e non la fermava più nessuno. - Anche questo sarà un segno di vecchiaia - si disse asciugandosi gli occhi col grembiule. Riaprì la porta per mettere di nuovo fuori il gatto, dando uno sguardo verso la rimessa per accertarsi che la saracinesca fosse un poco sollevata in modo che lui potesse rifugiarvisi. Nevicava sempre forte, il mattino dopo sarebbe stato impossibile andare a raccogliere il muschio. Spense le luci e si avviò di sopra. Erano appena le otto, ma stando a letto poteva staccare il riscaldamento e risparmiare un po'. Quando c'erano ancora tutti le toccava sempre di fare le ore piccole, il daffare non le mancava di sicuro.

Dolores era stata la prima ad andare via. Era arrivata per ultima, era andata via

per prima. Era molto intelligente e studiosa, così a diciannove anni non ancora compiuti era diplomata e colla media del nove. Era andata a studiar filosofia a Siena, aveva avuto anche una borsa di studio, e si era trovata un lavoro da cameriera in un bar per non pesare troppo sulla famiglia. I suoi fratelli Filippo e Giacomo e Marco, ma non Tonino che dopo il diploma non aveva voluto saperne dell'università ed era andato a lavorare da falegname, il legno era sempre stato la sua ione, nella bottega dello zio Mario, giù in città, erano ancora all'università, uno a Pavia e due a Milano, viaggiavano col treno e si facevano ancora nutrire, lavare e stirare in famiglia, se la prendevano comoda e facevano di tutto fuorché sbrigarsi a finire. E poi in un momento se ne erano andati tutti. Tonino, in visita dalla sorella, aveva conosciuto Marialuisa, che era figlia di un antiquario di Firenze e nel giro di un anno l'aveva sposata e se ne era andato a lavorare tra legni antichi e pregiati nel negozio del suocero, e di tutti i suoi figli era quello che aveva fatto più quattrini; Filippo e Marco, dopo la laurea in ingegneria meccanica, si erano stabiliti in Germania, per far meglio carriera, tanto il tedesco lo sapevano, glielo aveva insegnato Gianni, per amore e per forza, fin da bambini, poi si erano sposati, e uno abitava ancora là, in un posto con un nome terribile, difficile da pronunciare, e l'altro invece stava vicino a Napoli. E Giacomo, sposato anche lui, era sempre in giro per il mondo perché era un pezzo grosso di una multinazionale dei petroli. I nipotini glieli avevano fatti sospirare, non si decidevano mai, ma del resto erano tempi diversi, a quell’ora Sandra avrebbe potuto benissimo essere bisnonna, come la Ines che aveva la sua età, anzi un anno meno di lei. Ma adesso tutti avevano figli, chi uno chi due, erano ben sistemati, contenti, realizzati.

Sandra si spogliò in fretta, si mise la camicia da notte, si risistemò lo scialle sulle spalle, faceva un freddo tremendo, si infilò tra le lenzuola gelide e si fece il segno della croce. Tutte le sere pregava per loro. Li rammentava a Dio uno per uno, chiamandoli per nome, i figli, i nipoti, le nuore e il genero, tutti per nome uno per uno, perché il buon Dio gli tenesse la mano sulla testa. Faceva fatica ad addormentarsi la sera e anche questo era un segno di vecchiaia.

Ma in quel periodo le importava poco, aveva da pensare a cose belle, mentre il sonno tardava a venire, aveva da pregustare in anticipo la gioia delle prossime feste, quell’anno alla Messa di mezzanotte sarebbero andati tutti, anche i piccoli ormai erano grandicelli, li avrebbe aspettati alzata come al solito, alimentando il fuoco del camino e con il bricco grande pieno di cioccolata bollente... Aveva da pregustare il calore dei loro abbracci, le chiacchiere delle nuore, erano tutte brave e carine e intelligenti, volevano bene ai loro mariti, tiravano su al meglio i figli, e volevano bene anche a lei, e quelle della sua Dodò, la sera seduta sul suo letto a chiacchierare fino a notte fonda, sempre tranquilla e signorile, e bella ancora anche se ormai aveva ato i quaranta, a raccontare di come stava bene in Puglia col marito, insegnante di liceo pure lui, con i loro due bambini. La sua Dolores, che lei le voleva un bene infinito, peggio che se l'avesse fatta da sé. E con la quale si era stabilita negli anni quella complicità tutta al femminile che con i maschi, anche se si volevano un gran bene, non c'era mai stata. Una complicità che l'aveva ripagata della predilezione che lei aveva sempre avuto per il padre.

Si tirò lo scialle fin sulle orecchie e chiuse gli occhi. Ma si riscosse subito: il telefono giù nell'ingresso suonava. A quell’ora? Ma in fondo saranno state al massimo le nove, la gente normale era ancora alzata, mica erano tutti come lei che andava a letto con le galline. Nero abbaiava furioso per chiamarla e Sandra scese giù per le scale più in fretta che poteva. Nella cornetta la voce di sua figlia, dopo i saluti, era allegra, ma un po' esitante: - Mamma, te lo dico per tempo, così ti sai regolare. Non ce la facciamo quest'anno a venire su per Natale. Ci dispiace, ma la mamma di Salvatore sta proprio poco bene, te l'avevo detto che era malata, lui non vuol lasciarla, lo capisci. - Pazienza, digli che mi dispiace che dirò una preghiera, venite poi più avanti, mi rincresce che non vedo i bambini, mi rincresce per te che non vedi i tuoi fratelli. - Ma no, ci siamo visti di recente e ci siamo sentiti anche in questi ultimi giorni, poi ti telefoneranno, ma hanno anche loro dei problemi, veramente non te lo

volevamo dire per non farti preoccupare, ma insomma è meglio che tu lo sappia, Giacomo non sta tanto bene, hanno dovuto operarlo d'urgenza, sì a Roma, stai tranquilla si sta curando, ma no non è una cosa proprio grave, è ancora giovane, ce la farà senza problemi. Ma no, alla tua età figurati, d'inverno, sui treni, poi dobbiamo anche preoccuparci per te, ci sono andata io la settimana scorsa e ci torno appena sono libera colla scuola e magari mi fermo qualche giorno, tu prega, che non fa mai male, e stai tranquilla è in buone mani, ma di venire su per Natale neanche a parlarne. Quando mise giù la cornetta, Sandra si sedette sulla panca del telefono, mentre Nero le leccava i piedi nudi con la lingua ruvida e bavosa. Sentiva una mano gelida che la frugava dentro, una mano di ghiaccio che le stritolava il cuore, glielo spremeva tutto. Tremando compose il numero di Giacomo, i numeri del telefono li sapeva tutti a memoria, quelli non li dimenticava mai. Ma nessuno rispondeva, non c'era nemmeno, come certe volte, la segreteria telefonica. - Ora chiamo Tonino e sento un po' lui - si disse - che magari Dolores non ha voluto dirmi proprio tutto. La voce di sua nuora, col suo bell'accento fiorentino, sembrava quasi imbarazzata: - Sì mamma, no Tonino è ancora al negozio, sì lo sapevamo, ma stia tranquilla, non è poi così grave, sì all'Umberto Primo a Roma, Tonino c'è andato ieri l'altro a parlar coi dottori, ma vedrà che ne verrà fuori bene, ora ci sono tante cure nuove, ma sì stia tranquilla che se si agita troppo poi si ammala anche lei. No mamma, glielo avremmo telefonato domani, non ci riusciamo a venire, quest'anno. Sa, la Isabella si è fidanzata ufficialmente con quel ragazzo, quello di cui le avevamo parlato l'anno scorso, quello che è ingegnere e ha un'impresa di costruzioni col suo babbo. I genitori vogliono che si vada tutti da loro, anche per festeggiare il fidanzamento, è gente per bene, ci tengono, hanno la casa all'Abetone, così anche il nostro Fabio può sciare. Semmai facciamo una scappata per Capodanno, ma non glielo assicuro, magari per la Befana, vedremo, sa col negozio si fa come si può, il mio babbo è anziano da solo non ce la fa più. Glielo dico già io, ma vedrà che domattina poi telefoneranno anche loro, vengono con noi anche Marco e Bettina con Tommaso, gli ho prenotato l'albergo, Tommaso scia bene, ma ora va al liceo, se non ne approfitta delle

vacanze, poi ha poco tempo. E intanto portiamo anche Lauretta e Marcella, povere bimbe, col babbo all'ospedale e la mamma sempre vicina a lui hanno poco da stare allegre. Sua nuora parlava e parlava e il gelo entrava nelle ossa di Sandra, come un esercito inarrestabile di formiche si insinuava in tutto il corpo, in ogni angolino fino alla punta delle dita dei piedi, fino a paralizzarla. E le uniche notizie che riusciva ad afferrare erano: Giacomo è malato, non viene nessuno. - E Filippo? - chiese. - Filippo, di sicuro la chiamerà anche lui uno di questi giorni. E... veramente non dovrei essere io a dirglielo, ma insomma, così è prevista, Filippo ha avuto burrasca in casa, sa le tedesche son fatte a modo loro, sì lo so è brava, ma è andata così, era già da un po' che ne parlavano, insomma inutile girarci intorno, stanno per separarsi, anzi per dire il vero sono già belli e che separati, ora devono decidere per la Kristina, ma la tiene la mamma di sicuro, insomma è quasi impossibile che anche loro si facciano vedere per Natale, non dica che gliel'ho detto quando lui la chiama, ma le cose stanno così. Non sapeva che cosa dire, le parole si erano seccate in gola prima ancora di uscire. Stava lì con la cornetta in mano, zitta. - E poi mamma, domani Tonino la chiama di sicuro, vuol parlarle, non è mica una bella cosa che lei se ne stia da sola e in quel posto isolato alla sua età, non si sa che cosa potrebbe capitarle e noi stiamo sempre col pensiero. Per la casa non si preoccupi, ne discorrevamo proprio ieri a cena col futuro suocero della Isa, dice che semmai la comprano loro, è grande, in una bella posizione, ci potrebbe venire un bel locale, un ristorante rustico, un pub magari, lì intorno non ce n'è, gliela pagherebbero bene, insomma vedremo. Sandra si appoggiò allo schienale della panchetta. Sotto la vecchia camicia da notte di cotone felpato, le gambe e le cosce le parevano di marmo, mentre un tremito incontrollabile si era impadronito delle sue mani. Era arrivato il momento, era arrivato. Quello che temeva da tempo, quello a cui non voleva pensare, quello che però aspettava senza volerlo ammettere neanche con se stessa, perché lo sapeva che prima o poi sarebbe venuto. La serenità di saperli tutti felici e contenti, in buona salute, senza grossi pensieri, era crollata come un castello di carte... E poi ormai tutti avevano la loro vita, e i loro

problemi, belli o brutti, e nella loro vita non c'era più posto per lei, nemmeno a Natale. Non era neanche stupita o sorpresa e non era certo quest’ultima constatazione a farla star male. Era il pensiero di Giacomo. - Dio fa' che guarisca. Non importa se non ci saranno più Natali insieme, niente più canti, dolci, ghirlande, e allegria, pazienza, l'importante è che lui stia bene. E io che ci faccio qui? Qui in questa casa isolata, da sola, a dargli ancora pensieri e preoccupazioni, che già ne hanno per conto loro, povere la mia Lauretta e la mia Marcella, col babbo all’ospedale. Povera la mia Kristina che ormai non lo metterà più il puntale rosso e oro sull'albero di Natale della sua nonna, e chissà che Natale triste erà col papà e la mamma uno di qui e l'altro di là... E un bel giorno la Mariuccia mi troverà bella e morta nel letto, e la gente dirà che mi avevano abbandonata, e avranno ancora da criticarli. Non potendo aiutarli in altro modo doveva almeno levar loro questo pensiero, questo almeno poteva ancora farlo, questo sarebbe stato quell'anno il suo regalo di Natale. - Andrò al pensionato - disse forte - non sarà mica poi così brutto, se ci stanno gli altri posso starci anch'io. Era l'unica cosa da fare. Se voleva bene ai suoi figli, gliene doveva volere fino in fondo, fino all'ultimo. Se voleva che stessero sereni, se voleva che Giacomo guarisse, doveva far vedere a Dio che non era egoista. La salute di Giacomo e la tranquillità dei suoi figli in cambio della sua libertà. Non era il primo patto che faceva col Buon Dio e di solito Lui la ascoltava. E di colpo si sentì invadere dalla serenità, una quieta sensazione di calma e di fiducia che le scaldava il cuore, come da tanto, tanto tempo non le succedeva. Era sicura ora che Giacomo sarebbe guarito, che Filippo e sua moglie avrebbero ritrovato equilibrio e armonia. Era sicura che tutti i suoi figli e le loro famiglie sarebbero stati di nuovo felici.

Che cosa aveva detto sua nuora a proposito di locali, di ristoranti o di... com'era quell'altra parola che aveva detto? Un pab? Che cosa mai era un pab? E aveva detto che volevano pagare bene la sua casa. Ma a lei dei soldi non gliene

importava proprio niente! La casa era sua, era proprio intestata tutta a lei per via del prestito bancario sul suo stipendio quando l'avevano comprata, era sua e ne faceva quel che voleva. Non se ne parlava nemmeno di vederla piena di gentaglia chiassosa a bere e a mangiare, di vedere le magnolie e i pini buttati giù per far posto alle automobili. Pensava alla bambina con l'asma, a respirare aria cattiva a Milano, ai suoi genitori, ai suoi fratellini che avrebbero giocato a nascondino felici e contenti nel giardino incantato e che alla sera si sarebbero fatti bau agli angoli scuri della casa rincorrendosi e gridando di paura e di allegria... - Bisogna che telefoni subito al Carletto - disse - che lasci perdere di far delle questioni coi soldi, vanno bene quelli che mi vogliono dare, tanto sono tutti dei ragazzi e della Dolores, che per fortuna problemi economici non ne hanno. Pensava con un po' di invidia ai due nonni che si sarebbero goduti, nella bella stagione, l'ombra del lauroceraso seduti sulla panchina di pietra sotto la prima finestra del pianterreno. E che avrebbero visto crescere i nipoti, li avrebbero fatti giocare, gli avrebbero raccontato le favole, ché lei non aveva mai potuto farlo. Pazienza, la vita non era mica uguale per tutti, in fin dei conti la sua parte l'aveva avuta anche lei. L'importante era che si prendessero, insieme alla casa, anche il gatto e il Nero. Ma era sicura, non aveva dubbi, che l'avrebbero fatto. E la storia ricominciava da capo.

FIORI DI GHIACCIO (Dicembre 2005)

Erano appena le quattro del pomeriggio eppure era già quasi buio, perché una nebbia spessa e uggiosa era calata a dare manforte alla precoce sera invernale. Ma nella vie del centro, illuminate dalle luci cittadine, dalle luminarie del Natale imminente e dallo scintillio sfacciato delle vetrine vestite a festa, il giorno pareva non avere mai fine e una folla frettolosa e impaziente si accalcava sui marciapiede e nei negozi. Delia si accostò al collo il bavero del cappotto, si accomodò meglio la sciarpa di lana, poi, cercando di evitare la calca che la stringeva da ogni lato, riuscì a guadagnare l'uscita del grande magazzino, dove era entrata più per svagarsi nell'osservare la merce esposta che per fare acquisti dato che non c'era proprio nessuno che si aspettasse un regalo da lei. Ma era stata una pessima idea perché la confusione non le era mai piaciuta e ora si sentiva stanca e frastornata. Fuori l'aria le colpì il volto con uno schiaffo gelido obbligandola a tirarsi la sciarpa sopra la bocca e a calzare meglio, fin quasi davanti agli occhi, il berrettone di lana. Camminando adagio si avviò verso la fine dei portici e poi alla fermata del tram. Quando scese dal mezzo, la notte e la nebbia avevano ormai conquistato il quartiere e le fioche luci dei lampioni illuminavano a stento la via riflettendosi a intervalli regolari, giallognole e tristi, sul marciapiede e facendo uscire a tratti dal buio, fantasmi imbacuccati, le figure dei rari anti. Il suo appartamento caldo e luminoso, provenendo lei dal freddo e dal buio, parve a Delia una piccola oasi di piacere quando, dopo aver aperto la porta ed aver la luce dell'ingresso, vi entrò con un sospiro di sollievo. - Casa mia, casa mia, per piccina che tu sia, tu mi sembri una badia! - disse a voce alta mentre si levava il cappotto e lo appendeva all'attaccapanni.

Era davvero piccola la sua casa, due stanze appena con bagno e cucina, ma era accogliente e piacevole perché arredata con cura e buon gusto e organizzata ad arte sulle sue esigenze. Accese anche tutte le luci del soggiorno e si sedette sul morbido divano di velluto godendosi il tepore della stanza, il silenzio assoluto che avvolgeva la sua casa e l'ordine che vi regnava sovrano, senza traccia alcuna di addobbi natalizi, di presepi, o di alberelli che in fondo costituivano soltanto degli inutili mangiapolvere. Erano il silenzio e l'ordine di una casa abitata da una donna sola. Una solitudine che a Delia era sempre andata bene, perché in fondo era il frutto della sua libera scelta, ma che da qualche tempo a questa parte, e precisamente da quando andandosene in pensione aveva pochissime occasioni di stare insieme ad altri, a volte le pesava e una vena indefinita di malinconia si insinuava dentro la sua anima. Le stava succedendo anche quella sera: l'aver visto in centro tutta quella gente, fidanzatini che si consultavano sugli acquisti, famigliole con al seguito bambini sorridenti di entusiasmo e anche qualche coppia di anziani che probabilmente sceglievano i regali per i nipoti, le aveva messo addosso una inquietudine insolita e fastidiosa. In tutta la sua vita a lei non era mai capitato di recarsi a far spese insieme a qualcun'altro e tanto meno sotto Natale. Quell'anno poi non aveva da preoccuparsi nemmeno della solita scatola di cioccolatini per le bidelle, o di un oggettino di cancelleria per i suoi scolari. Ma questo in fondo non le dispiaceva, perché il Natale non la entusiasmava per niente, anzi se fosse stato per lei, a parte il significato religioso della ricorrenza, avrebbe volentieri cancellato la festa dal calendario. Non c'era nessuno nella sua vita con cui poter festeggiare. Le poche amiche, anzi più che amiche erano colleghe o semplici conoscenti, avevano le loro famiglie, e da quando, trent'anni prima, a pochi mesi di distanza l'uno dall'altro, erano morti i nonni che l'avevano allevata, parenti non ne aveva più. "A parte lui, Anna e le loro figlie" le suggerì una voce interna prendendola quasi a tradimento. “Uffa, Delia! Stai invecchiando, cara mia” si disse facendo un gesto con la mano a scacciare i ricordi inutili e sciocchi che erano venuti a posarsi sui suoi pensieri come mosche moleste.

Stava davvero invecchiando, da quando se ne era stata a casa da scuola il tempo pareva essere corso più in fretta rendendo in pochi mesi il suo volto più grigio, anche se in definitiva certi giorni le sembravano non are mai. Non era stata una bella idea quella di andarsene in pensione prima del tempo. Ma in primavera aveva attraversato un periodo difficile per la sua salute con delle prospettive che lì per lì erano parse peggiori di quanto si fossero poi rivelate in seguito, e quella di mettersi a riposo, avendo comunque gli anni di lavoro sufficienti, le era sembrata la soluzione migliore. Ma, nonostante qualche ora di impegno settimanale in parrocchia, si trovava a non sapere come trascorrere il tempo. E completamente sola ad affrontare il suo primo Natale da pensionata...

