Luciano Jolly
IL REGNO CADE
Abel Books
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Abel Books via Terme di Traiano, 25 00053 Civitavecchia (Roma) ISBN 978886752671
1
disse il Primo Funzionario con labbra rosee ma adesso increspate per l’allarme,
. <Se non prendiamo provvedimenti urgenti, saranno qui prima di sera> aggiunse Abelis, il Ministro degli Affari Celesti. Poi si mise a sfogliare il Libro delle Preghiere segrete, per cercare il rimedio più adatto al nuovo pericolo. <Sono famelici e si avventano contro gli ostacoli con energia inaudita> rincarò il Gran Dignitario.
.
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. L’Imperatore mosse verso il balcone di marmo del Palazzo. Da lì si vedeva il Regno in tutta la sua nobile bellezza. Dopo le colline brune si distendevano quelle perlacee, e poi ancora valli del tutto silenziose e una corona di monti, dalle candide cime mai percorse, fino a quel momento, da nessuno. Rimanendo in piedi, l’Imperatore contemplò fiumi e distese verdi per una lunga ora, e sembrava che il tempo non dovesse trovare fine. Però fece salire lo sguardo, e in questa elevazione provò un brivido di triste gioia, fissando i contorni luminosi delle nubi altissime che veleggiavano sopra la superficie cupa dei laghi. Dalle loro acque, ogni giorno, i contadini pescavano grassi pesci per nutrirsi. Pensò:
. Vide i poggi, come l’avevano fatto i suoi avi per generazioni, emergere dal ventre del pianeta come mammelle erette contro il cielo in cui il pianeta navigava. Essi promettevano di riempire le bocche degli abitanti con i loro frutti, secondo la sazietà di ciascuno. Con un ultimo respiro, quasi di rimpianto perché un’epoca stava tramontando,
notò che l’acqua delle risaie era tuttavia stabile; qualche airone riposava immobile sopra una zampa rosa. Quanti secoli erano occorsi per creare il caro ordine! Com’era benedetta la sua terra! Girò il solido corpo reale verso i Dignitari:
decise quindi con la sua voce grave, che scendeva come il profumo di un incenso fino alle ossa dei presenti.
. <Santità> insisté con ione il Primo Funzionario di Corte,
. Per la prima volta prese la parola Cornelio, il generale che comandava la Legittima Difesa:
. <E’ possibile che tra una sofferenza e l’altra gli occupanti portino un nuovo modo di vedere le cose, che noi non avevamo ancora considerato> rispose con tristezza l’Imperatore.
informò il Primo Funzionario.
aggiunse Abelis <e secondo le tradizioni la nostra parola ha avuto fino ad oggi un carattere sacro. Finché parlare era considerato una preghiera, le cose andavano bene. Ma i nostri informatori avvisano che gli occupanti non consentono di parlare che a un artigiano su centomila, e solo per dire le cose gradite agli occupanti>.
finì il generale Cornelio.
suggerì il Primo Funzionario.
.
terminò il Ministro degli Affari Celesti.
decise l’Imperatore. <Ma per cose talmente gravi, occorre che io parli con l’Imperatrice>. Egli si diresse al settore Est – dove entrambi ogni mattino assistevano al sorgere del sole - ed entrò negli appartamenti dell’amata dove i mobili erano di legno chiaro ed essenziale.
le chiese turbato da malinconici presentimenti. <Sì! Siamo invasi>. Entrambi guardarono la luce di quel giorno che si posava sui muri bianchi con leggerezza, recando i profumi benedetti della terra: quella luce che la filiera degli Imperatori aveva tanto amato fin dalla fondazione del Regno.
chiese l’Imperatrice ponendogli una mano sul braccio.
.
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disse lui con una nuova ruga sulla fronte, che rimaneva tuttavia distesa.
chiese la buona Imperatrice.
. <Scorrerebbe il sangue> disse Lei con un’onda di tremore nella parte superiore
della veste.
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affermò Lei.
precisò Lui.
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. <Molti troveranno a ridire>.
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. <Ma il nostro popolo ne uscirà a pezzi da un lato, e con forza maggiore sotto altri aspetti> disse ancora Lei.
trasformarlo> concluse l’Imperatore. Nel separarsi compresero che dovevano abbandonare un certo sentimento di malinconia, che pulsava sotto i loro zigomi da poche ore. L’Imperatore ritornò nel Salone dei Colloqui. Andò incontro al generale Cornelio e disse: <È stato deciso di lasciarli avanzare>.
si oppose il Primo Funzionario.
.
aggiunse Abelis. <Mi rendo conto però che in momenti eccezionali è lecito prendere talvolta anche decisioni straordinarie.> Il Gran Dignitario taceva. L’esercito occupante non era ancora arrivato al Palazzo, ma l’onda d’urto avanzava più veloce dei carri meccanici nell’aria fresca di quell’ultimo crepuscolo. Decisero di attendere gli avvenimenti e di avere una certa fede nel futuro: si sarebbero visti il mattino dopo per esaminare quelle che Abelis chiamava “le novità contundenti”. Con un solo pensiero nella mente, l’Imperatore ritornò allora nello spazio Est e disse all’amata: <Sono tutti d’accordo: non resisteremo! Quello che deve compiersi, ebbene: si compia>. La sera discese con una straordinaria dolcezza sulle torri del Palazzo. L’arco Est del cielo fu il primo a oscurarsi come un velluto bruno. Nell’aria profumata per le recenti fioriture incominciarono timidamente a muoversi, come per un avviso frullante, i primi uccelli notturni. Un tepore amichevole avvolgeva la cima degli alberi sopra la terra in riposo. Tutto parlava la cara lingua del silenzio. Intanto gli avvenimenti si svolgevano secondo l’ordine prestabilito; gli eserciti marciavano comprimendo il suolo con i loro talloni e gli uomini tremavano nelle case del Regno coltivando una fede spaventata. L’Imperatore si avvicinò allora alla sua diletta. Sentì il fruscio delle sete che scivolavano sulla pelle dorata e giovane dell’Imperatrice. Per un attimo rimasero immobili nella sera a considerare l’andamento delle cose: sapevano che una prova bestiale stava per abbattersi sul Regno. Da quel momento in poi le Gerarchie sarebbero state sconvolte. Il male avrebbe camminato dentro i
polpacci stessi degli abitanti. Qualcuno si sarebbe incaricato di gettare i Regolamenti, sovvertiti e lacerati in mille pezzi, agli angoli delle strade. Per questo gli Imperatori che avevano cura del Regno non dovevano farsi prendere la mano: ma rimanere forti e coltivare la propria essenza. Per questo Essi si avvicinarono in una regale attrazione reciproca. Lui sfiorò la mano di Lei e la strinse liberando l’immenso amore. L’immenso amore arrivò alle labbra di Lei. Circolò impetuoso nel sangue femminile di Lei, restituendosi sovrano nelle membra di Lui. Così si sprigionarono mondi nuovi. Le loro porte erano del tutto aperte e ciascuno circolò nei palazzi dell'altro da ospite; e da lì ciascuno, in coppia, ò agli universi amici che tutto intorno circondano il Regno. Vi furono pulsazioni di una vita indicibile che sgorgavano da Lei ed entravano in Lui; nello stesso momento essi non erano abili a distinguere chiaramente che cosa fosse l’uno, e che cosa diventasse l’altra. Affinché tutto questo fosse compiuto occorse, pure, che dei venti primaverili alimentassero il sangue di entrambi con il cibo della pura gioia e del disinteresse reciproco. Così l’Imperatore fu in grado di sciogliere la propria essenza nell’essenza nascosta di Lei e la notte fluì come un limpido fiume mentre gli eserciti avanzavano, calpestavano e stritolavano il suolo del Regno. Per un lungo momento i loro corpi sovrani erano rimasti sotto la notte e sotto tutte le cose in una pace maestosa e piena di onde. Si erano circondati l’un l’altra con le braccia e avevano sentito che nel vigore delle carni di Lui esisteva un punto di delicatezza. Mentre quelle di Lei attingevano la loro bellezza alla sorgente di quel vigore che si rinnova tutte le notti. L’Imperatore e l’Imperatrice si erano lasciati scivolare nell’unità perfetta: e ora stavano immobili di fronte ad un’alba di perla, che si annunciava al di là dei vetri tersi della stanza imperiale. Adesso occorreva di nuovo posare i piedi sulla bella terra del Regno. Nessuno poteva sapere quali frutti avrebbe portato la nuova giornata. Il futuro rimaneva nascosto nelle pieghe della luce, appena spuntata, del mattino: brillava come un’arma, come un punto interrogativo alle spalle dell’ordine universale, imposto dal nascente sole gagliardo.
