IN BICICLETTA, PER STRADA E ALLA RICERCA DI UN SENSO
Serafino Busacca
EDIZIONI SIMPLE
Via Weiden, 27 62100, Macerata
[email protected] / www.edizionisimple.it
ISBN edizione digitale: 978-88-6259-664-0 ISBN edizione cartacea: 978-88-6259-365-6
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Prima edizione cartacea aprile 2011 Prima edizione digitale gennaio 2013
Copyright © Serafino Busacca
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PROLOGO
La vita è costituita da incontri. Praticamente nessuno vive isolato dal contesto del linguaggio e dalle relazioni che questo comporta. Il più delle volte si tratta di incontri casuali e, se è vero che i parenti non si scelgono, è ancora più vero che gli incontri significativi lo risultano al ato, senza che nel momento uno se ne accorga consapevolmente. In questa avventura fatta di incontri lasciamo piccole tracce, piccoli segni di noi che, via via, assumono significati più profondi e complessivi. L’esistenza non ha un significato a portata di mano! La viviamo facendo e dicendo di questo fare e, sempre attraverso il linguaggio, la pensiamo perché ci rendiamo conto che siamo mortali, che cioè mentre viviamo stiamo contemporaneamente morendo: abbiamo consapevolezza che la nostra identità si consuma e tende a svanire. Proprio come le cose del nostro ato di cui perdiamo lentamente la nitidezza fino a dissiparne la stessa memoria. La vita scompare al ato ed al futuro. Come ha affermato il personaggio di un drammaturgo inglese: nasciamo per vivere e viviamo per morire! L’esistenza non resta che nel brevissimo ed evanescente presente ché è costituito da una briciola del ato e da un attimo di futuro che si incontrano per un attimo che subito svanisce. A pensarci bene sembra che l’esistenza non ci sia mai o che vada in fuga da qualche altra parte. Il senso dell’esistenza non è un problema vero e proprio: non ammette infatti soluzioni univoche e non discutibili. La vita sembra rappresentare solo se stessa e non ha un significato fuori di se, fuori dal racconto che costruisce svolgendosi. Uno di questi racconti, uno dei tanti possibili, è la storia di un’amicizia che ha come sfondo la libertà di camminare nel vento sulle ruote di una bicicletta. Un’amicizia è prima di tutto un sentimento, un essere insieme ed un sentirsi in compagnia; ma è anche un accrescimento del senso della vita attraverso la conoscenza di altri universi di significato, di altri racconti possibili che sarebbero potuti capitare anche a noi. Ed è una libera testimonianza come l’andare in bicicletta e fare una fuga per distanziare gli altri o per mettere alla prova noi stessi o per scappare da qualche parte. Proprio come l’esistenza che scappa sempre da tutte le parti.
Cap.1
Si scrive per un sacco di motivi; ad esempio per riassumere a se stessi le cose che succedono e dare loro un senso, un valore od un significato e comunque una memoria. In questo caso si scrive per non dimenticare. La memoria è, infatti, un campo di rovine psicologiche, una sorta di rigattiere di ricordi che, con il are del tempo, perdono i contorni e sbiadiscono in una nebbia di mancate definizioni. Una certa epoca, un certo tempo è caratterizzato da modi di vivere specifici, da cose in cui si crede oppure no. Scrivere significa anche fissare per una memoria collettiva le cose nelle quali gli uomini di un certo tempo hanno creduto e con le quali hanno convissuto. La vita che ciascuno di noi trascorre, o il mondo nella sua totalità, sono in fondo un racconto, una narrazione. Una narrazione fatta di simboli che si riconnettono ad altri simboli e che si intersecano con nuovi simboli che potremmo non conoscere anche mai ma che, non per questo, mancano di presenza nel mondo. Il mondo è un racconto che può essere interpretato da tutti gli uomini che lo compongono e che lo leggono. Agli altri parliamo di noi raccontandoci ed il mondo lo conosciamo perché una serie di linguaggi diversi ci narra di come questo è fatto. Ciascuno di noi ha un’esperienza limitata della vita perché limitato è il nostro tempo e non possiamo fare tutte le esperienze che vorremmo. Un testo che racconta vale per le esperienze altre che noi da soli non potremmo mai fare. Altri modi di intendere e di trascorrere l’esistenza; altri linguaggi che raccontano aspetti diversi di interpretare il mondo. Il testo viene scritto per ampliare la nostra esperienza e per dirci che ci sono altre forme della stessa. Insomma per accrescere il senso della nostra esperienza. I linguaggi e i racconti che con loro si fanno costituiscono la nostra identità ed assieme a noi l’identità del mondo. Ecco, forse, perché si scrive, si legge, si parla. Ma colui che scrive quale piacere prova? Che cosa vuole o cerca di dire?
E’ un desiderio di tutti quello di raccontarci e quando non troviamo nessun disposto ad ascoltarci ci parliamo lo stesso addosso attraverso i nostri pensieri; non stiamo mai zitti perché almeno parliamo con noi stessi. Lo scrittore vuole raccontare le narrazioni fatte da se e dagli altri proprio come facciamo tutti noi ogni volta nella quale stiamo insieme, ogni volta che ci vediamo. Fra noi non parliamo soltanto di noi! Parliamo anche degli altri: raccontiamo moltissime cose che riguardano gli altri o che sono loro capitate. E tuttavia, se ci riflettiamo, possiamo anche notare che i nostri racconti degli altri servono a noi stessi, al nostro personale racconto. Giovano a produrre ed indirizzare i nostri comportamenti; insomma a rendere conto di ciò che abbiamo fatto e raccontato. Presentando forme di esistenza diverse, vere o immaginate che siano, lo scrittore apre condizioni dell’esistenza che potrebbero essere anche le nostre, che potremmo incontrare o nelle quali potremmo trovarci coinvolti. E apre un commento, o infiniti commenti possibili, sull’esistenza o su forme che l’esistenza potrebbe assumere. -“Sono stati scritti tutti quei libri solo per questo, per raccontare?” - “Mah, forse anche per guadagnare: per soldi appunto!” - “E chi li ha pagati? E gli hanno dato molto?” - “Il guadagno è un fatto della modernità, dei nostri giorni. Prima non esisteva! Fino a poco tempo addietro chi scriveva lo faceva perché poteva permettersi di non lavorare. Gli scrittori ed i poeti erano conti, baroni e gente di quel tipo lì. Insomma aristocratici benestanti per nascita e patrimonio. Non avevano bisogno di lavorare e studiavano e scrivevano perché non avevano nulla cui dedicarsi. Più anticamente, prima dell’Ottocento, i poeti ed i letterati dovevano appoggiarsi a qualche signore da cui ottenere protezione e sicurezza economica; venivano mantenuti per potere scrivere.” -“Ma perché li mantenevano - che cosa ci guadagnava un signorone, un principe oppure un re da uno che scriveva, che riempiva fogli di carta e non produceva nessuna vera cosa?” La domanda, come il solito, era sensata! Anche se lo “zio Concetto” aveva soltanto la seconda elementare, ed in pratica sapeva scrivere appena, tuttavia era
sempre arguto e puntuale nelle sue osservazioni. Seguendo il filo di una logica attaccata alla solidità dei fatti, ai rapporti quantitativi tra le cose, obiettava correttamente all’idea che qualcuno pagasse un altro per scrivere. Nell’idea che aveva lui del lavoro, inteso come manipolazione e trasformazione, l’idea dell’uomo di cultura gli appariva necessariamente non legata all’utilità del guadagno. Piuttosto gli sembrava inutile e caratterizzata da un certo parassitismo ludico. Chi usa la penna gioca con le parole e non lavora perché non produce oggetti. La carta scritta aveva su di lui un effetto alienante perché gli ricordava gli oscuri oggetti che, diceva, gli rendevano amara la vita. Tradotto in termini comuni si trattava delle bollette della luce, dell’acqua, del padrone di casa e, soprattutto, delle bollette del condominio. Non riusciva a darsi conto del perché bisognava pagare cose degli altri, cose che non erano soltanto sue e delle quali fruiva poco o niente. Per fortuna non gli arrivavano mai le tasse perché, come diceva, - “ lui per l’ufficio delle tasse non esisteva neppure”. Raccontava che un finanziere, una volta, gli aveva confidato che lo stato sapeva che i biciclettisti guadagnavano poco e vivevano alla giornata. Motivo per cui non li cercavano mai per le tasse. Per questa rassicurazione avuta viveva tranquillo! Infatti, soggiungeva in modo categorico, -“se lo stato fosse entrato nel suo lavoro per rubargli i suoi soldi e darli agli altri, avrebbe chiuso subito bottega”La sua naturale diffidenza d’uomo della pratica, delle cose, per la carta scritta aveva il senso della storia di tutta la sua vita. Lo stato era il suo nemico naturale perché non aveva fatto nulla per lui. Fin da quando era nato, su alla Barriera, aveva sempre dovuto contare sulle proprie forze e nessuno gli aveva mai regalato nulla. Non le scarpe che aveva messo, per la prima volta, verso i tredici anni e che erano state una vera tortura dal momento che i piedi erano abituati ad essere nudi. Non il pane che, da ragazzo, costituiva tutto ciò che poteva mangiare. Eppure lo stesso pane aveva dovuto desiderarlo un sacco di volte! E la madre, quando c’era il pane, ne tagliava sempre due parti: una grande e una piccola; la prima era il pane vero e proprio; la seconda parte, quella piccola, il companatico. Il formaggio, la mortadella, bisognava sempre immaginarle perché non apparivano mai nella tavola di casa sua.
La fantasia di bambino, sua e dei suoi fratelli, e soprattutto la fame che non mancava mai, lo aveva sempre aiutato a credere in qualche modo alla finzione dei due pezzi di pane. Quando si poteva mangiare un vero companatico erano ottime le olive sotto olio o sotto sale. E ricordava sempre che si mangiava una sola volta il giorno: la sera quando ritornava il padre ed i fratelli più grandi dal lavoro. Il padre era carrettiere con un asino di sua proprietà. Ma quando mancava il lavoro con l’asino faceva “l’abbracciante”, vale a dire abbracciava qualsiasi cosa potesse procurare del lavoro e del denaro. Insomma lavorava in modo precario e discontinuo: proprio come vogliono che i giovani d’oggi facciano! E soggiungeva: “Erano tempi poveri, di centesimali! Anche se oggi vogliono fare lavorare le persone in modo precario come allora, tuttavia adesso i soldi, bene o male, ci sono; ma allora proprio non c’era nulla”. I suoi fratelli più grandi facevano un mestiere più moderno: i muratori. Non era una gran qualifica lavorativa o sociale ma era sempre meglio che dovere cambiare costantemente lavoro come il suo povero padre. Ricordava che quando non c’era proprio nulla di che mangiare andava a rubare i mandarini ed i limoni oppure le arance. Tuttavia, per quanti ne mangiasse, non riusciva mai a saziarsi. E poi, dopo essersi abbuffato ad agrumi, soprattutto con le arance, pisciava con difficoltà perché gli bruciava la minchia. Andava un poco meglio quando trovava delle carrube: almeno gli davano un senso di maggiore sazietà e, soprattutto, non gli bruciava il pisellino, come lo chiamava sua madre che si vergognava di dire la minchia. Non si dimenticava mai di aggiungere, con un misto di nostalgia e di amarezza nello stesso tempo, che la madre molte sere preparava la “paparotta”, cioè un misto di varie verdure selvatiche, raccolte spesso negli orti vicini o sul ciglio della strada, con sciolta dentro della farina di grano duro, della semola, con residui di formaggio o qualche altro rimasuglio della cucina come pezzi di pane rancido. Il tutto veniva lungamente bollito e alla sera tutta la famiglia mangiava quella mistura che, forse, era veramente buona per le papere. Tuttavia giovava a saziarsi ed era gradevole nelle fredde serate invernali quando, oltre a riempire lo stomaco, riscaldava il corpo. Forse un dietologo di oggi direbbe che quella dello zio Concetto e della sua famiglia era un’ottima dieta vegetariana che teneva basso il colesterolo ed i trigliceridi evitando le arteriopatie della moderna società del benessere; e che la vita attiva, non sedentaria, manteneva il corpo più sano. Saranno anche
argomentazioni valide: fatto è che oggi la vita media si è allungata di parecchio rispetto a quella di sessanta anni addietro e che allora si moriva spesso per denutrizione piuttosto che per eccesso di colesterolo e trigliceridi. Ascoltandolo si restava in qualche modo affascinati da quel personaggio ormai fuori dal tempo che raccontava fatti e condizioni mai scritti sui libri di storia. Aveva poi una straordinaria rassomiglianza con certi personaggi verghiani; ma ciò che turbava di più era la coscienza che quella persona raccontava storie piuttosto recenti, che risalivano ad alcuni decenni addietro. Non erano, infatti, accadimenti di alcune centinaia di anni prima: ma di alcune decine di anni. Questa era la prova di quanto il mondo fosse cambiato celermente negli ultimi cinquanta anni, tanto da essere irriconoscibile. Era stata la vita di tanti esseri umani di quella stessa città che Vitaliano Brancati usava come scenario per dei personaggi che si occupavano solo di donne e di politica e per i quali l’ozio e l’impotenza erano quasi tutti i problemi della vita. In quella stessa parte di mondo vi erano stati uomini reali che combattevano una loro concreta battaglia quotidiana per sopravvivere. In quello stesso periodo, nella stessa città, molte persone non avevano altri problemi che quelli di riempire lo stomaco. Lo “zio Concetto” era perfettamente consapevole di quanto quei tempi e quelle condizioni economiche avevano influito sui suoi sentimenti e sulla sua vita. Diceva, infatti, che non ritrovava tra i ricordi la sua giovinezza perché l’aveva bruciata. La miseria e i problemi avevano distrutto la sua vita infantile. Non aveva un ato da bambino. Aveva sempre dovuto fare l’adulto. La madre si era sposata due volte perché il primo marito era morto a causa di una malattia sconosciuta. Forse un tifo o forse una polmonite: il medico non aveva voluto dirlo. O forse non lo aveva neppure capito! Per potere dare il pane ai quattro figli che erano rimasti insieme a lei si era dovuta risposare in tutta fretta: senza neppure aspettare di togliersi gli abiti scuri del lutto. E aveva fatto altri sette figli. Vivevano tutti e tredici in due stanze con i letti che il giorno diventavano divani appoggiandoli al muro. I figli erano tanti perché la notte, non essendoci la televisione e andando a letto presto per non sciupare inutilmente la luce, i genitori fottevano. Lui era il più piccolo di tutti e dormiva, assieme a due sorelle, nel letto dei genitori: “ai peri du lettu” come ricordava. E
ricordava con stizza che si svegliava spesso la notte perché il letto si muoveva: quei due fottevano sempre. Non mancava mai di aggiungere che era quel porco del padre a fare tutto quel movimento perché la madre era una donna santa che pensava solo alla casa ed ai figli e non pensava alle “porcherie”. Diceva anche che il padre li chiamava i tredici magunzisi, cioè traditori, perché erano lo stesso numero degli apostoli dell’ultima cena dove c’era anche il traditore Giuda. Quella del padre era una metafora ironica per dire che mangiavano il pane a tradimento perché guadagnavano poco e pesavano sulla fatica del suo lavoro. Lo zio Concetto si raccontava spesso e volentieri. Solo che, come tutte le persone anziane, si ripeteva all’infinito e talvolta quando qualcuno di noi non aveva dei problemi personali, lo lasciavamo parlare e ripetere senza ascoltarlo. In ultima analisi era sempre il numero uno per accentrare le ruote delle nostre biciclette! Venivano anche dai paesi vicini e da quelli fuori provincia per fare accentrare le ruote delle biciclette dallo zio Concetto. Avere le ruote ben accentrate è estremamente importante per un ciclista o per un più semplice cicloamatori, di quelli magari un po’ fissati con la propria bicicletta. La bicicletta, quando entra nel cuore di un individuo, diviene il luogo dei suoi pensieri subito prima della propria famiglia e dei propri amici e parenti. Oggi la bicicletta è tornata di moda. Una moda dietro la quale si nasconde il consumo di stili di vita legati ai sensi di colpa per avere inquinato il mondo con il nostro egoismo ed invadenza, per la coscienza di avere l’aria delle nostre città più sporca dei panni stesi che diventano grigi per lo smog. Ma anche la forma e l’idea della prestanza fisica come immagine di vitalità da contrapporre all’idea dell’invecchiamento, del degrado fisico e della morte. Tutte le attività che comportano il movimento sono venute alla ribalta, sfruttate in modo commerciale, perché la nostra società identifica il movimento con il successo, con la vitalità del fare, del produrre, dell’accumulare: insomma con il dominio dell’ambiente. Qualunque pubblicità mostra soggetti che si muovono: quasi che il soggetto in movimento è colui che occupa e domina l’ambiente e che gli altri debbano imitarlo se vogliono occupare scale di dominanza istituzionalizzata e primeggiare sugli altri. Della modernità lo zio Concetto non tollerava, oltre il movimento fine a se stesso come forma del successo, il fatto che nella nostra società il vecchio, l’anziano, non era più valutato per il suo sapere e non era rispettato. “E’ una società tutta movimento e niente sostanza; tutti si danno da fare per guadagnare di più o per vivere più intensamente ma
