Salvatore Piermarini, Massimo Celani
20/vènti
20/vènti
venti annotazioni di Massimo Celani
a margine di una sequenza fotografica di Salvatore Piermarini
collana di saggi brevi in regime di selfpublishing
a cura di Massimo Celani
κατάχρησις/streetlib 2015
20venti.blogspot.it/
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Indice dei contenuti
20/vènti
20/vènti
venti annotazioni di Massimo Celani a margine di una sequenza di Salvatore Piermarini
Salvatore Piermarini Massimo Celani
20/vènti
venti annotazioni di Massimo Celani a margine di una sequenza di Salvatore Piermarini
Uno spiffero utile a ricordarci il vento di fuori, ai lati del nostro piccolo mondo e che ne insidia il tepore protettivo.
“ Le silence est un mot qui n'est pas un mot et le souffle un objet qui n'est pas un objet " Georges Bataille, L'expérience intérieure Gallimard, 1943, texte revu et corrigé, 1954 (1994)
Salvatore Piermarini Tempo, vento, respiro ben controllato
Siamo in Canada, a Toronto, ottobre del 1990, esterno giorno dentro un parcheggio dove non accade nulla, con quattro automobili davanti a un muretto di mattoncini a secco che fa da quinta alla scena; inquadratura frontale e orizzontale, la scena è ferma, non succede niente e niente si muove, mi preparo a fotografare. L'attesa è casuale, quando, ad un tratto, un colpo di vento arriva e comincia impetuoso a far sventolare un telone leggero di plastica nera, posto a protezione di una delle auto, ad animarlo in volute multiformi, panneggi e sbattimenti continui. Comincio a scattare e so già che sarà una sequenza. Mi fermerò all'ottavo o al nono fotogramma, non ricordo e non ho voluto verificare sul provino. Mi sembra di aver “controllato” il tempo e sono come soddisfatto; forse ho mostrato il tempo? ... no! Ho solo avuto l'illusione di fotografare il vento e forse ho mostrato l'idea del vento, che invece ha suggerito la sequenza e ha “fatto” la fotografia. Questa sequenza è talmente casuale quanto velleitarie sembrano le forme del telone prodotte dal vento, trasfigurate in quel mantello di plastica nera che appare come mosso da una forza invisibile e informale. La performance del vento, che muove e inventa diverse figure di plastica svolazzante, assomiglia all'installazione di un artista contemporaneo o, addirittura, a un trucco di fotografia digitale. Tant'è che la sequenza era finita da qualche parte in rete, su un sito internet, visibile solo per chi naviga “tra i venti” della rete informatica. La temporalità scorre e trascina con sé tutto quello che incontra; anche la realtà diventa succube del concetto di tempo.
Massimo Celani
20 annotazioni a margine
Prima o poi occorrerà spiegare ai bambini italiani che le vocali sono sette (i, è, é, a, ò, ó, u) e non cinque e che il numero cardinale 20 è diverso dal sostantivo plurale venti.
