Introduzione
La cerimonia di beatificazione del cardinale John Henry Newman ha rappresentato una significativa eccezione rispetto alla prassi adottata da papa Benedetto XVI di incaricare per questo tipo di eventi nelle singole diocesi un suo delegato. Fu il Sommo Pontefice infatti a voler presiedere personalmente nel 2010 una solenne Eucarestia presso Birmingham, a Rednal, dove il corpo del famoso convertito ora riposa in pace. L’evento, che fu coperto mediaticamente da tutte le emittenti e agenzie informative del mondo globalizzato, si collocò all’interno di una storica visita di Stato - la prima nel Regno Unito compiuta da un pontefice romano dal tempo dello scisma di re Enrico VIII -, che contribuì a darle un risalto ancora maggiore.
Eppure la conversione clamorosa del noto intellettuale vittoriano alla Chiesa di Roma diede inizio per il protagonista ad una fase dolorosa e difficile della sua vita, che lo portò ad essere fortemente sospettato di professare una fede non genuina da parte di ambienti vicini alla Curia vaticana e ad essere quindi completamente emarginato e dimenticato. Dopo essere stato incaricato dai vescovi di fondare a Dublino la prima Università Cattolica nel Regno Unito in seguito alla confisca di re Enrico VIII, il suo progetto, ritenuto eccessivamente aperto e non sufficientemente “cattolico”, fu bloccato e naufragò. Così pure fu disapprovato in casa cattolica un saggio pubblicato nel 1859 sulla rivista The Rambler con il titolo “Sulla consultazione dei fedeli laici in materia di fede”, nel quale sosteneva il ruolo attivo e l’apporto fondamentale dei laici all’interno della Chiesa, evidenziando come anche il consenso di fede (sensus fidelium) rappresentasse una garanzia circa l’infallibilità dell’insegnamento della Chiesa. I giudizi nei suoi confronti non furono più benevoli neppure tra gli anglicani. Alcuni degli amici, con i quali aveva combattuto per anni - e soprattutto dalla fondazione del Movimento di Oxford - per la causa della riforma della Chiesa d’Inghilterra, non lo seguirono nell’adesione al cattolicesimo romano; e l’opinione pubblica, in generale, non riusciva a spiegarsi le ragioni per le quali una personalità tanto in vista e intelligente avesse potuto abbracciare una comunità religiosa socialmente e religiosamente così arretrata e marginale, dopo
aver “tradito” la propria.
La pubblicazione dell’Apologia Pro Vita Sua, nel 1864, aprì una fase nuova nella vita del suo autore. Il successo fu immediato e straordinario. Consensi e plausi arrivarono numerosi da ogni parte d’Inghilterra: da parte avversa gli venne dato atto di “un modo di ragionare onesto e potente”, mentre da parte cattolica grande fu la gioia per la nuova credibilità e il prestigio acquisiti a fronte dei pregiudizi sociali tradizionali. Il vescovo Mons. Ullathorne e tutto il clero di Birmingham gli rivolsero ufficialmente espressioni di riconoscenza autentica. Dopo diciannove anni dall’ingresso nella Chiesa di Roma, Newman usciva dalla solitudine e dall’oblio, arrivando a scrivere: «Il tempo è il grande rimedio e il grande vendicatore di tutte le ingiustizie. Se siamo pazienti, Dio lavora per noi. Egli lavora per coloro che non lavorano per se stessi».¹
Anche gli organi di informazione manifestarono grande interesse ed espressero giudizi lusinghieri sull’opera, che destò fin da allora tanto scalpore per la rettitudine morale e la nobiltà d’animo dell’autore e per la complessità dell’epoca in cui si trovò a compiere scelte ardue e controverse. Oltre ai due articoli comparsi sullo Spectator, nell’editoriale del Times si legge: «L’esattezza e la minuzia con cui il dottor Newman registra tutte le fluttuazioni differenti del barometro teologico e conduce le mutazioni dottrinali attraverso tutte le relative fasi, annotandone tutte le relative ascese e cadute, le pause e gli sviluppi, finché raggiunge la completezza fissata, rivelano inconsciamente nell’Apologia un compito che, sebbene indubbiamente lo accompagnò con molto tormento e afflizione, per alcuni versi è stato per lui nient’altro che un lavoro di amore».²
Il significato del pensiero e della vicenda spirituale del beato cardinale emerge oggi più nitido, così come l’evoluzione della sua fede, mossa da un forte senso di fedeltà ai dettami della coscienza e dalla ricerca oggettiva della verità. Oggi la Chiesa lo ritiene una voce profetica, precorritrice del magistero conciliare, o, come qualcuno addirittura lo ha definito, il “Padre assente” del Vaticano II°. La beatificazione, voluta dal beato Giovanni Paolo II e ufficialmente proclamata da Sua Santità Benedetto XVI, eleva la figura del grande religioso oratoriano ad
esempio per tutti, per la profondità dei suoi insegnamenti, per la cristallina trasparenza del suo percorso spirituale e per la genuinità delle virtù cristiane che ha saputo concretamente vivere, tra le quali l’umiltà, il completo abbandono in Dio e la disponibilità al servizio in ogni circostanza. «Mi sono impegnato, nella pazienza, a porre la mia vita nelle mani di Dio, - scrisse - ed Egli non si è dimenticato di me».³
Nel suo intervento in occasione della commemorazione del primo centenario della morte del nostro autore l’allora cardinale Joseph Ratzinger gli associava, non casualmente, un altro grande convertito e letterato. «Mi viene in mente qui la figura di sant'Agostino, così affine alla figura di Newman. Quando si convertì nel giardino presso Cassiciaco, Agostino aveva compreso la conversione ancora secondo lo schema del venerato maestro Plotino e dei filosofi neoplatonici. Pensava che la vita ata di peccato era adesso definitivamente superata; il convertito sarebbe stato d'ora in poi una persona completamente nuova e diversa, e il suo cammino successivo sarebbe consistito in una continua salita verso le altezze sempre più pure della vicinanza di Dio. (…) Ma la reale esperienza di Agostino era un'altra: egli dovette imparare che essere cristiani significa piuttosto percorrere un cammino sempre più faticoso con tutti i suoi alti e bassi. L'immagine dell'ascensione venne sostituita con quella di un iter, un cammino, dalle cui faticose asperità ci consolano e sostengono i momenti di luce, che noi di tanto in tanto possiamo ricevere. La conversione è un cammino, una strada che dura tutta una vita. Per questo la fede è sempre sviluppo, e proprio così maturazione dell'anima verso la Verità, che "ci è più intima di quanta noi lo siamo a noi stessi". Newman ha esposto nell'idea dello sviluppo la propria esperienza personale d'una conversione mai conclusa, e così ci ha offerto l'interpretazione non solo del cammino della dottrina cristiana, ma anche della vita cristiana. Il segno caratteristico del grande dottore nella Chiesa mi sembra essere quello che egli non insegna solo con il suo pensiero e i suoi discorsi, ma anche con la sua vita, poiché in lui pensiero e vita si compenetrano e si determinano reciprocamente. Se ciò è vero, allora davvero Newman appartiene ai grandi dottori della Chiesa, perché egli nello stesso tempo tocca il nostro cuore e illumina il nostro pensiero».
John Henry card. Newman
Chiunque si accinga a scrivere la propria autobiografia, similmente a quanto avviene per lo storico, si trova a dover ordinare una massa di ricordi e di fatti tanto ingente e personale da richiedere necessariamente una chiave interpretativa per poter diventare racconto: l’autobiografia appartiene infatti alla macrocategoria del genere letterario narrativo, che attinge il proprio materiale grezzo non tanto nel territorio del fantastico, quanto piuttosto tra i dati storici reali. Scrivendo di sé, l'autobiografo rilegge il proprio percorso di vita rintracciandone una logica nascosta, non immediatamente evidente, eppure innegabile, quando viene scoperta. E proprio questa logica consente di dipanare la narrazione lungo una traccia ben precisa. Sta al lettore, poi, decodificare a ritroso i meccanismi autobiografici, o servendosi di artifizi retorici conosciuti, oppure confrontando il racconto soggettivo con l'oggettività del dato storico. Quest'ultima operazione diventa tanto più necessaria quando ci si trova di fronte ad un'apologia, cioè ad un'opera scritta con lo scopo dichiarato di difendere se stesso, il proprio comportamento, le proprie scelte, le proprie affermazioni e idee, da accuse ed attacchi ritenuti ingiusti, per malevolenza o incomprensione. In questo caso il lettore si trova di fronte due posizioni contrapposte, considerate però non da un osservatorio super partes, ma da un'ottica sbilanciata dalla parte di chi si pone nell'atteggiamento dell'autodifesa. Sarà condivisibile questa interpretazione unilaterale, o sarà più convincente la parte avversa, soprattutto se conosciuta in maniera più neutrale? Per farsi un giudizio più obiettivo bisognerà ascoltare le ragioni del contendente, o rivolgersi a fonti che hanno esaminato i fatti in modo disinteressato. Per un opportuno inquadramento dell’Apologia Pro Vita Sua di Newman, quindi, si avverte l'esigenza di un’introduzione di carattere storico-biografico, in cui venga evidenziata la collocazione culturale e ambientale sia dell’autore, sia di questa autobiografia dalle vaste e molteplici risonanze. Le pagine del nostro autore, infatti, sono zeppe di riferimenti alle circostanze occasionali che le hanno generate e alla polemica concreta con il dott. Kingsley che, scagliandosi contro l'avversario, aveva finito per coinvolgere l'intero clero cattolico e la Chiesa
romana nel suo complesso.
Profilo biografico
John Henry Newman nacque a Londra il 21 febbraio 1801. Il padre, John Newman, era un banchiere appartenente ad una benestante famiglia di possidenti; la madre, Jemima Fourdrinier, vantava ascendenze si e ugonotte.
Educazione e formazione
Dell’infanzia e della fanciullezza di John Henry non possediamo informazioni particolareggiate, e solo qualche sprazzo di luce è gettato su questi anni da scritti autobiografici occasionali. Egli stesso, citando il diario accuratamente tenuto fin da giovane, parlò di questa prima età affermando:
“Il mondo della mia fantasia era pieno di influssi ignoti, di presenze magiche e talismani... Pensavo che la vita potesse essere un sogno, o io un angelo e tutto questo mondo un inganno (...) Ero molto superstizioso e per qualche tempo prima della mia conversione" (all’età di quindici anni) “facevo sempre il segno di croce prima di andare in un luogo buio”¹. L’educazione religiosa rivestì un’importanza fondamentale già nell’ambito familiare. Eppure si può affermare, con probabile verosimiglianza, che nell'età della fanciullezza le sue occupazioni principali siano state per lui, come per gli altri ragazzini di quell'età, il gioco e il divertimento, piuttosto che gli interessi intellettuali. I primi studi il piccolo John Henry li compì come allievo interno nel Collegio di Ealing, presso Londra, che a quei tempi godeva di una certa rinomanza. Attorno ai quindici anni si verificò una prima e fondamentale svolta nella sua vita spirituale, cioè il aggio da una posizione religiosa piuttosto
vaga o comunque superficiale ad una fede ben definita, influenzata dalle idee del pastore calvinista Walter Mayer. Gli scritti del teologo entusiasmarono il ragazzo, imprimendogli un incancellabile senso del “credo”, ossia di un preciso complesso di dottrine di fede. In questo stesso periodo maturò una forte attrazione per l’incrollabile amore alla verità trovato negli scritti di Thomas Scott, un convertito dall’Unitarianesimo all’Anglicanesimo che aveva imparato a conoscere fin da quando, da bambino, ne ascoltava la lettura a voce alta seduto sulle ginocchia della madre o della zia.
Ad Oxford
Nel 1817 iniziò lo studio accademico ad Oxford, presso il Trinity College. La sproporzione della sua preparazione, carente rispetto a quella di altri compagni, lo portò a dedicarsi con fervore e accanimento allo studio (forse anche con un pizzico di amor proprio), tralasciando quegli aspetti della vita goliardica, che era portato a stigmatizzare già per il suo austero senso morale. Nel 1820 il giovane Newman divenne Bachelor of Arts e nel 1822 fu brillantemente eletto fellow di Oriel College a Oxford, entrando così a pieno titolo fra i membri dell’Università. La gioia intensa e la trasparente umiltà con la quale accolse questa notizia ci rivelano quanto egli aspirasse dal profondo dell’anima a dedicarsi totalmente all’attività intellettuale e didattica. Un tempo aveva ammirato la grandezza della vita missionaria e aveva nutrito questo ideale; ora gli pareva di poterlo comunque realizzare, anche se in forma differente, nell’attività educativa e nell’impegno formativo di tante giovani coscienze. La sua intensa e austera vita interiore lo condusse a considerare con grande stima il celibato volontario, come segno radicale di donazione di sé a Dio senza riserve. Fu con questo spirito e con questo solenne proposito che nel 1824, a ventitré anni, ricevette l’ordinazione sacerdotale anglicana. Così la vita del Newman si aprì alla nuova esperienza del ministero presso la povera parrocchia di S. Clemente, che lo portò a contatto con gente di ogni estrazione sociale, anche umile, con i suoi problemi, le sue attese, le sue fatiche. Due anni dopo, però, nel 1828, dovette abbandonare questa attività pastorale in seguito alla nomina a tutor nel suo College di Oriel. Il nuovo rettore, il dott. Hawkins, lo
volle come collaboratore per presiedere allo studio dei giovani universitari, accompagnandoli nell’impegno della ricerca scientifica: un incarico così oneroso da assorbirlo a tempo pieno. L’accostamento ai circoli intellettuali dell’ateneo oxoniense avvenne quasi naturalmente, attraverso il gruppo dei primi liberals, chiamati, per la forte accentuazione razionalistica del loro approccio, “noetici”: fra di essi Copleston, Whateley e Hawkins erano i più conosciuti.
La personalità di Newman, però, il suo temperamento e la sua stessa formazione spirituale e mentale lo portarono ben presto ad allontanarsi da quei luminari e ad avvicinarsi ad un giovane collega, Hurrell Froude, fellow anch’egli ad Oriel. Discepolo di Keble, questo spirito indipendente esercitò un forte influsso sull’animo del nostro autore, per l’originalità dell’ingegno. Con vigore ed acume professava idee alquanto ardite: ammirazione per la Chiesa cattolica-romana, disprezzo per la Riforma e il suo triplice apoftegma “sola fede, sola grazia, sola Scrittura”, apprezzamento per la funzione di una gerarchia ecclesiastica istituzionale e sacerdotale. In realtà l’influsso dei due amici fu reciproco, e ciò che Hurrell Froude fece per iniziare Newman al cattolicesimo medioevale fu portato dal giovane collega ancora oltre nelle sue conseguenze verso orizzonti più vasti, come appare dai Parochial and Plain Sermons, pronunciati nella chiesa di Saint-Mary, la parrocchia dell’Università, che era stata affidata nel 1828 alla responsabilità pastorale del futuro cardinale.
Il viaggio in Sicilia e il movimento Trattariano
Nel 1833 si verificò una svolta decisiva. A causa di un’insanabile diversità di vedute, Newman ruppe definitivamente anche con il “provost”, il rettore del suo collegio, si dimise dall’incarico accademico, e decise di accompagnare l’amico Froude, malandato in salute, in un viaggio per il Mediterraneo, visitando l'Asia Minore, la Grecia, l’Italia meridionale e Roma. La circostanza apparentemente banale di questo primo esodo lontano dall’Inghilterra provocò invece fortissime impressioni nell’animo inquieto e nell’intelligenza ansiosa del giovane ecclesiastico. Non si trattò solo di visitare i luoghi della classicità, divenuti
familiari per le letture e gli studi; egli si sentiva irresistibilmente attratto dal mondo religioso della Chiesa cattolica romana, che aveva ora l’opportunità di accostare direttamente. L’apprezzamento che sentiva crescere dentro di sé non era cieca infatuazione, perché andava di pari o con un’istintiva repulsione per quelle forme di religiosità popolare che sconfinavano nella superstizione.
Eppure in quella Chiesa riconosceva valori così grandi, da fargli sentire dolorosamente tutto il peso della loro assenza nella sua Comunità tanto amata. Lo stato d’animo di particolare sensibilità provocatogli da una malattia occorsagli in Sicilia gli presentò d’un tratto davanti agli occhi il suo viaggio lontano dalla patria come una metafora di un altro esodo ben più penoso, attraverso le terre aride dell’idolatria di se stesso e delle proprie idee confessionali. Se certe pratiche devozionali dei cattolici ai suoi occhi non potevano essere accettate nella loro forma esasperata, troppo lontana dalla sobrietà apostolica, l’estremo razionalismo di certi teologi anglicani e la ricerca di una purezza fredda e disincarnata della fede privava la Chiesa d’Inghilterra e i suoi fedeli di una risorsa imprescindibile del cuore umano, fatto anche di affetto, ionalità e sentimento. L’anticipato rientro in patria fu così dominato da una convinzione nata da una istantanea illuminazione, attribuita ad un intervento soprannaturale: la missione di restituire alla Comunione Anglicana il suo vero volto, combattendo soprattutto il cancro del liberalismo, predicato con accenti carismatici da Matthew Arnold. Cinque giorni più tardi, il 4 luglio 1833, con un potente discorso pronunciato dal pulpito dell’Università di Oxford e pubblicato con il titolo di Apostasia Nazionale, il dr. Keble protestava con grande vigore contro la debolezza della Chiesa Anglicana, divisa e sottomessa al potere statale fino a perdere la sua originaria fisionomia e il primato che in essa devono avere costituzionalmente la realtà e i valori spirituali.²
“Ho sempre considerato e ricordato quel giorno, - notò Newman – come l'inizio del movimento religioso del 1833” (AP p.173): il cosiddetto Movimento di Oxford. In opposizione alla crescente diffusione delle correnti “liberali”, che facevano della religione un puro fatto psicologico e storico, si sentiva come esigenza sempre più impellente una vigorosa rinascita religiosa che sapesse
recuperare nel loro vero significato anche gli aspetti dogmatici e liturgici, tanto criticati e sviliti sotto l’influsso protestante. Newman fu considerato da tutti come il leader, l’anima di questo promettente gruppo di ecclesiastici, che si proclamavano impegnati nella rivalutazione degli ideali del Cristianesimo primitivo e del periodo fecondo dei Padri e Dottori della Chiesa. Queste idee venivano pubblicizzate da scritti periodici di carattere teologico e storico, i Tracts for the Times, da cui il movimento prese anche il nome di “trattariano”. Fu il periodo più entusiasmante della sua vita. L’assoluta convinzione della verità del suo punto di vista lo spinse ad un’attività frenetica, di predicazione e pubblicazione incessanti e ad altissimo livello. L’idea-madre che lo guidava in questa fase fu da lui denominata “Via Media”, per definire l'orizzonte nel quale l’Anglicanesimo avrebbe dovuto collocarsi, a metà strada fra il radicalismo protestante, negatore della Tradizione, della Chiesa e in fondo della stessa fede apostolica, e l'abuso romano-cattolico, che nel corso dei secoli aveva sovrapposto, nella sua opinione, alla genuinità dei dogmi primitivi una pesante sovrastruttura ecclesiastica. Le sue opere di questi anni, Prophetical Office, Lectures on Justification e i Tracts for the Times danno un forte scossone all’atmosfera infiacchita e nervosa della Chiesa nazionale, suscitando un diffuso desiderio di attingere dalle pure fonti delle origini la santità a cui ogni cristiano è chiamato per vocazione a tendere.
