Alessandro Cadelano
Grace, diario di un Angelo
ISBN: 9788891134660
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Indice dei contenuti
Romanzo Dedica A mio figlio ... Gian Marco Per voi ... Donne Le domeniche dai parenti … Una triste notizia … La vita ci insegna … Il mio destino … Come se la mia storia fosse già scritta … Un lungo respiro … La mia serenità … La luce che vede un neonato …
Parlare di violenza … Anima cieca … Percorrere una strada tra tante … La nostra sincerità... Lentamente varcai la soglia … Arrivò puntuale il mio destino … Dormiva … Una grande lezione di vita … Arrivò il mio momento … Mi sentivo privilegiata … La Verità non tardò ad arrivare … Mi risvegliai per la seconda volta … Un figlio mai nato …
Incertezze … Il sapere uccide, ma rende vivi … Le violenze su una donna … Arrivò finalmente il mio momento … Pensieri ...
Romanzo
Quest’opera è il frutto esclusivo della fantasia dell’autore. Qualsiasi analogia con fatti, luoghi e persone, vive o defunte, deve considerarsi puramente casuale.
Foto realizzata da Roberto Lonis –
[email protected]
Modella : Giada Lezi.
Dedica
Grace,
diario di un Angelo.
Alessandro Cadelano
G.M.C.
Dedicato a mia moglie Patrizia e a mio figlio Nicolas,
un modo diverso per dirvi quanto vi amo.
A mio figlio ... Gian Marco
Sai Gian Marco, non è con i dubbi che si può vivere, e nemmeno sulla tua breve vita ne voglio avere, ma voglio andare avanti con le certezze che ho, come quella di sapere che ovunque ti trovi sei orgoglioso di mamma e papà e del tuo fratellino Nicolas, che nel loro piccolo cercano di far conoscere a tutti che un piccolo Angelo è ato in questo mondo anche solo per un breve saluto.
Nessun addio, ma solo un ciao, perché dietro questa piccola frase si nasconde un mondo infinito dove due prima o poi si ritroveranno.
Insieme alla buona notte, ti dico ciao Gian Marco, ciao figlio mio.
Per voi ... Donne
Dedico queste righe racchiuse in pochi fogli a tutti quelli che vogliono alzarsi, respirare la vita e ricominciare ad amarsi.
A quelle donne che non riescono a liberarsi da una continua violenza domestica, fisica e mentale.
A coloro che permettono alla paura di soffocare i propri sogni.
A tutti noi, che con le nostre lacrime ci ricordiamo di quanto siamo fragili e coraggiosi allo stesso tempo.
A te, che leggi …
Le domeniche dai parenti …
Trascorrevo la maggior parte delle mie domeniche infantili tra le quattro mura dei parenti. Era un vero e proprio rituale, un’occasione diversa per rendere allegra quella che sarebbe certamente stata una giornata solitaria, da figlia unica.
Ancor prima che venisse la mamma a svegliarmi, ero già in piedi davanti all’armadio a scegliere quale dei miei due vestiti preferiti indossare. Il primo era un vestitino lilla con tanti fiori, il secondo aveva disegnate delle rose e delle sfumature di giallo che rendevano il tutto magico: scelsi quest’ultimo.
La parte più complicata rimaneva sempre pettinare i miei lunghi capelli biondi. Mi sedevo davanti allo specchio della mia cameretta pensando a quello che sarebbe stata la mia giornata. Dopo una veloce colazione salivo in macchina sedendomi nei sedili posteriori aspettando per un bel po’ di tempo i miei genitori che, tranquillamente, si preparavano. Mi portavo sempre appresso il piccolo peluche di panda, mio inseparabile amico, che per il buffo aspetto avevo battezzato occhio nero.
Ero felice di andare a trovare i miei zii e cugini, ma, come in tutte le famiglie, anche nella mia c’era la cugina pestifera da temere, e la mia si chiamava Romina. Dispettosa, capricciosa. Qualsiasi cosa avessi tra le mani la pretendeva lei, tanto che mia madre, pur di farla tacere, l’accontentava sottraendomi giochi e cianfrusaglie. Tenevo stretto a me occhio nero così forte che se avesse avuto il dono della parola avrebbe urlato di mollare la presa per non soffocarlo.
Per fortuna la nostra era una sosta breve, giusto il tempo di salutare le sorelle di
mamma e andarcene. Era quello il momento in cui la mia felicità schizzava alle stelle.
Mio padre, alla guida dell’auto, mi fissava dallo specchietto retrovisore e mi sorrideva: era il nostro segnale. Sapeva che il mio momento più atteso era giunto. La macchina imboccava infatti una stradina lunga e stretta di montagna che divideva in due il paese natale di mia madre. Fuori dalle finestre di ogni abitazione vi erano dei grandi vasi di lilla, mentre nei giardini lussureggiavano le numerose piante di limoni.
Alcuni murales dipinti nelle facciate delle case attiravano la mia attenzione; erano dei veri e propri capolavori che raccontavano la vita del possidente.
D’istinto aprivo il finestrino, un poco, giusto lo spazio necessario per tirare fuori la testa e annusare gli odori della natura.
«Siamo quasi arrivati Grace!». Ogni volta che mia madre pronunciava queste parole, una gioia immensa m’investiva. Sapevo che tra non molto avrei abbracciato nonna Mary, la mia migliore amica.
La macchina decelerava, poi, adagio, s’imbucava nell’aia di un enorme casolare. Eravamo arrivati! Con pochi colpi al clacson mio padre annunciava il nostro avvento.
La cascina era immensa. Una miriade di rose rosse e gialle facevano da ornamento al piazzale. Erano i fiori più amati da nonna Mary e l’ambiente ne era sempre traboccante. Più a sinistra, coperti da una piccola tettoia, c’erano degli animali: conigli e galline, in gran parte. Al centro, invece, circondato da
un’aiuola fiorita, sostava immobile da anni il vecchio carretto di mio nonno. Aveva le sembianze di un monumento antico più che di uno strumento da lavoro. Peccato non averlo mai conosciuto il nonno: me lo hanno sempre descritto come un gran lavoratore, tanto che la sua bontà era così grande che fu costretto ad allontanarsi per dare una mano d’aiuto a Gesù, lassù in cielo. Di certo era uno dei migliori.
Un urlo spezzò quel silenzio, «Grace, piccola mia!».
La voce della nonna risuonava nel cortile e mi attirava come i botti dei fuochi d’artificio nelle feste paesane. Lei, uscita nell’aia, ci veniva incontro. Era una grande donna: capelli bianchi come le nuvole e mani delicate; non avevo le prove ma ero convinta che la nonna fosse una fata buona, non riuscivo infatti a spiegarmi come riuscisse a far tutto da sola in quella cascina sterminata, e poi cucinava in modo sublime.
Le correvo incontro attraversando il lungo cortile e dribblando le galline che scorrazzavano libere avanti e indietro.
Non potrò mai scordare il suo forte abbraccio ricco di calore e amore. Mi teneva stretta a sé così tanto che avrei voluto trascorrere tutta la giornata in quella posizione. Una volta entrati in casa mi rimpinzava con una marea di dolci: crostata di mele e cioccolata fatte in casa. La sera, quando giungeva il momento di andar via, non ero triste, sapevo che tra sette giorni l’avrei rivista, e questo bastava a darmi serenità.
Queste visite continuarono per anni, e mai ò una domenica senza che assimo a salutare la nonna.
Una triste notizia …
Il tempo ava, ed io iniziai a frequentare il liceo.
Un lontano giorno d’inverno, per un motivo sfuggente, rimasi la sera sola in casa con la nonna. La legna dentro il focolare ardeva intensamente ed era impossibile sostare là accanto senza essere ustionati dal calore. Attorno a noi, come al solito, tanti vasi di rose per adornare una sala già bella di suo. Sorseggiavamo una tisana sedute attorno ad un tavolo e rimembravamo il mio vissuto di piccola peste. Era una serata allegra, fuori pioveva ma quella compagnia rendeva tutto perfetto.
Una telefonata interruppe i nostri discorsi. Rispose la nonna. Deposta la cornetta, mi comunicò che era stata la mamma a chiamare e avvisava che a causa del maltempo una piccola frana di fanghiglia aveva ostruito l’accesso al paese, di conseguenza sarebbe venuta l’indomani a prendermi. Avrei trascorso la sera fuori di casa, stupenda notizia pensai inizialmente, ma fu proprio quel giorno che conobbi la vera nonna Mary.
La serata proseguì serena. Cenammo presto, la nonna aveva le sue abitudini che nessuno avrebbe mai potuto rimuovere, e tra queste c’era la cena alle diciannove in punto. Pregammo prima di mangiare. Terminato, riordinammo e ci ritirammo nelle camere a riposarci. Il tempo andava peggiorando. Ero inquieta. I lampi illuminavano a giorno la mia camera e i tuoni echeggiavano con boati sinistri. Continuavo a rigirarmi nelle coperte, quasi che queste funzionassero come scudo per i miei timori: pativo una fobia pura per i tuoni. Non resistetti e mi alzai. Percorsi in punta di piedi il lungo corridoio che conduceva alla camera della nonna. Desideravo un abbraccio di conforto, e sperai che fosse ancora sveglia.
Infiltratosi dalle imposte, un bagliore s’irradiò nella cupezza del corridoio. Aprii la porta della camera cercando di fare il massimo silenzio. Entrai e sobbalzai: la nonna era ancora sveglia, stava seduta sul suo letto mentre con un fazzoletto di seta si asciugava il volto dalle lacrime. Una fragranza di lavanda si era impadronita della stanza e quasi stordiva. Mi venne d’istinto correrle incontro e abbracciarla con gran forza. «Nonna che hai?».
La nonna mi fissò, mi strinse a sé, e solo dopo aver abbandonato la presa, iniziò a parlarmi con una quiete disarmante.
«Ti fanno preoccupare le mia lacrime? Ti fanno paura? Non devi!» mi disse sorridendo ancor prima di continuare.
«Le mie lacrime sono testimoni della mia vita presente e trascorsa, e chissà forse anche futura. Mi aiutano a ripercorrere i miei ricordi. Gioie e tristezze sono presenti in tutti gli esseri, sono sentimenti che sono il frutto di un’esperienza vissuta. La rabbia, il dolore, sono stati d’animo che diventano sempre più forti delle gioie che riempiono la nostra vita trascorsa a ritmo frenetico. La felicità sfugge senza rendercene conto e quando tentiamo di assaporarla è ormai troppo tardi. Grace, le mie lacrime sono la testimonianza di un cuore che batte e che ogni tanto ripensa alla sua vita ata e a tuo nonno, che ci ha lasciato troppo presto!».
Mi sorse un sorriso spontaneo nel sentir nominare il mio povero nonno con tanta dolcezza.
«Tu sei una brava ragazza, nipote mia. Ricordati che nell’universo ci sono numerose stelle, alcune più luminose e altre meno. Non ha importanza quanta
luce riusciamo ad emettere per avvicinare a noi altre persone, ma quanta ne sprigiona il nostro cuore.
Sforziamoci di percepire ogni piccolezza della nostra esistenza e solo allora avremo vissuto appieno la nostra vita, sostituito le incertezze con certezze; e le nostre fondamenta, quelle che ci danno la forza di crescere, andare avanti, soffrire, ci permetteranno di guardare a testa alta ciò che ci circonda, fieri di essere stati prima sinceri con noi stessi e poi con chi ci sta vicino, perché senza queste basi saremmo solo anime perse.
Non pensare mai che se una persona non piange non nutre sentimenti, a volte le lacrime che ci teniamo dentro sono più dolorose di quelle che offriamo agli occhi della gente!».
Ascoltavo nonna Mary in assoluto silenzio, seguendo il movimento delle sue labbra e restando incantata dalle sue parole.
«La mia vita è stata difficile: prima la guerra, poi la povertà, infine tuo nonno che ci ha lasciato ancora giovane … non mi pento di nulla! Questo ha voluto Dio per me e ne sono fiera!».
Da quel giorno qualcosa in me cambiò. La mia perfetta e forte nonna mi aveva fatto capire quanto è esile l’uomo e con quanta semplicità si possa essere veri.
Furono le ultime parole di quella sera, mentre i tuoni e i lampi lentamente si placavano e la pioggia cessava. Mi strinsi per l’ultima volta alla nonna prima di tornare nella mia cameretta e cercare un sonno che mai arrivò.
La mattina venne solo mio padre a prendermi, la mamma era impegnata con il lavoro. Mentre scendeva dall’auto, lo salutai con un cenno della mano, al contrario tra me e la nonna ci fu uno sguardo d’intesa, adesso custodivamo un segreto che avrei dovuto tacere per sempre: le sue lacrime.
Il tempo trascorreva placidamente, poi tutto cambiò: ricordo come se fosse ora il mio quindicesimo compleanno. Tre giorni prima, mia madre mi informò che alla nonna era stato riscontrato un male incurabile. Le rimaneva poco tempo da vivere, presto avrebbe riabbracciato il nonno!
A pochi mesi da quella terribile notizia, le mie domeniche mutarono inesorabilmente. Non ci furono più abbracci fisici con la nonna, solo immaginari, davanti alla sua tomba mentre periodicamente le portavo il suo mazzo di rose preferite. «Grace cerca di sorridere anche quando è impossibile. Tu meriti mille rose, come gli anni che ogni uomo vorrebbe vivere vicino a te. Dopo i mille anni altre mille rose per rendere il tutto infinito!». Fu con questa frase che mi aveva salutata sul letto di morte prima di quel lungo e triste arrivederci.
Le nuvole sono fiocchi di neve, e come tali ci fanno sorridere. Ci danno tristezza quando svaniscono e quando il sole con i suoi raggi le scioglie. Sono la dimora di chi amiamo, un luogo senza indirizzo, senza mezzi per comunicare ma solo con il pensiero che un giorno la parte del cuore che ci è stata sottratta tornerà ad appartenerci. Per ora solo con la mente ti posso abbracciare. Ciao nonna Mary.
La vita ci insegna …
Ho sempre cercato di non dimenticare i mille insegnamenti della nonna, ma non sempre le cose sono andate come volevo. Ho provato a trovare il vero amore, quello che si identifica perfettamente in quel “per sempre” pronunciato dal sacerdote sull’altare. Oggi a mente fredda riesco a raccontare tutto, ma durante la mia esistenza ho saputo solo che mille sono le salite e altrettante le discese. Generalmente la facoltà di far scelte sulla nostra vita c’è concessa, eppure non sempre riusciamo veramente a optare per ciò che vorremmo, trovando sul nostro lungo cammino di tutto, tranne quello che c’eravamo prefissati.
Ci sono frasi che rimangono impresse nella nostra mente, che riemergono ogni tanto rubandoci un sorriso, un dolce ricordo di un’emozione trascorsa. Io ne ricordo una in maniera particolare: la mattina, mentre davo una mano a tagliare delle rose da portare in casa alla nonna, ne presi una e la fissai, era bellissima, di un rosso con delle venature nere. La natura non smetterà mai di stupirci. La nonna mi afferrò la mano e con la sua infinita dolcezza mi disse: «Un giorno, in punta di piedi, salirai una scala infinita, dove ogni gradino rappresenterà qualcosa. Troverai quelli un po’ più profondi, bassi, alti, qualcuno addirittura lo farai a occhi chiusi, ma salirai sempre più. Non saprai dove ti condurrà, capirai solo che la dovrai scalare. Stai attenta, perché dovrai rispettare il padrone, sì, quello che la pulisce, che la tiene sempre perfetta e funzionante, e se non lo rispetterai, ti assicuro che non potrai nemmeno avvicinarti a quella scala. Quando poi arriverai a quell'ultimo gradino e ti chiederai chi mai sia questo padrone che merita tanto rispetto, basterà che osserverai attentamente uno specchio che si troverà di fronte a te!». Solo dopo capii il vero significato delle parole della nonna, potevo essere circondata dai tramonti più belli, da fiori delicati e rari, ma la vera bellezza stava dentro di me, e se non lo avessi mai capito non avrei potuto apprezzare le meraviglie della natura.
Il mio destino …
Non dimenticherò mai come iniziò il mio disegno di vita, come fu dipinto dal destino con mille colori, i più forti, i più deboli, alcuni sconosciuti, altri indelebili.
Non ho un carattere lamentoso ma quel sibilo m’infastidiva.
Accompagnava sgradevolmente il mio risveglio lento, affannoso. Ero stordita.
Non capivo, dove fossi e tantomeno il perché mi trovassi in un luogo sconosciuto. Non ricordavo assolutamente nulla: il mio ato era stato rimosso. Mi destai e trasalii: ero all’interno di una sala operatoria.
Attorno a me quattro mura bianche che, se avessero potuto parlare, avrebbero raccontato di quante vite erano state salvate all’interno dello spazio che racchiudevano. Erano pitturate con emozioni, lacrime, abbracci e conforti, dipinte con l’umanità di medici, pazienti e infermieri.
Sei persone attorno ad un lettino stavano silenti; il loro mutismo amplificava quel dannato fischio.
Ero in piedi ma nessuno badava a me, né tantomeno io cercavo di farmi notare.
Sentivo freddo. Ricordavo di possedere un cappotto e una borsa che parevano svaniti nel nulla. Indossavo solo la mia camicia bianca in raso, una gonna e un paio di sandali, eppure mi sentivo nuda innanzi a quella realtà.
Il mio unico obiettivo, in quel momento, era trovare la fonte di quel sibilo che mi stava facendo impazzire e neutralizzarlo affinché i miei timpani e il mio cervello ritrovassero requie.
Mi guardai intorno, due o forse tre volte, finché fissai la parete sulla mia destra. Solo allora individuai perfettamente la provenienza del fischio ma, con meraviglia, proprio in quell’attimo lo stridio cessò.
Ero convinta che mettendo a tacere quell’insopportabile sinfonia meccanica avrei restituito il sorriso ai presenti. Ascoltare solo il silenzio mi rese gioiosa.
«Finalmente!» fu il mio primo pensiero soddisfatto.
A generare il suono era stato un marchingegno noto di cui non ricordavo il nome specifico; lo avevo visto tantissime volte nei film ambientati negli ospedali: veniva usato per il controllo dei battiti cardiaci del paziente.
Era posto accanto ad un lettino. Alla sua destra, a qualche metro da me, c’era un corpo coperto da un lenzuolo bianco. La sagoma era immobile: le punte dei piedi sollevavano il tessuto che ricadeva gentile sulle gambe fino al capo opposto, in cui si rialzava prima sui seni e poi ancora sulla nuca. Nessun movimento del petto, nessun segno di vita!
Dalla mia posizione, valutando le protuberanze dei seni, riuscii a capire che il corpo era quello di una donna, ma non ero in grado di scorgere altri particolari.
I medici discettavano tra loro, attribuendo il decesso a un incidente.
Il suo cuore aveva cessato di battere e, come avevo sempre pensato da bambina, mi augurai che quella donna avesse lasciato il nostro mondo per una vita migliore.
Calò ancora un silenzio carico di tristezza che in breve s’impossessò della sala, avvelenandomi.
Il mio cuore batteva velocemente; percepivo una sensazione di vuoto, dolore, impotenza. Non capivo cosa mi stesse capitando, era come se riuscissi a captare le sensazioni dei presenti, sentirne le emozioni, i pensieri, ma soprattutto farne parte in prima persona. Era tutto assurdo!