nessuno vive quest’intensità perché il movimento non lascia ricordi e la memoria resta vuota. Quelli che guadagnano veramente molto non sanno come spendere il denaro perché non resta loro tempo; e tutti gli altri fanno molto movimento ma spendono tutto in questo movimento e anche a loro non resta nulla.” Non era facile convincerlo che la poca considerazione che si aveva per gli anziani nella società odierna era dovuta al fatto che in un mondo che cambia a ritmi vertiginosi il sapere del ato non è spendibile. Nella società preindustriale, contadina e a basso livello di sviluppo economico, come quella nella quale era nato lo zio Concetto, le informazioni accumulate dall’anziano giovavano a controllare l’ambiente. Gli anziani erano importanti per le famiglie e vivevano insieme ai giovani perché avano a questi l’insieme delle loro conoscenze. La famiglia patriarcale o multi generazionale era ad un tempo un fatto economico e di gestione delle risorse informative. “- Oggi, diceva lo zio Concetto, il vecchio non ha più alcuna importanza! Ma quando le famiglie erano numerose e nelle case abitavano anziani e giovani, genitori e figli, zie rimaste nubili o zitelloni fratelli della madre o del padre, le cose andavano meglio per tutti. I bambini piccoli venivano tenuti a turno dai vari componenti liberi della famiglia e avevano più esempi da imitare; se i coniugi giovani avevano difficoltà economiche venivano aiutati dagli altri familiari; e per questo si facevano più figli perché ciascuno poteva contare sugli altri e non soltanto sulle proprie forze. Oggi, proseguiva, dobbiamo importare razze diverse per riempire scuole, fabbriche ed uffici perché nessuno vuole fare più figli visto che devono allevarli solo in due. Nei nostri tempi l’anziano è un peso e le famiglie se lo tengono solo se il vecchio ha i soldi della pensione e se li va distribuendo di tanto in tanto”. La bicicletta è tornata di moda sia per i suoi aspetti salutisti sia come scelta all’invadenza dell’inquinamento provocato dai motori. Il mercato della produzione deve creare sempre nuove mode per ampliare gli spazi di vendita dei prodotti. E devono essere mode generali, di massa, perché solo i consumi di massa garantiscono consumi generalizzati e a basso costo. E poi gli individui hanno bisogno di sentirsi tutti uguali per avere la sicurezza d’essere parte di un tutto che li faccia sentire più sicuri. L’appartenenza è un sentimento di sicurezza! Anche se poi si desidera di essere diversi e non omologhi per sentirsi notati, al centro dell’attenzione degli altri. Parte di un tutto e tutto fra le parti, successo come dominanza attraverso il possesso dei mezzi che sono cose per avere altre cose, giocattoli che ci permettono di sognare e di ingannare il tempo: questo
sembra essere il senso dell’identità nella nostra cultura. E dal momento che l’identità costituisce quanto di più rassicurante possediamo, l’idea di non essere riconosciuti nelle regole del gruppo ci provoca una delle angosce più forti che possiamo provare. Lo zio Concetto diceva che la bicicletta era una delle tante mode che a lui stava bene perché poteva guadagnare qualche lira in più. Ma affermava subito che non tollerava i cicloamatori, quelli proprio convinti i quali magari, non andavano un giorno a lavorare per allenarsi a qualche competizione di club rionale. Gli davano fastidio perché pretendevano da lui prestazioni lavorative gratuite, o a basso prezzo, nel nome della comune ione sportiva. –“ Sono una brutta razza: fissati, fannulloni, maleducati e pricchi”. Il tema del ciclo amatore era la bestia nera dello zio Concetto. Lo si tirava fuori ogni volta che attaccava a raccontare le sue esperienze di vita in Germania. Finiva, infatti, sempre per raccontare le stesse cose un’infinità di volte. E così, per evitare di risentire sempre gli stessi racconti e risapere cose già risapute, lo si interrompeva tirando fuori il tema dei ciclo amatori e facendolo incazzare. Si distraeva per l’arrabbiatura e smetteva di riraccontare. Di una cosa parlava raramente e con una certa difficoltà: delle donne.
Cap. II
Quell’anno era stato veramente uno di quei periodi ricchi di novità e di stanchezze. Concluso il corso di laurea era giunto purtroppo il tempo di cercarsi una vera e propria sistemazione. Il purtroppo era dovuto al fatto che cercarsi un lavoro, una sistemazione stabile, non era un’impresa semplice! Fino a quando si studia si è giovani, non occorre fare i conti con la società e con la realtà. Si studia e la responsabilità del procedere negli studi è l’unica vera responsabilità che compete al giovane. Gli altri fatti del quotidiano, come ad esempio procurarsi il denaro e gestire l’esistenza materiale, sono un problema che riguarda i genitori. Insomma il periodo della vita caratterizzato dagli apprendimenti scolastici ed universitari è definito da una sorta di sospensione nei confronti degli aspetti più materiali ed alienanti dell’esistenza. Ci si può occupare di tutto ciò che interessa perché al lavoro non si deve andare ed il tempo resta libero per pensare, per provare sensazioni e stimoli nuovi, per inseguire immagini fantastiche di come sarà possibile organizzare la realtà quando si sarà grandi. Insomma il mondo delle immagini infantili ed adolescenziali continua, bene o male, per tutto il tempo che ci si prepara alla vita. La fine degli studi, la ricerca del lavoro e poi lo svolgimento di questo costituisce l’impatto con il principio di realtà e con i suoi ambiti limitati e limitanti nei quali scopriamo i nostri limiti, le nostre incapacità, il bisogno di ricominciare nuovamente ad imparare cose nuove che il mondo appartato dell’adolescenza ci aveva fatto intravedere ma non provare. L’orizzonte della realtà si fa più angusto e limitato ed il tempo si riempie di azioni sempre più uguali. La realtà, con i suoi confini piuttosto netti, è il campo limitato nel quale possiamo muoverci: ci aiuta solo la capacità di superarla attraverso le immagini che abbiamo imparato a costruire precedentemente, nella nostra infanzia e nella nostra adolescenza. Ecco perché quando siamo a scuola o all’università sentiamo il bisogno di confrontarci con la realtà concreta, con il nostro autonomo guadagno e con i concreti rapporti di produzione, con il nostro essere e sentirci adulti; ma quando entriamo finalmente in rapporto con il mondo dei concreti rapporti umani, con i rapporti quantificati nel tempo e nello spazio reale, proviamo spesso una struggente nostalgia per la libertà del tempo in cui imparavamo a vivere la vita. Quel tempo lungo nel quale il mondo era più sognato che visto, più immaginato che sperimentato e nel quale la vita appariva
infinita. Tuttavia il momento nel quale sentiamo il desiderio di metterci alla prova dei fatti, di crescere e di essere autonomi, di confrontarci con le cose che pensiamo di sapere, giunge per tutti. Insegnare nel liceo scientifico parificato poteva rappresentare una gratificazione magari professionalmente appagante anche se non lo era dal punto di vista economico. Occorreva pertanto trovarsi un’occupazione più stabile e garantita anche sotto il profilo economico. Tuttavia l’esperienza dell’insegnamento privato, detratta la frustrazione economica, era stata comunque ricca di stimoli umani e professionali. I ragazzi che si iscrivevano a tale tipo di istituto avevano sempre delle carenze pregresse ed è altrettanto noto che stati emotivi disturbati influiscono sugli apprendimenti. Chi era deprivato affettivamente perché il padre occupava troppa parte del suo tempo a produrre quei soldi che poi la madre spendeva perché aveva troppo tempo per poterlo fare. Oppure erano ragazzi appartenenti a quelle stratigrafie sociali che avevano ottenuto una crescita economica senza un corrispettivo credito culturale ed i cui genitori riversavano sui figli il compito di riscattarli dal mancato titolo culturale. Oppure si trattava di ragazzi con famiglie complicate da innamoramenti vari e con adolescenze conflittuali che poi qualche grigio psicoanalista avrebbe curato in un non lontano futuro. Insomma il materiale umano difficile non era mancato e aveva arricchito l’esperienza di quei primi anni d’insegnamento. Anche la scuola era un’altra bestia nera dello zio Concetto. Infatti, affermava con convinzione che -“dovrebbero bruciare quel figlio di buttana che ha inventato la penna” La penna, infatti, è la rovina di tutti perché tutti oggi vorrebbero fare un mestiere senza sporcarsi le mani: cioè appunto con la penna! E osservava con compunzione e puntualità: -“dove sono tutti questi posti per chi sa usare la penna? E poi, se tutti scrivono, chi è che fa veramente le cose? Chi è che trasforma le cose e le rende veramente utilizzabili?” La penna è la maledizione dei giovani di oggi che non imparano più un mestiere. In ogni caso visto che per legge tutti devono sapere leggere e scrivere e arrivare fino alla terza media, a quattordici anni è difficile imparare un mestiere. Come si può dare la “settimanata” ad un giovane di quattordici, quindici anni, che non produce nulla perché deve ancora imparare i rudimenti del mestiere. Il mestiere, diceva lo zio Concetto, si deve imparare prima, da piccoli, magari mentre si studia. Dopo è troppo tardi e i ragazzi si abituano all’ozio e vogliono la pagnotta gratis. E siccome senza un mestiere non trovano lavoro vanno a rubare.
Attualmente il posto della penna era stato preso dalla macchina da scrivere e dal computer. Ma secondo lo zio Concetto il prodotto non cambiava: le cose non si fanno con nessun sistema di scrittura ma si fanno con le mani, come i palazzi, le macchine o le biciclette! Non era facile scalfirlo dalle sue convinzioni! Tuttavia gli fu fatto notare che nella società contemporanea, affinché tutti abbiano le stesse possibilità di partenza, occorre un’istruzione comune, uguale per tutti, che dia a tutti un minimo di strumenti concettuali per la lettura e la comprensione della realtà nella quale vivono. L’argomentazione democratica non lo scosse minimamente dalle sue certezze arcaiche e semplificate. Si poteva tuttavia riconoscere spesso nelle sue opinioni un buon senso pratico ed un equilibrio di giudizio. Magari di quelle verità spicciole del buon senso comune che non necessita e non richiede grandi approfondimenti critici. Non diceva cose false affermando che la gioventù attuale non era più abituata al sacrificio e all’ottica del lavoro come momento essenziale della vita. Anche il problema dell’uso delle penne, se inquadrato nell’ottica della nostra cultura che considera il lavoro manuale come caratteristica delle classi sociali subalterne, non era mal posto. Nella nostra nazione, forse perché è giunta più tardi allo sviluppo industriale, il titolo di studio ha sempre contraddistinto i ceti egemonici piccolo e medio borghesi: gli individui che non si sporcano le mani perché usano la penna e che occupano un livello superiore nelle scale di gerarchia istituzionalizzata. Il sapere, la cultura sono sempre state identificate con la promozione sociale, con l’occupazione di stratigrafie sociali che hanno un peso maggiore nelle scelte della società. Lo zio Concetto rivendicava all’attività manuale, al fare artigiano, una parità morale se non una supremazia produttiva rispetto al lavoro intellettuale. Per lo zio Concetto il problema della “penna” nasceva da un costume aberrato e frutto di preconcetti per il quale l’impiego della penna diventava una distinzione sociale e una distinzione esistenziale. Egli aveva profonda repulsione per le distinzioni sociali fondate su preconcetti che non guardassero alla sostanza delle cose e dei processi. Capitava ogni tanto anche a noi di abbandonarci al filo della memoria, a quei racconti autobiografici che facciamo a noi stessi ricordando il nostro ato. Ripensando al ato riflettevo che gli alunni conosciuti nell’istituto privato erano in maggioranza di estrazione sociale medio bassa. E’ probabile che in certe stratigrafie sociali si avverte più forte il senso della promozione sociale
attraverso il filtro della scolarizzazione. Anche se i figli hanno poche motivazioni allo studio li si obbliga ad andare avanti negli studi, a prendere il “pezzo di carta”, perché proprio quel diploma specifica chi si sporcherà le mani e chi no. Qualcuno ha detto che le colpe dei padri ricadranno sui figli. Anche nella società laica l’adagio viene rispettato e i padri proiettano sui figli i peccati delle loro frustrazioni e così molti figli hanno imbracciato la penna per fare contenti i padri. Il problema però, nell’ambito della realtà, si è mostrato molto più complesso. Infatti molte di quelle penne volute dai padri non hanno trovato la carta su cui scrivere e questo ha comportato che molte delle frustrazioni dei padri sono trasmigrate sui figli: magari aggravate dall’idea di avere sciupato del tempo e delle risorse economiche per nulla. In ogni caso, anche per non darla vinta allo zio Concetto, quando si parlava del valore della conoscenza e del sapere, gli facevamo notare che sia la conoscenza che il sapere in generale aiutano sempre e chiunque, indipendentemente dal tipo di lavoro che poi, praticamente, si esegue per vivere. Non è detto che debba esistere una corrispondenza necessaria tra titolo di studio e lavoro che si fa. Molto spesso si può fare un certo tipo di lavoro e possedere un titolo di studio diverso e non omogeneo. E’ certamente vero che ne deriverebbe una certa frustrazione per non potere impiegare le competenze e le conoscenze che si sono acquisite in anni di impegno e di studio; comunque, anche facendo un diverso mestiere, gli apparati concettuali appresi possono essere benissimo applicati a campi di operazioni diverse. Se una persona ha un titolo di studio superiore e lavora come vigile urbano, poliziotto, tassista, autista di mezzi pubblici o biciclettista, anche in questi campi potrà portare i contenuti delle conoscenze e delle competenze apprese: farà meglio il lavoro e saprà capire meglio le esigenze di coloro con i quali entrerà in relazione. Una base di conoscenze uguali per tutti è indispensabile per evitare che alcuni, usando il sapere, condizionino altri che questo sapere non hanno potuto possedere. Per questo occorre una scuola dell’obbligo comune, una scuola di massa che coinvolga tutti i cittadini di uno stato. E per tale scuola comune occorrono programmi e percorsi formativi che tengano conto delle diversità degli alunni che le frequentano. Subito dopo tale scuola, per coloro che intendono are ad un lavoro, si possono proporre corsi professionali mirati al lavoro stesso magari da svolgersi nelle fabbriche o nelle botteghe artigiane con i finanziamenti dello stato. Questa idea piaceva allo zio Concetto: non tanto per la sua valenza pedagogica e democratica ma per il finanziamento dello stato agli artigiani che insegnavano ai giovani il mestiere.
