Amievì Nella Valle Dei Mukastori Volanti 3s663w

sco Munari

Amievì nella valle dei Mukastori volanti

UUID: 978-88-8449-689-8

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Table of contents

Presentazione Capitolo I Capitolo II Capitolo III Capitolo IV Capitolo V Capitolo VI Capitolo VII Capitolo VIII Capitolo IX Capitolo X Capitolo XI Capitolo XII

Presentazione

Presentare il proprio lavoro è prima di tutto un privilegio, e per secondo è una facilità a dir poco piacevole. Parliamo di questo libro com’è stato immaginato, un cartone animato vecchio stile fatto a matita e carboncino, accompagnato da musiche leggere di flauti e violini. Sembra che le pagine corrano come fotogrammi di un film e se per un attimo ci si distrae, ecco che si perde il filo della bellezza di una poesia, di un istante che racchiude l’istante. Siamo spettatori della fantasia di tutti, e protagonisti solo di quelle storie che facciamo nostre, che sentiamo nostre. Trovare la fantasia già espressa, già pensata, è una comodità fino al punto che un uomo non ne assorba il contenuto e plasmi la sua fantasia a somiglianza di ciò che ha letto o visto. Bisogna avere due cervelli: uno per la conoscenza e uno per le idee.

sco Munari

Capitolo I

- Sua Altezza è sempre bellissima durante il Natale. E, in effetti, dire il contrario era non solo impossibile, ma anche sconsigliato. “Perché?”, vi chiederete. Semplice: la quantità di addobbi e festoni, luci e alberi decorati, facevano di Sua Altezza la città vincitrice da oltre cinque anni di fila del premio “Miglior spirito Natalizio”, e c’era da vantarsene. Ora vi starete chiedendo perché questa città ha un nome così buffo. Lo so che siete pieni di domande ma proverò a spiegarvi tutto. A Sua Altezza vivono uomini mediamente alti tre metri, ma ce ne sono anche di quattro o cinque metri. Ecco il perché di Sua Altezza. Lì tutto è fatto a loro misura e le case sembrano castelli ai nostri occhi, e con la neve e le luci di Natale sono proprio belle. Niente da dire, se non fosse che dodici anni addietro, nacque una bimba, che a differenza degli altri bambini, non cresceva e rimaneva piccola piccola. Ora ha dodici anni ed è alta 1:60. Il suo nome è Amievì. Bionda, occhi azzurri, un vestitino rosso con finiture in nero, bottoni neri e cappellino invernale abbinato. Una vera e propria nana alla faccia dei suoi compaesani. Una bambola. Era la sera della vigilia di Natale, e tutti erano felici: a Natale mancavano solo poche ore. Tutti i regali erano stati comprati, e ben riposti negli armadi, pronti a essere tirati fuori l’ indomani. In città c’era più movimento del solito: gli abitanti erano scesi in piazza a scambiarsi gli auguri.

Piazza di Sua Altezza

Dal basso di quei lunghissimi cappottoni, Amievì si inoltrava in una foresta di uomini, alti come alberi. Ad un certo punto si fermò dinanzi ad un cappottone e con forza lo tirò. - Ehi, amore mio, dove sei stata? - disse una voce femminile dall’alto del cappotto. Era la mamma di Amievì, che si piegò, e la tirò sulle sue spalle. “Ora sì che si vede!” pensò Amievì. Da quell’altezza, circa quattro metri, poteva vedere diritto in faccia tutte le persone. La ragazza amava guardare le persone in faccia. “Si possono capire molte cose”, diceva. - Sei andata a fare gli auguri alla nonna? - disse nuovamente la madre. - No, mamma. Se mi fai scendere ci vado - rispose Amievì. Amievì non amava andare dalla nonna. La sua casa stava fuori dalla città qualche centinaio di metri, ed era sempre tutta spenta, senza luci o addobbi di nessun genere anche a Natale. “Per di più è vecchia”. Chi? “Sia la casa che la nonna”, e scoppiava a ridere da sola. La madre la poggiò a terra e la ragazza iniziò a correre in mezzo a cappottoni finché non trovò l’uscita. Imboccata la strada per la nonna, Amievì pensava e ripensava a come era brutto vivere in una città “non alla sua altezza”. - Scapperò! - disse. E iniziò a saltellare tutta felice. La casa era sempre più vicina. Si fermò solo un attimo a mirare la scia di impronte che aveva lasciato sulla neve. Sorrise e suonò il camlo con un bastone che aveva trovato lì vicino. Un DIN DON risuonò per tutta la strada. Nessun “chi è?” o risposta di altro tipo giunse però. “La solita dormigliona” pensò la ragazza, che subito si infilò tra le sbarre del cancello e sgattaiolò fin sotto la porta d’ ingresso. Quest’ultima era misteriosamente aperta, e le bastò spingere forte per aprirla quanto bastava per arci ed entrare. All’interno la casa non era tanto diversa dall’esterno in oscurità, se non dal fatto che c’ erano i mobili, completamente ricoperti da teli bianchi e polvere. - C’è qualcuno?! -

gridò Amievì. - Nonna? - ma ancora nessuna risposta. Decise allora di salire le scale, cigolanti era dir poco, ed entrare nella camera della nonna: nessuno. C’era il letto, un armadio e un tappeto rigorosamente tutto impolverato. Sembrava che nessuno vi avesse messo piede da secoli. Alle pareti, vecchi quadri di volti altrettanto vecchi. Poi all’improvviso, il suo sguardo cadde su di un libro, antico, grosso, rilegato con una grossa copertina di pelle, appoggiato sopra il letto. Amievì si avvicinò, e con le sue piccole manine aprì il libro, circa a metà, e vi trovò una illustrazione: un grande castoro, grosso come una mucca, con ali da libellula e una coda enorme. “Buffo” pensò la ragazza. E poi lesse ad alta voce la scritta che stava sotto: - Mukastoro -.

Mukastoro

Quando il libro cominciò a pesare, lo poggiò, continuando a guardarlo. Non riusciva a girare pagina, a staccare gli occhi da quel disegno, così finto, ma così vero. Quella sera c’era aria di magia, e così fu: il libro brillava, ora prendeva il volo sopra la testa della ragazza e volteggiava, ora su, ora giù, e la ragazza non credeva ai suoi occhi. Buio. Sulla stanza era tornato il buio. La ragazza era scomparsa, ma il libro era ancora aperto lì, alla stessa pagina, con lo stesso disegno. E fuori la neve cadeva candida in quella notte di vigilia che Amievì non avrebbe mai più dimenticato.

Capitolo II

Piano piano, Amievì riaprì gli occhi, e la luce del sole d’estate brillava. La neve aveva lasciato il posto alla verde erba, e l’aria si rincorreva tra i prati e i pini, in una lunga valle verde, grande come un mare. La vista si perdeva all’orizzonte, e nel cielo volavano grossi uccelli. “Non sono uccelli” pensò Amievì. - Sono Mukastori! - esclamò guardando bene quelle creature buffe volare attorno a quello che sembrava un monte a forma di imbuto, che sicuramente stava su non per fisica, ma per magia. “Sono entrata nel libro”. Come è possibile? “Un attimo prima ero a casa della nonna. Era la vigilia”. Ora niente era come prima. Un venticello mosse i capelli arruffati, sotto il berrettino, che le faceva caldo; se lo tolse, scaraventandolo dietro di sé. Spinta da un’inarrestabile voglia di vita, gettò le scarpe e a piedi nudi affrontò il pendio che la precedeva. Giù, correndo con un sorriso nuovo. Una gioia appena nata. Non si era mai sentita così libera, così “al posto giusto”.

Vithrall

All’improvviso si fermò. La paura che tutto questo fosse un sogno la prese. Misurò uno ad uno i i sull’erba fresca. “È tutto così bello!”. Sì, lo era. Un paradiso magico che poteva sparire da un momento all’altro, sbriciolarsi e volare via in groppa al vento, senza dare spiegazioni a nessuno. La sua bellezza gli permetteva di non essere reale. La ragazza catapultata dentro quel libro, cominciò a piangere. Si buttò a terra, si coprì il volto con le mani e raccolse le gambe vicino a sé. Nessuno lì l’avrebbe vista piangere: non c’era nessuno. “Perché sono solo i sogni ad essere così belli?” Stette lì qualche minuto, finché non sentì il suono di un flauto venire da dietro di lei. Si girò di scatto, e lo vide: un ragazzo. Era il ragazzo più bello che avesse mai visto, biondo con gli occhi chiusi, immerso a suonare quello strano strumento che produceva quel bellissimo suono che provocava pace nella ragazza, ora che le lacrime si erano trasformate in un sorriso. Il ragazzo, non si era accorto di quella nuova visitatrice, e continuava a camminare e suonare, danzando, leggero. Allontanandosi dalla ragazza. Lei, rapita, prese le forze per gridargli: - Ehi! Ehi! Ma il ragazzo ancora non si voltò. E stava quasi per sparire dietro ad una duna d’erba, quando la ragazza si alzò e lo inseguì, finché arrivata vicino, gli prese il braccio. - Sono qui! - disse Amievì. Allora il ragazzo si voltò, e smise di suonare il flauto, e aprì gli occhi, in uno sguardo perso, di un azzurro chiaro quasi bianco. Notò anche le sue lunghe orecchie da elfo. - Mi sono persa! Prima ero a casa della nonna e poi c’era un libro, e dovessi vedere! Volava! E poi eccomi qui! E là volano quelle cose del libro! È tutto così strano!

- BASTA! - urlò un’altra voce, bassa e anziana alle sue spalle. - Non può sentirti! Lascialo in pace! Amievì si girò di scatto e vide un vecchio pelato, con una lunga barba marrone. Vestiva con dei vestiti strani, che sembravano una pelliccia. In mano un bastone di legno con all’estremità due camle d’argento con un fiocchetto rosso. - Chi sei? - le chiese. - Mi chiamo Amievì... - Vieni qui. La ragazza lasciò la presa dal braccio di quel ragazzo, che immobile non si era mosso e nemmeno aveva parlato. Si avvicinò al vecchio. Notò che non aveva le orecchie come il ragazzo e come il viso impregnato di rughe non fosse minimamente somigliante all’altro. - Non può sentirti, perché non ci sente. - Come non ci sente? - È così da quando l’ho trovato, un giorno se ne stava in riva al laghetto vicino alla mia fattoria e suonava. L’ho preso con me e l’ho portato a casa mia dove l’ho accudito come un figlio. Per tutta la vita ho vissuto da solo come un eremita, poi un giorno lui è entrato nella mia vita. Amievì si girò nuovamente a guardare quel ragazzo così bello, ancora immobile dove lo aveva lasciato. - Come fa a suonare quel flauto così bene se non ci sente? - Non farti domande ragazza, perché qui non ci sono risposte. Il vecchio prese per il braccio il ragazzo e iniziò ad accompagnarlo. - Il suo nome è Sma. Amievì seguì il vecchio e il ragazzo, piena di domande che le frullavano in testa.

- Qualcuno può spiegarmi dove sono? - Sei a Vithrall, terra natale dei grandi allevatori, chiamata anche valle dei Mukastori. Qui queste magnifiche creature vivono libere e al riparo dai predatori. - Ma io qualche minuto fa ero a casa della nonna e poi... - Sì, sì... dicono tutti così. - E si arrestò a guardare la ragazza. - O forse semplicemente vuoi dare una spiegazione a quello che è successo. Cara bambina, vedi, la magia non dà spiegazioni, ma lascia a bocca aperta. A volte la felicità non è semplice e allora c’è la magia. Questa terra è magia. Amievì si sforzava a non dare un senso a ciò che succedeva intorno a lei. E quell’aria che inarrestabile le cullava i capelli, lei sì che era così reale! E quel ragazzo... Questo posto così bello poteva essere stato allo stesso tempo così cattivo con quel ragazzo?

Capitolo III

Quando la notte scese sulla valle, Amievì si trovava ad osservare la fattoria del vecchio. La grande facciata in mattoni e terra con un grande portone in legno antico e rovinato. Una lunga staccionata perimetrava la struttura e racchiudeva anche una grandissima stalla. Delle lanterne qua e là illuminavano veramente poco, e se questo non bastasse, il vecchio le spense tutte, prima una e poi un’altra, finché fu buio totale. Ora la ragazza stava dentro e seguiva l’uomo che impugnava una candela. La scortò al piano superiore e la fece sistemare in una cameretta. - Per questa notte starai da me, poi si vedrà cosa fare. Stava per uscire quando disse un’ultima cosa: - Stavo per dimenticarmene. Questa è la tua prima notte a Vithrall, e non sarà semplice. Ricordati solo che qualunque cosa succeda, non uscire mai da questa camera. Ora dormi. - e si chiuse la porta alle spalle, lasciando Amievì alla luce di due piccole candele, una poggiata su di un tavolino e un’altra sulla mensola vicino al letto. Non c’era nessuna finestra. “Non capisco come mai quel vecchio tenga la casa al buio”. Con le mani si toccò il vestitino rosso, tutto sporco d’erba. Ricordò quando sua mamma glielo aveva cucito, tutto per lei, a misura. Era così bello. Le mancava la mamma, e chissà quanto era preoccupata. Avrebbero ato il Natale senza di lei, senza nessuno che scartasse i doni. Senza la “nana” di Sua Altezza. Guardò ancora quella stanza, solo legno. Pensò poi al vecchio. “Come ha detto che si chiama?”. “Non l’ha detto...” Gli occhi piano piano diventavano sempre più pesanti, e i pensieri sul da farsi per la giornata seguente iniziavano a lasciare il posto al sonno. Il sonno di una bambina, catapultata dentro un libro. Quando finalmente si addormentò, le parve di sognare Sua Altezza e per un attimo si vide a casa della nonna. Solo un attimo però, perché nel bel mezzo della notte, una voce assai inquietante e profonda la svegliò di colpo, facendola destare dal sonno.