2
Uscendo di colpo da un sonno leggero e tormentato, Fedele si era svegliato con un sobbalzo nel letto. La sera precedente aveva ascoltato a lungo la radio. Le notizie in quelle prime ore erano rimaste alquanto vaghe. Sembrava che l’esercito invasore procedesse nelle pianure del Nord senza incontrare troppe difficoltà: ma quanto velocemente, non era dato saperlo. A sud aveva sfondato le linee con facilità: allo stesso modo l’acqua, cresciuta troppo in altezza, supera dighe e argini, straripando ovunque. Finora non c’erano stati combattimenti. Alcune fonti parlavano di un rallentamento nell’avanzata per motivi interni, e in ogni modo tutte le agenzie erano concordi nell’affermare che i Regnanti, acquattati nelle loro case, osservavano lo straniero progredire sulle strade maestre, sia pure con lentezza. Ma a tarda notte Fedele, dopo aver ascoltato quelle notizie in cui cominciavano a mescolarsi parole straniere, aveva perduto la coscienza della propria carne, lasciandosi sprofondare nel sonno così ingombrante. L’ultimo pensiero era stato per Ottavia. Gli piaceva immaginarla, fiorita e sorridente, quando Fedele si metteva sotto le coperte preparandosi al sonno. Ne aveva visitato, con la mente, lo sguardo fatto di luci che si accendevano come bagliori improvvisi, e di ombre che le spegnevano improvvisamente. Aveva rivisto la piega delle labbra giovani che canzonavano con simpatia; la bellezza degli arti eleganti e lunghi che si protendevano così spesso verso di lui.
, aveva pensato Fedele. La materia di cui Ottavia era composta, si mostrava ogni giorno bella e tangibile, un vero miracolo. Fedele toccava quella materia di velluto: c’era in essa qualcosa di divino e ne aveva dei brividi. Poi tutto finiva, ma non era mai veramente terminato: perché ogni conclusione era soltanto provvisoria e continuava con uno sguardo, un movimento del polso o un respiro leggero nell’incontro dei loro destini. A un certo momento della notte lui si trovò ad arrampicarsi, aggrappandosi con
le unghie fino allo sportello, che era più piccolo del necessario e permetteva di vedere soltanto un piede dell’occupante. Il piede era la prosecuzione di quella gamba militare coperta da una tuta da combattimento (ma risplendeva nudo con belle dita regolari, come di cera). Fedele tentò di entrare attraverso lo sportello ma non c’era spazio, e adesso egli era disteso sulla porpora rossa del letto che prese a sussultare. I movimenti venivano dal basso. Erano misteriosi e scuotevano la notte intera. Non si capiva quale animale o quale forza arcana li fe emergere dal sottosuolo, né perché vibrassero sotto la schiena di Fedele in quel modo così inquietante. Non si poteva nemmeno capire se avessero uno scopo definibile in termini umani. Ma alla fine il proprietario del piede lo ringraziava e gli stringeva la mano sorridendo. Con gli occhi ancora pesanti per il sogno notturno, Fedele estrasse le gambe dalle coperte: anche i suoi piedi erano eleganti come quelli sognati, con le dita affusolate e una pelle chiara. Sentì le proprie fondamenta appoggiarsi pesantemente al suolo e portare lui alla finestra, dalla quale si vedeva solo la parte inferiore della città. Per il momento nulla era diverso dal giorno prima. Non si vedeva alcun soldato e le case erano ancorate al loro posto lungo i bordi della strada, che si allungava ai piedi del Palazzo imperiale; c’era ovunque uno stato di attesa e di speranza. Fedele pensò:
. Dai tetti o dagli alberi veniva il consueto gridare delle tortore. Non si udivano colpi di fucile e un altro uccello faceva la ruota intorno ad una femmina. Però nessuno ava e questo poteva essere un segnale d’allarme: che la gente impaurita avesse deciso di nascondersi nelle case? La situazione sembrava dunque nascondere un margine d’incertezza. Che i reparti del nuovo esercito occupante si fossero acquartierati nelle periferie per non dare nell’occhio? Vi era un solo mezzo per saperlo e Fedele uscì nelle strade. L’aria era ancora fresca di notte e i muri di mattoni, con quel lieve colore di carne, davano un sentimento di sicurezza. Ma era lecito fidarsi? Camminò sul selciato ascoltando il fruscio dei propri i accompagnarlo verso l’ignoto. Svoltò nella piazza grande del quartiere: era deserta. Questo non era normale. A quell’ora i cittadini incominciavano a riversarsi nelle strade per le attività quotidiane e vi regnava un’atmosfera gioiosa. Ma quella mattina le imposte sui balconi erano abbassate.
Un silenzio che gli parve preoccupante, o per lo meno annunciatore di gravi avvenimenti, pesava nell’aria. Nessuna arma, nessuna raffica turbava il silenzio: ma dov’erano i suoi concittadini? La paura li aveva sequestrati in casa? All’inizio della via della Sapienza Antica, proprio all’angolo dei portici, vide che il chiosco dei giornali era aperto ma senza la solita coda di clienti. Si avvicinò. Il venditore lo guardò da una faccia pallida e larga: il labbro inferiore pendeva troppo grande da una bocca spalancata sopra l’ultimo pacco dei quotidiani. Chiese a Fedele:
Essendo in posizione contraria, Fedele non riusciva a leggere i titoli. Rispose perciò in modo generico:
E l’uomo dalla bocca grassa, che lo fissava con l’occhio dell’intenditore:
. E gli mostrava il titolo a grandi caratteri della Gazzetta del Regno:
. Forse era l’ultimo articolo scritto liberamente, la fine di un’epoca. Più sotto, nella posizione di taglio a metà pagina, lo si avvertiva chiaramente:
Fedele deglutì con dolore. I portici allungavano le loro curve piene di ombre nel cuore della città imperiale. Nelle strade c’era un deserto pieno di spettri; non era possibile chiedere informazioni a nessuno, e l’unica preoccupazione degli occupanti sembrava di rimanere nascosti.
Felice chiese al venditore. <Sono furbi. Hanno deciso di non dare nell’occhio! Credo che dovremo abituarci a trattare con dei fantasmi> rispose l’uomo rimangiandosi il labbro sporgente.
sussurrò Fedele.
.
.
chiese Fedele:
strana cosa, visto che si tratta di un’occupazione militare>.
sostenne l’uomo.
