Via Lattea
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Paracelsica Selecta
Paracelso
Il fondamento della sapienza
L’invenzione delle arti
a cura di Bruno Cerchio
In copertina: dettaglio da – Giorgione, I tre filosofi Titolo originale: Der Grund der Weisheit und Künste ISBN: 978-88-96720-25-7 © Copyright 1998 Edizioni Il leone verde Via della Consolata 7, Torino Tel/fax 011 52.11.790
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Introduzione
La figura di Philippus Aureolus Theophrastus Bombast di Hohenheim detto Paracelso (1493-1541) attraversa la medicina rinascimentale come un terremoto. Se prima di lui la medicina accademica di impostazione galenica può dominare incontrastata – da un lato ignorando o disprezzando ogni terapia di stampo popolare, dall’altro approfondendo sempre più la propria vocazione laica, profana e protoscientifica – con Paracelso questa comoda situazione subirà un profondo scossone: egli è infatti il primo grande, radicale e penetrante critico di quel Galenismo frigido, parcellizzante e materialistico che ha permesso alla medicina ufficiale occidentale di uscire dalla visione tradizionale. Da Paracelso si dipartirà invece quella tipologia di medici-filosofi che (ispirandosi anche all’ideale rosacrociano) tenteranno di riportare la medicina a una visione olistica, quando non anche religiosa, immemori persino (col ar dei secoli) della loro filiazione dal grande Svizzero, il quale peraltro godette e gode di uno dei più feroci ostracismi culturali attuati dall’Occidente¹.
Non stupirà dunque il lettore che i due trattatelli del medico-filosofo qui presentati compaiano in prima traduzione italiana: si sorprenderà invece qualcuno nel sentirci affermare che questo singolare personaggio (aureolato di rivolta e saturo di nobile sdegno contro l’ establishment) sia stato in realtà uno degli ultimi grandi rappresentanti della visione tradizionale in Occidente². Paracelso lotta difatti contro la dimenticanza dei Principi superiori (e in definitiva di Dio) nel sapere a lui contemporaneo, e in primo luogo nella medicina, che ovviamente per lui conserva un posto di preminenza tra le scienze e le arti: così il medico per lui è un sapiente completo, non certo nel senso profano di un pozzo di tronfia erudizione, ma in quello tradizionale di illuminato, di uomo vicino a Dio. Che il medico perfetto di Paracelso risulti in qualche modo affine al santo e al mago può sembrare ridicolo solo ai disincantati esegeti della modernità, ma tale (secondo l’ottica tradizionale) il terapeuta fu per millenni.
Se Paracelso si muove contro la parcellizzazione, la strisciante opacizzazione
intellettuale e la riduzione del medico a un mechanicus del corpo, si comprenderà come una parte non indifferente dei suoi scritti non concernano la medicina spicciola, ma si amplino ad una visione più vasta del sapere³. In particolare, le due operette qui proposte, Il fondamento della sapienza e L’invenzione delle arti, trattano di due argomenti affini e conseguenti (essendo le arti non altro che l’aspetto applicativo della sapienza) che non possono non apionare chi (come Paracelso) si interroga sulle radici dell’umano agire e sapere.
Sulla scorta di quanto finora accennato, il lettore accorto troverà, probabilmente, delle conferme e delle sorprese alle proprie aspettative: se da un canto Paracelso vede il fondamento di ogni sapienza e arte nella radice divina che genera il mondo e l’uomo, d’altro canto – e proprio per questa concezione ampia della sapienza – non vede stacco tra la sapienza che si manifesta nella natura (in particolare nel regno animale) e la sapienza umana (con l’importantissima eccezione della sapienza trascendente).
Prima di procedere, è d’uopo sgombrare il campo da un falso problema terminologico. Paracelso usa con disinvoltura i termini “ragione” (Vernunfft), “intelletto” (Verstand) e “sapienza” (Weisheit), attribuendo invece grande importanza, ai fini della loro qualificazione, agli aggettivi “animalesco” (thierisch), “bestiale” (viehisch), “umano” (menschlich), “angelico” (englisch) e “divino” (göttisch): ciò produce degli apparenti ossimori (come “intelletto bestiale”) che sono veramente solo una questione di espressione.
Tutta la tradizione pagana e cristiana era concorde nell’attribuire agli animali solo un’anima irrazionale, riservando l’anima razionale all’uomo; ma bisogna ben capire cosa si intende con ciò. Oltre le funzioni puramente vegetative, venivano distinte tre anime nell’uomo⁴: 1) l’anima intellettiva, che può realizzare la trascendenza; 2) l’anima razionale, che può realizzare la conoscenza; 3) l’anima sensitiva, che realizza il relazionarsi col mondo. Questa è l’unica anima che l’animale condivide con l’uomo; se però, da un punto di vista puramente microcosmico, l’animale, grazie alla sua posizione eterocentrica, è escluso dalla
ragione, dal punto di vista macrocosmico, grazie alla sua partecipazione alla divina Provvidenza, vi è incluso. Ecco perché tutti gli esempi di razionalità animale portati da Paracelso (il canto degli uccelli, la capacità di costruire nidi e tane, l’astuzia nella caccia, ecc.) e che la nostra mentalità moderna qualifica sbrigativamente come “istinto”, sono in realtà espressioni di quella stessa razionalità divina che si manifesta nell’Ordine cosmico: ciò spiega, tra l’altro, sia perché il cosiddetto “istinto” agisca in maniera intelligente e adattabile (permettendo all’animale di escogitare e imparare nuove tecniche, oltre che compiere inconsciamente⁵ piccoli percorsi logici, tutte cose esclusivamente finalizzate al proprio relazionarsi al mondo), sia perché gli animali da questo Ordine non possano uscire, a differenza dell’uomo . Potremmo dire che l’animale è più vicino all’Origine dell’Ordine, ma più lontano dal ritorno ad Essa, mentre per l’uomo vale l’esatto contrario.
L’Umanesimo, partendo dal dato tradizionale dell’Uomo come Microcosmo, ne aveva pervertito con superbia il senso, considerando l’uomo terreno come misura e fine di tutto. Paracelso, con uno stupefacente colpo di timone, inverte il discorso e torna alle vere concezioni tradizionali. Se l’uomo è immagine del mondo, contiene in sé anche il germe di tutte le sapienze e razionalità animali, cui può attingere quando e come vuole. Quando perciò l’uomo costruisce case e opere d’ingegneria, non agirà diversamente dagli uccelli che edificano nidi e dai castori che erigono dighe; quando le abbellisce non agirà diversamente dalle gazze ladre; quando canta o recita poemi non agirà diversamente dagli usignoli; quando trufferà con astuzia non agirà diversamente dalla volpe; quando ruberà con violenza non agirà diversamente dal lupo, eccetera. Se le opere dell’uomo appaiono magnifiche e imponenti rispetto a quelle animali, ciò si deve solo all’intensificazione dell’ingegno animale, ma non a qualcos’altro – questa stessa intensificazione è però perversa e diabolica, semplice opera di superbia, e non certo da ammirarsi (il discorso di Paracelso vi pare eccessivo? Osservate con il dovuto distacco l’attuale consorzio umano, e provatevi a dargli torto…).
Non si potrebbe immaginare più radicale demitizzazione (e in tempo reale!) dell’homo faber rinascimentale che, nell’atto orgoglioso e superbo di guardar sempre meglio il mondo e sempre peggio Dio, si erige a misura del tutto⁷. La lingua tagliente di Paracelso non si arresta di fronte a nulla: i dotti e gli eruditi
d’ogni categoria, tronfi della loro vuota e caduca scienza, sono identificati a ogni sorta di bestie… Ma allora Paracelso è semplicemente un contestatore, un nichilista? No. Il suo giusto sdegno si muove contro un tipo d’uomo che ha deciso di essere solo il migliore e più importante degli animali; ma questo non è il fine dell’uomo: “Chi è coinvolto in tale animalità, non deve credere di stare davanti a Dio come affine a lui e suo prediletto: infatti, chi trova in sé e compie le arti animali, in esse riponendo tutto il suo bestiale sapere, con esse morirà, poiché non hanno nulla di imperituro. (…) Perché Dio deve compiacersi di più nell’uomo che nell’uccello, solo perché gli è padre? Voglio dire, se l’uomo in se stesso non vive che secondo la bestia e bestialmente lo loda? Egli infatti ha creato l’uomo perché sia qualcosa di più della bestia: perché sia uomo. Ma ciò che in lui è bestia, attraverso il cielo e i quattro elementi ritornerà alle stesse bestie, che sono mortali. Invece l’uomo ha un Padre eterno e deve vivere secondo questo, e non secondo la bestia; questo Padre lo ha fatto animale non perché in tal stato abiti, ma perché ne tragga vita” (Il fondamento della sapienza). Già solo da questa breve, illuminante citazione traluce tutta la consonanza di Paracelso con il pensiero arcaico.
Non si pensi che questo sdegno contro l’ingegno pervertito sia una negazione tout court dell’umana ricerca di sapienza e arte: Paracelso intende dimostrare come vadano intese l’arte e la sapienza autenticamente umane, che procedono da un tipo di ragione diversa da quella animale: “L’uomo possiede infatti due ragioni, una angelica e una animale: quella angelica è eterna, proviene da Dio e rimane presso Dio; quella animale anche proviene da Dio, ma è in noi, non è eterna e muore col corpo” (Il fondamento della sapienza). Condizione prima per operare giustamente le arti è la fede: “Tutte le filosofie, medicine, retoriche, astronomie, logiche, musiche, ecc. devono scorrere dal fondamento della fede” (L’invenzione delle arti). Corollario di notevole peso è la necessaria qualificazione etica del sapiente e dell’artista, in accordo con la tradizione viva a tutto il Medioevo: “Per esercitare i mestieri è anche necessario condurre una vita retta, che con saggezza non scorra fuori da quegli alberi delle arti, dove è stata piantata e coltivata” (L’invenzione delle arti); né l’autore è così incauto da confondere l’etica col mos (“Chi agisce diversamente in una situazione mutata, non infrange alcuna legge; […] Considerare le consuetudini come qualcosa di eterno è follia”), mentre invece fede ed etica vanno ancora intese nel senso intensivo della Patristica.
Secondo Paracelso vi sono tre vie per cui la sapienza e le arti possono correttamente discendere all’uomo – “sgorgare dall’alto”, come egli suggestivamente si esprime: 1) la necessità (intervento naturale); 2) la provvidenza (intervento divino diretto); 3) la preghiera (intervento umano). Quest’ultimo tipo d’intervento può essere unicamente agito dal tipo d’uomo appena sopra descritto; “ma oltre a queste tre vie ce n’è una che non scende dall’alto come le prime tre secondo l’ordine naturale, ma sorge dal grande impegno dell’uomo che però non è predisposto dalla costellazione” (L’invenzione delle arti). Quando perciò l’uomo non è nella disposizione e qualità della terza via, applica il proprio ingegno non in direzione supera, ma infera; muoverà e costruirà qualcosa, ma non secondo l’ordine naturale e la predisposizione provvidenziale (la “costellazione”), potendo egli (a differenza delle bestie) muoversi contro natura e allontanarsi da Dio. Riguardo a quanto può avvenire lungo questa quarta, tenebrosa via, Paracelso ha espressioni che ricordano il tradizionale “discernimento degli spiriti”.
Se abbiamo in parte anticipato e svelato le sorprese e ricchezze di queste due preziose operette, non ce ne voglia il lettore non consueto alla lettura di Paracelso, ma sappia che il suo linguaggio possiede la linearità di un arabesco; quasi si trattasse di chiacchierate tra amici (e forse in origine sono proprio appunti presi dai suoi discepoli), il medico-filosofo sembra continuamente divagare, e ci si rende conto del solido fil rouge che unisce tutto solo a percorso inoltrato – percorso a tratti illuminato da considerazioni folgoranti che lasceranno certo vivida traccia nella mente del lettore.
B.C.
Philipp Theophrast Bombast von Hohenheim (detto Paracelsus, secondo una probabile latinizzazione umanistica del cognome) nasce nel novembre del 1493 ad Einsiedeln (Svizzera), dove il padre (discendente da un’antica e celebre famiglia) si era stabilito in qualità di medico. Proprio dal padre, Paracelso acquisce i primi rudimenti di medicina, chirurgia e alchimia. Tra le guide che ha
successivamente, spicca il celebre Johann Trithemius, abate di S. Giacomo a Würzburg, grande studioso di magia e alchimia.
Dopo aver ottenuto il baccalaureato a Vienna nel 1511, Paracelso intraprende una vita di vagabondaggi per l’Europa e i paesi del vicino Oriente; fatto prigioniero dai Tartari, rimane presso di loro, pare, dal 1513 al 1521, anno in cui è attestata la sua presenza a Costantinopoli.
Il suo ritorno in Europa è contrassegnato da un seguito ininterrotto di successi, scandali e fughe. Nel 1525 fugge da Salisburgo, dopo essere stato coinvolto nelle lotte religiose della città. Preceduto dalla sua fama, giunge a Basilea, dove guarisce il celebre umanista Frobenius e conosce Erasmo; grazie all’appoggio di Ecolampadio ottiene una cattedra di medicina, ma non tarda a scandalizzare con le sue teorie l’ambiente accademico: basti pensare che il 24 giugno 1527 brucia pubblicamente il Canone di Avicenna. Scontratosi inoltre col potente ordine dei farmacisti, è costretto a fuggire nei primi mesi dell’anno successivo.
Gli anni seguenti lo vedono vagabondare di città in città, accompagnato da discepoli e giovani desiderosi di apprendere la sua arte. Notevole è l’episodio di Norimberga dove, nel 1530, viene accusato di ciarlataneria e impostura dai medici della città: egli chiede gli siano affidati malati dichiarati incurabili, che viceversa guarisce in breve tempo.
Continua a spostarsi tra Baviera, Svizzera, Austria e Boemia, finché viene chiamato dal Principe Palatino a Salisburgo, dove muore improvvisamente (pare in seguito a un agguato) il 24 settembre 1541.
Note
¹ Un esempio tra i tanti: “Se oggi noi possiamo sorridere della base teorica di questa medicina, non abbiamo però diritto di dubitare – tante sono le testimonianze in merito – della capacità dimostrata da Paracelso nel sedare e guarire infermità con i suoi strani medicamenti” (L. Geymonat, Storia del pensiero filosofico e scientifico, Milano 1970, vol. II, p. 111). Per il pensatore materialista le guarigioni ottenute con “strani medicamenti” non sono “teoricamente corrette”, e quindi da aborrire.
² La cosa, peraltro evidente a chiunque voglia darsi la pena di studiare le concezioni paracelsiche, è stata già riconosciuta (vedasi: Gilles Andrès, Principes de la Médecine selon la Tradition - tr. it. La medicina tradizionale, Roma 1997).
³ Chi voglia approfondire la medicina di estrazione paracelsica (della quale qui, comprensibilmente, non possiamo occuparci) trarrà motivo d’interesse dalla lettura di: H. Nolle-H. Vaughan, La medicina ermetica (di imminente pubblicazione presso Il leone verde).
⁴ Queste concezioni, proprie a Platone e al Platonismo, traarono nel Cristianesimo medievale soprattutto grazie a Boezio, permanendo peraltro immutate anche in ambito ortodosso (si veda ad es. Michele Psello, Varia dottrina, 31). La concezione tradizionale dell’uomo si trova esaurientemente espressa in Onorio di Ratisbona, Cos’è l’uomo, Il leone verde 1998.
⁵ Nel senso di non averne coscienza come io pensante.
Il sogno animalistico ed ecologico di un mondo naturale perfetto senza l’uomo è un’assurdità pari a quella di immaginare un cerchio senza il suo centro: l’uomo distruttore (di cui la società civile e industrializzata fornisce abbondanti esempi) agisce certo seguendo l’ispirazione del Distruttore per eccellenza (e di ciò risponderà nella Sede opportuna), ma in pari tempo realizza inconsciamente gli inevitabili destini dell’escatologia.