Il trillo del telefono venne a rompere il silenzio facendola sussultare: suonava tanto di rado il telefono nella sua casa che Delia alzò la cornetta con una certa curiosità. - Maestra Delia? Sono Patrizia Ferrari... Si ricorda di me? - disse una giovane voce di donna. Patrizia Ferrari? Il nome non le pareva nuovo, certo era quello di una sua ex alunna, ma non le riuscì in quel primo momento di far riaffiorare alla memoria un volto a cui associarlo. Del resto nella sua classe erano ati tanti di quei bambini, centinaia in quarant’anni di servizio, che era davvero impossibile rammentarseli tutti. - Sono uscita dalle elementari più o meno vent'anni fa, maestra. Ero quella che si accoccolava sulla sedia sopra una gamba invece di stare seduta composta, lei mi sgridava e mi diceva che sembravo un trampoliere a riposo con quell'unica gamba in vista... Se ne rammenta adesso? - spiegò ancora la voce della donna che aveva colto evidentemente la sua esitazione. - La mia piccola gru! Eccome se mi ricordo di te, Patrizia! Eh, sì, sono davvero ati un mucchio di anni. Quanti ne hai adesso? Posso ancora darti del tu o devo chiamarti signora e darti del lei? - le disse allegramente. - Certo che mi può dare del tu, ci mancherebbe! Ho trentun anni e sono davvero una signora, dato che sono sposata e ho due bambini. Chiacchierarono per qualche minuto e Delia era proprio contenta perché era

sempre un piacere quando le capitava di avere notizie dei suoi ex alunni. Era stata, almeno così credeva, una brava maestra, perché aveva svolto il suo lavoro con ione e aveva sempre voluto un gran bene ai suoi scolaretti, un bene che andava oltre il dovere di un'insegnante. E questi la ricambiavano. La prova era che non di rado qualcuno le telefonasse ancora per informarla di una laurea o di un matrimonio. - L’ho cercata, maestra, perché devo chiederle un favore - le disse invece Patrizia. - Se posso, ben volentieri... - La mia bambina più grande frequenta la terza e la sua maestra ha detto a tutti gli alunni di cercare a casa una poesia di argomento natalizio e di portarla a scuola. E io non so dove andare a pescarne una che non sia troppo difficile, ma nemmeno banale. Le sembrerà strano, ma mi ricordo ancora una poesia che era sul nostro libro quando eravamo in quarta. Mi era piaciuta da matti o forse il merito era suo, maestra, e del suo modo di spiegare... Insomma, quella poesia mi è rimasta impressa, ma purtroppo non ne rammento il titolo e nemmeno l'autore e i miei vecchi libri delle elementari chissà dove sono finiti. - Se non mi sai dire proprio niente, sarà difficile che io possa aiutarti a rintracciarla! - Mi ricordo come cominciava. Faceva così: C'era un silenzio come d'attesa lungo la strada che andava alla chiesa. E poi parlava della siepe ghiacciata che sembrava fiorita di biancospino. - Oh, sì la conosco. Si intitola Notte di Natale e l'autore è un poeta toscano, Pietro Mastri. - Ero sicura che lei la ricordasse, e mi chiedevo appunto se le sarebbe stato possibile recuperare il testo e armelo per mia figlia. E' per questo che mi sono permessa di disturbarla. - Nessun disturbo, Patrizia. Però devi darmi il tempo di trovarla e non ti garantisco di riuscirci. In caso contrario te ne suggerirò un'altra che possa andar bene. Per quando ce l'ha bisogno la tua bambina? - Dopodomani...

- Va bene. Lasciami il tuo numero di telefono. Delia tornò a sedersi sul divano. Le aveva fatto davvero piacere risentire dopo tanti anni Patrizia. La rammentava ora perfettamente, una morettina dai grandi occhi vivaci, sempre piena di buona volontà e di entusiasmo. E rammentava perfettamente anche quel lontano mattino quando aveva proposto ai suoi scolaretti la poesia di Pietro Mastri, perché gliene era rimasto impresso un particolare: mentre la spiegava, si era lasciata trasportare a tal punto che in un attimo di pausa, nel silenzio assoluto della classe, Fabio, il più birichino dei suoi alunni che dopo quattro anni continuava imperterrito a darle del tu, cogliendo l'emozione che quei versi avevano suscitato dentro di lei, aveva esclamato: - Ti piace tanto, eh! maestra, questa poesia! Ti viene quasi da piangere! E pensare che a malincuore l'aveva messa in programma. Dato che si trovava sul libro di testo, le era parso inopportuno arla sotto silenzio, ma poi negli anni successivi mai più l'aveva proposta ai nuovi alunni. E non perché non le pie. Al contrario, la trovava speciale nella sua semplicità. Però quella poesia, proprio come aveva intuito Fabio nella sua ingenuità di bambino, suscitava nel suo cuore un'eco dolorosa che la faceva star male. Leggendola le pareva di tornare indietro nel tempo a quel Natale lontano che era rimasto dentro di lei come un bel sogno fatto una sola volta e mai più ritrovato... Ma, dopo, inevitabilmente le tornava alla mente l'altro Natale, quello che era venuto l'anno successivo e che aveva segnato la fine dei giorni sereni e felici lasciandole dentro la dolorosa convinzione che tutto fosse accaduto per colpa sua... Si alzò dal divano, si diresse verso la libreria e ne estrasse un volumetto rilegato in pelle marrone. Aveva detto una bugia a Patrizia, non aveva affatto bisogno di cercarla quella poesia perché sapeva benissimo dove era, avendo lei acquistato parecchi anni prima la raccolta che la conteneva. La prima volta che le era capitata sotto gli occhi aveva, se ne ricordava bene, quattordici anni e frequentava la terza media. La poesia era riportata nella sezione "Ricorrenze" dell'antologia italiana e leggendola Delia aveva sentito una stretta al cuore, mentre il dolore e l'ansia annidati in fondo alla sua anima, messi a tacere ma mai rimossi, erano riaffiorati di prepotenza: in quella breve composizione in versi il poeta pareva aver descritto quel Natale dopo averle rubato per farli suoi, i ricordi, le sensazioni, i rimpianti...

Si sedette nuovamente, appoggiò il volumetto sulle ginocchia poi lo aprì nel punto indicato da un segnalibro di cartoncino e iniziò a leggere: " C'era un silenzio / come d'attesa / lungo la strada / che andava alla chiesa; / e fredda l'aria / di notte, in quell'ombra / là solitaria. / C'eran le stelle / nel cielo invernale; / e un verginale / candore di neve / ma rado e lieve..."

Il silenzio era profondo, assoluto e avvolgeva ogni cosa. Era un silenzio che Delia non aveva mai udito, un silenzio sospeso, irreale come se il mondo si fosse fermato in attesa di qualcosa che doveva accadere, qualcosa di grande, di magico... E il rumore ovattato che facevano i suoi piccoli i sullo strato di neve caduta il giorno prima, invece di turbarlo, pareva ampliare quel silenzio all'infinito. Era un silenzio che arrivava dalle profondità del cielo nero, e pure straordinariamente limpido e terso, sopra di lei. Delia camminava a testa in su per osservare piena di stupore quell'immensità scura trapunta di stelle e le parevano vive quelle luci lontane che tremolavano appena attraverso il velo di lacrime dei suoi occhi provocato dall'aria pungente. - Guarda dove metti i piedi, tesoro, altrimenti rischi di scivolare. La voce della mamma, dolce, indulgente... Delia aveva abbassato il capo e aveva preso a guardare la strada e le vigne e i campi coperti dalla candida coltre, da cui emergevano radi arbusti scheletriti, che si stendevano attorno perdendosi nell'oscurità lontana. La neve pareva diversa nella notte, scintillante com'era di mille pagliuzze argentate ed era friabile come le meringhe che faceva Celestina per il tè della domenica. Le era venuto persino voglia di raccattarne un poco da terra e di mettersela in bocca per sentire se avesse anche lo stesso gusto di vaniglia... Tutto pareva differente, nuovo e misterioso. Le sembrava addirittura di non riconoscere la strada della chiesa, che pure sapeva a memoria perché sua madre la conduceva ogni domenica mattina alla messa. Non era mai uscita di notte, Delia. Non in inverno, almeno. In inverno la mettevano a letto prestissimo, appena dopo la cena. Ma quella era una sera speciale: per la prima volta la mamma aveva deciso di condurla con sé alla messa di mezzanotte...

- Hai sei anni, Delia, vai a scuola, sei grande ormai. Ti piacerebbe stasera venire in chiesa con me? - le aveva detto quel mattino. Era stata tanta la gioia a quella proposta che Delia aveva acconsentito a fare un sonnellino nel pomeriggio, cosa che non le era mai piaciuta, per paura, poi, di non riuscire a rimanere sveglia. E ora si sentiva felice ed eccitata, mentre camminava di buon o lungo la strada deserta alla volta della chiesa in cima alla collina, e il freddo che le pungeva le guance e il naso, e si insinuava sotto il cappottino di shetland azzurro guarnito di velluto blu e sotto la vestina dalla gonna a pieghe e saliva a cercarle le cosce ben coperte dalle mutandine di lana a gamba lunga, non le dava affatto noia, anzi le pareva bello e speciale anche lui... La mamma camminava accanto a lei, l'ampia pelliccia scura alla caviglia e la cloche di feltro calzata sui capelli ondulati e teneva stretta nella sua mano quella di Delia. Portavano entrambe i guanti, di pelle la madre, di angora bianca la bambina, eppure Delia, attraverso la morbidezza della lana, sentiva il dolce tepore della mano della mamma are alla sua e le pareva che questo arrivasse a scacciare il freddo in ogni angolino del suo corpo. Ma forse a riscaldarla era la contentezza di trovarsi lì con lei, nel silenzio irreale di quella magica notte... Poco prima della chiesa la salita si faceva più ripida e la strada era bordata da entrambi i lati da una folta siepe di biancospino che in primavera si copriva di un candido velo di migliaia di piccoli fiori. Ora era spoglia e nera, i duri rami spinosi protesi al cielo, e a Delia era sembrata proprio morta quando la domenica mattina era salita lassù per la messa. Ma ora i rami erano coperti di fiori candidi e trasparenti, e la sorpresa della scoperta straordinaria l'aveva fatta bloccare di colpo. - Forza - le aveva detto la mamma tirandola dolcemente per la mano - siamo quasi arrivate. Sei stanca? E' davvero bella la siepe! E' stata la galaverna a farla fiorire - aveva aggiunto cogliendo lo sguardo della bimba e la sua meraviglia.

L'immagine di quella bambina felice che camminava nella notte fredda e stellata per mano alla sua mamma e osservava stupita il miracolo della fioritura di ghiaccio, era rimasta nella mente di Delia come qualcosa di perfetto. Ma lungo gli anni, nel ricordo, le era sempre parso di osservarla da lontano, come uno

spettatore che ammiri dal di fuori uno spettacolo bello e suggestivo. E poi aveva ritrovato la perfezione di quell'immagine nei versi di una poesia, quella stessa che ora stava leggendo, dove al poeta erano bastate poche parole per rievocarne la magia... "C'era una siepe / nera e stecchita; / parea fiorita / di suo biancospino. / E mi teneva, / oh mio sogno lontano / mia madre per mano..."

Delia si appoggiò stancamente allo schienale del divano: per quanto si sforzasse non le riusciva di rammentare "dal vivo" il volto sorridente di sua madre, ma solo quello che tante volte aveva osservato nelle fotografie che la ritraevano insieme a lei e che le pareva assolutamente irreale dato che invece ricordava benissimo come era diventato "dopo": triste e avvizzito come se, per il maleficio di una strega cattiva, un'infinità di anni vi si fossero riversati in pochi giorni. E rivedeva chiaramente gli occhi sperduti e spenti, occhi che avevano perso interesse per ogni cosa. Ma di sicuro la mamma in quella notte incantata doveva essere ancora bellissima, la pelle liscia e curata, i denti perfetti messi in risalto da un leggero tocco di rossetto, i capelli di un bel biondo naturale acconciati abilmente dalla parrucchiera, e gli occhi chiari e dolcissimi che certo avevano osservato con tenerezza la sorpresa della sua bambina quando erano entrati nella chiesa... Delia abbassò nuovamente lo sguardo sul libro che teneva in grembo e con un sospiro lesse gli ultimi versi della poesia: " E nella tiepida / chiesa che incanto! / Fra lumi e un denso / profumo di incenso / e suono d'organo / e voci di canto, / ecco il presepe / con Te, Bambino..."

La piccola chiesa era già gremita, e a stento erano riuscite a trovare da sedersi nel secondo banco dove alcune donne si erano accostate per far loro posto. La magia di quella notte continuava anche all'interno: tutte le luci erano accese, persino i due grossi lampadari a gocce di cristallo che durante la messa mattutina della domenica restavano spenti, le fiammelle delle grosse candele sull'altar maggiore si inclinavano e danzavano tremolanti al soffio dell'aria gelida ogni volta che il pesante portone veniva aperto da qualche ritardatario, e un odore

strano e dolciastro che faceva pizzicare il naso e gli occhi, si spandeva lungo la navata. Poi l'organo aveva preso a suonare e il sacerdote aveva intonato un canto che a Delia piaceva tantissimo. Lo conosceva, l'aveva imparato a scuola insieme ai suoi compagni, così con gioia aveva unito la sua vocetta a quella della madre e degli altri fedeli: - Tu scendi dalle stelle o Re del cielo e vieni in una grotta al freddo e al gelo... Ed eccolo lì Gesù Bambino adagiato sulla paglia della mangiatoia... Un Gesù Bambino grande come un bimbo vero, non minuscolo come quello del presepe che ogni anno la mamma e Celestina preparavano per lei in un angolo della sua cameretta, e con la sola camiciola bordata d'oro a proteggerlo dal freddo. Delia lo osservava incantata, le pareva che il piccolo Gesù la guardasse a sua volta protendendo proprio verso di lei le bracciotte nude e soffici e si chiedeva come potesse un bambino così piccolo e povero portarle i tanti regali che trovava ogni anno sotto l'albero. E soprattutto come fe ad arrivare fino ai rami alti del grosso abete che suo padre poneva a metà dicembre al centro del salotto del piano terra, per appendere tutte le cose buone che nella notte di Natale apparivano come per incanto a completare gli addobbi delle leggere palline di vetro, mescolando i loro dolci aromi con quelli della resina e delle candeline accese: caramelle e barrette di cioccolato, mandarini e arance profumate, melagrane misteriose e segrete, dolcetti di pasta di mandorle avvolti uno per uno nella carta velina, bastoncini di zucchero croccante e piccoli torroni farciti di mandorle e nocciole, e buffi pupazzetti di pasta frolla con gli occhi di uva a e il sorriso di pinoli. Più dei giocattoli che la entusiasmavano relativamente non avendo nessun con cui dividerli per giocare, Delia amava la sorpresa di questi addobbi golosi che aveva il permesso di gustare pian pianino, al massimo un paio al giorno, durante il periodo delle feste. Ma, come aveva detto Celestina, "Gesù può tutto" e dunque probabilmente anche questo non costituiva per lui un grosso problema. E quella notte, mentre se ne stava lì nella chiesa accanto alla mamma, tra le luci e i canti, le era venuto in mente un pensiero nuovo e straordinario: se Gesù poteva tutto, allora era anche in grado di esaudire il suo desiderio più grande... "Questa volta non portarmi dei giochi, per piacere portami una sorellina" aveva detto in un sussurro fissando negli occhi di vetro azzurro il Bimbo adagiato sulla paglia...

Ma il mattino dopo sotto l'albero aveva trovato i soliti giocattoli e una profusione straordinaria di cose buone appese ai rami dell'abete. Delia, pur nell'allegria del giorno di festa, in fondo si era sentita un po' delusa. Aveva assaggiato un dolcetto e giocato un poco con la nuova bambola in attesa dell'ora del pranzo, che era, quel giorno, davvero speciale perché Celestina a Natale superava se stessa, anche quando non c'erano ospiti come quell'anno dato che i nonni con la zia Anna non erano venuti come al solito a trascorrere le festività da loro perché erano tutti a letto con l'influenza. Ed era stato proprio mentre gustavano un delizioso dessert alla crema che era arrivata per Delia la sorpresa più gradita. - Gesù Bambino ti ha portato anche un altro regalo, tesoro - le aveva detto suo padre - un regalo bellissimo e importante... Tra qualche mese arriverà un fratellino o una sorellina. - Sei contenta? - le aveva chiesto la mamma con una nota di ansia nella voce. Se era contenta? Ah, la gioia di quei momenti e poi dei giorni che erano seguiti! Finalmente non sarebbe più stata sola e già Delia si immaginava mentre giocava con la sorellina, era sicura che sarebbe stata femmina dato che si era annunciata in seguito alla sua richiesta al piccolo Gesù, e vedeva con la fantasia una bambina già grandicella scorrazzare con lei in giardino e per le stanze della casa... Ma la felicità dell'attesa era durata poco perché subito dopo le feste era accaduto qualcosa. Delia non avrebbe saputo dire esattamente quello che era successo perché nessuno si era preso la briga di spiegarglielo. Ma un giorno all'uscita della scuola c’era Celestina invece della mamma, e arrivando a casa aveva trovato ad attenderla suo padre. E anche questo le era parso strano, che suo padre fosse lì non rientrando mai lui per il pranzo. E il babbo le aveva detto che la mamma era dovuta andare all'ospedale. - E' ammalata? - gli aveva chiesto in un sussurro. - Un poco, ma sta già meglio. Vedrai che presto tornerà a casa. Solo alla sera, mentre cenavano in silenzio, con Celestina che girava attorno al tavolo con un volto triste e teso, suo padre le aveva detto che la sorellina non sarebbe più arrivata. - E' volata in cielo, è un angioletto ora.

E non aveva aggiunto altro, lasciandola sola ad affrontare la delusione e tutte le domande che si rincorrevano nella sua testa e che restavano senza risposta. Poi erano arrivati i giorni tristi e bui, i giorni della solitudine. La mamma era tornata a casa, ma era diversa. Stava sempre in camera sua e non sorrideva mai, né le leggeva le favole quando la sera la metteva a letto, anzi il più delle volte era Celestina a spogliarla e ad infilarle sbrigativa il pigiamino ed era sempre lei che trovava ad aspettarla all'uscita dalla scuola e che quasi la trascinava camminando in fretta lungo la strada. Che cosa era successo a sua madre per farla cambiare in quel modo? Sarebbe mai tornata ad essere la mamma dolce e indulgente che si occupava di lei a tempo pieno, che la aiutava nei compiti, che la faceva giocare, che la portava a eggio in città tra i negozi eleganti del corso? Quell'anno il babbo le aveva persino detto che a giugno lei e la mamma non sarebbero andate al mare come al solito nel piccolo albergo sulla riviera della Versilia dove lui le raggiungeva nei fine settimana e anche questa era stata una bella delusione. Delia era una bambina ben educata alla quale era stato insegnato che i piccoli non devono fare domande inopportune e tanto meno intromettersi nelle conversazioni degli adulti o anche solo ascoltare i loro discorsi. Ma era tanta l'ansia che provava per quella assurda situazione, che aveva finito per farsi attenta alle parole dei grandi, tesa com'era nel cercar di cogliere una spiegazione a tutta la faccenda e un qualche motivo di speranza che la tranquillizzasse per il futuro. E un giorno le era capitato di seguire una conversazione tra Celestina e Maria, la donna che veniva una volta ogni tanto alla villa per i lavori più pesanti. - Sono i nervi - diceva Celestina scuotendo la testa - e secondo me farebbero meglio a ricoverarla in una clinica adatta, almeno per qualche tempo, come ha suggerito quel professore che è venuto da Firenze la settimana scorsa. Ma l'ingegnere non ne vuole sapere. - Ma possibile che l'aver perso il bambino l'abbia ridotta in questo stato? - aveva chiesto Maria. - E' sapere che non potrà più averne che l'ha sconvolta. Loro dicono che ha l'esaurimento nervoso, ma secondo me le ha proprio dato di volta il cervello. Non si occupa nemmeno più della bambina e sembra persino che abbia preso in

odio il marito. - Eppure andavano tanto d'accordo! - Eccome! Però da quando è tornata dall'ospedale pare che lei non lo sopporti tanto è vero che l'ingegnere si è trasferito a dormire sul divano dello studio. - Brutto segno davvero. E poi lui è ancora giovane... Quanti anni avrà? - Ne ha trentotto ed è un gran bell'uomo, lo sai anche tu. La signora deve essere proprio fuori di testa altrimenti si renderebbe conto che prima o poi lui si farà l'amante se lei continua a rifiutarlo. Sarà anche una persona seria e onesta, ma gli uomini in fondo son tutti uguali e fanno fatica a star da soli. - E la bambina? - La bambina, se non ci fossi io sarebbe proprio abbandonata a se stessa. Lui le vuole un gran bene, ma tempo da dedicarle non ne ha. Ma io non ce la faccio più ad arrivare a tutto. La signora va servita e riverita di tutto punto, se ne sta tutto il giorno nel letto a guardare il soffitto o a dormire con tutte quelle pasticche che manda giù come fossero mentine, poi ci sono le pulizie, c'è da andare a far la spesa anche se il più delle volte l'ingegnere me la manda a domicilio col garzone della cooperativa, e poi c'è, appunto, la bambina che prima se ne occupava la signora, e del resto era l'unica cosa che faceva... Ma gliel'ho detto all'ingegnere: così non si può andare avanti, o prende qualcun'altro, magari una governante per Delia, oppure io me ne vado. Va bene che sono una donna sola e loro sono praticamente la mia famiglia, ma comincio ad avere i miei anni, mica mi posso ammazzare! - E lui? - Lui ha detto che non vuole mettere la bambina nelle mani di estranei e che avrebbe chiesto alla sorella della signora di venire per qualche tempo a stare qui. - Chi? La signorina Anna? - Appunto. A parte i genitori di lei è l'unica parente prossima che hanno. E' tanto affezionata alla sorella e vuole un gran bene alla bambina. - E come farà la signorina Anna col lavoro?