La crisi
La straordinaria attività di studio e di meditazione portò il Newman a confrontarsi con una serie di esperienze storiche: la vita dei Padri della Chiesa e le vicende del Cristianesimo antico, con le diverse comunità divise tra loro, gli offrirono come un’immagine speculare sulla quale vide proiettata la sua stessa situazione e quella degli anglicani contemporanei in riferimento alle altre comunità cristiane. Precorrendo i fermenti ecumenici del XX secolo e oltre, egli percepì acutamente il problema dell'unità e della fedeltà alla verità rivelata come cruciale per la stessa legittimità dell’esistenza di una Chiesa. La storia dell’eresia monofisita e l’assioma agostiniano del primato dell’unità fra i discepoli del Cristo ridussero in polvere la teoria della Via Media,³ manifestando in tutta chiarezza alla mente di Newman l’inaccettabilità della posizione anglicana,
deplorevolmente eccentrica rispetto alla grande “famiglia” dei fedeli. Da questo momento il grande studioso e scrittore si sentì “sul letto di morte” quanto alla sua appartenenza anglicana: è la crisi di tutto ciò su cui aveva fino ad allora costruito la sua vita, i suoi ideali e i suoi progetti, aggravata dalle critiche che furono rivolte al novantesimo dei Tracts for the Times, l’ultimo della serie. In questo famoso saggio tentava di conciliare le fede della vera Chiesa di Cristo, che è necessariamente una e universale, con i ventinove articoli che normano la fede anglicana, definendone quindi anche i caratteri propri e originali. La tesi conciliatrice del leader trattariano fu, dopo un primo periodo di silenzio, bloccata dal Consiglio amministrativo dell’Università: non si trattò di una condanna formale, ma ne fu vietata la pubblicazione e la diffusione.
Attorno a questi eventi si scatenarono polemiche furibonde, ma l’irresolutezza angosciosa del Nostro, che non aveva alcuna intenzione di abbandonare la comunità da lui tanto amata per la Chiesa romana, della quale non sapeva accettare quei fenomeni che ancora vedeva come deformazioni, ricevette tre “colpi” determinanti per la sua ormai imminente conversione.
La vicenda dell’Arianesimo, a cui stava dedicando il suo studio, gli fornì ancora una volta una chiara visione della posizione scismatica occupata dalla Chiesa nazionale del suo tempo; i vescovi emanarono una condanna ufficiale del Tract 90. L'istituzione di una nuova diocesi anglicana a Gerusalemme rappresentò un malcelato tentativo di sconfessare il carattere strettamente nazionale dell’Anglicanesimo per allargare a livello “cattolico” uno scisma storicamente limitato; ma fu del tutto deludente la decisione di assumere ufficialmente l’evangelismo di marca protestante a giustificazione teologica di questo assurdo giuridico ed ecclesiologico.
L’adesione alla Chiesa romana
Il senso di estraneità alla Chiesa di Inghilterra e alla fede da essa professata si fece acuto nella coscienza di Newman e si tradusse esteriormente nel ritiro
dall’attività pastorale e pubblicistica. Abbandonò la residenza di Oxford per cercare silenzio e libertà nella vicina proprietà di campagna a Littlemore, ove cominciò a condurre una vita quasi monacale. Nel 1843 rinunciò alla cura della chiesa di Saint-Mary, dopo aver pronunciato davanti ai fedeli l’ultimo commovente sermone di addio. A lui continuò però a rivolgersi un nutrito gruppo di discepoli, che lo spingeva a trarre conseguenze radicali dalle sue premesse intellettuali e teologiche, mentre egli si sentì in coscienza obbligato ad esortarli ad un’incrollabile fedeltà all’Anglicanesimo. La Chiesa cattolica, che tenne caparbiamente distante, esercitò sul suo animo un fascino potente, che rese il lacerante distacco dal mondo a lui tanto caro e familiare sempre più inevitabile. Sotto lo sguardo sospettoso e maligno dei nemici si sviluppò l’inesorabile riflessione del grande beato, che non poteva soffocare l'imperativo interiore della coscienza: la devozione ai santi, che tanto lo attrasse sempre e di cui sentì la mancanza nella Chiesa in cui era nato, fu compresa ora in perfetta armonia con l’adorazione di iperdulia che spetta solo al Creatore.
Anche la difficoltà presentata dalle devozioni popolari, dai dogmi proclamati dal Concilio Tridentino e da altre forme di vita tipicamente ecclesiastica della Chiesa cattolica-romana, gli apparvero interpretabili, alla luce del principio dello sviluppo del dogma, come un’evoluzione legittima sulla base della comune fede apostolica, adattata e conformata alle mutate esigenze dei tempi. Nel settembre 1843 ritrattò le precedenti sue affermazioni di condanna e di critica nei confronti di Roma, ma rimandò ancora di due anni una decisione dolorosa e definitiva, finchè il 3 ottobre 1845 – mentre stava dedicandosi alla stesura del suo magistrale trattato On the Development of Christian Doctrine – rinunciò alla fellowship presso l’Oriel College e il 9 dello stesso mese pronunciò la sua abiura della fede anglicana davanti a Padre Domenico Barbieri, un ionista italiano.
Il periodo cattolico
Il 22 febbraio 1846, il giorno successivo al suo quarantacinquesimo compleanno, lasciò Littlemore, Oxford e tutto quanto aveva vissuto e amato in metà della sua
vita, lasciò tutto per non tornare più indietro. Con altri pastori che avevano aderito al Movimento di Oxford, da lui fondato, e che condividevano la decisione di are alla comunione con la Chiesa cattolica, il Nostro si ritrovò a Old Oscott per affidarsi alla guida del futuro Card. Wiseman, con la speranza di ottenere il consenso all'ordinazione sacerdotale anche nella comunione romana. Costui, però, dopo pochi mesi, lo mandò a Roma a completare la sua formazione teologica, insieme ad un carissimo discepolo, Ambrose St. John, che aveva avuto il coraggio di seguirlo anche nel clamoroso o della conversione. Per un anno Newman si sottomise pazientemente, come un novizio, alle indicazioni e alle istruzioni che gli vennero impartite. Il 30 maggio 1847 fu ordinato sacerdote cattolico e in breve tempo ottenne con altri sei compatrioti il permesso di abbracciare la vita religiosa nell’obbedienza alla Regola dell’Oratorio di S. Filippo Neri. Nel dicembre dello stesso anno 1847 rientrò in Inghilterra fornito di un’autorizzazione dello stesso Sommo Pontefice Pio IX a fondare un Oratorio inglese, che venne aperto ufficialmente il primo febbraio 1848 a Maryvale, nei dintorni di Birmingham. Il periodo cattolico della vita di Newman, dopo la pausa romana, iniziò con un vorticoso e febbrile lavoro, non solo intellettuale. In quelle stesse settimane infatti aveva accettato con i confratelli la responsabilità della missione cattolica da predicare in Birmingham, mentre nel maggio fondava la sede londinese dell’Oratorio. Nel 1852 gli oratoriani di Birmingham si trasferirono a Edgbaston, che diverrà il centro di irradiazione dell’opera e del pensiero del futuro cardinale anche dopo la sua scomparsa.
Fin dal 1851 i vescovi irlandesi avevano deciso di are alla realizzazione del progetto, a lungo coltivato, di aprire un’Università Cattolica nella capitale del loro paese. E l’Oratoriano inglese, che tanti anni aveva trascorsi ad Oxford, ne fu nominato Rettore. La sua vita fu divisa fra l’Inghilterra e Dublino, dove edificò dal nulla un grande centro di studi superiori, costituito soprattutto dalle facoltà di Lettere e Medicina. Questa responsabilità di ampia portata, con tutta l'attività che portava con sé, stimolò la sua riflessione sempre profonda e originalissima, che prenderà forma nel saggio The Idea of a University. Le sue idee moderne e coraggiosamente aperte non furono comprese né approvate né seguite dai collaboratori e dai superiori, tanto che nel 1848 fu sollevato dall’incarico. Un triste seguito di polemiche e sospetti scaturirono dal tentativo operato dal
grande intellettuale inglese di salvare una testata nuova, “The Rambler”, di cui accettò di divenire direttore. La rivista però era invisa a molti esponenti del clero cattolico per l’approccio troppo liberaleggiante con cui venivano affrontati problemi spinosi di carattere sociale e religioso, sui quali l’autorità suprema non si era ancora pronunciata ufficialmente. A Newman premeva soprattutto dar vita ad un foglio che costituisse un riferimento valido per tanti convertiti che sentivano comuni esigenze di approfondimento culturale e di mutuo sostegno lungo il loro itinerario religioso. Purtroppo però non riuscì ad indirizzare la linea redazionale su posizioni più prudenti, finché dovette abbandonare il progetto su richiesta del vescovo. Nel 1862, dopo l’abbandono precoce del lavoro per la fondazione dell’Università Cattolica a Dublino, che non attirava i giovani inglesi, inclini piuttosto a scegliere i prestigiosi atenei di Oxford e Cambridge, il vescovo di Birmingham, Mons. Ullathorne, che aveva grande stima e rapporti amichevoli con Newman, pensò di affidare ai religiosi filippini la missione cattolica di Oxford. Sembrava l’occasione provvidenziale a lungo attesa per avvicinare vicendevolmente la comunità cattolica e l’Università ufficiale, ma tutto finì in nulla per l’opposizione tenace del partito ultramontano di W.G. Ward e Manning, che lo costrinsero all’inattività per limitarne l’influsso già forte, che si estendeva non solo tra i membri della comunità cattolica, ma anche tra i protestanti.
L’Apologia Pro Vita Sua e la porpora cardinalizia
Una nuova tappa nella complicata e apionante vicenda biografica del nostro scrittore è rappresentata dalla pubblicazione nel 1865 dell’autobiografia spirituale Apologia Pro Vita Sua, originata da una pubblica polemica, dai toni roventi, ingaggiata con Charles Kingsley. Di questa vicenda ci occuperemo più dettagliatamente nelle pagine seguenti. E’ da rilevare, in questa sede, l’enorme eco suscitata da questa sincera e toccante esposizione della sua riservatissima e trasparente personalità, accusata malignamente di falsità e tradimento. Colui che veniva chiamato “il solitario di Edgbaston” per lo stile ritirato della sua vita, divenne un personaggio notissimo, in conseguenza della pubblicazione di questo libro largamente conosciuto, che riuscì anche a dissipare in gran parte i gravi pregiudizi che provocavano l’emarginazione dei cattolici “papisti” da tutti gli
aspetti della vita nazionale. Quanto l’autodifesa sia riuscita a provocare dovunque un crescente sentimento di stima e rispetto per il suo autore, è dimostrato dal conferimento, da parte del collegio anglicano da lui frequentato quando era studente, del titolo onorario di fellow del Trinity College.
Per quanto riguarda la Chiesa Cattolica ufficiale, invece, due anni più tardi, nel 1879, il Sommo Pontefice Leone XIII volle nominarlo cardinale, accogliendo la richiesta presentatagli dal Duca di Norfolk e da Lord Ripon a nome di tutti i cattolici inglesi. In realtà, come abbiamo accennato, il genio e la grandezza di John Henry Newman erano ormai riconosciuti unanimemente in Inghilterra e oltre i confini della patria e della sua Chiesa. Gli ultimi anni della vecchiaia furono dedicati da Newman alla preparazione dell’edizione completa delle sue opere e alla redazione degli Autobiographical memoirs, grazie alla sua prodigiosa memoria che non gli venne mai a mancare. Morì nell’Oratorio di Edgbaston (Birmingham) l’11 agosto 1890.
Come ha avuto origine l’Apologia
Un’opera come l’Apologia Pro Vita Sua si propone di essere non solo un'autodifesa personale, a difesa della propria buona reputazione da parte dell'autore e in risposta ad ingiustificati attacchi. Essa intende anche replicare alle accuse pregiudiziali rivolte ai sacerdoti e alla Chiesa cattolica romana da virulenti polemisti, che avevano comunque di mira, come obiettivo ultimo, di gettare il discredito sulla figura di Newman. In essa vediamo progressivamente venire alla luce il vissuto umano, i percorsi culturali, i travagli e le lotte, i moti di una spiritualità interiore e l'intrecciarsi di rapporti umani, che un'intera vita ha maturato. Ma qui noi ci occuperemo solo dei fatti storici nei quali si iscrive questa vicenda, e di quanto può servire a comprenderne meglio il significato. Tutta la polemica scoppiata tra Kingsley e Newman, e penosamente protrattasi per tanto tempo, prende origine da una recensione, pubblicata nel gennaio del 1864 sul Macmillan’s Magazine, del settimo e ottavo volume della Storia d’Inghilterra di J.A. Froude. Charles Kingsley, professore di storia a Cambridge, accusò in un o il nostro padre oratoriano di insincerità con un tono particolarmente aggressivo ed aspro. “La verità per se stessa non è mai stata una virtù per il clero romano. Padre Newman ci informa che non è necessario che lo sia, e che in generale non deve esserlo; che l’astuzia è l’arma che il cielo ha dato ai santi per resistere alla maschia forza bruta del mondo malvagio che si sposa e che è dato in matrimonio. Che la sua opinione sia corretta o no dal punto di vista dottrinale, essa lo è perlomeno su quello storico” (AP p.2). L’offeso scrisse in tono cortese agli editori della rivista, non per chiedere una riparazione, ma “per attirare la loro attenzione di gentiluomini su una grave e gratuita calunnia”¹. Fu lo stesso autore dell’articolo a rispondere per iscritto, riconoscendo la paternità di quella recensione e confermando il contenuto dell’attacco, fondato, disse, su molti i degli stessi scritti del convertito, in particolare sul sermone pronunciato nel periodo anglicano nella chiesa di Saint-Mary e pubblicato nel volume Subjects of the Day al numero venti, con il titolo “Wisdom and Innocence”.
All’obiezione secondo la quale quelle parole non erano state pronunciate da un sacerdote cattolico e, comunque, non vi era nulla nel sermone che esprimesse un’opinione quale quella riferita da Kingsley, il professore di Cambridge replicò in tono conciliante: “Il tono delle tue lettere mi fa capire, con mio profondo piacere, che la mia opinione sul significato delle tue parole è erronea. (…) Il dottor Newman in una lettera ha negato in modo assolutamente categorico il significato che avevo attribuito alle sue parole. Nessuno conosce l’utilizzo delle parole meglio del dottor Newman; nessuno dunque ha maggior diritto a definire ciò che voglia, o non voglia dire con esse”.² Newman giudicò insufficiente questo parziale riconoscimento, e dopo un ulteriore scambio di lettere con il suo accusatore, decise di fare appello all’opinione pubblica rendendo nota la corrispondenza intercorsa tra i due. Il commento con cui questa documentazione fu accompagnata era però troppo mordace e parziale, soprattutto all’occhio dei lettori inglesi, prevenuti contro i “papisti” e in qualche modo propensi a giudicare favorevolmente le scuse del Kingsley. A quanto scrive il biografo del futuro cardinale, W. Ward, fu un corposo articolo di Richard H. Hutton sullo Spectator a sbilanciare in senso favorevole al cattolico l’indecisione del grande pubblico. Pur evidenziando i difetti dell’eloquenza apionata di Newman, venne soprattutto stigmatizzato il metodo del professore anglicano, poco stringente nel produrre le prove e nel condurre il ragionamento, poco oggettivo. “Il signor Kingsley, nel modo consueto come in una corsa a ostacoli, con il quale sceglie non tanto di pensare quanto di schizzare il pensiero - fango compreso (spesso molto robusto e qualche volta molto nobile, ma sempre un pensiero molto traballante) in faccia a qualcuno, ha rivolto un’accusa casuale contro Padre Newman sul ‘Macmillan’s Magazine’”.³ Il giudizio conclusivo era quindi a favore di quest’ultimo. Kingsley naturalmente non poteva rassegnarsi a veder chiusa così ingloriosamente la questione e si impegnò nella stesura di un opuscolo in cui raccolse tutte le prove possibili dell’artificiosità e della tortuosità del pensiero e della parola del convertito cattolico. Il tono era violentemente polemico, segno che l’acrimonia e l’antipatia erano ben radicate nell’animo di Kingsley. Il pamphlet intitolato Cosa intende,
allora, il dottor Newman? ava in ricognizione numerosi scritti del suo avversario, sostenendo la sua abituale preferenza per l’oscurità e l’inganno. “Il dottor Newman (…) è ansioso, a quanto sembra, di mostrare la sua credulità. Egli fa funzionare la sua mente, sembrerebbe, in quello stato morboso nel quale l’assurdo diventa l’unico cibo di cui essa ha fame. Come gli antichi sofisti, egli ha utilizzato la ragione per distruggere la ragione. Ho pensato che, come quelli, egli ha conservato la sua ragione per essere in grado di distruggere quella degli altri”.⁴
Ogni riga di questa pubblicazione rivela l’astio di una mente ionale che non sente nemmeno il pudore di nascondere agli occhi altrui la propria avversione per l’antagonista. Le sole brevi righe citate possono dare un’idea dell’asprezza raggiunta dalla polemica e del clima nel quale si colloca le stesura dell’Apologia Pro Vita Sua. Un giudizio drastico venne riportato all’epoca da un osservatore tanto qualificato quanto imparziale, R. H. Hutton, che pubblicò nuovamente sullo Spectator un aggiornamento sugli ultimi sviluppi della vicenda, commentando in senso senz’altro negativo sia il tono sia i contenuti dell’opuscolo Cosa intende, allora, il dottor Newman? “Il dottor Kingsley replica, in un astioso libello polemico, il quale, non esitiamo ad affermarlo, aggrava l’ingiustizia iniziale di cento volte. (…) Il signor Kingsley evidentemente ritiene assolutamente innocente e perfino degno di apprezzamento lo spiattellare grezze impressioni generali, anche se non sufficientemente dimostrate, che risultano ingiuriose e dolorose alle altre persone, alla sola condizione che siano le sue sincere impressioni”.⁵ Improvvisamente Newman si rese conto che lo stato d’animo generale nei suoi confronti era mutato in maniera rilevante, e che mai egli aveva avuto a disposizione un uditorio così ben disposto ad un ascolto sereno. Era un’occasione unica, per lui e anche in qualità di sacerdote cattolico-romano, per presentare al pubblico inglese il senso del proprio itinerario spirituale e della propria fede. Attorno a sé si era inavvertitamente e involontariamente venuto a creare un clima di generale rispetto e considerazione. Due soprattutto sembrano essere stati gli aspetti della critica rivoltagli dal
pamphlet di Kingsley a colpirne la sensibilità e a fargli vedere come necessaria e urgente un’adeguata risposta. In primo luogo il tentativo disonesto di sottrarre definitivamente qualsiasi apparenza di credibilità ad ogni parola e ad ogni scritto di Newman, non solo appartenente al ato, ma anche possibile in futuro. Nella prefazione all’Apologia vengono citate le righe finali di quel libello, e vengono riportate più e più volte come se risuonassero insistentemente nella mente dell’offeso come un colpo inferto di sorpresa e il cui dolore morde più acuto proprio per la sua proditorietà. “Nutro dubbi e timori, perciò, quanto può nutrirli qualsiasi uomo onesto, su ogni singola parola che il dottor Newman possa scrivere. Come posso essere sicuro che non sarò vittima di qualche abile doppio senso, di uno dei tre tipi dichiarati leciti da Sant’Alfonso de’ Liguori e dai suoi discepoli, anche se confermati da un giuramento, perché ‘allora non siamo noi ad ingannare il nostro prossimo, ma lasciamo che si inganni da sé’?” (AP p. 122). Questa insinuazione disumana, commenta Newman, è paragonabile al tentativo odioso e inaccettabile degli assalitori di “inquinare le sorgenti” d’acqua che riforniscono la città assediata. Egli vorrebbe avvelenare in anticipo la mente dei possibili futuri lettori, insinuando in essi il sospetto e l’incredulità preconcetta. In secondo luogo il polemista cattolico si vede coinvolto in un’accusa che da motivo personale si allarga a tutti i confratelli sacerdoti della Chiesa romana. Se è già un preciso dovere morale tutelare il proprio buon nome e la propria integrità individuale, la difesa dell’Ordine Sacro diviene una missione superiore, trascendente l’occasione contingente. Nell’elaborare la propria apologia, Newman sentiva di dover parlare a nome di tante nobili persone, dedicate ad altissimi ideali meritevoli di ogni onore e rispetto, e ora fatti oggetto di insinuanti menzogne per via indiretta. Tutte le circostanze dunque parlavano in favore di una meditata replica, con la quale sfruttare opportunamente a vantaggio proprio e della propria causa il o falso del dott. Kingsley che, per far pesare sull’avversario il carico della pubblica riprovazione era caduto nella trappola da lui stesso preparata. La grande illuminazione di Newman fu nell’avere compreso in modo geniale che la forza del suo accusatore non stava tanto nell’apoditticità degli argomenti da lui portati, ma nell’ostilità con cui era accolta ogni affermazione di parte cattolica e nella corrispondente benevolenza goduta dal professore di Cambridge, aprioristicamente, e che ora era insperatamente incrinata e dissipata.
