Il Bibliotecario
una novelette Sci-Fi di Marco Guarda
Copyright 2013 di Marco Guarda
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Questo racconto è un’opera di fiction. Qualsiasi nome, carattere, luogo o fatto sono prodotti dell’immaginazione dello scrittore o sono stati usati in modo fittizio e non sono da considerarsi reali. Qualsiasi riferimento a persone, viventi o decedute, eventi reali, situazioni od organizzazioni è puramente casuale.
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Ottobre 2013
INDICE
Copertina Nota di copyright
IL BIBLIOTECARIO
IMPRENDIBILE (estratto)
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Il Bibliotecario
La calma, subdola voce risuonò nella totale oscurità. “Non mi ha informato che si sarebbe trasferito, signor Cosmo. Ieri, quando sono entrato nel suo vecchio scantinato, l’ho trovato vuoto. Ho creduto di averla persa per sempre—ho creduto che fosse infine riuscito a liberarsi di me...” La voce esalò una risata chioccia. “Per fortuna, mi sono imbattuto nel postino, un tipo così gentile che mi ha dato il suo nuovo indirizzo...” Per un attimo, la poca luce gettata dalla luna piena si fece strada oltre le nuvole. Fece capolino attraverso le finestre a ribalta rovescia di un’ampia sala piena di scaffali e tavoli allineati ordinatamente. Svelò le forme vaghe di due uomini che sedevano a entrambi i lati di un enorme tavolo messo vicino al muro. L’uomo che sedeva più lontano da esso guardò intorno a sé e fece un ampio gesto con la mano. “Il nuovo posto sembra molto meglio, però.” Fissò gli occhi nella macchia nera tra sé e il muro. “Meno sa la gente sul mio conto e sul mio lavoro, meglio è,” rispose un ruggito sordo e ferale. “La sua attività è un nobile intento, signor Cosmo, ne sono certo. Ci si può ben immaginare che cosa ne sarebbe se qualcuno scoprisse quello che lei combina per davvero...” “Non accetto minacce dai tipi come lei, Hargraves. Se lei fosse davvero lo scrittore di grido che pretende di essere, non avrebbe per nulla bisogno di me.” Per la prima volta, la voce di Hargraves vacillò.
“Signor Cosmo... Non so come lei faccia a mettere le mani su quei racconti, ma le garantisco che ci sono ben pochi scrittori al mondo in grado di conquistare una tale padronanza dell’arte. Il mio editore è uno difficile da accontentare, ma l’ultima storia lo ha impressionato a tal punto che si è congratulato con me di persona. Voleva sapere com’era possibile che conoscessi i rituali di morte Toltechi con un dettaglio e un’intensità così stupefacenti. Mi domando sempre come mai non pubblichi lei stesso quelle storie, signor Cosmo.” “Perché sono soltanto un umile bibliotecario... Il mio unico compito è quello di preservare e tramandare qualsiasi conoscenza un libro possa contenere.” “Vede,” disse Hargraves. “Dopo che il mio socio è morto, sono sulla cresta dell’onda. Come se avesse gettato un’ombra su di me, ed ora che se n’è andato, la gente possa vedermi per quello che sono davvero. Gli editori che mi trascuravano, adesso fanno a botte per corteggiarmi. Gli anticipi che una volta facevo fatica ad avere, ora mi piovono sulla scrivania come coriandoli. Ho solo bisogno di ancora qualcuno dei suoi fantastici racconti e sarò osannato come il ‘redivivo Lovecraft’.” “Perché non scrive della dipartita del suo socio? Sono sicuro che ci sia materiale in abbondanza da rivangare per mettere insieme un giallo macabro che i suoi ammiratori moriranno dalla voglia di leggere.” Hargraves balbettò, oltraggiato. “Sta insinuando che io abbia avuto a che farci? Lei è una persona orribile, signor Cosmo. Il processo mi ha prosciolto da ogni accusa—Leyland è caduto dalle scale e si è spaccato il cranio contro il pavimento!” “Una caduta davvero provvidenziale, però, che l’ha lasciata in carica del duo dei maestri dell’orrore.” “Proprio così. E ho intenzione di spremere questa grassa opportunità fino all’ultima goccia. Posso pagarla il doppio dell’ultima volta, che ne dice? Lo so che il denaro le serve.” Hargraves si frugò i vestiti ed estrasse un rotolo di banconote. Le mise sulla scrivania davanti a sé. Cosmo si mosse a disagio nella sedia, facendola scricchiolare. Allungò una
mano verso il pacchetto e lo tastò. Se lo mise in tasca. “Che tipo di storia sta cercando, stavolta?” Hargraves si rilassò. Giunse le mani. “Voglio qualcosa di altrettanto intenso dell’ultimo racconto—solo un po’ più recente. Che ne dice di qualcosa d’oscuro ambientato in epoca vittoriana? I miei lettori adorano quel periodo storico.” “Vedrò quel che posso trovare. Mi aspetti qui.” Cosmo si alzò. Appena si avviò verso gli scaffali, mise piede nel chiaro di luna. Il suo portamento era curvo e la camminata sbilenca, come se le sue braccia troppo lunghe e spesse fossero sproporzionatamente pesanti da portare. S’infilò tra gli scaffali, giungendo ad una porta sul retro. Accertandosi che Hargraves non l’avesse seguito, estrasse una chiave, disserrò la porta e l’aprì. Fu avvolto da un lampo di luce così intensa che lo fece rifulgere per un attimo, come se la stanza vicina fosse immersa nella luce del giorno. Prima che fosse possibile intravedere qualcun altro dei suoi lineamenti, Cosmo filò dentro svelto e chiuse la porta dietro di sé. Ritornò venti minuti più tardi, portando un rotolo sottobraccio. Come prima, uscì dal fascio di luce, serrò con tutta cura la porta e nascose la chiave nei vestiti. Arrancò verso Hargraves, raggiungendolo nell’ombra. Gli consegnò il rotolo. “Questo dovrebbe andare bene,” disse. Hargraves afferrò il tubo, ci fece scorrere le dita sopra, tastandolo. Ci accostò il naso ed annusò con bramosia il materiale di cui era fatto il rotolo. Si frugò in cerca di un fiammifero e lo accese, illuminando una pergamena legata da una striscia di pelle rossa. Disfece il sigillo e svolse il rotolo, scoprendo una grafia cruda e convulsa vergata in punta di penna d’oca e inchiostro nero. Gli occhi di Hargraves sfavillarono avidi mentre leggevano le prime righe del manoscritto— le labbra gli si schio a formare una smorfia orrenda. Era così estasiato dalla scoperta, che quando il fiammifero si spense tra le sue dita, scottandolo, non se
ne accorse nemmeno. “Eccellente, mio caro Cosmo! Eccellente!” “Questa è l’ultima storia che le vendo,” lo avvertì l’altro. “Devo chiederle di non contattarmi mai più.” “Non si preoccupi. Se il resto della storia è buono solo la metà di quanto lo è l’inizio, sarà abbastanza!” Con un fruscio, Hargraves avvolse la pergamena e la ripose nella sua tasca. Entrambi gli uomini spinsero indietro la sedia, alzandosi. Si avviarono verso l’uscita, riconsegnando la sala al perfetto silenzio della notte. La luce del sole aveva da tempo scacciato l’oscurità dentro gli sgabuzzini chiusi e i battiscopa crepati da cui era uscita, trasformando il nero antro nella sala luminosa e colorata della biblioteca d’una piccola città. Adesso era invasa da una folla bisbigliante di adulti e bambini di ogni età. Studiavano gli scaffali o sedevano ai molti tavoli intorno ad essi, intenti a leggere, a prendere note o semplicemente a fare i compiti di casa. Cinque ragazzi e ragazze, tutti di dodici anni tranne una, alzarono la testa dai quaderni, dai libri di esercizi e dalle penne e pennarelli sparpagliati di cui il loro tavolo era coperto, e si misero a confabulare tra di loro. “Al vecchio bibliotecario Porter la scuola faceva così schifo che ha preferito crepare il giorno prima che iniziasse, piuttosto che avere a che fare con noi per un altro anno,” disse Dean, un ragazzo con un cespuglio rosso per capelli. “Ti dispiace per lui?” intervenne Eric. “Ma dai, è riuscito a liberarsi di tutte noi pesti odiose—scommetto che è il bibliotecario più felice che il cielo abbia mai avuto per secoli!” Eric, che parlava con calma e con un tono sicuro di sé, aveva una fossetta sul mento. “Penso che fosse prevenuto verso di noi studenti,” disse Natalie, guardando Eric con fare adorante.
“Proprio. Che gli abbiamo mai fatto, dopotutto?” borbottò Harvey, masticando di buon grado una stecca di cioccolata. “Era sicuramente prevenuto,” disse Dean. “Non mi ha mai perdonato per avergli sostituito il parrucchino di riserva che teneva nel cassetto con un topo morto. Non mi scorderò mai la faccia che ha fatto quando ha stretto il puzzone.” Trattennero a fatica le risate che gli salivano in gola. “Ma era un tipo giusto, e mi piaceva.” Dean abbassò la voce e fece un cenno verso il tavolo dei prestiti. “E’ il nuovo bibliotecario che non mi piace...” I cinque voltarono la testa. Il centro dalla loro attenzione era un uomo robusto con delle braccia esageratamente lunghe e pelose. La sua figura minacciosa era in qualche modo mitigata dagli occhiali dalla montatura spessa che portava bassi sul naso, dandogli l’aspetto di un gorilla ammaestrato. Il bibliotecario trasportava tra le braccia una pila di tomi larghi e pesanti, dirigendosi verso il tavolo dei prestiti, quando un ragazzetto di cinque anni gli si mise davanti, obbligandolo a fermarsi. “Non riesco a trovare la prossima avventura di Peter Coniglio!” si lamentò il bambino, mostrando il primo libro della serie. “Nessuno l’ha preso in prestito e nessuno lo sta leggendo, ma non riesco a trovarlo lo stesso!” Il ragazzino sconsolato puntò il dito allo scaffale davanti a lui. “Dovrebbe essere proprio qui.” Il bibliotecario fece scivolare i tomi su un braccio solo. Si grattò la testa, poi osservò il libro illustrato nelle mani del bambino. Canticchiando tranquillo tra sé e sé, allungò la mano verso lo scaffale, rovistando dietro i libri, finché non ne trovò uno che era stato spinto dietro la fila—aveva lo stesso stile di quello del bambino.
Glielo consegnò. “Ma grazie, signore! E’ proprio lui!” Il bibliotecario guardò il piccolo mentre tornava indietro correndo da sua madre, stringendo felice il suo tesoro. Poi, di nuovo, distribuì i tomi su entrambe le braccia e li portò al tavolo dei prestiti. “Mi domando chi mai con un po’ di sale in zucca assumerebbe un tipo tanto strano,” disse il ragazzo coi capelli rossi, di nuovo girandosi verso il gruppetto che confabulava. “Gli avete visto le braccia?” “Sembrano le braccia di un gorilla!” “E’ orribile!” “Perché? A me piace!” esclamò una voce allegra. Apparteneva alla più giovane del gruppo; aveva forse sette anni e le sue trecce le spuntavano dalla testa con un angolo bizzarro, come un paio di pensieri folli. Guardava spesso a destra e a sinistra, senza preavviso, sferzando gli amici di suo fratello. Infatti era chiaro dalla fossetta sul mento che condivideva con Eric che erano fratelli. “Te ne vuoi stare zitta, Sarah?” le disse suo fratello. “Tu non sai niente!” Si rimisero a spiare il bibliotecario. Sedeva al suo tavolo ora, controllando i tomi vecchi e polverosi, quando una vecchia zitella gli si avvicinò. Lui guardò in su e si alzò, cercando di sorridere. “Signorina Jensen. C’è nulla che posso fare per lei?” “Può chiamarmi Beth. Volevo assicurarmi che fosse tutto a posto col suo nuovo lavoro, signor Cosmo.” “E’ tutto sotto controllo.”