Un richiamo interiore più forte della mia stessa volontà mi attirò verso il lettino.
Avanzavo e dubbi arcani accrescevano nel breve tragitto che mi separava da quel lettino. Nessuno si curava di me.
Giunta a pochi i dal corpo iniziai a tremare. Mi domandavo perché. Il respiro si fece affaticato come se l’ossigeno della stanza si fosse improvvisamente rarefatto.
D’incanto, strozzandomi in gola perfino lo stupore, mi trovai di fronte ciò che mai nessuno vorrebbe vivere nella sua vita.
È trascorso tanto tempo da allora, ma ancora oggi mentre scrivo e vi racconto la mia storia mi è difficile trovare le parole adatte. Quella donna ormai cadavere, distesa senza più alcun alito di vita, alla quale cominciavo ad affezionarmi … ero io!
Come se la mia storia fosse già scritta …
Non vi era luce all’interno di quella stanza, come se la mia storia fosse stata già scritta. La cupezza angosciosa del buio era spezzata solo dal chiarore dei neon, e mi chiamava a sé a braccia tese.
Fui avvolta da una stretta invisibile, ricca di un calore lievemente triste. Nessun sogno. Nessun incubo, solo realtà.
Chi ero diventata? Un Angelo, uno spirito o semplicemente l’anima del mio corpo?
Tanta incertezza, immensa confusione, rabbia e nervosismo.
Non riuscivo a ricordare niente dei miei ultimi momenti di vita: la mia esistenza era stata cancellata con la stessa semplicità con la quale uno strofinaccio pulisce la lavagna dal gesso. Che cosa era accaduto? Di quale incidente parlavano i medici? Era un mistero! Uscii dalla sala operatoria e mi ritrovai in un lungo corridoio dalle pareti bianche; sfiorai qualche barella vuota.
Lo percorsi tutto senza voltarmi, come se allontanarmi dal mio corpo servisse ad alleviare la pena che provavo. Forse, quella pazza corsa mi avrebbe ridato la vita e con essa la mia famiglia.
Non percorsi molta strada nella mia fuga e incontrai diverse persone, ma nessuna mi notava, ero invisibile agli occhi di tutti.
In fondo al corridoio, in un angolo, trovai una panchina, mi accomodai per pensare, domandandomi se quel luogo sarebbe diventato la mia nuova dimora per molto tempo.
Guardavo attonita le persone attorno a me, cercando di capire quale brutto scherzo mi avesse giocato il destino.
Un’infermiera si avvicinò a un medico che percorreva l’atrio. Si fermarono proprio davanti a me. Parlavano di un’operazione stavolta. Origliai. La donna gli comunicò che l’intervento del paziente ricoverato nella stanza diciassette era riuscito alla perfezione.
Il medico, sbigottito, si limitò a dire poche parole: «Certo che la vita è strana. Quest’uomo ubriaco ha riportato solo qualche frattura, mentre la signora non ce l’ha fatta!».
Mi sentivo coinvolta in quel dialogo. «Parleranno di me? No … non è possibile. È tutto un incubo, presto mi risveglierò, lo so, devo solo stare calma e fare un lungo respiro», ma più dicevo questo e più mi sentivo una povera illusa. «È questo il aggio dalla vita alla morte? È così breve l’istante che separa il momento in cui esisti, vivi, respiri, da quello in cui non ci sei più?» mi domandai tristemente.
«Dio mio!» esclamai rammaricata.
«Cosa ne sarà della mia esistenza, di ciò che ho costruito? Sono stata solo una delle tante comparse! Che ci faccio ancora qui?».
Ero morta, uccisa da quell’ubriacone che invece si era salvato.
Strepitavo velocemente, sperando che sentire quelle parole dalla mia stessa voce potesse suggerirmi cosa fare. Volevo andarmene! Era solo questo il mio pensiero, fuggire da quelle quattro mura e proseguire la mia strada, chissà, forse verso il cielo, se quello fosse stato il mio nuovo vivere.
Solo in seguito capii che il tempo è maestro e che restare calmi davanti a tutti gli avvenimenti della vita è l’unico modo per affrontare coerentemente quello che ci viene incontro.
Mi tornò in mente l’ubriaco: quell’uomo, in condizioni d’ebbrezza, non si sarebbe dovuto mettere alla guida. Una rabbia incontenibile mi assalì mentre il corridoio lentamente si riempiva di pazienti. Vicino a me si accalcavano persone in fila per delle visite, altre per accompagnarle; e m’infastidivano, tutto mi ruotava vertiginosamente attorno, finché un senso di nausea prese il sopravvento. Quella notizia, il sapere che una persona senza lucidità si fosse messa alla guida della sua macchina, impedendomi così di continuare a vivere la mia vita, era inaccettabile, tanto più se egli si era invece salvato.
Il mio cuore soffriva avvolto da un velo di tristezza, perché sapere di essere impotenti, rende tutto più difficile.
Erano attimi unici, indescrivibili. Ero ata dalla vita alla morte in un lampo, così in fretta da non rendermene conto. Adesso avevo solo domande infinite che mi frullavano nella testa: dove sarebbe finito il film della mia esistenza? Si sarebbero presto scordati tutti di me? E il mio presente? Cosa mi aspettava in futuro?
Un lungo respiro …
Chi sono? Che cosa sono diventata?
Avevo sempre posseduto la convinzione di essere una brava cristiana, sì, non frequentavo la chiesa, ma in fondo non ero così male, c’era di peggio.
Le mie certezze sembravano adesso le uniche amiche che mi afferravano per mano e mi davano conforto per andare avanti.
Ero confusa, non riuscivo a capire in quale posizione temporale mi trovassi. Molto lentamente i ricordi riaffioravano, mi avano davanti tutti gli anni della mia vita, rivivevo il mio ato.
Seduta per terra, con la testa fra le ginocchia, tentavo di ricordare chi fossi; era come se stessi aprendo dei cassetti molto lentamente, e i ricordi riemergevano, pian piano, e mi permettevano di ripercorrere gli ultimi anni della mia vita. Come spettatrice attenta guardavo i volti delle persone che avevo conosciuto. Iniziavo a non sentirmi più solo di aggio. Proprio in quell’istante, vidi due figure venirmi incontro, una era più alta dell’altra. Scrutai meglio ed ebbi un tuffo al cuore: si trattava della mia famiglia. Per primo il piccolo Michael, un ometto di solo cinque anni, e accanto riuscivo a riconoscere la corporatura mio marito, il mio dolce compagno di vita, anche se il suo volto rimaneva sfuocato. Con loro avevo trascorso gli anni più belli della mia vita, anni in cui non c’era stato giorno che mi fossi allontanata da loro, neppure per un solo istante. Né febbre né infortuni né nient’altro avevano permesso al destino di distanziarmi da loro.
Non mi arrendevo all’idea che non li avrei più rivisti. Mi sentivo persa, sola.
Da oggi mi aspettava qualcosa di più grande, l’immensità mi aveva avvolto in uno stato chiamato impotenza. Ricoprivo un ruolo nuovo che starebbe stretto a tutti; ero un Angelo, diverso da come lo avevo sempre immaginato: non avevo le ali, i capelli biondi e gli occhi celesti. O forse non era niente, ed era soltanto la mia mente che mi giocava strani scherzi, ma l’idea di poter essere una creatura del Signore m’infondeva conforto.
Mi addolorava, eppure ora non potevo permettermi di pensare solo alla mia famiglia, dovevo capire chi fossi e cosa mi fosse successo, cercare di trovare una qualsiasi via di fuga. Non potevo arrendermi davanti al nulla senza lottare, e lo dovevo fare proprio per mio figlio, per mio marito.
La mia serenità …
Il tempo ava e cominciavo a vedere i lati positivi della mia situazione, percepivo con grande facilità gli stati d’animo dei pazienti e imparai a interagire con le loro anime.
Avevo deciso di vivere serenamente quella nuova esperienza, dopotutto non avevo nulla da perdere, e continuavo a cercare la soluzione a tutti gli enigmi nel più breve tempo possibile.
Il mio primo incontro con un’anima non lo dimenticherò mai.
Era una mattina come tante, l’odore di prodotti e alcol usati per disinfettare inaugurava un nuovo giorno.
In piedi davanti ad una finestra del corridoio, al primo piano, fissavo la nuova alba. Una nebbia fitta avvolgeva ogni cosa e i pazienti apparivano all’interno della struttura come se arrivassero dal nulla.
Erano diversi fra loro nel sesso, nell’età, nella razza, eppure le loro anime erano molto simili, e tutti andavano alla ricerca della propria serenità interiore. Giungevano numerosi, chi per una visita, un ricovero o addirittura per motivi più lievi come bersi una cioccolata calda al bar preso d’assalto ogni mattina.
Proprio lì, una tazzina rovesciata sul bancone attirò la mia attenzione. Sollevai lo sguardo e vidi una coppia giovane; potevano avere entrambi trent’anni. Lei, imbarazzata, si era appena versata il caffè sulla camicia mentre lui senza batter ciglio continuava a bere imperterrito la sua bevanda.
Mi avvicinavo fissando gli occhi della giovane donna e notavo la sua difficoltà nel comunicare con il compagno. Non erano fratello e sorella, amici d’infanzia o semplici conoscenti: no!, erano una coppia, tant’è che lui la guardava giocherellando con la fede al dito. Il ragazzo si avviò a pagare il conto e lei tremava sistemando la tazzina sporca sul bancone, quasi felice per non averla mandata in frantumi. La giovane continuava a mandare occhiate di sottecchi al suo compagno, pareva controllare se lui si curasse di come lei si copriva con la giacca la macchia di caffè. Il cameriere intanto depose la tazzina nel lavandino e ripulì con uno straccio umido il bancone.
Decisi di seguirli, era la prima volta che facevo una cosa del genere.
Da quel momento la mia permanenza all’interno della struttura ospedaliera cambiò radicalmente.
Erano distanti pochi i l’uno dall’altra, lei cercava timidamente di prendergli la mano, ma lui pensava solo a trovare un ascensore libero. Attesero pochi attimi e le porte si aprirono. Il tempo di far uscire le persone giunte al piano che subito vi entrarono. Entrai con loro anch’io.
Salirono di due piani. Sul display all’interno dell’ascensore comparve il numero due, lui si mise le mani in tasca, le porte si aprirono e senza rivolgere nemmeno uno sguardo alla moglie uscì. Questa con un velo di tristezza e testa china lo seguì.
Percorsero tutto il corridoio sino ad arrivare all’ultima stanza. Al loro ingresso uscirono un prete e due suore. Questi andavano di stanza in stanza a confessare chi ne avesse più bisogno.
Entrai nella stanza subito dopo i due giovani. La finestra semiaperta permetteva all’aria di circolare. Era tutto in ordine.
La giovane donna si gettò sul lettino ad abbracciare un’anziana signora dolorante. Lui, invece, rimase in disparte e le rivolse un semplice saluto con un cenno della mano.
Camminavo, giravo intorno a loro, li studiavo, non potevano vedermi, ne ero più che sicura. Cercavo di capire quale fosse il motivo che avesse attirato la mia attenzione nei loro confronti, giacché l’ospedale era pieno di casi simili.
Percepivo i pensieri di due adulti, marito e moglie, ma avvertivo tanto odio in loro: erano nemici che si detestano a morte.
L’anziana donna sdraiata sul lettino era sfiancata dalla debolezza. Era permeata dal dolore di una vita altalenante, vissuta tra pene e felicità, tra segreti e misteri che avrebbe portato con sé nella tomba.
I due giovani si accostarono ai lati opposti del lettino.
La vecchia stava male e, davanti agli ultimi attimi della sua vita, la figlia aveva
preteso dal compagno che almeno per un’ultima volta fingessero di amarsi ancora, soltanto per non dare un ultimo dispiacere all’anima della madre che, da lì a poco, avrebbe abbandonato per sempre il corpo. Sicuri di farla felice, senza capire che con quell’amore fittizio avrebbero fatto del male solo a se stessi, continuavano quella farsa inutile agli occhi della donna.
Mentivano, e si sa, l’inganno è uno dei mali peggiori dell’umanità. Fingendo alla persona che ci sta al fianco, tradiamo noi stessi. Mi chiedo se ci sia bisogno davvero di tanta ipocrisia per essere felici, senza capire che la finzione non è altro che una pugnalata che rechiamo a noi stessi, lesionandoci nella convinzione di essere sereni.
Lui era lì, annoiato, solo per senso del dovere,. Lei invece c’era per amore, si sentiva molto triste. Si erano amati, ma ora non c’era più nulla. Nessun conforto, nessun abbraccio, bacio o carezza per aiutarsi a vicenda, nulla che potesse alleviare quel momento tragico. Un sorriso incontenibile si formò sul mio viso, spontaneo, sarcastico.
Il mio pensiero era indirizzato con rabbia verso di lui.
Nulla potrà mai giustificare il comportamento di chi vuole are sopra i dolori di una persona che è stata importante per la tua vita anche solo un secondo.
Tra di loro adesso c’era solo un accordo: lasciare che l’anziana morisse serena, felice di vedere la propria figlia in buone mani.
La mia rabbia fu soffocata da un suono che riecheggiò all’improvviso, quello stesso sibilo che aveva attirato in precedenza la mia attenzione. Il cuore della
madre aveva cessato di battere. La povera donna spirò tenendo per mano le dita della figlia e roteando la testa da destra verso sinistra per rivolgere così il suo ultimo sguardo verso il genero che, colto di sorpresa da quello che stava accadendo, rimase attonito. La sua debolezza iniziava a venire fuori, testimonianza di quanto fragile sia il guscio di indifferenza e freddezza che non appartiene al genere umano. Possiamo crearci attorno svariate barriere, ma nessuna è così forte da custodire il nostro vero animo che alla fine affiorerà in tutta la sua luce.
Vidi la sua anima abbandonare il corpo proprio come era successo a me giorni prima, e questo mi profondeva paura e coraggio allo stesso modo. Potevo dirigermi incontro a quello spirito, dovevo andargli incontro.
Poi tentennai: le cose non si stavano evolvendo come mi aspettavo. L’anima dell’anziana sfilava via, svaniva lentamente come fumo di candela. Il suo spirito non si sarebbe trattenuto lì come il mio, a patire, a domandarsi quale fosse il suo compito; lei aveva un destino diverso dal mio. Si voltò verso di me, sorrise, mi guardò e disse: «Non c’è molto da fare per quei due, sono infelici, ma soprattutto sono soli. Il dispiacere più grande non lo danno a me, ma a loro stessi, nel non voler accettare l’amore e godersi la propria vita!». Quelle parole mi appartenevano e furono dei fendenti dritti al cuore.
Tacqui ripensando a quella frase. Mi avevano trovata impreparata, ero ancora incredula a ciò che mi succedeva. «Signora … perché sono destinata a tutto ciò, perché sono qui tra i vivi?» le chiesi con un groppo sulla gola, fissandola.
L’anziana mi sorrise come solo le mamme verso le proprie figlie sanno fare, e prima di voltarmi le spalle per l’ultima volta si rivolse a me: «Per te è troppo presto ragazza mia, devi ancora imparare ad amare, e per farlo devi iniziare da te, solo allora sarai pronta a percorrere la tua strada!».
Rivolse un ultimo sguardo dolce alla figlia e un altro d’amore all’uomo, sentimento di cui aveva bisogno per vincere l’indifferenza che rende debole e ipocrita l’essere umano. Dell’anima dell’anziana donna non rimase nulla. Tranquilla, elegante e distinta, come prima era apparsa ora scomparve, abbandonando questo mondo. Mi aveva scosso il suo sguardo malinconico capace d’insinuarsi fino alle mie profondità più remote. Si leggeva nei suoi occhi una verità indiscutibile: sapeva che sua figlia aveva messo su quel teatrino per compiacerla, e sapeva ancora meglio che una tale finzione fe male solo a loro stessi. Aveva imparato sulla propria pelle che fingere d’amarsi non rendeva giustizia alla propria esistenza; e sua figlia con il marito, di vita, ne avevano ancora tanta da percorrere insieme. Era certo che l’anziana, prima di dissolversi, non si fosse augurata nient’altro se non che sua figlia comprendesse, che capisse il marito, che tutti decidessero una volta per tutte se amarsi o allontanarsi reciprocamente per provare quello stesso, magico sentimento con qualche altra persona.
Non rimase con me, ma seguì il corso direzionale delle lancette dell’orologio, che incessantemente puntavano verso il basso per ritornare poi in alto, come se fossero richiamate dal cielo. Era quasi mezzogiorno.
Chinai la testa, delusa dalla situazione, e quando la rialzai la signora era scomparsa, come immaginavo.
Mi ritrovai nella stanza, sola, lambita dalla presenza dei due coniugi.
La ragazza, con una smorfia addolorata e acquosa, continuava a stringere la mano della mamma. Uno dei medici non poté far altro che confermare il decesso. Fu allora che la giovane s’inginocchiò ai piedi del letto, cercando quell’affetto sconfinato che da bambina la mamma le trasmetteva con le sue carezze.
Mi rimase impresso il comportamento del marito: la sua indifferenza, il suo non far nulla; si comportava come un perfetto sconosciuto senza offrirle conforto o appoggio morale, mentre per alleviare quel dolore insopportabile sarebbe bastata una semplice carezza, un abbraccio che le circondasse le spalle. Il silenzio dell’uomo era la conferma di quanta indifferenza ci fosse in lui, in quella stanza.
«Vergogna!» pensai in quel momento.
Qualunque fosse il motivo di tanto odio, in quell’istante si sarebbe dovuto mettere da parte, anche per poco, almeno per il tempo necessario a lenire la ferita, anche se, talvolta, neppure mille gesti possono rimarginare uno squarcio, se questo è particolarmente profondo.
Quel silenzio, se accorpato al volto quasi ghignante dell’uomo, raccontava più di tanti libri letti con voce stentorea.
Le lacrime scorrevano copiose, dividendo in tanti rettangoli difformi il viso della giovane donna. Rivolse il suo sguardo al soffitto. C’erano solo cemento armato e vernice bianca da ammirare, ma era ovvio che i suoi occhi vedessero oltre, osservavano le nuvole lattee mentre riempivano di sfumature un cielo limpido, il quale mai sarebbe svanito dai suoi ricordi, diventando per lei una ricorrenza triste e dolorosa: il ricordo dell’ultimo saluto alla cara madre, la donna che più aveva amato e più l’aveva amata. Come per incanto, come se la stranezza fosse divenuta normalità, il battito del cuore della figlia accelerò, e doppiava la lancetta dei secondi dell’orologio appeso alla parete. Riuscivo a percepire il ritmo cardiaco, tanta era l’emozione e il dolore che provava.
Attorno a me regnava una silenziosità cruda, a tratti dolorosa, ma schiacciata dalla verità delle cose, quella tangibile che si può vedere con occhio, toccare con mani e ascoltare con l’udito. E avvolgeva i presenti rendendoli deboli, incapaci
di qualsiasi tentativo di parola, di qualsiasi pensiero che potesse abbattere quel muro di quiete.