. E da quel momento cominciò a ignorare volutamente Fedele, che proseguì il cammino verso la Cattedrale, come per fargli capire che in regime di occupazione ciascuno deve arrangiarsi da solo. Anche il centro antico della città imperiale era tranquillo. In via dell’Alto Silenzio le mura del parco splendevano al sole e potenti rami di edera si arrampicavano sui mattoni ricadendo in folte cascate verdi. Oltre il giardino della Compensazione, poi, le torri municipali sembravano svettare alte e sicure come al solito.
pensò Fedele con un’opaca ammirazione nel cuore. I ponti si slanciavano arditi sui due fiumi della città, come se fosse stato un giorno qualsiasi. Pochi sudditi cominciavano a circolare a i cauti; e nelle piazze, sotto i lampioni ormai spenti rotolavano delle carrozze. Fedele stava pensando:
, quando improvvisamente, vicino alla Prefettura Reale, gli apparve il primo soldato. Aveva un vestito colore delle olive e teneva la mano calma sulla canna brunita di un’arma. La sua sagoma solida spiccò nell’ogiva di una porta, nella quale stava al riparo come una mandorla dentro il guscio. Dalla faccia ferma non si poteva arguire nessuna intenzione speciale e mentre Fedele stava notando:
il fantaccino, poiché doveva trattarsi di un fante da occupazione, gli fece un cenno con la canna dell’arma, come per dire:
. ando a breve distanza da lui, Fedele sentì che la bocca dello strumento, alle sue spalle, era puntata contro la parte posteriore del cuore ed ebbe un brivido breve. D’altronde il soldato non aveva mostrato al suo indirizzo nessuna tendenza ostile: era giusto pensare che non accadesse nulla. Fedele concluse:
e cercò sollievo guardando le merlature delle torri, i ponti scolpiti con il corpo della divinità presente nelle acque, e le volute dei lampioni che riempivano di nostalgia i cittadini, quando essi si allontanavano dalla capitale del Regno. L’aria giungeva dalle colline fresca e mattutina. Un sole conveniente irrorava i tetti di luce tranquilla. Le vie si animavano adesso per la presenza degli abitanti, i cui corpi andavano stampando un’ombra discreta sui selciati e sembravano non avere paura.
Poco prima di giungere al Municipio, Fedele ripensò all’Imperatore e alla sua diletta. Si chiese se in quel momento coltivassero qualche timore a proposito del Regno e all’andamento delle cose. Forse si sarebbero affacciati presto al balcone del Palazzo per pronunciare un discorso benedicente. Guardandoli in viso, sapendo leggere nei loro pensieri o interpretando il tono della loro voce, la popolazione avrebbe intuito se davvero i soldati costituivano un pericolo reale, o se poteva fidarsi almeno in parte di essi. Fino ad allora la situazione avrebbe posseduto due fronti: una delle quali si distendeva serena e ampia, e l’altra si corrugava segretamente. Nelle strade intorno al Municipio e alla Prefettura Imperiale i soldati erano più numerosi. Formavano dei gruppetti di due o tre unità armate. Stazionavano in silenzio negli angoli delle strade e sembravano occupati a fumare nell’ombra, con il mento sollevato in aria. Il corpo dei militari occupava uno spazio forse troppo importante, pensò Fedele, ma in compenso essi non molestavano i cittadini. Sembravano rispettosi e qualcuno di loro cominciò a scherzare da amico con le ragazze, usando la lingua del Regno che mostrava di conoscere bene. Ma era una lingua piena di suoni gutturali e duri. Sull’angolo della fontana intitolata alle Sette ioni, Fedele fu fermato da un uomo in divisa. Sorrideva dai grossi denti candidi e gli strinse la mano dicendo con un leggero accento straniero:
. Era il primo occupante con cui parlava. La voce di Komar possedeva un timbro deciso, si faceva ascoltare. E quell’estraneo, solidamente piantato a terra su dei piedi però troppo vasti, stava considerando Fedele dal fondo di un viso atletico, che aveva i suoi punti di forza nel naso lievemente curvato e nel mento spaccato, pieno di energia. I suoi occhi sembravano chiari e leali, benché sottili come le feritoie nelle mura di certi castelli. <Magnifica città> disse Komar guardandosi intorno con uno sguardo da intenditore.
.
si chiese irritato Fedele. E a voce alta:
.
esclamò Komar ridendo. I suoi denti regolari avevano brillato per il breve istante che dura un bagliore, nella chiarezza del mattino, subito ricoperti dalle labbra con uno scatto.
.
oppose Fedele, curioso e testardo.
Fedele non aveva compreso - almeno era lontano dall’aver compreso con chiarezza - se gli era stato rivolto un invito oppure impartito un ordine. Dal viso di Komar non si poteva dedurre nulla. Ora l’ufficiale straniero lo stava osservando con occhi distaccati e sorridenti, in un atteggiamento che chiunque avrebbe potuto definire amichevole. Anzi: per dimostrare la sua benevolenza, egli aveva persino appoggiato una mano guantata intorno al suo avambraccio; palpava la stoffa della sua camicia, e gli stava dicendo:
. Fedele non rispose nulla, ma s’incamminò al suo fianco. Attraversarono subito la via dell’Amore Inconoscibile e poi, costeggiando il primo fiume, arono davanti alle vecchie chiese trionfanti. Komar s’incantava a guardare i portali di bronzo colore del muschio; i gruppi marmorei dai bianchi muscoli potenti e gli sguardi rivolti verso l’Alto; i capitelli aerei e i timpani sovrani. Si vedeva che la città imperiale avvolgeva i sensi dell’ufficiale con la castità che può avere il bacio di una madre e Komar ne era soggiogato. Felice pensava:
. Raramente Komar faceva un commento. Piuttosto talvolta s’informava:
, ma il più delle volte taceva. E nel suo silenzio traspariva il rispetto per il Regno e per le opere che esso aveva realizzato nel mondo. Congedandosi disse infine a Fedele:
. Rimasto solo nella piazza della capitale occupata, Fedele ritornò verso l’ufficio. Ma prima di rientrare al lavoro provò a bussare alla finestra di Ottavia, che gli
rispose con una voce in cui navigava ancora, come una nebbia a metà collina, qualche velatura di sonno:
. <Sono le prime ore dell’occupazione> la informò Fedele.
. <Si vedono pochi soldati, e solo in certi punti strategici; ma non hanno l’aria di essere nemici>.
.
. E nel tentativo di tranquillizzarla aggiunse:
.
. <Sì! Ma intanto siamo un popolo invaso e disperso>.
. <Se la situazione rimane tranquilla; se non mancherà l’acqua; se il cibo non sarà requisito, potremo cenare stasera alla Volpe dal cuore delicato. A più tardi!> terminò la comunicazione Fedele. La città imperiale, ritratta, si stendeva ai suoi piedi. In alto dominava la sagoma del Palazzo. Vi era un bisogno urgente di lavorare alle questioni che riguardano la fiducia. Perché solo una fede terribile, quella che si è obbligati a coltivare nelle situazioni difficili, poteva salvare il Regno dal disordine.