Così si espresse in modo magistrale lo stesso protagonista: “Sì, ho detto a me stesso, il suo problema principale è su quello che io intendo: ‘Cosa intende il dottor Newman?’. Questo va nella stessa direzione verso cui mi avevano già portato le mie riflessioni. Egli chiede che cosa intendo; in fin dei conti non gli interessano le mie parole, i miei argomenti, le mie azioni, ma quella intelligenza viva con la quale scrivo, discuto e agisco. (…) La mia perplessità non era durata neanche mezz’ora. Individuai subito che cosa dovevo fare, anche se indietreggiavo restio davanti al lavoro e all’esposizione al pubblico dominio che questo avrebbe comportato. Devo dare la vera chiave di lettura di tutta la mia vita, dissi; devo far vedere cosa sono, perché si veda quello che non sono e lo spettro che barbuglia al mio posto possa essere fatto sparire. Vorrei essere conosciuto come un uomo vivo e non come uno spaventaeri rivestito dei miei abiti” (AP p. 130). Presa la decisione sulla spinta di un improvviso e chiarissimo insight, e di un’ondata emotiva che lo coinvolgeva personalmente senza togliergli la lucidità del pensiero, Newman realizzò il suo progetto con rapidità straordinaria. Dal 21 aprile al 2 giugno 1864 pubblicò in sette fascicoli settimanali il resoconto dettagliato delle sue “opinioni religiose”, ossia dell’evoluzione spirituale che lo aveva portato gradualmente alla piena adesione alla Chiesa Romana. Lavorò senza sosta sedici ore per comporre la terza parte, e ventidue ore consecutive per completare la quinta, quella cruciale! I fascicoli, più l’Appendice edita il 16 giugno successivo, furono poi riuniti in volume con il titolo “Apologia pro vita sua: una risposta al libello intitolato Cosa intende, allora, il dottor Newman?”. Il successo di questo capolavoro andò al di là di ogni aspettativa, e segnò una decisiva inversione di tendenza nei sentimenti degli inglesi verso i cattolici, fino ad allora guardati con sospetto. Il pudore e la trasparenza con cui il religioso rivelava anche le pieghe più riposte del suo animo e dei suoi pensieri, ripercorrendo le tappe più tormentate della sua vita, conquistarono i lettori e il pubblico, decretando così l’affermazione delle ragioni di Newman a definitiva chiusura delle polemiche con il Kingsley, che riconobbe la sua sconfitta. La potente attrazione esercitata dalla prosa accurata dell’Apologia e dalla pacata successione delle argomentazioni e degli appelli emotivi fu tale da essere irresistibile anche per chi, come R.H. Hutton e R.A. Froude, era pregiudizialmente dalla parte avversa.
Bisogna purtroppo aggiungere che forse furono proprio i fratelli della Chiesa cattolica a rimanere più freddi nei confronti dell’autobiografia. Basti citare il caso del futuro cardinale Vaughan il quale, pur apprezzando il libro e la difesa che in esso veniva sviluppata, trovò biasimevole lo spirito eccessivamente egocentrico che lo pervadeva e che qualificò come “disgustoso”. La grande diffusione dell’opera e la risoluzione del caso che l’aveva originata, contribuirono insieme a che venisse preparata una riedizione corretta e in più punti rielaborata. Nel 1865 venne pubblicata, sempre per i tipi dell’editore Longman & Green, la seconda versione, che portava il titolo History of my Religious Opinions. Dopo la fase del fervore ionale, fu questo il momento della clemenza e della moderazione: vennero espunte tutte le asprezze troppo mordaci, che ad alcuni lettori erano spiaciute suonando come note stonate; le parti prima e seconda vennero condensate e trasferite nella Prefazione, per quanto contenevano di maggiormente oggettivo; la Answer in Detail alle contestazioni di Kingsley venne sostituita con sette note di appendice, in parte di nuova composizione, redatte in modo da eliminare ogni riferimento esplicito alla persona del contendente. Il tono risultante, più pacato e misurato, contribuì ad accrescere la forza di persuasione delle argomentazioni, ed apparve come prodotto di una personalità più padrona di sé e dello stesso status quaestionis in cui si era trovata coinvolta suo malgrado. L’opera ne guadagnò anche in precisione per quanto riguardava tutti quei dettagli che, a causa della fretta, erano stati riportati in maniera sommaria e talvolta inesatta. Ma lo stile colloquiale venne conservato, con tutta la sua carica suggestiva e accattivante. Allo stesso anno appartiene infine la terza e definitiva edizione, che porta il titolo di Apologia Pro Vita Sua: Being a History of His Religious Opinions. Questa redazione, che combina i due precedenti titoli, è sostanzialmente rimasta quella che leggiamo ancora oggi, ad eccezione di una piccolissima aggiunta operata da padre William Neville, esecutore letterario di Newman, dopo la morte di costui. Anche rispetto alla precedente edizione le modifiche sono limitate e di scarsa rilevanza, collocandosi nella linea di quelle accennate sopra.
L’autobiografia come genere letterario
Dopo aver tratteggiato la figura storica del Newman e ricordato le circostanze che hanno dato origine alla sua autobiografia apologetica, in questa seconda parte ci addentreremo in considerazioni di carattere formale, per analizzare i criteri che definiscono il genere letterario autobiografico, ossia il racconto di vita narrato dal protagonista stesso. È evidente, ancor prima di addentrarci in questo studio, che sotto il nome di autobiografia è possibile classificare opere assai diverse tra loro. Un’ulteriore notazione, infine, é necessario aggiungere: contesti geografici lontani, ambienti culturali disomogenei ed epoche storiche differenti impregnano della loro linfa le persone che vi hanno abitato e imprimono di conseguenza il loro timbro inconfondibile anche alle loro opere. Ciò detto, veniamo ad esaminare le macroclassificazioni che alcuni critici letterari hanno impostato per collocare le diverse tipologie di autobiografia entro un quadro organico.
Autobiografia soggettiva ed oggettiva
Pur non essendo certamente facile definire il libro del cardinale inglese con una denominazione univoca e condivisibile da tutti, tuttavia quella dell’autobiografia spirituale o interiore sembra essere la più consona alle finalità che l'autore dichiara e quella che oggettivamente ne rappresenta in modo più fedele i contenuti. Avrom Fleishman, nel suo studio¹, parte dall'affermazione paradossale che "nessuno può dire che cosa sia l'autobiografia", e in realtà non sono molti i punti su cui i vari autori si trovano d’accordo. Basti citare l’opinione di un altro importante studioso, lo Shumaker,² il quale, nel tentativo di mettere ordine nel mare magnum inesplorato della letteratura autobiografica, osserva che la sensibilità che spinge a narrare la propria vita ad un vasto pubblico di lettori è tipicamente moderna e pressoché sconosciuta agli antichi, ad eccezione delle
confessioni religiose e di qualche altro rarissimo precursore.
Fleishman, al contrario, risale ai bagliori della civiltà storica, citando l'esempio di un’iscrizione mesopotamica pseudoautobiografica, collocabile fra i miti “della nascita di un eroe”, in cui il re Sargon parla in prima persona delle sue oscure e umili origini. Per lo Spengemann,³ che distingue fra "autobiografie storiche" (Dante, Bunyan, Franklin), "autobiografie filosofiche" (Rousseau, Wordswoth, De Quincey) e "autobiografie poetiche" (Carlyle, Dickens, Hawthorne), il genere letterario autobiografico ha subito soprattutto nell'ultimo secolo e mezzo profonde trasformazioni, che tendono ad avvicinarlo al racconto fantastico e romanzesco, ma nel suo complesso non si è mai sostanzialmente allontanato dal paradigma classico rappresentato dalle Confessioni di Sant'Agostino. Shumaker, uno studioso dotato di serietà e rigore di metodo, servendosi di studi critici ancora pionieristici, come il volume di Waldo Dunn, English Biography (1913), cita la suddivisione fra autobiografie oggettive e soggettive, a seconda che siano incentrate su una prospettiva esterna o interna rispetto a chi scrive. Questi presupposti eccessivamente generici rappresentano il limite con cui deve confrontarsi lo Shumaker nel momento in cui tenta di dare una sua definizione. "L'autobiografia è la testimonianza espressamente 'veritiera' di una persona, scritta dal soggetto stesso, e composta come un'opera completa. 'Espressamente veritiera' esclude resoconti metaforici o di fantasia; 'composta come un'opera completa' esclude lettere, rapporti e diari".⁴ Trent’anni più tardi, Fleishman ha davanti a sé un panorama molto più differenziato, e la presentazione delle acquisizioni critiche sull’argomento è, questa volta, più completa e approfondita, pur comprendendo alcune teorie che si pongono a cavallo fra letteratura e scienze umane, come quella psicanalitica, che non risultano certo immediatamente comprensibili e facilmente condivisibili.
Teoria purista
La prima ad essere descritta in Figures of Autobiography è la teoria purista, la più ingenua da un certo punto di vista; "essa sostiene che un'autobiografia è una biografia scritta da se stessi, con l'obiettivo e la pretesa di offrire informazioni verificabili sul suo oggetto storico".⁵ La questione della verificabilità e veridicità del racconto autobiografico è particolarmente delicata e nello studio dell’Apologia Pro Vita Sua assume un’importanza ancora maggiore. Questa teoria, di fatto, mostra tutti i suoi limiti alla luce di alcune semplici considerazioni molto generali. Trattandosi, com’è ovvio, di una particolare costruzione letteraria, anche l’autobiografia deve fare i conti con tutte quelle convenzioni che rendono possibile la scrittura, e quindi anche l’intenzionalità dell’autore che professa di escludere ogni falsificazione e ogni invenzione può essere, a buon diritto, considerata parte di questa convenzionalità. D’altro canto la distanza che separa la concretezza delle esperienze vissute nel corso di un’intera esistenza - con il coinvolgimento di tutte le facoltà umane (ragione, emozionalità, corporeità, spirito, istintualità, memoria, autocoscienza, ecc.) – da ciò che risulta da una sua descrizione attraverso uno strumento molto più povero quale è la scrittura, può essere colmata a fatica solo ricorrendo alla capacità simbolica ed evocativa del linguaggio, e del linguaggio “pietrificato” nello scritto. L’autobiografia si serve naturalmente di un complesso di tecniche narrative e artifici retorici in cui l’abilità dello scrittore finisce per prendere il sopravvento sull'attualità del dato storico; va tenuto presente, inoltre, che la veridicità storica dell’autobiografia è vanificata da altri piccoli ma significativi fattori da non dimenticare: "Errori e inesattezze di vario genere, che siano volute o anche involontarie. (...) Ci sono vuoti di memoria, che sono riempiti da supposizioni su ciò che deve essere avvenuto. C'è un'abitudine razionalizzante della mente, che (...) preferisce l'impossibile probabile all'improbabile ed è inconsciamente desideroso di piegare l'esperienza al suo significato. C'è un desiderio naturale di apparire utile, di mostrarsi in una luce favorevole. Ci sono fallimenti semantici che nascono dall'incapacità di comunicare efficacemente ciò che viene ricordato accuratamente e correttamente interpretato".
Coerenza interna
La seconda teoria recensita da Fleishman, affine alla precedente, è quella di Roy Pascal, il quale, rinunciando alla veridicità, richiede da un’autobiografia almeno la coerenza con il punto di vista adottato. Lo scrittore, afferma Pascal, si trova alla prese con un enorme bagaglio di dati per lo più insignificanti e simili a quelli che riempiono la vita di tutti gli uomini. E’ l’adozione di una matrice interpretativa che gli permette di operare selettivamente per individuare gli aspetti più originali e significativi della sua esperienza. Come lo storico e come il biografo, anche l’autobiografo “ricrea” il ato, lo spiega, vi scorge un significato, una finalizzazione (percepibile solo a posteriori), lo manipola. Ma se Pascal è disposto a perdonare questo peccato contro l'oggettività pur di assaporare con gusto la poesia, non è disposto a are sopra la falsificazione e l’incoerenza con altrettanta benevolenza.
Convenzionalità
La terza posizione critica riportata da Fleishman sottolinea il carattere convenzionale e istituzionale dell’autobiografia e la colloca più vicina alla prosa romanzesca che a quella storica. Questa teoria rileva la potenza dei condizionamenti culturali, i quali esercitano la loro forza di attrazione su ogni soggetto, per quanto geniale e anticonformista. La letteratura, prodotto tipicamente e massimamente culturale, riceve l’impronta determinante e propria dall’alveo di tradizione e di civiltà in cui si colloca, e di cui lo scrittore medesimo è parte integrante. Philippe Lejeune parla del “patto autobiografico”,⁷ cui già abbiamo fatto cenno, dell’impegno cioè espresso da parte dell’autore di non tradire la verità e della promessa corrispondente da parte del lettore di dar credito al racconto e alla sua storicità sostanziale. Tutto questo – si aggiunge – garantisce la differenza tra autobiografia e romanzo, nonostante ambedue i generi utilizzino gli strumenti espressivi propri della “fiction”. Nell’autobiografia la convenzionalità diventa addirittura autocosciente, convenzione di se stessa. La compresenza e il continuo intrecciarsi di materiale storico e arrangiamento formale assume in questo genere di letteratura una peculiarità propria, in quanto la vita, di cui si dovranno narrare gli avvenimenti, le circostanze e gli stati d’animo, è già data, e s’impone con la sua attualità come una priorità ineliminabile e assoluta, a cui l’artista dovrà al più dare forma.
L’autore è lo stile
"Un altro approccio all'autobiografia presuppone che ogni testo - ma specialmente l'autobiografia - è inevitabilmente un'emanazione del suo autore, così da rivelarne l'unicità grazie ad un processo naturale, anche senza l'obiettivo, inteso o messo in atto dallo scrittore, di comportarsi in questo modo. Il motto per questo approccio potrebbe essere la massima del naturalista il conte de Buffon: 'Le style est l'homme même - Lo stile è l'uomo’”.⁸ L’analisi letteraria condotta a partire da questa constatazione di per sé illuminante è generalmente poco fruttuosa, limitandosi ad applicare agli idioletti metodi filologici datati. Il presupposto è che l’autore riveli i tratti distintivi della propria personalità e visione del mondo attraverso le proprie deviazioni dall’uso linguistico normalmente codificato. La pedanteria di un procedimento così macchinoso è come un elefante che partorisce un topolino. Più che in dettagli minuziosamente formati, sostiene giustamente Fleishman, la verità contenuta in questo tipo di sottolineatura è riconducibile a un livello molto più generale: è vero che ciascuno di noi esprime se stesso in ciò che fa, dice, scrive, nel suo comportamento e nei suoi atteggiamenti, che attraverso codici comunemente accettati l’individualità afferma se stessa come unica e intraducibile, ma sarebbe molto semplicistico e presuntuoso pretendere di conoscere e definire una personalità a partire dalle sue stranezze ed eccentricità.
Teoria del “mito” (Jung)
Un altro gruppo di critici, sempre secondo Fleishman, si rifà alla teoria junghiana secondo cui la vita è un processo di progressiva integrazione delle diverse componenti psichiche, di quella conscia e quella subconscia in particolare. L’oggettivazione della propria vita attraverso il racconto scritto diventa allora una terapia benefica, in quanto tentativo di integrazione personale nella costituzione di un proprio “mito” (per usare una parola di Jung stesso).
Dalla iva rivisitazione del proprio ato attraverso una serie di immagini mentali, lo sforzo deve orientare verso la descrizione verbale dei fatti e la coscientizzazione di quelle immagini. Lo scrittore dipinge il suo ritratto attraverso un rincorrersi di metafore allusive e come noi lo veniamo a conoscere attraverso queste lenti deformanti, anche egli si ri-crea nella forma delle metafore utilizzate, esiste in questa nuova forma e si completa nel complesso del loro significato. La parola “mito” è utilizzata da questi critici in una triplice inscindibile accezione: mito come corpo tradizionale di racconti che costituisce la fonte da cui attingere le proprie metafore; mito come costruzione architettonica più o meno autentica di se stesso e della propria vicenda personale; mito come ri-creazione di se stesso attraverso la scrittura e la nuova dimensione dell’esistenza a latitudine metaforica.
Destrutturazione
Fleishman non manca però di ricordare anche gli esponenti del movimento psicologico post- freudiano, i quali esprimono il proprio scetticismo quanto alla possibilità di integrazione personale dei diversi strati dell’io. Jacques Lacan, ad esempio, sottolinea l’impossibilità aprioristica di parlare di se stessi con lo stesso distacco emotivo con cui parliamo degli altri o delle cose. Acuto e coraggioso nelle sue affermazioni è Jacques Derrida, secondo il quale la scrittura consegnata dall’autobiografo ai lontani e ai posteri non è altro che il segno non solo della sua presenza, ma contemporaneamente anche della sua assenza. Il soggetto, mentre si rivela, sottrae se stesso al lettore. Le condizioni che rendono possibile la scrittura vanificano praticamente le più encomiabili intenzioni di comunicarsi o ricostruirsi su un raggio più vasto. L’autore che si accinge a narrare la sua vita si sottopone a una deplorevole opera di destrutturazione di se stesso, illusoria per gli altri e negativa per sé, paragonabile ad una vera e propria morte.
Affermazione/negazione: transustanziazione
Come spesso avviene quando opinioni diverse sembrano totalmente contrastanti, in realtà ciascuna di esse contiene una parte di verità da comporre con le altre, in modo che nella reciproca complementarietà si attinga alla ricchezza maggiore. Attento ad evitare sia il facile compromesso, sia il desiderio di conciliare forzatamente gli opposti, Fleishman conclude equilibratamente la sua rassegna, facendo riferimento al concetto di transustanziazione, che comprende l’identità e il mutamento, l’affermazione e la negazione. "Il moto di scrivere se stesso come un testo, combina insieme l'impulso di conservare l'io così com'è, uguale a se stesso, e l'impulso di diventare o di renderlo insolito, ideale o permanente (altro). Così questo genere letterario è non solo intrinsecamente incompleto - mancando, quanto meno, del momento della morte dell'autore - e metalettico, ossia combinatorio di azioni ate e narrazione presente, di storia e discorso; esso è pure transustaziativo". La narrazione di se stesso opera in modo ambiguo e duplice, sia la morte e la destrutturazione del soggetto, sia l’imbalsamazione che lo preserva, lo mantiene in vita consegnandolo alla storia immortale. L’atto autobiografico testimonia che qualcosa di se stessi si è perduto nella scrittura, ma anche che qualcosa nella vita andava completato e arricchito.