⁷ Paracelso invece scrive: “L’uomo non può misurare le cose in base a se stesso, giacché egli deve essere tutto e solo di Dio” (L’invenzione delle arti).
IL FONDAMENTO DELLA SAPIENZA
Primo Trattato
Chi voglia scrivere sulle arti e sulla sapienza, deve davvero come prima cosa conoscere ed esporre al lettore l’origine e la guida delle arti e della sapienza. In pari tempo, un medico che tenga a scrivere delle sue malattie deve dare fondamento al suo scritto, dire chi e come gli ha insegnato ciò che scrive, poi cosa scrive e insegna, e anche sapersi misurare contro le malattie: così saranno dimostrate la sapienza e la legittimità del suo insegnamento e della sua arte. Sempre parlando di questo fondamento della sapienza e delle arti, occorre descriverne il principio, e donde proviene ed è appreso, e come la sua materia è condotta al termine, e nuovamente verificare anche ciò. In pari tempo bisogna mostrare la medicina e il suo fondamento, donde deve sgorgare e ciò che concerne il corporeo: ma tuttavia in questo libro si parla dell’incorporeo e dell’invisibile, cioè della ragione. Tratterò la descrizione del corporeo e della sapienza del corpo, cioè delle malattie e qualità di entrambi, poiché bisogna conoscere bene il corpo e ciò che gli è connesso, cioè la sapienza umana e quanto in lei è degno di fede. Perciò la considero qui come qualcosa di corporale: infatti, proprio come si ammala il corpo, anche la ragione cade malata. Ho dunque descritto il fondamento del corpo, ove sta il suo difetto: così, come il medico sta sopra tutte le professioni, anche la sapienza umana è in posizione superiore.
Ciò che mi preme farvi sapere, per quanto riguarda l’uomo, è che in lui cose che sembrano molteplici e divergenti sono in verità uniformi: come potrebbe infatti agire un carpentiere contro l’altro ed entrambi costruire la stessa casa? C’è un solo modo, una sola via, un solo cerchio; e secondo la sapienza c’è un solo modo per tracciare il cerchio, perché il cerchio è uno e non due. E come tanto poco un carpentiere, uno scalpellino, un muratore possono tracciare un nuovo circolo che sia uguale al precedente, così la sapienza di quel muratore può avere un solo fondamento. L’arte che ne deriva è tutta in un circolo, un numero, linea e quadrato, e in ogni percorso vi è una sola sapienza. E come un cerchio può essere diviso da un triangolo, un quadrato e così via in modi diversi, così si può capire che può essere divisa la sapienza. E come al cielo serve una misura, così è per la terra, l’aria e l’acqua; e anche ogni sapienza è tratta e manifestata secondo
una misura. E come tutti gli uomini e tutte le cose sono contati in un solo numero, e tutto solo tramite il numero può essere più o meno compreso, così tutta la sapienza sta in un solo numero, e non vi è numero fuori di essa.
Riguardo alle cose, bisogna sapere che una linea è tracciata dalla mano senza calcolo, che sempre senza calcolo può fare un cerchio o disegnare con tratto libero un quadrato: la stessa sapienza infatti non è fuori dal giusto cerchio, quadrato o linea. Perciò da qui in avanti il mio discorso sul fondamento della sapienza deve riguardare chi sia a disporne e a darla. Il fondamento della scienza è concesso agli artisti¹: cos’è infatti la sapienza se non un’arte in cui alcuni sono più capaci degli altri? Chi sa dare un consiglio prudente, non è forse dotato di un’arte della sapienza prudente di cui altri non sono capaci? Così, quando l’orafo dà al fabbro un consiglio per il dominio del fuoco che egli non possiede, questa è un’arte. In tal modo ogni arte è diversa dall’altra, e la sapienza stessa è un arte. Essa è nel cerchio, nelle linee e nel numero, e le cose si manifestano secondo una misura che si vede anche nell’arte: infatti il tornitore, per esempio, lavora secondo una misura che gli deriva dall’arte. In pari tempo conosce nelle cose la linea e il circolo cui la saggezza stessa dà misura, poiché la misura è la sapienza in se stessa.
L’arte si ripartisce in diverse vie e non può consistere in una sola: essa è questo e quello, e nessuno possiede tutte le capacità e abilità: chi mai c’è che sa e fa tutto? Come uno non può impegnarsi in un lavoro mentre si sta già dedicando a un altro, così è per le arti: esse sono disperse e divise in modo tanto grande, ampio e alto da non poter essere contenute in un solo cervello, cosicché uno ne segue un pezzo, uno un altro, e un terzo un altro pezzo ancora. E come in un solo colpo d’occhio si vedono in una città diversi vicoli, e in ogni vicolo diversi artigiani, così nelle arti e nei mestieri si trovano differenti ripartizioni.
Tutti gli artigianati, tutti i mestieri e le arti provengono da una sola fonte e sono una sola fonte: questa ripartisce la sua essenza come un albero i suoi rami, senza che nessun ramo possa staccarsi dagli altri. Scrivendo questa guida alla sapienza, mi sembra giusto che voi sappiate che essa si suddivide in due parti, poiché la
sapienza umana è duplice: una riguarda l’anima e l’altra il corpo. Questa differenza è più che fondamentale, poiché vi è una sapienza della bestia che è propria al corpo e una dell’anima che appartiene all’Eterno. Avrete visto sovente un uccello che si forma una convinzione, un cane che fa altrettanto, e così via: è possibile perciò nello stesso modo che un uomo in se stesso formi e costruisca una convinzione, poiché l’uccello è una bestia e l’uomo pure. Ora, siccome una di queste due cose (l’animale e l’uomo) supera l’altra, e sono spesso scambiate l’una per l’altra, è perciò necessario descrivere accuratamente cosa sia la bestia e cosa l’uomo. Come altrove ho descritto il fondamento donde proviene il corpo e da cui nasce quel medico che è signore del corpo, qui descrivo in cosa consiste il sapiente, e come avviene che lo si stimi per tale, nel modo in cui ad esempio si giudica un medico abile o incapace: qui sta anche la ragione per cui noi cantiamo, ridiamo, piangiamo, preghiamo, digiuniamo, siamo terreni o spirituali. Riguardo a queste cose si fanno grosse confusioni ed errori: considerate dunque quanto scrivo con particolare attenzione, poiché descriverò il fondamento da cui a noi vengono la sapienza e l’arte, il principio che ci dona e insegna tutto l’invisibile, da cui lo stesso mondo fu formato ed è tuttora sostenuto.
Dunque in tutte le cose bisogna conoscere l’origine e comprendere donde proviene un’essenza, una proprietà, un’arte e una guida. Molti invece, in un simile frangente, vogliono apprendere da se stessi, senza mirare alla loro sorgente, e dunque capita che uno pretenda la sua sapienza esser quella giusta, e di conseguenza giusta anche la sua arte: ma, se quella di uno è giusta e quella dell’altro pure, nessuna allora è valida.
Da siffatti autoapprendimenti nascono certi idoli che sono sempre molto stimati, ma in realtà, come i riflessi in uno specchio, sono fatti di nulla. Uno appare sotto forma di Dio, uno sotto forma di Giustizia, un altro sotto forma di Castità, un altro ancora come Educazione, e tutti questi e altri ancora sopraffanno molto e variamente. In tutte queste cose non bisogna invece vedere nulla, poiché nulla è fuori di noi che non sia in noi stessi. Noi, invero, siamo Dio, e dunque dobbiamo da soli sperimentare ciò che è in noi: Egli è di se stesso, e non nostro; ci ha formato il corpo, dato la vita e insieme la sapienza, e da Lui provengono tutte le cose.
Dobbiamo inoltre sapere perché l’uomo esista, perché abbia un’anima e con cosa Dio l’abbia fatto: da ciò si scoprirà cos’è l’uomo e perché sia qui, viva e nasca. Per comprendere l’uomo nella sua sapienza, prima di tutte le cose esterne all’uomo dobbiamo comprendere il padre della sapienza, e cosa e come sia; e lo stesso vale per il figlio, cioè l’uomo. Infatti dall’uomo non possiamo capire perché è stato creato o perché esiste, ma dal Creatore possiamo capire perché l’uomo fu creato e come sussiste nel mondo, poiché questa sussistenza deriva dallo stesso padre della sapienza. Chi comprende il padre comprende anche il figlio, poiché il figlio eredita il padre: non come bontà, essendo il padre della sapienza non padre della bontà, ma della sapienza soltanto². La sapienza è bastevole per tutti gli uomini, che tutti la ereditano, cosicché nessuno può dire di possederne più o meno di un altro; inoltre, quanto meno un uomo forma in sé una certa parte di Dio, tanto più di quella parte sarà privo: infatti, come il nocciolo sta all’albero, così Cristo sta all’uomo.
Il corpo è una totalità e nessuno riguardo a ciò è povero o ricco, ma tutti sono uguali: nessuno può dire di partecipare del corpo meno di un altro; similmente, per quanto riguarda la sapienza, nessuno può accusare di esserne privo, o dotato in modo più scadente o più ricco – non manca la ragione, non manca l’intelligenza, non manca la conoscenza: esse sono tutte qua. Purtroppo noi, sbadati e dimentichi, trascuriamo di muoverci verso la sapienza e di esortarvi gli altri: chi dorme permane nell’ignoranza e vi s’impigrisce. Chi vive in modo sconsiderato, volubile, pigro, non si muove sollecito verso ciò che è nella sua interiorità, ma, a causa della propria pigrizia, trascura di lavorare per la sapienza.
Non avviene come in una comunità solidale, dove nessuno da solo compie nulla e tutti seguono uno che consiglia e guida, e agisce in modo che tutti siano del suo parere, affermando che lui segue la volontà divina. Ma se questo consiglio e guida non fosse in te disposto bene come in lui, come potresti renderti conto che lui agisce bene? Tu testimoni con te stesso che egli ha ragione, poiché la medesima scienza è in te, anche se tu non l’avverti, non la ricordi, o affermi che il tuo pensiero non può arrivare così lontano: proprio ora sei testimone tu stesso di dormire in ciò che hai ereditato.
Tutti infatti hanno un’eredità che è la sapienza, e quest’eredità è in tutti uguale: uno la sfrutta e un altro no, uno la seppellisce e ci cammina sopra e un altro ci guadagna bene, e un terzo ancora di più³. Perciò, a seconda di quanto la impieghiamo e utilizziamo, ricaviamo più o meno, poiché essa è in noi.
La sapienza dell’uomo è il fondamento di questa predisposizione e non può essere tratta dall’esterno. Perché dunque dorme chi può parlare con tal fondamento, imparando? Molti infatti dormono e non traggono insegnamento da ciò che è in loro. Chi può apprendere da un muto la lezione che è in lui? Nessuno: e così è per l’uomo; ma dal padre stesso si può imparare. C’è infatti tra il padre e il figlio una differenza, perché l’insegnamento del padre è più leggero e utile di quello del figlio, il padre è evidente e il figlio no, tanto che dal padre si conoscono l’essenza, la vita, il modo, la proprietà e il compito del figlio. Ora, l’uomo è un figlio e possiede la sapienza: perciò essa non gli proviene da lui stesso, ma dal padre della sapienza; e chi la vuole imparare, non la impara dal figlio, ma dal padre, che è manifesto nella sapienza e vi si mostra visibilmente.
Bisogna ora considerare la disposizione del padre della sapienza, da cui comprendere quella del figlio, in modo che sia finalmente chiaro cosa sia la sapienza dell’uomo nelle cose; infatti, ciò che la sua testa elabora deve possederlo il padre. Poiché il padre genera il figlio, in lui dobbiamo riconoscere la sapienza; e ciò che il padre è, anche il figlio è, indipendentemente dalla persona o dalla forma, poiché non di queste ma della sapienza sto parlando. Ora dunque sappiamo cosa siamo, poiché risultiamo essere figli, e conosciamo la nostra eredità, che è tutt’intera e non spezzata. La vita nell’uomo non può essere frammentata, o data un po’ più o un po’ meno, ma dev’essere data a tutti nello stesso modo; e come per la vita dev’essere per la sapienza, cosicché in questa ripartizione il meno è come il più e il più come il meno, e in essa ogni modo e misura dev’essere uguale.
L’uomo deve acquisire ogni sapienza come sua eredità: egli è così grande e nobile che porta su di sé l’immagine di Dio e ne eredita il Regno. L’uomo è
siffatto che Dio gli ha dato come nemico il diavolo, cioè Satana Belzebù: la verità infatti deve avere un nemico, e se Dio è la massima verità, il diavolo è la massima menzogna⁴. Il diavolo non vede Dio e non può fronteggiarlo, non lo può toccare e nemmeno può stare al suo posto. Ma sulla terra sta l’uomo al posto di Dio, e il diavolo può comandarlo e invidiarlo: infatti, se non può stare al cospetto di Dio, può invece stare a quello dell’uomo. L’uomo deve invece su questa terra rappresentare Dio, lodarlo e glorificarlo, e compiere la sua opera: così facendo possiede la sapienza di Dio ed eredita il suo Regno, riempie col suo numero il cielo e scaccia il diavolo nell’abisso dell’inferno. Quando questo numero sarà colmo, in grazia sua non vi sarà più cielo e terra, ma tutto sarà cielo, e come in un grande spazio si potrà danzare, piangere, ridere e urlare, e vi sarà salute, malattia e morte; e la conseguenza di ciò sarà il Giudizio Universale. Ma ora l’uomo deve colmare il luogo e riempire questa parte di Dio sulla terra contro il diavolo, poiché per ciò è stato creato e posto nel Paradiso, e avendo infranto il comando divino senza esservi costretto e non per bisogno di riscatto, fu mandato dal Paradiso nel mondo, dove sta in luogo di Dio – e tutto ciò non certo per Dio ma grazie al diavolo e al serpente che ingannò Eva. Ne consegue che il nostro ruolo è semplice: dobbiamo in cuor nostro non dimenticarci del seduttore, ma estinguere il nemico ereditario, il diavolo, per sussistere in eterno. Se Cristo non ci avesse salvati, chi mai potrebbe diventar beato? In tal modo siamo fuori dalle grinfie del diavolo, nostro primo nemico; chi dimentica ciò è infelice, e diventa egli stesso nemico ereditario di Dio, nel cui nome siamo qui sulla terra. Ci conviene dunque nel frattempo raggiungere quel grande fondamento della sapienza umana, riconoscendola in noi. Noi invero qui sulla terra non dobbiamo vivere tendendo a ciò cui il diavolo mirò in cielo: nella causa egli mirò la sua superbia, la sua gloria, ecc., ma se noi qui sulla terra tendiamo a tali cose, non possiamo conseguire ciò per cui siamo designati.
In cielo all’uomo e al diavolo fu dato lo stesso potere: il diavolo poteva essere superbo o no – fu superbo e perciò fu scacciato. Così, l’uomo può essere o meno superbo, simile in ciò al diavolo, che era un angelo, ed essendogli simile può capitargli la stessa cosa. Dobbiamo quindi diventare angeli e non diavoli, perché per ciò siamo venuti al mondo.
Dio una volta fu raggiunto in cielo dal diavolo, che volle essere simile a lui, ed
egli perciò lo scacciò. Poi creò e fece nascere l’uomo nel mondo, non volendo che fosse in cielo, ma dal cielo separato. Gli dette però sulla terra ciò che gli serviva come angelo, poiché egli è un angelo corporeo: se egli pecca ed è superbo, non viene scacciato dal cielo ma dalla terra, poiché ormai dal cielo Dio non scaccia più nessuno⁵: ciò avviene una volta sola, come una volta sola si nasce e una volta sola si muore – tutto in una cifra, un giudizio, un sì e un no. Poiché il cielo sarebbe stato colmato, egli creò il mondo e l’uomo in esso, affinché non sorgesse più in cielo la malvagità e il pravo fosse tolto dal numero degli uomini.