Rimasi ancora qualche minuto, intontita dal susseguirsi rapido d’eventi. Mi chiesi, dove fosse volata l’anima dell’anziana signora; mi dissi che le nuvole certamente si fossero aperte per accoglierla e far sì che, da lassù, potesse proteggere i suoi cari divenendo il loro Angelo custode.
C’era una domanda più ostinata che mi martellava i pensieri: questo episodio era stato solo un caso senza morale o dovevo trarne un prezioso insegnamento?
Non capivo se ci fosse un ordine delineato nelle cose, non mi era concesso saperlo, ma oggi invece so che da quell’esperienza trassi dottrine di vita che fino a quel momento avevo sempre ignorato. Ci sono istanti della giornata che mi portano a rivivere flashback della mia avventura scritta nel cuore, con inchiostro indelebile, senza un ordine preciso degli avvenimenti, per ricordarmi che alla fine il nostro vissuto apparterrà sempre al ato e che mai potremo disfarcene.
Andai avanti nella mia nuova dimensione. I momenti di condivisione e discussione con altre anime mi permettevano di mettermi in gioco, di capire più a fondo me stessa. Non avere nulla da perdere forse mi dava la necessaria tranquillità per distaccarmi e analizzare ogni situazione in maniera giusta e senza particolare empatia. Da morta, stavo esplicando quello che avrei dovuto invece fare durante la mia vita, ma purtroppo allora non avevo ben chiaro ciò che ora mi appariva perfino scontato e banale.
Il ruolo più grande che mi fu sottratto diventando Angelo fu quello di madre. Il mio piccolo Michael chissà che faceva! Non lo vedevo dalla mattina dell’incidente, prima che uscissi di casa.
Quel giorno lo avevo salutato con un bacio sulla fronte, con la certezza di riabbracciarlo la sera, come d’altronde facevo ogni santo giorno prima di recarmi in ufficio.
Ero una brava madre, molto premurosa, con un immenso senso protettivo anche nei confronti dei figli degli altri.
Questa qualità mi era rimasta anche dopo il trao, e la certezza l’ebbi quando mi trovai innanzi ad una ragazzina prossima a divenire mamma.
La luce che vede un neonato …
Era minorenne e si trovava nell’ospedale con sua madre e il fidanzatino. Lei era lì per abortire.
Era bellissima: una principessa costretta a combattere contro la sua regina madre e contro il suo principe, un amore infantile, troppo immaturo per non essere schiacciato dal peso di una decisione così importante. Non esiste un’età per essere madre o padre. La ragazza era consapevole, rifletteva, aveva il terrore che fero del male alla creatura che le cresceva in grembo. Aspettava e basta. Studiava i suoi cari divenuti nemici dall’oggi al domani. Il suo unico scopo di vita era diventato proteggere il feto che si apprestava a divenire bimbo, il suo tesoro d’inestimabile valore: un fagotto di carne informe con un battito già distinguibile che la incoronava madre, la cosa più bella del mondo.
Lo sentiva piccolissimo, impercettibile per tutti, ma non per lei, che dentro il ventre materno lo sentiva vivere e lo percepiva già figlio. Seduta sul lettino non ascoltava nessuno, e con gran senso di protezione teneva poggiate le mani sul grembo.
I capelli lunghi le coprivano parte del viso.
Proprio in mezzo a questa folta chioma nacque la consapevolezza che non fosse importante con chi e come avrebbe scritto la sua favola, l’importante era scriverla. Realizzarla!
Un piccolo sorriso apparve sul suo viso, adesso non aveva più la minima indecisione. La sua anima era forte, pronta a tutto e si presentava a me diversamente da quelle incontrate sino ad ora. Solo in quel momento capii che mi trovavo lì per dare coraggio alle persone indecise. Dovevo impedire che uccidessero inconsapevolmente il proprio spirito.
La ragazza, seduta sul lettino con le gambe penzoloni, scese decisa fissando in faccia i presenti, girò le spalle e continuando a tenere una mano sulla pancia se né andò pronunciando solo poche ma significative parole:
«Certo mamma, sono pronta. Ho preso la mia decisione!». Oltre allo sgomento della madre, l'unica emozione che riuscii a percepire fu quella del medico. Un sorriso tenue appoggiava la sua scelta.
Ragazza mia, se mai ti trovassi a leggere queste righe, va avanti così e non cambiare. Non rinunciare mai ai tuoi sogni e al tuo modo di essere, non cambiare mai se non per tuo figlio, per te stessa.
Credo che sia giusto osservare le gesta degli altri, ma senza andare alla ricerca di emulazioni. Dobbiamo sempre tenere a mente che la nostra vita è un fumetto in cui i veri eroi siamo noi, non gli altri.
La madre guardava la figlia con distacco, quasi con rancore, credo si fosse dimenticata di quanto sia bello stringere il proprio bambino tra le braccia. Diventare madre non è un fattore riconducibile a un’età precisa o a situazioni delineate da una società in cui è vietato uscire da schemi che altri hanno dettato per noi. Diventare madre deve travalicare il senso di vergogna che ti assale quando vedrai gente che parlerà di te, della tua famiglia, di tua figlia che è diventata ragazza madre troppo presto. Quella donna doveva dimenticarsi di tutto e mettere in primo piano la creatura che stava per venire al mondo dal
grembo di sua figlia.
Era così tragico fregarsene della gente quanto per appoggiare la scelta della propria figlia?
Nel dire sì o no talvolta ci vuole coraggio, e alcune scelte inizialmente difficili, che pesano come macigni, in futuro possono invece donare una felicità incommensurabile. Anche se sembra dura fare la scelta più impopolare, è necessario provarci per eliminare rimpianti futuri che in ogni momento potrebbero ripresentarsi forti, crudeli, ricordandoci di non aver avuto il coraggio di osare, di provare solo per le occhiate degli altri, senza pensare realmente al nostro volere. Bisogna rifuggire le decisioni false che non ci vengono da dentro, perché poi, altrimenti, fisseremmo per tutta la vita la nostra immagine in uno specchio senza riconoscerci.
Bisogna ardire, tentarci almeno una volta, e urlarlo a noi stessi prima che a tutto il mondo, solo così il rammarico si dissolverà.
Queste cose le ho capite troppo tardi, quando oramai i giochi erano fatti e la mia favola, scritta da altri, volgeva al termine.
Non tutti i ricordi che riaffioravano quel giorno furono benevoli per la mia causa.
Parlare di violenza …
Alcuni episodi che spesso si presentarono nei miei ricordi avrei voluto rimuoverli. Uno di questi parlava di violenza su una giovane donna.
Non ero io a scegliere gli eventi, ma qualcosa d’irrazionale mi portava da loro. Non c’era alcun filo conduttore che mi fe capire il perché mi si proponessero determinate vicende, e di come non tutte le storie mi rendessero partecipe. Alcune mi incuriosivano, anche se nessuna anima mi parlava.
Per anni nella mia quotidianità mi sono battuta per la libertà intellettuale, morale e psicologica della donna.
“Contro la violenza e a favore del sogno che diventa realtà”: era questo il mio slogan di battaglia. Mi prodigavo all’interno di piccole associazioni umanitarie di volontariato, per permettere a molte donne di realizzare i propri sogni.
È questo il motivo che mi porta a non dimenticare quando conobbi la donna, o meglio l’anima, per anni maltrattata dal marito. La povera donna, devastata da forti dolori addominali e intercostali, era costretta a recarsi periodicamente all’ospedale per essere medicata. Inutile precisare che mai vi fu denuncia nei confronti del consorte … almeno sino a quel giorno.
Ricordo bene l’incontro con quell’anima, come fosse oggi.
Vedendola provai un dolore unico, indescrivibile, che mi attraversava il petto di parte in parte con la stessa veemenza con cui un’onda s’infrange sullo scoglio.
Il richiamo che proveniva da quella stanza era impetuoso. Entrai come se già conoscessi la situazione, come se mi appartenesse. Gracile, esile: era questa l’immagine della donna che mi si presentò davanti e che mi lasciò senza parole. Riuscivo a percepire tutti gli stati d’animo delle persone ch’erano entrate in contatto con lei: la rabbia dei dottori, il dispiacere dell’infermiera e il disagio della donna. Il suo corpo era coperto d’ecchimosi in ogni centimetro.
Picchiata! Maltrattata psicologicamente! Violentata … urlai a me stessa.
Poteva essere accaduto di tutto a quella donna, anche un semplice incidente, ma io esclusi a priori questa possibilità. No! Ne ero più che certa: era stato il marito a ridurla così.
Mi accostai a lei, determinata, fissa sul suo sguardo perso, mentre il dolore si attenuava alleggerendomi il cuore, permettendomi di concentrarmi appieno su quello che stava accadendo. Una lacrima fuggiasca percorse velocemente il mio volto; era gelida come l’ambiente in cui mi trovavo, glaciale come l’anima di quella donna, esile come la sua vita appesa a un filo.
Parlava decisa, ad alta voce e senza tentennare, era nervosa: «Sono scivolata sul gradino più alto della scala, era ancora umido e non sono riuscita a reggermi sul corrimano. È stato un attimo. Non me ne sono resa conto. Potete curarmi e mandarmi via? Ve lo chiedo per cortesia, non posso fare tardi, devo preparare il pranzo!».
Donna, quante volte sei caduta da quella scala o ti sei dimenticata che i gradini erano umidi?
Quel corrimano che non sei mai riuscita ad afferrare e che sarebbe stato la tua ancora di salvezza sembrava irraggiungibile durante il tuo viaggio nel vuoto, come lo è il tuo animo e il senso della tua vita oggi.
Lo staff medico del Pronto Soccorso sapeva. Tutti erano coscienti della tua farsa. Non esisteva nessuna scala, nessun gradino umido. Ciò che avevi raccontato era l’unica maniera di salvare l’orco, quel mostro che viveva con te.
La dottoressa fece uscire tutti, voleva rimanere sola con lei, provare a parlarle, farla ragionare.
Iniziarono la chiacchierata, erano a faccia a faccia a breve distanza. Non riuscivo a sentirle, ero assorta dalle loro movenze che ai miei occhi parevano rallentate. Mi avvicinai di qualche metro. La dottoressa chiese alla paziente di sollevarsi la maglia. La donna, molto lentamente, si sfilò quell’unica barriera di tessuto tra realtà e finzione. La dottoressa analizzò lividi, graffi, abusi che rivelavano la vita impossibile di una donna suddita in una favola dal finale atroce: una principessa che prigioniera di un orco non riusciva a volare, a vivere fino in fondo la sua fiaba.
La mia anima ci parlò. Scoprii quanti dolori avevano riempito la sua vita, quanti soprusi e sevizie aveva dovuto subire.
Era una donna schiavizzata dal marito; in lei dominava la paura di andare dai medici e raccontare la buia verità, orrenda, che fa parte del ato, presente e, purtroppo, del futuro dell’umanità. Il terrore ha mille facce, tutte diverse ma con un unico significato: la violenza e l’abuso sulle donne.
L’essere uomini sembra dia il diritto di sentirsi superiori, forti, padroni delle vite degli altri, e tutte queste convinzioni spesso si trasformano in soprusi.
Usare la forza brutale per far prevalere le proprie idee è solo un metodo diverso di confermare quanto si è deboli, vigliacchi. Con i pugni si cerca di nascondere uno sgomento eterno che viene più facile trasformare in violenza, piuttosto che in forza di combattere.
Il rispetto è un’altra cosa! Ci si dimentica di quanto si sia fragili, delle debolezze che si hanno nel proprio animo, e si preferisce diventare forti e combatterle diversamente, a volte imponendo il proprio volere sugli altri. Questa brutalità non fa altro che confermare la paura di non riuscire ad affrontare diversamente i numerosi bivi che si presentano nella strada dell’esistenza. Si preferisce risolvere i dubbi cercando di imporre un pensiero, usando abilmente l’intelligenza o disumanamente la forza. Non esiste giustificazione, tanto meno quando ci si nasconde dietro il bere, o dietro un semplice schiaffo, perché la violenza non esiste solo quando si alzano le mani, ma inizia quando si riesce a trasmettere un senso di paura psicologica su chi ci sta vicino.
Spesso basterebbe una parola che chiarisca qualsiasi dubbio o litigio anziché l’orrendo gesto di una mano che si solleva minacciosa, che in modo atroce viaggia spedita sul corpo della donna, annientando l’orgoglio di chi subisce ingiustamente in silenzio.
Mi chiesi quante notti di sofferenza avesse ato quella donna, quale orrore
avesse vissuto. L’orco evidentemente trovava normale la bestialità: nessun dialogo, solo percosse indirizzate su un corpo che si piegava rumorosamente, solo schianti che echeggiavano fino al cuore. Gli ematomi non si contavano più, così come le dosi di farmaci dedite a mitigare e poi assorbire il dolore. Quella relazione era un inganno, un trucco più crudele del make up utilizzato per camuffare i segni delle efferatezze sul volto. Ormai le lacrime di terrore erano diventate sorelle con cui sfogarsi, erano fiamme che alimentavano un’oscurità d’animo sempre più fitta. Doveva però farle paura anche il silenzio: era in quegli attimi di riflessione che l’orco progettava, e aspettava qualsiasi frase restituita malamente, un semplice pretesto per imporre la sua figura maschile, anche una sola parola, giusta o sbagliata, che funzionasse come una tanica di benzina gettata sul fuoco.
La paura era indicibile, troppo grande per essere vinta da una denuncia. E così, la vita della donna non era mai cambiata.
Fissavo la paziente, la sua anima a testa china tremava ad ogni minimo movimento azzardato da parte del medico. Era confusa.
Poi pronunziò ancora quelle poche parole, decise e forti e malinconiche allo steso modo: «Dottoressa, è stata solo una brusca e rovinosa caduta dalla scala, nient’altro!».
I suoi occhi parlavano, la sua anima sussurrava, ma le sue labbra adesso erano immobili. La dottoressa sapeva benissimo ciò che era accaduto, ma ormai era rassegnata. La donna che aveva davanti, ogni volta che si alludeva alle violenze del marito, prontamente negava; ma lo faceva a testa bassa, reggendosi con la spalla dolorante, senza l’audacia di reggere lo sguardo accusatore negli occhi degli altri, e diceva, anzi implorava: «Mi dia qualcosa per alleviare il dolore e mi faccia andare, devo preparare il pranzo, per favore dottoressa, glielo chiedo da donna a donna, da madre a madre, prima che lui rientri, per favore!».
Quelle parole mi fecero provare una pietà che nessuno dovrebbe sentire per un altro cristiano. La dottoressa era decisa a cambiare le cose e continuava con insistenza a pretendere la verità, che sarebbe stata l’unico rimedio per aggiustare la scala rovinata prima che si rompesse del tutto. «È stato suo marito, vero? Quanto tempo vuole che vada avanti questo scempio? Lei deve farsi aiutare!». Afferrò una matita, la depose e prese una penna, poi stropicciò dei fogli impilati sulla scrivania. Era nervosa. «Lo faccia per lei, vedrà che tutto si sistemerà, sarà protetta, e poi deve pensare a suo figlio, lo faccia per lui!».
La parola “figlio” scatenò nella mia mente una sequenza di brevi e veloci immagini di Michael, il mio bambino.
Era sereno e giocava con il suo castello: «Questo è il nostro regno, qui dentro siamo al sicuro, mai nessuno ci farà del male, io sono il re e tu la mia principessa!» canticchiava.
Provai un’emozione indescrivibile nel rivederlo.
Quando le immagini svanirono, la tristezza s’impossessò di me.
Mi voltai verso la donna. I suoi occhi erano sempre più spenti, oscurati da anni di sofferenze, e ricercavano solo po’ un po’ di tranquillità, un nuovo sorriso, una vita anonima di pace.
Con un lieve cenno del capo fece capire alla dottoressa che non poteva soddisfare le sue richieste. Non sapeva perché, ma non aveva il coraggio di far
sparire per sempre quel demone che la faceva sentire una nullità, una serva.
Al suo fianco, a ridosso del cuscino, stava una cartella clinica molto spessa. All’interno vi era un fascicolo che il medico controllava minuziosamente, e ogni foglio raccontava di ricoveri, violenze; ogni pagina erano lacrime versate e lividi curati.
La sua casa, quella che anni fa era stata un paradiso, oggi era diventata la dimora del diavolo.
La sua anima non esisteva più, si rifiutava persino di guardarsi allo specchio, di chiedersi cosa volesse dalla vita, e che fine avessero fatto i suoi sogni. Non sorrideva più da anni, solo il figlio le permetteva di andare avanti. Tanti i natali e i compleanni vuoti, ognuno dei quali trascorso pregando che asse tutto in fretta. La fine di un giorno significava l’inizio di un altro, e cosi via, settimana dopo settimana, mese dopo mese, anno dopo anno.
Era così abbattuta che arrivava a provare vergogna per se stessa ... ma perché?
Era vittima di quel massacro e in più senza accorgersene la sua anima voleva andar via, rifugiarsi nella morte, l’unico rimedio per sfuggire a quel dolore che la opprimeva nell’orgoglio oltre che nel fisico.
Girai le spalle, volevo andarmene. Non sopportavo la situazione, non capivo perché mostrasse così tanta ostinazione nel voler salvare un mostro. Ancora pochi i e sarei uscita dalla stanza.
Mi sentii osservata. Arrivò una carezza invisibile che mi scostò i capelli. Mi voltati di scatto. Era la prima volta che percepivo quella sensazione. Non so come, né perché, ma la donna iniziò a guardare dalla mia parte, era come se mi fossi materializzata in carne e ossa ai suoi occhi, anche se ero certa che lei non potesse vedermi. Quella donna aveva qualcosa di diverso dalle altre, era come se la conoscessi da sempre.
Accettai quello sguardo come una sfida. Mi avvicinai di più a lei, lentamente.
Fu allora che l’anima della donna si rivolse a me.
E caddi in un silenzio che sarebbe potuto durare un’eternità. Nella quiete, focalizzai ciò che stava accadendo.
Anima cieca …
Era un’anima cieca, così la definii per via del suo chiudere gli occhi innanzi alla realtà senza lottare, lasciando che altre persone si impossessassero della sua vita. Moriva senza accorgersene.
Quella donna voleva solo parlare ed essere ascoltata. Se escludeva i dottori, erano anni che non discettava con nessuno. Mi rivolsi a lei senza che mi degnasse di un minimo sguardo. I miei occhi ingenuamente fissavano gli ematomi verdi, rossi, violacei, che tatuavano quell'esile corpo facendolo diventare una mimetica militare. Addome, seno, cosce, collo, viso: tutto era tumefatto. Mi chiesi in quell’attimo che senso avesse la sua vita.
Sentendomi ignorata, mi feci avanti per capire se poteva vedermi sul serio, e cercai d’instaurare un dialogo.
Inizialmente la sua anima mi temette. Gli strazi inimmaginabili che aveva subito si erano annidati come germi all’interno del suo cuore, e costituivano una maledizione che nessuno avrebbe mai potuto cancellare. L’orco era riuscito nel suo intento: non farla più sorridere.
Se nella nostra vita verrà a mancare il sorriso, nessun tipo d’amore esisterà più.
Pensai che per farla sentire a suo agio mi sarei dovuta mettere al suo stesso piano. E così feci. Non la guardai negli occhi, provai a percepire solo il suo senso d’afflizione.