Unità e bipolarità
Fedeltà al dato storico oggettivo e interpretazione culturale del soggetto sono i due poli dalla cui tensione viene generata l’autobiografia. L’unità di fondo dell’azione viene assicurata però da un'efficace opera compositiva di ogni sua parte che guidi il lettore a coglierne il significato profondo e quindi dall’intenzionalità che muove lo scrittore, considerata dal punto di vista del materiale della narrazione. E’ chiaro che non basta un’elenco di tutti gli avvenimenti e i ricordi che affollano una vita, per quanto possa essere stata esimia ed eroica, a costituire un’opera d’arte. Nell’Apologia di Newman questo è quanto mai evidente. "Lo sforzo compiuto in modo deciso è quello di ripulire il personaggio da imputazioni spiacevoli. (...) Non vi è dubbio che il più potente impatto emotivo
dell'Apologia è in parte dovuto ad un'acuta focalizzazione e non è totalmente dipendente dai toni stilistici vibranti armoniosamente".¹ Entro una ricchissima memoria di eventi, incontri, conoscenze e decisioni, Newman ritrova un filo conduttore soggiacente, un fulcro di unità, una luce che fa da guida, la costante, spasmodica tensione alla ricerca della verità, a cui è aperto fino al punto di essere disposto ad una continua revisione delle proprie “opinioni religiose” e dei propri atteggiamenti fondamentali per accoglierla fedelmente. Pur essendo collocabile - un po' forzatamente - tra le autobiografie soggettive e spirituali, le “confessioni” del grande cardinale inglese possiedono un forte dinamismo, presentano le diverse fasi attraverso le quali è ata la vita interiore nel suo sviluppo, che non è limitato al aggio dalla Chiesa Anglicana a quella Romana. Nel suo libro Newman ci offre un’accurata selezione del materiale in suo possesso, opportunamente elaborato in modo che la forma sia al servizio dell’unità del significato. "L'Apologia (...) differisce dalla confessione principalmente per il serio e continuo sforzo di negare o giustificare i comportamenti riprovevoli. (...) Unica "classica" apologia inglese, l'Apologia di Newman (1864) è incessantemente soggettiva, come doveva essere per confutare la pubblica accusa di malafede. L'approccio dialettico è significativo: Newman non adotta il metodo cronologico dell'autobiografia convenzionale fino a che egli non abbia mostrato che la sua persona può essere assolta solo da un racconto ordinato della sua vita spirituale a partire dalla sua fanciullezza. Nel corso dell'intera narrazione, come la corrispondenza e gli scritti pubblicati documentano puntualmente, egli persegue senza tregua il suo obiettivo, senza mai dimenticare per un istante perché egli abbia preso la penna, e senza mai dimenticare nella memoria o includere un dettaglio superfluo rispetto alla storia spirituale".¹¹
Limiti e partizioni
Non necessariamente un’autobiografia deve abbracciare l’intero corso di una vita; anzi, questo non accade mai in senso stretto, anche nel caso, per altro molto comune, che la sua stesura sia rimandata al periodo finale dell’esistenza, agli ultimi anni di vita. L’arco di tempo abbracciato dalla narrazione può essere più o
meno ampio – nel caso dell’Apologia Pro Vita Sua si sviluppa dall’infanzia al primo ingresso nel Cattolicesimo – ma ha sempre termine con una nota di completezza e di stasi. Accade comunemente che venga descritta una specifica esperienza, o un periodo particolarmente ricco e fecondo della propria esistenza. Dal punto di vista testuale, la parte più mutevole e soggetta a diverse manipolazioni è spesso quella centrale. Vi sono poi poche eccezioni alla regola dell’ordinamento cronologico degli eventi, che vengono suddivisi a posteriori, in sede di progettazione dell'opera, in fasi diverse.¹² Entro questa sequenza possono essere illuminate le relazioni casuali e le connessioni più o meno coscienti e determinanti fra gli elementi e le forze in campo.
Le omissioni¹³ e le abbreviazioni inevitabili sono subordinate all’argomento, ma soprattutto al tipo di intenzionalità e allo stile che si vuole imprimere alla narrazione. Criterio di questa selettività deve essere la funzionalità di ogni parte rispetto al tutto, a servizio dell’efficienza della comunicazione.
L’autobiografia vittoriana
A conclusione di queste osservazioni, merita ricordare il grande successo che il genere letterario dell'autobiografia riscosse nel periodo dell'Inghilterra vittoriana. Per alcuni aspetti, esso venne assumendo caratteristiche anomale ed esclusive, che nascevano dal clima sociale e culturale proprio dell’epoca. L’individualismo liberale che esaltava e promuoveva l’intraprendenza e l’emergenza del singolo, saldandosi con il grande senso eroico del Romanticismo, fece proliferare le autobiografie delle personalità di spicco, fino a trasformare questo genere di scrittura in una moda largamente diffusa.
E’ proprio in questo periodo che si fissano vere e proprie convenzioni, che danno a questo tipo di narrazione la sua configurazione tradizionale e lo rendono atto ad essere artisticamente plasmato fino a raggiungere risultati qualitativi altissimi, come in Newman, Ruskin, Trollope e altri. La nota dominante comunque presente nelle autobiografie del periodo vittoriano è il grande rilievo dato alla
singolarità dell’io, per cui viene lasciato cadere l’intento didascalico, di exemplum vitae, proprio di tante vite medioevali, e spesso il gusto dell’indagine psicologica, operata direttamente dal soggetto su se stesso, diviene evidente. Questa tonalità di fondo anticonformista libera l’autobiografia dalla rigidità che rendeva invece monotona e incolore la biografia, nella quale in moltissimi casi l’autore si sentiva gravemente legato dal sentimento del decoro, dal rispetto dell’intimità altrui e dall’opportunità di non tirare in campo persone terze. Lo sforzo di assecondare il gusto dei lettori uniformava le biografie del tempo a modelli preconfezionati e disincarnati, mentre al contrario lo scrittore della propria vita non aveva alcun timore di manifestare la sua originalità, anche a rischio, come spesso avvenne, di suscitare furibonde polemiche o vivaci proteste o la pubblica riprovazione. L’indipendenza di pensiero, che attraeva l’interesse anche per la maggiore impressione di veridicità che suscitava, si estendeva anche all’ambito religioso. Vi fu chi non fece mistero del proprio ateismo, nonostante le fortissime censure sociali e religiose allora esistenti, e lo stesso Newman, nel narrare la vicenda del suo distacco dalle posizioni ufficiali dell’Establishment per abbracciare quelle della nemica e straniera Chiesa Romana, dimostra coraggio e indipendenza di giudizio. Anche rispetto al romanzo, l’autobiografia godette nel periodo vittoriano di straordinario successo. Nato dalla cultura settecentesca e borghese, esso rimaneva in qualche modo agganciato a schemi e mentalità tradizionali, mentre dalle narrazioni autobiografiche balzano con grande vivacità in primo piano le nuove tendenze della incipiente società industrializzata. Anche operai e professionisti si cimentano nell’esperienza di esporre le vicende personali, accanto ad avvocati, medici, ingegneri ed altri.
Il lavoro è uno dei massimi valori celebrati; esso viene sentito come strumento di elevazione dell’uomo, e come prova della sua forza e grandezza, misurate sulla base della maggiore produttività e creatività. I problemi sociali, economici, la sfera del pubblico, vengono coinvolti in questi scritti, ma la tendenza ad esaltare la dimensione produttiva è presente nello stesso Newman, nello sforzo di “generare” la verità con un lavorio enorme del raziocinio, che implica lo studio, la comprensione, la lucidità intellettuale, senza la quale non vi è certezza di imparzialità ed oggettività.
L’autobiografia vittoriana è largamente impregnata di ottimismo, perché solo la vita dell’uomo di successo vale la pena di essere narrata, evidenziando (a posteriori) come si sia sviluppata secondo tappe progressive in continua ascesa. Anche l’Apologia manifesta i segni del suo tempo, presentandosi come l’arduo ma fortunato cammino di chi prende coscienza di se stesso e del proprio errore fino a quando giunge alla pienezza della luce e della pace per la verità ritrovata nella Casa di Dio. "La metafora soggiacente all'Apologia presenta Newman come un uomo che, usando le parole di San Matteo, 'ha lasciato case, fratelli, sorelle, padre, madre, moglie, figli, terre' per il nome di Cristo (la comunione Anglicana) al fine di raggiungere la sua celeste ed eterna dimora (la comunione Romano Cattolica). Ora, Newman non può, per ovvie ragioni, affermare sfacciatamente che la sua vita rappresenti un modello perfetto di sequela di Cristo; invece egli deve lasciare a noi il compito di trarre le appropriate conseguenze da noi stessi, o, meglio ancora, deve metterci in grado di afferrare l'idea soggiacente alla sua narrazione intuitivamente".¹⁴
Autobiografia, conversione e apologia
La “conversione” come tema centrale
L’Apologia è un libro così complesso e così variamente composito da apparire refrattario, in apparenza, ad un’analisi che parta da un principio unitario. Solo dando una rapida occhiata all’indice generale ci si rende conto dell’articolazione estremamente complessa dell’opera. I cinque capitoli che ne costituiscono il corpo centrale intitolato “Storia delle mie opinioni religiose” sono preceduti da una Prefazione, e seguiti da sette Note contrassegnate con le lettere A-G, da “Materiale Supplementare” numerato da 1 a 4 e da otto Note aggiuntive in riferimento alle pagine del testo. Ma già all’interno della sezione principale risalta immediatamente la differenziazione fra i primi quattro capitoli, intitolati tutti “Storia delle mie opinioni religiose…”, con le diverse date che periodizzano la vita dell’autore nelle sue fasi, e il capitolo quinto intitolato “La mia posizione spirituale dopo il 1845”. Questa prima impressione generale poi viene senz’altro confermata dalla lettura della Prefazione e del testo vero e proprio. Sembra di annegare in un oceano di riferimenti extratestuali: personaggi contemporanei all’autore, vicende politico–religiose, disquisizioni teologiche, citazioni da lettere e discorsi, le più varie allusioni di tipo culturale. Eppure al di sotto di questa intricata foresta superficiale esiste un ben preciso filo conduttore, secondo il quale è possibile percorrere il labirinto senza smarrire i propri i. L’analisi contenutistica, sempre prioritaria nel caso di un’autobiografia, come abbiamo visto, ci permette di individuare nel concetto di “conversione” la tematica centrale, attorno alla quale si catalizzano gli altri elementi concorrenti.
Verso un chiarimento dell’idea di conversione
“Nel senso più comune, la conversione è aggio da una religione all’altra o dall’irreligiosità all’adesione a una religione, sempre però che questo aggio comporti un completo mutamento di atteggiamento spirituale. (…) La conversione implica un rinnovamento totale e consapevole dell’esperienza religiosa; in quanto si accoglie un messaggio che rappresenta qualcosa di assolutamente nuovo ed estraneo rispetto alle categorie secondo le quali si costituiva l’esperienza religiosa precedente”.¹ Non è sicuramente facile né immediato dare una definizione accettabile di questo termine, che appartiene al linguaggio religioso, ma che descrive un insieme di esperienze umane molto varie e diversificate. La descrizione qui sopra riportata e tratta dal “Lessico Universale Italiano”, ad esempio, non sembra né particolarmente illuminante né del tutto esauriente. Chi voglia addentrarsi in un meticoloso lavoro lessicografico, deve partire invece da alcune precisazioni previe.
“E’ necessario stabilire una distinzione tra una vera conversione e altri fenomeni simili. (…) Nel caso di un fervente sacerdote cattolico romano divenuto libero pensatore, bisognerebbe parlare di contro-conversione. Il ritorno di un individuo fuorviato alla fede dei giorni antichi può essere più correttamente chiamato revisione. La ricognizione è l’attuazione vitale di una verità alla quale fino ad allora si era dato un assenso solo verbale. (…) Essa è stata ulteriormente suddivisa in [conversione] graduale e improvvisa, o, come la definisce il De Sanctis, fulminante e progressiva, e E. D. Starbuck, impulsiva e volitiva”.² Il termine conversione non è oggi utilizzato troppo spesso, certamente non è tra le parole–chiave della cultura contemporanea; non è un termine di moda. Il dizionario può dare di questa parola qualche delucidazione essenziale, informando che essa indica la direzione verso un luogo precedente. Viene indicato poi anche un senso traslato: conversione è l’inclinazione di qualcuno all’accettazione di una certa religione. “La parola conversione indica il cambiamento di vita, il separarsi dal modo antico di comportamento, l’assunzione di qualcosa di nuovo. La conversione dunque presuppone che si trascuri il modo precedente di vita, per sacrificarlo ad uno nuovo. Parlando della conversione non dobbiamo necessariamente avere in mente qualcosa di eccezionale, un unico momento dell’esistenza umana.
L’autentica conversione si effettua attraverso continui mutamenti, si approfondisce poi nelle tappe da quelle conseguenti”.³
Conversione, termine polisemico
La conversione è indubbiamente un fenomeno che può assumere svariate forme. La si può infatti considerare, ad esempio, dal punto di vista politico,⁴ filosofico, sociologico, teologico, psicologico.⁵ Ciascuna di queste prospettive particolari ne dà un’interpretazione parziale, ma tutte sono reciprocamente complementari. Componendole l’una con l’altra ne emerge un quadro ricchissimo, che amplia l’applicazione di questa parola ad orizzonti moderni e pregni di significato. Dobbiamo tenere presenti tutte queste sfaccettature della realtà per comprendere l’autentica profondità del o compiuto da Newman con la sua conversione. “Nella prospettiva sociologica, la conversione rappresenta uno sradicamento da un ambiente sociale determinato e l’adesione a una comunità nuova. E’ questo un aspetto estremamente importante del fenomeno. Di fatto, questo cambiamento dei riferimenti sociali può contribuire molto a dare all’avvenimento della conversione un carattere di crisi, e spiega in parte lo sconvolgimento della personalità che essa comporta. (…) Questo problema si è posto in maniera pressoché costante nella storia delle missioni. In termini generali, questo aggio da una comunità ad un’altra è accompagnato da scrupoli morali (impressione di tradire e abbandonare una tradizione familiare o nazionale), difficoltà di adattamento (impressione di spaesamento) e di comprensione. E’ possibile, d’altra parte, che le individualità sradicate, quelle che, per una ragione o per un’altra, sono strappate momentaneamente o definitivamente al loro ambiente natale, siano più disposte di altre alla conversione”. Nelle pagine dell’Apologia si ritrova spesso conferma di questo aspetto della conversione, che implica distacco non solo da atteggiamenti ed idee precedenti, ora ritenuti erronei od insufficienti, ma anche allontanamento da una comunità con la quale ci si sentiva in profonda comunione di spirito. Newman parla con nostalgia degli amici di un tempo, ai quali era stato legato nel periodo degli studi e dell’insegnamento di Oxford. Accenti tenerissimi escono dalla sua penna
quando si riferisce al suo definitivo abbandono della Chiesa anglicana, che per lui era come una madre, una casa, una famiglia in cui si sta bene, perché lì affondano le radici. Anche l’aspetto politico della conversione è presente nella vicenda di Newman, soprattutto, direi, nell’ostilità che provò immediatamente per le dottrine erastiane, cui abbiamo già accennato, che subordinavano supinamente la Chiesa ai voleri del Parlamento e del potere civile. La vicenda del vescovado fondato a Gerusalemme, ricordata da Newman come uno dei tre colpi decisivi che fecero vacillare la sua appartenenza anglicana, pur collocandosi nell’ambito della politica ecclesiastica, è anch’essa riconducibile a questo aspetto. Il concetto di conversione trae la sua origine specificamente e principalmente dall’uso biblico. La radice ebraica “sub” che lo traduce è utilizzata fin da quando, volendo Dio stringere un’alleanza con il suo popolo, apparve chiaro che la fedeltà dell’uomo sarebbe stata solo saltuaria e comunque sempre precaria. Con particolare insistenza e ricchezza vi ricorsero tutti i profeti, che predicavano un cambiamento di vita, un nuovo orientamento di tutta la condotta del popolo.⁷
La conversione, tra ritorno e rinascita
"Il termine latino conversio corrisponde a due termini greci di significato differente: da una parte epistrofé, che significa cambio di orientamento e implica l'idea di un ritorno (ritorno all'origine, ritorno a se stessi), dall'altra parte metanoia, che significa cambiamento di pensiero, pentimento, e implica l'idea di un mutamento e di una rinascita. Vi è dunque nella nozione di conversione, un'opposizione interna fra l'idea di ritorno all'origine e l'idea di 'rinascita'. Questa polarità fedeltà-rottura ha fortemente segnato la coscienza occidentale a partire dall'apparizione del cristianesimo".⁸ Questa precisazione illumina efficacemente ciò che Newman intende quando parla della sua conversione. Tutta l’Apologia si svolge sotto la luce di questo duplice concetto tracciandone o dopo o lo sviluppo concreto, fino al pieno maturare delle conseguenze più radicali. Il libro si apre raccontando di una prima conversione verificatesi all’età di quindici anni, si chiude con la piena e consolante adesione alla Chiesa di Roma. I singoli i di un lungo, faticoso,
tormentato cammino vengono minuziosamente descritti mostrandone la spontaneità e l’inevitabilità. "Vi è uno 'stereotipo' della conversione. Ci si rappresenta tradizionalmente la conversione secondo un certo schema fisso che, per esempio, mette fortemente in opposizione i lunghi tentennamenti, gli errori della vita precedente la conversione, con l'illuminazione decisiva ricevuta improvvisamente. Le Confessioni di Sant'Agostino, in modo speciale, hanno giocato un ruolo capitale nella storia di questo genere letterario. Questo stereotipo rischia di influenzare non soltanto la maniera con la quale si fa il racconto della conversione, ma la maniera stessa con la quale la si sperimenta". Newman invece, pur essendo lontanissimo da atteggiamenti rivoluzionari o di avanguardia insofferente, delinea la sua vicenda con tratti profondamente originali, perché essenzialmente personali, facendo ricorso all’esperienza vissuta e ai documenti che ne fanno fede. Il suo modo d’intendere e di parlare della conversione sono piuttosto connessi con la metanoia, con la tensione verso il futuro, il di più, il vero e il tutto. Per non cadere nell’errore di proiettare nel periodo vittoriano idee e acquisizioni più moderne, conviene riferirsi alla teologia tridentina, che ha indirizzato in maniera assolutamente uniforme la fede cattolica, costantemente per quattro secoli. Conversione “nel linguaggio teologico significa generalmente ritorno dell’anima traviata a Dio, e quindi aggio dallo stato di peccato (aversio a Deo) allo stato di grazia (conversio ad Deum). In questo senso la conversione coincide con la giustificazione, che si verifica anche in un cristiano credente ma peccatore, che riacquista la Grazia. Più propriamente la conversione va intesa come prima conquista della fede e conseguentemente della santificazione, oppure come riconquista della fede perduta. Si tratta dunque di aggio dall’ateismo, o anche da religioni false alla vera fede, che è quella di Cristo e della sua Chiesa. Si tratta ancora di cristiani dissidenti (scismatici, protestanti, apostati, eretici) al cattolicesimo che è nella Chiesa romana”.¹ Pur collocandosi chiaramente in un contesto teologico marcatamente apologetico, queste definizioni taglienti del Cardinal Parente ci aiutano ad entrare candidamente nell’anima di Newman. La sua costante tensione era verso Dio, e in questo senso soggettivo non si è trattato di conversio ad Deum;
piuttosto la sua ardente ed inestinguibile sete di verità gli fa percepire la falsità della posizione anglicana sia riguardo alla cattolicità dell’unica Chiesa di Cristo, sia riguardo alla santità. Un solo Dio, una sola Verità, una sola Chiesa: non appena l’intellettuale si accorge e percepisce che l’Anglicanesimo è una corrente scismatica non può che abiurare a favore di Roma. “A tutti coloro che sono fuori dalla Chiesa incombe oggettivamente il dovere di convertirsi; il quale però soggettivamente non s’impone se non nella misura della coscienza delle proprie responsabilità di fronte al problema della fede e della salvezza”.¹¹ Tutta l'esistenza e tutta l’autobiografia del grande convertito inglese si svolgono nella ricerca indefessa di quella luce che guida ogni uomo alla pace e alla vita e che egli sentiva bruciare dentro di sé come una forza irrefrenabile. In questo senso è continuo procedere in avanti, un rinnovamento della mentalità, una continua metanoia; ma è anche epistrophé, perché è dal Creatore che siamo venuti e l’errore ci allontana da Lui: abbracciando quindi la piena verità, anche tardivamente, compiamo un vero e proprio ritorno alla Casa del Padre. "Newman si assume il compito di difendere non una conversione ma due, e deve rimanere una domanda aperta quale delle due costituisca la riconsacrazione più fondamentale. Nello strutturare il suo racconto attorno a queste conversioni, (...) Newman rende l'Apologia un esercizio tanto prolungato, nella forma dell'autobiografia spirituale, da non poterne trovare un esempio simile fino a risalire al XVII secolo. Nell'epoca vittoriana la letteratura di crisi religiosa e conversione è copiosa, (...) ma è raro trovare un'intera vita concepita come un dramma di tal genere; i convertiti più risoluti si mettevano in discussione nel periodo decisivo di una nuova responsabilità. Newman concepisce la sua vita in costante mutamento ma sempre una".¹² Un interessante contributo del grande arcivescovo di Canterbury, amico di papa Paolo VI e patrocinatore dell’unità con Roma, il dott. Michael Ramsey, traccia una rapida panoramica sull’attività di Newman nel periodo anglicano e sul travaglio che lo condusse all’abbandono della sua Chiesa. Con tratto delicato osserva la continuità di stile e di pensiero che animò il pastore della chiesa di Saint-Mary e il porporato cattolico: non è senza significato che egli dedichi tanto tempo della sua vecchiaia proprio ad una nuova edizione degli scritti anglicani. "Egli scrisse alcune cose per un po' di tempo, come vediamo nelle sue
Conferenze sulle Difficoltà Anglicane, pubblicate nel 1850. Ma in un periodo successivo lo troviamo intento a temi che erano stati i suoi da Anglicano, perché questi temi erano parte della sua profondità. Forse è possibile vedere, per abitudine, distanziati nel tempo, Newman l'Anglicano e Newman il Cattolico Romano, ciascuno fatto alla sua maniera, eppure sapere che c'è un solo e unico Newman".¹³
L’originale conversione di Newman, alla ricerca della Verità
Siamo così arrivati al punto cruciale in cui diventa chiaro che cosa sia per il Cardinale Newman un’autentica conversione: é una costante apertura alla verità che viene accolta sempre più pienamente, è un amore indefettibile a Dio accolto e contraccambiato sempre più radicalmente, è un o avanti in quella libertà che ci fa essere sempre più noi stessi. Così concepita la conversione non rivoluziona totalmente la vita fin dalle radici, ma avvicina all’Assoluto, scaricando la zavorra che appesantisce il volo e i sedimenti che oscurano la limpidezza cristallina. In Newman e nel racconto che egli fa della sua vita, la conversione - di cui si parla esplicitamente due volte, come abbiamo visto - si concilia con la continuità e con uno sviluppo progressivo. Fu Newman stesso a definire “conversione” il decisivo cambiamento di mentalità religiosa avvenuto a quindici anni; “…’per qualche tempo prima della mia conversione' (all'età di quindici anni)” (AP. p. 134).