Dio ha creato all’uomo una ricchezza speciale, posta tutta dentro lui stesso, non grossolana, non vana, non misconosciuta: gli ha dato la saggezza, chiara, limpida e pura. E se un uomo è di costituzione rozza e un altro di costituzione fine, quale dei due loderemo o rimprovereremo? Nessuno: entrambi hanno uno stomaco, un cuore, sangue e carne rossi, ossa bianche, midollo e capelli; nell’insieme v’è anche la ragione, ma non la furbizia. La furbizia è una cosa estranea, bestiale e brutale, non tanto propria al lupo, quanto agli uomini che la onorano molto. In tutti dunque c’è quanto c’è in te, e nel giardino del povero cresce ciò che cresce in quello del ricco: così nell’uomo stanno tutte le capacità e tutte le arti, anche se non tutte visibili: in un caso ne appare una e in un altro caso un’altra, ma tutte stanno in lui ed egli tutte le possiede, e quella che si risveglia viene manifestata. L’uomo non impara nulla, ma risveglia e richiama solo ciò che è sepolto in lui ; come non puoi insegnare a danzare a un pezzo di legno o a parlare a un cane, similmente non puoi fare in modo che uno scolaro impari da solo. Ma nel legno e nel cane non c’è quello che c’è nello scolaro, poiché il bambino è un ambiguum, e avrai ciò che in lui risvegli: ridesta il calzolaio e sarà un calzolaio, ridesta lo scalpellino e sarà uno scalpellino, ridesta l’erudito e sarà erudito. Tutte queste cose sono in lui; quella che risvegli, ne esce e le altre restano sopite: se non fossero nate con la carne e col sangue, mai più potresti estrarle. Perciò riguardo a queste cose anche tu sei uno scolaro: tu risvegli gli scolari e loro anche risvegliano te – cioè uno ti può insegnare e ridestare in te ciò che dorme, così come si fa coi bambini e gli allievi.
Proseguo a scrivere sul principio e la materia della sapienza, come già ebbi a fare col principio e la materia della medicina – segnatamente, come portiamo e
disponiamo la sapienza nelle malattie e cure, e che queste malattie della sapienza vanno intese come quelle corporali. Nessuno si spaventi per ciò, e nemmeno si lasci sviare dalla massa dei sofisti, in nulla credendo loro, giacché essi sviano la sapienza, e in ciò che concepiscono sugli argomenti seguenti non risiede proprio alcuna sapienza. Riguardo a ciò, alla sapienza capita come alla malattia di incorrere nella mania, nella phrenesia e in diverse altre specie: va segnalato ciò che il medico anatomista del corpo deve apprendere sul padre; e anche bisogna conoscere nel luogo della ragione l’anatomia dell’uomo, la sua sapienza, e il numero delle sue malattie e tutte le essenze e proprietà: e non in modo scarso, ma con abbondante informazione. Poiché, come i medici vanno in cerca della conoscenza delle malattie, così i saggi cercano la sapienza. Nessuno in ciò può sbagliare senza che ne consegua una grande infermità: così è per il corpo come per la ragione. E, come avviene per il corpo, così bisogna conoscere le cose da mutare nella ragione.
Voglio ora mostrare e presentare la sorgente di questa predisposizione da cui viene la sapienza umana: da essa si può capire anche come nasce l’arte e come giunge a noi; non solo a noi, ma anche alla bestia e a tutte le cose che hanno a che fare con la sapienza e la ragione, poiché la sapienza si accompagna all’arte, all’avvedutezza, alla giustizia, all’acume e all’intendimento di tutte le cose. Dopo aver così cominciato, voglio affrontare l’argomento secondo la ripartizione del libro, trattando quindi delle due sapienze, quella animale e quella angelica, che entrambe sono nell’uomo. Poi cosa concerne la ragione animale e quella angelica, illustrando le loro varie parti. L’argomento non si può trattare in modo breve e succinto: vorrei dunque ammonire chiunque legga a prestarvi una minuziosa attenzione. Esso infatti deve apparire a ognuno secondo il proprio modo di vedere: è difficile svelarlo e conoscerlo, benché fu ed è dall’inizio e sempre, ma i nostri occhi e la nostra scienza sono ciechi. Specialmente devono leggere ciò quanti vogliono procedere nella luce delle chiese, delle arti e della giustizia, poiché, vedendo queste cose, essi avranno accesso a ogni giustizia, luce ed arte. In tal modo essi capiranno sia lo spirituale sia il mondano, il falso e il giusto, e sapranno distinguere le une cose dalle altre. Il bugiardo dice una verità, il sincero dice una menzogna; l’uomo storto cammina, l’uomo retto incespica: come in tal modo procedono proprio tutte le cose, e – così andando – da quale fondo e radice promanano: ecco quanto intendo trattare, e smascherare in special modo le superbie che siedono facendo mostra di sé sulla sedia della sapienza, o per meglio dire sulla sedia della pestilenza.
Secondo Trattato
Poiché in tutte le cose bisogna riconoscere il figlio attraverso il padre (come sapete dall’introduzione al libello), così io ho basato la conoscenza del microcosmo dal suo padre, il grande mondo: attraverso esso dobbiamo conoscere il fondamento e il padre della sapienza, e se noi conosciamo Dio, conosceremo la sua arte e sapienza⁷. Ma Dio non è un artista, cioè in se stesso egli non è un sapiente del mondo; eppure l’arte e la sapienza del mondo sono sue, vengono da lui, egli è questa stessa sapienza, e questa sapienza del mondo è quella dei figli (non quella delle bestie), e noi dobbiamo acquisirla da Dio.
In primo luogo è vero e palese che Dio è intero e perfetto e non ha fratture in sé, e così è per tutte le cose. Come quest’intero non ha interruzioni, così dunque la nostra sapienza e la nostra arte devono essere intere: tali dobbiamo possederle e nulla di meno, poiché egli è il loro padre e noi siamo suoi figli, le otteniamo da lui, e le abbiamo intere e non frammentate. Ammettendo ciò, se mostriamo un’arte e una sapienza non intere e compiute, allora non siamo figli di Dio, poiché egli non ci dà un’eredità frammentata, ma compiuta e perfetta. Quanti operano un’arte frammentaria (e dunque dubbiosa, scoraggiante e incerta) non celebrano l’eredità di Dio, ma come truffatori del padre mangiano il suo pane con vergogna e disprezzo, senza grazia e benevolenza. Questi frodatori di Dio usano l’arte, ma non come una legittima eredità, cioè secondo quella legittima libertà che il figlio deve ereditare dal padre. Come sulla terra noi dobbiamo avere in Dio il nostro specchio – essendo nella nostra immagine simili a lui, allo stesso modo in cui un figlio somiglia al padre e non ha meno dita di lui – così nella sapienza dobbiamo manifestare Dio. Dobbiamo dunque essere interi, giacché in Dio non scorgiamo nulla di frammentario. Vi è in noi uomini una sapienza che non serve al fine della sapienza stessa, non si risolve senza danno o non permane senza spezzare, com’è per il truffatore. Perciò il saggio di Dio che deve possedere la sapienza divina si prende cura che la sua sapienza mai più soggiaccia e nessuno le si possa opporre, così che non ne vengano danni, lacrime, miserie, afflizioni, infelicità, ma gloria, pace, gioia e tutte le soddisfazioni.
In Dio non vediamo altro che la verità e la giustizia: questa è l’anatomia di Dio che in lui noi vediamo, riconosciamo e comprendiamo; ed essendo egli davvero il nostro padre nei cieli, noi come suoi figli siamo dèi, ma non siamo il padre stesso, che dunque rimane il solo Dio. Di conseguenza siamo dèi e perfetti, e vediamo in Dio una certa anatomia del nostro padre della sapienza e dell’arte e sappiamo che nulla è sulla terra di toccato dalla sapienza e dall’arte che non provenga da Dio. Tali cose si dividono in due categorie: quelle complete e quelle incomplete; le prime provengono legittimamente da Dio, le altre sono frutto di frode nei suoi confronti. Quanto nasce legittimamente è beato: perciò sono anche beati coloro che rinascono nella morte. Coloro che invece non si ridestano alla sapienza, che è in loro benché ne abbiano poco sentore, sono fraudolenti e illegittimi con la loro sapienza e arte, e devono mascherare la vergogna e il vizio con le menzogne.
Chi ha mai visto un figlio di puttana che accetti di esser tale senza ribellarsi? Non cercherà forse di mascherarsi e apparire come legittimo ed essere molto stimato? Perciò costoro si innalzeranno con menzogne, astuzie e imbrogli per giungere ad essere lodati. Così è per i truffatori dell’arte e della sapienza: essi hanno in sé qualcosa che non è cresciuto come doveva, cosicché si trovano nell’inverno invece che nell’estate. Perciò, quando si devono confrontare con la sapienza e l’arte legittime, si nascondono dietro una sapienza di menzogne e un’arte di imbrogli: così agiscono i medici che hanno un’arte fraudolenta e smerdano la gente, così i giuristi che si nutrono di bugie, così i teologi che si arrangiano con prediche raffazzonate: tutti fraudolenti e illegittimi. Essi vogliono un matrimonio legittimo, e impalmano una puttana credendola onesta: sono come uno che conduca una bagascia in chiesa e la riporti a casa come se l’avesse sposata segretamente, quando invece ha fatto biascicare a qualche pretonzolo le cose più diverse, che però avessero sembianza di matrimonio. O come uno che si inginocchi e si confessi, poi dia danaro al prete perché lo assolva come se mai si fosse confessato.
La sapienza degli uomini e la loro arte sono duplici: legittima e integra l’una; fraudolenta e bastarda l’altra, ottenuta e celata con bugie, viziosa e
frammentaria. A causa di ciò dunque si sciolgono i regni del mondo, gli statuti e i contratti degli uomini si sfasciano, gli uomini si odiano reciprocamente, e per questa fraudolenza ne viene molto male e rabbia, poiché da essa non bisogna aspettarsi utilità ma solo miseria.
Sia dunque la nostra sapienza sulla terra un’altra, e viviamo gli uni con gli altri come gli angeli del cielo, che per questo sono angeli: dobbiamo infatti vivere come loro ed essi devono essere la nostra anatomia. Noi non possiamo vedere nulla in Dio, poiché da lui nulla si stacca, ma nella sua creatura possiamo vedere l’anatomia della sapienza e dell’arte, poiché noi siamo queste cose, anche se nulla ci appare a causa del corpo e del Giudizio futuro. Cosa conoscono gli angeli? Tutto, essendo in essi tutte le sapienze e arti di Dio, che per loro tramite giungono in terra. Gli angeli sono puri e semplici, e dunque stanno desti senza sonno alcuno; l’uomo invece ha un corpo che dorme, e deve quindi ridestarlo per giungere alla sapienza angelica, che è poi la sapienza e l’arte di Dio. Negli angeli si rivelano tutte le cose naturali, tutte le abilità, i segreti della natura, gli arcani delle cose, le proprietà delle creature e i modi del creare. In loro stanno anche Medicina, Geomantia, Astronomia, Pyromantia, Augurium, Chiromantia, Incantatio, Maledictiones, Benedictiones, Nigromantia, Necromantia, Gaballia, Alchimia, Transplantatio, Transmutatio, Reductio, Fixatio, Tinctura: tutte cose che stanno nella natura, cioè nelle creature. Gli angeli sono medici, possono volare, camminare sull’acqua, attraversare i muri, rendere invisibile, sanare ogni malanno, compiere magie, realizzare Characteres e Imagines. Conoscono ogni natura e arte delle erbe, dei semi, delle radici, delle pietre e dei legni; possiedono la Nigromantia, la Necromantia, la Geomantia, l’Astronomia, la Medicina e l’Alchimia e tutto ciò che fu annunciato. In loro l’uomo trova il compimento di ogni arte e scienza, per cui deve operare tramite gli angeli. Dio infatti ha dato la sua forza alle erbe, l’ha posta nelle pietre, celata nei semi, e in tutto ciò noi dobbiamo cercarla e prenderla. Gli angeli l’hanno in se stessi, ma l’uomo no, ce l’ha nella natura dove deve cercarla. Essendo la natura il frutto, l’uomo rivela tramite essa la propria potenza e l’eredità di sapienza e arte ottenuta dal padre: grazie a questa potenza egli può essere Nigromanticus, Necromanticus, Geomanticus, Pyromanticus, Hydromanticus, Cabalista e Augure; tutte queste cose sono nelle creature, e quindi l’uomo le può realizzare. Le creature gli mostrano la fisionomia, la chiromanzia, l’urina e il polso nel macrocosmo, così che vedendo tutte le arti, i modi e le qualità l’artista abbia un fondamento su cui basarsi e regolarsi. Se non dubita mai che Dio è il fondamento di ogni arte, egli
non soggiace al diavolo ma alla potenza divina⁸: quella stessa che è arte e sapienza, data agli angeli e alle creature – non però le creature devono possederla, ma l’uomo in loro deve averla, conoscerla e usarla, cosicché uscendo di natura possa diventare invisibile, volare, camminare sull’acqua, sanare e compiere tutto quanto è stato annunciato.
Il diavolo può compiere tutte le cose, giacché è un angelo; siccome però fu scacciato dal cielo, tutte le sue arti e scienze sono divenute fraudolente – un sapere ottuso, come un pulviscolo ove si mescolino l’esatto con l’inesatto e il fantastico, un torpore che genera un’arte sciocca. Dunque il diavolo compie un’arte e una sapienza bastarde, poiché non può compiere nulla di legittimo, ma solo stoltezza e malconsiglio. Chi invece eredita la sapienza di Dio cammina sulle acque senza bagnarsi i piedi, poiché nell’arte giustamente ereditata l’uomo diventa un angelo: cosa bagna l’angelo? Nulla, e così è per quest’uomo. Dio è potente e vuole manifestare la sua potenza nell’arte e nella sapienza sia agli uomini sia agli angeli. Vuole che in terra e nel mondo sia come in cielo: non con la purezza, poiché il corpo li divide; non con il digiuno, poiché il corpo li separa; non con le opere, poiché il corpo si interpone – ma tramite la sapienza e l’arte. Possedendo quella sapienza che hanno gli angeli, siamo angeli, viviamo nella volontà di Dio, siamo Dio. Può qualcuno esser matto stando nella volontà di Dio? No. O esser ignorante stando nella volontà di Dio? No. O non poter compiere nulla stando nella volontà di Dio? No davvero, poiché tutte queste cose contrastano con la volontà di Dio. Egli non ci vuole stupidi, ignoranti, inesperti, non intelligenti; ci vuole ridestati alle grandi cose naturali che ci ha dato, affinché il diavolo veda che siamo angeli e siamo Dio. Egli non vuole che solo Pietro, Giovanni e Filippo siano apostoli, ma che tutti noi, come loro, diventiamo e rimaniamo apostoli. Non vuole che solo Salomone sia sapiente, ma che tutti noi al pari di lui lo diventiamo. Non vuole che Tolomeo sia l’unico astrologo, ma che tutti lo siamo. Similmente, non vuole dare il cielo a uno solo ma a tutti, e che tutti dimoriamo nella sua sapienza e arte: tutti ci ha amati e salvati, e tutti ci vuole eredi della sua sapienza ed arte, poiché tutti portiamo il segno del legittimo Figlio di Dio. Chi vuol credere che Salomone soltanto possa esser saggio? Certo, l’uomo dubbioso che non vuole crescere. Chi vuole affermare che Dio è così adirato da far pervenire un solo contadino di Endtlibuch o di Mütterthal alla sapienza di Salomone? Certo, non solo di Endtlibuch o di Mütterthal, ma di Seiffenthal, di Enthal, di ogni cantone e montagna, e così via; Dio infatti vuole e si compiace che in ogni angolo della terra si spanda quella sapienza e arte di cui
egli è origine e fonte, e che dà agli uomini perché le impieghino in terra come in cielo, poiché ha fiducia in noi e ci ama. In nessun modo bisogna pensare che Dio voglia noi uomini immersi nell’oscurità e nelle tenebre, poiché tutti ci vuole massimamente edotti da lui. Non ha gioia tra gli stolti, i folli, gli scriteriati; non vuole che in un paese vi sia un solo saggio, un solo assennato, un solo sapiente, ma che tutti diventiamo sapienti in Dio, noi che non sappiamo chi o cosa egli sia. Non siamo nati stolti e folli, ma nella stessa specie di Salomone e degli apostoli, per far trionfare la luce eterna, e nulla proteggerà dalle loro responsabilità gli stolti e i folli nella rovina del giorno del Giudizio. Dio infatti non ci ha posto davanti la rovina ma l’eterna sapienza ed arte con cui onorarlo, glorificarlo e lodarlo: in tale pienezza di virtù la terra apparirà e diventerà come il cielo. Se però non sarà così, rimarremo sulla terra finché ci risveglieremo nel giorno del Giudizio.
