Il Grande Insetto 1a2l4l

Daniela Tucci Il grande insetto Lettere Animate ISBN: 978-88-6882-670-3 copyright Lettere Animate 2015 www.lettereanimate.com

Non so cosa voglio fare. Sapete uno di quei momenti nella mente umana: dire tutto in poco tempo. Ma forse questo tutto è troppo e questo tempo troppo poco. Cosa si fa in questi momenti? Si prende la penna e si scrive. Non è così facile come può sembrare, forse perché non riesci a esprimere tutto ciò che vorresti; forse hai paura che il lettore non intenda ciò che volevi dire o che, ed è ancora più grave, che intenda sbagliato. Difficile. Platone, Aristotele, Sant’Agostino, Ockam, Ficino, Leopardi, Dante, Petrarca, Lorenzo il Magnifico, Manzoni, Locke, Pope, Swift, Shakespeare, Foscolo… hanno avuto la presunzione di ritenere ciò che pensavano valido a qualcuno, all’umanità…E se non avessero fatto ciò che hanno fatto? Col senno di poi…non credete abbiano fatto bene?

I

Vorrei raccontare una storia che racchiudesse i pensieri, i momenti di un tutto assoluto. Sandardo, cittadina piccola e isolata dal mondo. Non sono mai stata amante delle persone, il mio carattere, però, mi permette di fingere molto spesso, e di non farmi accorgere, a volte neanche con me stessa! Sapevo che prima o poi sarebbe dovuto succedere. Non pensavo così presto. Il lettore( se mai ce ne sia uno) mi voglia scusare se a volte trapela molto del mio sentimento, nonostante mi prefigga di scrivere il più obiettivamente possibile. "Perché chiudi così forte il cancello? Giornata nera eh?". Il solito insolente vicino di casa: un certo signor Dari, un uomo sulla cinquantina, capelli talmente bianchi, che lo svecchiano di circa dieci anni, asciutto, alto, e scapolo. Dicono che un tempo aveva una ragazza che gli stava vicino, ma non si sa perché, lo aveva abbandonato dopo due anni. Ogni mattina, alle ore sette in punto esce di casa, si fa la sua bella camminata, e rincasa dopo essersi stancato a parlare con le sue amicizie incontrate lungo il tragitto. Quella mattina però era uscito circa un'ora e mezzo più tardi. "Spero di no" gli feci io. "Oggi ho un sacco di cose da fare". E lo liquidai subito. All'inizio del mio racconto non ho precisato lo scopo della mia guida, cosa, scrivendo, veramente cercavo. Come il solito dovevo are davanti la piazza presso Largo Farci, e odiavo farlo. Ovviamente era l'unica via accessibile. Stranamente quella mattina non c'era nessuno su quelle panchine verdi, in fila, con quattro posti ciascuna, sulle quali amavano adagiarsi a ricordi e rimpianti tre o quattro persone, anziane solitamente. Ma anche a questo ai sopra ignorando completamente la faccenda.

Mi diressi in ufficio non senza trovare un altro intralciatore di pace umana. Naturalmente trovai sul mio banco, pacchi e fogli, documenti e una formula di licenziamento che mi pendeva sulla testa se non avessi scovato chi aveva fatto il colpaccio. Di questo il lettore non sa niente. È necessario spiegare qualcosa di più. Qualche mese fa, a Ottobre precisamente, un alto ufficiale dell'arma aveva chiesto un suo trasferimento in un altro paese, per ragioni personali.

Aveva preparato tutto, per andarsene, quando la mattina della partenza scomparve; non c’era dubbio, si trattava di morte per soffocamento. Poiché l'omicidio era avvenuto nel nostro quartiere, il caso fu affibbiato al nostro reparto, un caso difficilissimo, tenuta presente l'irreprensibile condotta dell'uomo ucciso: il signor Socchisi, rispettato in tutto e per tutto. Per un po’ di tempo sono andati avanti indagini, ricerche, giornali, televisione. Dopo, tutto era svanito, come se fosse un caso talmente insignificante da non poter perdere tempo (dato anche il fatto che lo sciagurato non aveva straccio di famiglia o familiari o amici), oppure fosse un caso che scottava troppo per essere risolto. Poiché c'era ancora tanta pressione, il mio capo vide bene di affidarmi l'incarico di risolvere il caso. Proprio a me, che tenevo quel posto così precariamente. Io, un soggetto da sempre scomodo a tutti…ma come ripeto, il caso era molto difficile. Sarebbe stato meglio una diretta lettera di licenziamento, almeno… Era il 25 Marzo e ancora mi ritrovavo a dover rovistare tra i giornali, tra le lettere, per fare sì che qualcosa si muovesse a mio favore. Questa faccenda mi aveva assorbito completamente. Ci lavoravo giorno e notte. Ovviamente era l’unico lavoro che mi aspettava. Il 25 sera dovevo rincasare, ma solo io, come il solito, ero rimasta in ufficio. In quegli istanti mi sentivo persa nel mondo. Le pareti dell’ufficio mi sembravano sprofondare in un vuoto immenso. Niente più carte, niente più fogli. Vuoto.

E’ difficile spiegare a volte l’animo umano. I suoi turbamenti, i suoi vortici, tendono a impadronirsi di ogni cosa. Alla fine c’è talmente tanto nella buia gola dell’uomo, che si perde la percezione di quello che si è veramente. Questi pensieri probabilmente sono innati, ma non sempre in modo palese emergono. Quando risaltano, significa che la mente si perde nel nulla per pochi istanti e quando si riprende, ricorda di essere stata in un mondo conoscibile ma inspiegabile, e a volte, come niente fosse, si riprende. Questi i pensieri che mi frullavano per la testa quel 25 sera, quando all’improvviso sentii un rumore, non forte ma fastidiosissimo che percepito in particolari circostanze scuote dal sonno anche la più pacata delle anime.

II

Era la signora Bolasky, o meglio signora Cafari. Una donna di mezza età, non decisamente grassa, che sosteneva di essere stata la signora Bolasky, moglie del colonnello Bolasky, russo, morto in guerra tanti anni fa. Dico sosteneva perché le voci delle donne più risapute del paese dicevano che lei era stata innamorata di questo colonnello che a quanto pare aveva altro per la testa. Così una volta aver saputo della sua morte, la signora Cafari divenne per sempre la signora Bolasky. Tutta la sua storia era forse una menzogna, dovuta anche dal fatto che (sempre secondo delle voci), questo suo colonnello era un uomo aristocratico. Lei, invece, una donna sprezzabile e per niente femminile, che non desisteva dal farsi vedere in giro, la mattina, per la strada, a pulire il giardino o addirittura al supermercato con la testa piena di rolli e becchetti, il tutto tenuto su con una retinuccia grigia scolorita messa su la sera prima. Ed eccola là, la contessa, con un secchio in mano, straccio e spazzolone, che sbatteva di qua e di là, con noncuranza. La sua era l’aria di chi è consapevole della propria inutilità. Non si era accorta di me, ma appena lo fece, non mancò la sua spregevole battuta: “ Ancora si lavora a quel caso eh?…Chissà…” e continuava a sparlare alle mie spalle, senza che riuscissi a capire ciò che diceva e rimuginava. Seccata da quell’irritante persona, spensi la luce, battei la porta e uscii dall’ufficio. Prendevo la Via Gassari per tornare a casa, che, come la maggior parte delle vie di questo quartiere, era buia e malandata. Pur essendo Marzo, l'aria era ghiacciata. Cercavo di proteggermi il viso il più possibile, lasciando fuori solo uno squarcio per vedere la strada. Camminavo a testa bassa e riflettevo su quella giornata inutile; niente era venuto fuori. Ora ci si metteva anche la domenica! (la domenica non si lavora). Così avevo dovuto dare l'arrivederci alle mie carte per lunedì. "Maledetto riposo". A volte si pensa che un giorno di riposo rilassi dallo stress subìto nel corso della settimana. Questo forse per una signora Bolasky o un signor Dari, gente nulla facente tutto

il giorno. Per una persona che lavora invece (alla quale il lavoro non va neanche bene), il giorno di riposo è visto come un accentuarsi della pena, un'attesa futura, che non fa che peggiorare lo stato nervoso. Anche se fosse veramente un giorno di riposo, questo non sarebbe goduto fino in fondo, tormentato dall'ansia del giorno successivo: come dice Leopardi, la felicità sta nell'attesa, non nel vivere i bei momenti.

Come niente fosse mi ritrovai davanti alla mia casa, con le finestre sbarrate, oscure: un'aria non del tutto allettante. Come ogni sera feci a pugni per riuscire a infilare la chiave nel cancello a causa della mancanza d’illuminazione; d'altro canto la mia strada è abitata da falsi ricchi e veri ipocriti. Rientravo a casa come se adesso fosse cominciato il vero lavoro. La casa era sottosopra (pur essendo poche cose da dover essere sistemate). Appena entravo, mi toglievo le scarpe, che tutto il giorno erano state delle trappole di cuoio. Quella sera dovetti riprovare il disgusto e il dolore di rimetterle dopo pochi minuti, giacché mi avevano citofonato. Era la signora Bisini che, come il solito, si era rivolta a me per un grande problema: il marito non era venuto a casa. "Esco subito!" dissi con tono quieto."Chissà", pensai, "dopo tanta sopportazione, il signor Bisini è riuscito a fuggire!” E con ironia e disprezzo uscii. Scesi le scale come chi, dopo una partita di pallone, compresi i tempi supplementari, è costretto a dover rincorrere di nuovo la palla. "Buonasera signora, cosa è successo?" le chiesi con aria distaccata sicura che anche quella volta si trattasse di un motivo futile. "Mio marito non torna ancora a casa, eppure aveva detto che sarebbe tornato circa dieci minuti fa. Non so cosa fare". Non so cosa mi abbia trattenuto dallo scaraventarmi addosso a quella povera vecchia che si permette di disturbare una persona stanca morta! Cercai di mantenere la calma, considerando che quella persona che mi stava davanti probabilmente stesse in condizioni peggiori delle mie. Forse reagii così

per la mia totale stanchezza che sentivo a poco a poco sovrastarmi il corpo, fino a non capire più niente. Mi scrollai dal mio letto di debolezza e affrontai quella controfigura umana. "Signora Bisini, non credo si debba preoccupare più di tanto, in fondo suo marito sta ritardando di soli dieci minuti". Lei mi guardava in modo completamente assente, quasi non sentisse quello che stavo dicendo o meglio non le interessasse. Premetto che la signora Bisini era nota come la donna più pettegola del quartiere, e probabilmente quella era solo una scusa per farmi parlare del colpaccio.

"Sì, forse ha ragione. Perché non viene a prendere un caffè da me. Così aspetteremo insieme mio marito", mi disse in modo impertinente e fastidiosamente pettegolo. Poiché avevo in sospeso un conto con la signora, avendole prestato dei soldi poco tempo fa, vedevo questa l'occasione giusta per chiederle di saldarmi il prestito, visto che il marito era assente. Questa era una cosa importante, tenendo presente il fatto che la signora Bisini aveva una gran paura del marito, ma questo non la fermava a chiedere prestiti e saldarli con somme sottratte al poveretto poco alla volta. La signora non aveva una buona fama di saldatrice di conti. Lo seppi solamente dopo averle prestato i soldi. Non era una grande somma (probabilmente ci avrebbe comprato quei servizi di caffè di cui aveva piena zeppa la casa), ma nelle mie condizioni anche il più misero spicciolo conta. Accettai quindi di andare a casa sua. La sua casa era poco distante dalla mia, ma ricordo che fu un tragitto lunghissimo, almeno per i miei piedi che continuavano a lamentarsi tra le scarpe. Per tutto il cammino, la signora Bisini continuava a imbevermi di parole, ma non ne rammento una, tanto ero intenta a cercare di posare il peso del mio corpo su quella parte di piede che sentivo meno dolorosa. Arrivammo davanti alla casa e guardai l'orologio; erano le ventidue. Una gran noia mi colpì all'improvviso calcolando l'ora in cui sarei tornata a casa. Ero stata una volta sola in quella casa, e mi ero fermata all'uscio. Questa volta invece la signora mi fece entrare.

Al primo o sentii un totale disgusto: sulle pareti tanti quadrucci insignificanti che coprivano quasi del tutto la carta da parati di un marrone completamente stinto. Sul corridoietto un tavolino con un telefono: pareva che fosse lo stesso telefono a reggere il tavolino. La signora mi precedeva mostrandomi le stanze (come se a me poi interessasse!). D’ogni stanza mi diceva l'origine e l'attualità, ma ovviamente la mia attenzione era minima. Arrivammo finalmente alla sala da pranzo, dove c'era un enorme mobile contenente un ammasso di stupidaggini e al centro un tavolo rotondo bandito da orrendi centrini di merletto.

M’invitò a sedere, cercando di farmi parlare e far are del tempo avendo notato la mia indifferenza. "Le piace?", mi chiese. "La casa? Sì, discreta, carina", le risposi. "Ma no", disse “il centro tavola! L'ho fatto io con le mie mani, quando ancora ero in grado di tenere fermi i ferri tra le dita!". Mi stupii di quell'uscita, ma come già ho detto, era un modo come un altro per perdere tempo. Senza neanche aspettare la mia risposta si alzò e prese una foto riposta nel mobile. Mi parve l'unica cosa degna di essere ritenuta una bella cosa. "Vede" fece lei "questi eravamo io e Desiderio da giovani". Avevo capito l'intenzione di cominciare a parlare, e di cercare di farmi dire qualcosa, ma io la bloccai subito dicendo: " Scusi signora, ma le vorrei chiedere una cosa". La signora, astutamente e ipocritamente, mi protese una mano sulla spalla e sospirando: "Tutto, basta che non si parli di soldi, sa di questi tempi con la mia artrite e la bronchite di mio marito...Pensi che proprio ieri mi hanno diminuito la pensione. Ma cosa voleva chiedermi?". Che cosa rispondere a quella faccia così abile? Mi affrettai a raccontare una frottola, ma uno squillo di telefono mi salvò dall'impiccio... "Pronto? Ah sei tu! Dove eri. Ti stavo aspettando. Ero preoccupata. Va bene, ci vediamo domani". Attese prima di venire un attimo nel corridoietto, e io non sentendole dire niente le chiesi :" problemi signora?". Dopo un silenzio di tomba, mi raggiunse e mi disse :" Mi deve scusare ma proprio non lo avevo ricordato! Mio marito questa sera rimane da un suo amico. Domani dovranno

andare a pesca insieme. Non so proprio come sia potuto capitare". Io lo sapevo invece, vecchia insolente! Il fatto è che voleva assicurarsi che io per un altro po’ di tempo non le avrei chiesto soldi. E poi se ci fosse scappata una parolina sul colpaccio...tanto meglio. Con la sua solita aria da cadente dalle nuvole, accennò a un sorriso e mi disse :"Ormai, visto che l'ho scomodata, rimanga a bere un sorso di caffè con me, l'ho appena preparato". Preparato quando? Io annuii con la testa non sapendo cosa stavo facendo e a cosa acconsentivo. Sarei potuta andare via, è vero; ma una rabbia mi saliva dai piedi alla testa, togliendomi la pazienza e il rispetto di sempre. Inoltre, parlando, sarei andata avanti con una serie d’ingiurie contro la perpetua. Intanto era già in cucina a preparare il caffè, che mi ero proposta tenacemente di non bere.

Ogni tanto mi tirava una parola dalla cucina, che giungeva ai miei orecchi alterata e sconnessa. Stufa di questa situazione mi alzai, e la raggiunsi in cucina. Un tanfo terribile raggiunse le mie narici; probabilmente dovevo avere manifestato il disgusto anche sul volto, data la faccia che fece quella donna vedendomi. Poi aggiunse: " Scusi il disordine ma, per via dell'artrite, sono due giorni che non alzo un dito". E mi voleva far bere quel sudiciume! Guardai l'orologio : 24:30, troppo tempo perso inutilmente! Cominciai a farmi vedere insofferente, così le dissi che per me non doveva versare il caffè. "Allora non lo prendo nemmeno io, non mi piace bere da sola!" (chissà che rinuncia doveva aver fatto!). "Allora andiamo di là". Mi condusse di nuovo nella sala da pranzo, smascherando finalmente le sue intenzioni: "Ma poi, com’è andato a finire il lavoro? Ha trovato il colpevole?". "Quale...a sì...no, ancora niente", le risposi bruscamente, facendo intendere l'intenzione di voler chiudere subito quell'argomento. "Peccato per quel bell'uomo. Perché era un bell'uomo eh? Onesto, rispettato". Cominciava con queste affermazioni banali e poi mi avrebbe portato a parlare involontariamente. Così le dissi di essere troppo stanca e poi poiché suo marito stava bene, mi congedai, interrompendo le sue parole e le sue frasi d’intrattenimento. "Arrivederci a domani signora". "Scusi e grazie". Certo,

grazie, intanto dovevo ripercorrere quel tragitto pieno di sassi e buche, con i piedi che sembravano chiedere pietà. Arrivai. Era l'una, così, tolte di nuovo le scarpe e lavatami le mani, mi spogliai e mi buttai sul letto, senza neanche togliere la coperta. La testa sprofondò nel cuscino così come la mente s'immerse nel sonno. Fui svegliata il mattino alle ore nove circa da quell'insopportabile abbagliare di cani, che vociavano continuamente. I miei occhi si aprivano appena. Mi ritrovai sul letto, ma non ricordavo come c’ero finita. Poi mi rivenne tutto: la sera prima, la signora Bisini, il caffè... Era domenica, ma io sentivo già la pressione del giorno successivo. Non avevo forza di alzarmi dalle coperte, ma alla fine sarei dovuta uscire.

III

Quella mattina decisi di andare a fare un giro. Nel corpo mi girava ancora l'ansia del giorno precedente. Forse un po' d'aria fresca, e la vista di qualcuno mi avrebbe schiarito le idee su quello che avrei dovuto fare l'indomani, e quali piste dovere aprire. Mi alzai, mi feci una bella doccia; lanciai un bacio all'uomo della mia vita e con un taccuino e addosso una tuta, uscii per strada. I piedi mi dolevano ancora un poco, ma potevo sopportare. L'aria era frizzantina, il cielo sereno, e il sole irradiava ogni casa allegramente. ai per la Via Lamari, non sfuggendo, sicuramente, dalle persone. Mi ero messa in testa di volere indagare su questo Socchisi: una cosa mai fatta da me. Forse non mi ritenevo neanche in grado di fare un'indagine. N’ebbi il coraggio, e un po' mi spinse la voglia di cambiare metodo, intraprendendone uno che poco mi si addiceva, tenendo presente quello che mi successe dopo. Contavo di riuscire a ricavare qualcosa di nuovo su Socchisi, giacché era un uomo molto conosciuto. Trovare persone disponibili a parlare non era difficile visto che il caso era conosciuto e la maggior parte degli individui di questa zona erano terribilmente affetti da protagonismo, cosa che io non ho mai sopportato, perché indice d’estrema presunzione e fanatismo. Continuavo in cerca di qualcuno da far parlare. Qualcuno però che non fosse eccessivamente pettegolo, ma neanche troppo taciturno. La Piazza Casari, presso Largo Farci pullulava di persone. Non sembra, ma a vedere questo spettacolo mi divertivo da matti. Nello stesso tempo affioravano in me sentimenti di stima e disprezzo, di pietà e benevolenza, d’orgoglio e codardia. Tutte quelle persone lì, non facevano altro che soddisfare le esigenze del loro

essere interiore. Forse anch'io avrei dovuto immergermi in quell'ondata di comunalità, di banalità, ma avevo sempre avuto un freno a questo. Stavano tutti lì. C'era chi approfittava del giorno di riposo per fare due chiacchiere tra amici. C’era chi portava in giro, sulla bicicletta il bambino: solitamente due genitori, la mamma sulla panchina, seduta, stanca dalle fatiche domestiche settimanali, e il papà vicino al bambino, con occhio vigile, ma nello stesso tempo un po' contrariato da quella condizione. Gli sembrava un'inversione di ruoli; lui con il bambino; lei seduta, noncurante, che leggeva uno di quei rotocalchi, fatti solo per spendere soldi e far vivere meglio. C'era chi si dimenava in un gioco tremendo di gesti, indignato dal discorso di qualcuno: erano i soliti dibattiti politici fatti da qualcuno che fa parte di uno stato, ma non di quello politico. Credo che la politica sia fatta non dalle idee di qualcuno, ma dalle discordanze tra due. In ogni tempo, la politica è sempre stata campo d’opposizione tra due principali fazioni. L'importante, nella politica, è avere idee differenti, migliore se stridenti o addirittura opposte. Credo che la politica, sia una delle caratteristiche dell'uomo, e tra queste vige la discordanza... C'era chi parlava dell'ultima partita di questo o quel giocatore, e impazzava d’elogi, contraccambiato da altrettanti insulti. C'era chi se ne stava da solo insieme alla sua innamorata o innamorato. C'era chi, non avendo nessuno con cui eggiare e nessuno che lo aspettava, si dilettava a tenere tra le mai un libro, più per disperazione che per voglia di cultura. Questi i personaggi che figuravano in questo teatro umano, e che si credevano essere solo sotto gli occhi dei loro interlocutori. Cominciai a camminare (tutti mi conoscevano e sapevano di cosa mi stavo occupando). Ovviamente non dovevo porre tanta attenzione sulle prime persone che mi avrebbero fermato e parlato: sicuramente saranno quelli più pettegoli e meno interessati.

