Questa Non è Una Storia D’amore 646u4j

Questa non è una storia d’amore

Suki Fleet

Sommario

Titolo Pagina

Questa non è una storia d’amore

Parte Prima

Romeo

Gem

Scarabocchi

Pieni di vuoto

Ragazzi che si baciano

Istantanee

Disse il ragno alla mosca

Conforto

Luce

Aspettando che accada qualcosa

Perdita

La differenza che non fa differenza

È sempre più buio prima dell’alba.

Julian

Questa città che bisbiglia

Questi normalissimi fantasmi

Parte Seconda:

Fossimo in Russia, adesso saremmo morti

La Cura

Rifugio

Occasione n. 1

Louis

Disperazione

Questo tempo che abbiamo è provvisorio

Nient’altro che un guscio

Strafatto

Eroina

Sonno

La realtà sfavilla

Boschi e alberi

Sogni

Scelte

Mancato per poco

Piscine

Nell’oscurità

Occasione n. 2

Tutto fa troppo male

Bugie

Pasha

Guardati le spalle

Ce ne sono sempre due

Non lasciarmi mai più

C’è una luce che non si spegne mai

Prendi la mia mano

Via da tutto

Stelle al collasso

Alla fine di tutto

Il mio epilogo

Altre opere di Suki Fleet

Quando la mamma di Romeo esce di casa per non tornare più, il quindicenne si ritrova senza un tetto e a cercare di sopravvivere sulla strada. Muto e terrorizzato, il suo silenzio lo rende vulnerabile; una notte viene aggredito da una gang di altri giovani come lui ma viene soccorso da un ragazzo che si impegna a proteggerlo da lì in avanti. Julian ha solo due anni in più di Romeo. Scappato da una vita in famiglia sempre più violenta, Julian è stato infatti costretto a compiere scelte molto difficili e si ritrova a vendere se stesso per sopravvivere. Proteggere Romeo gli dà la possibilità di cambiare, gli dona uno scopo di vita, gli offre speranza ma nonostante cerchi di dimostrarsi forte e di gettarsi alle spalle i ati problemi con la droga, vivere come sono costretti a fare lo sta lentamente distruggendo e gli insinua il dubbio di non essere forte abbastanza.

Questo è un lavoro di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi ed eventi sono il prodotto della bizzarra immaginazione dell’autore o sono usati in modo fittizio. Ogni somiglianza con persone, vive o morte, aziende, eventi o locali è puramente casuale. This is Not a Love Story Seconda edizione Copyright © 2019 Suki Fleet Prima edizione pubblicata da Harmony Ink Press nel 2014 Amarganta nel 2016 Prima edizione design di copertina: Aaron Anderson Traduzione di Amneris di Cesare Tutti i diritti riservati. Grazie per aver acquistato questo libro. Il testo rimane proprietà dell’autore e non può essere ridistribuito ad altri per motivi commerciali o non. Se vi è piaciuto questo libro, per favore incoraggiate i vostri amici ad acquistare la loro copia dal loro distributore preferito. Grazie per il vostro o.

Parte Prima

Non siamo fatti per durare

Romeo

C’è quasto ragazzo, non è sempre così? Questa bellissima, luminosa creatura che mi fa sentire vivo. Anche qui, vivendo per strada, nonostante le cose schifose che capitano – il freddo, la fame, il terrore di are un altro giorno o un’altra notte come questa – in qualche modo lui mi fa desiderare di sopravvivere, malgrado tutto, solo per trascorrere un altro schifosissimo minuto e farmi avvolgere dal suo alone di luce scintillante. Anche adesso, specialmente adesso, che stiamo qui in piedi sull’Argine(1) vicino alla strada principale più trafficata. Questo è il quartiere a luci rosse per ragazzi come noi. Qui è dove vendiamo noi stessi, un pezzetto di anima alla volta. Quattro sono le monete che tiene nel palmo della mano aperta, il resto è nascosto nella striscia sotto la manica arrotolata. Le tende verso di me e io rimango incantato dalla quella sua pelle dorata e calda vicino al polso; la gente paga una fortuna per avere una simile luminosità, qualcosa che lui possiede di natura. «Per te» mi dice solo con le labbra, fissando gli occhi nocciola chiaro nei miei. Già, per me, per andare a riscaldarmi nel puzzolente bar di Joe Brown mentre lui si fa scopare sotto il ponte della ferrovia da qualche verme sozzone a cui non frega un cazzo di fargli male. Vorrei che Julian non si comportasse come un fratello maggiore. Vorrei che almeno una volta avesse fiducia in me e mi permettesse di prendermi cura di lui. Non sono così fragile come pensa. Ma afferro le monete, anche se quello che vorrei fare veramente è di lanciarle sulla strada e pregarlo di non andare. Lui lo sa, i nostri sguardi si incatenano, cercando l’uno di comunicare qualcosa che l’altro non capisce o non vuole intendere. È sempre così, ogni volta che viene rimorchiato. Neanche a farlo apposta, il tipo nell’auto suona il clacson. Sussultiamo entrambi.

«Datti una cazzo di mossa!» sibila il verme. Il finestrino è appannato e non riesco a intravedere la faccia attaccata a quella voce, ma il resto di lui sembra vecchio e sottile. A stringere il volante sono mani nodose come le radici degli alberi allineati su questa parte della banchina. E sebbene io sappia che la sua età non lo rende innocuo, posso fingere. Posso sperare. Julian cerca di sorridere, i suoi occhi a dirmi che andrà tutto bene. Ma come potrebbe andare tutto bene? Non riesco a sopportarlo. Ma non abbiamo niente. Noi siamo niente. Si scalda le dita, strofina le mie, gelate e io mi allungo per afferrargli le mani e tirarlo via, verso di me. Voglio correre lungo l’argine con lui fino a che mi brucino i polmoni. Forse lo farò ugualmente. Da solo. «Venti minuti» scandisce con le labbra. Annuisco meccanicamente. Entra nell’auto e mi guarda dal finestrino mentre viene portato lontano. Annoto il colore, il modello e il numero della targa. Mi fa sentire più al sicuro: se dovesse succedergli qualcosa, avrei almeno un collegamento, una prova che quell’auto esiste e Julian pure, attraverso di essa. Non succederà niente. Inghiottisco un singhiozzo. E corro. Il bar di Joe Brown è pieno di perditempo. Tecnicamente, penso, ciò dovrebbe includere anche me. «Ehi, Romeo!» Ignoro il grido. Non voglio neppure accettare la presenza di Cricket. È fatto di brutto. Ma si alza e viene verso il bancone dove sto aspettando che Cassey mi versi il tè. «Dov’è Jules?»

Mi guardo attorno e alzo le spalle. Non sono cazzi suoi. Qualunque cosa Cricket abbia da vendere, non lo comprerò. «Prestaci qualche spicciolo.» Avvolge un braccio magrolino attorno alla mia spalla. Trattengo il respiro e lo scrollo via. Cerco di non guardare l’orologio sul muro sopra il bancone, ma è ormai diventata un’ossessione malata. Ancora dieci minuti. «Per faaavoooreee.» Prendo un tovagliolo pulito dal dispenser e scrivo “fottiti” con la penna che ho in tasca. Sono stato anch’io un disperato e Cricket ne ha approfittato per prendermi a calci mentre ero inerme. Forse pensa che me ne sia dimenticato. Cassey mi porge il tè insieme a quattro bustine di zucchero. Adesso tiene lo zucchero dietro il bancone. Guarda Cricket con sospetto. «Lascia in pace il ragazzo. Non ti ha mai fatto alcun male.» Cricket si fa da parte alzando le mani. «Ehi, cercavo solo di essere gentile.» «Già, certo che sì» commenta facendo una smorfia. Faccio questo effetto sulle donne, specialmente quando scoprono che c’è qualcosa di sbagliato in me, che non posso parlare, che sono muto. Vogliono occuparsi di me, farmi da madre, proteggermi. Be’, a parte la mia vera madre. Non le ho mai fatto questo effetto. Non sarei qui, se ne fossi stato capace. «Come stai?» mi chiede Cassey. Non è una domanda a vuoto. Lo vuole sapere davvero. Ci siamo dovuti spostare ieri sera. Stanco. Scrivo sul retro del tovagliolino “fottiti”. «Hai fame?»

Se tutti gli altri scoprissero che mi sta dando del cibo, questo posto verrebbe devastato. «Vieni sul retro tra cinque minuti» sussurra. Le mie tasche sono piene di toast spezzettato che sta per essere ridotto in polvere ancora di più, mentre corro sull’argine verso gli archi della ferrovia. Julian è in ritardo. Ha fatto tardi altre volte, ma non così tardi. Quando i venti minuti sono diventati quaranta, ho iniziato a sentirmi male. Così male che Cassey ha creduto fossi malato. Oh Dio, Oh Dio, ti prego, ti prego, ti prego, fa che stia bene. La settimana scorsa la polizia ha trovato il corpo di un ragazzo nella brughiera. La brughiera è a miglia da qui, ma quel ragazzo tutti noi lo conoscevamo. Era solito eggiare sull’Argine, si vendeva come fa Julian. Sapevo che avrei dovuto impedire a Julian di entrare in quell’auto. Ho avuto cattive sensazioni fin dall’inizio. Avrei dovuto seguirlo. Il pensiero che sia ferito o sofferente mi fa vomitare. In fondo all’Argine mi fermo e mi ricompongo contro il muro mentre guardo verso gli archi della ferrovia. Ma dov’è? Vorrei poter chiamare il suo nome, sentire una voce, la mia, risuonare dietro di esso. Invece urlo silenziosamente, il cuore è sul punto di implodermi nel petto. Ti prego, imploro in silenzio, permettimi di trovarlo. Lui è tutto ciò che ho.

Gem

Due congelatori malconci e i resti strappati di uno pneumatico insozzano i lati della strada, ma nessuna Ford Escort beige con ali impregnate di ruggine. Non c’è nessuna auto parcheggiata. Una striscia di pioggia nebbiosa si allunga dal fiume e rende il mondo, bene o male, grigio e incerto. Guardo l’orologio. Sono ati cinquanta minuti. Julian ha detto venti. La polizia non inizierà a cercare per almeno ventiquattr’ore, anche date le circostanze. Se è andato, l’ho perduto. Se non è qui, allora non è più da nessuna parte. I suoi capelli soffici color del miele, il dolce sorriso sbilenco (si è fratturato il palato quando era più giovane, ma l’unico modo per notarlo è quando sorride pienamente). Improvvisamente il pensiero mi colpisce e mi sento la testa leggera, un dolore mi torce il petto, pensieri a spirale... Chissà se, chissà se, chissà se? Non riesco a respirare. Merda... Inciampo in un muretto che curva verso il nulla e che mi colpisce diretto in faccia. Il dolore è così grande che quasi svengo. Per poco... per poco... mi inginocchio sul marciapiede fino a quando... alla fine... il mio respiro si fa più intenso, rallenta e mi rimetto in piedi. Davanti a me ci sono sei enormi arcate. Dentro è tutto buio. Perfette per quello per cui sono utilizzate. Odio questo posto. Julian ebbe l’ultima, se gli fosse permesso scegliere. Gli è stata data una scelta? Respingo a morsi un singhiozzo. Le mie orecchie ronzano al suono della musica delle auto che sfrecciano in lontananza, le casse vibrano nell’aria fradicia della sera. Incedo lentamente lungo il marciapiede, gli occhi quasi chiusi.

Sono un tale vigliacco, Julian. Tu mi avresti già trovato a quest’ora. Se la situazione fosse stata al contrario, lo so che tu lo avresti fatto. L’ultima arcata. Guardo verso l’alto, verso i muri neri e unti per un secondo mentre il treno sferraglia sulla mia testa. Serro le palpebre come se potessi davvero rimandare il momento. «Remee?» È forse il pallido eco di una voce disperatamente familiare o soltanto la mia immaginazione? Se lo fosse, credo che il cuore potrebbe scoppiarmi in petto. Nessun altro mi chiama Remee. Con occhi spalancati entro nell’oscurità. Il terreno è ingombro da scheletrici carrelli di supermercato, fili aggrovigliati e gomme usate. L’aria odora di erba e umidità. Non sopporto il pensiero che lui sia stato usato qui dentro, il suo bellissimo corpo, la sua pelle luminosa, i suoi fulgidi occhi ridotti a... un buco nero per la fantasia di qualcuno, una scopata a buon mercato. Contro il muro, dentro il buio non più così oscuro, vedo la felpa logora che indossava. Mi fermo per raccoglierla e un braccio sottile sbuca fuori dall’oscurità e mi afferra il polso. Julian. A volte il sollievo è dolce e gentile, a volte ti colpisce come se fosse un camion. «Mi dispiace di non esser venuto a prenderti» la sua voce è piccola. Non si alza. Non voglio che sia dispiaciuto. Voglio che stia bene, ma non è così. Mi abbasso lentamente accanto a lui. Non posso vederlo bene. Non c’è abbastanza luce. Gli porgo la felpa e riesco a malapena a distinguerlo mentre se la infila dalla testa. «Profumi di pane tostato» dice dolcemente. «Cassey?» Annuisco e lui sorride, non proprio una smorfia mentre gli offro il pezzo praticamente intatto che mi è rimasto.

Il bloc-notes e la penna che porto con me sono schiacciati nella tasca a loro volta, ma ciò che vorrei dire fa troppo male. Dita calde sfiorano la mia fronte e lui aggrotta le sopracciglia. «Stai sanguinando.» Alza la mano all’altezza dei miei occhi mostrandomi il sangue. «Che cos’è successo?» Come può preoccuparsi del mio stupido graffio? Tiro fuori il bloc-notes e scarabocchio. Scivolato sulla banchina, caduto in avanti, gente che guardava e tutto quanto. Schizzo un omino che vola per aria. Disegno la gente che ride. La faccio sembrare come noi. Dopo mi piego verso di lui, appoggiando la testa contro la sua spalla. Odora di sesso – e non in modo buono. Vuoi andare da Gem? Scrivo in stampatello piccolo. Sento che annuisce a fatica, la sua guancia contro la mia testa rasata. So che ha gli occhi chiusi. So che sta cercando di non piangere. Perciò non mi muovo fino a quando non mi spinge gentilmente via. Gem è dove andiamo quando le cose si mettono davvero male. Non possiamo stare lì, lei ha un bambino e lavora come escort nel suo appartamento (è un monolocale) non sulla strada. È sempre molto impegnata, ma non ci lascia mai a piedi. Ci permette di usare il suo bagno, la cucina e se siamo disperati, possiamo dormire per qualche ora sul suo pavimento. Penso che lei e Julian abbiano avuto una storia una volta, ma non ho mai avuto il coraggio di domandarglielo. Lo aiuto a mettersi in piedi. Mi accorgo che forse ha perso una scarpa. Dice che non vuole cercarla ma non penso che arriveremo molto lontano senza, perciò lo lascio appoggiato contro il muro e inizio a scrutare il terreno disseminato di spazzatura. Anche se i miei occhi si sono abituati, riesco a malapena a distinguere le cose nell’ombra profonda. «Remee» mi chiama a voce roca. Mi giro di scatto e lui sta singhiozzando. Julian non piange mai, beh, non permette a nessuno di vederlo, in ogni caso.

«Voglio solo andarmene» sussurra con voce rotta. Annuisco e faccio scivolare il mio braccio attorno alla sua schiena così che si possa appoggiare e incespicando usciamo in strada. Gem è il simbolo del glamour, stile patinato da televisione, mille Watt più scintillante della realtà vera. Sotto tono è un modo di dire che lei non ha mai sentito pronunciare. Apre la porta avvolta da una lunga vestaglia rossa, sembra la star di uno di quei vecchi film di Hollywood. I capelli raccolti in alto che ricadono in una bellissima cascata di riccioli scuri, la pelle nera lucida e brillante. Ma il suo sorriso dipinto e smagliante crolla non appena ci vede. «Gesù. Cosa ti è successo, Jules?» Julian la guarda supplichevole e io rafforzo la mia presa su di lui. Penso che a lei voglia raccontarglielo. Dopo tutti questi mesi, non ho ancora capito perché non lo voglia mai dire a me. Mi dice tutto il resto. «Ehi, perché non vai a farci una tazza di tè?» mi consiglia Gem mentre conduce Julian nel piccolo salottino. «Ho cinque minuti prima che arrivi il prossimo». Con rabbia sbatto due tazze sul bancone e getto il bollitore sotto il rubinetto. Pensa che io non veda le strisce di sangue sul retro dei suoi pantaloni? Pensa che non abbia notato che a malapena riesce a camminare? Non sono un cazzo di bambino. Sono solo tre anni più piccolo di lui e sono sulla strada dallo stesso tempo. Però non faccio marchette – è un po’ uno svantaggio quando non puoi parlare, i clienti pensano che tu sia ritardato quando inizi a scrivere sui fogli – ma so cosa succede. So che a volte le cose si mettono male. Lo comprendo. Ma cazzo, io voglio capire. Stringo il bordo del lavello finché le nocche non diventano del colore delle ossa sotto di esse. Non sono arrabbiato perché non me ne parla. Sono arrabbiato perché qualcuno gli ha fatto del male.

«Ro-meeo» Braccia sottili mi avvolgono le gambe, mi abbracciano forte e io ingoio rapidamente la rabbia e mi volto per raccogliere il folletto sorridente. Il figlio di Gem, Joel, ha quattro anni e qualche mese ed è super intelligente. Perché sei così felice? gli chiedo, gesticolando. Mi piace insegnargli la lingua dei segni. Mi affascina vedere come impari in fretta, solo un pochino meno veloce di Julian. Ti voglio bene, mi risponde a gesti, sorridendo apertamente. Anche io ti voglio bene, Joel, digito prima di tirarlo a me e di nascondere la mia faccia nelle sue treccine strette. Non so dove Gem trovi il tempo di fargli i capelli in quel modo. È un’opera d’arte. Ma so che questo bambino è il suo mondo intero. «Perché Jules è triste?» Tutti diventano tristi ogni tanto. Faccio segno. Vuoi aiutarmi a fare il tè? Ho bisogno di un pretesto per girarmi un momento e asciugarmi gli occhi, così lascio Joel trotterellare in giro alla ricerca di bustine da tè e latte.

––––––––

Julian è sepolto tra le braccia di Gem quando entro nel salotto, le dita che bruciano per via delle tre tazze di tè. Si separano non appena Julian mi vede e si avvinghia a un cuscino del divano. I suoi occhi sono così tanto incavati da non riuscire a sopportarlo. Non sono geloso che siano così uniti. Ci abbracciamo in quel modo tutto il tempo. È ciò che fanno gli amici, non è così? Vorrei solo che lasciasse anche a me la possibilità di consolarlo. Questo è l’ultimo goccio di latte rimasto, porgo a Gem un biglietto mentre appoggio il tè e mi siedo vicino a Julian, sul divano.

Gem mi fa segno: “Qui”. Mi porge le ultime monete da un vaso di vetro sul pavimento. «Prendine un po’ di più per me e poi fagli un bagno, va bene?» Piega la testa verso Julian. Io annuisco. Joel è in piedi sulla soglia che guarda verso Julian squassato dai brividi, penso sia preoccupato per lui. Quando il camlo suona, il trillo fa eco in maniera scomposta. È come quelli che trovi nelle ville vittoriane. Eppure questo luminoso quarto piano, immacolato nonostante le finestre oscurate e l’umidità che traspira attraverso le mura esterne, appare insolitamente perfetto. «Joel, tesoro, controlli tu i ragazzi mentre sto lavorando?» domanda Gem dirigendosi alla porta. Prendo il mio bloc notes e tratteggio un ritratto di Joel. Glielo mostro. Vuoi venire a fare compere con me? Non è bene che lui senta cosa succede dietro le mura, sottili come carta, di quella camera da letto. So che Gem gli ha spiegato qualcosa e so che non si fida di nessun altro in questo quartiere per fargli da baby sitter, ma in ogni caso... Prendiamo l’ascensore, anche se io li odio; Joel li trova eccitanti. Ho lasciato Julian nel bagno mentre si liberava dei vestiti barcollando. Penso avesse bisogno di restare da solo. Ogni volta ci vuole un po’ più di tempo affinché il calore riprenda ad avvolgerlo e il suo splendore ritorni. Vorrei che non avesse mai iniziato. Pensava fosse denaro facile, abbastanza per riuscirci a procurare una stanza da qualche parte, qualcosa su cui costruire un futuro. Già, denaro facile e un pezzetto di anima. Ci fermiamo al parco giochi sulla via del ritorno dal negozio, così da restare via per un po’. Quando torniamo Gem è ancora occupata e Julian è sempre nel bagno. Lascio Joel nel soggiorno con il mio bloc notes e la penna mentre colora il disegno del suo viso, resto in piedi accanto alla porta del bagno.

Non busso. Odio bussare. La gente chiama quando lo faccio e io non posso rispondere. Così apro lentamente e chiudo di nuovo, il cuore mi batte all’impazzata. Sebbene non abbia visto molto, solo uno specchio che Julian teneva in mano e in equilibrio precario, sono comunque incollato al mio posto quando, qualche secondo più tardi, Julian esce di corsa dalla stanza con l’acqua che scola sul pavimento e un piccolo asciugamano attorno alla vita. Scusami, mi affretto a gesticolare. Sono davvero mortificato. Si potrebbe pensare che tra di noi non ci siano segreti, vivendo come viviamo. L’ho visto nudo tante volte, ma non l’ho mai visto così esposto nell’esaminare se stesso. Mi afferra per le braccia e mi attira nel bagno, chiudendo dolcemente la porta dietro di me. Si infila una mano tra i capelli, deglutisce forte. «Continuo a sanguinare». Oddio. Tasto le tasche in maniera ossessiva alla ricerca del mio bloc-notes, poi ricordo che ce l’ha Joel nell’altra stanza. Cosa posso fare? Dico a gesti. Vuoi che chiami Gem? Non sono neppure sicuro mi capisca. «Non volevo che mi vedessi così» mugola piano, senza incrociare i miei occhi sebbene io lo implori di guardarmi. È così ingiusto quando la gente non ti guarda, specialmente quando ti dicono una cosa come questa. La porta all’ingresso si chiude bruscamente, penso che il cliente di Gem stia per andarsene. Afferro la maniglia. E perché non vuole che io lo veda così? Non c’è differenza tra questo e fare il bagno nudi nel lago, agitarsi nell’acqua gelida per riscaldarsi o sgattaiolare nelle docce della piscina comunale e dividere lo stesso cubicolo, stringersi più vicino, le nostre membra coperte di schiuma allacciate, deliziosamente scivolose; sono dovuto uscire prima che si rendesse conto di quanto mi pie. Non si rende conto di come lo guardo? Non riesco mai a togliergli gli occhi addosso. Il suo sorriso mi fa sciogliere. Pensa forse che lo considererò di meno solo perché qualche sua parte intima è ferita e sanguinante? Quanto cazzo è stupida ‘sta cosa?

O... o... non è che non vuole? Che tutto d’un tratto gli dà fastidio che lo veda nudo? È cambiato qualcosa nella nostra amicizia? Ma... Lui si accorge che la mia mente sta lavorando in maniera folle e toglie con delicatezza la mia mano dalla maniglia, scuotendo la testa. Non è ciò che voleva dire. Niente di tutto questo. «Remee? Puoi controllarmi?» sussurra, la sua voce piena di incertezza. Con uno sforzo allarga l’asciugamano sul pavimento e vi si stende a faccia in giù. Ne arrotola un altro e lo infila sotto le anche così da sollevarle. Riesco a vedere che sta ancora sanguinando ma non molto; però il sangue scorre in un piccolo rivolo lungo la coscia. La pelle è ancora dolcemente arrossata dal calore del bagno appena fatto e ci sono dozzine di lividi, segni di ditate sopra i suoi fianchi stretti. Le mie mani le sfiorano, troppo spaventate per muoversi. Lui gira la testa e quei suoi occhi color ambra mi inghiottiscono completamente. Cerco di immaginare di essere un infermiere d’ospedale e che lui sia un mio paziente. Sono calmo e mi convinco a fare quello che devo: ho bisogno di mettergli le mani sui glutei e scostarli. Devo vedere perché sta sanguinando. Sarà un taglio, un livido, un graffio? Sarà netto? Avrà bisogno di punti di sutura? Ma quando appoggio la mano sul suo fondoschiena per prepararlo al mio tocco, tutte queste sensazioni iniziano a ruotarmi attorno e dentro, come foglie che vorticano nel vento e la mia mente va in tilt in modo terrificante. La sua pelle è calda, leggermente umida e, oh! Così soffice! Mentre sfioro con la mano il fascio di nervi alla base del suo fondoschiena, lui rabbrividisce e la pelle d’oca gli riempie le braccia. Ritiro in fretta la mano per paura che sia gelata. Sono sempre freddo, ma quando la porto alla guancia non mi sembra poi tanto. Mi guarda per tutto il tempo. Sento il volto che inizia ad avvampare e ho troppo caldo con questi vestiti, mi sento scomodo nella mia stessa pelle. Devo smetterla. Devo piantarla di pensare alle mie paure e concentrarmi su di lui. Questa cosa è troppo importante. Nonostante la sua struttura sottile, i glutei sono pieni e rotondi e nient’affatto ossuti. Li sento perfetti sotto le mie mani. Cerco di pensare al suo corpo in

termini anatomici astratti. Lotto affinché il mio cuore rallenti ma non c’è storia. Schiudo delicatamente facendo attenzione alle ferite. Non so cosa mi sia immaginato ma mi vergogno di averne avuto paura. È tutto così normale alla vista e non avevo mai guardato nessuno da questa angolazione. Quando alzo lo sguardo per rassicurarlo che non andrò via di testa, vedo che i suoi occhi sono chiusi, strizzati. Mentre i secondi ano e io sbircio nelle sue parti nascoste, si stringono sempre più. Prendo un fazzolettino per pulire via il sangue e scopro che il graffio non è profondo. Il sanguinamento si è quasi fermato e io sono così preoccupato di essere gentile e accurato, che involontariamente sussulto quando bussano delicatamente alla porta. Julian si volta e sentendosi improvvisamente esposto si copre con un asciugamano. «Sì?» domanda. La porta si apre leggermente. La testa di Gem fa capolino. «Va tutto bene?» Corruga la fronte quando vede che sto ammucchiando fazzolettini zuppi di sangue. «Stai ancora sanguinando, Julian.» Non è una domanda. Sparisce e ritorna un minuto più tardi con una scatola di quei guanti di gomma che trovi negli ospedali. «Non puoi essere mai abbastanza prudente» mi dice mentre si infila dentro il piccolo bagno e si inginocchia sul pavimento. «Dimmi che quel pezzo di merda ha usato una protezione.» Julian scrolla le spalle e non la guarda negli occhi. Immagino che non voglia parlarne, probabilmente perché ci sono qui io. «Andiamo» dice con impazienza lei, infilandosi un guanto per mano. «Fammi vedere.» A sua discolpa, Julian sembra quasi voler strisciare sotto i sanitari piuttosto che avere un’altra persona a guardargli nell’intimo.

Gem piega la testa da una parte. «Non è che non ti abbia mai visto prima.» I miei occhi incrociano quelli di Julian. «Come tu faccia a sentirti ancora in imbarazzo per questo, non ne ho proprio idea» continua sorridendo. Io allontano lo sguardo per primo. È stupido, date le circostanze, ma improvvisamente mi sento male e infastidito, come se qualcuno avesse improvvisamente tirato via il pavimento e io non sappia quale sia la direzione giusta. Sapevo che c’era qualcosa tra loro. Una storia, una breve avventura. Nel profondo io lo sapevo. Si può intuire dalla loro complicità che sono stati uniti. Ma averne la conferma... avere la conferma che Julian non sia gay, che tutte quelle piccole cose, quegli sguardi, il suo tocco, i sorrisi a cui cerco di dare un significato, dopo tutto non significano proprio niente. E so che non è neppure bisessuale. Una volta ho sentito dire a Cassey che avrebbe desiderato esserlo, che avrebbe reso le cose più facili, qualunque cosa volesse dire. «Remee?» la mano di Julian mi sfiora il braccio «Cosa c’è che non va?» Scarabocchio nell’aria, mimando per dirgli che sto andando a prendere il mio bloc notes. Non appena sono nel soggiorno, strappo la pagina per Joel, lo bacio sulla fronte e lascio l’appartamento. Se crollo qui, Julian vorrà sapere cosa mi ha reso così infelice e non posso dirglielo, non ora. Se sapesse come mi sento a causa sua, di certo rovinerei ogni cosa.

Scarabocchi

Il cielo è una nefasta distesa grigio-porpora fin dove l’occhio può guardare. Attraverso le nubi saettano frammenti argentati. C’è così tanta trama e profondità che vorrei poterla dipingere. Non ho mai dipinto nulla... beh, a parte alle elementari dove ricoprivo fogli su fogli di carta inumidita di ogni colore immaginabile. Sebbene non si trattasse sul serio di dipinti ma più di atempi per non sentirmi un rifiuto e inadeguato, sommerso dalla musicalità costante delle voci degli altri bambini. Mi appoggiavo all’altalena e lasciavo che la testa toccasse il suolo. Ora posso vedere cosa avrei fatto con il colore, per farlo cantare attraverso di me come... Una lattina sferraglia attraverso la strada tra il parco giochi e la fila di palazzi. Ancora sottosopra, mi volto e noto che un gruppo si sta radunando vicino a un’auto silenziosa, dai vetri oscurati, a qualche metro più avanti dall’entrata degli appartamenti. Lentamente mi alzo in piedi. Non voglio attirare l’attenzione, ma so di essere osservato lo stesso. Come per confermarmelo, una seconda lattina rumoreggia contro la ringhiera che circonda il parco giochi. Grazie a Dio, penso mentre Julian scende rigido le scale, esce dal portone e attraversa la strada verso di me. Il dolore nel mio petto diventa quasi insopportabile mentre noto che la giacca, i jeans e le scarpe che indossa non sono i suoi. Devono appartenere a qualcuno che Gem conosce. Ma gli stanno bene, specialmente la giacca, specie quel colletto alzato per proteggersi dal vento. Sembra un ragazzo che una volta ho visto in un film. La giacca per lui era come una specie di firma. L’indossava per l’intero film, alla fine coperto di sangue. Il cancello del parco giochi cigola mentre lo apre. Julian lancia occhiate oblique alla folla che ci sta osservando raccolta verso l’auto. Si gira e i suoi occhi sono rivolti verso di me. Finge di non aver notato nulla. «Stai bene?» sillaba con le sole labbra. Annuisco, la mia testa si muove appena. Mi domando se si accorga di quanto

siano gonfi e rossi i miei occhi. Ci scansiamo all’unisono quando una terza lattina vola in aria e colpisce la sbarra sopra le nostre teste con un rumore sordo. «Dovremmo andarcene» dice dolcemente. È tardi quando torniamo verso l’Argine. Il cielo turbolento dell’autunno si sta oscurando come un corvo. Non so dove dormiremo stanotte, ma l’incerata lacera che usiamo per coprirci è nascosta sotto i contenitori del Bar di Joe Brown, così andiamo subito lì. Mentre Julian si dirige verso il retro del caffè, io siedo su una panchina e disegno il fiume. Cerco di non pensare a quanto ho freddo. Mi congelo facilmente ed essere stanco e affamato tanto a lungo non aiuta di certo. Almeno quando disegno posso dimenticarmene. Posso scordarmi di tutto e perdermi cercando di creare qualcosa di bello. Sebbene immergersi completamente in un’attività non sia del tutto una buona idea. Per strada è essenziale restare in allerta con almeno metà della propria attenzione. Il contenitore mi colpisce mandandomi lungo disteso sul cemento, poi tutto ciò che di disgustoso contiene si riversa sul mio corpo ancora sotto shock. Lloyd e la sua ombra incombono su di me. Oh, cazzo. Combatto con le schifezze che mi sono piovute addosso mentre barcollo e mi preparo a correre. Jack, l’ombra, si sposta dietro di me in modo da intercettarmi. Le mie possibilità di fuga si riducono in maniera significativa. Posso andare contro Lloyd, verso Jack, nel fiume oppure scavalcare la panchina. È inutile e lo so, ma cerco di scavalcare la panchina in ogni caso. Mi spingono giù senza sforzo prima che abbia neppure fatto due i e tutta

l’aria abbandona il mio corpo in un colpo rapido e violento. Non sono leggeri come piume o affamati o stremati. Sono pronti alla lotta e così tanto più forti di me. Non mi prendo neppure la briga di lottare. Sarebbe uno spreco di preziosa energia. Lloyd si siede sul mio petto, sfogliando il mio bloc notes e schiacciandomi le costole. Con la coda dell’occhio vedo Julian girare l’angolo e due pensieri mi colpiscono simultaneamente. Il primo è che voglio che scappi. So che gli farebbero del male, in maniera pesante e irreparabile e senza alcuna remora. Il secondo non è così generoso: voglio che lui veda cosa mi stanno facendo e che li faccia secchi. Lloyd mi odia, e a causa mia, odia Julian. Cinque mesi fa, Lloyd e la gang con cui se ne va in giro, mi ha picchiato selvaggiamente tanto che non ho potuto più camminare per parecchio, dopo. L’unica ragione per cui non mi ha ucciso è perché un ragazzino senza paura si è messo a correre brandendo una mazza di ferro, lasciandone almeno due per terra senza conoscenza e quasi staccando un occhio a Lloyd. Julian. Allora lui non mi conosceva e ha rischiato grosso per aiutarmi. Non ho idea del perché lo abbia fatto. Dopo si è occupato di me, mi ha portato in una piscina pubblica all’aperto, abbandonata dalla parte sud del fiume e si è preso cura di me fino a quando non sono guarito. Da allora siamo stati sempre insieme. «Che cosa se ne fa un piccolo sudicio frocio rifugiato di una cosa come questa?» Lloyd sfoglia le pagine del libro davanti alla mia faccia. Mi sto impanicando tanto da essere prossimo allo svenimento. Non ho idea del perché Lloyd pensi che sono un rifugiato. «È talmente un ritardato del cazzo che non riesce neppure a rispondere» ride Jack mentre cerca di schiacciarmi la mano che disperatamente riesco a sottrarre dalla stretta di Lloyd subito prima che lo stivale di Jack colpisca il suolo. In distanza sento un vetro rompersi. Lloyd tiene la mia penna a qualche millimetro dal mio occhio destro. Ha una brutta cicatrice sulla faccia, opera di Julian. Non riesco a respirare.

«Dov’è il tuo ragazzo? Un uccellino mi ha detto che lo avremmo trovato qui attorno, perciò dov’è?» Il mio ragazzo. È quello che tutti pensano? E dove cazzo è Julian? Si è appena sbarazzato di me? Sembra proprio che morirò qui. Improvvisamente arriva il suono di un clacson, lungo e forte. Istantaneamente l’intera situazione cambia di direzione. Lloyd dà uno sguardo alla strada e poi a Jack mi si toglie di dosso. Il clacson era un segnale per loro. «Di’ a Julian che verremo per lui. Digli che fa meglio se si guarda le sue cazzo di spalle» sibila, tirando fuori un accendino dorato e osservando le fiamme lambire le pagine dei miei disegni prima di far cadere il libricino per terra. Con le dita fa il gesto di puntarmi una pistola addosso e di fare fuoco. Poi entrambi si voltano e corrono verso l’auto che li sta aspettando. Venti secondi più tardi sono ancora disteso per terra, guardo le fiamme sottili distruggere tutto ciò di cui ero orgoglioso mentre Julian corre verso di me con una mazza da baseball in mano. Con occhi da pazzo scivola sul terreno fino alla mia testa. «Sei ferito?» Alla cieca, sbatto le palpebre per ricacciare indietro le lacrime e scuoto la testa. Non voglio alzarmi. «Dove sono?» Andati Via Andati Via Andati Via, dico a gesti ancora e ancora fino a che Julian mi avvolge con le braccia per fermarmi.

Pieni di vuoto

Dove hai preso la mazza? Scrivo. Sono seduto senza energia sul terreno bagnato, appoggiato alla panchina. Prima sono andato a cercare un bastoncino in modo da formare alcune parole nel fango. Non sono sicuro perché ho fatto quella domanda. Non sono sicuro neppure di essere interessato alla risposta ora come ora. «Sono entrato nel panico» dice sottovoce. «Quando li ho visti... non avevo niente da... usare. Mi sono guardato intorno, ma non c’era niente. Così ho rotto una vetrina del bar.» Gratta distrattamente il sangue che si sta asciugando sulle nocche. «Sapevo che Cassey teneva una mazza da baseball sotto il bancone in caso ci fossero problemi, così l’ho presa.» Quindi quello era il rumore del vetro che ho sentito rompersi. Lentamente spezzo il bastoncino in pezzetti più sottili. Non voglio più continuare questo discorso. Ma Julian continua con un sospiro tremante. «Pensavo di essere arrivato troppo tardi. Pensavo ti avessero fatto del male. Mi spiace di averci messo così tanto. Mi spiace per il tuo bloc notes.» Con cautela raccoglie la copertina carbonizzata e ormai inutile e a il pollice sulle pagine bruciate. Non ce la faccio più. Glielo strappo dalle mani con sgarbo e lo lancio via, lontano dalla nostra vista. «Te ne prenderò un altro.» Mi fissa con quel suo sguardo tenero e preoccupato che ora come ora non riesco a sopportare. Chiudi il becco, vorrei urlargli. Chiudi quella cazzo di bocca. Sono pieno di una rabbia inutile e sorda. Voglio colpire qualcosa.

Inizia a piovere. Gocce sottili di pioggia che vengono giù in fretta portate dal vento, come spruzzi di acqua di mare. Julian si alza e si allontana per prendere l’incerata. Penso che sappia che non mi muoverei per niente al mondo. «Sei incazzato» commenta mentre ci avvolge con il lenzuolo blu. È un cazzo di eufemismo. Ma non gli rivolgo lo sguardo anche se vorrei. Invece osservo le mie inutili mani e mi aggrappo alle cuciture allentate che tengono insieme il telone. «È per via... del tuo bloc notes... o per causa... mia?» Alzo le spalle. Non abbiamo mai litigato prima d’ora. In genere io mi chiudo semplicemente in me stesso. Ma voglio... qualcosa. Vorrei poter digitare Tua. È per colpa tua, anche se non lo è. Non sarebbe mai colpa sua. Lui è il mio migliore amico. Ma la frustrazione che sento mi fa venire voglia di urlare, anche se io non ho mai gridato in vita mia. Ho così bisogno di sfogarmi ululando. Ho voglia di litigare. Lui lo capisce, comunque. Pensa di essere lui, perché io non gli ho fatto sapere che invece non lo è. Ha questo strano sorriso sul viso che non è affatto un vero sorriso, ma un modo per mantenere il volto in posizione rigida in modo da poter nascondere le proprie emozioni. Giocherella con i lacci delle scarpe che gli hanno prestato. Questi sentimenti che ho dentro, tutto quello che mi ha fatto incazzare oggi, il risentimento in agguato che solitamente riesco a schiacciare, brontola per esser lasciato andare. Vorrei strappare il mondo a pezzettini e guardarli bruciare. Sei riuscito a farti pagare prima? Gesticolo. Prima, cioè quando si è fatto scopare. Quando lo hanno ferito così tanto da poter a malapena camminare e ha sanguinato per oltre un’ora, dopo. Devo gesticolare la mia domanda una seconda volta prima che mi capisca mentre la mia amara frustrazione sta ribollendo ed è in procinto di uscire. Vorrei poter singhiozzare. Annuisce ed estrae una banconota stropicciata da venti. Le sue mani stanno tremando. Vorrei che si limitasse a litigare con me.

Dovrai dare a Cassey il denaro per quel vetro. Mi guarda come se fossi diventato matto. La vetrina, segno di nuovo, lentamente, come se lui fosse stupido. E non lo è affatto. Sto diventando odioso e lo so, ma non riesco a smettere. Mi odio e detesto doverlo fare con la scusa di preoccuparmi per Cassey. Mi preoccupo sul serio per Cassey, ma non me ne frega un cazzo della sua cazzo di vetrina; se la può far ripagare dall’assicurazione. Di nuovo, Julian annuisce. Smettila di darmi ragione, cazzo! Vorrei urlargli. Dimmi che sono un cazzo di stronzo, dimmi di smetterla! Mi alzo e con rabbia gli getto addosso la mia parte di cerata. Mi allontano e mi appoggio al muro spesso che separa la banchina dal fiume. Che cosa cazzo sto facendo? Qualunque cosa sia, mi sta distruggendo. Affondo le unghie nei palmi fino a quando non sanguinano e guardo verso il fiume sporco e grigio, aspro e ruvido sotto la pioggia. Qualche minuto più tardi sento che l’incerata viene avvolta attorno alla mia testa e Julian è in piedi accanto a me. Vorrei disperatamente annullare la distanza tra noi e appoggiare la mia testa sulla sua spalla. Ma non lo faccio. È tardi e stiamo andando in giro senza meta. Ogni tanto Julian mi lancia un’occhiata, ma io sono irrequieto e ho voglia di piangere. Vorrei scusarmi ma non so come. iamo davanti a Cricket e Roxy, che se ne stanno accovacciati sotto un’oscura scalinata di cemento che sale fin su una delle erelle sopraelevate che oltreano il fiume. Cancella tutto. Io o avanti. Julian invece si ferma. Riluttante lo seguo fin verso di loro.

Stanno bevendo, il che significa che Cricket deve aver trovato un compratore per qualunque cosa stesse vendendo nel bar di John Brown. È già così partito che offre a Julian una lattina gratis, mentre Roxy si appoggia sul suo grembo mezzo addormentato. Non sapevo che avessero una storia. Ma forse non è così. Qualche volta tutto ciò che abbiamo è un facile affetto e sebbene non ci si possa fare affidamento a lungo, penso che renda più sopportabile la solitudine. Roxy una volta era Robyn ed era mio amico, prima che incontrassi Julian. Era dolce, allora, pieno di angoscia e meraviglia, ma i suoi occhi grandi e rotondi e la sua pelle soffice e color caramello lo rendevano... non so... desiderabile, credo. Ora, invece, sembra semplicemente... perso. Siedo su una delle lastre dalla forma strana che tassellano il terreno ma fuori alla pioggia, lontano da loro. Sono infantile, lo so, ma qualche volta semplicemente non riesco a frenarmi. A volte non c’è modo di frenare, per lo meno se stessi. Julian mi porge una lattina ma io scuoto la testa con gusto perverso. Divento melenso quando mi ubriaco e mi farebbe bene, scuoterebbe questo umore nero e impotente, mi permetterebbe di chiedere scusa. Invece mi mordo l’interno delle guance mentre li guardo e fingo di osservare per terra. I tre siedono vicini per scaldarsi anche se Cricket puzza e la pelle di Roxy è piena di piaghe. Chiudo gli occhi strizzandoli. Poco dopo sento la cerata che mi colpisce. Senza guardare verso di loro mi avvolgo la plastica attorno e mi accuccio sul terreno. Ho già dormito nel bagnato e nel freddo tante volte prima d’ora, ma è parecchio che non dormivo più da solo.

Ragazzi che si baciano

A una certa ora della notte, mi sveglio e trovo un corpo caldo rannicchiato contro il mio. Siamo così compatibili che pare impossibile non far parte di un solo essere. La pioggia sta scrosciando sul terreno attorno a noi e non ce la faccio a riaddormentarmi sebbene i miei occhi brucino nelle orbite. Ogni tanto Julian stringe più forte, attorno a me, le sue braccia, come se stesse controllando che io sia ancora lì. Che lo faccia mentre sta dormendo, in qualche modo rende la cosa ancor più tenera, una piccola lieve meraviglia notturna tra me e il suo subconscio. Non riesco più a ricordarmi come fosse il tempo in cui lui non c’era ancora, com’ero io quando stavo solo con Roxy-Robyn. Giro la testa per guardare al di sopra di Julian e Cricket, anch’egli rannicchiato allo stesso modo sotto due sacchi a pelo laceri. Julian mormora nel sonno e io premo di nuovo contro di lui, mi faccio ancora più vicino, quanto più stretto a lui sia possibile senza dover ammettere che questa cosa, per me, è ben più di un rapporto tra amici/fratelli/qualunque-cosa-tu-voglia-chiamarla. Anche Robyn e io eravamo uniti. Anche più che amici, ma solo una volta o due. E non era così. Niente in tutta l’intera mia vita è stato così. Se piego la testa all’indietro, il suo fiato caldo mi scivola sulla gola e posso illudermi che mi stia baciando. Posso spostare il corpo in modo che le sue mani si muovano verso il basso del mio ventre... ma mi fa diventare duro ed è frustrante e poi non è giusto comportarmi in questo modo con lui, non se lui non prova lo stesso. Poco prima dell’alba sento Cricket urlare. Qualche minuto più tardi un vento ghiacciato ci frusta mentre la cerata viene sbalzata via dai nostri corpi. Tre poliziotti con giubbotti spessi ci sovrastano in maniera intimidatoria. Sembrano dei culturisti.

Uno stivale preme sul ventre di Julian, spingendolo più avanti verso il terreno bagnato. Mi guarda e sorride dolcemente. Polizia eh? La maggior parte di loro sono stronzi colossali. «Non vi abbiamo già fatto spostare stanotte?» domanda uno di loro come se fosse un insegnante che interroga i suoi alunni a proposito di un certo cattivo comportamento; come se avessimo facoltà di scelta se dormire o meno sotto una dannata pioggia. Julian scuote la testa. Sta guardando lo stivale. La sua esperienza con i poliziotti è peggiore rispetto alla mia. Cricket e Roxy si ritraggono, osservando. Lo stronzo più basso del gruppo si accovaccia e allunga una mano come se volesse arla sulla mia testa liscia e rasata. Rabbrividisco, involontariamente. Julian chiude gli occhi prima di spingere via lo stivale dalla pancia per farmi alzare, attirandomi a sé. Loro piegano la nostra cerata. «Confiscata.» Julian si porta una mano sui capelli bagnati. «Sta piovendo, cazzo!» prega. «Chissà che non vi convinca a lasciare la strada e trovare riparo in un rifugio, allora.» Un rifugio? Che scherzo del cazzo. C’è così tanta violenza e spaccio nei rifugi da non avere altra scelta. Ma non c’è modo di discuterne con loro. Julian guarda verso Cricket e ce ne andiamo via. I poliziotti parlano tra di loro, i loro abiti impermeabilizzati frusciano mentre si allontanano, sicuramente per decidere di gettare la nostra cerata da qualche parte dove non potremmo più ritrovarla. Cassey apre il bar tutti i giorni alle sette in punto. Adesso non dovrebbe essere troppo presto, visto che i pendolari vestiti di nero stanno iniziando a riempire a frotte le strade grigie. L’idea di tornarci dopo che Lloyd mi ha bloccato proprio lì fuori mi riempie di paura ma non abbiamo altro posto dove andare.

Camminiamo fianco a fianco, la testa piegata nel vento. Julian ogni tanto mi lancia un’occhiata furtiva. «Sei sempre arrabbiato con me?» mi domanda dolcemente. Aspetto che si giri a guardarmi direttamente e poi scuoto la testa con vigore. Assolutamente no, cazzo. Mi dispiace, gesticolo, perché è facile dirlo adesso. Ero sconvolto. Vorrei averglielo detto ieri notte. Prima di arrivare da Cassey gli dico di Lloyd e delle sue minacce, del fatto che era lì per lui. Mi rendo conto, con un nauseabondo senso di urgenza, che dobbiamo trovare un altro posto dove andare, un luogo qualunque lontano da qui, al di là del fiume forse, o molto più semplicemente a nord, verso i grandi parchi. Mi guarda con cautela, intento a seguire il linguaggio dei segni. Amo ottenere la sua completa attenzione come in questo momento. Quando ho finito afferra le mie dita ora fredde per via della pioggia. «Okay» dice. «Prima però riscaldiamoci.» Paghiamo per il nostro tè, ma Cassey ci dà da mangiare un panino per ciascuno e gratis. Non fa cenno alla vetrina rotta. Se lo avesse fatto, credo sarei morto per la vergogna, specialmente se Julian le avesse realmente offerto i suoi soldi. «Cos’è successo al tuo bloc-notes, tesoro?» mi chiede a metà mattina, andomi uno dei suoi taccuini per le ordinazioni. Io disegno in continuazione. Credo abbia notato che non lo stavo facendo. Spingo via il blocco e guardo verso Julian. Lui le dice che certi ragazzini me lo hanno distrutto. «Tutti i tuoi bellissimi disegni!» esclama lei. Tutti perduti, faccio segno prima che possa fermarmi.

Asciugo gli occhi con una mano e mi alzo per camminare un poco. Cassey è fin troppo dispiaciuta per me già così. Ma Julian afferra la mia mano e armeggia nella sua tasca. Tira fuori un piccolo sacchetto di plastica. Me lo porge, incapace di incontrare il mio sguardo. Cassey si allontana un attimo per occuparsi di un cliente, così mi siedo di nuovo e apro il sacchetto con curiosità. Sfoglio la carta all’interno e vedo che si tratta di un disegno, il mio disegno; quello di due ragazzi che si baciano su un autobus. L’ho disegnato la prima volta che sono scappato via, persino prima di incontrare Robyn. I ragazzi erano seduti di fronte a me, per questo il disegno raffigura il retro delle teste piegate e le loro bocche. Ero così incantato da ciò che stavano facendo su quell’autobus, in modo che il mondo intero li vedesse. Erano bellissimi. Pensavo che il disegno fosse ben nascosto nella copertina principale del mio bloc-notes. Ovviamente non era così. Lo distendo sul bancone e cerco di appiattirne le pieghe. Julian guarda le proprie mani che avvolgono la tazza del tè. Vorrei lanciargli le braccia al collo ma lui si è chiuso in sé e io sono troppo timido per intromettermi. «È uno dei tuoi disegni?» chiede Cassey girando il foglio con grazia per guardarlo. «È bellissimo» commenta pensierosa. Con cautela lo ripiego e lo ridò a Julian. «È tuo,» dice dolcemente, scuotendo la testa, la luce che ne esalta i bagliori dorati. È così bello. Con un improvviso guizzo di ispirazione prendo il disegno e lo porgo a Cassey. Indico con il dito le pareti spoglie che circondano il caffè. Lei sorride, scuotendo la testa. «È tutto ciò che ti è rimasto» sussurra. Afferro il suo taccuino per le ordinazioni. Posso disegnarne altri, scrivo con determinazione. Sembra così futile l’aver nascosto delle cose così come ho fatto, disegni che ora

nessuno mai più potrà vedere. Se a lei piace veramente, voglio che lei abbia il mio disegno. Sorridendo, mi chiede di firmarlo, promettendo che lo incornicerà e lo appenderà sul muro del caffè. Senza neppure dare a ciò che ci circonda il beneficio di un’occhiata di addio, decidiamo di andare verso nord, lontano dal fiume. Non mi sento troppo bene oggi e camminiamo lentamente. Sta sempre piovendo. La scorsa notte, Cricket ha parlato a Julian di una casa occupata sulla Euston non molto lontano dal parco. Ha detto di aver sentito che il tipo che gestisce quel posto è sempre alla ricerca di nuovi ragazzi. Gli piace fare loro delle foto e la casa abusiva fa parte dell’accordo. Non abbiamo un indirizzo, solo una foto dell’edificio su un volantino preso da una cabina telefonica. Come sempre Julian non dice gran che e mi lascia riempire gli spazi vuoti. Fotografie vuol dire porno, significano immagini di Julian, non mie. Lui non lascerebbe mai che mi mettessi in una situazione del genere. Non so come io faccia a saperlo; so solo di saperlo ma, per lo meno, non rischia la sua vita o la salute in qualche tunnel buio e del terrore, con la paura che mi assale ogni minuto quando lui è lontano. Per lo meno non questo.

Istantanee

Oxford Street è una sorta di strano inferno per i masochisti dello shopping. Le spalle mi fanno male, i piedi anche e io, in ogni caso, non ho più voglia di continuare a essere spintonato, sbalzato o schiacciato mentre camminiamo sul marciapiede affollato. Alla gente non gliene frega niente. E a meno che tu non spinga o schiacci a tua volta, sei semplicemente invisibile. Julian afferra la mia mano e, grazie al Cielo, mi trascina fuori da quella marea di persone. «Chiudi gli occhi» dice con un sorriso misterioso. Quando lo faccio, lui mi fa ruotare con delicatezza fino a quando la mia schiena non si appoggia contro la superficie liscia di un vetro che presumo sia quello di una vetrina. «Aspetta qui.» E poi se ne va. L’aria odora di nero come catrame. Per lo meno giù al fiume la brezza soffia via il nero. E sebbene la pioggia si sia placata, percepisco sempre la goccia occasionale che mi scivola sulla pelle. Qualche minuto dopo ritorna. «Allunga le mani... No, tieni gli occhi chiusi.» Sta sorridendo. Posso sentirlo dalla voce. Mi posa qualcosa di pesante e largo sulle mani tese. «Okay, adesso puoi aprire gli occhi.» Mi sento uno di quei bambini che ho visto in TV, ragazzini alle festicciole di compleanno o seduti di fronte a un albero di Natale, gli occhi spalancati dalla

meraviglia davanti alla pila di regali incartati solo per loro. Ma non si tratta di una pila di regali. È uno solo. Il fatto è che non ne ho mai ricevuti prima; beh, non qualcosa scelto apposta per me, in ogni caso. Do una rapida occhiata in alto, verso il nome del negozio e vedo che è lo stesso del nome scritto sul sacchetto tra le mie mani. Julian piega la testa e abbassa gli occhi facendo sembrare incredibilmente lunghe le sue ciglia contro le guance che arrossiscono debolmente. «Aprilo» mi invita dolcemente. E così faccio. Emozionato ed esitante, estraggo un album da disegno di carta bellissima e spessa, la copertina rigida della misura perfetta per la mia tasca e un set di penne, tutte di diversa consistenza. Lui sa che amo disegnare a penna. C’è anche lo scontrino del negozio che lui fa sparire prima che possa vederlo. Deve essergli costato tutti i soldi che aveva. Guardo i regali senza realmente vederli. Improvvisamente scoppio in lacrime. Sono scioccato quanto lui dalla mia reazione. E non sono solo una manciata di graziose lacrime di riconoscenza, oh no, sto piangendo a dirotto e senza controllo e la gente sta guardando. «Remee?» Perplesso, mi attira verso il suo petto e mi avvolge le braccia attorno, stringendomi. «Cazzo, tesoro, non piangere,» mi sussurra dolcemente contro un orecchio. Non mi ha mai chiamato tesoro prima. Sembra strano e meraviglioso. Mi fa

sorridere mentre piango. Lo spingo via il più gentilmente possibile. La gola è così annodata che è difficile deglutire. Sono imbarazzatissimo. Grazie, gli dico con le dita, andomi la manica sugli occhi. Adesso sto bene. Julian mi guarda, totalmente sconcertato. Sarebbe la scusa perfetta per baciarlo, anche solo sulla guancia, ma sono troppo vigliacco. La Euston Road non è così lontana, ma io sto iniziando a sentirmi un po’ stordito dalla fame o forse sto un po’ peggio di quanto pensassi. Così ci fermiamo per riposare e io colgo l’opportunità per disegnare un po’. Nel parco ci sono pochi bambini, ma sono affascinato dai loro movimenti e vorrei catturarli. «Sei davvero, davvero bravo, lo sai?» Mi sta seduto così vicino che riesco a sentire il calore che emana. Alzo le spalle, sorridendo. Mi piace che mi guardi. Ci muoviamo prima che la luce del giorno inizi ad andarsene. È appena pomeriggio, ma già i lampioni incominciano ad accendersi. Qualche volta, quando arriva il buio, mi sembra come se l’oscurità rimanesse per sempre. Partendo dalla stazione della metropolitana di Great Portland Street, percorriamo tutta la Euston Road fino alla fine. Ci sono molte case ma nessuna è occupata abusivamente. Impieghiamo più di un’ora. Ci sediamo con poca voglia sul marciapiede vicino alla stazione dei treni di King’s Cross, guardando la piccola foto del biglietto. Mostra una fila di alte case bianche, case costose, nessuna sembra essere occupata abusivamente. In basso c’è un numero di telefono. Poco convinto, Julian tira fuori l’ultimo contante rimasto. Chiamare quel numero è l’ultima risorsa. Per loro sarà facile mandarci via senza nemmeno vederci, ancor più semplice dirci una bugia e ingannarci con ogni sorta di scusa. E che genere di tugurio ha una linea telefonica, in ogni caso?

Ma abbiamo freddo e ne avremo sempre di più (saremo sempre più disperati e affamati) quanto più a lungo rimarremo a guardare quello stupido biglietto. Ci infiliamo insieme nella cabina telefonica all’altro lato della strada rispetto alla stazione e Julian fa quella telefonata. Appoggio la fronte sulla sua spalla per solidarietà e trattengo il respiro, incapace di sopportare il tanfo di piscio. Le strade attorno pullulano di persone dall’aspetto stressato che tornano a casa dal lavoro. Vorrei fossimo come loro. Mi piacerebbe essere in procinto di rientrare a casa. Vorrei tanto averne una. Adesso è parecchio buio fuori, la luce dei lampioni scintilla sulle vetrine. Se strizzo gli occhi sembra che il mondo non sia altro che una gigantesca esplosione di luci con noi che bruciamo al suo interno. Julian tiene il ricevitore in modo che possa ascoltare anch’io. Sta semplicemente suonando e suonando. Mi sorride, curvo e stanco, uno sguardo che non ha bisogno di parole per spiegare. E poi improvvisamente qualcuno risponde e dice: «Pronto? Pronto?» e allora Julian si ricaccia la cornetta contro l’orecchio.

Disse il ragno alla mosca

La voce all’altro capo del telefono dà a Julian un indirizzo e vaghe indicazioni su come arrivarci. È, apparentemente, a solo a cinque minuti di distanza. Ma stiamo camminando già da più di venti. Io davvero, non mi sento affatto bene e vorrei solo fermarmi e riposare. Comincio ad avere la vista annebbiata. Le indicazioni ci portano fuori dalla Euston Road e all’interno di un complesso residenziale fatiscente. Alcuni dei palazzi pericolanti sono alti più di quindici piani, con stretti balconcini di cemento e sporgenti buchi neri per finestre. Non riesco a credere che siano davvero vuoti come sembrano ma il quartiere è avvolto da una quiete spettrale. Ogni tanto le dita di Julian sfiorano le mie e io mi irrigidisco a ogni tocco, immaginando che una scossa di elettricità i tra di noi, un lieve scoppio di fuochi d’artificio. Ma so che sono solo io. So che Julian non sente niente di tutto questo. Probabilmente non si rende neppure conto che ci stiamo toccando. Evitiamo le disordinate macchie rettangolari di fango dove un tempo dovevano crescere erba e fiori e ci manteniamo sul sentiero disseminato di vetri perché, sebbene tutti i lampioni lungo il marciapiede siano accesi, è comunque buio pesto. Sopra di noi il cielo notturno sbadiglia annerendosi, l’aria è gelida e immobile. Una strana e lenta sonnolenza inizia a serpeggiarmi lungo gli arti e inizio a scuotere la testa senza controllo. Julian è curvo di fianco a me, il capo piegato in avanti, come se stesse piovendo. «Merda, Remee. Credo di essermi perso» sussurra Julian nel silenzio, interrompendo il o all’improvviso per arrampicarsi sopra un muro e guardarsi attorno. Ma subito dopo continuiamo, fingendo di sapere dove stiamo andando, facendo finta di non accorgerci di essere seguiti a distanza. Nel tentativo di seminare qualsiasi tipo di ombra, giriamo attorno a ogni palazzo

due volte fino a quando, finalmente, arriviamo a un isolato con lo stesso nome e numero che c’è scritto sul biglietto. Vermillion House, Blocco E, quinto piano. Prendiamo le scale. C’è così tanta immondizia sui gradini che non riesco neppure a vedere il pavimento. Per lo meno la strada di tanto in tanto viene ripulita. Ogni piano ha le finestre barrate e porte di sicurezza, ma non ci sono rumori né segnali di vita. Nel quartiere di Gem a malapena riesci a raggiungere l’entrata senza udire grida o risate o entrambe le cose. Senza controllare il biglietto, ci fermiamo davanti al numero 49. La porta è blu e malconcia. Sopra c’è la parola “Troia”, scarabocchiata da parte a parte a larghe lettere rosse. Non è certo la palazzina alta e bianca sulla Euston Road. È quanto di più lontano dal concetto “casa di città” uno possa immaginare, eppure è sempre e comunque Londra. Ci guardiamo l’un l’altro. Andiamo via, formulo con le dita, non mi piace. Julian sospira profondamente. È davvero stanco. «Non piace nemmeno a me, ma dove possiamo andare?» Alzo le spalle. Ho un gran brutto, davvero brutto, presentimento su questo posto, ma ha ragione lui, dove potremmo andare? Se torniamo sulla strada, Julian si farà scopare fino diventare cieco come Roxy. Forse pensa che restare qui possa essere un’opportunità e noi, di queste, ne abbiamo davvero poche. Vorrei essere in grado di poterne discutere con lui. Chiude gli occhi e allunga la mano, la posa con cautela contro la porta prima di bussare. Un istante più tardi, un tipo asiatico, alto, in pantaloni neri larghissimi ma a torso nudo, schiude l’uscio di uno spiraglio e guarda verso di noi. I suoi occhi si fermano a lungo su di me e Julian si sposta, mettendosi davanti. «Hai chiamato tu, prima?» domanda il tipo. Julian annuisce.

Il tizio fa un o indietro e spalanca la porta. «Venite dentro» dice offrendoci un sorriso sdentato e sinistro. «Io sono Malik.» Da qualche parte nell’appartamento si sente un cane abbaiare di continuo. Julian non si muove. Ha una cicatrice lunga e sottile sul braccio, lì dove gli era stato ricucito da bambino dopo che un cane lo aveva attaccato. «Ci è stato detto che avremmo potuto trovare un posto dove dormire in cambio di... qualche fotografia» dice esitante. Malik ci guarda di nuovo. Noto quanto duri e freddi siano i suoi occhi mentre saettano dal viso di Julian al mio. «Quanti anni avete?» domanda, gli occhi rivolti su di me. Sostengo il suo sguardo mentre Julian appoggia un piede al mio e dice: «Solo io, non lui. L’accordo è con me». Malik alza le spalle. «Parlerete con Vidal domani. Venite dentro e riposate, sì?» Il calore dell’appartamento inonda l’aria fredda della notte attorno a noi e io mi piego contro Julian, contro la sua solida figura. Non mi importa più del cattivo presentimento che si sta gonfiando al centro del petto. Non mi importa nemmeno che Malik continui a guardarmi. Voglio solo stare al caldo. Sono così stanco. Voglio solo abbandonarmi contro a questo ragazzo splendente, avvolgermi nel suo calore. Qualunque sia la sua decisione, ovunque andremo, mi sento al sicuro se sono con lui. «Hai un cane?» inizia Julian ma Malik alza le mani in aria come se fosse uno stupido e insignificante dettaglio e ci fa cenno di entrare dentro. Veniamo condotti per un corridoio buio e lungo, fino a una stanza quadrata e immersa in una luce fioca. Dietro di noi la porta d’entrata viene chiusa di botto e ho come l’impressione di sentirla attraversare da fulmini pesanti. La prima cosa che noto è che la camera non ha finestre. La seconda sono i dieci

– più o meno – corpi distesi a casaccio sul pavimento mentre dormono. Alcuni condividono le coperte ma, la maggior parte dorme da solo. Il posto ha un odore pungente di muschio, di sudore rappreso ma per lo meno non fa freddo. «Dormirete qui.» Malik ci indica un angolo vicino alla porta. «Avete una coperta?» Scuotiamo la testa. «Okay, vi trovo una coperta. Volete del cibo?» Malik non aspetta la risposta e torna verso il corridoio. Il cane di tanto in tanto abbaia da qualche parte, il suono leggermente più soffocato rispetto a prima. Julian riesce a fatica a sopprimere una smorfia tutte le volte che lo sente. Ci guardiamo. Julian deglutisce e sfiora la mia guancia con le nocche. «Ti proteggerò io» mormora, con gli occhi che cercano i miei. «Qualunque cosa accada. Ti proteggerò. Tu sei la mia famiglia.» Lascio cadere la testa sulla sua spalla e aspiro il suo odore così noto. Anche io ti proteggerò, gli prometto in silenzio. Prendendomi per mano, Julian segue Malik fino a una piccola cucina proprio accanto alla porta d’ingresso. La finestra è tappata dall’interno con un pezzo di scatolone annerito per metà dalla muffa. Tutto ciò che riesco a sentire è odore di cane. Ci sono due uomini, fumano e giocano a carte attorno a una piccola tavola rotonda. Noi restiamo in piedi sulla soglia e guardiamo mentre Malik apre i sudici armadietti uno dopo l’altro, ma sono tutti vuoti. Gli altri ridono di lui. Nessuno presta attenzione a noi. Alla fine Malik trova due pezzi di pane e ce li porge. Abbiamo così tanta fame che non ci importa che siano raffermi e non sappiano di niente. Con uno sguardo inquisitorio sul viso, Malik raccoglie una coperta color topo dal pavimento e ci porge anche quella, ma è la coperta del cane, coperta da macchie gialle e pelo corto e nero. Julian scuote la testa, nossignore e mi trascina di nuovo lungo il corridoio.

Una volta ritrovato il nostro angolino, ci accoccoliamo sul pavimento di cemento gelido, tenendoci il più lontano possibile dagli altri corpi. Julian si toglie il giubbotto e lo distende sopra di noi. «Vedrai che andrà bene» sussurra nel buio. «Ci terremo fuori dalla strada. Questo è solo l’inizio.» Non a molto che scivola nel sonno, mezzo abbandonato addosso a me. Ma nonostante mi senta spossato, qualcosa mi impedisce di lasciarmi andare. Inizia con un panico lieve al pensiero di questo posto senza finestre e poi contempla la possibilità di perdere Julian; infine si trasforma in mal di testa che peggiora sempre più finché non inizio a delirare e a star davvero male. Quando cerco di sedermi, Julian si stiracchia nel buio accanto a me. Allunga una mano e mi afferra il polso. «Cosa c’è che non va?» sussurra. È troppo buio per rispondergli a segni, così gli prendo la mano e la appoggio sulla mia fronte. «Ti fa male la testa?» Annuisco sul suo palmo. «Molto male?» Sta diventando sempre peggio. Gira tutta la stanza. E vomito prima di riuscire a fermarmi o avvisarlo o altro. Odio lo star male – l’ammalarmi, l’odore stesso della malattia, anche solo l’idea – e invece ne sono imbevuto. Oddio, mi sento uno schifo. Julian mi sfiora la schiena con carezze concentriche, cerca di darmi sollievo e mi aiuta ad alzarmi in piedi. Ora è buio pesto. Il bagno è dal lato opposto della

cucina, alla fine del corridoio ma prima che arriviamo fino a lì il cane inizia ad abbaiare e una porta a lato si apre. Una figura che non è Malik appare nell’ombra e ci chiede dove stiamo andando. Ha di fianco a lui il cane al guinzaglio, una cosa nera e tozza con un orecchio strappato e una bocca che ringhia. Senza distogliere gli occhi dal cane, Julian dice rapidamente: «Il mio amico non sta bene. Avete per caso del paracetamolo?» L’ombra svanisce per un secondo, poi ci getta un pacchetto praticamente vuoto prima di scomparire con un grugnito nella stanza assieme al cane, chiudendo la porta. Incespichiamo quasi entrando in un bagno squallido e Julian afferra la mia maglietta coperta di vomito e la fa are da sopra la mia testa. Purtroppo anche il suo giubbotto nuovo ne è praticamente ricoperto. Sciacquiamo i vestiti sotto il rubinetto della vasca marrone rivolgendoci uno sguardo di stupore l’un l’altro quando l’acqua inizia a scaldarsi. Julian si gira verso di me «Ehi, vuoi fare un bagno?» mi domanda con un sorriso. Certo che voglio! Mando giù le pillole e mi siedo sul coperchio del water mentre Julian, con discrezione, cerca in cucina una tazza o una ciotola che possiamo usare per coprire il buco di scarico in modo da trattenere l’acqua nella vasca. Il bagno non è caldo, solo tiepido, e non ci sono né sapone né asciugamano ma non mi importa. La mia testa sta molto meglio solo a guardarlo. Julian si siede sul pavimento davanti alla porta chiusa e mi guarda mentre io lascio vagare la mano distrattamente dentro l’acqua. «Non vai dentro? Non diventerà più calda di così». Lentamente mi sfilo il resto dei vestiti. Sono sudici, hanno tutti bisogno di essere

lavati. Senza concedermi troppo tempo per pensare a quanto saggia possa essere la mia decisione, li getto nella vasca prima di entrarci dentro. Poi, chiudendomi il naso con le dita, mi distendo e scivolo sotto la superfice dell’acqua. Adoro la sensazione di essere completamente sommerso dal liquido e avvolto dal tepore. Resto sotto finché resisto. Quando alla fine riemergo in superficie, Julian sta sbirciando sul bordo della vasca con un’espressione distante sul viso. «Fai sempre così» dice dolcemente, i suoi occhi leggermente acquosi. Alzo le spalle. Lo so. Non mi preoccupo neppure di dirlo con i gesti. Ho trovato un modo perfetto per restare nudo di fronte a Julian senza pensare al fatto di essere nudo di fronte a lui. Per lo meno questa volta non lo è anche lui, sebbene mi stia guardando attentamente. I miei occhi si chiudono mentre sento il fruscio di vestiti che vengono rimossi. Cosa stai facendo? chiedo a gesti, spaventato, mentre Julian si toglie la maglietta e inizia a sbottonarsi i jeans. Lo sguardo che mi restituisce mentre esce saltellando dai pantaloni è lungo e complicato. Certo, è ovvio quello che sta facendo. Cazzo, per fortuna non doveva essere nudo! «Posso?» domanda mentre fa scivolare le sue lunghe, brillanti gambe dentro la vasca e si immerge dalla parte opposta Sono così rilassato che ci vuole un secondo prima che la mia mente si connetta con il corpo, che invece è già più che consapevole della prossimità del suo con il mio. E sebbene non ci stiamo toccando, più io provo a non pensarci, più diventa peggio. Il dolce, dolcissimo dolore alla bocca dello stomaco si intensifica, pulsa e il mio uccello si indurisce senza speranza. Mi metto quasi in ginocchio. «Non uscire» dice in fretta Julian, afferrandomi per il polso.