Il figlio, essendo simile al padre, ha la sua stessa anatomia, gli è simile nelle membra, che sono perfette; e il padre della sapienza e dell’arte si compiace in questa perfezione del figlio. Quale padre non desidera che il figlio gli somigli? Quale padre desidera che il figlio gli sia inferiore nelle membra del corpo? Se così fosse, nessuno vorrebbe un tale padre sopra di sé. Ma noi scorgiamo che in Dio è ogni sapienza e arte e nulla lo contrasta; se dunque credessimo veramente di essere suoi figli, saremmo capaci di porre le montagne sulle montagne, ed esse cadrebbero nel mare, se questa fosse la sua volontà. Ma se non fossimo suoi figli legittimi, vi sarebbe solo una prole puttanesca che regnerebbe sulla terra con la sua sapienza e arte bastarda. Chi mai getterebbe via l’arte della medicina? Nessuno, poiché è creata da Dio, e tutto ciò che è creato noi siamo costretti ad ereditarlo; ed attraverso la medicina Dio mostra la buona e la cattiva fede. Così come il sole splende giovevole sui buoni e sui malvagi, così Dio nell’ambito corporale ci dona la medicina, perché non vuole essere biasimato. Ed anche, chi abbandonerebbe l’astronomia? Nessuno, poiché la causa del cielo è un cuore in noi che possa agire bene o male, e dunque dobbiamo conoscerlo, riconoscerlo, sapere come sia e ricorrere a lui. Similmente, come conosciamo il cibo che sostiene il nostro corpo, dobbiamo pure conoscere altre cose, che cibo non sono, e tuttavia sono indispensabili al corpo. Chi obietterà alla Gaballia? Nessuno, tranne chi non la capisce, poiché l’ars gaballistica ci dimostra che siamo angeli, in noi dimora un’anima eterna, e il corpo è solo corpo, cioè morte e niente più. E così è per molte altre cose che mostrano la nostra forza, cioè il legittimo dominio sui figli di puttana della sapienza.
Bisogna lodare Dio che nel corpo umano vi sia una ragione animale a volte fallace e inaffidabile, poiché così l’uomo giunge a rifiutarla e a volere la sapienza e l’arte di Dio. In tal modo, chi conosce ciò che è nel tasso, non conosce la natura del tasso, ma il dono di Dio; chi conosce la natura della nigella, non conosce la propria arte, ma quella di Dio. Cos’è infatti l’arte dell’uomo? Nulla. E l’arte delle erbe? Nulla; visto che nessuna delle due può parlare, Dio è l’arte. Il Filosofo trasmuta, lo Spagirico trapianta, ma nessuno dei due fa nulla: è la natura a fare – anzi, non la natura, ma l’arte nella natura, cioè Dio. Egli non vuole che una cosa rimanga come la generano la terra, l’acqua, il cielo e l’aria, ma che anche noi operiamo in concordia con lui, e tramite lui agiamo le forze della natura che ci ha dato; egli muta il legno in pietra e compie mutamenti anche più stupefacenti, perciò non vuole che le cose rimangano come sono, ma che si portino a compimento altri portenti. Noi dobbiamo dominare e comandare il cielo, e non lui noi. È dunque ineccepibile che, per esempio, non solo l’acqua è madre dell’oro e non solo la terra è madre della fiamma, ma anche l’uomo lo è, poiché se a queste cose partecipano l’acqua e la terra, pure l’altra madre è l’uomo. Vi siano in cielo comete, o due o tre soli; cadano dal cielo pietre, saette, fulmini e tuoni; tutte queste meraviglie, accadendo eccezionalmente in cielo e in terra, non sono predisposte solo per lo stupore dell’uomo: egli è infatti una meraviglia ben più rara di queste, poiché può vivere sulla terra non sotto una costellazione insensata e schiava, ma può dominarla e contrastarla, tutto compiendo secondo l’arte e la forza di Dio. Tanto maggiore egli è rispetto ai quattro elementi, tanto più compie. Riguardo a ciò uomini ispirati dagli angeli dicono che dobbiamo vivere e osservare che ogni nostra opera, azione, manifestazione, sapienza e arte provenga da Dio.
Dopo aver considerato quale sia la provenienza del fondamento della sapienza e dell’arte, dobbiamo ora discorrere del fondamento della ragione animale. L’uomo possiede infatti due ragioni, una angelica e una animale: quella angelica è eterna, proviene da Dio e rimane presso Dio; quella animale anche proviene da Dio, ma è in noi, non è eterna e muore col corpo. Nulla di animale, invero, sopravvive alla morte, che è in se stessa morte dell’animale e non dell’eterno.
Spero che vi rendiate conto di ciò che non perisce col cielo e con la terra, di quanto invece si disgrega con loro, e che voi non vivete in quanto animali, ma perché uomini. L’animale non è un uomo, è solo una bestia; l’uomo non è un animale, ma l’immagine di Dio, e la sua bocca rivelò che è di Dio strumento. Certo, è un animale, essendo mortale: in lui però non è mortale l’uomo, ma la bestia; l’uomo, e non la bestia, risorgerà l’ultimo giorno per comparire innanzi a Dio – l’uomo, e non la bestia, renderà conto delle sue azioni. La bestia è trascinata, l’uomo conduce e trascina. Voglio trattare di ciò in modo che riconosciate le frodi, poiché esse si manifestano attraverso questa ragione animale e sono un aborto. Infatti l’uomo che non è tale nella sapienza e nell’arte è un aborto, poiché non è un uomo ma una bestia.
Tutto ciò serve a rendere evidente alcune notevoli caratteristiche dell’animale, donde giunga la sua sapienza, come si riconosca la sua ragione, e perché l’uomo presta fede alla bestia; bisogna infatti prima di tutto considerare lo specchio della luce e della ragione animali, giacché in tal modo l’uomo è spinto a gardare in se stesso, vedere il suo specchio, notare a chi è paragonato e a chi invece dovrebbe esserlo, constatare a chi è simile, e dunque qual è il suo fondamento – così prendendo coscienza della sua arte, sapienza e saggezza, si rende conto della sua altezza, grandezza e possibile evoluzione. Riguardo a questo stesso compimento, voglio anche svelare l’origine delle arti angeliche e come giungono a noi, come si corrompono in falsità accanto all’arte e sapienza della bestia.
Segue il terzo trattato, dove parleremo di queste cose e sull’origine delle scienze e arti invisibili, come Nigromantia, Geomantia, ecc.
Terzo Trattato
Proseguendo il nostro discorso, occorre parlare dell’origine della ragione animale, dopo che prima abbiamo accennato a quella angelica.
L’uomo in se stesso è anche figlio, cioè l’ultima creatura, formata dopo tutte le altre – vale a dire, che prima di lui fu creato tutto ciò da cui egli doveva essere formato. Fu fatto per ultimo perché altrimenti non lo si sarebbe potuto trarre fuori dalle cose, se queste ancora non fossero state. Bisogna dunque comprendere che tutto quanto di animale c’è nel mondo gli è padre; in pari tempo, risiedendo l’uomo nella piccola e nella grande sfera, il medico da questo padre deve apprendere, grazie al proprio corpo. Formandosi così nella ragione animale, egli è figlio di tutte le bestie e tutte le bestie gli sono padre, e come il padre è creato prima del figlio, così l’uomo trae la sua ragione animale dagli animali. La creazione delle bestie comprende anche quella della ragione animale, che infine ha un figlio, l’uomo; questi è posto nelle quattro parti del mondo secondo la norma del corpo, e la sua ragione è per metà nei quattro generi di animali, poiché questi si suddividono secondo i quattro elementi: acqua, aria, terra e fuoco.
Bisogna poi sapere che ogni animale, nella sua qualità originaria, è bestia e dunque per se stesso non possiede ragione¹ : nell’uomo invece la sua ragione animale e bestiale non è separata dal suo esser un animale. Ne consegue che l’uomo deve avere l’animale quale cibo, per la sua necessità e salute, mentre non è vero il contrario, poiché gli animali sono nel mondo per l’uomo, creati affinché da tutti loro egli fosse tratto: l’uomo non può sussistere senza di loro, e dunque deve averli. Di conseguenza al desiderio dell’uomo di cibarsene, essi diventano il suo cibo e la sua materia, così come un padre ed un figlio sono dello stesso genere e tuttavia anche di genere diverso.
Nel modo in cui l’uomo è creato, vi è anche il fatto che l’animale possa essergli
nutrimento, poiché il simile produce il simile ed egli è in se stesso ciò da cui proviene. Come la carne di manzo e di cervo sono simili a quella dell’uomo, così egli mangiandole trasforma la sua carne nella loro: se mangia carne di porco diventa carne di porco, e così per il cane o altro. Una cosa è creatura, materia e padre di un’altra, e dunque si muta in cibo dell’altra; in questo esser cibo si attua un’unificazione dove essa è solo un mezzo predisposto alla cottura dello stomaco. Dunque, la ragione animale nell’uomo è una cosa con quella delle bestie, che lo congiunge alle fiere e agli animali domestici, agli uccelli e ai pesci: non v’è sulla terra animale la cui ragione non sia nell’uomo, non c’è ragione nell’uomo che non sia anche nelle bestie. Ogni abilità, sapienza e particolarità animali sono nell’uomo come nelle bestie, e nelle bestie come nell’uomo, poiché tutto ciò è una cosa sola. Essendo gli animali creati prima dell’uomo, la ragione animale distribuita, e l’uomo formato da loro, come ultima creatura è figlio e stirpe dell’animale.
Riconosciuta dunque l’uomo la sua ragione animale, deve anche comprendere cosa sia la ragione animale stessa e non scambiarla per quella angelica. Tutte le cose del figlio si devono conoscere attraverso il padre, poiché il padre è anche il figlio. Quindi a un Filosofo e Medico naturale compete anche cominciare a parlare della radice e dell’origine, e bisogna prima di tutto dire che l’uomo in sé e per sé non può essere identificato con la sua ragione animale, ma attraverso il padre, per il cui tramite è stato posto nell’anzidetta ragione, avendo e portando anche sapienza, abilità e particolarità animali. Dovendo riconoscere l’uomo in ciò, bisogna aver prima conoscenza del padre, e attraverso lui del figlio.
Essendo gli animali specchio dell’uomo, egli deve scorgere in essi di esser come loro. Capita facilmente che l’uomo si meravigli di come il cane conosca il proprio padrone o l’uccello canti, e diverse altre cose proprie agli animali. Ma non si deve stupire, perché è il padre a poter ciò; sarebbe altrimenti più logico che l’animale si stupisca di come l’uomo si comporti e viva bestialmente, e dunque il padre si stupisca del figlio e non questi del padre. Che l’uomo ami se stesso e si comporti male nei confronti degli altri fa parte della ragione animale, come i cani che si massacrano a piacimento. Questo fa parte della ragione animale, ma anche l’uomo si comporta così per trarre il proprio vantaggio; perciò non si deve stupire che il cane compia tali cose, poiché l’uomo nasce dal
cane e non il cane dall’uomo: si meravigli l’uomo di essere canino e non che il cane sia umano. Il cane è come deve essere nella sua ragione canina, per cui l’uomo che è come lui è canino, perché può utilizzare ragione e giudizio canini, mentre il cane non può impiegare la ragione umana¹¹. È quindi un grosso errore chiamare un animale con un nome umano, poiché si pospongono le cose; infatti il figlio prende nome dal padre e non il contrario. Un porco lercio è porcino, e di un uomo simile è giusto dire che è porcino, poiché l’uomo può acquisire dal maiale o dal cane il loro modo d’essere. Lo stesso è per i pappagalli e le taccole: non diciamo che l’uccello è umano, nonostante impari dall’uomo a pronunciare cose che in realtà già sono il lui e che l’uomo solo esorta a manifestare. Non perciò dunque diciamo l’uccello umano: anzi, l’uomo che usa la lingua più del dovuto lo chiamiamo pappagallo e taccola, perché ciarla e strepita vanamente. Perciò la chiacchiera e la ciarla sono bestiali, pappagallesche, e non umane: solo la forza della parola è umana.
Tu mi dirai di guardare gli animali irragionevoli che mangiano per fame e bramosia, come la cincia che vola sulla mano dell’uomo colma di cibo. Non meravigliarti, poiché nella sua natura ferina è alta e nobile quanto te: puoi forse con la tua bocca cantare come lei? E se hai bisogno di cibo, non è l’angelo in te a chiederlo, ma la tua natura bestiale. Poiché anche tu, a tuo modo, sei una bestia, non meravigliarti che l’animale abbia acume e intendimento, quanto piuttosto di essere tu a percuotere lui e non lui te. Un serpente ferito si guarisce da solo: perché? L’uomo cerca invece la salute nelle erbe e nelle pietre. Donde trae quest’intelligenza e arte? La cerca nell’indole animale. Poiché tu sei figlio del serpente, farai come tuo padre, da cui hai ereditato, e come lui è dottore tu pure sarai dottore secondo la ragione animale. Non conosce egli forse cose come la serpentina, la colubrina, la consolida? Tu le conosci solo tramite lui, poiché ti è padre, madre animale e maestro. L’erba non trae nome da te, ma dalla sua giusta origine: serpentina da serpente.
Il serpente sa ciò che l’aiuta e conosce l’erba, ma tu pure possiedi in te un simile intendimento e puoi conoscere attraverso il medesimo spirito che insegna e ammaestra i serpenti¹²: è lo spirito animale che appartiene alle bestie. Non è perciò stupefacente che i serpenti esercitino la medicina, perché la possiedono da più lungo tempo, e tu l’hai ereditata, la impari da loro e sei tratto dalla medesima
natura animale.
L’intendimento, ragione e lume naturale è nell’uomo come nelle bestie: la saggezza, l’acume, la scaltrezza, la prudenza degli animali sono connesse all’uomo, e in un essere umano sono contenute tutte quelle cose che esistono separate nelle varie bestie; l’uomo è infatti l’animale massimo e supremo, che tutti gli altri supera. In ogni bestia manca l’intera natura animale, ma vi è solo quella della sua propria specie, mentre l’uomo ha in sé tutte le specie e tutte le componenti di tal natura. Nello stesso modo, tutte le forze che stanno separate nelle diverse erbe, sono nell’uomo, e tutto quanto è variamente sparso sulla terra sta riunito nell’uomo come in una piccola goccia.
Gli animali prefigurano ciò che è nell’uomo; come in cielo gli angeli lo modellano nella sua sapienza umana e i quattro elementi segnano il suo corpo, così l’animale fa per la sapienza, ragione e arte animale.
Gli uccelli costruiscono nidi secondo la loro bisogna; così, l’uomo esplica la sua sapienza animale quando si costruisce la dimora, e ogni costruzione umana proviene dalla sapienza animale – di più, ogni costruzione dell’uomo altro non è che una costruzione della bestia. Di più ancora, quando l’uomo esagera nelle sue costruzioni, ciò proviene da una seduzione della ragione animale: è idolatria e bestialità, anche se egli ritiene sia cosa giusta. I genitori nutrono i figli, come gli uccelli adulti nutrono i loro piccoli; ciò fa parte della sapienza e ragione animale, e l’uomo l’eredita dalla bestia. Ogni animale si prende cura della prole, e così l’uomo, che ha in sé tal natura, derivata dall’animale: ma tutto ciò è ferino, e non angelico o divino.