3
Con un o su cui pesava l’occupazione, Fedele si staccò dal muro del Palazzo imperiale, all’interno del quale aveva lavorato tutto il giorno, come se i militari stranieri non fossero mai apparsi. Era un muro obliquo, solido e dalla base larga, un muro fisico fatto di pietre pesanti, sulla cui base l’Imperatore aveva potuto costruire la vita per i suoi cittadini: l’ordine, il senso del Regno. Però adesso l’edificio sociale era in pericolo. Infatti era giunto un esercito infido che minacciava tutto: l’esistenza stessa dell’Imperatore, la Corte, i costumi degli abitanti. Per il momento non si sapeva di quali nemici si trattasse. Gli occupanti potevano essere sia tolleranti, quanto schiacciare le teste dei regnanti sotto il loro tallone d’acciaio. Quando tra poco avrebbe incontrato Ottavia – se mai avesse potuta riabbracciarla: finora, per quanto ne sapeva, non era stata emanata alcuna ordinanza che vietasse l’incontro degli innamorati – Fedele l’avrebbe avvertita:
. Attraversando la piazza del Palazzo imperiale, Fedele sentì una speranza oscura pesargli nel petto e pensò:
. Mancando la volontà della difesa, nessun profeta era sorto per dare l’allarme e prevenire così l’occupazione. Gli avvenimenti si erano abbattuti sulla testa degli abitanti senza alcun segno premonitore, continuava a riflettere Fedele, a somiglianza di una saetta che scende a zig-zag dal cielo, tutto bruciando in una giornata per il resto serena. Semplicemente, le cose si erano verificate all’insaputa di tutti. Rotolavano per conto loro come fanno le botti abbandonate su piani inclinati; e gli occhi spaventati dei cittadini non potevano fare altro che contemplarle, esterrefatti: sembrava che le cose avessero un loro corso irreversibile.
Adesso, quando era ormai troppo tardi, i cittadini sospettosi guardavano le canne dei fucili mandare bagliori nel sole o alla luce tarda dei fanali. Si constatava con quale stoffa fosse cucita la divisa dei soldati. Si ascoltava il rumore dei loro scarponi scandire il o nei viali. Se l’Imperatore aveva intuito qualcosa in anticipo, non era dato sapere. E adesso i cittadini erano chiamati a camminare con quell’ingombro tra i piedi e si chiedevano costernati:
. Fedele guardò il fuoco freddo delle stelle pesare sulla città, stringendo il polso di Ottavia. Era felice di poterla di nuovo stringere tra le braccia! Da questo punto di vista, sembrava finora che l’occupazione non avesse avuto conseguenze. Ma risucchiato lungo i viali circolari della città, il tepore dell’aria giaceva sotto la luce smorta di astri lontani. Fedele però aveva in testa una folla molto più densa, una moltitudine di questioni che gli pulsava nel sangue. Turbato, strinse Ottavia chiedendole:
. <Sono sicura che l’Imperatore, e anche l’Imperatrice, continuino a vegliare sul loro popolo nonostante il momento difficile! Ma anch’io mi sento occupata, come se l’esercito intero avesse deposto la mano sul mio corpo> confessò Ottavia quasi ridendo, per prendere coraggio. Fedele intanto guardava le sue labbra coralline con desiderio, e lei sentiva quegli sguardi pieni d’interesse errare sul viso e sulla fronte, in attesa che accadesse qualcosa: un segno che si potesse interpretare. <Mentre noi siamo qui, ovunque nel cielo si stanno accendendo piccoli contrasti luminosi o grandi vortici. La materia del mondo si trova in espansione – ruota, si trasforma e si nega, pulsa tra una galassia e l’altra – ed io, devo confessarlo, sento un piccolo bisogno di libertà serrarmi lo stomaco> le sussurrò Fedele con la bocca posata castamente sopra l’orecchio di lei. <Mi chiedo se dobbiamo ancora considerarci liberi, nonostante l’occupazione> proruppe Ottavia con una voce soffiata malinconicamente, come se il suo respiro
scorresse dentro un antico strumento musicale. Fedele provò allora a muovere qualche o sul selciato.
le fece notare sorpreso:
E dicendo questo si spostava a destra, verso i lunghi viali a elica che dal Palazzo scendevano alle pianure dell’Ovest; oppure a sinistra, in direzione dei giardini imperiali.
.
. Ottavia trattenne l’entusiasmo dell’amico:
. E come per trovare conferma alla remota speranza, considerò:
. <Ma ti prego, raccontami di Komar: che tipo è?> aggiunse Ottavia con una bella ione nella voce, cambiando argomento. Prima di rispondere, Fedele prese del tempo. Fece oscillare la testa a destra e nel senso contrario, come se volesse riordinare i ricordi che aveva dell’ufficiale.
disse infine.
.
sussurrò Ottavia guardandosi intorno, come se orecchie nemiche fossero all’ascolto dietro un reticolato. Ma adesso dovevano dare un valore alla prima serata di occupazione. I loro piedi li avrebbero portati oltre il pendio della collina, li avrebbero fatti scendere entrambi verso la Volpe dal cuore delicato: per mantenere le sante abitudini del Regno e fare in modo che un uomo e una donna stessero in comunione mangiando.
le chiese Fedele cercando di essere gaio.
fu la risposta di Ottavia. Stavano muovendosi con uno slancio pieno di buone intenzioni, quando Fedele vide la punta di una sigaretta arrossire nella notte, dietro il tronco di un albero, e poi sbiadire coprendosi subito di cenere. Disse:
E si apprestavano a proseguire, ma alla luce del fanale che illuminava fiocamente la strada comparvero tre soldati a sbarrare il o. Il primo era un uomo alto e vasto, con le mascelle ben scolpite e sembrava essere il capo atletico degli altri. Gli chiese con una voce che non conosceva esitazioni: <È in possesso del lasciaare, signor Tadini?>. Fedele si fermò a considerare il pericolo contenuto in quella corta frase. Dovevano fermarsi? Se lui e Ottavia avessero acconsentito a rispondere, questo non avrebbe significato riconoscere l’autorità degli occupanti? Ma se decidevano di proseguire, il loro gesto sarebbe stato inteso, forse, come un atto di aperta ribellione. Per prendere tempo e risolvere il dubbio rispose:
. Il soldato non parve interessato a soddisfare la domanda. Gli altri due lo spalleggiavano e non lo guardavano mai negli occhi. I loro sguardi erano anzi obliqui e si orientavano verso il centro della terra; ma si capiva che possedevano dell’ostinazione. Il primo soldato, l’uomo vasto, gli chiese a sorpresa:
Intanto gli avanzava un pacchetto colorato sotto il naso e con la mano faceva cenno di prenderne una. Fedele tentò di difendersi:
. Ma subito si accorse di avere torto, perché il soldato aveva già desistito dalla sua intenzione. E dopo aver riposto le sigarette in tasca stava spiegando con labbra affabili:
. Gli altri due militari erano ati ai suoi fianchi e ridevano giovanilmente. Imitando il gesto compiuto dal signor Komar quella stessa mattina, gli stavano infilando le mani guantate sotto il braccio; si comportavano come parenti di antica data, in modo che Fedele non comprese se doveva considerarsi in stato d’arresto, oppure circondato da persone tolleranti. Quello che sembrava il capo ripeté:
. Infine lo lasciarono andare dicendo: <Si è
comportato molto bene, sa? Le nostre attuali regole d’ingaggio non c’impediscono di dirle buona sera, cosa che le auguriamo di tutto cuore>. Scendendo verso la Volpe dal cuore delicato, Fedele e Ottavia arono nel Parco dell’Antica Armonia sentendo il sollievo allargarsi nel petto. In quel momento nessun albero stormiva. I giardini esalavano il difficile profumo che mandano le terre occupate: ma l’aroma, non potendo entrare nelle case attraverso porte e finestre - sbarrate per via dell’invasione - rimaneva prigioniero nell’aria evadendo nello spazio. Dietro ogni vetro, lo si sapeva, c’era il cuore pensante dei concittadini che guardavano in fondo al futuro con occhi allarmati. Fedele aspirò il gusto vegetale dell’aria. Nonostante tutto aveva un buon sapore antico. Pensò:
. Al termine di una via, la strada dell’Ospitalità, Fedele si fermò a guardare l’insegna della Volpe. Era in ferro battuto, illuminata da un lampione. Mostrava una volpe che con la zampa destra si tocca il cuore. E riconoscendola, Ottavia ebbe un movimento veloce delle labbra e delle guance. <Siamo arrivati bene> la rassicurò Fedele con una certa precipitazione, abbracciandola con lo sguardo dolce.