- Quale lavoro! Mica ha bisogno di lavorare. Credo che abbia studiato, ma la tengono a casa in attesa del buon partito. Il padre è colonnello dell'esercito ed è siciliano, anche se abitano in Piemonte da parecchi anni, e nonostante non si sia più nell’ottocento, secondo lui l'unico lavoro adatto a una ragazza di buona famiglia è quello di far la moglie e la madre. Gliel'ho sentito dire colle mie orecchie l'autunno scorso quando erano tutti qui in visita e si sono fermati quindici giorni. Delia, da dietro la porta socchiusa, aveva seguito le chiacchiere delle due donne con estremo interesse, ma non le era riuscito di afferrare tutto. Aveva però capito tre cose, due brutte e una bella: nessuna sorellina sarebbe mai arrivata e la mamma era davvero tanto malata. Ma forse sarebbe venuta a stare con loro la sua adorata Annina! Delia la chiamava così, Annina, invece di zia Anna, come se lei fosse un'amica o una compagna di giochi perché era così che la considerava dato che in fondo era proprio in questo modo che la zia Anna si comportava quando veniva in Toscana a trovarli, a volte coi nonni, spesso anche da sola. Anna era giovane e bellissima, proprio come la sorella, anche se non si somigliavano per niente: chiara con gli occhi azzurri la mamma, scura la zia, coi lunghi capelli corvini che le arrivavano in vita e che lei teneva annodati in una morbida crocchia sulla nuca, e con due occhi neri e luccicanti da incantare. E tanto la mamma era dolce e tranquilla, tanto Anna era esuberante, giocosa e piena di vita. Delia la adorava e il pensiero che forse sarebbe venuta a stare con loro, e proprio per occuparsi di lei, la rendeva immensamente felice. - Per favore Gesù, fa' che sia vero. Fa' che la mia Annina venga qui da me e io ti prometto che sarò sempre tanto buona - aveva pregato prima di coricarsi dopo essere andata dalla mamma a darle la buona notte e averla trovata già assopita. E anche questa volta la sua richiesta era stata esaudita: la zia Anna era giunta alla villa dopo appena una settimana e si era installata all'ultimo piano nella camera degli ospiti. E con il suo arrivo, dopo tanta tristezza, erano arrivati di nuovo i giorni sereni. La mamma non era guarita ma con la sorella vicina pareva stare un po' meglio, il babbo era divenuto più loquace, e persino Celestina, ora che non doveva più occuparsi di Delia, aveva modi meno nervosi e sbrigativi. Quanto a Delia... Con l'inconsapevole egoismo dei bambini, aveva recuperato l'antica vivacità e la

voglia di giocare. Certo, la mamma stava ancora poco bene e si disinteressava di lei, ma adesso c'era la zia Anna e la vita era di nuovo bella e allegra. Era trascorsa l'estate, un'estate di giochi in giardino, di lunghe eggiate tra i campi e i boschi, di sereni pomeriggi a chiacchierare insieme ad Annina, sempre disponibile e divertente, sempre pronta alla risata e alla battuta. La mamma, invece, dopo un primo periodo di apparente miglioramento, era ripiombata nel suo mondo fatto di tristezza e di solitudine, nel quale si isolava sempre di più rifiutando la compagnia delle persone di famiglia, il marito per primo, ma abbandonandosi a tratti a delle crisi di pianto terribili o a scenate furiose che non avevano un motivo apparente, durante le quali la zia Anna prendeva Delia e la portava in fretta a so lontana da casa. Era stata assunta un'infermiera, una seriosa donnetta di mezza età che a Delia era rimasta subito antipatica, ma in compenso Annina era diventata tutta sua e Delia le si attaccava ogni giorno di più. Era ato anche l'autunno e poi era arrivato l'inverno e con questo le festività natalizie. I nonni avevano telefonato che, per un contrattempo, sarebbero arrivati solo nel pomeriggio del giorno di Natale e la sera della vigilia Delia era stata messa a letto alla solita ora. Nessuno l'aveva condotta alla messa di mezzanotte, non il babbo che non era credente, non Celestina che sarebbe andata alla messa come sempre il mattino dopo alle sette, non la zia Anna che anche la domenica, negli ultimi tempi, con una scusa o con l'altra non la accompagnava più in chiesa. Delia nel suo lettino non riusciva a prendere sonno. Pensava alla sera della vigilia dell'anno prima, al cielo pieno di stelle che tremolavano nel buio, alla siepe fiorita di ghiaccio, come a qualcosa di infinitamente lontano, forse solo sognata. Quell'anno non era neppure nevicato, anche se faceva molto freddo, e Delia nel pensiero risentiva il calore della mano della mamma che in quella magica notte aveva riscaldato la sua... Pensava che la mamma era malata e forse mai più l'avrebbe portata con sé alla messa di mezzanotte, ricreando la magia di quella sera. E questo era un pensiero molto triste. Ma poi, a scacciare la tristezza, le veniva in mente il volto sorridente della zia Anna, così diverso e piacevole confronto a quello sciupato e assente, a volte quasi sconosciuto, della madre... E poi l'indomani era Natale e avrebbe trovato giocattoli sotto l'albero e dolcetti golosi appesi ai suoi rami.

Delia si girava e rigirava nel letto, il sonno non ne voleva sapere di arrivare a chiuderle gli occhi, e nel silenzio della casa addormentata le era parso a un tratto di udire dei bisbigli, una risatina soffocata, dei i lungo le scale... Che stesse già arrivando Gesù Bambino a portare i suoi doni? Era scesa dal letto alla luce della minuscola lampadina che nella sua stanza restava sempre accesa, era uscita pian piano dalla camera, aveva percorso il corridoio fino ad affacciarsi alla ringhiera della scala: al pianoterra la porta del salotto era socchiusa e una sottile lama di luce fendeva il buio dell'ingresso... Piccola e silenziosa Delia aveva sceso le scale, poi, arrivata davanti alla porta del salotto, aveva sbirciato col cuore in gola dentro la stanza. All'interno c'era la zia Anna intenta ad appendere ai rami dell'albero frutti e dolcetti, mentre il babbo disponeva i giocattoli sul pavimento. Che delusione! Dunque quello che le aveva detto il suo compagno Riccardo, e che lei si era rifiutata di credere, e cioè che non era affatto Gesù Bambino a portare i doni ma erano invece i genitori, era proprio vero... Eppure le pareva ancora impossibile e se ne stava lì, nascosta nella penombra dell'ingresso, nella speranza di poter udire, o vedere, attraverso la fessura della porta socchiusa, qualcosa di plausibile che le permettesse di mantenere intatta la bella favola... Annina e il babbo avevano ormai finito e ora se ne stavano uno di fronte all'altra guardandosi senza parlare. A un tratto lui aveva allungato una mano verso la zia Anna e le aveva fatto una carezza sul viso... Poi le braccia avevano circondato la sua snella figura, Annina aveva alzato il volto verso di lui e le loro bocche si erano unite in un lungo bacio. E dopo ce n'era stato un altro e un altro ancora, mentre le mani del babbo cercavano la nuca di lei, disfavano la morbida crocchia fino a che la cascata lucente e morbida dei capelli si era sparsa sulle sue spalle... Delia era stupita: mai aveva visto il babbo comportarsi in quel modo con la cognata. Anzi delle volte aveva avuto l'impressione che lei non gli fosse simpatica perché ultimamente pareva evitarla e a tavola le rivolgeva a mala pena la parola, tanto che aveva temuto che prima o poi la zia decidesse di andarsene sentendosi indesiderata. Delia cercava di allungare le orecchie per riuscire ad ascoltare quello che i due dicevano, era evidente che ora stavano parlando, ma la stanza era molto grande e lei, seminascosta dalla porta accostata, troppo lontana. Le giungevano solo

alcuni frammenti slegati della loro conversazione che però non le permettevano affatto di comprendere quello che stava succedendo: - Non è giusto..., ma è un anno ormai... e tu… è più forte di me... se solo non ci fosse la bambina … non deve più succedere... – diceva il babbo. - …è meglio se me ne torno a casa - questa era la voce della zia Anna e Delia aveva sentito una stretta al cuore -... ma ti rendi conto di che cosa potrebbe succedere se … - Lo so, lo so è una pazzia, ma tu sei bella, Anna, e sana e piena di vita e io mi sento disperatamente solo! L'ultima frase, detta dal padre, era arrivata alle orecchie di Delia in modo chiaro perché lui l'aveva pronunciata con un tono di voce più alto e Annina subito dopo gli aveva messo la mano davanti alla bocca come a farlo tacere. Poi si era voltata e si era scostata da lui e Delia aveva potuto vedere che i suoi occhi erano pieni di lacrime. Allora aveva fatto una ritirata veloce verso la scala per timore che la zia avesse deciso di lasciare la stanza e potesse quindi scoprirla. Ora, con la testa rintanata sotto le coperte, Delia ripensava alla strana scena alla quale assistito e che l'aveva disorientata più ancora della scoperta che davvero non era il piccolo Gesù a portare i doni ai bambini. E dentro di sé era combattuta tra due sentimenti contrastanti: un certo sollievo nel constatare che i suoi timori riguardo all'antipatia del padre verso la cognata erano infondati, altrimenti non l'avrebbe certo abbracciata e baciata, e una inquietudine subdola e strana perché "sentiva" che il comportamento dei due non era... normale. Il sonno era arrivato a mettere a tacere ansie e dubbi e quando si era svegliata era stata presa dall'allegria della festa, dalla curiosità per i regali, dalla felicità nel vedere che anche la mamma quel mattino era scesa per assistere alla gioia della sua bambina. Sembrava più serena e tranquilla la mamma, le aveva fatto persino una carezza sui capelli, ed era scesa nuovamente per pranzare insieme al resto della famiglia invece di mangiare da sola in camera come faceva di solito. Sarebbe stato tutto perfetto se anche il babbo si fosse mostrato felice. Ma pareva rabbuiato e scontento, rispondeva a monosillabi quando gli rivolgevano la parola e sembrava che ce l'avesse con la zia Annina, perché non la guardava mai, come se la sua presenza gli desse fastidio. Anche la mamma doveva essersene accorta perché a un tratto il suo apparente equilibrio si era incrinato e aveva detto con

una voce alterata che Delia non le conosceva: - Con chi ce l'hai, Giorgio? Con mia sorella per caso? Che cosa aveva spinto Delia a parlare dimenticando per un attimo che mai i bambini devono intervenire nei discorsi dei grandi? Negli anni successivi se lo era chiesto spesso cercando di controllare l'angoscia che sempre, a quella domanda, saliva a soffocarla. Ma non le era mai riuscito di darsi una risposta. Certo a tradirla era stata la sua ingenuità di bambina che non aveva capito ciò che aveva visto e udito la sera prima spiando Anna e il babbo dietro la porta del salotto... Solo tanto tempo dopo ne avrebbe compreso il significato e le sarebbero stati chiari i motivi di ciò che era successo dopo le sue innocenti parole: - Non ce l'ha con la zia Anna, il babbo! Anzi le vuole bene! Ieri sera in salotto le ha dato tanti bacini! Il silenzio che era seguito alla sua uscita era stato così innaturale, così orribile che mai Delia se lo sarebbe scordato. Celestina era rimasta con il forchettone, con il quale stava servendo l'arrosto, a mezz'aria e Annina e il babbo, immobili e zitti, parevano due marionette meccaniche a cui si fosse esaurita la carica... La mamma senza dire una parola aveva afferrato il piatto colmo che le stava davanti e lo aveva scagliato per terra, poi il bicchiere e le posate e la brocca di cristallo piena di vino rosso lo avevano seguito... Celestina a qual punto aveva preso Delia e l'aveva trascinata di peso fuori dalla stanza... E prima ancora della fine delle vacanze di Natale, Delia e la mamma erano a Torino, nel grande appartamento dei nonni al quarto piano di un palazzo d'epoca in pieno centro. Erano cominciati gli anni della solitudine, della tristezza, in una casa che non era la sua, in una scuola nuova e diversa, in una città grande e sconosciuta... Anche se i nonni cercavano in ogni modo di circondarla di affetto, era pur sempre l'affetto di due persone non più giovani devastate dal dolore, mentre la mamma viveva ormai in un mondo di ombre, completamente estraniata dalla realtà.

Quando Delia ragazzina ripensava agli avvenimenti che avevano determinato quella situazione, rammentava soprattutto le parole di Celestina a Maria,

pronunciate mentre quest'ultima la aiutava a preparare le valigie sue e della mamma prima del loro trasferimento. E le veniva persino da sorridere amaramente al pensiero che, per uno strano scherzo del destino, le riuscisse da piccola di sapere le cose che riguardavano la sua famiglia, solo origliando o attraverso le chiacchiere delle persone di servizio. In quel momento forse a Celestina non importava che lei potesse udire o magari non aveva nemmeno notato la presenza della bambina, che se ne stava quieta quieta in un angolo, nella stanza guardaroba. Del resto non sapeva più con chi stare: la mamma era sempre nella sua camera con l'infermiera, la nonna indaffarata nei preparativi della partenza, il nonno, cupo e chiuso in se stesso, era inavvicinabile. Quanto al babbo e alla zia Anna... Delia da quel terribile pranzo di Natale non li aveva più visti: volatilizzati, spariti dalla casa e dalla sua vita... - Questo succede quando i bambini si impicciano delle cose dei grandi - aveva sussurrato Celestina alla donna ripiegando abiti e biancheria - Se Delia fosse stata zitta, magari non sarebbe accaduto nulla. Occhio non vede... E del resto quel pover'uomo è quasi da compatire: nessuno nasce con la vocazione al martirio e la moglie in questo ultimo anno gliene ha fatte are di tutti i colori. E la cognata, tutto il giorno in casa, sotto ai suoi occhi.... E così bella e piena di vita! Guarda, Maria, io sono convinta che ancora non fosse successo nulla di irreparabile e magari era stato davvero solo un momento di debolezza da parte dell'ingegnere e che la signorina si fosse lasciata coinvolgere quasi involontariamente, come lui ha sostenuto. Per quanto io avevo l'impressione che lei fosse innamorata del cognato da sempre, fin da quando la signora stava bene e tutto andava per il verso giusto. Tutti i momenti correva a trovare la sorella e io più di una volta l'ho sorpresa che lo guardava con certi occhi! E difatti non si decideva mai a trovarsi un fidanzato, ché di sicuro i corteggiatori non le mancavano bella com'è. - E ora? - aveva chiesto Maria. - Quando il giorno di Natale è scoppiata la bomba, la signora sembrava ammattita del tutto. Poi nel pomeriggio sono arrivati i genitori e il padre ha gridato alla figlia più piccola che era una sgualdrina, e che la ripudiava, che per lui da allora in avanti era come morta e la sorella l'ha praticamente cacciata di casa. Anche l'ingegnere se ne è andato, forse per non far agitare di più la signora che era completamente fuori di sé. Ma ho sentito il colonnello minacciarlo che non gli avrebbe mai più fatto vedere la figliola. L'adulterio è reato, e poi, in questo modo! Proprio in casa e praticamente sotto gli occhi della bambina!

Con un sospiro Delia chiuse il volumetto della poesie che ancora teneva aperto sulle ginocchia. Era davvero stato di parola il nonno: finché lui era rimasto in vita la zia Anna e suo padre non avevano mai potuto contattarla in alcun modo. Delia li aveva intravisti solo da lontano al funerale della mamma, aveva undici anni e ormai l'odio era l'unico sentimento che le riuscisse di provare per loro. La cosa assurda era che quest'odio non le veniva dal fatto che le due persone che lei aveva amato di più al mondo, dopo la mamma dei tempi felici, avessero tradito sua madre, ma derivava dalla convinzione che avessero tradito lei. Che avessero avuto il coraggio di andarsene via loro due insieme abbandonandola e costringendola a vivere in quella casa abitata dalla malattia e dal dolore, dal silenzio e dalla tristezza, invece di condurla con loro, in un mondo sicuramente allegro e felice. Più tardi aveva anche saputo che suo padre aveva lottato a lungo per ottenere di poterla vedere e aveva sempre provveduto ampiamente al suo mantenimento. Ma ormai al rancore si erano aggiunte la rassegnazione e l'indifferenza, e anche ai funerali dei nonni, quando, già donna, aveva rivisto il padre insieme ad Anna e alle loro tre figlie, li aveva palesemente ignorati. E mai lungo gli anni aveva accettato di incontrarli o di parlar loro per telefono, né mai si era degnata di rispondere alle lettere e ai biglietti di auguri che, ancora adesso, le arrivavano regolarmente per il compleanno e per le feste... Ora, mentre se ne stava seduta nel suo tranquillo soggiorno, si chiese, per la prima volta senza imporsi di soffocare questi pensieri, se davvero il mondo in cui avevano vissuto suo padre ed Anna fosse stato allegro e felice come lei da bambina aveva immaginato. E dovette ammettere che di sicuro la loro felicità non era stata completa e tanto meno allegra, con quel peso che dovevano portarsi sulle spalle, col dispiacere che la mamma e i nonni mai li avessero perdonati e soprattutto che l'odio si fosse sostituito all'affetto nel cuore di Delia. E finalmente le fu chiaro che per anni e anni la tristezza del suo vivere non era stata causata solo dalla convinzione che tutto fosse accaduto per colpa sua, ma anche e soprattutto dal rancore che stava covando assurdamente, sclerotizzato e immutabile, da una vita intera. Era stata questa sua rinuncia a perdonarsi e a perdonare che l'aveva condannata ad una esistenza di solitudine... Insieme alla difficoltà di fidarsi, di voler bene

alle persone che il destino metteva sulla sua strada, al di là dell'affetto che aveva nutrito per i suoi scolari e che era, in fondo, poco impegnativo perché alla fine delle elementari se ne sarebbero andati per la loro strada.... Ora le parve di vedere davanti a sé la sequela dei suoi anni da pensionata vuoti e inutili, e quella dei Natali futuri, privati anche del conforto dell'entusiasmo dei suoi scolaretti, e si sentì smarrita e profondamente infelice. Le venne in mente quello che aveva detto alla sua ex alunna per telefono quando questa le aveva chiesto notizie della sua vita: "Sono sola, non ho nessun parente, ma ci ho fatto l'abitudine e sto bene così" E di colpo realizzò che nulla di ciò che aveva affermato era vero: non stava affatto bene, la solitudine ora la spaventava e soprattutto non era vero che non avesse alcun parente. C'erano un padre e una zia che aveva amato moltissimo, e aveva tre sorelle e anche dei nipoti che neppure conosceva. Li aveva sempre ignorati di proposito. Come se in quel lontano inverno, quando tutto era accaduto, la galaverna avesse fatto nascere anche nel suo cuore, come sulla siepe nera e stecchita del biancospino, fiori di ghiaccio. Per i quali mai era giunto il tempo del disgelo… Prese da un cassetto la busta che anche quell'anno era arrivata puntuale dalla Toscana: all'interno, sotto un paesaggio innevato, c'erano i soliti auguri del padre e della sua famiglia, e in una angolo un numero di telefono. Da sempre Delia degnava il cartoncino appena di uno sguardo prima di accantonarlo distrattamente. Ora lo rigirò tra le mani pensosa: quanti anni aveva suo padre? Fece mentalmente il conto: ottantanove compiuti... E mai aveva abbandonato la speranza di recuperare il loro rapporto. Era tempo, prima che fosse troppo tardi, che lei si decidesse a far scomparire il gelo che da troppo tempo le induriva il cuore. Che si decidesse ad ammettere che, nonostante tutto, era ancora sua figlia, concedendo al padre il perdono e chiedendo il suo e quello di Anna. Con il biglietto in mano si diresse verso l'apparecchio telefonico, alzò la cornetta e compose il numero: - Babbo, sono Delia... - disse quando udì, all'altro capo, la voce del padre.