Come tra le bestie vi è un amore che unisce le coppie e lega il maschio alla femmina, così v’è tra gli uomini un amore siffatto, animalesco ed ereditato dal modo della bestia, tramite il quale essi ottengono guadagno, utilità e amore ferini. E questo amore è mortifero, non sussiste, è un semplice agitarsi che non porta in alto. L’ostilità reciproca e il combattimento per trar vantaggio anche
appartengono alla ragione animale, giacché le bestie anche si fronteggiano, irose e spaventose, invidiose e cattive. Come i serpi e i rospi si mantengono nella loro natura, così è per l’uomo; e come i cani e i gatti si odiano, così è per le regioni: questa è ragione animale. I cani mostrano inimicizia l’un l’altro, si mordono, invidiosi e avari, perché uno solo vuol divorare tutto e nulla lasciare agli altri: tutto ciò è bestiale. Essendo dunque l’uomo figlio del cane, gli competono un’avidità e avversione tali che uno vuol divorare tutto e nulla lasciare agli altri; ma questo latrare e mordere è lavoro di cani.
Gli uccelli cantano e anche l’uomo canta: ma ciò è animalesco. I pesci, mentre nuotano nell’acqua, si accostano alla preda; ma l’uomo fa la stessa cosa ogni giorno nell’aria. Non c’è modo d’essere nella bestia che non sia nell’uomo, che ne è figlio: egli è ero, taccola, volpe, lupo, orso, e così via, poiché nella sua natura animale egli è il vero figlio della bestia, usa la sua stessa sapienza e arte, impara da essa.
Donde prende l’uomo l’arte del cuocere e altre rare particolarità inerenti alla cucina? Dalla ragione animale. Guardate come le api cuociono il miele: c’è forse un cuoco pari a loro? Nessun uomo sulla terra. Infatti il padre è più del figlio, e ogni arte è migliore nel primo e peggiore nel secondo, come il maestro ha più intendimento dell’allievo e l’adulto del fanciullo.
Questo vale anche per altre arti dell’uomo che in realtà appartengono all’animale. Chi sa fare latte dall’erba? Solo la vacca. E chi latte dalla carne? Solo la mammella, poiché questi sono i due aspetti di un’unica natura animale. Ma sopra tutte queste cose visibili sta il Maestro invisibile, che ammaestra e istruisce le bestie, cosicché ognuna abbia la propria scienza, qualità e modo d’essere.
Da questo spirito animale occulto crescono gli uccelli nella loro conoscenza e arte del canto; similmente nell’uomo stanno tutti i canti, assieme a ogni proprietà, vita, scienza e modalità animali. L’uomo può estrarre, ridestare e far
sbocciare da se stesso ogni spirito animale: uno diventa muratore, un altro carpentiere, un altro cantante, un altro fabbro; tali cose non sono né angeliche, né umane, ma animalesche e dunque periture.
L’uomo, come abbiamo detto, eredita la sua sapienza e ragione dalla bestia, ed è quindi in tali cose più debole e povero di essa: la bestia difatti, al contrario dell’uomo, impara da sé e senza bisogno di tirocinio scolastico il proprio compito. Abbiamo detto, è vero, che nell’uomo risiedono le modalità di tutti gli animali, ma è pur vero che sono allo stato latente, e vanno riconosciute e rese manifeste. L’uomo ha l’astuzia della volpe, l’occhio del segugio e la bramosia del lupo, ma non può manifestare e usare queste qualità contemporaneamente e l’una contro l’altra. Dal momento che esse sono ripartite tra le varie specie animali, anche nell’uomo devono avere una sistemazione specifica, e spetta all’educatore saper scegliere ed estrarre la qualità migliore. Nell’uomo giacciono tutte le lingue degli uccelli, come pure quella tedesca, l’olandese, la se, l’inglese; la bestia impara da sé, poiché queste cose sono partecipate al suo corpo dalla specie; ma l’uomo ha un solo corpo, che non gli può partecipare tali cose, e deve dunque diventarne compartecipe risvegliandole da ciò donde si è allontanato; è quanto occorre fare nel fanciullo.
Senza istruzione i pesci sanno nuotare, gli uccelli volare e i quadrupedi camminare; i loro corpi hanno caratteristiche non possedute dal corpo umano, che non può nuotare e volare come loro – in tal senso, il corpo umano è il massimo della miseria, della rozzezza e dell’inettitudine. Possedendo il suo corpo tale grossolanità, il piccolo dell’uomo deve imparare ogni cosa, poiché essa è separata dal suo corpo. Ogni animale partecipa nel corpo della propria particolarità, così gli uccelli come i pesci, i serpenti e le cavallette; ma l’uomo è separato da queste particolarità, e deve apprenderle per poterle realizzare. Il suo corpo è fatto per apprendere: apprendere a nuotare, saltare, correre, strisciare, persino volare. Il suo corpo è un mezzo predisposto per apprendere ogni cosa secondo il modo e ragione della natura animale.
Proseguendo, l’uomo va osservato anche nel proprio padre, cioè nel cielo, l’astro
o firmamento da cui fu prodotto¹³. Come il pesce nell’acqua è dall’acqua divenuto e in essa cresciuto, così il firmamento è per l’uomo stagno, lago e mare, e da esso pure l’uomo acquista la sua ragione animale. La bestia è sottomessa al cielo, e l’uomo pure, in quanto bestia; da ciò vengono i segni rivelatori che l’uomo e le bestie mostrano in sé. Le guerre, le liti, le contese dell’uomo, tutte provengono dalla sua natura ferina e sono dominate dall’astro, giacché dall’astro egli è formato. Egli è dunque Marte, o Mercurio, o Sole, o Luna, o Giove, ecc., e viene a loro paragonato chi è in simpatia col primo, col secondo o con gli altri, partecipando del legame coi pianeti e con gli astri. Come già visto, nell’uomo risiede l’intero regno animale, cioè tutte le bestie sono in lui, ma come una memoria e senza il corpo, incondizionatamente serbate secondo le qualità e le specificità. Dal cielo l’uomo acquisisce la qualità del gallo: il gallo è Marte, e l’uomo anche Marte, secondo che si esplica l’influsso della specie; nel lupo c’è Saturno, e come questo è nel lupo, così il lupo è nell’uomo. L’uomo è governato dal cielo in quanto bestia. Come il gallo si desta al giusto tempo per cantare, ed è il cielo a destarlo, così è per l’uomo, che è un gallo. E come il cielo dispone il lupo a sbranare e rapinare, così è per l’uomo che è un lupo.
Il cielo è il cuore dell’animale, e rende l’uomo potente o una nullità. Il cielo rende l’uomo mite, benevolo, paziente, tanto da poter dire che egli è come la pecora, o l’amabile Sole; egli infatti così è secondo le modalità della pecora, se il Sole lo governa. Più vive secondo l’astro, più secondo l’astro sarà giudicato, e a lui sarà legato per tanto quanto lo tocca il modo d’essere ferino.
L’iracondo è tale perché è come un cane rabbioso, e non umano; il crudele è come l’orso; il ladro è come il rapace; l’adultero è come il cane; il superbo è come il gallo; l’infedele è come il cane, ma anche il buon compagno è come il cane. Tutto ciò avviene secondo il modo d’essere della bestia, e la superbia ha la sua stella, la crudeltà la sua, l’adulterio la sua, l’infedeltà la sua, e così per tutto il resto; e come tutti questi astri sono nell’animale, così sono nell’uomo. Similmente, l’uomo che rivela nel proprio essere la dote di un certo animale, è governato dal suo medesimo astro. Una identica stella governa il lupo nella foresta e il lupo nell’uomo; una l’assassino nella foresta, cioè l’orso, e l’orso nell’uomo – e bestiale è la ragione per cui le bestie si combattono. Dunque, per il cielo che è nel cuore degli uomini, alcuni di essi vivono come bestie e si lodano
a vicenda dandosi del leone, del lupo, della volpe; ma sono solo lodi bestiali, degne delle fiere selvatiche e che nella bestia s’estinguono – l’uomo però non deve esser bestia, ma uomo.
Abbiamo detto che bisogna conoscere l’uomo secondo l’esteriorità – ma egli non è solo esteriorità: vi è in lui qualcosa che non si esterna ed è sopra l’esteriorità bestiale: si tratta della sua parte angelica. La parte bestiale non gli serve altro che per nascere e sostenersi, ma in ciò che supera la parte bestiale egli diviene uomo. Parlo qui di tali cose perché voglio che il saggio si veda e riconosca, e non confonda se stesso con la bestia. Chi invece non è saggio pensa di valere perché sa ben costruire, ma è solo una bestia e niente più di una cicogna che costruisce il suo nido meglio di una colomba; chi sa ben cantare è come l’usignolo che canta meglio del corvo. Le bestie si superano a vicenda, come gli uomini; una è migliore e più mite, l’altra più rabbiosa e furente, secondo la loro qualità: non bisogna dunque lodare l’uomo per simili cose, ma la bestia che è in lui, poiché queste lodi non sono divine ma bestiali. Infatti, la bestia onora e rispetta chi le è superiore, e così anche l’uomo. In ogni forza e modo d’essere di queste cose l’uomo è una bestia, e si presenterà per esse al cospetto di Dio tra le bestie.
Chi è coinvolto in tale animalità, non deve credere di stare davanti a Dio come affine a lui e suo prediletto: infatti, chi trova in sé e compie le arti animali, in esse riponendo tutto il suo bestiale sapere, con esse morirà, poiché non hanno nulla di imperituro. Chi persevera nel dominare, nel vivere, mangiare, bere, primeggiare e insegnare, non per queste e simili cose deve pensare che comparirà innanzi a Dio dopo la morte, poiché invero tutte queste cose lo allontanano da Lui. L’astuzia della volpe, la rapacità del lupo, la mitezza della pecora: ogni cosa sulla terra è mortale, e chi vi si coinvolge, vive secondo la morte, in cose mortifere spreca il suo tempo e non sarà degno di comparire davanti a Dio nel suo Regno. Perché Dio deve compiacersi di più nell’uomo che nell’uccello, solo perché gli è padre? Voglio dire, se l’uomo in se stesso non vive che secondo la bestia e bestialmente lo loda? Egli infatti ha creato l’uomo perché sia qualcosa di più della bestia: perché sia uomo. Ma ciò che in lui è bestia, attraverso il cielo e i quattro elementi ritornerà alle stesse bestie, che sono mortali. Invece l’uomo ha un Padre eterno e deve vivere secondo questo, e non secondo la bestia; questo Padre lo ha fatto animale non perché in tal stato abiti,
ma perché ne tragga vita.
Si conclude così il trattato sull’uomo animale, su come egli nasca e acquisisca dalla bestia, come ne dipenda e sia uno con essa; e come un tale uomo non abbia nulla a che fare con le cose eterne, ma solo con le mortali, come la bestia morendo.
Note
¹ I termini “arte” e “artista” sono ancora intesi da Paracelso nel senso tradizionale, dove è arte tutto ciò che è “ben fatto” (“fatto ad arte”), invece che nel senso romantico-moderno di creazione puramente estetica.
² Se infatti la Bontà appartiene a tutta la Trinità, la Sapienza si esplica nel rapporto tra le prime due Persone.
³ Allusione alla parabola dei talenti (Matteo 25, 14 ss.).
⁴ Se infatti Dio in sé stesso è Innominabile e “superdivino” (cfr. Dionigi Aeropagita, Teologia mistica I, 1), considerato attraverso i suoi attributi (e dunque a un grado di realtà inferiore, ontologico e non più metafisico), si situerà su un polo positivo di un’antinomia: così sarà, come in questo caso, la Verità contrapposta all’errore, pur essendo in sé egli superiore alla Verità.
⁵ Nel denso, prezioso, quasi teosofico discorso che Paracelso sta conducendo, le due Cadute (quella di Lucifero e quella di Adamo) alludono a due eventi diversi: la separazione ontologica Bene-Male (data per tutte una volta in cielo) e la separazione esistenziale bene-male (rinnovata continuamente nel divenire).
È la teoria platonica della reminiscenza (cfr. Menone 81-5; Fedone 72-7).
⁷ In queste affermazioni bisogna intendere il Macrocosmo non come mondo
fisico-materiale, ma come integrità della Manifestazione.
⁸ Paracelso vede nella fede il fondamento della conoscenza, in accordo con la dottrina cristiana (“La fede è infatti un grado dell’intelligenza”. S. Agostino, Sermo CXXVI, 5, 1).
Le quattro direzioni, simboleggiate dalla Croce.
¹ Nella bestia infatti la manifestazione della ragione appartiene alla specie e non all’individuo; poiché invece l’uomo contiene seminalmente in sé tutto il regno animale, la ragione animale gli appartiene anche come individuo (poiché l’uso o meno di essa dipende dalla sua libertà individuale). Per questo argomento si veda l’Introduzione.
¹¹ Vedi nota prec.
¹² Questa via di conoscenza pratica in senso sottile è notoriamente propria alle culture sciamaniche e totemiche.
¹³ “Cielo” non è inteso qui in senso trascendente, ma immanente, come orizzonte del Destino (per la concezione tradizionale di Destino, distinta da quella di Provvidenza, si può consultare: Salustio, Gli Dei e il Mondo, Il leone verde 1998).
L’INVENZIONE DELLE ARTI
Molti furono dell’opinione che l’invenzione delle arti non provenga dall’uomo, ma si attui con l’aiuto e la volontà degli astri, come chi è nato sotto buoni segni viene da questi premiato. Essendo però l’uomo erede del Regno di Dio e designato per il cielo, come può essere figlio degli astri quando il cielo si disfa e non rimane più intero? Chi provvede all’anima ha insegnamento, sapienza e grazia da Dio e non dalle creature: ne è un esempio Salomone, che ottenne la sua sapienza da Dio. Salomone non partecipava dell’astro, e non era da questo chiamato, ma solo da Dio, essendo molto saggio. E presso chi, se non presso Dio dobbiamo cercare le cose? Oppure, a chi l’astro ha dato e mostrato qualcosa? Non dice la Scrittura che l’Autore fu ispirato da Dio? È stato detto che non apprendiamo dal diavolo, dall’astro o dalla creatura, ma da Dio: come possiamo dunque apprendere dalle creature la strada per il Regno di Dio? Esse infatti ne sono fuori, e dunque non possono comprenderla. Non dice la Scrittura che la nostra sapienza è stoltezza davanti a Dio¹? Non si intende qui quella che ci dona Dio stesso, ma quella che i dotti dicono riceviamo dalla costellazione e in conformità alla quale nasciamo: in tal senso, questa sapienza è follia davanti a Dio. Che sapienza c’è nella vacca che va dalla stalla alla mangiatoia? Che sapienza nel cane che ritrova la strada di casa? Non è stoltezza per gli uomini, questa? Essi infatti non la reputano certo sapienza. E l’uomo, non ha egli ormai tanta poca sapienza da nemmeno più sapere di essere un animale? Non è forse questa una follia davanti a Dio? E per converso, chi gli dà tutte le arti e i mestieri? Non se li dà certo da solo, come un asino che voglia diventare suonatore di liuto. Come quest’asino è l’uomo che da sé voglia imparare, invece che dall’astro. Ma chi è nell’astro che sa suonare il liuto? Nessuno infatti può insegnarti qualcosa, se non lo sa fare; tutto ciò che sappiamo proviene da qualcun altro che lo sa, e chi non sa nulla non insegna nulla. Il canto celeste e la sinfonia (come già fu detto) non consiste né di arpe, né di liuti, ma del rumore delle attività che riecheggiano sulla terra: tutto infatti proviene da Dio, e tutto egli istilla in noi secondo la sua volontà. Quanto appena annunciato è l’argomento del libro, con tutto ciò che su esso occorre conoscere.