1) À l'origine du son, le souffle è il titolo di un ponderoso saggio di Benoît Amy de la Bretèque (Solal, 2000). Si tratta di un gesto vocale “adapté provient originellement d'un souffle bien maitrisé“, un respiro ben controllato sul quale convergono il foniatra Amy de la Bretèque e il maestro del bianco e nero Piermarini. Il vento non si vede e non si sente, eppure si mostra. Grado zero della pragmatica: s’intuisce che c’è del vento, solo come effetto, perché un buffo telone prende a spostarsi, a muoversi. In questo caso è un suono che si dà solo come dimensione visibile e ciò nonostante impreciso: sarà sibilo, respiro, folata o rumore buffo di improvvisato fiocco senz’albero? O sarà un vento nero, arcaico, inquietante, di spinnaker minaccioso? Sarà, come nella lingua runasimi, “lingua dell’uomo” (continuazione parlata dell’impero incaico) sumaq wayra (vento dolce) o yana wayra (vento nero) Con la pelle dei traditori / nei tempi antichi, / facevano / un tamburo, / con le ossa dei traditori / nei tempi antichi / costruivano un flauto / accompagnati / così / nei tempi antichi / come un puma, / camminarono, / facendosi la guerra, / danzando, i nostri avi sconosciuti. / Quello stesso palpito / adesso / quella stessa canzone giustiziera, / sto forse ascoltando / calmo / in mezzo alla foschia, / aspettando, / sto forse ascoltando, / di nuovo, / tamburi, / flauti / sto forse ascoltando. / Ma, è la notte / inginocchiata / e il vento che mi conduce / nulla conduce / e il vento che mi porta via / nulla porta via. (Vento Nero / YANA WAYRA, in “Tre poesie di Isidro Condori”). 2) Impreciso eppur visibile è il vento nella poesia di Jabès Per più motivi. Per più ingredienti: l'erranza, i rabbini, i1 libro, il deserto. Nella sua scrittura - come nella psicanalisi più riuscita - è riconoscibile “la sola testimonianza di che cosa sia cercare, nella prossimità, la traccia di se stessi,
cercare, nella prossimità, la più grande distanza” (Ettore Perrella, Il tempo etico, p.16). “ Una pagina bianca è un formicolio di i sul punto di ritrovare le loro orme...Dov'è il cammino? Un cammino è sempre da trovare. Un foglio bianco è pieno di cammini...La distanza è luce, 1o spazio di tempo in cui tu penserai che non ci sono frontiere. Così, noi siamo la distanza. (...) Ciò che chiami “distanza” non è che il tempo di una inspirazione, di una espirazione. Tutto l'ossigeno indispensabile all'uomo è nei suoi polmoni. (Impossibile non pensare al bimbo nascosto in un trolley, al eggero in un doppio fondo di un’automobile, al migrante stivato in sala macchine in una di queste carrette che solcano il Mediterraneo) (…) Vuoto è lo spazio della vita. (...) La parola del viaggio è schiava del vento. (...)”. Si tratta di un inscape molto simile a quello di Hilde Domin: (...) La parola / come il vento stesso / il suo sacro respiro / esce ed entra. Il respiro trova sempre / rami / nubi / ugole d’uccelli. Sempre la parola / la sacra parola / un labbro. (Hilde Domin, Ars longa) 3) Friabilità del canto, respiro, vento e cenere che rintracciamo in Chateaubriand: “... a chi appartengono quelle ceneri? I venti non ne sanno nulla”. 4) Contrappunto di Paul Klee: “Nessuna meraviglia in quest'aria di scirocco”. 5) Michelet riporta che la gente ha per molto tempo definito il vento come “la fidanzata del vento”. Merleau-Ponty ricorda che gli egiziani consideravano l’avvoltoio simbolo della maternità, essendo tutti femmine, oltre che fecondati del vento. Nesso, in versione non matrilineare, rinvenibile nella tradizione quechua: “(…) noi / simili alle colombe tenere e leggere, / (…) maltrattati, spogliati, stracci nella nostra terra / come i vecchi condor, i condor dimenticati, / trasformandoci in lontananza, (…)” (Isidro Condori, Fortezza di Sacsayhuaman, op.cit.).