- Amievì... - la voce stava pronunciando il suo nome. - Amievì, Amievì. La ragazza ancora scossa, prese la candela dal comodino e iniziò a ispezionare la camera, in cerca della fonte dalla quale proveniva la voce. A prima vista si sarebbe potuto vedere che in quella camera, in quella grande scatola di legno senza finestre, non vi era nessun altro oltre a lei. - Amievì... - sembrava venire da dentro la sua testa. - Vieni fuori. - Fuori dove? - chiese la ragazza. - Sotto il cielo stellato.

Fattoria dei Mukastori

E il silenzio ripiombò nella stanza. “Il vecchio mi ha proibito di uscire...” ricordava la ragazza. Stette poco più di un minuto in piedi di fronte alla porta. L’aprì e di corsa volò giù dalle scale dritta alla porta d’uscita. La spalancò e corse ancora oltre lo steccato e poi si fermò a guardare il cielo, incantata. C’era l’aurora boreale. La valle, il cucuzzolo e la ragazza erano illuminati da una luce verde, e tutto attorno solo il rumore del vento. Le parve di vedere risplendere tetti di case in cima al cucuzzolo, come una città. Era vero, la magia non ha limiti, come la mente umana. Descrivere la magia è magia in se stessa. La mattina sarebbe arrivata comunque, in quel processo inesorabile che è la vita, anche se ormai la ragazza si aspettava qualunque cosa. Dopotutto se la magia governa questo mondo, non ci sono più regole. Ma quando si svegliò, la ragazza non corse a dire al vecchio cosa aveva visto la notte ata, o a chiedergli perché non voleva che lei vedesse quello spettacolo. No, non lo fece, ma quando furono a tavola per la colazione, la risposta le arrivò comunque: - Cara ragazza. Ho paura che tu t’innamori di questo posto. Ho paura che tu lo sottovaluti e che ne veda solo il bello - e si fece serio, battendo i pugni sul tavolo di legno, dove stavano apparecchiate posate e piatti per tre. - Devi scappare! - e la guardò fissa. Amievì quasi si spaventò dallo sguardo del vecchio, e ne sfuggì guardando la stanza: era una bella cucina rustica, come la casa, con un grande camino dove bolliva un grosso pentolone nero come la pece. All’interno un liquido bianco sembrava latt... - Latte! - disse il vecchio con un sorriso stampato in volto. - Latte della migliore qualità di tutta Vithrall! Lo produco io, qui, dai Mukastori. E lo vendo alla città di Verithia. - E indicò la cima del cucuzzolo, dove appunto Amievì aveva visto risplendere i tetti. - Dovresti andare lì, come prima tappa del tuo viaggio, e chiedere di un certo mago di nome Rabuit. Lui ti dirà cosa devi fare per andartene da qui. Amievì non aveva mai aperto bocca per tutta la mattinata e aveva lasciato parlare

il vecchio. Quando si accorse che il giovane non era giunto per la colazione, decise di andarlo a cercare. La ricerca durò poco perché lo trovò all’aperto, dentro il recinto, a suonare. Beh, riprovò la stessa sensazione che aveva provato la prima volta che lo aveva visto. Lui era lì e lei lo stava guardando, lo stava ascoltando dire musica. Diceva musica, oltre l’orecchio, così bella che sembrava quasi provenire da dentro, da dentro Amievì, che si toccò il petto e le mani le tremavano. L’amore per lei era cosa nuova, misteriosa, ma con un pizzico di voglia di scoprirla. Lei lo aveva trovato e lui le stava suonando, ma probabilmente non sapeva che lei fosse lì. Il vecchio le aveva detto “guarda che non può sentirti”, ma il suo azzurro sguardo perso, piangeva voglia di vedere il mondo, e le sue bellezze. Era cieco, lei lo aveva capito, senza che glielo dicesse nessuno. Lui, conosceva solo la sua mano che lo aveva afferrato, all’improvviso, in un giorno qualunque non più qualunque, dove non aveva riconosciuto la mano vecchia e forte del suo vecchio, bensì un leggero tocco, intriso di ignoranza, come una mano che si era posata. Non si era mai innamorata prima, solo nei sogni. Per un attimo le tornò ancora la paura che fosse tutto un sogno, ma lo cancellò subito, pensando a come avrebbe fatto a raggiungere la città sul cucuzzolo e, da sola avrebbe incontrato un mago che l’avrebbe riportata a casa. Semplice, no? No, non lo era affatto. Guardò ancora Sma, e un sorriso le fece lacrimare gli occhi, e corse verso il ragazzo, attraversando l’erba verde e scavalcando il cancelletto. Si buttò tra le braccia di Sma, e lo strinse forte, come mai aveva fatto prima. Lui, colto all’improvviso nel suo buio, stringeva ancora forte il flauto in mano, ma stette lì, quei secondi che bastarono a cambiargli la vita. Il bello di un Mukastoro è che non puzza. Suona strano, ma è proprio così. Da creatura magica che si rispetti, rispecchia la buffaggine e allo stesso tempo la perfezione. Profuma bensì, di quel profumo di legna appena tagliata. Il suo starsene lì, dentro la stalla tutto il giorno a dormire, fa di lui l’animale più pigro di tutta Vithrall. Al contrario però, quando lo si trova sveglio, è la creatura più veloce in volo che solchi i cieli del mondo, seconda solo al temibile Creptodattilo. Il vecchio le aveva fatto vedere un libro con delle illustrazioni dei Creptodattili, avvertendola che se mai ne avesse trovato uno, la strategia sarebbe stata quella di portare il combattimento a terra, dove quest’ultimo era più goffo e

lento. Le aveva anche mostrato come maneggiare una spada e come cavalcare un Mukastoro, indicandole dove tenersi attaccata, e rassicurandola che poi il resto lo avrebbe fatto lui a debito comando. Dopo soli altri due giorni alla fattoria, Amievì si trovò in uno spiazzo aperto dedito al decollo dei Mukastori, completamente vestita da allevatrice di Mukastori, ovvero con la pelliccia lavorata che il vecchio le aveva dato per are così inosservata e non destare clamore all’interno della città. Una borsa a marsupio e uno spadino, completavano l’ inventario. A salutarla non venne Sma, ovviamente neanche sapeva di lei e del suo viaggio. Salì in groppa, al comodo, tra il pelo morbido e foltissimo, tra le ali del Mukastoro e si aggrappò forte. Poi il decollo; con un salto l’animale si staccò da terra e il vecchio si fece sempre più lontano alla sua vista. Il sole alto nel cielo, scaldava quella splendida giornata che si sarebbe rivelata assai lunga.

Capitolo IV

Volare è il sogno di tutti, bambini ati e presenti. Librarsi in aria e salutare la terra. Raggiungere le cime dei monti, buttarsi in picchiata giù da una scogliera, a pelo con le onde, fare a gara con gli uccelli. L’idea del volare col tempo è mutata, e si ha una sola percezione. Ma provate invece per un secondo ad immaginarvi Amievì, che stretta stretta si tiene in groppa al Mukastoro, e sorvola una fantastica valle. Di certo non c’è paragone. Il vento che ci sbatte in faccia con contenuta violenza per tutto il volo, osservare da vicino chi vola ogni giorno e sentirsi stupidi per trovare una cosa così quotidiana così memorabile. Così magica. Perché non è forse magia tutto ciò che è inspiegabilmente bello? Inspiegabilmente misterioso e inspiegabile. E il cielo così perfetto, come in un dipinto: neanche una nuvola. Amievì scorse in lontananza come le montagne chiudessero la valle completamente, ma le vette non le permettevano di vedere più in là. Nel frattempo il Mukastoro si era avvicinato sempre di più alla città, e mirava dritto ad una pista d’atterraggio al di fuori delle mura: era trafficata da animali volanti di tutti i generi! Dalle api con in groppa soldati, a grossi uccelli carichi di merci di ogni tipo. Quando il Mukastoro fu a terra, Amievì si trovò finalmente tra le persone. Ma che persone! Strane, a dir subito sembravano uomini normali ma vestiti nei modi più disparati. A guardar bene invece si notavano grosse differenze: orecchie a punta, nasi enormi, e c’era addirittura un tipo con quattro braccia addetto allo scarico merci. Si mosse veloce e scaltra, indirizzata verso quella che sembrava, e lo era, una grande arcata di pietra, dove le persone vi entravano e uscivano a masse. Amievì si accodò alla folla che usciva dalla zona atterraggio. Davanti a lei un grosso uomo-cinghiale che puzzava di tutto e di più, molto più alto di lei e grosso, che la ragazza non vedeva chi ci fosse davanti a lui. “Che schifo! Ma le creature magiche non puzzavano?!” pensava. “In questa città vivono un sacco di persone di razza diversa. Molte sono proprio degli animali che camminano eretti e parlano!”.

Notava la grande differenza tra la ruralità che caratterizzava la valle, le sue case e i suoi abitanti, con la tecnologia, l’ economia, la variabilità di persone che lavoravano e vivevano nella città sul cucuzzolo.

Verithia

ata la porta, si trovò dentro la città vera e propria: Verithia, nel suo splendore medioevale; con le case che avevano i tetti a cupola d’oro e le strade brulicanti di vita, in pietre squadrate di un grigio scuro. La bellezza di un posto così impossibile, ma più forte di un’idea di contrarietà; la città stava su e mai sarebbe caduta. Questa era divisa in tre zone: quella governativa, quella abitativa e quella economica. Vide subito i tre cartelli che indicavano la strada. Si incamminò. Prese la via di destra verso la zona abitativa. Non aveva tempo da perdere, stava compiendo una missione: TORNARE A CASA. Perfettamente ambientata, Amievì scartava letteralmente gli abitanti scesi sulle strade e procedeva a velocità spedita. “Nessuno si è accorto di me!” pensava. “Bene”. Poi, all’improvviso, le ò vicino una figura veloce, che correva anch’essa, e facilmente superò la ragazza. “E questo chi è?”. Guardava il ragazzo che ora le precedeva la strada: era alto come lei, forse, dai capelli scuri, marroni, e i vestiti ricordavano molto quelli di un ladro. No. Era sicuramente più basso. Correva in posizione curvata, molto più veloce di lei, e girò d’ un tratto la testa senza fermarsi: - Vuoi fare una gara? - chiese con una voce bellissima. Ora che gli poteva vedere il volto, bello ma con due occhi eccessivamente grandi molto simili a quelli di un gatto. - Stai scherzando? Ho una cosa urgente da fare! - rispose la ragazza sperando che quello strano individuo la lasciasse in pace. - Dai, ti prego! - insistette il “gatto”. - Una piccola gara fino alla chiesa? - Non so neanche dove sia la chiesa! - Basta che guardi il campanile. Si vede in ogni angolo della città. E in effetti era vero. La torre campanaria spiccava più alta di tutte le case. Amievì non aveva intenzione di gareggiare con lui, ma ebbe un’idea ingegnosa.