IL PRIMO NATALE DI ADA (Dicembre 2002)

- Visto che gli interessati sono tutti presenti, possiamo procedere - disse il notaio osservando da dietro la massiccia scrivania il piccolo gruppo di persone che aveva convocato per la lettura del testamento. Sonia si sentiva un po’ intimorita nell’austero studio arredato con pesanti mobili di legno scuro e anche i ragazzi parevano a disagio: contrariamente al loro carattere piuttosto vivace, se ne stavano seduti rigidi e impettiti sulle sedie dall’alto schienale senza avere quasi il coraggio di guardarsi d’attorno. Don Attilio, la professoressa Malvino e la signorina Amelia, parevano invece perfettamente a loro agio, mentre il notaio, dopo essersi aggiustati gli occhiali sul naso, prendeva a leggere sbrigativamente il foglio che teneva in mano. “Io, Ada Roveta, in pieno possesso delle mie facoltà mentali, eccetera, eccetera, dispongo delle mie proprietà nel modo che segue: a don Attilio, parroco della chiesa del Sacro Cuore, va il denaro depositato sul libretto postale, per i poveri della parrocchia e per altri usi, personali e non, che egli riterrà opportuni, con la mia riconoscenza per l’amicizia e la stima di cui mi ha sempre onorata. Alla Biblioteca Civica, nella persona della attuale direttrice professoressa Malvino, la mia raccolta di libri, compresi i pezzi antichi e rari, in tutto tremiladuecentoventi volumi, in ricordo degli oltre quarant’anni di assiduo servizio che io vi ho prestato come bibliotecaria. Alla mia amica, signorina Amelia Straffi lascio tutto i miei abiti, le due marine ad acquerello che sono appese su una parete del salotto e che tanto le piacevano e, per mio ricordo, la collana di perle e la spilla coi brillanti a forma di fiore. Anche se forse non gliel’ho mai detto le ho voluto molto bene, è stata per molti anni la mia unica, vera amica. Alla signora Sonia Dillea va tutto il denaro depositato sul mio conto bancario e i gioielli, dedotti quelli già menzionati.

Ai suoi figli, Roberto e Adina, le due villette contigue di mia proprietà, site in via eccetera, eccetera, con tutto quello che contengono, dedotto ciò che ho menzionato in precedenza, e i Buoni del tesoro da dividere in parti uguali nella speranza che possano essere un valido aiuto per i loro studi futuri. E' ben poca cosa, miei cari, ciò che vi lascio confronto all’amore che mi avete donato: avete reso pieni e felici gli ultimi anni della mia vecchiaia, con voi ho compreso per la prima volta che la vita è anche gioia e speranza. Mi avete fatto scoprire come sia bello sorridere e ridere di allegria, quanto sia giusto mettere l’amore, sempre, al primo posto…” Il notaio proseguì ancora per qualche attimo nella lettura ma Sonia non riusciva più a seguire le sue parole: un duro grumo di commozione le aveva chiuso la gola e la sua mente era concentrata nello sforzo di non piangere, perché le dispiaceva farlo lì davanti a tutti. Anche la signorina Amelia appariva visibilmente commossa e si girò verso di lei asciugandosi il naso sottile in un candido fazzolettino bordato di pizzo. - Cara, carissima Ada - disse in un sussurro - ci conoscevamo da una vita ed era quasi una sorella. “ Per me molto, molto di più…” pensò Sonia mentre, nonostante tutti i suoi sforzi, le lacrime cominciavano a scenderle silenziose sulle guance. Era stata, Ada, quasi un miracolo per lei, e gli ultimi undici anni, gli unici sereni della sua difficile esistenza di ragazza sola e madre di due figli senza lo straccio di un marito, da quando in una fredda notte di dicembre, l'anziana signorina era entrata del tutto involontariamente nella sua vita inquieta e randagia...

Non riusciva a prendere sonno Ada, quella sera. Saranno stati i reumatismi che da giorni la tormentavano e che ora, con l'arrivo della prima neve, si erano acutizzati, o forse la vicinanza delle feste natalizie che, abituata come era al suo rassicurante tran-tran quotidiano, sempre la mettevano di cattivo umore per quella confusione di gente che invadeva le strade e i negozi spinta dall'ansia di spendere e di divertirsi, con la scusa dei doni di Natale... E poi quei bambini esigenti e chiassosi per mano a genitori che erano incapaci di imporsi ai loro assurdi capricci e se li trascinavano nervosi e frignanti tra la folla straripante dei

grandi magazzini alla ricerca dell'ultima sciocchezza vista nella pubblicità della televisione. Ecco, erano proprio i bambini quelli che la infastidivano di più: piccoli mostri di egoismo e di maleducazione, esseri arroganti che non conoscevano la parola rispetto. Evitava persino di uscire, in quei giorni, se appena le era possibile e se ne stava rintanata nella tranquillità della sua casa, lontana dal traffico e dalla confusione, con un buon libro, un tazza di tè e Lizzi accucciata ai piedi, metodica e abitudinaria come la sua padrona, in attesa che la follia del Natale fosse ata. Tanto lei non aveva da fare regali a nessuno: viveva sola, felicemente sola, da un sacco di anni, niente parenti, niente amici, se non Amelia che comunque, a proposito del Natale, la pensava come lei. E anche se molti la conoscevano, avendo lei fatto la bibliotecaria nella loro cittadina per più di quarant'anni tanto che per tutti era "la signorina Ada", nessuno si sarebbe mai sognato di inviarle anche solo una cartolina di auguri. Per fortuna in biblioteca ai tempi in cui lei ci prestava servizio, di ragazzi se ne vedevano pochi: ora aveva saputo che persino quelli delle elementari bazzicavano le sale silenziose e austere: ci andavano a far ricerche (assurde cose moderne fatte per perdere tempo e studiare poco) e chissà quante volte la persona che l'aveva sostituita doveva riprenderli perché si comportassero bene. Lei non l'avrebbe sopportato. Nemmeno a Lizzi piacevano i piccoli e le volte che Ada se la portava dietro in città non era raro che ringhiasse seccata all'indirizzo di qualche sfacciatello che pretendeva di allungarle una carezza. Non aveva mai avuto simpatia per i bambini, Ada, nemmeno quando, anni prima, per puro senso del dovere di buona cristiana, aveva accettato la proposta del parroco di fare il catechismo ai più grandicelli. Era durato solo pochi mesi per fortuna, poi si era reso disponibile un chierico grande e grosso, dal polso fermo e dalla voce tonante, che era in grado di farsi rispettare, perché Ada non sapeva quanto ancora sarebbe riuscita a reggere: arrivava a casa, dopo quelle ore che erano un rimbrotto continuo all'indirizzo di quei disperati, distrutta e avvilita.

Ma forse la sua inquietudine dipendeva anche dalla tensione degli ultimi mesi e dalla recente arrabbiatura del mattino. Quella... quella... ragazza, quell'essere stravagante e villano, non si curava come avrebbe dovuto del figlio e il bambino

scorrazzava indisturbato per il giardino combinandone di tutti i colori. Quel mattino il piccolo selvaggio giocando a pallone (e aveva già cominciato a nevicare!) le aveva rotto un vetro e lei aveva dovuto chiamare il vetraio in fretta e furia, mica poteva alla sua età starsene al freddo, e l'operaio aveva preteso una cifra esorbitante per l'urgenza. E la madre, invece di scusarsi, le aveva comunicato che le avrebbe rimborsato la spesa solo a gennaio al momento di pagarle l'affitto. "Da una parte mi sta bene" si disse rigirandosi inquieta nel letto "così imparo a essere troppo buona. Don Attilio lo sa che non riesco a dirgli di no, ma stavolta ho peccato di leggerezza. Avrei dovuto informarmi meglio da subito e vista la situazione irregolare di quella donna, essere più prudente."

Rammentava bene la conversazione con il parroco. Don Attilio era capitato a casa sua un mattino di gennaio di quasi un anno prima, preceduto da una laconica telefonata: - Signorina Ada, se non disturbo verrei a trovarla, ho da chiederle un favore. Ada lo aveva atteso preoccupata: che cosa aveva bisogno di tanto importante da indurlo a venire di persona fino a casa sua? Forse voleva chiederle di riprendere il catechismo? Al solo pensiero si sentiva venir meno: non intendeva avere più niente a che fare con una masnada di ragazzi indisciplinati e villani. E forse era stato il sollievo che aveva provato nello scoprire che si trattava di tutt'altro, ad indurla a cedere quasi subito alla sua richiesta. - Le offro l'opportunità di fare una buona azione - aveva esordito don Attilio addentando di gusto un pasticcino mentre prendevano il caffè in salotto. - Se mi sarà possibile - aveva risposto Ada guardinga. - Oh, non c'è niente di difficile. Una signora che è arrivata in città da poco ha urgente bisogno di un tetto per lei e per il suo bambino. E' stata qualche giorno alla pensione Rosa, ma per quanto la proprietaria le sia venuta incontro, la spesa è troppo forte e poi la famigliola ha bisogno di una vera casa. Pensavo che lei, signorina Ada, potrebbe affittarle la casetta di sua sorella. - Ma, non so se... sono due anni che è chiusa, da quando i signori Zara sono

andati ad alloggiare al pensionato non ho più voluto affittarla. Sarebbe da riordinare... e poi, ha un bambino ha detto? Sono anziana, tengo alla mia quiete e un bambino che gioca rumorosamente in giardino... non ho più voluto inquilini proprio per evitare problemi. - Se è solo per questo può tranquillizzarsi. La signora ha trovato lavoro nel bar sulla piazza del mercato, è impegnata tutto il giorno e il piccolo va all'asilo. Dunque sarebbero a casa solo a sera e le assicuro che non le daranno nessun disturbo. - Se è così... Tuttavia, io non posso assolutamente addossarmi l'onere e il fastidio di mettere la casa in ordine. L'arredamento è ancora in buone condizioni, ma... - Nessun problema, se ne occuperanno i ragazzi dell'associazione di volontariato, li ho già contattati e si sono dichiarati disponibili. E naturalmente la persona interessata le pagherà un regolare affitto e provvederà alle spese per luce, gas e quant'altro... " Dunque era già tutto stabilito - aveva pensato Ada stizzita - e vorrei vedere se io dovessi anche rimetterci dei soldi..." - Ma è una persona... come dire, per bene? Io sono qui da sola, il posto è piuttosto isolato e non vorrei trovarmi a convivere gomito a gomito con gente che non si sa chi sia. Mi perdoni reverendo, ma coi tempi che corrono... - aveva tuttavia provato ad obiettare. Don Attilio aveva uno di quei suoi tremendi sigari puzzolenti che lei tanto detestava (essendo un prete avrebbe anche potuto fare a meno di quell'orribile vizio!), ne aveva aspirato una boccata poi le aveva detto: - Via, signorina, una mamma con un bimbo piccolo che pericolo possono costituire? E' un persona che ha sofferto ed ha bisogno di aiuto: questo solo importa e se lei da buona cristiana sarà tanto gentile da aprirle le braccia, il Signore ne terrà conto. Così Ada si era ritrovata, suo malgrado, due inquilini del tutto indesiderati.

Quelle casette attigue, situate alla periferia della città e piuttosto lontane

dall'abitato, erano state fatte costruire da suo padre, facoltoso commerciante di bestiame, più di cinquant'anni prima per le due figlie: l'idea era che le sorelle si sarebbero in tal modo fatte compagnia anche una volta sposate. Ma solo Elsa, la maggiore, si era installata nella sua casa con un marito al seguito. Ada non si era mai sposata ed era vissuta col padre nella villetta accanto alla sorella. E quando anche questa, che non aveva avuto figli, era morta dieci anni prima già vedova da tempo, Ada si era ritrovata proprietaria di due case identiche, divise tra di loro solo da un piccolo giardino. Avrebbe potuto venderne una, invece aveva preferito affittarla a due anziani coniugi, gente tranquilla e riservata colla quale stava anche settimane senza incontrarsi: l'ideale per lei che detestava l'invadenza e la curiosità della gente. E quando anche loro se ne erano andati, non aveva più accettato inquilini, e la casa se ne stava lì vuota da anni. Ed ora queste due persone che praticamente le erano state imposte e delle quali non sapeva nulla, come si sarebbero comportate? Una mamma con un bambino, aveva detto don Attilio. Niente uomini dunque: era vedova forse la donna? O separata, o magari il marito sarebbe arrivato in un secondo momento? Il mattino dopo Ada si era recata in città a trovare Amelia, una sua vecchia amica di gioventù, l'unica che oramai le fosse rimasta e con la quale, dividendo lo stesso destino di anziana zitella e la stessa mentalità, andava perfettamente d'accordo. L'unica differenza tra loro era il fatto che Amelia, vivendo in pieno centro cittadino ed essendo per natura molto curiosa, sapeva sempre tutto di tutti. - Ha avuto un bel coraggio don Attilio a chiederti di affittare la casa di tua sorella a quella ragazza - aveva commentato - costringere una persona per bene come te ad avere a che fare con una che chissà quante ne ha combinate. Ma l'hai vista? Ada non aveva ancora avuto modo di vederla, la signora col bambino si sarebbe trasferita da lei solo due giorni dopo. - Allora preparati, mia cara. Una tipa con una testa di capelli biondo platino, truccata fino all'inverosimile, e vestita come quelle... quelle svergognate della televisione. Gonna cortissima, scarpe col tacco di dieci centimetri e maglia talmente aderente e corta che... si intuisce tutto. E poi il modo di fare! Ieri sono andata al mercato e sono entrata un attimo nel bar che c'è lì sulla piazza. Non è

che volessi curiosare, ma... insomma, per farla breve, l'ho vista e non mi ha fatto una bella impressione. Stava servendo una birra a un uomo e dovevi vedere come..., scusa se parlo liberamente, insomma come spingeva avanti il petto e in che modo si muoveva. Lui deve averle fatto un complimento perché si è messa a ridere e gli ha risposto con una sfacciataggine che mi ha lasciata a bocca aperta. Certo il proprietario del bar l'ha assunta al volo, visto che di sicuro gli attira clienti. E del resto non poteva certo essere una madonnina infilzata una che ha un figlio ma di marito, né vivo, né morto e nemmeno separato, neanche l'ombra. - Come? E' una ragazza madre? Don Attilio non me lo ha detto. - Magari temeva che gli avresti risposto di no. Però mi ha detto la Natalina, che glielo ha riferito la Piera, che è cugina di una delle maestre dell'asilo, che il bambino, anche se è vivacissimo, è obbediente e ben tenuto. Si chiama Roberto e ha, mi pare, cinque anni. Figurati che lei quando lo va a prendere all'asilo, dopo se lo porta nel bar e lui se ne sta lì sino a sera in mezzo al fumo e a tutti quegli uomini... Dopo la conversazione con l'amica Ada era tornata a casa ancora più seccata. E dentro di sé nutriva un certo rancore per il parroco che l'aveva messa nella situazione spiacevole di dover ospitare una persona... dalla dubbia moralità, proprio lei che aveva sempre tenuto alla reputazione al di sopra di tutto. E quando la donna si era presentata per installarsi nella casa, le era rimasta subito antipatica con quell'aspetto vistoso e volgare e l'aria sicura, come se tutto le fosse dovuto. Non si era nemmeno degnata di ringraziarla per il piacere che le faceva e si era limitata ad accettare senza batter ciglio la cifra che Ada le aveva chiesto per l'affitto. - D'accordo - le aveva detto semplicemente masticando gomma americana e porgendole il denaro contante. Quanti anni poteva avere? Certo, anche se vestiva e si comportava come una quindicenne, almeno ventiquattro o venticinque, visto che il bambino era già grandicello. E sarebbe stata anche graziosa se il visetto minuto non fosse stato sommerso dal trucco pesante. Nell'insieme Ada l'aveva trovata detestabile, lei e il suo bambino che dopo essere rimasto incantato a guardare Lizzi, aveva tentato una carezza facendola immancabilmente ringhiare.

E tuttavia doveva riconoscere che i primi tempi i due non le avevano creato nessun problema, se non il disagio di saperli a un palmo da lei: la ragazza se ne andava via con la sua vecchia utilitaria il mattino alle sei e mezza portandosi dietro il figlio e non facevano ritorno che alle otto di sera, tanto che non aveva più avuto modo di scambiarci nemmeno una parola se non le due frasi di circostanza quando al primo del mese veniva a portarle i soldi per l'affitto.

"Se ne stava tranquilla perché aveva ancora da ambientarsi" pensò Ada accendendo la lampada sul comodino. Guardò l'ora: erano già le undici, e ancora non le era riuscito di assopirsi. Si alzò, infilò le ciabatte e la vestaglia poi socchiuse la finestra: nevicava forte ora e i fiocchi radi e leggeri che per tutto il giorno avevano volteggiato un po' indecisi per l'aria, come una prova generale prima dello spettacolo della sera, erano stati sostituiti da fitte, larghe falde, che avevano già ricoperto con uno strato di parecchi centimetri il tetto della villetta della sorella, il giardino e gli alberi, in un biancore che donava al paesaggio una suggestione irreale. Ma Ada non si soffermò ad ammirare la neve: l'aveva sempre odiata, perché costituiva un fastidio e nient'altro, obbligata com'era a chiamare un uomo per farsi liberare almeno il vialetto e far rimuovere i cumuli che lo spartineve, ando sulla strada, le ammucchiava davanti al cancello. Guardò invece in direzione della casetta accanto: la luce nella camera da letto era accesa e le persiane ancora spalancate, tanto che poté vedere il gatto accucciato sul davanzale interno tra le tende e i vetri. Quell'orribile gatto dallo sguardo maligno! Anche lui era stato motivo di nervosismi e di arrabbiature. Difatti, dopo appena qualche mese, con l'arrivo della bella stagione erano cominciati i fastidi: intanto alle otto di sera il piccolo aveva ancora tutto il tempo di scorrazzare per il giardino e di far chiasso e la cosa l'aveva costretta un mattino a far venire un operaio per mettere in fretta e furia una rete metallica con un cancelletto attraverso il prato per evitare almeno che venisse a schiamazzare sotto le sue finestre. Poi, a rompere ulteriormente la quiete, in cortile era comparso un gatto. E non è certo una recinzione metallica che può impedire a un gatto di are. E quella brutta bestiaccia pareva trovare molto più attraente, per

i suoi bisogni, la terra soffice della sua aiuola fiorita di primule e violette, piuttosto che quella incolta ed erbosa dell'altra zona del giardino. E a nulla erano servite le sue rimostranze. - I gatti, lo sanno tutti, vanno dove gli pare. Io che posso farci? - le aveva risposto freddamente la mamma del piccolo. - Nel nostro accordo, signorina, non si era parlato di animali - aveva ribattuto Ada asciutta. - Appunto. Lei, signora, mica mi aveva detto che non potevo tenerne. Ormai il gatto c'è e Roberto gli si è affezionato: come faccio a portarglielo via? Così quel gattaccio aveva continuato imperterrito a invaderle il giardino con grande rabbia di Lizzi che abbaiava furibonda ogni volta che lo adocchiava, ma che si guardava bene dall'avvicinarglisi da quando si era beccata un graffio sul naso. Ma era pur vero che lei non era stata tanto accorta da mettere bene in chiaro che non tollerava la presenza di altri animali. E purtroppo nemmeno aveva parlato di... uomini. E quando un grosso tir si era fermato a lato della carreggiata, l'unica cosa che Ada aveva potuto fare era stata di spiare i movimenti dell'autista attraverso le tendine del salotto. Era notte fonda ma c'era la luna ed aveva potuto seguire la scena con chiarezza: la sua inquilina era andata incontro all'uomo poi lo aveva fatto entrare in casa. Queste visite si erano ripetute con regolarità: ogni martedì e ogni venerdì il tir faceva la sua comparsa e il camionista trascorreva alcune ore nella casa accanto. Ada, che era sempre stata abituata a coricarsi presto, si costringeva a restare alzata fino a tardi per controllare a che ora l'ospite della sua inquilina se ne andava. E l'aver dovuto cambiare le sue abitudini la metteva ancor più di cattivo umore. Era indignata, ma non sapeva che cosa fare. Un accenno con la ragazza, quando era venuta a pagarle l'affitto, le era valsa una risposta sbrigativa, per non dire sgarbata. - E' un mio amico. Adesso oltre al gatto, anche gli amici non sono graditi?