Pur trattandosi di una prima cosciente presa di posizione sull’atteggiamento fondamentale che deve orientare le risposte agli interrogativi tipicamente religiosi, ci si può domandare legittimamente perché mai il nostro autore abbia scelto di utilizzare questa parola, e da quale base di partenza intendesse poi sviluppare la “conversione” avvenuta in un’età così tenera. Ovviamente non di una nuova appartenenza ecclesiale si tratta, ma dell’abbandono della superficialità infantile, e della piena, consapevole adesione ad un sistema di verità oggettivamente dato. Per valutare il senso di questo primo fondamentale cambiamento di pensiero e di mentalità, dobbiamo tornare alla prima pagina dell’autobiografia, dove si parla succintamente e schematicamente degli anni
dell’infanzia. “Fin da fanciullo mi è stato insegnato a trarre molto piacere nella lettura della Bibbia; ma, fino ai quindici anni, non avevo convinzioni religiose precise” (AP. p. 133). Per spiegare e descrivere in maniera documentata e più chiara lo stato d’animo in questa aurora di vita, Newman riporta alcuni brani tratti da un diario personale, in cui aveva raccolto i ricordi e i sentimenti prevalenti di carattere religioso. Tra gli altri ne vengono riferiti come meritevoli di menzione due: la spiccata immaginazione, sostenuta dalle favole di ambiente orientale, che presentava alla mente del fanciullo un mondo soprannaturale popolato di esseri angelici, poteri magici e giochi onirici, che gli facevano dubitare della realtà del mondo fenomenico, dietro il quale gli pareva che si agitasse qualcosa di più vero; secondariamente, l’innata propensione a qualche forma di superstizione. I lunghi anni tanto importanti per la formazione di ogni persona vengono sorvolati da Newman rapidamente. Solo poche notazioni per sottolineare la propria assoluta estraneità al mondo cattolico, che non conosce se non per rari e isolati accostamenti puramente occasionali. Il padre compare fulmineamente, come una citazione non significativa: con lui il ragazzino John Henry si era recato in una chiesa cattolica forse ad ascoltare della musica sacra. Su questo panorama indifferenziato, desertico, comincia a germinare qualcosa di nuovo attraverso le prime letture impegnate.
L’ansia esplorativa dell’adolescente si allarga a quelle nozioni catechistiche che fino ad allora aveva accettato acriticamente dalla bocca degli educatori. Ora l’incipiente capacità razionale di giudizio proietta su questi assiomi di fede la possibilità dell’irrealtà, con tutte le conseguenze che ne conseguirebbero. Sono queste considerazioni corrosive a lasciare un’impressione più forte nell’animo e nella memoria: i Tracts contro l’Antico Testamento del Paine, i saggi di Hume, alcuni versi di Voltaire contro l’immortalità dell’anima. “Quanto è terribile, però quanto è plausibile!” - commenta. “Quando avevo quindici anni (nell'autunno del 1816) si verificò in me un grande cambiamento di idee. Subii l'influenza di un credo definito, e accettai nella mia mente alcune impressioni del dogma che, per la misericordia di Dio, non si sono
mai più cancellate od oscurate” (AP. p. 136).
L’ineludibile oggettività della verità
Fin dall’inizio non si vuole tanto rilevare l’adesione ad una teologia di tipo calvinista, evidentemente, quanto piuttosto la spontanea, istintiva avversione al soggettivismo di matrice protestantica e “liberale”, che eleva il singolo a norma di se stesso anche nel campo della fede. Secondo Newman la verità non può dar adito ad individualismi, ma deve poter essere riconosciuta nell’oggettività che le è intrinseca e, conseguentemente, deve poter essere formulata in enunciazioni vincolanti ed universali. Questa trasformazione “fu dovuta in parte alle conversazioni e alle prediche di quell'uomo eccellente, il rev. Walter Mayers di Pembroke College, Oxford morto ormai da molto tempo - che fu il veicolo umano di questo inizio della fede divina in me, ma più ancora ai libri che egli mi mise tra le mani, tutti della scuola di Calvino. Uno dei primi libri che lessi fu un'opera di Romaine; non ricordo né il titolo né il contenuto, tranne una dottrina che ovviamente non includo tra quelle che credo di fonte divina: la dottrina della perseveranza finale. L'accettai immediatamente, e credetti che la conversione interiore della quale ero conscio (e della quale sono ancora più sicuro che del fatto di avere mani e piedi) sarebbe durata fin nella vita futura e che ero prescelto per la gloria eterna. (...) Penso che abbia avuto una certa influenza sulle mie opinioni, nella stessa direzione di quelle fantasie infantili alle quali ho già accennato: isolandomi, cioè, dalle cose che mi circondavano, confermandomi nella mia sfiducia nella realtà dei fenomeni materiali e facendomi riposare nel pensiero di due soli esseri assoluti e luminosamente evidenti in se stessi, me stesso e il mio Creatore. Infatti, considerando me stesso come predestinato alla salvezza, la mia mente non si occupava degli altri (...). Pensavo soltanto alla misericordia mostrata verso di me” (AP. pp. 137-138). La dottrina della perseveranza finale è strettamente collegata con la concezione calvinistica della predestinazione, della quale anzi costituisce una sorta di corollario: gli eletti, benedetti da Dio anche in tutte le loro intraprese mondane, come segno della ricchezza spirituale di Grazia a loro riservata, saranno sorretti
in modo speciale nel momento del supremo aggio, così che la loro fede non venga meno e la vita eterna sia loro assicurata. Sorprendentemente questa convinzione, frutto della “conversione” del 1816, non soppianta ma conferma sostanzialmente, modificandole in parte, le “fantasie infantili”. Tutto ciò che s’interponeva tra Dio e l’anima scompare ora dallo scenario interiore, lasciando intero lo spazio per un dolce incontro personale, un profondissimo “a tu per tu”. Ciò che permane immutabile prima e dopo quella data discriminante, è la preminenza dovuta alle realtà invisibili, di fronte alle quali le cose terrene scivolano sullo sfondo, nell’ombra. “Se ci interroghiamo sul contenuto di quella conversione, essa può solo essere l'adesione dell'io al pensiero di un altro essere nel mondo: ossia il contenuto essenziale di tutte le conversioni, la piena affermazione dell'esistenza di un dio. Questa dottrina, allora, produce una modifica in ciò di cui Newman era già convinto - quelle 'fantasie infantili' sulla sua esistenza unica, 'che mi isolavano dalle cose che mi circondavano' - e aggiungeva un nuovo convincimento: 'il pensiero di due soli esseri assoluti e luminosamente evidenti in se stessi'. Come una conseguenza necessaria, la dottrina autoevidente dell'elezione presupponeva un elettore, un Creatore, un elargitore della 'misericordia mostrata verso di me'”.¹⁴ La prospettiva indicata da Fleishman nel saggio di commento all’Apologia è sicuramente stimolante ed affascinante, ma credo che vi sia anche altro, accanto a questa considerazione.
Il cammino della ricerca e della rivelazione
Innanzi tutto l’accettazione di un complesso dogmatico sistematico, che si coniuga però, in maniera quanto mai feconda, con il dinamismo della scoperta, che spinge irresistibilmente verso la conversione e verso sempre nuove rivelazioni della verità. Questo metodo e questa possibilità furono impresse nell’anima di Newman dalla lettura delle opere di Thomas Scott, e particolarmente dalla sua autobiografia spirituale, The Force of Truth. “Quest'ultima detestabile dottrina è semplicemente negata e abiurata, se la memoria non mi gioca un brutto scherzo, da un autore che mi fece
un'impressione più profonda di qualsiasi altro, e al quale, umanamente parlando, debbo quasi la mia anima: Thomas Scott di Aston Standford. (...) Il suo libro "La forza della verità" e i suoi "Saggi" li possedevo già fin da ragazzo. (...) Ciò che, secondo me, colpisce chiunque legga la vita e le opere di Scott è l'audacia del suo distacco dal mondo e la sua vigorosa indipendenza di spirito. Egli seguiva la verità dovunque lo conducesse, cominciando con l'unitarianismo e terminando in una fede ardente nella Santissima Trinità. Fu lui che radicò profondamente nella mia mente questa verità fondamentale del cristianesimo” (AP. p. 138). Con la determinazione e la sincerità apprese dagli scritti e dal vivo esempio di vita di Scott, Newman si accinge a trarre - dalle convinzioni da lui raggiunte come risultato della conversione del 1816 - le conseguenze più radicali, senza tentennamenti e timori. La verità va perseguita dovunque ci conduca: Dio, io e Dio, noi soli. Questa luce che pervade l’anima coinvolge anche la vita, le sue scelte pratiche, il suo stile concreto. Il celibato si presenta al giovane anglicano non tanto come una legge ecclesiastica, non come un’imposizione incomprensibile, ma come un’espressione autentica della volontà di Dio: l’invito a vivere con Lui in un amore indiviso, condividendo tutto solo con Lui. “Sono costretto a menzionare, sebbene con grande riluttanza, un'altra profonda sensazione che in questo periodo, l'autunno del 1816, si impossessò di me - non ci può essere dubbio sul fatto -: l'idea, cioè, che era volontà di Dio che io rimanessi celibe. Questo presentimento (...) era nella mia mente più o meno connesso con l'idea che la mia vocazione avrebbe richiesto tale sacrificio; come, per esempio, il lavoro missionario tra i pagani, per il quale durante alcuni anni sentii una grande attrazione. Allo stesso tempo non fece che aumentare quel senso di separazione dal mondo visibile del quale ho parlato più sopra” (AP. p. 141). Dietro le parole semplici è riconoscibile l'entusiasmo apionato del giovane, capace di trasformare le scelte più ardue in una possibilità, resa facile dall’ardore dell’amore divino; anche se all’interno dell'anima si scontra con qualcosa che cerca di opporre una resistenza nonostante tutto, provocando uno stato di oscura e sottile sofferenza, come se fosse comminato un ordine a cui ci si deve conformare un po’ malvolentieri. Vi è anche un altro indizio dell'autenticità dei sentimenti qui espressi e dell’esperienza vissuta dal protagonista, pur se tanti anni prima. La vera religiosità, per quanto primariamente e profondamente radicata in un rapporto personale con la Divinità, non è mai alienazione, isolamento dal consorzio umano, anche quando determinasse con le sue esigenze
totalizzanti una fuga dai rapporti sociali diretti. Il celibato non è visto da Newman come splendido isolamento riservato ad anime privilegiate, ma come vocazione perfettamente in armonia con un impegno evangelico, ecclesiale, spirituale e sociale ad un tempo, qual è l’evangelizzazione missionaria. Questo è il percorso ideale coperto dal nostro protagonista in quella che egli stesso definisce “conversione”, “profondo cambiamento di pensiero”; ma non è raggiunta affatto, con ciò, la pace, la completezza dello spirito.
La letteratura è presentata costantemente come il veicolo che determina le fasi dell’evoluzione religiosa di Newman. Due opere producono una profonda impressione su di lui, provocando uno squilibrio nella delicata e sensibile coscienza alla ricerca di una soddisfacente risposta agli interrogativi fondamentali della vita umana. Operando in senso contrario l’una all’altra, crearono una tensione intellettuale, un travaglio interiore che solo dopo molti anni trovò un’accettabile composizione. “Lessi la Storia della Chiesa di Joseph Milner e rimasi addirittura innamorato dei lunghi estratti di sant'Agostino, sant'Ambrogio e di altri Padri che vi trovai. Li considerai come l'espressione della religione dei primi cristiani. Ma contemporaneamente a Milner lessi l'opera di Newton sulle profezie, e di conseguenza mi convinsi fermamente che il papa fosse l'anticristo predetto da Daniele, san Paolo e san Giovanni. (...) L'idea mi rimase come una specie di falsa coscienza. Da questo derivò quel conflitto intellettuale che, come me, tanti altri hanno provato, e che indusse alcuni a fare un compromesso tra due idee così contraddittorie, portò altri ad allontanare dalla loro mente o l'una o l'altra, e terminò, nel caso mio, dopo molti anni di inquietudine intellettuale, col graduale affievolimento e l'estinzione di una delle due (non dico con la morte violenta: se, infatti, l'avessi uccisa, perché non l'avrei fatto prima?)” (AP. pp. 140-141). Da questo vero e proprio conflitto sofferto scaturiva l’impellente esigenza di procedere sul cammino intrapreso con la prima conversione dei quindici anni. Qualcosa aspettava di essere ancora scoperto, qualche tassello mancava ancora per completare il mosaico della visione, non tutto corrispondeva con chiarezza a quanto la coscienza percepiva e reclamava. “Per molti anni ho usato quasi come proverbi frasi che mi sembravano esprimere
l'idea centrale e lo scopo della sua dottrina: 'La santità piuttosto che la pace' e 'La crescita è la sola espressione di vita’” (AP. p. 139).
Convertirsi per fedeltà a se stessi
Benché rivolta essenzialmente alla confutazione delle accuse avanzate dal prof. Kingsley, l‘Apologia si rivolge ad un pubblico di lettori molto più vasto, che si domanda con preoccupazione quale significato abbia la conversione di uno stimato ecclesiastico dell’Università di Oxford ad una comunità come quella cattolico–romana, i cui difetti sembravano tanto odiosi ad occhi anglicani. Come può essere credibile, come può essere se stessa una persona che cambia appartenenza, idee, che cambia radicalmente la sua vita? “La conversione è, in radice, una trasformazione della sostanza, forse dell'identità, cosicché un'apologia della conversione deve stabilire che il convertito non è cambiato essenzialmente, ma ha reso attuale ciò che era potenziale. Una tale dimostrazione richiede non soltanto una dimostrazione logica; secondo la comprensione esistenziale propria di Newman del processo razionale, (...) esso deve coinvolgere chiaramente l'intera personalità dell'uomo”.¹⁵ Ecco perché l’autobiografia di Newman contiene intrinsecamente una finalità apologetica, anche se i due processi, ovviamente, sono strettamente interconnessi e fusi l’uno con l’altro in modo profondamente originale. Ecco anche come cambiamento e continuità vengano coniugati insieme da Newman, e la profondità del segreto personale emergente nell’autorivelazione dell’autore svela un flusso vitale e spirituale che non viene interrotto dalle cerniere che sono le conversioni, ma da esse piuttosto liberato e potenziato.
Illuminazione e missione
Il secondo tornante della vita di Newman si verifica nel 1833, quando percepisce
con forza improvvisa la missione, affidatagli personalmente dall’Alto, di restituire alla Chiesa d’Inghilterra la sua autentica fisionomia, che andava allora gravemente degradandosi a causa del liberalismo e dell’erastianesimo. Non si può parlare qui in senso stretto di conversione e nemmeno l’Apologia usa questo termine; ma si tratta indubbiamente di un nuovo inizio, di un cammino intrapreso “ex novo” su un terreno sconosciuto per un intervento speciale che viene interpretato come di origine divina. Più che un cambiamento di direzione, Newman sembra aver imboccato la giusta strada, quella apparsagli per un’illuminazione interiore, e che gli si impone con la forza di un dovere morale. “Mentre ero occupato a scrivere il mio lavoro sugli ariani, in patria e all'estero vi furono grandi eventi” (AP. p. 167).