“E’ solo... Vede, il fatto che lei gestisse un negozio di libri è stato decisivo nel darle punti per questo lavoro; ma ci sono ben altre qualità che un bibliotecario deve possedere, oltre ad essere in grado di catalogare e recuperare i libri velocemente. Il vecchio Porter non era semplicemente un bibliotecario—era il cuore e l’anima della biblioteca cittadina. Era un pilastro della comunità, uno spirito gentile e un faro luminoso per i nostri allievi.” La signorina Jensen osservò la biblioteca affollata. “Era molto premuroso nei loro riguardi e li teneva sempre sotto il suo sguardo vigile, come se fosse un lontano parente. Quello che voglio dire è che—li faceva crescere.” “Farò del mio meglio per non deluderla, Beth...” “Sono sicura che lei lo farà. Sono sicura che lei sarà all’altezza delle aspettative del consiglio scolastico, signor Cosmo.” Fece una lunga pausa. “La cerimonia funebre di James Porter avverrà nel tardo pomeriggio. Spero di vederla là.” “Non mancherò, Beth.” “Molto bene. A dopo, allora.” Miss Jensen si voltò e se ne andò. Alla porta d’ingresso s’imbatté tuttavia in un giovanotto con un cappello a strisce, che trasportava un pacco espresso. Lui fece manovra intorno alla donna, nel contempo togliendosi il cappello, cercando di salutarla, ma la signorina Jensen non sembrò dargli bado. Dopo che si fu districata, continuò per la sua strada, arcigna ed imibile. Sbuffando, il corriere trascinò il pacco al tavolo dei prestiti, dove lo lasciò cadere. Si levò il cappellino e si asciugò la fronte, poi staccò la fattura appiccicata all’imballo e la lesse a voce alta. “Cento penne d’oca, tre litri d’inchiostro a pigmenti e cinque risme di carta
pergamena.” “Giusto,” disse Cosmo. “A che serve tutto ciò—per un corso di calligrafia?” “Qualcosa del genere, sì.” “Lo addebiterò alla scuola, come al solito, allora.” “No, è materiale personale. Pagherò io.” “E’ sicuro? Sono un sacco di soldi.” Cosmo rimase semplicemente a fissarlo. “Beh, come vuole... Sono quattrocentocinquanta.” Il corriere ò la ricevuta a Cosmo, che la firmò con uno svolazzo. Il giovane fu sorpreso dall’aspetto insolito delle mani e delle braccia del bibliotecario, ma fu abbastanza discreto da tenere la bocca chiusa. Offrì a Cosmo il lettore di carte di credito che gli pendeva dalla cintura, ma egli non lo prese. “Pago in contanti, se non ti dispiace,” disse. Non appena aprì il portafoglio, il corriere strabuzzò gli occhi nel vedere che era pieno zeppo di banconote. “Wow, lei va in giro con un sacco di soldi, signore!” Cosmo lo squadrò da capo a piedi prima di pagare. “Il piccoletto è tutto suo,” disse il giovanotto. Si toccò il cappello e se ne andò scrollando le spalle. Cosmo aprì il pacco, ispezionandone il contenuto, poi lo raccolse e lo portò verso la porta in fondo agli scaffali. Una volta là, sbirciò sopra la spalla, in cerca di ficcanasi indesiderati, poi schiuse la serratura e ò oltre la porta. Mentre la richiudeva meticolosamente, non vide i cinque che lo sbirciavano da
dietro gli astucci impilati. “Vi siete mai accorti che laggiù ci fosse una porta?” chiese Eric, accarezzandosi la mascella. “No,” disse Dean. “Natalie? Harv? Sarah?” Scossero tutti la testa. “Qui sta succedendo qualcosa di strano,” disse Eric. “Chi è il nuovo bibliotecario? Perché ha quelle orribili braccia? Quali attività svolge per la scuola? Che cosa ha a che fare con lui la nuova porta?” Sarah roteò gli occhi. “Se sei così curioso, perché non vai a domandarglielo tu stesso?” “Ha ragione lei,” disse Dean. “Basta chiederglielo.” “E chi lo farà—tu?” “Tiriamo a sorte!” suggerì Natalie. Dean annuì. “Certo, chi perde fa le domande!” “Va bene anche per il resto di voi?” chiese Eric. Harvey mandò giù, per nulla tentato, ma i suoi amici si stavano scambiando cenni e sguardi eccitati, e non se la sentiva di rovinare l’idea di Natalie. Alla fine annuì anche lui—cavolo, non era un pappamolla. Eric si voltò verso Sarah. “Prendi quattro colori!” Sarah cercò nel suo zaino, rimediando una manciata di pastelli. Li contò e li offrì ad Eric. “Idiota, non sai nemmeno contare? Siamo quattro!” “So contare benissimo! Voglio partecipare anch’io!”
“Sei troppo piccola—non sono affari tuoi!” “Voglio esserci anch’io, o dirò alla mamma che hai baciato Natalie!” Eric arrossì fino alla punta dei capelli. Dean ghignò. Harvey gemette. Natalie fissò solo il soffitto... “Oh, d’accordo, allora!” Eric prese il sacchetto che pendeva all’angolo della sua sedia e lo svuotò delle scarpe da ginnastica che conteneva. “Mettili qui, svelta.” Sarah mise cerimoniosamente i pastelli nel sacco. “Chi prende il nero è fregato. Va bene?” Eric agitò il sacchetto, poi lo ò davanti a ognuno dei suoi compagni, che estrassero un pastello ciascuno. Misero le mani chiuse al centro, le girarono all’insù, poi le aprirono una alla volta. “Rosa!” “Giallo!” “Blu!” “Verde.” Harvey aprì per ultimo, piano, sapendo già qual era il colore che aveva raccolto. “Cacchio—nero...” disse. “Ben fatto, Harvey. Hai vinto tu—ci vai tu,” disse Dean, dando una pacca sulle spalle larghe del ragazzo. Harvey mandò giù forte, facendosi coraggio. Ci mise un po’ a staccare le gambe dalla sedia e a mettere i piedi sul pavimento. “Volete che lo faccia davvero, ragazzi?”
I quattro annuirono col capo, torvi, come se stessero pronunciando una condanna a morte. Harvey sospirò, poi si avviò verso il tavolo dei prestiti, dove Cosmo era tornato. “Seguiamolo!” disse Eric. Si misero tutti in fila dietro ad Harvey, cercando di sembrare più disinvolti che potevano. Ma quando egli giunse davanti al tavolo dei prestiti, si bloccò. Si voltò a domandare clemenza, ma i quattro spietati gli fecero cenno di proseguire. Il bibliotecario si accorse del ragazzo infine. Guardò in su da dietro i suoi occhiali, inchiodandolo, facendolo sentire come un sorcio in trappola. “Sì?” disse la voce lenta e profonda di Cosmo. Harvey fece un o indietro, intimidito, ma si scontrò contro il muro formato dai suoi amici, che ora gli chiudevano l’unica via di fuga. “V—volevo fa—farle una domanda. Volevo dire...” “Sì?” “P—perché le sue braccia sono così lunghe...?” Il bibliotecario, che non si aspettava una domanda tanto strana e personale, sollevò le sopracciglia. Si guardò gli arti. Li allargò un po’, studiandoli, come se non gli fosse mai ato prima per la mente che fossero trenta centimetri buoni più lunghi delle braccia d’un adulto medio. Cosmo allungò la mano verso i ragazzi e le ragazze, facendoli sobbalzare, ma si grattò solamente la testa, ripensando alla questione. Infine sorrise di cuore e fece spallucce. “Davvero non lo so,” disse. “Perché dite che siamo tanto lunghe?” “Per trovare i libri smarriti!” esclamò pronta Sarah, alzando la mano, come se fosse interrogata. Gli occhi di Cosmo cercarono intorno al tondo Harvey, finché intravide la figura sottile della ragazzina che sbirciava da dietro di lui.
“E tu chi saresti?” “Sono Sarah Russell! Sono in seconda classe!” disse, facendo un o avanti. “E questo è mio fratello Eric!” “Che stavi dicendo, Sarah?” “Bisogna che le sue braccia siano lunghe, così lei può raggiungere con facilità gli scaffali più alti senza dovere usare la scala. Inoltre, le braccia lunghe sono molto utili per rovistare dietro alle file, in cerca di libri smarriti!” “Hmm. Penso che questo abbia abbastanza senso.” Di nuovo, osservò i suoi arti. “Non sono forse degli strumenti perfetti per un bibliotecario?” Sarah annuì vigorosamente. “E perché mai così pelose?” chiese Harvey, che non si era dimenticato della sua missione. Il bibliotecario sembrò sconcertato anche da questa domanda. Fu Sarah a salvarlo una seconda volta. “Beh, son pelose così può pulire i libri dalla polvere quando li ripone, come un comodo spolverino!” Sarah ridacchiò, meravigliata che i suoi amici più anziani e più saggi non fossero riusciti a trovare la risposta per conto proprio. Eric alzò gli occhi scocciato, cercando di zittire sua sorella—che ragione c’era di fare quelle domande al bibliotecario se poi rispondeva lei? “E’ di nuovo perfettamente sensato,” disse Cosmo. “Come no,” tagliò corto Dean. “Ma come mai ha quelle braccia orrende?” Cosmo pensò su alla domanda, ma non riuscì a trovare nessuna spiegazione soddisfacente. “Beh, penso che la gente nasca diversa; non molto, badate bene—solo un po’. Abbastanza da non farci sembrare tutti uguali. Qualcuno nasce con le lentiggini, qualcuno nasce con della sana carne attorno alle ossa, qualcuno è carino,
qualcuno è un capo naturale... e qualcuno è la persona più intelligente che metterà mai piede sulla terra,” disse, guardando a turno Dean, Harvey, Natalie, Eric e Sarah. “C’è una ragione per questo? Probabilmente no.” Si studiò le braccia. “Io? Beh, temo che dovrò tenermi queste.” Sbirciò da dietro i suoi occhiali, sembrando docile ed innocente come un agnellino. “E a proposito di quella porta?” disse Eric, facendo cenno con la testa verso il retro della sala. “L’anno scorso non c’era.” “No, non c’era,” convenne Cosmo. “La biblioteca sta infatti subendo una piccola ristrutturazione. Presto, quella porta unirà la biblioteca alla mensa. Per ora, dà solo su un piccolo sgabuzzino, dove tengo le mie cose.” “Po—possiamo vederlo?” osò dire Harvey. “Perché no?” Cosmo spinse indietro la sedia e si alzò. Fece strada fino allo sgabuzzino; quando ci arrivarono tutti, prese una chiave di bronzo e disserrò la porta. L’aprì affinché i ragazzi e le ragazze ci guardassero dentro, ma tutto ciò che videro fu la giacca appesa di Cosmo e una camicia. “Ehi, dov’è finita quella scatola—AHIA!” Le parole di Harvey gli morirono in bocca di colpo. Guardò Eric, chiedendosi come mai gli avesse pestato il piede... finché non comprese. “Dov’è cosa?” chiese Cosmo. “N—niente...” “Grazie del tempo che ci ha dedicato per rispondere alle nostre domande,” disse Eric, cambiando discorso. “Spero che non l’abbiamo offesa.”
“Per niente. Sono contento di esservi stato d’aiuto.” I cinque si girarono e marciarono rigidamente verso il loro tavolo, senza girarsi. Infatti, gli occhi di Cosmo erano puntati su di loro—erano socchiusi dal sospetto e i suoi lineamenti si erano induriti. Chiuse il misterioso sgabuzzino, tornando al tavolo dei prestiti. Le molte domande in apparenza innocenti dei ragazzi lo avevano messo a disagio. Dopo così tanti adulti che aveva menato per il naso, era mai possibile che non riuscisse ad abbindolare un branco di scolari? Come aveva detto la signorina Jensen, faceva meglio a tenerli sotto un occhio vigile—non voleva che qualche stupido moccioso gli rovinasse gli affari, dopotutto. Eric, Natalie, Dean, Harvey e Sarah uscirono dalla biblioteca. “Che vi avevo detto? Possiamo fidarci di lui!” disse Sarah, sorridendo raggiante di speranza, aspettandosi una lode. Eric però non la ringraziò. Al contrario, si fermò di colpo, furibondo con sua sorella. “Perché devi sempre rovinare tutto?” “Cosa?” “Se fossi stata zitta, lo avremmo inchiodato! Invece hai dovuto rispondere al suo posto! Dovevi salvarlo!” Eric gettò le braccia al cielo, adirato. “Che cosa ho mai fatto per meritarmi una stupida idiota per sorella?” Sarah torse le labbra, arrabbiandosi a sua volta. “Lo sapevo che volevi essere figlio unico!” “Vorrei proprio—ma è impossibile liberarsi di te!” Sarah arrossì, cercando parole aspre abbastanza per ribattere, ma non riuscì a trovarle... Gli occhi le si riempirono di lacrime. Ferita, fece sferzare le trecce
intorno e scappò via. “Perché devi essere così duro con lei?” chiese Natalie, preoccupata. “Stava solo cercando di aiutarci!” “Oh, per favore, risparmiami la predica! Le ho dato una lezione che si meritava da un sacco di tempo. Scordiamoci di lei—adesso dobbiamo concentrarci sul piano.” “Piano? Che piano?” chiese Dean. “Dobbiamo scoprire cosa c’è dietro quella porta!” Eric si accorse che qualche ante guardava nella loro direzione, così indicò ai suoi amici una panchina solitaria sotto un enorme olmo lì vicino. “Lo avete visto coi vostri stessi occhi! Il pacco espresso che il bibliotecario ha messo nello sgabuzzino non c’era più. Chi l’ha preso? Dov’è finito?” Nessuno rispose. “Che cosa suggerisci?” chiese Dean. “Io dico di tornare stanotte, e di sfondare quella dannata porta.” “Potremmo dire alla signorina Jensen quello che è successo,” disse Natalie. “Ma dai, l’hai vista. E’ completamente persa per il nuovo bibliotecario—non ci crederà. Dirà che abbiamo una fervida immaginazione e che guardiamo troppa televisione. Dobbiamo arrangiarci da soli a scoprire quello che sta succedendo in biblioteca! Chi è con me?” Uno ad uno, i tre alzarono la mano. “Grande. Come facciamo a introdurci?” chiese Eric. “Alla stazione di polizia tengono una copia di tutte le chiavi della scuola, per sicurezza,” disse Harvey. “Troverò una scusa per parlare con papà, e prenderò quelle che aprono la biblioteca!” “Geniale! Che altro?”