- Va bene! - urlò. - Perfetto. - Via! E il ragazzo in un lampo sparì dentro un vicolo vicino. “Pensa che io sia stupida? È ovvio che lui è dotato di qualche magia nel campo della velocità!”. Così aveva accettato per toglierselo dai piedi. “Sono furba io! Adesso prendo il vicolo opposto e così non ho la preoccupazione di ritrovarlo”. Imbucò il vicolo opposto, ma era stranamente molto buio e Amievì capì subito che era meglio tornare indietro quando sentì un forte rumore d’acqua, e cadde dentro ad un canale d’acqua di scolo. Non c’ era il tempo per pensare a cosa fare che il canale iniziò pericolosamente a pendere. L’acqua la trascinava giù con sé proprio come in una giostra, ma senza divertimento. Durò poco, troppo poco, per rendersi conto di quella luce che sempre più velocemente le veniva incontro, e quando ne fu dentro si sentì mancare la terra sotto i piedi e iniziò a precipitare. Il canale di scolo gettava l’acqua giù dalla città che cadeva a cascata nella valle, Amievì con sé. Quella sensazione di cadere, terribile. “Forse adesso è quando mi sveglio!” pensò la ragazza, ma più cadeva più sapeva che questa storia del sogno doveva finire. “Questo non è un sogno e se adesso tu tocchi terra muori per sempre”. E la terra sempre più vicina. “Prova a volare Amievì!” si disse, e come una forsennata iniziò a sbattere le braccia come ali. Avvenne il miracolo. Amievì ora era ferma e non cadeva più, ma piano piano risaliva. Ma non era lei a volare: qualcuno l’aveva afferrata per le braccia e l’aveva salvata. Quell’acqua che la città rigettava e che un attimo prima aveva scaraventato la ragazza anch’essa giù, scaricata, espulsa, ora cadeva giù di sotto senza di lei. Gocciolante e bagnata, guardò sopra di sé e con stupore vide il ragazzo “gatto”, che con due possenti ali demoniache che gli spuntavano dalla schiena la stava riportando in salvo nella città. “Che ci fa qui?” “Come sapeva di me?” - Grazie... - accennò Amievì, quando i suoi piedi toccarono terra, al sicuro. - Mi hai salvato la vita. Come ti chiami? Il ragazzo fece scomparire le ali da pipistrello, e si sistemò in un attimo quel suo vestito prettamente da ladruncolo, e finalmente la guardò in faccia. - Mi chiamo Zaron, il ragazzo maledetto.

- Perché? - curiosa, si asciugava. - Le hai viste le mie ali? I miei occhi? Non posso nascondermi. È colpa di una maledizione. - Che maledizione? - Quando ero piccolo, vivevo oltre le montagne di Vithrall insieme a mia madre. Un giorno lei fece un torto ad una fattucchiera che mi maledisse. Da allora sono così. Amievì stava collegando i puntini: “Ma certo!” “Anche Sma deve essere stato colpito da qualche maledizione, ne sono più che sicura!”. - C’ è una cura? - chiese ancora. - Si. C’è una cura per tutto. E per questo sto andando da un mago qui in città a farmi dire dove la posso trovare. Non per me, no. Per mia madre, che è molto malata e sta morendo - e abbassò lo sguardo. - Anche io sto andando da un mago! - esclamò la ragazza con un sorriso nel volto. A Zaron si illuminò il viso. - Veramente? Possiamo andarci insieme, ti mostro la via! - e indicò la strada incamminandosi tutto felice. Amievì non ci credeva ancora, stava accadendo tutto così magnificamente veloce, e le piaceva da matti. - Mi chiamo Amievì! - urlò, rincorrendo il ragazzo. - Piacere di fare la tua conoscenza. - Per curiosità ma tu chiedi spesso agli sconosciuti di fare gare di corsa in piena città? - chiese con tono provocatorio Amievì. - Solo quando vedo persone stupide. - rispose ridendo il ragazzo. - An, quindi credi che io sia stupida? -

- Beh, a prima vista sì. Poi dopo averti visto precipitare di sotto ne sono stato sicuro! - e giù a ridere. In effetti faceva ridere. Che strano tipo. Tutto era strano, a dire il vero lui era solo uno tra tanti strani, solo che faceva ridere. Anche se ripensava alla sensazione di vuoto che aveva vissuto pochi minuti prima, non poteva non ammettere che la vista da fuori era si una scenetta assai comica. - Guarda che io sono una tipa tosta. - attaccò Amievi. - Ho fatto tantissima strada e volato su un Mukastoro, o come diavolo si chiama! Ma non mi dire... - disse il “gatto”. - Da dove vieni? Ad un primo sguardo si capisce che come me non sei di qui - e la guardò con uno sguardo sospettoso. - Sì, non sono di qui... - Amievì ricordò casa e i suoi genitori che la stavano cercando. Doveva tornare a casa e lasciare perdere questo posto. Una volta trovato il modo lei sarebbe tornata e avrebbe lasciato la magia a qualcun altro. - Io vivo in un posto dove c’è tanta neve. Poi una notte sono entrata dentro un libro ed eccomi qui! Contento? - disse tutto d’un fiato la ragazza, quasi scocciata. Zaron si fermò di scatto. - Tu mi stai dicendo che hai trovato una Sirioporta?! - Boh! Non guardarmi così! - rispose la ragazza. - Sono in questo posto da un paio di giorni. - Sono state sigillate tutte le Sirioporte di Vitrhall moltissimi anni fa, per evitare che qualcuno vi entrasse. Le crearono i maghi oscuri per far viaggiare creature orrende tra un mondo e l’altro. - A quanto pare no... - disse la ragazza guardandosi i piedi. “Proprio a me doveva capitare di entrare in una Sirio-cosa? Proprio la sera della vigilia di Natale?”. - Dai basta parlare, fammi strada - concluse Amievì incamminandosi. Sapori. Sapori di ogni tipo, di ogni spezia sconosciuta o ingrediente mai sentito. Odori che le inebriavano naso e cervello. Gente che viveva, e ne faceva di quel

posto una vera foto alla magia. Camminare a fianco di quel ragazzo, sapendo a malapena chi fosse, entrambi con una missione. Lei tornare a casa, lui curare la madre tanto malata. Le case si affacciavano sulla strada, antiche come castelli, piene di storie da raccontare. L’ultima casa però, infondo alla strada, attaccata alle mura, era diversa. Moltissimo diversa. Sembrava contorcersi su se stessa, ma allo stesso tempo manteneva una bellezza particolare nell’essere l’unica casa diversa che aveva visto fin’ora nella città. - Eccoci - disse il ragazzo indicando proprio quella casa “storta”. Dalla porta usciva un vapore bianco-grigio che le arrivò al naso: buonissimo odore! Il camino fumava. I ragazzi, senza tanto perdersi in ulteriori chiacchiere, varcarono il perimetro della abitazione, e Zaron picchiò forte la porta. - Chi è?! - urlò una vocetta rauca e molto vecchia proveniente dall’interno della casa. - Mi chiamo Zaron, e qui con me c’è Amievì. Siamo due ragazzi in cerca di risposte. Seguì un momento di silenzio ed attesa dove i due ragazzi si guardarono più volte dritti negli occhi, aspettando un “Entrate pure”. La porta si spalancò e si affacciò un vecchietto esile esile che quasi non si sarebbe retto in piedi senza quel bastone di legno intarsiato che lo sosteneva. Indossava un lungo abito da mago completamente lurido e stracciato. Barba lunghissima bianca che gli arrivava ai piedi, e capelli lunghi in strane trecce che gli scendevano davanti sulle spalle. Li squadrò da capo ai piedi per quattro volte con due occhi d’un azzurro cielo. - Dovevo assicurarmi non foste degli stupidi Halèn! - urlò sputacchiando qualcosa. - Venite, venite! - e fece strada all’interno dell’abitazione. - Cosa sono gli Halèn? - chiese Amievì a Zaron, prima di mettere piede nella casa. - Sono dei piccoli nani con un naso grande quanto loro. Non vivono a Vithrall e non sono amichevoli. Per nulla. Credo che fino a qui non si siano mai spinti, ne mai visti - rispose con lo sguardo perso.

Se l’esterno poteva suscitare pareri più o meno discordanti sulla bellezza dell’edificio, l’interno batteva ogni aspettativa: cassetti. Cassetti ovunque. Alle pareti, appesi al soffitto, sopra il caminetto. Non c’era uno spazio che fosse libero, se non una piccola via che si diramava tra i cassetti e rendeva possibili i movimenti in un’unica direzione: le scale. I due ragazzi rimasero impietriti sull’uscio. - Prego, accomodatevi - insistette il mago, accompagnandosi con un gesto ampio della mano. Allora entrarono, chiudendosi la porta alle spalle. Faceva caldo, e il soffitto era abbastanza basso. L’odore buono che prima li aveva raggiunti, ora permeava l’ambiente, uscendo da una pentola dentro il camino. Di fronte, un tavolo sommerso da cassetti, sopra e sotto di esso. - Gradite un po’ di minestra? - chiese il vecchio, mescolando la pentola sul fuoco. - No, grazie - risposero in coro i due, ancora straniti, e in imbarazzo per la situazione, nello stare lì in piedi stretti tra tutti quei cassetti! Il vecchietto, dinanzi a loro, li invitò a sedersi su due cassetti altezza ginocchia, con un cuscino sopra per stare più comodi. - Allora, non volete dirmi perché siete qua? Che risposte cercate? - chiese Rabuit il mago. - Stiamo cercando le gocce di Rahll! - rispose d’impeto Zaron, quasi alzandosi dalla “sedia”. “Le gocce di Rahll??” Amievì non capiva, e guardava il ragazzo. Ma non disse niente. Invece la faccia del vecchio cambiò notevolmente in un’espressione di serietà e di pensieri lontani. - Non le troverete mai - tagliò corto, cortissimo, il vecchio , girandosi per dare altre due mescolate alla minestra. - Per favore saggio Rabuit, dicci dove si trovano? - insistette Zaron. Silenzio.

- La prego! - Potete scusarmi, ma potreste dirmi cosa sono queste gocce di Rahll? interruppe Amievì, con sguardo interrogativo verso i due. - Signorina, ma dove vive?! - e al vecchio tornò un po’ di colore in viso. - Le gocce di Rahll che esaudiscono i desideri! Rabuit corse al piano di sopra per poi tornare giù con in mano un libro gigantesco, aperto in una grande mappa antica. - Questo è Vithrall! - indicò la piccola valle circondata dai monti. - Paradiso terrestre! Qui c’è la vita! E questa è Verithia! - e indicò il centro della valle. Aveva appoggiato il libro a terra e vi si era seduto di fronte con i due ragazzi attenti alla lezione di geografia. Amievì in primis: forse finalmente avrebbe saputo di più su questo posto, e soprattutto come tornare a casa. - C’è una sola entrata alla valle, e quindi vi è una sola uscita. Qui - e con quel magrissimo dito pieno di rughe, indicò nuovamente una zona del libro dove un piccolo fiume ava tra le montagne ed entrava nella valle dove generava un lago. È qui che vivo con mia madre adesso - disse Zaron. - Una piccola casa sulla riva del lago dei Sogni. Amievì pensava a come doveva starci male Zaron per sua madre. “E la mia?” Sua Altezza ormai sembrava solo un lontano sogno. “Chissà se la rivedrò”. - Oltre le montagne, ato il Grande Bosco e guadato il fiume, ci sono le rovine di Falsità, l’antica gemella di Verithia “oltre le montagne”. E infondo alla valle del Guerriero c’è Rahll. - Ma la mappa terminava con la valle del guerriero, e di Rahll niente. - È solo una leggenda. - continuò il vecchio. - Nessuno ha mai superato la valle del Guerriero prima d’ora. Toglietevelo dalla testa, voi non sarete i primi! E anche mettendo che ce la facciate, nessuno ha mai visto Rahll e quindi l’esistenza di queste gocce è tutt’altro che certa! - e con queste parole il mago chiuse il libro e se lo mise sottobraccio. Si alzò in piedi e lo poggiò su un cassetto.

Amievì fissava la gente che ava per le strade. La casa di Rabuit era ora alle spalle, vi erano usciti circa un’ora prima. “Zaron sapeva già cosa cercare, ma non sapeva dove. Ora sa che strada prendere”. La ragazza guardò il ragazzo che tornava da una bancherella, con una spada tra le mani. - Ora sono pronto - disse. - Quindi le gocce esaudiscono qualsiasi desiderio? - domandò ancora una volta Amievì, perché non ci credeva. - Sì. - Ma non si sa se esistono? - Giusto. - Probabilità di ritornare vivi pari a 1 su 100? - Precisamente 1 su 10000. Il sole era alto allo zenit. Erano solo a metà giornata. - Allora? Sei con me ragazza della Sirioporta? Non mi hai ancora detto quale sia la tua missione, ma immagino sia tornare a casa. - Sì. Credo non ci siano altre soluzioni dall’intraprendere questo viaggio. Forse servirà per crescere - Amievì sospiro, e si alzò dal gradino su cui stava seduta. - Come pensi di scendere dalla città? - chiese Zaron. - Non vorrei portarti io, grassona! - e scoppiò in una risata. - Questa me la paghi! - disse Amievì diventando rossa in faccia dalla rabbia. - Si dà il caso che io ho un Mukastoro fuori ad aspettarmi, caro mio! - Ehi, tranquilla! Stavo solo scherzando.