CAP. III
Ripercorrendo con la memoria gli anni ati ad insegnare nel liceo scientifico parificato mi colpiva, ed avevo consapevolezza, che il tempo era trascorso e che una nuova generazione di studenti, di giovani, avevano sostituito quelli della nostra generazione. Il decennio degli anni settanta aveva realmente bruciato una generazione e ne aveva prodotto un’altra! Era tramontato il mito della realtà come mondo politico e si era andata ricompattando l’idea del mondo come universo della soggettività. Gli anni ottanta avevano consolidato tale aggio e tutta l’utopia si era trasformata in ideologia. La ricerca di un mondo diverso come progetto o come alternativa era diventata la ricerca di un mondo di piccole, ma stabili, sicurezze quotidiane. Vi è una sorta di delusione storica quando gli individui scelgono il progetto della loro soggettività a quello di una grande, solidale intesa, tra tutti gli esseri umani. E come se gli uomini non si rendessero più conto che la loro è una storia in comune, che il fatto destinale non è la divisione del ciascuno per se e dio per tutti, ma che dobbiamo escogitare il metodo per prenderci vicendevolmente cura l’uno dell’altro. Le grandi strutture ideologiche sono costruzioni che permettono di formulare un piano di vita nel quale ogni cosa ed ogni essere umano hanno un posto nell’insieme; anzi l’essere soggettivo è una dimensione dell’essere oggettivo e viceversa. Ma mantenere l’idea di un grande progetto, di un grande piano organico, costa il sacrificio della propria soggettività, il definire le proprie azioni in rapporto ad uno scopo unitario. Tutto ciò si esprime in una costante ridiscussione del proprio se, della propria dimensione di vita. La forma partito esprimeva la dimensione di un vissuto collettivo nel quale le decisioni finali erano espropriate all’individuo che doveva pensare solo all’orto concluso delle sue vicende quotidiane ed, al massimo, alla loro coerenza con i contenuti di fondo proposti dall’ideologia. Lo zio Concetto era solito dire che i giovani della mia generazione avevano pensato alla rivoluzione non tenendo presente la forza di attrazione esercitata dall’utilitaria e dalle ferie rateizzate. E che -“se tutti gli uomini sono convinti che la vita è un aggio sono anche convinti che è molto meglio are in Ferrari piuttosto che in Cinquecento! Ma, se debbono per forza are in Cinquecento, pensano ed escogitano di fare la rivoluzione per accaparrassi la Ferrari. Tutte le
rivoluzioni e le grandi trasformazioni della storia sono state fatte perché gli uomini che non hanno la Ferrari, che non possiedono le cose più piacevoli, vogliono toglierle a chi le possiede già e vogliono prendersele loro. Insomma si combatte sempre per avere le cose migliori che vogliamo tutti e che sono possedute dai pochi fortunati del momento.” Pertanto le rivoluzioni sono un cambio di padrone delle cose più piacevoli ad aversi. Ma aveva anche un’altra sua teoria che tirava fuori quando era meno polemico e decideva di darsi un’aria da intellettuale. Allora diceva che –“le antiche grandi civiltà erano scomparse perché non riuscivano più a dare risposte ai problemi della gente essendo troppi questi problemi a cui doveva cercarsi la soluzione! Anche le grandi rivoluzioni accadevano per lo stesso motivo: per non avere tutte le risposte ai problemi che nascevano in una determinata società ad un certo punto del suo sviluppo. Su questi, ma anche su molti altri grossi problemi, lo zio Concetto aveva delle oscillazioni radicali e strane. Tuttavia, a ben pensarci, tutti noi sui grandi problemi e talvolta anche sui piccoli, abbiamo delle oscillazioni, degli atteggiamenti schizofrenici, come se certe volte avessimo due cervelli che pensano in un modo diverso ed antitetico. Comunque, se fosse stata vera la prima delle concezioni dello zio Concetto, tutta la storia sarebbe stata soltanto lo specchio dell’egoismo umano. Noi prendevamo sul serio solo la sua seconda ipotesi. Si diceva poco sopra che certe volte capita a tutti, così come allo zio Concetto, di avere due forma di pensiero quasi opposte ed in contrasto tra loro: quasi forme di bis pensiero e di evanescenti schizofrenie. Capita appunto di pensare ad un problema o ad una situazione dandone due soluzioni non solo diverse, ma talvolta opposte. Una strutturalmente emotiva; ed una più logica e consequenziaria. Sembrerebbe proprio che abbiamo, come dicono alcuni neurobiologi, due cervelli che funzionano in modo radicalmente diverso. L’emisfero destro che opera in modo da tenere presente l’emotività ed i sentimenti e l’emisfero sinistro che invece opera su strutture logiche e consequenziarie. E’ forse per questo motivo che certe volte, quando il nostro superiore ci muove un appunto, vorremmo mandarlo a fanculo ma poi, riflettendoci qualche secondo, trasformiamo la nostra reazione emotiva in un atteggiamento più pacato e discorsivo. Ed è sempre per questo nostro modo doppio di reagire agli stimoli che, se ci sentiamo attratti da una persona dell’altro sesso, tergiversiamo ad aprire con lei un paragrafo della nostra storia personale adducendo motivazioni di difesa come gli impedimenti morali, materiali, eccetera.
Se fosse vera la spiegazione emotiva dello zio Concetto sulle trasformazioni della realtà storica come prodotto semplificato dell’egoismo umano vorrebbe dire che gli ideali che spingono ai grandi sconvolgimenti della storia e alle conseguenti trasformazioni economico sociali non sarebbero altro che gli interessi di un gruppo di uomini che vogliono imporre il proprio interesse specifico ad altri uomini. E tale meccanismo sarebbe senza un motivo, senza una sua razionalità e necessità. Insomma secondo l’angolo di visuale emotivo dello zio Concetto gli eventi della realtà umana sarebbero determinati dal fatto che, ad un certo punto del tempo storico, alcuni uomini decidono di essere stanchi di andare in Cinquecento e decidono di fare un casino bestiale per accaparrarsi la Ferrari: - “ tutte le azioni umane sono mosse dal fatto che vogliamo le cose che ci procurano piacere e che le vogliamo mantenere in nostro possesso proprio perché ci procurano piacere, magari sottraendole agli altri che, purtroppo , le vogliono pure!” Può sembrare talvolta strano che un uomo poco culturalizzato come lo zio Concetto arrivi alle stesse conclusioni di uno studioso accreditato che afferma essere le faccende umane in oscillazione tra due contrapposte polarità: lo stato nascente e la stabilizzazione. Forse dovremmo cominciare a pensare che ci sono molte più cose ovvie a portata di mano di quanti modelli teorici complessi si possano ideare. Oppure ancora che la realtà sia semplice. O forse che nella nostra società, dominata dall’oralità della parola e dall’inconsistenza delle immagini, la conoscenza di determinati problemi non la si ricava più dal testo scritto, dalla lettura dei libri, ma piuttosto dalla comunicazione stessa dei comunicanti. La stabilizzazione ed il conformismo, l’omologia, appaiono oggi come la soluzione vincente, come la scorciatoia nella quale immettere le nostre paure quotidiane ed il nostro bisogno di rassicurazione, come il desiderio di sentirci parte di un tutto omogeneo che, comunque, è tutto fuorché omogeneo e coeso. Essere integrati in un gruppo significa parteciparne in qualche modo all’identità. Muoverci all’interno di esso, attraverso le sue regole e il comportamento dei suoi appartenenti, significa forse sentirci meno soli ed avere meno paure. La tale o tale altra firma sui capi che indossiamo, il possesso di quell’auto o di quel telefonino cellulare, l’essere magri e muscolosi o il sembrare giovani e capaci ancora di dominare attivamente l’ambiente, significa appartenere attivamente al mondo, fare mondo ed essere così appartenenti e vivi. In fondo la nostra identità è l’insieme dei nostri ricordi che sono l’insieme delle nostre relazioni: senza relazioni e senza ricordi la nozione stessa del mio essere, della mia identità, rischierebbe di scomparire. Proprio come in quelle malattie nelle quali i neuroni del cervello muoiono ed i nostri ricordi vanno persi e, con
loro, la nostra identità. Possedere un’identità è non essere soli ad aspettare che, ad un certo punto, in un punto sconosciuto ma certo, tutto finisca improvvisamente, senza un motivo, così come è stato all’inizio. Ma per la generazione che aveva creduto allo stato nascente, all’utopia e che aveva puntato tutto sul cambiamento e sulla riforma etico politica della realtà sociale, lo spiazzamento di ritrovarsi in un contesto conformista ed orientato sull’esaltazione dei valori individuali dell’aggressività competitiva e dell’integrazione, costituiva più di una frattura: una vera e propria contraddizione storica ed epocale dalla quale occorreva uscire in qualche modo prima che un sonno assoluto della ragione generasse mostri invincibili e orrendi. Diceva, con la solita intelligente ironia W. Allen che, se Dio è morto e Marx pure, lui non si sentiva meglio per tutto ciò! O forse, per sentirci un poco meglio, dovremmo ottunderci la mente cambiando più spesso la macchina, avere più vestiti firmati, cambiarci il cellulare più spesso, fare vacanze più lunghe pagando rate meno onerose e, in ultima analisi, avere più giocattoli che la nostra sociocultura mette a disposizione degli adulti che maturano con un certo ritardo. Oppure mai. Comunque lo zio Concetto continuava sempre a ripetere che in un mondo libero, che è tale perché non c’è nessuno che prende decisioni per tutti gli altri, bisogna essere tutti schiavi di qualche cosa per essere tutti assolutamente liberi. Cosa veramente volesse dire nessuno lo capiva. Questa non era certo una frase semplice: appariva piuttosto una frase fatta e ad effetto. Era difficile capire se vi si nascondesse il solido, concreto buon senso comune dello zio Concetto. Forse sì ed eravamo soltanto noi a non accorgercene.
CAP. IV
Capita anche adesso di incontrare qualcuno dei vecchi alunni. Sono tutti molto cresciuti. Qualcuno dopo la maturità è andato a studiare nelle università americane. Qualcun altro ha finito per fare il garzone nel bar del padre. Talvolta bisogna fingere di riconoscerli e di ricordarli: ma non è sempre vero perché sono cambiati notevolmente e, molto spesso, la memoria giuoca brutti scherzi perché si opacizza. Tuttavia parlare con quei ragazzi oramai cresciuti e fatti adulti significava confrontarsi con il fatto che nuovi tempi, nuovi miti e nuovi riti si erano sostituiti a quelli della generazione precedente. Cercare di capirli era anche cercare un confronto con il ato, con quel momento della storia italiana che, sia pure nelle sue dilaceranti contraddizioni, costituiva il periodo più fecondo della nostra generazione. Se il mondo attuale ha una sua particolare forma e dei suoi contenuti questo è anche il prodotto di tanti momenti di discussione e di scontro violento che la generazione del “sessantotto” dovette affrontare. Non perché sia stato un periodo romanticamente eroico e da enfatizzare attraverso la memoria: forse non fu neppure un periodo felice o particolarmente semplice. Ma certamente creativo… Sotto un certo aspetto quegli anni sono stati caratterizzati dal massimo sforzo teorico e pratico di immaginare un mondo migliore nel quale il senso dell’etica collettiva corrispondesse alla progettualità soggettiva: il benessere di tutti coincidesse con i sogni del singolo. Il migliore dei mondi possibili dove l’interesse collettivo coincidesse con la massima felicità individuale e tutto il privato era pubblico. Si potrebbe quasi dire che si volesse realizzare il progetto platonico di una società retta dal pensiero razionale, capace di offrire risposte valide sia in ambito collettivo che individuale, in grado di realizzare la dimensione dell’utopia e del ragionamento critico e di negazione, di spingere al mutamento verso il nuovo, verso il diverso e l’accettazione di questo: insomma una società giusta dove i nuovi socrati non potevano essere condannati a morte. Certe strutture e certe forme del vicinissimo ato erano divenute contraddittorie e incapaci di accogliere il nuovo e il diverso: da qui gli stalli ed i comportamenti pietrificati che reggevano l’ambito della società e i rapporti personali.