Del resto, se anche fosse andata a lamentarsi col parroco, che cosa avrebbe ottenuto? E poi, a parlare di quelle cose con un prete si sarebbe sentita in imbarazzo. Si era sfogata per telefono con Amelia che qualche tempo dopo era venuta a trovarla per raccontarle quello che aveva saputo. - La tua inquilina ha proprio il fidanzato. E' un camionista e l'ha conosciuto nel bar. Mi ha detto la Lucia, la moglie del macellaio che ha il negozio proprio accanto al bar, che è uno con dei modi un po' strafottenti, ma è un gran bel giovanotto e quella Sonia si è innamorata come una pera cotta. - E ha pensato bene di tirarselo in casa! Che vergogna! In casa mia! E senza prendersi soggezione di me che l'ho accolta per carità e che le faccio pagare un affitto più che equo. La cosa spiacevole era durata qualche mese, finché le visite erano cessate di colpo. Ma il sollievo che Ada aveva provato, era stato cancellato dalla notizia che Amelia la aveva comunicato un pomeriggio venendola a trovare inaspettatamente senza nemmeno annunciarsi prima per telefono. - Non te lo immagini nemmeno quello che ho saputo stamattina dalla sorella del fruttivendolo, quella che è amica stretta della moglie del padrone del bar del mercato! - aveva esordito la sua amica quasi tremante per l'eccitazione - Tieniti forte, Ada: la tua inquilina è in stato interessante! E c'è di più: il fidanzato quando l'ha saputo si è dileguato al volo e non si è più fatto vedere in città e tanto meno nel bar: pare che al suo paese abbia moglie e figli e mica glielo aveva detto. E forse non le aveva nemmeno dato il cognome giusto per evitare di essere rintracciato in caso di... rogne! Questo era davvero troppo e stavolta Ada aveva preso il coraggio a quattro mani ed era andata da don Attilio. - Ho saputo, ho saputo - aveva detto il sacerdote allargando le braccia - è venuta lei stessa a dirmelo. Povera ragazza quell'individuo l'ha ingannata per poi abbandonarla al suo destino. - Ma io adesso non intendo più ospitarla. Ho sopportato in silenzio già troppe cose, ma questo va proprio contro i miei principi.

- Via, signorina Ada, che vogliamo fare? Mettere una mamma con un figlio piccolo e un altro in arrivo in mezzo alla strada? Capisco le sue riserve, ma vede, Sonia anche per via del suo aspetto diciamo così... appariscente, può sembrare una donna dalla dubbia moralità, ma è solo una ragazza sfortunata. Non ha mai avuto una famiglia, è cresciuta in orfanotrofio e a ventitre anni ne ha già ate di tutti i colori. Eppure vuol tenersi il bambino, come fece a suo tempo con Roberto, mentre le sarebbe stato facile disfarsene e nessuno ne avrebbe saputo niente. Diamole almeno atto del suo coraggio. - Ma così, sotto i miei occhi, senza un filo di rispetto per la mia età e la mia condizione di donna nubile, che in tutta la mia vita non ho mai fatto entrare un uomo in casa e ho sempre tenuto alla mia rispettabilità ... - aveva balbettato confusa. - Le do tutte le ragioni, signorina Ada, ma purtroppo ci sono ben altre cose al mondo per le quali merita la pena di scandalizzarsi. Il bambino dovrebbe nascere ai primi di gennaio, ancora in pieno periodo natalizio, e questo ci induce a rammentarci di quando Maria e Giuseppe non trovarono un ricovero tanto che il nostro Salvatore dovette nascere in una stalla. Sonia, grazie a lei, un ricovero ce l'ha. Non la privi della sua bontà proprio nel momento di maggior bisogno. Che cosa avrebbe dovuto fare? Avendo messo, il parroco, la cosa su questo piano, non poteva far altro che tacere e lasciare la ragazza dov'era, non voleva mica attirarsi le critiche di tutta la città. Così aveva sopportato il chiasso del bambino, le scorribande del gatto e gli andirivieni della ragazza, sempre sicura di sé con quella pancia che lievitava ogni giorno di più e che lei esibiva con sfrontatezza senza nemmeno avere il buon gusto e la decenza di allungarsi le gonne e girava per il giardino con delle canottiere ridotte all'osso e le cosce scoperte che era una vera vergogna. E mai una volta, quando veniva a pagarle l'affitto che erano le uniche occasioni in cui si scambiavano una parola, mai una volta aveva accennato con lei al suo stato: le dava il denaro, una buonasera stiracchiata poi le girava le spalle. Ada si scopriva ad osservarla con una sorta di curiosità morbosa: la vedeva stendere i panni in giardino, giocare col bambino e col gatto, ridere a gola spiegata alle stupide prodezze del figlio... Però di uomini per fortuna non se ne erano più visti. Da diverse settimane Ada

ava ore dietro le tendine del salotto a spiare i movimenti della sua inquilina attraverso le finestre della casetta accanto: ormai era a casa dal lavoro per la maternità e se ne stava per la maggior parte del tempo a oziare distesa sul divano di velluto azzurro al quale sua sorella aveva tanto tenuto, senza nemmeno prendersi il disturbo di levarsi le scarpe. Non aveva neanche più portato il bambino all'asilo, così doveva sopportare anche la sua presenza perché, nonostante la stagione, il piccolo giocava spesso in cortile.

"Fa freddo - si disse rabbrividendo, dato che oltretutto per non sprecare, alle otto di sera spegneva i termosifoni - meglio se me ne torno a letto". Invece continuò a starsene ancora alla finestra ad osservare la casa accanto. Vide accendersi la luce della stanza piccola, segno che la ragazza stava mettendo a letto il bambino. Anche qui le persiane erano spalancate così Ada notò che i vetri erano stati riempiti di stelline di stagnola. "Basta che non mi rovini i vetri con quelle sciocchezze" pensò stizzita "come di sicuro mi ha rovinato la porta dell'ingresso piantando un chiodo per reggere tutte quelle frasche di pino infiocchettate." Mancavano ancora otto giorni a Natale ma già da un pezzo nella casa accanto erano apparsi gli assurdi segni della festa. Stupidaggini che non avevano niente a che fare col mistero della nascita di Cristo, inventati solo per far baldoria. Lei invece se ne guardava bene dal mettere in giro per le stanze tante cianfrusaglie. Anzi tutti quei segni di superficialità le davano noia anche solo a vederli nelle vetrine e Ada viveva il periodo natalizio con fastidio e insofferenza. E quell'anno poi sarebbe stato ancora peggio vista la sgradevole presenza di quegli ospiti indesiderati. E chissà per quanto tempo ancora non le sarebbe riuscito di liberarsene: in città le case da affittare erano introvabili e quelle poche avevano un canone sicuramente troppo alto per le tasche della ragazza. Girò ancora un attimo lo sguardo nel giardino, prima di decidersi a tornare a letto: la neve continuava a cadere fitta e silenziosa e pareva intenzionata a proseguire per tutta la notte. "Se va avanti così, ne mette giù almeno mezzo metro" pensò preoccupata tirandosi le coperte fin sopra le orecchie.

Le sembrava di aver dormito solo pochi minuti quando fu svegliata da un rumore strano, inusuale. Parevano colpi contro la porta dell'ingresso, accompagnati da un richiamo che non riuscì a decifrare. Lizzi accucciata sul suo tappetino brontolava sordamente. Ada si mise a sedere di scatto sul letto e allungò la mano verso l'interruttore della abajour. Lo fece scattare una, due, tre volte invano, evidentemente era andata via la corrente. Intanto i colpi si ripetevano insistenti. Guardò il quadrante fosforescente della sveglia: erano le tre e mezza. Ada non aveva mai avuto timore a vivere da sola in quella casa relativamente isolata, ma ora per la prima volta si sentì sommergere da un moto di paura. Cercò con mani tremanti la torcia elettrica che teneva nel cassetto del comodino e senza nemmeno infilarsi le ciabatte percorse il corridoio con Lizzi alle calcagna che continuava a ringhiare. - Chi è? - chiese cercando di rendere ferma e decisa la voce. - Sono io, signora, aprimi, la mamma ha detto se vieni per piacere. Ada spalancò la porta: il bambino era lì, la giacca a vento buttata sul pigiama e i piedi sprofondati nella neve che gli arrivava quasi alle ginocchia. - Che succede? - gli chiese bruscamente - lo sai che ore sono? E tua madre dov'é? - La mamma è in casa e ha tanto male. Mi ha mandato lei a chiamarti, è tanto che busso ma tu non sentivi mai. Per piacere vieni - disse il piccolo col mento tremante mentre gli occhi gli si riempivano di lacrime. - Se sta male è meglio chiamare un medico - ribatté avviandosi verso l'apparecchio. - Il telefono non funziona! Vieni per piacere. Il bambino l'aveva seguita all'interno e la tirava ora con insistenza per un lembo della camicia da notte. Ada alzò la cornetta: effettivamente il telefono era muto, di sicuro le linee erano interrotte a causa della neve, che aveva anche causato il blackout.

- Tua madre non possiede un cellulare? - chiese ancora al bambino di malagrazia. Le pareva impossibile che quella faccetta franca non avesse uno di quei telefoni moderni che tanto andavano di moda. - Sì, ce l’ha, ma non funziona nemmeno lui - le rispose il piccolo - Vieni per piacere - disse ancora tirandola nuovamente per un lembo della camicia mentre si asciugava gli occhi e il naso col dorso dell’altra mano. - Aspettami qui. Lasciò il bambino al buio in salotto, si infilò rapidamente un paio di scarpe, la vestaglia e il cappotto, prese un ombrello e dopo pochi minuti, alla luce della torcia elettrica, traversava il giardinetto che separava le due case affondando nella neve. Il bambino zampettava veloce davanti a lei, finché aprì la porta e corse di furia all'interno. - Mamma è venuta la signora! La ragazza era coricata sul letto sfatto in una posizione quasi innaturale. Sul comodino una candela accesa spargeva una luce fioca e traballante ma Ada poté vedere che il suo volto era sofferente, imperlato di sudore, e il respiro affannoso. - Si sente male? - Sì, menomale che è venuta signora. Ho paura che il bambino stia per nascere. - Cosa? Per l'amor di Dio, deve andare subito in ospedale! Ma non doveva nascere per i primi di gennaio? - esclamo spaventata. - Sì, ma si vede che ha voluto anticipare. E' almeno tre ore che ho le doglie, ma non ho potuto chiamare un taxi perché il telefono non funziona e il cellulare qui non prende. E io non me la sentivo di guidare in questo stato con tutta la neve che già c'era, mettendo nel pericolo anche Roberto... La ragazza tacque di colpo, il volto contratto da una smorfia di dolore. - Io non so guidare, ma posso andare a piedi. Mi vesto al volo e corro - esclamò Ada avviandosi alla porta. - No!! Per favore, per favore non c'è tempo, la prima casa è troppo lontana. Non

vada via per piacere, non mi lasci sola, la prego, io... io ho paura. Se la ragazza aveva paura, Ada era terrorizzata. - Ma... non potrei esserle di nessuna utilità, non ho mai visto nascere un bambino - rispose con voce tremante. - Robi è nato senza problemi, lo farà anche questo. Per piacere non vada via... Il piccolo se ne era stato fino ad allora in silenzio sulla porta della camera. Ora si avvicinò al letto e prese tra le sue una mano della madre. - Mamma hai ancora tanto male? - Oh, tesoro, ne ho ancora un pochino, solo un pochino, ma sta già ando, stai tranquillo. Sei il mio bambino grande e sei stato tanto, tanto bravo ad andare a chiamare la signora e se vuoi aiutare ancora la mamma devi fare quello che ti dico. Guarda sei tutto bagnato... La voce della donna aveva trovato ora una dolcezza che stupì Ada. Il volto e tutta la persona erano contratte dal dolore e una mano artigliava in uno spasimo la coperta, ma la ragazza cercava di parlare con tranquillità sorridendo al piccolo. Con il faccino pallido senza un filo di trucco e i capelli biondi con due dita di crescita scura, pareva una bimba di quindici anni che avesse voluto fino ad allora giocare a far la donna vissuta. - Adesso vai nella tua cameretta, - proseguì - ti metti un pigiamino asciutto, poi ti infili a letto e dormi subito subito. Promesso? E quando ti svegli trovi una bella sorpresa. - D'accordo... bacino della buona notte - disse il bambino chinandosi sulla madre. Ada lo accompagnò con la torcia, aspettò che il bambino si cambiasse e si mettesse a letto. - Ciao signora - le disse il piccolo prima di girarsi su un fianco e addormentarsi di colpo. Ada chiuse bene la porta della stanza, tornò della ragazza e provò a sollevare la

cornetta del telefono. - Niente da fare - disse - dovremo proprio cavarcela da sole. Si sentiva più calma adesso. Dopo l'ondata di panico che l'aveva assalita, ora riusciva a ragionare a mente più fredda. Era vero, non aveva mai visto nascere un bambino ma diversi anni prima aveva frequentato, insieme alle altre Dame della Carità, il corso per Crocerossine e sapeva bene quello che c'era da fare in una simile emergenza. - Coraggio Sonia - disse facendole una timida carezza sui capelli sudati - andrà tutto bene, vedrai. Dimmi dove posso prendere degli asciugamani. Dove tieni le forbici? E l'alcool per disinfettarle? Hai il fatto il corso di preparazione? Bene cerca di respirare e di rilassarti come ti hanno insegnato. "Dio ti prego, aiutaci" disse dentro di sé mentre entrava in cucina per mettere una pentola piena d'acqua sul fornello.

La bambina nacque poco prima delle cinque. Ada appoggiò quel piccolo essere sporco e urlante sul petto della sua mamma, piangendo come una fontana. Anche Sonia piangeva. Piangeva e rideva allo stesso tempo mentre carezzava la schiena della piccola. - Sei stata brava - le disse Ada - siamo state brave! - esclamò ridendo a sua volta. - E questa piccolina ha tutto a posto e... due polmoni d'acciaio! Guardala, è bellissima. Ora appena vi ho sistemate corro a chiamare aiuto. Aveva appena finito di lavare e di avvolgere le piccola nei panni caldi, quando dalla strada le giunse il rumore raspante dello spartineve. Ada corse fuori ringraziando il cielo per quella provvidenziale, insperata presenza: lei al buio e con la neve alta, chissà quanto tempo ci avrebbe messo ad arrivare anche solo alla prima abitazione, col rischio magari di rompersi una gamba e di non arrivarci affatto. E dopo nemmeno mezz'ora un'ambulanza si fermava davanti al cancello.

Quando Ada aprì gli occhi era già giorno fatto. Si alzò a fatica dal divano dove si era distesa stremata dalla stanchezza e dalla tensione pensando di riposarsi solo un momento. Invece si era addormentata ed erano le otto ate. Scostò la tendina della finestra per sbirciare all’esterno: non nevicava più ma uno spesso strato di neve ricopriva il giardino e alcuni uccellini vi erano appoggiati sopra, piccole macchie nere sulla lucentezza della candida coltre dove spiccavano le loro minuscole impronte e quelle lasciate dal aggio del gatto. Vi si soffermò per un istante e, assurdamente, quel quieto quadretto le parve bellissimo, di una bellezza semplice e pura a cui, fino al giorno prima non avrebbe fatto caso… Lasciò ricadere la tendina ricacciando indietro la strana emozione che l’aveva assalita e si diresse in fretta verso la camera di Roberto. Il bambino dormiva sereno, esattamente nella stessa posizione in cui l'aveva lasciato quando l'aveva accompagnato a letto. Ada si sedette silenziosa sulla sedia accanto a lui e stette lunghi attimi ad osservarlo: tenere ombre si stendevano sotto le lunghe ciglia scure, la pelle delle palpebre abbassate era di una delicatezza azzurrina quasi trasparente e tra le labbra socchiuse si intravedeva il bianco dei piccoli denti. Le parve di guardare un bambino per la prima volta e provò l'assurdo desiderio di accarezzare la dolce rotondità delle guance e le fossette sul dorso delle manine ancora morbide e soffici... Il piccolo aveva un aspetto talmente innocente e indifeso che per un attimo Ada si sentì sommergere dalla tenerezza e di colpo rammentò la sensazione sconvolgente che le aveva riempito il cuore quando aveva tenuto tra le mani la sorellina appena nata. E quelle pazzesche ore di tensione e di paura, le parvero adesso le ore più piene e felici della sua esistenza: il mistero della nascita, della vita, ancora una volta si era compiuto e lei ne era stata spettatrice, anzi ne aveva fatto parte. E rammentava il coraggio di Sonia, la delicatezza nei riguardi del figlio tanto da cercare, in mezzo al dolore che la incalzava, di non lamentarsi per non rischiar di turbare il suo sonno e la sua sensibilità di bimbo piccino. Ma rammentava soprattutto le sue parole, dette a mozziconi, con fatica, nei pochi attimi di tregua tra uno spasmo e l'altro. Pareva che Sonia provasse un’ansia incontenibile di spiegare, di giustificare in qualche modo, con lei che l'aveva sempre trattata freddamente, la sua situazione. - Io lo so che cosa pensano tutti di me, che sono una poco di buono. E' vero mi sono buttata via con parecchi uomini, cercavo solo un po' di felicità, ma non me ne è venuto mai niente in tasca, l'ho sempre fatto per amore, solo per amore -

aveva detto a un certo punto. Amore. Questa parola continuava a rimbalzare nella sua mente. Per amore e solo per amore Gesù, in una buia notte di dicembre era nato: per indicarlo agli uomini come l'unica Legge, senza la quale ogni altra perde valore e significato. Ma lei, Ada, l'aveva compreso? Quante cose aveva fatto per amore nella sua vita? Quante volte aveva donato disinteressatamente il suo tempo, il suo denaro solo in nome di questo? Oh, certo di cose encomiabili che le avevano attirato la considerazione della gente, che avevano aumentato la sua rispettabilità di persona caritatevole e dalla moralità ineccepibile, ne aveva fatto parecchie. Ma quante solo per amore e non per una specie di costrizione e di conformismo o per timore del giudizio degli altri? Persino quando aveva assistito suo padre e poi sua sorella nella lunga malattia, l'aveva fatto per dovere, con scrupolo e abnegazione e a volte con pietà e affetto, ma mai con quella partecipazione che, al di là dell'assistenza materiale, è condivisione assoluta dei sentimenti e del dolore. Mai le era riuscito, e nemmeno ci aveva provato, di essere loro vicina col cuore, di donare se stessa fino in fondo... E nonostante avesse cercato in tutti i modi di evitare problemi e fastidi, difendendo a spada tratta la sua tranquillità, era mai stata felice? Aveva mai vissuto veramente mettendosi in gioco, rischiando tutto di sé anche a costo di soffrire? Ora Ada si rendeva conto che la chiusura che aveva contraddistinto la sua esistenza, le aveva impedito di vivere pienamente: l'aveva capito quando quel piccolo, tenero essere appena nato aveva urlato tra le sue braccia il proprio desiderio di vita. Per la prima volta, osservando lo sguardo che Sonia aveva rivolto alla sua bambina, aveva compreso che cosa siano veramente l'amore e la felicità. E ora quello che aveva ritenuto giusto e sufficiente per se stessa, non le bastava più...