In queste occasioni, si devono calibrare tutte le mosse, tutte le azioni, ogni movimento, ogni pensiero. La prima che mi venne incontro fu immancabilmente, la signora Bisini, che, assente il marito, si stava spendendo, dandosi al suo atempo preferito: la chiacchiera, magari sparlando delle persone presenti. "In giro per divagarsi eh?" mi disse. "Veramente" le risposi "stavo facendo due i". "Certo" disse "con un block-notes in mano!". Sempre la solita impertinente, cara la nostra signora. In fondo quali erano le sue preoccupazioni? Controllare sul calendario il giorno in cui le spettava ricevere i soldi. Riuscii a svignarmela, grazie al richiamo di una mia vecchia conoscenza: Alfonso Gadini, un ragazzo alla buona che si sbracciava per farsi notare in fondo alla piazza. Alfonso è un ragazzo fuori del normale, alcuni dicono pazzo. Io l'ho ritenuto come una persona controcorrente, un fuori delle norme. Era rimasto impresso a tutti a causa di una vecchia storia. Alfonso perse il padre quando era ancora un bambino. Il suo era stato un caso sfortunato. Si racconta che il padre un giorno si trovava a casa del fratello, un certo Colante, zio di Alfonso. La famiglia di Alfonso è una famiglia di muratori, imprese edili. Addirittura era muratore il nonno di suo nonno. Quel giorno il padre era andato in un quartiere di campagna insieme al fratello, per finire la costruzione di una casa. Erano loro a lavorare insieme con un paio d’altri ragazzi. I due fratelli si trovavano in cima a una scala, per osservare il panorama che si poteva scorgere da quell'altezza. a un certo punto Colante poggia male un piede su di un gradino, e scivola: aggrappato con una mano alla scala, rischia di morire. Il padre di Alfonso, ovviamente, si precipita a soccorrere il fratello. Dopo alcune peripezie, sfortunatamente, cade il padre di Alfonso. Morto. I due ragazzi accorsi vedono il corpo del padre di Alfonso sul terreno e Calante ancora appeso alla scala, ma salvo. Il piccolo Alfonso soffre molto. Tutta la sua adolescenza fu un problema, quando

un giorno accadde il fatto. Alfonso era andato a casa dello zio Colante per aiutarlo a sistemare il tetto dell'abitazione, che mostrava qualche piccola deformazione. Entrambi sono su una scala. Pochi minuti dopo lo zio Colante giaceva morto sul terreno, caduto dalla scala. Alfonso, in preda a non so cosa, l'aveva spinto di sotto. Fu iniziato un processo che finì a favore di Alfonso, incapace in quel momento di agire rettamente. Parecchio tempo dopo questo fatto, lo conobbi io. Non conobbi mai un ragazzo più corretto e sensibile di Alfonso. Purtroppo, da quel giorno molti lo avevano allontanato, persino parte della sua famiglia. Così aveva dovuto adagiarsi come poteva, cercando di rimediarsi qualche lavoro per vivere. Con me non parlava molto di questo fatto. Mi disse una volta che la morte dello zio gli aveva riportato in un certo senso la vita del padre. Ora, dopo qualche mese che non lo vedevo, mi appariva simpatico più che mai, e affabile come al solito. Cominciammo a parlare delle nostre ultime avventure. "Sai, Dorana, ho saputo che hai dei grandi grattacapi con il lavoro. Quel caso Socchisi ti sta facendo are dei guai". "E me ne farà are se non lo risolvo presto; il capo mi sta alle costole". "Stai facendo indagini? Hai qualche idea?". Mi fece lui. "Magari, il fatto è che non ho neanche una minima intuizione. E sai, in questo lavoro, un'intuizione, a volte ti risolve mesi e mesi di ricerche". Continuai a spifferargli le mie idee, sapendo che di Alfonso mi potevo fidare. "Oggi avevo in mente di racimolare qualche testimonianza. Credevo di sapere qualcosa sul conto dell'assassinato, chi frequentava, i suoi luoghi. La gente qui, però, parla e non dice niente. E poi c'è il dubbio di beccare dei ciarlatani...".

"Ti avrei cercato io. Fortuna che ti ho trovato qui. Avrei un consiglio da suggerirti". Alfonso parlava e io lo ascoltavo senza perdermi una sola parola. Nel frattempo c’eravamo seduti su una panchina di marmo, sotto un grande pino. "L'altro ieri mi hanno affidato un lavoretto, a Casato, qui vicino: devo ristrutturare l'atrio di una casa. Un mio amico mi ha fatto conoscere il padrone della casa, muratore anche lui. È un uomo scaltro, a modo, ma buono e affidabile. Sono venuto a sapere che era un amico di Socchisi. Sai, proprio il giorno prima dell'omicidio, il pover'uomo era stato a casa sua. Non mi disse nient'altro. Scoprire indizi tocca a te!". "Sarebbe fantastico riuscire a parlare con questo...come si chiama?", chiesi.

"Ehm...signor Tafanani, Tifanoni...non ricordo di certo. So che lo soprannominano mattone". Ero entusiasta di questa cosa, ma restava il fatto più difficile: come riuscire a parlare con costui? "Che cosa diremo per indurlo a parlare con me di questo fatto? Sai queste cose non sono viste di buon occhio". "Stai tranquilla. Poiché ora io ci lavoro, vedrò come farci scappare il tuo nome, e m’impegnerò per fargli prendere a cuore questa ricerca. Dopotutto se rifiutasse, sarebbe una buona pista lo stesso per la tua indagine...". Mi disse di aspettare ancora un po'. Si sarebbe fatto vivo lui. Era una buona opportunità che il destino mi offriva: avrei dovuto sfruttarla al meglio. Intanto non potevo rimanere senza fare niente, visto che Alfonso mi avrebbe chiamato solamente tra un po' di giorni. Fino alle 16 non avevo concluso nulla: nessuna persona che avrebbe potuto aiutarmi, nessuna persona che sapeva qualcosa di certo e importante. Mi resteranno sempre in mente quei giorni in cui non sapevo dove andare a rifugiarmi. Tutto ti è nemico; basta una cosa che ti va male e ti vedi ogni altro piccolo problema intralciarti irrimediabilmente la strada.

Quando si è in queste condizioni, si cerca in tutti i modi di evitare contatti con la gente, avendo paura che aggravi le cose. Come potevo stare tranquilla con i miei cari vicini che mi stavano sempre dietro, che seguivano ogni mio movimento? Parlo della solita signora Bisini, del signor Dari e signor Stapato, brava gente (anche perché non si spingevano mai in qualcosa di speciale), ma che non lasciavano in pace il corso di una storia: dovevano sempre mettere di mezzo parole o fatti cambiati, semiveri, falsi. Perché? Gusto dello sparlare. Forse solitudine, voglia di entrare in un modo o nell'altro a far parte di una storia che non li tocca minimamente, se non perché succedeva in zone che loro conoscevano. Ho parlato di un signor Stapato di cui il lettore si starà domandando le generalità (o forse no). Questi era un vecchio nemico del signor Diari. Nemico in tutto, a cominciare da particolari idee politiche, sociali, personali. Era un uomo di circa sessantacinque anni, che andava vantando sempre qualche anno in meno. Era stato sposato una volta. In seguito alla morte della moglie non si era più ripreso. Si era dato quindi alla vita del non fare niente. Possedeva una casa a metà della strada. Una casetta che si era costruita da solo e in cui si trasferì con la morte della moglie. Non aveva occupazioni per intere giornate: le uniche erano parlare, orare, parlare e andare a so con il signor Dari, suo eterno rivale. Si pensa addirittura che sia stato amante della moglie in un determinato periodo, con lui che era a conoscenza di tutto. Spesso succedono queste cose: il tuo peggior nemico è quello cui pensi di più. È chi ti fa vivere con un pizzico in più di malignità e malafede, ma con più sicurezza. Non capii mai questa simpatia che c'era tra i due. Forse era solo frutto di reciproca rassegnazione e nello stesso tempo di lotta. Tutti e tre erano persone a volte perfide, ma anche disponibili (spesso con secondi fini). Le cose che in loro abbondavano era avarizia e invidia. Prerogative sicuramente umane, ma che in loro prendevano un accento d’esasperazione, di rovina quasi dell'oggetto invidiato.

Non potevo agire senza essere controllata (fino a un certo punto ovviamente). All'inizio solo la signora Bisini e il signor Dari, ma poi cominciò anche il signor Stapato a perseguitarmi. "Come va? Ancora niente? Scoperto qualcosa? Chiamato qualcuno?". Queste le solite domande che uscivano da quelle tre favelle di fuoco. Nonostante tutto quello che dovevo fare, ci si mettevano anche loro a complicare le circostanze. Intanto era arrivata la sera e ancora non si era concluso niente. Sennonché mi rimaneva la speranza sulle promesse di Alfonso. Perché gli credevo? Perché mi fidavo? Forse non lo sapevo neanche io. Era capitato nel momento giusto al posto giusto. Poi non lo so, quando ci si trova in queste situazioni, (spero che mai nessuno ci si trovi mai) quando non si ha nessuno cui chiedere e su cui fare affidamento si tende a credere a qualcuno che sembra liberarti in quel momento da tutto e che sembra aprirti una strada. Solo se si ha il tempo e la freddezza di ragionare e pesare la gravità della situazione si riesce a non incastrarsi. Avrei cominciato meglio la settimana, perché dalle cose che mi avevano detto, ero riuscita a sapere, o meglio a confermare, delle cose su Socchiusi: era un uomo con le carte in regola, che tutti stimavano. Era un tipo alquanto pauroso e a volte faceva il o più lungo della gamba. Si era trovato altre volte in piccoli guai. Il più grave fino ad allora che ero riuscita a scovare era il suo divorzio dalla moglie Nicoletta. Volendo, potevo tenere conto di questa strada, ma era meglio non azzardare troppo. Stanca e con un mucchio d’idee in testa, mangiai qualcosa alla svelta e, a letto, presi subito sonno. La mattina seguente mi alzai alle cinque. Presto, anche se in ufficio dovevo essere per le otto. Solo che in questi momenti stare nel letto con gli occhi sbarrati, fissi nel soffitto, quando ti appaiono davanti immagini che non vorresti vedere e ti vengono in mente idee che non vorresti avere, è distruttivo. Il soffitto ti appare pieno scritto di conti e debiti da pagare. Allora per rimediare a queste visioni, ti alzi dal letto e ti cominci a lavare, vestire. Sempre però con qualcosa in testa. Come il solito avevo la corriera che ava di lì, vicino a casa mia, alle ore

sette. Ogni mattina provavo il disgusto di salire i gradini di quella corriera, sentire il mal odore che proveniva dai sedili, e osservare la faccia insonnolita dell’autista, al quale mostravo il biglietto, perché la macchina per timbrare era rotta. Provavo il morale disagio di essere la prima a sedermi la mattina e l’ultima a scendere la sera. Tutto il giorno mi rimaneva in mente il suono del camlo che prenotava la fermata. Era ormai una gara tra chi riusciva a premere per primo il bottone. Tante volte invece si fulminava la lampadina o si rompeva del tutto l’impianto, così si doveva lanciare un grido all’autista:” Alla prossima!”. Davanti alla porta dell’ufficio, ancora chiusa, dovevo aspettare circa venti minuti. Perché non prendevo la corriera alle sette e trenta? Perché, semplicemente, non c'era. Aspettavo la signora Bolasky, che arrivava con una vestagliaccia e un gran mazzo di chiavi, in una mano, secchio e straccio nell'altra. Che figura deprimente! "Già qui eh?". Era la sua battuta giornaliera. Entravo, aprivo il mio ufficio (una verandina che a volte dava sullo squallido), sistemavo i miei fogli, riordinavo le idee e cominciavo. Alle otto e trenta dovevo riuscire dal mio cantuccio e andare a timbrare alle otto e trenta. Come al solito, da qualche tempo, il capo ava davanti all’ufficio e con un antipatico gesto delle mani mi diceva: "Ma allora? Quando queste scoperte?". Io rispondevo con un cenno del capo, dicendo di essere a buon punto. Ma quale buon punto! Mi vedevo come non mai cacciata da quell'impiego. "È permesso?", era Masetti mio collega. "Prego entra. Ti serve qualcosa?", gli chiesi. "No, veramente volevo chiederti io se avevi bisogno di un aiuto. Visto la tua condizione". "Grazie, ma che consiglio mi daresti?", gli chiesi come in pellegrino che si perde per strada. Accetti un aiuto con il caso? Potrei aiutarti a trovare qualche indizio. Ho sentito che il capo non ha buone parole sul tuo conto". Mi si presentava ancora una buona occasione: Masetti un impiegato modello mi

stava offrendo il suo aiuto. Solo che il mio maledetto orgoglio mi fece rispondere: "Grazie, ma, sai, voglio sbrigarmela da sola". Avevo detto di no a una sicura risoluzione del caso. Non m'importava. Anziché fare occupare un altro del mio caso, avrei accettato il licenziamento. Intanto, sfogliavo il mio blocchetto, e vidi scritto il nome della moglie di Socchisi, Nicoletta. Cercai tra le carte. Con una trentina di telefonate, e una serie d’agganci balordi, riuscii a ricavare il cognome della donna: Bastretti. Per questo ero a cavallo: mi bastava rintracciarla e farle qualche domanda. Dovevo aspettare Alfonso. La sua fonte probabilmente era molto più sicura. Dopo circa due ore mi trovavo davanti alla casa della signora Bastretti. È vero, dovevo attendere Alfonso, ma non sapevo come muovermi, e poi conoscere qualcosa che mi ero procurata da sola, facendo indagini, m’ingolosiva. Potei uscire liberamente senza che il capo o qualcun altro mi dicesse qualcosa. Ormai non ero neanche considerata troppo in quel reparto. Suonai il camlo di una bell’abitazione presso Stretta Lavi: mi venne incontro un cane grosso e rabbioso. Se quel cancello fosse stato aperto, sarei stata spacciata. "Chi è?" mi rispose al citofono una voce di donna dimessa e stanca. "Potrei parlare con la signora Socchisi?". "Sono io, ma non voglio seccature. Ho già detto che la lavastoviglie non la prendo", mi rispose credendo che fossi un fattorino ambulante. Risuonai il camlo e con voce ancora più seccata, mi disse: "Insomma, lo capisce che non m'interessa?". Senza darle il tempo di riattaccare le dissi con voce alta e ferma: "Signora, sono della K.G.L...vorrei parlarle di suo marito...". A queste mie parole mi si aprì il portone. Mi riguardai bene nell'entrare, cercando di prevenire l'arrivo del cane. Ero salva...ero di fronte alla porta della casa. Mi venne ad aprire una donna alta, giovanile sui quarantacinque anni, bionda ma con il volto stanco e pallido.

"Buongiorno signora", dissi mostrandole il tesserino. "Il mio nome è Dorana...""Sì lo so. L'ho letto sul cartellino", mi fece prontamente lei. Probabilmente non aveva voglia di perdere tempo: voleva arrivare al marito... Mi fece accomodare nel salotto. Era una bella casa, spaziosa, grande e molto ricca... "Qualcosa da bere?", mi chiese, "No, grazie. Senta, ha più saputo notizie su suo marito? Ha scoperto qualcosa sulla sua morte?". Introdussi così freddamente l'argomento che la signora dovette prima sedersi per rispondere. Dopo un po' di riflessione: "No, solo quello che voi, coloro che si occupavano del caso, mi avevano detto. Che era stato ucciso, forse per sbaglio". "Come per sbaglio? Chi gliel'ha detto?", le rivolsi insospettita. "...No, è che...scusi ho una confusione grandissima. Forse l'ho inventato, come faccio spesso ultimamente". "Ma, come, cosa inventa?", le chiesi. "Non so, ho delle idee in testa di mio marito che credo le abbia fatte o dette lui, e invece con un po' di riflessione scopro che non sono vere. Tutto qua...". Tutto qua! Un corno! Era una cosa disastrosa. E se mi avesse comunicato notizie, apparentemente vere, ma che poi si sarebbero rivelate fallaci dopo due settimane? Mi sarei messa sicuramente nei guai, peggiori di quelli in cui già mi trovavo. Ormai ero lì, e dovevo fare qualche o, qualche domanda, sapendo però che le risposte potevano essere false. " Io ho il compito di scoprire l'assassino di suo marito". La signora mi guardò con aria piena di pietà, di comione. Come volesse fare chiara la mia brutta situazione (cosa voleva far intendermi, già la conoscevo la mia condizione!). “Capisco, sì però...Se le potessi essere utile, può farmi qualche domanda", mi disse cortesemente. "Certo, vorrei sapere, se lei conosce, i posti e le persone che frequentava suo marito. Ovviamente, se non le è possibile, non i nomi, ma era gente per bene, affidabile, oppure sospettava di qualcosa di nascosto?". "Beh, le devo dire che mio marito aveva l'abitudine di non immischiare il lavoro, gli affari, con la famiglia. Quindi tutte le persone che a volte venivano in casa, erano persone fidate, suoi amici. Anche amici miei. Non so con chi fe affari, soprattutto ultimamente che mi era sembrato più nervoso del solito. Non aveva invitato a casa più nessuno. Si era chiuso in se’. Io ero, infatti, molto preoccupata, ma lui mi tranquillizzava dicendo che si sentiva molto stanco. Riuscii, però, a capire che quello stato era per un suo affare andato non troppo

bene e che non riusciva a concludere. Lei si domanderà come faccio a sapere queste cose. Una donna che sta molto vicina al marito, riesce a capire qualcosa, sebbene lui tenti di nascondere tutto ciò che gli riguarda fuori della famiglia, fino a quando non chiese il divorzio". Ero intenta a seguirla, cercando di capire quale fatto fosse da lei inventato, ma fino a quel momento tutto sembrava essere reale. Continuai..."Senta, io sapevo che eravate divorziati da parecchio tempo". "No, no. Lui aveva chiesto il divorzio, così all'improvviso, circa un mese prima della sua morte. Questa sua decisione mi aveva sconvolto. Noi andavamo d'accordo. All'inizio lo ribattei, gli andai contro, cercando di farlo ragionare. Mi disse che era troppo importante questo o per entrambi, soprattutto per me. Una caratteristica caratteriale di mio marito era il fatto di non prendere decisioni affrettate o non ragionate: se aveva deciso così, significava che era l'unica cosa da fare...E poi avremmo potuto continuare a vederci. Avevo acconsentito, ma ultimamente a casa arrivavano telefonate strane, oppure, se rispondevo io, riattaccavano. Sulla porta di casa erano lasciati avvisi, lettere anonime. Spingevo mio marito a parlare con la polizia, ma non voleva ascoltarmi. Non mi sarei sognata di chiamarla io. Poi arriva ancora un'altra decisione, sua: avrebbe lasciato la città, si sarebbe fatto trasferire. La mia preoccupazione continuava ad aumentare...fino a quel giorno in cui mi telefonarono e mi dissero...che...mio marito era stato ucciso"...e scoppiò in un pianto singhiozzante e discontinuo. Non mi aveva detto niente di nuovo, ma almeno sapevo che il signor Socchisi era immischiato in un affare tanto brutto che gli fu fatale. Facevo domande alla signora per sapere almeno di che affare si trattava. Lei sosteneva che fosse un caso molto personale, diverso dagli altri, che faceva preoccupare il marito. Dietro c'era sicuramente una persona molto importante... Compresi che fosse alquanto più difficile di quanto pensavo. Chi era mai questa persona? E come sarei uscita a scovarne le mosse? Vedendo la signora molto nervosa ed esaurita, le dissi che era stata d’aiuto, e che sarei tornata se avessi avuto bisogno di altro o se avessi scoperto qualcosa sulla tragedia. A queste mie ultime parole non la vidi molto soddisfatta. Uscii da quella casa molto depressa, ma con il coraggio di continuare a cercare. Ripresi la strada per andare in ufficio. Erano le dodici. Il caldo solare mi picchiava la testa e scaldava i miei pensieri: "Come farò a scoprire di chi si