Il modello storico disponibile era certamente presente nella concezione marxista e nel così detto socialismo reale, cioè nelle forme politiche che aveva assunto la concezione marxista in alcuni paesi del mondo ed in particolare nella Cina e nell’Unione delle repubbliche socialiste sovietiche. All’interno di quel modello di riferimento si discuteva moltissimo e ci si divideva politicamente sulle vie nazionali di accesso al socialismo. Ciascuna nazione aveva una sua tradizione sociale, economica, culturale e non si poteva fissare un sistema politico come quello marxista ad una unica esperienza storicamente determinata. La forma del comunismo cinese ne era una riprova. Le condizioni sociali ed economiche della Cina pre rivoluzionaria erano completamente diverse da quelle dell’Unione Sovietica e pertanto diversamente bisognava elaborare lo schema del marxismo ed i suoi risultati. Lo stesso ragionamento valeva per lo sviluppo di un socialismo in nazioni a forte sviluppo industriale e capitalistico come l’Italia. Bisognava trovare una via nazionale, una modalità propria, allo sviluppo della società socialista nelle varie nazioni. Queste discussioni comportavano certamente una conseguenza e cioè che non tutti si era convinti che il socialismo fosse uno solo e che quello realizzato in alcune nazioni fosse capace di dare soluzioni efficaci per tutti. L’unico convincimento assoluto di fondo era che la società a sviluppo capitalistico, fondata sull’egoismo e l’aggressività competitiva, non riusciva a distribuire felicità a nessuno, benessere per pochi ed agli altri povertà, alienazione, sfruttamento. Questo era lo scenario delle società a sviluppo capitalistico. Lo zio Concetto diceva sempre che se in Italia avessero vinto i “comunisti” lui sarebbe ritornato in Germania: -“Io lavoro solo se i soldi che prendo restano nelle mie tasche! Lavoro solo ed esclusivamente per me perché con gli altri non ci ho mai mangiato a tavola, né mi hanno mai invitato”. Era quasi impossibile fargli capire che se tutta una società si regge sul suo ragionamento ogni uomo sarà nemico dell’altro e, prima o poi, la società sarà priva di coesione. Alla sua mentalità sfuggivano certi particolari non secondari, come ad esempio il fatto che una società che pensa solo in termini economici educa gli uomini a considerare tutto alla stregua di cose che si possono vendere e comprare: comprese le stesse persone. Ma anche i mezzi per ottenere le cose, piano piano, saranno considerati secondari e si penserà soltanto alle cose come mezzi, indipendentemente dai modi per arrivarci e possederle. I ragazzi che non andavano da lui ad imparare un mestiere e andavano a rubare forse lo facevano perché la nostra società dice solo che è importante possedere certe cose che fanno apparire l’individuo in un certo modo ma mette in secondo piano i mezzi che bisogna impiegare per ottenerle. L’importante è possedere i giocattoli che la
socio cultura ritiene gratificanti e simbolo di una appartenenza a scale di gerarchia istituzionalizzata rilevanti. Chi ha pochi giocattoli non ha prodotto ricchezza sufficiente per giocare: vale poco perché occupa posti bassi nella dominanza istituzionalizzata e non è stato abbastanza aggressivo da sottrarli agli altri. Viceversa l’utopia tende sempre a presentarsi come rottura degli equilibri preesistenti, come insieme dei ragionamenti di negazione, come analisi e dialogo che non presuppone necessariamente una soluzione. La scelta dell’utopia è la scelta di un’attesa, di un mondo tanto possibile da essere necessario. Il distacco dell’uomo dalle sue vere necessità a favore della produzione e del consumo finalizzato all’incremento del capitale appariva decisamente come la radice di tutti i mali. In nome della produzione e del consumo gli individui venivano espropriati di una parte del loro lavoro; in nome della produzione e del consumo l’ambiente naturale veniva sottoposto ad uno stress ecologico che si sarebbe ritorto contro tutti gli uomini. Occorreva abbattere il sistema sociale che credeva di costruire la felicità umana sulle macerie per i molti ed il privilegio per i pochi. Si trattava dunque di un grande progetto: insegnare agli uomini che la felicità non consiste esclusivamente nel benessere personale, nel possesso di beni da consumare e con cui giocare e da mostrare agli altri come simbolo di un raggiunto prestigio sociale. Ma piuttosto di proporre una forma sociale capace di garantire a tutti gli individui i bisogni fondamentali attraverso uno sviluppo tecnologico sostenibile dall’ambiente. E’ un vizio o una virtù dell’intellettuale di tutti i tempi quello di pensare di potere vedere solo lui il vero modo con cui stanno le cose, come si può intendere la verità e secondo quali modalità. Questo proprio perché dubita di tutto e non crede in profondo a niente. Essendo abituato a mettere tutto in discussione e a capire che le verità sono in relazione alla prospettiva da cui si osservano le cose, pensa che gli altri siano condizionati nelle loro visioni del mondo dalla condizione sociale nella quale sono immersi. Viceversa ritiene spesso che solo lui veda le cose senza condizionamenti o, comunque, avendo consapevolezza dei propri condizionamenti e quindi dominandoli. Ebbene per tale motivo egli si convince di avere la visione delle cose nella loro intima essenza, di capire il senso delle cose e la loro possibile organizzazione. Risolvere una determinata situazione può essere a portata di mano per qualsiasi uomo si giovi del senso comune; ma non per l’intellettuale. Risolvere un
problema, anche il più semplice, come la scelta del cibo quotidiano lo pone nella condizione del dubbio: uso cibi dieteticamente corretti, senza grassi insaturi, come verdure e carni bianche, oppure mi abbuffo di sane cotolette fritte, di dolci e di quanto altro gratifichi il mio gusto del cibo appetitoso? Se si tratta di un problema già più complesso, come la scelta dell’istruzione da dare ai figli, i dubbi e le incertezze aumentano in modo esponenziale perché le variabili da considerare sono normalmente molte. La facilità delle scelte e delle soluzioni sono possibili per colui che ha delle certezze precostituite, che crede nell’identità delle cose e ad un loro ordine già dato e, perciò stesso, ripetibile. L’intellettuale non ha di queste certezze perché ha imparato che le cose non sono quelle che sembrano, che ci sono molti modi probabilisticamente veri di ordinarle e gestirle e che, insomma, le prospettive di osservazione e di intervento sul mondo sono molteplici. Tanto le concezioni dogmatiche ed essenzialistiche della realtà quanto quelle relazionistiche comportano l’atteggiamento di colui che, in ogni caso, pensa di avere la verità che agli altri è nascosta. Si è osservato che un sistema nel quale le informazioni sono poche ha poca probabilità di sopravvivere e di espandersi in una realtà complessa, che deve dare cioè molte risposte a molti problemi. Ma un sistema nel quale le informazioni sono troppe rischia di collassare nell’improbabilità di esprimere scelte solutive efficaci. E’ facile verificare che una proposizione della forma “piove” ha un basso contenuto informativo ma un alto contenuto probabilistico! Viceversa la proposizione “piove, non piove”, ha un più alto contenuto informativo ma minori probabilità che gli eventi descritti si verifichino. E’ più facile che si verifichi un solo evento piuttosto che due! Ed è forse per questo che una persona che possiede molte informazioni deve valutare lungamente quali probabilità ha di azzeccare la soluzione migliore e che le sue scelte comportano uno stress maggiore. Chi ha poche informazioni sceglie con sicurezza perché ha poche probabilità di sbagliare. La soluzione di un problema rimanda ad altri problemi ed ogni aggio necessita del rimando ad altri aggi. Questa catena è talvolta tortuosa e viene costantemente arricchita da un insieme di variabili indipendenti che rendono complesso lo scenario che si analizza. Ed è per questo che ad un intellettuale non si deve mai chiedere di essere sintetico, di arrivare al nocciolo della questione in due parole. Più sono le informazioni più sono le variabili da controllare. Questo meccanismo dello stress iperinformativo giustifica le lungaggini e la poca capacità di sintesi dell’intellettuale. E tuttavia la bellezza di tali discorsi risiede nella loro capacità di oscillare nella ricchezza dei significanti e dei vari
significati contestuali, nella soggettività che descrive le sensazioni, le immagini ed i sentimenti e l’oggettività dei linguaggi monosemici e scientifici. Lo zio Concetto non riusciva ad accarezzare le cose attraverso la complessità del linguaggio; pensava che ci fossero perché erano in quel posto, perché si potevano toccare ed apparivano solide, sicure, proprio come i suoi soldi solidi e sicuri fino a quando gli altri non potevano metterci le mani. Una cosa che faceva molto di rado era quella di parlare delle donne. Ciascuno di noi raccontava spesso le proprie avventure, le proprie occasioni di incontro e di conquista sessuale, o presunte tali e ci si lasciava andare ai racconti intimi o alle nostre fantasie ancora più intime e, talvolta, inesistenti. Le uniche donne di cui parlava più spesso lo zio Concetto erano le sue sorelle o sua madre. La madre era stata un misto di santità, di virtù e di sofferenze. Le sorelle delle arpie rispetto ai suoi soldi ma sante rispetto a quegli zoticoni dei mariti e a quegli ingrati dei figli. Tutte le altre donne erano buttane! Era solito dire che l’uomo è cacciatore. E’ questa una metafora che si usa ancora oggi per esprimere l’atteggiamento strumentalmente sessuale che ha il maschio nei confronti delle donne. La donna deve difendersi, come una vera e propria preda, dalla volontà di possesso sessuale che l’uomo ha nei suoi confronti e al quale vorrebbe ridurre il loro incontro. Sapendo di essere una preda la donna si difende ponendo in atto tutta una serie di strategie difensive atte a preservarla. Proprio come agisce una preda nei confronti del predatore. Per questo motivo lo zio Concetto concludeva che tra “femmine e maschi” non ci possono essere “discorsi”: sono due universi diversi senza niente in comune! Le sorelle gli avevano detto che “non era maschio”, che era “monaco”, perché non si era mai cercata una moglie con la quale fottere la sera! A loro egli aveva sempre risposto che preferiva le buttane. Erano meglio della moglie perché questa bisogna tenersela vicino buona parte della vita, “accampa diritti”, “bisogna dargli da mangiare”, accompagnarla a messa la domenica e le feste comandate, portarsela al cinema. E poi la moglie invecchia! La buttana si paga, ti fa quello che le chiedi e via. Non devi mantenerla, non hai l’obbligo di parlarle se hai i coglioni che ti girano e non invecchia perché uno,”quando si stufa ne paga un’altra”. Insomma al posto di una moglie con tutti quegli inconvenienti era certamente meno onerosa e rompiballe una buttana. E soggiungeva poi: “dato
che prima o poi uno dei due muore e dobbiamo restare per forza da soli è meglio abituarcisi da giovani che da vecchi quando si diventa paurosi ed insicuri”. Rincarava poi la dose della sua misoginia affermando che “la solitudine in due è peggiore di quella in uno soltanto”. L’uomo è cacciatore perché ha la “pistola” e può usare la sua minchia per rompere, per distruggere proprio come un’arma da taglio o un fucile. Le violenze sessuali alle donne erano giuste, secondo lui, perché il cacciatore prova piacere ad uccidere la sua preda e l’uomo prova più piacere se la sua sessualità è distruttiva, se fa male: “se con la sua minchia distrugge la femmina”. E poi, se la donna non fosse come un animale che deve essere cacciato e che quindi vuole anche essere ucciso, perché si mette le minigonne, esce senza le mutande e provoca l’uomo? Ebbene: perché è buttana, perché vuole essere posseduta al di la delle apparenze e delle reticenze, di ciò che vuole fare intendere agli altri. Ecco perché il proverbio dice la verità: l’uomo è cacciatore! E le donne sono selvaggina che deve essere uccisa. Se le cose non stessero in tale modo perché tutte le donne si innamorano dell’uomo che le fa soffrire, che le tratta come stracci e come stivali vecchi? Proprio come quelle cazzone delle sue sorelle che avevano rinunciato a mariti onesti e lavoratori per dei farabutti poco volenterosi, ingrati e panciafichisti. Era evidente che tra lo zio Concetto e le donne doveva esserci una vecchia ruggine, una storia di incomprensioni e di ruoli sbagliati. Ciò che forse stupiva ed impressionava di più era questa sua fiducia cieca nella verità dei proverbi. Li citava e poi ci rifletteva sopra accorpandoli ad esempi concreti. La deprivazione culturale della sua infanzia non gli permetteva di capire che le cose attorno a lui avevano un tempo, una storia, e che i comportamenti umani hanno una variabilità in rapporto ai cambiamenti dell’insieme sociale, al mutamento del patrimonio scientifico tecnico e al conseguente mutamento del patrimonio delle istituzioni civili. Se il cervello umano è una struttura che ha il solo scopo di permettere l’azione, tale azione deve compiersi in un ambiente, in uno spazio; e se mutano le relazioni di questo ambiente cambiano pure le risposte che vengono date. Il mondo è forse una specie di tautologia continuamente spezzata, una zona di equilibrio instabile e precario che cerchiamo continuamente di tenere unito. I comportamenti ripetuti, le abitudini, ci rassicurano e non ci mettono in ansia perché ci permettono azioni sicuramente efficaci! E tuttavia fatti nuovi ed
imprevedibili ci costringono, nonostante tutto, a ricercare nuove strategie, modi nuovi e non precedentemente sperimentati, per rispondere alle variazioni ambientali. Proprio per le novità che ci presenta la realtà in continuo fluire, per l’improbabilità degli avvenimenti che si presentano casualmente, noi siamo sempre sospesi nell’incertezza delle scelte. Dobbiamo forzatamente oscillare tra il desiderio di progettare la realtà attorno a noi e il contorno oscuro e non dichiarato dei fatti che stanno fuori di noi e che non dipendono da noi ma dai quali noi dipendiamo senza volerlo. Elementi nuovi ed imprevedibili ci costringono a ricercare nuove strategie di comportamento: ad una rapidità di adattamento spesso più veloce delle nostre capacità di decifrare le informazioni che possediamo. E’ il fenomeno per il quale la nostra epoca si caratterizza dal fatto che la cultura, il patrimonio scientifico tecnico, si evolve molto più rapidamente dei ritmi naturali, delle nostre capacità di apprendimento. Per lo stesso motivo possiamo accorgerci che abbiamo molte, troppe, informazioni sui fatti intorno a noi ma poca comprensione degli stessi fatti. Sappiamo usare una lavatrice, un televisore, un computer ma non capiamo nulla di come tali oggetti funzionino ed in base a quali principi. Lo zio Concetto non si rendeva assolutamente conto che quando il ritmo delle trasformazioni sociali si fa rapido la verità codificata dai proverbi non giova più, risulta inutile perché inapplicabile ad un insieme di situazioni modificate. I proverbi, come le metafore che ad essi sottendono, sono l’espressione di una società nella quale i ritmi di mutazione sono lenti e i comportamenti ripetuti sono garanzia di successo. Ma non giovano quando questi ritmi sono veloci. Certamente le metafore possiedono una loro condizione linguistica: fungono come apertura di senso instaurando rapporti tra cose apparentemente lontane, tra situazioni eteronome. Esse sono degli amplificatori di significato mostrando e nascondendo perché non tutto può essere detto con chiarezza e senza fraintendimenti. La condizione dell’esplicito, del detto, non è una regola ma un fatto piuttosto sporadico: forse la maggiore parte delle parole non viene mai detta. E quelle che diciamo, mentre le pensiamo, non sono sempre coscienti, non corrispondono a quello che veramente volevamo dire. Insomma mentre pensiamo non ci rendiamo conto dei processi che avvengono dentro di noi. Per questo qualcuno ha detto che tutto il pensiero è inconscio. I fatti coscienti, razionalmente costruiti, sono una minuscola parte del vivere. Istinti, pulsioni, desideri, sensazioni, frustrazioni, sogni, aggressività, corrono
per il nostro cervello sottraendosi agli schemi imposti dalla logica formale e dalle regole del vivere sociale. Per questo ogni uomo è diverso da tutti gli altri ed i suoi comportamenti sono imprevedibili e difficilmente generalizzabili. Lo zio Concetto soleva dire che nella vita ci accorgiamo spesso, nei momenti di maggiore lucidità, che due più due non fa esattamente quattro! E da questo deduceva subito che: “la scuola non serve a nulla”. Infatti il maestro, quando lui non sapeva rispondere in aritmetica, gli dava le bacchettate sulle mani. E invece nella vita ci si accorge sempre, prima o poi, che un numero sommato ad un altro numero, non da con precisione quel tale altro numero, non corrisponde mai precisamente a quella somma e che l’insieme è diverso dalla somma delle singole parti. E se infine era vero che la matematica gli era giovata per fare i conti e risparmiare i soldi e non farsi fregare dagli altri era anche vero che, dopo le bacchettate del maestro, prendeva i calci nel culo dal biciclettista dove andava nel pomeriggio ad imparare il mestiere perché poteva lavorare male a causa delle dita che gli dolevano. E aggiungeva: ”a me la scuola ha dato pochi benefici ma un sacco di problemi”.
CAP. V
Come non amava la scuola , la penna, la matematica e le bacchettate del maestro e tutta la sua giovinezza, così non si era mai innamorato del proprio lavoro e lo viveva in modo ambivalente. Se nella vita due più due non fa quattro perché l’amico che credevi di parola, disinteressato ed affettuoso, ti tradisce per il suo interesse; se la moglie vuole essere portata al cinema e pretende di essere fottuta di tanto in tanto e, se non l’accontenti, ti mette le corna; se anche i figli, per i quali sacrifichi tutto, sono sempre ingrati e strafottenti e, quando ne hai bisogno, scompaiono sempre; ebbene anche il lavoro risulta spesso una vera e propria schiavitù. Era solito dire che il lavoro non siamo noi a sceglierlo. Dipende dall’ambiente sociale nel quale nasciamo e cosa vogliono i nostri parenti da noi. E dipende anche dalla società: da cosa offre e da cosa vuole. Dal momento che per vivere dobbiamo “comprarci il pane” perché non c’è nessuno che lo distribuisce gratuitamente, dobbiamo are buona parte della vita a lavorare oppure a prepararci al lavoro. E nel frattempo il tempo a e noi, tutti presi dal lavoro, non ci accorgiamo che a e rimandiamo a domani la possibilità di stare meglio, di riposarci, aspettando che, quasi per miracolo, accada quel qualche cosa che ci faccia stare meglio. -“ Sempre domani diciamo perché oggi siamo impegnati con le quattrocentonovanta cazzate che non significano proprio nulla e non portano da nessuna parte: e questo domani non viene mai! E’ per questo che non ricordiamo mai la specificità dei giorni della nostra vita perché questi ci appaiono come un flusso continuo ed informe di tempi e di cose sempre uguali. Proprio perché essi sono quasi tutti uguali.” Poi soggiungeva: -“ Ho detto quasi perché ogni tanto qualche cosa di diverso lo facciamo! Ed è a quello che poi pensiamo per potere credere che un tempo nostro lo abbiamo trascorso e che siamo stati vivi. Aggiungeva che la vita è come una corda tesa nella quale ci sono dei nodi: noi non vediamo la corda ma soltanto i nodi che ci fanno pensare che ci deve essere sotto una corda sui quali sono stati fatti.”