Iniziai a parlarle: «So che mi puoi sentire! Nessuna delle due sa con certezza cosa siamo, ma io so quello che provi, lo sento, e in più voglio attribuire un significato al mio spirito vagante!».
A testa china continuava a ignorarmi, ma sapevo che mi ascoltava. «Arriva un momento nella vita in cui ci dobbiamo chiedere chi siamo, qualunque sia il nostro stato d’animo. Il problema non è pensare cosa siano per noi quelle persone che ci danno felicità o tristezza, ma cosa siamo per noi stessi, perché il rispetto per noi viene prima di quello che diamo agli altri!». Imperterrita continuava a rimanere con la testa rivolta verso il basso, ma io sapevo che non dovevo mollare; le presi il volto e le spalle costringendola a guardarmi, e continuai con il mio monologo: «Ecco perché la mattina quando siamo giù, o abbiamo voglia di gridare, sfogarci, proviamo a guardarci allo specchio e ripetere forte il nostro nome! Lo facciamo per ricordarci che abbiamo una vita cui rendere conto, lo facciamo per capire che se sino a ieri non ci riconoscevamo più, oggi dobbiamo riprenderci la nostra vita. Se questo non accade allora abbiamo perso il controllo di noi stessi! Da lì, allora, è necessario pensare che bisognerà fare qualsiasi cosa per il nostro futuro. Trova la forza per vivere al meglio la tua esistenza. Non pensare a quello che penserebbero di te la tua famiglia o i tuoi amici, perché se veramente ti amano capiranno qualsiasi scelta appoggiandola!». Ormai il discorso proseguiva sempre più deciso.
Mi sentivo bene. Staccai le mani da quell’anima e senza più voltarmi puntai l’uscita della stanza. Più di quello che avevo tentato, non mi era concesso fare.
Mentre stavo per varcare la soglia, fui pervasa da una sensazione piacevole che mi spronò a tornare sui miei i. Mi voltai. La sua anima ora mi fissava con due occhi tristi, spenti, ma dalle sue labbra gonfie spuntò un piccolo sorriso.
Forse voleva solo ascoltare due parole, confrontarsi, liberarsi, avere una persona vicina, ma sta di fatto che l’anima senza commentare tornò nel suo corpo.
Ora potevo serenamente lasciare quella stanza.
Mi voltai e la lasciai sola con la dottoressa.
Per il successivo periodo della mia permanenza non vidi più quella donna. Non avevo la certezza di quali fossero stati i suoi i e nemmeno se mi avesse dato retta o ancor più se avesse denunciato il tutto, ma mi dava gioia vedere la sua cartella clinica ancora lì, ferma all’ultima data di visita effettuata lo stesso giorno che l’avevo incontrata. Nessuno aveva più abusato di lei, e sentivo la sensazione forte che quella donna finalmente stesse vivendo!
Percorrere una strada tra tante …
Nessuno sa come potrebbero essere le nostre vite se in ato le scelte prese fossero state diverse: non c’è data possibilità né di conoscere il futuro né tanto meno di tornare indietro nel tempo e rimediare agli errori. C’è solo concesso di prendere una strada tra tante, un sentiero che inizia in salita, che ci impedisce di vedere oltre quel dosso, che ci perpetua il dubbio su quanto saggia possa essere la decisione appena presa; una scelta che, solo una volta vissuta, ci regala quell’emozione di gioia o pentimento, con la certezza di tutta una vita davanti per migliorare.
Il mio viaggio è continuato per mesi, e sono tantissime le anime dei pazienti che ho conosciuto: sofferenti e felici. Ma sono anche tante le anime dei dottori, infermieri, parenti, e tutti avevano sempre un solo punto d’incontro: l’amore.
Ci sono posti, dove l’amore viene percepito con maggior enfasi, credo che l’ospedale sia uno di questi. Qui puoi palpare il vero amore a mani nude, l’amore tangibile, che dà vita alle lacrime, alle gioie e alle speranze uniche e singolari.
Sembrerà strano, ma quando ci si trova vicini al perdere qualcuno cui non si sono date le giuste attenzioni, l’amore nei suoi confronti diventa immenso, e si diventa pronti a tutto per lui, senza pregiudizi o vergogna, come se ci servisse essere stimolati dalla morte di una persona cara per divenire noi stessi e tirare fuori quella parte che l’orgoglio o l’imbarazzo hanno sempre soffocato.
La nostra sincerità...
Mi recavo ogni mattina alla cappella dell’ospedale, alla ricerca di quel dialogo impossibile con Dio che mai arrivò. Il Cristo in croce restava a capo chino, silente, immobile, qualsiasi preghiera gli dedicassi. Era una pace diversa da quella che chiedevo io. Accanto a me vidi un giovane che pregava in ginocchio, proprio sotto la croce di Cristo, e piangeva, cercando di nascondere le lacrime con le mani che continuavano a scorrere sul suo volto.
Com’era mio solito fare, mi accostai, non avevo intenzione di disturbare le sue preghiere, mi bastava stargli vicino nella speranza che la mia anima potesse dargli conforto.
Presentava due grandi occhiaie livide che gli incupivano il viso roseo e delicato, era probabile che non dormisse da svariate notti. I suoi occhi si chiudevano e aprivano a scatti. Implorava il Signore a voce bassa, e quel mormorio afflitto mi fece capire perché fosse là: pregava per la sua amata, che dopo un incidente vagava in quel limbo sconosciuto chiamato coma.
Quella sua preghiera, che mai dimenticherò e che ogni giorno riecheggia nella mia mente, era un discorso tra lui e il vuoto di una chiesa che certamente Dio riempiva con la sua presenza: «Ciao … Dio. Sono qui innanzi a una statua che raffigura il dolore patito da tuo figlio Gesù. Ieri mi sono soffermato a pensare a ciò che era, a ciò che è; ma mi chiedo soprattutto che sarà della mia vita. Dai dispiaceri e le gioie ate ho capito diverse cose! Ora sto piangendo, è vero, eppure ringrazio il destino perché mi ha dato la possibilità nella mia vita di conoscere la donna che con un semplice sorriso si è impadronita del mio cuore. L'ho conosciuta e non uscirà più dal mio cuore, e quando sarò triste per qualcosa, penserò a lei. Finché potrò, resterò sveglio al suo fianco a vegliarla, perché
quando si risveglierà del coma, io sarò lì presente a tenderle la mia mano, e con essa la mia vita!».
Quel giovane parlava col cuore, ed io non riuscivo a trattenere il pianto nell’assaporare le sue parole. Avrebbe rinunciato a tutto, persino alla sua stessa vita, pur di rivederla sorridere. Si alzò, si asciugò le poche lacrime rimaste sul suo volto e uscì dalla cappella.
La ragazza, appena una settimana più tardi, uscì dal coma. Non so se siano servite le parole di quel giovane per il miracolo, ma so che davanti a Dio lui aveva liberato la sua vera natura, e ora poteva stringere ancora la sua compagna, e non era un sogno, era vero. Si era levato la sua armatura da uomo, ed era ritornato a essere quello che in fondo siamo tutti, umili figli di Dio che, nel momento del bisogno, chiedono aiuto al loro Padre.
Era pura poesia, celestiale melodia, vedere la sua gioia mentre fissava l’amata che si risvegliava dal quel sonno profondo. Lei lo fissò: «Grazie! Ti ho sentito forte, vicino a me, ho percorso la mia strada cosciente che alla fine avrei rivisto te dietro quella profonda luce, ed eri fiero di me mentre mi aspettavi per continuare la nostra strada in questa vita! Ti amo!».
Aveva fatto qualcosa che pochi hanno l’audacia di realizzare, mettendo da parte rabbia ed egoismo: aveva semplicemente aperto il suo cuore, amando se stesso, amando la sua compagna, amando il Signore.
Avvenne in quel momento che una carezza soave mi scostò i capelli, mi accarezzò il viso, mi trasmise calore, e un brivido percorse tutto il mio corpo elargendomi piacere. Avevo ormai compreso che il mio futuro era lontano dalla mia famiglia, ma prima avrei dovuto levarmi tutti i dubbi. Pensai che dall’alto mi fosse concessa la possibilità di alleggerirmi il cuore e cosi decisi di affrontare
il paziente della stanza diciassette. Non sapevo come avrei reagito nell’incontrare il mio carnefice, ma dovevo farlo. Era arrivato il momento di armarmi di coraggio e affrontare forse per l’ultima volta il mio destino.
Lentamente varcai la soglia …
Un’infermiera uscì dalla stanza proprio mentre vi entrai, ci sfiorammo. Lentamente varcai la soglia della porta che per tutto il mio trascorso in quelle mura mi divise dalla mia verità. Vidi subito l’uomo sdraiato sul lettino, accerchiato da macchinari per il monitoraggio del suo stato di salute. Mi invase una sensazione di pace, colmava lo spazio vuoto di quella stanza. La sua salute migliorava, tutto sembrava andare per il meglio, era fuori pericolo da quello che i medici dicevano, un sorriso si materializzò sul mio volto, non era sarcastico, era vero. Mi feci coraggio e mi avvicinai, sentivo tanto calore. L’ambiente era sempre più divino, il coraggio si era materializzato e con due forti braccia mi avvolgeva. Mi sentivo al sicuro, quel tepore era una forza, adesso mi sentivo invincibile. La rabbia nei confronti di quell’uomo era solo un vago ricordo.
Dopo pochi i ero a ridosso del lettino, il mio sguardo cadde sulla sua mano che pendeva dal lettino con la flebo.
La mia prima emozione fu un dolce sorriso indirizzato a lui, ero felice che stesse bene, quell’odio che avevo provato in questi giorni fissando la sua porta era svanito, non riuscivo a portargli rancore.
L’uomo anche se non mi vedeva, girò lo sguardo nella mia direzione, il suo volto sereno si contorse sino a permettere a una lacrima di fuoriuscire dall’occhio serrato. Rimasi molto colpita, era come se mi stesse chiedendo perdono, non poteva comunicare con me, ma quella lacrima in quel momento valeva più di mille parole. Mi scostai come se volessi fuggire dal suo sguardo, ma lui non mi poteva vedere, lì dentro nessuno mi percepiva.
Dopo giorni avevo davanti a me l’individuo che a causa dell’alcool mi interrupe bruscamente la vita. Lo fissavo dalla testa ai piedi mentre un suono ritmico emesso da una delle macchine a lui collegate si alternava a quel pesante e snervante silenzio. Mi poggiai ai piedi del suo letto. Allungai la mia mano quasi a sfiorargli le sue gambe. In quel preciso momento una grande forza m’investì e con la mente mi ritrovai a rivivere attimi di vita dell’uomo.
Fui catapultata in un mondo per me nuovo, era la sua vita. Vedevo in quei scorsi di tempo una brutta infanzia, vittima di violenze da parte di coetanei e genitori che abusavano del suo minuto corpo, la sua vita era stata un inferno. Si era rifugiato nell’alcool con la speranza che tutto fosse rimosso dalla sua mente e cosi accadeva, ma solo per le poche ore che la sua mente era confusa, perché dopo i brutti ricordi tornavano a prendere il sopravvento più forti che mai.
Mi alzai dal letto abbattuta, adesso mi sentivo io in colpa nei suoi confronti dopo aver visto quante sofferenze l’uomo avesse patito. Non so se quanto successo gli sarebbe servito per abbandonare definitivamente l’alcool e riprendere a vivere serenamente la sua vita con la sua famiglia, ma so di aver imparato un’altra lezione di vita: non si può giudicare nessuno senza sapere come hanno percorso la propria strada.
Lo fissai per l’ultima volta, lieta di sapere che era fuori pericolo. Comparve sul mio volto un grande sorriso, sincero, profondo, senza più smagliature, era quello del mio perdono.
Dentro la stanza diciassette riuscii a perdonarlo percependone in lui uno stato di assoluto e profondo dolore, era cosciente di quanto avesse causato nel suo gesto irresponsabile, ma ancora più era consapevole che la sua vita sarebbe radicalmente cambiata da quel momento in poi.
Avevo capito che la vita è troppo breve persino per coltivare odio o rancore nei confronti di chiunque ... già, troppo breve!
Credo che non ci sia cuore che non voglia provare almeno una volta ad amare, non ci sia animo che non possa e voglia amare, non ci sia odio che non si possa convertire in amore, non ci sia speranza che non si possa tramutare in realtà e ci sia sempre amore, anche se non si vuole.
Non so se questo mio perdono abbia stravolto la mia vita da Angelo, ma da quel momento, da quel fatico giorno in cui decisi di affrontare il paziente della stanza diciassette mi fu concesso di rivedere la mia famiglia.
Arrivò puntuale il mio destino …
Sin da bambina, quando mia madre mi leggeva una favola, non riuscivo a goderne la bellezza sino in fondo perché la consapevolezza che sarebbe giunta la fine mi creava una sottile tristezza. Ogni racconto, bello o brutto che fosse, giungeva al termine. E come accadeva con le favole di mia madre, con un velo di dispiacere, stava per giungere anche per la mia favola il tanto atteso finale. Stavo per essere incorporata a quella luce fortissima che mi avrebbe finalmente indicato la strada da percorrere. E mi si presentò, abbagliante, calda, e rischiarava la mia famiglia che al completo giaceva tra due colonne romane. Erano loro la mia luce: mio marito e mio figlio.
La sirena spianata di un’ambulanza annunciò il nuovo giorno. Quella cantilena stridente andava di pari o con i battiti del mio cuore che incrementavano. Un dolore m’investì. Arrivava veloce, spavaldo. I medici e gli infermieri si assieparono nel corridoio e seguirono la barella che i volontari spingevano a folle velocità: ogni secondo era prezioso per la vita del paziente. Quel caos era diverso dalla solita frenesia che avevo avuto modo di vedere nei giorni trascorsi ad aggirarmi per gli anfratti dell’ospedale. Le mie gambe si muovevano da sole e mi spingevano verso lo stuolo di medici e infermieri. Riconobbi una psicologa che avevo conosciuto quando ancora ero in vita; attendeva l’ascensore per scendere al pianterreno.
Dal quel momento il petto iniziò a dolermi atrocemente.
Provai a calmarmi, ma era difficile. Decisi di scendere anch’io assieme alla dottoressa: era come se un essere superiore mi chiamasse a sé. Quei pochi attimi che mi dividevano dall’arrivo dell’ascensore mi parvero infiniti. Finalmente le due ante scorrevoli si aprirono. La dottoressa pigiò un tasto e cominciò la calata.
La porta si aprì, percorsi dieci i e mi trovai davanti due infermieri che tenevano stretto un bimbo di cinque anni.
Era Michael.
Quel bambino era mio figlio. Qualcuno mi stava concedendo la possibilità di vederlo ancora una volta, di averlo vicino a me, di abbracciarlo anche solo virtualmente con il pensiero.
Era ato del tempo dall’ultima volta che lo avevo visto, non ricordo di preciso quanto, ma per una madre stare lontana anche solo un secondo dal figlio può sembrare un secolo.
Ora lui era lì, a pochi metri da me: non poteva né vedermi né sentirmi.
M’incantava la sua bellezza e, presa dall’eccitazione, non mi chiesi come mai si trovasse in ospedale.
In un attimo ripercorsi tutta la sua vita. Mi tornarono in mente i suoi primi compleanni, i natali, le feste insieme, la sua prima bicicletta e la voglia che aveva di correre nei parchi.
Ora però mio figlio piangeva. Perché quelle lacrime? Perché quelle grida?
Feci un profondo respiro. Dovevo pensare da mamma e capire cosa gli fosse
accaduto. Quando era ancora in vita, mi sarebbe bastato uno sguardo per sondare tutti i suoi pensieri, le sue paure, i suoi desideri.
E fu allora che mi tornò in mente, offuscato, il viso di mio marito. L’uomo in barella che stavano trasportando al reparto di rianimazione era lui, non poteva essere diversamente.
Vedere mio figlio nelle mani sicure dei medici, mi diede la forza di raggiungere quella barella. Ormai ero certa che fosse mio marito l’uomo agonizzante nella barella, ma non volevo accettarlo. Mi avviai verso la stanza in cui lo stavano conducendo e mi resi conto di non provare una preoccupazione esagerata per le sue condizioni di salute.
Perché tanta noncuranza? Si trattava pur sempre di mio marito, eppure percepivo in modo diverso l’affetto che provavo nei suoi confronti, radicalmente cambiato rispetto a quando ero al suo fianco.
Giunsi a metà del corridoio, lentamente, senza troppa frenesia. C’erano dei medici che si scambiavano pareri.
Erano molto preoccupati, e questo poteva voler dire solo che mio marito era ferito gravemente. Un vuoto allo stomaco mi fece rannicchiare quasi in posizione fetale. ò subito e mi ricomposi. Nel frattempo i medici si erano spostati altrove. Dietro di loro c’era una porta, non l’avevo mai notata prima d’allora. Era chiusa. Allungai la mano per aprirla e, nell’attimo in cui sfiorai la maniglia, un flash accecò la mia visuale. Quando provai a riaprire gli occhi feriti dal bagliore, non vidi altro che tenebre. Poi pian piano cominciarono a prendere forma e colore numerose immagini che invasero la mia mente, travolgendomi. Le scrutavo inebetito, e mi stupivano: la verità di quelle immagini stava nella mia esistenza fatta dei momenti più difficili e bui. Mi rivedevo felice da piccola,
poi triste da grande, e così via, più il tempo ava e più il mio viso si ricopriva di lacrime.
Decisi di non entrare.
Le immagini esplosero riportandomi al presente, a pensare alla gravità dell’incidente di cui era stato vittima mio figlio.
L’istinto mi diceva di rimanere seduta dov’ero. Era troppa la paura di oltreare quella porta. Le mie gambe tremavano, ma una voce proveniente dall’oblio mi sussurrava che ormai era giunto il momento di affrontare la mia angoscia.
Mi sistemai i capelli, mi specchiai nel vetro della finestra, come se volessi farmi bella per il primo appuntamento; e mi dimenticai completamente che lui non mi avrebbe mai potuto vedere, se non con la sua anima.
Mi feci coraggio. Entrai nella stanza.
Dormiva …
Era in fondo alla sala, sdraiato su un lettino. Dormiva, era sotto l’effetto dell’anestesia.
Dovevo riflettere. Decisi di stare calma, non dovevo farmi prendere dal panico come al solito ma piuttosto ascoltare quel che avevano da dire i dottori che bighellonavano nella stanza. Non mi persi una frase, e amaramente capii: ubriaco alla guida, dopo aver preso Michael da scuola, aveva perso il controllo dell’auto finendo in una scarpata.
Il mio primo pensiero andò a mio figlio e alla possibilità che avesse di rimanere orfano se mio marito non fosse sopravvissuto.
Abbassai la testa e mi piegai reggendomi con le mani sul pavimento. Lo sconforto e il dolore erano immensi, come aveva potuto mio marito da ubriaco prendere con sé Michael e mettere a rischio la sua vita?
All’improvviso una voce mi chiamò: «Grace, sei tu?».
Un richiamo che si diffondeva nel silenzio più assoluto. Nessuno aveva mai pronunciato il mio nome da quando ero anima al vento.
Alzai la testa sbigottita e mi voltai: dietro di me si ergeva l’anima di mio marito Patrick, mi scrutava. L’uomo che aveva trascorso gran parte della sua vita al mio fianco era lì, e con lui la sua anima. Il suo viso sorrideva e provai una gioia che perdurò solo un attimo: l’ira nei suoi confronti prese il sopravvento e la figura del suo volto riprese ad annebbiarsi.