“Porterò un paio di torce elettriche e degli arnesi da scasso supplementari, nel caso servissero!” disse Dean. Eric si girò verso Natalie. “E tu?” “Preparerò una dozzina di panini!” “Ehi, non sarà di certo una scampagnata.” “Sì, ma se poi ci viene fame?” s’intromise Harvey. “E va bene, allora portali! Ci incontreremo qui alle undici, giusto? Qualsiasi cosa succeda, non ditelo a nessuno!” Annuirono, tutti d’accordo. Guardarono verso la scuola, poi alla biblioteca che stava al pianterreno—e mandarono giù forte. Era infine venuta sera. La scuola era deserta, così come lo era il piazzale; la biblioteca non era altro che una lunga fila di finestre buie a ribalta rovescia appena più su del prato. Qualcuno imbacuccato in un vivace impermeabile giallo si affrettò lungo il bordo del piazzale, tenendosi basso. Inciampò un paio di volte nell’erba, alzandosi di nuovo, finché non giunse sotto il grande olmo. Sbuffando, si acquattò lì—era Harvey. Sbirciò l’oscurità che lo circondava, guardingo... quando vide due paia d’occhi che lo fissavano da un cespuglio accanto. Strillò dalla paura, afferrando il terreno, cercando di mettersi in salvo, ma due ombre saltarono fuori dal cespuglio e gli si avventarono sopra, inchiodandolo. “Sei in ritardo, amico!” disse una voce familiare. “C—chi siete?” “Siamo Eric e Dean, idiota che non sei altro!”
Eric accese la pila e se la puntò in faccia. Harvey annaspò nel vedere che erano proprio i suoi amici—si erano dipinti le facce di nero, come le truppe speciali. “Siete voi, ragazzi—perché vi siete dipinti la faccia?” Eric e Dean rotearono gli occhi, adocchiando il vivace impermeabile di Harvey. “Che ci fai dentro questa roba? Ti abbiamo visto arrivare lontano un chilometro! Se dobbiamo entrare nella biblioteca, sarà meglio che non ci veda nessuno!” “Ma le previsioni dicono che pioverà...” Dean gemette. Eric controllò l’orologio. “Dove cavolo è Natalie? Si sta facendo tardi!” “Sono qua!” Fecero tutti un salto all’udire la voce. Era proprio la ragazza, che stava in piedi dietro di loro, indossando una perfetta tenuta da ladra, incluso un maglione e un cappellino nero. “Hai avuto problemi a venire?” le chiese Eric. “Ho detto a mia madre che dormivo da Maria.” “E voi?” chiese a Dean e a Harvey. “I miei lavorano tutta la notte.” “Ho detto a papà che dormivo sulla pianta!” Si girarono tutti verso Harvey, meravigliati. “Beh—non ce l’hanno tutti una casa sull’albero?” “Lascia perdere, Harv. Andiamo e basta!” Eric si piegò in due. Corse verso l’ingresso della biblioteca e il gruppo lo seguì a sua volta.
“Dove sono le chiavi, Harv?” Harvey si frugò le tasche, recuperando una chiave con una targhetta. La consegnò ad Eric, che provò ad infilarla nella serratura. “Non ci a!” “Deve! Prova di nuovo!” “Non ci a proprio... Ma che chiave è questa?” “Perché, la chiave della biblioteca!” “Eric accese la pila, puntandola verso la chiave. Guardarono tutti la targhetta— diceva BICICLETTE. “Non sei manco capace di leggere, stupido asino?” Harvey prese la chiave, stupito, quasi chiedendosi se potesse essersi trasformata da sola all’aria notturna. “Dean? Ce li hai gli arnesi da scasso di riserva?” Dean li recuperò. Si avvicinò alla serratura, ispezionandola per un momento. “Mi spiace, la serratura è sbagliata!” disse infine. “Cosa! Che vuoi dire, ‘la serratura è sbagliata’?” “Posso sce le porte normali, non quelle col codice—questa è una serratura speciale col codice, non posso forzarla! Dobbiamo trovare un altro modo per entrare!” Eric, fuori di sé dalla rabbia, stava per andarsene, quando Natalie puntò il dito. “Guardate, una delle finestre è socchiusa!” “Cosa?” Si voltarono tutti, trottando verso di essa.
Proprio così, una delle finestre a ribalta rovescia a livello del terreno era accostata. La spinsero, facendola dondolare all’indietro, ma più di tanto non si aprì. “C’è un braccetto che la blocca—più di così non si apre!” disse Eric. Contorcendosi come un’anguilla, Natalie provò ad infilare la testa dentro, senza riuscirci. “E’ troppo stretta!” “Spingiamo più forte!” I quattro spinsero più forte che poterono, ma la finestra non si mosse. Mentre si sforzavano, ad Harvey venne in mente un’idea. Indietreggiò; poi, dopo una breve rincorsa, si gettò di peso contro la finestra. Il braccetto si spezzò all’improvviso—caddero tutti attraverso l’apertura, precipitando nell’oscurità. Per un momento o giù di lì, nessuno osò muoversi. Quando annasparono, cercando di alzarsi, ma non ce la fecero, qualcuno chiamò Harvey. “Harv? Ti spiacerebbe levarti da sopra di tutti noi?” Ci furono una serie di gemiti mentre Harvey rotolò via dalla cima del mucchio in cui erano caduti. Eric recuperò la pila e la diresse verso gli altri. “State bene?” Annuirono tutti, rimettendosi in piedi. “Beh, bel lavoro, Harv! Sembra che siamo entrati!” Gettando occhiate vigili intorno a loro mentre procedevano, tenendosi vicini l’uno all’altro, timorosi dell’enorme biblioteca e degli improvvisi, inquietanti sciocchi e scricchiolii che gli scaffali facevano sotto il peso soverchiante della conoscenza, si diressero verso la porta misteriosa alla fine degli scaffali, La torcia elettrica infine la inquadrò.
“Eccoci!” disse Eric. “Dean? E’ tutta tua!” Si fecero da parte mentre il ragazzo con i capelli rossi estrasse i suoi arnesi e cominciò a lavorare alla porta. Non ci misero molto a sentire un clic metallico. “E’ sbloccata!” sussurrò Dean. “Aprila!” lo incitò Natalie. “Eric annuì a Dean, che tirò la porta... Fecero tutti un salto indietro e strillarono nel vedere il diafano pezzo di stoffa che fluttuava davanti ai loro occhi. “E’ un fantasma!” esclamò Harvey. “Di che cosa stai cianciando—è solo una camicia!” disse Eric, togliendola di mezzo. Puntò la torcia dentro lo sgabuzzino. “E’ vuoto...” Misero tutti la testa dentro, battendo ed esplorando. “Sembra solo un normale stanzino!” disse Natalie. Si scambiarono degli sguardi delusi, quando Harvey guardò ai suoi piedi... e si bloccò per l’orrore. “Che c’è adesso?” Eric roteò gli occhi e illuminò il pavimento—con sua grande sorpresa, vide un’impronta infangata. Si era quasi asciugata, ma da essa spuntavano ancora sottili fili d’erba. Spostò la torcia, cercando una pista, ma quella era l’unica traccia del aggio di qualcuno. “Qualcuno, è ato oltre—un uomo! Cerchiamo un pulsante nascosto, una leva, qualsiasi cosa!” disse. Di nuovo, annasparono intorno senza successo, finché non udirono il rumore di qualcosa che sbatteva.
“Harv? Te ne stai tranquillo, una buona volta?” “Non sono stato io! Non ho fatto niente!” Eric guardò con aria interrogativa verso Dean e Natalie, ma scossero la testa anche loro. Spaventati a morte, scapparono dallo sgabuzzino e scrutarono la sala silenziosa, cercando di localizzare il suono. Videro un’ombra entrare in biblioteca, chiudere a chiave la porta d’ingresso, voltarsi e arrancare verso di loro. “Nascondetevi, svelti!” sussurrò Eric, richiudendo lo stanzino. Corsero tutti dietro un’enorme pila di libri che si ergeva a poca distanza. L’ombra trasportava qualcosa tra le sue braccia fin troppo lunghe e spesse—una lunga scatola. Oltreò i ragazzi senza notarli, fermandosi proprio davanti allo sgabuzzino. Si frugò in cerca delle chiavi, in procinto di aprirlo, quando un altro suono ancora echeggiò nella sala—un battere furioso. L’ombra s’interruppe e stette ad ascoltare. Il bussare andò avanti per un pezzo—all’ingresso della biblioteca c’era qualcun altro. Con un grugnito irritato, l’ombra depose la scatola e tornò indietro. Mentre tirava la porta della biblioteca, essa fu avviluppata dal pallido chiaro di luna, che rivelò i lineamenti di Cosmo. Un secondo uomo stava in piedi di fronte a lui, indossando un cappello a falda. “Hargraves? Che diavolo ci fa lei qui a quest’ora?” “Lo so che è tardi, signor Cosmo. Non l’ho trovata a casa, ecco perché sono venuto qua. Devo parlarle.” Cosmo squadrò l’uomo duramente e a lungo. “Perde il suo tempo, Hargraves. Le ho già detto che non le darò più nessuna storia. Ora se ne vada.” Cosmo fece per chiudere la porta, ma lo scrittore mise il piede dentro,
impedendoglielo. Il bibliotecario affrontò Hargraves, che indietreggiò intimorito. “Aspetti! Mi ascolti un momento!” lo pregò. “Si rammenta quella storia d’orrore vittoriana che mi ha venduto? Lasci che le dica qualcosa a proposito. Il mio editore l’ha letta—e ne è rimasto scioccato. Si è accorto che c’era qualcosa d’inquietante in essa, come se la narrazione fosse troppo genuina, troppo verosimile—troppo reale. Ha contattato un suo amico inglese e gli ha mandato la storia. Il signor Keynes è uno studioso dell’epoca vittoriana. Dopo avere analizzato il rotolo di pergamena, è giunto alla conclusione che il racconto è una reminiscenza troppo dettagliata della vita nei bassifondi di Londra tra il 1885 ed il 1888 per venire se non da qualcuno che visse davvero a quel tempo. Lo so che sembra pazzesco, ma Mr. Keynes ha escluso che uno scrittore contemporaneo, per quanto ben documentato, possa raggiungere un tale livello di verosimiglianza. Chi l’ha scritto ha impiegato uno stile crudo e diretto—non era un raffinato autore moderno, né un artificioso scrivano vernacolare di quel tempo. Ma c’è di più. Vede, il signor Keynes non è solo uno storico vittoriano— è pure un esperto degli omicidi di Whitechapel. Questo non le ricorda nulla?” Hargraves lanciò un’occhiata furtiva all’oscurità che li circondava ed abbassò la voce, come se temesse che le sue parole avrebbero evocato il mostro da tempo deceduto. “Il signor Keynes pensa che l’abbia scritta Jack lo Squartatore...” “Lei è pazzo furioso, Hargraves,” si schernì Cosmo. Ma Hargraves, come se lo avesse preso una frenesia delirante, continuò a parlare. “Il signor Keynes crede che la storia sia la memoria del reale, brutale assassinio di Martha Tabram—un crimine che non è mai stato ufficialmente attribuito allo Squartatore. Beh, in questo rotolo egli menziona la sordida vita in cui si crogiolava; per di più, fa il nome di due sue lascive compagnie femminili—due Mary, badi bene. Si spinge avanti a tal punto perfino da descrivere le loro stanze in tutti i minimi dettagli!” Hargraves si asciugò il sudore gelido dalla fronte. “Non si tratta dell’interpretazione immaginaria di uno scrittore creativo! E’ la trascrizione del fatto reale! Lei deve dirmi da dove l’ha presa, signor Cosmo! Se
c’è dell’altro, potremmo gettare definitivamente luce sul mistero che è stato lo Squartatore! Ne faremo il colpo editoriale del secolo! Diventeremo entrambi ricchi!” Hargraves prese Cosmo per le spalle. “Deve dirmi da dove ha preso la storia!” Hargraves lo guardò con aspettativa, ma Cosmo si liberò di lui ed indietreggiò. “Le ho detto che la biblioteca è chiusa. Buonanotte!” Sbatté la porta e la chiuse a chiave. Hargraves le si gettò contro, battendo all’impazzata, gridando, ma il bibliotecario semplicemente lo ignorò. Eric, Dean e Harvey erano ancora nascosti nel buio, cercando di ascoltare quello che i due uomini si dicevano, ma udirono solo un borbottio lontano. Eric si voltò verso i suoi amici, pregando che gli uomini se ne andassero alla svelta, quando si accorse che Natalie non c’era più. Guardò intorno, cercandola, chiedendosi dove cavolo fosse finita... finché la vide. Era accovacciata accanto alla scatola che Cosmo aveva portato dentro—adesso giaceva aperta. “Natalie!” sussurrò Eric. Ma lei era come paralizzata. Eric balzò dal suo nascondiglio e corse verso di lei, puntandole la torcia in faccia —Natalie aveva gli occhi sbarrati, era pallida come un cencio e si copriva la bocca con entrambe le mani. “Ehi, che ti succede?” Lei fece un cenno verso l’interno della scatola. Eric spostò la pila verso di essa, guardandoci dentro. Con suo grande orrore, vide che la scatola non conteneva carta... ma due intere braccia umane, recise alla spalla, insanguinate e sporche di terra.