6) Vento e sapere. Connessione splendidamente colta in un aggio sulla 'bora' da Italo Svevo, che - a posteriori - possiamo considerare il miglior commento all'opera jabesiana. “... Si ha il torto di considerarla come una cosa sola mentre si compone di migliaia di soffi che i naturalisti sanno poiché coincidono in tempo e spazio ma dei quali, garantisco, uno non sa dell'altro. (...) Chi prenderebbero in giro? Se non conoscono nessuno, quei nomadi, non conoscendosi neppure tra di loro?”. 7) Pure di Montale è la consapevolezza che “una distanza ci divide”. Una distanza che in un altro o è resa ‘siderale’ dalla terza dimensione. Distanza, sempre sotto le insegne del vento “ch'entra nel pomario/ vi rimena l'ondata della vita” e “che nel cuore soffia”. 8) E se i venti boreali non si conoscono neppure tra loro, analoga supposizione è valida per i rabbini immaginari di Jabès e per il bagaglio di persone di Pessoa. Un filo intertestuale infila testi co-esistenti e contemporaneamente votati alla reciproca in-conoscenza. L'eteronimia (di Pessoa) non è altro - sostiene Tabucchi - che la vistosa traduzione in letteratura di tutti quegli uomini che un uomo intelligente e lucido sospetta di essere. 9) Questione di cui Orson Welles mostrava grande e ironica consapevolezza. “Signore e signori... produco lavori teatrali a Broadway, ne curo anche la regia. Sono attore di teatro. Scrivo, dirigo e recito in alcune trasmissioni radiofoniche. Suono il violino e il piano. Dipingo, disegno e pubblico libri. Sono romanziere e anche un mago. Non è notevole che io sia così tante persone e voi tanto poche?". 10) E prim'ancora di Welles, è il genio illuminante di Novalis: “Il genio è una persona veramente sintetica (...) ogni persona si suddivide in più persone e la vera analisi della persona produce solo persone”. 11) Un enunciato - quest'ultimo - strutturato alla maniera di Sraffa: produzione di persone a mezzo di persone. Disperante registrare quanto poche persone siano, e quanto siano miserabili, Salvini, Tosi, Zaia, Mariano_Rajoy, Le Pen, Holland, Cameron, il primo ministro ungherese Viktor Orbán e il ministro degli esteri Peter Szijjarto: i signori che erigono muri. 12) Il vento indica in qualche modo il tragitto delle parole, cerca di dire qualcosa su come siano orientate, da dove vengano, cosa portino seco. La congerie, la panoplia di venti boreali di Svevo, lo splitting jabesiano dei mille rabbini
immaginari, le cento personalità di Pessoa (“il baule pieno di gente” - come evidenziava giustamente Tabucchi), il multiforme ingegno di Welles, e anche i personaggi pirandelliani, non sono forse la stessa cosa? Rappresentanti del clivaggio, dello sfaldamento del soggetto, in particolare del soggetto della scrittura. “Sii plurale come l'universo” esortava Pessoa. Eppure il aggio è stretto e nel baule manca l’aria. 13) “Credevo di essere di più” annota Lautrèamont, per il quale l'infinità dell'io è, più che un punto di partenza, una conquista violenta e obbligata al fine di sottrarsi alla condizione di angustia e di limite. 14) Il ‘successo’ di una vita è in fondo questo: riconoscere, prim'ancora di mantenere, le distanze tra queste persone, tra questi nomi, tra questi venti, senza mai lasciare che si allontanino troppo o che marcino con ritmi troppo diversi. Che vi sia contrappunto, che vi sia controcanto, questo sì; ma che non si rinunci del tutto a un pur scalcinato direttore d'orchestra. 15) Polifonia non schizofrenia, come - al contrario - equivocarono anni fa Deleuze e Guattari con il loro elogio del molecolare e della schizoanalisi. Si potrà dire che il tema del clivaggio, dello sfaldamento, è tutto romantico. Con Schlegel, non capita d'imbattersi ancora oggi, anche se sempre più raramente, in libri “ nei quali anche i cani si appellano all'infinito?”. 16) "(…) l'absence de moi dans l'univers entier che è la verità della poesia e la condizione di una comunicazione che non a attraverso le parole che isolano ma attraverso le blessures, le déchirures che producono l'évanouis-sement dell'oggetto e il glissement dei soggetti". (…) quel vent du dehors che spinge il possibile a scivolare, a glisser in quello che ancora ci appare come l'impossibile” (Sergio Finzi, scritto introduttivo a L'impossibile di Georges Bataille). 17) Troviamo annotato in Vie de Rancé: “Io non sono ormai che il tempo”. Cosa avrebbe detto Barthes del semovente telo nero di Piermarini? 18) Quanto a Jabès, anche se l'accostamento potrà sembrare cinico e paradossale (né più né meno come “Kant con Sade” dello stesso se terribile), è Jacques Lacan che, nel massimo di lontananza di cultura e amicizia, lui che non era Blanchot, Derrida o Gianni Scalia, a enunciarne la cifra. Così per caso, per la solita folgorazione, per la solita irrefrenabile tendenza dei suoi enunciati a dire il vero, in materia del dire e dello scrivere, insomma in materia di soggettività.