Il lavoro era come la corda: si intravedeva ma non si scorgeva. E questo accadeva perché, bene o male, esso è sempre ripetitivo. Le abilità che apprendiamo per portarlo efficacemente a compimento sono esse per prime un fatto ripetitivo perché tali essendo garantiscono della precisione del lavoro stesso. Per questo diceva che bisogna imparare il lavoro e poi dimenticarlo. Oppure che bisognava cambiare spesso mestiere: per imparare cose nuove e per avere una corda piena di nodi. Anche lui aveva cambiato spesso lavoro. Ma quello che gli era capitato di svolgere come mestiere era il biciclettista. Aveva comunque anche una sorta di riconoscimento verso il lavoro che faceva perché –“è l’unico modo onesto che ho avuto per vivere”. Insomma il lavoro aveva una sua importanza fondamentale nella vita di un uomo così come la famiglia perché –“questa da sicurezza di essere qualcuno per qualcun altro che ha bisogno di te e se uno muore i parenti stretti, almeno una volta l’anno, lo vanno a trovare al cimitero e gli comprano i fiori dei morti e ne parlano”. Del suo lavoro di biciclettista ciò che gli stava meno bene erano proprio i suoi diretti clienti: i cicloamatori! Ripeteva spesso che i cicloamatori sono dei fissati che finiscono per trascurare il lavoro e la famiglia per uscire in bicicletta. Che perdevano il proprio tempo per correre appresso al niente. Sacrifici a non finire per non concludere nulla di solido e di concreto per non guadagnare nulla e sfidare solo se stessi. - “Almeno i professionisti ci guadagnano sopra: ma i cicloamatori perdono solo il loro tempo, i soldi e la fatica“. Ma si lamentava soprattutto che questi, in nome della comune ione, pretendevano da lui di non pagare i pezzi di ricambio e la manodopera. Insomma di mantenersi la ione scroccando i suoi servigi. Questo fatto scatenava tutte le sue ire nei confronti della categoria dei cicloamatori. Dal momento poi che riteneva perfettamente inutile la ione per la bicicletta soggiungeva immancabilmente: “corrono per nulla, si affaticano per niente e, concretamente, non arrivano da nessuna parte. Ma cosa credono di ottenere se, a qualche gara rionale, arrivano tra i primi: pensano forse di avere vinto qualche tappa del giro di Francia? Meglio se vanno a fare una giornata di lavoro! Almeno si riempiono lo stomaco, quello loro, degli strafottenti dei loro figli e delle buttane delle loro mogli”.
I cicloamatori sono proprio delle persone inutili e prive di cervello sentenziava convinto! Anche quella faccia di culo del presidente del consiglio aveva la mania della bicicletta. Ci mancava a dare manforte ai cicloamatori e alle loro fissazioni che il capo del governo avesse la stessa ione. Era una persona difficile in tutto ed ancora più difficile era cercare di convincerlo, ragionando, che certe sue convinzioni erano dei pregiudizi infondati o, comunque, esagerati. Usava il pregiudizio come una sorta di ragionamento economico perché semplificato, così come usava i proverbi. Se gli si faceva notare che tutti i medici dicevano che fare del moto, andare in bicicletta, faceva bene alla salute perché in tale modo si combatteva il colesterolo, i trigliceridi, l’artrosi egli assentiva facendo subito notare che comunque una cosa erano le persone che vanno in bicicletta per motivi di salute e un’altra cosa sono i cicloamatori. Due razze diverse che non avevano nulla da spartire tra loro. A tale proposito raccontava che quando lui era giovane, nell’immediato dopoguerra, si era organizzato con altri giovani per fare il contrabbando del grano, dell’olio e di quanto altro era commestibile. Questo contrabbando avveniva con l’impiego di robuste biciclette, munite di copertoni spessi e larghi, sulle quali venivano montate due grosse ceste lateralmente alla ruota posteriore. Si scendeva dalla “Barriera” e si andava nei paesi della piana a prendere tutto ciò che poteva sfamare. Con le biciclette cariche anche di cento chili si facevano talvolta anche cinquanta chilometri e si eludeva il dazio. Tutti quei chilometri fatti in quel periodo della sua vita gli erano giovati per mantenerlo in buona salute fino alla sua non più giovane età: “Non ho mai il raffreddore o l’influenza”. Si era sobbarcato a tutte quelle fatiche e sacrifici per un unico motivo: la necessità di mangiare! Se si ammazzavano di fatica per fottere la finanza avevano un motivo ben preciso che era quello di sopravvivere e di potere mangiare. - “Ma quelli che si ammazzano di fatica per nulla proprio non li capisco”. - “Zio Concetto - un giorno gli chiesimo - ma quelli che hanno la fissa della bicicletta sono degli sportivi come tanti altri! Esistono un sacco di persone che praticano un certo sport per diletto, per are il tempo. C’è chi fa del calcio,
chi atletica leggera, chi gioca al tennis oppure va in una piscina a nuotare. E certamente non tutti fanno sport da professionisti!” A questa domanda egli rispose che lo sport era un gioco che permetteva alle persone di giocare ad arrivare per prima. Disse che lo sport è una pratica molto antica. Aggiunse che aveva sentito dire in televisione che in una città della Grecia, in tempi così antichi che ancora Cristo non era nato, si facevano delle “gare internazionali” alle quali partecipavano tutti gli uomini di quel tempo. Questi giuochi si chiamavano Olimpiadi e avvenivano nei periodi di pace e servivano ad evitare le guerre. Poi questi giuochi si erano ripetuti nei vari tempi: tranne che nei periodi di guerra. Come al suo solito, dopo qualche mese che si era posto il problema del perché alcuni fanno delle attività sportive anche se non sono dei professionisti, tornò sull’argomento dando una sua spiegazione del problema. In tali occasioni assumeva un atteggiamento cattedratico quasi a prendersi una rivincita su tutti noi che disponevamo di qualche titolo di studio superiore alla media. Era come se volesse fare notare che anche lui, privo di scolarizzazione, era capace di rispondere a problemi di una certa complessità sfruttando il valore dell’esperienza di vita che aveva avuto. - “E’ che l’uomo, quando era primitivo ed il mondo non aveva tutte le comodità che ci stanno oggi, doveva sfamarsi andando a caccia, oppure a pesca, oppure doveva rubare agli altri quello che lui non aveva! Correre più veloce, arrivare per primo, essere il più forte fisicamente e più salutivo significava, in quell’ambiente selvaggio e difficile, vivere o morire! Infatti il capo di tutti era quello che correva più veloce , che aveva più forza e che trovava le soluzioni migliori per la comunità. Gli altri lo seguivano ed avevano fiducia in lui perché sapeva fare cose che gli altri non riuscivano a fare. Egli, in cambio della sicurezza che dava, mangiava per primo e di più degli altri, si fotteva più femmine e comandava sugli altri. Quello che ha complicato inutilmente tutto, soggiungeva, è che l’uomo ha scoperto la parola! Appena ha scoperto la parola si è messo a parlare con gli altri ed ha detto: se tu mi dai questo io di do quest’altro. Così il più forte è diventato quello che sapeva parlare meglio e non più quello che aveva più forza. In quel momento è nata quella che noi chiamiamo la società civile che, secondo me, diceva, è un imbroglio con le parole. Ed anche il cervello degli uomini è diventato più grosso perché, attraverso le parole, bisognava ricordare tante cose in più”.
Gli si faceva notare che certe volte parlava come un filosofo di professione, proprio come uno di quelli che usa il linguaggio, la parola, per capire le cose ed averne consapevolezza. Egli rispondeva subito che la differenza stava nel fatto che i filosofi sono dei pazzi che parlano di tutto, soprattutto delle cose difficili a cui non ci sono risposte determinate e solutive, che non parlano dei maccheroni che sono l’unica cosa che riempie lo stomaco; e che invece lui affrontava i problemi per capire meglio se le cose che andavano in un certo modo erano giuste oppure sotto c’era un imbroglio. Aggiungeva a riprova delle sue concezioni che anche nella nostra terra c’erano stati dei filosofi ed in particolare uno la cui storia gli raccontava sua madre e molte leggende popolari. Non si ricordava né il nome né la città di questo “minchione”; ma ricordava che questo diceva che, dopo che uno muore, l’anima si deve purgare in un animale inferiore, come ad esempio un maiale o uno scarafaggio! Gli diceva sua madre che proprio per questo non si doveva mangiare carne di maiale: poteva essere quella del nonno che per tutta la vita si era comportato come un porco. E che non bisognava staccare, con il rasoio del padre, la testa degli scarafaggi che camminavano per casa, soprattutto di quelli grossi e neri, perché potevano essere l’anima della nonna paterna che si vestiva sempre di nero e che assomigliava ad uno scarafaggio perché si alzava sempre tutte le notti e viveva la notte. Il giorno, come uno scarafaggio, dormiva. Con quelle storie aveva finito per non mangiare mai la salsiccia e per non dare più gli scarafaggi come pranzo al ero che teneva in gabbia. Comunque la madre gli aveva anche raccontato che quel cazzone del filosofo dell’anima reincarnata nel maiale e negli scarafaggi, diceva pure di essere un dio immortale. Per fare bere questa minchiata ai suoi concittadini decise di scomparire senza lasciare traccia del suo corpo mortale. E così si lanciò dentro il cratere del vulcano! Ma dopo poco tempo il vulcano entrò in fase eruttiva e rimise all’esterno le mutande del filosofo. I suoi concittadini, avendo capito l’imbroglio, non gli dedicarono più nessun tempio e lo spernacchiarono alla memoria. “Tuttavia, dal momento che al suo interno l’uomo è rimasto sempre cacciatore, ci deve essere un modo per scaricare questo suo desiderio di essere più forte dell’altro, di superare un altro perché sa fare qualche cosa che un altro non sa fare! E così che, diceva lo zio Concetto, è nato lo sport. Lo sport permette all’uomo di essere quello che è sempre stato: aggressivo e desideroso di superare l’altro. Nello sport, diceva soddisfatto, non ci sono parole: ma solo fatti! Tra
Coppi e Bartali non c’erano parole; il migliore era chi dei due superava l’altro arrivando per primo”. Le parole le dicevano gli altri: i tifosi, i giornalisti, i cicloamatori . Loro facevano solo i fatti! Gli fecimo un’obbiezione a proposito dei fatti e delle chiacchiere: -“ Ci sono quelli che come Coppi o Bartali fanno attivamente lo sport. Ma ci sono anche quelli che non partecipano attivamente ad uno sport e si apionano per un campione di ciclismo o di un altro sport; oppure per una squadra di calcio”. Che posto occupano costoro nello sport ed in tutto quel discorso sull’aggressività competitiva che lui aveva fatto prima. Secondo lo zio Concetto i tifosi sono persone che vivono lo sport, la competizione, per interposta persona. Spiegò che quando siamo piccoli cerchiamo di assomigliare a nostro padre o a nostra madre perché li vediamo grandi e grossi e li immaginiamo sempre vincenti perché risolvono i nostri ed i loro problemi: perciò li riteniamo onnipotenti e cerchiamo di assomigliarci. E, tra l’altro, quando siamo piccoli, i nostri genitori non ci dicono mai quando vengono sconfitti o sono perdenti; per questo pensiamo che siano onnipotenti. Nello stesso modo, quando cresciamo, cerchiamo sempre di assomigliare all’amico più grande o al maestro che ci sembrano essere sempre vincenti. In qualche modo deleghiamo a qualcun altro il compito di rappresentarci in certe soluzioni perché lo riteniamo più sicuro e capace. Questo è ciò che accade nello sport. Pensiamo che Coppi era il più bravo perché assomiglia a qualche cosa che pensiamo di avere anche noi ed in qualche modo noi saremmo stati bravi come lui.. Chi ne parla male, o parla bene del suo rivale, parla male di noi: ed è quindi un nostro personale nemico. Lo stesso avviene per la squadra di calcio. Se questa perde gli sconfitti siamo anche noi. Viceversa vorrà dire che la squadra con la quale ci siamo identificati è la più forte e quindi noi siamo i più forti. Il fatto, diceva, è che non riusciamo mai ad essere solo noi stessi e, se siamo perdenti e deboli, dobbiamo trovare una compensazione in qualcuno che ci rappresenti. Altrimenti ci sentiamo scontenti e diventiamo “scemi”. Se la nostra squadra del cuore perde o il nostro campione viene sconfitto anche noi siamo sconfitti e perdenti. E allora ci ribelliamo e per riequilibrare le cose a nostro favore assaltiamo i tifosi dell’altra squadra e ci prendiamo la rivincita pensando di riequilibrare il risultato.
“Il fatto, concludeva, è che facciamo sport perché a quello che ci sta antipatico e che vogliamo sopraffare non possiamo dargli, come facevano i nostri avi primitivi, una bella fraccata di legnate oppure un gran calcio nel culo”!