Non posso guardarlo diritto in faccia. Per favore, faccio segno con le dita, il mio cuore batte così forte che sono sicuro lui riesca a sentirlo. Mi lascia andare immediatamente. Devo sembrare davvero disperato. «Usa la mia maglietta per asciugarti, se vuoi. È abbastanza pulita.» dice con una voce appena percettibile. Mentre mi inginocchio tremante di lato alla vasca, sfregando la pelle con il sottile pezzo di cotone, Julian si guarda semplicemente le mani. Non solleva lo sguardo per dei secoli. Dopo appendiamo i miei vestiti tutt’intorno alla stanza e ci dividiamo ciò che è rimasto dei suoi. Io indosso i suoi jeans e lui si infila la maglietta umida e le mutande. È sempre troppo freddo, non il genere freddo-fuori-sulla-strada, ma tanto da far tremare ugualmente. Julian osserva la coperta del cane dal pavimento della cucina. Credo che il calore vinca su tutto, alla fine, e la prendiamo. Questa volta dormiamo entrambi, in fretta e profondamente, dimenticando che il tempo scorre via nonostante si voglia fermarlo.

Conforto

Mi sveglio all’improvviso, sconvolto per tutte le voci che mormorano attorno a me. Questo disorientamento è normale, uno dei rischi della nostra povera e squallida esistenza da nomadi. Dove cazzo sono? È la domanda che forse mi faccio più spesso. Julian sbatte le palpebre e riprende a dormire. Il suo dove cazzo sono? sembra cedere il posto alla rassegnazione nel momento stesso in cui si ricorda. La sua testa rimbomba contro il pavimento di cemento. Oh. Mi guardo attorno, i ragazzi sotto le coperte sussurrano e si svegliano. Senza volerlo, incontro lo sguardo di qualcuno, uno di circa la mia età che si alza dal pavimento, vicino al muro, e viene verso di noi. La sua pelle è liscia e scura come quella di Gem e ha un bellissimo sorriso aperto. Mi porge la mano e mi accorgo che ne ha solo una. L’altra manca a partire dal polso. Non guardo. Ho già visto persone così sulla strada. So che non è un difetto di nascita. «Io sono Philippe» dice con una voce parecchio stridula e con un accento pesante. Mi siedo e accetto la stretta che mi offre. Il palmo è caldo e fresco contro il mio gelido a morte. Julian si sposta dietro di me, premendosi così vicino che posso sentirlo respirare e avvolge il suo braccio mollemente attorno ai miei fianchi nudi. Se sapesse cosa mi fa tutto questo, beh... credo non lo rifarebbe di nuovo. «Lui è Romeo» dichiara, e io sorrido tra me e me per il modo in cui pronuncia il mio nome, un nome con cui non mi chiama mai. «Io sono Julian.» Non chiama se stesso neppure Julian, sebbene tutti coloro che lo conoscono lo sappiano. Penso che odi quel nome.

Philippe ha quindici anni ed è un rifugiato della Sierra Leone. Non ha aporto. Pensa che la sua famiglia sia morta ed è così palesemente solo da farmi male al cuore. Disegno il suo viso mentre lui e Julian parlano. Malik entra e a in giro ciotole di roba grigiastra che non-ho-idea-di-cosa-sia, ma per lo meno è calda anche se non sa di nulla. Ci dice che dobbiamo esser fuori entro dieci minuti. «Dove andiamo?» chiede Julian a Philippe. «La casa bianca non è molto lontana da qui» risponde Philippe, schiaffandosi tutto il cibo in bocca. Si accorge dello sguardo diffidente di Julian per un attimo e resta un momento a pensare. «Ti fanno delle foto senza vestiti, è tutto. Altri ragazzi fanno altre cose. Te lo chiedono quando vai dentro se vuoi fare altre cose. Qualche volta lo faccio, ma in genere dico di no.» Sembra soddisfatto della sua decisione. Gli mostro lo schizzo che ho disegnato. Sembra piacergli, così lo strappo dal blocco e glielo do. Mi piacerebbe fare questo piuttosto che vederli, un giorno, andare di nuovo in fumo. Mi abbraccia forte e così a lungo che inizio a chiedermi se mi lascerà mai andare. Decido che la sua reazione è molto meglio della soddisfazione che otterrei guardando quel disegno. Julian mi osserva sorridendo, poi abbassa la testa e appoggia la fronte sulla parte alta della mia schiena, tra le scapole. Riesco a sentire il suo respiro sussurrare contro la mia pelle e scendere fino alla fine della spina dorsale. Cazzo. È così piacevole. Quando Philippe si alza per raccogliere i suoi averi, Julian sussurra: «Farai un giorno un disegno così per me?» Cerco di voltarmi a guardarlo, ma lui preme la sua testa più forte contro la mia schiena come se non volesse essere visto, come se non volesse davvero ascoltare

la mia risposta o la temesse. Lo disegnerei? Certamente. Ma ho paura, perché è facile disegnare qualcuno che hai appena incontrato o un estraneo. Non li disegni con il cuore, non stai condividendo la tua anima, non stai mostrando quanto sei innamorato di lui con ogni dannata fibra del tuo essere. Lascio cadere la testa all’indietro. Ho bisogno di dirgli di smetterla perché il suo respiro è così caldo da farmi credere quasi che mi stia baciando. Immagino la sua lingua che guizza contro la mia pelle, circondando ogni vertebra di umido calore. Se potessi gemere, lo farei. Invece, oddio, sto ansimando. La porta che dà sul corridoio si apre e una folata di aria gelida ci separa. Spero che nessuno abbia notato il modo in cui io mi sono sciolto e mi giro rapidamente per vedere che Julian è arrossito dal volto fino al petto. Il mio cuore si stringe per l’imbarazzo di avergli procurato disagio. Senza guardarci, ci alziamo. Nel bagno troviamo i miei vestiti ancora fradici. Rimpiango l’idea stupida che ho avuto di immergerli nella vasca. Non so cosa stavo pensando. Io e Julian ce li dividiamo, anche se lui è parecchi centimetri più alto di me. Prende la maglietta e la felpa, io i pantaloni e indosso la sua maglietta (impregnata del suo delizioso odore) e il cappotto. Mi rendo conto di aver disperatamente bisogno di allentare la tensione. Mi guardo attorno con desiderio. Trenta secondi da solo nel bagno è tutto ciò di cui avrei bisogno. Non mi tocco da più di una settimana. E anche se lo faccio, non penso a Julian. Non posso. Significherebbe rendere il nostro rapporto molto più difficile e problematico. Invece penso a cose astratte, a una bocca su un’altra bocca, una lingua sulla mia pelle, sputo spalmato sulla mia mano ed è quanto basta. Ma purtroppo Philippe ci aspetta davanti alla porta d’entrata mentre intrattiene una conversazione impacciata con Malik che è in cucina con il cane. Grazie al cielo, il cane sta mangiando. Julian lo guarda con diffidenza prima di scivolare fuori. E ce ne andiamo.

––––––––

Il complesso residenziale non sembra molto migliore alla luce del giorno. Desolato e vuoto. L’area è squallida, delimitata da alberi brulli, sconnessi e spellati. Le uniche spruzzate di verde provengono dai denti di leone che si inerpicano attraverso le crepe sul cemento. È fatiscente nell’esatta maniera in cui lo era il Blocco Est, dove mia madre è cresciuta. Aveva qualche foto, ma la ragazza dagli occhi neri, così piccola contro quelle torri di calcestruzzo, infesta i miei pensieri ogni volta che può. Mentre camminiamo mi stringo contro Julian e lui si stringe a me guardandomi per vedere se va tutto bene. Ed è così. Per il momento.

Luce

La luce grigia riempie il cielo bianco e non allevia affatto il nostro umore. Da quando abbiamo lasciato il condominio, abbiamo rinunciato a illuderci che oggi sarà una giornata di quelle buone. Forse sarà un po’ meglio di ieri ma non è che voglia dire molto. Per lo meno abbiamo fatto colazione. Anche se indossiamo dei vestiti bagnati, sebbene ci interessi più di ogni altra cosa stare al caldo, per lo meno non siamo più così affamati. Philippe chiacchiera senza sosta e con nervosismo. Parla di tutto e di nulla. Senza pensarci, butta lì aneddoti della sua infanzia in un piccolo polveroso paesino e storie di violenze di cui è stato testimone o che ha subito sulla strada. Julian non riesce a sopportarlo. Quando è angosciato scompare dentro se stesso e proprio ora, lo so, è preoccupato quanto me; angustiato per la vita in strada, per l’oggi, per le ore da qui in avanti. Capisco così tante cose di lui che nemmeno si immagina. Mi metto tra di loro per permettergli un po’ di privacy. Penso che Philippe abbia capito che non posso parlare perciò mi sorride appena, ma in modo aperto e luminoso. Non ho cuore di fargli capire che non sono anche sordo. Giriamo l’angolo e ci immettiamo in una stradina sconnessa, piena di fruttivendoli arabi e squallidi ristorantini da una sola stanza. È tipico e oscuro qui come in qualsiasi altra strada decadente di questa parte di Londra. In fondo alla via c’è una breve fila di case bianche, nessuna assomiglia a quella della fotografia. Philippe si ferma di fronte a una di esse; in realtà, dice, erano due, ma sono state abbattute per farne una sola, nonostante abbiano una porta d’entrata ciascuna. Tendine bianco sporco sono appese alle finestre e la tinteggiatura chiara si sta scrostando dai muri, ma è più o meno ciò che mi aspettavo rispetto alle torri del quartiere.

Julian stringe le mie dita prima di mettersi di fronte a me, impedendomi di salire i gradini davanti alla porta. Non ci vuole un genio per capire cosa stia per dire. Scuoto la testa persino prima che inizi a parlare. Vengo con te, gli faccio segno. «Remee, per favore...» sussurra implorando mentre poggia una mano calda sulla mia spalla. Detesto lo sguardo che mi offre. Mi taglia in due. Posso farlo, cazzo. Se lo farai tu, allora lo farò insieme a te. È solo il quel cazzo del mio corpo. Siamo tutti nudi sotto i vestiti. Qualunque cosa facciano lì dentro, non possono entrarmi fin nel profondo. L’unica persona a cui permetterò di entrarmi dentro sei tu! Cerco di trasmettergli tutto questo attraverso i miei occhi. Non credo faccia effetto, ma gli o comunque davanti e salgo quasi marciando sui gradini seguendo Philippe. Julian è proprio dietro di me quando la porta nera si spalanca e le tenebre all’interno ci inghiottiscono. In un angolo della mia mente mi sono chiesto come questa cosa funzioni: stare nella casa abusiva, i ragazzi, sempre gli stessi, che giorno dopo giorno tornano qui a farsi fare le stesse fotografie. Non mi pareva che avesse molto senso. Ora che siamo condotti verso un corridoio sudicio, mi accorgo che non è affatto ciò che sembra. Ci sono due porte d’entrata per una ragione: una è per i clienti che pagano per fare le foto, l’altra è per noi. L’umidità pervade l’aria. L’odore mi ricorda quelle case vecchie e derelitte in cui stavo da bambino, le mura che ci crollavano addosso tanto erano distrutte e abbandonate. Seguiamo Philippe fin verso la sala, ma prima che apra la porta in fondo, un tizio con i capelli neri pettinati all’indietro esce dall’ombra e afferra Julian per un braccio. Nessuno nota la sua rassegnazione nel reagire, tranne me. «E tu chi sei?»

Julian lo guarda ma non risponde. Io gli resto accanto, facendo scorrere nervosamente le mani lungo il muro freddo e sconnesso alle mie spalle. «Okay» dice l’uomo strascicando le parole. Il suo accento è simile a quello di Malik ma più pronunciato. «Sono Vidal. Ti ha mandato Malik, non è vero?» Julian fa appena un cenno con la testa, quel poco che è percepibile in questa sinistra oscurità. La luce è soffusa, disegna uno strano gioco di ombre e Vidal appare sfocato e nebuloso. Non riesco a distinguere bene le sue fattezze e non penso che si sia accorto di me. «Sei venuto per guadagnarti da vivere oppure a raggranellare qualche soldo?» domanda e sorride ironico all’alzata di spalle noncurante di Julian. «Julian?» geme Philippe ancora sulla porta. Ma Julian lo ignora. E allora, solo per puro caso, Vidal mi vede. Con lo stesso sguardo predatorio che mi ha riservato ieri Malik, si avvicina furtivo e studia il mio viso con la mano mentre Julian mi spinge indietro con il corpo, con più forza di quanta non vorrebbe e io crollo sul tappeto. Vidal ride e scansa Julian senza tanti riguardi. La sua ombra adesso è molto più definita della nostra. Mi rimette in piedi, mi tocca di nuovo la pelle, la guancia, la gola. «Vuoi portarti a casa un po’ di soldi, ragazzino?» Sento il grido soffocato di Julian ma non lo vedo più. Non voglio che gli facciano del male, perciò obbedisco a quel che mi dice Vidal e annuisco. Niente sembra reale quando mi portano al piano di sopra. Penso di aver spento il cervello nello stesso istante in cui la mano fredda di Vidal mi ha carezzato il volto. Il vento ci fustiga attraverso le crepe di un lucernaio rotto sopra di noi. Il suono mi fa pensare a pioggia che martella contro l’incerata e a un corpo caldo accanto al mio. Ma, per lo meno, quassù non è così buio. Vengo condotto attraverso un dedalo di corridoietti fino a una stanza fredda e

spoglia. Un letto matrimoniale è sospinto fin sotto una grondaia. Su di esso giace un ragazzo nudo. Potrei essere io. Non sono più così sicuro. Sembrano siano ate ore quando scendo le scale ed esco dalla porta principale. Julian e Philippe sono seduti sul marciapiede e si dividono una sigaretta. Julian si guarda attorno quando la porta dietro le mie spalle si chiude con un botto. Ha un occhio nero e il labbro superiore tagliato e gonfio. Niente più casa abusiva allora, penso con freddezza. Ma è dove siamo diretti, noi tre, in silenzio. Ho così tanta paura che Julian sia deluso da me. Mi ha guardato appena da quando sono uscito. Ma prima di entrare in quel tugurio, dice con le labbra qualcosa a Philippe e mi attira in un angolo in ombra tra i palazzi. L’abbraccio che mi dà è feroce e tenero allo stesso tempo, al punto che a malapena riesco a respirare. Mi tocca il viso, il collo, gli occhi con tale disperazione da volerci tutta la mia forza di volontà per non portare le mie dita sul suo labbro ferito. «Merda» dice ripetutamente, al punto da sembrare un singhiozzo. Io tiro fuori il mio blocco. Sto bene, scrivo. Nessuno mi ha fatto del male o nemmeno toccato. È vero. Adesso però ho questo dolore cupo in mezzo al petto per aver fatto quello che ho fatto. Non ha importanza. Non è niente. So di essermela cavata con poco. Erano solo fotografie. Quando mi guarda così, mi pare come se mi scrutasse dentro, come se potesse vedere talmente in profondità da conoscere ogni mia sensazione, verità, bugia. «Staremo nel tugurio stanotte, e poi ce ne andremo.» So che l’idea di stare di nuovo per strada lo sta uccidendo.

Possiamo restare, non era poi così male E ora tocco sul serio la sua faccia ferita, perché non ce la faccio a non farlo. Scuote la testa e la lascia riposare contro la mia. I suoi capelli mi cadono sugli occhi. «Non mi vogliono» dice, così vicino da sentire il suo respiro contro le mie labbra. Che cosa è successo? Con le mani leggermente tremanti prende il mio blocco e scrive con la sua calligrafia fluida e arricciata: Non sono riuscito a fare quello che volevano che fi. Cosa volevano che fi? Sono davvero molto sorpreso che la conversazione si sia spinta fino a tanto. Guarda a lungo la carta, la penna sollevata. Dimmelo, voglio che lo faccia, ho la sensazione che questo sia uno di quei ponti che non abbiamo mai attraversato e deve rendersene conto anche lui. Non sono riuscito, fa una pausa così lunga che penso non finirà mai la frase, ad avere un’erezione, scrive poi alla fine. Sto quasi per scrivere Che cosa? Ma riesco a controllare la mia mano ormai insensibile e scrivo Da quanto? Invece. Due, tre mesi. E cosa ha iniziato a fare, due o tre mesi fa? È da quando ha iniziato a vendere la sua anima sulla strada? Non mi sorprende per un cazzo, sul serio. Vorrei che mi guardasse ma quando non lo fa lo attiro tra le mie braccia e rimaniamo così, in questo modo così strano, per un lungo tempo. Sta iniziando a piovere. Julian strappa la pagina dal mio blocco e la fa a pezzettini piccoli prima di infilarseli in tasca.

«Andiamo» sussurra dolcemente. Philippe ci sta aspettando sulla porta del palazzo. Non sono sicuro di cosa ne pensi di noi ma lui ci sorride come sempre. Quando bussiamo alla porta del tugurio Malik risponde ma anche se siamo sotto la pioggia, non ci lascerà entrare prima delle sei. Mezza giornata a partire da ora. Dividendo l’ultimo denaro rimasto, compriamo delle patatine e le mangiamo sotto una tettoia dell’autobus nei pressi del parco. Penso che siano la cosa più perfetta che abbia mai assaggiato. Prendo il blocco e tratteggio il volto di Julian. Non glielo lascerò vedere però, non fino a quando non sarà terminato. Sembra che qualcosa sia cambiato tra noi da quella sua rivelazione, come se fossimo impercettibilmente più vicini e il mio battito acceleri quando lui mi guarda. Quasi io stessi aspettando che succeda qualcosa.

Aspettando che accada qualcosa

È già buio, e siamo in parecchi ad aspettare qui fuori sul marciapiede sotto alla pioggia gelata, quando Malik apre la porta. Julian lascia scivolare le braccia attorno a me mentre parla ad alcuni e io mi sciolgo al contatto del suo calore. Prima abbiamo raccontato a Philippe che sono muto. Non lo diciamo a troppa gente, non dopo ciò che è successo con Lloyd. Persino Julian non sa l’intera storia. Non sa che è stato Cricket a raccontare a Lloyd che non potevo emettere suono indipendentemente da cosa mi fosse fatto. Non so perché non gliel’ho mai raccontato. Di certo non per lealtà nei confronti di Cricket. Così ora Philippe mi parla e cerca di convincermi a insegnargli il linguaggio dei segni, cosa che è difficile perché a lui manca una mano. Julian vuole che sia meno esplicito e gli lancia un’occhiata di avvertimento, perciò Philippe si rilassa contro la ringhiera bagnata dietro di noi e sussurra in modo quasi impercettibile: «State insieme, voi due?» Io alzo le spalle. Non so cosa voglia dire. Certo che stiamo insieme, siamo sempre insieme. Non posso neppure immaginare di non essere insieme a Julian. La mia vita non sarebbe mia, e, per quanto tragica possa sembrare, non ne vorrei un’altra, non importa quale. «Stavo insieme a una ragazza, una volta, al mio paese.» Continua Philippe con voce roca. Guarda in basso, verso le pozze di nero che si stanno formando sul marciapiede lercio. «Sono scappato la notte che sono venuti a prendere la sua famiglia. Ho cercato di convincerla a fuggire con me. Avrei dovuto insistere.» Allungo la mano per toccargli la sua. È tutto ciò che posso fare senza usare parole. Dopo un po’ Philippe guarda verso Julian e mi dice con le labbra: «È stato dolce con me, oggi. Ci hanno fatto spogliare insieme. Hanno voluto che ci toccassimo a vicenda.»

Mi odio per l’improvviso irrazionale flusso di gelosia che sento crescere e lo combatto ricacciandolo indietro deglutendo. So che non me lo sta dicendo per ferirmi. Sospetto sia proprio l’opposto, ma cazzo se fa male! «Non voleva farlo, ma ha detto che lo faceva per te, per prendersi cura di te. Ci hanno fatto smettere quando è entrato nel panico.» Sento le braccia di Julian che mi si stringono attorno. So che sta ascoltando. Mi lascio andare all’indietro, spingendomi contro il suo abbraccio, contro la sua figura sottile, appena più grande della mia in modo che lui veda che va tutto bene perché l’ho fatto anche io; quello che ho fatto è stato per prendermi cura di lui. Malik apre la porta, tenendo indietro il cane per il collare. Julian aspetta fin quando tutti sono dentro e solo quando Malik riporta il cane in cucina afferra la mia mano e mi spinge dolcemente nella sala. Il cibo viene offerto in giro dentro piatti di carta, prevalentemente pane e una bevanda dal sapore amaro che è appena appena calda. Sediamo tutti sul pavimento in piccoli gruppi, schiaffandoci il cibo in bocca come animali affamati. Non parliamo o assaporiamo. Consumiamo semplicemente perché sappiamo che il cibo non è qualcosa che possiamo dare per scontato. La maggioranza della gente di questo paese non ha idea per un cazzo di cosa voglia dire avere fame e noi non sappiamo quando avremo occasione di mangiare di nuovo. Questo è ciò a cui ci riduciamo quando tutto il testo ci viene portato via. Dopo aver mangiato, continuo con il mio disegno. Non impiego mai molto tempo per ogni cosa che schizzo, ma questo voglio che sia la cosa più bella io abbia mai realizzato. Per lui. Disegno persino il taglio sanguinante sul suo labbro perché è lì e anche nella verità c’è bellezza ed così luminosa e splendente che rende ogni cosa più chiara. Lo amo per via dei suoi difetti, non a prescindere da essi. Per questo sono terrorizzato all’idea che li vedrà quando guarderà il disegno e contemporaneamente, da tempo desidero lui capisca ciò che sento. Philippe si rannicchia dalla sua parte lontano da noi. Penso stia cercando di lasciarci un po’ di spazio.

«Posso vederlo?» sussurra Julian. Mi mordo il labbro e scuoto la testa. Esitante, si sposta e con delicatezza appoggia la testa sul mio grembo con i capelli soffici e color del miele che gli cadono da tutte le parti. Mi guarda dal basso, il suo viso una volta così aperto e vulnerabile mi fa venire voglia di confessare ciò che ho dentro l’anima, ogni singola dannata cosa, e lui solleva la mano come se stesse per toccarmi il volto ma per qualche ragione cambia idea e la rimette giù. Cazzo, penso scoraggiato, il mio cuore che perde il ritmo dei suoi battiti. Uso tutto il mio self-control per continuare a disegnare. Dannazione, sono così confuso. Se qualcun altro mi stesse guardando adesso, saprebbe cosa fare: mi prenderebbe per mano e mi condurrebbe da qualche parte, in un posto più privato in modo da allentare in qualche modo questa dannata e insopportabile tensione. Sono talmente pazzo di te, Julian. Con questo pensiero che frulla furiosamente in testa, finisco il disegno e lo strappo via. Mi alzo dopo averglielo consegnato e corro via, lungo la sala, pregando che il bagno sia vuoto in modo da non dover vedere cosa ne pensa. Circa dieci minuti dopo ritorno e vedo Julian che sta ancora guardando il suo ritratto. Le luci sono adesso più fioche e anche se è presto tutti, in giro per la stanza si stanno sistemando. Quanto cazzo siamo prevedibili, penso abbattuto. Senza guardare in su, Julian mi afferra e mi tira verso il basso. Non dice una parola. Semplicemente mi tiene stretto. Gliene sono grato. Non penso riuscirei in ogni caso a guardarlo. Potremmo semplicemente addormentarci così. Devo ammettere che per me è strano. Non mi addormento facilmente. Mi ci vuole un po’ per rilassarmi e anche

in quel caso mi sembra di essere sempre mezzo sveglio per la maggior parte della notte, l’orecchio teso verso i probabili pericoli. Ma questa volta il sonno è profondo e io sto sognando. Un bel sogno, davvero un gran bel sogno. Uno di quelli che ti fanno sentire bene per ore anche dopo. Sono con qualcuno. Non riesco a vedere il suo corpo o la sua faccia ma posso sentirlo tutto attorno a me, pelle contro pelle, e so chi è. Chi altri potrebbe essere? Mi dice che sono bello senza dire una parola, perché noi abbiamo questo legame, perché lui è dentro di me e la sua lingua è dentro la mia bocca e tutto ciò che posso sentire è il suono lungo da una nota sola... Sbatto gli occhi contro l’oscurità. Il suono è ancora tutto ciò che posso cogliere. Un respiro caldo che mormora contro il mio orecchio. Julian. Sono ancora un po’ fuori fase ma, questa bella sensazione? Adesso è addirittura più bella. Non so come siamo finiti abbracciati l’uno all’altro sul pavimento, considerato che mi sono addormentato mentre gli stavo a cavalcioni in grembo, ma ora siamo distesi sul fianco e uniti a cucchiaio, il petto di Julian contro la mia schiena. Una delle sue braccia è sotto la mia maglietta, agganciata al mio petto e tira forte indietro contro di sé, l’altra... sta sfiorando dolcemente la mia mano in su e in giù, mentre il suo palmo preme contro la patta dei miei jeans e strofina con una lentezza agonizzante la mia erezione indolenzita. Oddio, deve essere ancora quel cazzo di sogno, penso mentre annaspo. È così bello che è quasi doloroso. Le sue dita sfiorano i miei fianchi ancora coperti dalla stoffa e non riesco a fare altro se non inclinarli e poi inarcarli all’indietro verso la sua mano aperta. Lo strofinio è insostenibile. Lui sta ancora mormorando contro il mio orecchio mentre io annaspo, boccheggio e ansimo. Sarà cosciente, almeno, di cosa sta facendo? Ogni pompata è di una lentezza insopportabile, tanto che penso mi possa uccidere. Ma lo voglio. Voglio morire in questo modo ancora e ancora. Voglio di più. Voglio pelle contro pelle. Voglio che la sua mano scenda tra i miei pantaloni. Voglio essere avvolto dal suo pugno. Non voglio durare a lungo, voglio venire.

Oddio, voglio venire. Fammi venire. E poi lui non mormora più. Sta sussurrandomi e leccandomi l’orecchio. «Va tutto bene, tesoro. Va tutto bene.» dice ancora e ancora e io premo la mia mano in basso sopra la sua, tutto è così stretto, e l’intero mio corpo viene scosso da convulsioni mentre vengo. Non ricordo più nulla dopo di questo. Sbatto le palpebre di nuovo mentre la mia esistenza scivola in un’oscurità profonda e sonnolenta e niente mi tocca, nessun sogno, nessun movimento. Uno schizzo gelato mi sveglia. Mi sposto all’indietro, cercando. Ma non ci sono braccia calde attorno a me, nessun corpo caldo vicino al mio. Sono solo. Infatti, come apro gli occhi e mi guardo attorno nella stanza, vedo che è praticamente vuota. Le coperte sono distese ovunque. Tutto sembra... nuvoloso. Qualcosa non va. Qualche metro più in là Philippe si sveglia intontito sbattendo le palpebre. Si guarda intorno sembrando più meravigliato di me. Julian deve essere andato, molto semplicemente, in bagno. La porta d’entrata sbatte fiacca aprendosi e richiudendosi per via del vento. Riesco a vedere che fuori c’è luce, quella luce azzurra del mattino che ogni tanto viene fuori d’inverno ma non ho idea di che ora sia. Ci sono solo altri due nella stanza con noi. La scorsa notte eravamo in dodici. Anche loro si guardano intorno perplessi. Qualcosa non va. Mi rimetto in piedi barcollando, sentendomi male e tremo prima ancora di arrivare al bagno. La porta è aperta e so che sarà vuota. So che Julian non è lì, ma non riesco a crederci. Non posso accettarlo. Non riconosco neppure la stretta di panico che si chiude attorno al petto in modo così familiare, rubandomi il respiro. Tutto si fa brutalmente nero.

Perdita

«Romeo?» Mi fa male la testa. Non voglio aprire gli occhi. «Sta bene?» «Ma che è successo?» Il pavimento del bagno puzza di piscio. L’odore mi disgusta ma non così tanto da farmi muovere. Se mi muovo, devo accettare che questa è la realtà. E non lo è. Non può esserlo. Le voci vanno e vengono dalla stanza. Qualcuno chiude la porta principale per farla smettere di sbattere. «Sono tutti andati. Persino Malik e il cane. Tutta la loro roba, tutto.» «Guarda, le stanze sono vuote...» «C’è qualcosa da mangiare?» «Credo dovremmo andarcene da qui... forse era una specie di gang...» «Non mi sento così bene...» «Ti senti intorpidito, vero? Non capisci? Siamo stati drogati.» «Ieri sera, quella bevanda...» Mi rotolo dolorosamente sulla schiena. Oh. Quella bevanda amara... Non mi sentivo bene. Non mi sento bene. Ma perché? Perché ci avrebbero drogato? Philippe entra nella stanza e si accovaccia vicino a me.

«Stai bene?» Alzo lo sguardo verso le macchie gialle che coprono il soffitto gonfio. Deve sapere che non sto bene. Che non posso... Dov’è Julian, faccio segno disperatamente prima di riuscire a riprendermi. «Non ti capisco» dice piano, impotente. «Mi dispiace.» Per favore, dov’è Julian? Lo so, se non riesco a calmarmi avrò un altro attacco di panico. Chiudo gli occhi strizzandoli. Se penso al fatto che non lo rivedrò più, che qualcosa di brutto gli sta accadendo, al non saper se qualcosa di brutto gli è accaduto o semplicemente il non sapere... non sapere dov’è, se è ferito, cosa farò io? Oh, Dio, che cosa farò? «Sta bene?» «Fatti in là. Sta iper-ventilando. So cosa fare. Mia madre aveva spesso attacchi di panico come questi.» Sento la pressione di una mano in mezzo al petto. Come un pugno. Non posso respirare. «Andrà tutto bene...» qualcuno mi prende la mano, la tiene tra le sue. «Sai perché andrà tutto bene? Perché qualunque cosa tu provi adesso, erà.» La voce fa una pausa mentre io traggo un profondo sospiro d’aria stantia, poi riprende. «Non durerà. Niente dura per sempre, un istante segue sempre un altro. Il bene, il male, il fottuto orrore. Mi sembra di capire che questo sia uno di quei orribili fottuti momenti, giusto?» Annuisco. Lacrime scendono a fiumi lungo il mio viso. «Beh, non è sempre così dannatamente orribile, non è vero? Probabilmente lo è per la maggior parte del tempo, con alcuni sporadici periodi migliori e imprevisti momenti fantastici. Voglio dire, è come la vedo io, in ogni caso. E se per la maggior parte è brutto, ciò rende i momenti fantastici addirittura più belli, non è così? Se questo poi vuole dire che gli sporadici momenti migliori sono in realtà

probabilmente soltanto mediocri, beh... davvero, chi cazzo se ne frega?» Il ragazzo blatera e io apro gli occhi, respirando un po’ meno a fatica. Sorride. Ha capelli corti e castani e occhi di un azzurro molto pallido. Sembra un po’ più grande di me. «Io sono Peter. Ti ho visto arrivare l’altra notte con il tuo amico. Sei sulla strada da molto tempo?» Alzo le spalle. Quanto tempo è “da molto tempo”? Una settimana, una notte, un’ora? «Non può parlare, è muto.» Peter guarda Philippe. Io gesticolo come se stessi scrivendo in aria, e Philippe va a prendermi il blocco e la penna mentre mi trascino in piedi e mi appoggio contro la vasca. Una fredda e orribile apatia mi penetra dentro lasciandomi gli arti scoordinati e pesanti. Non voglio semplicemente muovermi. Peter presenta l’altro ragazzo che si attarda nel bagno, come Nathaniel. Nathaniel sembra nervoso e cammina avanti e indietro, dentro fuori la stanza. Forse dovrebbe darmi fastidio ma mi rendo conto che non me ne frega niente. Philippe mi porge il blocco e io scrivo: Devo trovare il mio amico Julian. Cosa è successo? Dove sono andati? Non sono stupido. So che Peter non sa nulla di ciò che è successo più di quanto non lo sappia io, ma il fare domande stupide mi dà una sorta di bizzarra consolazione. Chiedere di Julian fa sì che lui esista al di là della mia sola anima. «Non ti ha detto che se ne andava?» Scuoto la testa. Posso sentire gli occhi riempirsi di nuovo. Cazzo, sono patetico. «Non so cosa sia successo. Sono venuto qui quattro notti fa. Malik mi ha detto che dovevo guadagnarmi la pagnotta come tutti gli altri, e mi sono fatto la foto in

quella casa e poi siamo tornati qui, come te. Non conoscevo davvero nessuno degli altri ragazzi a parte Nathaniel. Parecchia gente sembrava andare avanti e indietro. Ma mi sono fatto di pillole abbastanza a lungo per sapere che ieri sera ci hanno drogato. L’hanno probabilmente messa nella bevanda, è abbastanza facile schiacciare una confezione di pillole e mescolarle tutte insieme. Se devo tirare a indovinare, penso che lo abbiano fatto per non avere problemi. Non so se gli altri sono andati di loro spontanea volontà ma non c’è segno di una qualche resistenza qui in giro, quindi credo di sì.» Julian non mi avrebbe mai lasciato. Scrivo tremante. Devo farmi forza su questo punto. Peter sorride stanco e annuisce prima di stendere le gambe e alzarsi. «Dovremmo andarcene. Dubito che questo posto rimanga vuoto a lungo e preferisco non essere qui e sottostare alle regole di qualcun altro.» Non voglio andarmene. Se Julian dovesse tornare, come mi troverebbe? Ma non voglio neppure rimanere. Odio questo appartamento sudicio con il suo labirinto di camere buie e finestre rotte. Mi trascino verso la porta principale, sono così indeciso, così insicuro. Ogni decisione sembra essere quella sbagliata. Qualunque scelta che mi rimane non sembra affatto una scelta. Cosa devo fare? Mentre Peter raccoglie le coperte e Nathaniel perquisisce la stanza, Philippe si avvicina e quasi con riluttanza mi porge un pezzo di carta; so che è il disegno che ho fatto a Julian. So che è stato probabilmente lasciato sul pavimento nell’angolo dove abbiamo dormito. So che non è una sorta di segno, ma non posso guardarlo. Il panico mi attraversa ma la stanchezza che sento ora è così profonda e completa che è troppo per me. La porta sbatte contro il muro mentre io corro fuori. In qualche modo faccio fatica a credere che quella merda di sole stia splendendo. I bagliori di luce che si rifrangono sulle pozzanghere del marciapiede sono dolorosi da guardare. «Resto con te» dice Philippe dal corridoio dietro di me. «Non devi stare da solo.»

Non riesco neppure ad annuire. Qualcosa di vitale mi è stato strappato da dentro. Sono solo un guscio vuoto. Sotto di noi tutto sembra esattamente lo stesso di ieri, ma non lo è. Non lo è affatto. Voglio andare alla casa bianca. Estraggo il mio blocco e scrivo velocemente. Voglio vedere Vidal. Farò qualunque cosa per vedere Vidal, perché mi dica dove è stato portato Julian. Perché è quello che hanno fatto, lo hanno preso loro. Ed è l’unica spiegazione plausibile. Oddio. È come esser presi a pugni. Philippe guarda velocemente il mio scarabocchio prima di guardare lontano, imbarazzato. «Non so leggere» dice scuotendo la testa. Merda. Scrivo MerdaMerdaMerda fino a quando non ho consumato un’intera pagina con oscenità e la strappo via e la getto al di là della ringhiera guardandola librarsi nel vento prima di cadere vorticando senza più speranza sul terreno.

La differenza che non fa differenza

Peter esce dalla porta principale e mi porge tre coperte. Le prendo ma sono pesanti e non so cosa farne. So che Philippe ha difficoltà a trasportare le cose. Non è colpa sua, ma non posso portarle da solo. Julian e io eravamo soliti nascondere le nostre coperte durante il giorno, il più delle volte da Cassey, ma dove dovrei nascondere queste? Questa zona non la conosco affatto. E non lo voglio neppure xonoscere. Mi sforzo di ignorare la visione, e tutte le sensazioni a essa collegate, che mi appare quando penso a lui. Fa un male cane. «Noi ce ne andremo probabilmente su verso la brughiera. Siamo già stati lì. Vuoi stare per un po’ con noi?» chiede Peter, guardando me piuttosto che Philippe. Devo sembrargli davvero patetico. Ma Peter mi piace. Ha questa fiducia discreta che lo fa sembrare forte. È quel tipo di persona che sa cosa fare quando le cose si mettono male, una di quelle di cui mi vorrei fidare. Tiro fuori il blocco. Philippe non mi capisce. Non sa leggere né conosce il linguaggio dei segni. Ho bisogno di qualcuno che mi aiuti a parlare con Vidal. Puoi venire alla casa bianca con noi? Per favore. Peter guarda verso Nathaniel che sta dando calci allo stipite della porta. «Vidal non ti aiuterà. So che tu vuoi trovare il tuo amico ma loro non sono il tipo di gente che aiuta qualcuno.» Devo provarci, scrivo disperatamente. Peter scuote la testa con energia. «Ti voglio aiutare, ma non voglio tornare là dentro ed essere trascinato in qualcosa. Per quel che ne sappiamo, Malik avrebbe dovuto portarci via tutti.» Lo guardo incredulo. Quindi pensi che li abbiano rapiti? Per favore vieni con

me, Peter. Devo ritrovarlo. Per favore. Non mi faccio problemi a supplicare o permettere che mi si consideri disperato esattamente quanto lo sono. Non ho problemi a usare lui o chiunque altro per ritrovare Julian. Nonostante il pensiero mi lasci indifferente. Ma è la verità. Non mi importa di loro, non sul serio. Non mi importa di nessuno, me stesso incluso, quanto mi importa di Julian. E mi sento orribile al pensarla in questo modo; mi sento una persona orribile, da disprezzare. Ma non mi importa di nient’altro. Peter, però, è risoluto. «Mi dispiace» dice e sembra davvero dispiaciuto mentre divide insieme a Nathaniel le coperte e poi si dirigono verso il marciapiede e giù per le scale. Lancio le stupide coperte al di là della ringhiera, mi accascio sul pavimento bagnato e inizio a singhiozzare. Philippe aspetta che abbia finito e poi mi offre un panino fatto con due pezzi di pane raffermo uniti, niente ripieno. Mi rendo tristemente conto che lui è sperduto tanto quanto me e che vuole restarmi accanto soprattutto perché non può restare da solo. Il sole mi è ormai sopra la schiena quando mi siedo, la testa abbandonata tra le ginocchia, penso. Se vado da solo alla casa bianca e lancio la mia ridicola lista di domande a Vidal, lui mi riderà in faccia. Peter ha ragione, non è uno che mi aiuterebbe. Perché mai dovrebbe? Anche se mi fi scopare e usare da ogni cliente che entra in quella casa, a Vidal non gliene fregherebbe minimamente. Ha centinaia di ragazzi disposti a farlo per meno casini e disagio che rispondere a una domanda. Chi è Malik? Mi direbbe. E cosa posso fare io a riguardo? Siccome non mi può capire, mi rendo conto che non sto più includendo Philippe in niente di tutto questo, sebbene dia per scontato che mi seguirà ovunque io vada. Ogni dettaglio a partire dalla notte precedente frulla nella mia mente. Ogni cosa che ho sentito dire da Malik, il sapore della bevanda, le facce degli altri ragazzi

che riesco a ricordare. Julian che mi guardava mentre disegnavo il suo viso, quello sguardo. Addormentarmi insieme a lui e... sognare. Era un sogno? Posso concedermi di credere che non fosse un sogno, adesso? E anche se sogno non era, anche se fosse stato reale, forse è stato per via della droga, dei sonniferi. Forse hanno dissolto le nostre inibizioni insieme alla consapevolezza. Ma questo dimostrerebbe che avevamo inibizioni da dissolvere, che sotto sotto le nostre paure c’erano desideri e volontà. E per me c’erano, senza dubbio, ma per lui? Forse non lo saprò mai. Forse il momento più erotico della mia breve vita si dissolverà lentamente sfocandosi in una foschia indotta dalla droga e ne ricorderò solo alcuni agonizzanti frammenti. Forse sarà la mia rovina. Magari sono già alla fine. «Romeo?» Philippe mi tocca una spalla. «Dovremmo andare da qualche altra parte? Loro non torneranno. Mi spiace.» aggiunge quando sollevo la testa e lo guardo gelido. No, non credo affatto che dovremmo andare da qualche altra dannatissima parte. Non so cosa cazzo fare e ora come ora guardare quel fottutissimo terreno bagnato mi sembra una cazzo di grande idea. Sono frustrato all’idea che non mi possa capire e che non posso neppure rispondergli male. All’improvviso mi ricordo l’ultimo litigio che ho avuto con Julian, che in realtà non era stato neppure un litigio, solo il fatto che io mi ero comportato in modo odioso. E mi colpisce con la forza di un pugno di ferro, afferrandomi il petto e poi strappandomi il cuore. Reprimo un singhiozzo e mi costringo ad alzarmi in piedi, sul pavimento scivoloso. Okay, dobbiamo andar fuori di qui. E come se niente fosse, prendo una decisione. Dove andiamo quando le cose si mettono male? Chi è il mio unico solido legame con Julian? Gem. Julian mi ritroverebbe là, so che lo farebbe. Come sono arrivato improvvisamente all’idea di Julian che ritrova me? E come potrà farlo se loro hanno... se lui è...

Affondo le dita nei capelli. Ho bisogno di muovermi e di non pensare. Do un’occhiata a Philippe. Gli faccio segno di venire con me. Usando l’ultima oncia di energia che ho, salgo le scale tre gradini alla volta e mi metto a correre. È esaltante e doloroso al tempo stesso e Philippe è piegato in due mentre si tiene il petto aspettando che io usi l’ultimo denaro che ho guadagnato ieri per comprare due biglietti della metropolitana. Il tempo sta scorrendo via a una velocità insopportabile e camminare ci farebbe impiegare delle ore. Se avessimo potuto prendere la suburbana, avrei semplicemente saltato i tornelli ma ultimamente la metro è fin troppo ben controllata dalla polizia. La stazione, all’interno, è gremita in un modo che disorienta; l’ultima volta che ho usato la metro è stato mesi e mesi fa, molto prima che diventassi un senzatetto, cosi ho dimenticato quanto fosse facile scambiare direzione e finire per aspettare il treno sbagliato. Scendiamo sotto Londra in profondità, scalinate dopo scalinate, ascensori e poi ancora ascensori. Quaggiù il buio corre veloce e l’oscurità fuligginosa ha un suono che rimbalza dalle bianche piastrelle incurvate, mescolandosi con l’odore secolare che permea l’aria. Sbircio tra le tenebre del tunnel, mai davvero sicuro della direzione da cui apparirà il treno, mentre Philippe lascia scivolare la mano lungo le mattonelle chiare e sudice sul retro della piattaforma gremita, disegnando figure arricciate e immagini. Riceviamo parecchie occhiate oblique e sguardi imbarazzati. Li restituisco. Se solo sapessero quanto sia facile cadere nel baratro, pochi piccoli i incerti e via, andato.

––––––––

Philippe rimane dietro di me mentre busso forte alla porta di Gem. È una mossa falsa. Penserà che siano guai e non aprirà a meno che non le dica chi sono. Cazzo. Indico la mia bocca e poi a quella di Philippe. Lui alza le spalle e io mi metto le in testa. Dille semplicemente chi sono, porco cazzo! Gli ordino. Gem grida di nuovo, minacciando di chiamare la polizia, quando Philippe finalmente capisce e balbetta il mio nome. La porta si spalanca. «Romeo? Cosa diavolo...?» Una Gem molto-meno-affascinante-del-solito guarda prima me e poi Philippe e poi lungo il corridoio. Saluto con la mano Joel che si nasconde dietro la porta del salotto ma non posso fare a meno di sorridere. «Tu chi sei?» domanda Gem, gli occhi scuri fissi su Philippe. Non lo ammetterei mai, ma un po’ mi fa paura. «E dov’è Jules?» Philippe squittisce il suo nome, ma non posso guardarla negli occhi. Non voglio crollare proprio di fronte a lei. Sono più forte di così. Appoggio il blocco sul muro e sentendomi leggermente alieno, scrivo: Non lo so. È stato portato via la notte scorsa dalle persone presso cui stavamo. Lei guarda a ciò che ho scritto come se le parole non fossero giuste e poi ci spinge dentro, prima di trascinarmi dentro il salotto. «Joel, vai a giocare nella tua stanza per un minuto, va bene?» «Non posso vedere Romeo?» Gem scuote la testa con fermezza. «Non ora.» Philippe gironzola nell’ingresso fino a quando Joel non gli prende la mano e gli

sussurra qualcosa. Gem li guarda con diffidenza mentre camminano verso la stanza di Joel. «Joel, porta Philippe in cucina. Dagli un biscotto e da bere» li richiama, poi si gira verso di me. «Sarà meglio che ci si possa fidare del tuo amico!» Annuisco prima che le gambe mi abbandonino e collassi sul divano. Gem sembra diversa senza la montagna di trucco, più vera, meno... qualcosa che non riesco a registrare. Lentamente si abbassa vicino a me con un’espressione cupa sul viso. «Raccontami tutto» dice con voce piatta, monocorde, come se questo fosse in qualche modo qualcosa che si fosse aspettata da sempre come se si fosse rassegnata al destino tutt’altro che roseo di Julian. All’improvviso vorrei non esser mai venuto qui. Non mi darà rassicurazioni che per lui tutto andrà bene. Ha già accettato che lui è perduto. E non posso sopportarlo. Ma scrivo comunque tutto, tutto quello che riesco a ricordare, escluso il mio sogno. Sulle prime non sono neppure sicuro che lei stia leggendo. Sembra quasi che stia guardando il foglio in modo da non dover esser costretta a guardare me. Non dice nulla per tanto, tanto tempo. E quando parla: «Joel ne sarà devastato» è quanto dice, sommessamente, in modo piatto. Un pensiero doloroso mi colpisce improvvisamente e lo scrivo senza pensarci. Julian è il padre di Joel? Joel ha la pelle più chiara di Gem. Julian avrebbe dovuto avere quattordici, forse quindici anni. Gem è più vecchia. Non è impossibile. Ma Gem legge la mia domanda con un tale sguardo scioccato e di meraviglia sul viso che mi sento stupido e imbarazzato. Lascia scappare una risata e io incrocio le braccia al petto con fare difensivo. «Ti prego, dimmi che non sei così innocente quanto sembri, Romeo. Tu lo sai, vero, come funziona? Un uomo, una donna... non due...» Sospira, alzando gli

occhi al cielo. Ma cazzo, certo che lo so. Non è che fosse poi una domanda così stupida e non vedo perché abbia pensato che lo fosse. Fisso con attenzione il tavolino di vetro e il modo in cui la luce del sole fa risplendere colori tracciando figure astratte sul tappeto sottostante. «Julian non ti avrebbe mai lasciato, questo lo sai. Avrebbe fatto qualunque cosa per te.» Dice dolcemente. Chiudo gli occhi e mi auguro che lei smetta di parlare. Sento la sua mano posarsi sul ginocchio. Più che altro per farla smettere di sentirsi male per me, prendo il blocco e scrivo la prima cosa che mi viene alla mente. Già, qualunque cosa tranne parlarmi di quanto vendersi gli stesse facendo del male. Però ne ha sempre parlato con te. «Stai scherzando?» mi guarda incredula. «Tesoro, Jules è semplicemente la persona più timida e riluttante a parlare che io abbia mai conosciuto.» Non è mai stato timido con me. Tranne riguardo al sesso. «Beh, questo la dice lunga su come lo facevi sentire, non ti pare?» Ma è sempre venuto da te. Pensavo che volesse parlarne con te perché non poteva farlo con me. «Siamo stati amici per così a lungo e in tutto questo tempo non ho mai avuto neppure una volta una conversazione su come si sentisse o cosa provasse. A essere onesti, penso che venisse qui solo perché non voleva che tu avessi a che fare con lui quando non si sentiva forte abbastanza.» È stupido, scrivo, ma so che è vero. «Tu lo hai cambiato, Romeo. Dopo che ti ha aiutato quando sei stato attaccato da quella gang, lui era diverso. Era più se stesso, più sicuro di sé. Pensavo fossero le droghe o qualcosa del genere, quando ti ha portato qui la prima volta. Pensavo che fosse strafatto perché, in tutta onestà, non l’ho mai visto così felice. Ma era felice perché si stava prendendo cura di te e dopo era felice semplicemente

perché era insieme a te.» Abbassa lo sguardo verso le sue lunghe dita e picchietta le unghie ben curate sulla stoffa dei jeans, sospirando profondamente. «Sei sempre stato diffidente nei miei confronti e avevi ragione di esserlo, suppongo. Ero gelosa di te, all’inizio.» I suoi occhi castani e profondi mantengono il mio sguardo. Non guardo altrove. Lei sorride debolmente. «Sono ancora gelosa, ma volevo che fosse felice e lui lo era.» Afferro il blocco e senza preoccuparmi di sciuparlo coprendolo di lacrime, scrivo: Smettila di parlare di lui come se fosse andato, non è morto, cazzo. Lo troverò. LO FARÒ! Joel e Philippe stanno ridendo in cucina. Joel ha questo effetto sulle persone e so perché Gem non si fida di nessuno quando c’è lui. Va a vedere cosa sta succedendo e io mi rannicchio disperato sul sofà. Guardo fuori dalla finestra verso le nuvole che scorrono e il cielo che lentamente si sta scurendo, troppo lacerato per avere pensieri coerenti. Gem si prepara per il prossimo cliente e Joel viene a sedersi sul pavimento di fronte a me. Sa che sono triste ma non sa perché. Ho in mano il disegno che ho fatto a Julian. Lo tengo tra le dita ma non lo guardo. Che stupido, sul serio. «Perché Julian non è con te?» Il mio blocco è a terra, vicino a noi. Lascio scivolare il braccio oltre il bordo del divano e scrivo Come vorrei che lo fosse! «Perché è andato via?» Joel si acciglia, guardandomi confuso. Sollevo lo sguardo e vedo Philippe che ci osserva dalla sedia in cucina. Qualcuno lo ha portato via. Non penso volesse andar via. Che ovviamente è la cosa sbagliata da scrivere. Joel è abbattuto. Lo stringo il più forte che posso tra le mie apatiche braccia. Piange vicino al mio orecchio.

«I poliziotti lo troveranno? Quando qualcuno viene portato via, i poliziotti lo trovano e lo riportano indietro.» Come rispondere a una cosa come questa? Devo mentire o devo dire a un bambino di quattro anni che noi non siamo niente, che di noi non importa a nessuno, che per gli altri è meglio se noi non esistessimo?

È sempre più buio prima dell’alba.

Non possiamo restare da Gem e dire addio a Joel è orribile. Sembra come se qualcosa sia finita, che non lo rivedrò più. Certo, Gem non mi ha detto che non vuole che torni. Non lo direbbe mai, ma so che non potrò tornare a meno che Julian non sia con me. Philippe mi segue nella notte gelida. Senza niente a legarmi, di nuovo vagabondo per le strade che conosco. C’è una sorta di strano conforto nell’essere ancora qui, persino la minaccia di vedere Lloyd in questi luoghi non mi dà fastidio. Camminiamo lungo l’Argine nero, sembra che moriremo in questo buio di ghiaccio. Ma anche se le mie mani e i miei piedi adesso sono completamente insensibili e Philippe sta tremando senza controllo dietro di me, tutto quello che sento è il vuoto. Alla fine arriviamo al Bar di Joe Brown. É buio e chiuso, ci arrotoliamo insieme e dormiamo a ridosso del retro del palazzo, i piedi dentro alla vetrina che Julian ha rotto. «Romeo?» Mi sveglio di soprassalto e trovo Cassey che sbircia su di me con uno sguardo preoccupato. «O mio Dio, Romeo. Ho pensato fossi morto!» piange portandosi le mani al petto. È ancora buio e non ho idea di che ora sia, ma lei ci prende dentro sul retro, nella stanza dalla luce fioca dove di solito mi dava i toast da dividere con Julian. Ci dice di sederci sulle poltroncine logore e di metterci comodi mentre afferra ogni coperta e asciugamano che riesce a trovare, per coprirci e farci scaldare lentamente. Non muoviamo un muscolo se non per respirare. Ci lascia brevemente solo per aprire il locale, poi torna con del tè caldo e dolce e dei biscotti al cioccolato. Non chiede di Julian ma guarda Philippe e me più da

vicino, come se dovesse capire qualcosa. È così doloroso riscaldarsi dopo un lungo periodo al freddo. Fa così male che singhiozzo mentre le dita ritornano sensibili. Inizialmente non posso camminare e noi restiamo seduti come statue, sperando di non dovercene mai più andare. Verso mezzogiorno, Cassey prende Philippe per farsi aiutare a pulire i tavoli sul davanti e quando Jodie, l’unico altro membro dello staff arriva per iniziare il suo turno, Cassey chiude la porta e si siede sul retro con me. «Cos’è successo Romeo?» chiede dolcemente. Per un momento la luce si infrange sui capelli sottili che le incorniciano il viso prima che li riporti indietro nella crocchia morbida. Mi domando se abbia bambini suoi a cui pensare. Mi chiedo perché gestisca questo caffè, non deve fare molti soldi. È forse un po’ più in alto rispetto a una mensa per poveri. Deve trattarsi di una specie di senso di conservazione che assale quando si sprofonda sotto il livello di sopravvivenza, quando ci si trova al limite massimo, ma le chiedo una cosa che non ho mai chiesto a nessuno prima – Julian e io eravamo troppo orgogliosi o troppo stupidi – e scrivo: Possiamo restare qui stanotte? Per favore. Lei annuisce. E per un istante riesco a capire che lei ha paura per me. I due giorni seguenti sono i più freddi della stagione. Il ghiaccio si spande come vetro crepato lungo l’asfalto anche se il sole si riflette in basso come fuoco gelido. Le notti sono piene di stelle. Non mi muovo dalla stanza se non per andare in bagno e non mi alzo se non per guardare di tanto in tanto fuori dalla finestra. Philippe non mi parla più, ma continua a restare. Dubito sia per merito mio. Cassey manda persino Cricket e Roxy a vedere come sto quando Philippe aiuta tra i tavoli, ma io mi limito a osservare e non mi esprimo. La mia mente è in pausa, ferma al momento in cui mi sono reso conto che Julian non era più con me. Vorrei andarlo a cercare per Londra intera ma non riesco a muovermi. Dopo tre giorni, smetto di mangiare il cibo che Cassey mi porta e inizio a disegnare. Ossessivamente, cerco nella mente ogni dettaglio.

C’è una sola cosa, un pensiero che si è formato nel freddo della mia mente, che cresce come il ghiaccio su una vetrata. Una cosa di cui mi sto convincendo di dover fare anche se è troppo tardi, anche se non riuscirò a fare nient’altro. È iniziato con quello che mi ha detto Joel mentre piangeva tra le mie braccia, quello che Joel ha detto sulla polizia...

––––––––

È la diffidenza di mia madre per le autorità quella che provo mentre me ne sto qui davanti a questo brutto palazzo quadrato. La sfiducia di mia madre nei confronti della polizia. E il fatto di non mangiare da un po’ di giorni, di non dormire la notte, di alzarmi all’alba e camminare per miglia e miglia, mi ha scollegato da ogni cosa e mi aliena dalla realtà. Il fatto di non avere quasi cognizione di ciò che sto per fare mi rende tutto molto più facile. Alle 7:30 del mattino, la stazione di polizia è ancora assai tranquilla. «Posso aiutarti?» mi domanda severa una profonda voce maschile, persino prima di rendermi conto di essere diretto verso la reception. Lo guardo con occhio spento. Gioco di fantasia sull’idea che possa essere uno di quei poliziotti che ci hanno sequestrato la cerata e che la tiene nascosta sotto la sua scrivania per tenere i piedi all’asciutto. Lo sguardo sul suo viso mi dice che non ha davvero voglia di aiutarmi. «È per caso uno scherzo?» Uno scherzo? Barcollo all’indietro, attonito. Uno scherzo? È la mia cazzo di vita. Rinuncio. Fanculo, penso. Ci ho provato.

Ma in quell’esatto momento una giovane donna, carina, con lunghi capelli neri e occhi che brillano come quelli di Julian, esce calma da una delle doppie porte che portano nella sala d’aspetto dove mi trovo io. Ha un lungo soprabito e in mano una borsa di cuoio nera e pesante. Ha l’aria di chi se ne sta andando, ma per una qualche ragione si ferma e mi guarda, guardandomi per davvero. I suoi occhi sono così simili a quelli di Julian che non posso distogliere lo sguardo. In qualche modo è troppo intimo fisare qualcuno in modo così insistente. «Va tutto bene?» domanda, accigliandosi in modo gentile sempre però scrutandomi. «Me ne occupo io, Annie, tu puoi smontare» le dice lo stronzo dalla voce profonda. «Mi sembri uno che ha bisogno di una bevanda calda» dice lei, con calma, quasi parlando a se stessa ma sempre guardandomi attentamente. «Vieni a sederti di qua.» Mi conduce in una piccola stanza quadrata arredata con una scrivania di metallo e due sedie. «Torno in un secondo» dice, appoggiando la grossa borsa sul pianale, lasciandomi da solo. Mi guardo intorno, forse mi stanno sottoponendo a una sorta tipo di test. Vuole forse vedere se aprirò la borsa? Ci saranno telecamere che mi stanno filmando? Cosa c’è nella borsa? Sbatto le palpebre guardando dove gli angoli incontrano il soffitto. Mi sento molto strano. Con curiosità mi faccio strada verso gli angoli cercando scompartimenti segreti, quando la donna torna con una tazza fumante e un piatto con del cibo, il mio discorso scritto in precedenza tenuto stretto sotto il braccio. Non batte ciglio nel vedere il mio strano comportamento né si preoccupa di controllare se la borsa sia stata spostata. Non so se sia una con grande fiducia nel prossimo oppure sia semplicemente stupida. «Ecco» dice, appoggiando il cibo e la tazza sulla tavola. «Mi è sembrato che fossi affamato e questo era rimasto da sopra.»

Con cautela, ritorno a sedermi a tavola. «Romeo, giusto?» gesticola verso il mio discorso come per spiegarlo. «Io sono Annie. Sono un investigatore, medico legale, medico poliziotto.» Guardo il cibo. Non penso di riuscire a ingoiare nulla. Ma la mia mano prende la forchetta e prima di accorgermene, sto mangiando. Voracemente. «Questo è quello che hai dato al Sergente Moore lì fuori, non è così?» domanda mostrandomi di nuovo il mio scritto. Annuisco «Ti dispiace se chiamo qui anche un mio collega? È una detective e penso sarebbe davvero molto interessata a quello che tu hai scritto qui.» Sentendomi leggermente più con i piedi per terra dopo aver mandato giù un paio di boccate di cibo, tiro fuori il blocco. Ho fatto qualche disegno di Vidal e Malik e ne ho uno anche di Julian. Lei annuisce, sorridendomi mentre glieli mostro. «Okay» dice, prima di prendere un cellulare e premere qualche bottone e poi portarlo all’orecchio. «Sei un senzatetto, Romeo?» Annuisco. «Quanti anni hai?» Scuoto la testa. Non posso dirglielo. Mi metterebbero in una casa famiglia. «Romeo, ho il dovere di chiamare i servizi sociali se ho il sospetto che una persona sotto i sedici anni sia a rischio. Se tu sei senza tetto, sei a rischio.» Sento un’ondata di panico che inizia a montare e inizio a traballare sui miei piedi. «Ehi, ehi, ascolta, va bene.» Mi guarda fisso negli occhi, e la sua voce è calma ma imperiosa come lo era quella di Peter. «Aspetta solo qualche minuto insieme a me, okay? Parla alla mia collega. Se vuoi non faccio quella telefonata se non

dopo che tu hai parlato con lei, va bene?» Se mi mettete in una casa, io scappo. Scrivo. «Okay, ma sei troppo giovane per badare a te stesso. I servizi sociali sono qui per aiutarti e proteggerti. Sei scappato di casa?» domanda mentre mette giù il telefono. Scuoto la testa. Non voglio dirglielo ma in qualche modo mi accorgo che sto scrivendo. Sono tornato a casa da scuola dove abitavo con mia madre un pomeriggio e lei se ne era andata. «E quella è stata l’ultima volta che l’hai vista? Non hai idea di dove fosse andata?» mi appoggia la mano sul braccio. È calda. Julian si è occupato di me prima che me lo portassero via. Lui si è preso cura di me meglio di quanto lei non abbia mai fatto. Non voglio crederle. Non voglio stare più qui. «Va bene, va bene» dice dolcemente. «Va tutto bene.» Guarda il cellulare e poi alla porta. «Okay vado di sopra a cercare la mia collega visto che non risponde al telefono. Il caso che hai sottoposto sembra molto simile a qualcosa di cui lei si sta già occupando.» Prima che vada, Annie lascia cadere un piccolo cartoncino bianco con il suo nome e il suo numero di telefono sul tavolo. Mantiene il mio sguardo per un po’. Sa che sto per scappare. Ne è delusa ma lo sa. Lascia la porta socchiusa mentre esce. Prendo il biglietto, infilo i disegni che ho fatto nella sua borsa e scappo via. Non mi dispiace di aver lasciato Philippe da Cassey. Voglio solo stare da solo. È strano, ma da quel desolato pomeriggio in cui sono tornato in quella stanza vuota e mi sono reso conto che la donna che devo considerare mia madre se ne era semplicemente andata e mi aveva abbandonato, non ho mai più voluto stare insieme a qualcuno. Mai.

Fino a ora. Mentre cammino sulla banchina verso gli archi della ferrovia, penso a cosa farò se dovessi incontrare Lloyd. So che non lo combatterò. Penso sarebbe un sollievo. Se mi dovesse trovare e volesse finire quello che aveva iniziato mesi fa, adesso potrei accettarlo. Potrei accogliere l’inevitabile. Mi sento come se stessi fluttuando nell’aria gelida. Trovami Lloyd. Siedo per ore nella landa desolata a fissare semplicemente gli archi alti e scuri, ad ascoltare lo stridere e lo sferragliare dei treni che ano. Qualche volta i miei occhi perdono focalizzazione e tutto diventa appannato, quasi un fiume di grigiore senza fine, come il vero fiume sotto di me che guarderei se mi prendessi la pena di voltare la testa. Sono parte di questa desolazione, ora, parte dei suoi rifiuti. Non sono niente. Non sono nessuno. Senza di lui. Mi sono convinto che sia morto. Senza esserci neppure arrivato con la ragione, il mio subconscio ha maturato questa conclusione per me. Sono sempre stato un tipo un po’ pessimista. Nell’oscurità del tardo pomeriggio cammino incautamente attraverso la spazzatura che sporca il terreno, attraverso la strada senza meta. Un’auto sterza bruscamente per evitarmi. Posso sentire le imprecazioni che mi mandano anche se accelerano. Altri fari di automobili illuminano l’asfalto, inviando inquietanti ombre alle tenebre. Un’auto rallenta dietro di me, strisciando a o d’uomo. Mi stanno per caso esaminando? Vogliono trascinarmi dentro gli archi e scoparmi? Probabilmente lascerei fare se solo mi promettessero di abbandonarmi là dentro, a terra, devastato in modo tale da non riuscire più a muovermi. O se mi pagassero con dei pugni o del crack o qualsiasi cosa che mi faccia andare fuori di testa, oltre il limite... o non so cos’altro. «Romeo?» Il mio nome? Non mi fermo. La macchina avanza lentamente, dietro di me. I fari illuminano il mio cammino, come fari lungo un palcoscenico fin verso l’uscita.

«Romeo! Per favore, fermati! Devo parlarti... è per via di Julian...» La voce di Cassey è roca dalle lacrime. Non posso ascoltare quello che ha da dirmi. Non posso sentirla dirmi con certezza che lui è morto. Una cosa è convincersene, totalmente un’altra quella di scoprire che è lo è per davvero. «Romeo!» Vengono pronunciate altre parole, ma la sua voce echeggia in lontananza dietro di me mentre io corro attraverso la landa desolata. Corro così lontano che le luci non penetrano più nell’oscurità e non ci sono più suoni ma solo i sussurri della città che parla a se stessa.

Julian

Non ci sono mai realmente venuto quassù, sulle arcate della ferrovia, con i treni che sibilano a qualche metro dalla mia schiena. Merda, è spaventoso ma allo stesso tempo esaltante e per un breve attimo mi fa sentire vivo, cazzo. Mi rannicchio sul muro sbrecciato, proprio sul bordo. Sembra sul serio di essere al limite ultimo, con il buio che si tuffa nell’asfalto di sotto, quel nero imperscrutabile e raccapricciante di fronte a me, quei dannati treni che sfrecciano veloci ogni cinque minuti. Estraggo il blocco e, in bilico sul ginocchio, tratteggio un ultimo disegno. Sul cazzo del bordo. Alla memoria. Disegno me stesso. Quando ho finito, è stato solo uno scarabocchio veloce, lo getto via, nel buio. Fa stare bene vederlo svanire Dio sa dove mentre spedisco una mia anteprima laggiù nell’universo. Mi fa ridere. Dio, penso, quanto è strano. Sono per caso isterico? Che cosa cazzo sto facendo? Lentamente scendo dal bordo e mi distendo in mezzo al legname e alle pietre al centro delle rotaie sconnesse su cui i treni corrono. Posso sentire l’intera arcata tremare sotto il mio corpo, sotto la terra, ovunque; è una cosa tremante, viva, animata, mutante, costante, inconsistente, gloriosa e fottuta. Che cosa cazzo sto facendo? Sotto di me le rotaie iniziano a gemere e a mormorare e sono immerso nella brillante, splendente luce di un treno in arrivo. Cosa cazzo sto facendo? Oh, Dio! Voglio alzarmi ma non c’è più tempo. Il rumore è assordante, il ruggito mi è

sopra. Il mio corpo ha il sopravvento. Non credo di avercela fatta, davvero non penso, mentre crollo disteso e ansimate proprio sul cazzo del bordo, le mie dita che graffiano i cazzo di mattoni lerci, la fuliggine grassa, per il bisogno di sentire qualcosa, di sapere che sono ancora qui, ancora reale. Oh merda. Merda. I pensieri iniziano a esondare dal mio cervello vuoto come se improvvisamente fossi stato riportato indietro dal mondo dei morti in maniera velocissima. Sfrego le mani sui capelli sudici. Erano così corti una volta che non aveva molta importanza. Julian era solito tagliarmeli da Gem. Mi aveva chiesto perché non li lasciassi crescere. Penso volesse sapere come sarei stato con i capelli lunghi. Per lui. La pelle mi appare disgustosamente lercia. I miei vestiti hanno bisogno di essere gettati nella spazzatura. In un rifugio qui vicino ogni mercoledì c’è uno scambio di abiti. Eravamo soliti andare lì. Non ho idea di che giorno sia, ma ci andrò. Prendo il biglietto da visita con il numero di Annie dalla tasca. Chiederò a Cassey di chiamarla per me. Scendo giù, ci vado ora. Oh, mio Dio. Penso ancora e ancora mentre mi trascino giù dalla scala di ferro fino al terreno. I miei arti sono come gelatina. Mi sono appena sdraiato su delle cazzo di rotaie. Sono davvero felice di non essere morto. Instabile e ancora barcollante, mi appoggio contro la muratura sconnessa della base degli archi e respiro, un respiro profondo dopo l’altro. Una pesante nebbiolina scende sull’alba e attraverso il bagliore arancione dei lampioni posso vedere un altro lunatico zoppicare giù, in mezzo alla strada, un po’ più lontano. Deve essere la notte per noi. Il traghetto del primo mattino suona il suo primo tocco di sirena mentre raggiunge la banchina più lontana del fiume, un suono così familiare che finalmente mi rendo conto di quanto freddo io abbia e mi volto per tornare da Cassey, per occuparmi di... Mi fermo.