trattava? Non ho nessuna prova in mano e nessuno su cui avere prove!". Dovevo riuscire a scoprire con chi collaborava Socchisi. Perlomeno negli ultimi mesi. Perché pare che il suo affare, andava avanti da circa tre mesi. Tornai in ufficio e vidi il mio capo litigare con la macchinetta del caffè. Stavo rientrando nel mio studio, senza farmi vedere...quando a un tratto: "Hei! Dove sei andata? Ti stavo cercando". Mi girai come colta d'improvviso e gli chiesi: "Scusi?", facendo finta di non aver sentito e di essere completamente assorta nei miei pensieri. "Ti stavo cercando, ma non c'eri. A che ora sei uscita?! "Verso le nove e mezzo. Non le ho chiesto il permesso, visto che...". "No, non volevo dire questo. È solo che mi serviva da battere a macchina una lettera". "Mi scusi. Sono andata in giro. Sto cercando ancora prove su Socchisi". "Ah, sì, si", fece lui, dimostrando scarso interesse e dando retta al caffè che non voleva uscire. Poi continuò: " E hai scoperto qualcosa? Con chi hai parlato?". A quella domanda insistente non volli dirgli la verità o almeno lasciare qualche segreto professionale: " Sono andata a raccogliere notizie, ma poche cose". Il capo alzò le mani, come capendo che volevo riservare qualche mistero sul mio lavoro: "Vedi di andare avanti" e scomparve nel corridoio, dietro un ammasso di carte. Mi rifugiai dietro la scrivania e nelle mie idee. Misi la testa nelle mani e poggiai i gomiti sulla scrivania. Quando all'improvviso entrò il mio capo come al solito senza bussare. "Scusa, volevo dirti, se mi battevi a macchina questa lettera, è un documento. Ricopiala, per bene, a macchina, e poi fai due fotocopie. Quando hai finito, la firmo io. Mi raccomando mi serve oggi", e uscì, senza neanche darmi il tempo di dire qualcosa. Rimasi per pochi minuti ferma, immobile di fronte quella lettera. Avrei voluto stracciarla, cosa mi sarebbe capitato, ora o tra qualche mese avrei dovuto lasciare quel posto. Cercai nel mucchio qualche foglio bianco, decente. Disposi la macchina. Introdussi il foglio. Presi il foglio scritto di pugno dal mio capo e comincio a leggere la prima riga ma non riuscivo a leggere bene, la vista mi si appannava; guardai l'orologio: erano le due del pomeriggio, era ora di mangiare. Introdussi la lettera in una cartellina, e poi nel cassetto. Coprii la macchina da scrivere. Dovevo andare alla mensa, ma di immergermi in quella piena di lavoratori e pasta scotta non ne avevo voglia, quindi decisi di uscire per andare a comprare qualcosa che fosse sicuramente più commestibile del marciume datomi alla

mensa. Una volta vidi addirittura uscire dalla cucina una cuoca (o quasi) con un soprabito misero e sporco, un cappellino che le teneva i capelli, retto sopra con un paio di mollette che li prendevano a malapena. Davanti un grembiulaccio rosa, allacciato dietro alla rinfusa. Ai piedi scarpe bianche da infermiere, scarpe igieniche, ma più scarpe che igieniche. L'avevo vista in sala, con i camerieri. All'improvviso sentii lo stomaco rivoltarsi per tutta la sporcizia servitami da quella specie di quasi-cuoca e i suoi bracci destri. Anche la sua persona cambiava, come fanno alcuni animali con la pelle. D'inverno portava una gonnaccia di lana pura, lunga fino al ginocchio, che lasciava intravedere i gambaletti, sbrindellati il più delle volte. Al collo portava una sciarpa, che usava tirare anche fino alla bocca. A volte serviva per coprire quelle sue fuoriuscite di microbi febbrili. Talvolta usciva alla vista di tutti, con una sigaretta in bocca: non aveva la delicatezza (e meglio la voglia), fumava senza togliere mai la sigaretta dalla bocca, lasciando che la cenere le cadesse addosso, insudiciandole quel poco di vestito pulito che le rimaneva. Era un miracolo se nei piatti non si trovarono mai cicche! D'estate il suo vestiario si alleggeriva. Tolti scarpe e gonna di lana, le rimanevano solo un soprabito più leggero e un grembiule giallo. Il resto restava invariato: stesse scarpe, stesso cappello, stessi capelli. Di fronte all'ufficio, all'angolo, c'era una tavola calda, che aveva un'ottima fama. Sarei andata lì se...appena stavo uscendo dal portone, non mi sentii chiamare da quell'insopportabile signora Bolasky, che gridava: "Al telefono, al telefono!". Non so cosa provavo in quei momenti, ma non mi pareva il caso di gridare in mezzo alla strada. Senza farle il minimo cenno girai e mi diressi verso l'ufficio. Nel frattempo la signora era rientrata, sbrigandosi. Gli altri erano andati a pranzo. Nel corridoio non c'erano luci; sicuramente la signora Bolasky aveva staccato la luce per non andare a vedere in quale ufficio fosse accesa. Andai di corsa ad accendere l'interruttore generale: tutte le luci si accesero. In ufficio alzai la cornetta: era Alfonso, mi comunicava una buona notizia; quel signore, amico di Socchisi, poteva parlarmi. Sarei andata da lui con Alfonso la domenica successiva: "Gli ho detto che volevi fargli qualche domanda. Socchisi era un suo amico, quindi vedrà di aiutarti il più possibile". Era un sollievo. Qualcosa poteva muoversi. Attaccai il telefono con delicatezza: quella telefonata era importante.

Uscii richiudendo le luci. Non avevo più fame, la notizia mi aveva messo in agitazione. Uscii dall'ufficio e guardai al di fuori: era un via vai di gente. Camminavo verso la tavola calda; da mangiare non volevo niente, ma ormai mi ero messa in testa di andare alla tavola calda, e quindi ci andai. Il calore del forno mi accolse fin dall'entrata. All'interno lavoratori artigiani e meccanici si scambiavano esperienze e fallimenti. Cercai con lo sguardo un posto appartato, lontano da mani sporche di grasso e di calce. Unica donna in una mischia d’uomini che attendevano impazienti di ordinare.

IV

Ordinai parlando sottovoce alla cameriera, due supplì e un pezzo di pizza bianca; acqua. La mia era stata l’ordinazione più modesta considerando primi, secondi piatti e frutta degli altri. Aspettai e intanto avo il tempo guardandomi in giro e ricevendo qualche notizia di qua e di là. “Pare che ora si sia messo in affari con un altro e ha buttato il vecchio socio in preda alle banche. Cosa da non credere” diceva un metalmeccanico al suo interlocutore di fronte che, arrivata la sua ordinazione, si preparò a mangiare. “Sono due giorni che non mi paga. Vado lì, faccio il viaggio a vuoto, spendo soldi e tempo e lui cosa mi dice? Che non viene il ragazzo della calce. Ma dico, abbiamo voglia di scherzare? Un grande magazzino di edilizia che si affida alle presunzioni di un ragazzo che si dimentica di fare il proprio dovere!”, diceva un muratore al compagno alla sua destra che intanto tracannava una birra. Davanti a me c’era uno scenario di persone che vivevano la loro vita, talvolta appigliandosi a meri principi. E’ qualcosa d’inspiegabile. L’uomo ha avuto sempre bisogno di appigliarsi a qualcosa, seppure limitato, facile e inerme al suo confronto. E’ per questo che non mi sento di biasimare l’uomo ato, tanto criticato sebbene meno dell’uomo moderno. In ato c’era Giove per i Greci; Minerva per i Romani; la fine del mondo e la superstizione per l’uomo medievale; la carriera ecclesiale e il papato per il Cinquecento; la cultura per l’Ottocento; la guerra per il Ventesimo secolo. Tutti avevano qualcosa cui appigliarsi, un cui credere, e nessuno poté mai contrariarli e neanche noi abbiamo il diritto di farlo, nonostante non c’esentiamo da ciò. Oggi la partita o qualsiasi altro svago è qualcosa di fondamentale per l’uomo. Sempre ha cercato e sempre cercherà di svagarsi, di evadere da questo mondo, dal suo mondo.

“Ecco a lei”. Mi trovai davanti due supplì, mentre la mia mente dilagava in altre cose. Cominciai a mangiare il primo supplì. Al secondo bicchiere d’acqua mi venne in testa un pensiero: la lettera del mio capo. L’avevo letta in fretta, ma mi era balzata agli occhi una parola. Promozione. Si era proprio questa la parola. Ma chissà promozione di chi. Eppure la pratica era intestata a lui. Lasciai tutto così, pagai senza neanche prendere il resto. Corsi subito in ufficio. Era aperto. La signora Bolasky aveva lasciato aperto, ma dentro non c’era. Sicuramente c’era qualcun altro. La porta del mio ufficio era chiusa. Accesi la luce, aprii il cassetto e…il foglio non c’era. Guardai in altri posti; sotto la macchina da scrivere, ma non c’era. Qualcuno lo avevo preso. Eppure nessuno poteva entrare tranne…il mio capo. Mi recai al suo ufficio. Era lì. Che cosa fare entrare o no? Chiedergli se era stato lui a prendere il foglio? E se non era stato lui? Sicuramente mi avrebbe incolpato di non essere capace di svolgere il più stupido dei compiti…”Ah, sei tu. Entra stavo per venire da te”. “Senta lei…”. “Scusa? Ah, a proposito prima ho ripreso il foglio. Mi serviva di correggere una cosa. In ogni modo non ti preoccupare, la copierò io”. Rimasi senza parole, quasi senza fiato.

V

Perché aveva preso il foglio? Era entrato nel mio ufficio, lui che neanche si accostava alla porta d’ingresso. Aveva anche frugato nel mio cassetto. In fin dei conti gli era dovuto tutto, ma quel movimento mi aveva insospettito. Forse era vero che aveva sbagliato? Perché non me lo dava più? Il capo era stato sempre un tipo introverso e geloso dei propri affari. Mi meravigliavo del fatto che non avendo copiato la lettera, non mi aveva detto niente. Mi venivano in testa idee strane, ragionamenti, ma in questo momento ero troppo agitata e ogni piccola stupidaggine la ingrandivo a un grande problema. Ora non avevo niente da fare, mi aveva tolto anche quel possibile impiego. In questi momenti, nei quali la mente non è occupata a nessun pensiero, si cerca di occuparla anche con le più piccole cretinate. Mi rintanai nel mio ufficio. Aspettavo ancora, ripensando ad Alfonso e a quello che avrei potuto dire domenica. Intanto il mio telefono squillava molto spesso, ma, come il solito riattaccavano. Avevo sempre subito scherzi, ingenuamente, quasi volessi giustificarne gli autori. Erano ate altre due ore, senza che io avessi concluso la minima cosa. Nel frattempo, a distrarmi, entrava la signora Bolasky, che con la sua delicatezza, puliva i miei scaffali, mettendo quelle manacce in ogni dove e mischiando fogli e libri. Poi con la scopa veniva sotto la mia scrivania e senza dirmi niente cominciava ad alzare polvere e a darmi botte sui piedi. Con un piumino dava una botta alla grossa sulla scrivania e, senza neanche vuotare il cestino se ne andava sbattendo la porta, o addirittura, a volte lasciandola spalancata. Quando non avevo niente da fare, andavo da un mio collega vicino al mio ufficio: anche lui non era molto occupato ultimamente, quindi mi alzai e mi ci diressi. Era strano: aveva un cliente! Solo io ero rimasta senza nessuno, o almeno

qualcosa avevo: un mare d’impicci. Erano le sette. Mancava ancora alla chiusura, ma me ne andai prima, ignara (o meglio consapevole) di quello che non mi avrebbe detto il capo. Chiusi tutto, presi portafogli, chiavi e blocch…mancava il blocchetto! Era un guaio: quello era il blocchetto su cui avevo preso tutte le notizie sul caso Socchisi. …No! Avevo annotato anche la via della casa, dove sarei dovuta andare domenica! Questa non ci voleva. Mi venne il dubbio che poteva averlo preso la signora Bolasky: parecchie cose sparivano quando c’era lei nei paraggi: matite, gomme, penne…ma questo era molto più importante. Uscii a cercarla, lasciandole pure il libretto, ma doveva assolutamente darmi i fogli su cui avevo scritto. Girai tutti gli sgabuzzini, persino i nascondigli dove a volte la vedevo mangiare di nascosto...ma non c’era. Stavo ritornando nel mio ufficio quando la vidi uscire dalla stanza del capo. Andai lì e con parole sbrigative le chiesi: “ Che cosa ha preso da me?”. Lei vedendomi girò le spalle e continuò a camminare. Cercai allora di calmarmi e domandarle se aveva preso qualcosa. “Senta, signora, non vorrei…non per niente…ma ha visto per caso un blocchetto prima sulla scrivania? Era alto foderato, con una copertina carina…”. “No, ma davvero era così? La prossima volta guarderò meglio” e se ne andò canterellando ad alta voce una canzone sconosciuta. Rimasi impalata lì, in mezzo al corridoio. Cominciai a dirigermi verso l’ufficio per andare dal mio collega, il blocchetto era sulla scrivania, e a quell’ora la signora Bolasky era già venuta da me. Ero sicura che dopo non fosse rientrata, poiché la signora quando usciva da un ufficio non ci rimetteva più piede per paura di dover sistemare qualcosa. Allora chi aveva preso il libretto? Sicuramente la signora Bolasky, sempre vigile a ogni cosa, aveva notato qualcuno entrare. Andai a rintracciare la signora. La trovai in preda a sciacquare uno straccio, con almeno due centimetri d’acqua che le inondava le scarpe. “Scusi, prima sono stata un po’ impulsiva, ma non trovo più un libretto, ed era molto importante per me. Volevo, chiederle, gentilmente…”. “ Cosa? Senti, sono molto indaffarata. Che cosa volevi?”. Mi dava un enorme fastidio. Era un tipo insopportabile. Faceva finta di niente, come se non sapesse che volevo che la sua lingua biforcuta dicesse qualcosa. “ Senta, volevo sapere se…aveva visto qualcuno entrare nel mio ufficio, prima”.

“ Cosa? Non ti capisco”, continuava a ripetermi. “Beh, sì se lei…” “Io cosa?” “se aveva notato qualcuno, prima nel mio ufficio che entrava, per…per…per favore!”, alla fine pronunciai questa parola e come per magia: “ Sì, mi pare, era…Daletti, …si” “Ah”, e corsi, ma subito mi fermò: “ Oppure Strachi!”. Brutta vecchia capricciosa! Aveva aggiunto un altro sospettabile. Dovevo stare a quello che mi disse la signora Bolasky, quindi mi recai da Daletti, ma non c’era. M’informai e seppi che Daletti era uscito questa mattina. Un sospettato era uscito dalla storia. Non mancava che chiedere a Strachi. Andai nel suo ufficio. Si trovava con un cliente: un uomo alto e distinto, vestito di classe e con aria superiore. Era un uomo che già avevo visto circolare nei nostri uffici. Di solito parlava con Saroto, ma ultimamente l’avevo visto sempre con Strachi. Mi sembrava scortese entrare, quindi rimasi ad aspettare fuori. Vicino alla porta di Strachi c’era quella di Costo, un altro mio collega. Uscì con aria stanca e decisa e mi chiamò sottovoce: “Psst…Entra un attimo”. Incuriosita, entrai senza fare un cenno e senza chiedere il perché. Mi fece entrare, chiuse la porta, guardò fuori e chiuse la tendina. Lo guardai stupita e lui mi chiese di sedermi e di ascoltarlo. “Sai, succedono fatti strani ultimamente in questo reparto” mi disse in confidenza. “Io non sono per niente tranquillo”. “Che tipo di fatti, scusa?” gli chiesi volendolo far parlare, avendo visto in lui della preoccupazione. “Non so, la luce va sempre via, scompaiono cose, telefonate senza un mittente…”. “Sai anche a me è capitato ultimamente. In ogni caso per queste cose c’è una soluzione chiara e decisa. Non andare a finire chissà dove. La sbadataggine della signora Bolasky a volte stacca la luce dell’interruttore; inoltre è nota per l’acutezza che ha nel prendere le cose degli altri; e per le telefonate sai chi è”, indicando con il pollice della mano destra di fuori, “ purtroppo si divertono così, che ci vuoi fare”. “Eppure io ti dico che c’è qualche brutta faccenda in giro. In questi tempi gira gente nuova per gli uffici. Hanno un’aria che non mi piace”. Il povero Costo sembrava veramente impaurito. Questo meno che ai fatti strani dell’ufficio, come diceva lui, era dovuto alla massima apprensione e sfiducia che egli aveva prima con se stesso e poi con gli altri. Buttando l’occhio fuori la porta, vidi che l’ufficio di Strachi era vuoto. Salutai alla svelta Costo, che neanche mi guardò uscire e mi gettai nell’ufficio dove seduto con le spalle rivolte verso la porta e con aria attenta oltre la finestra, vidi Strachi. “ E’ perm…” “ via, via, lascia are!”. Di colpo venne il capo che

scrollando tutti con una botta di giornale, si fece largo ed entrò nell’ufficio, chiudendosi la porta alle spalle, e abbassando le tendine. Che insolente era stato. Non aveva neanche notato che ero lì per parlare con Strachi. Non potevo fare e dire niente: era il capo. Lo so è un comportamento da vigliacchi, ma questa era la mia condizione. L’importante era quello che avevo dentro io. Aspettai qualche minuto, ma poi me ne tornai nel mio ufficio, convinta dell’impossibilità di parlare con Strachi. Entrata nel mio ufficio notai una cosa: il mio blocchetto era stato nuovamente spostato. Qualcuno lo aveva dovuto pur toccare. Ma chi! E perché! Mille domande mi balzarono in testa. L’unica cosa che riuscii a fare fu quella di andare a guardare il foglio dove avevo scritto il luogo di domenica; era intatto. Presi il blocchetto e lo infilai nella borsa. Presi chiavi e chiusi tutto. Dovevo andare a casa per chiarire la situazione; intanto ripensavo alle preoccupazioni di Costo…”brutta faccenda”… ai davanti all’ufficio di Strachi, ma era vuoto. Uscendo dal portone incontrai la signora Bolasky, che guardandomi fissa negli occhi sapienti e furbi, rientrò velocemente. Sembrava che tutto avesse preso una piega brutta, strana e pericolosa. Presi la strada di casa.

VI

Arrivata al cancello, vidi la mia cassetta delle poste sovrastata da avvisi di pagamento, sollecitazioni, bollette da pagare. Ero rimasta indietro con i pagamenti, un po’ per soldi, ma non ne avevo tutta questa necessità. In ogni modo pensai che il giorno dopo avrei pagato. Erano le diciannove, e la giornata, come di consueto, era più che mai stata devastante (pur non avendo mosso un dito). Costo, la signora Bolasky, le telefonate, le bollette, dovevo riprendermi. Avevo fame. Andai diretta verso la cucina a pensare e cercare dove avessi messo qualcosa da mangiare. Nel frigorifero c’era solo qualche frutto disperso qua e là, un cartone di latte da un litro ma con dentro solo qualche residuo, del formaggio, una scatoletta che non osavo neanche aprire e qualche bottiglia d’acqua. Presi nella busta attaccata a una sedia un pezzo di pane, tirai fuori il formaggio e presi una bottiglia d’acqua. Poi la frutta. Mi sedetti sul tavolo della sala da pranzo e, sommariamente apparecchiato, accesi la televisione e cominciai la cena. Guardavo lo schermo non tanto per i programmi che c’erano, quanto per rallentare i miei bocconi. Finito, mi decisi a seguire più attentamente ciò che mi scorreva davanti agli occhi. I tanti argomenti che mi fluttuavano per la testa erano solo un pretesto per evadere da quelle che erano le mie maggiori preoccupazioni. Questo mio lavoro stava diventando veramente un guaio. Non sapevo dove concentrare la mia mente e i miei occhi.

Cominciai a pensare ad Alfonso e a quello che avrebbe deciso quell’incontro della mia condizione. Quello che stava succedendo però non rientrava più nella monotonia della vita quotidiana. Ero decisa, comunque, ad andare avanti. Stanca avevo spento la televisione ed ero andata a letto, con la pancia non del tutto piena. Sentii un rumore al di fuori, mi alzai: erano alcuni lavoratori comunali che rompevano l’anima. Guardai la sveglia: erano le sette. Avevo dormito sette ore di fila e non me ne capacitavo. Di brutti sogni non me ne ricordavo: doveva essere stata una nottata tranquilla. Pronta, uscii da casa per recarmi in ufficio, ma quella mattina avevo meno voglia del solito. Forse per tutto quello che era successo il giorno precedente. E poi dovevo prepararmi delle domande per il giorno dopo, cosa dire al conoscente di Alfonso. Entrai nel palazzo e mi diressi nel mio ufficio, non curante delle persone che incontravo. Mi accomodai sulla mia scrivania e, con la speranza che nessuno mi avrebbe disturbato, presi il mio blocchetto e cominciai a buttare giù qualche domanda. Era però giusto scrivere il mio discorso: o forse sarebbe stato meglio affrontare la cosa con naturalezza e spontaneamente? Decisi comunque di scrivere quelle più importanti, quando alla porta si presentò il mio capo, che esclamò: “Già a lavoro di prima mattina! Bene. Che cosa fai?”. Tirai via il foglio per terra senza farglielo notare e risposi che annotavo qualcosa nell’attesa di una nuova pratica. “Bene, bene. Comunque c’è una pratica da preparare, ma è una diversa: una di licenziamento”. Lì mi si gelò il sangue. La penna rimaneva stretta tra le dita della mano e i miei occhi erano fissi nei suoi. Poi continuò: Costo ha chiesto di essere licenziato. Meglio, un impiegato del genere, senza un briciolo di coraggio…” e mi lasciò. Devo confessare che alla notizia che era Costo il protagonista della pratica, mi ero risollevata, ma solo per un momento, infatti, rimasi male e non riuscivo a capirne il perché. Cosa c’entrava poi il coraggio… Raccolsi il foglio con le domande e me lo misi in tasca. Scappai subito da Costo.