Roberto aprì gli occhi e si sedette sul letto. - Mamma...? - chiese titubante. - La mamma non c'è in questo momento. Ti ricordi? Aveva detto che al tuo risveglio avresti trovato una sorpresa: la sorpresa è che hai una bellissima sorellina.

- Davvero? Ora la posso vedere, non è più nella pancia della mamma? - Proprio così, ma siccome è tanto, tanto piccola la mamma ha dovuto portarla all'ospedale per farla controllare dal dottore. Ma ci sono io qui con te. - Va bene. Sei una nonna tu? - Veramente no, ma posso esserlo un pochino per te e anche per la tua sorellina, se vuoi. - D'accordo, noi di nonne non ne abbiamo. Adesso ho fame. - Anch'io. Vediamo se c'è qualcosa di buono in cucina altrimenti andiamo a casa mia, così diamo la pappa anche a Lizzi. - E anche a Micio! - Anche a Micio. Poi ci vestiamo bene, e ce ne andiamo in città con la corriera a trovare la mamma e a conoscere la sorellina.

- Io non so come ringraziarla - le disse Sonia - se non ci fosse stata lei signora... - Ringraziamo Dio che tutto sia andato per il meglio. Roberto, per mano a un'infermiera, era andata alla nursery a vedere la sorellina e le due donne potevano ora parlare tranquille. - La bambina sta bene, ma temo che per qualche giorno ci tratterranno qui, probabilmente verremo a casa la vigilia di Natale. Mi dispiace di averle dato tanti fastidi: avevo organizzato tutto per bene, a Capodanno doveva venire una mia amica che abita in Emilia, siamo state insieme per parecchi anni in istituto e siamo rimaste in contatto, si sarebbe trattenuta per una decina di giorni, così era qui quando doveva nascere la bambina e mi teneva Robi. Invece... adesso non so come fare col bambino. - Lo terrò io, non preoccuparti. Staremo benissimo. - Davvero farebbe questo per me? Però se vuole essere più libera, l'asilo è ancora

aperto per qualche giorno prima delle vacanze. Tenevo a casa Robi per godermelo un po'. Oh, mi toglie un gran pensiero, lavorando nel bar conosco tutti ma amiche non ne ho nessuna. Ada senza riflettere si chinò ad abbracciarla. - Adesso una ce l'hai. - Allora ho bisogno un altro piacere. Dato che erano già diversi giorni che non mi sentivo tanto bene, non ero più uscita e se prima della vigilia non ci dimettono non faccio più a tempo. Ho detto a Roberto che Babbo Natale gli avrebbe portato un pallone, gli piace tanto giocarci e quando le ha rotto il vetro lei non glielo ha più restituito. Potrebbe comprargliene uno? Poi le do i soldi, stia tranquilla. Non un pallone di cuoio però, ma uno di quelli che costano poco ai grandi magazzini, e le prometto che dopo lo terrò d'occhio così non le combinerà più malestri. - Va bene. Solo un pallone? - Sì, tanto Robi è un bambino di poche pretese, ha imparato presto che i soldi sono pochi e bisogna accontentarsi. Nemmeno quest'anno mi è riuscito di fargli l'albero, le robe natalizie costano care e abbiamo speso già un mare di soldi per il riscaldamento. E poi ho dovuto comprare qualcosa per la bambina, appena il necessario, ma tra una cosa e l'altra la tredicesima se ne è andata tutta. Però abbiamo messo le stelline alle finestre, le frasche alla porta e l'albero e il presepe li abbiamo disegnati su un foglio di carta e appesi a una parete in salotto e lui è contento lo stesso. - E' un bravo bambino, sei stata in gamba, l'hai allevato bene - le rispose con un groppo in gola che non andava né su né giù. - Hai già deciso che nome darai alla piccola? - le chiese per darsi un contegno. - Avevo sempre pensato di chiamarla Vanessa, ma ora ho cambiato idea. Lei come si chiama signora? - Ada e non chiamarmi più signora. - Ecco, la chiamerò Ada. Come lei.

Il mattino successivo, dopo aver accompagnato Roberto all'asilo, Ada si tuffò nella confusione della folla natalizia che invadeva le strade e i negozi. In tanti anni non l'aveva mai fatto ma ora le pareva di osservare tutto con occhi nuovi. Si sentiva un po' frastornata ma presto si lasciò contagiare dall'euforia: mai aveva notato quanti giocattoli belli e interessanti ci fossero nelle vetrine! Comprò subito un pallone, e volle il più bello, di cuoio cucito a mano. E poi una scatola di Lego, un assortimento di macchinine, matite colorate, libri illustrati e ogni altra cosa che le commesse le suggerivano adatta a un bimbo di cinque anni. Entrava nei negozi e ne usciva con le braccia cariche di pacchie e pacchetti e ad ogni acquisto immaginava con un brivido di eccitazione la faccia felice di Roberto e anche quella della sua mamma. Si lasciò per ultimi il negozio "Bimbe e bimbi" e il grande emporio di Natale: non le sarebbe stato certo possibile trasportare da sola l'enorme albero, le scatole degli addobbi e tutto l'occorrente per un grosso presepe, e nemmeno una culla, una carrozzina e... le commesse le avrebbero suggerito tutto quello che serve a un bimbo appena nato e l'avrebbero anche aiutata nella scelta dell'abbigliamento per Robi, poi avrebbe pregato il titolare di farle avere tutto a casa al più presto. - Come si chiamano i suoi nipotini? - le chiese la commessa mentre le confezionava con un grosso fiocco rosa l'ultimo pacchetto. - Roberto e Ada e sono... bellissimi - le rispose prima di uscire e immergersi nuovamente nella confusione delle strade. Faceva molto freddo: la neve che ricopriva la città rendeva l'aria pungente, ma Ada, che aveva sempre odiato l'inverno, non lo sentiva. Le pareva che il calore che avvertiva dentro al cuore la riscaldasse e una strana, nuova allegria aveva preso il posto, sul suo volto, della austera severità che lo aveva sempre contraddistinto. Molti la salutavano incrociandola sul marciapiede. - Buongiorno signorina Ada. - Buongiorno, auguri, auguri - si scopriva a rispondere con un sorriso. E a un tratto le venne persino da canticchiare sulle note di un motivo che invadeva tutta la via: Notte silente, notte beata...

ando davanti a una pasticceria le venne in mente di quanto Amelia fosse golosa di cioccolato: ecco che cosa mettere sotto l'albero per lei, insieme alla morbida sciarpa che già le aveva acquistato. L'aveva invitata a pranzo per il giorno di Natale, quando il pomeriggio precedente l'aveva chiamata al telefono per raccontarle gli avvenimenti straordinari delle notte e lei inaspettatamente aveva accettato con entusiasmo: ecco, oltre alla neonata in culla, sarebbero stati in quattro a tavola, proprio come una vera famiglia. E don Attilio? Le venne davanti la figura massiccia dell'anziano prete, le maniche consunte del vecchio antiquato paltò, i rammendi sul maglione nero che da anni e anni portava in inverno. Perché non invitare a pranzo anche lui? L'avrebbe chiamato appena arrivata a casa e intanto gli avrebbe chiesto se poteva mandarle un paio di quei bravi ragazzi del volontariato per aiutare lei e Roberto a preparare l'albero e il presepe e a mettere tutte quelle lampadine colorate che aveva acquistato, sui pini del giardino. Entrò in un negozio di abbigliamento per uomo ma ne uscì in fretta: acquistare capi di vestiario per un prete le pareva davvero... sconveniente! "Gli comprerò la più grande e lussuosa scatola di sigari che mi riuscirà di trovare" si disse contenta per l'ottima idea. ò davanti a un negozio per animali. In vetrina troneggiava una cuccia per gatti imbottita con un tenero tessuto a cuoricini. Non riuscì a resistere ed entrò. Acquistò la cuccia per Micio, un tappetino nuovo per la sua cognolina, e due ciotole per la pappa, una rosa e una celeste. Rideva tra sé mentre la commessa le confezionava il tutto in un allegra carta con disegni di animaletti in vesti natalizie: chissà Roberto come sarebbe stato contento scoprendo che Babbo Natale aveva portato dei doni anche per Micio e Lizzi! Non aveva ancora deciso che cosa mettere sotto l'albero per la sua mamma. Vestiva in modo tanto estroso quella benedetta ragazza, che proprio lei non era in grado di sapere che cosa le sarebbe piaciuto. Entrò allora in un'elegante profumeria. La commessa era una signorina sofisticata e truccatissima e vestita all'ultima moda, proprio sul genere di Sonia. - Vorrei qualcosa per una ragazza giovane, carina e moderna come lei... - le disse. - Un profumo? Questo è l'ultimo arrivato. O dei trucchi? Ne ho una bellissima

confezione che racchiude tutte le ultime novità in fatto di colori e i prodotti sono di ottima qualità. E' un po' cara, ma, le assicuro, farebbe la felicità di qualunque ragazza. - Va bene. - Profumo o trucchi? - Tutti e due - le rispose con un sorriso. Accanto alla profumeria la vetrina di un negozio di fiori straripava di corolle delicate dai mille colori. Ada si fermò incantata ad ammirarli: splendide rose, bianchi gigli e nasturzi e gladioli e gerbere, riempivano ogni spazio creando l'illusione di una piccola primavera in una grande scatola di cristallo. Le erano sempre piaciuti i fiori, ma non le era mai capitato di comprarne: le pareva uno spreco di denaro. E mai nessuno gliene aveva regalati. "Chissà se Sonia ne avrà mai ricevuti..." - si disse. Poco più tardi una lussureggiante cesta fiorita nelle dolci sfumature del rosa e del bianco prendeva la via dell'ospedale in mano al garzone del fiorista. "Sto spendendo una fortuna" si disse Ada. Ma che importava? A che serve il denaro se non possiamo usarlo per far felici le persone a cui si vuol bene? Si avviò verso la fermata dell'autobus: era ora di rientrare a casa. Nel pomeriggio sarebbe tornata in città per recuperare Roberto all'asilo e portarlo a trovare la mamma. In fondo alla via principale un minuscolo negozio di ricami attirò la sua attenzione: in vetrina dei bavaglini di tela nei teneri colori pastello recavano a punto croce una scritta: "Il primo Natale di…" e un grazioso cartello informava che era possibile personalizzarli col nome del bambino. Entrò e ne ordinò uno rosa. "Il primo Natale di Ada," ripeté sorridendo mentre affrettava il o "il primo Natale della piccola Ada... e anche il mio".

LETTERE PER IL NATALE FUTURO (Dicembre 2003)

La porta del solaio si aprì con un fastidioso cigolio quando Maria ne spinse il battente dopo aver fatto scorrere il chiavistello di ferro. Era un anno che non saliva lassù, esattamente da quando, alla fine delle feste, aveva aiutato sua madre a riporre gli scatoloni con gli addobbi natalizi. Faceva freddo nell'enorme stanzone, e Maria rabbrividì pentendosi di non aver indossato un golf più pesante. E c'era buio, nonostante fossero solo le quattro del pomeriggio, una penombra ovattata e lattiginosa per via della poca luce che filtrava dal vetro dell'abbaino attraverso lo strato traslucido di neve che lo ricopriva. Aspettò qualche istante prima di muoversi per abituare gli occhi all'oscurità, rammentandosi con una stretta al cuore di tutte le volte che sua madre aveva suggerito a Dino di far arrivare al solaio un cavo elettrico per poterci mettere almeno una lampadina. - Appena trovo il tempo - le rispondeva lui. Ma il tempo non l'aveva trovato, anzi di sicuro dopo un istante non se ne ricordava più. E nemmeno lei, Maria, era mai stata attenta a rammentarglielo. E pensare che raramente sua madre chiedeva qualcosa. Eppure con quanta distrazione, di solito, veniva ascoltata. Perché il suo era un chiedere sommesso, un chiedere sorridente e senza pretese, come se ogni volta la cosa rivestisse ai suoi stessi occhi poca importanza... Di colpo un nodo di commozione le stinse la gola. Aveva voluto un bene infinito a sua madre. Un bene profondo, assoluto e proprio per questo forse se ne era a volte approfittata. Così era sempre lei che faceva le spese dei suoi malumori quando era una ragazzina originale e un po' lunatica, ed era ancora lei che arginava le sue inquietudini di giovane donna e poi le preoccupazioni di moglie non sempre serena e di madre ansiosa.

- Scusa - le diceva poi Maria - quando mi viene il nervoso non sono capace di parlare normalmente! E finisce che ti rispondo in modo villano, che me la prendo con te. - Fa niente. Io lo so che lo non fai apposta. Anzi è perché mi vuoi bene e mi hai in confidenza che te lo puoi permettere. Se ti servo per sfogarti e farti star meglio...

E ora... Ora che non le era più possibile scusarsi per il proprio comportamento, che non le era più possibile ringraziarla per tutto quello che aveva sempre fatto per lei e per la sua famiglia, i piccoli desideri di sua madre mai soddisfatti, le sue innocenti manie ignorate da tutti, le pesavano sul cuore come macigni, mentre pensava con rimpianto e commozione all'amore infinito che la mamma aveva portato per tutti loro. Un amore fatto di generosità, di dedizione, di buon senso e di equilibrio, ma anche di allegria e di ottimismo. Un amore che la faceva essere sempre presente quando c'era bisogno di lei e che la spingeva ad eclissarsi silenziosamente quando le pareva di essere di troppo...

Maria avanzò nella stanza tastando col piede le mattonelle sconnesse: sebbene abitasse nella casa da quando era nata, aveva pochissima dimestichezza col solaio. Da bambina invece di incuriosirla per la raccolta di vecchiumi a volte strani e dall’uso incomprensibile che vi erano stivati, la soffitta le incuteva un timore irrazionale che non riusciva a vincere, convinta, da quando aveva visto il film “Marcellino pane e vino”, che in quel luogo buio e misterioso potesse succedere qualunque cosa. Da grande lo detestava per lo spiacevole odore di polvere e di vecchiume. Così era sempre la mamma che si occupava di andarci quando era necessario. Solo negli ultimi anni Maria la accompagnava sotto le feste per prendere o riporre gli scatoloni divenuti troppo pesanti per le sue fragili braccia di ottantenne. La accompagnava per timore che potesse cadere dalle scale, stupita ogni volta per l'entusiasmo infantile che il Natale, con l'immancabile coreografia di luci e di addobbi, suscitava in sua madre. Fosse stato per lei, non se lo sarebbe nemmeno sognato di mettere in casa tanto disordine. Specie dopo che Alberto, crescendo, era diventato quasi indifferente alla magia della festa ed ammirava solo per compiacerla il lavoro della nonna, che per diversi pomeriggi si dedicava all'allestimento del presepe, alla

decorazione dell'albero, dei davanzali, delle porte, dei corrimano e dei caminetti in un tripudio di rosso e di verde, d'oro e d'argento. L'importante per Alberto era trovare il mattino di Natale la busta coi soldi che costituiva da anni il regalo di sua madre per il nipote. Se ne accorgeva la mamma che gli altri non condividevano il suo entusiasmo? Si rendeva conto che Dino e Maria, quest'ultima soprattutto, se ne sentivano infastiditi per quel suo sconvolgere l'ordine dei libri sulla libreria che veniva sistematicamente vuotata per far posto a un presepe monumentale su più piani, per lo spostamento delle poltrone del salotto in modo da poter sistemare proprio al centro della stanza l'enorme abete, che poi continuava a perdere aghi sul pavimento? Forse lo intuiva, ma sul Natale non era disposta a cedere, come invece faceva con tutto il resto, tirandosi indietro con serenità, fino a rendersi a volte invisibile.

L'aveva sempre fatto. Fin dove Maria riusciva a ricordare, rammentava sua madre acconsentire ai desideri dei figli e del marito senza discutere, piegare la testa di fronte ai capricci della suocera e accontentarla sempre col sorriso sulle labbra. E per sé rinunciare a ogni cosa, come se lei, invece, di desideri, di esigenze, non ne avesse affatto... e tutto senza mai perdere la tranquillità e il buonumore. Era questa sua... bontà che spingeva a volte Maria a provare un sadico gusto nel risponderle male? Forse, specie quando il confronto con l'equilibrio e la serenità di lei la faceva sentire a disagio costringendola a prendere atto della sua imperfezione e dei suoi difetti, ma le provocava anche una sorta di rabbia impotente per l'accettazione iva che sua madre aveva sempre tenuto di fronte alla volontà degli altri famigliari. Anche il fatto che la mamma fosse sempre pronta a scusarla, sortiva a volte l'effetto contrario. - Sei una persona stupenda, Maria, dentro e fuori - le diceva quando era ragazzina - non dimenticartelo mai. - Ma di cavolate ne faccio a bizzeffe e non mi riesce di voler bene al mondo intero come fai tu. Sono piena di difetti e tu lo sai meglio di chiunque altro - le rispondeva stizzita.

- Normale, tutto normale. Di perfetto non c'è nessuno, anzi il difetto più grande che possa avere una persona è proprio quello di... non avere difetti. L'importante è riuscire a riconoscere i propri errori e darsi da fare per superarli. - Io non ne sarò mai capace! E forse non mi va nemmeno di provarci - ribatteva spavalda. - Sei giovane, Maria, con gli anni si impara. Si impara a tacere quando è il caso e anche a chinare la testa e ad andare incontro agli altri. Si impara a rinunciare senza soffrire troppo... e soprattutto a perdonarsi per i propri sbagli e a perdonare quelli delle persone che ci stanno accanto. Ma una cosa devi ricordarti sempre: non devi mai perdere la tua libertà interiore, e nemmeno rinunciare al diritto di poter fare le tue scelte, specie se queste sono importanti. - Tu però non hai mai avuto il coraggio di farlo, per tutta la vita ti sei fatta comandare da papà e anche dalla nonna e dai ragazzi. Non sei mai stata capace di farti valere, sono sempre stati gli altri a decidere per te - ribatteva Maria irritata per il predicozzo e i consigli non richiesti. Sua madre abbassava la testa: - Può darsi... e sono contenta che tu invece sia più forte di me. Ma delle volte, vedi, i condizionamenti non arrivano solo dalle persone che ci stanno intorno ma anche da... dentro di noi. Se uno si fa influenzare dal rancore, dalla delusione o peggio dall'odio non può mantenere la propria libertà di decisione perché non gli sarà possibile ragionare in modo equilibrato e le sue scelte potrebbero non essere quelle che in realtà vorrebbe. - Uffa! Non è colpa mia se ho questo caratteraccio! Dici bene tu! Quando io sono infuriata non capisco più niente e così faccio solo cavolate. Non rompere, mamma, tanto non cambierò mai. La mamma invece di offendersi si metteva a ridere. - Lo sai che cosa mi diceva la nonna Elsa quando ero bambina? Diceva: nelle decisioni importanti usa il cervello ma soprattutto ascolta il tuo cuore e non sbaglierai. - Oh, oh, sembra una frase tratta pari pari da un romanzo rosa! Ascolta il cuore! Piantala, mamma che è meglio.