Un improvviso, violento tremore attraversa il corpo e quasi cado per terra. Riconoscerei quella figura ovunque. La individuerei in una folla di migliaia di persone, men che meno in una strada deserta. E ora ho paura. Mi volto indietro a guardare quel cazzo di bordo in cima all’arcata. Ora ho il terrore di non essere riuscito a scampare da quel treno. Ma lui zoppica ancora, pendendo da una parte come se non potesse raddrizzarsi. E allora penso che mi abbia visto, perché si ferma. Il vento soffia da ogni direzione tutto attraverso la strada ma comunque noi non ci fermiamo. Sembra come se stessi resistendo a una forza di attrazione magnetica e so che sto per cedere da un momento all’altro, e lo sa anche lui, ma è solo che la forza di attrazione è la sola cosa che voglio al momento. Questi pochi attimi di aspettativa incredula mentre il mio cervello processa le informazioni. Julian ha un aspetto orribile. Qualcosa di molto strano è accaduto ai suoi bellissimi capelli e una parte del suo viso è gonfia e completamente arrossata. In fatti ogni singola macchia di pelle nuda che riesco a intravedere è ricoperta di tagli e graffi. Apre la bocca e la richiude, ma non escono parole. Lentamente inizio a camminare in avanti. Se mi muovo troppo in fretta lui potrebbe scomparire. Zoppica per arrivare fino a me. Sono solo due i ma ci vuole tanto tempo e ci guardiamo così duramente l’un l’altro. E all’improvviso vengo inghiottito dalle sue braccia nel mezzo della strada, mi tiene così stretto che non riesco a respirare, come se dovessimo tener conto di questo istante e non dover più are attraverso ciò che abbiamo ato, in modo da non esser più soli nuovamente o avere di nuovo freddo o aver bisogno o desiderare. Singhiozzo così forte che il mio corpo si scuote tutto e lui mi trascina all’indietro fuori dalla strada mentre un’auto suona il clacson mentre a. Non sono solo io, comunque, a tremare. E mi tiro indietro per poterlo guardare in faccia. Poterlo guardare sul serio. Oddio, cosa gli hanno fatto?

Chiude gli occhi gonfi mentre io provo a tracciare con le dita una linea sul naso livido, gli occhi pesti rigati di lacrime, le guance rigonfie. Non voglio fargli del male, ma non è sufficiente. Le sue labbra sono lacere ma così morbide. «Remee» dice rauco, il mio nome che vibra contro i miei polpastrelli. Posso sentire il suo cuore battere contro il mio petto e premo più forte. Non c’è possibilità che io scappi da lui, anche se quella notte nel tugurio fosse stata solo frutto della mia immaginazione. Devo fargli sapere come mi sento. Devo sentire. Siamo vivi. «Mostrami che sei reale» sussurra tremante, le palpebre ancora serrate. Sembra quasi che stia baciando i miei polpastrelli mentre parla, e infatti lo sta facendo. Oh, in modo così esitante, li bacia e in meno di un battito di ciglia, sostituisco i polpastrelli con la mia bocca e premo le mie labbra il più delicatamente possibile contro le sue. Come ho potuto non osare mai farlo? Perché pensavo fosse così difficile? Rimaniamo immobili di lato della strada immersa nel vento, i cuori che martellano, le labbra premute l’un l’altro ma senza baciarsi sul serio, le braccia avvolte e strette, troppo spaventati per muoverci nel caso fosse tutto un sogno, un miraggio, una pia illusione. Esitante, dirigo la mia bocca contro la sua. Mi sento così vicino a lui. Il suo alito è caldo sul mio viso. Apro gli occhi e mi ritraggo di un millimetro. Voglio che mi segua e lui lo fa. Sfiora la mia guancia con la sua, con la sottile barba che religiosamente si rade ogni volta che può, ma non mi bacia. Lo vorrà? Mi vorrà? E ha per caso importanza, considerato il fatto che lui è qui, per quanto miracoloso possa sembrare? La sua mano scivola sulla mia schiena e mi carezza il collo. Posso sentire le sue dita sfiorare i miei capelli ormai lunghi ed esaminarli. Esplorarmi. Mi attira più a sé. Apre gli occhi e accostiamo le fronti l’una contro l’altra, bevendo il nostro fiato. Poi, premendo gentilmente sulla nuca, dà un colpetto con la punta del naso sul mio, abbassa le ciglia e improvvisamente sfiora la sua bocca aperta contro la mia, ancora e poi ancora, così simile a un bacio, stuzzicandomi, così vicino che quasi posso assaporarlo.

Siamo così presi che non sentiamo l’auto che parcheggia dietro a noi e il suono del clacson che ci fa separare, entrambi sussultando scioccati. Con occhi spalancati, Julian mi afferra e mi fa girare portandomi via dai fari e fa un gesto con la mano dietro di sé che so vuol dire dacci solo un minuto. «Cassey, Cazzo!» appoggia la testa sulla mia spalla, respirando forte. «Mi ha portato lei qui dall’ospedale». Ospedale? Perché eri in ospedale? Faccio segno, preso dal panico. Merda, sono così stupido, mi sono lasciato trasportare da tutto questo desiderare e sollievo, e lui è ferito. Posso vedere che sta male. Dita roventi carezzano via le mie penose lacrime ardenti. «Sto bene... ho solo battuto un po’ forte la testa e avevo bisogno di qualche punto di sutura.» Con cautela piega verso il baso la testa in modo che possa vedere una linea frastagliata rosso sangue che corre orribilmente fino alla cima del cranio. I suoi capelli sono stati rasati via a casaccio in varie direzioni. Esitante, pongo sopra il taglio le mie dita. «Anche qui.» Alza il bordo della maglia che indossa e mi mostra la fasciatura tutt’attorno al petto e al ventre, ormai già macchiata di rosso nerastro scuro e terrificante. Ma è il braccio che sembra aver avuto la peggio, proprio sopra il polso, l’intera forma è grumosa e distorta, gonfia con graffette di metallo rigido. Tenermi stretto deve avergli fatto un male cane. «Dovevano bendarlo e ho avuto una piccola infezione al morso sulla pancia, così ho dovuto prendere degli antibiotici attraverso una flebo infilata al braccio per qualche ora. Mi sono praticamente dimesso da solo quando Cassey mi ha raccontato cosa è successo quando ti ha ritrovato prima» Ora la voce di Julian diventa così bassa che devo piegarmi più vicino verso di lui e finisco per appoggiare la mia fronte sotto il suo mento, come ho sempre fatto. «ho pensato che avessi creduto mi fosse successo qualcosa e avevo paura per te. Voglio dire, se fossi stato al posto mio... avevo così paura, Remee, ogni dannato giorno ero spaventato perché non ero con te. Mi sei mancato così tanto.» Ricaccia indietro un singhiozzo e mi bacia la cima della testa, sfrega la mano con tenerezza su e giù sul mio collo. «Ho dovuto parlare alla polizia e devo tornare in ospedale per un po’, solo per rimettere a posto le cose ma solo se tu vieni con me. Io non

voglio andare da nessuna parte se non sono con te.» E dove pensa che possa andare io se non con lui? Gli prendo la mano buona e lo tiro verso la macchina che sbuffa vapore. Quattro paia di occhi sbattono le palpebre alla luce improvvisa e guardano con ansia verso di noi mentre apro la porta. Philippe salta sul sedile di fronte accanto a Cassey, Julian e io ci stringiamo sul sedile di fianco a Gem e a un Joel davvero molto stanco. E sono io quello che tutti osservano con ansia, non il povero e abbattuto Julian che sto cercando di non schiacciare quando l’unica cosa che vorrei disperatamente è solo arrampicarmi e rannicchiarmi sul suo grembo. Io. Un po’ in imbarazzo annuisco a tutti. Sto bene. Davvero, sto bene. Ora. Sorrido a Joel che chiude gli occhi contro il petto di Gem. Cassey mi rivolge uno sguardo significativo ma sembra abbastanza soddisfatta da metter in moto l’auto. Una sottile striscia grigiastra si accende all’orizzonte e mi rendo conto che non dormo da due giorni. Ora come ora, penso di poter stare sveglio per sempre. Julian stringe forte la mia mano nella sua e lascia cadere la testa contro la mia spalla, e ce ne andiamo.

Questa città che bisbiglia

Cassey ci lascia all’ospedale nella luce pallida dell’alba, con ombre grigio blu che scivolano sopra qualunque cosa. Con un braccio attorno alla vita di Julian per tenerlo in piedi, traccio un Grazie attraverso il finestrino aperto dell’auto. Tutti e quattro gli altri sembrano stanchi morti, esausti per avermi cercato per tutta la notte. Non riesco sul serio a credere che lo abbiano fatto. Prometto a Cassey che la farò chiamare da Julian quando verrà dimesso in modo da poterci venire a prendere e lei sgomma via. Camminiamo attraverso le porte sibilanti, cercando la reception. Le sterili luci, chiare e fluorescenti, brillano lungo il soffitto e mi fanno sbattere gli occhi tanto da coprirli. Sulle prime non ho idea di che direzione prendere ma il bancone della reception, tutta tappezzata di vetri a specchi, è difficile da non riconoscere. Julian si appoggia pesantemente a me e parla alla receptionist attraverso un microfono. È così in pena e stanco che ora ho paura possa svenire. Devono accorgersi di questo. Ma no, quello che vedono sono due ragazzi disperati senza tetto che barcollano sembrando ubriachi verso l’accoglienza con niente da fare se non are del tempo a girovagare in questo posto. E ci informano, sionatamente, che Julian ha perso il diritto al suo posto letto quando se n’è andato, così dobbiamo aspettare nella sala del Pronto Soccorso in modo che venga di nuovo visitato da un medico. Lo trascino fin verso una fila di seggioline di plastica scomodissime nella sala d’aspetto vuota e le giro in modo che lui possa stendere la testa sulle mie gambe. Distrutto, mi appoggio all’indietro, il sollievo che mi scorre attraverso è come adrenalina alla sensazione di lui così caldo, il suo corpo un peso solido e perfetto contro il mio. Con le dita allargate carezzo ciò che resta dei suoi capelli d’oro e mi riempio di così tanta tenerezza che temo poter scoppiare in mille pezzi.

La sala d’attesa inizia ad affollarsi quando Julian viene finalmente portato dietro una tenda cubicolo per essere visitato. Resto con lui e lo aiuto a svestirsi, a indossare il camice bianco dell’ospedale. É magro ed è terribilmente ferito dalla testa ai piedi, ma si muove a ogni mio tocco ogni volta che le mie dita sfiorano la sua pelle, solo la spalla o la schiena mentre gli allaccio il camice. So che sta cercando di dirmi qualcosa, qualcosa che sono molto più che disposto ad ascoltare ora, qualcosa che non riesco a credere non sia successa prima dal modo in cui il suo corpo sta chiamando il mio. I suoi occhi non lasciano mai i miei per tutto il tempo in cui gli inseriscono aghi nella pelle e avvolgono le ferite nelle bende. «Sono così stanco, Remee» sussurra dopo che le infermiere hanno sistemato la flebo e se ne sono andate. Va bene, faccio segno. Mi inginocchio sul pavimento e prendo il suo viso tra le mani, sfiorando via le sue lacrime con i miei pollici. Desidero tanto potergli chiedere cosa sia successo ma so che non è il momento giusto. «Potresti solo...» sussurra, chiudendo gli occhi contro le parole stesse. Non ha bisogno di domandarlo. Mi arrampico sul letto vicino a lui e lo attiro a me. «Mi dispiace, io...» inizia a dire ma gli metto il dito contro le labbra per far smettere le parole di uscire. Gli antidolorifici che gli hanno dato fanno effetto rapidamente perché si addormenta in fretta e in modo fantastico, il petto che si alza e si abbassa a fondo e con lentezza sotto il mio braccio. So che non dormirò, non ancora, non qui dove entrambi siamo così vulnerabili. Grazie al cielo non ci spostano in un reparto e rimango rannicchiato e protettivo attorno alla sua figura, addormentata per ore fino a quando gli antibiotici non hanno smesso di fluire dentro di lui. Quando un’infermiera alla fine viene a controllarlo, la vita frenetica dell’ospedale è in pieno svolgimento. É occupata, non ha tempo e con un

movimento sinuoso strappa via la flebo e spaventa Julian svegliandolo, facendolo gemere di dolore. La guardo in cagnesco. Capisco la fretta ma perché cazzo non può essere un pochino più delicata? «C’è un’ispettrice fuori che vuole parlare con te. La mando dentro, posso?» Julian sbatte le palpebre ancora semi-addormentato e si gira tra le mie braccia, le ciglia aggrottate. Dove cazzo sono? Seppellisco la faccia nella sua spalla e stringerlo forte. Dio, quanto lo amo. L’ispettrice è una donna alta e leggermente androgina: porta un abito da ufficio giacca e pantaloni neri. Si presenta come Tessa Sandersen e mi chiede di uscire per un minuto così da poter parlare con Julian da sola. Lui allaccia le dita alle mie e scuote la testa con determinazione. No. «Nome?» sospira lei, mentre estrae riluttante un piccolo registratore e guarda nella mia direzione. Julian mi osserva, controllando silenziosamente se per me va bene, prima di dire «Romeo Danilov.» Adoro il modo in cui pronuncia il mio nome. Non è giusto, non è il modo in cui mia madre l’avrebbe sputato fuori, ma già questo fa sì che io ami il suo modo di dirlo ancora di più. Perché lui prova così tanto a dirlo nel modo giusto per me. Lui ci prova così tanto a fare tutto nel modo giusto. «Romeo non può parlare per se stesso?» «No.» Sono muto, scrivo sul mio blocco e lo mostro alla donna. «Oh» e posso vedere già quella preoccupazione strana, materna e fuori posto.

Di certo non mi guardava così un momento fa. E quando mi domanda «Romeo, sei stato tu quello che ci hai fatto la soffiata su Vidal e Malik?» Annuisco e sento gli occhi di Julian su di me. Deve essere probabilmente scioccato che sia andato dalla polizia. Lo sono un po’ anche io. «Beh, Romeo, senza dubbio il tuo amico non sarebbe qui se non fosse per te. Dovremmo riuscire a metterne qualcuno in galera una volta chiuso questo caso, se siamo fortunati.» Ora si rivolge a Julian. «La tua dichiarazione è davvero importante, Julian. Possiamo incominciare dall’inizio?» Prima gli racconta del tugurio e di cosa è successo nella casa bianca, di Malik e di Vidal, cose che so, cose che ho vissuto in prima persona insieme a lui. «Quindi la mattina del cinque cosa è successo?» «Non ricordo chiaramente. È tutto confuso. Penso ci avessero drogato. Mi ricordo di esser stato strattonato perché mi svegliassi e che mi è stato detto di andare fuori. Non volevo andare ma Malik mi ha trascinato. Aveva un cane. Era ancora buio. Eravamo probabilmente in dodici sul marciapiede e non so quanti di loro ce ne fossero, ma tutti avevano dei cani. Ci hanno condotto via dall’isolato, in fila. Se qualcuno si fermava, veniva calciato o colpito. C’era un furgone di colore scuro parcheggiato vicino all’entrata, hanno iniziato a spingerci dentro a forza. Ho cercato di scappare, ma le mie gambe non funzionavano correttamente. Sono stato colpito con un pugno un paio di volte e gettato nel retro insieme agli altri. Hanno guidato per ore. Tutto era nero nel retro del furgone così non potevamo vedere dove stavamo andando o neppure se fuori c’era luce. Abbiamo studiato un piano per scappare quando avrebbero aperto le porte, eravamo più di loro, avremmo potuto avere la meglio. Ma quando il furgone si è fermato ci hanno gettato dentro qualcosa che puzzava così tanto che non riuscivamo a respirare e ci hanno trascinato fuori a uno a uno. Sono stato spintonato in un campo insieme a un altro ragazzino. Il posto sembrava una sorta di fattoria e c’erano roulotte ovunque. Non mi sentivo più così stordito così sono riuscito a prendere chiunque mi stesse trattenendo di sorpresa e ho iniziato a

correre ed è stato quando loro...» Fa una pausa, chiude gli occhi, il suo respiro improvvisamente diventa affannoso. Io porto le nostre mani intrecciate verso il viso e sfioro le mie labbra contro le sue dita fasciate. «Stai andando davvero bene, Julian.» dice gentilmente Tessa. «... ed è stato quando hanno lasciato liberi i cani.» dice tutto d’un fiato e lascia la mia mano per tirare il camice da un lato, esponendo le fasce sullo stomaco e sollevando il braccio in avanti. Tessa tira fuori una piccola macchina fotografica dalla sua tasca e fa un paio di foto. «Dovrò fare delle foto anche alle tue ferite ma senza bendaggi, magari tra una settimana o due?» «Okay.» «Vuoi fare una pausa per un minuto? O vuoi continuare?» «Voglio solo farla finita con questa cosa» dice sottovoce. Non sopporto più di non stargli vicino e quindi mi alzo e mi arrampico sul letto. Una parte intera del suo corpo si spinge contro il mio e so che non sto immaginando nulla. Tessa solleva le sopracciglia ma non dice nulla. «Hanno cercato di farmi lavorare. Non so cosa volevano che io fi ma non ce l’ho fatta neppure ad arrivare alla porta della fattoria, avevo così tanto male. Dopo un giorno o due mi hanno semplicemente lasciato solo in quel furgone puzzolente. Nessuno mi ha portato cibo o acqua o niente. Ho dormito tanto. Non avevo male quando dormivo. Ho saputo della retata della polizia quando ho sentito le voci urlare a tutti di uscire dalle roulotte oppure li avrebbero mandati a fuoco. Non so come ho fatto a uscire ma quando l’ho fatto sono stato preso e buttato dentro di nuovo e portato via di gran fretta. Il furgone stava ancora andando quando mi hanno gettato fuori.» Julian piega la testa in avanti e le mostra il cranio con i punti e si tocca la guancia gonfia.

Tessa fa un altro po’ di fotografie. «E qui è quando la polizia ti ha raccolto?» Julian annuisce. «Okay, grazie, Julian, sei stato davvero coraggioso. Abbiamo un altro ragazzino di quel campo disposto a rilasciare una dichiarazione, ma se ce ne sono altri che conosci del tugurio o della casa bianca che pensi vorrebbero venire a dichiarare, renderà il caso semplicemente più forte.» Penso a Peter e a Nathaniel che dormono nella brughiera. Penso di andarli a cercare. Prima che se ne vada, Tessa ci chiede un indirizzo e sono sorpreso quando Julian dà quello del caffè come il suo. «Cassey ha detto che possiamo stare da lei fino a quando non mi rimetto in sesto» dice, appoggiandosi a me e sospirando profondamente dopo che Tessa se n’è andata. E come facciamo con Lloyd? Faccio segno, ricordandomelo improvvisamente. «Non lo so. Penso che dovremo semplicemente vivere giorno per giorno come viene.» Annuisco distratto, il mio cervello è in surriscaldamento, sta rielaborando ciò che è accaduto a Julian, a quanto è stato ferito, e tutto per colpa di Lloyd e della sua minaccia di venirci a cercare. Devo smetterla di pensare. Mi concentro sul suo respiro, regolare e caldo sulla mia spalla e su come odori davvero di pulito e di buono. Io invece puzzo terribilmente. Guardo lo sporco attorno alle unghie, scendo verso le linee sulle mani e improvvisamente mi sento lercio mentre me ne sto seduto su un letto pulito insieme a lui. So che non è la sporcizia il problema, non per davvero. So che è perché mi sento sopraffatto da tutto ciò che ha dovuto are e troppo inadeguato per servire a qualcosa. Scendo dal letto e mi accascio sul pavimento. «Cosa stai facendo laggiù?» mi domanda dolcemente lui, confuso.

Alzo le spalle. Sei pulito, io no. Faccio segno. Lentamente, con molta cautela, scivola in basso dal letto fino a quando la sua testa non si allinea al materasso a qualche centimetro di distanza da me. «Pensi veramente che me ne freghi qualcosa?» Allunga il suo braccio sano per voltarmi il viso verso di lui e mi scruta con i suoi caldi occhi color nocciola. Sa qual è il problema. Lo ha sempre saputo. Con dita tremanti traccia la curva delle mie guance, il solco incurvato di ciascuna parte del naso e questa lenta esplorazione è resa così tanto più intima dalla limpida luce dell’ospedale. «Sai cosa ha fatto davvero male quando ero disteso in quel furgone?» dice dolcemente, avvicinandosi sempre più a ogni tocco. «L’idea che se fossi morto lì tu non lo avresti mai saputo. È stupido, ma al di là di tutto non riuscivo a sopportare l’idea che tu non lo venissi a sapere. Non mi sembrava giusto che, in qualche modo, l’unica persona che per me significa il mondo intero, non avrebbe mai saputo che io ero morto.» Siamo così vicini, adesso. Sento un tenero, incredibile bisogno fermare le sue lacrime con le mie labbra, assaggiare la pelle salata delle sue guance sotto la mia lingua. Sono arrivato alla realizzazione che è possibile allontanare il dolore con tali azioni, mostrare di amare qualcuno senza dire una parola. Lui abbassa le ciglia e io chiudo gli occhi. Siamo così esitanti e timidi l’un l’altro, l’aspettativa è dolorosa e... stupenda. «E io sapevo che se ti avessi mai rivisto...» le parole sono solo un sussurro di delizioso respiro. «Avrei...» Inala forte al primo tocco delle nostre labbra, e io mi tiro indietro temendo di avergli fatto del male. Ho così tanta paura di fargli male. I suoi occhi mezzo chiusi, cupi, confusi.

Non voglio farti male, faccio rapidamente segno. Lui ruggisce tremante «Per favore, Remee» e la sua voce è carica di una pena differente. Lo voglio così tanto da sentire male al solo contatto. Questa volta, quando le nostre labbra si incontrano, apro la bocca contro la sua e annaspo quando la sua lingua tocca la mia e scivola dentro. Lui gira la testa contro il letto per approfondire il bacio, i suoi gemiti vibrano dentro di me quando io mi piego in avanti e lo bacio a mia volta con la stessa forza. Apro e chiudo le mani sui suoi capelli, contro le lenzuola del letto cercando di essere gentile ma perdendo completamente coerenza nei pensieri. Sto ansimando e annaspando e a malapena respiro, ubriaco da tutti quei piccoli suoni che emette, il corpo che supplica il mio di farmi più vicino, ancor più vicino. Non ho mai baciato nessun altro così, perduto in un feroce, selvaggio desiderio che sembra impossibile soddisfare. Ci conosciamo così bene e non sappiamo nulla. Diventa presto caotico e disperato e tutto molto rapidamente. Io mi tiro indietro per sfiorare le nostre guance unite. «Cosa c’è che non va, tesoro?» sussurra, sempre stringendomi, respirando affannosamente contro l’orecchio. Non riesco a rispondere. Non riesco, cazzo, a respirare. Era troppo bello. Non voglio venire così. Voglio venire con il mio corpo premuto contro il suo, avvolto in lui mentre mi tiene e io volo via. Non voglio perdere il controllo inginocchiato sul pavimento vicino a questo letto di ospedale, con la possibilità di un’infermiera o di un dottore che entrino e ci scoprano. «Remee?» mi gira il volto verso di sé. La sua pelle è arrossata attorno al collo e all’inizio del petto, appena visibile attraverso il camice e mi ricordo quella volta, nel tugurio, quando ho pensato che fosse imbarazzato dopo che io mi ero lasciato andare. Quanto cazzo mi sbagliavo?

Non qui, faccio segno, consapevole per metà di quanto io sia prevedibile. Sorride e anche se il suo viso è sfigurato dai lividi, riesce sempre a sciogliermi dentro. Alla fine arrossisce debolmente mentre cattura il mio sguardo che vaga verso il basso sulle lenzuola sollevate e si ferma con sorpresa sulla sua erezione ormai evidente. Grazie a Dio non siamo andati oltre, penso mentre le tende vengono spinte di lato con sgarbo e un’infermiera entra con una pila di prescrizioni e i fogli per la dimissione.

Questi normalissimi fantasmi

C’è una cabina telefonica dentro la hall della reception del Pronto Soccorso. Consegno a Julian la mia ultima moneta estraendola dalla tasca dei jeans sudici e mi appoggio al muro cercando di restare in piedi. Sono così tanto stanco che vedo strane luci danzare proprio davanti ai miei occhi. Julian mi guarda preoccupato mentre parla con Cassey. «Stai bene?» sillaba nel bel mezzo della conversazione. Annuisco, anche se mi sento scivolare. Mi raggiunge e afferra il braccio, tenendo la cornetta tra l’orecchio e la spalla. «Merda, Remee?» Sento la testa cadere all’indietro e colpire il muro dietro di me e tutto diventa improvvisamente molto freddo. Fortunatamente non rimango senza conoscenza per molto e durante il breve momento in cui Julian mi fa in qualche modo sedere sul pavimento e mi sistema la testa tra le ginocchia, rinvengo. «Torno tra un secondo» mormora e il suo calore confortevole si allontana. Lo fa con una manciata di sacchettini di zucchero presi dal bar dell’ospedale sul lato opposto della reception. Ne apre uno con i denti, ne versa il contenuto sulla mia mano e me lo indirizza verso la bocca. «Quando è stata l’ultima volta che hai mangiato qualcosa, tesoro?» Alzo le spalle. Onestamente non riesco a ricordare. Apre un altro sacchetto, fa scattare la testa all’indietro e manda giù il contenuto lui stesso. Uno per uno, ce li facciamo tutti. Questa è la ragione per cui Cassey

deve nascondere lo zucchero nel suo bar, ci sono stati giorni in cui siamo sopravvissuti grazie a nient’altro che sacchettini di zucchero e ketchup. Non ti fa sentire il massimo; infatti probabilmente mi sento più vuoto e vacuo di prima, ora che il mio stomaco si è svegliato, ma per lo meno le strane luci di prima se ne sono andate e il breve momento di sovraeccitazione da zuccheri mi dice che ho un po’ di energia. «Cazzo, sei diventato così pallido prima, lo sai?» Che vuol dire, traducendo mi hai fatto cagare addosso dalla paura. Spingo il corpo contro il suo per rassicurarlo, e ci sediamo così, appoggiati l’uno all’altro, troppo esausti per comunicare mentre aspettiamo che giunga Cassey. È di nuovo buio quando Cassey arriva con la sua macchina sgangherata per riportarci al bar. Sprofondiamo nel sedile posteriore e chiudo gli occhi mentre Julian avvolge le sue braccia calde attorno a me. Odora così dannatamente di buono, anche se un po’ anche di ospedale. E so che questo è tutto ciò di cui ho bisogno. Tutto ciò che voglio. Sempre. Quando apro gli occhi di nuovo, l’auto si è fermata sotto il chiarore arancione e fioco del lampione e Cassey sta parlando a bassa voce con Julian. Gli porge un set di chiavi per la porta sul retro. «Philippe è andato via con Cricket e Roxy, così avete il posto tutto per voi. Mi spiace di non potervi ospitare a tempo indeterminato, ma se qualcuno se ne accorgesse lo chiuderebbero. Due o tre settimane è il massimo che posso fare.» Julian annuisce grato. «Grazie» dice, stringendo più forte il braccio attorno a me e dirigendosi verso la porta. Tutto è chiuso e il palazzo è immerso nell’oscurità. Noto che la finestra che Julian ha rotto è stata ricoperta da un pezzo di compensato, solido all’apparenza. Sicuro. «Gem ti ha lasciato un po’ di cosette nella stanza sul retro» dice Cassey attraverso il finestrino, ricordandosene appena prima di ripartire. «Solo perché si sente in colpa» borbotta Julian in modo cupo mentre

attraversiamo il cortile dove abbiamo dormito così tante volte che non riuscirei a contarle. Il mio fiato è un vapore fumoso nell’aria gelida mentre Julian lotta con la serratura, determinato a farla scattare con una sola mano nonostante il buio. Hai litigato con Gem? Gli domando con i segni, dopo aver azionato ogni interruttore che troviamo. Julian mi lancia un’occhiata rapida: «Puoi ben dirlo» risponde, restando in piedi sulla porta d’entrata tra la sala e la stanza sul retro. «Gem ti ha fatto andare via quando eri andato lì per chiedere aiuto.» Sei ancora...? Mi fermo. Che cosa cavolo mai gli sto chiedendo? Lo so che non è così, certo che so che non prova ancora qualcosa per Gem, per quale cazzo mai voglio così tanto sentirmi dire da lui che non ne prova? «Cosa?» mi domanda sottovoce. Scuoto la testa un po’ troppo vigorosamente. Niente. A volte quando lui mi guarda così, penso possa vedermi dentro, proprio attraverso le stupide paure e le angosce scritte sui muri della mia mente. «È finita tanto tempo fa, tesoro.» L’hai amata, però. Julian piega la testa, le ciglia aggrottate. «Lui. L’ho amato.» Oh. La consapevolezza mi si presenta come un paio di tende che si aprono su una stanza avvolta nell’oscurità e che rivelano un intero mondo luminoso al di là di esse. Gem è un uomo.

Lui è il padre di Joel. Non mi meraviglia adesso che abbia pensato quanto fosse stupida la mia domanda sull’essere Julian il padre di Joel. Mi domando se il fatto che non me ne sia accorto lo abbia lusingato. «Gem non è stato sempre come è adesso. All’inizio non ho affrontato bene questa cosa del travestirsi. Ero un ragazzino. Non capivo.» Mi allungo in cerca della sua mano attraverso il corridoio. Posso accettare il suo ato. Comprendere richiede sforzo, ma è uno sforzo che entrambi siamo intenzionati a sopportare.

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A occhi spalancati, con un eccitazione un po’ assonnata ci facciamo a vicenda ancora qualche tazza di tè zuccherato e interminabili sfilze di toast spalmati di marmellata. Cassey ci ha detto che potevamo usare gli utensili nella cucina sul retro a patto di non sporcarli tutti. Immagino che ci abbia lasciato tutto quello che potevamo, in ogni caso, mangiare. Mi sento molto meglio. Sfinito, ma più in forze. Le “cosette” che Gem ci ha lasciato sono in un sacco nero della spazzatura vicino alla porta. Julian li getta fuori e iamo in rassegna con avidità lo strano assortimento di magliette e pantaloni (che odorano in modo fantastico, di un certo tipo di detersivo al profumo di fiori) alla ricerca di qualcosa di caldo con il quale dormire. Ci sono anche un paio di asciugamani, del sapone, shampoo, dentifricio e spazzolini da denti. «C’è un bagno in fondo alla sala» dice Julian avvolgendo goffamente tutti gli accessori per la toilette attorno a un telo con una mano sola. E i tuoi vestiti? Faccio segno.

«Posso bagnarli; dovrai soltanto aiutarmi a mettermene dei nuovi addosso, dopo. Il cuore sta già iniziando a battere in maniera irregolare e rapida. Mi inginocchio dietro di lui, arrotolo le punte di un asciugamano qualsiasi e le unisco sfiorando le dita contro le sue. L’atmosfera tra noi è tutto d’un tratto più pesante in qualche modo, i nostri movimenti sono più lenti nel portarci l’uno più vicino all’altro. Lentamente le sue dita sfregano contro il mio braccio e io mi volto e mi premo contro di lui, affondando il viso contro la sua spalla, respirando il suo forte odore così familiare. Lo sento deglutire e le sue parole vibrano attraverso di me, con urgenza e desiderio. «Andiamo.» Il vecchio scaldino a ventola sul muro grugnisce tornando in vita mentre ci laviamo nella vasca sudicia. Ti fa male? Faccio segno, toccando gentilmente la garza avvolta attorno al suo polso mentre lui lo tiene fuori dall’acqua per il momento. Scuote la testa con confusa meraviglia. «Gli antidolorifici che mi hanno dato sono oppiacei. Non fa male per niente.» I suoi occhi si incollano ai miei e porta le dita con fare esitante verso il mio viso, traccia le linee esterne delle mie labbra fino a quando non afferro le sue dita e gliele bacio, e lui mi guarda, perso in un desiderio incontenibile. Incoraggiato ma in qualche modo fiaccato dalla sua reazione, inserisco ciascun dito in bocca e in profondità, sentendo il mio uccello gonfiarsi dolorosamente nei jeans. Ho bisogno di più. Evidentemente anche lui, perché si avvicina all’improvviso, mi afferra la nuca e in un batter d’occhio preme le nostre bocche insieme, entrambi lottando in maniera frenetica per avvicinarci ulteriormente fino a quando non crolliamo, scioccati, contro il pavimento di cemento del bagno.

«Cazzo, stai bene?» domanda ansimando. Annuisco, la testa che risuona ancora per via dell’impatto anche se poi lo tiro in basso pesantemente su di me, cercando la sua bocca, la sua pelle, finalmente. Dio, la sua pelle, calda ma tremante sotto le mie dita mentre le lascio vagare lungo i muscoli in entrambi i lati della colonna vertebrale, tra le scapole, facendogli inarcare e spingere le anche contro le mie, mentre mi dà baci lenti ma profondi. Sono così tante le sensazioni, che mi perdo in esse, in lui. In ogni spinta dei suoi fianchi, in ogni ata ruvida della sua lingua. Il nostro mondo si restringe a una singola striscia di contatto, di sapore. Perché mai dovremmo aver bisogno d’altro? Solo quando la vasca inizia a straripare sul pavimento torniamo in noi. Julian ride mentre entrambi ci buttiamo, senza più respiro, selvaggiamente sui rubinetti, frastornati. Raggianti. Cerco di dirglielo ma non capisce. Forse semplicemente non riesce a vederlo. Timidamente ci spogliamo, tirandoci via le magliette da sopra le facce arrossate e lasciandole cadere senza preoccuparcene sul pavimento bagnato. Julian esita prima di sbottonarsi i pantaloni, e io lo guardo semplicemente perché sono stupido e disperato e non posso distogliere gli occhi. «Per me è ato un po’ di tempo...» sussurra, mentre si osserva le dita ancora ferme, così vulnerabile da far male fisicamente solo a guardarlo. Mi sconvolge capire fino in fondo come farsi usare lo stesse distruggendo. Non sopporto il pensiero che possa tornare laggiù e vendere se stesso e so che dobbiamo trovare un modo per sopravvivere senza doverlo più fare. Ma sopravvivremo senza farlo. Va tutto bene, faccio segno. Va bene se non faremo altro che baciarci e tenerci abbracciati. Va tutto bene, purché lui sia qui con me. È tutto ciò di cui ho bisogno.

«Non volevo dire... è solo... ti voglio.» Guarda oltre e la sua espressione è sincera. «Se io non ... non posso... non ha importanza. Non voglio che tu pensi sia per causa tua, perché non lo è. Sono io e... non ho un’erezione così da così tanto tempo,» dice ansimando. Il suo sorriso aperto mi accende e sorrido di rimando, senza poterne fare a meno mentre lascio cadere i jeans per terra e saltello fuori da essi. Non gli do neppure il tempo di alzarsi in piedi dopo che si è tolto i suoi prima di gettarmi contro di lui e cadere entrambi dentro la vasca. Restiamo distesi viso contro viso, le sue mani insaponate contro la mia pelle che sfregano in cerchi lenti la mia schiena, sempre più in basso mentre mi mordicchia un lobo dell’orecchio. «Sei così bello, tesoro» dice, parole sussurrate che vagano lungo la mia spina dorsale mentre parla, facendo inarcare il corpo contro il suo, adorando la sensazione di come il mio uccello si allinei perfettamente contro l’incavo del suo fianco e la sua erezione spunti già pronta contro il mio ventre. «Mi fai sentire così bene.» Le sue parole fanno eco ai miei pensieri, sebbene riesca a malapena a pensare e sia semplicemente un fascio di nervi, l’unico desiderio che ho è spingere contro il suo fianco e ansimare a bocca aperta contro il suo collo mentre la sua mano raggiunge la pelle sensibile alla base della schiena e affonda in basso, le sue dita che scivolano affamate tra... spingo indietro contro di lui, aprendomi a lui, desiderando che le sue dita affondino in me, anche se dovrei fermarmi perché di certo verrò se continua ad andare così in profondità. I suoi gemiti silenziosi, mentre allungo una mano tra di noi, afferrandolo forte nel pugno, sono l’unico suono io abbia mai avuto bisogno di ascoltare. Ma in qualche modo lui cambia posizione. Mi sposta in alto, su di lui, la mia schiena contro il suo petto, mentre lui si appoggia contro il bordo della vasca e mi tiene stretto. Giro la testa per baciarlo mentre la sua mano scivola pigramente sul mio petto, lo stomaco, così piano che l’attesa mi rende quasi cieco e... allarga le mie gambe, arrivando fin all’interno delle cosce. Lo guardo con occhi a fessura mentre lui prende i nostri uccelli in mano e muove i fianchi, strofinando e scivolando contro di me.

Tengo la mia mano sulla sua per aumentare lo sfregamento, per godere del suo calore delizioso, per sentirlo mentre trattiene il respiro ogni volta. Mi pare di essere in equilibrio precario sul bordo dannato di un abisso glorioso, quel momento che si allunga per poi fermarsi... e scoppiare mentre io vengo attraverso densi schizzi. Julian mi guarda emettendo un suono basso che io voglio continuare a sentire ancora e ancora. Vibra mentre chiudo il palmo sopra il suo cazzo, voglio sentirlo pulsare mentre viene contro di me e baciarlo senza fermarmi mentre lo fa. Scivoliamo nell’acqua mentre ancora ci baciamo e mi domando sognante se non possiamo restare così, allacciati insieme dai fumi dell’orgasmo, quasi stessimo fermando il tempo e creando il nostro dannatissimo mondo... Ma per quanto provi a trattenere la sensazione, rimanere in stallo sulle fottutissime ali di questo volo, so che erà, il bagno diventerà freddo. Dormiremo avvinghiati l’uno all’altro sul duro pavimento della stanza sul retro, ci scoperemo fino a quando saremo gonfi, doloranti e sfatti. Le mattine sorgeranno più fredde e più gelide e le strade ci aspetteranno ma non riusciranno a portarci via ciò che abbiamo... ma ci proveranno perché siamo destinati all’effimero, come le scintille di un falò che sprizzano nel buio. Non siamo fatti per durare, niente dura, un attimo segue sempre un altro... il buono, il cattivo, l’orrendo, il fantastico, il normale... e nell’oscurità che si avvicenda c’è solo un’unica cosa a cui non resta che aggrapparci...

Parte Seconda:

Alla fine del Tutto

Fossimo in Russia, adesso saremmo morti

È inverno. Oppure, come era solita chiamarla mia madre nel suo contorto accento russo, è la stagione della morte. Aveva nomi come questo per tutto. La sua vita affondava in una negatività nera, l’unica salvezza erano, per lei, le preghiere che mormorava mentre sgranava rosari. Avvolti in vecchie coperte, io e Julian vaghiamo per l’argine vuoto cercando un piccolo riparo e un posto dove dormire. Sembriamo fantasmi velati nelle tenebre e in qualche modo lo siamo. Il fiume, stranamente non congelato, va alla deriva sotto di noi. Vapori di ghiaccio fluttuano nell’aria rendendo ogni cosa indistinta e indefinita. Mezz’ora fa siamo stati scacciati dal nostro rifugio in un sottoaggio deserto da un quasi esercito di poliziotti; ora, tutto quello che riusciamo a ritagliarci, sono poche ore di pacifica serenità avvinghiati l’uno tra le braccia dell’altro. Dicono che sia in atto una sorta di giro di vite, per ripulire la città, quasi fossimo spazzatura da cui disinfettarsi. Dove pensino ce ne andiamo tutti una volta che ci hanno mandato via da un posto, non ne ho idea. Forse, un bel giorno, troveranno il modo di farci scomparire sul serio. Qualche settimana fa abbiamo avuto una breve tregua dalla strada, in un certo senso il regalo di un amico: avevamo una stanza dove dormire, cibo da mangiare, un bagno da usare. Tuttavia, per quanto gloriosa, quella tregua ci ha reso le cose solo più difficili. Ci ha reso il ritorno alla prigionia qui fuori ancor più infernale di quanto non lo fosse mai stato prima perché ci ha permesso di gustare la dolcezza di momenti che abbiamo dato per scontati e ci tortura con la consapevolezza di quanto possano essere irraggiungibili. L’orologio dell’argine scocca le tre. Fossimo in Russia, adesso saremmo morti. Così, dal nulla, sento la voce di mia madre nella testa e abbasso lo sguardo verso la mia mano. Non so quanti anni avessi, ma mi soprese mentre mi stavo

toccando, e non c’era assolutamente modo di nascondermi in quel piccolo monolocale. Prese la mia mano e la tenne sulla fiamma del fornello. Se eravamo in Russia ora, ti avrebbero fatto a pezzi quella mano disgustosa, aveva gridato. Mi ero rannicchiato di fronte a lei, tenendomi delicatamente le dita piene di vesciche, troppo impaurito per muovermi. Julian afferra il bordo della mia coperta e mi attira a sé. «Ehi, dove stai andando, tesoro? Qui va bene.» È solo una panchina di cemento, un posto dove la gente si siede nei giorni di sole per guardare verso il fiume ma ci possiamo distendere piegandoci sotto le stecche del sedile e con un po’ di fortuna nessuno ci disturberà. «Stai bene?» Il suo respiro caldo sussurra contro la mia guancia mentre ci avvolgiamo l’un l’altro sul terreno sotto la perfetta oscurità delle nostre coperte. Il calore liquido della sua pelle irradia dagli strati dei vestiti e, con un dolore profondo fino alle ossa, mi riempie della voglia di essergli più vicino, sempre più vicino, «Eri lontano mille miglia.» Non si aspetta una risposta. Non c’è modo che io possa rispondergli proprio ora, il blocco è riposto nella tasca lacera del mio cappotto. Julian non può vedere il linguaggio dei segni al buio. Così premo le mie labbra contro il primo spiraglio di pelle che trovo e le mantengo lì mentre lui sospira e mi stringe a sé più forte. Non abbiamo fatto nient’altro che questo per una settimana. A malapena niente più che infilarci le mani nei pantaloni e baciarci in modo scomposto per ore e trattenendoci il più possibile dal venire, alla fine. Ma stasera sento una sorta di urgenza diversa mentre traccio i contorni del suo viso con i polpastrelli, un desiderio lento e profondo di essere suo completamente. Sebbene sabbia che non mi scoperebbe mai qui fuori, vorrei che lo fe. Prendo la sua mano e gli succhio pigramente le dita. Sorrido nel buio, anche se non mi può vedere, questa cosa lo fa sempre gemere disperatamente di voglia. Le sue mani sono calde e lui sa completamente di se stesso, così totalmente

familiare... Oh, Dio, ne ho bisogno. Lo attiro su di me, la mia bocca sulla sua mentre spingo i miei pantaloni verso il basso e armeggio con la chiusura dei suoi jeans. «Remee...» sussurra roco. Voglio allontanare le sue parole con un bacio, lascio scivolare le mani oltre l’elastico della cintura e afferro i muscoli soffici e sodi delle sue natiche mentre catturo la sua bocca. «Tesoro...» Con un calcio mi libero dei pantaloni insieme a una parte della coperta e avvolgo le gambe attorno alla sua vita. In questo momento non mi importa se siamo nascosti, in questo momento vengo spazzato via, sono polvere, sono desiderio. Finiamo per sfregarci l’uno contro l’altro, Julian singhiozza contro il mio collo mentre viene; qualche volta lo fa sebbene io non gli chieda mai perché Il mio orgasmo fluisce provocato dal calore scivoloso del suo contro il mio stomaco, dalla sua voce che sussurra il mio nome contro il mio orecchio. Il giorno dopo la mia tosse peggiora. Mi sveglia. Penso debba essere per via della terra dove abbiamo dormito. Forse l’ho respirata durante la notte. Ho questa tosse che va e che viene da settimane. Julian mi guarda con preoccupazione mentre arrotola le coperte per bene e le infila sotto il braccio. I suoi lividi stanno scomparendo, il gonfiore sulla faccia è ormai quasi andato via. Solo il polso continua a dargli problemi. L’ospedale gli ha tolto il gesso la settimana scorsa ma, sebbene la pelle sia rosa e si stia rigenerando bene, il casino all’interno ancora gli fa male. Gli dà dolore ogni volta che lo muove, lo vedo. Non parliamo di quello che è successo quando è stato rapito da Malik, di quanto terrorizzato fosse quando è stato attaccato dai cani e lasciato nel furgone a morire e poi gettato fuori dal veicolo in corsa quando la polizia ha fatto il raid nel campo di lavoro illegale. Forse un giorno lo farà. Penso che sia ancora troppo scosso. Siamo inoltre ancora rinchiusi in una sorta di meravigliato stupore nell’esserci, l’uno per l’altro. Non credo che questa sensazione scomparirà mai.

Ci nascondiamo tutto il giorno nel bar di Joe Brown, con Cassey che ci a tazze di tè gratuite da sopra il bancone quando nessuno sta guardando. È al caldo, un posto dove sappiamo di essere i benvenuti. Ma la notte, quando usciamo nell’aria gelida posso a malapena prendere respiro una volta senza tossirne almeno venti. I miei polmoni sono in preda agli spasmi, mi fa male il petto e mi sento esausto. Sono solo le sei del pomeriggio, ma i lampioni sono accesi da ore. Sto iniziando a odiare questo buio senza fine. Sediamo sulla panchina di legno fuori dalle porte del bar ormai chiuse e Julian mi copre con le coperte e mi tiene tra le braccia mentre tremo senza controllo e tossisco ancora e ancora. «Penso che dovrei portarti da un dottore.» Deve essere preoccupato. Odia gli ospedali. Oltre tutto sa che sono minorenne, qualunque età io mai possa dire di avere, so che dimostro meno di sedici anni. Se le autorità scoprissero che sono sulla strada, sarei automaticamente trattenuto e messo sotto il controllo dello stato fino a che i miei genitori non venissero ritrovati. Non importa cosa potrei volere io. Non ho voce in capitolo su questo. Aspettiamo un altro po’. In fondo è soltanto tosse, non è così? Ma quando inizio a tossire in modo quasi ininterrotto e a malapena a respirare, Julian abbandona in malo modo le coperte sulla panchina e quasi mi trasporta lungo la strada e oltre il ponte al di là del fiume. L’ospedale non è lontano.

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La Cura

Posso avvertire la tensione nelle parti più dure del suo corpo mentre mi stringo a Julian. La sento annidarsi tra i muscoli roventi del braccio mentre mi solleva. Non ero preoccupato prima, anche se ogni volta che tossivo fuori dal bar mi sentivo come se le costole si spezzassero in due. Ho già tossito in precedenza, ma quando raggiungiamo la prima metà del ponte e lottiamo contro le raffiche del vengo ghiacciato, alzo lo sguardo verso Julian e vedo solo angoscia pura e disperata. Julian non mi fa mai entrare in panico. È sempre lui a colmare il buco nero annidato dentro di me, lui che chiude fuori le tenebre, che affronta le ombre e mi infetta con la sua contagiosa convinzione che tutto andrà a posto, che staremo sempre bene. Non voglio vedermi in questo stato. Sentirmi così. Tremando e a malapena capaci di restare in piedi, ci trasciniamo verso il Pronto Soccorso(2) più vicino. Non è l’ospedale dove è stato portato Julian, ma sono già stato qui prima con Roxy. Questo posto è più centrale, più affollato, a quest’ora del giorno malati e feriti straripano nei corridoi e nell’atrio. Ma anche se è così gremito c’è sempre uno strano silenzio vigile mentre ci mettiamo in fila all’accettazione, indubbiamente a causa del mio costante tossire, e restiamo a fatica in piedi in balia di spifferi di aria gelida che soffiano attraverso le porte sempre aperte. Mi contorco mentre annaspo, Julian mi carezza la schiena quando lo vedo. Il sangue. Gocciola fuori dalle mie labbra formando cerchi imperfetti di rosso sulle piastrelle pallide del pavimento. Oh, è tutto ciò che riesco a pensare. Ma il pensiero ha il peso e la forma di una pietra. Una pietra pesante e solida quel tanto da mandare in mille pezzi la mia indistruttibile anima di vetro, se dovessi cadere.

Strofino la bocca con il dorso della mano e striscio la pelle candida di un rosso davvero molto brillante. Julian allontana la mia mano, la prende tra le sue calde e pulisce via il sangue con i polpastrelli. Cerca di sorridere ma i suoi occhi sono sconvolti. «Nome?» la receptionist non alza neppure lo sguardo. «Remee Lavelle» Julian non vacilla mentre dice la sua bugia. Il cognome è il suo non il mio. Mi guarda controllando se me ne importa. «Età?» «Diciassette.» Fa’ che una bugia non si discosti mai troppo dalla verità. «Hai diciassette anni?» «Cosa? No, lui ha diciassette anni. È muto. Non vedi che è lui che ha bisogno di vedere un cazzo di dottore?» Le nocche di Julian sono bianche mentre afferrano il bordo del bancone. La receptionist lo guarda. «Lui ha bisogno di vedere un dottore,» ripete un po’ più calmo. «Per favore allontanatevi dal bancone,» afferma lei, con tono gelido. Julian abbassa le mani e digrigna i denti mentre io mi affloscio contro il suo fianco. Sarebbe così facile scivolare sul pavimento. Chiudo le braccia attorno al petto quando un’altra ondata di tosse mi colpisce. Sono così dannatamente stanco. Per lo meno non siamo fuori in quell’inverno russo, cerco di consolarmi; per lo meno siamo insieme. Anche se sto bruciando come una cometa, per lo meno lui è lo spazio fresco che mi circonda. Ci appoggiamo contro il muro tra le porte delle toilette delle donne e degli uomini. Tossisco nell’abbraccio caldo di Julian, lascio che le sue braccia mi avvolgano. La gente striscia a distanza di sicurezza. Qualcuno si lamenta e mi viene porto un pacchetto di fazzolettini. Sputo sangue. Julian preme la sua testa contro la mia e chiude gli occhi. Mi sento così distaccato, ogni momento è il fotogramma di un film la cui continuità si è fottuta. E a volte anche il suono se n’è andato, lasciandomi in un

tale silenzioso sbadiglio che penso potrebbe inghiottirmi completamente. Ore più tardi non siamo più in attesa. Un dottore stanco dai capelli neri tira indietro la tenda del nostro piccolo cubicolo. «Hai una leggera febbre ma è solo un’infezione toracica. Le lastre sono pulite, nessun fluido, nessuna ombra. Posso prescriverti degli antibiotici.» «E il sangue?» la voce di Julian vacilla, e lui afferra la mia mano mentre lo chiede. Sento le forti pulsazioni del suo polso mentre lo preme contro il mio. Il calore della sua pelle. «È normale. Stai tossendo da un po’ di tempo?» il dottore mi guarda. Annuisco. Il suo camice emette un fruscio mentre si siede alla fine del lettino e sospira. «Se resti sulla strada potrà solo peggiorare.» Fruga nella tasca e porge a Julian un pezzo di carta ripiegato. «Questo è il numero di un rifugio a Victoria. Hanno spazio per voi.» Julian guarda il numero scarabocchiato attraverso il pezzo di carta e lo ripiega con cura lungo le pieghe e lo restituisce. Entrambi dobbiamo sembrare così giovani e ingenui sotto queste accecanti luci d’ospedale. Il mio corpo è squassato da un’altra scarica di tosse mentre Julian dice: «Non andremo in nessun rifugio.» «Allora il tuo amico soffrirà molto per questa tosse che può invece facilmente essere curata e rischia di finire con una polmonite.» Desolato, il dottore scuote la testa. Immagino sia stanco di gente come noi, gente che, penserà, non voglia essere aiutata. Ma non è così semplice. Non appena se ne va, Julian si gira e mi prende le mani tra le sue. «Non so cosa fare.» Sussurra disperato. Mi piego in avanti e cado letteralmente tra le sue braccia, cercando di respirare attraverso la stoffa dura della sua felpa, per smettere di tossire. «Mia madre è morta per una malattia polmonare» mormora tra i miei capelli. Nonostante la serietà della sua rivelazione, le sue parole mi fanno rabbrividire per come preme le labbra contro lo strato nero e morbidamente piumoso che ora

ricopre la mia testa. Alla cieca cerco il mio blocco, riluttante a tirarmi indietro. Non ha mai parlato della sua famiglia e dato che non amo affatto parlare di mia madre, non gliel’ho mai chiesto. È per questo che sei andato via di casa? Scrivo. Guarda le mie parole e scuote la testa prima di affondare il viso di nuovo contro la mia spalla. «Avevo nove anni. Tossiva sangue e io cercavo di tenerla stretta e cercare di farla fermare. Pensavo che se solo fossi riuscito a occuparmi di lei abbastanza, sarebbe stata bene. Ma non è andata così.» Lascio scivolare leggermente le dita sotto la felpa su entrambi i lati della sua colonna vertebrale, lo sento appoggiarsi a me, il suo respiro che si fa più profondo. Gli piace essere toccato così, carezzato lentamente ed esplorato. «Ho paura che ti portino via da me se andiamo al rifugio.» Sussurra. «Ma non posso tornare là fuori con te e farti ammalare di più.»

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Rifugio

Julian mi lascia solo il tempo per rubare qualche coperta dalla lavanderia che si trova nelle cantine sotto l’ospedale. Sembra sempre sapere dove trovare posti come questo, come se avesse nel cervello una sorta di manuale di sopravvivenza urbana. Aspetto nervoso sui gradini delle cantine, premendo con la manica sulla bocca per tossire in silenzio, ascoltando il suono tranquillo dei suoi i. L’ospedale è un enorme blocco Vittoriano, e sebbene illuminato ampiamente e tinteggiato di un bianco brillante tendente al giallo, posso sentire l’odore di muffa, la spessa oscurità della vernice che mi scivola dalle dita. Posso percepire il vento gelido della Russia che si fa largo tra le sottili vetrate e ulula per i corridoi e le scale come un lupo o... un fantasma. Un sussurro e il mio nome fluttua nell’aria. Guardo dietro di me rabbrividendo. La porta all’entrata delle cantine sbatte leggermente contro il muro nella brezza. Non c’è nessuno qui. «Ehi, tesoro.» La voce di Julian mi fa sussultare dalla paura. Non l’ho affatto sentito avvicinarsi. La sua mano gentile mi trattiene. «Sembri spaventato. Stai bene?» Cazzo. Oh, sto bene, penso. Sto solo sentendo cose... La gente dice che con la febbre alta puoi avere le allucinazioni sebbene adesso non mi senta particolarmente febbricitante.

Cerco di sorridergli. Lui si sporge verso di me e dolcemente bacia un angolo della mia bocca. E io sorrido sul serio, di cuore, la mia bocca contro la sua per una frazione di secondo prima di aver bisogno nuovamente di tossire. «Mi spiace averci messo così tanto. Dovevo trovare delle coperte pulite.» Si piega verso la pila ai suoi piedi e me ne porge un paio. Sono molto più spesse e pesanti di quelle che abbiamo lasciato sulla panchina. «Non volevo prendere quelle dove poteva esserci morto qualcuno o cosa...» Scuoto la testa, no, perché potrebbe essere sbagliato, tipo un malaugurio o qualcosa del genere. Come usciamo di qui? Domando con i segni, dopo che mi sono avvolto le coperte attorno alle spalle e mi sono sistemato sotto il loro peso. «Be’, possiamo andare da questa parte.» Indica verso i gradini che portano alla cantina, di nuovo la strada da cui siamo venuti. «Anche se la gente potrebbe chiedersi dove ce ne stiamo andando con queste.» Con le dita strattona la coperta attorno alle mie spalle. «Oppure possiamo uscire di qua.» Lo guardo mentre inclina la testa leggermente verso la cantina debolmente illuminata e all’istante penso col cazzo! «Non è molto lontano» mi dice dolcemente, con gli occhi che catturano la scarsa luminosità delle luci ardendo vivaci. Il modo con cui mi guarda, come se non ci fosse nient’altro sulla terra su cui posare gli occhi, mi fa considerare che se mai ci fosse stato qualcos’altro per cui io abbia mai sentito lo stesso, per cui io possa aver vissuto, senz’altro la mia vita sarebbe stata per sempre incompleta senza Julian in essa. Non è così freddo quaggiù, ma preferirei vagare per le strade ghiacciate. Non mi piace qui. Per niente.

C’è un corridoio centrale che percorre il sotterraneo con porte che compaiono su entrambi i lati e che portano a stanze piene di macchinari o spazzatura. Non sembra esserci una fine, nonostante Julian mi rassicuri che la meta non è molto lontana. In una delle stanze vediamo un portantino che muove dei carrelli. Mi fermo. Sono carrelli con cumuli di qualcosa che sta sotto delle coperte. Oh, Dio. Qui è dove portano i morti! Faccio segno velocemente. Con cautela, Julian fa un o indietro verso l’entrata e dà un’occhiata più da vicino. Annuisce, sembra un po’ pallido. Quanto è lontano? faccio segno mentre mi prende per mano. Dopo circa trecento metri arriviamo a una corta rampa di scale in pietra sulla cima della quale c’è una porta con una sbarra automatica per l’uscita d’emergenza e che sospetto porti fuori, sulla strada. Sono pronto a correre per quelle scale e uscire da qui, ma Julian si ferma, lascia andare la mia mano e si dirige su un lato, verso una piccola anticamera buia. Vi scompare dentro. Dopo un attimo si sporge sulla porta e dice, in modo strano, senza davvero incontrare i miei occhi. «Ehi, perché non ci fermiamo qui per la notte?» Non lo ha mai fatto prima d’ora, progettare, pianificare qualcosa che mi avrebbe fatto morire dalla gioia. Generalmente è così diretto, così chiaro, con la verità che gli brilla attraverso come la luce del sole fa con il vetro. Ora posso vedere che teme la mia reazione. Con riluttanza sbircio dietro di lui dentro la stanza. È piccola e vuota, pavimento e pareti di calcestruzzo, un uscio sul retro che Dio-chissà-dove porta. So che vuole solo trovare un rifugio. So che ha paura. Annuisco senza entusiasmo, perché anche io ho paura di questo posto. La porta sul muro lontano è chiusa a chiave. Ci rannicchiamo nell’angolo più lontano da essa e ci copriamo con le coperte. Julian si appoggia al muro e io mi

siedo tra le sue gambe con la schiena che preme contro di lui. Le sue braccia mi avvolgono. Una mano si stende sotto la maglia contro la pelle fresca del mio petto e carezza con movimenti rassicuranti e circolari tra le costole quando tossisco. È piacevole e la cosa sta iniziando ad eccitarmi, specialmente quando Julian sfrega le dita contro un capezzolo, quasi con fare distratto ma non del tutto. Il respiro si blocca e io mi sposto a disagio mentre mi sento diventare duro nei jeans. «Quando devi prendere tue medicine, tesoro?» Sussurra alito caldo contro il collo e io appoggio indietro la testa per sentirlo di più, per dirgli senza voce dove vorrei sentire le sue labbra, la sua lingua. È così bravo a distrarmi. Vorrei potermi dimenticare questa cazzo di tosse, però. «Remee, tesoro...» sussurra e una ruvida umidità mi lambisce il bordo di un orecchio. Cazzo, penso debolmente mentre mi sciolgo contro di lui. Completamente. Allargo le gambe piegate contro le sue, spingo i fianchi all’indietro e in alto, lo sfregamento dei jeans è quasi doloroso mentre mi strofino contro di essi. Inizio a tossire. Rallentiamo. Le dita di Julian disegnano lente e delicate linee lungo le mie costole, dalla schiena lungo tutto il davanti, e poi si trascina fino in basso, lasciando incombere la mano sul ventre e facendomi trattenere il respiro mentre scende in basso sempre di più fino a che non ritorno a tossire senza controllo di nuovo e con la voglia di piangere dalla frustrazione. «Tesoro» sussurra mentre mi preme soffici baci sul collo. «Voglio fare questa cosa solo per te. Voglio che tu ti distenda contro di me e ti rilassi, va bene?» Okay, faccio segno nel buio. Sono argilla malleabile ora.

Mi bacia il collo e i capelli mentre le sue dita gentili tracciano i bordi della mia erezione attraverso i jeans. Niente può paragonarsi a questo sentirmi completamente circondato. Con una mano che ancora mi carezza il petto, slaccia con perizia il bottone e apre la zip facendo scivolare la mano tra i pantaloni. Mi inarco al suo tocco mentre le dita afferrano la peluria alla base della mia erezione, il palmo della mano che frega con forza dall’alto verso il basso per tutta la lunghezza. Gli piace toccarmi ovunque, arrivare in basso tra le mie cosce, stringermi le palle, farmi sentire il peso della sua mano. Sono iper-sensibile e completamente aperto, piego la testa all’indietro, lascio che i miei occhi si chiudano e spasimo quando la sua bocca inizia a succhiare la tenera pelle tra il collo e la mia spalla. «Vieni per me» borbotta mentre mi afferra forte e inizia a pomparmi il cazzo nel pugno. La mattina arriva e veniamo svegliati dalla brusca vibrazione di un furgoncino che lascia cadere le cassette del latte da qualche parte lì vicino. Julian mi stringe più forte a sé respirando profondamente. La stanza è ancora buia e il mio corpo supplica per l’arrivo della luce dell’alba, affinché il cielo si spacchi e straripi di luce lungo l’orizzonte. Mi aggrappo a Julien e, ancora addormentati, raduniamo le coperte e ci incamminiamo su per i gradini e fuori nel vicolo ghiacciato. Quasi immediatamente mi piego in due, i polmoni in preda alle convulsioni e tossisco, tossisco e ancora tossisco. Julian mi attira più a sé, la mia testa sul suo petto così che possa respirare attraverso la stoffa calda della sua felpa. «Quel rifugio era a Victoria, vero?» dice dolcemente. «Andiamo.»

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Occasione n. 1

Il rifugio si trova nell’edificio di una vecchia fabbrica, i cui alloggi si estendono su quattro enormi piani. Ciascuna delle immense finestre è composta da piccoli pannelli di vetro, oscurati in modo tale da non permettere di vedere né dentro né fuori. Tra un attacco di tosse e l’altro, piego indietro la testa e cerco di abbracciare con lo sguardo l’imponenza del luogo. Sopra il tetto riesco a scorgere il cielo che albeggia e che sarà più azzurro di quanto non lo sia stato per settimane, l’aria più chiara e fredda del ghiaccio. Julian fa scivolare la mano sul mio gomito e mi strattona gentilmente. «Andiamo» sussurra. I due portoni d’entrata sono duri da aprire facendo pressione e Julian mi lascia andare per poggiare entrambe le mani sul vetro e spingere. Non appena entriamo nella reception ci avvolge una nuvola d’aria pregna di disinfettante. Ci sono manifesti ovunque, coprono le pareti: volti, linee di assistenza, consigli sulle droghe. Non li guardo. Mi fanno sentire senza speranza. Non rispecchiano affatto la realtà. Nessuna di queste immagini può aiutarci. Nessuno può aiutarci. Non nel modo in cui abbiamo bisogno di essere aiutati. Anche se è presto, davvero mattina presto, la reception è gestita da un uomo di mezza età in tuta sportiva. Sembra più una sorta di guardiano notturno che un addetto all’accoglienza. In sovrappeso e con il viso duro, il suo atteggiamento ci suggerisce che sarà meglio non scherzare con lui. Julian si avvicina per parlargli lasciandomi sulla porta e impedirmi di guardare i muri. Questo posto è più grande di qualsiasi altro in cui sono stato prima ed entrambi siamo stati in qualche rifugio, sebbene separatamente. Più grande e più organizzato. C’è spazio per duecento cinquantasei bisognosi e di bisogno ce n’è sempre. È

sempre pieno. All’uomo non importa se siamo insieme, ci dà due letti su piani differenti. Non so che cosa mi aspettavo. Credo non questo. Cammino con i indecisi per sedermi sulla scala di metallo vicino a un breve corridoio e tossisco miseramente nel mio cappotto leggero. «Sono gli unici letti disponibili per ora.» «Ha bisogno di me! È malato e non può chiedere un cazzo di aiuto se ne ha bisogno! Riesci a capire il linguaggio dei segni? No?» Non voglio ascoltare ma non posso farne a meno. «Se è malato non può stare qui.» «L’ospedale ci ha mandato qui!» «Devo pensare agli altri residenti. Dovrò chiamare l’ospedale.» Con calma la guardia fa la telefonata mentre Julian cammina avanti e indietro. Si ferma alla fine del corridoio e coglie il mio sguardo. Sbatte lentamente le palpebre una volta. Il mio cuore si gonfia, comprendendo: è il nostro linguaggio segreto. Chiudo gli occhi e sbatto a mia volta le palpebre, più lentamente. Perché lo amo più di quanto lui non si renda conto. «Okay, va bene. L’ospedale ha confermato che è tutto a posto. Ma i letti saranno quelli che vi sono stati offerti.» «Non capisci niente di quello che sto cercando di dirti? È muto. È... non dovrebbe starsene da solo. Guarda, sono già stato in altri rifugi prima. Lo so come vanno le cose. Non puoi metterlo su un piano da solo.» «Non sarà da solo. Ci sono le telecamere a circuito chiuso in ogni stanza per la sicurezza di tutti i residenti e...» «E nel momento in cui tu becchi qualcosa in quella tua dannata telecamera sarà

sempre troppo tardi!» «Non abbiamo mai avuto un prob...» « Non ne hai la minima idea. Vaffanculo.» Sibila Julian. Si farà buttare fuori. Lo sa che sarà così. Lo sento allontanarsi e prendere un respiro profondo dietro l’altro. «Posso dormire sul pavimento vicino al suo letto.» dice dopo un po’, questa volta più calmo. Ma non sento la risposta perché inizio a tossire in modo incontrollabile sulla manica. La mia gola è così scorticata che riesco a sentire il sapore del sangue. Dopo aver firmato l’accettazione e aver registrato i nostri possedimenti, i dettagli esatti sulle prescrizioni mediche vengono segnalati in un libretto blu appeso sul muro con una cordicella e veniamo condotti al bagno comune del primo piano. I poster alle pareti mostrano i benefici del mantenersi puliti e il danno maligno del non farlo. Cerco di non guardarli. Le fotografie sono orribili: grottesche malformazioni cutanee, vesciche purulente. Cose che succedono dopo esser stato per le strade per anni. Cose a cui non voglio nemmeno pensare. Vaghiamo dentro e fuori dagli spazi vuoti e luminosi, seguendo la guardia. Guardo in alto verso l’intricato labirinto di tubature che ci corrono sopra la testa, segnando una mappa verso i cubicoli delle toilette, gli orinatoi, gli spogliatoi. Immagino di sentirli scricchiolare gelidi mentre l’acqua si spande e si contrae, spostandosi dentro di esse come il flusso alternato delle maree. L’enorme stanza rimbombante delle docce è gelida ma pulita e io non vedo l’ora di starmene sotto il getto, con l’acqua calda che beatamente mi lava via i pensieri, lasciandoli affogare nell’oblio tenebroso della strada. «Potete farvi la doccia qui, e c’è una sala comune su questo piano alla fine del corridoio che potete usare. Ma non potete andare nei dormitori comuni fino alle dieci di questa mattina.» Mi chiedo distrattamente se non sia contro le regole restare nella doccia fino a quell’ora.

Finalmente la guardia notturna ci lascia soli e Julian appoggia la sua testa contro la mia. «Cazzo.» Non dobbiamo restare, faccio segno senza voltarmi, sapendo comunque che mi sta guardando. Potremmo tornare da Cassey. «No. Ha già fatto troppo per noi.» Mi chiedo quando si inizi a perdere dignità. Quale sia il punto in cui uno inizi a supplicare pur di avere qualunque genere di aiuto. In quale momento ci si butti per terra con la speranza che qualcuno si fermi invece di scavalcarti. È un punto che non posso credere Julian possa mai raggiungere. Preferirebbe piuttosto morire in un silenzio ancor più grande di quello in cui mi trovo io stesso, ma per lo meno entrerebbe in quel vuoto a testa alta, e ciò può solo aumentare il mio amore. E magari tutto ciò è un errore. Ci sono asciugamani puliti in un enorme armadio di plastica grigia vicino alle docce. Cerchiamo attraverso le pile per trovare quelle non così sottili e lacere, e non ce ne sono molte. Julian si spoglia dei vestiti e li lascia in un cumulo disordinato sul pavimento. Inclina la testa timidamente verso la doccia. «Prima che tutti gli altri si alzino.» Ho il respiro così corto per lo sforzo di non tossire, che sento un po’ le vertigini mentre mi chino per togliermi i pantaloni. Dita fresche tracciano la linea della mia spina dorsale, facendomi rabbrividire e vacillare nei movimenti. Questa cosa tra di noi è ancora così nuova che ogni piccola esposizione di pelle ci fa avvicinare per la sola voglia di toccarci. Affetto più eccitazione, devozione più che desiderio. Mi conduce senza problemi, la mia mano nella sua, e mi spinge sotto il getto forte dell’acqua tiepida, non diventa calda, fino a che la mia schiena preme contro le piastrelle così fredde da far rantolare. «Se l’acqua fosse più calda, il vapore ti farebbe bene al petto» mormora, la sua bocca aperta contro la mia spalla mentre l’acqua scorre sulle nostre facce e

scivola lungo i nostri corpi allacciati. Restiamo lì, in piedi, abbracciandoci semplicemente, con il solo bisogno di restare vicini. In qualche modo spaventati all’idea che non avremo di nuovo un’altra occasione.