. <Ma hai appetito?> ripeté Fedele con voce tranquilla.
. La Volpe dal cuore delicato era una semplice e vecchia osteria, come ce n’erano un po’ ovunque nel Regno. Un’ostessa carnosa si aggirava rotonda tra i tavoli di legno. Nel locale c’erano pochissimi Mangiatori, appena due signori seduti su panche contrapposte, nude e aperte come quelle di chiesa. Stavano parlando dell’occupazione:
diceva il primo Mangiatore avvicinandosi alla coscia cotta di un animale.
gli rispondeva il secondo Mangiatore affondando i denti nel proprio
piatto di carne.
. <Sono arrivati in punta di piedi e sembra che abbiano un’acqua in bocca, sicuri del fatto loro>.
profferì il primo Mangiatore. Il discorso dei due abitanti soggetti all'occupazione fu coperto dalla voce dell’ostessa che annunciò a Ottavia:
. E rimase con la punta della matita in aria, per prendere l’ordinazione. Fedele scelse il primo, e Ottavia il secondo. L’ostessa ritornò poco dopo con le portate fumanti. Un grato odore si diffuse tra il loro tavolo e quello occupato dagli altri due Mangiatori. Uno di loro si voltò e disse: <Speriamo che non estinguano le tradizioni della nostra cucina>.
profferì Ottavia con un soffio leggero di voce, come se parlasse per tutti i presenti.
precisò Fedele. Per un momento si dedicarono in silenzio al contenuto dei piatti. Le fibre di quelle carni furono triturate con procedimenti antichi, come avevano sempre fatto i padri e le madri terrene di Ottavia e di Fedele, e i loro avi e i bisavoli degli avi. Grazie a quelle ragionevoli rotture, la qualità delle cose penetrava nelle lingue umide di tutti i Mangiatori, era assunta nel loro sangue inquieto per l’occupazione, circolando nelle varie parti del corpo, per il momento soddisfatto ma con un dubbio che gravava nei reni, a metà della schiena. Fedele osservò:
.
continuò Ottavia.
.
acconsentì Fedele.
.
intervenne il primo Mangiatore.
disse Ottavia.
terminò Fedele. Il pasto era stato, nel suo genere, perfetto. I quattro Mangiatori salutarono con la mano l’ostessa, che raccomandò: <Uscendo siate guardinghi. Da questi soldati non si sa mai che cosa può arrivare!>. Fuori la notte era bella. Il cielo si stendeva vellutato sul Regno e lo copriva con i suoi chiari fiumi di stelle. Un colore cobalto riempiva gli spazi. Risalendo la collina Ottavia e Fedele si fermarono a guardare il Tutto, che era blu e d’oro: scintillava oscuro sopra le loro teste proteggendo il Regno.
chiese Ottavia, curiosa. <Sicuramente l’Imperatore tace> rispose Fedele. <È raccolto nel proprio cuore e sta valutando la situazione>.
disse ancora Ottavia con un sospiro.
. Salirono verso il Palazzo imperiale che quella sera aveva le finestre oscurate.
4
La primavera, dicono, è il ritorno ciclico della bellezza e della vita; ma quando si è occupati militarmente, lo splendore divino della natura ha un sapore ironico. Dietro una fronda potrebbe trovarsi un cannocchiale, o peggio un kalashnikov, e nel primo ante che incontri una spia. Sboccia una delicata corolla, e sai che i depositi sono pieni di munizioni. Assisti al più sublime dei tramonti, e intuisci che anche il Comandante lo sta osservando per motivi tattici. Le ragioni di un esercito occupante non sono mai aperte: hanno un retroterra torbido, nascosto dalle parole ufficiali. Perché il cuore dell’uomo si lascia irretire dal desiderio di dominare. Per questo motivo le ragioni reali dell’invasione non saranno mai dichiarate dall’occupante. Esiste nella sua condotta un lato occulto, che egli non ha alcuna intenzione di esprimere sotto pena di caricarsi con un fardello di colpa agli occhi del mondo, di cui si vergognerebbe. La vergogna è un sentimento proibito all’occupante. Mentre si recava all’appuntamento con Komar, Fedele aveva in mente riflessioni di questo genere. Guardava i giardini in fiore e pensava alla coppia degli Imperatori. In quelle prime settimane di occupazione i cittadini avevano assistito ancora una volta all’avvenimento della primavera. Ma come in tutti i miracoli, anche nella primavera di quell’anno vi erano stati effetti contrastanti. Quando Lazzaro risorge, porta sempre con sé l’impronta della morte precedente: un certo pallore, occhiaie spaventate, una benda stracciata, un odore che va cancellato con l’acqua: il ato non è mai interamente morto. Allo stesso modo la fioritura delle magnolie, i prunus che facevano tremare contro il sole le loro foglie color sangue, e il tarassaco che riempiva i prati di bottoni d’oro, erano come oscurati da una paura nuova. La capitale non sembrava per nulla una città occupata: l’esercito aveva ritirato i suoi effettivi dai ponti e dalle piazze. I carri con le bocche da fuoco, se pure esistevano dei carri,
di cui si favoleggiava, rimanevano inerti negli hangar o sotto gli alberi dei campi. Dopo aver riposto le divise per indossare abiti normali, i soldati si confo con la popolazione civile. Ora eggiando nel corso della Libertà Interiore, che era stato ribattezzato semplicemente corso della Libertà, non si distinguevano più i cittadini del Regno dagli occupanti, se non per qualche tratto marziale del viso o la loro andatura legnosa. E tuttavia l’occupazione s’impigliava nei rami degli alberi e pesava sui giardini. Si nascondeva dietro le antiche regole: - molto fervore, preghiere sincere, incenso di ringraziamento - in modo che tutti pensassero: il Regno si trova ancora in uno stato di pace. Ma molti temevano che quella pace fosse fittizia, o prendesse un corso inaspettato. Quel giorno il signor Komar aveva convocato Fedele.
gli disse con una piccola vibrazione nelle ali del naso.
.
chiese prudentemente Fedele, sul chivalà.
.
prese tempo Fedele con un discorso alla larga. Voltando le spalle al visitatore il signor Komar andò alla finestra.
. Chiamò Fedele accanto a sé. Lo fece stare così vicino al proprio viso che Fedele ne trasalì per il fiato caldo che gli giungeva sul collo. Quel mattino dalle pianure verdi e chiare veniva quasi l’annuncio che l’estate, come tutti gli anni, era possibile.
L’Imperatore aveva insegnato ad amare la Terra del Regno, a vedere in essa la bellezza delle stagioni e i cambiamenti che provengono da regioni lontane, più alte del sole. Aveva appreso ai cittadini l’arte di curvarsi con rispetto verso la Madre Terra, a carezzare la Madre per riporre in lei i semi di una vita più alta. Allora, nel ricordo dell’Imperatore, con l’Imperatrice bruciante nella carne, fu facile per Fedele respirare l’odore del sole che avvolgeva la nudità della Madre, giungendo forte al balcone. Sentì l’aroma inesprimibile, la forte benedizione del mondo scendere in una parte di lui vasta e profonda, cui d’altronde non avrebbe neppure saputo, in quel momento, dare un nome. Ma Komar lo fronteggiava e lo costringeva a prendere posizione. Fedele gli chiese:
lo rimproverò benevolmente Komar con una voce marcata e sonora!