Così viene introdotto il racconto che mantiene costantemente in primo piano la prospettiva interiore e personale e scorre quasi a volo su fatti accaduti in luoghi diversi e nei settori più diversi, ma tutti connessi in qualche modo alla svolta che andava delineandosi nella vita del professore di Oriel College. Vengono menzionati la Rivoluzione se che scalzava la dinastia borbonica dal suo trono, la grande “Reform Agitation” in Inghilterra dove i whigs salivano al potere, e una serie di fatti più minuti che testimoniano il progressivo ed inarrestabile affermarsi di principi erastiani. “Lord Grey aveva detto ai vescovi di mettere ordine in casa propria, e alcuni prelati erano stati insultati e minacciati per le vie di Londra. La questione vitale era: come preservare la Chiesa dal liberalismo? (...) i veri princìpi ecclesiastici sembravano così radicalmente decaduti” (AP. p. 167). Gli avvenimenti di numerosi anni vengono riassunti in modo da dare l’impressione dell’incalzante avanzata di un errore pernicioso, che rapidamente emerge e dilaga. Immediatamente dalla fantasia di Newman scaturisce un parallelismo chiarissimo tra la lacrimevole condizione della Comunità Anglicana contemporanea e la Chiesa primitiva, fresca di giovanile vigore e prorompente entusiasmo per la Verità da poco conosciuta e abbracciata, e proclamata con coraggio e convinzione. “Alla Chiesa Anglicana, così divisa e minacciata, così inconsapevole della sua vera forza, io paragonavo quella potenza fresca e vigorosa che avevo riscontrato
nella Chiesa dei primi secoli. Nel suo zelo trionfante per quel mistero fontale verso il quale fin dalla giovinezza avevo nutrito tanta devozione, riconoscevo l'andatura della mia madre spirituale. 'Incessu patuit Dea'. La vittoria su se stessi dei suoi asceti, la pazienza dei suoi martiri, l'irresistibile risolutezza dei suoi vescovi, lo slancio gioioso della sua avanzata mi esaltavano e mi umiliavano allo stesso tempo. Dicevo a me stesso: 'Guarda quell'immagine, poi guarda questa'; sentivo affetto per la mia Chiesa, ma non tenerezza. (...) Quanto ad abbandonarla, l'idea non mi ò mai per la mente; ero però sempre consapevole che esisteva qualcosa di più grande della Chiesa ufficiale e cioè la Chiesa cattolica e apostolica, fondata fin dall'inizio, della quale quella non era altro che la rappresentanza locale e lo strumento” (AP. pp. 168-169). Comprensibilmente, delle molteplici ed incancellabili esperienze vissute da Newman in compagnia dell’amico Froude nel corso del viaggio nei Paesi dell’Europa mediterranea vengono riferiti solo elementi estremamente scarni, tutti intesi ad allontanare il sospetto che fin da questo momento l’influsso del Cattolicesimo si sia fatto preponderante nell’animo del Curato della Chiesa di Saint–Mary. La preoccupazione è di mostrare la fedeltà alla Chiesa Anglicana ancora intatta e cordiale. “Durante tutto il viaggio evitammo il contatto con i cattolici”. Il nostro sguardo è sempre tenuto fisso dallo scrittore sul suo stato d’animo interiore; i dati esterni vengono riferiti telegraficamente solo in quanto servono a fornire la cornice obiettiva e i riferimenti nei quali si sviluppano le sue “opinioni religiose”. "Visitai varie coste del Mediterraneo; a Roma mi congedai dai miei amici e visitai la Sicilia per la seconda volta, senza compagnia, alla fine di aprile; tornai in Inghilterra via Palermo ai primi di luglio” (AP. p. 170). Improvvisamente, nel paesaggio assolato e brullo di un piccolo e sconosciuto paesello della Sicilia centrale, un’illuminazione folgora il professore di Oxford.¹ Tipica dello stile letterario di Newman è la non-linearità, ma un continuo rincorrersi di prolessi e analessi completive, balzi attraverso gli anni e le situazioni, allusioni e brevi squarci che lasciano presagire senza mostrare. “Sempre a Roma cominciammo la Lyra Apostolica che usciva mensilmente sul British Magazine. Il motto indica i sentimenti che animarono sia Froude sia me in quei giorni: ci facemmo prestare un Omero da Bunsen e Froude scelse le parole di Achille nel ritornare alla battaglia: 'Vedrete la differenza, adesso che torno io'’” (AP. p. 171).
Da quel momento Newman cominciò a pensare di avere una missione specifica da espletare. Work, Mission, sono parole–chiave che ricorrono come un’ossessione lungo tutto questo racconto, condotto con una perizia e con un’arte raffinatissime. Non viene presentata una spiegazione razionale, ma sono i sottilissimi moti dell’anima che vengono intravisti come attraverso brevi fasci di luce. Angoscia e gioia, malattia e leggerezza si confondono; gli ideali più nobili che avevano orientato l’esistenza fin dalla fanciullezza sono ora dolorosamente spezzati, ma il conflitto interiore che coinvolge persino il fisico si risolve felicemente, appare la Verità, ritornano le forze. “Quando ci congedammo da monsignor Wiseman, egli, cortesemente, ci manifestò il desiderio di vederci una seconda volta a Roma; io risposi con gravità: 'Abbiamo un lavoro da fare in Inghilterra'. Subito dopo partii per la Sicilia e il mio presentimento si fece più forte. Mi spinsi fino nel cuore dell'isola e a Leonforte fui preso dalla febbre. Il mio servitore credette che stessi per morire (...), ma dissi: 'Non morirò'. Ripetei: 'Non morirò, perché non ho peccato contro la luce, non ho peccato contro la luce'. Non sono mai stato capace di spiegarmi del tutto cosa volessi dire. Raggiunsi Castrogiovanni e là dovetti restare a letto per quasi tre settimane. Prima di lasciare l'albergo, la mattina del 26 o 27 maggio, mi sedetti sul letto e cominciai a singhiozzare disperatamente. Il mio servitore, che mi aveva fatto da infermiere, mi chiese cosa avessi. Non potei rispondergli altro che: 'Ho un lavoro da fare in Inghilterra'” (AP. p. 172). La scoperta è così inattesa e abbagliante che solo poche parole allusive e ripetute possono esprimere in qualche modo lo stato d’animo turbato. Le frasi rotte sono la materializzazione di una pienezza interiore che deborda e anela a tradursi in azione, in realizzazione, subito. Un solo pensiero dominante era fisso nell’anima, la missione che Dio gli affidava per il bene della sua amata Chiesa, di tutta la Chiesa Anglicana che minacciava di soccombere a pericoli di cui non era cosciente. I minimi particolari acquistano un rilievo enorme: una luce misteriosa aveva tutte le facoltà umane, scolpendo in esse i ricordi in modo indelebile. La luce è l’unica immagine, l’unica parola che sgorghi spontanea sulle labbra del nostro protagonista, inseguendolo, ossessionandolo, perseguitandolo di continuo, in questa occasione come in tutta la lunghezza della sua esistenza. Con rara abilità artistica lo scrittore comunica l’ansia che lo pervase completamente durante il viaggio di ritorno, in cui ogni fermata, ogni inconveniente sembrava un interminabile intralcio al desiderio di intraprendere
nuovamente il lavoro, che era diventato ora sacro come una missione. Il racconto, che conclude il secondo capitolo dell’Apologia, termina su una nota di “riposo”, di completezza, di stasi: il ritorno a casa. Tutto qui diventa metafora, il viaggio, la malattia, la Sicilia desertica, il ritorno, la casa, la famiglia. Ma ancora una volta la “conversione” non è una conclusione: è piuttosto fonte di nuovo dinamismo, è liberazione delle energie vitali e spirituali dell’io che vuole essere se stesso. “Non vedevo l'ora di tornare a casa; ma per mancanza di una nave dovetti fermarmi per altre tre settimane a Palermo. (...) Infine potei partire di nuovo e non mi fermai più, né giorno né notte (tranne un indugio forzato a Parigi), finché non ebbi raggiunto l'Inghilterra e la casa di mia madre. Mio fratello era arrivato dalla Persia soltanto poche ore prima. Questo fu il martedì. La domenica seguente, il 14 luglio, Keble predicò dal pulpito dell'università il Sermone delle Assise che venne pubblicato sotto il titolo di Apostasia Nazionale. Ho sempre considerato e ricordato quel giorno come l'inizio del movimento religioso del 1833" (AP. pp. 172-173). A questa seconda “crisi”, a questo secondo momento discriminante nella vicenda biografica ed interiore di Newman, seguì un periodo di intensissima attività, che lo portò però alla soglia di quella conversione più radicale e conosciuta, che lo spingerà a diventare cattolico. Senza soffermarmi più a lungo su dati e avvenimenti fatti oggetto di approfondimento in tanti studi preziosi, mi basterà qui sottolineare l'atipicità del travaglio vissuto da Newman, che pur traendo origine da motivi anche esterni come la condanna comminata al Tract 90, si sviluppa prevalentemente in una dimensione immaginifica, soprattutto quando, studiando la storia dell’eresia monofisita, il nostro autore si accorge della somiglianza con la situazione a lui contemporanea. “Le vacanze estive del 1839 cominciarono presto. (...) Verso la metà di giugno cominciai a studiare e ad approfondire la storia dei monofisiti. Fui assorbito dalla questione dottrinale. (...) Fu nel corso di questo studio che per la prima volta mi sorse un dubbio sulla validità di sostenere l'anglicanesimo. (...) Ora qui, nella metà del quinto secolo, trovai - così mi sembrava - rispecchiata la cristianità dei secoli XVI e XIX. In quello specchio vidi la mia faccia, ed ero un monofisita. La Chiesa della Via media era nella stessa posizione della comunione orientale, Roma era dove è adesso, e i protestanti erano gli eutichiani” (AP. pp. 253-254).
Con la metafora dello specchio che riflette il suo volto su quello dei personaggi storici, Newman cerca di descrivere un’autentica illuminazione interiore, che si colloca a metà strada fra la razionalità e la visionarietà emergente dal subconscio. Anche questa è una rivelazione folgorante, che coinvolge tutta la persona del religioso, sensorialità, fantasia, emotività, intelligenza e spirito. Questo totale coinvolgimento partecipativo di Newman al procedere del suo pensiero fa di lui un artista anche quando si propone come scopo ultimo la ricerca della verità e non della bellezza. Similmente alla distinzione pascaliana di esprit de géométrie ed esprit de finesse, Newman è convinto che l’utilizzo della ragione pura, distaccata dalle altre dimensioni che sono parti inseparabili dal tutto della persona umana, non possa giungere a risultati rilevanti. Nella sua Grammar of Assent aveva distinto fra assenso nozionale ad un’astratta verità di fede considerata intellettualisticamente, ed assenso “reale”. Analogamente considerava con un certo distacco l’argomento formale, e parlava invece di “senso illativo”, come di un “sesto senso” che pulsa dentro ogni uomo, simile ad un’energia vivente e spontanea, capace di afferrare, “comprendere” la realtà delle cose con una forza maggiore di una dimostrazione apodittica. Ecco come il Newman filosofo e teologo può felicemente conciliarsi con il Newman artista e come anche i suoi libri non possono mai essere letti semplicisticamente a partire da una sola prospettiva. “Non dobbiamo dimenticare che Newman fu un romantico. Nacque meno di dieci anni dopo Shelley e Keats, ed ebbe in comune con Wordsworth cinquant'anni di vita”.¹⁷ Si completa così l’arco evolutivo della personalità di John Henry Newman, come è delineata nell’Apologia. E’ un succedersi ritmico di tappe che segnano nello stesso tempo un arrivo e un nuovo slancio, un’acquisizione definitiva e un’apertura verso orizzonti più vasti. Prima il riconoscimento dell’esistenza di Dio che sta di fronte all’io come un “tu” personale, con cui stabilire un rapporto profondissimo e tenerissimo di amore; poi l’accettazione della fede dogmatica come è proposta da una Chiesa istituzionale e comunitaria; quindi la consapevolezza che la pretesa della Comunione Anglicana o di qualunque altra comunità cristiana di essere l’erede e la mediatrice del messaggio di Cristo è soggetta a condizioni ben precise; infine, dopo anni di tentennamenti e riflessioni dolorose, l’abbandono di una posizione ritenuta scismatica e l’adesione alla Chiesa di Roma una, santa, cattolica e apostolica. Il lettore viene condotto per mano lungo questo itinerario tormentato ma unitario. Da una tappa all’altra il ritmo si fa sempre più lento, man mano che si scende a determinazioni più
concrete e a scelte più difficili. Il concetto di conversione, nell’accezione propria di Newman come abbiamo chiarito, assicura unità e ritmo all’autobiografia, conserva una tensione immutata e rivela i punti di svolta che essa ha determinato nella concretezza esistenziale del suo protagonista.
Lettura dell’Apologia Pro Vita Sua
Vorrei dedicare l'ultima parte di questo libro ad un'analisi delle forme letterarie dell'Apologia newmaniana, perché tra le cose che maggiormente colpiscono il lettore che ne accosti l'originale, vi è sicuramente l'accuratezza linguistica, il fascino dell'eloquenza, la nobiltà dell'esposizione del pensiero e dei sentimenti dell'autore. Gli stessi contemporanei, destinatari primi dell'autodifesa, hanno colto la corrispondenza trasparente tra l'elevatezza d'animo del ricercatore di Dio, tormentato e rigorosamente retto, e la sua prosa documentata, ispirata e delicata.
Caratteristiche stilistiche generali
Il giudizio dei critici sullo stile letterario di Newman scrittore è unanime nel sottolineare le grandi doti di prosatore, limpido e accattivante con la dolce melodia ciceroniana della sua cadenza¹. La parola diventa per Newman un finissimo strumento a disposizione del pensiero e dell’emotività che lo plasma, trasfondendo nell’animo del lettore i movimenti più delicati e fluidi. Abbracciando con uno sguardo panoramico l’enorme complesso dei suoi scritti, che spaziano nei più diversi ambiti letterari, stupisce osservare l’estrema adattabilità dello stile ad ogni esigenza retorica o poetica. Con ragione Fernande Tardivel mette in evidenza una qualità peculiare degli scritti del cardinale di Birmingham: l’afflato poetico che anima e mette le ali alle pagine in prosa. Nella biblioteca delle sue opere non manca anche una discreta collezione di versi – di livello artistico non altissimo nella maggior parte dei casi -, ma il genio lirico del nostro autore si rivela più luminosamente e sorprendentemente proprio in alcuni testi di carattere raziocinante e polemico. «Resta che Newman, per la poesia implicita largamente diffusa nella sua prosa, è un autentico poeta».² E’ come se le opere di Newman fossero innalzate a un livello più alto di quello
inteso dal loro stesso autore. Mai il grande convertito pensò di diventare scrittore di professione, eppure i suoi libri, provocati da circostanze occasionali, si susseguirono l’uno all’altro numerosi; mai egli diede allo stile la preminenza sui contenuti, eppure un’estrema purezza della parola non gli venne mai meno, perfino nell’imperversare della polemica. L’asprezza della controversia, destinata per sé a cadere con lo spegnersi dei fatti che l’avevano generata, è sublimata dallo splendore dell’eloquenza, dai luminosi squarci dell’auto– rivelazione, dall’ironia delicata, dall’arguzia incisiva e dalla satira caustica e potente. In realtà fu lo stesso oratoriano di Edgbaston a riconoscere la carica di attrazione che lo stile ciceroniano esercitava su di sé fino a spingerlo al desiderio di imitarlo ed farlo proprio. Fu con fatica e costante applicazione che egli poté avere a propria disposizione un bagaglio tecnico che gli rendeva più agevole e congeniale lo scrivere dello stesso parlare. La trasparenza classica e la sinuosità affascinante delle sue pagine sono frutto sì di un’innata sensibilità di artista, ma ugualmente di un lavoro di addolcimento e raffinamento culturale. La difficoltà e la gradualità di questa conquista, però, rimangono invisibili dietro le quinte di ciò che si svolge davanti agli occhi del pubblico: ne avverte la presenza solo chi vi pone mente. Newman preferisce porre maggiormente allo scoperto i suoi sentimenti profondi, ciò che costituisce il cuore della sua vita interiore. E’ forse questo il segreto del fascino esercitato dalle sue confessioni autobiografiche: ciò che per altri sarebbe quanto mai ostico e imbarazzante, parlare di se stessi, rivelare i pensieri segreti e le intenzioni nascoste della propria vita, per Newman è una strategia di comunicazione, una possibilità da preferire ad altre, una realizzazione magistrale e assolutamente convincente. “Io sono adatto solo a portare la mia testimonianza, a proferire la mia suggestione, ad esprimere il mio sentimento, e questa è stata di fatto la mia occupazione in queste discussioni; gettare una tale luce su questioni di carattere generale, sulla scelta degli oggetti, sulla portata dei principi, sulla tendenza delle misure, in quanto la riflessione e l’esperienza maturata nel ato mi abiliti ad offrire. Dovrò fare appello alla vostra considerazione, alla vostra amicizia, alla vostra confidenza, sulla quale posso tranquillamente riposare”³. Una sincerità così scoperta conquista più di un ragionamento condotto con rigore. Al nostro autore non fanno difetto la capacità logica di una mente ben addestrata, la capacità di ordinare, distinguere, connettere, armonizzare gli elementi in un tutto, e l’Apologia stessa ne presenta più di un esempio eminente. Eppure egli sceglie di servirsi del “senso illativo” a preferenza del raziocinio spersonalizzato. Si rivela artista a cui appare la profondità metaforica della realtà
che non può essere esaurita dall’applicazione degli schematismi logici. Se questo deve essere considerato un difetto in un polemista, in un filosofo, in un predicatore, esso è certamente presente in Newman. Non è l’unico “difetto”. La fretta di rispondere agli stimoli che gli provenivano dalla società e dalla Chiesa, la necessità di conciliare numerose attività ed interessi diversi, l’incalzare degli attacchi polemici a cui bisognava dare risposta, facevano sì che lo scrittore non fosse sempre al meglio delle sue possibilità, distillando soltanto ciò che meritava di venir pubblicato e tramandato alla gloria dei posteri. Di tutt’altro genere era la preoccupazione del grande prosatore vittoriano.
Emotività e scrittura
“Per nascita ed educazione, per temperamento e stile di vita, Newman fu nel profondo un genio religioso, un profeta. (...) E' in virtù di questo temperamento e genio che egli sarà sempre riconosciuto come il più grande scrittore religioso che l'Inghilterra abbia prodotto - forse anche il più grande da Agostino e Tommaso d'Aquino”.⁴ E’ proprio da un originalissimo incontro tra fede religiosa e letteratura che scaturisce, a giudizio della Tardivel, la migliore vena, la più alta ispirazione di Newman. “Nessuno potrebbe negare che Newman ebbe il dono del ritmo. (...) L'ampiezza (...) resta il tratto distintivo del suo periodare, il cui dipanarsi comunica un senso d'immensità. (...) Questo ritmo maestoso, che ben si accorda con la nobiltà dell'argomento trattato dall'autore, sembra proprio un ritmo interiore; le sue onde sono meno imitative, che suggestive”.⁵ Chi si sofferma ad osservare e dissezionare esclusivamente l’abilità retorica con cui le singole parole vengono scelte e giustapposte, le immagini descritte e l’armonia del ritmo creata, non coglie appieno la ricchezza delle sue pagine. Bisogna, al contrario, lasciarsi coinvolgere profondamente nel racconto e nelle vicende stesse vissute dal protagonista, per "sentire" ciò che l'autore voleva comunicare, perché anche noi potessimo essere partecipi, in piccola parte, di ciò
che lui aveva provato. Qui sicuramente gli accorgimenti del narratore sono in funzione della comunicazione, perché scatti l'empatia e la condivisione di un'esperienza di vita. Risulta quindi limitativa e superficiale la valutazione del pregio letterario di un’opera unicamente a partire dal punto di vista formale, delle tecniche espressive, senza voler considerare l’anima interiore dell’uomo e dell’artista e la grandezza umana del suo messaggio. Vale senz’altro la pena di portare il discorso sul terreno concreto, facendo riferimento ad esemplificazioni specifiche. Nel secondo capitolo dell’Apologia, per presentare lo straordinario e largamente inatteso successo riscosso in Inghilterra dalle idee messe in circolazione dal Movimento di Oxford, viene citato uno scritto successivo non di molto ai fatti in questione. “'Da inizi così insignificanti' - dissi - 'da elementi di pensiero così fortuiti, con prospettive così poco promettenti, il partito anglo-cattolico, tutto d'un tratto, divenne una forza nella Chiesa nazionale e oggetto di apprensione per i suoi capi e amici. I suoi iniziatori si sarebbero trovati in imbarazzo se avessero dovuto dire a quali scopi pratici mirassero; piuttosto esprimevano delle vedute e dei principi per il loro valore intrinseco, semplicemente perché erano veri - si sentivano quasi obbligati a esprimerli. Essi stessi erano sorpresi dallo zelo con cui li enunciavano, e non meno dal successo che accompagnò la loro propagazione. Infatti, l'unica cosa che potevano dire era che quelle idee erano nell'aria; che asserire equivaleva a provare, e spiegare a persuadere; che il Movimento del quale facevano parte era l'inizio di una crisi piuttosto che di una affermazione. In pochissimi anni si formò una scuola d'opinione stabile nei principi, ma di una progressività indefinita riguardo alla loro portata; e si diffuse da un capo all'altro del paese" (AP. pp. 215-216). La bellezza di questo aggio consiste nella sua espressività, ossia nell’armonica fusione fra emotività e scrittura. Il sentimento entusiasta che animò la febbrile attività del Movimento Trattariano negli anni 1833-1841 viene qui lasciato trasparire dal movimento solenne ed allo stesso tempo intenso del ritmo, più che da ciò che vi viene raccontato. Insieme a ciò che vi si dice, il modo di dire entra a far parte integrante del processo comunicativo. Lo straordinario genio letterario di Newman emerge in questo e in tanti altri brani simili, comuni nell’Apologia, in cui un contenuto a prima vista totalmente refrattario ad ogni trasfigurazione poetica viene come rianimato, risuscitato da un dinamismo trascinante, da un ritmo incalzante di brevi proposizioni scultoree
alternate a più articolati complessi paratattici, da immagini capaci di rendere visibili idee e sentimenti, e da altri sottili accorgimenti retorici. E’ l’intensità della vita interiore di chi parla delle proprie scelte, dei propri ideali, delle proprie sofferenze a trascinare con sé il lettore; l’artificialità delle tecniche narrative qui si svuota, per lasciare posto solo alla forte carica umana e spirituale di una personalità di spicco. Ecco come, in un altro esempio, il cappellano della Chiesa di Saint–Mary esprime al suo vescovo l’intenso bisogno di fedeltà e di dedizione alle esigenze più alte del messaggio evangelico. “Nella mia lettera al Vescovo dicevo: 'Mi sono opposto a suggerimenti di considerare le differenze tra noi e le Chiese straniere in vista d'un accomodamento' (intendevo dire: per mezzo di negoziati, conferenze, agitazioni o simili). 'Dobbiamo badare a noi stessi, a diventare noi stessi più santi, più mortificati, più vicini alle origini, più degni della nostra alta vocazione. Essere ansiosi di comporre le differenze significa cominciare dalla fine. Le riconciliazioni politiche non sono che esteriori, vuote e fallaci" (AP. pp. 293294).