Louis

Per due giorni semplicemente esistiamo; non lasciamo i confini del rifugio per nessuna ragione, vagando da una stanza all’altra, da un piano a quello successivo, evitando chiunque se non noi stessi. Abbiamo diritto a un pasto al giorno nella sala comune, zuppa e tè e acqua gratis. Prendo le medicine a intervalli di qualche ora, e fisso lo sguardo in un punto indefinito dello spazio quando li sento fare effetto e avverto sopraggiungere la sonnolenza. La tosse migliora, poi peggiora, poi migliore nuovamente. L’inerzia è soffocante. Non posso neppure avere una chiara vista del cielo attraverso le finestre che vanno dal pavimento al soffitto del rifugio. I giorni si trascinano semplicemente dal nero al grigio al bianco e dal grigio al nero nuovamente. Dopo il nostro pasto giornaliero del terzo giorno, ci organizziamo con le sedie nell’angolo più lontano della sala comune e ci sediamo di fronte l’un l’altro. Julian sta facendo scivolare la sua mano sinistra pensieroso su e giù per il bracciolo coperto di tessuto scuro della sedia, e io sono perduto, intento a tratteggiare l’ombra di un uomo ingobbito, una sorta di macchia nera senza forma contro la luminosità della finestra. «Lo conosci?» chiede a bassa voce Julian inclinando la testa non verso la sagoma che sto disegnando ma alla sinistra, dietro di me. Ci stanno osservando. Strappo il foglio che stavamo usando per scriverci su e scarabocchiare, Cinque letti più avanti dal mio. Non usiamo il linguaggio dei segni. Non qui. E sebbene la guardia sappia che sono muto, non vogliamo che lo sappia nessun altro. La gente ha già approfittato del mio silenzio prima di oggi, sfruttando il fatto che non posso urlare o gridare aiuto.

Le dita di Julian toccano le mie mentre prende la matita e io chiudo brevemente gli occhi a quel contatto. Ti guarda? Scrive. Come posso mentire? Mi guardano tutti. Annuisco. Sotto lo sguardo ignaro delle telecamere a circuito chiuso, durante le ate due notti, Julian è scivolato nella fredda camera dove dormo e si è disteso sul pavimento vicino al mio letto, lasciandomi prima che il via vai fuori iniziasse. Ma lui sa che non può stare qui tutto il tempo e non ha fiducia in nessuno. Non voglio chiedergli se la sua mancanza di fiducia sia una sensazione immotivata, una preoccupazione solo perché mi ama, intensificata dalle cose che sono successe di recente o se è basata su un fatto specifico, qualcosa che gli è accaduto in uno di questi posti perché, penso, proprio ora mentre guardo dentro la profondità ambrata dei suoi occhi, la verità potrebbe spezzarmi. Louis, scrivo. È il suo nome. Non si toglie mai la cuffia nera lavorata a maglia che indossa. Dorme con i vestiti. È un tipo strano. Esito nello scrivere l’ultima parte, perché non lo siamo forse un po’ tutti? E il solo fatto che non parli, come me, non lo rende sospetto. Non è forse così? Guardo fuori dalla finestra verso la luce, i miei occhi scuri come il vetro. Dieci anni, vent’anni e potrei essere io. Ancora sulla strada o prigioniero in un rifugio anonimo, talmente solo e silenzioso, completamente perso senza più il mio amore. Forse lui può sentire quello che c’è tra di noi, forse lo ha avuto un tempo. Magari vuole soltanto ricordare. Ma istintivamente so che non è tutto. So che Louis è davvero strambo. Solo non posso giurare sul perché. Metto la mano sulla bocca e tossisco in modo agonizzante prima di voltarmi verso Julian. Va tutto bene. Non mi viene mai vicino.

Gli porgo il blocco ma Julian non lo prende subito; per un secondo, semplicemente, sembra spiritato. Voglio più di ogni altra cosa strisciare sul suo grembo e tirargli via quello sguardo, attirarlo tra le mie braccia. Voglio che mi dica che andrà tutto bene, come fa di solito. Voglio che lo creda. Ma qualcosa è cambiato. Non so quando esattamente sia successo, sebbene possa tirare a indovinare il perché. Credo che abbia perso la fiducia nella vita qualche settimana fa, quando è stato portato via da me. Quando è stato rapito e pensava di morire da solo e nascosto, e che io non lo avrei saputo. È ciò che mi ha detto averlo spaventato più di ogni altra cosa, che sarebbe morto e io non lo avrei neppure saputo, non avrei neppure potuto dirgli addio. Una non-fine disperata, il nostro amore crollato dal cielo come una stella morta. Non sopporto l’idea di doverti lasciare ogni notte, scrive alla fine. Adesso è notte e sono solo, disteso su un materasso nodoso mentre fisso l’intrico di ombre che i lampioni disegnano sul soffitto. Non dormirò fino a quando Julian non sarà qui vicino a me. Non posso dormire se non avverto il suo lento e profondo respiro, l’odore della sua pelle calda, se non percepisco il suo risplendere quasi fosse un sole che irradia calore. Credevo fosse già qui da un po’, sebbene non sia sicuro di quanto tempo sia ato. È solo che aspettare inizia a diventare doloroso, mi sto convincendo che è in ritardo, e le infinite domande irrisolte sul motivo, si aggirano sulla mia testa come avvoltoi personali. I rifugi mi ricordano gli ospedali e le case comuni in cui ho vissuto con mia madre prima che mi lasciasse. Possono darti riparo dagli elementi, dal vento gelido e dalla pioggia ma non da altre cose. Non dal rumore costante intorno a me, dalla rete intricata delle persone che conducono vite molto differenti e a distanza ravvicinata. Non dalla consapevolezza che sono sempre più solo a causa di tutto questo. E agli uomini qui dentro non gliene frega se li senti masturbarsi o sussurrare strane cose nel buio durante la notte. A loro non importa se ti svegliano mentre barcollano ubriachi sbattendo contro il tuo letto. Infatti preferirebbero svegliarti, rovinare la tua nottata di sonno come accade per la loro, perché l’esser abbandonati dalla società fa comprendere ogni piccola cosa di te stesso, ti fa tenere i pensieri stretti quasi fossero pelle attorno alle ossa perché a nessun altro importa di te, perché per quale cazzo di motivo dovresti considerare tu qualcun altro? Come lei. Mia madre. Questo doveva essere il suo modo di ragionare, ne

sono sicuro. Non gliene fregava un cazzo di me, di suo figlio. Stava così bene nella propria pelle, ne era quasi soffocata, cieca rispetto a qualsiasi altra cosa. Ma io non voglio essere così, penso disperato. Non voglio chiudermi al resto del mondo, chiudermi in me stesso. Preferirei piuttosto star fuori in quell’inverno russo. Preferirei piuttosto essere morto. Conto fino a sessanta e decido che quello che è troppo è troppo; non aspetterò più. Spingo via la coperta pesante e dolcemente mi giro su un fianco prima di rotolare fuori dal letto. Odio il modo in cui le molle scricchiolano a ogni movimento come una sorta di sistema di allarme antiquato, ed è solo perché sto cercando disperatamente di fare piano che finisco per trattenere il respiro, facendo sì che debba tossire in modo incontrollabile e impossibile da ignorare. Mi premo velocemente le mani sulla bocca, mi chino verso il basso e cerco come posso di soffocare il rumore, tossendo contro il duro e implacabile pavimento. Ora so che se non avessi mai tossito non avrei mai guardato attraverso gli spazi sotto i letti e non avrei mai visto lui, disteso lì Louis. Occhi aperti, che guardano me. Con cautela mi alzo. Mi convinco che è semplicemente disteso sul pavimento, addormentato con gli occhi aperti, o girato verso di me perché l’ho svegliato. Ma non è così. I suoi movimenti sono lenti mentre solleva il suo corpo pesante e si alza in piedi nello spazio tra il suo letto e quello vicino, qualche metro più in là, sempre guardandomi. I vestiti pesanti e scuri che indossa gli fanno sembrare il corpo deforme e immenso. Non li cambia mai e posso sentire da qui la puzza che fanno. Per un secondo mi sento come paralizzato e non reale. Non so se questa è una circostanza pericolosa oppure no. Ho paura, ma penso anche di essere un po’ insensato. Ci sono altri trenta corpi che dormono in questa stanza e c’è la telecamera a circuito chiuso, sebbene inutilizzata, nell’angolo più lontano. La parte razionale di me sa che potrebbe venire da me ogni volta che vuole quando sono disteso sul letto ma la restante parte di me vuole solo scappare. Con grande imbarazzo premo il braccio contro il mio viso e tossisco nella stoffa ruvida della manica.

Ci guardiamo l’un l’altro. Due conigli? Oppure un coniglio e una volpe? La porta non è lontana. Non devo neppure sorarlo. Julian, dove cazzo sei? Il cuore sta rombando nelle orecchie, il panico inizia a entrarmi dentro. Non ora, penso. Per favore non ora! Guardo oltre la finestra. Lui segue il mio sguardo. Ciò mi dà un vantaggio e io mi metto a correre.

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Disperazione

La doppia porta sbatte forte contro il muro mentre io inciampo attraverso di essa e mi lancio verso le scale. Non è possibile che Louis possa correre veloce quanto me con quel suo corpo pesante e all’apparenza lento, ma il terrore ha preso il sopravvento grazie a un impulso di raccapriccio costruendo un panico frenetico e nero. Julian è la mia destinazione. E se non c’è più? penso mentre corro e sbando lungo il corridoio ed entro di forza nel suo dormitorio. E se è andato via? Il pensiero mi acceca quasi una torcia elettrica sparata in faccia mentre si è immersi nel sonno. So che questo tipo di panico è un uragano che raccoglie i detriti della mia mente, che deglutisce la sottile voce razionale che mi chiede Dove mai sarebbe potuto andare? Perché mai se ne sarebbe andato? ma non riesco a farne a meno. E dove e perché, davvero, visto che le sue coperte sono state spinte via e il suo letto è vuoto. Grugniti rabbiosi arrivano da tutte le direzioni verso il mio tossire sconsiderato mentre tocco le sue lenzuola cercando il suo calore, la certezza che lui era qui non molto tempo fa. Merda. Un’improvvisa sensazione pruriginosa fluisce sulla mia pelle come un sussurro gelido. Immagino sia il mio nome di nuovo portato dal vento, anche se è impossibile e mi giro attorno, in parte aspettandomi, no, soprattutto aspettandomi che la figura di Louis appaia sulla porta come un persecutore in un film horror. Ma non è così e mentre sbircio in quella direzione, il corridoio sul fondo è fortunatamente vuoto. Ora che la scarica di adrenalina è ata, mi sento male, fuggo dalla stanza buia

e mi immetto nuovamente nel corridoio illuminato. Ma dove cazzo è? Al bagno? Mi fermo e mi metto in ascolto dei più piccoli rumori prima di iniziare ad andare, come un ladro, di nuovo giù per le scale. Il bagno è alla fine del mio corridoio. Penso che il cuore potrebbe fermarsi se dovessi vedere che Louis mi sta aspettando. Ma, di nuovo, non è così. La porta del dormitorio è chiusa e tutto ciò che riesco a sentire è la quasi palpabile quiete durante il sonno. Lentamente e con maggior cautela abbia mai posseduto, spingo la pesante porta del bagno. Il sibilo soffice della doccia fa eco tutto intorno a me, l’aria è leggermente intrisa di vapore. Mi fa pensare che possa essere rotta e l’acqua calda martelli a vuoto contro le mattonelle. Copro la bocca per offuscare il mio tossire improvviso e procedo strisciando lentamente. Un’enorme pila di vestiti è ammassata in modo scomposto sul pavimento all’entrata della stanza della doccia, una scia di impronte bagnate si allunga in una serie di otto attorno a essa. Ora che sono più vicino posso sentire dei respiri alternati e strangolati rantolii in cerca di aria, il lamento di corpi che cercano sollievo. Imbarazzato, inizio a indietreggiare; la mancanza di privacy in questo posto è dolorosa abbastanza senza che io spii maliziosamente al buio. Dal nostro primo giorno qui, quando ci tenevamo l’un l’altro nella doccia, tutto quello che siamo riusciti a fare sono stati qualche bacio rubato, abbracci dati di straforo mentre entravamo in una stanza o l’altra, un toccarci che definiva la nostra esistenza, che provava il nostro esser reali, l’essere lì. E adesso succede, così in fretta, prima che ne sia persino cosciente del perché. Il mondo gira e tutta l’aria è strappata via dai miei polmoni. Non riesco a tossire. Non riesco, cazzo, a respirare. O persino a vedere per bene. Le mie gambe mi abbandonano. Perché, Oh, Dio, infilati nella pila dei vestiti c’è il maglione che Julian indossava prima. Lo riconoscerei ovunque. E i suoi jeans... pantaloni... tutto mescolato con quelli di qualcun altro e ora ogni suono che emettono mi spezza dentro, mi scortica, e allargo i palmi sul cemento e iniziano i conati.

So, senza ombra di dubbio, che non lo sta facendo per piacere. Il punto non è il suo essermi infedele. So che deve esserci una ragione. Ma mentre singhiozzo, tossendo contro il braccio, e appoggio la testa sul cemento, non posso credere di sentire più male di così. Ero capace di ignorare il fatto che lui permettesse agli uomini di scoparlo. Era solo una parola, perché non lo vedevo, non lo sentivo. E perché l’intera sordida operazione avveniva molto lontano dalla mia vista, era una cosa astratta e irreale. Senza preavviso, vomito. E striscio via da quel casino, disgustato. Mi allontano il più possibile dalle docce. Cos’altro posso fare se non sedermi contro gli armadietti e aspettare che sia finita? Sono così profondamente disperato che non noto la porta del bagno aprirsi e una figura strana muoversi di fronte a me. Quando Louis si china in ginocchio, non me ne frega niente, non ho paura, sono a pezzi. Distrattamente noto come siano tristi i suoi occhi, come sia persa la sua espressione quando mi guarda. Allunga le mani, prende le mie, le mie braccia inutili e molli non oppongono resistenza, e pone un pezzo di carta piegato più volte nel palmo della mano. Gentilmente chiude le mie dita attorno a esso, e poi si alza e se ne va, come se questo fosse tutto ciò che ha sempre voluto fare, darmi qualcosa, un messaggio, una lettera, un foglio bianco piegato. Non mi importa. E tuttavia tengo il palmo arricciato stretto attorno a esso e resto a fissare il bagliore bagnato della superficie mentre la doccia continua a scorrere, e a scorrere. Il tempo sibila via. Potrebbe esser poco, potrebbe essere tanto. Penso a quanto lontani siamo arrivati fino a oggi. A quanto pensassi fosse lontano Julian da rifare questa cosa. Ma in realtà non ci siamo mai mossi o se lo abbiamo fatto, è stato in inutili giri che ci hanno riportato di nuovo qui. Di nuovo nel posto da cui volevamo fuggire. A essere onesti, non sopporto l’idea che qualcuno gli metta le mani addosso. Che lo tocchi in posti in cui solo io dovrei esser autorizzato. Lo so, è spregevole ma voglio che sia mio e solo mio. Riconosco l’aderenza della mia pelle contro le mie ossa, ma non posseggo nient’altro. Sto solo chiedendo una cosa. Lui. E se dovesse mai provare un minimo godimento da quell’atto, allora è il mio piacere che mi vien tolto, il mio cuore quello che viene lacerato.

Voci che emergono dalla stanza della doccia. Scroscio d’acqua che viene chiuso. E improvvisamente non posso sapere. Non posso affrontarlo. E senza osare respirare, silenziosamente sfreccio fuori dai bagni, fuori nel corridoio illuminato verso la calma del dormitorio. Dove resto disteso tossendo e singhiozzando senza preoccuparmi affatto di chiunque altro mi stia attorno.

Questo tempo che abbiamo è provvisorio

È la prima notte che non viene da me. Mi assopisco ma ogni tanto mi sveglio e mi volto per notare che lui non è qui. Il vuoto sotto il letto è come il vuoto dentro di me e chiudo gli occhi recitando scuse per lui, ragioni per cui non è qui, finzioni, favole, stupide bugie. L’angoscia incredibile che mi ha travolto la scorsa notte è stata superata da questo stupido gioco. Con un senso di tetra fatalità osservo l’alba gelida che si insinua tra le mura e allunga le ombre nella stanza. Devastato dalla stanchezza e ferito nel chiedermi dove Julian abbia trascorso la notte, soffoco la tosse e mi trascino fuori dalla stanza. Stranamente, basta solo allungare il braccio per spingere la porta del dormitorio di Julian per rendermi conto che sto ancora stringendo tra le dita quel pezzo di carta che Louis mi ha dato la scorsa notte. Gli angoli duri hanno lasciato segni rossi e intorpiditi sul palmo dove l’ho tenuto stretto. Per un secondo sono indeciso se aprirlo prima di entrare, ma può aspettare. Questo può aspettare. La porta scricchiola, la stanza è ovattata. Lascio andare il respiro che inconsciamente stavo trattenendo quando vedo Julian seduto sul letto, appoggiato apaticamente sulla testiera. Un mucchio di carta strappata è accumulata sul lenzuolo sotto le sue dita. Non sembra essersi accorto di me che entro e attraverso la stanza. Ma non appena mi vede, ritorna alla vita, la sua espressione rigida, i suoi occhi desolati. «Ti spiegherò tutto» è la prima cosa che mi dice, fissando disperatamente il mio sguardo, quasi pensando che non lo ascolterò, non volendo restare quel tanto che basta per sentire cosa ha da dirmi. Pezzi di carta si disperdono mentre mi siedo e scuoto la testa. In questo momento ho solo voglia di stargli accanto, di stare con lui, più vicino. Voglio assaporare il sollievo che sento per il fatto che lui sia qui, e che l’ho trovato. Non mi accorgo del sangue che gli macchia i polpastrelli e il polso fino a quando non è troppo tardi, fino a quando non singhiozza tra le mani di fronte a me.

Non l’ho mai visto piangere. Non in questo modo. Insicuro su cosa fare, ma volendo farlo in privato, avvolgo il suo polso con la mia mano e lo invito ad alzarsi in piedi dolcemente. Tutto il dolore che sentivo è svanito, evaporato nel calore, nella sua realtà, di lui qui con me. Anche se non ho spiegazioni, la mia fiducia è un brillante faro luminoso che non vacilla. Voltandomi indietro mentre ci avviamo attraverso la stanza posso vedere che il lenzuolo bianco e sporco è macchiato da impronte insanguinate e tutto ciò che ho pensato di sapere sulla scorsa notte mi è ora sconosciuto e presunto. Sono quasi le 7:00 del mattino ma nessuno è ancora in giro. Resto in piedi vicino al lavandino di metallo della cucina e guardo Julian che metodicamente si lava via il sangue dalle mani e ogni tanto si asciuga gli occhi con la manica. Gli carezzo il fianco con i polpastrelli, sfregandogli amorevolmente il bordo rigido dell’anca, visibile attraverso la felpa. Mi sento lacerato quando sussulta allontanandosi. «Mi dispiace» sussurra con voce rotta mentre si china sul lavandino e si bagna la faccia con l’acqua gelata. Va tutto bene, gli faccio segno, anche se non è così. So che non sto riuscendo a nascondergli quanto la sua reazione al mio tocco mi abbia ferito. Non voglio più stare qui, gli dico con le dita mentre si asciuga la pelle bagnata con una salvietta di carta. Sempre cosciente della mia presenza, guarda i movimenti che faccio e mi blocca la mano, aprendomi le dita e con gentilezza prende il foglio di carta che sto stringendo forte. «Che cos’è questo?» Alzo le spalle e lo guardo con trepidazione mentre lo apre. Lo regge piegato e distante da me, quasi volesse nasconderlo. Devo piegarmi in avanti per vedere.

Sulle prime non capisco mentre guardo il ragazzo raffigurato tra le sue mani. Inizialmente non lo riconosco e poi con un brivido gelido di sorpresa mi rendo conto cosa fossero quei pezzi di carta stracciata sul suo letto. Io. Fotografie mie. Scomparso... per favore chiamate questo numero. Per favore chiamate... La voce di mia madre, che sente la mia mancanza. La mia gola diventa secca. Non riesco a deglutire. Inciampo all’indietro nella fila di sedie. «Chi ti ha dato questo?» Perché non me lo hai detto? Faccio segno, arrossendo dalla rabbia e da una strana forma di paura. Ieri notte ti sei lasciato scopare da qualcuno! Ti ho sentito. Ero lì, nella sala delle docce! Rifiuto di essere il primo a distogliere lo sguardo e Julian non mi sta rispondendo. Sembra come se tutto ciò che mi era rimasto stesse fuggendo via da me vorticosamente come acqua che si tuffi in uno scarico. Non ho niente. Non c’è nulla a cui mi possa aggrappare. E con una chiarezza sconvolgente mi rendo conto che la paura che sento è che lei mi possa trovare e che tutto questo, tutto ciò che io ho con Julian svanisca come un sogno quando lei mi verrà a prendere. E non posso lasciare che accada. Ma una parte di me sa che succederà. «Mi ha ricattato con questi.» Gli occhi di Julian sono così pieni di dolore. I volantini sventolano senza vita nelle tra le sue mani e io continuo a guardare il mio volto sulla fotografia, così diverso eppure esattamente lo stesso, così più giovane, ingenuo. Non riesco neppure a ricordarmi quando la fotografia sia stata scattata. «Leon, il tipo alla reception il giorno che siamo arrivati. Ha minacciato di chiamare il numero. Sei minorenne e sapeva che ti avrebbero preso. Io dovevo... Mi dispiace...» si allunga per toccarmi e io mi allontano. «Non posso perderti!» Allora perché non ce ne siamo semplicemente andati? Andiamo in un altro rifugio. Cerco di fare segno, ma mi piego in due dalla tosse, chinandomi per terra. Lui capisce, comunque. Lo fa sempre.

«Perché, dici così?» risponde dolcemente. «Devi stare meglio. Tornare fuori proprio ora è... un suicidio, Remee! E la tua foto sarà anche in altri rifugi! E io ho pensato semplicemente che se avessi potuto fermare Leon, se avessi soltanto potuto... fino a che tu non fossi stato meglio, saremmo stati al sicuro.» Si inginocchia per terra di fronte a me, lancia in alto il volantino e mi prende il volto tra le mani. «Chi ti ha dato questo? Chi altri lo sa?» Louis. Voglio tornare da Cassey. faccio con le sole labbra. Annuisce. «Okay.» Ora. «Ora? Okay.» Gli collasso addosso, la mia testa colpisce con un colpo sordo la sua spalla così forte che deve fargli male. E in un certo senso voglio che lo faccia. Ma so che non gli importa. Potrei fargli male in un migliaio di modi, e forse già lo faccio, e lui avvolgerebbe semplicemente le braccia attorno a me e mi carezzerebbe i capelli. Dopo un po’ mi tiro indietro e faccio segno, Ti sei fatto sanguinare le dita strappando quei volantini. Mi mostra le mani. Sembrano a posto adesso, non più sanguinanti, sebbene le sue nocche sembrino un poco indolenzite. Lascio scivolare le dita sulla sua pelle con leggerezza, facendolo tremare mentre gli catturo lo sguardo. «Ho scoperto che Leon ne aveva una scorta. Ho dato un pugno al muro. Mi sono fatto male.» Sorride beffardo. «Avrei dovuto colpire Leon ma a quel punto avrei saputo che avrebbe chiamato di sicuro.» Non lascerei mai che mi prendano, lo sai vero?

Goffamente mi avvicino a lui, traccio con il pollice la linea della sua mascella, ansioso e con la paura che lui si allontani nel vedermi così aperto, i miei sentimenti così nudi. Ti voglio, sillabo. Voglio che getti via tutto quello che ho sentito la scorsa notte. Voglio mostrargli nel modo più elementare quanto ancora mio lui sia. Ma Julian sospira tristemente e mi prende la mano tra la sua, baciandomi il palmo. «Ho paura, Remee. Perché se loro ti prendono non sarebbe così per te. Tu avresti una casa. Tu avresti una possibilità. Per questo sono terrorizzato. Ho il terrore di essere così cazzo egoista da trattenerti con me, perché ti amo sopra ogni cosa e voglio che tu abbia molto più di questo...» Non voglio nient’altro che te. Tiro indietro la mia mano e afferro la sua nuca, le mie dita che si intrufolano tra i suoi capelli. «Beh, dovresti. Io non ho niente. Io non sono niente.» In un movimento rapido si alza in piedi, arretrando. Per favore, non parlare così! «È la verità.» Estraggo il mio blocco e scrivo. Pensi che mia madre sia preoccupata per me? Non gliene frega un cazzo. C’è una ragione per cui lei ha fatto questa cosa, sia essa il denaro o un posto in cui vivere. Non mi darebbe ciò che tu dai a me; non si prenderebbe cura di me come fai tu. Non voglio vederla mai più. Mai. E lei non mi troverà mai. Julian sembra pensare, i suoi occhi caldi e improvvisamente indecifrabili per me. La doppia porta alla fine della stanza si apre e un po’ di persone iniziano a entrare, aspettando le bevande e i toast che saranno presto serviti per colazione. Iniziamo ad andarcene in silenzio, Julian camminando di fronte a me. Nel corridoio vedo Louis. Mi fermo e gli porgo la mano. Mi sento stupido e

colpevole per la scorsa notte, per come ho reagito male quando lui voleva solo avvisarmi. La sua stretta è gentile e lui annuisce come se capisse, sorridendo tristemente per un momento prima di andarsene via. Mi rendo conto di aver imparato che non sempre tutto è come sembra e più di ogni altra cosa, niente rimane uguale, niente resterà così come lo è ora. Il tempo che abbiamo è provvisorio, a meno di non trovare una via di fuga.

Nient’altro che un guscio

Sorprendentemente, Leon non è alla reception quando lasciamo l’edificio. Julian doveva sapere che non sarebbe stato lì, non avrebbe avuto il coraggio di affrontarlo, non con me presente. Lo convinco che non dobbiamo fermarci a recuperare la mia medicina; significherebbe evocarlo. Vorrebbe dire che c’è qualcuno che sa che ce ne siamo andati e quindi lasceremmo una traccia, anche se labile. Lo convinco che sto bene, ed è solo per pura forza di volontà che non tossisco non appena usciamo da quel caldo claustrofobico. Lo spazio enorme e grigio del cielo sopra di noi sembra fantastico, ci fa sentire liberi anche se fa un cazzo di freddo. Come turisti in una terra straniera, ci fermiamo in mezzo al marciapiede e abbracciamo tutto ciò che ci circonda: il traffico multicolore, i gas di scarico e il frastuono, il continuo scontrarsi della gente che si affretta al lavoro giù per questa strada congestionata, spingendoci via o comunque ignorandoci. Tutto quanto. Julian mi guarda e, io di rimando gli sorrido. Che sciocchi che siamo. Che cazzo di strade disperate e gloriose. Alle otto ci pentiamo di non aver fatto colazione ma prima non eravamo consapevoli quanto lo siamo ora, mentre indugiamo lungo il terrapieno congelato, con la fame che ci scava un buco dentro talmente in profondità da esser doloroso. È buffo quanto ti facciano diventare razionali la fame e il freddo. Buffo come diventi importante, se non hai nulla di solido a cui legarti, non una casa, non una consistenza. Buffo ma, per quanto fosse brutto il rifugio, e per tante cazzo di ragioni, in questo momento vorrei esser di nuovo lì, sedermi in quelle sale comuni senz’anima. Voglio stare al caldo; voglio mangiare. Voglio che questa dannata tosse la smetta di incombere come un fantasma. Non voglio pensare alle conseguenze, a domani o a stanotte: potrei non vivere così a lungo. La sola certezza che ho è questo momento, qui, con Julian. E pensassi mai di essere una sorta di palla al piede, avrei torto perché siamo entrambi alla deriva, e sebbene

aggrapparci l’un l’altro non ci riporterà sulla terraferma, ci manterrà in vita, so che sarà così. Deve esserlo. Non possiedo nient’altro che la speranza. È buffo che in momenti come questo io pensi a cose simili. Una nebbiolina ghiacciata incombe sopra il fiume nascondendo alla vista le sponde più lontane. Anche gli edifici più alti della città sono velati, resi meravigliosamente indistinti come un disegno a matita incompleto e perso prima d’ora. Il mondo ricreato in scala di grigio. Ogni cosa è tesa, come una ragnatela, tra il bianco e il nero. Questo è ciò che scarabocchio quando arriviamo da Cassey e riesco di nuovo a sentire le mie dita. Questo mondo vuoto. Il blocco nel profondo della tasca del mio cappotto dondola tra le costole a ogni o. Un peso, un ricordo, una via di fuga. Il cielo ora è di quel grigio sporco e pesante da neve e spero Iddio che non succeda perché restare qui fuori al bagnato e al freddo ci ucciderebbe. Spero che Cassey abbia uno scatolone o qualcosa che si possa usare come rifugio. Ben in profondità e nel segreto del mio io, mi auguro che possa avere pietà di noi come ha fatto in precedenza e ci lasci dormire al bar. Anche se dovesse aver già dato via le stanze che abbiamo usato, potremmo dormire sul duro pavimento del Caffè di Joe Brown senza lamentarci. Ma non posso permettere che una tale disperazione, o speranza risalga in superficie. Ma ben prima di aver raggiunto il bar di Cassey capiamo che qualcosa non va. Dovremmo essere a circa settecentocinquanta metri giù nell’argine quando vediamo che c’è un qualcosa di nero e non familiare in quel posto. Anche nella fioca luce del mattino che si rifiuta di dare sostanza alle cose, i bordi dell’edificio che un tempo sembravano così solidi ora sembrano imbrattati e inconsistenti, il tetto sbattuto via, ingoiato dalle notti in cui siamo stati lontani. Decisamente non è nebbiolina. Nemmeno un sogno. Sbatto le palpebre e guardo verso Julian, le mie dita sfiorano il bordo del suo maglione consumato quando si volta verso di me, la faccia angosciata quanto la mia. È il locale di Cassey, dico con solo le labbra. Corriamo, slittando sul ghiaccio che luccica minaccioso nel riflesso brillante dei

lampioni, correndo fino a quando non devo fermarmi e tossire così forte che vomito e la bile mi brucia in gola. Sbatto contro il terreno congelato con la mano, frustrato. C’è un po’ di sangue che cerco di nascondere spostandomi. Dico a me stesso che è solo una reazione al freddo. Julian si china sulle ginocchia vicino a me e mi carezza la parte alta della schiena con una mano mentre pone l’altro braccio attorno a me. È in momenti come questi che sembra essere così più grande di me, così tanto più forte anche se ora non c’è molta differenza anche di altezza tra noi. Il mio corpo vuole solo tossire, ancora e ancora e ancora, fino a che non ho buttato fuori tutto e le contrazioni devastanti non diminuiscono. «Rilassati» sussurra dolcemente, poi porta le sue labbra più vicino al mio orecchio in modo che il suo respiro caldo non aleggi alla base della mia gola. «Mi dispiace, Remee. Ti chiedo scusa, tesoro, non dovevamo scappare.» L’erba sembra nera tra le mie dita spalancate. Ogni cosa ha un colore monotono, mortifero. Julian trae un profondo sospiro, lo sento tremargli attraverso, poi fa cadere la testa contro la mia spalla, i suoi capelli soffici sfregano il retro del mio collo e so che lo ha visto, ha visto la conchiglia vuota bruciata del Joe Brown Caffè, il bar di Cassey, che è proprio all’altezza della mia vista anche se cerco disperatamente di non guardare. Scivoliamo dentro all’entrata sprangata. Da quello che possiamo vedere, non siamo i primi ad averlo fatto. Sarà la mia immaginazione, ma posso ancora sentire l’odore acre e nero del fumo che deve aver oscurato il cielo. Posso ancora assaporarlo nel fondo della gola mentre ci incamminiamo verso le rovine. L’acqua sgocciola su di noi da alcune travi rimaste e forma una larga e nera pozzanghera che copre il pavimento, i bordi scuri irrigiditi dal ghiaccio. I tavoli e le sedie sono per la maggior parte intatti ma sparpagliati e capovolti, le gambe piegate e allentate come se fossero caduti da una certa altezza. Il registratore di cassa è aperto e svuotato. Sul pavimento dietro al bancone, sotto al disastro di tazze e piatti rotti, il disegno

che ho fatto dei due ragazzi che si baciano, le linee tutte sfocate e indistinte, il cartoncino spesso impregnato d’acqua fino alla quasi trasparenza. Fingo di non vederlo. È più facile in questo modo. C’è un angolo libero dove ripararsi nella stanza sul retro. Il tetto qui ancora resiste e sebbene la camera sia bagnata e i muri anneriti dal fumo, Julian raccoglie due sedie pieghevoli e mi intima di accomodarmi su una di esse. Affonda la testa nelle mani per un secondo, sospira a fondo e guarda in alto. «Cosa pensi sia successo?» Alzo le spalle, senza sapere cosa dire e senza volerci davvero pensare. Ne sono in parte consapevole e vorrei evitare un'evidente verità. Sto ancora guardando con la coda dell’occhio. Non riesco ad affrontarla a viso aperto. «Cassey starà bene.» Tocca la mia mano. Se potessi dirgli le stesse parole, lo farei. Per come siamo ora, mi limito ad annuire. Ma non è abbastanza. «Cosa faremo?» la sua voce si incrina orribilmente su un sospiro. Posso avvertirne l’angoscia. Vorrei poterlo attirare tra le mie braccia. Vorrei poter essere forte abbastanza ma non lo sono in questo momento. Sono troppo friabile, sono fatto di vetro e non ci riesco. Questo posto è sempre stato il nostro rifugio, le notti che abbiamo trascorso tra queste calde mura sono innumerevoli. Questo posto era la nostra speranza. Cassey era la nostra speranza. Che cosa faremo adesso? Non dovremmo stare qui, digito. «Perché no?» c’è una punta nella sua voce che di solito non avverto. Sto lottando per trovare le parole, le ragioni. Potremmo andare da Gem.

«No» scuote la testa. «Staremo bene qui per un po’. È riparato.» È accecato. E io so che appena sotto la superficie ne è turbato ma io continuo a spingerlo. Sul serio? Lo è davvero? scrivo in fretta sul retro della pagina del mio blocco. Una pagina già mezza piena delle nostre conversazioni scarabocchiate, dei nostri ghirigori sciocchi. Dei nostri “ti amo”. Già, riparato dalla strada, ma non siamo i primi ad aver trovato un modo per entrare e non saremo gli ultimi e... smetto di scrivere. Fa male vedere questo posto ridotto così, in cenere, e non posso restarci. Mi allungo a toccare la pelle ancora livida sulla parte del suo viso, sento i suoi capelli cadere tra le mie dita. C’è così poca luce e la stanza è così buia che noi siamo solo ombre. Così buio che quando Julian scatta non lo vedo, ma avverto la sua tensione sprizzare, improvvisa ed elettrica mentre si alza e dà un calcio alla sedia. «Mi guardi come se io sapessi sempre cosa fare. Non è così, Remee, non ho una cazzo di dannata soluzione. Non so cosa fare per sistemare questa cosa. Non so cosa fare adesso. Sto cercando di prendere la decisione giusta!» Girando su se stesso, svanisce dentro l’oscurità, camminando avanti e indietro sopra i detriti sparsi sul pavimento. Si ferma di fronte alla finestra sprangata, colpisce lo stipite con un pugno e poi vi collassa contro. Non ben sicuro di come mi sento, vado da lui. Avvolgo le braccia attorno alle sue spalle. Gli digito Va tutto bene, contro il petto. Penso che stia per spingermi via e invece si gira nella mia stretta, contraccambia il mio gesto e singhiozza, «Non va bene. Niente di tutto questo va bene. Non ce la faccio più... non posso Remee... non posso.» Cerco il suo viso con la bocca, baciandogli gli occhi chiusi, il naso, le guance. Improvvisamente mi fa rotolare, sento il vetro che scrocchia contro le suole sottili delle nostre scarpe, mi spinge contro il foglio di compensato che copre una

finestra e trova le mie labbra con le sue. Aspira tutta l’aria dai miei polmoni così che io non possa tossire e non possa fare altro se non baciarlo a mia volta, succhiandogli la lingua per ascoltarlo gemere disperatamente. Siamo perduti. Non voglio essere nient’altro che questo. Tiene le mie mani in alto sopra la mia testa e si piega contro di me, immobilizzandomi. I denti mordicchiano il mento, poi tira il collo del mio maglione per esporre più pelle alla sua bocca. La pressione mi duole e lo voglio. Voglio che mi lasci un segno. Sono così teso e così stretto che sto ansimando mentre lui spinge verso l’alto il maglione per denudarmi il ventre. I suoi denti graffiano le mie costole e mi fanno perdere ogni coerenza. Non ricordo di essermi tolti i pantaloni o di aver avvolto le mie gambe attorno alla vita di Julian quando mi solleva. Non ricordo il morso acuto mentre il compensato mi graffia la schiena né la pressione e l’improvviso dolore mentre lui si spinge dentro di me, facendomi singhiozzare contro il suo collo. Non ricordo che lui si sia sputato sulla mano, il suo calore umido mentre la testa del suo uccello rimane sulla mia coscia e non ricordo di averlo supplicato di infilarmelo semplicemente dentro. Non ricordo nulla di tutto ciò fino a quando lui non si ferma e dice, con parole lente, il fiato pesante per lo sforzo di tenermi sollevato e trattenendosi, «Non dovremmo farlo. Dovremmo usare un preservativo.» Scuoto la testa. Scopami. Semplicemente scopami e fa smettere tutto il resto tranne questo. Questa urgenza annulla tutto il resto. Prendo la sua mano e lo guido, spingo il mio corpo verso il basso, sento che il aggio brucia e la pressione aumenta mentre lo prendo dentro di me. Lui mormora parole senza senso tra i miei capelli, mi bacia, sfrega la mia schiena, il mio collo, il mio cazzo. Lo sento ovunque. Si raddrizza sul bordo

della finestra fino a che non è immerso in me e in profondità da non riuscire più a respirare. Fa male. Ma il dolore è buono, elettrizzante, necessario. Per un momento ci aggrappiamo l’un l’altro in perfetta immobilità. Il gocciolare costante dell’acqua sporca, il frastuono distante del traffico, le voci nella strada al di fuori, non sono nulla, non sono connesse. Tutto si ferma. E poi si muove. Nella stretta delle sue braccia posso sentire il flebile tremore del suo corpo mentre geme in silenzio tra i miei capelli. Il mormorio senza senso diventa più coerente, e sento la pressione crescere anche tra i miei occhi. Non voglio piangere, cazzo. Voglio esser scopato e voglio dimenticare. «Mi dispiace, tesoro» sussurra ancora e ancora mentre mi accarezza, il suo corpo che si muove appena contro il mio, tirandosi fuori di poco, ma è abbastanza. «Mi dispiace.» Lo sento così vicino, così fragile, che ho paura di sentirlo spezzarsi in due dentro di me. Dopo, ci accoccoliamo l’un l’altro sul pavimento, lontano dai vetri. Restiamo così per ore, fino a quando non ce la faccio più e lo trascino in piedi, ignorando il dolore acuto nel petto perché adesso ogni volta che tossisco fa male. Dobbiamo muoverci. Se ci muoviamo restiamo vivi. Se stiamo qui in questo modo, è come se ci fossimo distesi e lasciati andare, permettendo alla merda di accumularsi sopra di noi che abbiamo smesso di lottare. Questo posto è andato. Ce ne faremo una ragione. Troveremo qualcos’altro da un’altra parte. Julian non protesta. E anche se per il momento sembra più facile, so che alla fine sarà molto peggio.

Strafatto

Le strade sono troppo affollate. Deve essere già ora di pranzo. Apparentemente ci stiamo incamminando verso il distretto finanziario, verso quella vacua barriera divisoria che in genere evitiamo. Non so perché sono venuto in questa direzione, facendo sì che ci si inoltri a fatica attraverso una marea di dannate persone grigiastre, tutte avvolte nelle loro cazzo di piccole vite grigiastre, che spingono e guardano e quasi ci cazzo calpestano come se non esistessimo, come se per noi camminare in strada fosse meno importante che per loro. Potrebbe essere dovuto al luminoso sovraccarico sensoriale, quel modo in cui le città sono destinate a essere, ma i fumi e la pioggia macinano tutto fino a diventare anonime sfumature di grigio. Trascino Julian in avanti, le mie dita arrotolate nella manica della sua maglia, marciando senza sosta attraverso la via densa, fermando il traffico, sfidando le stupide auto a colpirci. La pioggia picchietta su di noi e potrebbe anche essere neve, tanto dannatamente è fredda. Ho bisogno di fermarmi e riposare, sto tossendo forte ma so che se lascio andare Julian proprio adesso, lui si accascerà per terra nel punto in cui ci troviamo e non avrò la forza di rimetterlo in piedi. Il vuoto nella sua espressione mi fa paura, e Gem è l’unica persona di cui posso avere fiducia ora, l’unica che potrebbe sapere cosa fare per aiutarci. Ma non sto andando da Gem. La pioggia diventa più forte, una foschia tetra mi oscura la vista, impregnandomi fino alla pelle. Cerco strada dopo strada prima di trascinare entrambi sotto una tettoia d’autobus piena di graffiti e spifferi, una di quelle con le sedioline di plastica rossa che ti tengono sulla punta in modo da non farti sentire troppo comodo e desiderare di restarci troppo a lungo. Per essere una zona così piena di gente trita-soldi, sorprende quanto sia fatiscente. Senza pensarci stringo Julian a me, lasciando scivolare un braccio attorno alla sua vita, tenendo l’altra mano ancora stretta alla sua manica. Anche se è diventato magrissimo lo sento ancora solido. La mia rabbia si dissolve non appena il calore del suo corpo mi tocca, calore che irradia luminosità sulle strade sudice e accende il cielo color cenere. Il suo corpo sopporta il mio peso e rende

tutto sopportabile. Quasi. Mi permetto di vivere questo momento, per quanto breve. Non guardo il suo viso. Non posso accettare la desolazione che fuoriesce dai suoi occhi quasi fosse un deserto. La mia mente vola dalla realtà di questa situazione, dal fatto che Julian non sia neppure qui con me se non appena un po’. Ho dannatamente bisogno di lui, ma non posso fermarmi a pensarci. È già crollato sotto un enorme peso, qualcosa che lui pensa di dover affrontare da solo. E forse lo deve fare, perché non sono sicuro di poter essere abbastanza forte per entrambi. Alla fine la pioggia rallenta e io sospingo i nostri miseri corpi ancora avanti, cercando di indovinare la direzione da prendere attraverso un logoro orizzonte spento che a malapena riesco a percepire. Non sono in gran forma. Devo aver trascinato entrambi verso la cazzo di parte est di Londra. Voglio essere arrabbiato, incazzato nero, qualunque cosa che mi faccia andare avanti, ma non so per quanto ancora potrò farlo. Julian è solo un’ombra che scivola apatica dietro di me. Che cosa cazzo sto facendo? Scappando, sussurra ossessiva una voce, riempiendo le strade. Mi fermo e di scatto mi giro verso il suono immaginario. Fuggendo alla cieca. Probabilmente è proprio quello che sto facendo. Sopra di noi le nuvole iniziano a ispessirsi e a diventare più scure, ma non sembrano minacciare tempesta; improvvisamente è tardo pomeriggio. Non abbiamo mangiato per tutto il giorno. Ci sta mancando l’aria. Non ho idea di dove trascorreremo la notte e ho bisogno di trovare un posto asciutto. Se rinuncio a queste cose essenziali, tanto vale che rinunci del tutto. Arriviamo a un mercato in un particolare sudicio angolo della città. Una donna con indosso strati su strati di maglie e che sta mettendo via un banchetto di frutta e verdura, ha pietà di noi e ci dà un sacchetto di frutta ammaccata che domani sarà immangiabile. È questa improvvisa gentilezza piuttosto che lo sfinimento al limite dello svenire o l’espressione angosciata di Julian che mi fanno finalmente fermare.

Ci rannicchiamo sulla porta di un negozio vuoto. Lei ci guarda con la coda dell’occhio mentre finisce di mettere via il resto della sua esposizione in un vecchio furgone sgangherato. Forse pensa che non abbia notato il modo in cui ci guarda, con un misto di pietà e timore. Non mi importa. Immagino abbia dei figli a casa. E chi mai vorrebbe qualcosa di simile per loro? Ci sono tanti negozi vuoti in fondo alla strada, tutti sprangati e inaccessibili. Mercati squallidi come questo stanno avendo un’improvvisa rinascita, un risveglio. Vorrei avere l’ispirazione per disegnare le scene attorno a me. Vorrei poter disegnare qualcosa di bello perché so che c'è, dappertutto, ma la mia ispirazione se n’è andata, volata via come un sussurro nel vento. Probabilmente per sempre, penso minaccioso. Porgo il sacchetto con la frutta a Julian, ma lui scuote la testa china. Ho la tentazione di scagliarlo al di là della strada, ma sono troppo affamato per sprecare cibo sull’onda della frustrazione così vi infilo una mano, ne traggo una mela e inizio a mangiarla. Dopo pochi morsi Julian si sporge e ne prende un pezzetto. La signora del mercato ci saluta con la mano mentre se ne va. Io annuisco. Non ho abbastanza energia per alzare la mano più in là della bocca. Oltre le strade bagnate, le luci di un bar sfavillano ardenti. Un po’ di gente siede ai tavolini chiacchierando allegramente. Non riesco a sopportarlo. Con rabbia raccolgo il sacchetto con la frutta, le mie dita cercano il maglione di Julian e senza doverlo costringere ad alzarsi, ci mettiamo in piedi e ce ne andiamo. Si fa notte prima ancora di ritrovarci in territorio familiare. Posso sentire l’odore del fiume, persino il modo in cui le sue acque scorrono come pulsazioni attraverso una vena. Stordito, inciampo e cado. Mi sento come se stessi disperatamente cercando di mantenermi integro, ma sono così debole da ridurmi in pezzi, cadendo oltre la rete. Tra un colpo di tosse e l’altro contro il terreno, sento risate ubriache che riconosco. Sento le bestemmie, un grido, il nome di Julian urlato al di là della strada e ritorno in me. Julian si accuccia, basso e apatico alle mie spalle. Vorrei che le sue braccia mi avvolgessero, tenendomi insieme, lontano dal limite, dando sollievo alla pena di questa mattina. Vorrei che qualcuno cancellasse questo giorno, lo distruggesse, lo obliterasse. Avrei volentieri dato un’altra occasione al rifugio.

Guardandomi attorno sotto lo sguardo brillante del lampione, vedo Roxy che barcolla verso di noi, le braccia attorno a un ragazzo, un ragazzo molto più giovane, che sembra partito tanto quanto lui. Roxy e io siamo stati insieme sulla strada per un certo periodo prima che lui fosse inghiottito e consumato da essa. Si vende come faceva Julian, ma tutt’ora mi sconvolge il vedere quanto vacuo sia diventato. «Jules!» urla di nuovo. Non riesco a decidere se voglio che se ne vada via oppure no. Non sono sicuro di poter affrontare altra gente, in questo momento. Lui ha un aspetto orrendo, i capelli appiccicosi e scarmigliati, luridi, i vestiti sudici. Siamo coetanei, ma lui ha ancora un'innocenza che lo rende desiderabile per alcuni, qualunque sia lo stato del suo abbigliamento. Ma cazzo fa male vederlo così, gli occhi vuoti come se non vi fosse rimasto nulla dentro. Dov’è Cricket? gesticolo quando si fa abbastanza vicino da comprendere i miei movimenti. Affondando sul terreno bagnato, allunga un braccio attorno alla mia spalla per raggiungere Julian. «I miei migliori amici», informa il ragazzo che gli sta aggrappato dietro, biascicando, ignorando la mia domanda, sorridendo in tutta risposta. Mi allontano a carponi e tossisco contro il fango. So che sto perdendo più sangue ora, posso sentirne il sapore. Quando ritorno indietro gattonando, Julian sta bevendo a profonde sorsate dalla bottiglia di plastica senza etichetta che aveva il ragazzino. Potrebbe essere qualunque cosa. E a Julian non può fregar di meno, penso amaramente. Non ci guardiamo in faccia o meglio, lui non guarda me. Se lo fe, io distoglierei lo sguardo. Roxy mi porge la bottiglia, ma io gli schiaffo via la mano e lui si muove evitando il colpo in modo di non farne cadere neppure una goccia. In silenzio, lascio che finiscano. Il nome del ragazzo è Pasha e mi guarda intensamente appoggiato contro il muro. Roxy parla e parla e non sembra notare che nessun altro si è unito a lui. Gli occhi scuri di Pasha su di me iniziano a

mettermi a disagio. Lo fissa a mia volta, notando quanto simili siano i nostri colori, il nostro aspetto: capelli scuri, occhi neri, carnagione pallida, viso ovale. Cosa? domando con le dita, dubitando che lui possa comprendere ma con l’urgenza di mostrare la mia frustrazione. «Non puoi parlare?» chiede in russo. La sua voce è sottile, giovane. È solo dopo averlo capito che mi rendo conto della differenza di lingua. Scuoto la testa. Con un'unica grande falcata invade il mio spazio, con sfacciataggine fa scorrere le sue dita contro la mia guancia. Sta gelando. «Ti conosco» afferma con un’improvvisa chiarezza, di nuovo in russo. Sono così scioccato da quella mano su di me che non riesco a rispondere. Si china sulle ginocchia in modo da ritrovarci ad altezza degli occhi, vicini. «Ti ho visto» sussurra. «Alla stazione dei treni.» Alle mie spalle inizio a percepire che Julian ci sta guardando entrambi, ma la sua espressione è così addolorata che non posso immaginare cosa stia pensando e comunque non viene ad allontanare Pasha. Prima che possa chiedere a Pasha cosa voglia dire, quale stazione e quando, perché a parte la metropolitana non sono stato in una stazione dei treni da mesi, Roxy agita la bottiglia. «Sull’Argine ne abbiamo ancora, andiamo!» urla e inizia a tirare Julian per farlo alzare in piedi. Mi porge una mano e Pasha si scioglie sullo sfondo, il fervore e la nitidezza estemporanei sono scomparsi dagli occhi del ragazzo che di nuovo appare strafatto. «Andiamo, Romeo. Tornatene con noi. Hai sentito di Cassey? Che cazzo di distruzione, non è vero?» Roxy va avanti a blaterare frasi senza senso e non si accorge di quanto cazzo disperati siamo, quanto cazzo oltre il limite siamo ormai.

«Ma Cassey sta bene, comunque?» domanda Julian aspro, le prime parole che pronuncia dopo ore. Roxy annuisce, per un attimo fugace sembra tornato a essere il ragazzo che un tempo conoscevo, il ragazzo che si lasciava coinvolgere dalle cose prima che parte di lui si rattrappisse fino a diventare nulla, in modo da poter sopravvivere. «L’hanno portata all’ospedale. Ma non l’hanno tenuta là per molto. Sua sorella ha un bar vicino all’Argine. L’ho vista là.» Il sollievo mi assale per un momento e chiudo gli occhi. Quando li riapro si sono mossi tutti. Julian si volta indietro a guardarmi, i nostri occhi si incontrano per mezzo secondo prima che lui si incammini dietro a Roxy. Non che cosa significhi tutto ciò, voglio gridare. Non so cosa fare! Mi stava chiedendo il permesso di tornare insieme a loro? Stava solo cercando di dimostrare cosa stava facendo? Perché non voglio andare al di là del fiume nel sottoaggio sotto la South Bank. È praticamente il posto peggiore per dormire all’addiaccio a Londra, a meno che non tu non abbia un certo status, a meno che tu non abbia amici con coltelli o altro tipo di arma che possa difenderti. Non voglio andare là e non voglio devastarmi di droga. Voglio solo che Julian si volti e si fermi. Voglio le sue cure, il suo calore, ma in questo momento Pasha è l’unico a rallentare il o per me

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Eroina

Le mani di Pasha sono pallide e fredde e tuttavia mi guarda attentamente e prende le mie nelle sue, come se fossi quello mezzo congelato a morte. Forse lo sono, riesco a malapena a registrare la sensazione delle sue dita sulla mia pelle. Apatico, inciampo dietro di lui mentre segue gli altri, ora così avanti che sono appena visibili quando attraversano la luce dei lampioni. Riesco a malapena a camminare per via della tosse. Aspetto che Julian si volti, mi senta, che riesca a sentire una cazzo di cosa pure lui e si ricordi, ma lui continua a marciare con il braccio di Roxy su una spalla, il corpo che ondeggia a fianco a quello di Julian. Un rigurgito irrazionale di gelosia mi serpeggia addosso. Ma sono troppo debole per combatterlo. Dell’acqua nera ci scorre ai piedi mentre attraversiamo il ponte e anche se non posso vederla, ne posso sentire il potere, posso ascoltare il suo richiamo. «Sbrigati» dice Pasha, il suo russo è senza fiato, strascicato. Ma non posso. Resto indietro, afferro la ringhiera, sebbene sia doloroso quanto aggrapparsi a un pezzo di ghiaccio. Il dolore scoppia attraverso le mie dita come uno shock elettrico e fisso l’oscurità, cercando di distinguere le increspature irreali del fiume, le loro forme in continuo cambiamento. Viene vicino e si arresta alle mie spalle. Mi sorprendo a scoprirlo più alto di quanto non lo sia io, ma si piega in avanti, così le nostre spalle sono alla stessa altezza. Tutto sfoca lungo la South Bank. Le luci mi feriscono gli occhi. «Andrà tutto bene» dice dolcemente, premendo sulle mie braccia, ma vorrei che non mi toccasse. Non è lui che voglio a fianco a dirmi quelle parole. Mi asciugo le lacrime con un moto di rabbia. Non va bene un cazzo digito, sapendo bene che non mi capisce. Vorrei urlare le

parole. Vorrei sapere cosa si prova. Vorrei lasciare che l’angoscia svanisca e che qualche suono possa essermi strappato via, così tutti capirebbero quanto è doloroso, ma tutto ciò che riesco a fare è tossire. Quando raggiungiamo il sottoaggio non c’è segno né di Julian né di Roxy. Ombre incurvate e tenebrose sono per lo più mimetizzate contro le mura del tunnel, ma posso sentire il basso mormorio delle loro voci e riesco a percepire il vigile fissare dei loro occhi sui nostri corpi. Per un secondo Pasha si guarda attorno, palpebre spalancate come un bambino sperduto, ma poi riporta la sua espressione a quella di un ragazzino di strada strafatto e ci trasciniamo in avanti. Davanti a noi sfavillano alcuni falò, la vastità dello spazio è tutto fuorché invisibile nelle tenebre. Qui è freddo gelido come nelle strade, ma per lo meno siamo al riparo dalla pioggia e il ghiaccio non si formerà come ghirlande di fiori gelidi sopra la nostra pelle esposta. Pasha si fa largo verso l’angolo più lontano, scavalcando corpi, forme che potrebbero essere ubriache, svenute, addormentate oppure morte, e che non ci soffermiamo a controllare. Da una certa distanza posso intravedere i capelli chiari di Julian. Potrei riconoscerlo tra una folla di migliaia di persone, i miei occhi attirati su di lui, solo lui. Anche Cricket è qui, la sua faccia è illuminata da un piccolo fuoco. Sembra vecchio, la sua pelle pare chiazzata e rugosa anche se non avrà più di venticinque anni. Un piccolo mucchio di carta stagnola e quello che immagino sia un pacco di aghi, stazionano a terra accanto a lui. Persino in quel breve attimo che impieghiamo a raggiungere la parte opposta della stanza, Cricket incontra un nuovo cliente, e lo scambio è talmente aperto, disinvolto al punto da domandarmi se mai gliene importi qualcosa. Forse neppure dovrebbe. Di fianco a lui, due figure silenziose, imponenti quanto i guardiani dei cancelli stazionano in piedi, i cappucci dei loro cappotti abbassati a coprirne i volti. Non appena li raggiungiamo, Roxy trascina via Pasha e il ragazzo ride emettendo un suono forte e fasullo come la maschera da ubriacone che indossa. Faccio gli ultimi i e sono pronto a crollare sulle ginocchia davanti a Julian, pronto a cadergli tra le braccia, pronto a fare qualunque cosa occorra per stargli di nuovo vicino. Ma mi fermo. Noto la posa del suo corpo accasciato contro il muro, la testa abbandonata in avanti sul petto, la manica arrotolata sul braccio. Disgustato, mi rendendo conto di ciò che ha fatto e mi volto. Senza fiato, in un moto di panico, lo vado a cercare. So di chi è la colpa di tutto questo. So chi ha dato a Julian la droga. So chi ha incasinato tutto, chi continuerà a fottermi la vita,

da quella prima volta che ha detto a certi scagnozzi che non potevo gridare per quanto mi potessero picchiare. Sono incazzato, spaventato e sperduto. Tutti questi sentimenti si concentrano in uno stato di odio puro e con l’ultimo residuo di forza che mi è rimasta in corpo, mi lancio contro Cricket e lo trascino con me dentro il fuoco. Il dolore è crudo e fa urlare. Un calore bianco, accecante, infiamma la mia carne e non riesco a respirare. Lotto selvaggiamente. Cricket mi morde, picchia contro il mio collo prima di venire improvvisamente trascinato sul terreno e gettato al di là della folla che si è raccolta in fretta. In lontananza riconosco la voce di Pasha, un lieve mormorio attraverso le urla di Roxy. Tutto in me è dolore, le braccia e le mani sono bruciate, la sofferenza ora sta diventando insormontabile. Mi rannicchio su me stesso, singhiozzo una volta e mi rendo conto che è questo, questo è il fondo che ho già raggiunto una prima volta, tranne che quella volta avevo una scintilla, una piccolissima speranza di poter vivere per qualcosa, una flebile speranza che Julian fosse ancora vivo da qualche parte e che io lo avrei ritrovato. Ma come posso trovarlo adesso? Come può lui trovare me? In questo momento lui è completamente andato e io ho bisogno di lui! Ho davvero bisogno di lui e per quanto sia dura cercarlo, per quanto sia difficile provarci, non posso offrirgli quel che possono le droghe. Non posso estirpargli il dolore. Non posso fargli dimenticare. Che possibilità ho, io, contro tutto questo? Da quando ci siamo incontrati abbiano avuto una regola non scritta, una tacita promessa che non avremmo permesso di ridurci così, che avremmo lottato quanto più duramente possibile perché una volta che inizi a prendere le droghe là fuori, non c’è via di ritorno. Oh, Dio, fa male. Lascio che i miei polmoni si svuotino sul cemento sotto di me e, quando arriva, benedico l’oscurità.

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Sonno

Una mano calda mi carezza leggermente la fronte. Il gesto è distratto ma non indifferente. Il tocco è ciò che mi sveglia. Per un istante mi sento a posto. Ovunque io sia è tranquillo, e io sono al caldo, e la mano calda, la mano di Julian mi protegge da tutto il male. Fintanto che lui è qui, io starò bene, tutto andrà bene. Ma è solo un momento, giusto il tempo che ci vuole per riempire di aria i miei polmoni e quando apro gli occhi il mondo non è come lo vorrei, e fa male. È l’inferno. Tutto è buio, ma gradualmente inizio a riconoscere le pareti che mi circondano. Non sono al caldo. Sto tremando di freddo. Le mie mani bruciate sono raggomitolate in pugni che non posso aprire. Sussulto dal dolore. È Pasha e non Julian che si piega su di me, preoccupato. I suoi movimenti e la sua voce sono calmi ma i suoi occhi sono terrorizzati. «Ti hanno trascinato qui» dice. Questa volta parla in un inglese sconnesso. Forse pensa che sia troppo andato per riuscire a decifrare qualunque cosa. Forse ha ragione. In un’altra situazione sarei folgorato dal pesante accento che ha, dalla cadenza melodica e dal canto, dal modo in cui maschera la durezza aspra con la leggerezza della voce. Siamo in uno stretto cunicolo che porta verso il fiume. Posso sentire l’acqua come tocca il terreno sotto di noi. Fa un freddo gelido. «Hai molto male?» mi domanda e appoggia le mani sulla testa per sentire la mia risposta. Dice che mi aiuterà. Julian, sillabo ma lui non può vedermi nel buio per capire e io non so neppure se conosce il nome di Julian. O il mio.

In ritardo, cerco di raggiungerlo ma ormai è andato e io posso sentire il ghiaccio sul terrendo del tunnel intorpidirmi attraverso la manica della maglia. Grida ubriache, il frastuono senza fine delle auto, l’acqua scura che lambisce contro il cemento e che mi seppellisce, di queste cose è fatto il mio mondo. Sento la familiare stretta di panico agitarsi nella profondità del mio petto. Disperatamente, cerco di ricordare qualcosa di felice. Ho bisogno di qualcosa a cui aggrapparmi. Non ho altro che questo. Non penso a Julian. È troppo doloroso al momento, e anche se credo lui sia l’unica cosa buona che io abbia mai avuto, ci deve essere qualcos’altro da qualche altra parte... La pressione delle labbra, così improvvisa e segreta, del mio primo bacio, la memoria di quanto dolce e fugace e del non essere abbastanza. La mia prima notte trascorsa a dormire sulla strada, all’interno di un androne, le mie braccia attorno a un corpo caldo, Robyn/Roxy, e il sentirmi al sicuro per la prima volta dopo tanto tempo, anche se non eravamo al sicuro. Come avremmo potuto, lì, da soli? Pensare che tutto sarebbe andato bene, che io sarei stato bene perché avevo qualcuno a cui aggrapparmi. Solo che non era il qualcuno giusto, ma ci siamo usati a vicenda per un po’ di tempo. Fingevamo. Mi chiedo vagamente se Cricket è quello giusto per Roxy e se è così, com’è possibile? Come può, Cricket essere giusto per qualcuno? Non gliene importa abbastanza. Ha rinunciato così tanto tempo fa che probabilmente se n’è dimenticato. Prende solo per se stesso. E invece ognuno di noi ha bisogno di molto di più di così. Tutti abbiamo bisogno di qualcuno a cui aggrapparci e che a sua volta si appoggi a noi. Julian si appoggia a me. Non so cosa è andato storto ma non riesco ad accettarlo. Non posso pensare a Julian in questo momento, supplico. Scivolo ancora più indietro nel tempo... mia madre. Fa male solo a pensarla. Odio il fatto che mi abbia abbandonato, che sia uscita una mattina a comprare il pane e non sia mai tornata. La biasimo per tutto questo, adesso, per tutto il male che mi è capitato. È tutto colpa sua. La rabbia mi è più utile della disperazione. Le lacrime sono bollenti contro le guance. Vorrei spazzarle via se potessi. Ma l’ho amata, non posso fingere di non averlo fatto. Ecco perché fa così male. Voglio mentire. Voglio averla sempre odiata per le cose che mi ha fatto, per la vergogna che ho

provato, ma l’ho amata così apertamente e con una tale fiducia che quando se n’è andata, la parte più speranzosa e luminosa di me si è obliterata. E so che non potrei sopportare quel tipo di abbandono un’altra volta. Quando parlava di casa, della mia babushka e dedushka, i suoi genitori, era diversa. Era gentile quando mi diceva di quanto mi avrebbero amato il giorno che mi avrebbero incontrato, ma non lo hanno mai fatto. Sentiva la loro mancanza, ma non mi ha mai detto perché è partita per venire qui, perché non è potuta tornare a casa con me e quelle non era domande che un bambino potesse anche solo pensare di fare. Un bambino accetta semplicemente le cose come stanno, che domani sempre segue l’oggi, che alcune persone vivono senza sapere se avranno fame oppure no, perché questo è il loro modo. Alcune persone sono ricche, altre sono povere; nella mente di un bambino non si va oltre. Non c’è colpa, non c’è perché. Ricordo che aveva un odore dolce. La lacca per capelli a buon mercato riempiva la stanza di nuvole di vapore appiccicoso. Anche ora, per le strade, se a qualcuno con i capelli acconciati e messi in piega con la stessa roba, mi ricordo di lei e devo sopprimere quel ricordo. Se non lo fi, impazzirei. Ora lascio che quell’odore arrivi. Mi permetto di ricordare la sensazione delle piccole ciocche di capelli contro la mia guancia mentre lanciavo le mie braccia attorno al suo collo. Ero piccolo, cinque o sei anni, e gli incubi mi svegliavano. Ricordo le sue braccia. Sembrava così forte allora, come se potesse proteggermi all’infinito. Come ha potuto lasciarmi? Soffoco e rimando indietro un singhiozzo. Lo sento ora, e mi lascio andare, sapendo che mi distruggerà. Quando vengono per me, sono persone da sogno, tutte fatte di luce. Da sotto la superficie del sogno, sento Julian che grida rauco ma è così lontano e le braccia delle tenebre più profonde del sonno mi sostengono.

La realtà sfavilla

La realtà sfavilla. Non c’è dolore, nessuna sensazione, nessun pensiero ma questo spiraglio fluttuante, questo filamento di luce che sta scomparendo e che è la mia vita. Questa gente mi sta portando a casa. Urlo in silenzio quando toccano le mie mani perché qui è dove vive il dolore, un’agonia rovente che non posso soffiare via. Non ho forza per tossire, il mio respiro gorgoglia, affonda nella gola. L’oscurità ritorna e non penso che mi sveglierò mai più... Una melodia familiare ondeggiando si fa strada nel mio sogno: una ninna nanna russa che mia madre era solita cantarmi a proposito di un ragazzo che si era perso nella foresta. La canzone di mia madre lo guidava verso casa. Questa parte della ninna nanna è il richiamo per lui. Lei crede che il suo amore lo guiderà di nuovo. Non ha mai perso la fede. Sentendoli come se me li avessero sigillati con la colla, cerco di aprire gli occhi. Non posso vedere nient’altro che la strana figura sfocata del tutto, non sento nulla che sia familiare tranne la canzone che aleggia nell’aria. Non posso muovere nessuno dei miei arti e quando cerco di aprire la bocca, sembra come se qualcosa di alieno si sia spinto dentro di me strisciando. La mia mente inizia a farsi prendere dal panico, ma il mio corpo è una pesante sacca di sabbia che sprofonda nei fondali di un oceano e mi trascina sotto con lei, di nuovo... Una macchina emette un fischio continuo... Questa volta svegliarmi è improvviso, la mia conoscenza schizza attraverso la superficie come una pallottola. Cerco di ansimare e vedere; piegate su di me ci sono due infermiere o forse due dottori. Non lo so. Mi dicono di fare un respiro mentre mi estraggono un tubo dalla gola. Dicono che renderà la cosa meno sgradevole. Mi chiedono di annuire quando sono pronto e mi sembra di vomitare con un lungo e interminabile conato.

Dopo mi domandano se mi sento meglio. Osservano la macchina che fischia sopra di me e mi sistemano di nuovo nel letto, in una posizione più eretta. Guardo oltre le loro facce preoccupate e vedo che le tende attorno al mio letto sono tirate. È tutto un po’ claustrofobico. Ma non voglio che tirino le tende di nuovo, aprendole. Voglio rimanere in questa area isolata e off-limits. Mi sento troppo insicuro ed esposto per essere visto. E più importante di tutto, mi sento come se avessi dimenticato qualcosa, qualcosa di incredibilmente importante. Non cerco di spingere, ma mentre sono disteso provando come ci si sente a deglutire nuovamente, come sta la mia gola scorticata, me lo domando. Il sonno mi chiama a sé nell’attimo che impiego sospirare. «Qui, è qui!» esclama una voce concitata così tanto vicina. Il suo accento è di molto lontano, di al di là del mare. Lo conosco? «Shhh, sta dormendo!» Il mio cuore perde un battito. Questa è una voce nota. Questa voce so a chi appartiene. Ogni cadenza. Ogni pausa. Sembra in qualche modo triste e anche attraverso la foschia mentale che mi impedisce di ricordare, io so che lo amo. Ma è tutto ciò che so. «Abbiamo solo mezz’ora!» «Non importa.» Le mie palpebre pesano, sono costrette ad abbassarsi, le mie ciglia sono fatte di piombo ma so che i suoi occhi sono bellissimi, di un’insolita sfumatura di castano che non ho mai notato in nessun altro. So che è magrissimo ma forte e so quanto il suo corpo si adatti al mio. Ne conosco il peso tra le mie braccia. Ma dimenticare è una strana sensazione... non conosco il suo nome, non so neppure il mio. Se solo potessi schiudere le palpebre, vederlo di fronte a me, allora sono sicuro che lo ricorderei, la foschia si alzerebbe come brezza mattutina... ma sono di nuovo andato prima di poter pensare ancora un po’. Era un sogno?