«Come hai potuto bere e metterti alla guida, hai messo a rischio la tua vita e quella di nostro figlio! Perché? Rispondimi!». Ero disperata, tutto l’odio e lo sconforto accumulati in quegli interminabili giorni di prigionia in ospedale mi stavano colmando l’animo.
Lui mi fissò e mi protese la mano, infastidendomi ancora di più. «Da quando ti ho persa, non vedevo altro che oscurità. Non andavo più a lavoro, non parlavo nemmeno più col bimbo. Tutti i giorni andavo al cimitero e restavo lì delle ore. Poi mi recavo a scuola, prendevo Michael e tornavo a casa ad annegare i miei dispiaceri nell’alcool. Così, tutte le volte, notte e giorno!». Percepivo un’amarezza crescente nelle sue parole, ma non riuscivo a impietosirmi. Mi pareva un perfetto sconosciuto.
Lui intercettava questo mio stato d’animo. Si rendeva conto di quanto mi stessi allontanando da lui, minuto dopo minuto. «Mi manchi da morire. Perché sei qui? Torna a casa, il piccolo ha bisogno di te, ed io lo stesso!» mi disse scoppiando ancora a piangere.
I miei occhi erano gelidi. «Tu dovevi badare a nostro figlio, dargli la voglia di andare avanti, riempirlo di amore e gioia. Io non posso tornare più, dovrai cavartela da solo e, se i dottori riusciranno a salvarti, il tuo compito più grande sarà quello di vivere, e insieme con te tuo figlio, nostro figlio. Le promesse che ci siamo fatti da vivi che fine hanno fatto? Avevamo giurato che se mai fosse venuto a mancare uno di noi, beh, l’altro si sarebbe dovuto curare di Michael più di se stesso. Nostro figlio ha tutti i diritti di avere una vita tranquilla: è il compito di ogni genitore offrirgliela!».
La mia collera si stava placando. Più svuotavo la mia coscienza e più mi tranquillizzavo. L’amore che provavo per mio marito era folle e non avrei potuto maledirlo oltre. Questo era quello che il mio cuore, con il suo battito incessante, mi faceva sentire.
Ci sono diversi tipi d’amore: quello per chi si ama come compagno, quello per chi si vuol bene come amico. Amori differenti, tutti però capaci di tradire, di far gioire ma anche soffrire. Amori che danno un significato a tutto ciò che ci circonda, che ci sorregge, che ci fa volare.
In quel momento mi mancava più d’ogni altra cosa un suo abbraccio. Sarebbe bastata anche una carezza, un bacio.
Mi ricordai della corte sfrenata che mi fece durante l’adolescenza. Era stato sempre in grado di trasmettermi sicurezza, allegria, amore e tutto quello che una donna possa mai chiedere. Ora dovevo farmi forza e ridargli la fiducia che in questi giorni aveva perso. Dovevo calmarmi e aiutarlo, cose che solo una donna sa fare.
Dovevo fargli capire che il suo primo obiettivo era di badare a nostro figlio.
«Riprenditi la tua vita, sii sereno e, di notte, quando starai sdraiato sul letto e un lieve soffio sposterà i tuoi capelli, stai certo che non sarà stata nessuna brezza. Non aver paura, sarò io che manterrò la mia promessa, quella di non lasciarti mai solo! Non aver nostalgia e tristezze, perché il tuo egoismo trasformato in lacrime non farà altro che farmi male, sorridi e a quel punto capirai che la tua felicità sarà anche la mia!».
Come un’onda che si abbatte con gran forza sugli scogli attirando con lo scroscio i bagnanti, si ripresentò lo stesso fischio che giorni prima mi aveva assordata: il battito di mio marito aveva ritrovato regolarità.
Il tempo di un ultimo sguardo e la sua anima svanì nel nulla. Il suo corpo si mosse; la sua mano si chiuse.
Avrebbe vissuto. I medici lo avevano salvato, o semplicemente dopo tanta oscurità aveva scorto un barlume di speranza.
Una grande lezione di vita …
Vari eventi determinano nell’esistenza di un uomo o una donna i cambi di umore che spingono poi verso i bivi da prendere nella nostra vita che, purtroppo, non conosce rettilinei, ma solo incroci, i quali, per colpa del destino o per errori propri, talvolta non conducono dove si vorrebbe.
Spetta alla gente far sì che questa strada sia più vivace e più luminosa possibile, perché esistono dei colori in grado di dipingere anche le vie più buie.
Dopo pochi giorni, a testimoniare un legame ritrovato, mio marito e mio figlio si apprestavano a uscire insieme dalla porta dell’ospedale. Mio marito si guardava intorno come se ricordasse qualcosa di me, ma ora sentivo la sua anima e quella di mio figlio serene e gioiose, consapevoli della mia presenza che con lo spirito mi avrebbe resa eternamente parte della famiglia, incurante dell’evanescenza fisica.
Prima di varcare la soglia della porta che li avrebbe condotti finalmente all’esterno, si voltarono e guardarono verso di me, sorridendomi come se riuscissero a vedermi.
Una luce. Il buio, svanirono subito. Iniziai a sentire dentro di me un senso di debolezza che sadicamente mi procurava anche piacere. Mi dovetti sedere. Il dolore più grande per una mamma è vedere il proprio figlio che va via. La lontananza dal grembo materno non ha età, la mamma sente un legame unico in qualsiasi momento della vita. Quella catena indissolubile con mio figlio mi si strinse al collo rischiando di strozzarmi. Mentre piangevo, mi chiesi se lo avrei
mai più rivisto.
Arrivò il mio momento …
Anche da Angelo riuscivo a percepire gli stessi stati d’animo che avevo provato da viva: debolezza, dolore. Era come se tutto non mi avesse mai abbandonata.
Ben presto capii il perché: la mia vita percorreva un sentiero stretto in cui amore e dolore erano distanti pochi centimetri l’uno dall’altro.
Mi feci forza e mi sollevai in piedi continuando a fissare la porta da dove era uscita la mia famiglia. Un sorriso mi fluì nel volto e mi rassegnai definitivamente a quello che sarei stata d’ora in poi. Non ero più solo Grace, adesso ero un Angelo.
Forse il mio compito era di correggere la strada di mio marito e, nello stesso tempo, ascoltare e capire quanto la mia vita non era stata così perfetta come credevo. Nessuno potrà mai azzardarsi a dire che la propria vita sia compiuta, si può solo lottare per tentare di renderla più bella possibile, giorno dopo giorno, fino a realizzare quei sogni che si credono irraggiungibili.
Sentivo che qualcosa stava cambiando in me: presto sarei stata abbracciata dal destino.
Osservavo il soffitto, quasi a cercare il cielo, quasi a voler scorgere quel paradiso che sin da bambina ho creduto appartenesse alle anime pie; ed ero felice, permeata da una gioia indescrivibile.
Mi sentivo pronta a seguire l’eco di quel richiamo recondito che nell’ombra sussurrava: “Grace, è ora di andare! Avanti Grace, il tuo posto non è più qui”. Terrorizzata, a i lenti, oltreai l’uscio dell’ospedale. Ero libera!
Tornai alla mia casa. Qualcuno di immenso mi aveva dato il dono più bello che possa essere concesso a un’anima: vegliare sulla propria famiglia.
Ero un Angelo protettore e ogni notte, seduta sul letto di mio figlio, avevo la fortuna di potergli sfiorare i capelli, di stringergli la mano e augurargli la buonanotte, proprio come avevo sempre fatto da quando era venuto al mondo.
Per tutti voi, invece, da quel giorno sarei stata Grace.
Mi sentivo privilegiata …
Inizialmente mi sentivo privilegiata.
Le anime che avevo incontrato tempo addietro avevano preso tutte un’altra strada, abbandonando questo mondo. Ma io no! Ero diversa nel mio nuovo ruolo, nella mia umile esistenza. Questa cruda situazione iniziava a pesarmi. Vivere la mia famiglia in questo modo, senza confrontarmi direttamente con loro, mi stava stretta, forse perché è abitudine dell’uomo volere sempre di più, senza fermarsi a capire i propri limiti e ciò che possiede, forse era semplicemente voglia materiale di abbracciare mio figlio e mio marito, di sentirli tra le mie braccia, di amarli come fanno le madri e le mogli, forse era unicamente desiderio di aprire gli occhi, svegliarmi e pensare che tutto fosse stato un sogno … o un incubo!
Mi era concesso cingerli con la mente, viverli ogni attimo. Non era poco: loro erano la mia famiglia, il mio unico motivo di permanenza in quel mondo che non mi apparteneva più.
Le numerose lacrime si spargevano sul mio esile volto e testimoniavano la mia tristezza, i miei dubbi molesti. Non so se fosse giusto o no, ma io non riuscivo a comandare il mio cuore, a soffocare le mie emozioni, a dire no alla sensazione di madre, di moglie. In fondo non era cambiato nulla: questo mi era sempre appartenuto, sia da viva che da Angelo.
Guardando mio figlio mi tornavano in mente i nove mesi di gravidanza ati tra dolori e gioie, periodo nel quale quel piccolo essere, che sarebbe diventato la
parte più importante della mia vita, aveva vagato nel mio grembo. Si era affezionato a me come io a lui, ancor prima di conoscerci. Era un pezzo del mio cuore, la forza che mi faceva andare avanti anche nelle difficoltà.
Eravamo tutt’uno, eravamo solo io e lui … solo Michael e Grace!
Le visite di controllo, i calci nel ventre, i forti dolori o le nausee erano stati una gioia sconfinata; quel piccolo essere mi aveva portato il dono più bello: diventare mamma.
Indescrivibile la sensazione provata il primo giorno che lo vidi durante l’ecografia attraverso lo schermo dal ginecologo. Quel piccolo senso di esistenza illuminò la mia vita. Mi si fermò il cuore, cessò il mio respiro, avevo timore che potessi turbarlo, infastidirlo. «Signora si rilassi, non può succedere nulla a suo figlio, respiri normalmente!» sorrise il medico.
Sono sensazioni uniche, per certi versi pazzesche.
Sono percezioni che mi viene difficile descrivere.
Era impossibile realizzare con precisione quei momenti, allora come oggi. Ogni nascita è sempre un nuovo miracolo che si ripete.
I nove mesi avano velocemente, a ritmo frenetico, senza lesinare emozioni. Spiegare a mio marito il senso di protezione che sentivo verso la nostra creatura era impossibile, e ogni volta che ci provavo la gioia era così grande che le frasi
venivano fuori sconnesse, confuse dalla commozione, e terminavo sempre dicendo: «Hai sentito, si è mosso!».
A quel punto, lui mi poggiava la sua mano sul pancione e mi fissava radioso, orgoglioso del suo maschietto che presto sarebbe nato. Nel suo volto si potevano scorgere le mille emozioni che provava. Molte volte diceva di non sentire ancora i movimenti del piccolo, ma io che lo vivevo, che lo sentivo dentro di me, distinguevo il suo battito, capivo l’importanza della scansione biologica che in me stava cambiando.
Mi sentivo già madre prima ancora d’esserlo.
Solo in quei nove mesi compresi quanti errori avevo fatto nel disprezzare tante cose di mia madre. Mille litigi per orgoglio o prepotenza, senza essermi mai fermata a capire che ogni mamma utilizza i rimproveri perché vuole bene, perché intende scacciare da suo figlio le azioni stupide che potrebbero un giorno pesare. Redarguire è solo un modo diverso di amare, di proteggere.
La mamma è quell’estate che vorremmo nel freddo più rigido, quell’inverno che ci aiuta nel caldo più torrido. Disposta a vegliarci tutto il giorno, ad amarci più della sua stessa vita, ad ascoltarci anche se per mille volte ci ostiniamo e agiamo di testa nostra. La mamma è la nostra vita. La mamma è quell’ossigeno che ci permette di andare avanti, che ci dà serenità anche quando ciò che ci circonda sembra un deserto da attraversare senza scorte d’acqua e cibo. Per darci la vita, mette da parte tutto ed è disposta a rinunciare a tutto: alla sua bellezza – anche se il pancione non fa altro che aumentarla - al cibo, e fa tutto con il cuore in mano, per il bene del suo bambino. Sono comunque emozioni che descritte così alla leggera suonerebbero false. Se riuscissi a esprimerle qui sarebbero troppo materiali. Quelle di una mamma che prima di diventarlo era semplicemente una figlia sono emozioni che provengono dal cuore.
Non me ne vogliano i padri. Il loro è vero amore, ma è inutile e falso affermare che vivano come una donna l’attesa della nascita di un figlio. Il loro grande aiuto, comunque fondamentale, non va certo sottovalutato. Mio marito ha dovuto sopportare i miei cambi d’umore, le mie esigenze sul cibo: “questo fa male, questo non mi va, questo è grasso, questo non si può”. Mi amava! Eppure avevo paura che il mio posto venisse preso da un’altra donna, prima o poi, ma mi sbagliavo: c’era dell’altro!
La mia era gelosia, un sentimento impossibile da nascondere, da cancellare. È sinonimo di amore, ma anche di pericolo, un’arma a doppio taglio che, se male gestita, può portare alla rottura del rapporto. Io ero molto gelosa, ma cercavo di non dare noia a mio marito con fissazioni che avrebbero solo portato alla rovina del nostro legame.
Anche questo è amore, credo.
Penso sia giusto essere un po’ più gelosi di noi stessi, cercare di farci rispettare e rispettarci prima di pretendere dagli altri qualcosa che forse non riusciranno a darci.
Al nostro progetto chiamato vita facciamo partecipare le persone che ci stanno più a cuore, perché saranno il sostegno nei momenti più difficili, perché saranno gli strumenti necessari al suo completamento, ma diamo spazio anche a chi ci fa del male, perché è grazie a loro che potremo capire l’importanza di chi ci ama.
Tutte queste incertezze distrussero le mie convinzioni, adesso non riuscivo più ad essere felice del mio ruolo d’Angelo. E tutto questo mi parve stretto, buio e cupo. La mia mente titubava su tutto ciò che mi circondava: volevo andare via, scappare. In fondo non avevo più nulla da perdere. L’unica cosa che desideravo era la mia famiglia, e l’avevo materialmente persa. A quell’agonia avrei preferito
seguire il mio vero destino da Angelo. L’amore verso mio marito si era tramutato in paura, e più ava il tempo nella mia vecchia casa e più era difficile soltanto vederlo.
Credevo che vedere la mia famiglia e non poterla toccare, accarezzare, mi stesse lentamente uccidendo per la seconda volta. Adesso il mio unico desiderio era quello di voler andare via. Non pensavo più alla mia famiglia, ma non era egoismo, quello mai, ma quel ruolo mi stava troppo stretto. Ancora non mi era del tutto chiaro il mio progetto di … vita.
La Verità non tardò ad arrivare …
La risposta a tutti i miei dubbi non tardò a presentarsi.
Quel giorno iniziò la mia vera vita. Credevo che le pagine raccontatevi finora fossero la mia storia, ma mi sbagliavo. Mi illusi semplicemente che tutto si sarebbe potuto risolvere così facilmente.
Non potevo immaginare che da quel momento mi sarebbe stato tutto più chiaro e limpido, ma soprattutto doloroso. Rivissi il mio ato nella maniera peggiore: ero una spettatrice che stavolta non poteva fermare il film di sofferenza della sue esistenza. Dovevo riviverlo, assaporarlo nelle sue sfaccettature più dure e crudeli; dovevo bere dalle mie lacrime, imparare dai miei lividi e soprattutto odiare la persona che credevo di amare ... il mio orco.
Era una sera come tante. Mio marito, seduto ai piedi del letto di mio figlio, gli raccontava una favola per farlo addormentare. Quelle sue grandi mani, che il mio corpo ha sempre conosciuto, impugnavano saldamente il libro di novelle che lo scorso Natale avevamo regalato al nostro ometto. Michael fissava con rammarico la mia foto poggiata sul comodino. I suoi dolci, teneri, profondi occhi erano impressi nella mia mente indelebilmente, e mai nessuno, nemmeno la morte li avrebbe mai rimossi.
Ogni sera il ricordo del ritmo frenetico dell’ospedale mi si presentava, ma non mi turbava. Non riuscivo a staccare il mio sguardo da quegli occhi che lentamente si chiudevano.
Si addormentò serenamente.
Mio marito gli mise la coperta per non prendere freddo, si alzò, gli diede un bacio sulla fronte, spense la luce e uscì chiudendo dietro di sé la porta adagio, facendo attenzione a non svegliarlo.
Non seguivo mai mio marito oltre quella porta, una grande paura mi assaliva solo al pensiero di allontanarmi da quel letto.
Rimasi a contemplare come ogni notte il suo tenero volto. Gli avrei voluto dare tanti baci, coccolarlo come solo una madre può fare. Non mi era più concesso.
Mi alzai e mi diressi verso la finestra che stava alle mie spalle. La tenda era aperta e riuscivo a vedere fuori. Era una sera tranquilla, il cielo sgombro di nuvole mi permetteva di ammirare la luna piena che illuminava il viale sottostante. Un cupo silenzio rendeva tutto meraviglioso, magico. Era una pace diversa, mai avvertita prima, una calma che mi permetteva di essere di nuovo me stessa, di essere Grace.
Rivissi nella mia mente a folle velocità i mesi trascorsi dentro l’ospedale. Era capitato tante volte nei momenti di tranquillità, ma non come quella volta.
In breve, tutto fu avvolto da una pesante e rumorosa serenità.
Udivo solo silenzio nella mia mente. Soffocava qualsiasi rumore, accompagnava
la mia resa e la mia disfatta, ed era l’unico appiglio che mi dava un po’ di tranquillità.
Pensiamo spesso che la pace sia la soluzione dei nostri problemi, e ci rinchiudiamo dentro di noi per prendere posizione e coscienza di qualsiasi cosa ci stia accadendo. Cerchiamo solo di farlo durare il meno possibile, perché è nel chiasso più assoluto che la vita vive.
Io me ne rendevo conto giorno dopo giorno, e il mio silenzio iniziava a pesarmi.
Erano state tante le anime che avevo incontrato, anime che trovavano nel silenzio la fuga da un mondo a loro stretto, per certi versi ingiusto, crudele, per altri bello e pacifico. Io mi sentivo prigioniera.
Potrei scrivere un’infinità di pagine, noiose, emozionanti, o addirittura comiche, ma non basterebbero mai per spiegare il vero senso della vita.
Nemmeno io, in precedenza come donna terrena e dopo come Angelo, l’ho mai capito, ma tutto, se visto con altri occhi, appare diverso, a confermare che non esiste un esempio di vita perfetta.
Non c’è possibile analizzare ogni situazione da diverse prospettive, e proprio per questo ci limitiamo sempre a vederle nella maniera più confortevole per i nostri occhi e per la nostra coscienza, ma il più delle volte, anche quando l’evento è ben definito, ci rifiutiamo di accettarlo, sperando che la nostra prepotenza cambi la sorte, la stessa fatalità che ci è stata amica e nemica.