Metafora, analogia e sacramentalità
Il professor Hogan, descrivendo luci ed ombre dello stile di Newman secondo l’opinione dei critici, ha parlato di una ricerca eccessiva di chiarezza, che lo avrebbe spinto ad un’abbondanza fastidiosa di sinonimi, parallelismi, spiegazioni e termini astratti, che riducono il suo discorso ad una impalpabilità sfuggente. Non posso condividere un’opinione simile a proposito di un sensibile conoscitore e fine maestro del linguaggio come Newman, ma ancor più falso suona ciò che sostiene un altro studioso, il Mendel, il quale nega direttamente che l’autore dell’Apologia sia “uno scrittore religioso del più alto livello", qualificandolo come “credulone ed egoista”, preoccupato più della propria salvezza eterna che della Verità, più di se stesso che di Dio.⁷ Vi sono nell’autobiografia espressioni e pagine che possono dare l’impressione di un’attenzione eccessiva all’io, di una puntigliosa meticolosità delle osservazioni e di un’insistenza reiterata sui particolari. Non possiamo dimenticare, invece, il contesto polemico, e pubblico, che costituisce l'occasione generativa dell'opera. Alla serie di attacchi portati da diverse parti contro le scelte e gli
scritti del nostro Beato, egli si sente in dovere, e proprio in nome della verità fedelmente servita e perseguita, di rispondere punto dopo punto, dando ragione dei i compiuti ponderatamente in un processo evolutivo, che ha portato a maturazione necessaria le premesse inizialmente implicite. Concordo, invece, con le acute affermazioni della Tardivel, la quale vede la grandezza di Newman come scrittore proprio nella sua capacità di trascendere la sfera naturale e intramondana leggendola alla luce della Verità divina, che non sussiste solo in un Paradiso intangibile, ma che transustanzia ogni cosa, attirandola verso una spiritualizzazione superiore. L’analogia è la categoria filosofica e profondamente poetica che il grande pensatore sente particolarmente come sua fin dall’adolescenza e che ha il potere di illuminare di nuovi significati l'esperienza quotidiana e di caricare la vita umana di motivazioni assolute, per cui valga la pena spendersi radicalmente. “Tocchiamo allora il fondo di misticismo che sta alla base del suo realismo poetico, in quanto le sue composizioni verbali equivalgono ad una conoscenza sperimentale del mondo soprannaturale; egli non traa la forma solo per svelare il segreto nascosto nel simbolo, ma la subordina interamente; opera su di essa una vera transustanziazione, che la riduce a non essere altro che il mezzo indispensabile per portare fino ai nostri sensi il meraviglioso che essa coglie. Le immagini spariscono, e come da un sacramento la realtà spirituale emerge direttamente. ‘A volte ci sembra di cogliere un bagliore di una Forma che un domani vedremo faccia a faccia. Ci avviciniamo, e invece dell’oscurità, le nostre mani, o la nostra testa, o la nostra fronte, o le nostre labbra diventano, direi, sensibili al contatto di qualcosa di ultraterreno” (Parochial Sermons, t. V, p. 10).⁸ Se le immagini di cui Newman fa così largo uso hanno dato origine a pareri quanto mai contrastanti – coloro che criticano la loro assoluta mancanza di originalità e coloro che invece ne apprezzano la forte capacità evocativa – vi è una convergenza pressoché unanime nel ritenere che la metafora sia una caratteristica peculiare della prosa del nostro apologista. Il Mendel, ad esempio, la vede sottesa globalmente a tutto il percorso dell’Apologia, nel senso che vi verrebbe tracciato il tragitto dalla casa terrestre alla casa celeste, dalle comodità mondane e dalle amicizie naturali al Gregge di Cristo, dalla considerazione della Chiesa cattolica come infida comunione straniera alla sua accettazione come vera comunità di santi, erede delle promesse di Cristo. Lo stesso protagonista, in questa prospettiva, diventa il vero pellegrino, ricercatore di Dio, fedele servitore del Maestro . La convinzione fondamentale di Newman è che sia possibile, con
mezzi opportuni, are dalla conoscenza del mondo alla conoscenza di Dio senza soluzione di continuità, grazie al significato “sacramentale” della realtà. La metafora, dunque, nel momento in cui ci introduce al possesso intellettuale della verità e all’accostamento più profondo con il creato, ci invita incessantemente a are oltre, a guardare più lontano. “È sempre al punto di congiunzione, dove coincidono il suo istinto d'artista e il suo senso religioso, che egli è più se stesso, che la sua opera è perfetta; quando, dimenticando lo scopo immediato dei suoi scritti, egli interpreta senza tradirlo il poema dell'universo, creato per meglio sentire e cogliere le realtà dell'universo spirituale, (...) è allora che la dottrina dell'Apologia è vissuta da Newman, che il suo pensiero sul mondo si unisce alla sua esperienza del mondo, che le sue percezioni estetiche e le sue percezioni religiose si confondono. Talvolta (...) la bellezza sensibile é per lui un vasto simbolo carico di significato divino".¹ Ecco di seguito un esempio di come un’immagine assolutamente consueta, quella della Chiesa come albero formato da rami diversi, viene espressa con forza, attraverso la ripetizione ribadita della parola “branch”, che sembra sgorgare all’esterno, dopo aver tanto fatto eco nel fondo del cuore, quasi per piantare sulla carta, come un chiodo, l’ardente e inquieto desiderio di essere parte ad ogni costo, anche se parte laterale, di quell’unico e grande albero di Cristo. “Saremmo quasi contenti di dire ai sostenitori di Roma: non considerateci ancora come un ramo della Chiesa cattolica (benché siamo un ramo), finché non rassomigliamo a un ramo - a condizione, però, che quando rassomiglieremo veramente a un ramo allora voi acconsentiate a riconoscerci" (AP. p. 292). Il fitto tessuto di immagini presenti nell’Apologia imprime a questo libro così originale una caratteristica tutta propria. Sia che riempiano un’intera pagina, sia che si affidino ad una sola o a poche righe, sia che vengano desunte dalle Sacre Scritture o dai testi del classicismo greco–romano, il loro intento è sempre quello di rendere un concetto più accessibile, più concreto e quasi palpabile, annuendo da dietro le spalle del narratore. “Il principio dogmatico e quello anglicano erano una cosa sola, come avevo loro insegnato; ma ora stavo riducendo in frantumi la Via media e, col demolire questa, non avrei forse completamente distrutto, nella mente di molti, anche la fede nel dogma? Oh! quanto mi rendeva infelice questo pensiero! Una volta ho
sentito raccontare da un testimone oculare la storia di un povero marinaio al quale, nella battaglia di Algeri del 1816, una palla aveva sfracellato le gambe, per cui doveva essere operato. Il chirurgo e il cappellano lo persuasero a lasciarsi tagliare una gamba; così fu fatto e fu applicata la pinza emostatica alla ferita. Poi gli dissero che doveva lasciarsi tagliare anche l'altra. Il poveretto rispose: 'Me l'avreste dovuto dire prima, signori' e deliberatamente svitò lo strumento e morì dissanguato" (AP. p. 345).¹¹
Ironia
Un altro artificio retorico che Newman usa nella sua autobiografia spirituale è l’ironia. Per un polemista si tratta di un’arma tradizionale, ma nel nostro caso è anche un segno del distacco con cui a tratti lo scrittore riesce ad osservare se stesso e le sue vicende. La mentalità puritana che pervadeva la cultura vittoriana costringeva l’autobiografia entro binari convenzionali piuttosto rigidi, esigendo uno stile elevato; l’ironia non poteva sfuggire a questi canoni estetici e morali, ma senza diventare mai tagliente o umoristica permette di vivacizzare il discorso, acuendo il contrasto con gli avversari ed esasperando le diverse posizioni rende più comprensibile anche al vasto pubblico l’autodifesa dell’autore. Ecco un esempio di come Newman sappia condurre la sua polemica contro la teologia liberale. Nelle Note aggiunte in calce al volume sui vari temi nodali, raccoglie le tesi avversarie in una serie di proposizioni schematiche e le commenta argutamente mettendone in risalto applicazioni esplosive e conseguenze inaccettabili. “6. Nessuna dottrina rivelata o precetto rivelato può ragionevolmente opporsi alle conclusioni scientifiche. Quindi, per esempio, l'economia politica può capovolgere le dichiarazioni del Signore sulla povertà e sulla ricchezza oppure un sistema etico può insegnare che il massimo benessere fisico è indispensabile per la perfezione morale. (...)
10. La coscienza ha diritti tali per cui ognuno può legittimamente avanzare la pretesa di professare e insegnare ciò che è falso ed errato in materia religiosa, sociale e morale, purché alla sua coscienza questo sembri assolutamente vero e giusto. Quindi, per esempio, ci sono individui che hanno il diritto di predicare e praticare la fornicazione e la poligamia" (AP. pp. 435-436). L’ironia nell’Apologia può talvolta essere diretta dallo scrittore anche verso se stesso, mentre scopre nei propri atteggiamenti ati, nelle proprie paure, nelle convinzioni di un tempo, qualche fattore incongruente, ormai ripudiato, inconciliabile con il presente, come se non fosse mai appartenuto se non ad un estraneo. Benché la rievocazione della vita ata sia strettamente agganciata all’urgenza del presente e funzionalizzata alla difesa dalle accuse del prof. Kingsley, la stessa realtà della scissione fra io narratore e io narrato, fra i diversi livelli temporali della conversione, e i frequenti riferimenti di Newman ai suoi diari e alla sue lettere, crea un sottile substrato ironico¹²; fondendosi con il “pathos” del racconto, particolarmente accentuato in alcuni tornanti significativi, e con la teologica precisione delle pagine in cui viene meticolosamente descritto l’evolversi delle opinioni religiose, questa ironia produce un gioco di toni multicolore e accattivante. L’Apologia “è un esempio eccellente della peculiare eloquenza di Newman nobile eppure semplice, capace dei più ampi effetti pittorici eppure severamente reticente, austera e tenera, classica e colloquiale, delicata e virile, prodotto di un’arte consumata eppure apparentemente naturale - un’eloquenza che penetra e soggioga la mente”.¹³
Narrazione ed esposizione
Nel rintracciare le caratteristiche letterarie dell’autobiografia di Newman non è possibile evitare un riferimento al classico di S. Agostino, le Confessiones, prototipo e modello classico di questo genere. I due grandi uomini di Chiesa sono tanto uniti da una simile esperienza religiosa, ossia dall’itinerario di conversione illuminato da una profonda cultura, per lo meno quanto si distinguono per la loro spiccata personalità e il loro vivo inserimento in epoche
lontane e diverse. Dal IV al XIX secolo la letteratura autobiografica aveva percorso un lungo cammino, raffinandosi progressivamente, e giungendo al suo massimo successo e diffusione proprio nell’epoca vittoriana, propensa all’esaltazione del lavoro produttivo e delle personalità protagoniste delle "magnifiche sorti e progressive". Eppure quando Newman cerca un modello a cui ispirarsi per dar corpo al suo progetto di apologia attraverso l'esternazione pubblica della sua storia e del maturare delle sue convinzioni religiose, non trova migliore riferimento di S. Agostino. In un ricchissimo e fondamentale saggio, Linda Peterson illustra i notevoli esempi di letteratura autobiografica collocabili entro l’alveo proprio della tradizione religiosa evangelica, fra i quali spicca un racconto di conversione, quella Force of Truth di Thomas Scott che tanto aveva entusiasmato l’adolescente Newman, alla ricerca di solidi principi morali. Quel libro però ha, agli occhi del futuro beato, il grave difetto di essere tutto impregnato dell’evangelismo biblico, da cui rifugge convintamente. Questo filone letterario-religioso, che si era formato nel mondo anglosassone come monopolio protestante, era caratterizzato da uno scritturismo esplicito e allegorico, in modo che la vita dell’uomo era rappresentata come un pellegrinaggio nel deserto simile a quello del Popolo Eletto o come un esodo attraverso il Mar Rosso verso la Terra Promessa. Newman, per sottrarsi all’ambiguità di ogni interpretazione fuorviante, fa ricorso alla fonte agostiniana con grande originalità e creatività. “Le Confessioni di Agostino sono state frequentemente citate come l'opera determinante nella tradizione dell'autobiografia spirituale, ma nella tradizione inglese precedente il Newman la sua influenza fu, di fatto, trascurabile. Gli autobiografi inglesi potrebbero aver letto le Confessioni nella versione latina originale o nella traduzione seicentesca di Tobias Matthiew o di William Watts, ma fecero pochi tentativi, come ha sostenuto Karl J. Weintraub, di imitarne i motivi figurativi o la più ampia struttura formale".¹⁴ Newman, che aveva accostato direttamente le fonti della Patrologia latina scoprendone l’inaspettata ricchezza e ne aveva patrocinato e curato la pubblicazione e la diffusione presso il pubblico inglese, si rende anche conto dello straordinario potenziale espressivo e innovativo dei modi agostiniani dell’autobiografia. Da un punto di vista concettuale, la fede cristiana, in S. Agostino e negli antichi Padri della Chiesa, era interpretata non a partire da un'ermeneutica allegorica, come avveniva nel classico volume di Bunyan Grace Abounding to the Chief of
Sinners (1666), ma attraverso un'ermeneutica tipologica. Si trattava di un particolare modo di raffrontare l’Antico Testamento con il Nuovo, in modo che leggendo quello a partire da questo fosse illuminato e spiegato alla luce della definitiva Rivelazione di Gesù, come sua preparazione e introduzione. Gli antichi eventi e gli oracoli profetici trovano consistenza non in se stessi ma nella piena realizzazione evangelica. In questo senso la tipologia ò in epoche successive dalla teologia alla spiritualità e quindi alla letteratura più vasta come modulo estetico. Due realtà concrete vengono poste in stretta connessione reciproca, in modo che l’una, il “tipo”, rimandando all’altra, l’“antitipo”, la spieghi, illuminandone una profondità recondita ed inattesa. Contrariamente al metodo allegorico, prevalentemente intellettualistico e astratto, la tipologia, per risultare efficace, cerca di attingere alla concretezza delle due realtà, dotate ambedue di spessore storico e di significato simbolico. Nell’intento di chiarire l’originalissimo tentativo di Newman, la Peterson sottolinea la duplicità di tono presente nell’Apologia, nella quale si distinguono parti narrative e parti espositive; in queste ultime ci si sofferma più a lungo sulle idee, tracciando le linee del loro progressivo sviluppo e del loro esito finale. Questa diversità di scrittura è ravvisabile tra i primi quattro capitoli del volume e il quinto, intitolato “La mia posizione spirituale dopo il 1845”. Già Wayne Shumaker (1954) aveva rilevato questa caratteristica “mista” dell’autobiografia vittoriana, ed altri critici più vicini a noi avevano ravvisato una tendenza di questo genere letterario ad una progressiva “purificazione” nella direzione della narrativizzazione. “Questa relazione della narrazione con l'esposizione, della narrazione con la teologia e la filosofia, è molto chiara nella composizione delle Confessioni, ed è la chiarezza di Agostino sull'intenzione generica e sulla forma che Newman porta nel capitolo finale dell'Apologia. La narrazione di Agostino termina al libro nono quando, udendo il "Tolle, lege", "Prendi, leggi" del bambino, decide di abbandonare la sua professione di retore e chiede il Battesimo dalle mani di Ambrogio. Dopo il racconto della sua conversione, la modalità delle Confessioni si sposta radicalmente, dalla narrazione dei libri 1-9 all'esposizione dei libri 1013".¹⁵ Molto acutamente la Peterson si riferisce ad un breve saggio di John C. Cooper, nel quale viene dimostrata la struttura unitaria del capolavoro agostiniano, ricorrendo al significato del termine confessio, a quel tempo comunemente utilizzato nella duplice accezione di confessio peccati e confessio fidei. In questa
luce i libri XI-XIII delle Confessioni che, costituendo un minuzioso commentario esegetico ai primi capitoli della Genesi biblica sembrano un corpo estraneo rispetto al vivo racconto dei capitoli precedenti o un’aggiunta spuria, si rivelano “… parte integrante dell'intera opera, nella misura in cui le Confessioni sono più di un'autobiografia o di un diario, ma formano una storia delle esperienze mentali e spirituali di Agostino, nelle quali egli trovò risposte soddisfacenti agli interrogativi filosofici che riguardano ogni essere pensante. (...) 'Il nostro cuore è inquieto finché non riposi in Te'. Non è un'esagerazione affermare che l'intera opera illustra la verità di questa affermazione di fede".¹ Un analogo senso di inquietudine e di serenità ritrovata emergono dall’Apologia di Newman. “Per Agostino (...) la confessione esperienziale viene prima; la confessione dottrinale per seconda. Di qui la struttura compositiva delle Confessioni, con i libri narrativi che precedono quelli espositivi. Newman osserva questo ordine compositivo agostiniano nell'Apologia, raccontando dettagliatamente il processo della sua conversione nei capitoli 1-4 e poi esponendo sistematicamente il suo credo teologico in "La mia posizione spirituale dopo il 1845". La prima riga del capitolo finale annuncia la conclusione della narrazione: 'Dal giorno in cui divenni cattolico, naturalmente non ho più alcuna storia delle mie opinioni religiose da narrare'".¹⁷ Eppure Newman appare molto più cosciente, come autobiografo, dei suoi predecessori inglesi. Riconosce, distingue e accosta le due forme di scrittura in modo consapevole e, superando così il binomio narrazione-esposizione, percepisce le implicazioni teologiche che il genere autobiografico porta con sé. “Né Bunyan né Scott furono consapevoli in quanto autobiografi della relazione esistente fra la narrazione che presentavano e la teologia che sposavano. Effettivamente Scott sembra dare per scontato che egli ha raccontato la sua storia "semplicemente", senza farsi condizionare dalla sua teologia. Con l'Apologia l'autobiografia diventa autocosciente, e in quanto genere letterario prende consapevolezza della sua intenzione ermeneutica".¹⁸ Ora diventa chiaro perché a Newman appariva tanto importante non allinearsi pedissequamente al filone di tradizione iniziato da John Bunyan, ma arricchirlo
ed integrarlo con quello agostiniano, più tipicamente cattolico. Così facendo egli non solo mostra di aver colto con piena lucidità il metodo più appropriato per difendere se stesso dalle ingiuste accuse, ma arriva a svolgere un importante ruolo per tutta la letteratura inglese, costituendosi restauratore e mediatore fra i due principali modelli di autobiografia, dei quali uno era stato da lungo tempo accantonato e correva il rischio di venire abbandonato. “Dove altro possiamo trovare sprazzi di autobiografia tanto affascinanti, confessioni tanto coraggiose, esposizioni tanto franche delle proprie ragioni? (...) Non si tratta affatto di un libro perfetto, avrebbe potuto essere facilmente un libro migliore. Porta in sé troppo visibili i tratti della controversia, fu composto affrettatamente, molte cose che senza dubbio apparivano chiare a Newman non sono affermate molto chiaramente, e mancano alcuni aggi logici. (...) Ma una volta fatte tutte queste critiche, non c'é autobiografia in lingua inglese che possegga in così alto grado gli elementi del fascino. E nemmeno ne esiste una che contenga tanto numerosi brani grandiosi, che sembra tocchino la più alta vetta dell'impresa letteraria".¹
Drammatizzazione
Tra i caratteri stilistici impressi dall'autore al testo dell’Apologia merita una menzione particolare l’intensa carica drammatica che pervade e dà l'impulso di un notevole vigore alla narrazione. Newman possiede in misura spiccata la capacità di percepire e descrivere con l'immediatezza e la vivacità di una azione scenica persino i moti più reconditi dello spirito. Ecco alcuni esempi di come idee, eventi e aggi significativi della sua vita vengono sottolineati con toni fortemente teatrali e carichi di dinamismo, tali da agganciare l'attenzione del lettore incuriosito allo sviluppo degli eventi. “Tale era la posizione, tali i mezzi di difesa, tale la tattica con cui secondo me avremmo dovuto e potuto affrontare quell'assalto dei principi liberali. (...) E nel primo anno dei Tracts cominciò l'attacco all'Università" (AP. p. 196). “Così cominciò l'assalto del liberalismo alla vecchia ortodossia di Oxford e dell'Inghilterra; e non sarebbe mai stato respinto, come fu, per tanto tempo, se
non ci fosse stato un grande cambiamento nella situazione di quel movimento che era già stato iniziato con l'intenzione di opporvisi" (AP. p. 197-198). "Ora che sto per tracciare, per quanto mi è possibile, il corso di quella grande rivoluzione spirituale che mi indusse a lasciare la dimora alla quale ero legato con tanti vincoli teneri e forti, mi sento sopraffatto dalla difficoltà di soddisfare me stesso con la mia relazione” (AP. p. 231).