Strozzato dall’incredulità e dallo schifo, Eric afferrò il polso di Natalie e la trascinò nell’ombra. “Ehi, cosa—” iniziò Dean. Ma Eric lo zittì, indicandogli Cosmo, che ritornava. Li oltreò di nuovo, raccogliendo la scatola. Mentre sbloccò ed aprì lo sgabuzzino, l’esplosione di luce avvolse tutto ciò che c’era nel raggio di dieci metri, inclusi gli scaffali stipati, i libri impilati e le facce attonite dei quattro amici. Cosmo scomparve dietro la porta giusto il tempo di nascondere la scatola, poi tornò indietro. Chiuse con cura la porta a chiave, scuotendo ancora la testa per la tirata folle di Hargraves, e finalmente se ne andò. Eric, Dean, Harvey e Natalie erano ancora scossi. “Cavolo, cos’era quella luce?” si domandò Dean. “Credo di avere sentito degli uccelli!” disse Harvey. Eric non disse niente. Prese solo la mano di Natalie e la trascinò con sé verso la finestra attraverso la quale erano caduti, in procinto di andarsene pure loro. “Dove state andando?” esclamò Dean. “E il nostro piano? E la porta? Non abbiamo visto abbastanza!” “Non m’importa—torno a casa,” disse Eric. Dean gli corse incontro, piazzandosi davanti a lui. “Non andrai da nessuna parte finché non mi dirai perché hai cambiato idea. Che c’era nella scatola?” Eric mandò giù forte mentre ricordava quello che aveva appena visto. “C’erano due braccia mozzate... E terra, come se fossero appena state scavate da una tomba...” Un brivido corse lungo le schiene di Dean e Harvey. “Devono essere le braccia del vecchio James Porter, lo hanno seppellito questo
pomeriggio!” disse Harvey. “E che se ne fa il bibliotecario?” “Non lo so e non voglio saperlo,” rispose Eric. “Non voglio finire anch’io dentro una scatola!” “Siamo venuti qui per vedere quello che c’è dietro quella porta, e non me ne andrò finché non lo saprò!” insistette Dean. I due stavano per dividersi, quando udirono altri i ancora alla porta della biblioteca—per l’ennesima volta, qualcuno entrò. Si nascosero tutti sotto un tavolo, guardando la sala. Non era Cosmo, ma l’uomo col cappello a falda. Si muoveva a o svelto; lo stesso, non riusciva a celare lo zoppicare della sua gamba sinistra, come se fosse ferita. Non parve badare molto al dolore, però. Era più interessato a qualcosa di piccolo e lucido che teneva in mano—una chiave. Ghignò selvaggiamente e marciò avanti, diretto verso la porta nel retro. Con grande stupore di Eric, la chiave di Hargraves fu in grado di aprire lo sgabuzzino. Estasiato, l’uomo mise piede nel raggio di luce. Non si guardò indietro, non chiuse nemmeno la porta—continuò ad avanzare. “Andiamo!” disse Eric. “Ha lasciato la porta aperta!” “Lo so,” disse Dean, correndo alla porta misteriosa. “Mi riferivo alla porta d’ingresso!” Come stregato, Dean scomparve nella luce. Eric, Natalie e Harvey rimasero lì, incerti e con gli orecchi ben aperti, ma udirono solo un cinguettio. “Ehi, ci sono degli uccelli là dentro...” disse Harvey. Si alzò in piedi. Magneticamente attratto dalle note melodiose, entrò nella luce anche lui.
Eric guardò la porta d’ingresso, desiderando con tutto sé stesso di andarsene e di scordarsi tutta quella follia. Si voltò verso Natalie. “Non puoi lasciarli andare da soli!” lo spronò lei. Eric sospirò, sapendo che aveva ragione. Era stata sua l’idea. Era stato lui a sospettare del bibliotecario per primo. Era stato lui a guidare i suoi amici in quella rischiosa avventura. E loro lo avevano seguito come se fosse un capo di cui fidarsi—non poteva abbandonarli al loro destino adesso. Coprirono entrambi la poca distanza fino alla porta nel retro... e l’attraversarono. Lo sgabuzzino continuò a gettare la luce abbagliante contro gli scaffali stipati. Poi, inaspettatamente, entrò in biblioteca un’ultima ombra—un’ombra piccolissima. Mentre si avvicinava alla luce ed al cinguettio, si rivelò essere una bambina. Aveva forse sei o anche sette anni, ed indossava pantofole e un pigiama giallo stampato con un motivo di elefanti. Le trecce le spuntavano dalla testa con una strana angolazione, come un paio di pensieri folli. Sembrando pallida ed impaurita, eppure risoluta a non farsi lasciare indietro da suo fratello, anche Sarah entrò nella luce. Eric si ritrovò in un biancore accecante che non era affatto la mensa scolastica. Non appena un refolo di vento gli scompigliò i capelli, portandogli al naso l’odore dolce dell’erba e dei fiori, si rese conto che non era al chiuso, ma all’aria aperta. Presto, i suoi occhi si abituarono alla luce, permettendogli di vedere. Si trovava in cima a una collina illuminata dalla luce solare più luminosa. Lui e Natalie erano usciti da una capanna di tronchi messa insieme alla bell’e meglio, che aveva delle zolle di terra per tetto. Un sentiero ben tracciato partiva appena fuori dalla capanna, portando oltre e poi giù, verso un ampio lago sulla destra e una decadente cittadella di pietra sulla sinistra. Una foresta intricata si ergeva sullo sfondo e, oltre, una catena di montagne alte e scure, velate da una foschia. Sul sentiero, il puntino nero che era Hargraves era seguito, a sua insaputa e a una certa distanza, dai punti giallo e rosso che erano Harvey e Dean. Erano quasi sulla riva del lago adesso.
“Forza,” disse Eric a Natalie. “Portiamoli indietro.” Filarono entrambi giù per il pendio della collina, recuperando terreno sui loro amici. Dean e Harvey trovarono un masso dietro al quale si nascosero, sbirciando Hargraves mentre avanzava verso la riva. L’uomo si tolse il capello, facendosi aria contro il caldo di quella che pareva una mite giornata estiva. Si sedette e si massaggiò la gamba ferita, poi si piegò verso il basso, immergendo la mano nell’acqua, bevendola, bagnandosi le tempie e la fronte. Quando si fu rinfrescato, si frugò le tasche, tirando fuori la pergamena che aveva comprato da Cosmo. La srotolò, studiandola con attenzione, chiedendosi da dove il bibliotecario l’avesse presa. Si carezzò il mento, guardando intorno a sé—alla foresta; alle montagne... Hargraves concentrò infine lo sguardo sulla vecchia città diroccata davanti a lui. Si rimise in piedi e marciò verso di essa. Dean e Harvey sgattaiolarono da dietro il masso, giungendo al lago a loro volta, toccandone le acque, bevendole, assetati com’erano dopo la lunga e afosa camminata. Eric e Natalie li raggiunsero presto. “Che posto è questo?” chiese lei, impressionata ed impaurita allo stesso tempo. “Sembra essere qualcosa uscita da un sogno...” Dean, si asciugò la bocca sulla manica della maglia. “A me sembra abbastanza reale. Forse è qualche posto di cui non abbiamo mai sentito parlare.” Eric cercò in cielo le scie degli aerei, ma non ce n’era nessuna. Di tanto in tanto, avano solo un paio di uccelli, cinguettando pigramente. “Dubito che questo sia il nostro mondo,” disse. “O il nostro tempo.” Harvey sguazzò con le mani, allegramente.
“Di chi è, allora?” Eric fece spallucce. “Di sicuro questo lago è strano,” disse Natalie, chinandosi e toccando l’acqua. “La superficie sembra opaca—non si riesce a vedere quello che c’è oltre.” Eric raccolse un po’ d’acqua tra le mani. Continuava a girare in piccoli vortici, nonostante la mancanza di vento, come se avesse una volontà tutta sua. “E’ fredda... e non si ferma...” Fu allora che Harvey puntò il braccio verso il centro del lago, a bocca aperta dallo stupore. “Qualcosa si sta facendo una nuotata!” “Sembra un grosso cane...” disse Dean. “Viene da questa parte!” Si tuffarono nell’erba. Mentre l’animale accostava, fu chiaro che non era affatto un cane—era molto più grosso, con delle lunghe braccia nere e pelose. “E’ un gorilla!” squittì Harvey. “Ehi, i gorilla non sanno nuotare—affonderebbero e annegherebbero se ci provassero!” protestò Eric. “Beh, vai a dirglielo!” Guardarono stralunati la bestia mentre si issò fuori dal lago. Bagnata fradicia, scosse via energicamente l’acqua dal mantello. Senza dare minimamente bado ai ragazzi, la grande scimmia arrancò verso la cittadella, come se stesse eseguendo un qualche compito urgente. I quattro si scambiarono occhiate mezzo divertite. “Dove sta andando?” si chiese Harvey. “Scopriamolo!” disse Dean, rialzandosi e correndo dietro alla bestia per primo.