Ora mentre si muoveva con precauzione nella penombra della soffitta, Maria realizzò ancora una volta che mai più sua madre avrebbe potuto far da parafulmine ai suoi malumori e nemmeno confortarla, dopo, con il suo affetto, il suo buonsenso o anche solo con la sua presenza silenziosa. Sua madre se ne era andata per sempre e Maria si sentiva irrimediabilmente sola nonostante Alberto e Dino, e questa consapevolezza le provocava un dolore sordo a livello dello stomaco, come se una mano rapace la frugasse dentro. Alberto, chiuso nell'età ingrata dell'adolescenza, pareva averla tagliata fuori dalla propria vita e lei si sentiva impotente di fronte alla sua ostilità. Le loro conversazioni erano tutte un litigio per colpa della poca pazienza di lei e del carattere impulsivo di entrambi. E Dino... Dino era ormai lontano anni luce. "Oh, mamma come vorrei che tu fossi qui! Avevo ancora tanto bisogno di te, del tuo conforto, dei tuoi consigli. Sono disperata per quello che mi sta succedendo e non c'è nessuno che mi possa aiutare. Certo non Alberto che a quattordici anni è ancora quasi un bambino e col quale non riesco nemmeno a dir due parole senza gridare... e poi non sarebbe giusto turbarlo. E Dino... Dino, dopo quello che ha fatto, l'ho cancellato dalla mia vita anche se pretende ancora di accampare dei diritti. Ma ormai non può più dirmi che cosa devo o non devo fare, che cosa sia giusto o sbagliato. Ma io non ho scelta: dovrò farlo e proprio per colpa sua, per fargliela pagare fino in fondo. E questo sarà il Natale più brutto della mia vita" si disse asciugandosi gli occhi e il naso con la manica del golf.

Si avvicinò alle scatole accatastate per terra cercando nella penombra di leggerne le scritte a pennarello nero che sua madre vi aveva apposto: presepe, addobbi albero, ghirlande, luci, fiocchi, candele... Sarebbe stato davvero un Natale triste: sua madre se ne era andata da due mesi appena... e poi c'era tutto il resto. Maria scrollò la testa come a cacciare l'ansia che da un paio di settimane la opprimeva togliendole il sonno e l'appetito. Non ne aveva proprio voglia di Natale quell'anno. Anzi era stata persino in forse se addobbare o meno la casa, visto che ormai l'incombenza era tutta sua e costituiva solo un fastidio e una perdita di tempo. Poi aveva deciso di allestire un minuscolo presepe sul carrello del salotto, per mettere in casa almeno il segno

della festa. Lo avrebbe fatto per rispetto alla mamma che tanto ci teneva e per non dare al figlio la spiacevole impressione che lei l'avesse immediatamente cancellata dalla sua vita. E proprio per amore di Alberto si sarebbe sforzata in quei giorni di essere più serena e tranquilla, almeno all'apparenza, e di non pensare al... problema. Poi, ate le feste, avrebbe fatto quello che era necessario. Trasportò lo scatolone in soggiorno, poi si sedette un attimo sul divano a riprendere fiato. Si sentiva stanca e la polvere che aveva smosso le pizzicava il naso e la gola dandole uno spiacevole senso di nausea. Respirò a fondo ma la fastidiosa sensazione non accennava ad andarsene, tanto che fu costretta a correre in bagno per non rischiare di combinare disastri sul tappeto del salotto. - Accidenti! Accidenti a te Dino, al tuo egoismo, alla tua noncuranza, alla tua disonestà. Come hai potuto farmi questo? Come hai potuto? Lo disse quasi gridando, mentre se ne stava seduta sul bordo della vasca da bagno con la testa protesa sopra il water e la nausea le saliva a ondate dal fondo dello stomaco a riempirle la bocca di saliva amara. Se ne stava lì come uno straccio in balia di quel malessere schifoso, segno inequivocabile della cosa assurda che le stava accadendo, e intanto una rabbia sorda, furibonda, le esplodeva dentro, facendole tremare braccia e gambe. - Ti odio Dino, odio te e questo bambino e dovete sparire dalla mia vita. Tutti e due. Ecco, l'aveva detto. Aveva espresso ad alta voce il pensiero che da giorni le girava per la testa ma che non osava formulare compiutamente nemmeno dentro di sé, tanto le pareva orribile. Eppure era proprio l'odio il sentimento che riempiva il suo cuore, non poteva più nasconderselo. E del resto come avrebbe potuto pensarla diversamente? Aveva trentanove anni, un ragazzo adolescente, un lavoro che la impegnava a tempo pieno e al quale teneva molto ed era incinta di un figlio non voluto. Un figlio che era stato concepito nella menzogna, nell'inganno. - Pensavi a lei, mentre facevi l'amore con me! Mi cercavi solo per abitudine o forse per non mettermi in sospetto, ma era lei che desideravi, era lei che avresti

voluto al mio posto, lì nel nostro letto! Questo aveva urlato a Dino quando la tresca era venuta fuori. L'aveva scoperta nel modo più banale: un biglietto contenete frasi dal significato inequivocabile dimenticato nella tasca della giacca che le era venuto in mano quando l'aveva frugata per portarla in tintoria. Un biglietto firmato Rosalba. E Dino non aveva tentato neppure di negare, consapevole che di fronte all'evidenza il suo dichiararsi innocente non sarebbe servito a nulla. - E' stato un episodio senza importanza e non era mai successo prima - le aveva detto per giustificarsi - mi sentivo solo e un po' trascurato, sei sempre stanca e di cattivo umore, non ti accorgi mai della mie esigenze, dei miei problemi... Certo che si sentiva stanca e di cattivo umore: sua madre era morta dopo mesi e mesi della malattia che l'aveva consumata giorno dopo giorno annientando a poco a poco la sua vitalità, ma non il suo ottimismo e il suo desiderio di vivere. Come avrebbe dovuto sentirsi? E al dolore si sovrapponevano i sensi di colpa in un grumo ruvido di rimorsi che la angosciava. Perché Maria non sempre era stata disponibile, e spesso nel curare la mamma, quando tornava già stressata dal lavoro e dava il cambio all'infermiera, aveva perso la pazienza. Ed era stata incapace, nei gesti ripetitivi di ogni giorno, di dimostrarle l'amore che sentiva dentro il cuore. Avrebbe voluto, ma non ci riusciva, come se il dispiacere di vederla soffrire riuscisse a congelare il bene che le voleva, come se la fatica dell'assistenza quotidiana fe are in secondo piano l'affetto senza neutralizzare gli scatti di insofferenza, i piccoli egoismi, che le erano abituali... Così le giustificazioni di Dino le erano parse ancor più mostruose. Del resto il loro non era mai stato un matrimonio perfetto. Due caratteri che si accendevano per un nonnulla, e visioni differenti sulla vita e sulla famiglia. Ad esempio Dino avrebbe desiderato altri figli mentre Maria dopo la nascita di Alberto non aveva più voluto saperne. Per paura di non farcela, visto che già le pesava doversi occupare di un solo bambino? Per timore che la sua carriera ne sarebbe stata danneggiata o che il suo fisico, già segnato dalla prima maternità, potesse risentirne ulteriormente? Chissà. Ad ogni modo Dino aveva dovuto rassegnarsi ma lei sapeva che in cuor suo le portava rancore e tutto questo sfociava in mille piccoli dissapori che pian piano avevano minato la serenità della loro unione. E Maria dal canto suo non riusciva a trattenersi dal

contrariarlo, non era capace di andargli incontro a "metà strada" come le suggeriva sua madre. - L'armonia della famiglia è nelle mani della donna, Maria - le diceva quando la vedeva immusonita dopo l'ennesima discussione col marito - i maschi, si sa, son come sono, bisogna prenderli per il loro verso e delle volte avere l'umiltà di abbassare la testa. Non ti dico di assecondarlo in tutto, solo di essere meno dura, di dar meno ascolto al tuo amor proprio e di non lasciarti trascinare costantemente dal... nervoso. Dino ti vuol bene, è un ottimo padre per Alberto e anche tu lo ami. Questo non poteva negarlo. Amava suo marito e non poteva concepire l'idea di vivere lontana da lui. Ed era anche vero che Dino era un buon padre. Eppure quando la mamma le faceva di questi discorsi non poteva fare a meno di andare in collera e di risponderle sgarbatamente. Si rendeva conto, sua madre, di quanto Dino fosse cambiato? Si rendeva conto che lui a volte nemmeno la vedeva, che non si accorgeva se era triste o innervosita, non notava le sue inquietudini, le ansie che la tormentavano a volte senza motivo? Era solo capace di arrabbiarsi per il comportamento di Alberto che ai problemi dell'adolescenza univa una buone dose di egoismo non avendo mai avuto un fratello con il quale dividere cose, attenzioni e affetti. Dino non lo diceva apertamente ma era chiaro che dentro di sé scaricava la responsabilità di questo sulla decisione della moglie di non avere altri figli. E dunque come faceva sua madre a pretendere che Maria fosse sempre sorridente e comprensiva per salvare l'armonia della famiglia? Certo a lei pareva semplice: tutto è più facile quando si è buoni di natura, quando la sorte ti ha riservato un carattere ottimista, generoso e accomodante. Nella sua vita la mamma aveva sempre detto "sì", lasciando agli altri la responsabilità di prendere le decisioni. Comodo, tutto sommato. In fondo, al di là delle piccole difficoltà che la vita riserva inevitabilmente a tutti, che problemi aveva incontrato lungo la sua strada? Confronto al mare in tempesta che era l'esistenza di Maria, la sua era stata come un lungo fiume che scorre placido tra sponde sicure: un marito tranquillo, quattro figli che non le avevano dato grandi preoccupazioni. Niente lavoro fuori casa, nonostante avesse un diploma da maestra, qualche hobby piacevole come il cucito e il giardinaggio, nessun problema economico. Ecco, forse gli unici piccoli dispiaceri glieli aveva dati proprio Maria, con quel carattere ombroso e irritabile del quale proprio lei faceva spesso le spese. Eppure era con lei che aveva scelto di vivere visto che le aveva ceduto, quando aveva

sposato Dino, la sua grande casa in mezzo al verde accontentandosi di due stanzette nel seminterrato. Perché Maria era la sua unica figlia femmina, la bambina tanto desiderata giunta in tarda età, quando tante donne erano già nonne, e in casa c’erano tre figli giovanotti.

La nausea era finalmente ata. Maria si soffiò il naso in un pezzo di carta igienica e si diresse stancamente verso il soggiorno. Erano più delle cinque: fra poco Dino, che era andato a trovare sua madre al pensionato, avrebbe fatto ritorno. Mentre strappava l'adesivo che chiudeva lo scatolone del presepe le venne da pensare con rabbia che doveva scoppiare la bomba del tradimento e della gravidanza per aver l'amara soddisfazione di vedere Dino un po' più in casa. Ultimamente anche nei giorni feriali rientrava sempre in orario, mentre fino a poco tempo prima lo faceva alle ore più impossibili. Non l'aveva mai visto così abbattuto e accondiscendente come negli ultimi tempi. Arrivava con l'aria contrita di un cane bastonato, aveva avuto persino il coraggio, una volta, di portarle dei fiori che erano finiti immediatamente nella pattumiera, e tentava persino di darle una mano coi lavori di casa. Ma lei non glielo permetteva. Non aveva nessuna intenzione di perdonarlo, di metterci una pietra sopra come lui diceva e tanto meno di tenersi il bambino. Il bambino... Le veniva persino da ridere, un riso amaro e cattivo, ripensando alla faccia di Dino quando lei, dopo avergli urlato per l'ennesima volta il suo disgusto per il tradimento appena scoperto, gli aveva detto di essere incinta. Per ironia della sorte le due cose erano saltate fuori a distanza di appena qualche giorno e assurdamente aveva visto are negli occhi del marito prima incredulità, poi stupore poi... gioia! - Ne sei proprio sicura? - le aveva detto con la voce rotta dall'emozione. - Sicurissima! Ma è inutile che tu ci ricami sopra. Per me è solo un problema in più - gli aveva riposto con freddezza - Ho accettato di non sbatterti fuori casa immediatamente per non turbare Alberto proprio a Natale. Ma subito dopo le feste risolverò la questione e dovrà sparire, esattamente come te. - Non dirai sul serio?

- Che cosa vorresti? Che io dopo aver perso il marito mi tenessi suo figlio? - Non mi hai perso, Maria. Te l'ho detto, è stata una cosa senza importanza. Ho sbagliato, ti ho chiesto scusa in mille modi. Perché per una volta nella tua vita non ti sforzi di capire? E' solo a te che io voglio bene. A te e ad Alberto e non vorrei sfasciare la famiglia... - L'hai già fatto. - Maledizione, Maria, tu di errori non ne hai mai commessi? Se il nostro rapporto era in crisi da tempo non era certo solo per colpa mia. Fatti l'esame di coscienza e vedrai che hai anche tu la tua parte di responsabilità! Se ne rendeva conto anche tua madre. - Lasci stare mia madre! Sono contenta, guarda, che sia morta prima di veder la famiglia andare a rotoli! E non sperare che io cambi idea su te e sul... bambino. - Il bambino è anche mio figlio. Ho diritto di dire la mia e non voglio che tu abortisca. - Davvero? Che farai, ti rivolgerai al giudice per impedirmelo? - Andiamo, Maria, per favore non prenderla in questo modo. Non potremmo dimenticare tutta la faccenda e ricominciare da capo? Tu, io, Alberto e il bambino. E io ti giuro... - Non credo ai tuoi giuramenti. Se volevi un altro figlio dovevi fartelo fare dalla tua amante, da quella Rosalba o come cavolo si chiama. Così potevate giocare alla bella famigliola felice. - Non dire assurdità! Rosalba io non l'ho più vista, lo sai bene. - La cosa non mi interessa minimamente. - Comunque sia, io non voglio... io vorrei che tu permettessi al bambino di nascere. Ecco, proprio il fatto che Dino un secondo figlio l'aveva a lungo pensato e desiderato, la confermava nel suo proposito. Per farlo soffrire, per fargliela pagare. E del resto forse non se la sarebbe sentita di accettarlo questo bambino

anche se la situazione fosse stata diversa. Di nuovo le venne in mente sua madre. Ma come diavolo aveva fatto a mettere al mondo tanti figli felice e contenta? Come diavolo aveva fatto a quarantadue anni ad accettare con tanta gioia la sua nascita? Certo l'amore del marito e la sicurezza di una famiglia unita e serena, decidevano per lei. Ma per Maria la situazione era ben diversa, perciò ate le feste si sarebbe liberata del bambino e avrebbe buttato Dino fuori di casa. Anche se lui continuava a ripetere che era stato solo un attimo di sbandamento, certo sarebbe finito a vivere con quella Rosalba. Il pensiero di lui con un'altra donna, nonostante ormai lo detestasse, la faceva star male da morire. Eppure non avrebbe sopportato di vederlo ancora girare per casa con quell'espressione, tra il colpevole e l'accusatore, stampata sul viso. Voleva farla are dalla parte del torto, farla sentire in colpa per la decisione che aveva preso, ma non ci sarebbe riuscito. Era lui che aveva sbagliato, che aveva rovinato tutto, era sua la responsabilità di quello che lei era costretta a fare.

Adagio cominciò ad estrarre dal grosso contenitore l'occorrente per il presepe cercando di fare una scelta: doveva essere un presepe minuscolo, dunque le bastava solo l'essenziale. Trovò la sacra famiglia, col bue e l'asinello, ben riposta dentro un sacchetto imbottito: erano statuine molto vecchie e assai fragili, sua madre ci teneva moltissimo e le riponeva con cura quando, immancabilmente il giorno dopo l'Epifania, poiché gli addobbi di Natale quando le feste erano ormai ate le mettevano tristezza, smantellava il tutto. Dentro al sacchetto c'era anche un foglio protocollo a righe ripiegato in quattro e chiuso con un pezzetto di nastro adesivo... Maria lo rigirò un attimo fra le mani, poi un involontario sorriso le salì alle labbra: "Per Anna, strettamente personale" c'era scritto a matita con la grafia ampia e irregolare di sua madre. - La lettera per il Natale futuro! - disse con tenerezza. Se non le fosse venuta tra le mani non se ne sarebbe assolutamente ricordata, poiché solo una volta la mamma le aveva parlato di quella sua mania.

Maria era già una ragazzina ma non se lo sognava minimamente di collaborare all'addobbo della casa e tanto meno di dare una mano per rimettere tutto a posto. Era la mamma che se ne occupava con efficienza e sveltezza. Così quel pomeriggio del sette gennaio quando era entrata in soggiorno si era stupita di trovare sua madre intenta tranquillamente a scrivere mentre nella stanza regnava ancora il caos più totale. - A chi stai scrivendo con tanta urgenza? - le aveva chiesto incuriosita. - A me - aveva risposto lei con un lampo divertito negli occhi. - Cosa? Ma dai i numeri? - Forse è davvero una stramberia, ma siccome lo faccio da quando avevo più o meno la tua età non intendo rinunciarci, perché la cosa mi piace e mi diverte. - Cos'è che fai da quando avevi la mia età!? Me lo vuoi spiegare o giochi agli indovinelli? - aveva ribattuto Maria con la sua abituale impazienza. - Tutti gli anni, quando metto via gli addobbi, mi scrivo una lettera, poi la nascondo dentro lo scatolone del presepe e il Natale successivo la ritrovo e me la leggo. La nonna Mariuccia che sapeva di questa mania, quando ero ragazzetta mi prendeva in giro e la chiamava "La lettera per il Natale futuro". - E a che ti serve? Si può sapere che cosa ci scrivi? - A che mi serve... a niente credo, se non che mi fa piacere trovarla. Comunque, siccome ci faccio una specie di resoconto dell'anno trascorso e cerco di far dei pronostici per quello appena iniziato il divertimento consiste nel rammentare gli avvenimenti ati e soprattutto nel vedere se... ho indovinato e se si sono avverati i miei desideri! - Chissà mai che gran divertimento! - Pensala come vuoi, a me piace. Le ho tenute tutte, sai, le mie lettere natalizie, sono in una scatola di latta in fondo allo scatolone del presepe e praticamente c'é dentro la mia vita... condensata! - E nomini anche me?

- E' inevitabile! Visto che praticamente mi pigli la pelle, sei una parte consistente della mia vita! Avevano riso insieme, poi Maria aveva riposto la faccenda nel dimenticatoio, liquidando la questione come una delle piccole, innocenti manie che dimostravano quanto la mamma fosse romantica e a volte un po' infantile. Ora Maria teneva la lettera tra le mani incerta sul da farsi. Le pareva scorretto aprirla visto che sua madre l'aveva indirizzata a se stessa dichiarandola "strettamente personale" e tuttavia buttarla senza averla letta le pareva ancor più brutto. E poi... era curiosa di sapere quello che la mamma si era scritta. Chissà se aveva pensato che per lei poteva non esserci più "un Natale futuro"? Quali progetti aveva fatto per l'anno appena iniziato e del quale non avrebbe mai visto la fine? Quali speranze aveva nutrito nel suo cuore? La curiosità, la tenerezza ebbero il sopravvento e Maria lacerò il nastro adesivo che teneva chiuso il foglio. All’inizio era riportata la data, il sette gennaio di quello stesso anno, poi il foglio era riempito con la grafia regolare e inconfondibile della madre “Eccomi a scrivere la solita lettera per il prossimo Natale. Per la prima volta dopo tanti anni sono tentata di non farlo perché ho paura che resterà per sempre nascosta nello scatolone in solaio. Sento che c'è qualcosa di diverso nel mio corpo, ma ho deciso di non pensarci per ora. Se non è una cosa grave non succederà niente, se invece lo è, voglio regalarmi ancora qualche mese di tranquillità e soprattutto non turbare innanzi tempo Maria...." Dunque sua madre aveva già intuito la malattia e non ne aveva fatto parola. E lei invece non si era resa conto di niente: non aveva notato il suo pallore, l'inappetenza, la magrezza che diveniva ogni giorno più evidente, finché era stato Dino a sollevare il problema e ad insistere per portare la suocera dal medico. Ed era già la fine di febbraio... - Non mi sono smentita nemmeno stavolta. Come al solito non le badavo, e lei invece cercava ancora di proteggermi - si disse col cuore stretto riprendendo a leggere. "Ma voglio essere ottimista e voglio credere che fra un anno, quando tornerà Natale, troverò accanto a Gesù Bambino questo foglio come sempre.