“Poiché se non per il fatto che l'Ebreo dopo il ritorno da Babilonia è colui che sa leggere, cioè che prende le distanze dalla lettera attraverso la propria parola, trovando in essa l'intervallo precisamente perché si avvale di un'interpretazione” (J.L. “Scilicet”, p.176). 19) [...] Nella sua saggezza e nella sua povertà molisana, il dottor Ingravallo, che pareva vivere di silenzio e di sonno sotto la giungla nera di quella parrucca, lucida come pece e riccioluta come d’agnello d’Astrakan, nella sua saggezza interrompeva talora codesto sonno e silenzio per enunciare qualche teoretica idea (idea generale, s’intende) sui casi degli uomini: e delle donne. A prima vista, cioè al primo udirle, sembravano banalità. Non erano banalità. Così quei rapidi enunciati, che facevano sulla sua bocca il crepitio improvviso d’uno zolfanello illuminatore, rivivevano poi nei timpani della gente a distanza di ore, o di mesi, dalla enunciazione: come dopo un misterioso tempo incubatorio. “Già!” riconosceva l’interessato: “il dottor Ingravallo me l’aveva pur detto.” Sosteneva, fra l’altro che le inopinate catastrofi non sono mai la conseguenza o l’effetto che dir si voglia d’un unico motivo, d’una causa al singolare: ma sono come un vortice, un punto di depressione ciclonica nella coscienza del mondo, verso cui hanno cospirato tutta una molteplicità di causali convergenti. Diceva anche nodo o groviglio, o garbuglio, o gnommero, che alla romana vuol dire gomitolo. Ma il termine giuridico “le causali, la causale” gli sfuggiva preferentemente di bocca: quasi contro sua voglia. L’opinione che bisognasse “riformare in noi il senso della categoria di causa” quale avevamo dai filosofi, da Aristotele o da Emmanuele Kant, e sostituire alla causa le cause era in lui una opinione centrale e persistente: una fissazione, quasi: che gli evaporava dalle labbra carnose, ma piuttosto bianche, dove un mozzicone di sigaretta spenta pareva, pencolando da un angolo, accompagnare la sonnolenza dello sguardo e il quasighigno, tra amaro e scettico, a cui per “vecchia” abitudine soleva atteggiare la metà inferiore della faccia, sotto quel sonno della fronte e delle palpebre e quel nero piceo della parrucca. Così, proprio così, avveniva dei «suoi» delitti. «Quanno me chiammeno!… Già. Si me chiammeno a me… può stà ssicure ch’è nu guaio: quacche gliuommero… de sberretà…» diceva, contaminando napolitano, molisano, e italiano. La causale apparente, la causale principe, era sì, una. Ma il fattaccio era l’effetto di tutta una rosa di causali che gli eran soffiate addosso a molinello (come i sedici venti della rosa dei venti quando s’avviluppano a tromba in una depressione ciclonica) e avevano finito per strizzare nel vortice del delitto la debilitata «ragione del mondo». (Carlo Emilio Gadda, Quer pasticciaccio brutto de via Merulana)
20) Quando il vento soffia di lato si dice “andatura di lasco”. La sequenza di Piermarini non ha niente di suggestivo, salvo il minimalismo. E le 20 annotazioni a seguire non hanno una missione di nobilitazione. Escludo si tratti di un traballante trampolino per tuffi poetici. Tentano, certo in modo irrisolto e forse sovrannumerario, di soffiare di lato sull’oggettività silenziosa di un evento che genericamente si definisce vento e che solo la prassi fotografica può rendere udibile. In conclusione, si tratta d’inventarsi i venti. O – perlomeno - il 20.