Con una scrollata di spalle, Harvey lo seguì a ruota. Eric era combattuto, ma l’eccitazione dell’avventura che gli saliva vinse presto le sue paure e i suoi dubbi. Attese Natalie, poi corsero entrambi avanti. I quattro amici non si accorsero della testa con le trecce che spuntava da dietro il masso. Il tocco di tessuto giallo stampato con gli elefanti che era Sarah uscì dal suo nascondiglio e corse al lago. Affascinata da esso, si tolse le ciabatte, si arrotolò i pantaloni e pestò nell’acqua, felice e spensierata che più non si poteva. Solamente dopo essersi divertita abbastanza si rimise le pantofole e seguì suo fratello nella vecchia città. Non si voltò indietro. Non vide l’acqua al centro del lago iniziare ad agitarsi e a ribollire. Si scurì e si sollevò mentre qualcosa di enorme, nero e veloce emerse... Nella cittadella, ogni cosa la diceva lunga del luogo magnifico che doveva essere stata molto tempo prima—dagli alti e larghi portali di pietra, agli imponenti edifici di tre e quattro piani che fiancheggiavano le vie dritte pavimentate da lastre di pietra, agli ampi archi che davano accesso alle corti private ora invase da erbe e rampicanti. Qua e là, nelle corti appartate e nelle nicchie, il tempo aveva lavato via le molte insegne e le iscrizioni scolpite, cosicché nulla si poteva dire sulla storia della città. Ora rimanevano solamente i sedili impolverati, le fontane ed i bacili disseccati, e le scale senza fine che conducevano a stanze i cui tetti e pavimenti erano da tempo crollati. Il gorilla bagnato saltellava svelto lungo la strada principale della cittadella. Pareva sufficientemente a suo agio in mezzo al ciarpame che intasava le vie e i aggi intricati, come se fosse in qualche maniera abituato a percorrere quel tragitto. Eric, Dean, Natalie e Harvey lo stavano inseguendo ancora, ma con l’aumentare del numero di diramazioni e incroci, facevano sempre più fatica a tenergli dietro. Madidi di sudore e senza fiato, presto lo persero di vista... Si arrestarono in una corte minore, chiedendosi quale strada la grande scimmia avesse preso tra le molte che si dipartivano. Alzando il naso per aria, i quattro vagarono senza meta per un po’, finché non giunsero forse al più grande edificio della città, l’unico ancora col tetto. Ne oltrearono il massiccio portale divelto ed entrarono in una sala piena di
scaffali di pietra. Con loro grande meraviglia, erano stipati di un milione di rotoli di pergamena come quello che Hargraves aveva tirato fuori dalla tasca. Solo quelli che giacevano sui ripiani superiori erano coperti di polvere e ragnatele; la maggior parte di essi erano ben tenuti. C’era forse in città un piccolo esercito di bibliotecari costantemente al lavoro? Al momento, non ne videro nessuno. “Sembra una versione più vecchia e gigantesca della nostra biblioteca,” sussurrò Harvey. Curiosarono per la sala, afferrando e srotolando le pergamene a portata di mano, cercando di capire che cosa ci fosse scritto sopra. Che lingua è questa? Non riesco a leggerla!” disse. Natalie diede un’occhiata. “Sembra... Greco?” Andò verso un altro scaffale, sbirciandone i rotoli. “Questo è Latino. Questo sembra Arabo. Questi mi ricordano antichi geroglifici. E sono certa che questa è scrittura cuneiforme!” Si voltò. “Che razza di biblioteca è mai questa?” Natalie s’incamminò verso uno scaffale contenente rotoli in Greco—l’intera sezione era segnata da lettere scolpite che iniziavano per “A.” Provò a leggerle. “A-Ri-Sto-Te-Le...” Perplessa, guardò la mostruosa libreria. Poi rovistò alcune pergamene, leggendone le prime righe. “Sono tutte opere diverse! Come può essere?” “Che vuoi dire?” chiese Eric. “Aristotele occupa meno di un metro nella nostra biblioteca!” “La stampa moderna è super compatta,” disse Dean. “L’ho già considerato. Lo stesso, questo è più di cinquanta volte quello che avrebbe dovuto scrivere.” “Ma è impossibile!” s’intromise Eric. “Se abbiamo solo parte delle sue opere, di
che parla il resto?” Rimasero in silenzio, incapaci di rispondere alla domanda, quando echeggiò una voce d’uomo. “Parla di tutto...” Tutti si girarono e videro Hargraves. Aveva perso il cappello e la giacca, e le sue braccia erano zeppe di almeno un centinaio di rotoli. Ora sembrava sconvolto, ed i suoi occhi brillavano in modo strano, come se le sorprese del nuovo mondo gli avessero dato alla testa. “Parla del firmamento!” continuò in un delirante sproloquio. “Dei grandi terremoti del ato! Delle creature marine! Secondo queste pergamene, ha pure scritto una commedia!” Si leccò le labbra nel rendersi conto dell’inquietante assurdità che aveva appena detto. “Ho appena un’infarinatura di Greco, ma da quel che ho letto, il personaggio non era solo un mero filosofo. Era un naturalista ed uno storico! Ma non è il solo. Qui si trova in buona compagnia. Shakespeare ha quattro scaffali. Dante ne ha uno e mezzo. Dostoevsky ne ha tre. H. G. Wells ne ha cinque!” Hargraves fece una pausa, assicurandosi di non avere perso nessuno dei preziosi rotoli che stringeva avidamente. Di nuovo, la sua lingua guizzò sulle labbra riarse. “Tuttavia, c’è un problema,” disse. “Non c’è traccia nelle opere che conosciamo che essi abbiano scritto queste altre! Ma c’è di più; metà della biblioteca è riservata ad autori di cui non ho mai sentito parlare—sconosciuti! Gente modesta che scrive di piccole cose insignificanti, confessioni noiose e diari che a nessuno interesserebbe leggere.” “Che posto è questo, allora?” chiese Eric. Hargraves alzò le spalle, apparendo ancora più folle. “Davvero non lo so. Penso che stiamo ammirando tutto ciò che non è mai stato
scritto...” Furono tutti turbati dalla rivelazione di Hargraves. “Ripeta un po’?” Ma Hargraves non si ripeté. Lanciò una pazza risata stridula e scappò dalla biblioteca con le pergamene che si trascinavano dietro di lui. I quattro scolari si scambiarono occhiate stupite, poi si avviarono nella direzione in cui Hargraves era fuggito, giungendo ad un secondo portale che dava sull’esterno. Uscirono fuori su una grande piazza contigua alla biblioteca. Anche se molti degli edifici che la circondavano erano crollati, almeno qui le rovine erano state rimosse, dando all’osservatore un senso più chiaro di ciò che la cittadella dovesse essere stata nel periodo del suo massimo splendore. La piazza doveva avere avuto la più grande importanza, dal momento che era fiancheggiata da colonne commemorative ed obelischi. Occasionali balconi, panche, pedane e torrette si snodavano in una eggiata architettonica d’incomparabile bellezza. I quattro cercarono Hargraves per la piazza senza avere successo. Trovarono qualcos’altro, tuttavia, che pensavano di avere perso... il gorilla nuotatore. Non era da solo, ma in compagnia di almeno una dozzina di suoi simili, che avevano eletto la piazza come quartiere residenziale. Anche se sembravano selvaggi, sedevano quietamente e civilmente come avrebbe fatto qualsiasi altro eggiatore domenicale. Mentre gli studenti si avvicinarono, gli animali non mostrarono alcun interesse verso di loro, poiché erano intenti nella più stupefacente occupazione di sempre. Apparentemente, c’erano due classi di gorilla: i sussurratori e gli scriba. Il gorilla nuotatore, che ora sedeva su una delle molte pedane, apparteneva ai sussurratori. Infatti, in quel momento stava dicendo qualcosa all’orecchio del secondo gorilla. Non appena questi, uno scriba, udì le prime parole, raccolse la penna d’oca che stava al suo fianco, l’intinse in un calamaio, poi cominciò a scrivere su un rotolo di pergamena pulito. Le parole uscivano facilmente dalla penna dello scriba, e con altrettanta facilità si allineavano in righe perfettamente leggibili.
Le molte coppie di scriba e sussurratori lavoravano di comune accordo, sembrando monaci incappucciati di un’altra epoca—ma un curiosissimo dettaglio fece sobbalzare i quattro per la sorpresa. “Guardate! Tutti gli scriba hanno braccia umane!” esclamò Natalie. Era proprio vero. Le braccia rosate si univano al peloso torace dei gorilla scriba alla spalla; non si vedevano giunture o suture, come se fosse stato un bravissimo chirurgo a fare l’operazione di giunzione. I quattro si avvicinarono ad una delle coppie e si misero a fissarla, affascinati dall’inusitata procedura, ascoltando il mormorio sommesso dei racconti mai prima narrati che riempiva l’aria con un sonnolento tono uniforme. Di tanto in tanto, quando una delle storie finiva, il sussurratore che l’aveva raccontata abbandonava la piazza, lasciando la sua controparte scriba ad arrotolare cerimoniosamente la pergamena, sigillarla con un nastro, e poi correre nella biblioteca di pietra per classificarla. “Sono stati i gorilla a scrivere tutti i rotoli nella biblioteca di pietra!” comprese Dean con una scossa. “Perché lo fanno? Chi gli ha insegnato a scrivere? Che posto è questo?” I quattro non ebbero il tempo d’investigare di più su quell’assurdità, dal momento che un boato ed un profondo tambureggiare scosse l’intera città. “E’ un terremoto!” gridò Eric. “Stiamo lontano dagli edifici!” Corsero tutti verso il centro della piazza e rimasero in ascolto. Il martellamento stava diventando sempre più forte; aveva una specie di ritmo, come il suono di enormi i. Guardarono in cielo e lo videro... Alto forse trenta metri e più, il mostro era tutto nero. La postura eretta, la testa, le due braccia e le due gambe erano le uniche cose che gli davano un aspetto umano. La materia di cui era fatto il suo corpo era qualcosa molto simile alla pece liquida, che continuava a ribollire e ad agitarsi. Dentro la bocca spalancata e sbavante del mostro, si potevano vedere delle orribili fauci bianche, mentre due piccoli occhi rossi e selvaggi fiammeggiavano appena sopra di essa.
Era enorme ed onnipotente. Mentre camminava, guardò qualcosa che fuggiva sul terreno. Fece oscillare i suoi artigli verso di essa, ripetutamente, cercando di raccoglierla—ma la preda continuò a scappare, come se fosse troppo veloce o troppo piccola perché i mostruosi artigli potessero afferrarla. Eric, Dean, Natalie ed Harvey erano paralizzati dall’orrore; non si scossero finché non udirono l’urlo agghiacciante di una ragazzina. Sarah sfrecciò da sotto le gambe del mostro fin nella piazza. Era pallida come uno straccio, aveva perso le pantofole, ed ora aveva le mani e i ginocchi graffiati, come se fosse caduta innumerevoli volte nel tentativo di fuggire dal mostro di pece. Fuori di sé dalla paura, corse verso i gorilla in cerca di protezione, ma quando gli animali videro che cosa la stava inseguendo, urlarono e si sparpagliarono nelle molte vie che convergevano nella piazza, lasciandola alla mercé del mostro. Sarah si nascose dietro un pilastro, prendendo fiato, incapace di distogliere gli occhi dall’abominio errante. Quando Eric la raggiunse, chiamandola per nome, scuotendola e voltandola verso di lui, qualcosa dentro di lei si ruppe. Si avvinghiò a suo fratello ed iniziò a singhiozzare. “Che succede? Cos’è quella cosa?” le chiese Eric. “E’ uscito dal lago!” disse Sarah. “M’insegue fin da quando sono entrata nella città! Che cosa vuole da me? Non gli ho fatto niente!” Il mostro mise piede nella piazza, annusando l’aria, come se riuscisse già ad indovinare l’odore di Sarah—la individuò in un attimo. Allungò le sue enormi braccia, menando fendenti al pilastro dietro al quale si erano nascosti Eric e Sarah. Si acquattarono, scansando gli artigli del mostro che finirono invece contro il pilastro, che si fessurò e si sgretolò come argilla. I frantumi rovinarono sui due fratelli, che dovettero correre per non essere sepolti sotto di essi. Il mostro approfittò dell’occasione. Affondò le braccia verso Sarah, infine afferrandola, sollevandola dal suolo e portandola via da suo fratello.
“Sarah! Sarah!” urlò Eric. Si buttò verso il mostro, ma esso lo scosse via come una formica. Eric si rimise in piedi, asciugandosi le lacrime di disperazione e dolore dagli occhi, poi raccolse tutte le pietre che riuscì a recuperare e le tirò verso il mostro, cercando di costringerlo a mollare Sarah. Natalie, Dean e Harvey si unirono ad Eric nella gragnola, ma fecero solo il solletico alla creatura. Sarah continuò a urlare mentre il mostro la sollevò, portandosela alla bocca, in procinto di divorarla... Lo avrebbe fatto di certo, se qualcosa che indossava vestiti da uomo, con braccia fin troppo lunghe e tozze non fosse balzato d’un lampo da una delle finestre vuote che davano sulla piazza, atterrando dritto sulla stessa zampa che intrappolava Sarah. Cosmo aveva perduto il contegno tranquillo del bibliotecario che era; ora i suoi sensi erano vigili, e aveva una luce selvaggia negli occhi che Eric non aveva mai visto prima. Si afferrò alla zampa di pece come una bestia feroce, così forte che il mostro non poté disfarsi di lui. Cosmo scoprì i denti e morse la zampa del mostro, facendolo urlare dal dolore. Esso lasciò andare di colpo Sarah, che ricadde per terra come una pietra. Il bibliotecario saltò, riuscendo ad avvicinarsi alla bambina, difendendone il corpo immobile. Urlando al mostro in una qualche lingua gutturale, gli ordinò di lasciare la piazza. Dapprima l’abominio ubbidì, e si girò. Poi ruggì e scattò all’indietro, afferrando Cosmo. Le sue braccia poderose lottarono disperatamente per schiudere i mostruosi artigli che lo stringevano in una stretta ineluttabile, schiacciandolo. Con uno sforzo erculeo, il bibliotecario tirò una delle enormi dita, così brutalmente che quasi la staccò. Il mostro, incredulo che questa piccola e pelosa creatura potesse causare così tanto dolore, lasciò andare l’uomo. Indietreggiò, tenendosi la zampa dolente, muggendo in protesta, poi tornò sui suoi i e fuggì dalla piazza. Cosmo, ferito e sputando sangue, si rimise in piedi e raggiunse i quattro amici intorno a Sarah. “Non si sveglia!” pianse disperato Eric. Cosmo mise un dito sul collo della ragazzina.
“E’ solo svenuta,” disse. “Si riprenderà.” Cosmo si alzò, apparendo tanto adirato e terribile quanto nessun altro bibliotecario fosse mai stato prima. I suoi occhi fiammeggiarono verso i quattro studenti bricconi, sul punto di sgridarli, sul punto di dirgli quanto avventati fossero stati. Allungò le lunghe braccia, come se volesse picchiarli... invece si coprì la faccia per la vergogna, e diede la colpa a sé stesso. “Che cosa ho fatto...” Si lasciò cadere sconsolato su una vicina pedana. “Che posto è questo?” gli chiese Eric, avvicinandosi. “Deve dircelo,” insistette Dean. “Ci dica la verità,” aggiunse Harvey. “Dobbiamo saperlo...” finì Natalie. Cosmo sospirò, sconfitto. Guardò Natalie mentre tirava fuori una bottiglia d’acqua dallo zaino, ne versò un po’ nel fazzoletto, bagnando la fronte di Sarah, poi parlò. “Nessun posto è come questo. Qui prendono vita le storie mai narrate. Dalle storie fresche da appena ieri, alle storie vecchie di mille anni—storie fantastiche, storie paurose, storie edificanti, storie d’amore. Volevo che il mondo conoscesse le migliori di esse. Ho iniziato a venderle agli editori e agli autori alle prime armi che avevano disperato bisogno di qualcosa che valesse la pena di raccontare. Ha funzionato—le storie che avevo scelto erano buone. Sono lieto di dire che ho lanciato molte carriere di giovani scrittori. Comunque, avrei fatto meglio a non fidarmi di Hargraves. Era avido. Non onorava le storie per ciò che erano, ma come un semplice mezzo per arricchirsi velocemente. Non è mai migliorato come scrittore. Mi ha minacciato di rivelare i miei affari se non gli davo altre pergamene. Questa notte, dopo avergli detto di no, mi ha aspettato al buio e mi ha assalito. Mi ha colpito in testa, rubato la chiave dello sgabuzzino. Ma la cosa più sconsiderata che ha fatto è stato di lasciare aperta la porta dello sgabuzzino —vi ha permesso di entrare. Mi chiedo dove sia finito ora...” “Sarah ha detto che il mostro è uscito dal lago e che l’ha inseguita,” disse Eric.