Lo trovai che faceva ordine nel suo ufficio ed esordii dicendo: “Che faccenda è questa?” e lui prontamente come se già sapeva che fossi lì; “una brutta faccenda, strana…”. “ Che dici?”. “ Che dico? Dico che me ne vado. Dico che io qui non ci rimango. La mia anima è stanca, e fino a ora è stata troppo provata. Ho paura”. “Puoi almeno spiegarti meglio?”. “ E’ difficile, non ci si riesce”. Costo era veramente impaurito, ma non riuscivo a tirar fuori niente da lui e nessuno ci riuscì mai. Me n’ero tornata nel mio ufficio; la faccenda di Costo mi aveva incuriosito e impressionato: solo più tardi capii. Dovevo essere io, quindi, a preparare quella lettera di licenziamento? Eseguii il compito affidatomi. Portata la lettera, il capo mi liquidò con un cenno veloce della mano, cosa che in me provocava un fastidio tremendo e un totale disprezzo. Sapevo che non avevo niente da fare, ma aspettai lo stesso la fine del lavoro. Alle sette cominciai a prepararmi, notando che tutti gli altri uffici erano vuoti da un pezzo. Tutto taceva, solo un rumore di secchi si sentiva in lontananza: era la signora Bolasky. Fuori tirava un leggero vento che inondava il mio corpo e faceva sì che la maggior parte dei pensieri che allora erano apparsi nella mente, sfuggivano senza lasciare la minima traccia. I negozi erano aperti ma, intorno, una completa desolazione li faceva sembrare chiusi. La profonda tristezza nei negozi contrastava con la vivacità del vai e vieni della gente al di fuori. Come al solito l’autobus portò ritardo. Arrivata a casa, mi scosse una strana sensazione: sentii vicino a me una live aria; mi girai, ma il silenzio accolse i miei occhi. Entrai. La mattina seguente avrei avuto quell’importante incontro.

Con Alfonso avevo appuntamento alla Piazza Casari. Poi saremmo andati con la sua macchina. Per strada avevo comprato un pezzo di pizza a taglio, che ora mi accingevo a mangiare. Intanto la mia testa era altrove, a pensare cosa avrei detto l’indomani. Dopo circa mezz’ora sentii suonare; era il signor Dari, che insolitamente, aveva deciso di venire a farmi perdere un po’ del suo tempo. “ Ah, signor Dari; esco subito”. M’infilai una vestaglia invernale, non badando alla temperatura al di fuori. “Mi scusi se la disturbo, ma le volevo chiedere se aveva visto qualcuno nel mio giardino circa un’ora fa. Sa ho sentito un rumore ed ho trovato alcuni attrezzi spostati”. “No, non mi pare. Io sono entrata da circa mezz’ora e non ho sentito nessun rumore”. “Sarà, ma è strano. Comunque vuole un consiglio: stia molto attenta. Buonasera” e sparì nella foschia serale, verso casa sua. Ogni volta mi pareva un tipo sempre più strano: ma perché mai dire quelle cose a me, che tra l’altro abitavo molto più lontano da lui che non la signora Bisini. Invece lo aveva chiesto proprio a me. Rimasi per un po’ sconcertata; non tanto per ciò che mi aveva chiesto, quanto per la sua comparsa e la successiva rapida scomparsa. Rientrai nel giardino. Guardai la sua casa, immersa nel buio e con il suo cane che si sgolava e che a tratti, insulso, smetteva. E poi se ci fosse stato effettivamente qualcuno, il cane non avrebbe abbagliato? Guardai il mio giardino. Mi misi a dormire, anche perché l’indomani mi sarei dovuta alzare presto. Come il solito, il sonno tardò ad arrivare. Nel letto riflettevo al mio caso, al signor Socchisi, a sua moglie, al mio capo, a Costo, al signor Dari, alla signora Bolasky. Infine pensai ad Alfonso, e al suo amico: mi avrebbe detto la verità? Avrebbe inventato qualcosa? Mi ponevo mille domande, ma ormai non c’era più tempo: dovevo affrontare la situazione, poi, credere o meno alle sue parole. Le palpebre si abbassarono.

VII

Erano le sette. Alle otto e trenta dovevo essere all’appuntamento con Alfonso. Presi tutto: ma ero molto emozionata, forse perché credevo o sentivo che quell’incontro sarebbe stato molto importante. La giornata non era delle migliori, il cielo emanava una luce opaca. Cominciai a dirigermi al luogo dell’appuntamento, con borsa in spalla e una felpa che mi copriva le spalle. Fuori dal mio cancello vidi, in lontananza, la signora Botani, sorella della signora Bisini, che faceva circolare il suo cane a ridosso dei muri di recinzione delle case. Ovviamente il suo abbigliamento era quello che teneva la sera precedente prima di mettersi a letto. Sembrava quasi che il cane, liberato dal guinzaglio e da quegli odiosi abitini cui era costretto a sottoporsi ogni qualvolta la signora Botani lo portava in giro, volesse cercare una via d’uscita, un rimedio a quella vita da uomini. Erano le nove e trenta e ancora Alfonso non veniva. Attendevo cercando di distrarmi, almeno fisicamente, dai miei pensieri. Mi guardavo intorno cercando di inquadrare qualcuno che occue il mio sguardo. Non riuscii a trovare niente, in modo da soffermarmi a osservare una coppia di uccellini che giocavano in una pozzanghera scintillando gocce di acqua a vicenda, sotto la cornice di una giornata uggiosa. A volte ava una persona a rovinare quello splendido quadro, così da far volare momentaneamente gli uccellini. Vicino a loro c’era un albero, vecchio ma grande. Su di esso si ponevano, soprattutto d’estate, degli insetti, fastidiosi per molto e creature per pochi. Su con i suoi rami, guardava il mondo circostante dall’alto. Era costretto a sostenere un’enorme tensione. A un certo punto sentii un segnale acustico: era Alfonso che mi faceva cenno con

la mano fuori del finestrino. “ Ciao Alfonso, possiamo andare?”. “Sì, certo… scusa il ritardo. C’è un po’ di strada da fare, ma ci vorrà circa un’ora. Dunque partiamo subito”. Devo dire che provavo un certo imbarazzo nei primi venti minuti. Questo anche perché lui era assorto nella guida. Poco dopo l’aria si fece più amichevole. Cominciai a fare domande, sperando in lui delle risposte che andassero oltre i cenni della testa e voce mozzata. Gli chiesi cosa stava facendo ultimamente e quale progetto avrebbe per il futuro. Le sue risposte lasciavano a desiderare sull’apprezzamento dell’argomento delle mie domande. “ Non c’è niente da fare, il futuro è il futuro. Quello che avverrà non sono sicuramente io che lo decido. Mi attengo alle regole destinali, potendo non fare altro che questo”. In questi momenti si faceva abbindolare dai suoi ragionamenti che sempre più spaziavano nell’assurdo: “Cosa fare se non il destino? Se decido di non fare niente perché tutto è stabilito, anche questo niente era stabilito. Cosicché non rimane che la completa dissoluzione di anima e corpo, cosa che a sua volta è stata definita”. A un certo punto si fermò, non trovando neanche lui una via d’uscita. Fermò la macchina: eravamo arrivati. L’ambiente che mi accolse era il tipico paesaggio di campagna, isolato, con una casa ogni cento metri. La casa era dell’amico di Alfonso, una casa grande che stava ancora ai prototipi di una casa lussuosa. L’amico di Alfonso la stava finendo. Lo trovammo al lavoro: un uomo grande di età, sulla cinquantina, con aria importante e con due braccia corte e le mani imbiancate dalla calce. Era arrampicato su una scala e si accingeva a misurare la larghezza della finestra. Svoltò di mezzo giro la sua testa e appena comparve Alfonso, lasciò il suo compito e con piede spericolato scese di corsa dalla scala. Con la faccia imbiancata e i capelli grigi resi marmorei dal calcinaccio, saluto affettuosamente Alfonso. Sui vestiti e sulle mani di Alfonso apparvero aloni e impronti bianchi. L’uomo cercò di provvedere nel miglior modo possibile,

peggiorando però solo la situazione. Alfonso mi presentò; il suo nome era Tafanini Giovanni. Appariva un uomo rudimentale alla mano, ma molto attaccato al suo lavoro e soprattutto ai suoi averi. Alfonso gli aveva parlato di me e di quello che ero andata a fare lì, ma il Tafanini non apparve molto incline a un imminente colloquio e cercò di sviare spingendo Alfonso a entrare nella casa. Io li seguivo dietro, notando l’aria cupa di una casa appena in costruzione. Alfonso lo doveva aiutare nell’atrio. Come datore di lavoro non era molto generoso, ma la sua avarizia era compensata dalla sua vanità e dal suo fanatismo che faceva sentire accolto ogni suo ospite. Per lungo tempo parlarono di cose loro; poi arono al bicchierino, poi a parlare di lavoro. Dopo poco Tafanini si alzò, facendomi sperare a una svolta, ma, come se io non ci fossi e la mia causa fosse nulla, si diresse con Alfonso fuori la casa. Al di fuori c’erano attrezzature e apparecchiature accantonate da una parte: sempre mi avevano affascinato queste cose. Forse perché da bambina avevo assistito a scene come questa. Amavo, la mattina presto destarmi per il rumore della molazza; uscire, infreddolirmi fino a battere i denti e poi rintanarmi nel calduccio delle coperte. Mi riaddormentavo con il rumore del lavoro in corsa che, arrivandomi agli orecchi, mi occupava la mente. Mi addormentavo soddisfatta al pensiero di sapere gli altri a lavoro e io a dormire. Ora mi trovavo in un ambiente che osservavo con curiosità ma con una differenza notevole: i miei occhi non guardavano bambini, ma vedevano dietro a quegli attrezzi, una serie di difficoltà, di rinunce, tribolamenti, degni del nobile animo di un uomo. Alfonso e il signor Tafanini uscirono finalmente, con una serenità e una cordialità non indifferenti. “ Mi scusi, ma era tempo che dovevo spendere in questo modo”. “ Non si preoccupi…”. Poi Alfonso, vedendo la situazione aggiunse: “iamo

ai fatti ora. Se ci accomodiamo, avrai modo di trattare il tuo problema”. “Certo certo, se volete entrare, io intanto, chiudo la porta del magazzino”. Alfonso si sedette accanto a me con lo sguardo rivolto verso i muri. Avevo un’ansia e un’agitazione che si prendevano gioco di me. Degli spari! Accorremmo con Alfonso all’uscita: il signor Tafanini giaceva steso a terra. Alfonso e io ci guardammo senza fiatare, ma qualcosa da dire c’era. Cos’era accaduto? Una grande confusione mi entrò nella testa, le gambe quasi non mi reggevano. Non sapevamo che fare. Subito accorremmo vicino al corpo. Chi poteva essere stato? Alfonso e io cominciammo ad avere paura: se fosse stato ucciso per il mio problema, allora deve esserci stato sotto qualcosa di molto importante che ora non potevamo capire. Chiamammo la polizia, e ci figuravamo già le mille domande che avremmo subìto. La polizia arrivò dopo non molto; nell’attesa Alfonso e io rimanemmo nell’atrio, quasi avessimo timore che entrando nella casa qualcosa sarebbe successa anche a noi. Perché? Che clamorosa domanda. “Se hai qualcosa da dire, parla subito” dissi ad Alfonso, “ è il momento di tirare fuori parole”. “ Ma quali parole! Non so niente, non potevo sospettare niente. Che cosa possa essere accaduto…prima…non lo so”. La tensione si faceva sempre più fitta. “Non ti aveva parlato di niente? Lo vedevi così tranquillo?”. “ No, poi è tanto che non lo sentivo, ci siamo risentiti proprio per la tua questione”. “ Non dirmi che questa faccenda dell’omicidio c’entra qualcosa…” “ non lo so, chi può dirlo…” Fummo intrappolati dalle inquisizioni poliziesche, all’arrivo delle volanti, per circa tre ore. Era una situazione accaduta così in fretta e all’improvviso che non ci rendevamo neanche conto di coloro che ci stavano parlando davanti. Chissà cosa ci stava frullando per la testa in quel momento ad Alfonso e me. Non è sicuro che Alfonso fosse agitato, sembrava sereno, almeno non quanto me. In quell’istante ogni preoccupazione diversa da quella corrente non contava più. Tutte le mie forze psicofisiche erano incanalate a reggere un

equilibrio di fronte a quel muro… “ Siete sicuri di non aver sentito niente poco prima che accadesse l’omicidio? Non so, una macchina, un rumore, dei i…”. “ No, forse il cervello era talmente immerso nel consueto e nel previsto…”, fece Alfonso a un agente di polizia che tentava di ricavare qualcosa utile alla faccenda. “ E’ impossibile che non abbiate avvertito un’altra presenza oltre a voi e al morto… Cercate di ricordare…”. Sembrava quasi che per il bene delle indagini noi avremmo dovuto ricordare obbligatoriamente qualcosa…Chissà forse con la confusione del momento e la voglia di finire si potrebbero inventare alcuni dettagli. Invece, sebbene ci trovassimo in quella situazione, a noi non balenò l’idea di agire in quel modo. “ Glielo ripetiamo, noi non abbiamo sentito niente prima”. Era poi vero? Veramente non avevamo sentito nessun rumore? Questo dubbio non pervenne in quel momento, ma alcuni giorni dopo. “ Tenente, non abbiamo trovato niente a parte il bozzolo della pallottola sparata”. Un colpo secco al petto e l’uomo era decaduto in una terra bruna, resa rossastra dalla sua linfa vitale. Dopo essere stati lì, per qualche tempo, ci accompagnarono al commissariato più vicino per tentare ancora i nostri nervi. Ci portarono in una sala isolata e ci dissero di attendere. Fu finalmente il momento in cui Alfonso e io incrociammo i nostri sguardi e i nostri pensieri. “ Com’è stato possibile! Io ancora non credo a tutto questo…” lanciai ad Alfonso che guardava le mura spoglie della stanza. “E’ successo…, non mi spiego però come”; la faccenda a volte faceva rimanere perplessi. “Ora ci perseguiteranno fino a che non avranno qualcosa sotto mano”. “Aspettiamo e sentiamo cosa ci dicono”.

Il tempo scorreva a volte velocemente, a volte lentamente, a seconda che il cervello ne avesse voglia. Intanto cominciava a farsi sentire la stanchezza e aumentava ancora di più all’idea che avrei dovuto subire ancora altro tempo che scorreva. “Stiamo cercando di fare il possibile, ma penso che non ci sarà problema se ve ne andiate; l’importante è che rimaniate disponibili per qualsiasi evenienza”. A volte le cose sono strane. Ti colpiscono, cerchi di capirle tutte, le situazioni ma ti sfuggono dal controllo della ragione, chissà cosa faresti per vivere quel piccolo mondo fantastico. Sai comunque che se una cosa non deve andare, non va. Allora cerchi di reagire, ti corazzi, ma la migliore cosa è l’accettazione di quella situazione che ti si porge davanti e non sai come incontrarla: accettala, vivila come tua, è tua. Non puoi cambiarla. La migliore vittoria è vivere una situazione che ti sta stretta, che non accetti al massimo, come tutto. Cerca di capire, cosa voglio dire, non reagire, vivi. Se è dovuto accadere, significa che le cose dovevano andare così. Non chiedere se fosse stato meglio o no, bene o male: vivi. Non lo so a volte come fare a uscire da una situazione che si è venuta a creare. In effetti, la soluzione c’è; se si è fatti in determinati modi e ci si crede fino in fondo, è difficile metterli da parte per vivere in tutt’altro modo. Non si può vivere come gli altri. Ora sembrava scoccare la fatale ora, dopo della quale niente ci si poteva aspettare e tutto si stava perdendo. Invece non credo che le cose siano così; penso proprio che tutto fosse venuto per dare una sistemata apparente alle cose messe in subbuglio dall’Esistenza. Era così, non ci si poteva fare molto, per non dire niente. Forse qualche pensiero utopico avrebbe indicato una via d'uscita. Avevo sempre qualcosa che non ero riuscita a portare a termine, e forse questa sentivo essere la mia condanna eterna. La temperatura a volte saliva, ma questo era tutto un fattore naturale per le escandescenze provate.

Non sapevo che ormai le possibilità che mi erano rimaste erano ben poche, ma forse me ne rendevo troppo conto. E poi non sapevo con che continuare a fingere la grande falsa. Quella di tutti, tutti i giorni, sebbene io stessa non fossi troppo convinta d’essere attrice di una parte. Ebbene non si sapeva che fare? Continuare mi sembrava la cosa migliore, sebbene tutto fosse profondamente cambiato. Andare avanti fino a non so quale cosa… Intanto nei momenti in cui non avevo da pensare a qualcosa di più importante, il mio pensiero s’incentrava sul caso che avevo lasciato sospeso. Ultimamente non ero stata per niente attenta a nessun minimo movimento che potesse destare in me qualche sorta di sospetto, o farmi intravedere uno spiraglio di luce, anche se di luce poi ne era rimasta probabilmente ben poca. Volevo sapere cosa fare ma nessuno era in grado di darmi una risposta. Dovetti chiedere allora a me stessa ma neanche l’ombra di una possibile luce. Cosa ti potevo fare? Non sapevo come agire. Dovevo cercare di rimediare a quello fatto. Però non era stata completamente colpa mia. Sapevo di avere perso ma non c’era modo di rimettere in gioco le carte. Così era capitato e così dovevo accettarlo. Proprio io che dicevo che tutto quello che serviva per una vita felice era l’accettazione di ciò che ci capitava. Certe volte non si sa che fare. Io da sola, senza che nessuno poteva dire o fare qualcosa per aiutarmi. Come stavo male. Fisicamente. Il dolore nasce dall’anima poi si trasmette a tutto il corpo. Il dolore fisico se non lascia piaghe morali gravi può anche essere dimenticato, ma quello che fa male al cuore, quello che non ti fa dormire la notte, quello che ti fa credere persa per tutta la vita, quello no che non lo dimentichi. Non ero sola, c’era Alfonso accanto a me, ma non sei mai in compagnia quando ti senti da sola. Ed è questa la mia sensazione. Almeno da qualche tempo. Non si capiva. Com’era potuto succedere? So che messi di fronte a una dura realtà è difficile sapersi districare, ma dovevamo saperlo fare. Erano in gioco le nostre vite. La mia vita. Anche se ormai ero tranquilla di essermela persa. Ci lasciarono soli tra di noi. Con i nostri pensieri e le nostre titubanze. Diceva che sarebbe stato bello rimanere all’aria aperta a guardare il cielo senza avere problemi in testa. Ma non capiva che la mente umana non era nata per non avere pensieri e problemi. Non avere un orizzonte, avere perso quel poco che si ha: la più grande disgrazia.

Con Alfonso non sapevamo ormai più cosa fare. Aspettavamo che gli eventi ci piombassero addosso senza essere in grado di riuscire a fare niente. E probabilmente sarebbero stati eventi molto importanti. Si sentì aprire la porta con la chiave, e ci svegliammo dal nostro timoroso e sospeso tepore. “Buongiorno” disse una guardia guardandoci negli occhi, come se avesse lo scettro del potere in mano e non contando che forse nel nostro animo potevamo più cose di lui. Eravamo di fronte a una barca che stava per affondare e non sapevamo come potere rimediare alla tanta acqua che era entrata. “ Come dicono voi non avete niente da aggiungere”, diceva con aria dimessa e quasi prepotente, come se sapesse che non potevamo aggiungere niente. Nulla, nulla che fosse a nostro favore. Mi ricordai allora di parole dettemi da una persona che mi lasciarono dentro una grande esperienza di vita: com’è venuto, se ne rivà non puoi fare niente per accelerare degli eventi che non possono essere accelerati. Speravo quindi che quella cosa sparisse all’improvviso come all’improvviso e stranamente era apparsa…ma sapevo che non era così. Essere in un vortice che ti fa girare velocemente senza che puoi fermarti un attimo per agire: è la tua vita. Non puoi avere il tempo per ragionare, puoi solo avere quello per spenderlo e arlo. Alfonso era agitato ma non faceva trapelare niente del suo stato. Eppure io sapevo che era agitato. Mi guardava con occhi lontano come se non si stesse preoccupando di quello che stava capitando. A volte abbassava lo sguardo rivolgendolo sulle suole delle scarpe, come fossero state queste le uniche a meritarsi un’attenzione provvisoria. Poi lo rialzava guardando chi ci stava di fronte, con la faccia di chi sta per capire, ma è consapevole di non essere in grado di raccogliere la verità. Di fronte queste scene non sapevo neanche io cosa pensare. Il mio pensiero era tutto imperniato in un punto e doveva riuscire ad andarsene prima che fosse stato troppo tardi. Rimanevamo fermi ad aspettare che qualcuno ci dicesse qualcosa, magari

proprio chi ci stava di fronte. “Cerchiamo allora di capire meglio di come sono andate le cose. Io lo dico per voi ragazzi”. Come se poi a lui importasse qualcosa. Era diventato il padre buono del momento che ci dava consigli su come agire e su cosa sarebbe stato meglio per noi. Penso sia degradante comportarsi in un modo che non esprime quello che veramente siamo, quello che ci sentiamo di essere. A patto che abbiamo quei sentimenti. Poi se non si hanno… Cosa altro ci doveva dire, quali altre fesserie dovevamo ancora sopportare da lui? Quanto ancora poteva durare? Il guaio è che il mio animo forse era riuscito a saperlo, ma il mio cuore no. Fa male sentirsi dire cose che non vorresti sentirti dire, ma solo perché sei tu. Non credi che quello che hai sentito tu, possa non averlo avvertito lui. Allora vai avanti lasciandoti agli eventi e avendo già perso molto. Non t’interessi di quello che ancora potrebbe capitarti. Anche di peggio di ciò che hai ato. Da alcune mie argomentazioni il lettore potrebbe essere annoiato o stufo, oppure, nel peggiore dei casi, ancora non potrebbe capirmi. Allora non potrebbe dire di conoscermi. Non si può comprendere un animo, in qualsiasi stato esso sia. Non l’ho mai preteso. Ho solo avuto sempre la grande presunzione di volere accettare le cose per quello che sono, senza volerle cambiare come non possono essere se non per loro natura. Cose che penso, ma che purtroppo il mio cuore a volte si ostina a non volere attuare. Sarebbe arrivato un giorno.