Remee Apro gli occhi e sbatto le palpebre. Il reparto è scarsamente illuminato. Il cielo sopra le finestre è nero quanto lo diventa normalmente a Londra. Julian... Ricordo. Un intero giorno trascorre. Ogni minuto di ogni ora pesa sul mio cuore perché lui non viene. Non ho la forza di muovermi, tanto meno di andarmene. Sono immobilizzato in un reparto di ospedale pieno di altre persone dall’aspetto deprimente e paralizzato. Sono prigioniero nel mio stesso letto. Nessuno viene a spiegarmi l’entità delle mie ferite, mi lasciano qui a guardare le mie mani fasciate, incapace di sentire le mie dita. Tossisco ma non è più così doloroso o inarrestabile. Non c’è più sangue sulle bende se sollevo le braccia per coprirmi la bocca. Non rinuncio, ma non mi aspetto più di vederlo arrivare dal fondo del corridoio. Le ore di visita sono comunque ormai ate. Ma improvvisamente, con la coda dell’occhio, colgo un cappotto grigio pesante. Giro la testa e il volto da elfo di Pasha è premuto contro il vetro delle porte. Alza una mano in segno di saluto. Ansiosamente cerco Julian in piedi, da qualche parte dietro di lui, in un rigurgitare continuo di persone. Ma se ne è andato prima che potessi sbattere le palpebre. «Romeo?» Scatto e mi giro verso le porte per vedere una donna vicino al mio letto, i suoi grandi occhi blu mi guardano. Sembra fuori posto. Dovrebbe essere fuori, in mezzo alla natura, in un campo o in una spiaggia. Emana un aroma di aria fresca e fiori. I suoi capelli rossi sfuggono selvaggi e la fioca luce solare che penetra attraverso le finestre le dona un’aura di fuoco. Sorride apertamente e mi tocca il braccio. «Mi spiace di essere in ritardo. Sono Estella King, la tua assistente sociale.»

Non voglio che mi piaccia. Davvero non voglio, ma il dolore nel mio cuore mi rende debole. E lei è dannatamente troppo gentile, troppo carina e io, sto letteralmente sciogliendomi davanti a lei mentre mi parla. E mi dice che io sarò sotto la sua responsabilità fino a quando sarò in grado di aiutarla a ricomporre i pezzi della mia storia, di cosa mi è successo. Mi dice che va tutto bene. Che ci sarà qualcuno a prendersi cura di me. Non sono solo. Se ne va per chiedere ai medici un aggiornamento sulla situazione delle mie mani e io mi rannicchio e in silenzio piango sommessamente nel cuscino fino a quando non ritorna. Mi presenta un medico che dall’aspetto pare essere a malapena più vecchio di me e che disfa i miei bendaggi per poi dirmi che, sebbene le mie ustioni siano estese, dovrei avere piena funzionalità delle mani entro poche settimane. Ma il sollievo evapora velocemente quando penso con chi vorrei poter condividere questa notizia, a chi non è qui con me in questo momento, da chi andrei se potessi uscire da questo letto anche se dovessi strisciare per farlo. «Questa è una bellissima notizia, Romeo!» Estella sembra raggiante mentre guarda l’infermiera rimettermi a posto le bende con cautela. «La famiglia affidataria che ti ho trovato sarà al settimo cielo!» Guardo il soffitto per ore, progettando di scappare e immaginando dei modi sempre più improbabili in cui Julian viene a salvarmi, fino a quando, finalmente, mi lascio scivolare nel sonno. Pasha è qui, quando mi sveglio, è seduto nella bassa, scomoda seggiolina di plastica vicino al mio letto. Di fuori sta per iniziare l’ora di punta del primo mattino nel lento brusio del traffico, con lo sbadiglio dei pendolari già in piedi ben prima del sole. Siamo le uniche anime sveglie nel reparto. «Gli ho promesso di venirti a controllare» sussurra con fare cospiratorio. Non ho idea di come Pasha sia riuscito a sgattaiolare senza farsi vedere da tutte le infermiere. Porta in sé una sensazione di rapidità, di un’innata agilità felina, ma non è invisibile. Dov’è? sillabo, allargando disperatamente le braccia. Vorrei potergli entrare dentro e strappargli fuori la verità.

Studia il mio viso per ciò che mi sembra sia un’eternità. «Gli dico che sembri stare molto meglio» dice alla fine prima di alzarsi e andarsene. Scuoto la testa vigorosamente. Sono frustrato dalla sua apparente mancanza di comprensione, volontaria o meno. Non sto affatto meglio sillabo, anche se è vero che lo sono. Digli che sto morendo. Non mi importa se non lo capisce. Pasha sorride dolcemente. «Verrebbe» dice mentre guarda su e giù per il corridoio. So che sta per scomparire da un momento all’altro. Agito le braccia per attirare la sua attenzione. Perché? sillabo. Improvvisamente è importante. Perché mi stai aiutando? Mi conosce a malapena, eppure mi ha salvato la vita e ora sta rischiando l’arresto per intrufolarsi dentro e fuori dall’ospedale solo per controllare come sto. Qualcosa mi suggerisce che essere arrestato è l’ultima cosa di cui ha bisogno. Con un’intensità brutale, Pasha si siede sul letto così vicino a me che posso sentire il calore della sua pelle. Le sue dita pallide aleggiano sul mio mento ma si ferma prima di toccarmi. Forse riesce a vedere quanto mi metta a disagio questa cosa. Il suo russo è senza fiato quando parla e mi ci vuole un attimo prima di tradurlo. «Quando sono sceso dal treno a Londra, il primo volto che ho visto era il tuo. I tuoi manifesti erano ovunque, lungo tutta la piattaforma. Ti ho pensato. Mi sono chiesto chi fossi e cosa ti fosse successo. E quando ti ho incontrato ho capito che avevamo questa connessione, che i nostri sentieri erano destinati a incontrarsi. Ci deve essere una ragione.»

Boschi e alberi

Il sole scorre attraverso le alte finestre che si fronteggiano, si riflette accecando sui tetti bagnati sottostanti e illumina Estella che si trova sorridente, in piedi, alla fine del mio letto. Penso sembri troppo ultraterrena per essere nient’altro che una normale assistente sociale. Dovrebbe posare per sculture fantastiche in qualche cottage in rovina vicino al mare o suonare l’arpa per una platea in campi aperti. La guardo a lungo e lei sorride ancor di più apertamente mentre allontano lo sguardo, imbarazzato. Non ho mai incontrato nessuno con cui fosse così facile stare e dopo aver capito che lei legge molto bene le labbra, parliamo dei miei disegni. Timidamente le mostro i miei schizzi sul blocco. Li studia con grande cura, come se fossero delicate opere d’arte, con espressione pensierosa. Mi aspetto che ne commenti qualcuno, che mi chieda cosa descrivono. Sono diventato monotono in termini di soggetti. Ma non lo fa. Dopo mi guarda negli occhi con un’intensità selvaggia e dice che ho un dono, che devo usarlo. Dice che la gente comprerebbe il mio lavoro. Mi dico che sta cercando solo di essere educata. Mi dico che è il suo mestiere comportarsi in questo modo ma come fai a fingere questo entusiasmo splendente per tutto? Mi dico che, sebbene non menzioni l’affidamento o mi faccia domande sulla mia vita, anche se non accenna a cosa sto gettando via vivendo nel modo in cui vivo, non è tenuta a farlo. Le parole sono lì, le domande non formulate incombono cupe su di noi e su tutte le cose frivole che ci diciamo. Ogni cinque minuti mi accorgo che i miei occhi vagano verso il corridoio alla ricerca di Pasha, di Julian, come se il mio cervello fosse stato riprogrammato per seguire compulsivamente un nuovo schema. Estella lo nota. Come potrebbe evitarlo? Mi chiede se sto aspettando qualcuno. Magari fosse. Ma no. Scuoto la testa. Non sto aspettando lui. Sto solo aggrappandomi alla mia solitaria speranza che lui possa venire.

Rimane oltre l’orario di visita. Dice che tornerà questo pomeriggio. Ma non se ne va mai a casa? penso. Le sono grato anche se non vorrei esserlo. Quando mi lascia mi chiedo come farò ad arrivare al pomeriggio. Dopo pranzo le bende vengono rimosse per un po’ di tempo, per tutto il tempo che io riesco a sopportare. Sento la pelle tenera contro le coperte che mi avvolgono; la crudezza sembra irreale. Le mani iniziano a dolere se le fisso troppo a lungo; se le muovo sembra come se la pelle tiri lungo le pieghe rugose. Perché non viene? Perché? Continuo a stiracchiare le dita. Mi tormento con il dolore. Mi fa smettere di pensare. L’orario di vista inizia di nuovo alle due. Guardo il reparto riempirsi con amici di altre persone, parenti di altra gente e mi rannicchio, il cuscino tra le braccia, il viso sepolto nel rigido cotone senza odori. Mi sento così dannatamente mal voluto e non riesco sopportarlo, non ce la faccio a fingere che non sia così. È tardi. «Romeo? Sei tu?» In mezzo a tutte le chiacchiere, sento chiamare il mio nome. Oh, Dio, penso, Cassey! Spingo il cuscino sotto di me e asciugo gli occhi gonfi con le mani fasciate. È così bello vederla. I suoi capelli neri spettinati, tenuti indietro da una molletta, il suo sorriso gentile mi ricordano quanto ho sentito la sua mancanza. È come se fosse possibile fingere che tutto è tornato alla normalità e che quel cazzo di niente dentro di me può essere ignorato e venire dimenticato per un momento. Guardando le mie mani mi abbraccia come se fossi fatto di vetro. Le sue dita calde mi sostengono più a lungo di quanto forse non avesse intenzione, ma non voglio lasciarla andare. La faccio sedere sul letto così mi può vedere mentre cerco di formulare le parole

in modo chiaro. Si concentra così tanto che vorrei piangere. Sono così felice di vederti! Abbiamo visto il Caffè. Ero così preoccupato! Talmente distrutto e devastato che non potevo respirare, l’alba avvolgente come una coperta di ghiaccio attorno a noi, le braccia di Julian che mi sostenevano... premo la mano contro il letto con dolore. NO. «Avrebbe bisogno di una bella mano di vernice, non è così?» sorride e poi sospira. «No, nessuno si è fatto male e davvero questo è ciò che conta. Qualche volta queste cose succedono e dobbiamo semplicemente affrontarle il meglio che possiamo, non trovi?» Non penso che stia parlando più soltanto del bar. «Aiuto mia sorella nel suo bar dall’altra parte del fiume mentre cercano di capire quanto mi pagherà l’assicurazione, che determinerà anche se il posto si potrà ricostruire oppure no. Non sono la proprietaria del locale, Romeo. L’ho soltanto preso in gestione. È da quando è successo che stavo cercando voi due, sai. Tutte le mattine, tutte le sere, lungo la banchina. Volevo farvi sapere che anche se il mio bar era andato in fumo, c’era un altro posto dove potevate venire. Mia sorella vi darebbe il benvenuto.» Annuisco, guardando fuori nel cielo blu dell’inverno. Voi due. Noi due. Eppure proprio qui, proprio ora, ci sono solo io. E da qualche parte là fuori, c’è solo lui. Cassey mi tocca il braccio. «Ho parlato con uno degli infermieri, e lui dice che starai bene» Annuisco distrattamente. Deve percepire il mio entusiasmo.

«Posso dirti una cosa?» mi domanda, la sua espressione diventa malinconica. «Qualcosa a cui penso quando tutto sembra troppo da sopportare?» Okay, dico con le labbra. «Quando avevo la tua età, i miei genitori si separarono e mentre litigavano per chi avrebbe avuto la custodia di Deonne e me, noi andammo a stare in Cornovaglia da una nostra zia. Era estate. Era bello, anche se pioveva tutti i giorni. Dopo aver vissuto a Londra, stare in campagna significava quasi dover imparare un’altra lingua e sulle prime non capivamo nulla. Per settimane abbiamo vagato in quei campi e quei boschi, qualche volta senza incontrare un’anima viva tutto il giorno fino a che non incontrammo questo ragazzo. Beh, a dire il vero vedemmo prima la sua roulotte e ci avvicinammo per esplorarla, pensavamo fosse vuota. Era al limite di un bosco di betulle, a miglia di distanza da ogni strada. Ancora non so come fosse arrivato lì o se l’avesse appena trovato. Il suo nome era Caius. Era giovane e amichevole. Sulle prime pensammo che avesse la nostra età, ma non era così. ammo tutti i giorni dopo quello insieme a lui, sia nella sua roulotte, sia nella grotta segreta in cui lui ci portò o ad aiutarlo a raccogliere il cibo che poi mangiava. Viveva delle risorse della terra. Non aveva denaro e per comprare quanto non poteva trovare nei boschi o nei campi, tipo carburante o vestiti, si offriva come lavoratore a ore a qualcuno dei fattori locali. La sua esistenza, secondo noi, era idilliaca. Non aveva nessuno a cui rendere conto. Noi saremmo dovute tornare a Londra per la fine dell’estate, a scuola e tutto il resto. Eravamo devastate. Eravamo diventati così uniti.» Cassey sorride mestamente. «Questo è ciò che farai tu, Romeo, quando diventerai più vecchio. Diventerai nostalgico e desidererai ciò che avrebbe potuto essere. Ho spesso pensato a lui e al modo in cui viveva, così libero. Ho sognato di fare lo stesso, il pensiero di quella roulotte, di quel modo di vivere, mi ha permesso di sopportare i periodi più duri. Devi avere un sogno, qualcosa a cui aggrapparti.» Distoglie lo sguardo per un momento, e mi domando come possa desiderare di stare in un posto come quello che ha descritto, di essere qualcuno che riesce a vivere in un modo simile, usando solo le risorse della terra. Ho vissuto solo esclusivamente in questa città. Curiosamente penso a Pasha. Forse Pasha potrebbe vivere così? E io?

Penso a come abbiamo lottato giorno per giorno sulla strada; sarebbe più facile? Più dura? Sarebbe semplicemente non avere nulla in un condizioni differenti? Non credo; in qualche modo sembra essere un ambito più indulgente o per lo meno più nobile e con maggiori soddisfazioni. Penso a mia madre, se mi cercherebbe se mi fossi sperduto in mezzo alla natura selvaggia. Potrei essere morto e non lo saprebbe. Nessuno lo saprebbe. Sei mai tornata indietro a cercarlo? «Ci abbiamo provato, tante volte. Ma sebbene la roulotte fosse ancora lì, era piena di detriti e non sembrava esser stata abitata da molto tempo. Non abbiamo mai più trovato Caius. Abbiamo persino domandato ai contadini del luogo, ma nessuno si ricordava di lui.» Caius potrebbe essere morto e Cassey e sua sorella non lo sapranno mai. Devo cambiare argomento di conversazione così dico a Cassey dei volantini, della ricerca di mia madre. Provo sollievo a raccontarlo a qualcuno, qualcuno a cui importa di me. «Come ti sentiresti nel rivederla di nuovo?» domanda dopo che ho terminato. La rabbia balena attraverso di me come un fulmine e sto per dire che non voglio vederla mai più in vita mia. Dopo quello che ha fatto, non ha diritto di tornare nella mia vita. Tutto questo è colpa sua ma... mi fermo. Sono arrabbiato con lei, ovviamente, ma la rabbia è solo la maschera di altri sentimenti. Se mi permettessi di sondarli e se lei fosse in piedi alla fine del reparto proprio ora, quello che proverei dopo tutto questo tempo, dopo tanto, oltre questo fingere che non porta a nulla, sarebbe uno sconcertante sollievo. Confuso, dico con le labbra, alla fine. Cassey annuisce e so che lei capisce. Armeggia nella borsa e tira fuori un pezzo di carta, che mi porge. «Non ero sicura che fossi tu, sulle prime. Ma hai ragione, Romeo, questi volantini sono dappertutto. Ce ne sono migliaia. Qualcuno deve aver speso una fortuna.»

Guardo il mio viso. Di nuovo non riesco a ricordare quando questa fotografia sia stata fatta. Non sono così magro né i miei occhi sono così incavati. Deve essere di qualche anno fa. Vorrei poter mandare a fanculo questa stupida cosa. Che cazzo di spreco di denaro inutile! Penso a tutti i modi in cui avrebbe potuto essere usato meglio. «Qualcuno vuole davvero ritrovarti.» Ma io non voglio essere ritrovato. Da lei, in ogni caso. L’infermiera ci avvisa che mancano solo cinque minuti prima della fine dell’orario di visita. Il mio cuore sanguina. Ormai sono ati due giorni. Che cazzo è avvenuto tra noi in un dannato momento di cui non mi sono accorto? Come può improvvisamente non fregargliene un cazzo? Lascio cadere il volantino sul pavimento. Per la prima volta sono davvero arrabbiato con Julian e non è solo il dolore per il fatto che mi abbia abbandonato. Fuori l’oscurità riflette il mio viso, la finestra è uno specchio spettrale color seppia. Le mie dita si incrociano dentro la fasciatura. Devo sapere. Hai visto Julian? «Sì» dice e anche se la sua espressione non cambia so dalla sua voce che c’è qualcosa che non va.

Sogni

L’unica cosa a cui penso, dopo che Cassey se n’è andata, è a come farò io ad andarmene di qui. Non ci sono dubbi sul fatto che io non possa fuggire stasera. Da solo, là fuori, non ho alcuna possibilità. Sono troppo debole, le mie mani sono incapaci persino di togliere il camice dell’ospedale. Mi sento alla mercé di chiunque. Sono impotente. Non ho controllo, non ho scelta. Sono intrappolato qui. Ci vuole tutta la mia forza di volontà per non pensare al sorriso stirato di Cassey mentre mi diceva che avrebbe cercato Julian sulla via del ritorno a casa. Non si aspettava di trovarlo. E se n’è andata troppo in fretta dopo, perché potessi chiederle qualunque altra cosa. Cerco di non notare le persone che entrano nel reparto scuotendo via il ghiaccio dagli stivali. La luna e tutte le dannate stelle saranno visibili stanotte, è limpido e freddo. Le persone muoiono là fuori in notti come questa. Da sole e senza che nessuno se ne accorga, i corpi congelati vengono scoperti da qualche ante che va al lavoro. Mi sento male. Pasha si prenderà cura di Julian, mi dico. Ma chi si occuperà di Pasha? E come posso fidarmi di lui? Come? Come fa la gente a sopravvivere a questo? Non so cosa fare. L’ora di vista serale arriva e se ne va. Niente Estella. Non so cosa aspettarmi. Non so perché mi sono concesso di fidarmi di lei anche solo un pochino. La gente ti delude. È esattamente ciò che fa. Quando tutti se ne sono andati, l’infermiera di guardia mi dà una pillola per dormire. Mi carezza i capelli e mi dice che andrà tutto bene. Io fisso apatico lo spazio tra i letti, aspettando l’oblio. Poco più tardi vengo svegliato. Mi sento confuso e gonfio, come se il mio

cervello stesse premendo in maniera dolorosa contro l’interno del cranio. Disorientato, mi sembra di sentire il ragazzo che amo disteso al caldo accanto a me. E quando vedo che non lo è, penso di stare sognando e voglio svegliarmi. Estella, gli occhi bassi, mi aiuta a sedermi nella sedia a rotelle e mi spinge fuori dal reparto. L’orologio sul muro segna le 12:15. Mi spinge giù per il corridoio fino a una piccolo ambulatorio dove ci sono un paio di sedie morbide. Mi spinge contro una di esse e si siede di fronte a me. Mi guardo attorno nella piccola e spoglia stanzetta. Un paio di fotografie generiche di campi, niente di troppo avventuroso, un tappeto beige, beige anche le pareti. «Mi spiace di averti svegliato, Romeo» mi colpisce il fatto che queste siano le prime parole che mi ha detto stasera «Domani sarò a Leeds e forse ci resterò per tutto il resto della settimana e volevo parlarti prima di andarci.» Sospira e sento aumentare il ritmo del mio respiro. Ha trovato una casa famiglia. Lo so che lo ha fatto. Forse sta per portarmi lì stasera. Guardo le mie mani fasciate e immagino me stesso chiuso in una piccola stanza da letto da qualche parte lontano, incapace di uscire fuori, impossibilitato a comunicare. Una casa piena di persone che non conosco e che controllano ogni mio movimento. Cos’altro ci sarebbe di così importante da svegliarmi nel bel mezzo della notte? «Romeo, è a proposito di tua madre...» porta una mano tra i capelli. Sembra stanca. Questa donna che è sempre sembrata così piena di energia, improvvisamente appare come se le fosse stata aspirata via. Le mie mani iniziano a pulsare per quanto le sto stringendo forte. «Ho appena trascorso la serata giù al distretto di polizia. L’ultimo posto dove mi hai detto che vivevi con tua madre, ho fatto delle ricerche incrociate con ogni evento significativo nell’area nel periodo relativo, approssimativamente, alla sua scomparsa.» Non posso credere di essere stato così stupido. Perché le ho raccontato tutte quelle cose, prima? Lei le ha infilate in un dannato computer della polizia. Penso a quanto mi metterei a correre se Julian fosse qui, come potremmo scappare da

tutto questo. Non mi troverebbe mai. «Da quello che mi hai raccontato, mi colpiva che i fatti non avessero senso. Non ti aveva mai abbandonato prima, nemmeno per un breve periodo.» Dio, spasmo ardentemente per Julian. Ho bisogno che sia qui con me. Ho bisogno delle sue cazzo di braccia a tenermi stretto. L’oppressione che sento nel petto mi occlude la gola. «Romeo?» Apro gli occhi riluttante e la guardo. «Mi dispiace così tanto... ma c’è stato un incidente. Tua madre stava attraversando la strada quando è stata colpita da un motociclista. Non aveva documenti di riconoscimento. Nessuno la conosceva. Nessuno sapeva che aveva un bambino che aspettava a casa il suo ritorno. Non si è mai più risvegliata. È morta in ospedale.» Dovrebbero tirar giù quelle fotografie e dipingere la stanza di bianco, perché è dannatamente troppo piccola. Ci sono troppe cose qui dentro, non c’è abbastanza spazio persino per respirare. Distrattamente mi asciugo la faccia. Perché cazzo sto piangendo, comunque? Esitante, Estella si avvicina e mi tocca un braccio. Quando non sussulto o mi tiro indietro, mi avvolge le braccia al collo e mi abbraccia, ma sono troppo intontito e sanguinante per poterle rispondere e rimango disteso e floscio contro di lei, abbandonandomi alla corrente e lasciando che mi travolga. Se non aveva documenti, come sapete che era mia madre? articolo con le labbra dopo essermi infine staccato da lei. «Ho fatto fare un esame del DNA. Il DNA di tua madre era conservato nei suoi incartamenti perché lei non era stata identificata.» Oh. Annuisco.

Posso tornarmene a letto adesso? «Mi dispiace così tanto, Romeo, davvero tanto» dice mentre si alza e con cautela mi spinge verso la porta e fuori nel corridoio. Osservo le strisce di luce sopra di noi offuscarsi in enormi scintillii stellari. Non c’è ragione di fingere che le lacrime non stiano sgorgando sulle mie guance, nessun modo per nasconderle, ma non riesco a collegarmi a esse, non riesco a sentire niente. Non sto singhiozzando, non è tristezza o dolore quella che si sta gonfiando dentro di me, non è niente. Allora perché fa così male? Non è ancora mattino. È quel momento tra la notte e il giorno dove gli orologi a mano ticchettano più lenti e i minuti si ingrassano pigri dal sonno. Gli uccelli non cantano ancora ma lo faranno. Il cielo sta sussurrando. Pasha mi sta guardando dormire. Tranne che non lo sto facendo. Lo sto guardando attraverso le ciglia offuscate, pensando che sto sognando e che non ho voglia di scacciare il mio sogno. In questo momento lui è l’unico collegamento che ho con Julian. È come la foto di un ragazzo sulla copertina di un libro che avevo da bambino. Cencioso ed elfico, il naso e le guance arrossate dal freddo. Non avevo molti libri e quelli che possedevo erano decrepiti e contrassegnati, i loro bordi spaccati dall’uso. Mia madre aveva portato ciò che poteva trasportare con sé in Inghilterra e niente di più. Baba Yaga, si chiamava. La strega dei boschi. «Porgi la schiena alla foresta e la tua fronte verso di me» avrebbe detto mia madre con finta autorità, tenendomi tra le sue braccia e lasciandomi voltare le pagine per leggerle. Era solita leggermi tanto. Le storie erano tutto ciò che avevamo per mantenere l’oscurità fuori. Tutto ciò che avevamo eravamo noi stessi l’uno per l’altra. Buffo come, dopo aver ato tanto tempo a cercare di dimenticare, ora tutto

me la ricordi. «Lo so che non stai dormendo» sussurra Pasha. «Vieni, ti porto da lui.» I miei occhi si spalancano. «Vieni» mi esorta, porgendomi la mano. «Non abbiamo molto tempo.» Determinato a camminare senza aiuti, seguo Pasha lentamente lungo il reparto. La guardiola dell’infermiera è vuota sebbene possa sentire delle voci che fanno eco dal vicino corridoio illuminato. Mentre oltreiamo il sottoscala della lavanderia, Pasha afferra un paio di coperte e avvolge la stoffa pesante attorno alle mie spalle. A ogni o, l’impulso di gettarle via e mettermi a correre cresce e cresce e cresce. «Ne hai bisogno qui fuori» mormora aprendo un’uscita di sicurezza che dà su un tetto lungo, stretto e piatto. Il rosa delicato del cielo dà l’illusione di calore quando in realtà è incredibilmente e dannatamente freddo. Tossico un poco prima di tirare le coperte sul naso per respirare. Ma se sto tremando non è solo per la temperatura. Pasha si guarda intorno, fischia e il mio stomaco affonda. Non riesco a credere di essere così nervoso. Sono ati solo cinque giorni. Un improvviso dubbio striscia nella mia mente. Pasha ha appena detto “lui”. Non ha detto Julian. Forse chiunque sia qui fuori non è la persona per cui il cuore mi sta rimbombando nelle orecchie. Ma quel dubbio è dimenticato non appena Julian esce dall’ombra a qualche o da me. Julian. L’ho visto devastato e sanguinante, mi sconvolge quanto appaia differente. Come quella scintilla luminosa, quello splendere brillante che emanava da lui sia ora diventato un tizzone quasi spento. Non riesco a togliergli gli occhi di dosso mentre cammina verso di me. Si muove come se fosse in pena. So che non piangerà ma cade in ginocchio, avvolge un braccio attorno al mio ventre e affonda il viso nelle ruvide coperte che mi coprono.

Mi abbandono sul tetto grezzo, cullando la sua testa. Lui è qui... è venuto per me... I suoi capelli biondi sono appiccicosi e sporchi, improvvisamente diventati lunghi e i suoi abiti sudici hanno l’aspro odore del fumo. Cerco di ignorare i tagli e le chiazze scure di sangue che lo ricoprono. Devo... fa troppo male. Mi sporgo per carezzargli i capelli, per toccarlo dopo che sembra essere ata un’eternità ma dimentico che le mie mani sono fasciate e quanto sono diventato debole, come sia difficile muovermi. Mi strofina un fianco e io chiudo gli occhi, cercando di accoccolarmi contro di lui. Finiamo per rannicchiarci in una posizione stramba, Julian mi attira contro il muro. Pasha continua a controllare vicino alla porta, facendo del suo meglio per ignorarci. «Non piangere, tesoro» dice Julian dolcemente. Anche la sua voce è stanca, distrutta. Sottile. Ma non sono triste. Questo è il momento più vicino al sentirmi al sicuro e a posto da giorni. Con grandissima attenzione mi carezza via le lacrime con un pollice, le sue dita tracciano la mia mascella. Mi abbandono al suo tocco, voglio avvicinarmi ancor di più. Non capisco perché sembri così triste. Cazzo, gesticolo con frustrazione, i miei pugni insieme. Voglio afferrarlo e stringerlo forte e non lasciarlo mai più andare. Voglio che lui non mi lasci mai più. Voglio che questo non sia un sogno. Voglio chiedergli dov’è stato, perché non è venuto da me ma mi sento troppo vulnerabile ed esposto qui fuori sul tetto, troppo incerto su cosa sia cambiato tra noi. Ma prima che possa racimolare il coraggio di dire qualcosa, lui dice piano:

«Devo andar via per un po’.» Cosa? sillabo nel panico, ma lui non mi sta neppure guardando. Mi divincolo dalla sua presa, le coperte cadono. Tutta la mia cazzo di bramosia e il mio spasimare per il suo non essere qui, tutto quel cazzo di dolore che non riesco ad affrontare, tutto mi sta mandando in pezzi. Respira. Come può andarsene, cazzo? Come può venire qui e dirmi questo? Dopo tutto quello che abbiamo ato, ogni cosa. Non viene da me e ora mi dice che deve andarsene come se fosse la cazzo di cosa più normale del mondo. Per un secondo doloroso e accecante credo di odiarlo. «Respira, Remee.» Una mano mi carezza la spalla. Sussulto, scacciandola con rabbia. «Scusami.» Scusami? Scusa non vuol dire un cazzo di niente. Fanculo! gli faccio segno, con egoismo. Vattene. Lo voglio ferire. Come abbiamo fatto ad allontanarci così? «Devi stare qui, Remee. Devi stare meglio.» Non sono un fottuto bambino. È la mia vita. Voglio scuoterlo, fargli capire. Dovrei essere io a decidere se voglio o no restare. Pasha viene con te? dico con le labbra. Non piangerò, cazzo, e non gli renderò le cose più facili. Guardando di scatto Pasha, lui alza le spalle come se non volesse darmi una risposta. Non penso che ci sia nulla tra di loro. Non sono geloso di Pasha. Non lo sono. Voglio solo stare con Julian. Questo è tutto ciò che ho sempre voluto. Perché? Perché devi andare via? Mi metteranno in una casa famiglia, e tu non mi ritroverai mai più.

Con mani tremanti mi carezza le guance. I cerchi scuri attorno agli occhi lo fanno sembrare devastato. Chiudo gli occhi. Mi avvolge le braccia attorno, mi attira più vicino a sé. «Tesoro, ti ritroverò» sussurra con voce rotta. «Non ti sto lasciando. È solo che devo andare. È meglio così per te.» Per un secondo mi concedo di appoggiarmi a lui, di affondare la mia faccia contro al suo collo, di permettere alle mie labbra di sfiorare il calore della sua pelle. Non voglio che questo momento, questo attimo di tempo, finisca mai. Questo è ciò che è meglio per me, questo tocco, questa sensazione. Perché non puoi andare da Gem? Scuote la testa, lentamente, triste, allontanandosi, rimettendosi in piedi. Dove andrai? I suoi occhi non mi lasciano, ma non mi risponde. Che cosa sta succedendo? È per via di Cricket? Le droghe? Afferro il suo braccio con le mie mani fasciate, ignoro l’agonia che questo gesto mi procura. Non lo nega. E adesso ha così fottutamente senso. Il modo in cui guarda, in cui si comporta. Mi sento tradito. Gem mi ha raccontato che una volta Julian aveva iniziato a usare delle droghe. Anni fa, per fuggire da quello che succedeva a casa sua. Ma le cose si erano incasinate tanto e lui si era ripulito e aveva giurato di non toccare mai più nulla del genere in vita sua. Ci eravamo giurati a vicenda che avremmo sempre trovato altri modi per tirare avanti. Avevamo noi stessi. E ora? Ora penso che lui non ce la faccia più e basta. Penso che quello che avevamo non era abbastanza e che non è così indistruttibile come credevo. Pasha ci guarda dalla porta. «Dovremmo andare» sussurra.

Julian guarda verso di me un’ultima volta. Non farlo, sillabo sprofondato nel pavimento. Ma allontana lo sguardo come se non potesse più sostenerlo e sparisce nell’ombra, improvvisamente. A distanza, sento la ghiaia scricchiolare e capisco che è saltato sul terreno. Pasha si trattiene ancora un po’. Si china verso di me e dice con calore: «Torneremo. Te lo prometto. Non è sicuro per lui al momento, ma torneremo. Ti terrò d’occhio.» Si gira per andarsene anche lui. Ma lo fermo con un braccio. Prenditi cura di lui. Mi sento talmente sconfitto che potrei sedere qui, nella notte gelida a guardare nell’oscurità e osservare il punto dove l’ho visto per l’ultima volta. Lo faccio per molto tempo. Rimango immobile, a pensare. Agli inizi, alla fine, a quanto mi sia sbagliato su tante cose. Ho anche paura. Se mia madre se n’è andata, chi si occuperà di me? Chi si impegnerà abbastanza per prendersi cura di me? Senza Julian, sono da solo. Non posso neppure sfiorare i limiti delle tenebre che circondano i miei sentimenti per lei, non ancora. Ma forse sono più forte di quanto non pensi. Forse posso essere forte per entrambi. Mi rendo conto che ho avuto paura, che non mi sono mai fidato di me stesso da quando Lloyd e la sua gang mi hanno picchiato, mesi e mesi fa. Julian mi ha salvato allora e ha continuato a salvarmi da allora. Ma forse non ho più bisogno di essere salvato. Forse devo essere io quello che salva, adesso. Se mai lo ritroverò. Penso disperato. No. Io lo ritroverò. Non posso concedermi di dubitare. Penso a cosa ha detto Cassey, sulla necessità di avere speranza, di avere bisogno di qualcosa a cui aggrapparsi e inizio a domandarmi con insistenza a cosa voglio veramente. Quando ogni giorno è una lotta per la sopravvivenza non pensi molto

al futuro. Non c’è niente di certo. Tutti vogliono lasciare la strada, trovare un lavoro, essere uno di loro, attraversare la barriera. Semplicemente non sappiamo come farlo. Quella vita è separata da un muro di vetro che non siamo abbastanza forti da abbattere e non possiamo ottenere un permesso per scavalcarla. Ma forse questa non è comunque la risposta. Forse c’è un altro modo, per noi. Forse dobbiamo fare un o indietro, ignorare il muro di vetro, completamente. Penso a Julian, luminoso e vivo, per sempre con me. Penso a prati verdi e boschi tranquilli. E mi concedo di sognare...

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Scelte

Troppi giorni ano. Non cerco Pasha, perché so che verrà solo quando non lo starò cercando. Non giro la testa se una massa di capelli neri guizza vicino alla mia coda dell’occhio. Non permetto al ritmo del mio cuore di aumentare al suono di i che corrono, di sussurri ritmati. Non guardo eppure comunque lui non viene. Cerco di non pensare affatto a Julian, perché mi ucciderebbe. Ma ovviamente lo faccio, e forse è questo l’amore, magari il morire dentro quando non sei insieme con chi dovresti essere. Perché, credetemi, io sto morendo. Julian. Così bello e serio. Non riesco a togliergli gli occhi di dosso mentre cammina verso di me, illuminando le tenebre. Le sua braccia mi avvolgono più veloci di un battito di cuore e cadiamo come figurine di un libro animato sul letto. Ma nel suo splendore calante inizio a notare cose che non sono per niente giuste. Come muove la testa, ciocche dei suoi bellissimi capelli rimangono sul cuscino, una parte del collo è nera e livida e quando mi guarda, sono gli occhi incavati di un ricordo, di un fantasma. Che cosa hai fatto? Domando inorridito. Si tira su una manica, il suo braccio è solo pelle e ossa coperto da centinaia di segni di aghi. Mentre guardo, quei segni si muovono per formare una parola. Aiutami, dicono. Mi sveglio, tremante, il mio respiro arriva a ondate di spasmi doloranti. Devo uscire di qui.

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Negli ultimi giorni Cassey è stata il mio unico visitatore, sebbene Estella abbia telefonato e lasciato messaggi che le infermiere mi hanno ato, dicendo che vuole presentarmi alla famiglia affidataria alla fine della settimana. Deve credere davvero che io mi lascerò spedire presso una coppia di santarellini bigotti pronti a versare il prestabilito ammontare di simpatia su un altro ragazzino difficile che lo stato gli ha consegnato. L’idea non mi alletta in nessun modo. Non lo permetterò. La strada è il luogo dove vivo ora. Lo è stata da quando ho trovato Julian e ce la siamo cavata insieme. Quello che lo scorso anno mi ha insegnato, è che ho una prorompente volontà di sopravvivere. Non sono più un ragazzino disperato e spaventato. So che è facile pensare a queste cose seduto nel mio letto caldo di ospedale, mangiando regolarmente pasti caldi e non rannicchiato in un gelido portone, ma continuo a pensare che sia vero. Ieri, nel silenzio ininterrotto, ho raccontato a Cassey di mia madre e mi ha tenuto stretto fino a quanto non ho finalmente fatto finta di lasciarmi andare e ho pianto. Lei ha detto che la storia le ha spezzato il cuore. Non sono ancora sicuro di ciò che provo, e non so come gestire questa cosa da solo, non voglio gestirla senza Julian, così l’ho sigillata nel petto, dove il suo oscuro peso ammazza il tempo e so che un giorno mi consumerà. Alla fine, la luce di un’alba gelida illumina l’orizzonte. Sono rimasto disteso in attesa che il giorno iniziasse per ore. È giovedì, e sebbene sia ancora debole e il mio petto sia ancora stretto dalla morsa dell’aria fredda, devo andarmene stanotte, prima che Estella ritorni, domani, pronta a mandarmi dalla famiglia affidataria come un bel pacchettino. Dopo che le infermiere hanno terminato il giro della colazione, mi alzo e gironzolo per il corridoio, recuperando le energie e pensando a cosa avrò bisogno quando me ne andrò più tardi. Ma quando ritorno al mio letto e inizio a mettere insieme tutte le mie cose e a prepararmi, scopro che i vestiti sono spariti. Il sacchetto di plastica che stava sul comodino vicino al letto e che conteneva gli unici possedimenti che avevo al mondo, i miei jeans, la maglia, il giubbotto, e il mio blocco con la matita, non sono più lì. L’avevo riempito di disegni di lui. Sono le uniche immagini che ho

di lui. Il panico sbatte come un uccello intrappolato dentro al mio petto. Avrei dovuto essere molto più cauto. Sono andato via solo per una camminata breve nel corridoio, ma avrei dovuto nasconderlo o portarlo via con me, o... qualcosa del genere. Mi guardo intorno nel reparto, osservo i pazienti immobili nei letti e poi oltre l’infermiera di guardia che spinge in giro il carrello con i medicinali. Chi mai mi deruberebbe? Improvvisamente confuso, inciampo contro la postazione di un’infermiera attraverso le doppie porte. Il mondo è sfocato ai margini. Voglio solo indietro i miei disegni. Non sto guardando dove sto andando e mi scontro alla cieca con qualcuno che sospira e mi afferra, ma sono così scioccato che non riesco a fare altro se non guardarla a bocca aperta e pensare Non dovresti essere qui, non puoi essere qui e per favore non mi portare via, non stanotte. «Romeo?» Estella aggrotta le sopracciglia preoccupata. «Va tutto bene?» No, non va bene un cazzo di niente! penso cavalcando un’improvvisa ondata di sconforto e odiando il fatto di quanto cazzo deve essere perfetto il suo mondo. Perché, se il suo ragazzo o marito o parente fosse scomparso, avrebbe le risorse, il denaro per ritrovarli. Perché se le sue proprietà fossero rubate, la polizia si impegnerebbe a farle riavere tutto. Perché se lei collassasse fuori sulla strada, la gente si fermerebbe a soccorrerla. Perché se lei volesse lasciare questo cazzo di ospedale proprio adesso, potrebbe semplicemente uscire da quella cazzo di porta camminando per poi prendere un taxi e andare a casa. Mi allontano dalla sua presa e noto che c’è un ragazzo alto, dai capelli castani un po’ più grande di me in piedi, dietro di lei, che mi guarda con ansia. Quando incrocio il suo sguardo, mi sorride timidamente. Ciao, fa segno con la fluidità di chi ha parlato con il linguaggio dei segni da molto tempo e chiude gli occhi per un secondo come sorpreso dalla propria temerarietà. Le sue ciglia che, scure sventolano sulle guance, sono così lunghe da sembrare false, ma so che non lo sono. Guardo da un’altra parte. Questo non fa parte del piano.

Devo aggrapparmi alla mia rabbia, smetterla di entrare nel panico e scovare un modo per uscire di qui, ora. Guardandoci, Estella dice: «Romeo, lui è Crash. Crash, questo è Romeo.» Sorride, e spero che non ci lasci soli. «Crash è sordo. Vive con la famiglia affidataria nella quale voglio sistemare anche te. È con loro da due anni, ormai.» Oh. «Stavi andando da qualche parte per una ragione in particolare. Hai bisogno di qualcosa? Posso aiutarti?» Scuoto la testa e poi cambio idea e sillabo Il mio sacchetto è sparito. Tutta la mia roba. Tutto! Con molta calma mi appoggia una mano sulla spalla e improvvisamente mi rendo conto che ho sottovalutato Estella e la sua ilarità. Potrà pure possedere una qualche verosimile forza elementale in lei, ma mi ha tenuto al guinzaglio ben saldamente fin dall’inizio. «Va bene. Vado a parlare con le infermiere. Probabilmente è stata spostata da qualche parte per tenerla al sicuro.» MerdaMerdaMerda. Sapeva che avrei tentato di scappare e ha fatto sì che le infermiere spostassero le mie cose. Sa che non può fisicamente impedirmi di andarmene ma anche quanto quei disegni significhino per me, dopo la nostra stupida conversazione dell’altro giorno. Furioso la guardo scomparire di nuovo tra le porte e poi mi fiondo a letto, disperatamente conscio del fatto che Crash è in piedi, a morsicarsi un labbro e guardando da una parte all’altra, probabilmente desiderando di non aver mai accettato di venire. Solo perché non posso parlare non significa che non posso vivere con le persone normali, penso, sapendo che mi sto comportando come un odioso cazzone. Percepisco lo sguardo di Crash, ma non mi importa. Non voglio conoscere la sua

storia o essere suo amico. Io voglio solo uscire da qui e andare... dove? Il mio piano non va oltre il fatto di fuggire e trovare Julian in qualche modo, per lo più facendo affidamento sulla fortuna e l’intuizione. Le mani di Crash tremano un po’ sui suoi fianchi mentre si solleva alla fine del letto. Non mi importa se è nervoso. Io non lo sono, ma comunque alzo gli occhi. Romeo? fa segno con cautela. È timido e posso dire che parlare con me deve essere dura per lui. Ma io non voglio sapere perché vorrebbe provarci. Estella mi ha parlato molto di te. Dice che vivevi sulla strada. Annuisco distrattamente. Posso andarmene senza i miei disegni? I vestiti, quelli li posso rubare ma posso lasciare i miei disegni? E se non lo dovessi mai più ritrovare? E se fossero l’unica cosa che mi resta di lui? Ho vissuto sulla strada anche io per un periodo. Sillaba le parole mentre usa i segni. Non so se sia un’abitudine o un impulso per essere più chiaro. Sembra quasi che stia per dire qualcos’altro ma in quel momento Estella entra di nuovo, sorridendo. Basta a rendermi ancor più arrabbiato. È così dannatamente ingiusto! «Romeo, le infermiere hanno la tua borsa. Si accerteranno che sia al sicuro.» La voglio indietro. «È chiusa a chiave adesso, ma sono sicura che la potremo riavere domattina.» Non mi puoi forzare a venire con te. «È il mio lavoro quello di proteggerti, Romeo. Se non mi assicurassi che si stiano prendendo debita cura di te e che vivi in un ambiente sano, non lo starei facendo bene.» Rotolo su un fianco, dall’altra parte. «Ti ho portato Crash per parlare. Ha ato parecchie esperienze simili alle tue.

Voglio mostrarti persone che capiscono cosa stai vivendo.» Già ma scommetto che lui non ha perduto una cazzo di persona che ama più di ogni altra cosa al mondo. Scommetto che lui è qui solo perché è stato manipolato da qualcuno. «Romeo, puoi solo ascoltarci per un momento? Per favore? Non sto cercando di toglierti la tua libertà, questa è l’ultima cosa che voglio fare. Sto cercando di mostrarti aspetti che possono essere il meglio per te. Ti sto dando una possibilità di scelta. Se torni là fuori, puoi finire per vivere la tua vita in quel modo, ma ci sono modi migliori di vivere. Hai così tanto potenziale. Anche Crash è un artista, in un certo senso...» Questo è il punto in cui chiudo tutte le trasmissioni perché lei non capisce la scelta che mi sta offrendo. Non capisce le conseguenze. Se vado con lei, perdo Julian. Più semplice di così! Ci sarebbe troppo a separarci. Sarei dall’altra parte di una barriera invalicabile. Ho già fatto la mia scelta. Più tardi nella notte me ne vado. Rubo i vestiti di qualcun altro dalla lavanderia nel sotterraneo e poi scivolo a ritroso nei corridoi e dalle scale antincendio proprio come il ladro che sono. Non sento più il bisbiglio. Non mi sento più oppresso. Mi avvolge invece un’incredibile solitudine quasi una nebbia soffocante. La notte è di un nero intenso, senza stelle. L’area ospedaliera è squallida e piena di ombre. Scricchiolo attraverso la ghiaia che delimita le stradine strette dell’ospedale e i sentieri fino al punto in cui per ultimo ho visto Julian quando è saltato dal tetto. Vorrei allungare le braccia e sentire una sorta di legame tangibile verso di lui, seguire il segreto collegamento tra noi come un ragazzo dietro una scia di briciole di pane. Avvolgo con più forza la coperta che ho rubato, sentendomi solo freddo e in qualche modo sperduto. Per prima cosa mi dirigo verso il bar di Cassey. So che ho bisogno di aiuto e so che lei mi aiuterà, sono arrivato a fidarmi ciecamente di Cassey, ma cambio idea. Se Julian si è dato alla macchia, se sta scappando da qualcosa, c’è una sola persona che può avere un indizio su dove potrebbe fuggire: Gem. Sebbene non sia qualcosa a cui entrambi accenneremmo, Gem me lo deve. Vado piano, cerco di camminare sebbene abbia tutto il tempo del mondo. Devo restare sano. Soro Victoria Station, la stazione dove Pasha ha detto che di

aver visto tutti i manifesti con la scritta “scomparso» su di me attaccati lungo la piattaforma. Mi fermo fuori per un attimo. È troppo presto perché i treni inizino ad andare e pesanti cancellate dalle intelaiature spesse sbarrano l’entrata all’atrio. Senza pensare troppo a quello che sto per fare, scivolo già per una stradina sul retro, sopra un muretto basso e verso i binari vuoti. La bocca della stazione divora le nere rotaie e nella sua ombra e io mi sento terribilmente piccolo. Non so realmente perché mi sto mettendo in questa situazione. Voglio semplicemente vedere. Ma come mi avvicino alle piattaforme, inciampando rumorosamente sopra un’aletta irregolare tra le rotaie, realizzo di non essere il solo a vagare nella stazione deserta. Una figura incappucciata si muove silenziosamente tra i pilastri, fermandosi di tanto in tanto per attaccare qualcosa sul muro. Improvvisamente si gira e sono sicuro di essere intercettato. Il terrore mi assale e respirare è difficile. Mi piego sulle ginocchia sotto il bordo della piattaforma, il cuore mi batte troppo forte, chiedendomi disperatamente se non sia troppo tardi per correre.

Mancato per poco

La sporgenza sulla piattaforma è poco profonda, sono sicuro che chiunque sia lì mi vedrà. Cerco di calmare il panico sordo che mi scorre nelle vene in modo da poter ascoltare i i che echeggiano vicino. Ma non riesco a sentire nulla se non l’intenso rantolare dell’aria che si fa strada a forza dentro e fuori dai miei polmoni, il tonfo pesante del mio cuore. Lo so, sono veloce, ma in questo momento non sono sicuro di poter correre. Posso a malapena respirare. Così aspetto, facendomi piccolo piccolo tra le rotaie, imponendomi di non tossire e di non fare il minimo dannatissimo rumore. Per quanto, cosa sto aspettando, davvero non lo so. Cerco di rivivere l’immagine della figura che ho visto, ma posso solo ricordare qualcosa di indistinto, una maglia scura con un cappuccio, pantaloni scuri. Alta abbastanza per presumere che fosse un uomo piuttosto che una donna. Mi convinco di non avere idea di cosa stesse facendo sul serio e che qualunque cosa stesse facendo non aveva niente a che fare con me. Che sembrava semplicemente non voler essere disturbato. Quando sei stato sulla strada così a lungo, sai quando la gente non vuole essere disturbata in quello che sta facendo. Sviluppi un sesto senso. Tremo e mi stringo di più la coperta addosso, mentre il vento gelido soffia per i binari erosi e nella stazione come un treno fantasma. Sono così riconoscibile. Chiunque cammini su queste rotaie mi individuerebbe a un miglio di distanza. Mi sento intrappolato in campo aperto, uccelli da preda che volteggiano in cielo sopra di me. Vulnerabile. E non è esattamente così che avevo immaginato la mia prima notte fuori dall’ospedale. Mi sono detto che avrei potuto farcela. Ma questa è la prima volta in cui sono qui fuori completamente solo ed è terrificante. A un certo punto, prima dell’alba, trovo il coraggio per dare una rapida occhiata lungo la piattaforma. Gli uccelli stanno gracchiando sulle travi scheletriche. Non ho avvertito altri rumori da quando mi sono rannicchiato qui giù e mi sembra di essere piegato nella stessa posizione da ore; le gambe sono rigide, le dita congelate. Mi guardo attorno con circospezione. Tutto è sgranato come le immagini di una televisione in bianco e nero nella grigia luce del mattino ed è

difficile mettere a fuoco le cose, luce della stazione sebbene sia accesa non è sufficiente.. Sotto i miei piedi il terreno inizia a vibrare e so che i primi treni arriveranno presto. Dovrò scendere dai binari anche se c’è ancora qualcuno qui intorno. Il suono di una sirena. La sirena di un treno. Mi giro di scatto e vedo l’improvvisa luce di fari che avanzano rapidamente lungo le rotaie verso di me. Merda. Mi spingo in avanti e scivolo malamente di lato, sulla piattaforma. Il treno mi evita per una manciata di secondi. Il sangue mi ribolle. Non me lo aspettavo. Non è la prima volta che ho avuto un incontro ravvicinato con un treno. Lascio riposare la testa contro il cemento sudicio per un attimo. Ma questo è totalmente differente. Beh, forse non completamente, anche allora mi mancava Julian. Ma allora ero un po’ sperduto e ora ho uno scopo. E anche se la mia situazione non è meno disperata, ho speranza. Nella zona principale della stazione, oltre la piattaforma, posso sentire persone arrivare per il lavoro, porte che vengono sbloccate, persiane aperte. Il flebile aggio tra la notte e il giorno, i frammenti di salvezza che porta con sé. Mi guardo attorno. Chiunque fosse stato qui, con ogni probabilità è andato via da tempo. Ma... per un momento i manifesti, incollati su ogni pilastro e muro, mi rubano il respiro. Devono essere centinaia. È come ha detto Pasha, mi trovo ovunque. La piattaforma è una patetica sala di specchi che riflettono il mio volto. Ecco cosa stava facendo. Posso vedere i manifesti che sono stati strappati via e gli altri, incollati sopra come se fossero stati rimpiazzati ogni volta che i precedenti vengono tolti. In fondo a ciascuno, un numero di telefono. Distolgo lo sguardo e tremo, spaventato. Scandaglio l’atrio con angoscia. Devo andare via di qui. Non mi importa chi sia o perché stia facendo questo, davvero non m’importa. È troppo inquietante. Un raccapriccio che potrebbe farmi finire in piccoli pezzi dentro un sacco della spazzatura e gettato nel fiume. Non posso tornare sui binari ora, con i treni i movimento, così mi fiondo verso le barriere che separano le piattaforme dalla parte principale della stazione. Qualcuno dietro di me grida. Un conducente con uno sguardo perplesso mi indica, ma io mi giro e inizio a camminare velocemente. Se posso riuscire a

superare le barriere e scivolare fuori, andrà tutto bene. Posso disperdermi nelle strade e nessuno sarà in grado di trovarmi. Ma quello urla a una guardia dell’atrio che inizia a correre verso di me e io non riesco a fare due i prima di venire placcato alle spalle e gettato sul terreno. Colpisco il cemento con un tonfo doloroso, cerco di divincolarmi e liberarmi del peso che mi sta ancorando a terra, ma non ci riesco. Non ho la forza necessaria e mentre resto disteso sul cemento freddo e sudicio, inizio a desiderare di non essermi mai allontanato dall’ospedale. Se mi fossi concesso del tempo e avessi escogitato un piano migliore, non sarei stato così distratto e non avrei pensato che venire qui sarebbe stata una buona idea. Non mi sarei congelato il culo nascondendomi per poi essere catturato perché stavo oltreando o per qualsiasi cazzo di cosa il conducente ha gridato che stessi facendo. Forse era solo scioccato perché per poco non mi ha ucciso. Non lo so. Non mi importa. Vorrei solo non essere qui. Mi trascinano in un cubicolo sopra la piattaforma. Sono in tre. Il conducente e due guardie. La stanza è piccola, con una sedia. Vengo sbattuto a sedere. «Così tu saresti il piccolo segaiolo che attacca i poster di se stesso eh? Troppo presuntuoso per nasconderti la faccia adesso, vero?» sbotta uno di quelli. Oh, grandioso. Così è questo quello che pensano io stessi facendo. Che cazzo di ironia. Non gli do la soddisfazione di guardarlo negli occhi. Spostandosi in avanti, mi piazza una mano fredda e pesante sulla spalla, strizzandola forte, ma qualcun altro lo tira indietro. Il conducente che mi ha gridato dietro. «È solo un ragazzino.» «Già, non è per lui se quel cazzo di lavoro sulla linea non è ancora finito?» La porta sbatte mentre quello se ne va. Il conducente si accuccia di fronte a me.

«Dobbiamo chiamare la polizia e tu dovrai aspettare un po’ mentre lo facciamo.» Ha una faccia gentile e mi rendo conto che sta facendo solo il suo lavoro, ma avverto anche in lui una certa rabbia. Che senso avrebbe proclamare che non ero io quando è praticamente evidente che ci fossi io là fuori? Sono convinti della mia colpevolezza e non ho l’energia necessaria per discutere. Cosa potrei dire che possa dissuaderli? Mi abbandono sulla sedia esausto. Sta diventando un incubo e ho ne ho avuti un po’ troppi, recentemente. E sempre quando non sono con Julian. Non vuole dire niente questo? Chiudo gli occhi e sento un pizzicore traditore di lacrime. Mi manca così tanto. Tutto sembra così sbagliato e vuoto senza di lui. Non ho idea di come potrò uscirne stavolta. Ma non devo sentire pena di me stesso troppo a lungo. La guardia incazzata torna dentro marciando, mi afferra ignorando le proteste degli altri due e mi trascina fori, sulla piattaforma. Mi consegna quello che sembra un raschietto per carta da parati e un secchio d’acqua, mi spinge verso un pilastro. «Sembra che tu abbia del lavoro da fare» sbotta. «John, è inutile. Cosa pensi di ottenere?" gli dice la guardia giurata. Guardo la mia immagine riflessa nel secchio. Non si accorgono dello stato delle mie mani? «Avanti, datti una mossa.» Non mi muovo. Cerco di calcolare su quanti poster ci possano essere. La piattaforma si allunga e poi si allunga ancora, e come ha detto Pasha, è ricoperta in ogni centimetro quadrato. Alcuni dei poster sono stati scarabocchiati con dei graffiti. La mia faccia presa in giro oppure completamente accecata, ricoperta di tag. Guardo più da vicino. Parecchi di quei hanno una tag di colore blu che sembra quasi comporre la parola “Pasha». Sento la guardia respirare pesantemente dietro di me. Così vicino che avverto il calore del suo corpo. Deve avere una una taglia doppia rispetto alla mia. Dove cazzo è il conducente ora? Non vede cosa sta per succedere? Non riesce a capire

che questo tizio sta per picchiarmi a sangue e che io sono così dannatamente esausto da non potermi ribellare? Non posso neppure scappare. Lascio cadere il secchio e il raschietto. Con un movimento sciolto, la sua mano mi afferra la nuca e striscia la mia faccia contro un manifesto affisso a un pilastro. Se apro gli occhi posso vedere tutto a puntini. Cerco di non reagire, perché se reagisco vedrà che mi sta facendo paura. Ma io ho paura. Il panico sta fluttuando impazzito dentro il mio petto e quando lui stringe ancora di più la presa sul mio cranio, panico mescolato a sfinimento mi rende debole e tutto inizia a sfuocare ai lati, come dopo aver raggiunto il limite. «Sai quanto cazzo di lavoro vuol dire ogni cazzo di giorno?» sibila il tipo. Io non riesco a comprendere le sue parole prima che l’oscurità mi inghiottisca e io svenga. Quando riprendo conoscenza, sono disteso in una fila di sedie in un angolo di una stanza differente, più grande. Sembra la sala dello staff. Ci sono un gran numero di persone, dentro. Alcune di esse sono poliziotti. Una donna in uniforme blu di poliestere con il logo di una delle compagnie dei treni, si sporge e controlla il mio polso. «Il mio nome è Annie. Sono un soccorritore» spiega. Le guardo le dita mentre premono contro il polso. Sento il cuore che martella nelle orecchie. «Così tu saresti il ragazzo misterioso che attacca tutti quei poster, eh?» Non sembra incazzata. Sembra incuriosita. Credo che non faccia parte del suo lavoro rimuoverli. «Romeo, non è così?» Alzo lo sguardo e la fisso con severità. «Come va la testa?» Lascia andare il polso e mi posa gentilmente una mano sulla fronte. La mia testa è troppo pesante per poterla allontanare.

«Ci sono alcuni poliziotti che vogliono vederti. Ti senti in grado di parlare con loro?» Quando non rispondo, sorride con fare cospiratorio e sussurra: «Non permetterò loro di fare i bulli con te.» Faccio segno che voglio scrivere. Perplessa cerca nella tasca, mi porge una penna e strappa un pezzo di carta da un giornale che è appoggiato sul pavimento. Come conosci il mio nome? scrivo con lettere tremolanti. Mi guarda più da vicino. «Quando ti hanno controllato per cercare la tua carta d’identità, l’unica cosa che ti hanno trovato in tasca era il biglietto da visita di un’assistente sociale di nome Estella King. L’ho chiamata. Sarà qui presto. Ha detto che sei scappato dall’ospedale.» Come ho fatto a essere così stupido da tenere quel biglietto in tasca? Sembra quasi che le forze dell’universo stiano congiurando contro di me. Non ho l’energia di rispondere ad Annie e distrattamente lascio che la carta e la penna mi cadano dalle dita, che i miei occhi si chiudano. Non penso di essere stato così dannatamente stanco in tutta la mia vita. «Può parlare?» domanda qualcuno, ma il suono è offuscato e lontano. Troppo lontano perché stiano effettivamente alludendo a me. «No, dovete aspettare che arrivi l’assistente sociale.» Il tono di Annie è gelido. Se avessi abbastanza forze, sorriderei alla sua apparente disapprovazione nei confronti dei poliziotti. Mi fa sentire al sicuro e vorrei poterle dire quanto. Non che lo ammetterei mai. Non sono propenso ad aggrapparmi a una mano. È solo che... ho bisogno di qualcuno che stia dalla mia parte. Anche se cerco di combatterne i sintomi, dicendomi che devo restare in allerta e pronto alla fuga, sento il sonno avvolgermi e trascinarmi verso il basso. In sogno vedo Julian e non riesco a resistere.

Estella arriva quando mi sveglio. Fingo di essere ancora addormentato. Davvero, non ho voglia di affrontarla. Lei intrattiene una breve conversazione su di me con Annie. Concordano che non sono nello stato adatto per parlare con la polizia ed è un cazzo di sollievo. Quando apro gli occhi, appena una fessura, vedo che Crash è di nuovo con lei. Davvero non deve avere niente di meglio da fare e nessuno migliore di lei con cui stare. Si accorge che sono sveglio e mi rivolge un sorrisetto lieve. Io guardo altrove. La stanza è più vuota di prima e la guardia incazzata che mi ha sbattuto la faccia contro il muro non è, grazie al cielo, lontanamente presente. Il conducente è qui, però, e parla con Estella, probabilmente per spiegarle dei manifesti. Mi chiedo come potrà dare un senso a tutta questa faccenda. Crash si avvicina e si siede di fronte a me, guardandomi le mani e lanciandomi occhiate di tanto in tanto, emettendo sospiri profondi sospiri. Per favore non esser carino con me, penso. Voglio essere in grado di metterlo nel gruppo di tutti coloro che non capiscono, ma a ogni occhiatina, cerca di avvicinarsi a me. Devo andare in bagno, faccio segno all’improvviso, alzandomi. Non è vero, ma devo davvero capire se c’è un modo per fuggire. Le gambe sono un po’ traballanti e sono ancora stanco ma mi sento abbastanza a posto. «Ehi» dice Estella e si avvicina. «Non mi scappi una seconda volta, capito?» Sta sorridendo, come se non stesse davvero pensando a quello che ha appena detto, ma so che invece lo sta facendo. Bagno? faccio segno, guardandomi attorno. «Aspetta un attimo.» Alza una mano e scivola vicino a Crash. Mi sento un cazzo di bambino. Gli fa segno per qualcosa ed entrambi si avvicinano. «Lui viene con te» asserisce, un sopracciglio sollevato come se mi stesse sfidando a contraddirla.

Grandioso. Il bagno è piccolo ma abbastanza largo perché Crash possa restare sulla porta e invadere il mio spazio personale, guardandomi mentre mi lavo la faccia nel lavandino. C’è solo una piccola finestra che non penso mi possa lasciar are. Qual è il tuo problema? Perché fai questo? fa segno improvvisamente mentre lo guardo dallo specchio. Non mi aspettavo realmente che mi affrontasse su qualcosa. Voglio solo esser lasciato in pace, gli rispondo con i segni, sperando che recepisca il messaggio. Mi chiedo quanto sia lungo il corridoio da cui siamo appena venuti. Vorrei non essere stato privo di conoscenza quando mi hanno trasportato fin qui. Lui sembra frustrato. Tornare sulla strada? Perché? Come puoi non volere di meglio? È un cazzo di inferno vivere in quel modo! Mi sorprende e in un certo modo sono scioccato dal suo sfogo. Non ho mai visto nessuno mostrare le proprie emozioni così chiaramente in viso. È quasi affascinante. Sulla strada impari a essere guardingo. Ci fissiamo attraverso lo specchio. In qualche modo è più facile guardarlo in questo modo, fingere che siamo a un o da fare o dal non fare qualcosa, e non mi incanta il modo in cui i suoi occhi stanno brillando adesso che gli ho permesso di vedermi veramente. Semplicemente non capisco, digita, mantenendo negli occhi un’angoscia tale da confondermi a morte. I miei genitori affidatari sono le persone più gentili che abbia mai incontrato. A loro importa di me. E gli importerebbe anche di te. Lo so che sarebbe così. Non capisco perché non vuoi dare loro un’opportunità. − Non è così semplice. − Sì che lo è. Resti in strada e dopo che hai diciotto anni sei fottuto. Mentre ora hai una vara possibilità. Pensa davvero che non lo sappia? È l’unica ragione per cui Julian non ha un cazzo di possibilità.

− Non ho mai scelto di essere un senzatetto. Non farei tutto questo se non fosse l’unica via possibile. Non mi importa se tu corri a dirlo a Estella, perché ovunque lei mi porterà, io da lì scapperò. − Non è stupida. Sa che non può fermarti. Sta facendo questo solo per proteggerti. Cosa c’è là fuori per te? Non posso dirglielo. Se glielo dico significa che ho rinunciato, che gli ho creduto ed è quello che Estella vuole. Non posso permettere che succeda. Ma voglio dirlo a qualcuno. Voglio parlargli di Julian e portarlo di nuovo alla vita con le mie parole, renderlo reale e non solo un ricordo. Qualcuno a cui voglio bene, digito con gli occhi chiusi. Devo trovarlo. È in pericolo. Esalo un sospiro tremante e profondo e quando lo fisso mi rivolge una sorta di sguardo felice pieno di gratitudine come se fosse compiaciuto che gli ho aperto il mio cuore e, contro la mia volontà, sono contento di averglielo rivelato. So anche che sto evitando di ammettere che mi piace guardarlo, perché, mi dico, il fatto non sussiste. Come si chiama lui? Arrossisco e mi muovo in fretta verso la finestra. Non voglio che veda quando sono imbarazzato, ma dando per scontato che io sia gay, ha confermato i miei sospetti lo sia anche lui. Generalmente sono una frana nel comprendere certe cose; anche con Julian lo sono stato. Ma il vetro è opaco e tutto quello che riesco a vedere è bianco, perciò posso fingere di guardare il panorama di fuori. Julian, faccio segno, voltandomi e provando improvvisamente freddo. In che genere di guai si è messo? Sospiro. Racconterai tutto questo ad Estella? Crash sbircia l’orologio come se stesse considerando qualcosa. − Penserà che stiamo tramando qualcosa se restiamo qui dentro ancora a lungo.

− Crash, devo uscire di qui. − Cosa farai dopo che lo avrai trovato? − Non lo so, digito, non voglio rivelare il mio piano a nessuno. − Dovremmo tornare. − Per favore, faccio segno disperatamente. Se mi aiuti a uscire di qui, ti prometto che quando che l’avrò trovato io... permetterò che mi mettano in una casa famiglia. Qualsiasi cosa. Odio mentire. Altrimenti non farò altro che cercare delle opportunità di fuga. Crash punta al pavimento. I suoi capelli brillanti svolazzano sul viso. Cerco di lavorarmelo. Si veste come uno skater o qualcosa del genere... o quei tipi di ragazzini che saltano le staccionate e scivolano lungo i gradini in giro per la città di notte. Sembrando così sciolti e forti. Se ti aiutassi, dove andresti ora? Tower Hamlets. Un amico che vive lì potrebbe sapere dove è andato. Non vedo che male ci sia rivelare un po’ di verità. Anche se lo raccontasse ad Estella, Tower Hamlets è parecchio grande. Non avrebbero modo di trovarmi. Crash mi guarda diritto negli occhi. Non ho idea di cosa stia pensando e mi sento a disagio per tutte le ragioni più sbagliate. Okay, ti aiuto a uscire di qui, ma vengo con te. Anche se non vorrei esserlo, mi sento sollevato di non essere da solo. Con un tipo strano che va mettendo dei manifesti con la mia faccia, stare da solo sarebbe la cosa peggiore possibile.

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Piscine

Per quanto possa aver immaginato di fuggire in silenzio e con cautela, non ho dubbi che senza Crash non sarebbe mai stato così semplice aprire la porta del bagno e arrivare fino in fondo al corridoio, nella direzione opposta. Per una frazione di secondo mi volto e vedo i capelli rossi fiammanti di Estella attraverso i vetri zigrinati della porta dell’ufficio dello staff. Mi aspetto che qualcuno ci fermi, ma Crash si muove con calma e disinvoltura e ha persino l’audacia di sorridere timidamente ai due poliziotti che stazionano sulla porta d’entrata che porta fuori sull’atrio. Tuttavia, per quanto sicuro di sé lui sia o faccia finta di essere, non ci fermiamo. Aumentiamo l’andatura mano a mano che ci inoltriamo tra la folla e attraverso la stazione gremita. Il rumore e l’aria gelida mi riportano al mondo come acqua fredda sul viso. Non appena siamo in strada, colgo il bip di un cellulare e Crash si mette una mano in tasca, per cui presumo sia il suo a vibrare o ad avvisarlo in qualche modo che ha ricevuto un messaggio. Un tizio una volta aveva pagato Julian con un telefono. Ci abbiamo giocato per un po’ ma poi, quando la batteria si è scaricata, lo abbiamo venduto. Quella è l’unica volta che ne ho tenuto in mano uno. Estella? gli domando quando Crash solleva lo sguardo dallo schermo. Scuote la testa e arrossisce prima di riaffondare il telefono in tasca e guardare per terra. Un amico, fa segno, avrei dovuto incontrarlo. Starò bene, lo rassicuro. Dovresti andare. Sorridendo beffardo, scuote la testa e qualcosa in quello sguardo determinato mi dice che sarebbe inutile discuterne.

Victoria Street è affollata anche vicino alla stazione; i palazzi ospitano paninoteche e fast-food. L’odore è travolgente. Provo a non pensarci. Hai fame? mi chiede Crash improvvisamente come se mi leggesse nel pensiero. Non vorrei ma annuisco; non ho dormito tutta la notte e poi lo stress di questa mattina: tutto questo mi ha reso affamato. Dopo essere stato così ben nutrito in ospedale, non sono più abituato al tormento costante dello stomaco. Non è qualcosa a cui qualcuno dovrebbe abituarsi anche se Julian mi ha insegnato i modi per gestirlo. Il solo fatto di stare con lui mi ha aiutato, alle volte, a dimenticare. Aiutava Il semplice rimanere disteso insieme a lui in un posto tranquillo, cercando di lasciar fuori le tenebre o, se quel posto tranquillo non riuscivamo a trovarlo, tirarci l’incerata sulla testa per chiudere il mondo fuori. So perché sto pensando a questo e fa male il fatto che stia cercando di ignorarlo come fanno tutti gli altri. Non voglio doverlo guardare ma, al di là della strada, c’è un senzatetto avvolto in un sudicio sacco a pelo blu e la gente lo sta scavalcandolo come se non esistesse. Non si muove. Potrebbe essere morto a nessuno importerebbe. Senza preavviso, il terreno sembra muoversi sotto i miei piedi. Mi giro di scatto, il mio petto stretto, la folla che sbiadisce. Come cavolo abbiamo fatto a sopravvivere qui fuori? Come cavolo sta riuscendo Julian a sopravvivere? Se... Crash mi afferra il braccio un attimo prima che l’angoscia minacci di travolgermi e mi spinge in un bar che odora di dolce e che vende baguette dall’aspetto invitante, ripiene di insalata e fagioli. Va bene? mi fa segno, le sopracciglia affiancate, l’espressione preoccupata. Mi concentro sul suo volto, prendendo fiato un po’ alla volta, e avvertendo tutto come al rallentatore. I suoi occhi sono un incanto. Mi domando, un po’ da incoerente, se qualcuno gli abbia mai detto quanto sia bello. Devono averlo fatto. Distolgo lo sguardo. Annuisco. Lui, consapevole e impacciato, mi indica l’insegna sopra l’ingresso.