Un interessante saggio di Martin Svaglic² sottolinea efficacemente questo aspetto dello stile di Newman, che trova espressione in un insieme complesso di elementi - come immagini, intensità emotiva, discorso diretto, contrasto ironico. Mano a mano che si procede nella lettura del libro - e si dipanano le vicende intellettuali e spirituali del protagonista - l’arco di anni abbracciato da ogni singolo capitolo decresce progressivamente, mentre corrispondentemente infittisce il numero di pagine in cui gli eventi vengono analizzati sempre più minuziosamente, creando l’effetto di un crescendo accuratamente dosato e voluto. La strutturazione quadripartita del libro suggerisce l’andamento ritmico di un dramma scandito in quattro atti. Newman è naturalmente il protagonista della costruzione scenica, articolata attorno ad un preciso filo conduttore, che lo scrittore percepisce a posteriori, rileggendo il suo attraversare l’intero contorto sviluppo della sua conversione come un segno tangibile della provvidente attenzione con cui il Padre celeste segue la vita di ciascuno. Svaglic vede nella figura del soldato, tradizionale anche in tanta letteratura spirituale cristiana, la metafora soggiacente a tutta la parabola evolutiva dell’Apologia. Dotato di un naturale istinto per l’azione e memore dei richiami scritturistici a non mai deporre le armi contro il nemico diabolico e le sue seduzioni, Newman si dipinge, a parere dello Svaglic, come un soldato che trova la pace solo attraverso la sconfitta e la sottomissione alla “forza della verità”. Cercando di evitare la trappola di un'operazione forzata per ridurre entro uno schema prefissato e costrittivo l’esuberante ricchezza contenuta in questa autobiografia, è certo che il vigore drammatico - articolato nelle diverse fasi di conflitto, crisi, rivoluzione e lieto fine - costituisce un elemento artistico di rilievo nel determinare il fascino magnetico e convincente esercitato dalla prosa di Newman.²¹ Eccone ancora un breve esempio delicato e suggestivo. “C'è bisogno di dire che parlo di John Keble? La prima volta che mi trovai con lui nella stessa stanza fu in occasione della mia elezione a fellow di Oriel,
quando mi fecero chiamare alla Torre per ricevere le congratulazioni del rettore e dei fellows. Come è rimasta impressa quell'ora nella mia memoria, dopo tutte le vicende di quarantadue anni - proprio quarantadue in questo giorno in cui sto scrivendo! Ultimamente mi è capitata tra le mani una lettera che mandai allora al mio grande amico, John William Bowden. (...) 'Dovetti andare in fretta alla Torre', gli scrissi, 'per ricevere le congratulazioni di tutti i fellows. Resistetti finché non mi strinse la mano Keble, e allora mi sentii talmente confuso e indegno dell'onore che mi si faceva, che avrei desiderato scomparire sottoterra'. (...) Un giorno, mentre eggiavo per High Street col mio primo caro amico, or ora menzionato, con quale ardore egli esclamò: 'Ecco Keble!' e con quanto rispetto io lo guardai!” (AP. p. 152). Le categorie proprie dello strutturalismo letterario, elaborate per l’analisi del romanzo nel fondamentale studio di Genette «Figures III», potrebbero essere applicate fruttuosamente all'autobiografia spirituale del grande intellettuale inglese ora beato. Basti pensare alle complesse e continue diacronie che agganciano il filone portante della narrazione con le altri fasi della conversione, anteriori o posteriori, e con il presente del narratore; e pensiamo ai significativi spostamenti di registro e di voce, operati attraverso le massicce citazioni dirette di lettere e dialoghi ricostruiti, e attraverso il frequente irrompere in campo del narratore stesso in prima persona. L’alternarsi di “narrazione” e di “esposizione”, e la carica drammatica della prima, suggerisce l’importanza di prendere in considerazione quanto Genette rileva a proposito della durata e del ritmo, misurato nel rapporto fra tempo reale e tempo della storia. Ma il discorso si farebbe qui eccessivamente lungo e specialistico. In conclusione possiamo affermare che se non è semplice e immediato rintracciare oggettivamente le tecniche letterarie utilizzate da Newman con arte consumata e allo stesso tempo ione sincera per conquistare la mente e il cuore del lettore, resta un giudizio unanimemente condiviso, secondo il quale l’Apologia costituisce uno degli esempi più alti della forza espressiva che la prosa inglese abbia raggiunto. “Newman ci domina con la forza di un'individualità solitaria e imperscrutabile. (...) Qualunque cosa pensi o faccia, e per quanto cordialmente possiamo disapprovare le sue conclusioni o le sue azioni, eppure egli si impone al nostro interesse, al nostro profondo e costante interesse".²²
Bibliografia
Edizioni più recenti dell’Apologia Pro Vita Sua:
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Note
Introduzione
1. Lettera a Miss Bowles, citata in W. WARD, The life of John Henry Cardinal Newman, vol. II, p. 129.
2. Citato in M. J. SVAGLIC, Introduction, in «Apologia Pro Vita Sua», p.XLV. 3. Letters and Diaries of J. H. Newman, ed. at Birmingham Oratory, NelsonClarendon Press, London-Oxford, 1961-1977, vol. XXIX, p. 72.
Dati storico-biografici
1. Newman J H, Apologia Pro Vita Sua, a cura di Morrone Fortunato, Paoline, Milano, 2001, p. 134. D’ora in poi verrà citato AP.
2. L’opinione secondo la quale la Chiesa, che in Inghilterra ha un’accentuazione marcatamente nazionale, deve mostrare sempre accondiscendenza nei confronti del potere civile, è detta “erastianesimo”. Tommaso Erasto aveva teorizzato alla fine del XVI secolo la subordinazione di quella a questo, o meglio, il potere di coercizione, proprio della autorità statale, anche in materia ecclesiastica. I suoi seguaci poi portarono questa considerazione a più radicali conseguenze. Su posizioni antitetiche ai lealisti si collocavano gli ultramontanisti, per i quali la fedeltà alla Santa Sede di Roma come centro dell’unità cattolica, era da considerarsi prioritaria su quella nei confronti del Parlamento. E’ da notare che Newman non ha mai voluto allinearsi con questi ultimi, nemmeno dopo la
conversione, giudicandone radicali le affermazioni. Queste sue critiche gli attirarono purtroppo sospetti che furono motivo di non poche sofferenze. 3. cfr. AP pp. 255-260.
Come ha avuto origine l'Apologia
1. cfr. Ward W, The life of John Henry Cardinal Newman. Based on his private journals and correspondence, London, Longmans and Green, 1912, vol. II, p. 1.
2. Ivi p. 2. 3. Ivi pp. 5-6. 4. Ivi p. 10. 5. Ivi p. 12. 6. v. Svaglic M J, The revision of Newman’s ‘Apologia’, in “Modern Philology”, 1952, p. 44.
L'autobiografia come genere letterario
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2. SHUMAKER W., English Autobiography Its Emergence, Materials and Form, Berkeley, University of California Press, 1954.
3. SPENGEMANN W.C., The Forms of Autobiography: Episodes in the History of a Literary Genre, New Hawen, Yale University Press, 1980, 254 pp. 4. SHUMAKER, p. 106. 5. FLEISHMAN, p. 7. 6. SHUMAKER, p. 111. 7. Cfr. LEJEUNE Ph., L’autobiographie en , Paris 1971. 8. FLEISHMAN, p. 19. 9. FLEISHMAN, p. 33. 10. SHUMAKER, p. 122. 11. SHUMAKER, p. 85. 12. Entro questa prospettiva generale, l’Apologia presenta numerose e macroscopiche distorsioni e manipolazioni della continuità cronologica: frequenti sono le anacronie (sia analessi, sia prolessi), alcune sezioni di tempo vengono minuziosamente analizzate, mentre altre vengono compresse in pochi accenni. “L’Apologia di Newman in una sezione di trentuno pagine riassume un periodo di trentadue anni, e in un’altra di cinquanta pagine discute un periodo di solo due anni - una sproporzione, nella relazione fra arco temporale e pagine, di uno a venticinque” (SHUMAKER, p. 46). 13. “Nei ricordi di ogni uomo ci sono certe cose che egli non svela a tutti, ma forse soltanto agli amici. Ce ne sono altre che non svelerà neppure agli amici, ma forse solo a se stesso, e comunque in gran segreto. Ma ve ne sono, infine, di quelle che luomo ha paura di svelare perfino a se stesso” (v. DOSTOEVSKIJ F., Memorie del sottosuolo). 14. MENDEL Sydney, Metaphor and Rhetoric in Newman’s “Apologia”, in “Essay in Criticism”, 1973, p. 359.
Autobiografia, conversione e apologia
1. Conversione, in “Lessico Universale Italiano”, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1970, vol. V, p. 407.
2. COATES BOUQUET Alan, Conversion, in “Enciclopaedia Britannica”, London 1962, p. 363. 3. JOZWIAK Franciszek, Nawrocenie – Powrot do Bogaw Pierwotnym Kosciele, in “Atenum Kaplanskie”, 1985, n. 455-456, p. 122. 4. “La ricerca contemporanea considera piuttosto gli aspetti psicologici del fenomeno. (…) Certi regimi politici hanno già utilizzato i metodi psicofisiologici per la ‘conversione’ degli oppositori (lavaggio del cervello)” (HADOT P., Conversion, in “Encyclopaedia Universalis”, Paris 1980, p. 981). 5. Dal punto di vista psicologico si potrebbero fare interminabili considerazioni, ed esistono pregevoli trattati in questo senso. Qui riporto solamente quanto afferma il Coates Bouquet, e cioè che un’autentica conversione provoca un cambiamento “da una vita disorganica ad una vita organizzata attorno ad un’idea centrale. (…) Coloro (…) che accettano l’interpretazione religiosa della vita come il suo significato più ampio, sono universalmente concordi che qualunque forma possa assumere la conversione, essa rappresenta l’evento più rilevante nella vita di ogni individuo. (…) La caratteristica essenziale della conversione è l’unificazione del carattere” ( COATES BOUQUET, op. cit. p. 363). 6. HADOT, op. cit. p. 981. 7. Cfr. GIBLET G.-GRELOT P., Penitenza - Conversione, in “Dizionario di Teologia Biblica”, a cura di X. LEON-DUFOUR, Marietti 1984, V ed. coll. 895905. 8. HADOT, op. cit., p. 980. 9. HADOT, op. cit., p. 981.
10. PARENTE P., Conversione, in “Enciclopedia Cattolica”, Città del Vaticano, 1950, vol. IV, col. 492. 11. Ibidem. 12. FLEISHMAN, op. cit., p. 156-157. 13. RAMSEY M., Newman the Anglican, in “John Henry Newman: A Man for our Time?”, Newcastle upon Tyne, Grevatt and Grevatt, 1983, p. 3. 14. FLEISHMAN, p. 159. 15. FLEISHMAN, p. 156. 16. “Il cambiamento è accompagnato da alcune caratteristiche comuni, che assomigliano così da vicino a fenomeni legati alla vita affettiva, che la conversione è stata di fatto definita, talvolta, come un ‘innamorarsi di Dio’. Con un linguaggio meno pittoresco è stata descritta come una concentrazione delle energie affettive sull’oggetto della fede, una revisione pratica e una nuova economia dell’amore. Essa è segnata da un’estasi di gioia, (…) o dalla consapevolezza di una grande luce (tecnicamente definita ‘fotismo’), (…) da un sentimento di pace e di liberazione dall’incertezza, da un senso di novità di vita che si estende fino al mondo esterno, (…) e soprattutto (…) dal sentimento di trovarsi sotto il controllo divino, in modo che la conversione sembra qualcosa di ricevuto piuttosto che qualcosa di conquistato, e viene percepita, di fatto, come il prodotto della grazia divina, e non dell’energia umana” (COATES BOUQUET, p. 363). 17. HOGAN J. J., Newman and Literature, in “Studies”, 1953, p. 178.
Lettura dell'Apologia Pro Vita Sua
1. «Quasi al termine della sua carriera di autore, Newman dichiarava che quanto a stile non aveva avuto come maestro che Cicerone, e che la maniera del maestro della retorica classica era la sola che si fosse proposto di imitare» (TARDIVEL, p. 356).
2. TARDIVEL, p. 328. Un opuscolo sicuramente valido dal punto di vista dell’analisi letteraria e poetica dell’opera newmaniana è OLIVERO F., “La teoria poetica del Newman”, Milano, ed. Vita e Pensiero, 1930. L’autore però, commentando il volume “Poetry, With Reference to Aristotle’s Poetics”, non si sofferma particolarmente sull’Apologia; e il nostro discorso, inoltre, si svolgerà su vie piuttosto differenti. 3. NEWMAN J. H., “University Sermons”, citato in HOGAN, op. cit., p. 171. 4. DAWSON, op. cit., p. 290. 5. TARDIVEL, pp. 365-366. 6. HOGAN, p. 169. 7. Cf. MENDEL, op. cit., p. 329. 8. TARDIVEL, p. 367. 9. MENDEL, p. 363. 10. TARDIVEL, p. 330-331. 11. Quella del capezzale, del letto di morte, è una metafora plastica che il nostro autobiografo riceve da influssi gotici della letteratura nordica e della sensibilità romantica. “A partire dalla fine del 1841 ero sul letto di morte per quanto riguarda la mia appartenenza alla Chiesa anglicana, benché a quell’epoca me ne sia reso conto solo gradualmente. Introduco quanto ho da dire con questa osservazione, per spiegare il carattere di quest’ultima parte della mia narrazione. Un letto di morte non ha quasi storia; è un tedioso declino, con periodi di ripresa e periodi di ricaduta; e siccome si prevede la fine o è, come si dice, una questione di tempo, ha poco interesse per il lettore, specialmente se questo ha l’animo sensibile. Inoltre è un periodo in cui si chiudono le porte e si tirano le tende, e in cui l’ammalato né s’interessa né è capace di seguire le varie fasi della sua malattia. Io ero in queste condizioni, con la sola differenza, che non mi era concesso di morire in pace: con la differenza che amici che avevano ancora pieno diritto di
venire da me, e il mondo che non aveva questo diritto, hanno dato una specie di storia a questi ultimi quattro anni” (AP. p. 289). 12. “L’autobiografo (…) può sempre commentare il proprio testo, esprimere osservazioni sulla refrattarietà del linguaggio, e sulle scelte dell’artigiano al lavoro durante le fitte del compito che si è auto-imposto. Aggiungendo la sua voce al testo che deve produrre la sua immagine, lo scrittore potrebbe non essere pienamente in controllo dei meccanismi attraverso i quali lavora, ma può almeno affermare la sua lotta contro contro di essi - anche se lo fa con la parola. Nominando l’ombra che si staglia fra la volontà e l’opera, l’intenzione e l’espressione, non risolve la discrepanza per decreto, e nemmeno l’asserzione di una resistenza allo strumento rappresenta una dichiarazione performativa di indipendenza da esso. Ma nel corso dei suoi auto-riferimenti autoriali, l’autobiografo emerge con grande chiarezza: non come uno che ha vissuto, ma come uno che scrive per la vita” (FLEISHMAN, p.36). 13. DAWSON, p. 289. 14. PETERSON L., “Newman’s Apologia pro vita sua and the Tradition of the English Spiritual Autobiography”, in «PMLA» 1985, vol. 100, p. 308. 15. PETERSON, p. 311. 16. COOPER J. C., “Why did Augustine write Books XI-XIII of the Confessions?”, in «Augustinian Studies» 1971, pp. 38-39. 17. PETERSON, p. 312. 18. Ibidem. 19. DAWSON W. J., “John Henry Newman”, in «The Makers of Modern Prose», London, Hodder and Stoughton, 1899, pp. 287-289. 20. SVAGLIC M. J., “The Structure of Newman’s Apologia”, in «PMLA» 1951, pp. 138-148. 21. Mi sembra sbrigativo il giudizio espresso da Hogan (1953) nel suo articolo “Newman and Literature”, pubblicato sulla rivista «Studies», secondo il quale lo stile dell’Apologia, globalmente considerato, fu non-letterario e, diversamente da quello di Ruskin e Carlyle, formalmente semplice. Secondo questo studioso,
Newman non sarebbe in realtà l’intellettuale puro che sembra, perché era più proteso alla ricerca della verità che della bellezza. Al contrario, ritengo che se artista fu, e lo fu veramente, è perché intuì giustamente la capacità di arrivare al vero non con la sola ragione, ma anche con il “cuore”. 22. DAWSON, p. 276.