VIII

Nella vita di tutti i giorni non si pensa ad altro che a vivere. Ma se questa vita riesce a cogliere quasi il significato delle cose, allora tutto cambia. Tutto è visto in un’altra ottica. Non so se migliore. Questo dipende da ognuno di noi. In quel giorno non riuscivo a vedere altro che la nostra vita messa nei guai, ma per qualcuno non era così: Alfonso continuava a essere agitato, almeno non più di tanto. Continuava a guardare i particolari insignificanti e a dargli tanto peso. E’ questa una cosa che io e lui abbiamo in comune: l’attenzione che diamo ai piccoli particolare; sono loro che fanno il tutto e devono avere la prima attenzione. Venne a parlarci una seconda persona non meno interessata e interessante della prima. Tutti sostenevano che noi dovevamo sapere qualcosa e chissà per quale inventato motivo da parte loro non volevamo rivelarla. Come si fa a essere sicuri di qualcosa che è umano. Tutto ciò che vi è di umano, non è sicuro. Tutti siamo soggetti al vorticoso girare del tempo e per mano di chissà quale forza inconciliabile. La seconda faccia che ci trovammo di fronte non ci rivolgeva neanche lo sguardo quando ci parlava. “ Bene, bene se per voi le cose sono così, allora mi congedo subito da voi. Non dite poi che io non volevo svolgere il mio lavoro”. E come? Costringendoci a dire cose che neanche sapevamo se le avessimo fatte! A volte che situazioni insopportabili che si presentano! Ma l’animo più grande e più nobile le accetta, le affronta e le sostiene, di conseguenza vive. Ci lasciarono ancora una volta soli. Io trovai il coraggio di dire ad Alfonso: “ Ma ti stai rendendo conto della situazione che ci si è creata intorno?”. Lui senza neanche elaborare frasi articolate mi rispose: “ Hai una soluzione, una mossa vincente che possiamo fare ora per uscire da dove siamo o ci hanno fatto entrare? Dimmi una cosa che sia più loquace del silenzio e più efficiente dello stare a guardare”. Ovviamente non gli dissi nulla. Non potevo parlare di fronte a questa realtà (almeno per noi).

Oltre a questi pensieri che mi tormentavano le cervella, ne apparse un altro più angosciante: il mio posto di lavoro. Quando sarebbero venuti a sapere del fatto, come mi sarei comportata? Mi vedevo di fronte al mio capo e ai miei colleghi senza dire una parola, senza possibilità di ribellione. Perché è così che ci si sente a volte. Si percepisce questa strana sensazione perché ci si crede di poter cambiare le carte in tavola quando e soprattutto come si vuole. Non sappiamo che l’impossibilità d’uscita è connaturata alla nostra natura. Non sapevo come fare. Potevo sprecare la mia unica telefonata per informare il mio capo, quando da ciò non avrei tratto niente al di fuori del niente? Ma ancora: chi chiamare? Avrei perso sicuramente il lavoro, se così potevo ancora continuare a chiamarlo. Non sarei più potuto stare nella mia casa, non avrei più potuto. Ritornarono a vederci. Con loro questa volta portarono qualcuno che già dall’aria non prometteva niente di buono. Dopo ci rivelarono che era uno psicologo. Ho sempre avuto una grande attrattiva per questo genere di persone, non legate a loro personalmente, quanto a quello che studiavano. È sempre stata la materia che più mi coinvolgeva, anche se ritengo che sia quella più inutile da un punto di vista comprensivo: la natura umana non può essere compresa e vano è il tentativo di colui che si mette alla ricerca di una risposta o di una risoluzione di problemi che all’apparenza appaiono spiegabili come il perché dello scoppio di un palloncino in mancanza di ossigeno. La sua aria era quella di colui che ci avrebbe salvato non appena avesse tirato fuori una di quelle frasi stampate sui libri delle facoltà più note e degli autori più conosciuti. Sapete voi la grande facoltà che è richiesta all’uomo in certe situazioni? La capacità d’adattamento. Nel migliore modo sai adattarti e nel migliore modo sai vivere. Quanto grandi possono essere i problemi. Altrettanto grande però, può essere la capacità di saperli accettare e allo stesso tempo superarli. Io stavo cercando dentro di me questa capacità, cosa che Alfonso già aveva trovato. Forse con delle conseguenze ugualmente inspiegabili. “ Se volete farvi una bella chiacchierata, sono a vostra completa disposizione. Potete dirmi qualsiasi cosa voi vogliate”. Che sogno! Il grande uomo bianco aveva detto la sua parola e aveva dato l’input iniziale. Ora stava a noi, poveri mortali, a dovere catturare al volo quella grande opportunità che ci era stata offerta. Neanche ci guardammo negli occhi con Alfonso, probabilmente ci capimmo con lo sguardo del cuore. Come ci capimmo, ci capimmo. Fatto sta che

quell’individuo non rimase nella stanza ancora per altri dieci minuti. “ Cosa credono di farci, il lavaggio del cervello? Non è possibile che ci stiano trattando così. Io non ricordo…” cominciò a dire Alfonso con aria incredula. È proprio questa incredulità che lo portò in seguito a comportarsi come non avrebbe mai creduto. “Non so a chi potermi rivolgere. Tu non hai qualche buon consigliere da proporre? Qualcuno che almeno ci indirizzi su quale strada rivolgersi”. “No. Almeno credo. Potrei chiamare a casa e chiedere a mio cugino se conosce qualcuno. Oppure a mio zio”. “Bada però che siano validi tentativi, poiché abbiamo a disposizione solo una telefonata”. Tutto avevamo contato, come sempre. La cosa che ci faceva più paura era il tempo che intanto scorreva, noncurante di ciò che stavamo vivendo. “ Ragazzi, volete fare una telefonata? Se volete, potete uscire, ma uno per volta”. Entrò dicendo di corsa un militare. Alfonso e io ci guardammo. Sentivo che ormai non era più come prima. Che per lui qualcosa era cambiato. Nel ato era sempre stato disponibile, a volte forse più attaccato di me, cosa strana vistone il tipo. Non credevo potessero esistere persone così, con questi validi sentimenti. Dopo tempo avevo trovato una persona uguale a me, con i miei stessi ideali, anche in parte le mie idee. Ero rimasta incredula i primi giorni che lo avevo conosciuto. Ero proprio malfidata, chissà chi era. Non poteva essere capitato a me. Invece più andavo avanti e più mi rendevo conto che avevo davanti lui. Quasi una me. Ovviamente successero tante cose che avevano avuto la cattiveria di non capire e di farci allontanare. Al momento non me ne accorgevo. Me ne sono resa conto solamente dopo che ormai non c’era più nulla da fare. Quanto potevo avere in animo in quella situazione, mi meravigliavo anch’io. Sentivo una strana morsa dentro che mi toglieva in respiro. Fosse stata una sensazione che mi annunciava cosa mi avrebbe aspettato? Strana è la vita. Come ti dicevo di punto in bianco: “ bella la vita”. Ancora oggi so che non mi riprenderò mai più. Non ne faccio un dramma come sostengo sempre le cose che ci capitano, sono la nostra vita; non accettarle significherebbe non accettare la nostra vita. e io non ne ho le intenzioni. Per le persone che mi hanno ostacolato, per le situazioni che sono successe, ho sempre avuto un grande dolore. Ho sempre sofferto di un male che probabilmente avevo, ma che ormai so di non potere togliere più.

Ora tutto era cambiato. Forse avevo preso troppo prima e ora la sorte mi stava togliendo tutto. Non credo di solito a questi discorsi. L’unica cosa cui posso dare una minima fiducia è che è stato e ora è. Non posso rivoltarmi contro eventi che sono più grandi di me. E’ così e anche se solo con la mente e con una parte di cuore dovrò accettarlo. Anche se mai totalmente. Dopo tanto: i suoi occhi sembravano non essere più gli stessi. La sua testa era cambiata, volta a essere attenta a una realtà nella quale io non esistevo più come prima. Tutto mi cadde… Alfonso si alzò. E mise una mano in tasca. “ Vado io”. Non lo vidi più. Se ne andò chissà dove. Non so se fece quella telefonata e a chi. Quello che conta è che non avrei mai più saputo niente di lui, forse… Io non me ne resi conto subito, ma dopo qualche ora. Venne un altro militare a chiedermi se volevo fare una sola telefonata. Credevo che avessero tenuto Alfonso per parlare. Chiesi se prima di uscire a telefonare (e poi a chi), potevo parlare con il mio amico. Mi fu risposto che era andato via. Non capii al momento e chiesi spiegazioni. Mi furono ripetute le stesse parole. “ E’ andato via, stop. Non c’è più”. Com’era stato possibile? Che cosa poteva essergli successo? Erano le mie preoccupazioni e le mie uniche domande. Che presto ebbero una risposta: se n’era andato. Non si sa dove e non si sa perché. Quel giorno fui portata da una parte all’altra per essere interrogata. Luci sugli occhi e domande a non finire fino quasi all’esaurimento. Non so se in quei momenti pensavo più alla mia situazione o al comportamento di Alfonso. Ero delusa, spaesata, consapevole. Non so se avrei più rivisto Alfonso, ma il fatto di non capire mi metteva più angoscia della possibilità di non riuscire più a vederlo. Da quest’avvenimento, persi molte delle mie forze, fisiche e morali. Il mio pessimismo fu accentuato di molto e la mia incredulità accresciuta quasi in modo totale. Il fatto più grave è che mi tolse anche quella poca fiducia che mi era rimasta nella vita e nelle cose. Non odio Alfonso e neanche posso dire di non volerci pensare più. Quello di cui sono sicura è che mi ha lasciato un marchio indelebile, che fisicamente solo la morte potrà togliermi. La sua azione, è possibile comprenderla in parte tenendo conto della sua vita e

della sua persona. Non sono nessuno per dire che a me quelle cose non andavano fatte. Sono accadute. E mi hanno lasciato dentro tanti perché, ma, ahimè, tanti rimorsi. Alfonso rimarrà sempre, di questo sono sicura. Non so neanche io quanto tempo rimasi a parlare con quella gente. Ormai sembrava non importarmi più niente. Quanto al mio capo e ai miei colleghi: quelli erano stati avvertiti. Ovviamente neanche l’ombra. Mondo crollato addosso? Perché? Tanto da una parte a qui tutto era diventato nero. Senza lamentele ovviamente. L’uomo a volte crede che i suoi problemi possano essere risolti da un altro. Lo sapete qual è il più grande sbaglio in questo? Credere di avere dei problemi. E’ la nostra vita. Non sono problemi. E’ la nostra vita. Stavo rinchiusa in un’ennesima stanza a fare girare ancora di più i miei pensieri, quando venne da me, a bussare alla porta, un uomo sui cinquant’anni. Senza aspettare il mio permesso entrò e sembrava quasi che non avesse niente da dirmi. Invece cominciò subito: “ Lo so io in che animo si trova. Purtroppo è la prassi. Stia tranquilla che presto la manderemo a casa”. Come se poi la mia casa dovesse essere una specie di paradiso in cui potere rilassarsi. Aveva una faccia da tale ipocrita che mi faceva pensare più a lui che alla possibilità di potere tornare, forse, a casa. Vestito con un completo avana, sembrava essere uscito adesso da un funerale. “ Eh, lo so lo so. D’altronde che fare? Tanto hanno ragione loro”. Mi stava così innervosendo più con i suoi discorsi che con il colore del suo vestito. Non sopporto le persone che danno consigli o dicono cose ugualmente ovvie in situazioni tutto tranne che ovvie. Non basta parlare nel modo giusto al momento giusto, bisogna trovare quel qualcosa di universale dentro di noi, che faccia valere ciò che diamo e diciamo. Forse mi sentivo di avere qualcosa,probabilmente anche di universale. Fatto sta che io quel tipo non lo sopportavo proprio più, e avevo tanto la voglia di dirgliene qualcuna, se non altro per sfogarmi un po’, per rifarmi di quello che avevo subito prima, anche se con la persona sbagliata. Qualcuno graziò quell’individuo dalla foga delle mie ingiurie. Entrò un’altra persona ancora, e l’uomo se ne andò, lasciandomi l'agitazione e il perché della

sua comparsa. L’altra grande figura del momento, mi diede dei fogli da firmare. Come i buoni avi insegnano ai piccoli, mi misi a dare una letta veloce prima di mettere inchiostro sulla carta, ma che non mi fu pienamente permessa. Con una penna con un cappuccio, firmai quei fogli. Ancora adesso sembro ricordarmi più la penna che la mia firma. Mi si tolsero davanti ai fogli con una velocità che non mi permise neanche di finire completamente l’ultima lettera. Due persone stavano davanti a me. Una davanti mi aprì la porta, l’altra aspettò che mi alzassi per andare dietro la mia sedia. Neanche sapendo con quale forza, le mie gambe si alzarono e uscii dalla stanza. Accompagnata da due vestiti per bene, entrai in un ufficio, che per l’abitudine che avevo mi fece venire quasi nostalgia di dove stavo io. Con la faccia sempre più malconcia, incontrai un personaggio, probabilmente uno importante del posto con la faccia che non mi diceva niente. Mi guardò e riabbassò subito lo sguardo. Salve. Mmhh…allora…è…lei si chiama…a no, ho già i fogli. Dunque, sì. Si sieda”. Sdegnata dal quel comportamento, mi sedetti, forse anche perché ero stanca. Stavo con le mani sulle gambe, con la schiena leggermente ricurva e la faccia in avanti. Avevo tanti pensieri nella testa ma nessuno che mi assorbisse completamente. Respiravo ormai quasi a fatica e stavo nell’attesa di una parola da parte di quella persona. Ogni tanto accennavo a degli sbuffi ma poi li tiravo subito dentro. Poi si decise: “ Dunque lei, sì. Ci sono stati degli avvenimenti che ci hanno costretti a trattenerla qui. Ora le permettiamo di andare se prima ci lascia il numero di qualche persona che potrebbe aiutarla in questa faccenda”. Come se le sue parole fossero legate a un pallone scoppiato, gli chiesi: “ Ma il mio amico è riuscito a chiamare qualcuno prima di andare via?”. Mi guardò prima di rispondere, poi squillò il telefono. Appena risposto, fece cenno ai suoi collaboratori di portarmi in un’altra stanza. Mi fecero alzare e mi portarono in una stanza attigua a quella in cui mi trovavo. Credete che le mie idee si fossero confuse sempre di più? Credo di no. Quello che più mi veniva in mente era la situazione in cui mi trovavo: la mia vita. Mi misi seduta sull’unica sedia che c’era nella stanza. E l’immobilità fisica mi portava a spaziare ancora di più con il pensiero. Avevo la faccia rivolta in avanti

ma con gli occhi in basso. Forse non stavo pensando proprio a niente. ò un po’ di tempo. Non so neanche quanto fosse, visto che non avevo nessun riferimento cui appoggiarmi. Mi chiamarono. Dovetti andare in un’altra stanza accompagnata da altri due guardiani: mi sembrava di essere in un posto e di vivere emozioni simili a quelli descritti da Dante nel suo Inferno. Ero lì per qualche strana ragione, oscura verità che nessuno mi rivelava sebbene io già preannunciassi qualcosa. “ Allora può andare. Deve comunque aspettare. Arrivederci”. Aspettare cosa? Erano sempre più strani, e poi non mi era stato detto niente riguardo ad Alfonso. Forse la cosa che più non mi andava giù. Presi, niente…perché non avevo niente. Andai da quella persona che avevo visto poco prima nell’ufficio e gli chiesi quando avrei dovuto ripresentarmi o farmi sentire. “ Certo, certo. Niente. Probabilmente la richiameremo noi. Ora…si…riposi”. Grazie del consiglio. Uscii da quell’ambiente più spaesata di quanto lo fossi prima, appena ero entrata. Che cosa dovevo fare? Non avevo neanche più Alfonso con cui parlare della vicenda. Non avevo come andare. Fortuna che erano rimasti pochi soldi per prendere un taxi e andare a casa. La cara casa. Avevo anche il timore di avere perso le chiavi. Arrivai che erano le nove di sera. Sembravano essere ati giorni, e invece…Non so quanto tempo avessi bruciato. Aprii il cancello e immancabilmente i nostri cari vicini mi diedero il loro saluto: spiandomi dalle finestre aperte appena ovviamente. Che bello, un’altra faccenda in cui mettere il naso! Chissà quante me ne avrebbero dette l’indomani, dopo quella cosa. Ora non avevo la capacità psicofisica di mettermi a ragionare su di questo. Volevo entrare ed è quello che feci. Appena entrai, sentii una strana sensazione nel vedere la mia casa. Anche se era poco tempo che non c’entravo, non la sentivo mia come prima. Sentivo che qualcosa era cambiato o stava per cambiare. Scesi le scale e andai nel salone, Avevo fame, ma la stanchezza sorava ogni cosa. E poi probabilmente avrei dovuto fare una caccia al tesoro per trovare qualcosa da mangiare. Unica soluzione: andare a dormire. Quella notte come

non mai non riuscivo a prendere sonno. Il corpo era stanco e desideroso di riposare ma il pensiero e la mente non ne volevano sentire di staccare la spina e spingevano affinché io ragionassi ancora sulla mia vicenda. Mi veniva tutto in mente con una tale velocità e irruenza da farmi venire i giramenti di testa. Non pensavo tanto alla stranezza della situazione quanto alla situazione stessa. Era possibile che fosse capitato proprio a me. Perché era andato in questo modo? Mi sembrava che ormai quello stato era dentro di me già da parecchio tempo. Così continuai quasi tutta la notte, o almeno credo, perché forse mi addormentai per poco. La mattina mi alzai dal letto, con in testa ancora viva tutta la faccenda del giorno prima. Mi feci una bella doccia, sempre accompagnata dallo sguardo vuoto, sguardo che forse non mi avrebbe mai più abbandonato. Non avevo neanche voglia di aprire le finestre, cosa entrava a fare ormai il sole? Fatto sta che le aprii. Subito mi venne davanti agli occhi la figura della casa del signor Dari anche in pieno giorno persa nelle tenebre. Poi la casa a fianco e poi la casa della signora Bisini. Non volevo farmi vedere da nessuno, perché sarei stata il bersaglio di mille domande, ma sapevo che era una situazione da non potere evitare. Uscii un attimo in giardino per guardarlo; solamente guardarlo. Rientrai subito. Quella pace naturale, erba e insetti, mi facevano ancora di più sprofondare nelle mie preoccupazioni e nei miei pensieri, anche se molte volte l’avevo sentita mia, ora era una pace estranea, solo da guardare. A casa non potevo stare. A fare cosa? Non avevo neanche il coraggio di presentarmi al lavoro. Con quali sentimenti? Soprattutto i loro! Non potevo non andare, dovevo per forza chiarire la situazione, almeno per la mia persona. Nessuno si occupa di te se tu non ti occupi di nessuno. Tragico ma vero, una tale convinzione che aveva permeato la mia intera vita, e portavo le conseguenze, ate e future. ai per la via più isolata possibile ma quella mattina era impossibile trovare strade deserte o dove non ci fossero troppe persone. Avevo l’impressione che tutti mi guardassero e avessero qualcosa da ridire: ma

perché ognuno non si guarda i propri affarucci? Comunque era una mia sensazione quella di essere osservata. Probabilmente gli altri non sapevano neanche che esistevo, anzi, quasi sicuramente. La strada mi sembrava più lunga del solito o forse ero io che camminavo più lentamente per dare più tempo alla mia mente di pensare. Quello che non riuscivo a pensare era ciò che avrei dovuto dire ai miei colleghi. M’immaginavo solamente le loro facce. Stavo vicino alla porta e al pensiero di dovere entrare mi assalivano sensazioni, come quando aspettavo di dovere disputare una corsa. La porta si aprì. Rientrai in quel corridoio dopo tempo. Il solito rumore mi travolse e quasi mi disorientava ancora di più. Quando riuscii a vedere la mia porta: l’ufficio. Sembrava che nessuno mi vedesse o almeno che mi avesse visto poco tempo prima. O ancora che niente fosse successo. Non era così. Rincontrai un collega che subito mi accolse come fossi un gattino spaventato: “ Allora che fine hai fatto? Stavo veramente in pensiero, temevo ti avessero trattenuto per colpa”. “ No, ma mi hanno trattenuto lo stesso. E il capo? Ovviamente l’ha saputo. Non sai quale può essere stata la sua reazione?”. “ No” mi fece lui “ anche se poi si può benissimo immaginare. Da quando sei mancata anche qui, le cose non sono andate tutte lisce. Lo sai che Costo se n’è andato? Dopo gli ultimi periodi ati, qui non ci stava più con la testa”. “ Mi dispiace…”. Costo se ne era andato veramente, proprio come mi disse quel giorno… “ bene ciao, io ti saluto, vado a finire qualche pratica, dovesse are qualcuno e vederci qui”. E s’incammino nel suo ufficio. Come non sopporto le persone che cambiano discorso per non intraprenderne uno diverso o per liquidarti prima possibile, ma guarda che non sono io la liquidata! Rimasi in principio ferma in mezzo alla sala. Poi quando l’emozione si fece sentire con più forza, cominciai a guardarmi intorno. Ci dovevo andare subito o prima farmi rivedere da tutti in ufficio? Scelsi di andare direttamente da lui, tanto gli altri erano lui. Mi avvicinai ma non c’era in ufficio, sicuramente stava rimproverando qualcuno per il suo impegno. D’incanto mi apparve dal fondo del corridoio una figura che già conoscevo: era la signora Bolasky, che come sempre spazzava alla grossa i pavimenti calpestati in continuazione. Non soffrivo un gran che la signora, ma appena la rividi, mi

avvolse un senso di nostalgia, che svanì ovviamente subito non appena quella donna mi si avvicinò e aprì bocca: “ già finiti i guai con le forze esterne?”. Io la guardai di sbieco, con quella sua faccia da senza cervello…Non mi diede il tempo di rispondere, visto che quasi subito sgattaiolò nello stambugio. Allora ma quanto ci metteva? L’impazienza si faceva sentire sempre più. O più che impazienza era timore? E’ difficile a volte distinguere i sentimenti, anche se noi sappiamo quali sono. Eccolo finalmente…Arrivava dal fondo del corridoio come sempre di fretta. Aveva sotto il braccio alcuni fogli. Non appena rivolse lo sguardo, i nostri occhi s’incrociarono, un gelido freddo mi traò; non sapevo cosa fare. Ormai ero davanti. Lui senza dire o fare il minimo cenno rientrò nel suo ufficio e io più imbarazzata che mai lo seguii.