L'anno appena trascorso è stato in fondo abbastanza positivo, almeno per me: a ottantun'anni sono ormai in pace con me stessa e non avrei nemmeno paura di morire se non fosse che mi dispiace lasciare i miei figli e soprattutto Maria e la sua famiglia. La cosa che maggiormente mi spaventa non è il pensiero di soffrire, ma quello di ridurmi ad essere un peso per lei. Dunque annoto già il desiderio più grande per l'anno appena iniziato: che se proprio deve succedere, che sia una cosa veloce in modo da non recare troppo disturbo alla mia bambina." Invece non era stata una cosa veloce. Erano stati sette mesi di tortura e di angoscia sopportati dalla mamma con serenità e coraggio e da lei... oh, lei aveva affrontato la cosa ben diversamente. "E il secondo desiderio è questo: che per i miei carissimi figli, le mie nuore, i miei nipoti l'anno che verrà porti solo cose belle e felici. E la speranza è quella di vederli più spesso, ché certe volte mi pare proprio che si siano dimenticati di me, sapendomi tranquilla e al sicuro con la loro sorella. Quanto alla mia Maria... Maria non ha ancora imparato che deve vivere più semplicemente e per un nonnulla si infiamma, si innervosisce e rimugina per giorni cose ormai ate. Credo che il suo problema più grande sia quello di essere troppo perfezionista: non riesce ad accettare i suoi limiti e le sue debolezze, non ammette che è normale sbagliare e che, se è giusto far tesoro dei propri errori, bisogna poi gettarseli alle spalle. E' molto esigente con se stessa e di conseguenza lo è troppo anche con Dino e Alberto coi quali è sempre ai ferri corti. Vive poco serena ed io non so come fare ad aiutarla perché mi pare che accetti mal volentieri i miei consigli. La amo così tanto che non so nemmeno io che cosa farei per vederla più contenta, per saperla felice in modo profondo e totale e vorrei che fosse lei e nessun altro a tenermi la mano quando starò per andarmene..." - Invece ti ho lasciata morire sola! Tu morivi e io dormivo! Non ero lì a tenerti la mano, tu forse mi cercavi, avevi paura e io dormivo! Dormivo! Questo pensiero le piombò addosso invadendo di dolore e di rimorso tutta la sua persona. Erano due mesi, da quando sua madre era mancata, che lo teneva a bada, compresso in un angolo del suo corpo per impedirgli di tormentarla con l'angoscia che le procurava. Ora le venne davanti quell'ultima notte quando non ce l'aveva più fatta a star seduta sulla sedia accanto alla madre. Era stanca,

rattrappita e il rantolo flebile proveniente dal letto di lei invece di tenerla sveglia la trascinava inesorabilmente nel baratro del sonno. "Solo per dieci minuti" aveva pensato coricandosi sul divano. Invece quando tre ore dopo le primi luci dell'alba l'avevano svegliata, la mamma se ne era ormai andata. Da sola aveva silenziosamente varcato la soglia dell'ignoto, senza il conforto della vicinanza della persona a cui voleva più bene. - E non potrò mai perdonarmelo! Mai! - disse ancora sommessamente prima di riprendere a leggere.. "Credo che il Buon Dio - proseguiva la lettera - non mi giudicherà male per il bene speciale che voglio a Maria: li amo tutti i miei figli, immensamente, ma lei... lei è la mia bambina adorata, il mio tesoro. Quando la guardo, così bella e intelligente, quando penso al bene che mi vuole, alle soddisfazioni e alla gioia che mi ha dato, ancora non posso capacitarmi della cosa terribile che sono stata sul punto di farle". - La cosa terribile che sono stata sul punto di farle... - ripeté Maria stupita smettendo di leggere. Di che cosa stava parlando la mamma? Fin dove arrivava la sua memoria rammentava di aver avuto da lei solo attenzioni e tanto, tanto amore. C'era stato invece un momento in cui sua madre era stata sul punto di... farle del male? Scorse in fretta il resto della lettera, ma non trovò nulla che potesse rispondere ai suoi interrogativi. Allora prese a frugare tra le statuine e le casette di sughero. E lì, sul fondo dello scatolone, ecco la scatola di latta a cui aveva accennato la mamma tanti anni prima. Maria la aprì e ne trasse uno strano assortimento di fogli: pagine di quaderno a righe e a quadretti, fogli protocollo e da ciclostile..., e tutti ricoperti della scrittura della madre. Maria realizzò che dovevano essere più di sessanta se, come le aveva confidato, la mamma aveva cominciato a scriversi "la lettera per il Natale futuro" quando era solo una ragazzina. Un primo sguardo alle date le fece comprendere che i fogli non erano affatto disposti in ordine cronologico come sarebbe stato logico: ma non se ne stupì,

dato che la mamma non era mai stata fissata con l'ordine e la precisione e anche questo era stato a volte fonte di nervosismo per Maria, che invece era una vera pignola. Pareva che le lettere fossero state messe dentro alla rinfusa dopo averle tirate fuori per rileggerle, senza badare al fatto che potessero sgualcirsi. Maria prese a scorrerle in fretta, pescando a caso nel mucchio. 7 gennaio 1967, 7 gennaio 1984, 1970, 1981, 1972... avano davanti ai suoi occhi brandelli slegati della vita della madre, ora recenti, ora lontani, riportati in uno stile del tutto libero, come se la mamma parlasse davvero con se stessa. E poi commenti a volte divertiti e ironici, altre pieni di commozione, sui figli, i nipotini, gli avvenimenti dell'anno appena trascorso: la gioia per la laurea dei suoi figli grandi, i preparativi per i loro matrimoni, la felicità per la nascita dei nipoti, la malattia e la morte della suocera... Ma non un accenno che potesse svelare il mistero di quella frase inquietante che le martellava nella testa. 7 gennaio 1957, 1946, 1953, 1940... La gioia sconvolgente di poter stringere tra le braccia il suo primo figlio, e prima l'emozione del proprio matrimonio e le prime delusioni: "Pietro mi lascia sempre sola, mi par di essere sposata con sua madre e non con lui, ed è sempre a lei che dà ragione: devo tacere e abbassare la testa. Sempre" "Non vuole che io lavori e mi sarebbe tanto piaciuto insegnare: devo star qui, prigioniera e serva di Esterina". E prima ancora i primi batticuore di adolescente, gli sguardi all'uscita della chiesa, gli occhi celesti del compagno Martino che "paiono due fiordalisi appena colti tra il grano maturo" mentre con ansia vedeva "le nere nuvole della guerra addensarsi sul cielo della nostra Italia"... E poi gli anni duri del conflitto, e quelli più sereni del dopoguerra, l'emozione di poter andare per la prima volta a votare, "finalmente i maschi si sono accorti che anche noi donne abbiamo un cervello e dei diritti civili", e la scoperta umiliante dei tradimenti del marito: "Lo fa con spudoratezza, come se non gli importasse che io lo venga a sapere. E io faccio finta di niente: del resto se mi ribellasi, come potrei fare con tre figli, senza un lavoro e senza il becco di un quattrino? La casa è mia, ma lui e sua madre mi hanno in loro potere. E poi non me la sentirei di privare i ragazzi del loro padre al quale vogliono bene e che a suo modo li ama..." Suo padre... Era morto quando Maria aveva undici anni e di tutte le persone che

avevano fatto parte della sua vita, quella del padre era stata la figura più enigmatica. L'aveva sempre pensato un tipo tranquillo, senza ambizioni e senza fantasia, amante del quieto vivere per quell'abitudine di non voler notare affatto quanto la madre spadroneggiasse in casa a spese della moglie. Era un bell'uomo alto e imponente, di pochissime parole e molto severo coi suoi fratelli maschi. Eppure Maria rammentava gesti di affetto e di tenerezza nei riguardi di lei, che era la sua figlia più piccola, nata a tanta distanza dagli altri tre, e una certa propensione ad accontentarla, a coccolarla persino. Ora scopriva di lui un aspetto che non conosceva e si rendeva conto che quello di sua madre non era stato un matrimonio felice. Maria continuò a far are i fogli, in fretta, leggendo qua e là a spizzichi e a bocconi le frasi delle varie lettere: un allegro resoconto del matrimonio di Maria, con la zia Porzia "in tacchi a spillo e cappello a paralume" poi la gioia per l'arrivo del nipotino Alberto: "A ogni nascita rivivo l'emozione del miracolo della vita. Guardo questo meraviglioso insieme di fragilità e di perfezione, e immagino per Alberto un futuro di gioia e di... grandezza! E penso con orrore che se io venticinque anni fa avessi dato seguito alla pazzia che stavo per commettere, lui non sarebbe qui..." Venticinque anni fa... Maria prese a frugare quasi di furia tra il mucchietto dei fogli che ancora non aveva fatto are e finalmente eccola la lettera che cercava: quella del 7 gennaio dell’anno in cui lei, a settembre, era nata. "Scrivo col cuore gonfio di disperazione, mentre mi chiedo se sia vero, reale, quello che mi sta accadendo. Pietro l'ha fatto di nuovo ma stavolta non è una delle solite squallide avventure. Stavolta si è innamorato e se ne è andato a vivere con lei. Si chiama Lorella e ha ventidue anni meno di lui. E aspetta un figlio. E anch'io sono incinta. Ma prima di andarsene, due giorni dopo Natale, Pietro mi ha detto che io dovrò abortire perché lui ormai intende prendersi cura solo del figlio che gli darà Lorella. Mi ha gridato che non vuole ritrovarsi sulla bocca di tutti, che lui è una persona in vista, che la gente potrebbe criticarlo se lascia la moglie proprio mentre attende un figlio, che oramai i ragazzi sono grandi, e che comunque continuerà a mantenerli fino alla laurea. -Ma quello che hai in pancia non deve nascere, dovrai liberartene e subito. E

farlo in silenzio che nessuno sappia - mi ha detto. -Perché non chiedi a quella Lorella di liberarsi lei del suo bambino? - gli ho risposto. Avrei voluto gridargli tutto il mio disprezzo, ma non ci sono riuscita, dopo che ho sempre sopportato i suoi tradimenti, quasi complice col mio silenzio. - Perché non voglio. E' giovane e ha bisogno del mio aiuto. Tu saprai cavartela benissimo da sola, una volta che avremo risolto il problema. E poi sei vecchia, alla tua età potresti mettere al mondo un figlio disgraziato. Ma io ho capito che in realtà intendeva dire: "Perché Lorella è giovane e bella, e non sono sicuro di lei, un figlio la costringerà a dipendere da me e la terrà legata. Di te non mi importa nulla e tanto meno del tuo bambino" Come al solito ha fatto tutto lui e mi ha già preso appuntamento per il sedici, giusto fra otto giorni. Che Dio mi perdoni, ma mi toccherà ubbidire come sempre. - E tua madre? - gli ho chiesto poi con un filo di voce. - Mia madre è d'accordo con me: devi liberarti del bambino. - E' contenta che tu mi pianti in asso? La porterai a vivere con te e quella... donna? - Mia madre desidera rimanere qui - ha risposto. Poi se ne è andato sbattendo la porta. Certo che Esterina vuol continuare a vivere in questa casa! Ormai è lei la padrona e le fa comodo una domestica a tempo pieno non retribuita e che non protesta mai! Mi detesto perché mi sono sempre lasciata soggiogare e comandare da loro due. Eppure in questo caso non ho alternative: non ho un lavoro, non ho un soldo. Che farei con un neonato e tre figli che devono ancora finire di studiare? Pietro mi ha assicurato che oltre a loro, provvederà anche a me, purché io metta le cose a posto senza tante storie. Dunque lo farò. Dovrò farlo, non ho scelta.

Aspetto l'appuntamento del sedici come un incubo e come... una liberazione. Ma Pietro... lui non potrò mai perdonarlo." - Non dovevo nascere. Avevano deciso che io non dovessi nascere - sussurrò Maria sedendosi di schianto su una poltrona. Aveva sempre pensato, vista la predilezione che sua madre aveva per lei e l'indulgenza inusuale del padre nei suoi confronti, di essere stata voluta, desiderata. Ora lo scoprire che le cose stavano ben diversamente, la lasciava annichilita. E una folla di sentimenti contrastanti si accavallava nella sua mente: pena per la mamma, disprezzo per il comportamento del padre e della nonna... E interrogativi che forse non avrebbero mai avuto una risposta. Anche l’amante del padre, quella Lorella, aspettava un figlio: aveva dunque un fratello di cui non conosceva l'esistenza? E che fine aveva fatto? E soprattutto che cosa era successo per ribaltare la situazione? La realtà era che lei invece era venuta al mondo, ed era stata molto amata da tutti. Quanto al padre, fin dove poteva ricordare, era sempre vissuto con loro, lì in quella casa. Ma un'altra domanda bussava con insistenza alla sua mente e al suo cuore: aveva sempre pensato che la bontà di sua madre fosse il risultato di una vita tranquilla e senza scosse. Ora che sapeva che la realtà era stata ben diversa, si chiedeva stupita come avesse fatto la mamma, nonostante la vita infelice che le era stata imposta per tanti anni, nonostante le umiliazioni continue, ad essere (o forse a diventare?) la donna stupenda che lei ricordava: generosa ed equilibrata, ottimista, spesso allegra, limpida ed entusiasta come un bambino. E soprattutto profondamente serena. Qual era stato il segreto di quella serenità che Maria cercava da sempre e che sempre le sfuggiva? Cercò di furia la lettera dell’anno successivo: ecco, su quel foglio forse avrebbe trovato le risposte che cercava. "Ho davanti a me la lettera dell'anno ato. Quanta disperazione! E quanta gioia adesso. La mia Maria dorme nella sua culla: è bellissima e sana come un pesce! Nonostante l’età avanzata e gli orribili pronostici di Pietro, ho messo al mondo una bambina perfetta. Provo per lei un amore così grande che a volte mi par che straripi da dentro di me e vada a invadere la casa e il giardino... L'anno appena trascorso è stato talmente denso di avvenimenti straordinari che non so da che parte iniziare. Certo l'evento più importante è stato la nascita di

Maria e mai mi perdonerò per aver pensato anche solo per un breve periodo di... gettarla via! Tutto è cominciato la notte della vigilia del giorno stabilito per l'interruzione della mia gravidanza. Non riuscivo a dormire e mi rigiravo in quel letto vuoto in preda all'angoscia più profonda. Mi pareva orribile la decisione di Pietro e soprattutto la mia accettazione iva della sua volontà. Come avevo sempre fatto. Ma dentro di me io SAPEVO, ne ero certa, che non volevo liberami del mio bambino. Io volevo che lui nascesse, già lo amavo quel piccolo abbozzo di persona che cresceva dentro di me... Eppure mi ripetevo ancora che non avevo scelta, che avrei dovuto ubbidire. Mi sono alzata, sono andata in soggiorno e ho preso gli album delle foto dei miei figli da piccoli. E mentre li sfogliavo pensavo che forse il bambino avrebbe avuto gli occhi azzurri di Giacomo, e magari i capelli neri e ricciuti di Marco, forse la bocca sempre sorridente di Paolo e il suo bel carattere affettuoso. E detestavo Pietro, lo odiavo con tutta me stessa e anche sua madre. Ma poi di colpo, non so per quale ragione, ho capito chiaramente che il "nemico" del mio bambino non erano loro. Il nemico era dentro di me. Era la mia mancanza di coraggio, la mia incapacità di oppormi ai loro soprusi, la debolezza che mi impediva di difendere la mia creatura. Era contro tutto questo che dovevo combattere. In quel momento ho deciso che nessuno mi avrebbe costretta a fare quella cosa orrenda: ero in casa mia, avrei trovato un lavoro, avrei fatto la sguattera piuttosto, ma il mio bambino sarebbe nato. Così quando Pietro al mattino è venuto a prendermi, per la prima volta da quando eravamo sposati ho detto no. Pietro si è molto adirato ma alla fine quando mi ha vista tanto decisa è venuto a più miti consigli. Credo che lo abbia fatto cedere il pensiero che io potessi cacciare sua madre dalla mia casa e che lui fosse costretto ad occuparsene: ha solo ottant'anni Esterina, ma non è più del tutto autosufficiente, anche se la salute malferma non le impedisce di continuare a prevaricarmi. -Fai quello che ti pare - mi ha detto alla fine Pietro - vorrà dire che insieme a quello dei ragazzi mi accollerò anche il mantenimento del bambino, a patto che tu continui ad ospitare la mamma. Ho accettato, ma solo perché, in fondo, Esterina è la nonna dei miei figli. Poi Pietro se ne è andato e l'ho rivisto solo tre mesi dopo, quando è tornato a casa.

Sapevo già quello che era successo, nelle città piccole le notizie corrono in fretta: Lorella aveva mandato Pietro a quel paese e gli aveva rivelato che il bambino non era nemmeno il suo. Se stava con lui era solo per spillargli quattrini, per farsi mantenere insieme al figlio, ma che non ce l'aveva più fatta a sostenere la commedia. Era distrutto Pietro, nonostante tutto mi faceva quasi pena. Con fatica ha ammesso i suoi torti e mi ha chiesto scusa. Non era mai successo prima. Mi ha detto che mi vuole bene, che cercherà di cambiare e ho capito che era sincero. Così ancora una volta me lo sono ripreso. Per comione, per dovere. E' stata dura all'inizio, ma poi col ar del tempo la rabbia e il livore si sono stemperati in una accettazione più serena, mentre la mia Maria cresceva dentro di me riempiendomi di gioia. E quando è nata ho visto commozione e affetto dipingersi sul viso di mio marito. E ho capito nella mia immensa felicità che ora dovevo solo ascoltare la voce del cuore e trovare la forza di perdonare. Questa era la condizione indispensabile per poter guardare al futuro con speranza. In fondo Pietro se era stato un cattivo marito, si era dimostrato invece un buon padre per i ragazzi. Lo sarebbe stato anche per la bambina. E con lui potevo perdonare anche Esterina e soprattutto me stessa per quello che ero stata sul punto di fare...."

Maria appoggiò il foglio sulle gambe, e se ne stette lì, incapace di muoversi cercando di controllare il tremito delle mani. Faceva persino fatica a respirare come se i suoi polmoni fossero compressi, schiacciati da un peso invisibile. Pochi attimi ancora di smarrimento… poi la invase una meravigliosa sensazione di sollievo e di tenerezza: ecco, ora aveva capito. Le pareva che sua madre attraverso quelle lettere che avrebbero dovuto per sempre restare segrete, avesse voluto tornare per un poco ancora accanto a lei, per parlarle e indicarle la via giusta... E le venne in mente quello che le diceva quando era ragazza: "A volte i condizionamenti non vengono dalle persone, ma da dentro di noi: se ti fai influenzare dalla rabbia, dalla delusione o peggio dall'odio, le tue scelte potrebbero non essere quelle che in realtà vorresti. Ascolta il tuo cuore e non sbaglierai."

E Maria si rese conto che in quei giorni di tristezza e di disperazione l'unica voce a cui avesse badato era stata proprio quella del rancore. Ora doveva ascoltare solo quella del cuore se voleva finalmente conquistare la serenità che tanto aveva invidiato alla mamma. E il cuore le suggeriva che era giunto il momento di perdonare. Proprio come aveva fatto la mamma in una situazione ben peggiore della sua. Per lei, in fondo, sarebbe stato anche meno difficile: nonostante le divergenze, le incomprensioni, i dissapori, aveva sempre amato Dino profondamente e sapeva che anche lui la amava. Più difficile era riuscire a perdonare se stessa: per essere stata una moglie e una madre poco disponibile e a volte dura, per aver desiderato di non far nascere il suo bambino solo per vendicarsi del marito. Quel bambino che suo malgrado aveva sentito di amare fin dal primo momento... Quanto a sua madre... era sicura che dovunque lei fosse aveva ormai dimenticato tutto, tranne il bene immenso che le voleva.

E improvvisamente il pensiero del Natale la riempì di dolcezza: avrebbe appeso le ghirlande dorate e i fiocchi rossi, avrebbe messo candele, bacche profumate e rami di agrifoglio sui davanzali e sui camini, e preparato un albero grande al centro del salotto… E avrebbe raccolto il muschio che cresceva negli angoli ombrosi e segreti del giardino e avrebbe costruito un presepe monumentale sui ripiani della libreria... E soprattutto avrebbe preparato il suo cuore addobbandolo con pensieri di gioia e avrebbe aperto le sue braccia ad accogliere le persone che amava…. Sarebbe stato un bellissimo Natale. Un Natale di perdono e di speranza.

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