Capitolo V

L’ignoranza che l’aveva portata fino a lì, a conoscere Sma, Zaron, un mago, cavalcare un Mukastoro, l’avrebbe condotta là, oltre le montagne, per compiere una missione impossibile per tornare a casa. “Prenderemo quelle gocce e risolveremo tutto”. Discese dal cucuzzolo in groppa al Mukastoro, e a circa metà strada tra la città e la terra, sussurrò nella grande orecchia a punta dell’animale queste parole: - Portami dove il fiume entra nella valle. Seguì una brusca virata a mezz’aria, poi riprese a sbattere le sue ali da libellula verso una nuova direzione, quella di Amievì. A fianco a loro planava il ragazzo maledetto, e dato che l’aria tirava, i capelli dei giovani svolazzavano da tutte le parti. Il pelo del Mukastoro rigorosamente immobile. Magia. Ormai aveva capito. Sotto di loro, l’enorme distesa di erba correva, verde. Ogni tanto una casa, qua e là, probabilmente fattorie o attività commerciali di sconosciuta produzione. Una ventina di minuti, non di più durò il viaggio. Amievì non aspettò nemmeno che il Mukastoro fosse completamente atterrato, che saltò giù al volo atterrando composta nell’erba. Zaron arrivò subito dopo, ripiegò le ali, e con una corsetta raggiunse il fiume, che stavi lì, con un’acqua trasparente e pesci che vi nuotavano. - Seguiamo il fiume fino all’insenatura tra le montagne, lì dovremmo inventarci un piano per superare le guardie che controllano il o. - Guardie?! - Sì, cavalcatrici di api. Amievì ricordò di averne già vista una all’aeroporto della città. - Come le iamo?

- A dire il vero, non ne ho ancora idea. Il ragazzo iniziò a camminare lungo la riva del fiume, verso le montagne. Amievì dietro lo seguiva. In lontananza, si iniziava a scorgere una struttura in corrispondenza con il aggio del fiume tra le montagne. Era simile ad un tempio greco, con timpano che appoggiava su quattro possenti colonne, e ai piedi quattro gradini. Un ingresso, con due guardie diritte ferme in mezzo al aggio.

Porta fra le montagne

Il fiume scorreva più in basso lì vicino. Zaron si fermò a debita distanza, si che le guardie non li avevano ancora notati, e si accucciò. Amievì fece altrettanto. - Allora, ci ho pensato e credo che l’unico modo sia tuffarci in questo punto del fiume, e trattenendo il respiro sott’acqua gli usciamo alle spalle! - disse, accennando un sorriso forzato. Voleva infondere della sicurezza in Amievì, ma non ne aveva neanche per se stesso. Quel piano era veramente stupido. Non per Amievì però, che si alzò e si tuffò nel fiume, lasciandolo a bocca aperta. - Che tipa... - e si tuffò anche lui. L’acqua, di lì in poi sarà stata fonda sui tre metri, ma la sua trasparenza costituiva una difficoltà. Per fortuna l’ombra della montagna cadeva proprio sul fiume, così lo rendeva scuro. Sotto l’acqua, nessun rumore, e i pesci che gli nuotavano vicino. Nella trasparenza, i ragazzi uno dietro l’altro, con due guance gonfie d’aria e la fronte corrugata. Non ce la facevano più, stavano scoppiando. Non sapendo dove si trovavano, e quindi se avevano superato il punto di controllo, avevano paura di tornare in superficie. Amievì fece altri due metri e poi stabilì che non ne aveva più e risalì. Aria! Com’era bello inspirare! Si guardò velocemente intorno: - Sì! Ce l’abbiamo fatta! - disse tutta felice guardando le spalle delle guardie. - Zitta! - la rimproverò subito Zaron che era appena riemerso. - Così ci sentiranno. Forza nuota ancora un po’, usciamo fuori più in là. E così fecero. Usciti, completamente fradici, corsero sotto l’ultimo sole della giornata, per asciugarsi. Di lì a poco si sarebbe fatta notte. Erano fuori, fuori Vithrall, fuori dal paradiso. Ora le cose si mettevano male. Avrebbero incontrato creature poco amichevoli e di certo molto mostruose. Il primo ostacolo era stato superato, aggirato sarebbe la parola più giusta. Amievì si buttò sull’erba e strizzò gli abiti senza toglierli per il poco che poteva. L’erba lasciava presto il posto alla

nuda terra crespa e alle rocce, e il fiume vi scorreva ancora per molto, generando attorno a sé paludi. Si scorgevano luci piccole in mezzo alle acque stagnanti. - Fra poco farà notte. Quelle luci là si spegneranno e sarà il segnale. Dovremmo correre più veloci che mai attraverso la palude e il villaggio che vi è sopra. Non dovrai fermarti per alcun motivo. Sarà una impresa difficile, ma superato ci accamperemo finalmente per la notte davanti al Grande Bosco. Dobbiamo per forza are il villaggio durante la notte, così che i suoi abitanti non ci notino. - Chi ci vive? - È meglio se te lo dico quando lo avremmo attraversato! - e corrugò la fronte quasi volesse spingere lo sguardo più in là e vedere cosa ci fosse.

Capitolo VI

La notte era giunta con la sua magnifica Aurora alle loro spalle che splendeva sopra Vithrall. Lì, oltre le montagne, oltre il paradiso, c’ era solo il buio. Terribile. Complice degli agguati e delle più grandi paure. Vento assente. I vestiti si erano asciugati, e Amievì fece un grande sbadiglio. “Che sonno...” pensava, cercando di dare filo da torcere a quei suoi occhi che volevano chiudersi. Non vedeva niente intorno a lei, e il rumore dell’acqua che scorreva le conciliava il sonno. - È il momento - disse Zaron ad un tratto. - Tieni la mano sulla spada e tieniti pronta ad usarla. Entriamo in scena - e conclusa la frase iniziò a correre tra le pietre, alla sua velocità incredibile. Amievì lo perse subito di vista. - Zaron! - urlò. Niente. “Ma che diavolo! Non vedo a un palmo dal naso e quello là mi lascia qui da sola! In più ho sonno!”. Procedeva camminando lentamente con una mano appoggiata all’elsa di quello spadino, e l’altra mano avanti. SPLASH!

Villaggio Halèn

Che schifo! Era finita con un piede dentro al fango. “Giuro che appena lo prendo lo ammazzo!”. Finalmente la sua mano che la precedeva toccò qualcosa di rassicurante: legno. E solido. Tastando bene le parve potesse essere una erella. Aveva raggiunto il villaggio. Vi si arrampicò chiassosamente tra scricchiolii delle tavole e la sua spada che sbatteva a destra e a sinistra. Quando fu in piedi, poggiò un piede davanti a lei che finì dentro un secchio, facendola inciampare con un gran rumore, e rovinare addosso ad una tavola di legno che si spalancò al contatto. Si ritrovò con la faccia appoggiata al pavimento di legno. La stanza in cui era rovinata era illuminata fiocamente dalla luce di una piccola candela. Si guardò attorno. - Oh mio Dio... Era caduta proprio dentro una casetta in legno, dove vi stavano dormendo in quel momento si e no trenta mostriciattoli con un grossissimo naso. In ogni dove, ammassati uno sopra l’altro, erano bassi e viscidi. Uno però non dormiva, e con due grandi occhi la stava guardando come un cane affamato guarda la sua cena oltre il vetro della casa. - Chi sei? - chiese con una voce acuta tremenda. - Ehm... io? Sono solo di aggio stavo giusto per andarmene... - disse Amievì in preda al terrore, indietreggiando sempre di più alla ricerca della porta di uscita. - Sembri buona! - il nano nasone si alzò in piedi, non che cambiò molto in altezza. - No, guarda, ti sbagli! Sono molto acida! - Amievì aveva capito ormai che non ci cascava e che se non fosse scappata le sarebbe saltata addosso da un momento all’altro.

“Trovata!” la ragazza aveva trovato la porta e vi si fiondò fuori. Scelta errata: non si vedeva niente. - Cibo! - urlò la vocina da dentro. Seguì un frastuono di grida e urla disumane di ogni genere. Le luci improvvisamente si accesero e Amievì poté vedere dove si trovava: era un villaggio composto da case di legno sollevate dall’acqua. Palafitte, con pedane di legno che conducevano ad ogni porta. Disastro totale. Si erano svegliati tutti e ora come topi correvano fuori dalle case ammassandosi per raggiungere la ragazza, che correva per le erelle come una disperata. Ci volle veramente poco che la via davanti fu sbarrata, e anche tutte le altre. Era circondata. Nani nasoni da tutte le parti, saranno stati più di trecento. Era forse la fine? La fine del viaggio? Così presto? - No! - urlò Amievì. - Fatevi avanti! - urlò ancora e sguainò la spada. La luce dalle torce e il calore che emanavano faceva sudare la ragazza, ma era soprattutto paura. Alcuni mostri iniziarono ad indietreggiare alla vista di quella spada che roteava sopra le loro teste. Producevano un rumore stranissimo facendo digrignare i denti. “È finita... Questa è la fine”. - Zaron! Dove sei!? Dal cielo arrivò un grande folata di vento e i nasi si dispersero. Due mani forti a lei non estranee la afferrarono per le braccia e la sollevarono, portandola al sicuro in aria. - Devo sempre venire io a salvarti? Oggi senza di me saresti morta già due volte! - disse Zaron ridendo. - Dove diavolo eri finito?! - gridò la ragazza dimenandosi e scaraventandogli qualche pugno. - Ahia! Ferma! - continuava a ridere. - Così ci fai cadere! - Non m’importa! Dimmi perché mi hai lasciata sola? - Scusa, mi ero dimenticato che tu non vedi al buio.

- An, così hai anche questo super potere? - È una maledizione, Amievì. Ricordatelo. Amievì non vedeva proprio cosa ci fosse di così orribile nell’avere le ali e vedere al buio. La portò oltre il villaggio, e la posò a terra in una pianura che confinava con il Grande Bosco. Mise velocemente via le ali e guardò la ragazza con fare di rimprovero: - In questa terra, volare non è sicuro. Vivono grandi predatori volatili. Saremmo solo un bersaglio facile. Per questo dobbiamo viaggiare a piedi d’ora in poi. Il Grande Bosco si ergeva davanti a loro, imponente. Gli alberi fitti non lasciavano l’occhio entrare. Le fronde dei pini oscillavano e le foglie delle querce danzavano. - Dormiremo fino ad essere completamente riposati. Domani entreremo nel bosco. Sarà dura. Zaron prese della legna lì in zona e ne accese un fuocherello e vi si sedette vicino. Amievì, sedutasi anche lei, pensava. “Ho rischiato di morire già due volte in un solo giorno. Sono un peso per Zaron. Senza di me viaggerebbe molto più veloce”. Lo guardò, illuminato dalla luce del fuoco, gli dava un fascino indescrivibile. “Devo ripagarlo per avermi salvato la vita! Questo viaggio mi farà crescere ed affrontare le mie paure. Tornerò a casa”. Il ricordo dei suoi cari non era sparito e mai lo sarebbe stato. Lei sapeva che il suo posto non era lì, tra la sovrana magia, ma a casa sua tra i giganti. E quella magia che tanto l’aveva colpita nella sua bellezza ora le mostrava l’altro lato della medaglia: quello sporco, arrugginito. Il ricordo di quei mostri e dei loro occhi che l’avrebbero mangiata, senza pietà. Oltre le montagne non c’era spazio nell’animo umano per la pietà, perché nessuno ne avrebbe avuta per lei. Amievì si coricò, il fuoco la scaldava e stava bene, si sentiva in pace, pronta a dormire. Il ragazzo aspettò che si addormentasse, e poi si coricò anche lui. - Amievì! Svegliati! No, non era mattina. Non era il giorno dopo. Era la notte, ancora, e ancora vi sarebbe stata per molte ore.

- Svegliati! No, non era Zaron. Era quella voce della prima notte, sempre profonda. La ragazza si destò e si guardò attorno ma non c’era nessuno. Zaron dormiva e sembrava non udire niente. Anche stavolta la voce era nella sua testa. - Chi sei? Cosa vuoi da me? - Non è ancora tempo che tu lo sappia. Ricorda: qualcuno ha aperto la Sirioporta perché eri la prescelta. - Per cosa? Non capisco! - Per una piccola buona azione in un grande mondo. Amievì continuava a non capire, e si mise le mani sulle orecchie. - Spiegami! - Il destino di tutti coloro che vivono e sono intrisi di magia è segnato. E io conosco il destino di tutti. Tranne il tuo, ragazza, perché la magia non scorre nel tuo sangue. - Allora dimmi l’esito di questo viaggio! - Non ora, non questa sera. Tra sette giorni da questa notte io ti chiamerò e allora tu sarai molto più avanti con la strada. Allora ti dirò tutto quello che devi sapere. Ora dormi Amievì. In un attimo, Amievì ripiombò in un sonno beato, da fanciulla. Intorno a lei il vento sembrava bisbigliare agli alberi delle avventure dei due eroi, partiti da lontano ed ora lì, lontani da casa. E quel bosco non gli avrebbe dato vita semplice. Tra quegli alberi, in profondità stava un’ombra in agguato, pronta a sviare qualunque viandante che la incrociasse. Pronta a tutto, per fare del male. Abbiate pazienza e lasciamoli dormire ora. Tutto vi sarà mostrato a tempo debito.