IX

A volte la testa cerca di non starci. Avete mai provato quanto è particolare questo tipo di sentimento? Io sì. La testa gira per un qualche motivo, e tutto sembra non avere una minima importanza. Tutto ti pesa, sei scontroso. Hai addirittura nausea delle cose che ti circondano e non hai completamente il senso della buona tolleranza. Cominci allora a pensare. Ecco perché…Tanti piccoli accorgimenti ti saltano fuori come niente fosse. E allora hai le splendide illuminazioni che invece di farti stare meglio, appesantiscono di più la tua mens. Bisogno di silenzio, di dormire. Invece c’era l’ombra, forse una presenza comoda e al tempo stesso scomoda. C’era, non potevi ignorarla; ma non potevi ignorare neanche te stesso, e allora la testa se ne andava per conto suo. Tutto era appesantito e peggiorato. E’ così che va. Ma è così che va? Tante risposte le vorrei avere. Più che altro però vorrei avere certezze, che non ci sono e forse mai ci saranno. Non si può andare contro la vita e neanche contro quello che siamo. Lo so che parlare fa bene, ma l’unico motivo per il quale a volte ci mettiamo tanto a discutere è perché crediamo di riuscire a ricavare un qualcosa di positivo per la nostra condizione. E’ vero anche che a volte si parla e si ragiona per il solo gusto di utilizzare le nostre facoltà. Altre volte capita di invischiarsi in ragionamenti che hanno addosso la speranza di una risposta, e ne escono con la certezza di una domanda o di nessuna spiegazione. Almeno, però, sempre ne esci con una nuova visione della tua vita oppure rafforzi quella che già avevi. Forse erà o forse no. Quello che è sicuro è che sicuramente rimarrà, in un modo o nell’altro, e non ci puoi fare niente. Sai che a volte ci ripenso e neanche io so come posso avere fatto? Fare delle grosse pause a volte aiuta a capire, ma le mie non le ho mai cercate; mi sono sempre capitate. Nessuno. La mia condizione, quella che ogni giorno vivo e ogni giorno mi fa vivere e crescere sempre di più. Se perdi qualcosa, non è detto che questo qualcosa è stato tuo. Lo perdi a volte perché non lo trovi. Trovare è difficile, ma farti trovare lo è ancora di più. E se

non volessi farti trovare? Hai mai pensato a questo? Lui si sedette poggiando prima i fogli sulla scrivania. Lo sguardo non lo alzò prima che io gli dicessi: “ Sono tornata appena oggi”. La sua arroganza: “ Sì. L’ho sentito, era ora. Volevi qualcosa?”. Non sapevo ormai ma soprattutto cosa dirgli. “ Se non mi deve dire niente, vado al mio ufficio”, “ no niente. Se mi venisse qualcosa in mente, te lo faccio sapere”. A volte non sapevo come comportarmi davanti ai suoi atteggiamenti. Avrei preferito che mi avesse detto qualcosa sulla vicenda; l’avrei preferito al suo silenzio. Andai nel mio ufficio, ma a fare cosa? Ormai sembravo avere perso il senso delle cose, soprattutto quelle del mio ufficio. Mi sedetti sulla scrivania, ma subito mi rialzai. Uscii. Vagavo per il corridoio, non sapendo neanche cosa ci facevo ancora lì e neanche se mi potevo considerare di quel lavoro. I movimenti si erano triplicati; osservavo tutto senza la minima preoccupazione di quello che potevano fare o pensare gli altri. Fatto sta che dovevo fare qualcosa. Incontrai una faccia conosciuta, ma non ricordavo dove l’avessi vista…Forse proprio là… Erano le 11.58 e ancora non avevo concluso niente.

X

L’ora era quella adatta per pranzare, ma la mia mente aveva altro cui badare, oltre che la fame. Fatto sta che andai a mangiare fuori, prendendomi un pezzo di pizza a una pizzeria che non distava molto dall’ufficio. Camminavo per strada con un pezzo di pizza in mano. La tenevo bassa mentre, continuavo per la via. Non riuscivo ancora a capacitarmi di quello che mi era successo. Non so se è mai capitato a qualcuno: accade una qualche vicenda e dopo anche tanto tempo pare non fosse mai successo niente, a volte forse per l’inverosimiglianza dell’accaduto. Anche a te penso, che ormai guardi da lontano o forse non guardi, come non facevi prima. Tanto lo so. Là…A volte non si sa neanche bene cosa provare, ed è questo che conta, che ti dice chi sei, o chi credevi di essere. Non ho più parlato di Alfonso; non perché non l’abbia in mente o non ne voglia parlare, ma solo perché non c’è giorno che io abbia ato senza pensare a lui. Non tanto a quello che è successo, quanto a quello che lui era. Ed è, probabilmente ancora. Chissà. L’ideale? Dimenticare. Non si può dimenticare la propria vita. Sempre e comunque. Ormai avevo finito la pizza ed ero arrivata a L.go Fatini, una zona non molto in della città. Ero sola, ma non avevo neanche una preoccupazione, a parte la mia vita. Cercai di evadere con lo sguardo e con la mente, ma il pensiero, soprattutto ultimamente, era sempre fisso lì. Tanta gente mi circondava, tante cose mi attorniavano, pronte per essere scoperte e capite, ma immancabilmente la mente tornava su quei vortici che la straziavano ogni volta che era lucida. Mi fermai un secondo a osservare le facce degli altri: ero solo io? Ero solo io… Le quattro erano ate ormai da dieci minuti. e io ero ancora al punto di partenza, se non in uno peggiore. Dove potevo andare a parare? Non avevo molte vie d’uscita, forse non ne avevo nemmeno una. Dovevo comunque continuare.

Ormai avevo perso tutte le forze per lavorare al mio caso. Chissà cosa potevo fare ancora. Perché perdere quel fatto? Dovevo riprendere a tutti i costi. Ripresi allora a pensare al mio finale… Mi veniva una gran paura a ripensare di rimettermi su quel caso, forse perché la mia mente era ormai molto provata e non so se era in grado di affrontare nuovi squilibri, pur essendo consapevole che alla fine qualche altra cosa sarebbe accaduta. Casa. La via era isolata, non ava neanche la signora Bisini a pettegolare su qualche fatto. Queste sono le stranezze della vita. Devo dire però che forse mi mancava quella spensieratezza che prima mi pervadeva; non fino in fondo non avevo pensieri, ma avevo perso qualcosa che probabilmente non avrei mai più recuperato.

XI

Nell’animo umano a volte troppe sensazioni di susseguono, tanto da rendere instabile l’intera esistenza. Non c’è possibilità di rimedio, né la speranza di potere avere un’unica sensazione del vivere. Mi trovavo in una di quelle situazioni che provano a lungo un animo e lo portano a diffidare talmente della vita e di tutti quelli che possono circondare un’esistenza in modo da non avere molte aspettative. D’altronde era l’unica situazione certa in cui potevo e forse volevo trovarmi… Stavo perdendo tutte le cose che ero riuscita a mantenermi, anche con qualche forzata rinuncia; ora sembrava che l’ombra si fosse fatta più scura e stesse annunciando una notte non tanto dolce… Sensazioni, sensazioni, sensazioni…solo di questo ormai sembravo andare avanti e nutrirmi. Quello di cui avevo bisogno adesso non erano tanto gemiti di emozioni, quanto scosse di certezze che tardavano a venire, … e chissà quando e se mai fossero arrivate. Non avevo nessun modo di occupare la mia giornata; non avevo più scopi dopo quello che mi era successo. Lo so che era un comportamento che non produceva niente, ma in me produsse più di quanto mi aspettassi. Si era ormai cancellato l’orizzonte dei miei piani, (se mai ne avessi mai avuti). Ruotavo intorno all’indefinito, a ciò che ancora non mi stava rendendo niente e mentre io avevo già dato molto. Forse erano stati sforzi inutili o forse quel tipo di sforzi non sono considerati in un tipo di vita. C’era ovviamente ancora il caso Socchisi, quando mai mi sarei dimenticata di codesto affare? Volevo poi io uscirne, incolume o incastrata che fossi? Non posso dirlo. Ancora niente era giunto di nuovo, neanche più dal mio ufficio riuscivo a captare qualcosa di utile. Andavo e riandavo là, senza capire cosa realmente cercavo. Forse non cercavo quello che veramente volevo o forse mi era solo apparso di volere. Fatto sta che continuavo ad aprire la porta dell’entrata

e quella del mio ufficio. Entrambe mi si richiudevano alle spalle senza l’ombra di una minima speranza. Dovevo assolutamente scovare qualche altra idea per il caso, altrimenti sarei riuscita a peggiorare la mia situazione, senza sapere bene cosa mai mi avesse aspettato. Non sapevo bene cosa, ma c’era qualcosa che dopo la storia con Alfonso mi aveva bloccato. Non so se fosse paura, ma non credo; penso sia stata l’insicurezza di trovarmi di nuovo in una situazione che non sarei riuscita a dominare. Intanto avevo perso il contatto con il resto del mondo, sebbene ultimamente, volutamente; avevo ridotto i miei contatti con gli altri. A volte non riuscivo a non immaginarmi non alle prese con i miei vicini, di casa anche, quelli a volte più disprezzati. Sfuggivo e di conseguenza li ricercavo. Sapevo che non avrebbero mai potuto darmi ciò che cercavo. Da qui le lunghe eggiate, oltre che con il pensiero, per le vie attigue alla mia casa. Perché non c’era niente da fare: cercavo di evadere dal mio ambito, ma poi tutto mi ricollegava alla mia abitazione e alle mie abitudini. Spesse volte avevo immaginato una vita diversa e forse ero ancora in tempo, forse… Camminavo ma le mie attenzioni erano rivolte a coloro che incrociavo per strada. “Allora qualche novità dal fronte?”, mi era chiesto il più delle volte, senza neanche un minimo accenno alla mia situazione. Tanto sapevo a cosa andavo incontro e mi stupivo del fatto che ancora riuscivo a stupirmi di quello che mi capitava. Non potevo andare avanti tanto… Non vedevo nient’altro che la strada, e sempre di più si faceva lunga. Tutto riconduceva a un’unica soluzione: darsi una mossa. Facevo presto a dirlo, visto che per la mia mente erano poche quelle idee che mi avrebbero permesso di dare un bel impulso. Non potevo cercarlo al di fuori di me, poiché l’ambiente che ti circonda, a volte, l’unica cosa che è in grado di fare è darti una mano per mandarti più a fondo, giacché ancora qualche tua speranza ce l’hai per tirarti su. Allora ci pensano

loro, il caro contorno di una vita sempre ardua e piena di buche, proprio come la strada che mi accingevo a percorrere per raggiungere un luogo isolato, dove la mia mente avrebbe avuto qualcos’altro da guardare. Raggiunsi un piccolo promontorio a piedi, e ricordo che il fiato era quasi al corto, ma appena arrivata non ci feci più caso, ed ecco che mi ripresi. Da lì si poteva osservare il panorama: quello di un mondo diverso se guardato dall’alto ma uguale nelle particolarità, bello e brutto allo stesso momento. Il mio occhio tendeva lontano il suo obiettivo, mi rilassavo, ma solo a livello fisico, perché la mia mente inesorabilmente continuava a camminare, sebbene anche lei trovasse di tanto in tanto qualche ostacolo. Non so perché fossi andata proprio in quel punto. Forse perché da bambina vi andavo spesso. Sapevo di essere isolata come non mai, e più m’isolavo e più avevo bisogno d’isolamento. Forse tutto ciò che mi era successo, aveva talmente riempito la mia anima, che ora ero stanca, con tanti anni in più che pesavano…

XII

Piccoli, piccoli stiamo sulla terra, senza curarci del cielo e di tutto quello che accompagna la nostra grama esistenza. Forse non riusciamo neanche a contenere ciò nell’anima e l’emozione e i sentimenti provati sono troppo forti. Chissà quanto serva poi stare fermi a pensare o correre senza riflettere un minuto… Quando però ti è richiesto, niente t’impedisce di farlo. Ecco allora che ti cambia tutto. Devi avere un embrione di qualcosa dentro che cresce a poco a poco,altrimenti non so se si potrebbe spiegare. Lo so che a volte vado e andavo troppo in alto, ma… Come sarebbe bello rivivere alcuni momenti della storia del mondo. A volte mi chiedo come vivevano i nostri antenati, magari Greci o Romani. Se tutto era dovuto, se la loro mente veniva schiacciata da pensieri eterni, o se vivevano così, come la vita gli si presentava. Idee che nascondono probabilmente il bisogno di una via d’uscita, senza sapere che forse non c’è una via d’uscita ma, probabilmente, non c’è neanche il bisogno. Allora ti metti a pensare su ciò che ti accade, perché poi tutto quello che senti, lo tiri fuori perché lo hai subito, ma non sempre. Che cosa spinge un uomo a trovare compagnia? Sempre la solita storia dell’uomo animale sociale? Penso che questa sia, o almeno a volte è, troppo scontata o superficiale come risposta. Il fatto è che a volte non si vuole stare da soli per non fare i conti con una determinata realtà, forse al più importante; allora si cercano scappatoie, il più delle volte rappresentate dall’altro. Quando ero in queste situazioni, mi venivano in mente tante cose, tante persone che avevano segnato, in un modo o nell’altro, la mia vita.

Mi scorrevano davanti agli occhi immagini che probabilmente non avrei voluto ricordare, ma che immancabilmente non tardavano a venire. Ad esempio la vicenda vissuta con Alfonso, la mia casa. L’aria e quell’uomo…a terra, senza più vita. Allora un brivido mi scorreva per il corpo e mi scuoteva da quelle emozioni e subito ripiombavo in altri sentimenti. La mia attenzione fu attirata da due uomini che camminavano per la salita e non avevano per niente l’aria di volere fare una eggiata in tranquillità. Rimasi immobile nel pensare alla vita di quei due, ma soprattutto al loro ato… Quante cose rimpiangevo, e quante mi tornavano in mente. Stavo tornando a casa, quando ando davanti alla chiesa, notai che vi erano delle persone a celebrare un funerale. Se fosse per me, probabilmente, non ci sarebbero più funerali, perché sono tremendamente contraria a queste manifestazioni di emozioni umane fuori luogo. Stavo camminando per la via, ma lo sguardo mi andava su quella gente riunita, probabilmente senza il minimo interesse. Volli avvicinarmi, così, con aria indiscreta. La chiesa era tutta piena di fiori; che spreco. Non c’era una persona che non si fe vedere dispiaciuta per il malcapitato. Stavo un po’ in disparte per riuscire a capire chi fosse mai il protagonista, ma non riuscivo a percepire nessuna parola che mi fosse utile. C’erano parecchie persone che io conoscevo, sebbene di vista. Quindi anche lo sventurato lo dovevo avere visto almeno qualche volta. C’era un trambusto, tutti si davano un gran da fare per accogliere la bara ma prima per accogliere l’arrivo della moglie del defunto, che si apprestava a essere accompagnata da non so quale parente. La donna arrivò con le mani sorrette da un’altra donna, la quale cercava in qualche modo di reggerla in piedi. Le gambe non le si reggevano e ogni istante facevano come per cedere e far cadere a terra la signora. Il suo sguardo era perso, ma nel suo orizzonte cercava di portare a sé la piccola figlia che era presa

per mano, da un’altra figura umana. La piccola si sfregava gli occhi come se si fosse appena svegliata. Aveva tutti gli occhi rossi e le palpebre gonfie, forse dal pianto. Appoggiava la testa ogni tanto sul braccio della persona cara. Era evidente che quella realtà non le si era potuta in nessun modo nascondere. Fecero mettere seduta la madre sulla panchina di primo posto. Accanto la piccola, che cercava di svincolarsi e ci riuscì quando vide l’arrivo del carro funebre. I suoi occhi si accesero come stesse aspettando una persona cara che non vedeva l’ora di abbracciare. Il carro arrivò, con attaccate fuori due grandi corone di fiori. La piccola era ferma impalata in mezzo alla chiesa e non decideva a muoversi, mentre la madre non aveva la forza per girarsi. Di fuori si sentivano pianti, lamenti, un mormorio che si alzava e perveniva agli orecchi della madre e agli occhi della figlia ancora immobile nella chiesa. Entrarono portando la bara alcuni signori, che manifestavano nel viso un certo dolore unito alla fatica per il peso della bara. Fu appoggiata su un pezzo di legno. La bambina nel mentre si era voltata per osservare la scena. I suoi occhi erano fissi sulla bara. La donna in prima fila era in preda alla dispersione e non sapeva come raccapezzarsi; i suoi movimenti erano squilibrati, sconnessi, senza un ordine mentale che desse dei comandi. Forse tutto questo era frutto del dolore per la perdita del marito recente, o forse era mescolato insieme il sentimento per la dura realtà che le si proponeva davanti agli occhi nel futuro. Facevo da spettatore a quel dramma, ma riuscivo ancora a considerare tutto l’avvenimento come vita. Mi sentivo internamente un disagio morale, forse per essere totalmente esterna dal fatto, ma poi non era così. Intanto la bambina si era portata avanti nei pressi della bara, e ancora guardava incuriosita il grande contenitore di legno. Quello che non potevo vedere erano le persone che popolavano la chiesa, pronte a esibire uno sguardo più di pietà che di commozione. I cari del defunto non avevano proprio bisogno di pietà. C’erano anche persone pettegole, che non smettevano di vociare inutilmente, fin dall’inizio, fuori della chiesa. Avevo visto anche, la maggior parte della gente ridere o lanciarsi sguardi indifferenti e gioiosi, in un’atmosfera che di gioioso ne aveva ben poco. Neanche un minimo di sentimento interno che permettesse di portare un po’ di rispetto.

ando avevo anche sentito da due partecipanti che il defunto dovesse a uno di loro dei soldi. Gran bella lezione di morale, che donavano al pover’uomo. A poco a poco mi tiravo indietro, osservavo tutte quelle persone da un altro punto di vista, cercavo di andarmene ma non potevo. Non riuscivo a staccarmi da quella vista, da quell’agglomerato di persone che erano riunite da uno scopo principale. Che cosa pensassi non lo so tanto bene. In quel momento ci si dimentica di molte altre cose, tra cui quella di stare attenti a ciò che il cervello dice. La cerimonia aveva inizio, con parole strazianti come per fare piangere di più la vedova e rendere più forte il funerale. Tutti ascoltavano intenti alle parole, ma chissà cosa c’era dentro le loro menti, sicuramente assenti dalla vera anima. Non riuscivo a stare ancora là, quindi decisi di andarmene, lasciando la madre e la piccola sole al loro destino. Ero per strada e ancora pensavo. Quello che avevo visto aveva fatto risvegliare i miei pensieri: cosa è in fondo la vita? Siamo nati per fare cosa? La mia vita era uguale a tutte le altre? Tanto sapevo che quando il mio cervello si avviluppava in questi torbidi sentieri, ne usciva con una sensazione che era sempre la stessa: la mente umana non può dare risposte a domande che non rientrano nella nostra umanità. E’ come se vorremmo fare entrare tutte le acque degli oceani in un solo bicchiere. Cosa di dubbia riuscita. Almeno che non si abbia un bicchiere tanto grande… Ritornai a casa non pensando a nient’altro più… Ero stanca ma di non so cosa. Non credo che la vita mi avesse stancato. Piuttosto il pensiero di poterne vivere un’altra con altre possibilità. Tutto quello che mi era accaduto in questi ultimi tempi, mi aveva fatto entrare in una situazione d’indifferenza e di rassegnazione che non ero neanche più attenta al mio caso. Sì, il caso. Forse non ne sarei mai più uscita e sarei rimasta per sempre vittima di quella situazione. L’unica cosa era di aprire gli occhi e continuare una via già percorsa ma con nuovi intenti. Era questo il bello: io avevo avuto sempre gli occhi aperti… Alfonso…Alfonso…