Primo Trattato
Dio crea l’uomo insieme al cielo e alla terra, e gli dà quest’ultima da utilizzare; in pari tempo, gli insegna anche come usarla. Nessuno come lui, che la creò, può infatti insegnargli in proposito; e quanto nel primo inizio avvenne solo con Dio, si ripete poi con ogni maestro che insegna ciò che sa fare. L’uomo, dunque, essendo opera di Dio, da lui e da lui solo può avere ogni arte e sapienza. Anche gli spiriti sanno tutto, cioè conoscono ogni arte che l’uomo può e deve realizzare, ma non la possono utilizzare; all’uomo dunque non è celata cosa alcuna. Da ciò s’origina un grande contrasto tra le arti che gli spiriti ci insegnano e l’insegnamento di Dio, innato in noi; si può pertanto verificare, in seguito a ciò, che l’uomo diventi o meno abile, artista o studioso. Ma se nell’uomo non c’è già una disposizione conforme e buona, come può essergli data? Ne consegue che gli spiriti non ci concedono e fanno nulla di buono, e non c’è uomo che possa dire di aver ricevuto dagli spiriti – o tantomeno dal diavolo – qualcosa che gli sia minimamente valso a diventare abile o illuminato. Ma se essi tanto possono e sanno, non assaliranno l’uomo? Certo, se noi non ci impegniamo verso Dio, anche lui sarà poco impegnato nel soccorso a noi, sue creature. Questo impegno non è tra le nostre cose innate [ma va sviluppato]: ognuno infatti ha un dono da Dio, un tesoro che porta con sé alla nascita e che non deve seppellire². Questo tesoro che Dio dà a ognuno di noi non è stato stabilito e promesso come un diritto ereditario; abbiamo invece come diritto ereditario di manifestare quanto l’uomo possa fare con un tal tesoro – ma errata è la pretesa che di tali cose abbiamo la proprietà. Sarebbe invero troppo meschino e disimpegnante pensare che, grazie alla previdenza divina, dobbiamo ottenere prima una cosa, poi un’altra e un’altra ancora, e infine tutte quante. Coloro che ritengono dunque una tale cosa come innata sbagliano, e pensano di trarsi d’impaccio grazie agli astri, ma non conoscono ciò di cui parlano. Sappiano che le cose sono tutte tesori distribuiti da Dio nei vari esseri umani, e l’uomo opera nel mondo per metterle in luce. Dio però non le predispone tutte in una volta, ma le distribuisce secondo il tempo, cosicché gli uomini ne siano edotti poco per volta e secondo le convenienze.
Dio colloca un tesoro in un uomo perché venga aperto al mondo, così come un
giardiniere semina un nuovo seme nel giardino, perché cresca una nuova erba di cui c’è bisogno; o come quando si coglie un seme perché ne nasca un erba buona per molte malattie e necessità. Nel mondo abbiamo un giardino (posto dovunque si voglia) che risponde alle nostre necessità (poiché nulla viene dato se non necessario): in esso Dio semina il suo seme e dà alla pianta la forza per crescere; crescendo essa si rinforza nel corpo e in quanto Dio le ha dato, e al tempo del raccolto si stacca da sola, senza aiuto e assistenza se non quelli posti da Dio a suo tempo nel seme. Con la nostra forma sono giunti a noi tutti i mestieri e il modo di rinvenirli: questi ne trova uno, quegli un altro, e quando una difficoltà si leva, con essa compare anche il lume per risolverla. I veri santi patroni che gli artigiani dovrebbero venerare sono quanti rinvenirono i mestieri dati loro da Dio – questi i giusti e degni di stima che pervennero alla fonte, segnati da Dio con i suoi semi: egli infatti seminò in loro come in un giardino eletto, ove tutti gli uomini potessero cogliere frutti e donde provengono e vedono la luce le professioni.
Queste persone devono ben essere gradite a Dio, se donò ad essi tali cose, e venne infine al mondo tra di loro. Di certo gli piacque Giuseppe, in cui ebbe fiducia, affidandogli Maria; similmente, facendo nascere Giovanni Battista da Elisabetta e Zaccaria, ebbe più fiducia e predilezione in loro che in altri tipi d’uomini. Dovrebbe l’uomo ragionevolmente avere la massima stima per coloro che Dio presceglie ed elegge, e conoscere meglio loro di quelli che non hanno avuto una nascita simile. Dio ripartisce i mestieri nel mondo tra gli uomini, dando a ognuno il proprio intelletto, fin quando gli uomini non saranno tutti riuniti e le cose ricondotte all’accordo. Ciò che si adatta al ferro, al ferro si accompagna (il fabbro, il meccanico, ecc.); ciò che si adatta allo stagno, allo stagno si accompagna (il fonditore di stoviglie o di campane, ecc.); ciò che si adatta all’argento, all’argento si accompagna (il coniatore, l’orafo, ecc.); e così è per tutte le altre affinità: col cuoio, col legno, con le pietre, ecc. Le cose si correlano per fattura e disposizione, come l’albero rispetto al campo, al giardino o al prato, cosicché ognuna di esse è data secondo l’ordine dell’intelletto. Così avviene per i mestieri, in primo luogo tra i fonditori e i minatori, dove i secondi fondono i metalli rinvenuti dai primi: secondo lo stesso criterio Dio ha dato agli artigiani la capacità di rinvenire le arti, come il manico corrisponde alla serratura, il coperchio al barattolo, e tutti si confanno al ferro; è lodevole che dal ferro, grazie all’uomo, tutte queste cose divengano possibili. Al pittore sono indicati i colori e gli è guidata la mano affinché diventino sottili al punto da
essere stesi sulla parete; il falegname è reso abile al punto che dal legno grossolano trae un lavoro grazioso.
Ma i mestieri dipendono gli uni dagli altri, e uno produce quanto all’altro serve; quindi il falegname non può far nulla senza il fabbro, e il fabbro nulla senza il falegname, sicché gli uni partecipano degli altri. Tutti i mestieri si incontrano, al punto che non si può concepire l’uno senza l’altro, come l’uomo possiede tutte le sue membra, ed è un uomo intero solo se le sue membra si correlano vicendevolmente. L’uomo che perde la punta del piede deve zoppicare: nello stesso modo, se si allontana un artigiano dagli altri, essi zoppicheranno; e più un uomo si allontana dall’altro, più diventa mechanicus. Col are del tempo Dio ha affinato e migliorato le cose, portandole all’eccellenza sempre più. Si può pensare, come esempio, a un artigiano che inizialmente fabbrica un forno per cuocere, e realizza stoviglie di argilla; poi impara a vetrificare, verde, giallo, ecc. e realizza cose di gradevole aspetto; poi, ancora, impara a fondere, dipingere, e le sue stoviglie ormai sono adatte a una tavola principesca. Poi, attraverso una fonditura ad alta temperatura, riesce a fare il vetro dalla cenere e dalla sabbia, e migliora la sua tecnica al punto da realizzare stoviglie di incredibile trasparenza. Poi impara a forgiare stoviglie con l’oro e l’argento; battendo realizza un foglio di metallo sottile come un soffio, poi impara a dorare, poi a intarsiare l’oro e l’argento, o l’argento e il rame e altri metalli. Poi impara a incastrare, incollare, a fare soluzioni, a saldare col borace, producendo le cose più fini: invero, le arti sono così tante, che né io né alcun altro potremmo dare a tutte un nome. Dovremmo riconoscere la finezza di Dio nelle sue cose e rendergli il giusto onore e le lodi convenienti, al fine di non cadere nell’idolatria e nel dominio del diavolo.
Possiamo anche considerare come ha dato ai tessitori il loro mestiere: prima furono trovati il lino e la canapa, poi la filatura, dalla filatura si ò alla tessitura, e da lì alla sartoria, e agli abiti che gli uomini si adattano a loro piacimento – infine, gli abiti consunti divennero stracci e da questi si ricavò la carta. Similmente, agli scalpellini ha dato da disporre e spianare le pietre, indi l’arte della costruzione, poi la geometria per disporre le pietre in circolo, a spirale, in forma labirintica, poi col mestiere vennero la torre, il bastione, l’affrescatura, la cottura della calce e la produzione del cemento; una dopo l’altra
furono date tutte le cose necessarie alla perfezione di quel mestiere. Dallo stagno all’inizio furono battute lamine, poi venne la fusione, poi la tornitura, e fu modellato nelle varie forme del vasellame, poi fu mescolato con altri metalli: se ne fecero, indi, campane, cimbali e si trasse voce da tutti i metalli, e nacquero i barattoli coi loro coperchi. Lo stesso capita con le pelli di cammello, di lupo, d’orso o di pecora. Prima s’impara a scuoiare, separando le pelli dalla carne, e le si indossa tutte intere; poi si escogita la conciatura, poi il taglio, poi la tosatura; così dal vello si fa il tessuto. Lavorando in altro modo, dalla lana si fa il feltro; o in altro modo ancora, la lana si fila e si tesse, poi si tinge il tessuto grazie alla scoperta dei coloranti. E quando la stoffa si straccia, con ago e filo si fa una rete e un rammendo (da cui l’arte del lavoro a maglia) e così si possono nuovamente indossare i vestiti stracciati. Dio ha dato il principio di tutto ciò, cioè i semi da coltivare e far crescere come si fa per gli alberi: da essi sono nati e cresciuti tutti i mestieri, uno dopo l’altro. È appropriato il classico esempio del granello di senape, che è un seme piccolissimo, dal quale però cresce un albero tanto grande che gli uccelli vi nidificano e lo abitano. Similmente, Dio pone un piccolo seme nell’uomo da cui fa crescere un grande albero, cioè tutti i mestieri con cui gli uomini si sostentano; e come nell’albero di senape gli uccelli nidificano e si nutrono, così in questi alberi i lavoratori si sostentano.
Secondo Trattato
Per esercitare i mestieri è anche necessario condurre una vita retta, che con saggezza non scorra fuori da quegli alberi delle arti, dove è stata piantata e coltivata. Bisogna anche osservare che questi alberi non siano estirpati, e non si erediti più nulla; invece, quanto un artigiano sa, deve insegnarlo al figlio, e questi ancora al figlio, cosicché l’ultimo sappia quanto il primo, e tutto faccia parte di una via e un processo. Pensando al vasaio, l’ultimo deve saper modellare, incollare, usare il tornio e cuocere bene come il primo: se non si mantiene quest’ordine nell’apprendimento, non ci sarà stabilità. Un medico che sappia curare tutte le malattie e non insegni la propria abilità al figlio, avrà un figlio solo di nome, ma non di fatto, perché a questi non sarà possibile sostituire il padre. Non tutto però si risolve con l’eredità delle arti; infatti, se il padre e il figlio sanno le stesse cose, non hanno però gli stessi strumenti, né incontrano le medesime malattie: e se il figlio incontra una malattia, cui riesce a dare grazie alle competenze avute dal padre un nome, non ne saprà comunque la causa e l’essenza. Una simile inabilità e contrarietà non si verifica nell’esercizio del mestiere: questo perché quanti possiedono l’arte fanno in modo di non sbagliare. Per fare un esempio, i fabbri imparano a fondere il piombo nel fuoco come fanno per lo stagno, e per ultimo forgiano il ferro quand’è incandescente e poi lo limano. Perciò questo secondo trattato è dedicato a ciò che non riguarda la scienza ereditata. Come avviene con le piante, una porta i suoi frutti fino a che giunge l’inverno, ed essa cade; poi Dio ne pianta una nuova, che fruttifica nell’estate e nell’autunno, cadendo nuovamente; e così proseguendo, si attenderà una nuova piantagione di Dio. Se infatti la vecchia pianta fruttificasse nell’inverno, non ci sarebbe alcuna pianta più. Come nessuno si stupisce di queste cose, non deve meravigliarsi che la seconda pianta non è come la prima, e la nuova non segue la vecchia. Dio indirizza il suo popolo e le sue creature, e non genera un solo medico, un solo giudice, un solo filosofo, ecc., ma molti, e quando uno perisce, un altro ne sopraggiunge. In tali cose non c’è un vangelo che non possa essere perfezionato: solo una Scrittura c’è che non va mai abbandonata, cioè il Vecchio e il Nuovo Testamento.
Il figlio del medico può fare molto meglio o peggio di lui, a seconda delle
contrarietà che il tempo genera e sviluppa. Anche la giusta esperienza non genera sempre gli identici figli; per tal motivo, col are del tempo gli uomini mutano vita, e questi stessi mutamenti si riflettono sulla giustizia e sull’ordine. Il primo medico può essere poco utile all’ultimo, poiché sono simili; così pure è per il primo giurista rispetto all’ultimo. Un esempio potrà chiarire: al tempo di Adamo egli poteva congiungere le figlie ai fratelli, ma ora ciò è proibito col rogo. Poi vi fu l’uso di prendere in matrimonio più donne, ma anche ciò è ora proibito. E ciò che ora è lecito potrà essere proibito nel futuro: nessuno può dirlo, poiché forse ci si attende una cosa e ne avverrà un’altra, o invece tutto rimarrà uguale; così potrà forse essere possibile in tutta liceità sposarsi con una sola donna, o con due, o più, parenti o non parenti. Lo stesso si può verificare per i tributi, che sono richiesti a seconda delle necessità del tempo: è logico infatti che quanto pare giusto esigere in una circostanza, non lo sia più in un’altra, così come Dio a seconda del tempo ha ordinato o proibito. La meta non si raggiunge infatti in un unico modo. Chi agisce diversamente in una situazione mutata, non infrange alcuna legge³; si dà a Cesare il tributo richiesto dalle circostanze, più o meno a seconda di quello che il tempo richiede: questo è il comando di Dio. L’epoca del primo governante e quella dell’attuale non hanno le stesse esigenze, e quindi a loro nemmeno va dato lo stesso tributo, ma deve essere considerato a seconda del tempo. Ne consegue, che chi è versato nella giustizia non deve dare sempre nella stessa maniera ai propri figli, ma più o meno, a seconda delle capacità che dimostrano col tempo, della retta condotta di vita e di quanto realizzano, affinché l’ordine di Dio non venga disatteso. I comandi di Dio invero sono così sottili da sopportare molto di più di quanto non voglia fare il giurista, per il quale lo ius è come un lupo. La vostra sapienza deve invece essere quella di Dio, e non prigioniera delle vostre immaginazioni e seduzioni, poiché nulla come queste cose contrasta il divino volere.
L’uomo non può misurare le cose in base a se stesso, giacché egli deve essere tutto e solo di Dio. Il primo fabbro fu istruito da Dio, e l’ultimo fabbro non sarà perdonato se non riconoscerà di aver ricevuto dal primo la sua stessa arte, e di manovrare il martello grazie al suo medesimo potere. Dio insegna tutto: dunque, non è forse istruito da lui solo chi sa intenderne e interpretarne i precetti? Dopo l’inverno viene l’estate, cioè un nuovo albero sgorga da Dio, e il tempo stesso amministra ciò che ha richiesto.
Pensando al caso della medicina, quando compaiono nuove malattie, c’è bisogno di un nuovo medico; di conseguenza serve anche un nuovo fondamento dell’arte, poiché se le nuove infermità fossero curate come le vecchie, certo non si giungerebbe a sanarle e guarirle. Ciò è palese quando, nel governo delle nazioni, compaiono nuovi popoli che apportano nuove malattie: in tali casi, voi dottori dovete cercare nuove conoscenze mediche, perché le vecchie procedure non valgono più.
Immaginiamo, ad esempio, che ci siano cento uomini e mille donne; se le donne volessero congiungersi agli uomini, solo cento ci riuscirebbero, mentre novecento ne resterebbero fuori. Questa situazione porterebbe facilmente alla rottura del matrimonio, poiché la natura coltiva ciò che Dio le ha dato. Non sarebbe ragionevole dare a ogni uomo dieci donne in moglie? Ma, allora, non si considererebbe poi una come vera e le altre come bagasce? Per questo Dio, stabilendo il matrimonio, non ha fissato un numero preciso: ordina solo il matrimonio e che non sia rotto. Dio ha creato più donne che uomini; inoltre muoiono prima gli uomini, e le donne sopravanzano: non sarebbe dunque possibile avere tre uomini per una donna, mentre è possibile avere tre donne per un uomo, anche se bisogna evitare un simile meretricio e regolare questa sovrabbondanza grazie al matrimonio, per mantenere il precetto divino. Comunque vi abbia istruito Dio, dovete fare in modo che il matrimonio non diventi un meretricio; se è necessario farlo con due donne invece che con una, si faccia come il tempo esige, e non con parzialità, ma nell’uguaglianza, cosicché ciò che tu puoi fare lo possa anch’io. Chi ci impone di acquisire i precetti della morigeratezza, della virtù e della disciplina? Soltanto Dio, che solo è stabile e durevole. I precetti dunque devono essere sostituiti da altri con l’evolversi del tempo, e la gente deve essere pronta ad accettare questi o quei precetti, che saranno buoni secondo la nuova modalità.