Capitolo VII

Si dice che “la notte porta consiglio”. Ad Amievì portò solo altri dubbi. Quella voce le avrebbe svelato realmente chi fosse e qual’ era il loro destino? Forse Amievì non voleva saperlo davvero.

Il sole mattutino aveva fatto capolino tra gli alberi alti, e ora stava lì a guardare. Probabilmente Zaron era sveglio da un paio di ore, e sul fuoco aveva fatto cuocere due pesci, pescati prima dal fiume vicino. Ne porse uno appena fu cotto alla ragazza, affamata. Lo finì in men che non si dica. Poi presero le loro poche cose, principalmente erano le due spade, e qualche provvista, e si misero subito in cammino verso il bosco. “Forse dovrei parlarne a Zaron...”. - Zaron io... - Amievì si fermò con lo sguardo a terra. - Che c’è? - il ragazzo si girò a guardarla. Il bosco stava lì, a due i, e vi sarebbero stati dentro, ma si erano fermati proprio sull’uscio. - No, niente. - e riprese a camminare veloce, sorando il giovane. “Perché non riesco a dirglielo? Di cosa ho paura?”. - Non so cosa ti prenda, ma se vuoi mollare questa è l’ultima occasione. Dentro al bosco sarà difficile orientarsi e trovare la strada. - No! Io non mi arrendo! Come sono arrivata fino a qua, io arriverò in fondo! esclamò Amievì.

Il grande bosco

Adesso i tronchi degli alberi si potevano toccare allungando la mano: erano duri come pietra, ma la corteccia scura veniva via tirando. - Ci siamo - dissero in coro. - Uno, due e tre! Con un o furono dentro. L’aria cessò di colpo come pure il vento. Il sole sparì oscurato dietro le chiome degli alberi. Era tornata la notte in un o. Tutt’attorno, in principio un silenzio, poi un concerto di rumori provenire da ogni dove. Non era stata una bella prima impressione, e non lo sarebbe di certo diventata. I tronchi si stendevano a perdita d’occhio, ognuno diverso dall’altro ma tutti uguali nell’avere il proprio muschio arrampicante, i propri funghi, e il proprio marciume. Si, perché era marcio tutto ciò che vi trovarono. I piedi calpestavano ora rami marci, ora muschio, ora aghi di pino, ora roccia che qua e là emergeva cattiva dalla terra, come volesse dare il colpo di grazia al o già affaticato dei due. Si poteva vedere dove mettere i piedi solo grazie a sporadici raggi di sole che illuminavano cautamente il sottobosco, filtranti dalle chiome degli alberi. Amievì era già stanca di camminare così difficoltosamente, ma si rassegnò subito. “Dovrò stare qui dentro tanto abbastanza da dimenticare la luce del sole. Quella vera”. Imparò presto, durante le quattro ore buone di camminata, ad osservare quel mistico luogo, incontaminato: innanzitutto lì le quantità di animali abbondavano, che fuori ne aveva viste meno della metà, per non parlare delle stranezze inspiegabili che tanto la colpivano. Le zone d’acqua stagnante che allagavano il terreno a sprazzi prevalentemente di depressione del terreno, erano abitate da rane dai mille colori, che all’unisono gracidavano. Vide anche un branco di cervi dalle corna a forma di luna, creature con un portamento da re incontrastato del bosco. La ragazza ben presto si dimenticò il male ai piedi, e fu rapita da quel luogo che sembrava fin lì solo pieno di vita selvaggia ma apparentemente innocua. - Quanto manca?

- Boh. - Stai andando a caso? - Se la vuoi mettere in modo così drastico, sì. Camminavano da tutto il giorno e si poteva vedere che un buio maggiore calava sul bosco, annunciando la notte. Lei aveva seguito Zaron, come faceva ormai abitualmente, e lui stava andando a caso. - Sono stanca! Decido che ci fermiamo qui per la notte. - Amievì puntò i piedi, e si diresse verso una zona in cui la terra era circondata da tronchi caduti e cespugli, a riparo. Vi si sedette al centro e aspettò che Zaron la raggiunse. - Vado a prendere della legna per fare un fuoco. - Ok. E si allontanò. Sola. S’accorse che aveva sbagliato a rimanere lì, e che sarebbe stato meglio stare sempre attaccata a Zaron, per evitare altri problemi come quello con i nani. Si alzò, ma non lo scorse con lo sguardo. “Fregata. E se gli fosse successo qualcosa?”. Iniziò a preoccuparsi, e allo stesso tempo ad avere freddo perché il vento si era alzato e ora soffiava forte. “Non posso andare a cercarlo. Se lui torna mentre sono via, non mi trova e poi mi cerca e così ci perdiamo. E fine del viaggio. Questo posto è tutto uguale”. Si strinse forte con le braccia cercando di scaldarsi. Un lupo ululò. Un rumore dietro di lei la mise in allerta. - Eccomi! Scusa il ritardo, ma trovare rami secchi in questo posto così marcio e umido è un vero casino! Era Zaron, per fortuna. - Scuse accettate solo perché sono ancora viva - Amievì era in vena di ironia nera. - Dai accendiamo sto fuoco che si gela! Quando il fuoco iniziò a prendere, fu un attimo che diventò subito grande, e ci si poteva scaldare e dormire quasi meglio che a casa nel proprio letto. Ovviamente, sto scherzando. Parlarono tantissimo, del più e del meno, di casa e del da farsi.

Si conobbero meglio. Poi Zaron cadde in un sonno profondo, mentre Amievì rimase sveglia. Diede uno sguardo ancora al bosco, così silenzioso ed immobile, e notò dietro un albero una strana figura che la stava osservando. Era alquanto inquietante, a forma di testa, era di pietra con i lineamenti scolpiti. La stava osservando, da circa una cinquantina di metri. “Sarà la mia immaginazione. Sarà la stanchezza che mi gioca brutti scherzi” pensò, e tornò a coricarsi davanti al fuoco, verso la fine della sua breve vita, a dormire come nulla fosse. In lontananza, la testa balzò via silenziosa compiendo saltelli senza mai toccare terra: levitava.

La mattina del secondo giorno, si presentò come il giorno prima solo un giorno dopo. Presero le loro cose, poche, e di buona lena iniziarono a camminare, con l’idea di fermarsi a mezzogiorno. - Quando tutto questo sarà finito ed io me ne sarò andata, un po’ ti mancherò? gli chiese Amievì mentre camminavano. - Mmm... No! La ragazza si fermò a bocca aperta. “Che razza di...”. Indignata, con le mani sui fianchi, stette ferma a guardare quel ragazzo, che neanche si voltò a guardarla o le disse alcun che. E quella rabbia che provava dentro di sé ogni volta che Zaron si prendeva gioco di lei, non nascondeva altro? Qualcosa di più profondo? “Non mi sto innamorando!” si disse battendo un piede per terra. Ma non ne era sicura, anzi. Poi la vide, in lontananza dietro un albero, la testa di pietra della notte ata. Con la luce si poteva notare molto meglio. - Zaron! Aspetta un attimo! Lui si fermò e lei lo raggiunse. - Guarda là, dietro quell’albero! - e lo indicò con il dito. - Interessante... - disse Zaron con un sorriso che gli comparve sul volto. - A quanto pare c’è qualcuno a cui sta a cuore la riuscita del nostro viaggio.

- In che senso? Spiegati meglio. - Quello là è un Cum-Cum-Rat. È un guardiano e protettore, inviato sicuramente da qualcuno ad assicurarci una traversata del bosco più agevole. Ora capisco perché non abbiamo ancora incontrato alcun mostro. Siamo fortunati! “Ma chi poteva aver mandato lì quel coso? E chi sapeva del loro viaggio oltre al vecchio e al mago?”. Dubbi. Il secondo giorno volò via come il primo, solo che ora Amievì ogni tre i si metteva curiosa a fissare quella pietra che volava e saltellava senza alcun rumore. Anche la notte, e la seguente. Il quarto giorno, fu assai diverso, nonché l’ultimo nel bosco. Iniziò come gli altri, con la solita routine e la partenza presto, con la testa che li seguiva da lontano. Verso le due del pomeriggio, ci fu la svolta. Incontrarono per la prima volta un essere intelligente quanto loro, ma assai poco somigliante. Era un’ombra nera, con due occhi rossi. - Ci scusi - le andò incontro Zaron. - È da quattro giorni che vaghiamo. Potrebbe indicarci cortesemente la direzione da prendere per uscire dal lato del fiume? L’ombra si mosse velocemente su se stessa, finché non alzò un “braccio” indicando la via. - Grazie mille! - ringraziò il ragazzo, che la superò. Amievì però rimase ferma a guardarla. - Fermo Zaron! - disse. - Quella non è la strada giusta! Ci sta imbrogliando. - Come fai a dirlo? - Lo so e basta! - Amievì aveva avuto un brivido, una sensazione, e non era convinta della via. Quell’ombra era troppo strana e spaventosa. - Prendiamo la via opposta! - disse ancora, superando l’ombra, e incamminandosi per la strada opposta. - Ti ricordi cosa è successo l’ ultima volta che hai preso la via opposta? - le

ricordò Zaron. - Questa volta ne sono sicura! Fidati! - Va bene - e anche Zaron prese quella direzione. L’ombra rimase immobile pochi attimi, perché quando furono a qualche metro, improvvisamente fece un forte rumore come un urlo. Allora i due ragazzi si voltarono e videro l’ombra trasformarsi in un lupo feroce che iniziò ad inseguirli. - Corri Amievì! Zaron era troppo veloce e lei non gli stava dietro e il lupo stava arrivando. Stava per prenderla quando una luce illuminò il sottobosco a giorno e con un tuono apparve il Cum-Cum-Rat tra la ragazza e il lupo. Tuonò ancora, e dagli occhi uscirono due raggi di luce che colpirono il lupo. Era il momento giusto per fuggire. I due corsero insieme, mentre alle loro spalle si combatteva una vera e propria battaglia. Davanti a loro si intravedeva una luce, e si sentiva un forte rumore, quasi assordante, di acqua. - È l’uscita! - esclamarono. Furono fuori, e davanti a loro c’era un’enorme fiume con tantissima acqua. Non era trasparente, ma giallo-marrone perché la corrente muoveva il fondo terroso del fiume e la terra si perdeva nell’acqua colorandolo. - Dobbiamo attraversarlo! - gridò Zaron. Afferrò per la mano Amievì, e si tuffarono nelle acque tumultuose del fiume. La corrente era forte, ma anche Zaron lo era, e con tutte le sue forze tenendo stretta Amievì per mano, avanzarono verso l’altra riva. Nessun pesce, nessuna meraviglia. Solo acqua sporca, e nulla da vedere. Andavano alla cieca completa. Poi il ragazzo riemerse per vedere dove era la riva, e via subito a nuotare verso di essa. Era sfinito, ma ce la fece. Portarono la pelle in salvo nella riva opposta, e la terra sotto i piedi non era mai stata così amata. Caddero esausti sulla spiaggia. Non c’era il sole perché coperto da minacciosi nuvoloni, e i vestiti non si sarebbero asciugati presto. Stettero lì finché non iniziarono a cadere le prime gocce di pioggia.

- Cerchiamo riparo! - disse Zaron alzandosi per primo, ora che un po’ di forza era tornata. Anche Amievì si alzò, e fu allora che vide sulla sponda dove c’era il bosco, il Cum-Cum-Rat che la guardava. Si fissarono per qualche attimo, sotto la prima pioggia. “Si può portare rispetto per una pietra?”. “Se ti salva la vita, sì.” Non lo rivide mai più, quella fu l’ultima volta.

Capitolo VIII

La ragazza raggiunse Zaron, dopo la spiaggia, dove la terra copriva una parte di terreno, e sotto vi si ripararono dalla pioggia, ora incessante. Copriva ogni altro rumore, e i due quasi urlavano per farsi sentire. - Come facciamo?! - urlò Amievì. - Non possiamo fare niente finché la pioggia non cessa! Resteremo qui fino ad allora! Completamente fradici entrambi pativano il freddo che quell’aria gelida portava, ed asciugarsi era impossibile e pure accendere un fuoco. Dopo circa due ore in quelle condizioni, le speranze di recuperare il giorno scemarono, ed insieme anche la voglia di proseguire. Intanto la pioggia torrenziale non diminuiva. Le nuvole che avevano coperto il sole, coprirono anche la luna, e quando arrivò, nessuno la poté vedere perché nascosta. Furono presto presi dal sonno, nonostante la scomodità di quel piccolo riparo terroso, e dormirono stretti stretti, per la prima volta così vicini durante il viaggio. La mattina seguente, delle nuvole neanche l’ombra, e l’erba si era già asciugata grazie alle temperature estive. - Ben svegliata! - esclamò Zaron alla vista della ragazza sbadigliante che usciva da sotto la tettoia naturale. - Dormito bene? - Ho mal di schiena - si lamentò lei, toccandosi il punto dolente. - Credevo fossi abituata a dormire in ogni dove! - disse Zaron ridendo. - Non rompere... - e si diresse verso la spiaggia. L’acqua del fiume era sempre in corrente, ma meno del giorno prima, e il bosco stava immobile nel solito punto.