CAP. VI
Anche se le stagioni sono cambiate e non si susseguono in modo ordinato la primavera è sempre la più particolare. Non fosse altro perché il marrone delle campagne, scuro ed uggioso, si trasforma in un verde intenso ed a tratti brillante. E’ una sorta di gioia del cuore, un sentimento panico dell’esistere che si percepisce attraverso i colori e attraverso gli odori che riempiono l’aria. Il tutto appare più giocoso ed invoglia a pensare che la vita, in fondo, è pure bella. Almeno in certi suoi momenti in cui ci accorgiamo che è presente. E l’atmosfera della primavera, soprattutto quando possiamo osservarla nel paesaggio naturale, è uno di questi momenti. Sono forse proprio i profumi che rendono i sensi più disponibili alla percezione della vita che si ripete, che ritorna e si ritrova in un desiderio generale di rinnovarsi. Molti anni addietro, all’inizio della primavera e sul fare della sera, le parti più esterne della città venivano invase da un intenso profumo di fiori di ginestra. Erano le ginestre del vulcano che mandavano un profumo così intenso da riempire tutta l’aria del territorio circostante. Sullo squallore del deserto lavico l’intenso odore delle ginestre e il forte rilievo cromatico dei fiori gialli davano una parvenza di vitalità che invogliava a credere che anche nel deserto più squallido e desolato alligna la vita e la prospettiva di un domani migliore. Il fatto è che la primavera dura poco, come dura poco la fioritura della ginestra; ed il paesaggio ravvivato cede rapidamente il o al deserto svestito ed opaco. Insieme al profumo delle ginestre si frammischiava un odore altrettanto intenso di zagare in fiore che proveniva dagli aranceti della piana. Era fantastico pedalare dalle parti dell’aeroporto quando i due profumi si univano quasi a formare una unica atmosfera con l’odore del mare. Ci sembrava quasi divina allora la nostra bicicletta che ci permetteva di godere di quelle sensazioni di gioiosa vitalità. Chi dice come lo zio Concetto che il mondo di oggi è tutto cambiato non ha tanti torti. Le ginestre sono state estirpate per fare spazio alle villette residenziali a nord e ai quartieri popolari della periferia a sud. Gli aranceti che si stendevano a perdita d’occhio sono stati ridotti per fare spazio a colture agricole più redditizie. Insomma dei profumi primaverili è rimasto l’odore acre degli scarichi delle
automobili ed il grigiore di un paesaggio fatto di serre per primizie e di campagne abbandonate o coltivate ad immondizie. Tutto scorre diceva un altro filosofo! Il fatto è che oggi ciò che scorre è grigio ed inquinato; non resta neppure il gusto della citazione filosofica perché si rischia l’inquinamento anche delle idee. Sempre che queste sopravvivano all’inquinamento del senso comune e delle cazzate nazionali ed internazionali. Forse proprio perché in questo periodo dell’anno l’aria non è ne troppo calda ne troppo fresca si esce più speso in bicicletta. La domenica poi alcuni luoghi della città si riempiono di persone che pedalano per andare a fare colazione da qualche parte ed incontrarsi. Di questi ciclisti della domenica, di questi nuovi salutisti di fine settimana, ciò che colpisce di più è la policromia dei colori del loro abbigliamento. Colori sgargianti delle biciclette, delle tute che portano griffe ben visibili e chiare, di bandane che fasciano le fronti non solo per fermare il sudore ma soprattutto per fare colore e moda, nonché piccoli accorgimenti strani che richiamano l’attenzione degli altri. Ed in tutti una gioiosa vitalità che si esprime nel piacere di notare e di essere notati. La moda permette di essere notati regalandoci quel piacere sottile di essere importanti per qualcuno. Proprio come diceva lo zio Concetto abbiamo sostituito con dei simboli l’innato desiderio di primeggiare, di essere i primi del gruppo. Osservando come le ragazze sorridevano e stavano attente ai commenti degli altri, facendo finta di non sentire i complimenti talvolta pesanti dei ragazzi ed anche dei meno giovani, si poteva congetturare che la moda nasconda, tanto per le donne quanto per gli uomini, ancestrali e rimossi rituali di corteggiamento e seduzione mettendo in mostra elementi, come i colori, che richiamano l’attenzione degli altri. Odori e colori sono gli ancestrali oggetti dell’attrazione sessuale ed oggi l’abbigliamento è spesso colorato e l’industria dei profumi produce utili enormi. Tutti, soprattutto nel tempo libero, usano colori e profumi. Anche i neurobiologhi hanno sentenziato che il veicolo dell’eccitazione sessuale transita prevalentemente dall’odorato e dalla vista: poi da tutti gli altri sensi. Dunque l’attrazione sessuale viene resa possibile attualmente dai profumi che surrogano l’odore della pelle e dai colori dell’abbigliamento o dalla sua stranezza. Non le vie del cuore sono le strade dei nostri sentimenti ma le autostrade neuronali ed i feromoni indicano la via verso il compagno o la
compagna. Ma queste “cose degli scienziati scassaminchia” è meglio non saperle, sentenziava lo zio Concetto, altrimenti una persona normale finisce per diventare impotente e confusa. “E poi, soggiungeva, chi ci garantisce che abbiano ragione e che il troppo sapere non gli abbia scimunito il cervello? E gli scienziati non hanno speso detto delle cose che, poi, si sono rimangiati e sulle quali hanno cambiato opinione? E che, in ultima analisi, se uno pensa troppo finisce con il vivere meno. Meglio agire che perdere tempo, come al solito, con le chiacchiere!” L’esibizionismo è forse una forma di sessualità resa disponibile dal costume sociale attraverso la moda. Nessuno si scandalizza più di un nudo in qualche modo travestito da qualche cosa che copre quasi per sbaglio. Si dirà al massimo che la nudità è un’esigenza della moda e dell’affermazione di libertà tipica della società contemporanea. Dal momento poi che viviamo in una società resa trasparente dall’universo telematico che rende il mondo un grande villaggio, dove tutti sappiamo tutto di tutti, perché nascondere l’universo della genitalità se, soprattutto attraverso questo, soddisfiamo il nostro principio del piacere. Anche il ballo, attraverso le sue movenze e la vicinanza dei corpi, è un modo per fare notare il proprio corpo, la propria appartenenza al ruolo della sessualità. La danza ha rappresentato da sempre nelle società un momento di aggregazione, ma anche la richiesta collettiva di un incontro reso possibile in una situazione di vitalità, nel quale si esce dagli schemi usuali e ci si può conoscere tra uomini e donne. E conoscendosi si può scegliere un proprio partner o rendersi disponibili alla scelta. Talvolta sembra proprio vero che tutte le nostre azioni nascono allo scopo di provare piacere. Essere in qualche modo al centro dell’attenzione altrui gratifica perché esprime potenzialmente la possibilità di essere scelti come partner. Ma affinché questo avvenga dobbiamo attirare in qualche modo l’attenzione degli altri: con i colori dei vestiti, con il profumo, con i comportamenti che possano metterci in mostra, come la danza ad esempio. Essere con gli alti e fruire della nostra diversità ci offre piacere ed un senso di rassicurazione perché non siamo soli ed il gruppo ci protegge e ci riconosce. Essere notati più degli altri è il riconoscimento, sia pure surrogato, di una nostra dominanza nel gruppo. Il piacere che ci deriva da ciò, nella nostra società, diviene profumo, colore, immagine, parola, simbolo! E i ragazzi che si muovono la domenica sulle biciclette parlano, profumano, sfoggiano nei colori del loro abbigliamento il desiderio di godere della vita, di sentirsi sotto gli occhi di tutti coloro che li
osservano e di percepire l’effetto della loro immagine. Dal momento poi che il commento degli altri comporta il sapere di essere notate e il piacere di dominare l’ambiente le ragazze fanno finta di non sentire e sorridono quando sentono esclamare a qualcuno: “…….che figona la tipa…..” Lo zio Concetto queste cose non le sapeva. O comunque non le sapeva in modo così descrittivo e consapevole. Ma sapeva benissimo i proverbi che usava come ancora di salvezza dei suoi discorsi e delle sue opinioni che, lui comunque, riteneva verità assolute come i suoi proverbi. Insomma lui citava i proverbi che dicevano sempre la verità e la verità era tutta dentro i suoi proverbi: per cui aveva sempre ragione. Quando si parlava di maschi o di femmine, oppure dei giovani di oggi, affermava che: - “ Cambiano le mode e le forme esteriori; ma l’uomo è fondamentalmente sempre lo stesso perché, di fondo, ha sempre gli stessi problemi che ci sono sempre stati e ci saranno sempre: per vivere bisogna mangiare, fottere e dormire! Poi, attraverso i meccanismi sociali ed il progresso si può mangiare meglio; può avere più femmine a sua disposizione e può dormire in un letto riscaldato. Ma il fondo è sempre quello: mangiare, fottere e dormire. Tutto il resto, il contorno, varia con la società.” Ammetteva infatti che i giovani d’oggi “hanno il culo pieno perché la società attuale è più ricca di quella del ato che era una società di centesimali”. Ma il fondamento della loro vita era sempre quello di dovere provvedere al “mangiare, a fottere ed a dormire la notte”. A riprova della veridicità della sua affermazione proponeva poi un proverbio che citava molto spesso: -“si lavora e si fatica per la pancia e per la fica”. Anche se facciamo finta che il resto sia importante sappiamo bene che non è così: che è contorno. Il male originario per cui ci dimentichiamo quale è il fondo vero della nostra realtà, sempre secondo lo zio Concetto, è stata la parola e, subito dopo, la penna. Senza l’una e l’altra l’uomo sarebbe rimasto con i suoi istinti: feroce e sopraffattivo ma naturale e vero come tutti gli altri animali. In questo modo non avrebbe conosciuto l’ipocrisia e sarebbe rimasto più sincero e con meno sensi di colpa per quello che combina e che pensa. Poi aggiungeva piano, quasi a non volersi fare sentire di proposito: -“più sincero e meno ipocrita tanto con gli altri ma anche con se stesso”. E tutti quei soldi spesi in tute, scarpette firmate e zainetti da bicicletta, erano
quel di più che la nostra società mette oggi in disposizione delle persone: “ E’ che oggi i soldi da buttare ci sono e le persone fanno come gli animali che, per farsi notare, si riempiono di colori. Non solo il pavone, ma tutti gli animali per farsi notare e trovare una compagna, si riempiono di colori sgargianti.” Il fatto che cercasse di parlare spesso, ed anche di questionare, su argomenti che riteneva interessanti e sui quali ci teneva a prendere la parola non doveva ingannare: talvolta lo zio Concetto appariva più frastornato che rassicurato dai tentativi di chiarificazione e di consapevolezza dei nostri discorsi. Anche su questo tasto appariva una sottile divisione dei suoi atteggiamenti. Era come se desiderasse disperatamente di capire, di approfondire, di mettere alla prova le proprie idee; ma che quella comprensione delle cose, dei pensieri e dei comportamenti lo turbasse, gli creasse un sottile disagio inespresso. Noi che lo conoscevamo ci accorgevamo di ciò perché faceva una mossa sempre identica e difficilmente descrivibile. Infatti alzava le spalle e spingeva il collo di lato, con una lieve inclinazione come a dire: è così che vanno le cose e non ci posso fare nulla. E tuttavia non mi piace che sia così e che devo dirlo. Vorrei pensarla in un modo diverso ma non ci riesco. La casualità che abbiamo d’attorno è molto triste e molta tristezza scorgo nelle illusioni degli altri e mie: “ se Dio è mai venuto in mezzo agli uomini egli è venuto tranquillo perché sapeva che doveva farsi ammazzare di corsa! Se avesse dovuto vivere una vita più lunga non sarebbe mai venuto. O forse sarebbe venuto lo stesso perché, come ogni buon padre, non conosceva fino in fondo i propri figli.” Ogni tanto sembrava volesse dire che se il sapere rende liberi il non capire rende talvolta più tranquilli e meno infelici.
CAP VII
Il fascino che conservava lo zio Concetto consisteva nel fatto che lui era per noi una sorta di memoria storica, un rigattiere di ricordi dove si poteva commisurare la differenza tra il ato prossimo e l’attualità. Certamente talvolta risultava pesante e ripetitivo: come la vita. Talmente pesante da dare l’impressione di essere grossolano e rozzo anche nei sentimenti. E tuttavia, quel suo oscillare su questioni anche importanti, mostrava il fascino di una personalità a mezza strada tra due epoche, tra due mondi radicalmente diversi nei contenuti e terribilmente vicini nel tempo. Tutto scorre, tutto diviene e cambia! Ma c’è qualche cosa nel nuovo che porta con se la traccia del ato, che riesce contemporaneamente a togliere e a conservare? Oppure tutto è presente ed il ato è solo la dimensione del non c’è più come il futuro è la dimensione aleatoria del non c’è ancora. Lo zio Concetto era dunque una sorta di fossile sopravvissuto in una società che cambiava con ritmi sempre più veloci. Nel ricorrere ai proverbi egli provava a fermare quella realtà in vorticoso mutamento che stravolgeva continuamente schemi e certezze di comportamenti non mostrando per questo certezze nuove e nuove possibili rassicurazioni: una civiltà senza identità perché priva di memorie rassicuranti. I proverbi parlavano invece di una realtà in qualche modo ripetitiva, tautologica, e perciò stesso rassicurante. Era spesso inutile dipingergli i contenuti positivi della modernità come le conquiste della democrazia nonché la fine dei pregiudizi verso intere parti dell’umanità come le donne. Per lui le donne erano sempre le stesse. –“ La loro anima non è cambiata dai tempi di Adamo e di Eva! Da sempre, ed anche oggi, si dice infatti buttana di Eva e non di Adamo!” Le donne di oggi sono solo più sincere nel chiedere quello che veramente vogliono. Le donne di oggi vogliono una sola libertà: quella di buttaniare più liberamente. Anche quelle di un tempo volevano la stessa cosa: buttaniare e fottere. Ma non volevano che si sapesse in giro altrimenti nessuno se le accollava perché una donna buttana non era una buona madre e faceva le corna al marito che lavorava tutto il giorno per mantenerla.
Ma anche gli uomini di oggi -“sono tutti cornuti e senza coglioni perché permettono alle madri, alle figlie, alle mogli e alle sorelle di buttaniare, di mettersi le minigonne e le vesti con gli spacchi di lato così i maschi gli vedono le mutande ed immaginano la fica. Mettono dunque la paglia vicino al fuoco e quindi sono tutti cornuti pacenziusi”. Il massimo poi della cornutaggine maschile era configurata dal fatto che gli uomini d’oggi mandano le loro mogli, madri, figlie e sorelle a lavorare fuori di casa. Ebbene, secondo lui, visto che nel posto di lavoro ci sono anche dei maschi che sono per loro natura cacciatori questi, quatti quatti, tendono le loro trappole, dove le femmine vogliono restare prese. In queste trappole ci sono le mutande da levare e le fiche da toccare. –“ E dai oggi, e dai domani, la femmina, anche perché lo vuole, cede e ci casca…….Ci casca perché, prima di ogni altra cosa, è buttana!” Aggiungeva che le donne, per farsi desiderare dai maschi, fanno finta di non pensare a “quella cosa”, alla minchia. Guardano gli uomini e ci parlano facendo finta di non sapere che quelli hanno il cazzo. E agiscono come se non avessero la fica: -“ Lo fanno apposta per rendersi più care e, per questo motivo, vanno anche a messa le domeniche e le feste comandate! Così sembrano pure timorate di Dio e dei suoi precetti che non vogliono la donna buttana. E quando finalmente qualcuno se le sposa, finalmente libere, si sbracano e pretendono di fottere in continuazione. E come pretendono di fottere anche se il marito torna stanco morto dal lavoro; e se non pretendono di fottere è perché del marito non gli interessa più nulla se non lo stipendio. La verità, secondo lui, è che la donna ci pensa sempre a fottere e che finge di non pensare al sesso per farsi sposare da qualche cornuto. Le migliori, diceva, mostrano di volere fottere con un certo uomo: ma solo con lui ed a patto che se le sposi. Da sempre lui aveva capito queste semplici verità: e per questo non si era mai sposato! Del fato che tutte le donne sono buttane, e che lui aveva sempre visto giusto, portava l’esempio dei filmini pornografici che, di tanto in tanto, aveva visto. Nei filmini a luce rossa la donna appare all’inizio reticente nei confronti del sesso: poi, forzata dall’uomo e dalla sua intraprendenza, si sbraca, si toglie subito le mutande e gode come una pazza, mostrando la verità sui suoi pensieri e cioè che lei pensa sempre alla minchia. Ci pensa esattamente come l’uomo pensa alla fica quando parla con una donna. –“Quando un uomo parla con una donna può dire tutte le cose che vuole ma in realtà lui pensa solo che quella ci ha la fica!”
Ecco perché chi manda la propria fidanzata o la propria moglie a lavorare fuori casa è un grande cornuto. –“Anche un bambino si rende conto che una volta che una donna ha lo sticchio rotto non c’è barba di marito che possa controllare tutte le fottute che questa si può fare dopo”. E per questo ripeteva che lui non si era mai voluto sposare: per non essere cornuto e per non farsi togliere i coglioni. Ma questo motivo misogino non era, per sua stessa affermazione, il solo. Nei momenti più sereni e meno polemici ripeteva che non si era sposato perché la sua giovinezza l’aveva bruciata nella miseria e che dopo non era riuscito mai ad avere una sistemazione economica stabile e tale da garantire una vita sicura alla famiglia. Lui si definiva scherzando come un eterno precario dell’esistenza ed aggiungeva: - “Qui da noi il biciclettista è un mestiere povero! Non si lavora continuativamente tutto l’anno! Non c’è programmazione che tenga in questo maledetto lavoro! Si lavora dalla primavera all’autunno: da Pasqua fino ai morti; gli altri sei mesi si campa di chiacchiere sulla bicicletta, sui campioni e su quanto guadagnano. Uno come me che non si è sposato e non ha avuto famiglia ha potuto campare! Ma se avessi avuto moglie e figli come avrei potuto fare a comprare i libri per i bambini, a pagare il padrone di casa, la bolletta della luce e fare la spesa nei mesi che non si guadagnano neppure i soldi per la luce della bottega? Quando uno ha i figli i soldi per la spesa deve portarli sempre! Come ha fatto per tutta la sua vita mio padre, buonanima, che, anche quando pioveva, si prendeva il mulo e si andava a guadagnare il pane quotidiano. Oggi stiamo tutti bene: abbiamo tutti il culo pieno! Se uno si ammala il medico viene a casa gratis e le medicine le a lo stato. Ma ai miei tempi, se uno si ammalava e non aveva i soldi per pagare medico e medicine, crepava come un cane con il conforto della santa rassegnazione e della propria ignoranza. L’unica cosa bella di quei tempi è che uno moriva e non se ne accorgeva: non sapeva neppure il perché. Allora non si sapeva di tutte queste strane malattie che ci sono oggi, di questi “timori” o come cazzo si chiamano, della malattia degli omosessuali che la ano anche a quelli che la minchia l’anno normale, o della testa che impazzisce e rincoglionisce perché un parassita gli mangia il cervello e non so più che cosa. Tutte queste malattie ai miei tempi non esistevano! Sono venute dopo che americani e comunisti hanno fatto esplodere le bombe atomiche e tutto l’ambiente si è corrotto. Sono venute dopo che hanno cominciato a coltivare il grano con il chimico, con le sostanze che fanno fare raccolti bellissimi di spighe che sono tutte infetentite da quelle sostanze; e quelle sostanze ano prima nella pianta e poi negli uomini che si mangiano quel pane o la pasta fatta con la
farina di quel grano. Non c’è più sostanza genuina nelle cose che mangiamo: ci sono solo veleni che fanno venire tutte queste nuove malattie. Ai miei tempi, quando il mangiare era genuino, uno non sapeva niente di tutte queste schifezze: o viveva o crepava!”