A volte mi mettevo seduta su una sedia e non avevo neanche cosa pensare: erano troppe le cose che dovevano entrare nel mio cervello e già ce ne erano entrate. Visto che non mi rimaneva altro, mi misi a letto, ma con la conseguenza che gli occhi mi rimasero aperti a lungo. La mattina dopo mi alzai come se non fossi mai andata a dormire (del resto erano sensazioni che avevo sempre), e pensai bene di andarmene in ufficio. Chissà se lì qualcosa poteva succedere… Essendo molto presto gli uffici erano isolati, c’era solo la solita signora Bolasky che ordinava in un’oretta quello che non faceva in un giorno intero. Chissà se dentro quel cervello c’era davvero tanta inutilità o forse era la troppa vitalità che ormai le aveva fatto perdere tutto il fervore nei confronti di una vita che non sentiva più il bisogno di decoro e rispetto. Andai nel mio ufficio guardandolo con paura: che l’ufficio significasse per me il futuro? L’ho detto che a volte il mio cervello… Tanti fogli, tanto tempo sprecato e tanta fretta per nulla: ma tutto questo era venuto con un significato preciso o forse era solo il gusto sadico della vita di prenderci per non ridarci più quello che avevamo avuto? Cosa poi avevamo avuto? Alzai il telefono, ma tanto non avevo a chi chiamare, tutti con i loro impegni… Era finita? Forse…

XIII

In questo momento, per la situazione che stavo attraversando, sentivo instabile anche il tetto sopra la mia testa. Il caso non mi preoccupava più tanto quanto prima, visto che ormai si trattava della mia vita solamente e presto ne ebbi risposta. Era ato qualche giorno ma tutto taceva. Persino dal distretto di polizia non comunicavano notizie. Tutto sembrava essere accaduto così, per una qualche casualità, ma sapevo che non doveva essere così. E poi chissà…sì, proprio lui, Alfonso, che fine aveva fatto. Lo so il pensarci mi faceva stare male più di quanto non sembrava, ma non mi andava giù quell’improvvisa partenza. Forse mi faceva quasi rabbia il fatto che ormai ero rimasta sola a governare la situazione. Poi tanto questo era quello che sempre era accaduto. Mi alzavo dal letto la mattina con il solito mal di testa, segno che anche quella notte il mio pensiero aveva camminato come al solito. Mi lavavo, mi vestivo; neanche mangiavo più, e perché ormai poche erano diventate le sussistenze, un po’ perché non ne avevo più tanta voglia; ormai ero stufa anche del mangiare. Stavo un po’ meglio se mi rifugiavo nel mio giardino, con l’odore che emanava la terra, umida dall’acqua appena caduta. Dovevo stare attenta a non farmi scorgere da nessuno dei miei vicini. Perché anche loro erano lì che vigilavano su ogni mia mossa, per captarne le sensazioni, gli sviluppi. E poi forse da un po’ di tempo anche la loro vita era diventata noiosa. Allora cercavano di appigliarsi a qualcosa per tirarla su. Anche se tutto ciò era a scapito di qualcun altro, …io. Non potevo stare in casa; meglio tentare di stare in mezzo alla strada piuttosto che aspettare la caduta dentro le mura. Io sapevo che se fossi uscita il mio primo pensiero era rivolto lì: nel mio ufficio. Non riuscivo a vedermi al di fuori di quella realtà; avevo di continuo un bisogno fisico di ritornarci, anche se sapevo che non mi aveva mai dato un gran che, e che non mi avrebbe dato tanto…

Ovviamente mentre i miei pensieri spaziavano, mi ritrovai davanti alla porta d’entrata. La guardavo quasi con poesia. Ero immobile davanti alle scale…quando tutto fu rovinato, forse, dall’entrata in scena della signora Bolasky, che come il solito con la sua sfacciataggine, mi sbatté quasi la porta in faccia, senza neanche fare il minimo accenno di ripresa. Entrai.

XIV

Prendere tutte le cose che ero riuscita a mettere insieme. Dovevo a tutti i costi tirare fuori qualcosa che mi potesse permettere di non farmi stare ferma. La sera era diventata quasi un incubo. Non c’era più quel silenzio che avvertivo prima. Tante volte mi era capitato di andare fuori a vedere se ci fosse qualcuno. Ma non trovavo mai niente. Rientravo ormai tardi la sera. Stavo in giro fino a notte fonda, a volte per rincasare accompagnata dal chiarore della sera e i bagliori che emanava la luna; mi sentivo tranquilla osservando la natura spuntare a ogni ora, a ogni attimo, a ogni istante. Come mi perdevo, entrando a casa, nella notte. A volte andavo in terrazza e con sguardo vuoto o alzavo al cielo: niente di più spettacolare di una raffica di emozioni che ti trafiggono il cuore. La notte ava. La mattina del giorno successivo decisi di fare un’altra capatina in ufficio. Tanto per farmi vedere. All’entrata mi accolse la signora Bolasky, che stranamente aveva stampato in viso un abbozzo di risata, accompagnata dai suoi stracci. Confusione e gente che ava di qua e di là. Corsi subito nel mio ufficio. Allungai la mano alla maniglia, quando mi sentii prendere per una spalla. Era il mio collega accanto che mi trascinò nel suo ufficio. “Allora? Non ti fai più viva! Come vanno le cose?”. “Abbastanza bene direi: ero ata per prendere dei fogli. E tu?”. Con aria assente mi rispose:”Bene, bene, non mi lamento. Ho sentito delle brutte voci sul tuo conto. Sei sicura che vada tutto a posto?”. Un altro attacco di finto buonismo e di vera ipocrisia si stampava davanti a me. Ormai ero diventata quasi del tutto indifferente a questo genere di cose. Cercai di farmi vedere alquanto calma nella risposta, contando che ciò che avrei detto avrebbe fatto di lì a pochi minuti il giro del dipartimento. “ Sì. Sono solo un po’ stanca. E poi tutto è ato. Ora ho voglia di andare avanti con altre faccende. Gli altri tutto bene?”. “Sì. Tanto con tutto il lavoro che hanno da fare, sicuramente si possono riposare dalle loro fatiche” (altro attacco di ipocrisia, ma tanto negli ambienti di lavoro è tutto normale). Si liquidò, facendomi alzare e salutandomi con aria bonaria.

Riuscii finalmente a entrare nel mio ufficio che, benché non lo amassi poi così tanto, a volte mi teneva al riparo. Presi il mio libro, cercando di farmi uscire qualche idea, ma non ottenendo tanti risultati. Allora presi a guardare le pareti della mia stanza, sebbene non fosse poi così grande. Avevo davanti agli occhi eventi ati. Mi pesavano nella testa. Non riuscivo a capire come. “Ciao, è permesso vero? Quante volte ti ho detto che quando vieni devi are a salutarmi, altrimenti me la prendo? Anche per questa volta i”. Era Virino, un mio collega, che ogni volta che entrava nel mio ufficio, a suo piacimento, si adagiava sulla sedia con le gambe allungate in avanti. “Che tristezza qua dentro. Non vedo l’ora che cambi qualcosa; anche in peggio, purché cambi. Stavo per andare in bagno ma è occupato, sicuramente da chi so io, visto che non l’ho visto in giro; starà poltrendo con davanti qualche giornale. E’ sì, la vita è dura! A volte pare che solamente io lavori. E ogni tanto mi viene in mente di lasciare tutto così com’è e andarmene a casa. In finale anche a me piace questo lavoro. Solo che di tanto in tanto qualche taglio di qua e di là lo farei! Capito no? Come va la vita…”, e usciva senza neanche farmi aprire bocca. Dal canto mio rimanevo a guardare avanti. Cosa stavo facendo? Non era meglio uscire? Chiudendo la mia porta, cercavo di non farmi vedere, sapendo tanto che tanti occhi già li avevo addosso. Scesi le scale, guardandomi in giro. A volte sembrava che l’aria che mi circondava fosse più sana e che mi giovasse in miglior modo. La strada era piena di gente. Tutti avevano in testa qualcosa. Cosa di preciso? Qualcosa di valido? E chi poteva mai dirlo? Urtavo contro le persone, senza neanche rendermi conto di chi avevo avanti. Tanto erano tutti uguali. Forse li catalogavo io o la mia mente in questa maniera. Facevo centinaia di metri, senza neanche rendermi conto; a volte non sapevo neanche dove volevo andare di preciso. Camminavo. Avrei incontrato qualche… La corriera arrivava sempre con la solita puntualità, in modo che io con la mia solita puntualità potevo rientrare a casa. La chiave del cancello si stava per rompere… Entravo e osservavo quella quiete. Che bellezza, che gioia. A volte penso che per osservare tutta quell’aria di infinita purezza ci volesse un qualcosa di diverso.

A casa come al solito non c’era gran che da mangiare. Quindi spesse volte rimanevo a stomaco vuoto. Tanto non era poi così indispensabile. Quella sera la mia attenzione fu ripresa da un litigio che sentii provenire dalla casa del signor Dari. Dalla finestra della mi camera si può ben udire quello che succede nella casa di fronte. All’inizio credevo fosse solo un litigio a toni alti. Ma presto le voci cominciarono ad alzarsi in tono minaccioso. Tutt’intorno si era creata un’atmosfera tenebrosa e silenziosa, come per fare più silenzio alle voci protagoniste. Riuscivo a distinguere la voce del signor Dari. Ma la voce che gli si affiancava non l’avevo mai sentita. Litigavano per non so quale motivo; ma sicuramente le cose stavano degenerando. Non riuscivo a intravedere nessun tipo di movimento, ma solo ombre che si stagliavano nell’oscurità della notte. Volavano parole grosse, riguardo alla vita di entrambi. A un certo punto uno dei due prese la macchina e uscì velocemente, lasciando l’altro dietro ai fumi della vettura che scomparve in velocità. Doveva essere andata via la persona misteriosa visto che la persona che rimase entrò casa, probabilmente il signor Dari. Richiusi la finestra e senza farci troppo caso mi avvicinai a qualcosa da mangiare. Quando si crede di perdere tempo la giornata a velocemente. La mattina sembra una continuazione della sera e la sera sembra la mattina con meno luce. Non si riesce bene a distinguere tutte le parti della giornata, e questo a mio avviso è bene. Oggi era proprio una bella giornata. A volte mi prodigavo ad andare in giro a fare due i, in modo che la mia mente avesse un po’ di respiro. Quel giorno me ne stavo vicino a casa mia, nei pressi di un parco. Incontrai un signore sulla settantina che stava seduto su di un sasso e stava osservando alcuni uccellini. Mi attirava quella figura. E senza neanche accorgermi mi ero avvicinata a lui. Il signore si girò dalla mia parte ma, dopo avermi messo a fuoco si rigirò. Provai un senso di disagio, ma nello stesso tempo non me ne volevo andare, e mi gustavo quella figura.

“ Hanno fame. e io ogni tanto gli porto qualche avanzo da mangiare. E’ dura la vita per loro”. A un tratto fece il signore, sempre guardando davanti. “ Le piacciono gli uccellini?”, domandai per riconoscenza e rispetto di quelle parole pronunciate poc’anzi. “ Certo, mi piace vederli. E’ la figura di libertà che più mi piace osservare”. Avrei voluto continuare a parlare con lui, ma ero distante e non riuscivo ad avvicinarmi, temendo che la mia presenza non fosse stata tanto gradita. “ Eppure questo piccolo animaletto ha tanto da soffrirla questa vita; quali sacrifici dovrà patire…”. La mia mente era assente, vuota, mi risuonavano in testa soltanto quelle parole dette, e tutto mi prendeva così tanto… “ Ragazzotta, vieni a sederti, non ti mangio, ah!ah!ah!” fece il signore avendo vista la mia condizione. Senza farmelo ripetere mi avvicinai a lui dove c’era un altro sasso vicino al suo, con un accenno di sorriso di chi aveva accolto la risoluzione. Alzava lo sguardo al cielo e rideva senza proferire alcun rumore. “ E’ proprio una bella giornata oggi. C’è questo cielo così carico di sussurri…E tu che fai in giro?”. “ Facevo due i per stare un po’ tra la natura”. “ E dimenticare qualcos’altro…” disse il signore, abbassando il volto. Sai a volte mi viene da pensare al mondo talmente tanto che mi potrebbe scoppiare la testa…”. “ Eh, a chi lo dice…”, risposi io per dare un senso positivo alle sue parole. “ Ma pensare è l’unico scopo dell’uomo, anzi è forse quello che più lo deteriora, e che purtroppo spesso lo caratterizza”. “ Sì, ma a volte non è evitabile”, risposi. “ Tanto tempo fa incontrai una persona, un uomo con il quale m’imbattei in un discorso abbastanza lungo. Eravamo nei pressi di una montagna, in un paese vicino. Lo avevo trovato già lì appena io arrivai. Aveva l’aria tranquilla, beata. Ero come al mio solito per il posto mio, quando due i in più mi avvicinarono a lui. Si era accorto di me, ma la sua mente doveva essere presa da pensieri profondi, dato che non mi degnò neanche del minimo sguardo.

Io rimasi in silenzio, e osservavo quel bellissimo panorama. Fu lui a rompere il ghiaccio e a cominciare a parlare. “ A volte guardando il panorama mi viene voglia di piangere. Non riesco quasi a contenere tutte le emozioni che mi assalgono. Allora piango per buttarle fuori, e mi scarico. Sa quante volte ho pianto? Tante. La vita me ne ha riservate tante. Non riesco a non pensare a quante ne ho vissute e mi spaventa l’idea di quante me ne potrebbero ancora capitare. Mi guardo nello specchio, e non riesco a non vedere quel bambino che sono stato. M’immagino sempre accanto a mio padre, sulle sue ginocchia. Ero felice e mi sentivo protetto anche se la vita anche allora non era delle migliori. Non immaginavo cosa mi sarebbe aspettato nel futuro perché andavo avanti con l’idea che io e mio padre ce la saremmo sempre cavata. Mamma era morta quando io ero molto piccolo. Di lei ricordo il calore dei suoi abbracci, il movimento del suo petto quando, tenendomi fra le braccia mentre stavo per addormentarmi, rideva; le sue carezze sui miei occhi. Era morta di un male che l’aveva consumata fino a farla morire, lontano da me. Della sua morte mi avvertì mio fratello, che era più grande di me, ma pur sempre bambino anche lui. E non ebbe molto tatto nel comunicarmelo. “La mamma è morta! La mamma è morta! Non la vedremo più!”. Io non riuscivo a capire bene il significato di quelle parole, visto che mio padre mi aveva detto che la mamma era andata dalla nonna negli ultimi tempi e che sarebbe tornata appena avrebbe potuto”. Non sapevo se piangere o se avercela con mio fratello che si permetteva di dire quelle cose sulla mamma e a me. Eravamo a casa, visto che mio padre stava fuori tutto il giorno per lavorare e riuscire a portare al mese i soldi che bastavano per andare avanti. Non sempre ci riusciva povero, molte volte ci mandava a mangiare dalla signora che ci abitava accanto, una signora anzianotta ma di buon cuore. Da lei la casa era molto più calda. Papà rimaneva a casa, a volte senza mangiare. Però non ci diceva mai niente e quando tornavamo diceva di essersi cucinato qualcosa. Questo spesso, a volte, anche quando c’era la mamma. Però lei la maggior parte delle volte rimaneva con lui, senza cena. Quella sera ritornò accompagnato da un po’ di persone. Io ero rimasto tutto il giorno con il fiato sospeso e non riuscivo più a pensare. Volevo sapere cosa fosse realmente successo. Non so se un bambino piccolo può capire tali cose e quanto possa soffrire. Soffrii della scomparsa della mamma, ma soffrivo ancora di più pensando a mio padre che era rimasto lì, con pensieri che lo soffocavano sempre

di più”. Aveva cominciato e io ascoltavo senza domande senza perché. “ Ci insegnò a leggere, a scrivere. Anche se anche lui non era molto abile. Ma diceva sempre che il sapere leggere e scrivere era la più importante delle cose che un bambino deve fare per diventare un uomo. Scrivere il proprio nome… Che grande cosa! E come ne andavo fiero! E come tracciavo così la mia personalità. Ecco che allora ricordo le sere ate sulle gambe, a ridere, a non pensare. Ma era tanto triste. Io a volte, anche se non glielo avevo mai detto, lo avevo visto piangere. Portava le mani alla testa e piegava il busto sulle gambe. Poi per non farsi vedere da noi, aspettava che gli finissero quei momenti e ritornava. Quanto aveva dovuto avere pianto! Piangere per un uomo forte vale molto di più di mille altre lacrime. Chissà se era potuto essere almeno un po’ orgoglioso di noi, ma soprattutto di lui. Chissà se si stimava come uomo, e come padre. Io lo stimavo. Lo stimo tuttora. So quanti sacrifici ha fatto. Anche se a volte, e ancor meglio crescendo, io e mio fratello non ne eravamo stati tanto consapevoli. Rimase solo negli ultimi anni della sua vita. Io e mio fratello ce ne eravamo andati, a vivere la nostra vita. Non ci aveva mai fatto obiezioni, ma ci ricordava sempre di essere uomini, in ogni situazione. Ogni tanto negli ultimi tempi, in periodo di sconforto andavo da lui, che mi rincuorava. Con mio fratello erano anni che non si parlava, e di questo ne soffriva come non pochi. Mio fratello era andato via. All’inizio riuscivo a sentirlo, ci scrivevamo. Ma poi persi le sue tracce. Ho sempre pensato che è lui che si allontanò, ma che ne aveva dovuto soffrire. Dopo qualche anno morì; non riuscii a capirne la causa. Lo seppe anche mio padre. Ma di lui non parlammo più. Un giorno mi mandò a chiamare. Era sera e lui stava sdraiato sul divano. La luce del salotto era spenta e lui guardava in alto, al buio. Non sapevo cosa volesse, ma appena entrai gli presi la mano, anzi me la prese lui. Rimasi così per un po’. Poi cominciò a pronunciare qualche frase. “ Nella vita niente è perso, niente viene per farti perdere. Tutto ciò che ti si presenta davanti, accoglilo con la più grande felicità. Non arrenderti mai alle disavventure, ai dolori, alle sofferenze, alle difficoltà. Non ci sono disavventure, dolori, sofferenze, difficoltà. L’unica cosa che esiste è la vita. Senti in modo definitivo la tua vera natura, e questa non ti abbandonerà mai. Niente deve oscurare la tua gioia di vivere, perché per te la vita deve essere gioia, consapevolezza piena di una natura, la vera sentita natura.