.
si giustificò Fedele in modo formale, e riprese a guardare in faccia Komar: una corteccia liscia sopra il tronco di un albero pieno di nodi.
riprese il Governatore, mentre Fedele, non sapendone cosa fare, si metteva le inutili mani in tasca. <Ebbene, la curiosità è benvenuta! Essa è il motore del futuro!>. Poiché Fedele lo guardava inespressivo, Komar gli mise un braccio sulla spalla; lo ferì con uno sguardo che attraversandolo si perdeva all’infinito:
gli disse accompagnandolo lontano dalla finestra
acconsentì Fedele.
. Intanto Komar con il braccio faceva pressioni sulla spalla di Fedele, lo dirigeva nella stanza usando il proprio arto di volta in volta come una briglia o un colpo di sperone: un colpetto per andare a destra, una trattenuta con la punta delle dita per tornare indietro, una piccola spinta per girare in tondo fino alla scrivania! E
intanto gli spiegava: <Appunto: il senso, signor Tadini! Anche per noi il significato delle cose è essenziale: vede come andiamo d’accordo? Tolga il senso dalla società, e non rimarrà nulla> esclamò Komar.
. E poiché Tadini lo fissava con un’aria prudente, ma leggermente interrogativa, continuò:
Era la prima volta che Komar lo chiamava con il suo nome personale! Pronunciandolo, il Governatore aveva anche accentuato la pressione sulla spalla, con un gesto audace e intimo, di cui Fedele non sapeva che cosa pensare.
e stava, taciturno e riflessivo, ad aspettare gli sviluppi della situazione, mentre Komar aveva già ripreso a spiegare: <Ma in principio c’era il Ki, caro signor Tadini! Il Ki, la sublime Energia! Il Ki è all’origine di tutte le cose!>. Intendendo quel nome uscire dalle labbra di Komar, Fedele ebbe un moto nascosto di disappunto. L’Imperatore aveva sempre insegnato che in principio c’era il Logos. Il Ki era solo la manifestazione fisica di una realtà soprasensibile, che rimaneva nascosta allo sguardo degli uomini. Adesso Komar si appropriava di quella qualità secondaria, e ne faceva il centro del mondo. La preparazione filosofica è il fondamento di un uomo. Se quella vacilla, l’uomo non è più se stesso, pensava Fedele. Così gli apparve l’improvvisa visione del volto amato dell’Imperatore. Era il ritratto, saggio e gioioso insieme, di un uomo più unico e più profondo degli altri uomini. Come potevano indugiare in mezzo alla polvere cosmica, gli sguardi dell’Imperatore! Con quale facilità poteva are, Egli, dalla realtà più minuta di un filo d’erba ai confini delle vie stellate! Poteva essere qui oppure là, e sempre era, l’Imperatore! Aveva una guancia rosea e l’altra pallida! Piangeva con un occhio ma rideva con l’altro, il caro Padre! Egli aveva una porta segreta per far entrare il dolore del mondo, e una finestra per far uscire la felicità! Che benedizione la sua mano, che dava e prendeva! Che uomo interno ed esterno! Quale potenza nel gesto e delicatezza nell’intenzione; quale scienza del celeste Su e del terreno Giù! Quale giusto alternarsi in Lui delle emozioni! Come si completava nell’Imperatrice! Rappresentava il Tutto, l’Imperatore! Per non
parlare di quella luce brillante, quel lampo sacro che era il Logos nei suoi occhi, per contemplare il quale bisognava ripararsi le palpebre con entrambe le mani, e non bastava ancora! Ripensando all’Imperatore, che in quei giorni con tutta probabilità era sequestrato nei propri appartamenti, dove si aggirava in silenzio, Fedele fu preso da un impeto di tremore e timore, che aveva qualche volta conosciuto in ato. E rimase di fronte a Komar, dal braccio del quale si era nel frattempo svincolato, in atteggiamento che si sarebbe potuto chiamare di sfida remissiva. Komar, al quale in qualità di Governatore occupante non sfuggiva nulla, decise di are al contrattacco.
.
confessò Fedele. <Sa dirmi cosa c’era in quel croissant, signor Tadini?
. Il signor Komar mostrò due file di denti geometrici, smaglianti nelle loro proporzioni, e messi in rilievo dagli angoli della bocca che si erano illuminati con uno scatto verso l’alto. Era capace di essere severo il signor Komar, ma quanto sapeva apparire anche garbato, quando voleva! Il nuovo atteggiamento del viso gli permise di continuare: <Ecco l’errore! Glielo dicevo io: errare è umano! Non dobbiamo aver paura di sbagliare! Faremmo meglio invece ad ascoltare i nostri errori: occorre prenderli per mano con amore, considerarli, proteggerli: diventeranno la fonte di tutti gli insegnamenti>. <Eppure ne sono sicuro: era pieno di crema pasticcera> insisté testardo Fedele. <Ma andiamo, signor Tadini! Per favore, esca dal piano della banalità; l’Imperatore non sarebbe contento di sentirla parlare così!>. E dopo una pausa durante la quale sembrò immergersi nei piani superiori della vita cerebrale, concluse quasi dolorosamente:
.
insisté Fedele. Ma nell’atto stesso di pronunciare quelle parole, avvertì quanto esse fossero cariche di iva
rinuncia, e non esenti da falsità.
, proseguiva Komar <si crede di averlo in tasca, ma in effetti la sua essenza è appena sfiorata>. Poi si avvicinò all’orecchio di Fedele e mormorò appena sopra il lobo:
. <Ma quando fate confusione, bisogna sapervi comprendere>, concluse gentilmente senza rimprovero.
ammise Fedele.
.
si difese ancora Fedele, che ormai stava capitolando di fronte agli assalti così ben portati da Komar.
.
disse ancora Fedele, confessando, per ragioni di sicurezza, la propria mediocrità intellettuale.
gridò Komar sferrando un pugno sulla scrivania.
e Fedele ripeté automaticamente quella frase che gli era sembrata fatidica. <… che serviranno a produrre il Ki umano> continuò Komar con una convinzione assoluta, che era insieme grandiosa e terribile da vedere.
. Dicendo così si era di nuovo avvicinato alla grande finestra che si apriva sulle pianure:
Invaderemo lo spazio di moderni Box Bianki! Assolderemo i contadini. Saranno chiamati: gli uomini dell’energia!> <Ed io …> chiese Fedele con un soffio di voce di fronte a tanta foga.
. Rientrando quel giorno a casa dopo il colloquio con il Governatore Komar, Fedele guardò i viali periferici della città imperiale. Ne osservò con l’animo sollevato le familiari mura di porfido e la vecchia calce che resisteva ai secoli. Camminando, si lasciava impressionare dalle siepi in fiore; vedeva l’intonaco delle case sotto un aspetto del tutto nuovo. La luce del sole si stampava chiara e brillante sulla superficie delle cose. Era impossibile non scorgere in quel cielo limpido, nel vasto spazio tra i pianeti e nell’immensità del mondo un disegno ben ordinato. Se ne poteva afferrare la bellezza con lo sguardo, che in virtù di quella diventava, grazie alle parole di Komar, un modo di guardare ordinato: uno spirito geometrico e trasparente. L’occupazione militare acquistava adesso un senso plausibile. Non era più quella cosa ostile come era sembrata all’inizio. I soldati erano in realtà dei leali collaboratori: durante i primi giorni nessuno li aveva capiti. Komar risultava un grande uomo dalle vedute vaste, un audace innovatore. Le moltitudini contadine delle pianure meridionali avrebbero partecipato ai nuovi modi della produzione. Non più asservite alla pesantezza della terra, sarebbero entrate, dopo un necessario periodo di formazione, nella sfera della nuova attività. I contadini che partecipano alla produzione del Ki divino su scala umana! A quel pensiero le gambe di Fedele si misero a tremare di una felicità strana e insopportabile. Quella sera andò sotto le finestre di Ottavia:
.
gli chiese Ottavia trepidamente.