Cosmo annuì col capo. “La tua sorellina ha ragione. Tutto prende forma nel lago. In qualche modo, tutti gli esseri viventi sono collegati ad esso. Quando sono svegli, fanno fatica a percepirlo. Possiamo intravederlo nel sonno. Quando la gente traa, le loro più profonde memorie non si spengono, ma vengono raccolte nel lago. I guardiani lo sanno; nuotano nell’acqua, s’impigliano in esse. Le portano qui, nella vecchia Città della Biblioteca, le sussurrano agli altri guardiani, che le mettono per iscritto. Tutto viene poi immagazzinato nella biblioteca di pietra. “E’ per questo che Aristotele ha un intero, lungo scaffale?” chiese Natalie. “Sì. E’ tutto quello che non è riuscito a scrivere durante la vita. Eppure, talvolta, i guardiani tirano ancora su qualcosa di suo.” “Lei ha letto tutte le sue opere!” intuì Natalie. Cosmo annuì stancamente. “Ho letto ogni rotolo che la biblioteca contiene.” “Forse che queste altre pergamene gettano nuova luce sul filosofo Greco? Questo nuovo Aristotele è per caso diverso da quello vecchio?” chiese Natalie. “Direi che è più simile.” “Che intende dire?” “Spesso apprezziamo i grandi uomini e donne del ato basandoci sulle opere che ci hanno lasciato—ci dimentichiamo quasi sempre che erano prima di tutto degli esseri umani. Anche i geni più brillanti hanno avuto i propri sentimenti, le proprie paure, le proprie stranezze...” Una risatina raschiante echeggiò per la piazza. “E che mi dice di Jack lo Squartatore?” gridò una voce. “Mi sembra di capire che anche lui abbia avuto un lato umano, nel profondo—che anche lui fosse un tipo a modo ed una creatura gentile e pietosa...” La voce si trasformò in una risata fragorosa.
Cosmo e gli studenti si girarono e videro Hargraves. Era in piedi sul moncone di pilastro sgretolato. Nel trambusto causato dall’apparizione del mostro di pece aveva fatto cadere fino all’ultima delle sue pergamene. Ma non sembrava importargliene. La strana luce era sparita dai suoi occhi; ora il suo sguardo era vuoto, come se, nel tentativo di conciliare quel mondo con la realtà, si fosse smarrito. Cosmo sospirò. “Lei ha scelto un omicida come esempio,” disse. “Ma debbo dire che, in una certa misura, anch’egli, prima di diventare malvagio, fu un bambino ricettivo.” “Deve essergli capitato qualcosa di davvero brutto per strada, eh? Qualcosa di bizzarro,” disse Hargraves. “Ma grazie ai bibliotecari strizzacervelli come lei, ne sappiamo molto di più!” Cosmo ignorò l’appunto di Hargraves. “Sì, gli è capitato qualcosa di brutto per strada. Se si prenderà la briga di leggere le sue restanti pergamene, scoprirà cos’è stato.” Ci fu una pausa, poi, all’improvviso, Cosmo si lanciò verso Hargraves e lo afferrò per la collottola. “Dov’è la chiave dello sgabuzzino? Me la dia!” “No, la prego, non mi faccia del male!” “Dovrei ucciderla per quello che ha fatto! Mi vuole dare la chiave adesso?” Hargraves si frugò, recuperando la chiave dello sgabuzzino. Cosmo l’afferrò, poi lasciò andare l’uomo. “Non sono uno stupido,” disse Hargraves, beffardo. “Non mi frega con le sue fole falsamente edificanti.” Girò la testa e puntò il dito in distanza, verso la collina, dove il mostro era ora salito. Stava in piedi davanti alla baracca, interessato alla sua porta aperta. L’annusò, come se un qualche odore eccitante entrasse attraverso di essa. Il
mostro infilò la zampa nella porta, incerto... e raccolse un pacco di libri dalla biblioteca che si trovava oltre. Li guardò incuriosito, poi infilò nuovamente l’artiglio, cercando di vedere se riusciva a prenderne degli altri, ma riuscì solo a fare crollare la capanna. L’abominio ripulì i detriti dal buco, poi iniziò a scavare intorno ad esso, nel tentativo di allargare il aggio. Hargraves si rivolse agli studenti. “Usando la conoscenza come scusa, il vostro nuovo bibliotecario ha giocato a un gioco scaltro—saltando dal nostro mondo a quest’altro irrazionale. Ci sono creature paurose che vivono in questo posto, ragazzi miei, creature che lui non è capace di controllare. Se quel mostro si è scatenato, la responsabilità è solo sua. Guardatelo—sta cercando di entrare nel nostro mondo. Complimenti, signor Cosmo! Adesso chi credete che impedirà a quella cosa di are?” Hargraves inchiodò Cosmo con gli occhi. “I ragazzini devono sapere la verità su quel mostro! Quell’abominio è infatti l’anima vendicativa di Jack lo Squartatore tornata in vita per perseguitarci tutti!” Un ghigno inorridito paralizzò il viso di Hargraves. “Come si sbaglia, Hargraves,” disse Cosmo. “Mi dica una cosa. Lei ha toccato l’acqua, non è così?” “Sì, l’ho toccata... E anche se l’avessi toccata?” “La sua arroganza le impedisce di vedere la verità. Come ho detto, il lago è sensibile ai ricordi, anche a quelli suoi. Quel mostro non è stato creato da Jack lo Squartatore... lo ha creato lei.” Hargraves boccheggiò di fronte all’accusa e scosse la testa energeticamente. “No... No...” “Lei può mentire al mondo, ma non può mentire al lago. Perché lei è un omicida, Hargraves. Leyland non si è rotto la testa cadendo dalle scale—lo ha ucciso lei. Quel ricordo raccapricciante giace dentro di lei come un marchio d’infamia. Quando lei ha toccato il lago, ne ha impressionato la sostanza psichica di cui è fatto con quell’orrore. E’ lei che ha dato vita a quel mostro...”
Hargraves si leccò le labbra, non sapendo che dire. “Dannato bibliotecario—lei non ha nessuna prova!” Mentre Hargraves si ritirava da un lato, lanciando occhiate guardinghe verso Cosmo, Eric si fece avanti. “Tutti abbiamo toccato l’acqua,” disse. “Se lei ha ragione, come mai non abbiamo evocato altri mostri?” Cosmo sorrise amaramente. “Perché siete ancora giovani. Il vostro cuore è puro, non ancora macchiato dal ricordo di cose spiacevoli...” Si girarono tutti verso la cima della collina, dove il mostro scavava all’impazzata. “Tra un po’ erà dall’altra parte!” disse Dean. “Entrerà nella nostra biblioteca!” “Distruggerà la nostra città!” si rese conto Harvey. “Che ne sarà delle nostre famiglie?” gridò Natalie. Udirono un lontano ruggito di vittoria. Il aggio era ora ampio abbastanza da lasciare are il mostro. “Faccia qualcosa! Deve fermarlo!” disse Eric. Cosmo allargò le braccia in un gesto d’impotenza. “Non c’è nulla che io possa fare.” “Forza, tocchi l’acqua anche lei! Evochi anche lei un’altra creatura! Combatta quel mostro!” “L’acqua l’ho già toccata, ragazzo mio. Temo che ciò che ne sia uscito non sia proprio quello che ti aspetti...” “Lo chiami lo stesso! Tutto può servire!”
Cosmo scosse la testa rassegnato, poi chiuse gli occhi per un attimo. Quando li riaprì, una farfalla volò verso di loro, svolazzando intorno al bibliotecario. “Non abbiamo tempo da perdere!” insistette Eric. Cosmo fissò la farfalla. Il suo corpo era fatto del diamante più puro e le sue ali erano intagliate da uno zaffiro, e bagnate nell’oro; aveva occhi di rubino e antenne d’argento. Era la cosa più bella che avessero mai visto. Si appoggiò alla mano di Sarah, lambendola, cercando di svegliarla. Eric guardò Cosmo con aria interrogativa. “E’ tutto quello che io sia mai riuscito ad evocare. Ho paura che non abbia alcuna possibilità contro il mostro di Hargraves.” Per un attimo, Eric si sentì perduto, poi negli occhi gli balenò un’idea. “Natalie! Harvey! Dean!” chiamò. “Forse c’è ancora qualcosa che possiamo fare! Seguitemi!” Corse verso una delle colonne della piazza, scolpita con una scalinata a spirale che ascendeva fino in cima. I quattro salirono lungo di essa, saltando i gradini crollati, finché giunsero alla sommità. Eric guardò verso il lago, concentrandosi, cercando d’imitare ciò che aveva fatto Cosmo quando aveva invocato la farfalla di gemme. Natalie, Dean e Harvey lo fissarono per un po’, poi osservarono il lago. Dapprima, non accadde nulla, poi l’acqua iniziò ad agitarsi e a ribollire, e qualcosa di enorme ne emerse. Non era un mostro di pece, ma un prode cavaliere che indossava un’armatura splendente, incluso un elmo piumato ed uno spadone tagliente. Grondando acqua, si volse in direzione di Eric in saluto. Il ragazzo aprì gli occhi, a bocca aperta innanzi alla poderosa visione, ma si riprese subito ed indicò al cavaliere il luogo dov’era sorta la capanna. “Non lasciarlo are!” gli ordinò.
Il cavaliere s’inchinò, poi camminò a grandi falcate su per la collina, arrivando davanti al mostro. Le due creature si fronteggiarono. Ruggendo, il mostro lanciò un affondo verso il cavaliere, ma i suoi artigli rimbalzarono contro l’armatura di metallo. Il cavaliere brandì la spada in alto sopra la testa, e la fece ricadere violentemente sul braccio del mostro in un unico fluido movimento—staccandoglielo. Il mostro gemette per il dolore e per l’odio, ma la ferita non gli fece alcun effetto. Infatti, un altro braccio molto più grande ricrebbe subito al posto di quello perduto. Il mostro oscillò verso il cavaliere, spingendolo indietro, facendolo quasi ruzzolare. Il cavaliere, preso alla sprovvista, attaccò di nuovo, stavolta mozzando la zampa sinistra del mostro. Ma poi il moncone insanguinato formò delle bolle, facendo ricrescere la zampa il doppio delle dimensioni che aveva prima, rendendo il mostro più alto del cavaliere. Il mostro, mantenendosi comicamente in equilibrio sull’unico arto più lungo, si avventò un’altra volta, con più impeto stavolta, facendo rovinare il cavaliere per terra. Il cavaliere cercò di mettersi in piedi senza riuscirci—la sua armatura era troppo pesante per rialzarsi senza l’aiuto di qualcuno. Ogni volta che riusciva a sedersi, il mostro lo attaccava, mandandolo a gambe all’aria. Il mostro chiuse infine i suoi artigli intorno alla gola del cavaliere, piegando la lamiera come latta, strozzandolo. Il mostro ruggì vittorioso mentre il suo avversario smise di dibattersi ed iniziò a spirare. Ma l’urlo durò pochissimo—terminò bruscamente quando la testa dell’abominio ricadde dalle sue spalle, colpendo l’erba con un tonfo e poi restando immobile... Un’altra creatura era venuta in aiuto del cavaliere. Era un robusto taglialegna con la barba e i capelli rossi, che trasportava una larga ascia ora macchiata del sangue nero dell’abominio. Porse la mano callosa, aiutando l’ansante cavaliere a rialzarsi. Osservarono entrambi il cadavere della creatura, quando furono raggiunti da altri due personaggi, alti anch’essi una trentina di metri. Erano una slanciata ladra bionda, armata di coltelli, che indossava un aderente completo di pelle, e un mago cicciotto avvolto in una gualdrappa gialla che si appoggiava ad un nodoso bastone di quercia.