Di tanto in tanto aggiungeva dei particolari alle sue storie. Dipendeva anche dalla sua memoria o dalla confidenza che stabiliva con il suo interlocutore. Una volta raccontò che la buonanima di sua madre si era presa una certa malattia che poi i medici avevano diagnosticato come uno “schifo”. Tuttavia la buonanima non si era fatta curare dai medici perché i soldi per pagarli non c’erano ed anche perché non aveva fiducia in quei signoroni che avevano sempre il viso di iettatori: troppo seri per ispirare fiducia in una donna del popolo. Si era rivolta a due donne medicina: la zia Mafalda e la signora Enza. Erano queste due donne le guaritrici del quartiere, quella a cui si rivolgevano le persone quando si sentivano male. Una prescriveva le “erbe” e “l’acqua”; l’altra “sistemava le ossa”, facendo sfregamenti e massaggi con l’olio di colica, oppure curava imponendo le mani su alcune parti del corpo. La signora Enza che aveva visitato per prima sua madre disse che era lo stomaco ad avere un “riscaldo” e di andare subito dalla zia Mafalda. Quest’ultima le guardò la lingua, le odorò l’alito e osservò le mani. Poi le diede la cura: una ferrea dieta a base di aglio e mele. Ulteriormente, per combattere il “riscaldo intestinale”, le prescrisse di bere del succo di limone mischiato con il ghiaccio tritato finemente. La mattine e la sera, prima di andare a dormire, acqua bollita con foglie di alloro essiccate e buccia di limone fresca con due cucchiai di miele di zagare. Non doveva toccare altro tipo di cibo. Ebbene, raccontava lo zio Concetto, mia madre puzzava di aglio che tutta la casa ne era impestata, ma dopo tre settimane era guarita. Le erano anche caduti i capelli, era dimagrita moltissimo ma era guarita! Ma la guarigione della madre non fu l’unico risultato positivo. Erano infatti scomparsi gli scarafaggi, sia dal cesso che dalla casa, annichiliti dalla puzza delle cacate di sua madre ed anche i topi del giardino sembravano avere cambiato luogo di bivacco. –“Gli scarafaggi li trovavamo morti per casa gasati dalla puzza proprio come gli Ebrei dei campi di sterminio nazisti”.
L’accostamento tra gli Ebrei e gli scarafaggi sembrò a tutti noi piuttosto macabro e blasfemo. Ma lo zio Concetto precisò subito che il metodo era lo stesso con l’unica differenza che “gli Ebrei erano dei cristiani, delle persone in carne ed ossa, mentre gli scarafaggi non lo erano!” Anzi aggiunse perplesso che non era mai riuscito a spiegarsi come era stato possibile che degli uomini ne uccidessero altri in modo così scientificamente pensato. Forse non era vero e si era proprio esagerato nel parlare dei campi di concentramento nazisti. Lui che era stato quindici anni a lavorare in Germania non ne aveva mai sentito parlare dai Tedeschi, né aveva mai visto un lager. Ma se per caso quello che si raccontava era vero ciò voleva proprio dire che lui, ancora una volta, aveva ragione. Poi aggiungeva perplesso: -“Come hanno potuto squagliare tutta quella gente? Si dice che i Tedeschi sono una brutta razza e che solo loro potevano pensare una cosa del genere. Io sono però convinto che dentro noi uomini, tutti gli uomini di questa terra, c’è qualche cosa di sbagliato, di viscido come nelle serpi. Ci deve essere dentro di noi una parte di serpe, certamente il cervello. Anche nella Bibbia è scritto che fu il serpente a tentare Eva: il serpente è l’animale più schifoso che ci possa mai essere! Ebbene anche noi uomini dobbiamo avere una parte del nostro cervello come quello del serpente. Siamo viscidi dentro ed abbiamo una parte del nostro cervello come quello delle serpi: ingannatore e senza ritegno che non lascia mai intravedere quello che pensa. E come sono schifosi certi nostri pensieri che nascondiamo anche al prete in confessione perché ci vergogniamo. Se non avessimo avuto un cervello di rettile non avremmo mai potuto fare quello che si sente dire. Chi ammazza il padre, chi si fotte i bambini, chi ammazza milioni di persone: mah! Siamo troppo schifosi e facciamo troppe cose schifose”. Poi aggiungeva preoccupato e perplesso: -“ La verità è che oggi nessuno ne parla ne vuole sentirne parlare. Non le vogliamo più ricordare queste cose perché abbiamo paura di riconoscerci per come siamo fatti; preferiamo pensare che le cose accadute non riguardino noi tutti ma solo alcuni pazzi che appartengono ad un lontanissimo ato a noi estraneo e che pertanto queste situazioni sono estranee al nostro modo di essere. Il nostro ato cerchiamo di dimenticarlo sperando che anche lui si dimentichi di noi. Meglio farci due i in bicicletta, comprare una macchina nuova o fotterci la vicina di casa che avere consapevolezza di come siamo veramente fatti e cosa siamo in grado di fare”. Comunque la cosa importante è che sua madre era guarita. I rimedi delle donne medicina erano rimedi per la povera gente che aveva timore del medico, della
sua oscura scienza, e che non capivano quegli strumenti che aveva nella borsa e che immaginavano essere adoperati per torturare i poveri cristi ammalati. Tuttavia, sottolineava lo zio Concetto, erano rimedi che funzionavano perché si fondavano su mezzi naturali e chi sopravviveva campava poi cento anni, soprattutto “se la morte non li fissava per sbaglio o per cattiveria e non decideva di raccoglierli prima”. Anche lui, affermava orgogliosamente, non aveva mai preso una pillola! Questo perché un professorone alla televisione aveva detto che le medicine moderne sistemano una cosa ma ne sfasciano altre centocinquanta: -“ Se uno ha i reumatismi al ginocchio, oppure come me alle mani, di fatto non hanno il ginocchio o le mani ammalate! E’ tutto il corpo ad essere ammalato e le mani, il ginocchio, o qualunque altro organo, sono solo più deboli, sono le parti che vengono colpite prima dal malessere di tutto il corpo. Per curare il corpo occorre stare attenti a quello che si mangia perché la vera origine di tutti i nostri mali è lo stomaco! Se uno mangia cibi freschi lo stomaco non surriscalda e non vengono malattie perché il sangue è sempre pulito. Se uno mangia cibi caldi avviene il riscaldo allo stomaco: il sangue riscalda e va in putrefazione e vengono tutte le malattie di questo mondo”. Per questo motivo, secondo lo zio Concetto, il più efficace farmaco è il cibo e tutte le malattie degli uomini si curano mangiando bene, vale a dire cibi genuini che non procurano il riscaldo dello stomaco. Tra questi cibi egli annoverava il pane, la pasta, le verdure , la frutta, il pesce ed il miele. Aggiungeva che anche un poco di vino faceva bene e che si poteva fumare qualche sigaretta o qualche sigaro durante la giornata. Comunque con molta moderazione. Aggiungeva che ogni mese bisognava digiunare una giornata avendo cura di bere acqua tiepida con miele e succo di limone. Facendo questo digiuno e bevendo l’acqua con il limone ed il miele il corpo si depurava anche attraverso un sacco di pisciate; e più uno pisciava più il corpo si depurava. Non bisognava poi mangiare zuccheri perché facevano perdere i capelli né bisognava condire con molto sale i cibi: anzi il sale non doveva essere aggiunto ai cibi. Da ultimo, per non restare senza capelli, un anno sì e due no, nel periodo estivo e dei bagni a mare, bisognava radersi completamente i capelli. Per mantenere a lungo la minchia efficiente occorreva poi mangiare arance ad insalata con molto aglio e peperoncino fresco e cozze di Messina crude con il limone. Tutte queste cose, questi segreti, li aveva sentiti dire dalla zia Mafalda e lui, sia
pure non sempre alla lettera, li aveva seguiti e si era trovato veramente bene. –“ I nemici numero uno della salute umana erano la carne e lo zucchero: e lui ne usava molto poco”. Comunque la verità era che lui non faceva nessuna dieta e che mangiava in modo molto scombinato usando spesso, al posto della forchetta, il cacciavite pulito male dal grasso alla grafite che usava per le biciclette. Aggiungeva che una moglie di oggi questa cose non le sapeva, come tute le donne moderne e che, oltre a tutto il resto, gli avrebbe creato dei problemi anche con l’alimentazione e con la salute. E’ inutile, sentenziava, la donna oggi è assolutamente incapace di soddisfare il proprio uomo. E se qualcuno di noi gli faceva notare che se si fosse trovata una moglie che lavorava si sarebbe potuto anche sposare egli rispondeva imperterrito: -“solo ci posso pure stare ma in compagnia delle corna no!” - “ La donna che lavora ci ha più vizi della mula “ sentenziava convinto e categorico. E tuttavia, nei rari momenti nei quali non era sopraffatto dai pregiudizi della sua misoginia, in modo quasi confidenziale, confessava un ulteriore reale motivo per cui non si era sposato: era perché era troppo timido con le donne e che non ci sapeva fare nella convivenza quotidiana. Si era forse trovato bene solo con sua madre e con le sue sorelle: con queste era riuscito ad essere veramente se stesso, a dire le cose come le sentiva e a farsi lavare le mutande senza provare vergogna o imbarazzo. Con tutte le altre donne non riusciva ad essere naturale, ad essere se stesso. La mancanza di un lavoro stabile e certe insicurezze di fondo, ad esso connesse, avevano fatto il resto. Era probabile che la rigidezza di talune sue convinzioni derivava da una profonda insicurezza affettiva: dal momento che vivere con una donna è un fatto complesso, difficile, perché pone in crisi il ruolo biologico e sociale del maschio, meglio pensare che essa è inadatta al ruolo del maschio. Demonizzare l’avversario quando non lo puoi contrastare razionalmente è un modo per semplificare dicotomicamente la realtà : da una parte c’è il bene e dall’altra c’è il male. E’ questo un sistema efficace per difendere i propri equilibri emotivi, anche se rischia di essere un modo per vivere meno, per evitare i rischi dell’esistenza e non metterla in gioco. Mentre ci si preserva contemporaneamente si perde qualche cosa perché così non si rischia mai di potere vincere.
Lo zio Concetto era troppo legato al suo schema di realtà per poterlo mettere in discussione oltre ad un certo limite. L’immagine femminile era in lui conflittuale, fonte di troppe responsabilità e di troppi compromessi con la propria identità maschile. Era anche ambigua e sfumata perché lui immaginava la sua donna come una sorta di madre, una che si pigliasse cura solo di lui e dei suoi figli: non una donna che pensasse anche a se stessa andando a lavorare e prendendosi cura anche degli altri e di se stessa. La mancanza di un ruolo a cui era abituato gli rendeva impossibile il rapporto stabile con una donna. Forse viveva in modo più traumatico di altri la crisi dei ruoli che caratterizza le fasi di rapida evoluzione delle società. I mutamenti epocali nei quali le differenze emergono profondamente, creando delle cesure traumatiche negli individui che perdono i loro punti di riferimento, sono vissuti in modo diverso dalle diverse soggettività. Il fatto che lo zio Concetto si fosse trovato a vivere la maturità in un periodo storico senza storia, nel quale tutte le differenze di verità venivano appiattite in un insieme di esperienze in cui tutti dicono la loro e nel coro non si distinguono più le voci perché tutti, nel prendere la parola, la urlano più forte pensando di farsi ragione e di dire la cosa giusta, lo spiazzava in modo radicale. In un universo senza centro tutte le idee sono centro e tutte le verità vanno bene perché nessuna voce vuole più dire la verità perché è sicuro di averla pronta e confezionata magari dalla televisione: almeno per quello che gliene frega degli altri e dei loro pensieri. In una società senza tempo vale solo il qui e adesso e l’esperienza del ato non conta e siamo tutti felici di affogarci nel presente perché senza il ato non è neppure importante avere un futuro. Neppure la morte è importante perché senza futuro non si muore. Nella società senza storia, nella quale lo zio Concetto si era trovato a vivere la condizione della sua terza età, le certezze sulle quali aveva fondato tutte le proprie scelte di vita giovanile non esistevano più: esse erano state poste in discussione e le mete scorrono così velocemente da non poterle seguire che per pochi attimi. Ciò significava per lui una condanna al quadrato alla solitudine e all’emarginazione. Solitudine ed emarginazione certamente reali in un universo con troppe informazioni da gestire per capirlo in minima parte e senza punti di riferimento per orizzontarsi e rassicurarsi. Un mondo che incombe addosso perché siamo informati sul come funziona ma che non comprendiamo nell’essenza del perché funziona. Come il televisore o la lavatrice che sappiamo usare benissimo ma di cui non comprendiamo il funzionamento. Un mondo “perso e senza centro” come diceva lo zio Concetto! Un mondo che non avendo più un centro finisce per averne infiniti di centri: piccoli e poco
importanti ma che pretendono tutti di essere centro. E l’universo sociale si sfalda e ogni centro fa riferimento a se stesso e le presuntuose certezze di tutti non sono verità per nessuno.
Cap. VIII
Il Pirata, ha vinto il Pirata! Come pedalava su per quella maledetta salita! A tutti quegli stranieri ci ha fatto un culo quanto una casa! Bisognava vederlo come mulinava le gambe su quel cazzo di ultima salita dopo quasi duecento chilometri. E va molto bene in salita quella testa pelata che pare un “suggi scacciato”. E va pure bene in discesa: scende senza paura, come un missile anche se è leggero come una sucasimmula. E vengono a dire che non è un grande campione perché è fragile psicologicamente, perché non crede in se stesso? E’ evidente che appare sempre più quel grande campione che sarà. Ora che ha trovato fiducia in se stesso vedrete che cosa sarà capace di fare. Forse prima è stato troppo sfortunato con tutte quelle cadute; forse non è stato capito ed è stato troppo responsabilizzato: gli si chiedeva di vincere per forza, di mostrare che era veramente un grande del ciclismo. Il nervosismo è il peggiore nemico di ogni atleta. Dover dimostrare di essere sempre il primo crea uno stress che rende veramente difficile esserlo. E proprio questo era successo al pirata che, in questo modo, aveva rischiato di non poterlo dimostrare mai. A queste parole di lode nei confronti del Pirata lo zio Concetto non si mostrò del tutto convinto e partecipe. Si limitò freddamente a dire che l’impresa del Pirata non significava affatto che era nato un grande campione del ciclismo. ava questo suo parere mostrando come molti grandi campioni stranieri non erano presenti alla gara o si erano via via ritirati permettendo così al campione italiano di stravincere. Gli fu risposto che il ritiro di tutti gli altri campioni faceva parte della selezione che era stata imposta alla corsa e che il Pirata era uscito indenne da quella selezione vincendo la gara e che quindi il Pirata doveva la sua vittoria ai mezzi espressi e non certo alle disgrazie altrui. Si arrivò ad ipotizzare che forse la crisi del ciclismo italiano poteva dirsi superata e c’era da augurarsi che l’attuale anno fosse finalmente portatore di nuove prospettive per lo sport nazionale dei Bartali e dei Coppi.