Nessuna cosa è prodotta per l’eternità: che può mai fare dunque l’uomo in eterno sulla terra? La sua condizione è tale che egli non sa con certezza che farà l’indomani o se vedrà la prossima notte. Come tutte le cose seguono i percorsi del tempo, fai e agisci tu pure; così agendo, sarai istruito da Dio su come approntare quanto il tempo ti indica. Considerare le consuetudini come qualcosa di eterno è follia: tutto scorre secondo il tempo, ogni cosa gli è sottomessa e
nessuna gli sfugge. L’imperatore è il più simile a Dio nel dare ordini, ma quali ordini può dare in eterno? Nessuno. Solo Dio può mantenere in eterno i suoi precetti, e fare sì che essi diventino esecutivi: se questo è il suo volere, i suoi comandamenti diventano quelli dell’imperatore, e quando cessano di esser tali, anche i comandamenti dell’imperatore vengono spazzati via. Persino l’imperatore che non possa fornire una discendenza deve sollevare il suo deretano: che mai sarà dunque in potere dell’uomo? Il tempo domina gli uomini, ma non Dio; i comandamenti di Dio sono eterni, ma non quelli umani. Chi voglia azzardarsi a far durare in eterno i propri precetti è dissennato e privo di umana ragione – dimentica che Dio soltanto governa il tempo e ne fa ciò che vuole, per cui l’uomo deve seguire la sua volontà. L’uomo, invece, quanto compie può disfare, migliorando o peggiorando, e ciò che il vecchio ha fatto, il giovane può mantenere o mutare. Qualsiasi condottiero che sia istruito da Dio saprà che non deve eseguire il proprio volere, ma quello divino: Dio infatti può dare un reggimento tanto al primo quanto all’ultimo di loro. E lo stesso vale per gli imperatori. Anche gli insegnamenti della natura, come quelli divini, possono essere mantenuti uguali o mutati: la sapienza divina, infatti, non è data a uno soltanto, ma a molti, e non c’è un solo maestro.
Si dice che Cicerone fosse un grande oratore, e molti oggigiorno invidiano la sua lingua (sebbene sia irragionevole per un Cristiano invidiare una lingua pagana): ma che è rimasto ora della sua parlantina? Come può parlare bene chi non conosce i precetti divini? Che succo c’è nel suo sudore? Che parole buone dirà chi non conobbe Cristo, che disse le parole migliori? Come si può invidiare un’oratoria in cui manca la base stessa della buona Parola? Ma al suo tempo e secondo la sua fede era convincente, e dunque si osservavano i suoi precetti, che erano quelli di Quintiliano; ma poi non si seguirono più, poiché Cristo li aveva distrutti, e con lui Paolo, Pietro, Giovanni, e tutti gli altri. Le cose non durano eterne, sono trasformate, rovesciate, e noi dobbiamo addattarci al loro mutamento, pensando che col trascorrere del tempo noi possiamo diventare più acuti, man mano che Dio ci istruisce; e più ci appressiamo al Giudizio Universale, più potremmo risorgere edotti, acuti, sapienti e intelligenti. Gli ultimi infatti saranno i migliori, e i primi saranno gli ultimi per erudizione, sapienza, intelligenza, ecc. Così si intende infatti il famoso detto per cui gli ultimi saranno i primi: cioè, si lasci pure che i più arguti e intelligenti raggiungano i primi posti della disposizione, e che i semplici vengano dopo; e questo fino al momento in cui i primi diverranno gli ultimi e gli ultimi primi.
Questo spiega perché in questa disposizione non sono presenti Salomone, Davide e altri: stiamo infatti parlando dell’ordine umano, mentre quel tipo di saggezza segue un ordine diverso. Perciò non si devono dare precetti riguardo alle cose, e se nel nostro tempo non ne abbiamo di migliori di quelli antichi, ebbene ci dovremo comportare come i Pagani, poiché evidentemente Dio vuole che siamo pagani. Ma se aderiamo alla concezione per cui Cristo ha detto di essere la luce del mondo, che saranno per noi Aristotele, Platone e tutti gli altri? Nulla. Tutte le filosofie, medicine, retoriche, astronomie, logiche, musiche, ecc. devono scorrere dal fondamento della fede; in questo stesso fondamento noi nasciamo una seconda volta, e grazie a questa rinascita diventiamo edotti correttamente nella medicina, nella filosofia e in tutte le arti, stabilendoci nel sapere. Fintanto che la luce della natura scorre, non rende perfetti ma abili; nel momento però in cui essa sarà compiuta e perfetta, allora le cose saranno sempre più illuminate, ed in quel tempo essa radicherà l’uomo in Dio.
Terzo Trattato
Abbiamo detto dell’ordine secondo il quale Dio cala le cose e le fa giungere nel mondo. Tutte le filosofie, medicine, retoriche, astronomie, logiche, musiche, ecc. devono scorrere dal fondamento della fede; Dio semina e pone quest’ordine, ma il fuoco della costellazione è più corrosivo che utile, e opera più ostacolando che assecondando; se però l’uomo volesse sfuggire questa trappola, non potrebbero formarsi le cose – ne consegue che Dio non mitiga queste cose, ma le sorveglia.
Secondo l’ordine, ci sono tre vie per cui la sapienza, l’arte, l’erudizione, l’intelligenza, la prudenza e simili sgorgano e vengono nel mondo. La prima via è quella della necessità: quando il mondo è sconsolato e privo del conforto delle cose, Dio fa che esse non gli manchino, e predispone affinché secondo l’ordine nasca e operi un artista o un sapiente: egli, essendo vicino a Dio, può vedere e indagare il firmamento. Così, quando la moglie di Pilato gli consigliò di non avere a che fare con Cristo, ciò avvenne non secondo l’ordine, ma eseguito contro l’ordine per il diavolo⁴. La sapienza di Salomone non giunse secondo la semenza paterna, ma sopra di essa. Egli diede molti saggi giudizi, che però non giungevano dall’influsso, sgorgando direttamente dall’ordine e secondo la necessità del tempo, dati alla gente che ne abbisognava. D’altro canto, queste arti, sapienze, previdenze sono date anche in previsione delle difficoltà future. Come dice la Scrittura: Beata la città che proclama quanto le serve al tempo dei frutti. Così leggo quest’esempio: il mondo è la città e la casa di Dio, e perché non ci si debba pentire nel futuro, è assolutamente necessario che chi viene prima abbia previdenza per chi viene dopo, così che questi possa essere felice nonostante le contrarietà. Poiché il mondo cresce rigoglioso nell’errore, Dio si fa sempre più lontano, e lascia che nulla si compia senza guerre e bastioni, come quando lasciò che giungessero i Turchi. Ma il Turco è solo un vaticinio, un avviso a mettersi sotto la protezione della Divina Provvidenza, come se si annunciasse che una città deve essere pronta a diventare fossato e bastione, ridisegnando le proprie difese contro il nemico. Anche la polvere da sparo non è solo un’arte, ma anche un vaticinio, affinché l’uomo si prepari e pensi: già giunge l’ora mia, per cui devo esercitarmi nelle cose necessarie. Ogni cosa infatti rimanda agli eventi futuri predisposti da Dio.
La seconda delle vie anzidette si ha quando, verificandosi la necessità di una cosa, Dio stesso provvede a che essa i dalle cose future e possibili alla piena esistenza. La terza via si verifica invece quando un uomo implora e bussa presso Dio con tale veemenza da farsi concedere perciò arte, sapienza, previdenza, ecc. Se in seguito a questo implorare e chiedere con forza Dio ci concede le cose richieste, non è forse come riconoscere che ci spettano? Ora dunque conosciamo l’origine delle cose, fuori dall’ordine naturale e secondo quello primitivamente disposto dalla Previdenza divina. Ma oltre a queste tre vie ce n’è una che non scende dall’alto come le prime tre secondo l’ordine naturale, ma sorge dal grande impegno dell’uomo che però non è predisposto dalla costellazione. Quando ad esempio si dice di un nobile che è un buon contadino mancato, o di un dottore che sembra un matto, si sottintende che tali cose non discendono dall’alto, ma traggono origine dalla caducità. La natura infatti non aveva seminato in una tale persona un dottore o un nobile, e dunque non v’era necessità che egli divenisse tale, non ha facoltà di vaticinio, non serve a nulla se non a riempire le fosse – vale a dire che, quando muore, tutto quanto è si disperde: egli altro non è, invero, che una mescolanza dei quattro elementi e la memoria di lui non uscirà dai confini di questo mondo. Questi nobili, eruditi, ecc. non hanno dunque a che fare con le implorazioni e le preghiere di cui dicemmo sopra, poiché le loro voci avrebbero la stessa capacità di raggiungere il cielo posseduta dal miagolio di un gatto. Bisogna dunque ben conoscere e distinguere questi scienziati, eruditi, intellettuali ed esperti dai giusti, dai salvati e dagli eletti che stanno presso Dio. I primi infatti procurano solo errore, miseria e pericolo, e parlo sovente di loro con lo scopo di mettervi bene in guardia.
Molti per questa via acquistano grande stima presso la gente, e ciò perché l’uomo è dotato di ragione animale in modo superiore alle bestie. Quale esempio, prendete una bestia – quella che vi pare – e osservate la sua astuzia, com’è il caso del gatto col topo, o del cane con la selvaggina, e di ogni avvedutezza, sapienza, astuzia, intrigo e arte di cui li dota la natura perché abbiano cura di sé e si sostengano. Valutando tutto ciò, si troveranno in loro cose tanto meravigliose, che l’uomo non può credere esistano in natura – e pure questa è proprio la natura in se stessa. L’uomo è superiore a tutte le bestie, e vediamo che pur non essendo stato inseminato di queste cose, tuttavia ha in sé l’astuzia del lupo, della volpe, del gatto; perciò sgraffigna di nascosto, secondo
la natura del gatto, o morde come il cane e il lupo, poiché tutte queste nature ferine stanno in lui. Ora, quando egli pensa con zelo a un’astuzia non torna in ciò ad essere una bestia zelante? Così è quando si gloria di una nuova moda, come un pappagallo, o incede altezzoso come un cavallo, o si barda e ingioiella come un pavone, e così via. Tutto ciò non proviene dall’alto, non fa parte dell’ordine che Dio seminò in noi, ma si sviluppa dalla bestia che l’uomo è. Egli è tra le bestie l’animale supremo, e pure vuole alle bestie sopravvivere nella morte. Può pensare di essere più altero del pavone? Più fiero del cavallo? Può indirizzarsi alla rapina come il lupo, poiché è più del lupo, e dunque anche più astuto. Lo stesso vale per il pappagallo, la pica, il picchio, il merlo, simili a tutti coloro che provano piacere a parlare, e si perdono nelle ciance più del pappagallo, da cui prendono nome. Grazie però alla loro sapienza gli uccelli potrebbero però schernire l’uomo, mostrandogli la loro maestria nel canto, sebbene, a differenza di lui, non cantino per vile guadagno. E tutte le attività con cui gli uomini animaleschi si adornano, come la scrittura, l’eloquenza, le uniformi, per mostrare il loro successo e il loro lusso, ben corrispondono all’abbaiare del cane o al cantare del gallo. Tutto ciò è un’unica istruzione, abilità, ragione, sapienza e arte – tutto quanto è possibile per l’animale viene esercitato dall’uomo comune che, se perde ciò, si sente come un re senza un occhio.
Tutti questi modi e proprietà che si imparano da giovani in qualche scuola, per cui si diventa grazie allo zelo istruiti, non provengono dall’alto, ma sono nella natura bestiale, come il falco impara a cacciare o il cane a fare la guardia. Che sono infatti codesti eruditi? Cos’è di più che un esperto bracco un maestro col suo baccalaureato? E se diventa come un pappagallo, non lo distingueranno da questo solo il becco adunco e le zampe artigliate? E se è dottore, non canta il suo canto come quello della cicogna? Tutti costoro diventano eruditi ed eloquenti grazie al loro grande zelo, ma permangono nella natura bestiale, e si superano tra di loro così come possono fare i cani da cascina con i cani da caccia, o i cani da punta con i cani da riporto. Uno sta in cascina, un altro nel villaggio, un terzo alla corte del principe, come la volpe di Erode sta coi suoi scagnozzi. Uno è selvatico e l’altro domestico, uno cresce bene e l’altro male. Considerando brevemente il giudizio e la sapienza animali negli uomini, vediamo che essi sanno dalla natura volpina costruire un rifugio con le pietre, o costruirsi il nido con fango e paglia, come fanno gli uccelli: molto nasce dalla natura animale. La volpe deve avere una tana dove proteggersi, l’uomo invece dovrebbe rimanere nudo [quale era nello stato paradisiaco] senza cercar rifugio: se invece così
agisce, questo non gli proviene dall’alto, ma dall’essere una volpe che si fabbrica una tana, un ricetto e prende le sue precauzioni. Sentiamo dire: questi è un buon muratore, quegli è migliore, quell’altro è ancora meglio; cos’è questo se non paragonare il primo a un topo che si fa il nido, il secondo a una cicogna, il terzo a un ragno, e un quarto a una chiocciola? Tutto ciò appartiene esclusivamente all’ingegno animale, e alla stessa natura e proprietà. Per quanto una cosa rientra nella modalità corporea, allora significa che non giunge dall’alto ma è della vita bestiale. Se ad esempio consideriamo il caso di uno che costruisca una grossa casa, è evidente che Dio non ha seminato ciò nell’uomo. Se ora edifichi il tempio di Salomone, rimani pur sempre una bestia e operi ciò nella tua natura bestiale: perciò esso non vale niente e dovrebbe essere distrutto. Tutto ciò mostra solo la natura bestiale nella sua grandezza ed eccellenza: ma che è, infine? Solo un mucchio di pietre destinato a cadere. E questo vale per tutte le nostre costruzioni.
Tutto ciò che siamo come natura animale non è destinato a sopravvivere, ma tutto ciò che riusciamo a ottenere dall’ordine divino grazie alle nostre implorazioni, permane ed è, a differenza dell’altro, eterno.
Vi sono scrittori del Regno di Dio che parlano secondo l’ordine, altri scrittori invece parlano con malizia secondo la natura: i primi sono (come si dice in buon tedesco) Dottori della Sacra Scrittura, perseguono la ricerca divina, scrivono del Regno dei cieli e sono come capifamiglia che conciliano il nuovo col vecchio. Gli altri sono anche detti Dottori delle Sacre Scritture, ma non lo sono secondo il Regno di Dio. Questi due tipi sembrano una cosa sola, ma sono due, e stanno separati nei loro cuori come possono esserlo la volpe dalla colomba. Ogni scrittore dovrebbe essere ispirato solo da Dio e, come fu annunziato, seguire l’ordine seminato da Dio, poiché Cristo disse: siete stati piantati dal mio Padre celeste. L’ordine naturale procede dal suo seme, e anche la necessità della divina Provvidenza; l’uomo perciò può ottenere ciò che è previsto nel futuro solo grazie all’implorazione e alla richiesta pressante. Quando invece diventa ciò che vuole fuori di queste cose (ad es. infoiato del mondo, scaltro, abile alla corte dei principi, ecc.), allora ciò che egli pianta sarà sradicato e destinato a non verdeggiare. Abbiamo un buon esempio di ciò nel fatto che Cristo non volle con sé gente dotata di ingegno animale come Ovidio Nasone, Cicerone, ecc., ma pescatori quasi sprovvisti di sapienza bestiale⁵. E Cristo non fermò Paolo, che
era un maestro dei Pagani? Per farlo apostolo, gettò al suolo lui e la sua sapienza; sradicata l’animalità in lui, egli perse anche il dottorato dei Pagani. Dovendo ora essere istruito dall’alto, fu trasportato fino al terzo cielo, dove ricevette la sua conoscenza, come egli stesso ci fa fede .