Vegetariano, va bene? Non mi importa, onestamente, quale tipo di cibo sia, al momento. Non riesco a capire perché certa gente non voglia mangiare questo o quest’altro tipo di cibo, sul serio. Mi sembra solo un grande spreco. Kay e Peter sono vegetariani, fa segno per spiegare, come se comprendesse di nuovo i miei pensieri . I miei genitori affidatari. Lancio un altro sguardo fuori dalla finestra, all’uomo che dorme nel sacco a pelo, e quando torno a guardarlo, Crash sta osservando nella stessa direzione. Al bancone indica un sandwich enorme dietro la vetrinetta e ne ordina tre. Nonostante sia timido e sordo, non sembra per niente imbarazzato da questo tipo di situazione. Osserva con cautela la gente per comprendere cosa stia dicendo e si limita ad annuire, a scuotere la testa o a sollevare una mano e buffo, tutti sembrano comprendere che desidera. Non potrei comportarmi allo stesso modo. Non vado da nessuna parte di solito senza un po’ di carta e una penna. Io scrivo tutto, ma guardando Crash intraprendere sicuro dialoghi con le persone, comprendo quanto io mi trattenga, e quanto abbia sempre fatto affidamento su Julian per fare conversazione. Ho contato su Julian troppo a lungo, l’ho lasciato gestire troppe cose. So che probabilmente a lui non importava. Mi ha detto molte volte che lui voleva prendersi cura di me, ma mi chiedo se, forse, tutte quelle piccole incombenze di cui si sentiva responsabile, non abbiano costruito un peso tanto enorme da sopraffarlo. Magari questa è stata la ragione per cui ha scelto la droga per sfuggirvi come pure potrebbe essere questo il motivo per cui mi ha lasciato. La mano di Crash sventola davanti ai miei occhi lentamente e mi rendo conto di essermi allontanato con il pensiero e che sto tra i piedi della gente che cerca di pagare gli acquisti. Cash mi tira delicatamente per la felpa e mi sposta verso l’unico tavolino libero del locale. Dovresti sederti, mi fa segno. Non mi sembri a posto. Che cosa c’è? Guardo il terzo panino. La schiena dà sulla vetrina ma so che il tizio è ancora là fuori al freddo. Vorrei poter fare di più, mi fa segno Crash, sembrando rendersene conto.

È più di quello che vedo fare agli altri. Gli restituisco un lieve sorriso. Sto pensando troppo. Lui è una brava persona, preoccupata e attenta. Aggrotta le sopracciglia. Non è solo per questo, però, vero? Voglio fidarmi di lui. Sul serio. Ma non posso. Ho paura a farlo. Tu ti fidi della gente e quella poi ti ferisce, in un modo o nell’altro. Julian è l’unica persona di cui io mi sia fidato completamente e so che lui sta male tanto quanto sto male io in questo momento. Deve essere così. Fuori dalla vetrina il sole si inclina lungo la strada. Linee definite tra luci e ombre. È solo che... mi manca, digito dopo un po’. Mi manca così tanto che fa male e non penso che smetterà mai di farlo. Crash guarda le sue mani prima di usarle per i segni. Due anni fa ho perso qualcuno a cui volevo molto bene. Mi manca ancora. Deve accorgersi del modo in cui reagisco perché appare subito inorridito. Non volevo dire... Va bene, digito ma non va bene affatto. Non è qualcosa a cui voglio pensare. Annuisce e il modo in cui osserva lo schermo vuoto del suo cellulare mi fa pensare che forse il tipo che aveva in programma di incontrare è soltanto un amico per lui. Dovremmo andare, faccio segno. Mi sento come se stessi perdendo tempo seduto qui. Crash raccoglie il terzo sandwich e appena siamo pronti per partire il suo telefono torna a emettere un ronzio. Non penso che lo senta vibrare questa volta, così gli tocco il braccio e indico la sua tasca. Mi mostra il messaggio. È di Estella. Mi fido di te, Crash, è tutto ciò che dice. Fuori nelle strade tutto scintilla nel sole. Dovrebbe essere bello. Attraversiamo la strada e Crash si piega sulle ginocchia e tocca il sacco a pelo vicino alla testa dell’uomo. Quando questi apre gli occhi, Crash gli dà il panino e

ce ne andiamo via senza che quello ci abbia detto nulla. Per tutto il cammino fino a Gem non comunichiamo. Sono un po’ deluso dal fatto che Crash non abbia insistito di più per soddisfare la sua curiosità. Appare assorto nei pensieri e non mi ha nemmeno domandato dettagli su dove stiamo andando. Non sono sicuro di volere essere lasciato in pace e ogni tanto lo guardo sperando si accorga che voglio comunicare. Voglio che mi faccia domande, altrimenti non saprei da dove iniziare. A seconda di come lo si guardi, il nostro tempismo può essere interpretato sia come scenograficamente positivo sia in modo altrettanto straordinario in negativo. Incontriamo Gem sulla scala del suo isolato mentre sta uscendo per andare a lavorare. Ha un nuovo lavoro: ballare in un club. Immagino debba fare le prove di mattina o qualcosa del genere. È bella da togliere il fiato. Crash arrossisce quando gliela presento. Speravo di vedere Joel, il bimbo di Gem, ma invece camminiamo con lei fino alla fermata dell’autobus perché sta per arrivare entro pochi minuti. Vorrei avere più tempo per spiegarle cosa è successo, ma posso solo supplicarla di dirmi se conosce un posto dove Julian potrebbe andare, dove potrebbe scappare quando è costretto a nascondersi, un luogo dove erano soliti andare quando erano bambini. Per favore, fa’ che sia da qualche parte, penso. Ho bisogno di qualcosa per andare avanti. Non penso che potrebbe aver lasciato Londra, ma il pensiero di camminare per questa città così vasta senza una direzione, mi sta travolgendo. Gem guarda al di là del campetto giochi di fronte a noi e alza le spalle. «Tutti i posti in cui eravamo soliti rifugiarci sono andati, ora. Demoliti, ricostruiti. Non lo so.» Lo so che ci tiene. So che questo atteggiamento figo è solo spirito di conservazione, ma sono disperato. Le afferro la mano. La sua pelle è così fresca. Per favore, digito. So che questo lo capisce. «Che cosa vuoi che ti dica, Romeo?» sbotta. «Cosa pensi che possa sapere io che non sai anche tu? Non sono io quella che ha una cazzo di storia con lui.»

Sento l’autobus arrivare e scarabocchio. Per favore, prova a pensarci. Non so dove altro andare. «Quando il padre di Julian lo picchiava a sangue, andavamo giù al centro ricreativo, ci sedevamo sulle altalene e fumavamo. È un cazzo di parcheggio per auto, adesso. La prima volta che ci siamo baciati è stato al lido abbandonato giù a Battersea, che però adesso non è più abbandonato! Non ci riesco, Romeo!» L’autobus si accosta. Le porte si aprono sibilando. È raro che Gem appaia sconvolta, ma per un fugace istante, prima che salga sull’autobus, la pena che vedo sul suo viso si specchia con la mia. E, stranamente, nonostante le sue parole siano disperate, la cosa mi conforta. Mentre guardo l’autobus che prende velocità e gira l’angolo, mi rendo conto che è molto più di questo. Qualcosa a proposito di ciò che ha detto risuona in me come una cieca verità: Julian aveva una ione per le vecchie piscine. Ne amava l’architettura, le forme strane art déco e le stravaganti decorazioni vittoriane. Non abbiamo fatto molte cose insieme ma qualche volta abbiamo sognato di essere ricchi e mi diceva come si sarebbe comprato una vecchia piscina e l’avrebbe restaurata e vi avrebbe vissuto dentro con me. Crash, faccio segno freneticamente mentre l’autobus scompare. Puoi andare su Internet con il tuo cellulare? Con un gesto abile, sblocca lo schermo e me lo porge, ma io glielo restituisco. Non ho idea di come usarlo. Puoi ottenere una lista di tutte le piscine abbandonate da queste parti? Qualche secondo più tardi mi mostra il risultato. Ci sono cinque vecchie piscine in disuso nel raggio di tre miglia qui intorno. Stabiliamo che la più vicina è a quindici minuti di cammino. Saremmo dovuti salire su quell’autobus. Non penso di ricordare quanto sia bello sorridere. Come ci si senta leggeri quando lo si fa. E non posso spiegare questa certezza che sento, ma mentre seguiamo le indicazioni sulla mappa, so che sto camminando verso Julian. Penso che potrei camminare in eterno.

Il sole sembra caldo sulla mia pelle. Il cielo è quasi meraviglioso.

Nell’oscurità

Sono le quattro del pomeriggio ed è già buio. Un altro giorno è scivolato via senza che me ne sia accorto. Lascio scorrere la mano contro i mattoni mentre cammino a lato di un palazzo. Il cemento addenta, quasi fosse carta vetrata, la mia carne in via di guarigione. I miei polpastrelli sembrano ruvidi e sanguinanti, ma stringo i denti mentre memorizzo i contorni di ciascun mattone. Voglio il dolore. Non c’è modo di entrare, digito con frustrazione quando raggiungo di nuovo l’entrata principale. Questa è la seconda volta che ho girato attorno all’edificio. Crash guarda le mie mani, poi torna a guardare la facciata sbarrata con delle assi quasi stesse meditando su una soluzione. Sopra le nostre teste, il cielo è di un nero fumoso e brullo. Tutto è buio e tenebroso, non c’è niente di bello. Questa è la terza piscina sulla lista. Le prime due erano protette da telecamere e c’erano dei cartelli attaccati sulle sbarre di metallo con l’avviso di un collegamento diretto con la polizia. Non credo che le forze pubbliche pensino valga la pena controllare due piscine abbandonate, ma so che Julian non avrebbe comunque rischiato, sarebbe stato come mettersi in vista e sfidare la buona sorte. In ogni caso non sarebbero comunque andate bene. Quando siamo arrivati qui, ho sentito una lieve scossa di speranza in petto. Questo è proprio quel tipo di vecchio palazzo fatiscente che Julian amava. Ed è anche in una strada dietro alla via principale che rimane così nascosta e silenziosa. Ma. Non. C’è. Nessun. Dannato. Modo. D’entrare. Andiamo, digito irritato. Non voglio più sprecare altro tempo. Voglio solo raggiungere la prossima piscina. Crash fa un o avanti e tira il tubo di scarico per la quindicesima volta. Tutto ciò che fa inizia a darmi sui nervi specialmente ora che sembra ignorarmi.

Calciando il terreno, mi giro sui tacchi e inizio a camminare a ritroso verso la strada. Non so neppure dove sia la prossima piscina ma se non continuo a muovermi verso qualcosa, crollerò a pezzi. Una mano calda mi circonda il braccio prima che abbia fatto dieci i. Dove stai andando? mi chiede Crash con le labbra. Mi guarda con più preoccupazione di quanta non ne meriti. Perché ti interessa saperlo? Alza gli occhi al cielo e mi riporta con grazia nell’ombra, avvolge le braccia attorno a me. Cazzo, penso subito prima di iniziare ad crollare. Non mi merito questo. Non mi merito la sua apprensione, i suoi riguardi. Mi ucciderà. Mi strofina la schiena e io, disperatamente, cerco di ricacciare i sentimenti dentro di me. Se la mia gola dovesse stringersi ancor di più, smetterei di respirare. Non avrei dovuto lasciarlo avvicinarsi così tanto, ma non ho la forza di spingerlo via perché, anche se lui non è Julian, è comunque qui, a carezzarmi i capelli, il suo respiro caldo sfiora la mia guancia e io non voglio essere solo. Non voglio sentirmi solo. Dio, odio fare similitudini. Detesto desiderare. Riluttante, lascio che le mie braccia facciano ciò che vogliono fare e lo abbraccio a mia volta, disperatamente. Cash è più alto di me, odora di caldo e d’insolito, il suo cuore batte più in fretta. Non ci sono poi tante somiglianze, in realtà, ma mi sembra di iniziare a dimenticare o, se non proprio dimenticare, è come se stessi sovrapponendo i miei ricordi. Piuttosto, preferisco non tenere mai più nessuno fra le braccia se ciò dovesse significare il dimenticarmi cosa si prova ad abbracciare Julian. Non è così? Dio, fa così male. Dopo un po’ inghiotto le lacrime e il bisogno di piangere svanisce. Mi sposto e ci separiamo in maniera goffa. Non so cosa sia davvero successo. Crash e io, in pratica, siamo entrati in collisione.

Credo di aver trovato un aggio, digita muovendosi un poco verso la luce. Deglutisco forte. Okay, faccio segno e lo seguo di nuovo verso la piscina. La strada non è affollata ma questa è Londra e il traffico non muore mai completamente. C’è una coppia di bambini che ci guardano con curiosità dalla parte opposta della strada. Lancio loro un’occhiata di diffidenza. Crash sorride. Sorride sempre troppo facilmente. Aspetta qui mi fa segno. Prima che mi renda conto di cosa stia facendo, corre verso il muro, afferra il tubo di scarico e si arrampica fino alla finestra non sprangata del secondo piano. Lo vedo a malapena colpire il vetro con il palmo della mano prima che la finestra si spalanchi e lui si raddrizzi saltando dentro in modo aggraziato. Io sono incollato sul posto, con occhi spalancati, lievemente ammirato. Non provo neppure a guardarmi attorno per controllare se qualcuno abbia visto. Faccio finta che quei bambini non esistano affatto. Non voglio sembrare sospetto e neppure ovvio, né desidero attirare l’attenzione in alcun modo. Irrompere ed entrare è pur sempre irrompere ed entrare, qualunque sia lo stile con cui si fa. Il rumore di legno spezzato proviene dal fondo del vicolo di fianco al palazzo. Posso solo cogliere l’ombra di Crash fuori dall’oscurità e correre verso di lui. Sta tenendo una porta per le cerniere e la sta appoggiando contro al muro. Vuoi dare un’occhiata in giro? mi fa segno. Dovremmo rimettere a posto la porta, indico di fuori, dove i bambini ci stavano guardando. All’interno c’è poca luce. Crash usa la torcia del telefono per illuminare il corridoio sommerso da detriti che conduce verso gli spogliatoi e la piscina, ma la batteria si scarica e il cellulare scivola in tasca mentre ci inoltriamo nel buio lentamente e con molta cautela. Gli metto una mano sul braccio e lo induco a fermarsi ogni tanto, in modo da poter ascoltare. Non mi aspettavo che il posto fosse così angosciante. Ci stringiamo l’uno all’altro per le maniche fino a che arriviamo allo spogliatoio. C’è troppo silenzio. Niente è così silenzioso a Londra. È come se fossimo sotto vuoto. Non appena entriamo nello spogliatoio melmoso che si affaccia sulla piscina, la

temperatura sembra precipitare e rabbrividisco. La piscina è enorme e vuota sebbene la camera odori ancora di umido e disinfettante. Nel fioco bagliore arancione dei lampioni che si stendono attraverso il soffitto di vetro, posso vedere il fondo dove è organizzato un mini appartamento con un vecchio divano rotto, un materasso, vari cuscini macchiati e coperte sparse tutto intorno. Crash salta sulla scaletta e scivola lungo i corrimani in metallo fino alla base della piscina. Le piastrelle allentate scricchiolano non appena lui ci cammina sopra. Pensi che sia roba loro? fa segno, prendendo in mano una coperta. Guardo verso quella sudicia, lacera cosa, mentre la disperazione mi attraversa. Non lo so. Come faccio a sapere se è una coperta che Julian o Pasha hanno raccolto? Voglio che lui sia qui, rannicchiato sotto quella coperta, salvo e al caldo. Ma lui non ha effetti personali, non lascia mai una traccia. Anche se fossero stati qui, non lo sono adesso e questo è ciò che conta. Crash emerge dalla piscina e appoggia una mano sul mio braccio in segno di solidarietà. Non riesco a guardarlo in viso. Sapeva che era impossibile fin dall’inizio e non ha detto nulla. Mi ha assecondato perché se non lo avesse fatto, sapeva che sarei scappato. Beh, voglio scappare proprio adesso. Ma non lo faccio. Il mio corpo traditore si appoggia al suo e lo lascio sobbarcare del mio peso e sorreggermi. Non protesto mentre mi conduce fuori dall’edificio, nel freddo che fa scuotere di brividi. So che mi sta portando a casa dei suoi genitori affidatari. So che glielo lascerò fare. Le finestre dell’autobus sono appannate ed è caldo. Non mi importa neppure che sia così pieno da dover stare in piedi nella stretta corsia e che ci cadiamo addosso ogni volta che si ferma. Voglio continuare a cercare, gli faccio segno. Ma il mio cuore non è con me. Posso sopportare solo una certa quantità di delusioni. Crash mi guarda con tenerezza. Domani ci porteremo dietro una torcia, digita e distrattamente si tocca la tasca, accigliato. Che cosa c’è? Domando con i segni.

Il mio telefono non c’è più. Controlla le tasche di nuovo e si porta la mano tra i capelli, angosciato. L’autobus si ferma e altra gente si impila all’interno, noi siamo ai margini della corsia. Probabilmente l’ora di punta si approssima. Quando è stata l’ultima volta che lo hai maneggiato? domando sebbene conosca la risposta. Lo abbiamo usato come una torcia nella piscina. Deve essergli caduto. Stranamente il mio cuore fa le capriole al pensiero di tornare indietro. Possiamo cercarlo lì domani. Riesco a immaginarmi lo sforzo che sta facendo per calmarsi. Posso quasi vedere le parole che gli vorticano in testa. L’autobus rallenta e io lo afferro per una manica. Andiamo, gli dico con le sole labbra. Saltiamo giù in una strada fredda e sconosciuta, aspettiamo un altro autobus sulla parte opposta della via. Sembra che siano ate delle ore, ma siamo di nuovo fuori dalla piscina. Abbiamo sigillato l’entrata molto bene e non sembra che ci sia stato nessun altro. Crash strappa la porta dai cardini e mi guarda come per chiedermi scusa. Tornerai comunque insieme a me, dopo questo, vero? Annuisco. Non sono sicuro perché cercare il suo telefono perduto possa cambiare qualcosa. I miei genitori affidatari ti adoreranno. Ti piaceranno... Fermo la mano di Crash. C’è un rumore che proviene da dentro l’edificio. Sembrano piastrelle che scricchiolano sul fondo della piscina, come se qualcuno l’attraversasse. Mi blocco, non sono più sicuro di voler scoprire chi è che sta camminando qui dentro, ma potrebbe essere Julian.

Cosa c’è che non va? Crash mi raggiunge. C’è qualcuno, faccio segno. Nella piscina. Okay. Fa spallucce, come se non fosse gran cosa, come se chiunque qui dentro non rappresenti una potenziale minaccia e potesse non importargli che noi ci siamo introdotti nel piccolo nascondiglio che si è ritagliato. Andiamo a scoprire chi è, allora. Non è così semplice, gli faccio segno. Sì che lo è, mi digita in risposta e inizia a inoltrarsi con grandi falcate verso il corridoio. Guardo oltre la sua figura. Come può farlo? È sordo, per l’amor del cielo. Non dovrebbe essere almeno un po’ più prudente? Come cazzo ha fatto a sopravvivere in strada? Seguo la sua figura evanescente giù per il corridoio, perplesso per come reagisce alle situazioni, di fronte a una scelta. Accetterebbe di battersi piuttosto che scappare. E di nuovo penso che Julian, probabilmente, farebbe altrettanto. Affronterebbe la situazione di petto piuttosto che evitarla fuggendo. Al contrario di me che attraverserei a gambe levate l’intera Londra. Sento la sua voce prima di raggiungerlo. Sembra profonda, proprio come ho immaginato che fosse, solo che parla senza inflessioni e le sue parole sembrano smozzicate e un poco smorzate. Sta dicendo a qualcuno che va bene, che è sordo, e che stiamo semplicemente cercando qualcuno. Ma chiunque sia non gli sta rispondendo. Esco dallo spogliatoio giusto in tempo per vedere una figura inerpicarsi su per la scaletta rotta nella parte più lontana della piscina. Crash è in piedi e a disagio sul bordo di fronte a me, le mani affondate nelle tasche. La luce è fioca, siamo solo immagini sgranate che si dissolvono nell’oscurità. La figura in lontananza raggiunge la sommità della scaletta e svanisce velocemente nel buio. Penso che sia qualcuno più spaventato di me all’idea di un confronto. Ho sempre immaginato che in situazioni come queste sarei stato sfidato oppure ferito, ma forse la maggior parte della gente vuole solo essere lasciata in pace e Crash ha ragione, mi sto preoccupando per nulla. Le coperte che prima erano sparse sul fondo della piscina ora sono sparite. Un

piccolo oggetto rettangolare, nero, appoggiato sulle piastrelle, cattura la mia vista e mi calo senza grazia lungo la scaletta per guardarlo meglio. È il telefono di Crash. Sono felice di averlo trovato e che chiunque fosse qui non lo abbia preso. Sto per porgerglielo ma qualcosa distoglie la mia attenzione, qualcosa che sono sicuro non stava sul fondo della piscina prima. Il mio sguardo saetta verso la fine della vasca e poi di nuovo alla scritta, qualcosa che ho assolutamente visto scarabocchiato su uno dei poster con la mia faccia questa mattina. Sarebbe stato possibile? Crash salta giù vicino a me. Che cos’è? mi fa segno, sebbene adesso sia così buio che posso appena indovinare i suoi gesti. Ho visto questo, prima, alla stazione dei treni, gli indico la tag. Penso che voglia dire Pasha. Stava insieme a Julian. Sei sicuro? Sì. Crash fa una foto della tag con il suo cellulare. Pensi che sia stato Pasha? Guardiamo entrambi nella silenziosa oscurità. Faccio spallucce. Non lo so. Credo che si sarebbe fermato se mi avesse riconosciuto. Forse non ti ha visto. So che non c’è ragione per affrettarsi nel buio e rincorrerlo. Adesso è un fantasma, sicuramente se n’è andato da molto tempo. eppure credo che la mancanza di cautela da parte di Crash mi stia influenzando perché afferro la sua mano, lo trascino verso l’altro bordo della piscina, su per la scaletta e fin dentro le tenebre.

Occasione n. 2

Tutto è immerso in un silenzio così schiacciante che è quasi come se questo buio abbia un peso specifico, soffochi ogni suono, affondi le luci. Anche se la piscina è appena dietro di noi, mi sento come se questo sia tutto. Tenendo saldamente la mia mano, Crash solleva il telefonino e seguendo il debole chiarore che emette, ci inoltriamo verso la fuligginosa oscurità. Ogni o diventa sempre più esitante e insicuro, le nostre ombre incombono come spettri. È come se qualcuno ci osservasse. I peli della nuca mi si rizzano e i pensieri terrificanti che ho sempre tessuto sul buio o a proposito di quello psicopatico che ha tappezzato con la mia faccia tutta la stazione dei treni oppure... ognuna di queste cose mi inonda la mente. Vedo ombre che so non essere reali. Percepisco lo sconforto solidificarsi e toccarmi la pelle. Tutte le speranze che Julian e Pasha siano tornati qui sembrano improvvisamente ridicole come infantile è persino la mia mancanza di prudenza. Con brevi sospiri ravvicinati, cerco di non produrre alcun rumore, ma il pavimento è sconnesso e inciampo per poi raddrizzarmi in fretta, come se la mia vita dipendesse da questo. Non voglio andare più lontano di così. L’oscurità è troppo densa, le maioliche a terra sono scivolose e instabili. Non posso vedere un mimo e sento il panico montare. Crash si scontra con la mia schiena quando mi blocco, il suo calore mi spinge in avanti fino a quando le sue braccia non si stringono attorno alla mia vita come briglie di sicurezza e poi mi tira indietro contro il suo petto. Il cuore batte forte e regolare mentre il mio martella selvaggiamente, quasi un uccellino in gabbia. Mi giro, come ignorando il fatto che il braccio di Crash è ancora attorno a me e cerco i lampioni esterni, un bagliore di Londra visibile attraverso le vetrate alte della piscina dietro i noi, la vita. Solo quando le metto a fuoco, il mio petto pare in grado di espandersi con un po’ più con libertà.

Chiunque ci abbia seguito se n’è andato, ne sono sicuro. La sensazione di essere seguiti è il risultato della mia paranoia. Così, quando una larga scia di luce sfreccia lungo la stanza incombendo su di noi come un riflettore, affondo le dita nel braccio di Crash mentre lui mi stringe di più a sé e si blocca. «Salve?» grida Crash. Noto come il suo corpo sia teso, so che mi sente tremare. Non risponde nessuno. Grazie alla luce che splende su di noi, mi accorgo che siamo sotto una volta sgretolata che conduce verso quelle che sembrano altre piscine per i tuffi. Il pavimento è ricoperto da mattoni rotti e di piastrelle. Coprendo un poco gli occhi, guardo verso l’alto dove la torcia elettrica sta irradiando. Sembra provenire da un basso balcone di pietra proprio sopra di noi, ma abbaglia troppo per riuscire a distinguere qualsiasi cosa. «Chi siete?» urla una voce traballante. L’evidente stanchezza nel tono di chi ha parlato allenta un poco il mio terrore. Vuole sapere chi siamo, digito verso Crash. «Stiamo cercando dei nostri amici, due ragazzi, uno ha un accento russo, li avete visti?» risponde Crash ad alta voce. Se sei sordo, come fai a sentirli? digito. «Non posso» dice Crash accigliandosi. La scia di luce della torcia dondola via, accentuando la curva profonda di tegole attorno al tetto a cupola e poi di nuovo va verso il terreno. Chi ha parlato scende lentamente giù per le scale, muovendosi con difficoltà, come se fosse in pena. È solo un vecchio signore, snello, con occhiali spessi e rotti, un cappotto di tweed lacero, tenuto così aderente che posso intravedere le ossa dello scheletro. «Tu non parli, suppongo» punta il dito verso di me e mormora qualcosa mentre sospira come se stese rivolgendosi a qualcun altro che non possiamo vedere. Scuoto la testa.

«Voi ragazzi avete bisogno di un posto per dormire? Non dovreste stare fuori al freddo in notti come queste.» Di nuovo scuoto la testa. Per quanto possa essere disperato, offerte di posti per dormire da parte di estranei mi fanno suonare camli d’allarme nella testa. «Due ragazzi...» mormora lui. «Credevo che l’unica cosa di cui avessero bisogno fosse lo stare insieme.» Chiedigli dei due ragazzi, digito velocemente a Crash mentre l’uomo torna a camminare verso la piscina e scende dalla scaletta. «C’erano due ragazzi qui?» L’uomo si ferma, lo sguardo mezzo vitreo. «Sono sempre in due» dice dolcemente. E io nel profondo del mio cuore so che non ci sta né vedendo né sentendo. Vive sia in un mondo di ricordi tutto suo. L’osserviamo mentre raccoglie un fagotto gettato in un angolo buio della piscina. Crash mi sostiene con uno strano sguardo apprensivo. Mi rendo conto di quanto stretto mi stesse tenendo solo dopo che allenta il braccio. Stai bene? mi fa segno. Annuisco. Vuoi andare via? La delusione mi serpeggia dentro, ma annuisco di nuovo. Gli avevo detto che sarei andato a casa con lui. L’ho promesso. E lo farò. L’uomo si arrampica nuovamente su per la scaletta. Ha una bottiglia nascosta in un sacchetto di plastica lacero. L’odore di alcool riempie l’aria non appena svita il tappo e ce la offre. Quando nessuno dei due si muove per prenderla, lui alza le spalle ossute e dà un sorso. «Dovreste prendervi cura del vostro cuore» dice con ardore a Crash. «Prenditi

cura di lui.» Guarda con insistenza verso di me e mi sento male pensando a quanto vorrei che fosse Julian a stare al mio fianco in questo momento. Che cosa sta dicendo? fa segno Crash. Soltanto che è solo, rispondo, prendendogli la mano e trascinandolo via, girando attorno al bordo della piscina. «Perché non resti qui, Louis, mio Louis, così sperduto e solitario» canta l’uomo dolcemente, mentre ce ne andiamo. Louis? Non può essere sul serio lo stesso Louis del rifugio, ma il mio petto si stringe comunque, dolorosamente mentre me lo domando. Quella che pensavo fosse la tag di Pasha sul fondo della piscina attira la mia attenzione e immediatamente mi rendo conto di quanto folle debba essere credere di poter trovare dei segnali ovunque io vada. Quanto impossibile e futile tutto questo sia davvero. Ci sono dieci milioni di persone a Londra e io ne voglio trovare semplicemente una. L’autobus è quasi vuoto. Ci sediamo in fondo e io guardo fuori dal finestrino, verso l’oscurità di aggio, e mi sento schiacciato e sconfitto. Quell’uomo doveva avere circa sessant’anni. Mi fa paura pensare che può aver vissuto tanti quegli anni senza possedere nulla. Un tempo era come me? I suoi giorni sono rotolati dentro altri giorni e lo hanno tenuto schiacciato in un luogo troppo profondo da cui non è mai potuto emergere? Quella solitudine... come ha fatto a sopravvivere? Le dita calde di Crash accarezzano la mia mano. Siamo arrivati, fa segno mentre l’autobus accosta. Saltiamo giù in una strada tranquilla, il vento che soffia raffiche leggere attorno a noi. Una via di alberi alti e dritti che allineano il selciato, antiche sentinelle che sorvegliano tutto ciò che riescono a guardare. Involontariamente rabbrividisco. Questo è il tipo di strada che io e Julian avremmo evitato. Ogni casa è discosta dalla strada, auto nuove parcheggiate sui vialetti, tendine tirate contro la notte o qualunque cosa possa cercare di spiare da

fuori. Il tipo di strada dove la gente non esita a chiamare la polizia per segnalare ragazzi dal comportamento sospetto con le loro coperte sporche e i piedi stanchi che incespicano. Non riesco a reprimere il risentimento che sento aggirarsi furtivamente nello stomaco. Crash si morde il labbro mentre mi rivolge un’occhiata. Deve aver provato la stessa cosa anche lui, un tempo. Sono brave persone, mi fa segno con le dita. Non mi importa. Non posso farlo. Non voglio farlo. Guardo lontano, desiderando con tutto ciò che dispongo, con tutto ciò che sono, di poter cancellare queste ultime settimane, strofinarle via dalla mia esistenza ma lui, silenziosamente, aspetta che la mia ansia i. Camminiamo nella stessa direzione che ha preso l’autobus per un pezzo. Cerco di non guardare troppo da vicino le grandi case, una più stravagante dell’altra. Quello che provo è inutile e sfibrante. Ci fermiamo all’angolo. Una siepe spessa e quadrata torreggia sopra di noi, nascondendo quasi completamente l’abitazione dietro di essa. Siamo arrivati. Crash inclina la testa verso il piccolo giardino tra la vegetazione. Dovrei mandare un messaggio a Estella, aggiunge, guardandomi con aspettativa, quasi cercando il mio permesso. Strappo una piccola foglia scivolosa e la strofino con le dita fino a renderla poltiglia, nervoso da morire. Cerco di evitare che le mie mani tremino mentre faccio spallucce. Magari gli darà una pacca sulla testa per esser stato così bravo a portarmi qui, penso tristemente mentre lui invia via quel messaggio. Sono solo una pedina manovrata sul posto e ora pensano di avermi conquistato. Pensano che ogni mia prossima mossa sarà monitorata, che mi piaceranno e che Julian diventerà soltanto un ragazzo che ho conosciuto un tempo e che ho poi perduto. Eppure sono qui, benché mi senta completamente fuori posto. Sebbene io mi trovi all’estremità opposta rispetto ai luoghi dove ho sempre vissuto, per quanto

desideri odiare me stesso al punto da convincermi che la causa di tutti i nostri mali è la gente come questa, malgrado Julian non sia con me adesso. Insomma, nonostante tutto, avverto una stanchezza che trasforma le mia ginocchia in burro mentre camminiamo verso la porta principale illuminata di una luce calda e osservo i piccoli vasetti con piantine ben curate che allineano il nostro cammino. Quando una donna di mezza età, con capelli corti e biondi e strati di vestiti spaiati alla rinfusa apre quella porta, così lontano da come avevo immaginato che fosse, fa scivolare il suo sguardo dall’uno all’altro per poi lanciare le braccia al collo di entrambi senza dire una parola, mi sento totalmente e inspiegabilmente sollevato. Lottando con il groppo che mi si sta formando in gola e il pizzicore che preme negli occhi, mi lascio guidare all’interno, fuori dal freddo.

Tutto fa troppo male

«Tu devi essere Romeo» dice la donna dall’aspetto bohemienne una volta che siamo dentro, sorridendo con calore e usando il linguaggio dei segni in modo talmente naturale che sembra non stia neppure pensando mentre parla. «Io sono Kay. Crash mi ha raccontato molto di te e sono così felice di conoscerti, finalmente. Per favore, vieni in cucina così puoi incontrare anche mio marito.» La casa è tristemente colorata ed eclettica, decorata da chi prova un amore incondizionato per ciò che lo circonda. Fotografie di foreste e fiumi si contendono lo spazio con dipinti dello stesso tema, un enorme arazzo è appeso su per la scala e i pavimenti in legno scuro sono ricoperti di tappeti persiani largamente ornati di rosso e marrone. Piena di vita. E di opportunità. Di un genere di libertà a me sconosciuta al punto da non riuscire neppure immaginare che sapore potrebbe avere. È troppo. Così, io guardo invece le mie scarpe da ginnastica rotte che si schiudono ai lati a ogni o, la gomma che si separa dalla tomaia in un sorriso a labbra strette. Penso a quanto lontano io abbia camminato con queste, per quante miglia inutili le ho indossate. E, anche se non voglio, anche se sono soltanto stupide scarpe da ginnastica e il resto di me non è messo meglio, mi vergogno per quanto sporche esse appaiano rispetto a tutto ciò che c’è qui dentro. Crash afferra le mie dita mentre ci muoviamo lungo il corridoio, le stringe leggermente. Se incontro i suoi occhi non sarò capace di trattenermi. Sono un relitto, emotivo e tremante dietro questa mia indifferente ma disperata espressione sul viso e lui lo sa. Pensa che sia come debba essere. Pensa di dovermi salvare. Non appena entriamo in cucina, l’uomo seduto alla tavola si alza in piedi, uno sguardo sorpreso sul viso. «Romeo, lui è Peter, mio marito.» I modi di Kay sono così genuini che vorrei soltanto lasciarmi andare e accettare tutto per ciò che è realmente, un’offerta di aiuto, di speranza. Ma una parte di me si trattiene. Una parte di me sta sempre

aspettando là fuori. Per un momento penso che Peter venga da me e mi abbracci così mi irrigidisco, ma lui mi chiede se voglio bere o mangiare qualcosa, mi dice che sono vegetariani. Mi parla con un flusso costante, come se le parole fossero davvero così semplici, facendo sembrare normale anche il fatto che io non risponda, che sieda e guardi il tavolo come se fosse l’unica cosa che riesco a vedere. Mangio quel che mi danno senza davvero importarmi di cosa sia. Mi chiedono quale cibo mi piaccia e io non so cosa rispondere. Non so se stanno solo cercando di farmi parlare o se davvero vogliano saperlo perché pensano che io rimanga. Li sorprendo guardarsi l’un l’altro, una sorta di segreto codice di comunicazione che sta ando tra loro. Crash siede vicino a me, non dice molto, per la maggior parte osserva ma ormai sono abituato anche a questo. Dopo che abbiamo mangiato, con tatto mi fa segno che mi farà fare il giro della casa. Credo abbia capito che il mio breve senso di sollievo se n’è già andato. «Va bene» dice Kay sorridendo gentilmente. «Romeo, non hai che da dire a Crash se sei stanco e lui ti condurrà in una delle camere libere e parleremo ancora un po’ domani mattina, va bene?» Mi dà un colpetto rassicurante sul braccio e io devo deglutire e distogliere lo sguardo, non sicuro del perché quel gesto mi faccia venire voglia di piangere. Seguo Crash fuori dalla cucina. Voglio solo andare a letto, gli faccio segno quando siamo nel corridoio. Sono esausto e mi fanno male le mani. Solleva e unisce le sopracciglia in un’espressione preoccupata così dolce per essere rivolta a me e mi domanda: Vuoi che ti procuri un antidolorifico? L’ironia fa così male che vorrei ridere perché non provo solo sfinimento o dolore fisico; è il fatto che mi sento come se mi stessi spezzando in due e non penso di avere la capacità di tenermi insieme ancora per molto, né credo che abbiano delle pillole per questo malessere.

No. Scuoto la testa. Ancora accigliato, mi conduce su per l’ampia vecchia scala fino a una camera che, dice, chiamano la stanza giardino per via della vista che offre. È accogliente e calda, nonostante la sua grandezza sembra piena di mobili dall’aspetto solido e con due finestre rese nere dalla notte. Una stanza così tanto più grande rispetto a qualunque fredda ala di edificio nella quale io e mia madre abbiamo vissuto tanto tempo fa. La mia camera è di fronte, fa segno prendendosi il suo tempo e tirando le tende per me. Il bagno è alla fine dell’atrio. Esita un po’, e io vorrei spingerlo fuori dalla porta, ho una voglia disperata che se ne vada. Se hai bisogno di qualunque cosa, vieni a cercarmi okay? Finalmente esce. Non appena la porta si chiude mi abbandono sul pavimento vicino al letto e coprendo la faccia con le braccia lascio scorrere singhiozzi che mi sconquassano il corpo. Il mio cuore è un caos di pezzi sbriciolati. Non posso farcela. Semplicemente... non posso. Julian, questa solitudine mi sta uccidendo. Ho così tanto bisogno di lui. Non importa dove o come, ma ho bisogno di lui nella mia vita, con me. Ho bisogno di sapere che a lui importo ancora, che mi ama, che non mi ha mandato a farmi fottere e che non mi ha lasciato perché i suoi sentimenti sono cambiati. Come possono essere cambiati? Non capisco. Non capisco più niente. Tutto quello che so è che non voglio mai più sentirmi così. Qualcuno bussa alla porta. Rapidamente mi alzo in piedi, asciugo gli occhi in fretta e prendo un respiro profondo per calmarmi. Quando nessuno entra nella stanza, faccio un o verso la porta e la apro. Sul pavimento proprio fuori, c’è un piccolo vassoio con una tazza di cioccolata calda e un mucchietto di biscotti. Questa delicatezza mi distrugge totalmente. Tremando orribilmente, raccolgo il vassoietto e lo porto nella stanza, appoggiandolo con cautela sulla cassettiera prima di collassare sulle ginocchia e sgretolarmi completamente, con le lacrime che inondano il pavimento. Sembra quasi sia la fine. Poi mi immobilizzo. Sgusciato, vuoto, incapace persino di prendere un respiro profondo senza che il petto non soffra nell’espellerlo. Con braccia tremanti mi rimetto in piedi e intontito bevo la cioccolata adesso fredda, lentamente mi

dedico ai biscotti. Non ho fame ma non sarò mai capace di sprecare il cibo che mi trovo di fronte. Anche se vivessi il resto della mia vita nel lusso, so che ci sarebbe comunque una parte di me che avrebbe difficoltà a credere che ogni pasto non sia l’ultimo. È tardi ma non più voglio stare in questa stanza da solo. Ascolto all’esterno e sentendomi un intruso che ruba in una casa di famiglia, apro la porta e scivolo lungo l’atrio coperto dal tappeto spesso fino alla stanza che Crash ha indicato come sua. Prego di non scontrarmi con Kate o con Peter. Riesco sentire il chiacchiericcio provenire da un televisore da qualche parte, il suo basso brontolare è stranamente più confortevole del silenzio, ma forse è perché sono così abituato al costante rumore di sottofondo che so di averne bisogno. La camera di Crash è al buio. Penso sulle prime che stia dormendo, ma appena i miei occhi si abituano all’oscurità, lo vedo disteso nel letto, il telefonino in mano. Devo avere un aspetto terribile perché non appena mi vede accende la lampada dalla sua parte e si alza, digitando con preoccupazione. Cosa c’è che non va? La sua camera è immersa nel caos, vestiti sparsi ovunque, libri, un portatile, uno skateboard senza nessuna rotella, quelli che sembrano testi di scuola e parecchi manifesti, che sono stati staccati dai muri. Mi piace di più proprio per questo. Mi piace che a lui non sembri importare della roba. Non voglio stare da solo, rispondo, avanzando lentamente sul pavimento per poi sedere pesantemente alla fine del suo letto. Vuoi parlarne? Scuoto la testa. Posso dormire qui? i miei occhi lo supplicano. Uno sguardo rapido di apprensione gli attraversa il viso ma se ne va in un battito di ciglia. Annuisce e inizia a fare spazio sul pavimento, vicino al letto ma io gli metto la mano sul braccio e lo fermo.

Voglio dire con te. Indico lo spazio astratto attraverso il piumone. Solo dormire. Mordendosi il labbro, si siede anche lui sul letto. Le sue gambe sfiorano le mie. Non mi guarda. Strappa un pezzo di carta e una penna che perde inchiostro dal comodino, scrive qualcosa che poi mi porge. Tu mi piaci, dice. Un calore lontano mi strizza le viscere. Fa male ma è un dolore che posso gestire meglio dello stare da solo. Lo so, scrivo, lasciando cadere la mia testa sulla sua spalla. Puoi abbracciarmi? Per favore? Immediatamente il suo braccio mi circonda, attirandomi più vicino e io mi appoggio a lui, chiudendo gli occhi e lasciando che il suo odore caldo mi conforti. I tuoi genitori affidatari sanno che sei gay? scrivo non volendo che lui si metta nei guai per avermi accolto in questo modo nella sua camera. Le sue dita si chiudono brevemente sulle mie mentre prende la penna e penso di sentire le sue labbra sfiorare i miei capelli ma potrei anche solo averlo immaginato. Non lo sono, scrive, sebbene probabilmente mi piacciano i ragazzi magrolini e dai capelli scuri molto più delle ragazze. Il suo braccio è ancora attorno a me, ci spostiamo verso il letto così da appoggiarci alla testata e Crash tira il piumone sopra le nostre gambe. Allora, chi era la persona che dovevi incontrare oggi? Guardandomi mi sorride timidamente e scrive: Qualcuno che non proverà per me mai nulla di simile a quello che io provo per lui. Perché?

Sospira profondamente e io chiudo gli occhi solo per sentire il modo in cui il suo petto si muove contro il mio. Non è come con Julian, ma mi consola ugualmente. Questa vicinanza e sapere che qualcuno si preoccupa per me dà sollievo al dolore che sento dentro, almeno fino a una quantità di sofferenza sopportabile. Ci siamo avvicinati davvero tanto, ma lui è etero. Qualche volta giochiamo alla lotta ma lui si tira indietro se ci spingiamo troppo oltre. Mi chiedo quanto quel troppo oltre possa essere e scrivo. Pensi che lui sappia cosa provi? Crash fa spallucce. A volte corriamo insieme. C’è un parco dove la maggior parte della gente si incontra prima di andare in città per i salti più alti e cose del genere... Oh, scalare i palazzi digito, ricordandomi di come si sia arrampicato sull’edificio poco fa, di quanto bello e forte fosse da guardare. Crash solleva gli occhi al cielo. Già, lo chiamiamo parkour per abbreviare. Scarabocchia una torre sul margine prima di scrivere Qualche volta siamo solo lui e io, abbiamo questo percorso che facciamo vicino al parco, e che è solo nostro. Abbiamo corso insieme la settimana scorsa e ho cercato di dirgli che non sono etero, ma non sempre capisce il linguaggio dei segni e non so... non ha detto nulla. Gli piace una ragazza, comunque. Probabilmente dovrei lasciarlo perdere. Non è sempre così semplice, digito, improvvisamente freddo e desideroso di dormire e che sia già domani così da poter andar via e riprendere a cercare di nuovo. Guardo mentre disegna un’intera costellazione di stelle sopra la torre e so che mi vuole chiedere di Julian o che sta aspettando che gliene parli, ma non posso. Fa ancora tutto troppo male. Così mi distendo contro di lui, lasciando che mi abbracci, sentendomi egoista e bugiardo, ma è comunque molto meglio di quello che ho fatto prima.

Bugie

Devo dormire, per qualche tempo almeno, ma non è neppure mezzanotte quando mi sveglio di nuovo. Il braccio di Crash mi tiene ancora stretto contro di sé, il suo respiro quieto e caldo contro il mio collo. Entro un poco nel panico, ho bisogno di uscire da questo letto, via dal calore claustrofobico che i nostri corpi hanno creato. Sono fin troppo consapevole di come stiamo bene insieme, di come il mio corpo risponda al suo anche se non voglio che sia così. È come se mille schegge di vetro mi vengano premute fin dentro il cuore. Per non disturbarlo, allontano delicatamente il suo braccio da me e scivolo fuori dal letto. Il bagno è alla fine del corridoio, ma supero così tante altre porte che mi sembra di essere in un albergo deserto. Non sento più il chiacchiericcio della TV in lontananza. Tutto è calmo in maniera disturbante, niente traffico, niente liti nella strada di fuori. È come il silenzio dopo un’esplosione. Mi fa venire voglia di trattenere il respiro. Bevo dal rubinetto e uso la tazza del water senza nemmeno accendere la luce. Non voglio vedere quanto bella sia questa stanza. Tutto deve rimanermi a distanza. Distaccato. Perché così è come deve essere. Il mio mondo è quello che tutti fingono non esista. E sebbene io sia qui, non voglio fermarmi a pensare a cosa significhi, anche se so di non poter restare a cavalcioni sulla barriera per sempre. Con le mani a coppa prendo dell’acqua calda, mi lavo la faccia e cerco di non guardare il ragazzo nello specchio sopra il lavandino. Faccio fatica a riconoscerlo, sta cambiando troppo in fretta e in maniera sleale per poterne afferrare la presa. Il vetro è freddo contro il palmo della mia mano, quando ne copro la faccia. Di nuovo, nella camera di Crash, non so cosa fare di me stesso. Sono troppo irrequieto per poter dormire. Guardo ai fogli e ai libri sotto i miei piedi. Testi di scuola, compiti a casa. Cose dell’altro mondo. Mi siedo alla sua scrivania e ne sfoglio un paio, sapendo di essere un bel cazzo

di ficcanaso, ma incapace di fermarmi dal cercare ancora di quelle sue piccole illustrazioni scarabocchiate; i paesaggi urbani sembrano essere i suoi favoriti con ragazzi senza volto sugli skateboard che rotolano sulle scale e su altre barriere. Estella mi ha detto che era una sorta di artista e sebbene sia bravo e io sia incantato dai dettagli più bizzarri quali i graffiti sullo sfondo, non penso che fosse questo a cui lei si riferiva. La magia di Crash è nel modo in cui si muove. Il modo in cui il suo corpo descrive lo spazio che lo circonda, la maniera in cui lui mette alla prova i limiti e i confini nei suoi movimenti. Chiudendo i libri noto per la prima volta il nome che appare sulla loro copertina e non è Crash ma... Christopher. Me lo ripeto più volte nella mente. È come se avessi scoperto un segreto. Continuo a osservare il blocco vuoto in un angolo della scrivania, fingendo di non avvertire alcun impulso mentre allungo le dita, poi le ritraggo a pugno, sentendo come la pelle si stringe attorno alle ossa. Ho paura di non esser più capace di farlo, di aver in qualche modo spezzato quella connessione quasi mistica tra il mio cervello e la mia mano. Ma so che è proprio il pensare a cose come queste che interromperà la connessione. Con prudenza raccolgo il blocco e in silenzio ne strappo un foglio. Lo piego e guardo il pavimento tutt’intorno fino a quando finalmente non scorgo una matita e qualcosa su cui appoggiarmi. So cosa voglio disegnare ma non sono sicuro di quale sarà la sua reazione sapendo che l’ho ritratto mentre dormiva. Forse non glielo mostrerò. Forse lo terrò come quel disegno dei ragazzi che si baciavano sull’autobus. Un attimo, un’istantanea, catturata, rubata al tempo. La grigia luce del mattino filtra attraverso i rami nudi della quercia fuori dalla finestra. Il terreno di fuori è ricoperto di nebbiolina. Avvolto in un giubbotto di Crash, mi siedo sul davanzale aspettando che la notte svanisca completamente. Sono appoggiato qui da ore a pensare, cercando di dare un senso alle cose. Cercando di decidere il da farsi. Non riesco a ricordare di aver mai sentito cantare gli uccelli in modo così nitido. La città affoga tutto, tranne la propria personale canzone. Non è mai così calmo, come ora. Alle sette la mia pazienza è evaporata; ne ho avuto abbastanza. La mancanza di sonno mi rende irrequieto nel volermene andare e decido che non è troppo presto

per svegliare Crash. Mi chino sulle ginocchia di fronte a lui e carezzo i suoi capelli setosi via dagli occhi, guardandolo sbattere le palpebre assonnate e stiracchiarsi languidamente, le braccia sopra la testa. Voglio andare a trovare un’amica prima di cercare nelle altre piscine e riprendermi i disegni all’ospedale, faccio segno in fretta. Lei lavora in un bar. Arriva al lavoro di mattina presto. Cassey ha visto Julian molto di più di quanto non abbia fatto io, in questi ultimi giorni. Forse può aiutarmi a dare un senso alle cose. Non hai dormito molto, vero? digita, intuendolo e restituendomi un’occhiata di sbieco. Perché non ne parli con Kay e Peter? Lo farò. Solo... più tardi. So che si è appena svegliato ma io sono pronto ad andarmene ora. Non posso negare di iniziare a sentirmi ingabbiato. Se parlo con loro potrebbero provare di fermarmi, tentare di convincermi che il mio continuo cercare non è il modo in cui si fanno le cose, dirmi che devo smetterla e andare avanti con il resto, con la mia vita. Il mio petto si stringe al solo pensiero. Potrebbero aiutare. Scuoto la testa. Non capirebbero. Come potrebbero? Sospira. Devo comunque parlare con loro prima di andare da qualsiasi parte. Fuori, nel corridoio, c’è del movimento; un’asse del pavimento scricchiola oltre la porta di Crash. Inizio a sentirmi leggermente scoraggiato. Non sei tenuto a venire. Sarebbe meglio se non lo fe. Ma allo stesso tempo la sua presenza mi conforta. Mi risponde con un sorriso obliquo.

Voglio venire. Ma non posso farlo senza prima dirlo a loro. Hai bisogno del loro permesso ogni volta che esci fuori? Mi fa incazzare il fatto che sembra di non poter fare niente senza una qualche ingerenza da parte degli adulti. No, ma lo voglio io. Mi guarda fisso. Per cui devo andare a parlare. Non voglio aspettare, digito irritato. Voglio andarmene ma non so dove sono e non ho soldi per l’autobus. Attraverso la stanza e resto in piedi davanti alla porta, frustrato. Con grazia e immensa disinvoltura, Crash si alza, raccoglie i suoi vestiti dal pavimento e li infila. Quindi fa un o verso di me e prima che mi renda conto di ciò che sta accadendo, mi attira in un abbraccio. Mi abbandono a esso per un secondo, poi lo spingo via. Mi sento una merda, non essere carino con me. Lo sgrido. Cerca i miei occhi per un istante e poi mi fa segno: Aspetta qui. Quando ritorna, Kay è con lui. Ha un panino per me. Lo regge come un’offerta di pace, tranne il fatto che sono io quello che dovrebbe offrire qualcosa. Metto il piatto accanto a me sul letto, dirigo i miei occhi verso il basso e guardo torvo il tappeto. «Romeo, so che non ne vuoi parlare al momento» dice con dolcezza. «Crash mi ha detto che questa mattina vuoi andare a cercare un amico.» Mi rifiuto di sollevare lo sguardo ma annuisco. «Okay» fa una pausa e presumo stia dicendo qualcosa con il linguaggio dei segni a Crash. «Voglio solo che tu sappia che siamo qui se hai bisogno di noi e che vorremmo davvero tanto tu tornassi, più tardi.» Se significhi che farmi sentire benvoluto, in qualche modo, sia più di quanto le competa, posso comprenderne il perché: non sono stato altro che una presenza

silenziosa che ha mangiato il loro cibo e si è nascosto nella loro casa. Mi chiedo se Crash fosse così o se fosse semplicemente grato di aver finalmente trovato un posto a cui appartenere, se tutto si è aggiustato facilmente. Ma, di nuovo, annuisco. I suoi piedi percorrono lievemente la stanza, escono dalla mia vista. Sento la porta chiudersi. Crash abbassa la testa e mi guarda di sottecchi fino a quando non lo guardo a mia volta. Mi spiace, non ho potuto fermarla. Non sembra sia dispiaciuto. Nessuno ti forzerà a restare. Ma potendo scegliere tra questo – e indica fuori dalla finestra – e quello là fuori, io non mi sono mai guardato indietro. Fa freddo, digita mentre mi porge il suo giubbotto con cappuccio profilato in pelliccia, lo stesso nel quale mi sono avvolto la scorsa notte. Odora di lui e io mi rilasso in maniera incredibile quando lascio scivolare le mie braccia lungo le sue maniche. Lo aspetto vicino alla porta mentre cerca qualcosa nei cassetti. Ecco. Mi porge un telefono cellulare. Ci metterò un po’ di credito non appena saremo fuori. Glielo restituisco. Non posso. È per gli sms, mi spiega con le mani, come se non sapessi cosa sono. Ma non è che non so usarlo; è che non posso prendere da lui un telefonino. Non potrei ripagarglielo. Per favore. Me lo rimette sul palmo richiudendo la mano sopra la mia e sopra il telefono. La mia resistenza viene spazzata via, come una città che lentamente si sgretola in

polvere. Lo infilo in tasca. Aspettiamo alla fermata dell’autobus giù in strada, congelando. Stringo il collo del giubbotto per coprirmi la bocca e mi guardo attorno. È così verde qui fuori, ovunque andiamo, in qualunque quartiere di media borghesia ci troviamo. Anche se è inverno e il ghiaccio fiorisce tra la melma e in mezzo alle crepe dell’asfalto, in ciascun giardino ci sono siepi spinose, erba congelata e conifere dalle forme bizzarre. È tutto più verde e non grigio; mi fa sentire come quando prendi un profondo sospiro, un respiro di cui hai bisogno. Non avverto alcun flusso di panico per ciò che potrebbe accadere, niente che si muova attraverso l’immobilità. Tutto qui è glaciale e lento, eppure il momento è intero, pacifico. Un altro mondo. Il nodo oscuro nel mio petto si fa pesante mentre l’autobus si ferma sulla banchina e noi scendiamo. Mi spinge in basso come una croce che sono obbligato a portare. Il mio cuore devastato, la mia perdita. Si sentiva così anche lei. Mia madre. Non so come lo sappia ma lo so. Aveva perduto il suo amore, la sua famiglia, tutto quello che le era rimasto ero io. E tutto le si è rivoltato contro in modo amaro e duro, fino a che tutto ciò che di buono c’era se n’è andato. Non voglio essere così. Come il lento spandersi di una malattia, sto iniziando a odiare questa città e quello che ci ha fatto. A tutti noi, a tutti quelli che conosco. Guardo verso Crash. Forse sto iniziando a comprendere perché lui vuole che io prenda ciò che mi viene offerto. Non so dove sia il bar della sorella di Cassey, ma non voglio ammetterlo con Cash dopo che lui si è spinto così oltre con me. Così, per un certo periodo, mi limito a vagare su e giù per le stradine ricolme di spazzatura vicino all’Argine, cercando di fingere di sapere dove andare. Troviamo un’edicola ed entriamo, Crash può caricare il telefono che mi ha dato con un po’ di credito e, ingoiando il timore che in genere mi blocca, scrivo un messaggio e lo o alla donna dietro al bancone, chiedendole dove sia il bar di Jackie.

«Prossima a sinistra, Old Paradise Street» risponde. Non è lontano. È solo un piccolo locale, più piccolo di quello che era il bar di Joe Brown, con illuminazione gialla e vetrine appannate che irradiano calore. Mi fermo fuori, temendo quello che sto per fare. Alla fine della strada, il fiocco grigio e senza sosta del fiume, il cielo come foschia sopra di esso. Niente altro che bianco e nero. Crash mi osserva con aspettativa, ma non sostengo il suo sguardo. La vuoi incontrare da solo, mi sorprende gesticolando quello che sto giusto per dire io. Mi mordo un labbro e annuisco, i miei occhi sfrecciano verso i suoi. Potresti raccogliere i miei disegni all’ospedale? Odio dovergli chiedere questo e non voglio ferirlo, ma sono qui per parlare a Cassey di Julian. Lui non sarebbe dovuto venire. Sarai qui quando tornerò? Sì, gli dico con le labbra. È una bugia? Semplicemente non lo so. Rimango in piedi sulla porta e lo fisso fino a quando non scompare. Si volta indietro una volta sola, prima di girare l’angolo e so che mi sta vedendo. Quando spingo la porta per aprirla, l’odore del grasso caldo e del tè mi riporta indietro verso una tempesta di disperati ricordi, al punto che devo deglutire. Cassey è in piedi dietro il bancone a servire una ragazzina con un bambino. Quasi lascia cadere il piatto con i toast che le sta ando quando mi vede. «Gesù Mio, Romeo! Ero così preoccupata! L’ospedale mi ha detto che sei scappato. Vieni qui!» Mi attira a sé in un abbraccio attraverso il bancone, stringendomi così forte che

le mie costole potrebbero rompersi. «Ti faccio del tè» dice, girandosi senza doverlo realmente fare, in ceca di una tazza e in modo che io possa asciugarmi le lacrime e rimettermi di nuovo a posto. «Jackie!» chiama, alzando il top del bancone. «Mi prendo cinque minuti.» Ci sediamo a uno dei tavoli vuoti. Sono solo le otto e dieci ma la prima ondata di clienti per la colazione è andata, sono rimasti solo pochi ritardatari. Strappo una pagina dal blocco di Crash e gliela o. Tutto quello che ho bisogno di sapere è su quella pagina. Cassey considera le mie domande brevemente prima di guardarmi confusa, magari con comione. «Non lo hai saputo?» Il sangue mi scorre nelle orecchie facendomi pulsare la testa. Non posso respirare per la paura di ciò che lei sta per dirmi. Il mondo si ferma quando scuoto la testa. «Romeo, Pasha non è più con Julian. Pasha è di nuovo sull’Argine con Roxy.» Prima di rendermi conto di ciò che sto facendo, mi alzo e sono fuori dalla porta, lasciandola aperta spalancata dietro di me.

Pasha

Corro verso il fiume, senza vedere nient’altro che la mia destinazione, l’Argine, i duri scalini di calcestruzzo, i corpi addormentati distesi in rifugi sotto il cielo di cemento. Sono troppi perché la polizia li possa far sfollare sebbene ci abbiano provato. Al di là di essi, il sottoaggio che porta ai tunnel. Sono scollegato dal mio corpo, inconsapevole, mentre lo muovo in mezzo a forme dormienti e lo obbligo a correre nel buio. Non ho più paura, anche se questo è il luogo dove ho spinto Cricket dentro il fuoco e mi sono bruciato le mani, anche se Cricket probabilmente è ancora qui da qualche parte. Non mi importa. Ho bisogno di trovare Pasha. Ci sono alcuni falò che ardono al centro dei tunnel ed è scuro e buio. I miei i sguazzano nelle pozze d’acqua nera e il suono fa eco attorno a me mentre mi muovo nel vasto spazio senza luce. Non so dove sto andando. Pasha sarà con Roxy e Roxy sarà... dove? Mi fermo, mi guardo attorno, verso le scatole e le coperte e i rifugi cadenti di incerate, ascoltando i rumori di sonni irregolari, il tossire, il gemere. Non lo sopporto. Questa è la mia vita e allo stesso tempo non lo è più. Sorprendendomi, mi chino in ginocchio e scuoto la sagoma avvolta in una coperta più vicina a me. Conosci Roxy? dico con le labbra. Occhi scuri e stanchi mi guardano dal basso, senza cercare neppure di comprendere. «Vai a farti fottere.» Mi sposto verso la figura successiva, la sveglio desiderando di avere carta e penna, di non essermi lasciato tutto alle spalle al bar. Vengo scosso e spintonato via.

Considero la possibilità di usare il telefonino che ho in tasca per scrivere il nome di Roxy sullo schermo e mostrarlo, ma rischierei di essere aggredito per questo, anche se il cellulare è vecchio e probabilmente non ne varrebbe neppure lo sforzo. Nessuno vuole comunque saperne. Perché dovrebbero aiutarmi quando io non offro nulla in cambio? L’odore di corpi non lavati, piscio e fumo inizia a darmi alla testa perciò rinuncio e mi sposto. Mi aggiro contro il retro del muro. È più freddo e meno popolato ma è un buon punto. Tengo gli occhi aperti per scorgere il casino che sono i capelli neri di Roxy, il taglio corto e biondo sporco di quelli di Cricket. Non mi aspetto di trovare Pasha, all’inizio, ma mentre soro l’angolo più lontano, sono sicuro di vederlo. La sua testa rasata quasi al pelo è distesa sul cemento, i suoi capelli sono così simili a quelli che erano i miei un tempo, gli occhi chiusi, dorme senza coperta e al freddo. È solo. Non riesco a individuare Roxy da nessuna parte. È meglio. Sono sicuro che Roxy mi odia per quello che ho fatto. Mentre mi avvicino rimango colpito da quanto appaia fragile, giovane. I suoi polsi sono così sottili, la sua pelle bianca come le ossa sotto di essa. Con il volto indifeso e privo di emozioni, appare molto più giovane di quanto non fossi io la mia prima notte sulla strada e mi lacera dentro il rendermi conto di quanto tutto ciò sia sbagliato. È solo un bambino, perduto qui fuori a temperature ingrate, con nessuno che gliene fotta qualcosa se si farà male o se è malato. Una raffica di tosse che a avrebbe fatto piegare in due la mia carcassa e nonostante tutto Pasha continua a dormire. Puzza d’alcool e c’è una pozza di vomito scura dietro la sua testa. Ma non importa. Mi chino e avvolgo le mie braccia attorno a lui, avvertendo i tremori che lo percorrono. Sta tremando dal freddo. Cerco di metterlo seduto, ma si affloscia contro me, come se non avesse peso, per nulla. Il movimento non lo sveglia e la circostanza mi spaventa un poco, ma mi dico che è solo ubriaco.

Ubriaco, incosciente e congelato: la gente muore in questo stato. Ma posso aiutarlo. Posso fare qualcosa per lui e l’alcool evaporerà andrà piano piano. Se è colpa dell’alcool. Se fosse in overdose o qualcos’altro, potrebbe essere ormai troppo tardi. Non posso farmi prendere dal panico. Devo portarlo da Cassey. Devo farlo riscaldare. Faccio scivolare una mano tra le ginocchia e l’altra dietro la schiena, lo sollevo. La sua testa ciondola all’indietro sul mio braccio, lasciando esposta la pallida gola, lividi scuri della misura di un pollice attorno al collo. Ha i pantaloni slacciati, appena tirati su, la zip rotta. Posso vedere la pallida linea scura dei peli che corrono lungo lo stomaco bianco dall’ombelico ai genitali e vorrei coprirlo, ma devo portarlo fuori di qui. Incapace di asciugarmi le lacrime che scorrono liberamente accecando il mio cammino, inciampo nel buio percorrendo a ritroso la via da cui sono venuto. Inizia a piovere e un vento aspro soffia acqua gelida attorno a noi. Devo fermarmi quando raggiungo i gradini. Non posso andare più avanti: le mie braccia tremano dallo sfinimento per averlo trasportato solo per il sottoaggio. Lo adagio per terra con cautela e prendo il giubbotto che Crash mi ha dato per avvolgerglielo attorno. Non ho comunque freddo, adesso. Ci vuole tutta la mia forza di volontà per salire fino all’ultimo gradino. Attraverso la strada e cammino a piccoli i, fermandomi a ogni metro fino a che non sento che le gambe stanno per cedere sotto il peso che porto sulle braccia. Svolto per Old Paradise Street. È una strada lunga ma posso vedere il bar in lontananza, la sua insegna luminosa stagliarsi contro il grigiore. Adesso la pioggia sta scendendo più pesantemente, appiccicandomi i capelli contro la testa e infradiciandomi attraverso la maglietta sottile. Mi concentro nel mettere un piede davanti all’altro, nel prendere un o dopo l’altro. Una figura corre lungo la strada verso di me ma non vi faccio attenzione. I miei muscoli stanno bruciando. Mi focalizzo su quel che devo fare. Appena la sagoma si avvicina, mi rendo conto di chi sta correndo verso di noi e il sollievo mi indebolisce. Le mie ginocchia crollano e io cado per terra

rudemente, sull’asfalto impietoso, attirando su di me il peso di Pasha, cullandolo avanti e indietro. Crash pattina frenando di fronte a me, respirando pesantemente. Julian? mi fa segno, gli occhi spalancati mentre li sposta da me al ragazzino che stringo. Scuoto la testa e sillabo Pasha. Crash si allunga e con grande delicatezza prende Pasha tra le sue braccia. Non penso di essermi mai sentito così grato verso qualcuno, tranne forse verso Julian quando accorse e fermò l’aggressione quasi mortale nei miei confronti, tanti mesi addietro. «Andiamo» fa con le labbra in quel suo modo prudente, le braccia troppo piene per poter usare il linguaggio dei segni. «Andiamo, andrà tutto bene.» Cassey sta camminando avanti e indietro, sbirciando ansiosamente fuori dalla vetrina appannata del Caffè quando apriamo la porta, spalancandola. «Buon Dio, voi ragazzi mi farete venire un attacco di cuore» esclama quando vede Pasha incosciente tra le braccia di Crash. «Venite nel retro.» Seguiamo Cassey attraverso la piccola cucinetta fino a un cubicolo sul retro del palazzo. Tavolini extra, sedie e suppellettili per il bar sono impilati lungo il muro. La finestra alla fine sembra guardare verso il viottolo, sul retro pieno di sacchetti della spazzatura. È freddo e i miei denti sbattono mentre il gelo mi serpeggia lungo le ossa, privo come sono del giubbotto di Crash. Cassey si affretta a prendere qualcosa per scaldare la stanza e qualcosa su cui adagiare Pasha. Sua sorella guarda senza pronunciare una parola. Quando Cassey ritorna con una stufetta dall’aspetto decrepito e una coperta pesante, l’aiuto a fare spazio sul pavimento in modo che Crash possa adagiarvi sopra Pasha. Lo avvolgiamo stretto e il calorifero spande aria calda nella stanza, ma lui ancora non si sveglia. Piegato su di lui, Cassey gli pone la mano sulla testa. «Ho intenzione di dargli...» Cassey si guarda l’orologio da polso con

un’espressione ansiosa e scattante «venti minuti. Se per allora è ancora in questo stato, chiamerò un’ambulanza.» Annuisco e con i segni ripeto a Crash le parole di Cassey. «Torno tra un po’ con qualcosa di caldo per voi due, va bene?» Cassey ci lascia. Mi distendo vicino a Pasha, cercando timidamente di strofinargli la testa, le braccia, le guance. Lascio scivolare le dita attraverso le sue, voglio sentirlo scaldarsi al mio tocco, ma invece avverto il gelo penetrare dentro me. La stoffa bagnata della mia maglietta è incollata alla mia pelle in maniera poco confortevole, i miei piedi sono così freddi e bagnati che non riesco più a sentirne le estremità. Ma niente di tutto questo ha importanza. Per favore, svegliati, penso. E non solo perché lui mi può aiutare a trovare Julian. In questo momento, ho solo bisogno che lui si svegli e stia bene. Accovacciandosi sulle lunghe membra, Crash si siede per terra e ci guarda, un’espressione seria e quasi addolorata sul viso. Cosa è successo? mi fa segno. Non lo so. Cerco di riprendermi asciugandomi gli occhi e sento le dita di Crash sfiorare le mie, carezzarmi le guance, calore che irradia attraverso la sua pelle. Doveva stare con Julian. Pensavo fosse con Julian. Ma lui è solo un ragazzino. Mi sento di averlo in qualche modo tradito per l’aver posto così tanta fiducia in lui, averlo quasi costretto a stare con Julian, nell’essermi persino aspettato che Pasha si sarebbe preso cura di Julian. Non avevo diritto di porre sulle sue spalle queste speranze anche se le ha accolte volentieri. Strofino la schiena di Pasha, frizionando con una mozione costante, pregando che si svegli. Spostandosi più vicino, Crash mi pone un braccio attorno alle spalle. Io appoggio la testa sotto il suo mento e mi abbandono contro il suo petto. Il battito forte del suo cuore è così confortevole, così vivo. Forse sto usando anche lui, sebbene mi renda conto che forse lui lo sappia e che me lo stia permettendo.