La vita non percorre una direzione stabilita; la vita non si può né governare con un timone né circumnavigare a nostro piacimento; non si può cercare la giusta rotta all'istante: è necessario offrirle diversi porti di sbarco, ognuno di essi da visitare per fare esperienze, ognuno di essi frutto di un immenso sacrificio.
Vivere vuol dire anche combattere le sfide che si intromettono tra noi e il nostro fine, qualunque essa sia: studio, esami, professori, familiari o amicizie.
Sono certa che la vita non smetterà mai di insegnarci la gioia, il dolore o la semplice serenità.
E c’è quella sensazione che riempie il nostro cuore, una sensazione di autorevolezza sovraumana, in cui il nostro essere ci porta ad avventurarci in prese di posizione che per tutta l’esistenza nessuno di noi è capace di percepire e affrontare, come fossero immateriali. Io la chiamo paura. La mia paura era osare di diventare o, forse, ancor peggio, di essere quello che i miei sogni veramente mi proponevano in quei momenti di soffice e pura illusione, dove il cuore, la gioia, creavano in me un brivido, come se una piuma attraversasse la mia schiena regalandomi quel dolce sorriso difficile da trattenere e piacevole da lasciar andare.
Nutrivo quella voglia di alzare lo sguardo al cielo, di immaginarmi con due enormi ali e volare alla ricerca di una nuvola sopra la quale poggiarmi e ammirare la bellezza di questo mondo, sentendomi compiaciuta di tanta magnificenza, credendo in cuor mio che la vera saggezza possa permettere di fissare tutto ciò che si sovrasta con gli occhi, come fanno i giudici infallibili.
Da lassù tutto ci pare più piccolo di un dito: sogni, illusioni, piacevoli sensazioni che ci appartengo e che fanno parte di ognuno di noi. Senza eccezioni, dai piccoli bambini che corrono dietro ad una palla o giocano con le bambole, ai
giovani innamorati che sognano il loro amore, per finire con gli adulti che ano più della metà della loro giornata con le ali aperte, maestose e candide, nella ricerca di una nuvola che gli trasmetta la felicità, lo stimolo di andare avanti. Sono tutti diversi e allo stesso modo uguali nella ricerca di un evento che porti loro quel sorriso che a volte manca da troppo tempo, preservato in un forziere serrato da grosse catene.
Io ho volato, mi sono alzata in volo con le mie ali ricoperte di piume chiamate illusioni, vivendo i miei sogni, e più mi allontanavo dalla terra, più la gioia diventava folle, solare, inspiegabile e impagabile. C’erano tanti aggettivi per descriverla, ma altrettanta paura nell’andare avanti.
Irresponsabile, cosciente che la caduta sarebbe prima o poi avvenuta, mi sono soffermata su una nuvola chiamata piacere e di questa sono diventata fedele amica. Il suo colore candido rispecchiava i miei sogni. Non mi sono resa conto però che il tutto sembrava diventare un’utopia, come se tutto ciò che volessi e immaginassi dovesse rimanere un patetico sogno. Non mi sono mai accorta che la vera gioia non stava nelle mie illusioni ma nel mondo che mi circondava, nei sorrisi della gente, palpabili, vivibili e condivisibili. Ho cercato nell’immenso, quello che la semplicità nascondeva e mi offriva, dando più importanza alle lacrime versate che ai sorrisi che regalavo o mi donavano. Vedevo in un sorriso poco spessore, e facevo diventare una lacrima enorme come un grattacielo.
Illusa e felice, visionaria senza età precisa, ma pur sempre sognatrice.
Dobbiamo vivere appieno la nostra vita, il vero sogno, impossibile da realizzare, inverosimile anche da pensare, ma è comunque obbligatorio provarci in pieno.
Mi risvegliai per la seconda volta …
Sono stati mesi trascorsi tra gioie e paure. Mi sono riscoperta in tante cose semplici, come amicizia e amore, quasi dimenticate. Ci sono stati anche timori, i quali fanno parte della nostra vita e spesso ritornano, così, all’improvviso, come ad esempio essere cosciente che mai più avrei riabbracciato la mia famiglia. Proprio per questo non sapevo più cosa fosse meglio, restare con i miei cari e soffrire per non poterli abbracciare, o seguire il mio destino, che ancora non sapevo bene quale fosse, poiché nessuno spirito restava qui con me, ma continuava per la sua strada.
Assorta, pensavo a questa visione della mia vita, continuando a fissare fuori dalla finestra della camera di mio figlio; ma quella sera, dentro di me qualcosa accadeva, mi sentivo diversa.
Un calore adorante mi attraversò il corpo. Mi voltai di soprassalto, allertata da un pericolo che incombeva alle mie spalle. Rimasi basita: non c’era nulla, solo il mio piccolino che dormiva.
Poi qualcosa attirò ancora la mia attenzione. Sentivo attorno a me tante voci, urla di uomini e donne, e la cosa mi infastidiva. Avvampavo per il caldo, e solo allora mi accorsi che la mia immagine stampata sulla foto, tra le mani di mio figlio, stava svanendo attimo dopo attimo.
Un sibilo fortissimo mi penetrò i timpani come lame affilate. Un attimo e ò. Attorno a me il nulla, Michael figlio continuava a dormire serenamente. Perché lui non sentiva quel rumore assordante? Cosa mi stava accadendo?
Mi ricordai che già in precedenza avevo sentito quel fischio, in ospedale. Chiusi gli occhi. Il caldo si faceva sempre più insopportabile. Volevo urlare, come se bastasse per liberarmi da una sofferenza ancora non definita precisamente. Invece, l’unica cosa che feci fu riaprire gli occhi.
Ero nuovamente all’interno dell’ospedale, nel luogo in cui la mia vita da Angelo aveva avuto inizio.
Le voci e i rumori che attimi prima mi avevano raggiunto, appartenevano a quell’ambiente che conoscevo benissimo, eppure la mia mente si rifiutava di accettarle. Ispezionai la stanza alla ricerca della mia famiglia, alla ricerca dell’unico motivo della mia presenza tra i viventi. Nulla! Provai a richiudere gli occhi, sperando che quell’insolito gesto mi portasse di nuova nella mia dimora, ma una volta riaperti innanzi a me si ergevano solo quattro mura bianche: ero in ospedale e non potevo andarmene?
Il luogo era lo stesso, ma qualcosa era cambiato, ero io adesso il dubbio alle mie domande.
Conoscevo troppo bene quel posto, avevo vissuto per mesi al suo interno con la dannata paura di incontrare il paziente della stanza diciassette.
La mia mente per un attimo tornò a quei giorni, più precisamente a quel giorno. Il perdono concesso al mio assassino era di nuovo davanti ai miei occhi. Rivivevo la scena. Mi vedevo in terza persona affrontare senza paura il lungo corridoio che mi divideva dalla stanza diciassette. La mia sagoma, quasi un riflesso dalla mia immaginazione e dei miei ricordi, si proiettava come un’ombra.
Rivissi tutto.
Non mi era chiaro il perché della mia presenza lì dentro. Ero convinta che la mia missione fosse finita, ma forse qualcosa mi era sfuggita, anche se non capivo cosa.
Nella mia mente c’erano solo insicurezze macchiate da un’unica certezza: ero sicura che non avrei più rivisto i miei cari, mi sentivo come se li avessi persi definitivamente.
Avevo commesso un errore credendo d’aver saldato il mio debito estinguendo le pene, le mie colpe.
Ora ho qualcosa d’importante da dirvi, che forse vi potrà turbare, o far gioire, o ancor più avvolgervi in un calore immenso, farvi sentire più vicini a me; amarmi, odiarmi. Non è stata pronunciata alcuna finzione finora, nessuna ipocrisia. Avevo solo voglia di fuggire da quello che definivo il mio mondo, peccato che si trattasse di un mondo immaginario, che non mi era mai appartenuto. Un universo che io mi ero creata, perché tutti noi abbiamo diritto a una vita rispettosa, vissuta nell’armonia e nel sorriso, nell’amore donato e corrisposto. Si chiama vita, non inferno, appunto.
Ero nuovamente tra quelle quattro mura. Infastidita.
Dovevo assolutamente rincontrare il paziente della stanza diciassette, forse avevo lasciato qualcosa d’essenziale in sospeso. Mi avviai così d’urgenza verso
il corridoio che mi avrebbe condotto innanzi al mio ato. Mi successe di nuovo. Più mi avvicinavo alla stanza e più il mio cuore e il mio animo rifiutavano di proseguire. Pensai inizialmente fosse dovuto alla confusione, ma non era così. Le mie gambe si fermarono e, come se agissero per conto loro, non esaudivano il mio desiderio d’andare avanti. Mi poggiai a una panca per cercare di riprendere fiato. Dovevo mettere le cose in ordine nella mia mente. Mi sforzavo ma tutto risultava improduttivo, stavo solo perdendo tempo. Decisi quindi di camminare lungo la strada che già in ato avevo percorso: era la sala operatoria il luogo dove tutto ebbe inizio.
o dopo o avanzavo; stavo meglio e avevo di nuovo il pieno o controllo del mio corpo. Più mi allontanavo dalla stanza diciassette e più riprendevo coscienza.
Adesso ci si metteva anche l’angoscia di dover di nuovo rivivere il tutto. Non sapevo quanto potevo resistere, ma non avendo un punto di partenza dovevo inventarmi qualcosa, non avevo altre scelte, era vitale scovare quelle risposte che mi erano sfuggite nel recente ato.
Proseguii il mio cammino, quieta. Giunsi alla sala operatoria senza badare alle persone che incontravo nel mio cammino. Entrai. Tutto era in ordine. Dominava il silenzio: nessuna infermiera che prestava cure, nessun paziente che si doleva, nessun dottore dispiaciuto. Mi convinsi che tutto fosse già avvenuto e capii che non ero ritornata all’ospedale per rivivere il ato.
Retrocessi.
Attraversai di nuovo i corridoi, senza meta, sino a che uno strano presentimento mi avvolse. Mi fermai. Dovevo percepire ogni sensazione se volevo capire il perché fossi lì.
Mi voltai, davanti a me riconobbi la stanza nella quale avevo incontrato la prima anima, la signora che tristemente abbondava il suo corpo davanti alla figlia e al genero. Vi entrai sicura di non trovare nessuno, ma mi sbagliai, con grande sorpresa trovai innanzi a me la stessa scena.
La figlia tristemente afferrava per la mano la mamma moribonda mentre il marito indifferente aspettava l’ora di andare via. Mi avvicinai, anche se già vissuta quella scena mi dava sempre la stessa sensazione di tristezza.
Più avanzavo e più mi accorgevo di qualcosa che non andava.
A pochi metri mi si presentò tutto più chiaro: al posto della ragazza c’era un’altra donna, e aveva una faccia familiare: ero io.
Come potevo essere io quella figura?
Presi coraggio e mi avvicinai al lettino. Adesso riuscivo a dare un ruolo a ogni persona presente. La signora sdraiata, morente, era mia mamma e quell’uomo era mio marito. Che succedeva? Non capivo! Una risma di domande scombinò la mia mente. Forse quella donna era il mio alter ego, e sprizzava da ogni poro una sofferenza così limpida che sembrava appartenermi. Indietreggiai e, proprio in quel momento, il macchinario sibilò decretando la morte di mia madre. La scena mi spaventò. Ero addolorata.
L’anima di mia madre lasciò il corpo e mi venne incontro. Si fermò, mi guardò come solo le mamme sanno fare con lo sguardo del cuore. Era serena, felice.
Vederla così mi tranquillizzò.
Mi scesero delle lacrime, stavo vivendo la morte di mia madre e non sapevo cosa pensare.
«Perché piangi?» mi disse.
«Mi stai lasciando mamma, è normale che io pianga. Che succede? Non capisco. Sei morta! Ti sto perdendo! Chi sono le persone vicine a te, di fianco al lettino?».
Lei mi fissò con un sorriso e mai dimenticherò quello sguardo e le frasi che seguirono.
«Figlia mia, sei tu quella donna che mi tiene la mano. Hai sofferto tanto, forse ora hai rimosso tutto. Tutto questo appartiene al tuo ato, è successo anni fa, quando ancora tuo marito era al tuo fianco, prima del benedetto divorzio! Ora devo andare, ma ancora voglio chiederti scusa per il male che ti ho arrecato quando eri ancora giovane, non me lo sono mai perdonata, ero vinta dal mio egoismo, mi spiace!» furono le ultime parole che mia madre mi rivolse.
D’incanto svanì ed io rimasi sola.
Quelle frasi furono per me una vera e propria scossa. Morte, divorzio, egoismo? Come potevano appartenermi e come potevo essermi dimenticata di tutto? Si trattava di argomenti troppo delicati per poter essere rimossi così facilmente.
Mia madre era morta, io ero divorziata e la mia vita non era stata molto semplice. Un quadretto perfetto pensai ironizzando sulla situazione che mi si presentava innanzi. Adesso sapevo, eppure non ricordavo nulla. Mi chiesi quante cose ancora non ricordavo? La cosa più strana era sapere che ore prima avevo visto mio marito sempre al fianco mio e di nostro figlio. Ma allora perché c’eravamo lasciati? E cosa intendeva mia madre per egoismo nei miei confronti?
Un altro oscuro dilemma mi bussava nel petto: perché mesi fa, nella mia prima presenza all’interno dell’ospedale, avevo percepito un profondo amore nei confronti della mia famiglia? Non volevo dar troppo peso a quanto appena accaduto, forse era solo una proiezione della mia mente; ero ancora sotto shock per quanto mi stava succedendo. Dovevo semplicemente rilassarmi e tutto sarebbe andato per il meglio.
Mi appoggiai al bordo di una barella a riflettere. Cercavo un particolare che legasse tutti gli eventi. Quel filo di Arianna adesso era spezzato in diversi punti.
Dovevo proseguire il mio viaggio alla ricerca di una meta sfuggente che potesse darmi qualche risposta in più. Stare fermi lì non mi sarebbe servito a nulla, pensai.
Mi sollevai e a testa alta, con tanta tristezza che suonava in sottofondo, mi misi a girovagare tra gli immensi corridoi dell’ospedale. Continuavo a pensare a mia madre, alla sua morte. Come avevo potuto dimenticarla? E poi c’era l’elemento del divorzio che mi arrecava un senso di spasmo interiore.
Io amo mio marito, l’ho sempre amato e lo amerò per sempre, anche sotto le vesti di un Angelo, e mi rendevo conto d’amarlo anche il quel momento così
assurdo per me. Perché avevo avuto la visione di mia madre che mi ricordava il benedetto divorzio?
Incedetti ancora per qualche metro e fu allora che notai la presenza di un’altra persona che mi dava le spalle.
L’istinto mi portò a seguirla. Indossava una giacca, una gonna … e tutto mi era così noto, un déjà vu.
Entrò in una stanza e si fermò al centro. Ad attenderla vi era un medico. Sussurravano più che parlare, in gran segreto. Dalla posizione in cui mi trovavo, non riuscivo a sentire i discorsi che si facevano sempre più accesi.
Decisi di avanzare. E la vidi. Sussultai. Quella donna sembrava fuggita dalle cornici che in casa mia racchiudevano foto di tante epoche: era mia madre, molto più giovane; la sua bellezza era inconfondibile anche a ritroso negli anni. Ogni cosa intorno a me iniziò a diventare antica: i lettini, le mura, le porte e le finestre. Tutto! Stavo rivivendo una scena del ato. Non mi chiedevo più il perché, ormai avevo fatto l’abitudine a tutto ciò che ai miei occhi inizialmente pareva strano. Mi misi innanzi a loro, ora potevo sentire tutto. Parlavano dell’aborto di un feto di poche settimane, di fare il possibile affinché sua figlia perdesse il figlio. Un brivido mi assalì e iniziai a sudare freddo. Avevano parlato veramente della figlia di mia madre? Io sono figlia unica, non potevo quindi essere che io quella figlia!
Discutevano di me. La memoria rinvenne lentamente e impattò su di me come un treno a tutta velocità. Il medico cercava di insistere, di far cambiare idea a mia madre che duramente rimarcava sempre la stessa questione: «Mia figlia è solo una bambina! Non ho altro da dire. Ho perso già troppo tempo, farò tardi a lavoro!».
Drasticamente mi tornò in mente tutta la scena e davanti ai miei occhi si proiettò la mia casa d’infanzia.
Un figlio mai nato …
La notte che precedette quella dannata giornata mi parve eterna. Non chiusi occhio; era palpabile una malinconia che si impossessava del mio cuore, rendendo ogni suo battito lacerante come il taglio provocato da una lama affilata.
Adagiata sul mio letto, con le mani sul mio ventre, che con dolcezza si muovevano in senso orario, contavo i secondi scanditi dalla sveglia. Così per tutta la notte, sino a che, poco prima dell’alba, ormai sfinita, chiusi gli occhi e sprofondai nel sonno.
Forse dopo poco, o dopo molto, non saprei dirlo, mi destarono le urla di mia madre: «Sveglia che tra quindici minuti si esce, altrimenti farò tardi a lavoro!».
Scesi dal letto inebetita. Mi recai alla toilette e mi lavai la faccia. Indossai il primo abito che mi ò per mano: un vestitino semplice, verde con un fiocco giallo sulla spallina destra. Scesi le scale senza nemmeno dare il buongiorno a mia madre, la quale già sedeva nell’auto parcheggiata in garage.
Mi accomodai nei sedili posteriori, alle spalle del conducente, come fossi la cliente d’un tassista. Intendevo evitare che mia madre potesse scorgere il mio sguardo impaurito dallo specchietto retrovisore. Rimasi in silenzio, ero nervosa e le mie mani si contorcevano facendo dei miei capelli lisci una serie di spire.
Accese il motore, ma prima poggiò la sua borsa di pelle, traboccante di cartacce,
sul sedile del eggero. Si allacciò la cintura, aprì con il telecomando il portellone del garage e partimmo.
Nessuna delle due parlava. Fissavo il mondo che mi circondava, o almeno lo facevo con occhi distratti, ma la mia testa era altrove, forse su una nuvola, forse in cielo, forse in qualsiasi altra parte del mondo terreno o etereo … ma non lì.
Iniziò a piovigginare. Le gocce s’infrangevano sul cristallo della macchina rendendo tutto ancora più cupo di quanto già non lo fosse.
I cartelli stradali non davano via di scampo: direzione Ospedale. Stavo per levare la vita al mio piccolo, anche se da solo poche settimane aveva preso a crescere dentro di me. Mia madre mi stava portando ad abortire, mi obbligava a compiere quell’orrendo gesto.
Mio padre era morto in un incidente stradale qualche anno prima, chissà se mi avrebbe difeso o avrebbe invece appoggiato la mamma.
Arrivammo al parcheggio. Presi le mie poche cose e rimasi basita nel costatare che mia madre scaricava dal cofano una valigia, in realtà la mia, che io nemmeno sapevo di avere con me. Aveva pensato a tutto lei.
Avanzava con il solito o deciso, fiera di sé come un generale con i propri soldati. Neppure si curava di me: aveva un piano da portare a termine e nessuno sarebbe mai riuscito a persuaderla. Edward, il mio giovane fidanzato, ci attendeva davanti all’ingresso. Non ci salutammo. La tensione era molto alta, anche se, oggi, a mente fredda, posso attribuire quella freddezza a un odio che mi cresceva nel grembo, più velocemente di quanto non fe la mia creatura.
Entrammo nell’ospedale.