Nel tempo in cui Cristo fu sulla terra, la sua sapienza non aveva valore se non per lo Spirito Santo che scese su di lui, come vide Giovanni Battista quando lo battezzò⁷: Cristo parla da questa sapienza, e non come uomo. Per questo motivo gli astronomi considerano inutilmente il cielo della sua nascita, e invano pensano di lodarlo ponendolo sotto una buona stella. Perché infatti molti bambini nascono contemporaneamente e nello stesso luogo, ma alcuni crescono stupidi e altri astuti? è dunque insensato promuovere simili considerazioni, se persino Cristo stesso ebbe la sua sapienza dall’alto e non dalle sinagoghe.
Quarto Trattato
Ma c’è anche una sapienza, accortezza e arte che procede dagli spiriti e governa il corpo animale. Come detto, l’uomo è istruito dall’alto quando è lo Spirito Santo a guidarlo e ispirarlo; e c’è infine anche un’accortezza che giunge dal diavolo e dalle sue schiere. Se l’uomo diventa previdente come Erode, allora è governato dal cattivo spirito, cui sono proprie quelle azioni e furbizie che egli così manifesta. Diventando grazie a ciò astuto e ricco, si dice allora che egli è un uomo fino, e che la sua furbizia è una grazia datagli da Dio, ma in realtà è un dono del diavolo. Se uno è un lupo, allora il diavolo in questo lupo agisce le sue astuzie, lo istruisce, lo rende compiaciuto e pronto, lo predispone a lacerare e divorare nel modo adatto al lupo; e lo si dirà capace e abile, poiché sa sbranare il prossimo. Lo stesso vale per tutte le cose che sorgono da se stesse su questa terra e di cui gli uomini si occupano per mantenersi; essi però non possono sussistere senza uno spirito, e l’opera dello Spirito Santo non ha a che fare con le astuzie del lupo, del cane, della volpe, ma solo con l’uomo beato e nato dall’alto (anche se ciò non riguarda la rinascita⁸, che non proviene dall’alto). Poiché gli uomini devono comunque avere uno spirito, se non verrà dall’alto sorgerà dal basso, e sarà perciò uno spirito malvagio che li guida, indica loro come fare, li spinge a pensare, sarà il loro cuore e li dominerà. È detto chiaramente nelle Scritture che un uomo non nato dall’alto è solo corpo e bestia, un cane, un lupo, una colomba, un fringuello, e simili; se invece è nato dall’alto, non sarà nulla di tutto ciò. Per questo Cristo ci indica come riconoscere i suoi discepoli, dicendo che essi sono luce del mondo e sale della terra – non certo luce di candele materiali e sale corporeo. Disse anche: “Voi siete lupi rapaci¹ ”, non secondo il nome, ma secondo il corpo, la natura, la complessione, le qualità, la condizione, ecc.: manca loro solo la forma e la figura, poiché sono sorti dal basso e non dall’alto. Se siamo come bestie e corporali, nulla ci giunge dall’alto; tutto quanto facciamo allora sorge dal basso, agendo secondo il costume ferino.
Il diavolo possiede le persone per lasciarle nello stadio animale, ma lo può solo con quanti sono sorti dal basso, e non certo con chi nasce dall’alto. Perciò vediamo che gli ossessi, come quelli di cui parla il Vangelo o di cui abbiamo anche altrove esperienza, hanno tutti apparenza bestiale, e sono posseduti da una
violenza pericolosa anche per loro. Ma Cristo li salva, facendoli nascere dall’alto, e li costringe a muoversi, cedendo di fronte allo Spirito Santo, e a correr fuori dai sepolcreti; poi estirpa da loro gli spiriti [demoniaci], che introduce nei porci¹¹. Questi spiriti dunque stavano in quelle persone e ne prendevano possesso, poiché esse erano bestiali; nel momento in cui furono distolti e rimossi, gli spiriti, vedendo dei porci, li bramarono e fu permesso loro di entrarvi¹². Cos’è questo se non un esempio che il diavolo entra nella parte bestiale di noi, ma non può dominare l’uomo nato dall’alto? Infatti esso si trasferisce da un maiale all’altro, simili in tutto ma separati solo dalla forma; poiché, se il maiale può essere secondo il corpo come l’uomo, anche un uomo potrà essere secondo il corpo come un maiale. Nella vista, nell’udito, nel gusto, ecc. sono corrispondenti: l’unica cosa che li distingue è la rimozione degli spiriti [malvagi] e la seconda nascita dall’alto. Guardiamo la situazione iniziale e quella finale: prima essi erano ossessi e poi sono stati liberati – ma come può derivare la seconda dalla prima? La prima è bestiale, la seconda umana, e sono solo separate dalla duplice nascita, e mentre nella prima situazione non si è certo aiutati dalla pesantezza, nella seconda si potrà nascere un’altra volta grazie alla preghiera e al digiuno. La preghiera è bussare [alla porta di Dio]; il digiuno è la sobrietà, il mantenersi uomini e non esser satolli ed ebbri come maiali e bestie. Ma ci è capitato di vedere che gli uomini possono diventare ossessi nonostante la loro sapienza, ragione e abilità, e non è questa a salvarli: questa realtà vuole indirizzarci a cercare l’origine della sapienza, arte, abilità, ecc., per conoscerla in sé e nella sua provenienza. Se notiamo la partecipazione di uno spirito, dobbiamo saperlo riconoscere: trattandosi dello Spirito Santo, porterà con sé una certa beatitudine; se invece si avesse a che fare con uno spirito malvagio, esso recherà infelicità. Poiché la natura non ci ha generati già nella nostra semenza dall’alto, dobbiamo a tal fine pregare, bussare, digiunare e ancora pregare, affinché Dio nuovamente ci partorisca e faccia crescere in noi il suo seme, così che sia la sua saggezza a scorrere in noi e non quella della bestia.
Un’altra questione da affrontare è: se la rinascita ha avuto inizio in Cristo, donde sono giunte a noi le arti e sapienze di Platone, Aristotele e altri? In realtà però, le cose che nascono dall’alto, in una o più riprese, si conciliano tra loro, anche perché Dio ha permesso che nascessero sapienti e artisti sia prima, sia dopo la nascita di Cristo, e che in loro si svilupero i semi della sapienza. Ma chi vuole ora rinascere beato nel Regno di Dio, deve portare su di sé Cristo e la sua croce; e in questa nuova nascita non deve più sussistere nulla della vecchia, ma
solo essere egli un puro e schietto credente in Cristo. Platone e altri, pur non essendo credenti [in Cristo], ebbero un seme dall’alto grazie al quale poter rinascere; ma i credenti sono più di loro, poiché hanno uno spirito senza macchia che permette di non cadere nella bestialità. E hanno inoltre la pietra angolare¹³, sulla quale si edificano la filosofia e l’arte dell’astronomia e della medicina: come infatti il seme è illuminato e purificato dall’alto, così anche l’uomo sarà illuminato nella resurrezione. La resurrezione è invero il nostro fine, e se saremo qua illuminati nello spirito e secondo verità, dopo la morte risorgeremo in Cristo.
In Platone era un seme, ma afflitto dalla costellazione; anche Aristotele fu oscurato nella costellazione e corrotto dalla natura animale, non essendovi nulla in essi che coltivasse il terreno [dove era il seme stesso], ma solo il segno di questo seme della perspicacia caduto tra le spine: in molti il seme cadde sulla strada e fu portato via, e in molti altri cadde sulle rocce¹⁴. Perciò costoro rimangono nell’errore¹⁵, non sono schietti e non crescono come deve fare il grano per essere pronto alla mietitura. Se quelli dovessero aver posseduto il fondamento della filosofia, lo Spirito Santo dovrebbe essere stato presso di loro più che presso di noi, il che è impossibile. Tuttavia il seme divino fu seminato, e una volta caduto esso deve nascere, anche se ora, dopo la manifestazione dello Spirito Santo, sono stati costruiti gli angoli [dell’abitazione di Dio¹ ], e non vi sono più rovi e pietre, ma muri bianchi e puri. A noi tocca solamente manifestare la volontà dell’accettazione, così come è detto nella parabola¹⁷: la volontà che non fu al tempo dei vecchi maestri, ora deve essere.
Dopo aver parlato a sufficienza dell’origine e della trasmissione della nostra sapienza, previdenza, arte e ragione, dobbiamo in conclusione sottolineare come esse dovrebbero giungerci dalla parola di Cristo, e tramite la stessa manifestarsi e operare in noi e da noi. Se io dunque fossi un oratore, il mio discorso dovrebbe svolgersi manifestando le virtù che si fondano sul Vangelo o che comunque non sono in contraddizione con esso, sia che si tratti della condizione, dell’usanza, del comportamento, del giudizio o del governo del re, del principe o del signore, e di tutto quanto da ciò consegue. Persino per quanto concerne la guerra e la sua conduzione, il discorso deve basarsi su quanto ne dice il Vangelo, e ogni discorso (si tratti di storia, cronaca o altre materie più difficili) sarà senza fondamento se non si basa sul Vangelo. Così, se sono un giurista il mio giudizio
dovrà basarsi sulle Scritture e la mia giurisprudenza su Cristo, e non sugli uomini; e similmente se sono medico, poiché io potrò essere utile al prossimo solo se quanto faccio è conseguito e appreso tramite la supplica e la richiesta [a Dio]. Se non agisco in tal modo, ma imparo da uno un pezzetto e una briciola da un altro, e assemblo tutto in un insieme, non avrò altro che un essere smembrato e colmo di incertezze. Così, per il fondamento della filosofia, dell’astronomia e degli altri saperi, è importante che noi non ci comportiamo come quelli che Cristo chiamava ipocriti, farisei, serpenti, ecc., e che ci separiamo da quanti sono cresciuti tra le spine e non ebbero sole a sufficienza per svilupparsi, come i Pagani, i Greci, ecc. Non dobbiamo seguire costoro, altrimenti rimarremo tra le spine, vale a dire nessuno deve essere in grado di attaccarci, ferendoci come fanno le spine, cioè corrompendoci l’anima e il corpo. Non dobbiamo seguire gli antichi, ma radicarci nella fede e porre e lasciar crescere il nostro seme sotto il sole. Infatti Dio, che ha seminato il seme in noi, è anche uno splendore visibile a tutti: come ha disposto il suo sole, la sua luna, le sue stelle, il suo arcobaleno [esteriori] in modo che ogni uomo potesse vederli, a maggior ragione li ha disposti in noi perché ci manteniamo nell’eternità, quando il sole e la luna [fisici] saranno stati distrutti. Perciò non dobbiamo coprire di spine la nostra luce, ma lasciarla verdeggiare, così che tutto il mondo veda lei e la sua azione.
Note
¹ 1Cor 3, 19.
² Prob. allusione alla parabola dei talenti (Matteo 25, 14 ss.).
³ Cfr. Marco 2, 27: “Il sabato è fatto per l’uomo, e non l’uomo per il sabato”.
⁴ “Or, mentre egli [Pilato] sedeva in tribunale, sua moglie gli mandò a dire:«Non t’impicciare nelle cose di quel giusto, perché oggi, in sogno, ho sofferto molto a motivo di lui»” (Matteo 27, 19). La frase di Paracelso (il cui senso letterale è, invero, piuttosto oscuro) vuol dire probabilmente che nei sogni della moglie di Pilato è da vedersi un tentativo del diavolo (che tradizionalmente è considerato inviare sogni angosciosi e deprimenti) affinché le cose non si svolgessero secondo l’ordine, il quale imponeva il sacrificio di Cristo a salvazione dell’umanità.
⁵ Ciò non è senza rapporto con la “povertà di spirito” di cui parla Cristo nel sermone della montagna.
2 Corinti 12, 2-4.
⁷ Cfr. Matteo 3, 13 ss; Marco 1, 9 ss; Luca 3, 21 ss. L’unica epifania trinitaria dei Vangeli (il Figlio presente come uomo, il Padre che si ode come voce, lo Spirito Santo che appare come colomba) si manifesta in quanto tale solo all’uomo
iniziatore (il Battista), che poi ne dà testimonianza (cfr. Giovanni 1, 32-34). Il Battista rappresenta la potenzialità del rito (il battesimo con l’acqua) rispetto alla sua piena realizzazione (il battesimo col fuoco): solo in apparenza è paradossale che sia lui ad iniziare Cristo e non viceversa; quando egli infatti espone a Gesù l’apparente paradossalità, il Cristo risponde: Decet nos implere omnem iustitiam (Matteo 3, 15). Il Cristo precede infatti nell’ordine principiale, ma nell’ordine manifestato (che è questa “giustizia [ancora] da compiere”) l’esteriorità precede l’interiorità.
⁸ Paracelso distingue piuttosto laconicamente tra Wiedergeburt (qui usato in senso negativo) e Neugeburt (usato più sotto in senso positivo): entrambi i termini significano letteralmente “rinascita”, ma con tutta evidenza bisogna intendere col primo la metemsomatosi e col secondo la rinascita spirituale.
Matteo 5, 13-16.
¹ Cfr. Matteo 7, 15: “Guardatevi dai falsi profeti; questi tali vengono a voi travestiti da pecore, ma dentro sono lupi rapaci. Li riconoscerete dai loro frutti”.
¹¹ In realtà Paracelso parla di cinghiali (Wild Schwein, lett. “porco selvatico”); è evidente il riferimento al noto episodio evangelico degli indemoniati geraseni (vedasi Matteo 8, 28-34).
¹² Nell’episodio evangelico citato infatti i demoni chiedono il permesso a Gesù di prender possesso dei porci. Questa apparente stranezza vale a sottolineare l’umanità del Cristo, che qui agisce rispettoso della normale concatenazione di eventi nella prassi esorcistica; un’altra importante conseguenza di ciò è che in questo episodio l’alta autorità del Cristo consacra proprio la liceità dell’esorcismo e, per estensione, delle pratiche di magia sacramentale (che il Cristianesimo ha integrato nei suoi rituali). Leggendo l’episodio in chiave
simbolica, dobbiamo poi ricordare che “i maiali sono i peccatori immondi” e “il cinghiale è il diavolo” (S. Eucherio di Lione, Formule dell’intelligenza spirituale, ed. Il leone verde, Torino 1998, pp. 78 e 82).
¹³ La pietra angolare citata nella Scrittura (Salmo 118, 22) è stata già dal Nuovo Testamento (Matteo 21, 42; Marco 12, 10; Luca 20, 17; Efesini 2, 20-22) identificata a Cristo stesso.
¹⁴ Allusioni alla parabola del seminatore (Matteo 13, 3 ss.; Marco 4, 3 ss.; Luca 8, 5 ss.).
¹⁵ Paracelso si rifà all’interpretazione data dal Cristo stesso della parabola del seminatore: il seme (la parola di Dio) cade in quattro tipi di terreno, cui corrispondono quattro tipologie: 1) la strada (gli increduli); 2) le rocce (gli incostanti); le spine (i mondani); il buon terreno (i credenti).
¹ Cfr. Efesini 2, 20-22: “Voi siete costruiti infatti sopra il fondamento degli Apostoli e dei profeti, mentre Cristo Gesù in persona costituisce la pietra angolare. è in lui che tutto l’edificio si lega e s’innalza armonioso per formare un Tempio santo nel Signore; è in lui che voi pure siete edificati mediante lo Spirito Santo, per essere l’abitazione di Dio”.
¹⁷ Si tratta della parabola dei perfidi vignaioli, cui già più sopra si alluse (vedi nota 13).
Indice
Introduzione
Note
IL FONDAMENTO DELLA SAPIENZA
Primo Trattato
Secondo Trattato
Terzo Trattato
Note
L’INVENZIONE DELLE ARTI
Primo Trattato
Secondo Trattato
Terzo Trattato
Quarto Trattato
Note