In silenzio, fissarono tutti il mostro senza testa, quando il suo torace ribollì, sul punto di fare spuntare un’altra testa. I quattro combattenti non aspettarono che si rialzasse—bersagliarono il nemico comune con una gragnola di fendenti provenienti dalla spada del cavaliere, dall’ascia del taglialegna, dai coltelli della ladra e dalle magie esplosive del mago, finché non rimase nulla del mostro tranne un’appiccicosa poltiglia di pece. Completata la missione, si voltarono, ma fecero solo pochi metri prima che la chiazza schizzasse in alto dietro di loro, riprendendo la vecchia forma—ohibò, era adesso cinque volte più grande di quanto non fosse stato prima. Il fatto che il mostro non sarebbe riuscito ad entrare nel aggio a causa delle sue dimensioni era una magra consolazione per i quattro combattenti, perché sconfiggerlo era ora al di là di qualsiasi capacità e prodezza. I guerrieri inermi si sparpagliarono innanzi al mostro che cercava di calpestarli. “Non ha funzionato!” urlò Dean dalla sommità della colonna a spirale. “Impegniamoci di più!” suggerì Eric. I quattro ragazzi si concentrarono ancora di più, cercando di instillare più forza nelle loro rispettive creature, ma non riuscirono a fare nulla contro i poteri soverchianti del mostro di pece... “Eric? Posso giocare anch’io?” chiese una vocetta. Sarah era appena salita sulla cima della torre. Eric si voltò, stupito di vedere sua sorella. Anche se era ancora pallida, essere in compagnia di suo fratello l’aveva già rinfrancata—a poco a poco, un timido sorriso si fece strada sul suo volto. Lo stesso, il dubbio e la paura del rifiuto ancora le adombravano il fondo degli occhi. Guardò con aspettativa verso suo fratello, ma i tratti di Eric si irrigidirono per l’irritazione. “Come, siamo bloccati in questo mondo, rischiando le nostre vite e tu pensi che sia uno stupido gioco? Non imparerai mai?” la sgridò. “Mi meraviglio di te! Come sei potuta scappare da casa nel cuore della notte? Come credi che si sentiranno mamma e papà quando vedranno il tuo letto vuoto? Adesso torna giù e resta con Cosmo una buona volta!” Sarah si morse le labbra, ferita ancora una volta dalla mancanza di
considerazione di suo fratello. Pianse e girò sui piedi nudi, in procinto di andarsene... Solo allora Eric si rammentò che proprio le accuse che aveva rivolto a sua sorella si applicavano molte volte di più nel suo caso. Soprattutto dal momento che era lui il più vecchio dei due, e che ci si aspettava che fosse più esperto e responsabile di Sarah. Non aveva bisogno di rivolgersi a Natalie per farselo dire. Sapeva infatti, nel profondo, che era colpa sua se si trovavano in quel luogo; se le loro vite erano in pericolo; se non fossero stati in grado di tornare nel loro mondo e alle loro case al termine di quella notte—pensò che il minimo che potesse offrire fossero delle oneste scuse, specialmente a sua sorella. Eric si affrettò verso Sarah, la prese per le spalle e la girò indietro. Le asciugò le lacrime che le salivano agli occhi, poi la strinse accanto a sé. “Ritiro tutto quello che ho detto, sorellina. Sono stato io a mettere in pericolo te —e Natalie, e Harvey, e Dean. E’ tutta colpa mia. Non saremmo mai dovuti venire in questo posto...” Eric sorrise con affetto a Sarah e lei contraccambiò. L’accompagnò al parapetto della terrazza, mostrandole il lago psichico. “Va bene se anche tu vuoi dare una mano, Sarah. Non ti sgriderò più se vorrai unirti al nostro gruppo—sarai sempre la benvenuta.” “Sei sicuro?” “Sono sicuro.” “Lo prometti?” “Lo prometto.” Sarah guardò il lago, poi chiuse gli occhi. Natalie, Harvey e Dean si accalcarono intorno a fratello e sorella, curiosi di vedere quale creatura Sarah avrebbe evocato.
Nel frattempo, il gigantesco mostro di pece stava ancora pestando in giro per la collina, cercando di schiacciare i combattenti che fuggivano. In qualche maniera essi riuscirono a filare via da sotto le enormi zampe che calavano, eccetto che per il cavaliere, che, rallentato dal peso della sua armatura, cadde in avanti all’improvviso. Il taglialegna, la ladra e il mago si voltarono in preda all’orrore nel rendersi conto che il cavaliere era spacciato. Chio gli occhi mentre il mostro lo sovrastava, sollevando la zampa di pece. La fece scendere sul cavaliere, in procinto di ridurlo in poltiglia... Ma appena un momento prima che il piede lo schiacciasse, qualcosa che parve una freccia lo colpì, affondando e scomparendo dentro di esso, facendo urlare il mostro dal dolore e facendolo balzare indietro. L’abominio si tenne la zampa ferita, che, grazie a qualche strano potere aveva iniziato a rimpicciolirsi, scomparendo da sotto il mostro, finché questi non perse l’equilibrio e crollò pesantemente lungo il fianco della collina. Altri dardi ancora piovvero su di lui, inchiodandolo, obbligando il mostro a tornare alle stesse dimensioni che aveva quando era uscito dal lago la prima volta. Mentre il cavaliere fu aiutato a rialzarsi, i quattro giganti guardarono indietro, domandandosi chi mai li avesse salvati... finché non la videro. Era un’agile figura di Danaide, con lunghi capelli arrangiati in due trecce che le spuntavano dalla testa con una strana angolazione, come un paio di pensieri folli. Non c’era niente d’inesperto in lei, o d’immaturo, o d’ingenuo. Nei suoi occhi c’era la tranquillità e la quieta determinazione d’un saggio silvano vecchio di mille anni. Indossava un semplice vestito di pelle scamosciata decorato con perle d’osso e conchigliette, tagliato in modo tale da lasciarle gambe e braccia libere di muoversi ed, eventualmente, di combattere. Stringeva tra le mani un lungo arco, ma non portava faretre né al fianco, né sulla schiena... Non ne aveva bisogno, poiché le sue frecce erano i fiori che tirava su lungo la strada— margherite e rose e gigli e campanule e non-ti-scordar-di-me. Crescevano alla misura giusta ogni volta che li incoccava alla corda di nerbo, prima di scagliarli via. Chiaramente, c’era qualche magia in quegli strani dardi, capace di risucchiare tutta la malvagità dalla creatura di pece.
“Guardate! Il mostro rimpicciolisce!” gridò Harvey. “Sembra che tua sorella abbia fatto meglio di tutti noi messi insieme!” ammise Dean. “Bel lavoro, Sarah!” “Ehi, non è ancora finita!” li ammonì Eric. Abbandonarono la terrazza e corsero giù fino a dove si trovava Cosmo. Gli riferirono brevemente quello che era successo, ed egli fu lieto di sentire le buone notizie, anche se non sembrò completamente sorpreso. “Lo stanno ancora combattendo!” gli disse Eric. “E’ meglio che andiamo a dargli un’occhiata!” “Certo. Tra un minuto appena. C’è qualcosa che mi aspetto che il signor Hargraves qui metta per iscritto.” Cosmo prese un pezzo di pergamena, un calamaio ed una lunga penna d’oca da una vicina pedana e li ò ad Hargraves, che guardò in su con stupore. “Che cos’è questo?” chiese, fissando il foglio vuoto. “Ma come, la sua confessione...” “Non scriverò una sola parola!” “Temo allora che dovrò lasciarla qui e comunicare ai guardiani di prenderla come prigioniero. In tal modo, non farà più alcun danno a nessuno dei due mondi.” Hargraves spalancò gli occhi, poi aprì la bocca, poi schiumò dalla rabbia, ma alla fine afferrò la pergamena e si mise a scrivere che lui da solo aveva ammazzato Leyland, non la sfortuna. Una volta che ebbe finito, Cosmo prese il foglio e lo lesse, soddisfatto dalla dichiarazione, poi lo piegò e lo mise via in una delle sue tasche. “Credo che adesso possiamo andare,” disse. Se ne andarono tutti, camminando in fila indiana, con Hargraves in testa, seguito
da vicino da Cosmo—che non voleva che gli scape ancora—poi vennero Harvey, Dean e Natalie, con Eric e Sarah in coda. Mentre uscivano dalla piazza, lasciando la cittadella, continuarono a lanciare occhiate sopra la spalla, verso gli edifici vuoti che li circondavano, chiedendosi che ne sarebbe stato di essi ora. arono accanto al lago, ma, stavolta, si tennero alla lontana da esso, non toccarono l’acqua—sapevano le cose che poteva celare, ed erano timorosi di evocarle. Arrancarono su per la collina, sulla cima della quale stavano il cavaliere, il taglialegna, la ladra, il mago e l’esile figura di Danaide, che guardavano giù verso qualcosa ai loro piedi—il mostro di pece non era ora più grande di un coniglio ben pasciuto; stava cercando di scappare via dal circolo di guerrieri con scarso successo. La ragazza arciere raccolse un ultimo fiore, l’incoccò al suo arco e lo scagliò verso la creatura, risucchiando l’ultima goccia di malvagità che essa conteneva. “Il mostro è svanito!” esclamò Dean. Cosmo ed i ragazzi si avvicinarono al luogo dove, fino ad appena pochi istanti prima, si trovava il mostro rimpicciolito. “Oh, non credo proprio,” disse Cosmo. Si accucciò, cercando nel terreno, spostando i fili di un ciuffo d’erba, scoprendo un bruco che si dimenava. La sua livrea gialla e nera era ricoperta da una peluria biancastra, eccetto che per un paio di ciuffi rossi sul dorso ed una coda lanuginosa, pure rossa. “Cos’è quella roba?” chiese Dean con un brivido. Cosmo raccolse gentilmente il bruco, mostrandolo agli studenti. “Morpho Peleides,” dichiarò. “E’ brutto come il demonio!” “Lo è adesso,” spiegò il bibliotecario. “Quando verrà il suo tempo, si trasformerà nella farfalla più bella di sempre.”
Appoggiò la larva spinata su un vicino arbusto, al quale l’insetto si attaccò disperatamente, strisciando al sicuro in un angolo, dove rimase immobile, in attesa del suo prossimo stadio evolutivo. Cosmo si volse verso i cinque studenti ed indicò loro i cinque guerrieri giganti che svettavano alti sopra le loro teste. “Credo sia ora che salutiate i vostri amici...” Eric, Sarah, Natalie, Dean e Harvey guardarono su verso le loro fiere creazioni, chiedendosi quanto esse avessero preso dal loro creatore—chiedendosi quanto il loro creatore avrebbe dovuto prendere ed imparare da loro. Con un cenno del capo, i giganti si voltarono e scesero giù per la collina, diretti verso il lago. S’immersero tutti in esso, scomparendo dalla vista una volta per tutte... tranne l’agile creatura di Sarah, che trottò invece oltre il lago, e continuò verso l’estesa foresta che giaceva sull’orizzonte. Aveva forse ottenuto lo speciale privilegio di abitare e di calpestare quel mondo magico? Le sue gambe svelte la portarono lontano in breve tempo. Presto, la sua figura svanì tra gli alti alberi ed oltre la bruma. Cosmo tirò un sospiro e scosse la testa nel vedere lo sfascio che la capanna era diventata. Recuperò ciò che era rimasto della porta dello sgabuzzino. La piantò per terra, proprio davanti al buco che il mostro di pece aveva scavato sotto la baracca. “Speriamo che funzioni ancora...” disse. Spalancò la porta e fece segno al gruppo di arci attraverso—aspettò finché ciascuno di loro non fu ritornato nella biblioteca scolastica. Entrò per ultimo, chiudendo e facendo girare rumorosamente la chiave nella toppa, sigillando il aggio dietro di sé. Chiuse fuori il cinguettio degli uccelli, ed il profumo dolce dell’erba mossa dalla brezza indolente di un glorioso giorno d’estate.
IMPRENDIBILE
(estratto)
PROLOGO
L’Anomalia Elettromagnetica
Il brusio costante del Virulent Mk-II rintronava gli orecchi del capitano Streamer da quasi ventiquattro ore. Odiava l’effetto rilassante che quel suono aveva sul suo sistema nervoso e lottava contro il torpore per restare sveglio; la sonnolenza era un nemico subdolo per un pilota—cederle poteva significare la propria fine. Bevve un po’ d’acqua dalla borraccia accanto al suo sedile e fece un respiro profondo. Questo avrebbe scacciato l’onnipresente malia del sonno ancora per un po’. Di nuovo, il capitano Streamer fissò la nera vacuità dello spazio, cercando di localizzare l’anomalia elettromagnetica che era stato mandato a trovare, ma non vide nulla—solo miliardi di stelle con niente in mezzo. Quella regione dello spazio era lontanissima dalla Terra, la più lontana in cui un umano si fosse mai spinto; il Virulent Mk-II segnava un nuovo record a ogni chilometro che faceva. Anche se il capitano Streamer era abituato alle lunghe missioni, questa era la prima volta che si spingeva tanto lontano da qualsiasi nave di o. Se ci fosse stato un guasto meccanico, avrebbe dovuto arrangiarsi. Se ci fosse stata un’avaria nel modulo di o vitale, sarebbe morto là fuori. Era molto semplice. Poteva contare sulla sua decennale esperienza di pilota della flotta terrestre, sulla preparazione puntuale della missione, e sui fidati compagni della sua squadriglia. Per il resto... beh, era nelle mani di Dio. Il capitano Streamer guardò fuori dall’abitacolo, verso i tre puntini argentati che
si muovevano assieme a lui—la sua squadriglia lo seguiva in formazione serrata. Alla sua destra c’era il tenente Dieter Halvorson, un danese imponente con i capelli biondi e il migliore cervello della flotta. Oltre a essere un eccellente pilota, era stato scelto come esperto di avionica e di comunicazioni per la missione. Si era fatto le ossa aggiornando il software del vecchio Fennec A-71 per renderlo compatibile con i nuovi standard delle più recenti navi della flotta, e sapeva come gestire i capricci del computer. Alla sinistra del capitano c’era il sottotenente Thomas Morris. Irlandese di Galway, era muscoloso, scorbutico e irascibile. Non lo avresti voluto vicino a te in un bar per niente al mondo, perché ci sarebbero stati problemi. Ma su un caccia? Beh, quella era una cosa diversa. Morris conosceva a memoria la maggior parte dei sistemi d’arma della flotta, ed era capace di innescare o di disarmare una bomba in trenta secondi. Questo faceva di lui un prezioso membro della missione. Il tenente Benjamin Daniels chiudeva il gruppo. Nato contadino del Kentucky, aveva ato la maggior parte della sua giovinezza con il naso nell’aria notturna, quando aveva capito che voleva costruire propulsori per le navi spaziali invece di coltivare la terra. Ingegnere nucleare e pilota, si era arruolato nel programma spaziale ed era ato da un progetto all’altro finché aveva ottenuto il compito di progettare e testare il sistema di propulsione del Virulent Mk-II. Halvorson, Morris, e Daniels erano i migliori piloti che il capitano Streamer conoscesse. Li aveva scelti lui uno per uno per la missione, ed essi avevano accettato di buon grado. La radio crepitò. “Più guardo là fuori,” disse Morris, “meno vedo. I miei sensori sono morti. Mi chiedo se il comando di flotta ci abbia dato le coordinate giuste, dopotutto.” “Capisco la tua frustrazione, Morris,” disse la voce cavernosa di Halvorson. “I cervelloni che sono rimasti a casa farebbero meglio a non fidarsi delle semplici voci. Questa cosa che dovremmo trovare, questa anomalia, è troppo bella per essere vera—è impossibile che esista. Se esistesse, potremmo dare il bacio d’addio a queste carrette.” “Attento a come parli, Halvorson,” disse il capitano Streamer. “Daniels non la prende tanto bene quando qualcuno parla male della sua creatura.”