Togli la polvere dalla tua anima. Tutto ciò che vivi è tuo e siine sempre orgoglioso, ma non per rafforzare il tuo io. Solo per comprendere sempre di più che l’unica salvezza è la vita. Se riuscirai a raggiungere questa consapevolezza, allora la morte non esisterà più e cesserà di metterti paura. Perché di fatto la morte non esiste. E’ solo un lato della vita. Vivi, figlio mio, la vita è bella non perché è felicità, gioia, ma perché è vita”. Morì dopo pochi giorni, senza che io avessi la possibilità di rispondere a quello che mi aveva detto. Forse non avevo neanche cosa rispondergli. Sa mio figlio è morto poco tempo fa, per una grave malattia. Mia moglie se n’è andata tre anni dopo la sua nascita. e io oggi ero venuto quassù per…non so per quale gesto. Sicuramente per uccidermi. Ma oggi risponderò ciò che non avevo detto a mio padre. Continuerò a vivere la ma vita. Perché da qualsiasi punto la guardi, quella è la tua vita…”. Rimanemmo un po’ in silenzio per non rovinare quelle parole, anche se poi le parole non si rovinano… “ Vedi, ragazza mia. Nella vita non perdere tempo a pensare. Cioè pensa pure, non puoi non farlo; ma fa che il pensiero non diventi la tua vita, perché non è così. Non servono parole, pensieri, chissà cos’altro. Rimani spettatore di ciò che ti capita. Guarda semplicemente ciò che ti accade, perché la vera vita non sta in quello, ma ne è al di là. Vivi ragazza, vivi comunque”. “ Ora ti saluto, mi alzo. Vado un po’ in giro, faccio due i”. “ La saluto allora, grazie del bel momento”. Mi sorrise guardandomi e cominciò a camminare lungo la strada. Rimasi ancora un po’ seduta senza pensare. Guardavo immobile ciò che avevo intorno… Tornavo a casa, non avendo finito nulla. Quindi pensavo bene di riuscire, per cercare qualche cosa da qualche parte, ma non sapevo cosa né tantomeno dove. Allora era la volta buona che m’imbattevo in quelle donne da strapazzo, quale la signora Bisini che andava la mattina sempre in coppia con qualche altra perdigiorno. “ Salve! Ma come si è dimagrita! Sembra proprio che a lei questo lavoro la impegni talmente tanto da non farla più mangiare”. Era vero a metà, visto che

parecchie volte la pigrizia e la mancanza di viveri aveva fatto il resto. “ Beh, come dire c’è che paga per dimagrire, io invece lo faccio gratis. E poi non sono proprio dimagrita. Dove va in giro?”. Non so neanche perché continuavo a dare spago a quella lingua infuocata, che non aspettava altro che vedermi affondare per avere di cosa parlare, ma a volte mi lasciavo andare, senza rendermene troppo conto e senza farci troppo caso. “ Ma sa, andavamo a fare due i al bar, poi alle undici abbiamo ginnastica”, infatti, aveva un terribile odioso abbigliamento da pettegola e fanatica. “ Ora andiamo, arrivederci”. “ Arrivederci signora Bisini, arrivederci”, anche a quella che aveva vicino che non aveva fatto altro che acconsentire ridendo. Chissà quante volte si agisce non capendo quello che si sta facendo. Non è la vera via per avere ogni parte. Tante volte ci pentiremo di non aver potuto sfruttare ogni minuto, ogni istante, ogni attimo. E allora lì ce ne renderemo conto, ma tutto sarà accompagnato da un velo di tristezza e malinconia. Non occorre aspettare, occorre essere coscienti e avere pazienza. Pazienza di una vita che non tarderà ad arrivare, di un sorriso che non ci metterà molto a spuntare. E allora goditi tutto il resto. Il male che tu intendi è solo una parte di quel gran mistero che alcuni chiamano vita. E’ un mistero, ma non ci deve essere ombra di paura, di timore. Una volta stavo camminando per la strada e ai davanti a una bambina che piangeva. Le lacrime le rigavano gli occhi come un ruscello fa con la montagna. Ma in quel viso c’era un dolce velo di un’atmosfera carica di purezza. La purezza non è nella gioia, ma in ogni angolo della nostra esistenza. Com’è carico di enfasi un viso che piange per piangere. Senza nessun obiettivo; l’unica cosa esistente è il pianto. Quanto è falso l’uomo. Come è ipocrita la sua esistenza, se così si può chiamare. Ogni individuo si alza la mattina e quasi tutte le azioni che compirà saranno velate dalla sua falsità del vivere. Nessuno si rende conto della non spontaneità delle proprie azioni; ognuno giace nel proprio sonno. Ci si preoccupa solo dell’effetto che le proprie prospettive avranno nei confronti degli altri. S’innesca così una catena di pensieri falsi e dannosi per la consapevolezza, che difficilmente è spezzata. Si corre per andare in ufficio, per compiere attività che rafforzeranno il nostro io e ci faranno cadere sempre più in un sonno profondo, nel quale neanche avremo la preoccupazione di cogliere ciò che veramente conta, ciò che veramente è. Non si riesce a essere felici, veri. Avevo da tempo ripreso ad andare nel mio ufficio, per cercare di recuperare

qualcosa che si era ormai rotto, ma mi sbagliavo… Un giorno assistetti a un battibecco tra il mio capo e un agente che veniva da fuori. Per un lasso di tempo abbastanza lungo litigarono su qualcosa che non era stato detto esplicitamente a parole, ma che entrambi conoscevano. Le urla di entrambi risuonavano per tutti i corridoi, ma nessuno ebbe il coraggio di proferire parola. Andai allora dal mio vicino di ufficio per chiedere qualcosa, ma anche lui, come tutti gli altri aveva dato retta alla sua ipocrisia e mi fece are per una banale impicciona, visto che non rispose ai miei interrogativi, non guidati da nessun tipo di curiosità. Avrei voluto fare qualche domanda al mio capo…ma non lo feci. Continuavo a restare nel mio ufficio ingannandomi di cercare qualcosa da sistemare, ma non avevo niente. Solo scappatoie mentali. Era venuta un giorno negli uffici una signora, una persona importante si diceva in giro. Fu scortata da una macchina scura e due grossi uomini che le facevano strada da qualunque parte si dirigesse, sebbene da spostare a volte c’erano solamente moscerini. Aveva un’aria altezzosa ma non fastidiosa. Era vestita molto elegantemente, con una gonna stretta grigio antracite, e una giacca grigio scuro, abbinata a una camicia bianca sotto di cui si vedeva molto bene il colletto, abbondantemente ricamato. La gonna le stringeva molto le gambe, risaltando le sue forme non più tanto giovani. Aveva una borsa nel braccio e una pettinatura pomposa. Il suo sguardo era rivolto in alto, come per evitare di incontrare qualcuno nei piani bassi. Sembrava essere attratta dalle cose futili; girava il suo capo da una parte all’altra senza nessuna logica. Era una visita turistica. Solo alla comparsa del capo lei lo avvistò e gli andò incontro, con la solita calma e indifferenza di prima. Già tutti erano usciti dai loro uffici e facevano vedere la testa sporta fuori della porta per gustarsi qualcosa di nuovo, su cui poi parlare.

Nessuno sapeva cosa stesse facendo lì quella signora. Solo la signora Bolasky ammiccava a qualcosa, non facendosi capire e venendo ricoperta dalla solita incredulità. Uscivo. Avete mai osservato il cielo in una notte di quasi estate? E’ carico di una magia notturna che quasi fa spavento, talmente è grande. Così, mi veniva in mente perché di solito il cielo da molta forza ai pensieri. Ispira molte liriche, molte questioni, molte decisioni. T’introduci nella sua illimitata spaziosità e vieni accolto dalle sue grandi braccia, che ti coccolano e ti alzano da terra, per quanto sia possibile, almeno per chi riesce ad alzarsi. Quante volte mi mettevo e mi metto a osservare i anti, la gente comune che a per strada. E’ strano guardarli a volte. Vedi i loro volti imibili di emozioni che si trovano gli uni vicino agli altri senza nessuna emozione, senza espressioni, senza vitalità. C’è tristezza, amarezza, solitudine, angoscia. Pochi sono coloro che vivono anche la minima corsa al lavoro, al mercato, a casa. Il mondo è triste. Si sente appena si aprono gli occhi la mattina e appena si richiudono la sera. La freschezza che un bambino può avere nel cuore, la sua allegria, la sua libertà da ogni mera cosa è una cosa straordinaria. Straordinariamente fino a un certo punto, visto che tutti siamo stati bambini e tutti abbiamo i semi di queste caratteristiche. Solo che li distruggiamo con i pensieri, con il lavoro, con tutta la vita. Crediamo di crescere ma in effetti regrediamo, e più andiamo avanti e più torniamo indietro. Non vedi che tutto il mondo è triste? Come si fa a non rendersene conto? Tutto è velato da un’atmosfera grigia e offuscante, fa vivere per il gusto di vivere, non per l’amore per la vita. Discorsi che forse campano in aria, ma la tristezza è tangibile, la paura della vita è cosa di ogni giorno, di ogni cuore, forse. Mi ricordo di un fatto che mai potrò portarlo via. Ho guardato negli occhi di alcuni piccoli esseri che vivevano una situazione fisica e psicologica abbastanza problematica, agli occhi dei “normali”. Lì sta la vera ragione di vita. L’unica occasione per chiedersi cosa la vita significhi…E’ questo il problema. Si a la vita a chiedersi cosa essa significhi, cosa essa voglia da noi. Ma è qui il punto! Noi siamo la nostra vita. Non esiste niente al di sopra di noi in modo da farci

fare determinate cose.

Come noi vogliamo la nostra vita e non il contrario. Ma come il solito perdiamo tempo a farci domande, a non trovare risposte. Il tempo che perdiamo non è quello cronologico, ma quello esistenziale. Dovevo a tutti i costi riprendere il mio lavoro. Non potevo lasciare le cose insolute così. E poi dovevo trovare qualcosa che m’impegnasse la mente. Anche se la mia mente era già tanto impegnata… Non ero attenta nel tenere in mano ciò che avevo… E questo era uno di quei periodi della mia vita che ogni tanto attraversavo e che distinguevano sempre più la mia esistenza. A casa non stavo volentieri. Qualcosa mi aspettava di fuori e non potevo stare ferma. Il corpo non conteneva più quello che dentro di me, giorno dopo giorno, si accumulava. Avendo avuto un periodo di vuoto, mi serviva girare per le vie della mia zona, come tanto tempo fa, visto che era tanto tempo che non lo facevo. Volevo immergermi nei ati ricordi, vivendo quella realtà perduta, illudendomi di poterla vivere… Ma perché la mia mente spaziava sempre in vie diverse, rapita da mille pensieri, che apparentemente, mi trascinavano lontano da una via serena, e, sempre apparentemente, risolutiva? Chissà cosa avrei potuto trovare e dove per riuscire ad andare avanti con tutta la faccenda? Era mattino presto e, non appena sentivo gli uccellini che cantavano allegri, dando il buongiorno a quell’aria estiva, decisi di alzarmi, per andare a girovagare, con il corpo, oltre che con la mente. L’aria della casa che mi chiudevo dietro il cancello mi stringeva sempre più il

cuore… Intrapresi la lunga salita d’asfalto che portava a un incrocio. Là avrei preso una delle due vie. Case nuove incontravano i miei occhi. E lì, anche lì, ricordi. Non so se volevo trovare o ritrovare qualcosa, ma intanto camminavo. Non a caso incontravo qualche cane randagio che rallentava la mia corsa. Mi guardava fermi e immobile, per abbagliarmi dietro una volta atagli davanti. L’aria era delle più salutari. Si sentiva il profumo dei fiori campestri entrarti nei polmoni per inondarti le intere parti del corpo e non abbandonarti più. Ogni tanto un insetto rumoroso ti distoglieva l’attenzione, ma poi ripiombavi in quel silenzio. Sentivo a volte il fiato venirmi meno, allora mi fermavo voltandomi indietro e osservando la strada percorsa. ando davanti a un piccolo parchetto, notavo un gruppo di ragazzini che erano seduti su delle biciclette, appoggiate a dei pali. Tre bambini, due bambine, che si lanciavano sassi e spighe, per colpirsi meglio e per fare provare almeno un po’ di dolore all’altro e mettere un punto in suo vantaggio. Ma continuavo sempre ad andare avanti, senza soffermarmi più di tanto. Tranne che per un momento, in un preciso posto. Erano troppe le cose che mi distoglievano dal pensare ad altro, forse più importante per la mia vita, ma non per me. Allora mi veniva in mente il mio lavoro, e quello che avevo lasciato, mi sovvenne Alfonso… Ma cominciavo a impaurirmi pensando alla mia futura situazione finanziaria. Ogni volta mi prendeva il panico, ripensando a quello a cui sarei potuta andare incontro non avendo sicurezza di moneta. E se avessero deciso di licenziarmi e di non armi più neanche quel misero mantenimento che riuscivo a metter da parte? Queste sì che erano grandi preoccupazioni. E allora mi veniva in mente quello che avevano fatto altre persone in simili situazioni, e come non mai sprofondavo nel più tragico pessimismo. Avrei potuto intraprendere un altro lavoro. E se la mia vita ata fosse d’intralcio per qualsiasi strada futura?

So che a volte gozzovigliavo in suddetti pensieri, ma erano gli unici che riuscivano a prendermi, forse per la loro alta realtà. avano al mio fianco, di tanto in tanto, macchine, dalle quali cercavo di fuggire. Arrivata a un punto mi fermai per risollevarmi un po’ dal calore che il sole faceva ricadere sul mio corpo. Quanto darei per ritornare ad avere i giorni liberi di come quando ero bambina! Non farei a cambio con i miei giorni attuali. Ma ricordo che sono cresciuta di queste cose, e queste cose saranno forse la mia vita. Fai che entrino in te i fiori di campo… Mi perdevo talvolta in questi momenti, ma erano questi che mi davano a volte tanta carica, per una strada che prevedevo non tanto facile, ma che dovevo comunque percorrere, per quello che ero io. Continuai poi a camminare lasciando quello spettacolo. E subito sprofondavo nella nuova vita, quello attuale. E’ bello a volte perdersi per ritrovarsi. E poi se andiamo a vedere non ci siamo mai persi. Ero stanca, ma non avevo fatto niente.

E’ questo che più mi turba: cosa ci aspetta nel futuro? Quali giorni ci prepariamo comportandoci in determinati modi? Quale sentimento o sensazione seguire? Quella che più ci attira o quella che è più giusta per noi? Qual è però più giusta? Per noi o per gli altri? Domande che non suonano nuove probabilmente all’animo di molti, ma che suonano bene probabilmente agli orecchi di pochi… A volte alzo lo sguardo al cielo per cercare se una risposta c’è lassù. Ma…avete mai guardato il cielo di notte. La notte non vi lascia il fiato neanche quasi di respirare, come potremo ricavare delle risposte? Resta solo accettare.

XVI

A volte andavo in un posto dove mi sedevo in una panchina a riflettere. Mi alzavo da quella panchina come se avessi fatto un viaggio in un posto sconosciuto. Ma poi mi rendevo conto che non erano ate che poche ore. A volte camminavo lungo la strada. Visto che i miei ultimi pensieri erano tutti riservati al mio caso, guardavo le persone e se m’imbattevo in una scena interessante, mi fermavo a una parte a osservare. Rientravo a casa, e trovavo sempre delle macchine parcheggiate davanti alla casa della signora Bisini. Forse la signora aveva organizzato delle giornate con alcuni dei suoi soliti amici e parenti. A volte arrivavo a casa e la voglia di non entrare era talmente tanta che richiudevo subito il cancello e incominciavo a camminare senza una meta a volte. Così per andare a esplorare un po’ la mia mente e nell’occasione mi sarei imbattuta sicuramente in un altro atto della commedia… Camminavo, camminavo. Un giorno incontrai sul mio tragitto una bambina. Era sola, doveva avere un po’ più di quattro anni. Era ferma sul ciglio della strada e guardava avanti. Il suo viso era bellissimo, dolce delicato. Il corpo esilino ma giusto per quell’età. Aveva i capelli a mezza spalla, di un biondo scuro, pieno di grandi ricci. Aveva le braccia stese lungo il corpo. Indossava un vestito rosso con una camicetta bianca, quelle carine che si mettono ai bambini, delicate. Appena mi avvicinai lei non fece cenno di cambiare il suo atteggiamento. E guardava sempre fissa a un punto. Pensavo stesse aspettando qualcuno, ma era strana la sua aria, così calma eppure così carica di mistero. Le ai davanti guardandola. Lei volse finalmente il suo volto verso di me e mi guardò negli occhi. Senza la minima mossa. “ Ciao piccola, tutto bene? Che fai? Sei sola?”, mi uscì di dirle, non capendo la sua situazione. “Si tutto bene. Stavo qui. Da sola. Non avevo voglia di giocare con gli altri bambini, e allora sono venuta via”. Mi ero fermata nel frattempo e continuai le mie domande:“ Ci sono dei tuoi amici qui vicino? Come mai non vuoi giocare con loro? E perché non rimani

vicino a loro, almeno non rimani da sola. Dov’è la tua mamma? A casa?”. “ Venivo qua per rimanere un po’ a guardare i fiori e il prato. Dopo li raggiungo. Non c’è pericolo. Non ho paura. La mia mamma forse è a casa. Con gli altri miei fratelli. Non lo so se si arrabbierebbe sapendo che sono qui da sola, ma io non glielo dirò, e così eviterò di farla arrabbiare”. Le sue parole pronunciate così bene mi fecero venire i brividi. La sua faccia era gioia e dolore, felicità e sofferenza, superficialità e profondità, grande e piccolo insieme. “Se vuoi ti accompagno io dai tuoi amici o dalla tua mamma. Non farli stare in pensiero”. “Sono sicura di non farli stare in pensiero perché sono io in pensiero per loro, come per tutti. Non sanno giocare con le cose che li circondano. Non riescono a vivere ciò che hanno vicino e s’inventano sempre tante storie. A me piace giocare, ma non con le cose inventate! Voglio le cose vere! Tu sai giocare con le cose vere? O giochi anche tu con le bambole?”. Di fronte a quel discorso mi ritrovai un po’ bloccata inizialmente. Non riuscivo a capire come potesse una bambina piccola arrivare a determinate conclusioni e cosa volesse intendere veramente. “ No, io non gioco con le bambole. Anche a me piace giocare. Anche se sono un po’ più grande di te. E’ quello forse che gli altri non capiscono veramente”. “ Io voglio giocare come dico io. Ecco perché a volte mi allontano. Però vedo anche che non mi cercano se non ci sono….E questo mi rende triste a volte. Perché so che loro potrebbero giocare con me…”.

XVII

Tornavo a casa, riuscivo, senza ormai una logica. Non sapevo separarmi dalla natura e ricercavo sempre più un contatto con essa, una forma di relazione che mi avrebbe salvato da tutto quello che mi stava cadendo addosso. Ormai anche la mia casa non era più tanto sicura e cercavo disperatamente una dimora che mi tutelasse da ogni evenienza, da ogni accadimento… Mi fermavo e la mia mente a poco a poco spaziava verso confini infiniti, illimitati. La vera natura era là… Avete mai guardato negli occhi un uccellino? C’è la freschezza della natura dentro di lui. Il profumo t’invade e allora lì ti senti nel mondo. Ma è andare fuori dal mondo… A volte si è come il volo di un moscerino che con le sue deboli ali cerca di arrivare più in alto possibile, facendo forza su di loro e ancorarle bene allo spazio… Mi tornavano a volte in mente scene di persone che ho incontrato nella mia vita, e, talvolta, come senza un perché, mi appaiono davanti agli occhi. Mi ricordo di un’anziana signora che un giorno mi sedeva accanto sulla corriera. Era una di quelle vecchiette stanche, che tornava da chissà quale campo di lavoro, dopo una lunga giornata sulle spalle. Io stavo accanto a lei seduta che, vicino al finestrino, guardava fuori senza avere un punto fisso e con lo sguardo intenso. Era una signorotta non tanto esile, vestita alla meglio, con una gonna lunga a quadri scura, una maglia scura, non si sa se per il colore o per l’intenso lavoro sostenuto, e sopra un giacchetto di lana, corto sulle maniche dal quale usciva la maglia sottostante. Aveva delle buste sulle ginocchia che teneva ferme dai manici con le mani. Queste erano grandi e scure, con grandi spaccature, gonfie che sembravano essere immobili, di pietra. I suoi capelli dovevano essere abbastanza lunghi, ma erano raccolti da un fermaglio. Il viso era solcato da numerose rughe.

Emanava un profumo di terra. Non si sa perché, ma sentivo un’atmosfera particolare, forse triste e malinconica, talmente che avrei voluto parlare con quella signora e domandarle della sua vita, della vita. Ma il suo sguardo abbassato e il suo lavoro ancora alla sua età, mi davano tante risposte, sebbene non le avessi posto neanche una domanda. A un certo si sentì osservata e mi fissò con lo sguardo… Quante cose a volte si vogliono fare e quante poche cose si riescono a fare! Questa è la peggior tristezza che ci possa essere. Avere dei limiti è un tormento continuo. Si vive, si lavora, si corre, ma niente si fa con lo spirito giusto. Leggevo un libro una volta. C’era raccontata la scena di un bambino che sentendo le persone lamentandosi per le proprie faccende, chiese a un uomo: “Qual è il lavoro che io posso fare da grande senza che mi pesi così tanto?”, e l’uomo rispose: “ Il lavoro che tu puoi fare senza che ti pesi è quello che tu fai con tutta la tua anima. Seguila e ne godrai”. Quante persone vivono situazioni che non vogliono vivere, fanno cose che non vogliono fare, pensano cose che non vogliono pensare. Il mondo è triste, è stanco, è colmo di irresolutezza che avanza a poco a poco. Allora perché non vivere al meglio e fino in fondo? Perché ci si ostina a non vivere? Per le istituzioni? Per le formalità? E quando sarai grande, stanco e vicino alla fine, ti attaccherai ancora alle formalità? Come farai a guardare il cielo se nei tuoi occhi vige tristezza e rancore? Rancore nei confronti di una vita che non hai vissuto, di un’emozione che non hai provato, di una cosa che non hai detto, di un’anima che non hai liberato. Allora non ti resterà che guardare la terra bruna un basso e mandare giù tutto il rammarico di tanto tempo ato. Ma allora perché aspettare il futuro per rimpiangere il ato…Bisogna vivere il presente. Tutta la vita che ci viene incontro è ardore di una purezza che ci appartiene. La vita. Quante volte sono tornata in ufficio, dal mio capo, dai miei colleghi, dalla signora Bolasky. Quante volte ho camminato per la strada, incontrando la signora Bisini, il signor Stapato, il signor Dari. Quante persone ho incontrato.

XIX

Era arrivato. Ma era arrivato? Ora più niente. Attimi fuggenti che ano. Mente divisa da cuore, spaccati a metà, seguendo non so quale via, non so il perché. Perché? Sto ferma immobile, non muovo una minima parte del corpo. Sembro quasi morta, ma dal fondo c’è qualcosa. Non ho più ricordi, la vita ata si è cancellata. Guardo ma i miei occhi non vedono niente. Guardo ora. Guardavo prima. Guarderò? Ciò che ho vissuto è stato tutto vero? Mi arrestarono. Trovarono il corpo di Socchisi seppellito nel mio giardino… non so per quale ragione, non so come possano aver fatto e non so chi possa essere stato il colpevole. Ora guardo tra le sbarre in un punto indefinito…