Capeggiava mia madre, andava svelta, decisa, tallonata dal mio ragazzo; poco più lontana, io incedevo per ultima, stancamente, e preferivo rimanere sola a lottare con lo sconforto che mi dilaniava l’anima e la carne. Continuavo a coccolarmi l’accenno di pancino immaginando che il mio piccolo potesse accorgersi che la sua mamma gli voleva tanto bene, che la sua mamma avrebbe preferito morire piuttosto che abbandonarlo a quel triste destino.
Sudavo freddo, continuando a tenerle salde e forti le mani sul mio grembo, credendo inconsciamente che quella stretta potesse proteggere il bimbo.
La giornata più terribile che una madre possa vivere, una giornata così dolorosa da far impazzire, si stava evolvendo contro la mia volontà.
Ci vennero incontro due medici. Esibivano un sorriso forzato, cercavano di mettermi a mio agio, inutilmente. Per loro ero solo una ragazzina, non vedevano in me una madre; erano buoni, gentili. Non riuscivo a nascondere la disperazione che pian piano veniva a galla. Dai miei occhi trapelavano paura e angoscia.
Mi fecero sedere nella sala d’attesa, che stava dirimpetto a una porta che conduceva al reparto “Ginecologia”. Pochi ospedali possedevano un reparto interamente dedicato agli aborti, anche perché sette medici su dieci si rifiutavano di eseguire quella pratica omicida. Edward rimase lontano da me.
Mia madre entrò da sola nel reparto.
Poco tempo dopo uscì con un medico. Mi vennero incontro. Lei sfoggiava lo stesso sorriso ipocrita che mi avevano lanciato in precedenza i due medici. Mi alzai. La mia mano non si scostava dal pancino. Mi pareva di percepire già il cuoricino del mio piccolo, mentre tutti, forse per darmi serenità, mi dicevano che era impossibile. «Troppo piccolo il feto per percepirlo!» erano le uniche cose che mi sapevano dire.
«Coraggio Grace, presto sarà tutto finito!» disse mia madre con serenità degna di un esecutore. Il mio boia era lei, non i medici che avrebbero fatto semplicemente il loro lavoro.
Non era mia intenzione piangere, ero convinta che il mio piccolino percepisse le mie emozioni, e non volevo che si preoccue del mio morale: «Andiamo, mamma è con te, non succederà nulla, non ti preoccupare, sarà tutto così veloce che nessuno ti farà del male, forza piccolo mio, coraggio figlio mio!» furono le ultime parole che dissi al mio piccolo.
Da quel momento in poi, solo il buio più assoluto s’incuneò dentro di me. Non ricordavo più nulla e non riuscivo a rivivere mentalmente nessun aggio, la mia mente aveva rimosso tutto.
Mi svegliai senza la concezione del tempo. Ero attanagliata da una malinconia sconfinata. Non c’era nessuno in camera, ero sola. Poggiai la mano nella mia pancia: non vi erano più emozione, calore, gioia, solo silenzio. Un raggio di sole tra le nuvole tentò d’impadronirsi della stanza buia e fredda e mi accarezzò la mano, poi un soffio di vento proveniente dalla finestra, leggermente aperta, mi scostò una lacrima, quasi asciugandola per dirmi di non piangere, come se il mio piccolo fosse ancora lì con me. Ero impotente dinanzi all’egoismo delle persone che mi avevano fatto del male.
Da quel momento non volli mai più rivedere Edward. E mia madre?
Il primo anno trascorse senza nessun dialogo tra noi, e così filò via anche il secondo. Con il are del tempo ci riavvicinammo e mi convinsi che lei aveva fatto tutto ciò solo per il mio bene. Misi da parte il rancore e la riaccettai come figura materna, ma mai come amica, mai come persona alla quale confidare i miei problemi. Il muro tra di noi non era alto, ma esisteva.
Le lacrime che scorrevano nel mio viso adesso si facevano pesanti, come il dolore che provavo nell’aver rivissuto il mio vero ato, non quello rose e fiori, ma quello dal quale cercavo invano di fuggire, dimenticandomi che è proprio nel ato che gettiamo le basi del nostro futuro, nel bene o nel male.
Un dolore acuto al cuore mi riportò al presente.
Tornai con la mente all’interno dell’ospedale, catapultata nella mia vita attuale. Aprii gli occhi, non ero più nella stanza di prima con mia madre e il dottore, l’ambiente attorno a me era nuovamente moderno. Era come se avessi vissuto un sogno. Purtroppo, per gradi, compresi che non si era trattato di un sogno o di un incubo. Adesso le scuse che mi aveva fatto mia madre prima di andarsene avevano una motivazione. Collegai tutti gli accadimenti e ricordai che mesi prima, nella mia esperienza all’interno dell’ospedale, avevo parlato con una minorenne che rifiutava l’aborto. Era una scena che avevo vissuto anch’io in ato, e qualcuno di più grande di noi aveva deciso di farmi rivivere quelle sensazioni terribili.
Un freddo polare mi percorse dalla testa ai piedi e mi rigettò alla realtà: avevo abortito davvero!
Mi accasciai su una panca. Mi sentivo smunta, prosciugata. Sorrisi di un sorriso amaro. Ero incredula e piansi di nostalgia. Fui infagottata dalla paura di aver buttato via la mia vita, ma ancor più mi avvolse la certezza di aver definitivamente esaurito le mie possibilità di rivincita.
Tremavo, le mie mani non riuscivano a fermarsi, le mie lacrime non avevano fine, la mia disperazione aumentava. Qual’era la verità sulla mia vita? E perché non ricordavo nulla?
Avevo un presentimento: la ragazza che mesi prima si era prodigata nel dire di no alla mamma e al dottore per l’aborto, potevo anche essere io. Ma perché non mi ero riconosciuta?
All’improvviso, come colpita da un fulmine a ciel sereno, iniziai a capire tutto.
Quella ragazza ero davvero io, e la mia mente mi aveva fatto vivere quell’episodio tragico della mia vita ata come l’avrei voluto vivere io, non come era andato realmente. All’epoca avrei voluto anch’io una persona al mio fianco che mi aiutasse a prendere la giusta decisione, un po’ quello che avevo fatto io nelle vesti di Angelo nei confronti di quella giovane. Avevo dato corpo al mio desiderio, lo stesso che avevo avuto io tanti anni prima. Avevo semplicemente rivissuto la mia vita, i miei ricordi da giovane ragazza, anche se questo aveva fatto rifiorire in me un grande dolore.
Avevo abortito per il volere di altre persone, non per il mio. Mi rannicchiai e strinsi forte le ginocchia al petto. Le lacrime si erano fermate, lasciando spazio a un sorriso malinconico. Non c’era più nulla da fare. Ormai dovevo solo capire il vero motivo della mia permanenza tra i vivi, nient’altro.
Era inutile cercare di ricordarmi il ato, era tutto buio nella mia mente. Se qualche ricordo fosse tornato, lo avrei scoperto soltanto continuando a percorrere quei lunghi corridoi.
Mi sollevai fiduciosa. Ero sicura d’aver dato il massimo per la mia vita, e cercai di farmi coraggio da sola. Nessuno mi vedeva o sentiva.
Una sensazione opprimente non mi abbandonava; pensai fosse il pensiero della mia famiglia, di mio marito. Dovevo capire cosa era veramente successo con lui. Non ero più disposta a credere a nulla di quanto vissuto da Angelo nell’ospedale, dovevo ripartire da zero. Era necessario capire perché mi era stato tanto difficile vedere mio figlio prendere sonno; e perché avevo trovato difficoltà nel seguire mio marito al di fuori della stanza; e mi risuonavano sempre più forti le parole di mia madre sul mio pessimo rapporto di coppia. Forse anche il mio amore per lui era soltanto un altro sogno, un’utopia inventata dalla mia mente, ma di questo non ero certa, dovevo muovermi con cautela e capire cosa stava succedendo.
Quella quiete mi fece chiudere gli occhi.
Incertezze …
Un assillante e rumoroso silenzio regnava nei corridoi, non era mai successo. Ero certa che qualcosa sarebbe accaduto da lì a poco.
Quel luogo mi aveva sempre colpito per il gran caos di infermieri, dottori e pazienti che consumavano gli immensi corridoi con le loro interminabili camminate. Oggi nulla!
Mi sentii presa al collo, come se l’aria si fosse diradata e mi strozzasse; non avevo più fiato, mi sentivo sempre più debole, e svenni.
Mi svegliai dentro una stanza con due letti antistanti, dove vi erano adagiati due pazienti con delle flebo attaccate. L’elettrocardiografo monitorava la loro frequenza cardiaca che si susseguiva regolarmente. Tra mascherine d’ossigeno, tubi e aghi i loro volti non erano distinguibili. Dalla stazza dei corpi doveva trattarsi di un adulto e di un bambino.
L’indole di mamma mi portò ad avvicinarmi al lettino del bambino, tremavo dalla paura che gli potesse essere successo qualcosa di grave, anche se non sapevo nemmeno chi fosse.
Mi trovai a pochi i da lui, ma più mi avvicinavo e più mi sentivo nuovamente mancare, non mi ero ancora ripresa dal malore di prima. Le gambe, o dopo o, perdevano vigore. Ma io ero decisa e continuai ad avvicinarmi
a quel letto. Si trattava di un bambino, non lo vedevo bene in volto, era coperto anche da una garza ingombrante e l’unico lato libero del viso era poggiato sul cuscino. Pensai a un incidente. Ad un tratto il piccolo pronunciò delle parole incomprensibili, come se stesse sognando. La mia mano istintivamente si poggiò sul suo cuore.
Riconoscevo quella voce, non avevo più dubbi, e la certezza arrivò quando ruotò il suo viso dalla mia parte. Per poco non persi nuovamente conoscenza, fui investita da un misto di gioia per averlo visto e dolore per saperlo sofferente; fui pervasa da una sensazione assurda, indescrivibile: era Michael, mio figlio.
Le gambe non mi sorressero più. Mi trovai presto in ginocchio al suo fianco. «Perché Dio? Perché mi fai vivere tutto ciò?». Prima la visione della mia morte, poi quella di mia madre, e ora mio figlio. Quante pene avrei dovuto ancora scontare per avere un briciolo di serenità? Non provavo rabbia, la mia era ormai rassegnazione, impotenza. Sino ad ora avevo accettato tutto, ma mio figlio no! Lui non meritava nulla di tutto ciò. Il suo respiro affannoso, le bende che avvolgevano per metà il suo bellissimo viso mi fecero dimenticare che di fronte a lui, nell’altro letto, riposava un paziente adulto.
Mi appoggiai sul letto, ai piedi del mio bambino e fissai ogni suo piccolo movimento; sentivo attentamente il suo respiro. Entrò un’infermiera che si preoccupò solo di abbassare la tapparella per non far entrare molta luce e quell’indifferenza mi rassicurò sulle sue condizioni. Non era in pericolo di vita, ne ero certa. Il suo respiro era normale. I capelli chiari gli coprivano parte della fronte e un grande livido faceva bella vista sulla guancia destra.
Ero commossa, piansi.
Forse avevo mantenuto il ruolo di madre anche da Angelo: un Angelo custode
che all’interno dell’ospedale doveva badare alla salute di suo figlio. Non potevo lasciarlo, dovevo stargli vicina in un momento così difficile.
Mi sollevai cercando di fare meno rumore possibile, scordandomi che sarebbe stato impossibile essere vista o percepita: io ero fatta d’anima e aria.
Agii d’istinto, quello protettivo di una madre verso il figlio e, una volta in piedi, sempre con lo sguardo rivolto verso di lui, mi sopraffece la curiosità di capire chi fosse il paziente nell’altro lettino. Mi feci coraggio e mi voltai. Mentre mi giravo, l’ambiente circostante perse forma e deflagrò in mille scintille colorate che come lucciole si ammassarono ricomponendo qualcosa di diverso. Mi trovai in un altro scenario e non ero più dentro la stanza di mio figlio. Ricordo quel momento più di ogni cosa. Si stava compiendo la mia verità.
Il sapere uccide, ma rende vivi …
A pochi i da me, seduta su un lettino con un grembiule bianco, mi dava le spalle una fisionomia di donna. Un dottore e un infermiere la medicavano con cura. Prima il viso, poi le braccia, sino a fasciarle una parte del busto.
«Signora, è tornato a casa ubriaco di nuovo, non è vero?» si rivolse il medico alla paziente con un tono rabbioso. Intanto io mi avvicinavo per mettermi di fronte alla signora e vederle il viso. Quello che mi stava accadendo, il rivivere la mia vita da spettatore, mi portava a sperare che almeno stavolta mi trovassi dentro quella stanza solo per parlare con l’anima di quella donna senza essere direttamente coinvolta. Non ricordavo nessuna violenza da parte di mio marito, ma non sapevo più se fidarmi o no dei miei ricordi.
Mi feci coraggio, non poteva andar tutto male in questo viaggio, dovevo iniziare a pensare positivo. «Coraggio Grace, hai già parlato in ato con una paziente maltrattata dal marito, andrà bene anche stavolta!». Cercavo di autoconvincermi mentre o dopo o la distanza tra me e lei diminuiva.
La signora non rispondeva a nessuna domanda del dottore. Stringeva a sé le ginocchia, raggomitolandosi sempre più, come se fosse all’interno di un guscio dove finalmente si sentiva al riparo da tutti e da nessuno.
Angoscia! Fondamentalmente avvertivo questa percezione, oltre che la rabbia di sapere che la violenza sulle donne era praticata in percentuali altissime. Sapere di mariti che malmenavano la propria moglie e i propri figli mi dava un senso di soffocamento.
Lentamente, fremendo, avanzavo. Il cuore batteva sempre più veloce: il mio secondo viaggio dentro l’ospedale mi stava riservando molteplici sorprese. Aggirai il lettino per fronteggiare la paziente e, proprio nel momento in cui mi sarebbe bastato voltarmi per avere un confronto diretto, accadde ancora: la luce divenne fortissima, poi scomparve lasciando forme indistinte dai più svariati colori a levitare nell’aria; infine tutto si unificò con un risucchio d’aria che m’inghiottì. Mi ritrovai in una casa. Una signora alla finestra scrutava la strada da dietro la tenda.
Riconobbi ogni particolare di quella scena: era la mia casa e quella donna ero io. Stavo nuovamente rivivendo il mio ato.
Le violenze su una donna …
Lanciai un grido muto, un urlo di paura silenziosa. Nessuno lo avrebbe mai sentito. Era lo stesso che per anni mi ero tenuta dentro: il vuoto.
Feci un o indietro allontanandomi dalla finestra, come se avessi scorto un pericolo. In fretta e furia feci le scale, dirigendomi nella cameretta di mio figlio. Vi entrai e lo trovai disteso sul tappeto a giocare con le costruzioni, stava innalzando un castello. Mi vide, mi sorrise e fiero di sé disse: «Guarda mamma il nostro castello, qui dentro nessuno ci farà del male!».
Gli sorrisi e l’ansia e la paura crebbero; non capivo ancora cosa sarebbe successo da lì a poco ma un brutto presentimento iniziava a prendere vita. Udii il portone d’ingresso aprirsi, molto lentamente. Il rumore di i pesanti strozzava il silenzio tombale che regnava in casa. Il portone si richiuse. Sentii dei i che percorrevano il corridoio che conduceva in cucina. «Dove sei! Ho fame, come mai in cucina non c’è ancora nulla pronto? L’ho sempre detto io: avevano ragione mio padre e mia madre! Bisogna ricordarvi sempre tutto? E va bene, scusa, ho sbagliato, la prossima volta ò le buone maniere anziché urlare e tutto vi rimarrà impresso!», poi ci fu una risata sarcastica.
Sentire quella voce, quel tono, quelle frasi, mi fece riemergere anche il più remoto dei ricordi.
La mia esistenza era così perfetta da avere un marito che dolcemente si scusava per aver alzato la voce? Forse vi ho solo narrato qual’era il mio sogno nel cassetto, fatto di semplicità, felicità, all’interno di un regno ricco di castelli,
principi e principesse. Ma i sogni talvolta rimangono tali.
«Dove sei?». La voce rauca e alta di mio marito mi riportò nella cameretta del bambino. Uscii dalla stanza e richiusi dietro di me la porta con la serratura, poi nascosi la chiave sotto una lampada. Era un gesto istintivo per proteggere il piccolo. Scesi le scale avviandomi incontro all’uomo che avevo sposato, anche se non riuscivo più a considerarlo come un marito. Il cuore batteva forte, avevo paura. Ogni gradino della scala che percorrevo riportava alla luce gli anni di sofferenza e le botte che l’orco mi sferrava tutte le volta che rientrava in casa ubriaco fradicio.
«Eccomi sono qui, ora preparo la cena, stavo sistemando delle cose di sopra e mettendo il piccolo a letto!».
Nessuna risposta, nessun sorriso, poi l’eco di uno schiaffo spezzò il silenzio.
«Sei ubriaco anche oggi, perché non decidi …», ma la mia domanda fu interrotta da una spinta che mi fece urtare la schiena ad una specchiera. La paura era così presente, palpabile, da mascherare perfino il dolore. Ormai ci avevo fatto l’abitudine.
Abitudine nel sapere che la mia vita era finita, o almeno che io volevo fosse così.
Abitudine nel ricevere solo offese e mai più amore.
Abitudine nel dimenticare che io esistevo e avevo diritto di vivere al meglio la
mia vita.
Semplice abitudine!
Mi alzai, dovevo tenere duro, e credo sia questo l’errore più grande di ogni persona vittima di qualsiasi tipo di violenza: subire.
Cosa dobbiamo sopportare? Che una persona ci rubi la vita, ci maltratti, ci levi la libertà? Ha tutto il diritto di farlo con la propria vita, ma non con la nostra. Può rovinarsi con il bere, droghe o altro, ma la sua libertà finisce dove inizia la nostra.
Mio marito si sostenne ai gradini, non si teneva in piedi. Ne approfittai e mi avviai in cucina.
Avrei potuto abbattere quell’orco facilmente, sarebbe bastato confessare ai medici la verità senza nascondermi dietro ad una brutta caduta, e lasciare che la giustizia fe il suo corso. Sciaguratamente non ci riuscivo! Il coraggio di riprendere in mano la mia vita e salvare anche mio figlio dalla violenza del padre svaniva come la luce al tramonto.
Trovavo nella sopportazione del dolore la via più facile. Ormai la mia vita era fatta di violenza, lividi e dolore.
In quel momento non lo sapevo, ma un raggio di luce e speranza stava per bussare alla mia porta.
Sì, è vero: come madre ero pronta a subire e stare zitta, ma non avrei mai permesso che si alzasse anche un solo un dito su mio figlio. La calma si depositò su di noi. Mio marito adagiato sul divano sembrava dormire ma di scatto balzò in piedi e s’inerpicò su per le scale fino al piano superiore. Raggelai e immediatamente pensai a Michael, che avevo rinchiuso in camera per evitare che potesse assistere alla solita lite violenta tra i suoi genitori.
La bestia adesso era su e vagava nel corridoio in cerca di quella chiave che credevo di aver ben nascosto. Iniziò a imprecare, oramai l’alcol aveva preso completamente il sopravvento sulla sua ragione.