“Beh, la sua creatura mi sta facendo diventare il culo quadrato...” “Se solo il comando di flotta ci desse più dettagli,” disse Halvorson. “Questo comunicarci solo lo stretto necessario per me è una stronzata.” “Cos’è che dovremmo vedere?” chiese Daniels. “Vorrei proprio saperlo,” disse il capitano Streamer. “Tenete soltanto gli occhi aperti. Se è grande come dicono, non ce la perderemo.” L’esistenza di una massiccia anomalia elettromagnetica in quella regione di spazio remota era una supposizione dei servizi segreti militari, basata sui dati estratti negli ultimi vent’anni dai rottami della nave da guerra aliena Kematian rimasti a Congara. I servizi ritenevano che gli alieni avessero accesso a una vasta rete di anomalie elettromagnetiche che gli permetteva di spostarsi da un punto all’altro della galassia in pochi minuti. Se una tale rete fosse esistita, i benefici di appropriarsene sarebbero stati immensi. Ma nessuno l’aveva ancora trovata. Le supposizioni potevano essere sbagliate, e questa sarebbe potuta essere una caccia agli unicorni. Se la squadriglia non avesse trovato nulla nelle prossime sei ore, avevano l’ordine di tornare al Raccolto Estivo. Il capitano Streamer trattenne uno sbadiglio, quando il radar a lungo raggio davanti a lui trillò frenetico. “Rilevo qualcosa,”comunicò Halvorson. “Anch’io,” disse Morris, sul chi va là. “E’ la nostra anomalia?” chiese Daniels. Il capitano Streamer ricontrollò il suo radar. “Non credo. E’ eccezionalmente piccola per essere un’anomalia elettromagnetica, ed è dannatamente veloce—qui ho un rilevamento di SL-4.” “Ehi, è il doppio più veloce di noi!” esclamò Daniels. “A me non sembra un’anomalia,” disse Halvorson. “E allora che cos’è?” chiese Morris.
“Contatto visivo tra dieci secondi,” disse Daniels. Il capitano Streamer tenne gli occhi incollati sul puntino rosso che sfrecciava attraverso lo schermo del radar, diretto verso di loro—e fu sopraffatto dalla percezione improvvisa del pericolo incombente. “Sparpagliatevi tutti!” gridò. Allungò la mano verso il volantino di controllo del Virulent Mk-II e spinse forte, tirando nel contempo la manetta della potenza tutta indietro. Il caccia prese vita con un guizzo. Il suono monotono dei motori a idrogeno salì di intensità fino a diventare un ululato assordante nell’abitacolo mentre davano tutta la loro potenza. Sul radar, i quattro puntini argentati si aprirono a ventaglio, lontano dall’oggetto in avvicinamento, il quale cambiò rotta di conseguenza, facendosi sotto al caccia in posizione più arretrata. “Punta su di te, Daniels!” disse il capitano Streamer. “Non riesco a togliermelo di dosso! Non riesco a—” Nel finestrino di Streamer, il caccia di Daniels esplose con un piccolo bagliore. “Daniels? Daniels!” chiamò Streamer, ma non gli rispose nessuno. Egli vide il familiare puntino che era stato il caccia del tenente scomparire dal radar. Nello stesso istante, il punto rosso fece un’ampia virata. “Si prepara a un altro aggio!” disse Halvorson. “Viriamo, e armiamo i siluri!” “E’ troppo veloce per i siluri!” disse Morris. Una grande calma discese sul capitano Streamer mentre si concentrava sul nemico. Gli parve di essere tornato indietro nel tempo di vent’anni, quando aveva ricevuto il battesimo del fuoco per la prima volta—a Congara. “Usate i cannoni al plasma,” disse. “Stringiamolo in un corridoio. Regolate i siluri perché esplodano a un chilometro, intorno e alla fine del corridoio!” “Sì, capitano!” disse Morris. “o ai cannoni al plasma!” disse Halvorson. Il capitano Streamer tirò il volantino di controllo verso di sé finché il Virulent Mk-II non tornò indietro e poi rollò di lato, affrontando il nemico sconosciuto. “Eccolo che arriva,” disse. “Aprite il fuoco!”
I tre piloti bersagliarono di colpi il punto dove si trovava il nemico, incapaci di vederlo con i propri occhi, usando il radar come guida—il plasma avvampò in un tunnel spiraleggiante, intrappolando per un attimo qualcosa di più buio dell’oscurità che la circondava. “Lanciate i siluri!” urlò il capitano Streamer. I siluri scattarono fuori dai caccia terrestri, tracciarono una debole scia dorata, e poi esplosero in un fuoco d’artificio di fiamme ardenti alla fine del tunnel di plasma. Il computer del capitano Streamer ingrandì l’esplosione sul monitor, cercando di localizzare l’oggetto misterioso all’interno di essa, quando la nave nera si slanciò oltre la barriera fiammeggiante—una massa minacciosa, intatta, brillante come l’ossidiana levigata. “Morris!” disse Streamer. “Viene verso di te!” I tre piloti terrestri non avevano mai avuto a che fare prima con un nemico tanto veloce. Morris continuava a sparare, ma la nave di ossidiana schivava con facilità. Essa ò così vicino al caccia del sottotenente che quasi si schiantò contro di esso, e poi lo trafisse con un colpo abbagliante—il caccia terrestre esplose con una palla di fuoco. La nave nera invertì la propria rotta ancora una volta, stavolta dirigendosi verso Halvorson. “Picchia, Halvorson! Picchia-picchia-picchia!” gridò il capitano Streamer. Si unì ad Halvorson nel prendere di mira la nave nemica, e scaricarono le loro munizioni su di essa, ma la nave nera emerse dalla deflagrazione senza danni. Essa sparò un dardo mortale verso Halvorson—il suo caccia esplose. Sentendo il sudore freddo gocciolargli dalla fronte, il capitano Streamer spinse il volantino di controllo tutto in avanti, cercando di schiantarsi contro il nemico— sfrecciarono l’uno contro l’altro, ma la nave nera rollò quanto bastava per togliersi di mezzo. Essa sparò all’indietro, colpendo l’ala sinistra del Virulent Mk-II e facendola a pezzi. Il caccia si avvitò fuori controllo, scomparendo nell’infinita distesa d’oscurità. Con il pannello di controllo davanti a sé che risuonava di allarmi di avaria e di rottura dello scafo, il Capitano Streamer lottò con il volantino di controllo per livellare il Virulent Mk-II, ma non c’era nulla che lui potesse fare. Controllò il radar a lungo raggio in cerca di indizi su dove si trovasse la nave nemica, ma
essa era scomparsa—il suo pilota sapeva che il caccia terrestre era spacciato. Streamer sentì il sibilo dell’ossigeno che fuoriusciva dallo scafo incrinato. Con gli occhi che gli si annebbiavano, diede un’ultima occhiata al radar... e fu sorpreso di vederci qualcosa. Qualcosa di piccolo e fisso, più piccolo di un pianeta—forse una luna. Sentendosi le forze che lo abbandonavano, spostò il volantino di controllo verso di essa. Il computer eseguì una scansione spettrografica del corpo celeste e snocciolò una sfilza di dati: anche se la luna era un deserto, era circondata da una sottile atmosfera. Che ironia, pensò il capitano Streamer. Quali erano le possibilità di trovare una luna abitabile in quella regione di spazio dimenticata da Dio—una su un miliardo? Beh, lui l’aveva trovata. L’ironia era che, nonostante la sua incredibile fortuna, egli si sarebbe schiantato su di essa. Fece virare il Virulent Mk-II oltre gli strati esterni del piccolo pianeta— sfuggirono via in un lampo, mettendo a nudo la calda superficie in rapido avvicinamento. Nel vedere le alture e le depressioni scivolare oltre lo scafo del caccia, il capitano Streamer tirò a sé il volantino di controllo, spremendo l’ultimo grammo di spinta dai motori ansimanti in un’ultima cabrata. Mentre rimbalzava sulle dune e rotolava lungo di esse, con il casco che sbatteva come un punching-ball, gli venne in mente un pensiero orribile—che non avrebbe mai più rivisto la sua amata moglie e suo figlio adolescente. Non stavolta. Non così lontano. Erano trascorse soltanto poche ore dall’impatto. Il capitano Streamer aprì gli occhi davanti a un bagliore accecante e al silenzio assoluto. Il suo corpo dolorante giaceva nella sabbia, a qualche metro dal Virulent Mk-II distrutto. Si puntellò sul braccio, e scoprì che non riusciva a muovere le gambe. Si tolse il casco e lo gettò via, sentendosi metà della faccia che si gonfiava e sanguinava da un taglio profondo. Era felice e triste allo stesso tempo; felice di essere ancora vivo, e triste perché di lì a poco egli sarebbe morto. Chiuse gli occhi sotto il sole cocente, in attesa della morte che lo avrebbe liberato dal dolore. Mezzora dopo era ancora vivo, con la vita appesa a un filo. Aprì soltanto un occhio; l’altro era un grumo di sangue e carne. Si chiese se la morte avesse smarrito la strada, quando vide lo straniero. Gli venne vicino e lo sovrastò. Ogni centimetro del suo corpo era coperto—anche il suo volto era nascosto all’interno
di un cappuccio. Se quella era la morte, non sembrava tanto minacciosa, pensò il capitano Streamer, quando fu interrotto da un gorgoglio rivoltante. Guardò alla sua sinistra, e vide una salamandra tozza e nera, alta un metro e mezzo e lunga sei, inclusa la coda crestata. La sua lingua rossa saettò dentro e fuori dalla bocca, percependolo come fanno i serpenti. Il capitano Streamer fece una smorfia. “Sto già delirando...” Lo straniero osservò con diffidenza il cumulo di metallo fumante che era stato il Virulent Mk-II, ma alla fine decise che qualunque minaccia avesse rappresentato, adesso era svanita. Lo straniero scese dalla sua cavalcatura. Tenendosi il volto al riparo dal calore del sole, si avvicinò all’uomo caduto dal cielo. Frugò con il suo bastone la tuta spaziale strappata del capitano, e poi parlò con una voce roca e chioccia. “Ka kud, karrak, einee? Ka kud?” chiese. Il capitano Streamer si tirò su di scatto. Afferrò il mantello che avvolgeva lo straniero e gli scoprì il volto. Il capitano studiò i grandi occhi neri dell’alieno, felice di vedere che era reale. Non era la morte, non era un fantasma, e questo non era un sogno, dopotutto. “Acqua...” gracchiò. L’alieno lo guardò dall’alto. Scosse la testa e alzò le spalle, incapace di comprendere. “Akka? Eh anbar nee, einee.” “Ho bisogno di acqua...” disse il capitano. “Eh anbar nee, einee—Akka,” ripeté l’alieno. Il capitano Streamer roteò gli occhi e gemette. “Ragazzi, spero proprio che la delegazione se la stia cavando meglio di me...” disse. Nell’ultima scintilla di coscienza, svuotato di tutte le energie, egli appoggiò il capo sulla sabbia e svenne. [...]
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Credence Fondazione è un tecno-thriller di fantascienza dove sogno e realtà si mischiano e si fondono.
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