. Intanto i cittadini erano tornati ad affollare le strade, come nelle domeniche in
tempo di pace. Ė vero che sui marciapiedi dei viali periferici, o intorno alle aiole nei parchi, si vedeva qualche faccia straniera indurirsi in un gesto di comando, o un modo di camminare meccanico: ma ora che gli occupanti avevano indossato gli abiti civili, lavati e stirati alla perfezione dalle donne del Regno, tutti sembravano dimenticare lo sgomento iniziale. <Parlano la nostra lingua come noi, ci assomigliano: hai ragione> disse Ottavia quando si incontrarono. Aveva il volto accaldato: con il suo rossore lanciava presagi d’estate. Era festosa, lo prendeva sottobraccio, respirava con allegria!
gli chiese con guance in cui il sangue, caldo e veloce, circolava in modo affrettato.
.
chiese lei curiosa.
. <Sa parlare bene?>
<Speriamo che prevalga quest’ultimo, non credi?>. <Sì. Ti mette una mano sulla spalla, ti accompagna, sa dirigere gli uomini! Mi porterà con lui per costruire i Box Bianki nelle pianure del Sud>. <E a cosa servono i Box Bianki nelle pianure?>.
spiegò Fedele ancora eccitato per il ricordo
si mise a ridere Ottavia scoprendo i denti candidi.
secolo> affermò Fedele, contagiato da un entusiasmo a posteriori che gli metteva il cuore in subbuglio.
chiese Ottavia con voce rallentata: e con un presentimento dentro le oscurità più riposte della sua anima. <Partiremo domani per le pianure meridionali. Andremo a scegliere i luoghi adatti per installare i primi Box Bianki. Komar conta sulla mia conoscenza della geologia nel Sud del Regno>.
si lamentò Ottavia, mentre la bocca carnosa dell’oscurità, come un velluto nero, si richiudeva sopra la città imperiale.
5
disse sorridendo Komar rivolto a Fedele. <È il responsabile del nostro programma Kappa>. Fedele gli strinse la mano: Klammert era un uomo dall’interessante volto sportivo con gli zigomi che sembravano intagliati nel legno; e le sue dita parevano allenate, a giudicare dal vigore con cui gli aveva serrato la punta delle falangi, a ogni prova di forza. <Sarebbero capaci di premere un qualunque grilletto> aveva pensato Fedele, intuendo il carattere dell’uomo, che sembrava formato nelle caserme. Ma Klammert, con una voce ispirata, si era ormai lanciato in una minuziosa spiegazione del programma Kappa.
terminò Klammert stringendo amabilmente le mascelle, con un piccolo accento di soddisfazione. <Ma siamo sicuri, in questo modo, che non si rischi di essere monotoni?> chiese Fedele, più per un’antica convinzione, che per un sincero desiderio di conoscere la profondità delle cose. Klammert lo guardò con benevolenza:
.
intervenne Komar, che fino allora era rimasto ad ascoltare in un riservato silenzio
giovani>.
.
esclamò Fedele. <Esiste dunque una religione Kappa!> ripeté incredulo,
.
troncò Klammert
. Fedele comprese che si doveva abbandonare la profondità, per tornare alla superficie.
chiese per assecondare coloro che, nonostante la cordialità, rimanevano pur sempre degli invasori. <Usiamo la tecnica del martello> spiegò Klammert in un certo modo, che a Fedele parve sibillino. <Spero che non ricorriate ai metodi forti!> gridò il giovane cittadino del Regno, al quale Ottavia aveva riferito, che in certi casi eccezionali – solo per sentito dire - gli invasori non si opponevano, al metodo della dissuasione fisica!
.
s’intromise Komar con il suo forte accento settentrionale.
riprese Klammert, grato per l’incoraggiamento ricevuto.
<E come si decide se un cittadino è veramente Kappa, o finge soltanto di esserlo?> volle sapere Fedele, che stava imparando la virtù di informarsi senza rischiare.
.
fu il laconico commento di Klammert.
E non volle aggiungere altro, rinviando il seguito della discussione a un’epoca imprecisata. Era una di quelle mattine in cui, negli alberi, la vita appare con la leggerezza dell’essere. Una luce chiara si era diffusa sulle verdi terre del Regno ancor prima del sorgere del sole! Poche nuvole leggere velavano il cielo con soffici strisce di vapore bianco, componendo disegni di sovrumana bellezza. Tutto appariva fresco e giovane, prorompente, votato alla vita, e dai rami odorosi dei tigli sporgevano fiori, nati recentemente, che sprigionavano qualità brillanti.
pensò in segreto Fedele mentre, accompagnato da Komar e Klammert, si disponeva a partire per le pianure meridionali.
iniziò un nuovo discorso Komar, mentre si fermavano di fronte ad un oggetto nuovo.
spiegò Klammert con una frustata di orgoglio nella voce.
.
ammise Fedele con ammirazione sincera. <E questi sei oggetti rotondi che stanno sotto la torpedine, come si chiamano?> <Sono i circoli del siluro!>. <E ruotano? Si avvitano?> chiese Fedele con un sottile allarme nelle vene, mentre stava scoprendo un mondo completamente nuovo, con quella ingenuità meravigliata che gli era già stata rimproverata da Klammert.
.
fece notare Komar con una specie di genuflessione <siamo
in presenza di una forma rotonda che permette l’uso pacifico del ki, studiata appositamente per il tempo di pace, benché non sia inutile nemmeno in tempo di guerra! Di questa le ho parlato l’altro giorno>.
proruppe Fedele Tadini, come se avesse fatto la più clamorosa delle scoperte:
fece Komar allora:
. <Sono letteralmente affascinato> rispose Fedele, e salirono tutti e tre sul lunghissimo siluro a sei ruote, nero come un destriero arabo, che partì sbuffando e fendé l’atmosfera in direzione delle pianure meridionali, dove insieme avrebbero impiantato i primi Box del programma Kappa. arono tre giorni di febbre eccitata. Per costruire i Box Bianki furono sradicati dei frassini, degli olmi e degli abeti.
spiegò l’ingegner Klammert!
terminò con un’aria di superiorità. Fedele ascoltava le spiegazioni di Klammert guardando un frassino. Gli piacevano quei fusti grigi e diritti, tempestati di macchioline chiare, che formavano dei piccoli boschi lungo i ruscelli. Adesso l’albero era riverso a terra senza più vita.
, pensò in disparte. Tutti gli alberi davano a Fedele una commozione particolare.
Fedele sentiva di avere le braccia verdi, come se fossero ricoperto di foglie. A volte, quando usciva con Ottavia dalla città imperiale, raggiungevano un bosco. Intorno alla città ce n’erano di cupi, di profondi, di vasti: boschi impenetrabili o radi, dove si poteva camminare in silenzio senza pensare al Regno. Fedele e Ottavia si prendevano allora per mano.