riferimenti bibliografici Benoît Amy de la Bretèque, À l'origine du son, le souffle : le travail de la respiration pour la voix et pour l'instrument à vent, Solal, 2000. Vento Nero (Yana Wayra) e Fortezza di Sacsayhuaman (Saqsawma Pukara), tre poesie di Isidro Condori, in “In Forma di Parole”, Libro Terzo, Tomo II, pag. 14-43, cura, traduzione dal Quechua e note di Antonio Melis, Reggio Emilia, Elitropia Edizioni, 1981. Paul Klee, Poesie, trad. di Giorgio Manacorda, Guanda, 1978. Ettore Perrella, Il tempo etico o La ragione freudiana, Biblioteca dell'immagine, 1991. Sergio Finzi, " Il vento di fuori", prefazione a L'impossibile di Georges Bataille, Guaraldi, 1973. Georges Bataille, L’esperienza interiore, a cura di Clara Morena, Dedalo, 1994. Chateaubriand, Vita di Rancé, "Nuovo Portico" Bompiani, 1982 (1942). Hilde Domin, Ars longa, in "In forma di parole", traduzione di Gio Batta Bucciol, nuova serie, anno primo, numero secondo, Marietti, 1990. Carlo Emilio Gadda, Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, Garzanti, 2007 (1957). Scilicet 1/4. Scritti di Jacques Lacan e di altri, trad. di Armando Verdiglione, Feltrinelli, 1977.
Salvatore Piermarini Ascoli Piceno, 1949. Fotografa dal 1967. Tra i temi ricorrenti del suo racconto sono l'arte contemporanea, l'architettura, le trasformazioni del paesaggio naturale e di quello metropolitano. Tra i reportage pubblicati: Melissa, (con sco Faeta e Marina Malabotti), La Casa Usher, Firenze 1979; Photography Year 1981, Time-Life, New York 1981; Arte italiana 1960-82, Electa, Milano-Londra 1982; Le strade di casa, (con Vito Teti), Mazzotta, Milano 1983; Lo sguardo di New York, (con Mauro Mattia), La Casa Usher, Firenze 1990; Inventario Mediterraneo, Monteleone, Vibo Valentia 2001; Le navi che volano, (con Vito Teti), Monteleone, Vibo Valentia 2002; Le magnifiche rovine, Monteleone, Vibo Valentia, 2004; W.T.C.N.Y.C., i quaderni, Roma 2007; La scena dell'arte, west village gallery, Modena 2007; L'Aquila. Magnitudo zero, (con Pino De Angelis, Giampiero Duronio e Mauro Mattia), Quodlibet, Macerata 2012.
Massimo Celani Cosenza, 1956. Dal 1999 al 2002 ha insegnato Tecniche della comunicazione pubblicitaria presso l’Università di Salerno, dal 2003 al 2013 ha insegnato Linguaggi pubblicitari e Teorie dei linguaggi persuasivi presso l’Università della Calabria. Autore di: Università della Calabria: identità visiva, a cura di Aldo Presta e Massimo Celani, Monteleone Editore, Vibo Valentia, 2000; Unisa. Identità visiva (decostruzioni), a cura di Massimo Celani e Aldo Presta, Università degli studi di Salerno, 2004; Didattica in chiaro. La comunicazione pubblica, modulo 1, a cura di Massimo Celani e Aldo Presta, PSM/Provincia di Cosenza, 2004; Le parole per dirla: la Calabria (politica e turistica), Monteleone Editore, Vibo Valentia, 2005; DAS. In ricordo di Dario Sala, Le nuvole, Cosenza, 2005; Vendere paesaggi. Poesia e pubblicità, Librare, Cosenza, 2009.