«Ehi tu!» urlò riferendosi a me, «Perché la stanza di mio figlio è chiusa a chiave? Dove sono le chiavi?».
Nemmeno il tempo di rispondere che subito le sue grandi mani iniziarono a infrangersi violentemente sull’unica salvezza di mio figlio: la porta. Non otteneva nessun tipo di risultato e allora decise di are ai calci.
Riuscì a sfondarla. All’interno della stanza si udivano le urla disperate del bambino.
Percorsi le scale con una velocità che non credevo neppure di possedere: mio figlio era in pericolo. L’orco stava per violare il castello. Il mio piccolo si era nascosto nell’armadio, era insieme al buio, il suo unico amico dei momenti di paura.
Quando arrivai in camera, trovai l’orco addormentato sul letto. Per fortuna l’alcool lo aveva sfinito.
Muovendomi con cautela portai fuori mio figlio dall’armadio. Nel farlo gli coprii gli occhi, non volevo che vedesse il padre in quelle condizioni. Lo portai in salvo all’esterno di quell’inferno di casa.
Michael piangeva. Nelle sue lacrime c’era tanta paura. Mi chinai verso di lui e con dita soffici asciugai i rivoli che gli correvano lungo le gote. Era arrivata l’ora di espormi in prima persona per salvaguardare l’esistenza di mio figlio.
Afferrai per mano Michael e lo condussi alla centrale di polizia, l’unico posto che poteva dirsi sicuro per noi. Gli agenti ci accolsero a braccia aperte, tutti in città sapevano della nostra situazione ma nessuno aveva mai violato il segreto della nostra famiglia. Era come se quelle persone ci stessero aspettando. Furono gentili con Michael, gli regalarono il berrettino della polizia e un distintivo. Il piccolo tornò a sorridere, un sorriso che dava ragione alla mia scelta.
Da quel giorno non vidi più mio marito se non per questioni legali relative alla denuncia per violenza e al successivo divorzio.
La mia vita poteva ricominciare.
Liberata da quella condanna atroce, ritornai lieve come una foglia scossa dal vento e, nello stesso modo brusco in cui avevo abbandonato l’ospedale per rivivere la mia vita, ci tornai attraversando spazi, epoche e colori che non conoscevo.
Mi ritrovai in quel corridoio, frastornata come se fossi stata sbalzata continuamente all’interno di un ascensore in grado di scalare tempo e superficie, a ritroso o in avanti, a seconda delle occasioni e degli umori. Dopo aver rivissuto le barbarie di mio marito mi spiegavo perché, nel mio periodo da Angelo, avevo provato repulsione nel seguirlo fino a casa.
Quante sorprese ancora mi aspettavano in questo doloroso viaggio? Prima mia madre, mio figlio e ora mio marito.
Avevo patito tante sofferenze nella mia vita, un’infinità, ma non capivo perché ora mi trovassi ancora nell’ospedale. Con quale scopo? La risposta a tutte le domande doveva per forza trovarsi nella stanza in cui era ricoverato mio figlio, e forse l’uomo che gli giaceva di fronte poteva darmela.
Il mio destino non lo conoscevo, ma almeno adesso ricordavo tutto del mio ato, della mia vita. Fu necessario provare a vedere oltre l’orizzonte, dove il buio sembra impadronirsi di ogni secondo della nostra vita, ma che attimo dopo attimo, ora dopo ora, ci insegna e ci dà la speranza di reagire e alzare la testa; ci dà la forza di pronunziare una sola parola ricca di coraggio e amore per noi stessi, una parola semplice e forte: Basta!
Mi riavvicinai al paziente che riposava nel lettino di fronte a mio figlio.
A pochi i da lui, il rumore e le voci di due medici attirarono la mia attenzione. Il dottore più giovane spiegava l’accaduto al collega. «Un incidente durante la guida … un colpo di sonno … E ora sono qui entrambi. Per fortuna sono fuori pericolo. Il paziente a destra è uscito dal coma ieri, non è grave e l’abbiamo portato qui, vicino al piccolo!».
Un sorriso comparve nel mio volto, ero più serena.
D’istinto mi voltai verso quel lenzuolo bianco che copriva sino al collo il corpo dell’adulto.
I medici uscirono dalla stanza. Mi feci forza e andai incontro a quel corpo. Il nervoso e la rabbia mi permisero di ignorare ogni sorta di suono e vivevo nel più assoluto silenzio.
Avanzavo decisa. La stanza non era molto grande e non ci misi molto a trovarmi di fronte all’adulto implicato nell’incidente.
Per la seconda volta mi capitò di guardarmi all’interno di uno specchio. Ero io. Sì, ero proprio io sdraiata su quel letto. Trabalzai per lo stupore: ero dunque io alla guida dell’auto, ed ero stata io, dopo un colpo di sonno, a mettere in pericolo la vita di mio figlio. Ma la cosa che mi sconvolgeva di più, adesso, era capire come mai quel macchinario, che in precedenza aveva decretato la mia morte, ora invece suonava ritmicamente e mi dava una speranza di vita, di ripresa.
Mi appoggiai sul lettino. Continuavo a fissare mio figlio tenendo la mano sul lenzuolo che copriva le mie gambe. Ero emozionata, felice, era come se mi fosse concessa una nuova possibilità di riuscita nella mia vita, come se qualcuno da lassù mi stesse dicendo: «è arrivato il momento che viva il tuo presente, ora che hai rivissuto il tuo vero ato!».
Era una sensazione o un fatto concreto?
Come sempre arrivarono mille domande ad assediarmi, e non mi davano tregua. «Chi era la vera Grace? Quella felice e morta o quella che era lì, sdraiata, ma che aveva avuto un ato orrendo, fatto di cattiverie e crudeltà?».
Non ci misi molto a capire che la vecchia Grace era stata creata dalla mia mente solo per scappare da una vita a me stretta, realizzando dentro di me quello che avrei voluto fosse la mia esistenza: una vita serena, una famiglia speciale, un grande amore e tutto attorno a me perfetto.
Facendo così non avevo fatto altro che scappare. Nel mio breve stato di coma, dopo l’incidente per il colpo di sonno, il mio inconscio, anziché risvegliarmi, mi aveva permesso di scappare da una vita buia facendomi credere d’essere un Angelo.
Avevo trovato nella fuga il mio riparo, preferendo abbandonare la mia vita piuttosto che lottare. Non possiamo realmente scappare da nulla, il nostro corpo forse sì, ma i nostri pensieri, la nostra mente, ogni battito del nostro cuore saranno scanditi con un sottofondo di tristezza e rimorso.
Affrontiamo la vita e qualsiasi tipo di problema! Alziamo la testa e crediamo sempre in ciò che facciamo rispettando la nostra persona, la stessa che vediamo ogni mattino allo specchio.
Io, invece, avevo scelto di comportarmi da fuggiasca, cercando nei sogni la felicità, come se questi me la potessero dare, come se quei momenti d’illusoria felicità mi permettessero veramente di amare me stessa fino in fondo.
Possiamo stare ora a sentire pareri di amici sulla nostra vita, ma sono solo dei consigli, null’altro.
Nessuno, se non noi stessi, può avere la giusta soluzione ai nostri problemi; siamo gli unici ad aver indossato le vesti del nostro ato, e ne conosciamo ogni singola cucitura.
Siamo i sarti della nostra vita: la cuciamo, la sfiliamo e la tagliamo a nostro piacimento in attesa di sapere cosa ci sia nel dopo, tra mille dubbi ma sempre con tanta fede.
Forse è troppo breve la nostra esistenza per rimanere offesi, per portare rancore, per piangere a causa di persone che non meritano nemmeno un secondo della nostra vita. è per questo che iamo il maggior tempo della giornata a pensare, mentre potremmo ammiccare in ogni istante al dono più grande che abbiamo e di cui siamo padroni senza limite: la vita.
Vita è sorridere, guardarsi ogni mattina allo specchio e compiacersi.
Vita è amarsi! Se non amiamo noi stessi, sarà impossibile amare veramente gli altri.
Vita è smettere di raccontarsi bugie, ed evitare di portare avanti rapporti senza motivazione, di qualunque genere, amicizia o amore.
Vita è coraggio, senza il quale si è smarriti in una valle di anime pronte a far sì
che tu non sia più nulla; l’assenza d’audacia permette agli altri di gestire non solo la loro vita ma anche la tua.
Dio ha donato una vita ad ognuno di noi, e se davvero un giorno pagheremo per i peccati, quel giorno Dio li chiederà a noi, non certo a coloro che l’hanno gestita.
Non si chiama ribellione, ma semplicemente vita!
Sbagliata o no, perfetta o no, dobbiamo aver voglia di viverla, non cambierà se trascorrerà molto tempo o se sarà possibile vivere solo il presente, dovremo comunque basare tutti i nostri principi su di essa, e solo così avremo la certezza che nell’attimo in cui il futuro diventerà presente, sarà un grande presente.
Mi lasciai alle spalle quel soliloquio filosofico che sentivo mio e mi alzai dal letto. Il mio viso era umido, bagnato dalle lacrime. Mi accostai al mio corpo e con una mano toccai il petto di me stessa. Non accadde nulla! Avevo un presentimento. Tornai a fissare il mio corpo sul letto. Lei, o meglio io, stava piangendo. Le lacrime terminavano la loro corsa sul cuscino infradiciandolo. Adesso sentivo le mie di lacrime, sentivo nuovamente mio quel corpo sul lettino. Poggiai la mano sul mio polso.
L’ago della flebo era gelido. La mia anima adesso viveva, percepiva ogni singolo dolore, una sofferenza leggera, fastidiosa, forse dovuta al riassorbimento naturale dell’anestesia. Allungai l’altra mano verso il mio corpo che ancora dormiva. Toccai la fronte tenendo costantemente lo sguardo su mio figlio e fui inghiottita dal mio ato. Rivivevo nuovamente scene antiche, ma stavolta in maniera molto veloce. Bambina, ragazza, donna, tutto ava velocemente nella mia testa. Rivivevo tutto in maniera confusa: mia madre, la mia scuola, i miei fidanzati, mio marito, mio figlio, le liti, la violenza subita, il mio silenzio, la rabbia. Ripercorrevo per l’ultima volta il mio ato peggiore. Stavo basando il
mio futuro sul male che avevo subito in ato. Era quello il motivo per il quale inconsciamente ero fuggita dalla realtà. Dovevo scegliere se cancellare me stessa o riprendere la mia vita in mano.
Questo atroce dubbio svanì subito. La mia vita prese il sopravento e cambiò da sola direzione, senza il mio consenso, andando oltre i miei dubbi e perplessità. Mi voltai. Michael emise un piccolo colpo di tosse: si stava svegliando. Il mio cuore era a mille. Mi sollevai. Quell’accenno di tosse fu la mia nuova speranza. Adesso la mia vita poteva riprendere il volo in qualsiasi momento.
Come le cornici danno un’impronta decisa ad un ritratto, rendendolo ancor più bello, così noi abbiamo la possibilità di colorare la nostra tela chiamata vita, usando la cornice che ci sembra più idonea.
Mio figlio adesso sorrideva esibendo la classica smorfia che rende ricche tutte le mamme. Quel sorriso che mai ci scordiamo e che ci riporta ai primi mesi di vita. Devo a lui la mia rinascita. Lo devo a mio figlio d’essere ancora viva, di aver provato a farmi una nuova vita ribellandomi all’orco e a quello che mi stava più stretto. Lui non mi ha mai chiesto nulla, ma una mamma sa cosa vuole il proprio figlio, quale sia la causa dei suoi dolori, dispiaceri, e cosa possa essere meglio per lui. I colpi di tosse continuavano sino a quando riaprì gli occhi. Era sveglio.
Non mi serviva essere un Angelo per trovare la felicità, mi bastava affacciarmi ad una finestra, respirare, sorridere al mondo intero, racchiudere nel mio scrigno chiamato vita le cose più importanti e camminare verso la gioia immensa. Mi ero cullata sul mio dolore come se questo fosse una scusante per piangermi addosso, come se fosse il massimo che potessi chiedere dalla mia vita, ma nessuno di noi sa quale sia il proprio limite. Nessuno.
Era giunto il momento di svegliarmi: io e il corpo di me stessa ci fondemmo,
ricongiungendoci. Aprii gli occhi. Non ero più un Angelo, o un’anima. Muovevo il mio corpo, percepivo i dolori atroci dell’incidente. Strinsi la mano a qualcosa di piacevole, era la mano di mio figlio, seduto vicino a me, con il suo pigiama colorato, giallo e azzurro. Mi sorrise, si commosse nel vedermi sveglia e si buttò verso di me. Allargai le mie braccia per stringerlo. Guardai nel vuoto della stanza, cercando di godere al massimo quel momento di felicità. Il sole illuminava la stanza, le cose iniziavano ad andare per il verso giusto. Ora finalmente non sarei più scappata dal mio ato, ma lo avrei tenuto presente come insegnamento di vita imprescindibile per dare una giusta educazione a mio figlio.
Arrivò finalmente il mio momento …
La luce illuminava il mio cammino come non mai. Ero viva, e con me c’era la mia famiglia.
La mattina presi mio figlio. Lo strinsi a me. Camminavamo convinti che nessuno ci avrebbe più divisi.
La distanza che ci separava dal portone d’ingresso dell’ospedale era ormai nulla. Chissà quante volte avrei voluto percorrerla come Angelo, ma oggi mi era data la possibilità di attraversarla da viva. Procedevo a testa alta. Attorno a me era sparito anche quel rumoroso silenzio che aveva scandito i minuti delle mie giornate durante il mio stato di coma. Mio figlio fischiettava, innocente, per lui si presentava una vita infinita, per me invece bastava aver ritrovato la voglia di stare meglio di come ero stata sino a ieri. Le porte si aprirono, il vento smosse i miei capelli e con un sorriso risposi ai raggi di sole che timidamente, avvolgevano riscaldando, il mio viso. Gli occhi si perdevano nell’infinito mondo chiamato vita, nella voglia più pazzesca di vivere al meglio quello che mi restava. Non potevo vedere oltre l’orizzonte, ma forse nemmeno mi interessava, avrei vissuto giorno dopo giorno, sorridendo, cosciente che la vita è solo una. I secondi non fanno altro che ricordarci che il futuro è così veloce che il presente nemmeno esiste.
Sognai un mondo di gioie, sognai quello che tutti definiscono irrealizzabile, sognai la voglia di reagire, sognai la forza che mi sarebbe servita per alzare gli occhi e vivere ... sognai ... E sbagliai soltanto a volerlo nei miei sogni.
Una simpatica melodia proveniente dal carrettino di un gelataio richiamò la mia attenzione. Mio figlio sorrise. Decisi che la mia vita sarebbe ripartita da quel gelato.
Scrivo con le mani di un uomo, io non posso, ma avevo bisogno di raccontarvi la mia vita, chi ero, e forse chi avrei voluto essere. Quando soffri hai la possibilità di comunicare con gli Angeli. Io l’ho fatto in questo libro … scritto da un Angelo.
Grace.
Pensieri ...
I pensieri del mio aggio tra di voi, mentre inconsciamente abbracciavo una nuvola chiamata illusione divenendone fedele amica...
Quanto è duro dirci Addio.
Un addio che non potrà trasformarsi in un arrivederci, in un ciao, ma che nasce per essere sempre e solo un Addio, crudele, ancor più perché non voluto da noi, ma da un destino che ha dipinto nella nostra vita un freddo autunno, dove tutto erà, sì, ma per noi sarà sempre autunno.
Addio mio amore, addio vita mia, fiore incantato di un’esistenza ricca di sorrisi, paure e gioie trascorse insieme. Vola adesso Angelo mio, non voltarti perché non voglio che l’ultimo nostro ricordo siano le mie lacrime, va per la tua strada e dall’alto, con le tue maestose ali, stammi vicino, proteggimi, ma di più ti chiedo di aspettarmi, attendi il giorno in cui i nostri due cuori saranno nuovamente insieme. Amami come ti amerò io, perché il nostro addio si possa trasformare in un ciao.
Il silenzio interrotto dal tuo respiro, rende la notte stupenda.
Vorrei rubare le nuvole, le stelle, il sole e la luna. Regalarteli per far sì che anche tu abbia un cielo, quello che sino ad oggi ti è stato negato.
Parlo con te, fisso i tuoi occhi, non osservo il colore, non osservo la forma, osservo la tua vita che essi raccontano.
I pensieri sono sogni che ci aiutano a sorridere, ma il sorriso sparisce e il sogno svanisce. Rendiamo vivi i nostri sogni e la vita ci sorriderà.
Amica mia, vedi, sai quale è la nostra fortuna? Sapere che il cuore conserva i nostri dolori. Questo ci permette di capire l'importanza della felicità.
Ogni tanto m i volto, vedo il buio, l’oscurità, nient'altro. Sorrido, quello è il mio ato, triste o felice che sia stato è pur sempre il mio ato. So che davanti a me c'è la luce, reale, vera, ma solo perché so sorridere al mio ato.
Le pagine bianche della nostra vita sono i capitoli che mancano per sentirci appagati.
Silenzio! Ascolta il tuo umile cuore, ricco di gioie e sofferenza! Abbassa la voce, non urlare, non serve, batte lo stesso. Abbi solo il coraggio di dare importanza ad ogni suo battito, perché ha un'importanza enorme.
Una carezza si trasforma presto in un raggiro, un rimprovero in un insegnamento. Un bacio in un tradimento.
É rimasto solo un mio pensiero di cui vive un ricordo bellissimo, non condiviso, certamente no, ma vive in me. Un ricordo che ora è dolore, ma che è nato per
gioire. Non mi chiedo il perché, e forse nemmeno mi interessa saperlo, non mi chiedo nemmeno come mai, sono domande che mai avranno risposta, so solo che sei esistita, che ti ho vista, toccata, il cuore ha tremato e dopo ... Sei sparita. Nessun caso, nessun destino, solo realtà, la stessa che non vogliamo accettare, perché puntiamo al massimo, ad avere il meglio dalla nostra vita, tu eri questo ... il meglio.
Non ti dirò mai la frase “ti amo” come fanno tutti gli uomini con le proprie amate. Tu devi essere unica in tutto. Ti regalerò un libro con all’interno solo fogli bianchi e insieme scriveremo quello che proviamo l’un l’altro con dell’inchiostro bianco, l’unico in grado di riportare le giuste parole, quelle che giungono al cuore, quelle invisibili che solo due che si amano riescono a leggere.
Chiudo gli occhi ma non vedo il buio, mi appare la tua immagine. Più la osservo e più mi sembra sfuocata, allora corro nel vuoto cercando di avvicinarmi. Non basta, devo scalare numerose montagne, nuotare nell' oceano, ma tu ti allontani sempre più. Imparo a volare ma ancora nulla, tu voli più in alto, decido quindi di lasciarmi andare nel vuoto, almeno così, una volta diventata un Angelo, ti potrò avere.
Cammino a testa alta fissando le nuvole, guardando il sole, osservando i doni che offre la natura, felice, incontro alla vita che mi resta! Tu dove sei? Tu sei i miei i.
... dove il silenzio è l'unico condottiero di due labbra che si uniscono.
Tu meriti mille rose ... come gli anni che ogni uomo vorrebbe vivere vicino a te. E dopo i mille anni... altre mille rose ... per rendere il tutto infinito....
Grace.