Con piedi delicati calpestavano i muschi verdi e i tappeti di foglie cadute. Guardavano le felci nuove e ascoltavano il mormorio delle acque. Le cime degli alberi, dei grossi ippocastani o delle tenere betulle, si lasciavano portare dal vento.
esclamava Ottavia:
. Il vento si ingolfava nel folto dei rami, li faceva vivere con movimenti ondulati, e accadeva che mentre la cima di un albero si agitasse in modo solenne, un’altra parte rimanesse in una quiete perfetta! Gli alberi erano navi immobili ancorate alla terra, ma rimandavano a qualcosa che va oltre il pianeta, ed erano cari, Fedele ne era sicuro, al cuore della coppia Imperiale. In più, gli alberi non dovevano essere guardati uno per uno, ma tutti insieme.
. Fedele e Ottavia rimanevano taciturni, con le mani allacciate. Se si abbracciavano, era per sentire il loro cuore che batteva unito sotto la cupola dei castagni o delle querce.
dicevano spesso rientrando a casa, sotto le finestre chiuse degli Imperatori. Ma Klammert sembrava conoscere perfidamente la natura dei pensieri di Fedele. Gli disse adottando uno sguardo tecnico, che lo soppesava per valutarlo:
. Nelle pianure del Sud la costruzione dei Box Bianki cominciò il giorno dopo e in poche settimane procedette alacremente. Komar sorrideva, dicendo:
E Klammert assentiva, assorto nei suoi calcoli:
. Ma Fedele, con una spina nel cuore, non aspettava che il sabato per rivedere Ottavia.
s’informava la ragazza!
come funghi! Si riempiono di contadini che i soldati hanno tolto alla terra, per trasformarli in attivi produttori di ki binario! Non sono più obbligati a faticare con le vanghe e con gli aratri! È sufficiente che premano un bottone o tirino una leva! Non è sorprendente?>. <E il ki binario come viene impiegato? Spiegami per bene> s’informava Ottavia toccandogli un braccio con innamorata fiducia.
rispose Fedele mettendo il capo fuori, per informarsi se le finestre degli Imperatori fossero aperte, ciò che avrebbe significato un segno di vita.
rispose Ottavia. <Sono sostituiti da personale civile con un aspetto come il nostro. Vai per la strada, e non sai se chi cammina accanto a te è un cittadino del Regno oppure un occupante>. <E la cosa ti disturba?> le rimandò Fedele con uno sguardo divertito.
.
.
6
Alcuni abitanti del Regno cominciarono in quei giorni un’attività clandestina. Per discutere dell’Imperatore – delle cose inusuali che erano accadute negli ultimi mesi - si riunivano abitualmente in una cantina nella parte bassa della città. Le autorità kappa erano informate, seguivano la cosa con occhio discreto ma vigile. Quella sera Maribor, inquieta, andò a controllare l’unico finestrino del seminterrato, che Alessi, per prudenza, aveva ricoperto con un panno verde.
aveva sorriso lui sedendosi sopra un sacco di foglia.
gli aveva risposto Maribor:
. Quella donna era quasi felice, con il volto largo e gioioso schiacciato dal peso dell’occupazione militare. Ciò voleva dire, pensava Maribor, che anche in mezzo alle calamità della Storia si può sentire dentro di sé una grandezza che si eleva sopra le strade a chiocciola della città imperiale: in mezzo alla malinconia – addirittura in mezzo ai disastri – era possibile sentire la fermezza della speranza. L’occupazione la obbligava a fare qualcosa. La presenza di quei soldati travestiti da funzionari portava le sue emozioni a reagire, per non rimanere inerte di fronte a quella novità che già dal primo giorno era sembrata spaventosa, e che ora lasciava tutti nell’incertezza.
Alessi stava esprimendo il sentimento di tutti i presenti.
. Gli altri, assorti, erano seduti sul terreno argilloso, su una cassetta rovesciata od un ritaglio di stoffa antica. Erano semplici impiegati dell’amministrazione imperiale, piccoli artigiani che vivevano del lavoro delle loro mani, o contadini che conoscevano ogni segreto circa la crescita del mais e delle altre piante meravigliose che esistono nel Regno. Nonostante la grave serenità, i loro volti erano intaccati dall’occupazione militare, come se un soldato straniero stesse calpestando con il tallone metallico
le narici e le guance di ognuno di loro. Ma tutti subivano l’occupazione senza lamentarsi: lasciavano che quella cosa pesante schiacciasse i loro polmoni e gli occhi, imprimendo i segni della nuova storia sul petto e sulle fronti!
sollecitò Alessi.
iniziò Bardo, un battitore di ferro.
.
si intromise Maribor.
. Ci fu un momento di sospensione, come se i soldati non avessero mai invaso il Regno e il ricordo della figura dell’Imperatore gettasse proprio in quel momento, lampi di chiarezza nella penombra dello scantinato. Il raccoglimento era dovuto. Si sentiva respirare un fiato paludoso. “Noi eravamo un popolo santo” pensava la maggior parte dei convenuti. “Adesso siamo il contrario di Israel: la loro schiavitù era avvenuta in terra straniera! Noi siamo diventati schiavi in casa nostra”. Bardo disse:
suggerì Maribor.
.
fu l’avviso allarmato di Alessi.
raccontò Bardo. <Eravamo gomito a gomito! Ero disceso dalla rampa della Comione, nel Giardino degli Aceri! Mi ero mescolato ai Regnanti che in quel momento affollavano la Taverna del Camminatore! Mi giro, ed ecco: era il primo Kappa che vedevo da vicino>.
chiese Maribor con una punta di curiosità.
rispose Bardo.
.
intervenne Alessi <è che ci assomigliano. Fisicamente possono farsi are per un Regnante, penetrare nelle nostre case, entrare negli uffici e parlare in nostro nome>. <E cosa faceva il tuo Kappa?> chiese Maribor con un vezzo delle splendide labbra.
. Intervenne Alessi:
. Maribor disse un sola parola:
. Alessi si mostrò preoccupato:
.
intervenne Bardo <è che loro hanno una capacità sorprendente di infiltrarsi in ogni settore del Regno. Non solo hanno messo le mitragliatrici in certi angoli della città, ma invadono le poste, occupano i giornali, si allargano nelle campagne>.
terminò cupamente
Alessi. Ci fu un nuovo momento di raccoglimento. Fuori dello scantinato la dolce sera del Regno stava avvolgendo come una seta la chiocciola della città. Si posava sui muri bianchi, che ricevevano una benedizione, e sulle scalinate. Gli amanti erano obbligati a stringersi nascostamente, in regime di occupazione: come se avessero un militare al fianco che li osservava nel letto e li teneva costantemente sotto tiro.
il silenzio fu interrotto da Maribor. <Ma i ricordi della gioia ti possono aiutare, anche, a tenere il o in un momento difficile> intervenne una Regnante che fino allora era rimasta in disparte - come dimenticata - oltre che dall’Imperatore, anche dai clandestini che partecipavano all’incontro.
le chiese Maribor sorpresa.
. <Sono Felice, ma tutti mi chiamano Cina. Vengo dalle pianure meridionali> mormorò in un soffio di voce.
s’informò Alessi. Cina pose una mano sul palmo dell’altra, come se volesse accogliere un’acqua lustrale; il suo viso fu coperto da una colonna di luce dolente.
. <E poi che cosa è accaduto?> chiese Maribor impaziente di sapere.
. <È vero> riconobbe con mestizia Alessi.
.
disse Maribor con una sfumatura di nostalgia.
aggiunse Cina. <Spero soltanto che non sia morto per il dolore> concluse Bardo:
finestre sono chiuse dal giorno dell’occupazione. E adesso ce la dovremo cavare da soli, nel loro ricordo>.
.