- Non bisogna mai guardarsi indietro - disse Zaron alle sue spalle, raggiungendola. - Quello che è stato è stato. - Non ho rimpianti. Ho solamente paura che non ce la faremo. - Perché dici così? - Zaron la guardò. Lei imibile fissava il bosco. - Abbiamo avuto fortuna fino ad ora. E tu lo sai. - Cosa c’entra? La fortuna ce la siamo creata, Amievì. - le poggiò una mano sulla spalla, e la riportò al riparo.

- Ti piacciono i funghi? - Sì. - Bene - aprì il marsupio con le provviste. - Ci sono rimasti solo funghi. “Fantastico” pensò la ragazza alla vista di due grossi funghi blu. - Tranquilla, non sono velenosi. - Come fai ad esserne sicuro? - Da piccolo io e mio padre andavamo a raccogliere i funghi, alla mattina presto quando il sole ancora non era apparso. Non è la prima volta che raccolgo questa specie - e indicò i funghi blu. - Dov’è tuo padre ora? - Non lo so. - Come mai? - Un giorno, come ogni altro giorno, andò a lavorare alla falegnameria sotto la città. Non tornò più. Alcuni suoi amici dissero che aveva trovato una Sirioporta ed era sparito davanti ai loro occhi. - E tu ci credi?

- Credo sia vivo. Ne sono certo. Da qualche parte. Un po’ come te - guardò la ragazza accennando un sorriso. Amievì abbassò lo sguardo e fu presa dalla nostalgia. Consumarono il pasto, e sotto i caldi raggi del sole ripartirono, direzione Rahll. - Qual è la prossima meta? - chiese la ragazza. - Attraversiamo questa piccola pianura fino a dove l’erba finisce e comincia la sabbia. Là ci aspetta Falsità. La piccola pianura che stavano attraversando era di un’erba molto bassa come appena tagliata, e ogni tanto spuntava un fiore. Strano. I fiori via via che proseguivano diventavano sempre più grandi, che presto superarono i ragazzi in altezza. Erano magnifici, dai mille colori sgargianti, non ce n’era uno che assomigliasse ad un altro. Non costituivano una foresta però, spuntavano fuori qua e là, generando una gradevole ombra fresca in quel caldo afoso. “La magia non si stanca mai. Un attimo fa pioveva, e ora come niente fosse questi fiori mi danno il benvenuto, perfetti senza niente fuori posto”. Innamorarsi di quel mondo era troppo facile, come diceva il vecchio. Non ti accorgi che si nasconde sempre del cattivo in tutto. E quando meno te lo aspetti, questa magia si richiude a riccio intrappolandoti. Ogni fiore produceva un odore forte ma particolarmente buono e dolce. Riconoscere lì qualche odore del mondo di Amievì era però impossibile, perché la magia nasce dalle basi dell’uomo e si separa perfezionando tutto, da sola con la sua testa, di sua volontà. Che caldo! Le temperature andavano ad ogni o più elevate. “È colpa del prossimo deserto” le aveva detto Zaron. Anche il aggio di zone ambientali era senza senso. Intorno a loro si alzarono milioni di piccole farfalle e d’un tratto ne furono avvolti. Giravano insieme come in formazione, a cerchio ora osservavano i due, ora si appoggiavano sulle braccia, sulle spalle e sulla testa di Amievì. - Wow! - gridò Amievì, gioiosa come non mai, a bocca aperta. I suoi occhi

azzurri, lucidi, quasi commossa di quello che stava succedendo. Prese allora a correre con le braccia aperte, tra le farfalle, con loro, in cerchio. - Guarda Zaron! Sono una farfalla! - Era felice. Zaron da lontano la guardava sorridendo e ridendo, ridendo e sorridendo. “Quella ragazza è così... così...”. Dentro l’emozione gli faceva battere forte il cuore. E poi come tutto iniziò magicamente dal nulla, magicamente sparì. Le farfalle si alzarono in volo sopra i fiori e si dispersero. Rimasero solo i due ragazzi a guardarsi.

Oltre il campo di fiori, come Zaron aveva preannunciato, l’erba finiva piano piano coperta da pura sabbia di deserto. Amievì ne prese in una mano un pugno, e sentì com’era fine e bollente. Zaron fece due i all’interno e poi si girò. Una volta qui era tutta pianura - e con la mano spaziò tutto l’orizzonte davanti a loro. - Fiori come quelli di prima spuntavano anche qui. Allora gli stolti uomini decisero che questo era il posto giusto per fondare una seconda città dopo Verithia. Distrussero tutto questo pezzo di pianura e vi costruirono sopra Falsità. Durò pochi anni, perché la furia della natura si abbatté su di essa radendola al suolo. Fu una lezione per tutti. - Perché si chiamava Falsità? - È il nome che le diedero gli abitanti di Vithrall. Era il marchio che coloro che erano scapparti da Verithia, perché bramosi di potere, meritavano. Il vero nome ora mi sfugge. Socchiuse un po’ gli occhi, forse alla ricerca di quel nome tra i tanti libri che aveva in testa. Sapeva un mucchio di cose. Più il tempo ava più Amievì era certa che questo viaggio da sola non lo avrebbe mai concluso. Il destino li aveva fatti incontrare. - Questo deserto è breve, grande giusto come una città. Subito dopo la pianura

riprende e con essa la fine del nostro viaggio. Ho in mente di are la notte circa a metà del deserto, dovrebbero esserci ancora dei resti della città. In marcia! Facile a dirsi, difficile a farsi. Camminavano ininterrottamente da tutto il viaggio rischiando la vita ogni volta. Amievì portava dietro la stanchezza di quelle corse per la sopravvivenza. Ma altro non poteva fare se non seguire quel ragazzo dentro il deserto, e sperare. Sperare che tutto andasse bene, che le difficoltà più grandi fossero dietro alle spalle. Sperare nella vera brevità di quel aggio in un inferno bollente di sabbia e rovine. Tra fantasmi di uomini che furono.

Capitolo IX

Le rovine non si fecero aspettare, no, anzi, entrarono in scena col botto, in una progressione di colonne rotte, spezzate, intatte, perdute, coperte a metà, e non, dalla sabbia, i monumenti non si erano mai mossi da lì. In attesa di qualcuno che vi si recasse e vedesse cosa succede a chi sfida la natura. Un monito. “A chi sfida la magia” pensò Amievì. “Bisogna farla o conviverci”. Come per Verithia, dove l’uomo e la magia avevano stretto un patto. Tra quella sabbia, spuntavano resti di strade, resti di mura e di stupendi palazzi, ora ruderi ma con la loro bellezza intatta. Era un vero e proprio cimitero d’arte. E chissà sotto i loro piedi quanti metri e metri di città sepolta vi fossero. Bui corridoi che mai più vedranno la luce. Amievì, mentre pensava a queste cose, non poté fare a meno di tartassare ancora una volta Zaron di domande. - Zaron? - Sì? - Credi che qui viva ancora qualcuno? - Sono certo di no. - E qualche animale pericoloso? Qualche mostro? - Probabile. Zaron era sempre schietto. Su tutto. - Per questo motivo prima raggiungiamo quel grande teatro là in fondo e prima ci mettiamo lontani da questa sabbia.

Teatro di falsità

Amievì lo vide solo ora che Zaron glielo aveva fatto notare. Stava diritto davanti a loro, e sembrava una grande nave arenata, spiaggiata. Senza forze per reagire. Aveva una grande cupola con un oculo centrale da dove la sabbia cadeva all’interno in una inesorabile cascata. Era l’edificio più intatto di tutta la città e avrebbe difatti ospitato il più sicuro posto di riparo per la notte che ci si potesse aspettare. Forse. Salirono i gradini in fretta e con forza Zaron sfondò la porta di ingresso con la spalla. Amievì vide il tramonto alle sue spalle. “Anche questa giornata è finita” pensava, ed entrò anche lei dentro al teatro. La prima stanza era la biglietteria, spettrale. La superarono in fretta ed entrarono nella grandissima sala con il palco e le poltroncine. Il tendone era chiuso. “Fa un certo effetto entrare qui e camminarci ora che non c’è più nessuno. Ora che il sipario si è chiuso su questo posto e sulla sua storia”. Rimbombavano i i, sembrava dovesse crollare tutto da un momento all’altro. Grandi ragnatele avevano fatto loro gli angoli del soffitto, e la sabbia si adagiava sul pavimento precipitando dal foro sul tetto, e la luna vi buttò dentro un timoroso raggio di luce. Zaron si sistemò proprio sotto il palco, ruppe qualche sedia e ne fece legna con cui accese un fuoco, sia chiaro, non per scaldarsi, perché lì faceva già caldo con tutta quella sabbia, ma invece per far luce, e forse per abitudine. Comunque dava a tutti e due una certa sicurezza, era diventato un rito. Poi, come facevano sempre, si sedettero davanti al fuoco a parlare. - Questo posto fa più paura del bosco - disse Amievì. - Perché dici? - Beh, qui una volta c’era vita. La gente entrava qui per divertirsi... ora... non so se capisci. - Hai paura dei fantasmi? - Zaron la guardò, alzando le sopracciglia. - Io? Macché...

“Sono terrorizzata dai fantasmi. Lo sono sempre stata”. Quando era a casa da sola a Sua Altezza, aspettava sveglia il ritorno dei suoi genitori. Sempre. Qualunque ora tornassero. - Tu non hai paura dei fantasmi? - chiese speranzosa Amievì, ormai scoperta. - No, e ti dico subito perché. La magia può tutto, ma non può resuscitare nessuno. In nessuna forma. Nessuno. - allargò le braccia. - C’è qualcosa di cui hai paura? - Sì, ci sono tante cose. - Per esempio? - Ogni volta che mi addormento, ho paura di non svegliarmi più. Ho paura della morte, e in questo viaggio, ogni giorno che a aumenta. Potrò sembrarti forte e senza paura, ma non lo sono. Sono come te. Sono certo che però lo rifarei un milione di volte, per salvare mia madre questo e altro. Silenzio, ancora. Dall’oculo si sentiva il rumore del vento di fuori che sbuffava, e la sabbia che si muoveva con un rumore molto particolare: di tranquillità. Chio gli occhi e crollarono.

La sveglia fu traumatica. Iniziò tutto con un forte rumore di pietre che si spaccavano e la terra tremava. Pezzi di intonaco dal soffitto cadevano di sotto, dove Amievì e Zaron si erano appena svegliati in preda allo spavento, e cercavano di schivare quella frana di sconosciuta causa. Era un vero terremoto. Le crepe si formavano a vista d’occhio. - Scappiamo dietro al tendone! - urlò Zaron, mentre faceva lo scalino alla ragazza per salire sul palco, e poi si arrampicò anche lui. Fu il disastro. In pochi secondi cambiò tutto. La volta crollò di sasso, sgretolandosi, e con sé pietre e pure il tendone venne giù. Amievì allora rotolò a

destra, Zaron fu scaraventato a sinistra dall’onda d’urto. Ora tra loro c’erano tonnellate di macerie e sabbia. Macerie e sabbia. - Zaron! - Amievì! Le voci non si raggiungevano, non penetravano i detriti. In un attimo si erano ritrovati da soli, con le proprie paure.

La ragazza guardò dove si trovava: c’era un muro davanti a lei a pochissimi metri e sull’estremità una porta. Tossì per la polvere che si era alzata a causa del crollo e si diresse con una mano davanti al naso e alla bocca verso la porta. “Devo uscire subito da qui”. Imboccò un corridoio che portava giù da una rampa di scale, fino ai camerini. Sbirciò dentro ad alcuni di questi, e vide come molto materiale di scena fosse intatto e impolverato: parrucche dai mille colori, vestiti elegantissimi, trucchi, uno specchio. Amievì non ricordava quando era stata l’ultima volta che si era guardata ad uno specchio. “Prima di entrare nel libro...”. Non lo ricordava. Vi si affacciò cautamente. Aveva paura di guardarvi dentro. Aveva paura di quello che vi avrebbe visto. Finalmente guardò: davanti a lei stava una ragazza tutta sporca, impolverata, con le occhiaie, ma di una bellezza senza pari. Scoppiò a piangere, e del perché lo fece non si sa. Io credo che fu l’accorgersi di diventare grandi, e il voler rimanere piccoli. Ma non si può, perché la vita è così. S’asciugò con un braccio il viso, e uscì dal camerino. Percorse il corridoio ancora, fino ad altre scale a pioli che portavano su, in alto. Amievì vi si arrampicò, finché giunse in un punto molto alto della struttura, e li c’era la sabbia, tanta. Camminò a fatica, ma dopo poco davanti a sé vide la luce. Non era stato difficile uscire per lei, ma Zaron dov’era?