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Guardati le spalle

Per un momento si sente solo il lento ticchettio della pioggia contro il vetro, il sollevarsi e l’abbassarsi del petto di Pasha, il cuore di Crash che mi batte forte nelle orecchie e il ronzio sordo seguito da uno scatto del calorifero all’angolo. La stanza è calda, non sto più tremando e i tremiti di Pasha rallentano sempre di più. Non so cosa farò se non si sveglierà. Non voglio pensarci. Invece mi pongo domande sul ato di Pasha. Cosa lo ha fatto venire qui, a Londra, in Inghilterra? Mi chiedo se nessuno gli volesse abbastanza bene da fermarlo e se a qualcuno importasse sul serio, del fatto che nessuno saprà mai né cosa ha dovuto affrontare né dove sia costretto a dormire la notte. Senza volerlo, riaffiora l’immagine del volto di mia madre e chiudo gli occhi di fronte al dolore. Ma ben più potente dei miei ricordi è uno sfinimento così pesante da appiattirmi e non posso fare altro se non arrendermi a esso. L’improvviso trambusto nel bar mi fa sussultare, il mio cuore batte all’impazzata. Al di là della porta chiusa di questa piccola stanza, tavole e sedie vengono trascinate lungo il pavimento o sbattute via e qualcuno sta gridando con tono infuriato. Io mi blocco, pronto a scappare, ma poi mi sovvengo di dove sono e con chi sono e so che non devo mai più fuggire. Lentamente mi sciolgo dall’abbraccio di Crash e mi siedo, cercando di capire cosa stia succedendo. Crash mi guarda sbigottito, inconsapevole riguardo al rumore. Lascio andare dolcemente la mano molle di Pasha e mi alzo in piedi per andare più vicino alla porta in modo da ascoltare, ma al momento hanno finito di gridare. Un secondo più tardi la porta si spalanca, quasi mi sbatte contro la parete e Roxy corre dentro, seguito da Cassey che lo chiama per calmarlo. Lui guarda verso di me, poi verso Crash e infine si abbatte sul pavimento accanto a Pasha, emettendo un suono basso dalla bocca. Solo quando mi avvicino, mi rendo conto che sta piangendo.

Roxy, faccio segno a Crash. Qualcuno... mi interrompo. Qualcuno che un tempo conoscevo. Ma che oggi a malapena riconosco, anche se sono solo ate poche settimane dall’ultima volta che l’ho visto. Appare così diverso, e non in modo buono. I suoi capelli spettinati sono decolorati in un biondo biancastro innaturale e quando lo guardo più da vicino, posso vedere che mancano a chiazze sulla nuca. Le vertebre della sua spina dorsale spuntano attraverso la stoffa del maglione, Roxy mi ricorda il vecchio della piscina, uno sopravvissuto eppure così sperduto. Il Roxy che un tempo conoscevo se n’è andato, la sua innocenza distrutta, la sua dolcezza spellata via a poco a poco fino a quando non ve n’è rimasta affatto, fino a che non è rimasto altro che cute a coprirgli le ossa. Il pensiero mi fa sentire vuoto e incavato. Non so se era nel sottoaggio. «Nononono» geme, cullando la testa di Pasha. Dietro di lui, Cassey osserva abbattuta. La sua espressione rispecchia la mia. Sì, lui adesso è qui, ma dov’era quando Pasha era ubriaco e vulnerabile e aveva bisogno di qualcuno? Dov’era quando Pasha è stato molestato? «Ho pensato fosse stato rapito» dice Roxy a bassa voce, gli occhi stretti rivolti a me. «Qualcuno lo ha visto mentre lo stavano prendendo. Non sapevo che fossi tu.» Mi guardo attorno disperato alla ricerca di qualcosa su cui scrivere. Una rabbia feroce mi brucia dentro, innescata dalle sue parole. Crash si rende conto di ciò che voglio e mi a una bolla di consegna tra quelle dentro una delle scatole di lato. Raccolgo una penna a biro dal pavimento. Di che cosa cazzo si è fatto? Come hai potuto lasciarlo in questo stato? Stava congelando quando l’ho trovato. La gente muore là fuori per questo! La penna strappa il foglio mentre scrivo e le mie mani tremano quando penso che Pasha potrebbe non riprendersi. Lo getto a Roxy. Lui legge e lascia andare Pasha per strapparmi di mano la biro.

Fanculo! scarabocchia sulle mie parole. «Può fare ciò che gli pare. Non sono il suo cazzo di guardiano!» Allora perché sei qui? gli faccio segno, allargando con veemenza le braccia, frustrato, sapendo che Roxy non mi può capire ma ho bisogno di esprimere ciò che sento. Non puoi preoccuparti solo quando ti fa comodo. È solo un bambino. È più giovane di quanto lo eravamo noi! Come se comprendesse l’esatto significato dei miei gesti, Cassey scuote la testa verso Roxy. «Tu dici che questo ragazzo è tuo amico ma lo hai lasciato in queste condizioni.» «Fanculo. Non resterò qui ad ascoltarvi.» Adagiando di nuovo Pasha per terra, si alza in piedi per andarsene. «Pasha sa dove trovarmi.» Lo guardo con disprezzo. È così facile andarsene. Roxy non ha mai avuto spina dorsale, in ogni caso. È per questo che non siamo rimasti insieme a lungo. Sapevo fin dall’inizio che se le cose si sarebbero messe male, non mi avrebbe coperto le spalle. Come non lo ha fatto per Pasha. Non posso permettere che accada di nuovo. Ma non posso comunque permettermi di essere come lui. Con riluttanza mi allungo e gli afferro il braccio con una mano per fermarlo. I suoi vestiti sono fradici esattamente come i miei. Lascia cadere gli occhi sul pavimento e si divincola dalla mia presa, ma non se ne va. Dietro di noi udiamo un colpo di tosse. Gli occhi di Pasha si aprono di scatto e, strizzando le palpebre alla luce, geme prima di vomitare sul pavimento. I lacci avvolti attorno al mio cuore si allentano un poco e io prendo un profondo, tremante, sospiro. Non ti rendi conto di quanto stretti ti tengano fino a che non ti lasci andare un pochino. «Dove sono?» biascica Pasha, appoggiando la guancia contro il pavimento, incapace di concentrarsi su qualcuno. È ancora intossicato. Lo stato in cui si trova mi fa incazzare. «Sei al bar di Jackie, Pasha. Sei venuto qui ieri con Roxy. Che cosa hai preso?»

gli chiede gentilmente Cassey, mentre afferra il moccio e qualche tovagliolo di carta dall’angolo della stanza. «Soltanto ’mbriaco» borbotta lui. Mi accascio sulle piastrelle per aiutarla a pulire sia Pasha che il pavimento. Non dovrebbe farlo lei, sono stato io a portare Pasha qui. Mogio mogio, Roxy si mangia le unghie sulla porta, mantenendo la distanza. Pasha sembra appisolarsi per un secondo. Gli appoggio una mano sul viso e gli volto la testa fino a quando non riapre gli occhi. Quando Crash si inginocchia vicino a me, vorrei spostarmi più vicino a lui ed essere avvolto dal suo calore. Voglio condividere con lui il mio sollievo visto che Pasha si è svegliato. Se c’è ancora dell’alcool nel suo stomaco, deve buttarlo fuori. Fagli bere dell’acqua calda e fallo vomitare fino a quando non può più rimettere, mi fa segno. Mi porge una tazza di acqua tiepida che deve aver preso dal piccolo lavandino nell’angolo. C’è un bagno dove possiamo portare Pasha? scrivo sulla ricevuta strappata che porgo a Cassey. Cassey annuisce e con l’aiuto di Crash rimettiamo in piedi Pasha. Faccio segno a Roxy di venire con noi, ma lui scuote la testa; poi sembra averci ripensato e raccoglie la coperta dal pavimento, la stende sulle spalle di Pasha e ci segue nel bagno. È una piccola stanza, giusto lo spazio per un water e un lavandino ma per lo meno è pulito. Mi inginocchio sul pavimento vicino a Pasha mentre Crash e Roxy restano fuori. La toilette è inconsistente e il sedile scivola da una parte all’altra quando Pasha si china su di esso e appoggia la testa. Lo carezzo con la mano su e giù per la schiena, sento la sua pelle scivolare sulle ossa, il sottile strato di muscoli. Anche se probabilmente si sente morire, il modo in cui piega il corpo al mio contatto mi

spezza il cuore ancora un po’ di più. Quando è stata l’ultima volta che qualcuno lo ha toccato senza volere qualcosa in cambio? Faccio come Crash mi ha suggerito, gli faccio bere acqua calda e lo aiuto a vomitare. Non c’è rimasto molto dentro di lui e dopo un po’ quello che rimette è solo bile mentre trema senza controllo. Lo riavvolgo nella coperta e lo aiuto a tornare nella stanza calda. Crash e Roxy portano dentro due sedie dalla hall del bar e Cassey li segue con un vassoio di zuppa e biscotti che appoggia sopra una pila di scatoloni. «Non posso rimandarti di nuovo sotto la pioggia e al freddo affamato» dice guardando con apprensione Pasha, che, sebbene ora cammini senza sostegno, sembra ancora confuso e debole, livido dal freddo. So che non c’è molto altro che lei possa fare. Non può occuparsi di tutti quelli che entrano dalla porta principale del suo bar con l’aspetto lacero e malconcio. Finirebbe per prendersi carico di metà della popolazione di Londra. «Hai bisogno di vestiti asciutti, tesoro» commenta. È qualcosa che noi non abbiamo. Gli unici vestiti che Pasha ha sono quelli che ha indosso. Cassey fa segno. «O per lo meno, asciugati i tuoi.» Ci lascia. Il bar si sta di nuovo riempiendo con la seconda ondata di pendolari che vengono per la colazione prima di andare al lavoro. Faccio segno a Crash di aiutarmi a svestirlo. Se appendiamo i suoi vestiti di fronte allo scaldino, dovrebbero asciugarsi in poco tempo. Pasha non protesta, ma si stringe le braccia attorno al petto con fare protettivo dopo che gli abbiamo sfilato la maglietta, batte i denti. Il petto e il collo sono neri di lividi. I vestiti che ha non sembrano troppo laceri e sono diversi da quelli che aveva quando è venuto a trovarmi in ospedale. È stupido ma fa male pensare a Julian che va alla “banca dei vestiti» con Pasha invece che con me e che ha preso questi

per lui. Gli tiro la coperta sulle spalle e la tengo stretta in modo che lui possa togliersi i pantaloni con un minimo di privacy. Ma non ci riesce. Sono troppo bagnati e trema in maniera convulsa. Quando Crash si muove per tirarglieli dalle caviglie, le lacrime gli riempiono gli occhi così tanto da fargli mordere il labbro per trattenerle. Va tutto bene, gli sillabo, carezzandogli la guancia con la mano libera. Scuote la testa e si abbandona sul pavimento forzandomi a sedere giù accanto a lui. Non si tratta della coperta più soffice ma la avvolgiamo tutta attorno al suo corpo e lui riesce a calciare via i jeans. «Julian gli ha detto di levarsi dalle palle e mollarlo» dice Roxy dietro di me, bevendo la zuppa e picchiettando sulla gomma sottile delle sue scarpe. Il grattare sottile delle sue unghie contro la gomma mi irrita un casino. «Ma non credo che te ne fregi un cazzo, dato che ora tu ti sei sistemato.» Fisso Pasha negli occhi. Sembrano spiritati. Per un attimo penso che potrei odiare Roxy. «Remee» sussurra Pasha dolcemente, scuotendo la testa. Il mio petto si stringe. Remee è come mi chiama Julian. Nessun altro. Tuttavia so perché Pasha sta pronunciando il mio nome a quel modo, Julian deve avergli parlato di me o forse lo ha fatto nel sonno. Con un’espressione angustiata, Pasha appoggia una mano fredda sul mio viso e dice qualcosa in russo, velocemente. «Mi ha detto di andarmene, di lasciarlo e di trovare Cassey. Non mi voleva più con lui.» Quando prende di nuovo respiro, è con un singhiozzo. Dov’è? gli chiedo con le labbra, senza essere troppo sicuro che mi possa capire. Disperatamente faccio segno a Crash: Chiedigli dov’è!

«Sono tornato all’ospedale per te, ma il tuo letto era vuoto. Lui voleva solo uscire fuori di testa. Da solo. Ho paura per lui.» «Dov’è?» chiede Crash. «Non lo so. Eravamo sull’Argine Nord quando mi ha detto di andarmene. Aveva bisogno di soldi. Non voleva più fuggire. Doveva dei soldi a della gente, ma non credo gliene importasse.» Le sue parole mi lacerano come il filo spinato che strappa una vecchia ferita per aprirla di nuovo. L’Argine Nord è dove di solito andava per esser rimorchiato. L’unico denaro che potrà ottenere è vendendo se stesso. La rabbia che ho sentito per Roxy non è niente paragonata a questa. Non so se sono incazzato con Julian, con me stesso o con il cazzo di dannato mondo intero. Barcollando, mi alzo in piedi. Non mi sento bene. Cammino prima in una direzione, poi in un’altra prima di dirigermi verso la porta. «Romeo?» Mi giro, non vedo realmente nessuno nella stanza. Dove stai andando? mi fa segno Crash. Porta Pasha dai tuoi genitori affidatari digito di rimando. Cosa? Per favore. Per favore, fai questo per me. Dove stai andando? Tornerò. Te lo prometto. Devo guardare da un’altra parte, non verso Crash. Non posso sopportare di vedere cosa gli sto facendo. Mi sento come se stessi rompendo qualcosa di fragile e implicito. Invece estraggo il telefonino che mi ha dato. Ho questo. Non mi hanno lasciato prendere i tuoi disegni dall’ospedale. Ecco perché sono tornato tanto presto. Li avrebbero dati solo a Estella o a te. Pensavo che

potevamo andare insieme a ritirarli adesso. Posso vivere senza i miei disegni. Posso farne altri. Aiutalo, supplico Crash. So dov’è Julian. Sai che devo fare questa cosa. Tornerò. Devo solo trovarlo. E se non vuole più tornare con te? Perché deve chiedermi questo? Sostiene il mio sguardo e non posso distoglierlo senza sembrare un bugiardo, così non lo faccio. Non ho mai voluto tornare di nuovo su quelle strade e farò tutto ciò che posso per togliervi anche Julian. Per favore, porta indietro a casa con te Pasha. Si ammalerà se torna di nuovo laggiù. Mi volto. «Aspetta» mi chiama Pasha. Allunga una mano e io mi chino di nuovo di fronte a lui. «Mi dispiace, Remee» dice. Oddio, non voglio che si senta in colpa! Anche a me dispiace, gli dico con le labbra, premendo brevemente la fronte contro la sua. Niente di tutto questo è colpa tua. «Che cosa c’è che non va in lui?» mi chiede sottovoce Pasha, guardando verso Crash «Parla, ma è come te.» Mi tocco le orecchie. «Oh. E come faccio per parlare con lui?» Mimo il gesto di scrivere. «Posso leggere qualcosa ma so scrivere solo in russo» Pasha sembra imbarazzato.

Prendo la sua mano, la stringo; ho voglia di abbracciarlo ma non voglio fargli male. Parla lentamente così lui potrà leggere le tue labbra. Non sono sicuro se Pasha abbia capito, ma so che starà bene con Crash. So che Crash si occuperà di lui. Non appena mi alzo, Crash si toglie rapidamente il giubbotto e me lo porge. Non puoi andare laggiù così. Lo rivoglio indietro, mi fa segno, cercando di sorridere, ma posso vedere quanto male io gli stia facendo. Muove la testa in modo che i capelli gli cadano sugli occhi e non cerca neppure di spazzarli via. Non posso voltarmi indietro, anche se Cassey chiama il mio nome. Apro la porta appannata del bar e continuo a correre. La pioggia è diventata nevischio e il cielo che sta scurendo ammanta tutto di un grigio-blu profondo. Tiro il cappuccio della felpa di Crash sulla faccia e rallento, mantenendomi vicino ai palazzi per evitare il peggio degli elementi, ma il freddo aspro continua a farmi dolere le mani e la faccia fino all’insensibilità. Roxy mi raggiunge alla fine della strada e mi afferra per un braccio nell’intento di fermarmi. Cerco di divincolarmi dalla sua stretta ma lui non cede. «C’è qualcosa che dovresti sapere» dice ansimando senza più fiato. «Qualche giorno fa qualcuno chiedeva di te giù sull’Argine. Un uomo. Era russo. Offriva un pasto caldo a chiunque avesse informazioni su dove poterti localizzare.» La sensazione familiare di terrore si deposita pesantemente sul mio stomaco, ma poi penso a Julian, a cosa sta facendo proprio adesso e non mi sembra più così importante. Roxy aspetta la mia reazione, ma non ne ho una. Voglio essere da un’altra parte, adesso. Ho bisogno di essere in un altro posto. Devo trovare Julian. E se sia rabbia o amore quella che sta bruciando dentro di me, non importa fintanto che mi possa guidare verso di lui prima che lui stesso faccia qualcosa da cui io non possa più aiutarlo a fuggire. Fa spallucce, lasciandomi andare.

«Dovresti guardarti le spalle» urla schivando le auto che corrono attraverso la via. Ma non mi frega un cazzo di guardarmi le spalle. Qualunque cosa stia accadendo dietro di me, non posso cambiarla. Fisso oltre il fiume che si contorce duramente sotto i ponti anneriti e per la prima volta nella mia vita sono profondamente convinto che, a qualunque cosa io vada incontro, sarò in grado di cambiarla.

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Ce ne sono sempre due

Una volta raggiunta l’altra parte del fiume, non riesco a decidere in quale direzione andare. Se Julian è qui, potrebbe essere ovunque lungo questa strada. Scelgo la via verso cui il vento sta soffiando, in modo che la pioggia gelida mi colpisca la nuca anziché il viso e cammino lungo l’argine del fiume, osservando come il vento frusti l’acqua, rendendola aria e pioggia che sbanda in grandi tende fluttuanti. Non c’è davvero quasi nessuno qui attorno e la poca gente che vedo si sta affrettando per arrivare da qualche altra parte, in un posto sicuro e asciutto. Ancora non mi sento come uno di loro, eppure non appartengo più nemmeno a questo posto. La sensazione mi fa desiderare di scolpire il mio piccolo mondo personale, un posto che io ho reso affidabile, un dove lontano da tutto questo. Ho rallentato il o ma non perché sono troppo stanco per correre. È solo... per quanto cerchi di strappar via dalla mia mente le parole di Crash, non posso. E se trovassi Julian e lui davvero non volesse più venire con me? Dove mi porterebbe tutto questo? Non posso forzarlo. Non voglio manipolarlo. Desidero che lui voglia stare con me, che voglia qualcosa di meglio per entrambi. Ma se lui semplicemente non fosse dell’idea? Cosa farei se lui volesse autodistruggersi, lasciare che le strade annullino tutto ciò che è, tutto ciò che è sempre stato e tutto quello che nel frattempo siamo stati noi due? Non mi permetto di prendere in considerazione il fatto che, se avesse davvero voluto stare ancora con me, mi avrebbe già trovato, perché questo pensiero mi spaventa quasi quanto il non sapere dove sia adesso. Perciò non corro. Non ancora. Oltreo le rovine del Joe Brown’s Cafè, il bar di Cassey, Joe era suo marito. Non guardo troppo da vicino. È comunque nascosto da una staccionata fatta di pannelli alti quasi due metri; è visibile solo il resto del tetto crollato, le travi annerite, gonfie e crepate dalla pioggia. Il petto mi si stringe solo per essere qui.

Devo fare forza sulle gambe per continuare a camminare prima che tutto in me si blocchi e i ricordi mi facciano sgretolare sul posto. Nonostante tutto, ritornano. Ricordo lo shock nello scoprire che il fuoco aveva distrutto l’unico posto in cui ci sentivamo a casa, l’unico luogo che sia stato mai casa nostra, sebbene per breve tempo. Ricordo come ne fosse sconvolto Julian. Ricordo quanto ha pianto mentre mi scopava. Ricordo l’impotenza. Il suo cadere a pezzi, mentre ancora mi avvolgeva tra le sue braccia. È stato dopo che tutto è cambiato. Cammino più veloce. Dopo oggi, giuro che non tornerò qui mai più. Il sentiero scende, si allontana dal fiume. Se la pioggia non fosse così spessa, potrei vedere la devastazione, gli archi al di là di esso, ma oggi non vedo altro che una foschia squallida e spettrale. Cammino più lentamente, l’acqua melmosa e ghiacciata mi penetra nelle scarpe fino a che i piedi sono così gelati da non percepirne più l’esistenza. Non c’è nessuno in giro. Nessuno sta cercando di vendere se stesso. Nessuno sta cercando. Guardo un’altra volta il telefonino, è solo mezzogiorno, cosa che spiegherebbe la mancanza di commercio. Vedo una fermata d’autobus qualche centinaia di metri più avanti. Mi dirigo verso di essa cercando di nascondermi per un momento dal rovescio costante e chiarirmi le idee. Sfortunatamente non sono l’unico. «Ciao» dice una ragazza, sorridendomi speranzosa mentre cerca di non tremare. Con questo tempo ha bisogno di più vestiti che una minigonna di Lycra e un top senza maniche. Deve stare congelando. C’è solo un lungo sedile e lei vi sta seduta nel mezzo, una bambola dipinta, il trucco troppo vivace per tanto grigiore. «Mi sembri uno che ha bisogno svagarsi un po’. Potrei darti qualcosa che sarebbe davvero una bella distrazione.» Il suo sguardo surreale sfreccia verso il mio inguine, poi lentamente si allontana e sorride di nuovo, sebbene non mi

guarda più fisso. Sono solo affari. Scuoto la testa e mi siedo, guardando la melma sulla strada che fuoriesce mescolata ad acqua nerastra. Non camminerò verso un altro riparo solo perché lei vuole farsi pagare per farmi un pompino. Deve essere disperata, ma credo che il giubbotto costoso di Crash copra maggior parte dell’identica mia povertà. Sospira, sbattendo la testa contro il vetro di Plexiglass dietro di lei e stira la gonna un centimetro più giù sulle cosce. «Ho solo bisogno di un altro fottuto cliente, poi posso tornarmene. Sai che mi ha fatto restare seduta qui sotto la cazzo di pioggia dalle dieci di ieri sera?» Non so chi lui sia. Non voglio saperlo, lo odio di già, ma non voglio parlarle o esserle amico. Mi dispiace per lei, sul serio, ma questo è quanto. Nessuno si dovrebbe ridurre in questo modo, farsi usare così. Mi disgusta. E quando penso a Julian che si offre agli uomini alle fermate degli autobus o sulle strade, senza abbastanza vestiti addosso per il cattivo tempo, dentro di me inizia tutto a sgretolarsi. «Se stai aspettando l’autobus, è ato cinque minuti fa. Devi aspettare un po’ prima che ne i un altro.» Cazzo... affondo le unghie contro un palmo. Dentro sto cadendo a pezzi. Dovrei correre lungo questa via per cercarlo. Invece sto seduto sotto una tettoia d’autobus e vengo sedotto da una prostituta, aspettando che la pioggia cessi, terrorizzato all’idea di quello che può accadere a Julian, di quello che può essere già andato distrutto. È patetico e proprio ora mi sento così impotente. Non sopporto più di sentirmi in questo modo. Questa mattina ero così calmo, c’erano gli uccelli che cantavano in quel giardino nebbioso, così lontani adesso, in questo momento. Non riesco a riconciliare le due cose. Prendo il cellulare. Sto cercando un ragazzo. Ha i capelli biondi. Il suo nome è Julian, digito e le mostro lo schermo.

Lei fa spallucce, sprezzante. «Dovresti venire più tardi. Ci sono un sacco di ragazzi, del colore dei capelli che vuoi. Se chiudi gli occhi, possiamo fingere.» Mi indirizza un sorrisetto e io affondo ancor più in profondità le unghie. «Mi dai una moneta così posso andarmi a prendere una tazza di tè?» Aggrotto le sopracciglia, metto via il telefono e la guardo dalla testa ai piedi. Denaro? Non ho denaro. Non ci ho pensato neppure lontanamente. Spingo il telefonino nella tasca dei pantaloni e stringo le mani gelate a pugno, infilandole nelle tasche del giubbotto di Crash. Il dorso delle dita sfiora qualcosa. Qualcosa che pesa come il piombo si accomoda dentro il mio petto quando mi rendo conto di avere il portafogli di Crash. Ha preso dei soldi stamattina per ricaricare il mio telefono. Sapeva che era qui, quando mi ha dato il giubbotto. Deve averlo saputo. E questo fa così tanto male quando penso a come cazzo l’ho lasciato. All’assoluta mancanza di considerazione che ho avuto per lui. Chiudo gli occhi contro la pioggia. A volte è così tanto più facile non preoccuparsi di nessuno. Guardo la scia di macchine senza fine in strada, cercando di sopprimere il panico incontrollabile che mi afferra all’improvviso. È lo stesso che ho provato quando Julian è scomparso con uno sconosciuto e l’ho aspettato immaginando di non rivederlo ancora. Cazzo, dove sarà? Anche se non mi vuole più, devo trovarlo e aiutarlo a capire che c’è tanto più di questo, così tanto più di questa sudicia, grigia, oppressiva e dannatissima cazzo di città. Mi alzo e ho quasi un ripensamento. Tocco alla cieca il portafogli e ne estraggo un biglietto da dieci. Lo porgo alla ragazza. So che Crash avrebbe voluto che lo fi. Lei lo infila dentro il top e annuisce un ringraziamento, io torno indietro nella pioggia. Sento una macchina che accosta dietro di me e una portiera che sbatte. Non so cosa mi fa girare lo sguardo all’indietro e guardare. Forse ho acquisito un sesto senso per i guai, vivendo qui per così tanto tempo, ma quando lo faccio, vedo la ragazza premuta contro il fondo della fermata da un uomo con un giubbotto con cappuccio nero che presumo sia il suo magnaccia. Gli occhi di lei sono rivolti verso me, il suo braccio indica e quando lui si gira, so che sta per rincorrermi, capisco che devo muovermi in fretta.

Tutto accade così velocemente. Non so se è una sorta di truffatrice, se lei stia lì ad aspettare di trovare qualcuno che valga la pena rapinare, e che lui conti sul fatto che la vittima sia troppo imbarazzata per andare alla polizia a denunciare di essere stato derubato da una prostituta o se lei abbia un freddo così disperato da dire al suo pappone che non l’ho pagata. Non importa. Non cambia nulla. Sto per essere comunque aggredito se non me ne vado da qui. È a solo qualche metro di distanza. Non ho vantaggio su di lui, per niente. Ed è veloce, posso sentire il suo respiro, i piedi che schizzano contro il terreno proprio dietro di me. A ogni secondo mi aspetto di sentire la sua mano che si stringe attorno al giubbotto di Crash e i miei piedi venire strattonati sotto di me ma non succede. Mi sento come un animale imprigionato in una landa selvaggia, il mio cuore sta martellando così forte che le mie costole si romperanno. Scorgo un vicolo che riconosco al di là della strada e senza davvero guardare, mi infilo volando in strada, dribblando il traffico e pregando che nessuno mi investa. Un’auto sbanda e io incespico, ma mi riprendo e continuo a correre. Mi fiondo nella viuzza stretta, le scarpe scivolano sui ciottoli bagnati, il rumore fa eco intorno a me. Mi ricordo di aver dormito una volta in uno dei garage abbandonati, pieni di vecchi detriti e macchinari rotti. Non molto tempo dopo esser stato picchiato a sangue, ma non mi importava perché Julian mi faceva sempre sentire così al sicuro che avremmo potuto essere ovunque sulla terra. È tutto così familiare e tuttavia mi sembra di ricordare scene di un’altra vita. Le mie gambe bruciano, ma sono veloce. Lo so che sono veloce. So che posso seminarlo se solo continuassi a correre. Qualche volta Julian e io correvamo e correvamo, solo per il gusto esilarante del farlo, solo per sentirci liberi, senza catene. Era l’unica vera sensazione di libertà che abbiamo mai avuto. Non posso dire quanto mi stia ancora col fiato sul collo. Non voglio guardare. Faccio una piccola svolta, non così ampia da poter allargare le braccia, che mi porta dietro a un ristorante cinese fatiscente. Sento l’acquolina in bocca anche se sto scappando. Mi piaceva l’odore di questo posto, ma tutto quello che vedo ora è quanto deprimente e sudicio esso sia. Continuo a fare strane giravolte e svariati dietrofront fino a quando non lo sento

più dietro di me e sono quasi certo di averlo seminato. Sto scappando in modalità pilota automatico, facendo affidamento solo sulla conoscenza di queste strade, per poi trovare un luogo dove potermi distendere e riposare per un’ora o due prima di tornare di fuori. Poi mi rendo conto di dove sono, verso dove sono accorso. Mi fermo e trattengo i fianchi dolenti, piegandomi in modo da riprendere fiato. Davanti a me c’è una palizzata di sicurezza dall’altezza familiare di due metri. Non sono davvero molto sorpreso; piuttosto sono invaso da un profondo senso di rassegnazione. Il bar di Cassey. Penso che, anche se bruciato e distrutto, qui starò al sicuro per un po’ di tempo. Goffamente e senza l’innata forza e grazia di Crash, mi arrampico e riesco a scivolare sopra il pannello. Mi lascio cadere sul pavimento dall’altra parte e mi appiattisco di nuovo contro l’interno della ringhiera. Da queste rovine non si riconosce più l’edificio che era un tempo. Suppongo che sia una buona cosa. Posso, per lo meno, fingere di essere da qualche altra parte. Mi inoltro con cautela attraverso i detriti fino a un varco. Ma per quanto prudente io possa essere, schegge di vetri rotti e pezzi di metallo acuminato continuano a pungere le suole sottili delle mie scarpe e a tagliuzzarmi i piedi. Non voglio attraversare tutta l’area. Voglio solo un po’ di riparo, ma le travi nere sgocciolano senza sosta e l’unico rifugio possibile sembra essere molto più all’interno. Julian pensava che la gente avrebbe usato questo posto come un tugurio, ma è inabitabile anche per i più disperati. Tutto odora ancora di carbone e di morte. Il legno bruciato sta diventando poltiglia sotto i miei piedi e ho paura di urtare qualcosa di cruciale che vada a finire fuori posto facendo collassare tutto. Sto prendendo in considerazione di inginocchiarmi sotto il bancone ormai a pezzi per un po’, per lo meno lì sotto non sta piovendo, quando mi accorgo che l’unica porta intatta è chiusa. Conduce alla stanza dove io e Julian siamo rimasti per qualche tempo quando abbiamo vissuto qui. La stanza dove ci siamo sdraiati l’uno vicino all’altro e dove siamo caduti a pezzi dopo aver trovato questo posto in simili condizioni. Dovrebbe essere pieno di fantasmi, pieno di dolorose eco scheggiate, di come eravamo, e non vorrei entraci dentro dopo tutto, ma sono i miei fantasmi, miei e di Julian. E forse sono tutto ciò che mi è rimasto.

Rimango in piedi davanti a essa, la pioggia che mi avvolge come un sudario. Sulle prime penso sia chiusa a chiave, ma è solo imbarcata e il legno si è gonfiato dentro gli stipiti. La spingo forte con la spalla, usando tutto il peso. Si spalanca così in fretta che vengo spazzato all’interno su un pavimento relativamente asciutto, ma in uno stato tale di oscurità che a malapena riesco a vedere. Mi riprendo e mi metto in ginocchio, aspetto fino a che i miei occhi si abituino alle tenebre quiete. Lentamente riesco a distinguere qualche forma, un armadietto sul quale avevamo appoggiato la vecchia televisione che Cassey ci aveva prestato, il lavandino che usavamo per lavare i piatti, le due piccole sedie pieghevoli. La finestra è sbarrata con il piano deformato di una delle tavole del bar, inchiodata agli stipiti, sotto di essa c’è una pila di materassi bugnosi e di coperte. Mi alzo in piedi, incuriosito. Qualcuno è stato in questo posto devastato. Mi faccio più vicino e mi blocco. Due occhi mi guardano senza battere ciglio. Il mio cuore si ferma. Non ci sono coperte sul materasso, solo un corpo ricoperto da troppi vestiti. E sono molto, molto immobili. Non può essere. Non voglio che lo sia, ma lo so senza dubbio. Julian. Il mio cuore rimescola ogni cosa. Non posso muovermi. Immagino sia come ricevere una pallottola in corpo. L’agonia, totale e inevitabile. Il tempo si ferma. Le mie ginocchia cedono e la pena mi sconvolge mentre avanzo, trascinandomi verso di lui. Non posso respirare. Sto soffocando. Le mie orecchie risuonano. Questa è l’esplosione. La conseguenza che non arriverà mai. Tutto se n’è andato. Niente è rimasto. Sono arrivato troppo tardi. Avrei dovuto saperlo che lui sarebbe stato qui. Tutto il tempo che ho sprecato per cercarlo nelle stupide piscine. Perché non ci ho pensato? Questa era casa nostra. Le mie dita si

allungano verso di lui, il mio braccio trema così violentemente che qualcosa si spezzerà. Mi sentirò male, ma ho bisogno di toccarlo. Oh, Dio, ho bisogno di toccarlo. Lui è così freddo. Ma i cadaveri non piangono e lui sbatte le palpebre, una volta. Il suo respiro si increspa nello stesso istante in cui lo fa il mio. Il mondo si appanna. Posso ancora riempirmi i polmoni d’aria, ma non mi importa. La mia faccia è così tanto premuta contro di lui che tutto ciò di cui ho bisogno è sentire le sue lacrime infradiciarmi i capelli.

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Non lasciarmi mai più

Julian è messo male. Nonostante il sollievo che mozza il respiro nel sentirmi le braccia attorno a lui, mentre spingo entrambi contro il materasso puzzolente, so che lui non sta bene. Sto solo cercando di ignorare la cosa per pochi, egoistici e luminosi secondi. Sono così dannatamente esultante per averlo trovato che fingo di non poter esser toccato dalle tenebre. Ardo e risplendo da dentro. E disperatamente voglio che questo sollievo duri ancora. Ma non dura. Non può durare. Perché a parte lo sbattere delle palpebre e l’occasionale sospiro che sento contro il mio collo, Julian non si è mosso. Non mi abbraccia o mi tocca e neppure trema dal freddo e lui è così, davvero così tanto freddo. Resta disteso come morto, le sue lacrime una chiazza nera sul materasso dietro la sua testa. Il mio pollice gli carezza con dolcezza le guance ruvide mentre gli cerco il volto, cercando di sostenere il suo sguardo e comunicargli qualcosa, qualunque cosa in questa penombra, ma lui sembra essersi ritirato e non mi guarda nemmeno più. Ed è questa completa desolazione che mi dispera ancora più del resto, un’apatia così devastante che posso avvertire l’aria pesante attorno a me. Ma come potrebbe sentirsi se sta andando in putrefazione in questa stanza lercia? Non posso farmi prendere dal panico o abbattere dalla paura. Devo aiutarlo. Asciugandomi gli occhi con il dorso delle mani tremanti, volto la testa nel buio, cercando qualcosa da usare come leva per tirar via il piano del tavolo dalla finestra. Abbiamo bisogno di un po’ di luce invece di questa ignobile oscurità, sebbene sia terrorizzato all’idea che vedrò allora le reali e ben peggiori condizioni di Julian. Tasto attorno il pavimento ricoperto di detriti, cerco qualcosa di adatto ma ci sono solo pezzi di vetro e chiodi e, il mio cuore precipita non appena le mie dita

riconoscono il loro corpo di plastica, siringhe. So che si drogava, mi dico. Perciò la prova non dovrebbe sorprendermi troppo. Ma fa ugualmente male dover riconfermare come Julian abbia scelto al posto mio una scappatoia artificiale. Mi fa sempre paura il fatto di non sapere come affrontare la situazione. Non mi posso concentrare su questo aspetto proprio adesso. Che Julian mi voglia oppure no, io lo aiuterò. Non lo abbandonerò. Mai. Può spingermi via tutte le volte che vuole, ma io resterò qui per lui. Mi muovo per alzarmi in piedi, ma mi accorgo che il bordo del giubbotto di Crash è trattenuto da qualcosa. Lo tiro ma non viene via. Lascio scivolare una mano verso il basso e sento le dita di Julian stringere strette un lembo del tessuto. Il mio cuore si innalza al lieve contatto, sigillo la mia mano calda attorno alla sua ghiacciata e mi rannicchio vicino a lui, lasciando che la mia fronte riposi contro di lui, sentendomi forte eppure debole allo stesso tempo. Non lasciarmi mai più, penso disperatamente, la gola stretta mentre stringo le sue dita. Per favore, mai più. «Remee?» la sua voce è così fragile e insicura, è come ghiaccio che si crepa sotto una pressione troppo forte. «È tutto vero?» Guardo in alto, ancora non sono sicuro che lui mi possa vedere, prendo la sua mano e la porto sulla mia testa, annuisco in modo che possa percepirlo, le lacrime riempiono di nuovo i miei occhi. «Sono così stanco» sussurra e sembra tanto lontano, al punto che non so se riuscirò a raggiungerlo. Lo so, gli faccio segno, distrutto, ma è troppo buio perché lui possa vedermi. Il piano del tavolo si scheggia e si spacca quando lo strappo via dallo stipite. Per un secondo penso che l’intera armatura verrà via in un solo pezzo pesante e trascino il materasso al centro della stanza, lontano da tutto. Ci vuole tutta la mia forza per togliere i chiodi e sollevare le due sezioni deformate. Luce piovosa e grigiastra ricade nella stanza, rendendo tutto ciò che ci circonda dieci volte peggiore di prima, quando il casino causato dal fuoco era nascosto

dalla penombra. I mobili sciolti e incurvati verso il muro sembrano oggetti da incubo. Calcio via i vetri e le siringhe e mi inginocchio di nuovo di fronte a Julian, con l’intenzione di far scivolare il braccio sotto la sua ascella per aiutarlo ad alzarsi. Non potrei trasportarlo come ho fatto con Pasha, non sono abbastanza forte, sebbene ci proverei, se dovessi. Andiamo, gli faccio segno. Usciamo di qui. I suoi occhi sono neri e lividi proprio sotto gli zigomi. Sussulta quando la mia mano si allunga per toccarlo di nuovo. Mi ritraggo come se mi avessero dato uno schiaffo. Ma cazzo, non posso comportarmi più come un bambino offeso. Non posso cadere a pezzi ogni cazzo di volta che il mio cuore si lacera un poco, perché se lo fi, non sarei qui. Sarei perso come Roxy e Cricket e tutti gli altri. Sarei a pezzi come lo è Julian. Devo andare avanti e continuare a combattere, anche se sembra troppo, anche se il mondo sembra troppo pesante. Odio il fatto che non mi guardi negli occhi. Non so se è per l’effetto della droga che ha ancora in corpo o se invece Julian sia semplicemente scomparso, nascosto dentro se stesso in modo che nessuno possa raggiungerlo. In ogni caso, non è lui. Tutto ciò che lo ricorda è pallido ed evanescente. Nonostante tutto questo, quando lo guardo so di essere esattamente dove dovrei essere. Tutte le mie speranze, i miei sogni, le mie cazzo di fantasticherie portano a lui. Ancora. Anche in questo modo. Io appartengo a Julian. i pesanti scricchiolano attraverso il cortile di fuori e poi si fermano. Allarmato, guardo verso Julian che non reagisce, come se non avesse sentito nulla. Camminando in punta di piedi verso la fine della stanza, sbircio fuori dalla finestra ma non c’è nessuno. Aguzzo le orecchie ma a riempire il silenzio è solo il rumore martellante della pioggia che colpisce il terreno. E poi, fuori dal bar, qualcosa viene colpito e una voce bestemmia sottovoce e io, rapidamente scandaglio tutta la stanza alla ricerca di un’arma, qualcosa da usare per proteggerci. Vedo una barra di metallo piegata che una volta sorreggeva il pianale del tavolo che ho appena strappato dalla finestra. La porto in alto, il mio cuore batte troppo forte, il mio respiro è trattenuto mentre la porta della stanza

viene spalancata di botto. Espiro tremando. Non è l’uomo che mi ha rincorso alla fermata dell’autobus. Questo tizio ha forse vent’anni ed è vestito miseramente quanto lo siamo noi. Si guarda indietro come a controllare che questa non sia una trappola, poi rivolge lo sguardo verso Julian e me. I suoi capelli decolorati di bianco lo fanno sembrare una caricatura malamente disegnata, come se volesse essere qualcun altro. Diffido completamente di lui. Non so cosa vuole ma posso vedere come mi stia soppesando. Sposto la barra in modo da farla ondeggiare se necessario e avanzo un o di fronte a Julian. «Devo occuparmi di alcuni affari, ragazzo. Vai a giocare fuori» la sua voce è profonda e impone attenzione. I suoi occhi sono fissi su di me. Io mantengo la posizione. Sono terrorizzato da ciò che penso lui voglia da Julian. «E questo vuol dire levati dal cazzo.» Forse può vedere il modo in cui la barra sta tremando nelle mie mani, ma non mi muovo. Improvvisamente lui scatta e io agito la barra ma sono troppo lento e colpisco il muro, spandendo polvere e intonaco tutto intorno a noi. Lui ride glaciale, tuffandosi dietro di me verso l’altra parte del materasso. «È tutto a posto, Remee. Mettilo giù» dice Julian, sembrando sempre lontanissimo e sussultando come se parlare gli fe male. No, scuoto la testa. Come può essere tutto a posto? «Non ne ho abbastanza» sussurra Julian, non a me. Il tipo si piega verso di lui, e posso vedere il bagliore di una lama incollata all’interno del suo giubbotto. Cazzo Cazzo Cazzo, ha un coltello. I miei denti affondano nel labbro così in profondità da poter sentire il sapore del sangue. Non so cosa stia succedendo, ma da come si stanno mettendo le cose, così all’improvviso e in modo tanto familiare, l’impressione è terrificante. «Beh, adesso sono qui. Tu hai un debito con me e sai bene che non mi piace andarmene a mani vuote.» Il tizio alza le spalle con indifferenza mentre parla,

una durezza nei gesti che mi spaventa molto più del coltello che possiede. Le mie mani stanno sudando così tanto che è difficile tenere salda la barra di ferro. Il mio cuore sta battendo così forte da offuscare ogni altro suono, anche se non so se possono sentirlo poiché entrambi mi stanno ignorando. Non so cosa fare. «Non ho niente da darti, Vic.» Julian sembra appiattirsi ancora di più contro il materasso, le parole sibilano fuori dalla sua bocca come aria da una gomma bucata, quasi volesse semplicemente scomparire. La mano di Vic si avvicina per afferrare la spalla di Julian. Forse sta solo cercando di scuoterlo, ma la smorfia di lussuria disegnata sul volto mi dice che è altro e non penso a quello che faccio. Reagisco e basta, lanciando la barra contro il suo petto con tutto il mio peso e spingendolo via. Il colpo gli fa espellere via tutta l’aria e lo guardo attonito mentre vola all’indietro e rimane disteso tra i detriti dietro la finestra. Prendo una grossa boccata d’ossigeno e deglutisco. Non ho mai colpito nessuno in quel modo, prima. Julian mi guarda sbattendo le palpebre, la sua espressione è scioccata quanto la mia, la nebbia si va diradando davanti i suoi occhi. «Scappa» rantola poi. Cosa? Riesco a sentire Vic che si dimena per alzarsi ma non smetto di fissare Julian. Un tempo i suoi occhi erano più luminosi, il colore caldo e bello del sole in autunno. Quella luce se n’è andata. Non l’ho mai visto così terrorizzato. Sa che Vic ha un coltello. Lo sa perché qualunque cosa lui gli deva, per qualunque ragione, è stato minacciato con quello già prima. Scuoto la testa e mi muovo verso Vic. Quale che sia il modo in cui tutto questo finirà, non sarà con me che fuggo. Le due settimane appena ate sono state un inferno, le peggiori della mia vita; il fuoco qui, le mie mani ustionate, l’ospedale, la scoperta della fine di mia madre e sopra ogni cosa, Julian che mi ha lasciato. Oggi ne ho avuto abbastanza. Di tutto. Ho appena trovato l’unica persona che conti, per essa il mio cuore si è lacerato nelle ultime settimane, ho appena assaporato un sollievo indicibile. Ora questo stronzo con i suoi ridicoli capelli e

la sua stronzissima convinzione che tutto gli è dovuto, vuole portarmela via. La rabbia si attorciglia attorno a me come vapore. Sono arrabbiato per tutto quanto, per ogni cosa. Ma sopra di tutto sono incazzato per questa schifosa, desolata città di cemento, per tutta la gente come Vic che mi sta in piedi davanti, coltello alla mano, gente che pensa di poter continuare a prendere all’infinito, di poter distruggere tutto perché non ha la forza di smettere di cadere. Agito la barra con uno strano movimento sfocato. Posso a malapena vedere. Mi riempio di soddisfazione quando sento che la sbarra entra in collisione contro qualcosa, qualcuno, ma devo concentrarmi. Sto solo colpendo alla cieca, in ogni modo che posso. Il dolore mi morde un fianco ma non mi frega un cazzo e neppure il rumore: il grido quasi isterico di Julian mentre vengo spintonato all’indietro contro il materasso vuoto; mi sento improvvisamente debole mentre la furia evapora e si dissolve nell’aria. Penso mi abbia accoltellato. Il pensiero mi sbatte di nuovo di fronte alla realtà. Mi siedo. Julian ha la sbarra tra le mani. Le sue spalle stanno tremando. Vic è crollato in un ammasso ai suoi piedi. Il coltello è sul pavimento, coperto di polvere e sangue. Mi trattengo il fianco. Non c’è molto sangue. Pizzica soltanto un pochino. Mi tiro su e con le ginocchia traballanti cammino verso Julian. Non penso che possa restare in piedi ancora per molto. Le sue gambe sembrano sul punto di cedere. Lascia cadere la sbarra e si aggrappa al muro. Tutto è così silenzioso. Dei tremiti corrono attraverso la mia mano quando la appoggio sulla sua spalla. Lo sento irrigidirsi, si volta e mi guarda il fianco con ansia. «Ti ha colpito.» Sembra vicino a svenire, ma per lo meno non è più così distante e irraggiungibile. Sto bene. Va tutto bene. «No. No, non va affatto bene...» risponde deglutendo. Sembra che stia per vomitare. Vic non si muove. «Devi andartene da qui.»

So che fatica sta facendo per restare in piedi. Posso scogliere lo sforzo dalla sua stessa voce. Dobbiamo uscire di qui. «Ti hanno trovato una famiglia.» Non è una domanda. Mi chiedo se gli sembro in qualche modo diverso, adesso, e non posso neppure sopportarne il pensiero. Alzo le spalle. Penso che lo abbiano fatto, ma allo stesso tempo no, non l’hanno fatto. Tu sei la mia famiglia, gli faccio segno. Lascia cadere la testa e so che ci sono lacrime nei suoi occhi, di nuovo. Non lo sopporto. È troppo. «Tu devi andare via di qui, Remee. Per me è la fine.» Sembra così vacuo. No, non senza di te. Inizia a crollare sul pavimento, il suo sguardo è ovunque nella stanza, chiedo quando sia stata l’ultima volta che ha mangiato. Vic tossisce pesantemente, con gli occhi ancora chiusi. Ha un taglio profondo e insanguinato su un lato della testa. Vieni fuori e chiama un’ambulanza. Gli porgo il telefono. Poi per favore, permettimi di comprarti qualcosa da mangiare. Per favore. Julian emette un suono a metà tra la risata e il singhiozzo. «Non ho più fame, tesoro.» Arrivi a un punto in cui devi smettere di discutere con le persone e andare semplicemente avanti. Controllo la stanza cercando qualcosa che possa ancora appartenere a Julian. Non mi meraviglia il fatto che non vi sia nulla. Poi afferro il suo braccio, mi sistemo sotto la sua spalla per sostenerlo e lo aiuto a mettersi in piedi, iniziando a camminare.

Non cerca di fermarmi. Forse avverte il peso della lotta che dovrebbe affrontare se lo fe. La pioggia ha smesso di cadere e sebbene l’aria sia ancora aspra di freddo, la nebbiolina sembra essersi alzata, le nuvole evaporate. Lo sostengo mentre compongo il 999 e gli tengo il telefono all’orecchio in modo da permettergli di chiamare un’ambulanza. Voglio solo stargli vicino. Non ho idea di come gli farò oltreare la staccionata. Ma pare subito chiaro che non devo farlo: ovvio che ci sia una porta. Usciamo fuori, in balia dell’argine ventoso. Julian si appoggia pesantemente contro di me ma io voglio questo peso addosso. «Non dalla sorella di Cassey» mormora. So che vuole dire il bar. Okay, faccio segno. Non mi volto indietro.

C’è una luce che non si spegne mai

Il vento gelido soffia a raffiche sull’acqua agitata, facendomi desiderare di essere ovunque ma non vicino a questa striscia grigia di fiume. Il freddo pungente che trasporta è così familiare che fa male ricordare tutte le volte che ne ho sofferto qui fuori e in questo modo. Stringo di più Julian a me, il mio braccio sotto la sua spalla, aggrappandomi a lui tanto quanto lui lo sta facendo con me. Questa volta è diverso; deve esserlo. Con una lentezza dolorosa attraversiamo il ponte e incespicando ci allontaniamo dall’argine andando verso Vauxhall. Non voglio sentire l’ambulanza che arriva. Voglio essere quanto più lontano possibile da quel posto. Voglio dimenticare tutto ciò che è successo, ma Julian è pesante e il mio fianco fa male più di dieci minuti fa quando l’ho trascinato fuori. Devo fermarmi da qualche parte, ovunque purché non in questo freddo. Stretto tra una lavanderia a gettoni e un negozio di oggetti sacri, c’è un piccolo bar che ho probabilmente sorato un centinaio di volte senza mai fermarmi a prenderlo in considerazione. Non ci tollerano molti bar qui attorno. Quando non hai nessun altro posto dove andare, la maggior parte della gente non ne vuole sapere. Preferiscono tu sparisca, piuttosto, in modo da poter fingere che non esisti. Il Caffè di Cassey era l’unico che noi conoscevamo. Ma non sono più quel ragazzino senzatetto di un tempo. Mi colpisce come un pugno a tradimento il fatto di quanto sia tutto differente, di come tutto sarà differente. Vedo delle crepe intorno a me. Il mondo che conoscevo si sta sgretolando come vetro colorato. Mi dirigo verso la luminosità del Caffè. Un paradisiaco calore ci avvolge non appena entriamo. Ci sono quattro o cinque tavolini di plastica con brillanti fiori di plastica dentro vasetti di plastica. Alcuni operai in tuta arancione sono seduti e mangiano una colazione tardiva. Sebbene non mi prestino attenzione, so che ci noteranno con la nostra espressione

stralunata e i vestiti striati di fuliggine, ma non mi importa. Aiuto Julian a sedersi in uno dei tavoli liberi in un angolo vicino a una finestra appannata. Poi mi dirigo verso il bancone per ordinare quanti toast con bacon e uova mi possa permettere con il denaro di Crash. Lui aiuterebbe volentieri, mi dico mentre tiro fuori due fogli da dieci dal suo portafogli, sebbene faccia male pensare al perché. Un giorno, ho intenzione di ripagarlo per tutto questo. Per tutto. Scrivo il mio ordine per due colazioni complete e due tè su un tovagliolo e lo porgo insieme al denaro alla ragazza dietro il bancone. Sembra strano ordinare così tanto cibo, avere questo denaro in mano e non pensare di continuo a quante cose ci si potrebbero comprare per poi lasciar are senza considerarlo nemmeno. È come se avessi fatto un o dentro un’altra vita, una troppo grande per me tanto da non ritrovarmi ancora del tutto in essa. La ragazza è giovane e indifferente. Non mi guarda davvero. Mi dice semplicemente che porterà tutto al tavolo quando sarà pronto. Annuisco ma vorrei che Cassey fosse lì in piedi. Vorrei che fosse lei qui a preoccuparsi e a sgridarci e invece sono solo io che mi chiedo ansiosamente come poter sistemare le cose mentre Julian guarda desolato fuori dalla finestra e non mi parla. La mia sedia scricchiola troppo forte sul pavimento mentre la tiro indietro e mi siedo. Sussultando, porto le dita ghiacciate sui fianchi sotto i vestiti percependo l’umida scia di sangue sulla maglietta e notando con impazienza come il taglio arrivi proprio sopra il giubbotto di Crash. Il fianco intero mi duole profondamente e anche se l’aria attorno a noi è calda, tremo dal freddo ora che ci siamo fermati. «Remee?» dice dolcemente Julian. Ha un aspetto distrutto e malato e so che non è solo fame. So che è più di questo e vorrei potergli mettere le braccia attorno e in qualche modo fargli sentire che andrà tutto bene, ma non sono sicuro di come reagirebbe, non sono sicuro di poter sopportare un possibile rifiuto come una foglia che si affidi al vento. Ho bisogno di qualcosa di più. «Vieni qui, fammi vedere.» Sto bene, faccio segno perché non voglio che si senta in colpa e so che lui si sente così. I suoi occhi lo tradiscono. Lo hanno sempre fatto.

Per favore, mi fa segno di rimando, abbassando la testa. Sorrido un poco, nonostante tutto, perché sebbene sappia che lui mi capisce, ha usato sempre così poco il linguaggio dei segni che mi dimentico ne sia capace. Sposto la sedia accanto a lui e sollevo il giubbotto di Crash, trattenendo il respiro quando le sue dita fredde sfiorano la mia pelle. Lo strano mix di piacere e pena che provo mi fa tremare. Chiudo gli occhi, non sono sicuro che la sensazione mi piaccia, ma desidero che lui non smetta. La sua mano si piega a coppa sul fianco sopra la ferita, la pressione mi fa ansimare e lui mi lascia andare per far scivolare un tovagliolino sopra la pelle. Incrocio il suo sguardo. Qualcuno ci sta guardando, ma Julian non sposta la mano. «È solo un taglietto. Sembra sollevato sebbene io possa vedere il mio sangue fiorire sulle sue dita, imbrattando il bianco del tovagliolo come una marea rossa che si muove lentamente. So di dover pulire la ferita e di doverla fasciare con qualcosa di sterile. Potrei pulirmi qui, c’è sempre una toilette decente questi posti, ma non voglio lasciarlo. Ho paura che lui se ne vada. So che è stupido pensarla così. Potrebbe andarsene in qualsiasi momento volesse, ma non posso sopportare il pensiero di Julian che scompare dalla mia vita dopo aver detto appena una parola. La ragazza ci porta le colazioni. Il mio telefonino vibra mentre le posa sul tavolo e penso di ignorare il messaggio, ma come potrei, dopo tutto quello che è successo? Lo estraggo dalla tasca. Naturalmente è da parte di Crash. Sono qui, se hai bisogno di me. Ci sarò sempre. È tutto ciò che dice. La mia gola si stringe mentre osservo quelle parole, pensando a lui. A quanto vuole preoccuparsi. A quanto voglia esser qui. Per me. A come mi sono sentito quando lui mi ha tenuto tra le sue braccia la scorsa notte, quando pensavo che non avrei più rivisto Julian. Faccio scorrere una mano sui capelli. Non so se voglio rispondergli proprio adesso. Non so cosa dire.

«La tua famiglia?» mi chiede Julian sottovoce, prendendo tremante la forchetta e guardando al suo piatto pieno di cibo come se non avesse idea di cosa farne. Vorrei che non li chiamasse così. Un amico. Crash. Mi ha dato questo telefono. «È preoccupato per te?» Faccio spallucce. Vorrei che mangiasse, in questo momento mi sembra più scombussolato di quanto non lo sia io. Odio il modo in cui le sue mani stanno tremando. Mangia, lo supplico sebbene il mio stesso stomaco sia stretto da un enorme nodo di incertezza e non potrei sentirmi meno propenso a mangiare. «Non posso» sussurra rauco. Allungo un braccio, non posso farne a meno e poiché non mi respinge, gli afferro la mano. Improvvisamente il petto e le spalle iniziano a scuotersi come se stesse tossendo. Cerca di coprirsi la bocca per fermare il rumore e mi rendo conto con angoscia che sta singhiozzando. La toilette è dietro una porta vicino al bancone. È piccola e buia e odora di muffa e di disinfettante al pino. C’è a malapena spazio per restare entrambi in piedi davanti al piccolo lavandino e al minuscolo water bianco, ma sono troppo sconvolto per preoccuparmene. Spingo dentro tutti e due, tenendolo stretto, desiderando di dirgli che andrà tutto bene. Ma non so come indurlo a crederci. Forse sono stato un ingenuo prima e non è affatto la mia vecchia vita che sta cadendo a pezzi. Forse è quella di Julian che si sta sgretolando qui, tra le mie braccia e allora come farò a essere forte abbastanza per tenerlo insieme? Alla fine il suo respiro diventa più regolare e sento le sue labbra che si spostano calde sul mio orecchio. È ciò che ho agognato, di cui ho sentito l’immensa mancanza, ciò per cui mi sono disperato, la sensazione è così forte che voglio tirarlo su di me e rotolare in una sorta di inferno di carezze e sensazioni, al punto

che quasi non sento le sue parole. «Non mi devi niente, Remee» mormora, cercando di nascondere la pena nella voce sussurrando. «Per favore, ti prego, torna da loro. Tu meriti molto più di questo.» Lo tengo più stretto, ma non posso fermare le parole che, incandescenti, tagliano più in profondità di quanto dovrebbero perché mi pare stia cercando di dirmi addio. Come può pensare che lo possa lasciare in questo stato? Non si rende conto che anche lui si merita molto più di questo? Mi allontana per guardarmi negli occhi, la sua mano sta tremando mentre le dita mi toccano la guancia con un solo, esitante gesto. Cerco di ricacciare indietro le lacrime sbattendo le palpebre e distolgo lo sguardo, troppo abbattuto per cercare di fare luce sui miei sentimenti, per cercare di convincerlo di quanto si stia sbagliando. Ci puliamo come meglio possiamo, non mi tocco il fianco. Me ne occuperò più tardi. Rientriamo nel bar. Il cibo è freddo e le parole di Julian mi rimbombano nella testa. Mi siedo e mangio con metodo, senza assaporare nulla, fino a che tutto è andato. Con la coda dell’occhio vedo Julian che consuma lentamente il suo toast e poi il bacon. Non è tutto quello di cui ha bisogno. I suoi tremori non sono dovuti solo alla fame. Non lo guardo fino a che non ha finito. Poi mando un sms a Crash. Sto tornando, scrivo. Le mie dita si muovono rigide sui tasti, so che sto forzando una scelta che più tardi, forse, rimpiangerò. Gli chiedo che autobus devo prendere e a che fermata devo scendere. Mi invia immediatamente un messaggio e dalle parole che usa posso intuire quanto sia felice. Julian mi guarda attraverso la tavola sebbene faccia finta di ignorarmi e posso intuire quanto ciò lo ferisca.

Metto i nostri piatti uno sull’altro e lo aiuto ad alzarsi. Non mi chiede dove stiamo andando. E sebbene di facciata non voglia protestare mentre lo conduco alla fermata dell’autobus vicino al fiume, sento la sua resistenza. Il movimento della vita al di fuori è una nebbia che non riconosco più. Tutto ha perso di significato. Il peso che avverto minaccia di schiacciare tutto il resto. Non siamo soli alla fermata dell’autobus, ma non presto attenzione a nessun altro. Ci siamo solo lui e io e ho cose che ho bisogno di dire. Il mio cuore desidera che Julian capisca. Lo spingo a sedere su una delle scomode seggioline di plastica rossa e mi accomodo di fronte a lui. Tu dici che non ti devo niente ma è una menzogna, e oltre tutto, sei tu che hai un debito con me! I suoi occhi stanchi si spalancano verso la direzione che sto prendendo e la loro espressione abbattuta si incupisce. Mantengo i nervi saldi. Non posso fingere che nonostante il sollievo di averlo ritrovato non sia incazzato nero con lui e che voglia nasconderglielo, perché invece lo sono e tanto. E ho bisogno di assaggiare la superficie di questa rabbia prima che inizi a consumarmi. Mi hai promesso che ci saresti stato. Scuoto la testa quando la sua mano cerca di toccarmi. Non mi importa neppure di asciugarmi le lacrime. Che avresti fatto di tutto per me. Lui annuisce, ferito, e poi mi guarda, vedendomi sul serio per la prima volta e so che il traffico, la gente, l’intero cazzo di mondo svanisce anche per lui. Non voglio che smetta mai più di guardarmi così. Non salirò su questo autobus, gli faccio segno, a meno che tu non ci salga con me e stanotte non resti insieme a me. Se vuoi andartene domattina, non ti fermerò. Dopo tutto, mi devi almeno questo. Incrocio le braccia con espressione testarda, cercando di apparire forte quanto le mie stesse parole, ma le lacrime stanno ancora scendendo sulle guance. Ecco, è questo, è tutto quello che ho e se lui non mi vuole più... Julian lascia ciondolare la testa e per un orribile secondo penso che stia per dire no, ma invece di pronunciare qualunque parola, mi attira tra le braccia e

appoggia la testa sul mio ventre, stando però ben attento al fianco. Non posso sopportare l’idea che qualcuno possa conoscermi quanto lui. L’autobus arriva e saliamo. Lo attiro a me lungo il corridoio e ci stringiamo in uno dei sedili laceri sul retro, il pavimento è appiccicoso al contatto con i nostri piedi. Chiudendo gli occhi, Julian riposa timidamente con la testa sulla mia spalla e io gli metto un braccio attorno, attirando la sua figura scheletrica contro il mio fianco sano. Il suo petto sale e scende tremolante ma in modo regolare sotto la mia mano, non so a che punto siamo noi due, ma questo, per lo meno è un inizio. Londra si muove lentamente al di là del finestrino; i fumi nerastri del traffico impestano l’aria. Se non rivedrò mai più questo posto, non credo che ne sentirò la mancanza. Senza volerlo inizio a preoccuparmi di ciò che ho appena fatto. Non ci sono garanzie che Kate e Peter vorranno prendersi carico di un altro ragazzo senzatetto, anche se solo per una notte. Non so neppure se Pasha sia ancora con Cash, sebbene non possa credere che Crash lo abbia lasciato andare via. Mi aspetto che abbia coinvolto Estella. E anche se lasceranno che Julian resti per la notte, dopo cosa succederà? Cosa ne sarà di noi domani, alla fredda luce del mattino? Cosa farò se Julian vorrà andarsene? Ho detto che non lo avrei fermato, ma erano solo parole, e la promessa che ho fatto a me stesso di esserci per lui esattamente quanto lui per me, è molto più forte.

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Prendi la mia mano

Anche se Crash non ci stesse aspettando sul marciapiede, appoggiato al segnale stradale che indica la fermata dell’autobus, me la sarei ricordata dal mattino. Qualunque cosa succeda, non dimenticherò mai questa strada delineata dagli alberi, le sue case nascoste, il verde irreale sotto il cielo grigio senza fine. Mi sento più calmo e più composto nei confronti di questo verde rispetto a come mi sono sentito prima nella mia vita. Sto iniziando a rendermi conto che forse ne ho bisogno in un modo che non ho mai immaginato possibile, a parte la necessità di disegnare. Non i giardini perfettamente curati e le siepi così ben tagliate, magari, ma i posti più selvaggi che non ho mai visto. Foreste, boschi, boschetti, vallate, la bellezza calma e antica in essi contenuta, più la sensazione di qualcosa che annulli il peso morto del cemento che mi ha schiacciato per così tanto tempo. Un posto che sia libero. L’autobus accosta al marciapiede e Crash, ansioso, controlla entrambe le uscite del mezzo prima di vedermi e rilassarsi. All’improvviso sono colpito da quanto diverso sia rispetto al ragazzo che ho al fianco, di quanto sia giovane e pieno di energia senza confini, una forza che si muove di continuo in avanti, senza guardarsi mai indietro, forte abbastanza da cancellare qualunque marchio la strada gli abbia lasciato. Semmai la forza di Julian risiede all’interno: lui sempre serio e pensieroso, il suo calore una luce che ha brillato in così tanti posti oscuri, quella sua necessità di prendere il peso del mondo su di sé; questi i suoi maggiori attributi. E la pena che non sarà mai del tutto cancellata. Le cicatrici, troppo profonde, esattamente come le mie. Scendiamo dall’autobus, aggrediti improvvisamente dall’aria gelida. Crash sorride luminoso, sebbene quella lucentezza sfochi non appena vede Julian stretto contro il mio fianco, a malapena in grado di tenersi in piedi. Immediatamente Crash si fa avanti per aiutare, cingendo la vita di Julian e accollandosene il peso. Sento che Julian si tende al suo tocco e si irrigidisce allontanando il braccio di Crash.

«Sto bene» mormora, sebbene gli ci voglia uno sforzo e non può nascondere affatto quanto stia tremando. Crash annuisce; sembra imbarazzato e fa un o indietro. Lui è Julian, faccio segno. L’ho immaginato, gesticola Crash. Si guardano sospettosi e mi sconvolge il sottile fremito di tensione, simile a un crepitio di elettricità statica, che scorre tra loro come se non sapessero bene come comportarsi e debbano tenere la guardia alta. Non me l’aspettavo. Allungando una mano, Julian afferra il cartello stradale. Lo guardo, preoccupato che possa cadere per terra. Stai bene? Crash mi fa segno, accigliato. Cazzo, sta guardando al suo giubbotto. Sì... mi dispiace per il tuo giubbotto. Mi mordo il labbro non sono sicuro di volergli raccontare del coltello che lo ha traato. Non preoccuparti, mi fa segno. Quello è sangue? Alzo le spalle a disagio. Come sta Pasha? Sta dormendo in casa. «Pasha?» chiede Julian, confuso. Annuisco, non voglio rivivere il momento in cui l’ho trovato in una sorta di caverna buia, ma non riesco a fermarmi. Mi terrorizza il pensiero di quanto fosse vicino ad andarsene, sebbene non tanto quanto Julian quando l’ho ritrovato. Non voglio mai più are attraverso momenti come quelli. L’ho trovato stamattina sotto l’argine, assiderato e malato. Ho creduto stesse

morendo. Il mio sguardo scatta verso la strada, incapace di guardare Julian negli occhi mentre digito quelle parole. Stressato, Julian si porta una mano tremante sui capelli. Vorrei solo portarlo dentro. «Sta bene?» Penso di sì. Crash lo ha portato qui. Vedo Crash annuire con la coda dell’occhio, i suoi capelli soffici cadergli sugli occhi. «Gli ho detto di non tornare più là. Gli ho detto di andare da Cassey» mormora Julian più verso il selciato sconnesso che a noi. Ma qualunque cosa possa essere stata detta, non ha importanza. Quello che conta è che Pasha è qui, al sicuro. Il cielo si sta aprendo, ma è ancora così freddo e i vestiti di Julian non sono abbastanza caldi. Non è in condizioni di restare in mezzo a noi. Prendendo un respiro profondo e tremante, faccio segno a Crash: Julian ha bisogno di restare qui per stanotte. Con gli occhi spalancati, Crash ci guarda come se non sapesse cosa dire. Niente sta andando come lo avevo immaginato. Ho creduto che mi avrebbe anticipato in merito. Kay ha chiamato Estella per parlarle di Pasha. Sarà qui tra poco. Il mio stomaco si riempie di qualcosa pesante e turbolento. Sa che non posso chiederglielo di nuovo. Guardo lontano, temendo che lui possa vedere quanto queste sue parole mi abbiano reso ansioso. Quando Estella arriva, tutto dovrà essere ufficiale e complicato. So che lei sta solo facendo il suo lavoro, che vuole trovare ai ragazzini come Pasha o come me un posto in cui vivere, ma non è abbastanza per compilare correttamente tutti i documenti e spuntare tutte le dannate caselline. So che mandare Pasha con Crash

è stato uno sparo nel buio, ma avevo semplicemente sperato... Non so cosa avessi sperato, solo che fosse più semplice di così, che avremmo avuto più tempo. Il peggio arriverà quando vorrà mandare anche Julian in qualche rifugio. Allora sarà andato anche lui. Mi sento senza speranze. Tutto sta andando così male. Nessuno parla per un po’. È come se stessimo cercando di recuperare l’equilibrio. Crash alla fine si rivolge a Julian, ci prova. «Vuoi venire dentro e ripulirti, allora?» domanda in quel suo modo scrupoloso. Grazie, gli fa segno Julian. Crash indica verso il marciapiede dove c’è un cancello nascosto in mezzo a un groviglio di siepi. Lo sguardo di Julian scatta rapidamente su di me. Dietro alla facciata sicura che cerca di mostrare al mondo, posso vedere quanto si senta disperato, anche se per ragioni differenti dalle mie. Così vorrei stringerlo tra le mie braccia e nascondere la mia faccia nella calda pelle del suo collo per fargli sapere che tutto andrà a posto, che staremo bene, proprio come lui mi diceva un tempo. Ma non funziona sempre così. Non c’è una scappatoia facile, anche se vorrei che ci fosse. Seguiamo Crash in strada e poi attraverso il cancello del giardino. I movimenti di Julian sono rigidi e scoordinati, come se ogni o fosse doloroso. Con cautela gli rimetto un braccio attorno, confortato dal fatto che non mi spinge via. Sono spaventato dalla distanza che avverto tra noi tanto da temere che potrebbe farlo. La nebbiolina e la pioggia hanno reso il giardino di un verde profondo; è come

se tuta la musica che ho dentro di me, per una volta, sia nell’intonazione giusta e l’odore degli alberi e dell’erba è così intenso che mi colpisce i sensi. Mi pare di vedere chiaramente le cose per la prima volta. Niente a che fare con gli acquazzoni che abbiamo sopportato quando vivevamo in strada, la pioggia grigia che si stagliava attraverso le vie lerce, agitandosi nell’oscurità senza mai annientarla. Quando Crash spalanca la pesante porta d’entrata e ci inoltriamo nell’atrio di legno scuro, so che non sono più l’unico a sentirmi come se non dovessi essere qui. Mi chiedo se mi abituerò mai a vivere in un posto simile, se mai lo darò per scontato, se smetterò mai di sentirmi in imbarazzo e, ora che Julian mi è al fianco, se potrò mai smettere di desiderare un posto che sia tutto nostro. Solo per noi due. Se volete andarvi a rinfrescare, io intanto vado a parlare con Kay. Ci sono degli asciugamani in uno dei mobiletti in alto, sul pianerottolo, ci fa segno Crash, guardandomi a malapena. Improvvisamente mi spaventa il pensiero di come si risolveranno le cose, ma non mi offro di andare con lui a parlare a Kay. Prendo la mano fredda di Julian e lo conduco su per le scale. Faccio scorrere l’acqua per un bagno, cercando negli armadietti il bagno schiuma e lo shampoo. Intanto Julian si siede sulla tavoletta abbassata del water, con la testa tra le mani. Dicono che profumi diversi possano farti sentire in modo differente, così scelgo un vasetto di Sali che leggo fanno rinvigorire e li verso dentro l’acqua. Profumano di fresco e promettono esattamente ciò che fa il mare, sebbene non l’abbia mai visto. Mi piacerebbe scivolarci dentro, solo per abbandonarmi all’acqua calda, sospeso, in paradiso. Le docce sono piacevoli ma non sono affatto la stessa cosa. Tocco un braccio di Julian. Vuoi che ti lasci solo per un po’? Non voglio che mi dica di sì, ma percepisco il suo desiderio di stare con se stesso. Ci sono segreti, cose di cui potrebbe vergognarsi, che verrebbero rivelate dalla mappa che è la sua pelle. Annuisce, gli occhi lucidi, prima di afferrare la mia mano. «Non potrò mai dirti quanto mi dispiace di averti deluso» sussurra. «Non ho mai

avuto intenzione di deluderti.» Mi lascio cadere sulle ginocchia davanti a lui, gli asciugo le lacrime con il pollice. Capisco, gli faccio segno, deglutendo, scrutando il profondo oro dei suoi occhi. In quel momento penso che sia così. Si porta la manica lungo il viso, un gesto che lo fa sembrare tanto più giovane e tanto più sperduto, restituendomi il più triste dei sorrisi. Vedo se riesco a trovarti qualche vestito decente, gli dico, pensando agli abiti sparpagliati in modo confuso sul pavimento della camera di Crash. Gli stringo la mano e mi alzo e, notando che nella serratura non c’è chiave, accosto la porta. Mi aggiro nel corridoio del piano di sopra, immaginando che Kay e Crash siano dabbasso intenti ad avere una conversazione silenziosa su tutto questo. Non sarei sorpreso se Kay desiderasse non fossi mai venuto qui. Non intendo andare a cercare Pasha, ma nessuna delle porte è chiusa a chiave. Le stanze sono gusci vuoti, camere per gli ospiti con letti rifatti diligentemente e un identico arredamento per tutte. Spalanco una delle porte a caso, è quella in cui sono stato per poco la scorsa notte, che dà sul giardino. Le tende sono sempre tirate sopra le finestre alte, la stoffa è sottile abbastanza da permettere al bagliore dolce della luce del giorno di filtrare attraverso i vetri. Pasha è spaparanzato sotto una delle coperte del letto nel quale io non ho mai dormito, così magro e pieno di lividi ma dall’aspetto completamente rilassato e immerso in un sonno più profondo di quelli che ha mai avuto sulle strade. Non sento Kay avvicinarsi alle mie spalle e quasi sfreccio quando pronuncia il mio nome. «... mi dispiace, non volevo spaventarti.» Devo sembrare terrorizzato. Dopo aver vissuto come ho vissuto io, non molte persone riescono a farmi uscire di testa per una qualche buona ragione.