Zaron si alzò da terra, tra le poltroncine, dove era stato scaraventato. Si batté dei colpi sul corpo per far andare via la polvere, prese il suo marsupio fidato e gridò:

- Amievì! - nessuna risposta. Tornò indietro per i suoi i, attraversando la biglietteria e uscì da dove erano entrati. Notò subito una cosa strana: molte rovine del giorno prima erano scomparse, e altre invece erano misteriosamente emerse. La sabbia che le ricopriva si mosse, e la terra tremò come prima. Sembrava come se qualcosa di grosso vi “nuotasse” sotto e la smuovesse. - Amievì! - ma ancora nessuna risposta. Allora il ragazzo si avventurò nella distesa di sabbia scottante, sprofondando in alcuni punti anche fino al ginocchio. Sudava e faceva un caldo come all’inferno e la fatica nell’avanzare lo stancava. Si tolse la maglia e la legò sopra la testa a mo’ di turbante per proteggersi dai raggi solari picchianti, e rimase a petto nudo. - Amievì! Dove sei?! - continuava a gridare. Tutto ad un tratto sentì muoversi qualcosa sotto la sabbia nel suo stesso punto. Corse veloce verso un basamento di marmo bianco risplendente che spuntava fuori dalla sabbia lì vicino e con un salto vi salì sopra. Guardò alle sue spalle nel punto in cui la sabbia si muoveva. Poi, la sabbia tornò immobile. Zaron saltò giù tra la sabbia e prese la direzione per il lato sinistro del palazzo, sperando che Amievì fosse uscita dal retro. Non ci volle molto che la sabbia tornò a muoversi sotto i suoi piedi, più forte di prima. - Ma che diavolo è? Sotto di lui ora tremava tutto. All’improvviso uscirono energicamente dalla sabbia molte braccia umane in ogni dove. Si contorcevano e con le mani cercavano di afferrare le gambe del ragazzo, che iniziò a correre come poteva, quasi saltellando, tra tutto quell’ammassarsi di braccia e mani. Era una visione molto rivoltante. Era come se la città volesse prendersi quel ragazzo che l’aveva violata, e portarlo giù, in profondità, tra i dannati che vi avevano vissuto. Tra i cittadini. Tra gli scheletri. - Non mi avrete mai! - e sguainò la spada, senza smettere di correre, tranciava in due quelle mani che più si avvicinavano. Corse fino al teatro nuovamente, verso il lato sinistro, e con grande felicità vide Amievì in cima ad un gradino che fissava l’ orizzonte.

- Amievì! - urlò. - Zaron! - la ragazza si buttò a braccia aperte tra le braccia del ragazzo. - Non c’è tempo da perdere! - e la prese di forza per i fianchi e se la caricò sulle spalle. - Ehi, piano! Che succede? - La città è viva! E riprese a correre, con la ragazza aggrappata dietro, che si teneva forte. Le mani tornarono, sempre da sotto, ma ora i ragazzi correvano via veloci, oltre il deserto, oltre i pericoli.

Capitolo X

arono la notte del sesto giorno completamente inerti e indifesi nella valle del Guerriero. Incuranti di ogni possibile pericolo. La stanchezza la faceva da padrona. - Manca poco, Amievì. Due giorni, non di più. Questa valle è molto più grande di Vithrall. Ci vorrà un giorno di cammino per arrivare a metà. Poi troveremo Rahll e ci prenderemo quello per cui siamo venuti fin qui. - Sì... - Tornerai a casa quindi? Non ti piace questo posto? Non ti piace la magia? - Mi manca la mia famiglia, la mia casa. Non importa che là sia tutto più grande. Quello è il mio posto. Là è dove vivo, e dove voglio stare. - Posso dirti una cosa? - chiese Zaron. - Certo! - Ti ricordi quando mi hai chiesto se mi saresti mancata? Beh, la vera risposta è SI. Tantissimo. E non so il perché. Quando ti guardo io sento qualcosa dentro che mi dà la forza di andare avanti ogni giorno - era imbarazzato e sorrideva. Amievì rimase senza parole. arono il resto della serata a guardarsi e a pensare. “Zaron, io credo di essermi innamorata di te” pensava lei. “E se Rahll non esistesse?” pensava lui.

La mattina arrivò, e Amievì si svegliò con una consapevolezza: il settimo giorno era arrivato! Così presto, le sembrava ieri quando quella voce le aveva detto che il loro destino in parte era scritto, e quella sera lo avrebbe saputo, che lo volesse o no.

“Non voglio. Voglio credere che ce la faremo e non esserne sicura”. Ma chi poteva dire che sarebbe finito tutto bene? Lei era l’ultima che poteva dirlo. Lei, così fragile, così decisa. Partirono presto, silenziosi: le parole erano apparentemente finite. Ora c’ era solo la fine del viaggio. In quella vastissima pianura a perdita d’occhio in ogni direzione, non c’era niente, nessun rumore, nessun animale. E il cielo senza nuvole, guardava loro lì, così sbagliati tra quella compostezza e perfezione del luogo che stavano attraversando. Giunti fin lì da soli, oltre ogni previsione. Arrivò il vento ad una certa ora della giornata, e portò con sé il suo suono ininterrotto, come se la Terra stesse sospirando, stesse respirando. - Hai pensato a come faremo per il ritorno? - interruppe il silenzio Amievì, ora con i capelli al vento davanti al viso. - Si torna indietro per la strada dell’andata... - rispose Zaron. Di nuovo silenzio. Di nuovo niente da dire. Presto il sole si stancò e decise di andarsene dietro la linea dell’orizzonte. Si tuffò nell’erba. Un’immagine indimenticabile nei loro cuori, una sensazione indescrivibile, che solo il buio tolse loro riportandoli coi piedi per terra, tra il niente, il buio e la paura.

- Amievì! Zaron dormiva da un paio d’ore, mentre la ragazza non aveva chiuso occhio. Sapeva che la voce l’avrebbe contattata. - Domani il tuo viaggio si concluderà. Rahll ti aspetta oltre l’ombra del Guerriero - disse la voce senza presentazioni. - Lo so, non serve che me lo vieni a dire tu! - rispose stizzita lei. - Dimmi invece chi sei! - Come da patti io te lo dirò: Io sono Tiljii, mago dell’Ovest. - Perché mi parli senza farti vedere?

- Sono molto lontano da te, ragazza. Parlarti con la mente è molto più facile. - Perché io? - Amievì si era preparata le domande. - Tu sei la prescelta tra tutti gli esseri che il mio sguardo vide in altri mondi. Ti scelsi per il tuo cuore umile e forte. Ti scelsi perché eri diversa. Perché eri così diversa in quella città dove eri nata. Aprii io la Sirioporta! - Ma perché? Non capisco. Cosa volevi che fi in questo mondo? - Una buona azione. Dimostrare che una buona azione cambia la vita alle persone, e dona la felicità, anche quando tutto sembra perduto. - Continuo a non capire! - la ragazza alzava sempre di più la voce, e per paura di svegliare Zaron, si allontanò di qualche o. - Capirai quando sarà tutto finito. Sarai in grado di aiutare la gente. - Mi stai dicendo quindi che noi ce la faremo? - la ragazza non riusciva a fingere di non voler sapere il futuro, ed esplose. - Tu sì. Lui no. - Zaron!? - Il tuo amico è stato la tua guida, senza il quale tu non saresti arrivata fino a qui. Ma il suo destino domani, è la morte. - NO! - urlò Amievì, così forte che Zaron si svegliò di scatto. - NO! NO! NO! - la sua voce si ruppe in un pianto disperato, e cadde in ginocchio, con le mani sul viso. - Amievì? Cosa succede? - il ragazzo era immediatamente corso da lei, e ora la stringeva forte. - Va tutto bene. Sono qui - le sussurrò all’orecchio. Allora la ragazza si voltò e lo abbracciò, ma non come aveva abbracciato Sma quel giorno, bensì piena d’amore.

“Non puoi morire Zaron! Non finiscono così le storie!” e continuava a piangere sulla spalla del ragazzo, stretta stretta a lui. - Dimmi: cosa c’è che non va? - chiese ancora il ragazzo. - Tu... io... - singhiozzava, non riusciva a dirglielo. Come l’avrebbe presa? Non poteva dirglielo. Lo avrebbe distrutto. “Posso solo sperare che il destino cambi. O sia diverso. Solo che non riesco a non credere a quella voce!”. - Hai fatto un incubo? Zaron non sapeva che la ragazza non aveva mai chiuso occhio. Non sapeva neppure della voce. Non lo aveva mai saputo. “E non lo saprà mai! Perché il suo destino lo scrive lui!”. Continuava a rassicurasi in ogni modo, ma non ci riusciva. Dormì attaccata a Zaron, come avesse avuto paura che da un momento all’altro lui sparisse e lei si svegliasse, come nulla fosse, a Sua Altezza. Non fu così.

L’ottavo giorno arrivò, e profumava di muschio bagnato. Alcuni uccelli piccoli volavano nel cielo, compiendo giravolte e planate in un susseguirsi di coreografie. La ragazza ancora sconvolta, aveva dormito solo per l’enorme stanchezza, e continuava, muta, a pensare. Camminava molto dietro il ragazzo, sola con se stessa. - Non mi hai ancora detto cosa ti è preso ieri notte - provò Zaron ad attaccare discorso. - ... Niente... nostalgia... forse... - rispose lei, trattenendo le lacrime. Non osava guardarlo o avrebbe pianto. Camminarono poco meno di due ore quando Zaron si bloccò e disse: - Ci siamo - guardava in fondo alla valle, dove dal nulla era comparsa una

montagna nera. No, non era una montagna, ora si muoveva e pochissimo alla volta diventava sempre più vicina e sempre più riconoscibile: no, non era una montagna. Era il Guerriero. Non avevano mai pensato al Guerriero fino ad ora, anche se Rabuit era stato chiaro sul fatto che nessuno aveva mai attraversato quella valle. E un motivo c’era. Tutto ad un tratto i sogni di gloria crollavano alla vista di un enorme golem di pietra e muschio, con una gigantesca spada di pietra in mano, che avanzava nella loro direzione. La terra tremava sotto il peso di quel mostro. La sua ombra oscurava a notte il terreno sottostante. Alto come una montagna, i due ragazzi erano come formiche al suo confronto, e lui li avrebbe distrutti in pochissimo tempo. Amievì vide Zaron tremare dalla paura per la prima volta. “La voce ha detto che io ce la farò. La voce ha detto che Zaron morirà. Come posso farcela io, che non so combattere, e lui no, che è molto più forte e abile di me?”. E intanto il gigante si avvicinava. - Amievì - disse Zaron. - Questo è l’ ultimo ostacolo. Non aver paura. Ce la faremo come sempre abbiamo fatto fin’ora. Lo sconfiggeremo, basta che segui le mie indicazioni. La ragazza fece un cenno con la testa di affermazione. - Presto! Corri a destra, io vado a sinistra! Così lo costringiamo a prendere una decisione su chi puntare! - gridò Zaron. - E dopo? - chiese Amievì preoccupata. - Improvvisiamo - e il ragazzo partì a correre a sinistra del colosso, velocissimo come sempre. La ragazza corse allora a destra come le aveva detto, e il mostro mirò lei. - Zaron! - Vieni da me! - urlò il ragazzo sfoderando la spada ed assestando un fendente al piede del gigante. La spada si ruppe in due pezzi nelle mani del ragazzo. - Le spade non gli fanno niente! - gridò ancora ad Amievì, che ora buttò via la

sua, e iniziò a correre come una pazza. Il gigante dietro, portò in alto la sua spada di pietra, e con forza disumana la scaraventò a terra, provocando un enorme urto ed una spaccatura, che Amievì saltò di tre metri, e cadde facendosi male. - Zaron! - urlò. E ancora il gigante alzò la spada in cielo, ora sopra la testa della ragazza, e la fece cadere di forza ancora, e ancora. Amievì non riusciva a resistere a quei ritmi così serrati di corsa per la vita, e quel mostro se la prendeva solo con lei.

Il guerriero

- Sono qui! Vieni a prendertela con me! - urlò ancora Zaron. Prese da sotto la maglia una fionda, che probabilmente aveva costruito una sera dentro al Grande Bosco, mentre Amievì dormiva, e tirò un sasso sulla schiena del golem. Quest’ultimo sembrò aver sentito il colpo, così che si girò ed ora mirava il ragazzo. Alzò la spada, e giù a terra vicino a Zaron, che la schivò con un salto. - Tutto qui quello che sai fare? - lo provocò il ragazzo, che aprì le sue ali da demone dopo tanto tempo, e volò all’altezza della testa del golem, e con la fionda gli tirò un altro sasso in pieno occhio. Il gigante barcollò, e di sasso cadde di sotto, e la terra tremò come mai. La ragazza impietrita, vide la montagna cadere a pochi metri da lei che per un pelo non fu travolta. Poi Zaron planò su di lui, bersagliandolo di sassi. Sembrava stesse vincendo, ma era solo un’impressione. Il Guerriero reagì, ora che la spada giaceva a terra lontano da lui, perché nella caduta l’aveva persa, e con una manata colpì il piccolo Zaron, che come una mosca volò via lontano. Il suo corpo cadde inerte al suolo. - NO! - Amievì aveva visto tutta la scena, con dentro la testa la voce del mago che le diceva: “Zaron morirà”. - NO! - urlava, e urlava, e urlava. Corse con le sue ultime forze dove Zaron era caduto. Lo trovò lì a terra, immobile. Le ali spezzate. C’era tanto sangue. - Zaron! - si buttò su di lui, e con le mani gli alzò un po’ la testa da terra. - Ce la farai! Mi prenderò cura io di te! - piangeva, e le lacrime cadevano sul corpo del ragazzo. Alle loro spalle il golem si rialzava a fatica, e prendeva la loro direzione. Tu non morirai oggi! Non qui! Non ora! - e gli tirò forte una sberla di

disperazione sul viso. - Ricordi? Devi portare le gocce di Rahll a tua madre che sta male! Siamo partiti per questo! Siamo arrivati qui per questo! Zaron aprì piano piano gli occhi e guardò la ragazza anch’esso con le lacrime agli occhi. - Amievì... non ce l’ho fatta... non vedrò mai Rahll... Perdonami... - Cosa stai dicendo?! Sono io che ti devo chiedere scusa perché non sono mai stata utile in questo viaggio... - Promettimi una cosa... - interruppe lui a fatica, con il sangue in bocca - ... che sarai tu a finire questo viaggio... da sola... che sarai tu a portare le gocce a mia madre... ti prego... ho sempre saputo che tu potevi farcela... da quando ti ho vista quel giorno a Verithia... - Non dire così... - Prometti! - Prometto... I due si guardarono negli occhi, per l’ultima volta. Poi Zaron se ne andò, per sempre.

Amievì avrebbe voluto dirgli tante cose. Dirgli cosa provava per lui, così coraggioso, l’aveva salvata più e più volte, e lei mai. Non c’era riuscita. Lo aveva lasciato morire. Era colpa sua. Avrebbe dovuto dirgli della voce! “Forse ora sarebbe tutto diverso. Perché la magia aveva permesso questo? Dov’erano le meraviglie?”. Non odiò mai così tanto la magia prima d’ora. Ora sì. Non c’era il tempo per loro, per lei sola tra le lacrime, che il gigante stava dietro pronto a sferrare un altro colpo. - Colpiscimi, avanti! - urlò Amievì piena di odio e dolore. - Uccidimi!

Ma il golem non colpì, anzi, rimase fermo a guardare la ragazza, immobile. “Che gli prende?” pensava la ragazza alzandosi da terra a guardare quel mostro che era tornato montagna. Il sole, verso il tramonto, proiettava l’ombra lunga metri e metri, e la giornata stava per finire di lì a qualche ora ancora. La ragazza, ora senza piangere, ma col viso bagnato, fece qualche o attorno al Guerriero, immobile. - Hai vinto Amievì - disse la voce nella sua testa. - Perché? - chiese lei, completamente spaesata. - Il Guerriero poteva essere sconfitto solo con l’amore. Era stato creato con l’odio degli uomini, e il tuo amore per il ragazzo lo ha sconfitto. - Sì, ma a che prezzo! Zaron è morto e io sono sola! - Non sei sola, Amievì. Ora non pensarci, e corri oltre la pianura. Rahll ti aspetta e con lui la fine del tuo viaggio. La ragazza tornò dal ragazzo. Stette lì qualche minuto e poi disse: - Le nostre strade si separano. Mi mancherai Zaron. Io vado a finire questo viaggio - si chinò e gli diede un bacio sulla guancia fredda. - Addio, amico mio.

Capitolo XI

La ragazza corse verso la fine della pianura, lasciandosi alle spalle Zaron e la montagna. Non pensava a niente, e correva, ora inciampando, ora rialzandosi, verso la fine di quella storia. Con il sole in pieno tramonto, divenne tutto rosso. Sembrava piangere Zaron e dargli un ultimo saluto. Ad un tratto l’erba finì in un piccolo strapiombo di qualche metro, e davanti a lei qualcosa di incredibile, qualcosa che non aveva mai visto, e tanto aveva voluto vedere. Sì, davanti a lei, immenso e sconfinato. - Il Mare! Rahll è un mare! - esclamò, e le lacrime tornarono.

Mare di Rahll

- Zaron avrebbe voluto vederlo... - disse piano. Quello splendore. Quella forza naturale incontrastabile. Tutto ora era più chiaro. “Le gocce di Rahll sono le gocce del Mare di Rahll!”. - Devo sbrigarmi. Il sole sta tramontando - singhiozzava e si asciugò il viso. Tempo per piangere ne avrebbe avuto quanto le serviva. Ma non ora. Quello era il momento per finire la missione. Scese la scogliera piano, facendo attenzione a non scivolare di sotto. Poggiò i piedi infine sulla spiaggia, e guardò ancora le onde. “Come faccio a prendere delle gocce? Non ho nessun contenitore. Era Zaron ad averlo...”. Di tornare indietro non se ne parlava. Si buttò a sedere sulla spiaggia calda e quasi soffice. “Ho ancora trenta minuti. Forse meno” pensava guardando il sole rosso fuoco morire all’orizzonte. Non era il suo primo spettacolare tramonto a cui assisteva, ma quello fu il suo unico tramonto per tutta la vita. C’era il ricordo di quel ragazzo e di quello che provava dentro a quel sole, e il mare che lo accoglieva dentro le sue acque magiche. “Magia... Non voglio più sentire parlare della magia! Se la magia è questo e ciò che porta, io non voglio più averne a che fare”. Quella magia che tanto l’aveva fatta innamorare, si era dimostrata come la realtà, con i suoi grandi difetti e le sue tristezze. - Voglio tornare a casa... - nel palmo stringeva un po’ di sabbia e la lasciava cadere piano sulla gamba. Fu allora che girò lo sguardo, e vide accanto a lei una boccetta di cristallo, apparsa dal nulla, sopra la sabbia.

- Grazie Mare - disse la ragazza sorridendo, e raccogliendola subito. Camminò fino all’acqua, si tolse le scarpe, e con i piedi nudi vi entrò fino al ginocchio. - Per Zaron! - disse forte, e immerse la boccetta nell’acqua, e fu piena. La chiuse con il tappo, e se la legò alla cinta. Tornò sulla spiaggia, si rimise le scarpe, e si sedette nuovamente. Il sole era quasi sparito del tutto e la luce diventava sempre meno rossa e sempre meno intensa. “La notte... E io sono sola. Non so accendere un fuoco, non so quali funghi mangiare e quali no. Non so fare niente. Era Zaron che faceva tutto per me. Non tornerò mai a casa. Morirò qui, su questa spiaggia, a viaggio finito”. Ma proprio mentre si deprimeva, un rumore forte di aria mossa dietro di lei, la fece scattare. Si voltò, e con un enorme sorpresa vide una cosa che non si sarebbe mai aspettata. - Mukastoro! - gridò dalla gioia - Cosa ci fai qui? Sei venuto a prendermi! L’animale stava sulla spiaggia accanto a lei, con fierezza che solo una creatura fidata poteva avere, le porse la schiena pelosa, tra le ali di libellula. Amievì gli saltò in groppa in un attimo, e il Mukastoro prese il volo nella notte. La ragazza si addormentò sfinita in volo sulla groppa, mentre sotto di loro si ripercorreva tutto il viaggio al contrario. Era buio ora, ma si potevano scorgere le rovine di Falsità risplendere alla luna, gli alberi del Grande Bosco sempre e per sempre immobili.

Capitolo XII

Amievì si svegliò sull’erba, il sole alto nel cielo, e il posto le sembrò subito famigliare alla vista delle montagne che lo circondavano. - Sono a Vitrhall! - urlò di gioia, saltando in piedi, e correndo da tutte le parti piena di felicità. Si era svegliata nei pressi di un laghetto e di una casa di legno molto bella, con i fiori alle finestre. Il Mukastoro, sfinito, dormiva in un angolo. “Riposa. Te lo meriti” pensò la ragazza. D’altronde aveva viaggiato tutta la notte in cieli pericolosissimi, e mai nessuno si sarebbe aspettato che lo fe di sua spontanea volontà, solo per salvare la sua “padrona”. Non era mai successo che un Mukastoro uscisse da Vithrall. Fino ad oggi. Amievì riconobbe presto quel lago, non perché lo aveva già visto, ma perché gliene avevano parlato, e quindi quella casa poteva essere solo di una persona. Vi si avvicinò, e bussò alla porta tre volte. - Arrivò subito! Un attimo di pazienza - disse una vocina di donna anziana tossente dall’interno. Presto la porta si aprì, e le apparve una vecchietta indifesa avvolta completamente da una grossa coperta. - Siete la madre di Zaron? - chiese Amievì. - Sì, sono io. E voi chi siete? Come lo sapete? - Ero una sua amica. Devo dirle tante cose. E anche darle una cosa. La ragazza fu fatta accomodare dentro casa.

Non vi dirò cosa si dissero, perché quello fu un momento loro, e loro soltanto,

tra donne.

Amievì uscì dopo un paio di ore, si chiuse la porticina alle spalle, si asciugò una lacrima, e andò a svegliare il Mukastoro. - Sveglia! - disse. - Portami subito dal tuo vero padrone. Montò in groppa, e l’animale la portò in un attimo alla fattoria del vecchio allevatore, dove tutto era iniziato. Non era cambiato niente da quando era partita. Scese, e alla porta vide il vecchio allibito. - Amievì? Sei tu? - Sì, sono io. Il vecchio la raggiunse e la strinse forte a sé. Poi le diede un bacio sulla fronte e le disse: - Hai trovato quello che cercavi? - Sì. - Sapevo che ce l’avresti fatta! - Dai queste gocce a Sma - disse Amievì guardando il vecchio dritto negli occhi. - Cosa sono? - Sono le gocce di Rahll. Lo faranno essere un ragazzo normale. Tornerà a vedere. Tornerà a sentire - e gli pose una fialetta ripiena d’acqua. - Non può essere... - disse il vecchio sbalordito, senza parole, mentre stringeva in mano la fiala. - Io... Grazie... - e gli scese una lacrima. “Erano queste le buoni azioni. Era questo lo scopo del mio viaggio”. - Hai ancora i miei vestiti? - chiese lei.

- Certo! Li ho conservati in attesa del tuo ritorno. Entrò in casa, e dopo poco uscì con in mano il completo rosso della mamma, con i bottoni neri e il cappellino. Lo porse ad Amievì che lo prese tra le mani. - Addio vecchio. Torno a casa - e Amievì gli mostrò un’altra fialetta nelle sue mani. Quella era per lei. - Non aspetti neanche di vedere Sma? La prima cosa che deve vedere sei tu! Il suo eroe - chiese il vecchio rincorrendola un po’ in fondo al vialetto della casa. - E lo vedrà. Non sono io l’eroe che lo ha salvato oggi - disse Amievì. - Ma sei tu l’eroe che lo salva ogni giorno.

La ragazza, dopo qualche minuto, raggiunse il punto in cui era entrata a Vithrall. Si cambiò e poi poggiò i vestiti ben ripiegati sull’erba. Guardò la valle, con il suo cucuzzolo al centro, per l’ultima volta. - Addio Vithrall. Addio Magia. Nel tempo in cui tu mi hai voluto qui, mi hai mostrato le tue bellezze ma anche le tue oscurità. Ti sei presa Zaron, e mi hai spezzato il cuore. Tutto questo per delle buone azioni. Mi hai fatto crescere. Sono diventata grande. Lascio qui il mio cuore. Ti ho dimostrato che io non sono fatta per la magia - e mandò giù in un unico sorso tutta la fialetta.

Era buio intorno. C’era odore di chiuso e di vecchio. La ragazza starnutì. Era a casa della nonna, nella camera, buttata sul letto. Di fianco a lei, stava un vecchio libro completamente bianco. Amievì non si fermò neanche a guardarlo un attimo, e si fiondò giù dal grande letto e corse giù dalle scale e poi fuori. Notte. Neve. C’era la notte e la neve, come prima di entrare nel libro. Sulle enormi case di Sua Altezza, gli addobbi di Natale illuminavano di mille colori le strade e i tetti innevati. “Come può essere ancora la Vigilia?” pensò la ragazza guardandosi attorno. “Sono stata via più di una settimana! Vuol dire che il tempo si era fermato!”. Sorrise e corse per le strade. Poi si fermò di colpo, perché sulla neve per terra

stava scritta una frase che diceva: la magia è negli occhi di chi guarda. “Nessuno saprà mai questa storia” si disse, e corse via, lungo la strada, e sparì dietro l’angolo.