Sembrando più giovane di quanto sospetto che sia, sistema una ciocca di capelli dietro l’orecchio e sorride in modo triste, sebbene l’ultima cosa che voglio da lei sia la sua pietà. «Sono contenta che tu sia tornato...» Mi guardo le mani, ma non riesco a far uscire le parole. Sono tornato? Non mi sono mai sentito meno sicuro di qualunque decisione presa rispetto a quella che ho preso portando qui Julian, e ora devo semplicemente cavalcarla. «Il tuo amico è il benvenuto qui per stanotte, ma domani dobbiamo trovargli una sistemazione più adatta. Estella verrà presto per parlartene.» Per un secondo non capisco se stia parlando di Pasha o di Julian. Non so cosa Crash le abbia detto o se sappia persino che Julian è nel suo bagno a lavarsi. Ma quando guarda oltre le mie spalle, verso la stanza di Pasha, colgo nei suoi occhi preoccupazione, paura e qualcos’altro. So che si riferisce a Julian quando dice che è quello che non può restare. Annuisco, rassegnato. Julian non vuole comunque restare qui. Lo sapevo fin dall’inizio. Solo non volevo ammetterlo. Un’improvvisa fitta di dolore mi fa piegare e mi fa trattenere il fianco. Kay mi guarda da vicino. C’è un altro bagno dove posso ripulirmi? faccio segno in fretta. E poi, siccome devo domandarlo. Hai altri vestiti? Penso di aver lacerato i miei. «Mi sembra che tu abbia parecchio male. Posso vedere?» Scuoto la testa con troppa fermezza, non insiste. Questa è probabilmente la più lunga conversazione abbiamo mai avuto. Mi conduce in una stanza grande prossima a quella di Crash. La finestra è aperta e posso assaporare la brezza fresca e verdeggiante che ondeggia attraverso le lunghe tendine. In un angolo c’è un bagno privato. «Ti mando Crash con il kit del pronto soccorso.» Annuisco riluttante nel rendermi conto di dovergli raccontare cosa è successo.

Di nuovo noto che non c’è la chiave nella serratura della porta, chiudo e lentamente mi sfilo il giubbotto di Crash e mi tolgo la maglietta insanguinata dalla testa. Ma, anche se sono cauto, il movimento mi fa strizzare gli occhi e aggrappare al lavandino di porcellana per lasciar svanire il dolore che mi colpisce, così acuto e intenso da farmi intendere a malapena Crash che bussa. Ancora scosso, gli apro senza pensare di coprirmi la ferita. O Mio Dio, cosa ti è successo? Crash osserva preoccupato il mio ventre. Posso sentire il sangue scorrermi sull’anca. Il taglio deve essersi aperto di nuovo. Abbasso lo sguardo per studiarlo. È solo di tre o quattro centimetri di diametro, ma credo sia più profondo di quanto ho giudicato inizialmente. Con equilibrio malfermo, faccio un o indietro cercando di sedermi sul bordo della vasca da bagno, ma calcolo male la distanza e finisco sul pavimento. Vado a chiamare Kay. Un tempo era un’infermiera. Non farlo. Lo raggiungo e afferro il braccio di Crash per fermarlo. Va tutto bene. Mi sento solo un po’ intontito. Infilo la testa tra le ginocchia mentre Crash apre il kit del pronto soccorso e sento un batuffolo di cotone adagiato sul palmo. Mi guida la mano in basso, verso il fianco e la adagia contro la ferita. Sibilo e annaspo al contatto. Crash chiude le dita sulle mie e si siede vicino a me, tenendomi ancorato a sé finché il pulsare non è svanito e io sento come se il mondo tornasse a formarsi attorno a me. Cosa è successo? mi fa di nuovo segno Crash, prima di aprire una confezione di garze sterili e sistemandoci sopra alcune strisce di cerotto. So che non mi lascerà in pace finché non gliel’avrò detto. Uno stronzo con un coltello. Solleva un sopracciglio ma non smette di fare ciò che sta facendo. Qualcosa a che fare con Julian? Non esattamente. Voleva qualcosa da lui. Distolgo rapidamente lo sguardo. Non

posso esprimere come l’idea che Julian venga toccato da qualcun altro mi fa sentire. Crash si alza in piedi e si lava le mani prima di guardarmi con attenzione in cerca di un segno di dolore. Poi, pulendo con delicatezza i bordi della ferita, vi preme uno Steril-Strip lungo tutta la lunghezza per impedirle di riaprirsi facilmente. Kay ti farà una puntura antitetanica. Sei arrabbiato perché l’ho portato qui? Lievemente innervosito dalla mia domanda, Crash si volta e si lava di nuovo le mani. Semplicemente non voglio vederti ferito, mi fa segno quando si gira di nuovo. Ma cambia rapidamente argomento. Hai fame? Estella sarà qui tra cinque minuti. No. Posso chiederti in prestito qualche vestito per Julian? Senza più incontrare il mio sguardo, Crash annuisce. Estella è giù dabbasso. Posso sentire la sua voce. So che dovrei superare la cosa, ma davvero non ho voglia di vederla. Non ho bisogno che mi ricordi che non ho controllo su tutta la situazione. Prendo i vestiti di Crash per Julian e aspetto Julian fuori dal bagno. Quando esce, la differenza del suo aspetto è scioccante, non riesco a togliergli gli occhi di dosso, a non guardarlo fisso. L’acqua calda gli ha lavato via l’orrore di questa mattina e ha ridato alla pelle un’eco lontana del bagliore che un tempo splendeva sempre. Ho voglia di toccarlo e intendo solo la mano. Estella è nell’atrio con Kay, le braccia piene di faldoni, i capelli fiammanti raccolti in una morbida coda di cavallo. Fa un sorriso tirato quando mi vede e so che qualcosa non va. Il terrore si intrufola in ogni parte del mio essere. «Vorrei un momento da sola con Romeo» dice bruscamente a Kay.

«Potete usare lo studio, se volete» risponde Kay un po’ frastornata e indica una porta chiusa al di là dell’atrio. Istintivamente, prendo la mano di Julian e lo tiro dietro di me. Estella sospira non appena se ne accorge. «E tu sei?» domanda inquisitoria, tenendo aperta la porta. «Julian» risponde lui. Lo studio è buio, gli scuri massicci sono ancora tesi sulle finestre. Estella preme un interruttore e due bellissime applique decorate appese a metà sulla parete illuminano la stanza. Mi sento come se fossimo trasportati indietro nel tempo. Non ci sono preamboli. «Romeo, sei stato implicato in un’aggressione questa mattina in un edificio pericolante vicino al Tamigi.» Inorridito faccio un o indietro, le mie ginocchia toccano un vecchio divano chesterfield di cuoio, cosa che mi toglie il respiro. Julian rimane in piedi. Aggressione? Non riesco a credere che Vic abbia sporto denuncia. «La vittima ti ha identificato attraverso questi.» Estella estrae fuori uno dei manifesti piegato più volte dalla sua borsa. Quell’immagine mi perseguita. «Sai nulla di questi manifesti? Sono appesi ovunque la stazio...» «Romeo non ha niente a che farci. Sono stato io» la interrompe Julian, restando dritto, parlando in maniera più ferma di quanto lo abbia mai sentito parlare da tanto tempo. «La polizia ha controllato le telecamere a circuito chiuso. Si vede Romeo entrare nell’edificio.» «Era in un’altra stanza, non ha visto cosa è successo.»

Non so perché stia mentendo. Non posso permettergli di assumersi la colpa. Non glielo lascerò far. No. Mi alzo in piedi, mettendomi tra Estella e Julian. Sollevo il maglione. Mi ha accoltellato. Faccio segno. Julian mi stava solo proteggendo. «Allora devi rilasciare una tua dichiarazione alla polizia. Questo è nelle loro mani.» Si pizzica l’attaccatura del naso e scuote la testa, stancamente. «Cosa stavi facendo lì, Romeo?» Sentendomi sconfitto, stringo le mie braccia attorno al petto incapace di sopportare più tutto questo. Cercavo Julian. «Non puoi semplicemente portare tutti qui. Kay e Peter non sono una sorta di porta aperta!» Mi asciugo le lacrime e sento la mano di Julian che afferra il mio maglione e mi attira di nuovo a sé. Il suo cuore martella contro di me così forte da sentirmelo quasi battere in petto. Il mio intero essere lo desidera ardentemente; ogni cellula del mio corpo invoca il suo nome. Chiudo gli occhi e sento le sue braccia stringermi delicatamente i fianchi e so che vorrebbe avvolgerle attorno a me, ma che si trattiene. Estella sospira di nuovo. «Ho altre cose che devo risolvere con Kay. Dato tutto ciò che è successo» guarda fisso verso il mio fianco «è nel tuo pieno interesse rilasciare quella dichiarazione quanto prima possibile. Farò sapere alla polizia che sei qui.» Quando usciamo e andiamo in cucina, Julian sembra agitato. Resta in piedi davanti alla porta finestra che dà sul giardino, guarda due uccellini che saltellano sul prato, la mano sulla bocca. Kay ci porta dolciumi e tè, ci sediamo attorno alla lunga tavola; Julian si accomoda vicino a me, Crash all’opposto, Kay ed Estella a capo tavola. Sembra tutto così innocuo fino a quando Estella non inizia a parlare.

«Julian, temo tu non possa restare qui» dice, indifferente a come io sbalzi indietro dal tavolo. «Sei in astinenza» continua come se fosse una spiegazione. Julian annuisce tremante, la sua espressione addolorata. «Peggiorerà prima di migliorare. Dovresti stare in un posto con persone che ti possono aiutare a superare le crisi. Kay e Peter non hanno firmato per occuparsi di tossicodipendenti. Ti troverò una struttura più adatta.» Una rabbia cieca mi scorre attraverso in modo così feroce che a malapena riesco a percepire le parole degli altri. Kay vede la mia espressione. «Va tutto bene» dice dolcemente ma in modo fermo. «Ho detto a Romeo che Julian poteva restare qui stanotte.» Sollevando un sopracciglio, Estella scribacchia qualche commento su un foglio. «Va bene, vogliamo parlare del ragazzino più giovane, Pasha?» Julian si alza in piedi. «Chiedo scusa. Ho bisogno di un po’ d’aria.» Lo seguo consapevole del modo in cui mi sta guardando Crash. Con fin troppa comprensione trasfusa nel suo sorriso gentile, Kay apre la porta che porta in giardino. Sediamo in un angolo della casa, sotto un patio ombroso, lontano dalle voci. Questa parte dell’edificio è protetta dalle alte conifere che allungano i rami così ampiamente che posso a malapena vedere il cielo sopra di essi. Mi sento al sicuro qui, sotto la loro protezione. Per un po’ nessuno di noi dice nulla. Ma qualcosa sta ancora disturbando Julian. Quando brutta può diventare l’astinenza? faccio segno, chiedendomi se è questo che lo sta preoccupando. Alza le spalle. «Ci sono già ato.» Chiude gli occhi così che l’unica cosa che posso vedere

sono i lividi che li circondano e non posso leggervi la verità che contengono le sue parole. Se ci è già ato una volta, ma forse non vuole più affrontarla. Forse l’unica cosa che vuole è restare temporaneamente irraggiungibile e una volta di nuovo sulle strade, tornare a drogarsi. Ma improvvisamente i suoi occhi si aprono e so che non è ciò che stavo pensando, affatto. «Sono stato così egoista, Remee» sussurra, le sue dita tremanti sfiorano i ciuffi d’erba che fanno capolino dalle pietre del sentiero. «Avrei dovuto aiutarti a trovare un posto come questo fin dall’inizio, ma mi sono innamorato di te così tanto da credere per un certo periodo che fosse abbastanza.» Era abbastanza, penso disperatamente. Insieme abbiamo fatto ardere una luce tale da annullare le completamente le tenebre. Solleva lo sguardo e il Julian che conosco è ancora qui, caldo e solare; è solo sepolto sotto una coltre spessa di angoscia. La sua mano tocca il mio viso e sento che se smetterà di farlo io mi dissolverò nel nulla. Vi porto entrambi i suoi palmi e li tengo lì, le mie lacrime a riempirli. «Quello che provo non cambierà mai. Ti amerò sempre in questo modo. Sempre. Ma tu starai meglio senza di me. Mi odio così tanto per aver scazzato tutto e averti deluso, non posso permettermi di toglierti quello che hai adesso, di portartelo via... ho bisogno di dirti qualcosa...» Rabbrividisco come se il cielo si fosse improvvisamente oscurato, come se il giorno fosse stato risucchiato via. Il vento geme attraverso i rami come una canzone triste. «Non dovevo dei soldi a Vic per la droga, Remee. Glieli dovevo per delle informazioni. Volevo sapere chi stava cercandoti. Dovevo sapere se tu eri in pericolo.» Non sapevi dov’ero, faccio segno, sentendomi intrappolato in una corrente decisa a trascinarmi fin verso il mare. «Sapevo che stavi bene. Ci sono sempre delle soffiate, tesoro.» Mi acciglio. Ci sono sempre delle soffiate. Mi chiedo cosa i fantasmi di Julian abbiano bisbigliato su di me. «Vic mi accennò di aver parlato con un uomo che attaccava manifesti alla

stazione con la faccia di un ragazzo. Disse che l’uomo era straniero e parecchio disperato. Aveva il tuo manifesto. Sulle prime mi sono sorpreso che non ti avesse riconosciuto, ma i tuoi capelli sono più lunghi adesso e penso che non si sarebbe aspettato di trovarmi con te.» «Remee, il tipo disse a Vic che stava cercando suo figlio.» Lo guardo fisso, sconvolto. Non c’è più aria, non riesco a respirare. Il colore sbiadisce... il mondo retrocede... un’ondata di nausea minaccia di svuotarmi. L’uomo che ho visto alla stazione. «Disse che era qui per cercare suo figlio e riportarlo a casa. Non può saperlo, Remee. Tu hai solo sedici anni. Se ha una sorta di prova che tu sei suo... questo...» e indica la casa, tutto quanto «è andato. Ti riporterebbe di nuovo in Russia. Non puoi fare quella dichiarazione alla polizia. Ti troverebbe. Per favore, dì loro che sono stato io.» Come un fiammifero sfregato e , la mia rabbia scoppia e lo osservo. Sono stanco della situazione e di tutte queste cazzo di persone, persino di Julian, che pianificano la mia vita, aspettandosi che io resti qui, come se questa fosse la mia unica cazzo di scelta. Tutti i fantasmi e le eco che pensavo fossero mia madre... il mio nome nel vento che mi opprimeva... non mi ha mai parlato di mio padre... non è mai esistito per me... ancora ora non esiste... ma questo esiste... questo momento selvaggio, questa vita... questa famiglia che io stesso ho scelto per me... Julian. Se te ne vai, che differenza fa per te se io sono in Russia oppure no... faccio segno, sentendo la rabbia spostarsi e poi scomparire nel vento con le mie parole, sostituita da un’emozione ben più grande. La farebbe, mi fa segno di rimando, le lacrime che gli scendono. Certo che la farebbe. Voglio prendergli di nuovo la mano ma non lo faccio. Non ho mai voluto tutto questo, allargo le braccia più che posso, sentendo qualcosa di profondo dentro di me scattare e mettersi a posto. Intorno a noi il vento soffia attraverso gli alberi come una voce, le foglie bisbigliano e io so che

sto prendendo la decisione giusta. L’ho sentita dal di fuori per così tanto tempo, in tutti quegli anni con mia madre, per l’intera mia vita, mi rendo conto: senza Julian, la barriera sarebbe stata troppo ampia da poterla superare. E sebbene qui potrei riuscire a sopravvivere, preferisco vivere. Questo non sono io. Non ho bisogno di queste mura! Colpisco il terreno solido di pietrisco, sento il bruciare del colpo contro il mio palmo. Non c’entro niente con questo. È troppo grande, troppo complicato e senza di te è dannatamente vuoto e cupo e lo sarebbe per sempre! Angosciato scuote la testa. «Non seguirmi di nuovo laggiù... non posso...» Ma non ho intenzione di seguirlo di nuovo sulla strada. Scuoto la testa. Hai del denaro? Esitando estrae quaranta pound dal calzino e me li porge. «Devo a qualcun altro più di quanto non sia in debito con Vic» non mi guarda negli occhi. Sa che mi fa male sapere che si darebbe via inutilmente. Potrebbe aver pagato Vic e niente di tutto questo sarebbe successo. Ma non importa. Quel denaro è abbastanza per i nostri biglietti del treno, per lo meno. So anche che Crash mi darebbe il denaro che tiene nel suo portafogli se glielo chiedessi, se riuscissi ad affrontare la sua delusione. Ci ha provato così tanto. Senza di lui, senza tutto questo, non sarei stato in grado di fare quello che sto per fare. Non sarei in grado di accettare di dover fare le mie proprie scelte, di aver bisogno di qualcosa per me stesso. Per noi. Via da tutti i fantasmi. Non tornerò mai più sulla strada, gli dico. Non tornerò nemmeno più a Londra. Quando ero in ospedale, Cassey mi ha raccontato una storia che le ha dato speranza. Ci ho pensato a lungo. Ti fidi di me? Ora gli porgo la mano, chiudendo gli occhi verso tutti i dubbi e aggrappandomi forte alla speranza, quella luminosità singolare che ci tiene insieme, che lui l’accoglierà e verrà via con me.

Via da tutto

Lascio vagare la mia mente, l’angoscia che mi starnazza cupa nel petto. Quello che gli ho dato è simile a un ultimatum. Ed è probabilmente la cosa peggiore che potessi fare. Ma per un secondo luminoso, lo vedo. Noi. Bruciati dal sole e a torso nudo, camminare mano nella mano attraverso campi a mosaico, erba alta imbiondita mentre i nostri fianchi ondeggiano nella brezza marina, il cielo così azzurro da far male. Julian non prende ancora la mia mano. La speranza vacilla. La visione è chiara, ma forse è solo un sogno, inconsistente e tremolante, facile a estinguersi nell’oscurità della mia mente. Forse la realtà è troppo dura da immaginare. Troppo tetra e familiare. Oppure troppo aliena. Mi sento affondare sempre più in profondità, il mento sul mio petto, quando improvvisamente braccia calde mi avvolgono stretto, attirandomi. «Non so più quale sia la cosa giusta da fare» mi sussurra all’orecchio, riportando alla vita tutti i miei sensi, la mia pelle tanto consapevole di dove le sue mani poggino, le sue labbra contro i miei capelli. «Dove andremo se non torniamo sulla strada?» Elettrizzato, lo spingo via in modo da potergli fare segno Da qualche parte dove non ci faranno andare via, in un posto a cui poter appartenere e costruirci una casa. Da qualche parte... Mi guarda in modo strano, carezzandomi via i capelli che il vento mi soffia sul viso. «Sei così bello» deglutisce forte «mi fa paura sentirmi così. Qualche ora con te e tu mi fai venir voglia di credere. Ma non posso scappare ancora, Remee.» Non si tratta di fuggire. Abbi fiducia in me, lo supplico. Ma forse io ne ho troppa

e lui, invece, non dovrebbe averne. Una figura oscura incombe nella mia mente e non riesco a fermarmi ad affrontare i miei sentimenti in questo momento. Il cielo di marzo sta svanendo. L’inverno se n’è andato. Posso assaporare nell’aria il cambiamento, è a portata di mano. Tra qualche settimana la primavera esploderà dal nulla e il mondo sonnecchiante si incendierà di vita. Estella dirà alla polizia che sono pronto a rilasciare quella dichiarazione ma dopo ciò che Julian mi ha raccontato, non posso farlo. Per quello che mi riguarda, Vic ha avuto ciò che si meritava e la polizia difficilmente cercherà me o Julian attraverso il paese. Non è questo che mi preoccupa. Mi preoccupa Julian. È esausto e debole e l’astinenza lo devasterà se ce ne andremo adesso, ma se non andiamo ora, potrebbe non esserci un’altra opportunità. Usciamo dall’ombra degli alberi, l’erba che si aggrappa umida ai nostri piedi. Ciò mi rammenta che ho bisogno di scarpe differenti. Qualcosa che sopravviva alle miglia che percorreremo camminando. Ci fermiamo fuori dalla vista delle porte-finestre, mi chiedo cosa fare. La voce di Estella si sente attraverso i vetri, anche se non riesco a comprendere cosa stia dicendo. Mi rendo conto che potremmo semplicemente girare attorno alla casa e uscire fuori dal cancello del giardino che ho visto. In un certo modo sarebbe più facile se non dovessi vedermi con Crash prima di andarmene, ma non penso di poter sopportare l’idea. Anche se cercasse di farmi restare, devo farglielo sapere. Devo parlare con Crash, faccio segno. Ti aspetto laggiù, mi fa segno di rimando Julian, indicando la strada per la quale siamo arrivati. Scuoto la testa. Non capisco ancora cosa ci sia tra loro. In piedi di fronte alla porta, cerco di attirare l’attenzione di Crash. Alla fine arriva. Stai bene? mi fa segno. Mi faccio di sasso, ma quando guardo in quei suoi occhi vedo molto di più di

quanto non lasci intendere. Sono onesti e veri, non so più cosa dire. Al contrario, tocco la sua mano e faccio un o indietro sull’erba. Torniamo dentro tra un attimo. Julian non si sente bene, mento, frustrato, cercando di fargli intuire la verità, volendo fargli vedere come mi sento realmente, quanto mi dispiaccia. Se questo è un addio, penso, non voglio mai più dire addio a nessuno. Mi sento così impotente, così devastato, così sbagliato. Okay, annuisce, accigliandosi un poco, ma poi rientra dentro. Guardo verso Julian che è appoggiato al muro e mi sta osservando. Andiamo, gli faccio segno, allontanandomi e ingoiando il dolore. Usciamo dal giardino senza voltarci indietro. Non abbiano nient’altro se non noi stessi. Siamo così leggeri che potremmo semplicemente fluttuare, andare alla deriva. Lentamente ci muoviamo in direzione opposta alla fermata dell’autobus. Non abbiamo abbastanza denaro per l’autobus, ma dobbiamo trovare una stazione dei treni. Ho ancora indossando il giubbotto di Crash, sebbene gli abbia restituito il portafogli. Lo stringo più forte mentre con cautela afferro la mano di Julian. Potrei vendere il telefonino se dovessimo aver bisogno di più denaro, ma ciò significherebbe troncare l’ultimo legame che ho con Crash. E non voglio farlo. Una volta raggiunta l’affollata strada principale ci fermiamo e cerchiamo di capire dove ci troviamo. Presto sarà buio. Nessun dubbio, dico a me stesso. Andrà tutto bene. Ci stiamo dirigendo verso qualcosa di migliore, non è così? Stiamo realizzando qualcosa di meglio per noi stessi. Julian si appoggia a me e ci sediamo per un momento su un lungo muro che circonda un parco giochi per bambini. Non abbiamo fame, abbiamo denaro per il biglietto del treno e abbiamo un piano, una direzione sicura, cosa che è assai di più di quanto avessimo avuto finora. Non rimpiango di essermene andato. Non mi dispiace il fatto che non potrò mai più chiamare quella casa casa

mia, che Kay penserà alla mia fuga come a una sua sconfitta. Forse un poco sì, mi dispiace... ma è non aver detto loro addio che mi fa sentire più in colpa di tutto, non aver spiegato... Sono così assorto nei miei pensieri da essere impreparato davanti alla figura incappucciata che corre lungo la strada per poi frenarsi bloccandosi di fronte a me per avvolgermi un braccio attorno e abbracciarmi forte. Pensavo non ti avrei più trovato, fa segno Crash quando si stacca da me. Credevo fosse troppo tardi. Non è arrabbiato. Sembra più di ogni altra cosa spaventato. La polizia è arrivata per prendere la tua dichiarazione ma nessuno è riuscito a trovarti. Sapevo... Non torno indietro, faccio segno, pregandolo di non cercare di convincermi, sperando tanto non mi trovasse, e invece... Dove state andando? Si asciuga gli occhi. Non mi sono reso conto fino a questo momento di quanto fosse abbattuto. Non ti preoccupare, allungo la mano le mie dita sfiorano la stoffa delicata del suo maglione. Non torneremo sulla strada. E allora dove? Allarga le braccia, sconcertato. Cornovaglia. Cosa? E dove andrete a stare? C’è una roulotte in un campo, a molte miglia da tutto. Staremo bene. Crash scuote la testa, guardandomi come se volesse scuotere me. Per favore non farlo. Non potete sopravvivere nel nulla! Come farete con i soldi? Ne abbiamo a sufficienza per il biglietto del treno. Chiederemo alle fattorie attorno per del lavoro. Presto sarà estate, potremmo raccogliere fragole.

E nel frattempo? Cazzo. Si porta le mani tra i capelli e guarda verso il cielo. Mi sta leggermente spaventando. Non scappare per questo, Romeo. Per favore. Non puoi fuggire per sempre. Prima o poi devi fermarti. Non stai ragionandoci su bene! Non puoi concentrarti solo su cosa ti capiterà domani o la prossima settimana! So cosa vuol dire stare sulla strada ma devi pensare più a lungo. Devi darti una vera opportunità. Per Kay non è solo un lavoro. A lei importa veramente. Alla mia vera madre non gliene fotteva un cazzo di quello che mi capitava, dove stavo la notte. Credevo di non poter mai avere nessuno... Si ferma e guarda oltre il parco, è molto vicino a un crollo emotivo. So che vorrebbe parlarti prima che tu te ne vada. Non cercherà di fermarti se questo è davvero quello che vuoi. Per favore. Non torno indietro, faccio segno di nuovo, digitando le parole in più piccolo che posso. Julian è silenzioso dietro di me. Crash lo guarda. E io non posso costringerti, fa segno, afflosciandosi di fronte ai miei occhi. Scuoto la testa quando estrae la sua carta di credito dalla tasca e mi digita il numero pin. No. Ma lui mi ignora. Prendi tutto il denaro che c’è qui dentro. L’autobus 53 va fino alla stazione dei treni Richmond. C’è un bancomat là. Avrai bisogno di un riparo, perciò comprati una tenda che puoi trasportare in uno zaino, un fornelletto da campo, sacchi a pelo, acqua e cibo. Promettimi che terrai il telefono e comprerai una ricarica, che mi contatterai appena puoi. Te lo prometto. Senza preavviso si piega in avanti e mi bacia, le sue labbra contro le mie così brevemente che mi chiedo se non me lo sia immaginato. L’espressione di Julian

mi dice che non è così, poi se ne va, come un ladro che ha rubato un pezzo del mio cuore, correndo aggraziato e senza far rumore a ritroso per la via da dov’è venuto. Non sembra affatto un addio. La carta di credito si flette tra le mie dita mente la stringo. Così facile da rompere. Ma non lo faccio. Julian mi guarda più da vicino quando saliamo sull’autobus. Pensa che stia facendo un errore. Pensa che lo rimpiangerò ma non è così. Questa è l’unica strada che posso intraprendere per non spezzare completamente il mio cuore.

Stelle al collasso

I lampioni guizzano senza riposo, l’ultima luce del giorno adesso è solo una stretta fascia sotto le nuvole grigio scuro. L’autobus accosta fuori una piccola pittoresca stazione dei treni, tutta di legno verde scuro e cestini di fiori appesi alle grondaie dei suoi tetti bassi. Scendiamo. Siamo ancora a Londra, ma non è la Londra che abbiamo sempre conosciuto. Infilo la carta di Crash nel bancomat fuori dalla hall della stazione e seguo le istruzioni luminose sullo schermo. Cerco di fingere che l’ho fatto centinaia di volte prima, ma le mie dita incombono con incertezza, timorose di premere qualcosa di sbagliato. Julian mi sta di fianco, mi guarda le spalle con circospezione anche se siamo gli unici che paiono sospetti. Forse lo sembreremo sempre. Controllo il totale del credito perché non posso farne a meno, e prendo un respiro profondo di aria fredda quando vedo quanto denaro c’è in quel conto; cazzo. Non vivo più nel mondo che conoscevo e la cosa mi terrorizza. Un giorno lo ripagherò di tutto. Comunque non ritiro molto, solo quanto basta per comprare una bottiglia di acqua a testa, un panino schiacciato e troppo caro e un po’ di paracetamolo per Julian nella piccola para-farmacia al di là della strada. Non mi sfugge il fatto che non stiamo parlando, che Julian appare pallido, stanco e addolorato. Non si lamenta. Non è il tipo, ma so che vorrebbe soltanto rannicchiarsi in qualche oscuro angolo e dormire. Mi chiedo se non abbia accettato di venire con me solo perché si sente responsabile della mia reazione dopo che mi ha raccontato di mio padre, se pensi che le sue parole in qualche modo sono state catalizzatore della mia fuga, e forse lo sono state, ma non importa. Quello che conta è che siamo insieme. Questa è l’unica cosa di cui sono

certo in tutto questo casino. Sfioro le nocche contro le sue, gustando la nostra vicinanza anche se non siamo più così vicini come vorrei. Tutto sarà migliore domattina, quando saremo liberi da questo posto, liberi dal ato e dai fantasmi. Mi guardo attorno. Quando ci sveglieremo domani tutto questo sarà andato, tutto sarà solo un doloroso ricordo. IN PIEDI, di fronte al cartellone degli orari dei treni sul muro fuori dalla stazione, cerco di capire se da qui possiamo superare Londra e salire su un treno diretto in Cornovaglia, ma la i nomi delle stazioni sono come paesi di sogno e la mancanza di luce mi sta facendo male alla testa. Con la coda dell’occhio vedo una piccola auto rossa che si ferma lungo il marciapiede, ma non vi faccio attenzione fino a quando Julian non mi tocca un braccio. La sua espressione è illeggibile e inclina la testa verso una donna dall’aspetto preoccupato che scende dalla macchina a gran velocità. Kay. Ovvio che Crash le avrebbe raccontato cosa stavo facendo. Prendo un grosso respiro, aspettandomi di dover combattere l’urgenza di scomparire dentro il fiume di persone che escono dalla stazione dietro di me, aspettandomi di sentire il petto stringersi con angoscia e terrore, ma stranamente non avverto nulla d tutto questo. Cerca di sorridermi, ma i suoi occhi sono troppo addolorati per farcela. «Mi vado a sedere» Julian indica la fila di panchine metalliche dentro la hall della stazione. Mi volto verso l’auto, non posso andarmene via e basta. Non penso neppure di volerlo fare. «Romeo, non sono qui per fermarti» dice Kay a bassa voce mentre mi avvicino. «Ma posso parlarti prima che te ne vai?» Mi fa segno di salire in auto.

Mi guardo attorno per assicurarmi che non sia una trappola, che Estella e una comica orda di poliziotti non stiano aspettando dietro l’angolo per trascinarmi via. Con riluttanza apro la portiera della macchina e scivolo sul sedile anteriore. L’auto è calda e quando prendo respiro, tutto quello che posso sentire è Crash che mi abbraccia tutto pelle e ammorbidente. Fa male come una pressione su un livido. Guardo Julian attraverso il parabrezza, rannicchiato goffamente su una delle dure panchine, gli occhi chiusi. Dubito che stia dormendo. Probabilmente preferisce non vedere. Kay immagina di essere la causa del mio disagio e inizia a parlarmi velocemente. «Romeo, so che non è facile per te. So che ti sono successe tante cose e che scappare possa sembrarti l’unica opzione che hai, ma voglio farti sapere che non è così.» Le sue parole sono solo l’eco di quelle di Crash. Sarò arrestato se verrò indietro con te. Non posso farmi arrestare, faccio segno distrattamente, senza toccare la reale ragione per cui sono qui alla stazione con Julian, sebbene la sua immagine mi riempia la vista. Come se riuscisse a percepirlo, Julian apre gli occhi. Anche se è diventata sottile, la sua luce sepolta nel profondo brilla ancora in maniera più scintillante che in chiunque altro io abbia mai conosciuto. Stare con lui significa uscire dall’ombra per protendersi verso il sole. Non voglio stare seduto in questa auto mentre lui è fuori, distante e irraggiungibile, eppure sono qui. Distolgo lo sguardo, mi pare quasi che questo sia un lieve tradimento, sapendo che non possiamo più sopportarne. Tutto quello che ci è rimasto della luce del giorno è una sottile, luminosa linea che minaccia di svanire ogni volta che sbatto le palpebre. Dentro la stazione la gente corre in fretta avanti e indietro, il risplendere artificiale della luce la rende più concreta e solida di quanto non siamo noi. Kay scuote la testa. «Ho parlato con la polizia, le accuse a tuo carico saranno con ogni probabilità

fatte cadere. Devi fare la tua dichiarazione, però. Crash mi ha parlato della tua ferita... cos’è successo realmente?» È così preoccupata e sono così stanco, troppo stanco per tenere tutto imbottigliato dentro di me, così le racconto di come Vic mi ha accoltellato. Ma la mia mente annebbiata non sa come fermarsi e le parole iniziano a sgorgare fuori. Prima che mi renda conto di ciò che sta succedendo, le racconto di Julian. Di come io sia arrivato sulla strada, di mia madre, dei manifesti, dell’uomo che mi sta cercando, di come potrebbe essere mio padre e del fatto che vuole riportarmi in Russia. Mi ascolta in silenzio. Non mi tocca quando crollo a pezzi. So che non sono pronto, che questa è la vicinanza massima che posso concederle adesso. «Che lui sia tuo padre o no, non ha diritti legali su di te» dice con prudenza, ovviamente turbata da quanto le ho raccontato, ma cercando di non mostrarlo. «Ho visto i tuoi documenti. Non è nominato in nessuno di essi. Non può costringerti ad andare se non lo vuoi.» Osserva la mia reazione. «Vuoi incontrarlo?» No. «Forse tra qualche tempo potresti. E va bene, qualunque sia la tua decisione, va bene.» Un treno entra rombando nella stazione, i freni scricchiolano come uccelli. «Non credo che Crash ti abbia mai raccontato cosa è successo all’inizio, quando è venuto a vivere da noi.» Kay mi offre un timido sorriso. «Non lo trovava facile dopo essere stato per strada e la seconda notte ha riempito di graffiti l’esterno della nostra casa e le cinque case vicine giù per la strada. Graffiti con tutti i nomi e le tag della gente che conosceva. Ci sono volute settimane per pulire, ma doveva farlo, doveva uscire da se stesso prima di are oltre. Gli pareva quasi di tradire le persone che in qualche modo si era lasciato alle spalle.» Distolgo lo sguardo. Estella una volta mi ha raccontato che Crash era una specie di artista. Adesso mi rendo conto che questo è ciò che voleva dire.

«Posso capire perché tu voglia farlo, Romeo. Dopo esserti dovuto arrangiare a vivere da solo per così tanto tempo, capisco perché tu pensi che non ci sia altra via. Ma qualunque cosa succeda, voglio che tu ti ricordi che noi siamo qui. E se hai bisogno di me, io ci sarò, per te.» Sento la sincerità nelle sue parole, ma non mi permetto davvero di pensare a ciò che sta dicendo. In lontananza, l’altoparlante sulla piattaforma annuncia la destinazione del prossimo treno. Desidero poter essere su quel treno. Ti prenderai cura di Pasha? «Spero proprio di sì» risponde semplicemente, sorridendo con quel suo sorriso triste di nuovo. «Ma ci sarà sempre un posto per te da noi.» Improvvisamente si acciglia e domanda: «Non stai facendo questo perché pensi che lui si meriti una casa molto più di te, vero?» Scuoto la testa. Vorrei essere davvero così altruista. Grazie, faccio segno. Devo andare adesso. Le mie gambe sono pesanti quando scendo dall’auto. Non dico addio. Ho paura che non torni a casa. Le parole di Kay vagano verso di me attraverso il finestrino aperto dell’auto. Vorrei che il rumore della stazione le avesse in qualche modo affogate. Sta parlando con qualcuno al telefono. La vedo riflessa chiaramente nella vetrina scura del negozio. Raggiungo Julian nella hall e lo tiro in piedi, giro con lui l’angolo prima di crollare. Non so perché faccia così tanto male. Raccogliendomi, Julian mi stringe con un braccio tremante, poi ci sediamo in una delle panchine di metallo ricurve lungo la piattaforma. Saliamo sul prossimo treno.

––––––––

C’è un notturno da Paddington a Penzance che parte alle dieci di sera. Sono riluttante a tornare in città, ma è l’unico modo. Mi aspetto quasi che il destino ci abbia messo un ultimo ostacolo sulla via, mi aspetto quasi che l’uomo la cui ombra ha imperversato attraverso tutta Londra finalmente oscuri il nostro cammino. Ma riusciamo a salire sul notturno senza neppure un fantasma e nemmeno un bisbiglio. Compriamo i biglietti per una piccola cabina e con l’ultimo impulso di energia, tiriamo i materassi dalle cuccette e li adagiamo sul pavimento. Disperato di desiderio, arriccio il mio corpo contro quello di Julian e tra il calore che creiamo e il movimento costante del treno, finalmente mi lascio andare e permetto all’oscurità di catturarmi. Julian dorme un sonno irrequieto, un momento fradicio di sudore, quello successivo squassato dai tremiti e aggrappato a me come se fossi l’unica cosa che lo trattenga dal cadere nell’abisso. Troppo stanco per svegliarsi completamente, la sua irrequietezza si infiltra nei miei sogni, rendendoli instabili e selvaggi, pieni di immagini che non so decifrare fino a che arriva l’alba e lui si stacca da me goffamente, per vomitare nel minuscolo lavandino. Assonnato mi alzo in piedi, certo di essermi addormentato indossando una maglietta, incapace di trovarla adesso. Stai bene? faccio segno. «Ti sembra che stia bene?» sbotta. Sussulto, le sue parole bruciano. «Tesoro, mi dispiace» geme immediatamente, sfregandosi le mani sul viso. La sua pelle è pastosa e ricoperta da un lieve strato di sudore. «Mi sento di merda. Non volevo sfogarmi su di te.» Tenendosi lo stomaco, vomita ancora una volta dentro il lavandino. «Vorrei che questo cazzo di treno la smettesse di correre» mormora. Cerco nelle tasche il paracetamolo, gli porgo il pacchetto ma lui scuote la testa.

«Finirei solo per vomitarlo.» Al di là del finestrino della grandezza di un palmo, la notte che scorre sta scomparendo. Il treno deve fermarsi a un paio di stazioni fuori Penzance prima delle 7:00. Scenderemo alla prossima fermata, faccio segno certo che qualche miglia non farà molta differenza. Abbiamo camminato molto di più, prima. Trovo la maglietta ammucchiata sotto di me, raccolgo i materassi e i cuscini mentre Julian si inginocchia, il suo viso contro il lavandino, l’acqua fredda che gli scorre sulla testa. Un sole rosso sangue chiazza il cielo dell’est quando saltiamo giù dal treno. L’aria è fredda e verde, gli uccelli fischiettano. Non c’è una stazione come la conosciamo, ma solo una lunga e vuota piattaforma con qualche panchina. Julian afferra la mia mano e mi attira verso il limite più basso fino al terreno pieno di ortiche al di sotto, poi si piega dolorosamente sull’erba. Il terreno vibra attorno a noi mentre il treno riparte. Mi gira la testa, mi fa segno a fatica, incapace di parlare. Desidero poterlo tenere stretto a me, poter incatenare i nostri corpi insieme in modo da poter sentire ciò che sente lui e portarglielo via in qualche modo. Ma invece mi siedo, un braccio lento attorno a lui, temendo di essere respinto, di forzare troppo i nostri attuali limiti, ma preparato ad aspettarlo, per quanto tempo ci voglia. Saranno probabilmente le nove quando ci muoviamo con il sole che brilla debolmente, il cielo fragile come porcellana. Un uomo con un giubbotto fosforescente pattuglia il parcheggio della stazione camminando su e giù, facendo scorrere la mano in maniera distratta contro le auto. Mi ricordo di come Crash comunichi facilmente con le persone senza né scrivere né parlare. Prendo un grosso respiro e decido di provare a chiedergli dove si trovano i negozi più vicini. Julian mi stringe la mano e sebbene non lo sappia, quella gentile rassicurazione è tutto ciò di cui ho bisogno. Esulto in modo ridicolo quando l’uomo mi comprende e mi consiglia un supermercato a un miglio giù per la strada. Come turisti in una terra straniera, navighiamo lungo le strette corsie,

fermandoci spesso per riposare sotto gli alberi occasionali le cui foglie piene di cera si spiegano timidamente verso la luce, o per appoggiarci sui muri di pietra coperti di rovi che separano le strade erranti dai campi. Ogni tanto, percorsi pochi metri, Julian si piega sulle ginocchia e vomita, ma non esce nulla. Sta diventando sempre più debole e vederlo rimettere nell’erba mi riempie di una paura sorda che cerco di contenere. È soltanto l’astinenza? gli faccio segno quando non riesco più a resistere. Se si tratta di un altro tipo di malattia devo cercare aiuto. Non posso vederlo peggiorare e non fare nulla. Asciugandosi la bocca con una mano tremante, alza le spalle. È solo che... ho bisogno di fermarmi. Mi dispiace, fa segno disperato. Non posso... I lividi scuri attorno ai suoi occhi risaltano in contrasto con la pelle mentre stringe le palpebre e dondola avanti e indietro sulle ginocchia. Piegandomi, appoggio la testa contro la sua spalla e sostengo il suo peso. Sta bruciando e tremando. Andrà tutto bene. Premo le mie labbra contro il suo orecchio e gli faccio sentire le parole che non posso pronunciare. Per ore riposiamo sul ciglio della strada. Distrattamente carezzo i capelli di Julian mentre dorme, la sua testa sulle mie gambe, il sole che si inarca attraverso il cielo su di noi. Il ramo grosso di un albero ci ripara dalla luminosità ed emana strane ombre che si allungano sulla strada. Guardo i boschetti vicini e quelli più fitti al di là dei campi, desidero esplorarne le profondità intricate perché so che è lì che voglio andare dopo che avremo racimolato quanto ci ha suggerito Crash. Ci perderemo in esse, nel buio tra gli alberi. E questo è ciò che voglio, non è così? Non lo so più. Tutto è così silenzioso eppure allo stesso tempo non lo è: il basso mormorio dell’elettricità nei cavi sopra le nostre teste, il clackclackclack di un trattore in lontananza da qualche parte, il richiamo degli uccelli, il vento e il suo

bisbigliare. Tutto questo è quiete, tutto questo è pace. Ma non pensavo mi sarei sentito così. Sono ate solo due auto in tutta la mattina. Cercando di non disturbare Julian, estraggo il telefonino dalla tasca ma non lo accendo. Vorrei poter chiamare Cassey o Crash solo per sentire le loro voci, ma lo sto tenendo carico per un’eventuale emergenza. Il sole è giusto sopra di noi quando un furgone scassato arranca lentamente sulla strada e accosta. Istintivamente mi irrigidisco. «Avete bisogno di un aggio?» la voce di un uomo ci chiama da dentro il mezzo. Sono troppo in basso per vederne il volto. In città è così facile semplicemente andarsene via. Julian si stiracchia e sbatte le palpebre alla cieca, i suoi bellissimi occhi incupiti dalla sofferenza. Le mie gambe sembrano morte, ma lo aiuto ad alzarsi. Sì, abbiamo bisogno di un aggio. Il supermercato non è lontano. Quando il conducente del furgone si accorge che non posso parlare rinuncia a comunicare con me e, con un’espressione genuinamente meravigliata sul volto, ci lascia proprio all’entrata. Non sembra aspettarsi nulla se non questo semplice atto di gentilezza. Uso il bancomat nel parcheggio della grandezza di un campo da calcio, prelevando così tanto denaro da farmi sentire un poco male. Ho la perversa tentazione di gettare il mazzo di banconote in aria e guardarle fluttuare via nel vento. Ma ovviamente non lo faccio. Mi concentro sulle cose che Cash ha detto dovremmo comprare. Faccio segno a Julian ed entriamo, la nostra vita è come un arto che non abbiamo ancora imparato a usare.

Alla fine di tutto

Esausti, finalmente riusciamo ad arrivare al boschetto vicino con le nostre nuove proprietà: un’impossibile minuscola tenda e due sacchi a pelo. Dovrò tornare per cibo e acqua, intendo montare la tenda per Julian prima di farlo, ma la mia pazienza è evaporata e alla fine lascio Julian infilato dentro il sacco a pelo e la tenda inutilizzata sul terreno vicino a lui. Ci vuole più tempo di quanto vorrei. Sono scoraggiato dalla vastità del locale, mi gira la testa, ma Julian sta ancora dormendo quando torno e senza disfare nulla, mi arrotolo sul terreno argilloso vicino a lui e mi appisolo al suono della pioggia che cade tra i rami sopra di noi. «Tesoro, svegliati.» Sebbene stia tremando e sia fradicio, mi ci vuole un minuto prima che il mondo si solidifichi attorno a me. È già buio pesto, tutto è granuloso e scompare velocemente come gli uccelli che sfrecciano tra gli alberi. In ciò che rimane della luce del giorno, vedo Julian seduto, riemerso dal sacco a pelo bagnato, il suo corpo trema violentemente mentre dondola avanti e indietro, i denti che sbattono talmente forte che potrebbero spezzarsi. Vorrei solo tenerlo stretto tra le mie braccia finché non smette. Cazzo. Mi ricompongo e raccolgo la tenda così stupidamente complicata. Volesse il Cielo che mi fossi impegnato più a fondo nel cercare di montarla. A malapena capace di vedere ciò che sto facendo, srotolo tutti i pioli e stendo la stoffa scura. Solo attraverso il tocco, comprendo che c’è un sottile canale lungo la tenda dentro cui devo inserirli. Non ci vuole molto. E tutto d’un tratto ecco che ho la tenda di fronte a me. Un riparo che ho costruito. Chiudendo gli occhi, assaporo profondamente quella sensazione. Dopo aver premuto un perno nel terreno morbido per assicurare ogni angolo,

faccio scorrere la zip all’entrata. All’interno, piani, pareti e tetto sono contenuti in un tutto unico e impermeabile. Aiuto Julian a uscire dal sacco a pelo fradicio e a entrare nella tenda, grato per il mio che non ho usato, che è ancora avvolto nella plastica e che è asciutto. Non sono molto sicuro di cosa fare con i nostri vestiti bagnati, ma alla fine mi sfilo i miei e li lascio davanti all’entrata. Al buio, aiuto Julian a fare lo stesso prima di aprire il sacco a pelo, distenderci e coprirci entrambi. Con la sua pelle contro la mia, mi sento in una sorta di paradiso perverso. So che non sta bene e che non vuole che io lo tocchi, vorrebbe poter strisciare via dalla sua stessa pelle, si divincola e geme senza sosta. Ma non posso stargli così vicino e non ricordare. Non posso essergli così accanto e non desiderare di perdermi. In lui. Ci siamo distesi così tante volte. Da Cassey, in quelle notti in cui non riuscivamo a saziare il bisogno di conoscerci, dentro e fuori, in quelle notti in cui ci scopavamo così forte che ancora riesco a sentirlo. Lui. Dentro di me. Non posso dimenticarlo. Non voglio. Eppure non so se sarà mai più così. Julian sta congelando. Lo stiamo entrambi. Impongo alla mia mano di appiattirsi e di premere contro il suo petto squassato, attirandolo verso di me. Non c’è niente di sensuale in questo mio contatto. Voglio che sappia che lo capisco o per lo meno, ci provo. Mi addormento ancora imprigionato nei pensieri, la pioggia che tamburella lievemente contro la tenda. I miei sogni sono i più vuoti che abbia mai avuto. Quando mi sveglio, Julian se n’è andato. Una stretta familiare mi cresce nel petto. Il mio respiro si muove come se non vi fosse più abbastanza ossigeno nell’aria. Apro la zip della tenda, sperando che sia soltanto andato a pisciare dietro un albero. Uno sfarfallio spettrale di luce si insinua tra i rami fino al terreno del bosco. I miei vestiti sono ordinatamente appesi a un tronco caduto qualche metro più avanti. Julian non si vede da nessuna parte. Riprenditi. Chiudo gli occhi. Non mi lascerebbe qui, non dopo aver fatto tutta questa strada. Mi sto comportando come uno stupido. Mi manca qualcosa, un

indizio, una vaga reminiscenza impercettibile. Stava male, forse delirava. Dove mai può essere andato? Un rametto si spezza lì vicino. Sfreccio dentro la tenda e afferro il sacco a pelo prima di alzarmi e guardarmi attorno. Senza respiro e malfermo, Julian esce dalla radura portando una scatola e parecchie sportine di plastica. Appoggia tutto con cura per terra, sembrando ormai pronto per crollare lui stesso. Dove sei andato? faccio segno, scioccato dal suo cambiamento. Per la prima volta da quando l’ho ritrovato è più di un’eco di quel ragazzo che conoscevo. «Avevamo bisogno di qualcosa per cucinare e di altri vestiti.» Esita, sembrando a disagio. «Ho usato un po’ del denaro.» Non mi importa del denaro. Pensavo te ne fossi andato! faccio segno, stressato, incapace di fermarmi. Il nodo di terrore che lui possa semplicemente andarsene, che lui possa lasciarmi non è qualcosa che posso tranquillamente disfare e cancellare. Julian interrompe la distanza tra noi. La sua pelle è ancora cerea e pallida, ma non appena posa lo sguardo su di me, c’è qualcosa nei suoi occhi che ieri non c’era, qualcosa che ricordo. E un calore mi inonda. Mi piego verso di lui, verso il suo profumo di pulito e dentifricio mescolato con il verde del bosco. Deve essersi lavato nei lavandini del supermercato. «Non potevo sopportare l’idea di svegliarti» mormora dolcemente, facendo scorrere la mano tra i miei capelli, il suo tocco più leggero del vento. «Saresti venuto con me e dopo tutto quello che ieri hai fatto per me, ho pensato che avessi bisogno di riposo.» Mi piego ancora più vicino. Ci stiamo quasi toccando. Lui deglutisce. «Ti ho portato qualcosa.» Estrae dalla tasca un piccolo blocco e una matita. «È tutto quello che avevano.» Alza le spalle in segno di scuse. Appena entro dentro la tenda con il blocco, crollo per terra seduto. Mi sembra

che stai meglio, gli faccio segno, sentendo un’ondata di stanchezza prendermi tutte le forze, sebbene Julian mi abbia detto che ho dormito bene. «Ti ho portato la colazione.» Apre la scatola e con le mani tremanti mi porge una tazza di polistirolo con dentro cioccolata calda. «Ho comprato anche un fornelletto.» Annuisco. È roba di cui abbiamo bisogno. «Mi dispiace che hai pensato me ne fossi andato.» Si siede vicino a me, le braccia attorno alle ginocchia. «Non ti lascerei mai.» Cerca di incrociare il mio sguardo. Mi distendo un po’, gli faccio segno. «Piangevi nel sonno.» Annuisco freddamente. Lo so. I giorni ano. Per la maggior parte del tempo, dormiamo. Non c’è nulla a disturbarci. Fa freddo ma non è gelido, il cielo limpido è nascosto da una rete di rami. Qualche volta ricordo i sogni che faccio, ma la maggior parte delle volte no. Iniziano sempre con una figura oscura che sta in piedi sulla piattaforma della stazione dei treni, ma per quanto provi a raggiungerla, rimane sempre fuori dalla mia portata. Trascorre quasi una settimana prima che finalmente ci muoviamo. Julian è più presente a se stesso anche se è ancora debole. Raccogliendo i nostri possedimenti e dividendoli equamente, seguiamo sulle strade ventose i segnali stradali per Penzance. Ma dopo due giorni di cammino, ci rendiamo conto che ci siamo persi. Ci sono delle vie, ma sono strette e senza indicazioni. Anche l’aria è cambiata, il vento è più acuto, come se avesse uno scopo. Gli alberi in lontananza sono radi e piegati verso il terreno. Anche se non sono mai stato qui, so che stiamo andando verso il mare. Penso che anche Julian lo avverta. Il nostro o accelera come se fossimo sospinti da una forza più grande che non abbiamo mai conosciuto e continuiamo dritti attraverso i campi appena ricoperti di erba e giù, verso una valle boschiva. Alla fine della vallata, Julian mi afferra mentre sto per inciampare lungo una rotaia di ferro, una rotaia da lungo tempo in disuso e nascosta dall’erba. La

seguiamo, camminando tra i raggi mentre la valle si allunga attorno a noi. iamo oltre una piccola casa, con due finestre che sembrano occhi scuri, e che non riesco a smettere di guardare voltandomi indietro fino a quando non è fuori dalla nostra vista. Ci sono viti e cespugli che crescono fuori dalle finestre e attraverso il tetto. La stanno rovinando in maniera splendida. Voglio tornarci e disegnarla. Voglio dormirci dentro. Ma più tardi. Alberi giovani ci vengono incontro allineandosi lungo la via verde e qualche volta la bloccano completamente, ma noi ci arrampichiamo sui loro rami, qualche volta spingendo da parte l’intrico malvagio di cespugli spinosi, incespicando su radici e vitigni come se farlo tutti i giorni affretti il nostro arrivare alla meta. Più avanti, la rotaia del treno si ferma improvvisamente insieme agli alberi, come se avessimo raggiunto la nostra destinazione. Uno smottamento imponente ci sbarra il cammino, un cumulo sudicio di fango e vegetazione più alta di una casa. Sfilandoci gli zaini, ci arrampichiamo sulla vetta del declivio e lì, inarrestabile e azzurro, c’è il mare. A tastoni, Julian cerca la mia mano, ma non posso distogliere lo sguardo, sono folgorato. Tutta la terra è caduta via, uno sparpagliarsi di rocce che si riversa nell’acqua e sento come se stessi in piedi alla fine di tutto. Alla fine di tutto ciò che conosco. Strisciamo all’indietro verso gli zaini e ci dirigiamo più vicino, lottando per attraversare le dune di sabbia. L’erba ci taglia le gambe come rasoi attraverso i jeans. Julian si blocca improvvisamente di fronte a me, e cadiamo insieme. Quando si volta c’è del selvaggio nei suoi occhi, uno sfavillio di calore e fuoco di cui non comprendo la ragione. Iniziamo a montare la tenda, accecati dalla sabbia che soffia e ancora una volta non ci vuole molto. Siamo diventati parecchio esperti in questi ultimi giorni. La arpioniamo a terra con pietre ben piazzate in modo che non voli via. Quando ci sediamo all’interno, a malapena al riparo dal vento battente, guardiamo verso il mare. Non so perché ma sembra che tutto il nostro viaggio ci abbia voluto condurre proprio qui. Non c’è un punto più lontano dove andare. Tutto ciò che ci è

successo sembra così piccolo, le nostre vite così minuscole di fronte a tutto questo: siamo insignificanti, non importanti e tuttavia mi sento invogliato a brillare ancora di più nella luce. Non so per quanto tempo restiamo seduti così, persi nei nostri pensieri. Non so se Julian si senta scorticato quanto mi sento io, la pelle grattata via ed esposta al vento salato che si dissolve negli spruzzi del mare. Se in questo momento mi chiedesse cosa vorrei cambiare, Ogni cosa gli farei segno senza pensarci. Poi lo guarderei dritto negli occhi e capirei. Non cambierei nulla. Nella tasca posteriore, pesa l’immagine di Crash, il disegno che gli ho fatto. La estraggo, la spiego guardando come fluttua nel vento prima di aprire le dita e lasciarla andare. Il foglio di carta rotola veloce come un aquilone verso il mare. «Lui si è preso un pezzo del tuo cuore, vero?» mi domanda Julian sconfortato. Tu hai tutto il resto, gli faccio segno. Mi sconcerta che lui pensi io possa provare lo stesso per qualcun altro. Crash è mio amico. Non è la stessa cosa. Non ha diritto di chiedermi quello che vuole chiedermi e lo sa anche se il mare mi sta estorcendo la verità; non vedo che differenza possa fare ciò che pensa lui di me e Crash e quanto vicini siamo diventati o se abbiamo scopato o meno. Dopo tutto lui dovrebbe per lo meno comprenderlo. Ma non gli mentirò su come mi sento. Mi manca. «Lo so... va bene.» Il linguaggio del corpo lo tradisce. «Tu vuoi tornare indietro... e va bene.» Non voglio tornare indietro. Metto la testa tra le braccia e guardo lo spazio buio di sabbia di fronte a me. Il vento è come dita fredde sulla nuca. «Ma forse ne hai bisogno... per un po’ di tempo...»

Alzo lo sguardo e Julian sta fissando le onde, i suoi occhi grigi come il mare. Vuole che me ne vada? No da come crolla rassegnato le spalle, esprimendosi in un modo più potente che con qualsiasi parola. Allora, all’improvviso, comprendo: anche se non è ciò che vuole, mi sta lasciando andare perché deve, perché dobbiamo avere fiducia che torneremo di nuovo l’uno dall’altro, sempre, altrimenti questa cosa tra noi non potrà funzionare. Mi dice che devo lasciarlo andare anche io. In qualche modo. «Non ha niente a che fare con il perderci» sussurra come se potesse leggermi nella mente. Mi offre un triste sorriso obliquo che mi spezza un poco il cuore. «Sono tuo e lo sarò per sempre. Ti aspetterò qui. Te lo prometto.» Mi volto, mordendomi un labbro. Non capisco come io possa sentire nostalgia per una casa che non ho mai avuto, per una città che odio e per un uomo che non ho mai conosciuto. Ma Julian non può continuare a fuggire e io nemmeno. Tende a piovere qui nel primo pomeriggio. Al momento giusto scende una fine nebbiolina e io mi sposto più all’interno della tenda, desiderando che Julian venga a distendersi con me, desiderando di dimenticare di tutto, desiderando di avvolgere le mie braccia attorno a lui e sistemarmi al suo calore mentre le nuvole si dividono sopra di noi. Invece Julian si alza in piedi e mi guarda, ma mi guarda veramente, con intensità prima di sfilarsi il maglione dalla testa e poi contorcersi con impazienza per sfilare scarpe e calzini. Disorientato, non posso fare a meno di sorridere. È tutto molto comico fino a quando non vedo i lividi lungo la sua spina dorsale appena la maglietta si solleva, la bolla rosso scura di fronte all’anca che scompare nei pantaloni. Mi vede osservarlo e si blocca mentre si toglie un calzino. Lentamente, porta in alto la maglietta e poi la sfila, i suoi occhi sui miei, la sua espressione aperta ma incerta, aspettando la mia reazione. Sono lento a capire, poi mi rendo conto che si sta spogliando per me. Sembra strano, suppongo, è come se i nostri ruoli si siano in qualche modo rovesciati e non sono sicuro di come dovrei reagire, ma non voglio che si fermi.

Con grazia casuale solleva le braccia sulla testa, le dita che indicano il cielo. È come una danza. Controllo la spiaggia, temendo un poco che un cane randagio possa venire verso di noi, ma non ce n’è nessuno. «Non stai aiutando molto la mia autostima» mormora incrociando i miei occhi vaganti. Il suo imbarazzo mi sta eccitando, molto più dello spogliarello. Magari è perché lo sta facendo comunque, nonostante si senta vulnerabile, forse perché deve provare qualcosa. Non ci vedrà nessuno, faccio segno, ancora un po’ confuso dal suo comportamento, per poi concentrarmi su di lui. Potrei restare a guardarlo per giorni interi: la pioggia sulla sua pelle, l’incavo perfetto delle clavicole, i graffi e le cicatrici sulle braccia, gli archi scarni e lividi delle costole, la linea incantevole di peli fini che corre dall’ombelico fino al bordo dei jeans, la dura definizione delle sue anche. Tutto e ogni singolo pezzettino di lui. Le mani scivolano sui fianchi, si sbottona e lascia cadere i pantaloni. Rimane a tremare con i soli boxer. Cerco di non guardargli l’inguine. «Vieni a nuotare con me?» sussurra con fare cospiratorio, un braccio tremante che gli circonda il torace. Mi siedo. Non so davvero cosa gli sia preso. O che sia preso a me. Controllo il tempo grigio e cattivo, il vento che frusta la superficie del mare e senza più tante cerimonie mi tolgo i vestiti. Mentre Julian si libera dei boxer gli afferro la mano e corriamo nudi lungo la sabbia profonda, verso il mare. Mi toglie il fiato come nessun’altra cosa. Soffoco una risata, sale, acqua, baci mentre ci tuffiamo tra le onde. Tutto è insolito, tranne lui. Sempre lui. Più tardi, siamo distesi insieme nella mezza oscurità, non più al freddo, non più

imbarazzati. La torcia sfuoca mentre il vento fa ondeggiare la tela della tenda, reso rumoroso e pensante dagli spruzzi del mare, ma niente può toccarci qui dentro, nessuna forza della natura se non il tempo. Sfioro con le dita i lividi sul suo petto mentre Julian mi parla. «Ti aspetterò qui. Non ti lascerò mai» sussurra. «Ti amerò per sempre.» Sempre e per sempre. Quando non posso più resistere, lascio che le mie dita diventino la mia lingua. Mi guarda attraverso occhi a fessura mentre lo accarezzo fino a farlo diventare duro, mi tira su di sé e mi bacia prima che possa prenderlo in bocca. «Voglio che mi scopi, Remee. Fammi venire e poi scopami.» Non ho mai... «Lo so. Va bene. È solo... che ho bisogno di te in questo modo. Ed è più sicuro anche per te.» Ho comprato i preservativi, gli faccio segno indignato. Ride, il suono risuona in me come mille luci sfavillanti, come scintille di un fuoco che non si spegnerà mai. Per favore, mi fa segno lui.

Il mio epilogo

Mi chiamo Remee Lavelle. E non sto più fuggendo. I miei fantasmi se ne sono andati con il vento che soffia dal mare, i loro bisbigli perduti tra gli alberi. C’è un uomo che ancora sogno, un’ombra che ora è anche realtà. Il suo nome è Roman Danilov. Mio padre. Vuole fare la differenza nella mia vita, cambiare le cose per me. È ato un anno, ma ancora non sono sicuro. Abbiamo una lunga strada da percorrere e non prendo più decisioni avventate. Non riesco ancora a incontrarlo senza che Julian o Kay o Crash mi stiano vicino, ma stranamente a lui non importa. Il ragazzo che amo ha il dono di far crescere le cose. Ancora si meraviglia di questo, non lo aveva mai saputo prima. Gliel’ho detto che c’è la luce dentro di lui. E le cose non possono fare a meno di esserne attratte. E sebbene non possa annullare le tenebre, so che gli dà pace come nient’altro mai può o potrà mai. Questa è la nostra seconda estate nella nostra casa a due stanze. È un cottage di segnalazione. La stessa casa che ho visto quel giorno, quasi perso nel verde che portava al mare. Appartiene alla fattoria dove Julian ha lavorato prima che si rendessero conto che è più bravo a disegnare giardini piuttosto che a sollevare balle di fieno. L’abbiamo affittata da loro per una miseria, facendone poi bella mostra quando riceviamo visite. E ne riceviamo spesso. Anche se non c’è acqua corrente né elettricità. S’è un vecchio pozzo nel giardino, ho comprato un piccolo generatore che va a petrolio con il denaro del primo quadro che ho venduto. Prendo Londra a piccole dosi. Ma non posso fingere di avere due case. Il mio cuore sarà sempre qui, con lui. La notte che sono tornato dopo esser stato via la prima volta, Julian mi ha condotto a piedi alla casa sulla rotaia. Allora non sapevo che fosse nostra. Era ancora umida e piena di rovi. Mi ha fatto sedere nel giardino che aveva pulito e mi ha agitato davanti una corona di foglie. Ne aveva fatta una per ciascuno e con il giardino come nostra chiesa, ci siamo fatti mille promesse senza dire una parola.

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(1) Victoria Enbankment – Argine Vittoria, strada e via pedonale sull’argine del Tamigi. (2) Testo originale: A&E, Accident & Emergency ospedali di primo soccorso, dove vengono trattati pazienti in fase acuta.

Nota biografica Suki Fleet ha pubblicato romanzi vincitori di premi, legge voracemente (anche se non tanto quanto vorrebbe) e ama le storie d’amore difficili, romantiche e inaspettate. Scrive storie poetiche su personaggi memorabili e crede che ogni persona abbia il diritto di avere un lieto fine. Il suo primo romanzo, This is Not a Love Story, ha vinto il premio come Miglior Opera Prima Gay ai Rainbow Award del 2014 ed è stato fra i finalisti dei Premi Lambda nel 2015. Con Foxes ha vinto il premio come Miglior Romanzo Gay per Giovani Adulti ai Rainbow Awards del 2016. Contatti E-mail: [email protected] Instagram: https://www.instagram.com/suki_fleet/ Facebook: https://www.facebook.com/suki.fleet.3 Goodreads: https://www.goodreads.com/author/show/7919609.Suki_Fleet Tumblr: http://sukifleet.tumblr.com/ Wordpress: http://sukifleet.wordpress.com/ Twitter: https://twitter.com/SukiFleet?lang=en

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