Eravamo comunque tutti molto soddisfatti anche perché si aveva la possibilità di tornare a parlare di ciclismo pensando di avere un campione con il quale identificarci e con il quale fare dei raffronti. La nostra epoca ha bisogno di mitologie! Il mito odierno assomiglia a quello antico: è un racconto. Il racconto di qualcuno che ha un destino diverso e comunque importante per se stesso e per gli altri. Nei miti moderni si esprime la possibilità di dare emozioni agli altri, di farli sognare al di là della ripetitività e della limitatezza del quotidiano: con una canzone, con un’impresa sportiva, con qualche cosa di diverso in cui possiamo immaginare di trovarci anche noi. Questo anche se si tratta di miti effimeri, che durano lo spazio di poche immagini, presto accantonate nella memoria. In fondo noi non siamo eterni ed i miti che durano poco forse ci rassicurano perché così ne vediamo molti e molto di fretta come se la nostra vita fosse abbastanza lunga da ascoltare molti e diversi racconti. Lo zio Concetto diceva che ai suoi tempi un fatto che accadeva si sapeva dopo molti giorni. Oggi possiamo vivere in diretta gli avvenimenti che accadono e possiamo seguire in ogni loro impresa i nostri campioni. La nostra vita è dominata dalla contemporaneità degli eventi, dalle telecronache in diretta attraverso le quali ogni evento è un evento contemporaneo, ed ogni fatto è un fatto del presente: noi siamo pieni di presente. Il presente è la nostra bulimia mentre il ato è la nostra anoressia La nostra è una civiltà senza storia perché abbiamo perso il senso del tempo: siamo troppo impegnati a vivere gli eventi nella loro quotidianità per regolarci sul fatto che proveniamo da un ato e che forse abbiamo un futuro. Se chiediamo a qualcuno cosa ha fatto tre giorni prima egli non saprà cosa rispondere tranne forse che usare una analogia con quello che fa sempre. E questo perché tutto si esegue toppo rapidamente e ripetitivamente per ricordare se ciò che è stato fatto è stato fatto ieri oppure un giorno prima. Una frase dello zio Concetto che ci aveva costretto a riflettere: quando lui era giovane “il tempo era più lungo”; e certe giornate, certi mesi, sembrava che non finissero mai. La nostra civiltà fondata sulle immagini contemporanee rende gli avvenimenti privi di storia perché l’immagine è diventata l’unica storia: storia di oggi.
Il tempo lungo, quello vuoto di contenuti, è un tempo pieno per la memoria, per la consapevolezza e la riflessione, per la produzione di quelle idee con le quali costruiamo un mondo prossimo ai nostri desideri, al rapporto con le cose che vorremmo vedere in un ordine per noi più gratificante. Le immagini che scorrono nel nostro cervello quando non dormiamo e quando non pensiamo a qualche cosa di preciso giovano ad estraniarci dalla pesantezza delle cose che appartengono alla realtà. E se queste cose sono troppo gravose per noi ed il loro ordine non è quello che noi vorremmo possiamo immaginarle in un ordine ed in un modo diverso. Da bambini il gioco ci permetteva di dare alle cose disposizioni nostre che le cose non possedevano: usavamo la nostra fantasia! E non provavamo in questa operazione nessuna vergogna tanto è vero che a nostra madre che ci chiamava per mangiare o per lavarci rispondevamo che non potevamo ancora andare perché stavamo giocando. Allora il giuoco era per noi una cosa seria della quale non dovevamo vergognarci. Era la nostra attività più importante e più seria quella che ci permetteva di muoverci nel tempo e nello spazio come ritenevamo meglio. Molto seria quell’attività con la quale sovrapponevamo alle cose reali altre cose non reali e meno vere alle quali attribuivamo un nostro ordine arbitrario. L’attività del giuoco infantile, attraverso il quale piegavamo la realtà ai nostri desideri, ci dava piacere e la operavamo proprio perché ci dava piacere. E sappiamo tutti che, una volta che sperimentiamo un piacere tendiamo a ripeterlo, a ripetere quella situazione nella quale sperimentiamo una gratificazione così come evitiamo le situazioni che ci creano del dolore. Allora anche da adulti conserviamo il piacere del giuoco: lo trasformiamo nei sogni ad occhi aperti! Sognare ad occhi aperti, estraniarci dalla realtà presente per sostituirla con un’altra inventata, ma per noi gratificante, è per noi ugualmente importante e gratificante che per il bambino giuocare. Nel sogno ad occhi aperti sovrapponiamo alla realtà concreta, spesso frustrante e dolorosa perché in essa non si realizzano mai in modo completo i nostri desideri, una realtà diversa nello spazio e nel tempo, più flessibile ad accogliere le nostre speranze, i nostri desideri, la nostra voglia di essere i primi, di essere il centro dell’universo e di dominare gli altri e gli eventi. Ed è per questo che non prendiamo più seriamente nell’età adulta tali pensieri ai quali osta la limitatezza delle nostre possibilità reali ed un mondo nel quale abbiamo un nostro posto limitato e nulla più. E non confessiamo a nessuno tali pensieri perché pensiamo di risultare infantili ed anche perché ci vergogniamo di alcuni loro contenuti. Molti dei contenuti dei nostri sogni ad occhi aperti sono infatti di natura erotica, sessuale, violenta e
sopraffattiva. Quante volte non pensiamo di ammazzare, in modo anche crudele, la persona che ci frustra, che mostra pubblicamente o privatamente che noi non siamo quelli che pensiamo di essere, che rende piccola l’immagine che ci siamo costruiti di noi stessi. E quante volte, mentre parliamo di fatti anche importanti con qualche nostra conoscente, come la vicina di casa, non evochiamo pensieri sessuali di possesso anche violento di quella persona. Ebbene è proprio di questo insieme di immagini che ci vergogniamo e che non confesseremmo neanche al prete con la scusa che sono solo fantasie. Ma a bene riflettere proprio le immagini della nostra fantasia sono la testimonianza che dentro di noi, come diceva lo zio Concetto a proposito degli Ebrei e del loro sterminio premeditato, vi sono forze sconosciute ed istintive che emergono nei momenti in cui lasciamo libero il pensiero di non essere condizionato dalle regole della logica e da quelle sociali. Istinti ancestrali, come la violenza fisica e sessuale, che trovano un loro sfogo nei giuochi apparentemente ingenui dei nostri opachi pensieri. Certamente gli istinti che affiorano nelle nostre fantasie sono rimossi nella vita reale perché in questa ci sono le norme, il diritto alla punizione per coloro che si sottraggono alla logica della vita sociale, il principio di realtà insomma che regola i confini del nostro volere essere. Tuttavia la violenza che si annida dentro ciascuno di noi tende a manifestarsi e determinarsi storicamente. Anche lo sport è un giuoco. Quando facciamo sport rendiamo pubblica la nostra attività di adulti che possono e sono autorizzati a giocare. Lo sport è allora il giuoco reso adulto, serio, talmente serio che possiamo mostrare di farlo e di seguirlo con impegno serio. La sua dimensione pubblica ci permette di rivivere, senza sensi di colpa, le immagini aggressiva e narcisistiche della nostra infanzia nella quale eravamo sempre noi i soggetti principali ed i vincenti nel rapporto con gli altri. Il campione di ciclismo con il quale ci identifichiamo è quello che vince più spesso il posto delle cose nella realtà, che arriva per primo e più oltre dove gli altri non sono capaci di arrivare. Le sue capacità, la sua superiorità viene riconosciuta pubblicamente e fatta segno di ammirazione. Egli occupa nella società un ruolo più elevato, più importante! Il riconoscimento di tale superiorità è data dalle ricompense economiche e dalla visibilità sociale.
Se il tale calciatore od il tale ciclista valgono dieci miliardi significa che le loro capacità sono tali da dovere essere ricompensate con una quantità economica molto più elevata rispetto agli altri. Ciò perché essi permettono agli altri di identificarsi in loro e di potere accedere a quei sogni che individualmente sono impossibili. Ed il sogno è la capacità di rendere più dolce ed accettabile l’incubo nel quale si risolve spesso la realtà di molti individui comuni. Quale sogno più bello da essere sognato che quello di vedere il Pirata salire per le strade di montagna sulla sua bicicletta, staccare tutti gli altri e volare verso il traguardo posto sempre più in alto, visibile nel contorno di un cielo sempre più azzurro e terso, ed immaginare di essere noi a volare, liberi dalla fatica e dallo sforzo che ci creano le cose del nostro quotidiano. Il Pirata che saliva libero dallo sforzo rappresentava per noi la possibilità di fuggire nella nostra libertà, di sentirci padroni, una volta tanto, di noi stessi e dei nostri desideri. Le immagini che si accavallano mentre siamo svegli ci aprono spiragli di possibilità che non si sono realizzate e che mai avranno compimento. Le possiamo miscelare in mille modi diversi e possiamo rappresentarci mondi che non si sono attuati ma che, se ci fossero stati, ci avrebbero visti come protagonisti. Per ciascun sognante le immagini ad occhi aperti costituiscono una fuga, una sorta di rifiuto delle cose e del loro ordine distratto . Immaginare mondi è un pochino sfuggire a questo mondo dove le cose non vanno come vorremmo e ricrearne altri non per questo meno reali perché, forse, proprio in quel determinato modo, i fatti ed il loro addensamento sarebbero stati più giusti e comunque meno dolorosi. L’universo delle nostre immagini crea allora mondi tanto irreali quanto veri come i sogni dei nostri sonni nei quali, chi sta sognando pensa di essere sveglio! Uncinandoci alle immagini dei mondi possibili possiamo anche supporre che la nostra identità si commuti in quella di qualcun altro, il campione per esempio, che agisce in nostra vece o come noi stessi vorremmo agire. E tale identità prestata sembra rinforzare la nostra che costantemente ci sfugge distratta dagli avvenimenti estranei che dobbiamo svolgere senza che ci interessino: per necessità e per ripetizione. Ed il campione viene pagato molto perché assume su se stesso il carico di certezze e di rassicurazione rispetto al ruolo marginale e, bene o male, casuale della nostra quotidianità. Può anche pensarsi che sognare ad occhi aperti sia una fuga, un sottrarsi alle condizioni di realtà troppo frustrate e limitate rispetto alle nostre aspettative! Il giuoco per il bambino è un’attività seria che gli permette di uscire dal limite della realtà che ha attorno ma che lo aiuta, comunque, a costruire un progetto del mondo. L’immaginazione aiuta l’adulto ad eludere una realtà troppo limitata e comprimente e gli permette di progettare orizzonti, di intravedere
possibilità inesplorate, di determinare cose nuove. Pertanto se le immaginazioni ad occhi aperti possono essere una fuga esse rappresentano anche un progetto, un universo di possibilità. Tra le altre motivazioni per le quali secondo lo zio Concetto la scuola era inutile vi era anche questa che essa non aiutava gli studenti a comporre immagini. –“Non solo non insegna un mestiere ed abitua i ragazzi ad essere mantenuti dai genitori ed a sentirsi deresponsabilizzati; ma questi panciafichisti non sanno inventarsi le cose che devono fare perché ci sono sempre quei coglioni degli insegnanti che dicono loro come fare: non sanno inventarsi le cose perché non sono abituati a pensare sbagliando. Lui le cose che sapeva fare le aveva imparate sbagliando e prendendo calci nel culo fino a quando non era capace di correggersi. Per questo era diventato un bravo biciclettista! Ed era per questo stesso motivo che i suoi nipoti, anche se diplomati o laureati, non sapevano guadagnarsi il pane e trascorrevano le giornate a eggiare in macchina, a fottere ed a spendere i soldi di quei fessi dei genitori. Qualcuno ha detto che, in barba alle leggi morali e giuridiche, ad ogni frustrazione che inibisce i nostri comportamenti volti ad ottenere il nostro soddisfacimento, rispondiamo prevalentemente con meccanismi aggressivi. E se non possiamo rivolgere all’esterno la nostra aggressività perché il nostro avversario è più grosso di noi, oppure perché il nostro avversario è un insieme di fatti sui quali non possiamo incidere in alcun modo, rimaniamo fermi, non riusciamo più a muoverci e ritorciamo verso noi stessi la nostra aggressività. Ed in questo modo dobbiamo fuggire da qualche parte: e scappiamo nella nevrosi, nell’alcol, da casa e andiamo a vivere per strada, nella droga oppure nel suicidio! Dipende solo dalle vie che abbiamo il coraggio di imboccare. Lo zio Concetto non approvava il suicidio. Ma diceva talvolta che quando uno non ne poteva più delle traversie della vita e “si incazzava veramente perché tutto era andato a buttane era anche possibile che, in un momento di particolare incazzatura, mandasse tutto a fanculo con dignità e coscienza.” Poi comunque aggiungeva che togliersi la vita era sempre una vigliaccata: “una fuga di gente che non ha abbastanza forza per soffrire e senza coglioni; perché la vita è una guerra continua con gli altri e anche con se stessi e, tranne rari momenti di crisi, non bisogna mai scoraggiarsi perché l’unico motivo della vita è vivere e gli scopi siamo noi ad aggiungerli. Anche se uno deve sopportarsi quelle ladre delle sorelle, quegli ingrati dei nipoti e quegli strafottenti dei figli nonché le buttane delle mogli tuttavia la vita ha degli spazi, dei rimasugli che la possono anche
rendere accettabile, come ad esempio una bella eggiata in bicicletta con gli amici in una splendida mattinata di primavera.” Se non fosse stato in questo modo lui si sarebbe dovuto ammazzare mille volte data la sfortuna che aveva caratterizzato tutta la sua vita. Ed invece, in qualche modo, contando solo sulle sue forze, era sopravvissuto ed aveva anche messo da parte una bella quantità di piccioli. Anche lo zio Concetto, come tutti noi, faceva i suoi sogni ad occhi aperti. E come tutti noi aveva un certo pudore a raccontarli o a parlarne apertamente. Ma alcuni, a seconda delle circostanze, li faceva trasparire. Non lo interessavano le macchine perché erano un lusso sul quale lucrava lo stato con un sacco di tasse: per questo motivo non si era mai presa neppure la patente. Proprio per questo diceva che sarebbe stato bello un mondo senza automobili! “Come in Cina che al posto delle macchine ci sono centoventimilioni di biciclette. Senza macchine ci sarebbe l’aria più pulita e non ci sarebbero tutti questi cristiani pazzi perché non sanno più dove posteggiare. Tra non molto tempo vedremo che ogni uomo che ha una macchina potrà solo uscirla dal garage e rientrare in questo perché le strade saranno tutte intasate da macchine che non si possono muovere più se non stando posteggiate. Senza le macchine ed i loro fumi di scarico non ci sarebbe tutto questo inquinamento e le stagioni sulla terra non sarebbero cambiate. E non ci sarebbero tutte queste nuove malattie come i “timori” che sono dovuti all’inquinamento delle macchine ed ai cibi sofisticati dal “chimico”. –“Oramai tutto ciò che mangiamo è fatto con il chimico e le piante sono inquinate dagli scarichi delle macchine e nascono tutte queste strane malattie”. Poi aggiungeva che la Cina gli piaceva perché, visto che tutti andavano in bicicletta, lui avrebbe potuto guadagnare come un ingegnere di quelli importanti o come un grande medico: tanto le biciclette erano a milioni e che a milioni si dovevano riparare! Invece era nato in Italia e per trovare una sistemazione stabile era dovuto emigrare in Germania dove si era fermato per quindici anni! Proprio dai suoi racconti teutonici scoprimmo che sapeva parlare molto bene il tedesco.
Cap. IX
Molti italiani del Sud, intorno alla fine degli anni cinquanta, erano emigrati al Nord Italia oppure in Svizzera o in Germania. Tale emigrazione era dovuta al fatto che il sud italiano era ancora economicamente depresso. Ma non solo l’economia era ancora legata a vecchie modalità di sfruttamento agricolo: anche il tessuto sociale appariva slegato e con troppe ingiustizie economiche. Mancava un tessuto sociale omogeneo, una cultura diffusa nelle classi popolari, una concezione dello stato nazionale e un tessuto industriale capace di promuovere lo sviluppo economico-sociale. Il sud era stato tagliato fuori dal grande processo di unificazione nazionale rappresentato dalla Resistenza. L’economia non si era rinnovata rimanendo irrisolti i problemi della grande proprietà fondiaria agricola e lo sviluppo industriale era inesistente. La condizione socio economica costringeva alla precarietà di vita vasti ceti di contadini e di artigiani mentre la piccola e media borghesia tendevano a rinsaldare un asse politico conservatore per mantenere i privilegi acquisiti sotto il regime fascista. Il mancato costituirsi di una classe operaia legata allo sviluppo industriale aveva impedito l’emergere di tutto il nuovo fermento di idee e di programmi di sviluppo che caratterizzavano il Nord Italia e i paesi dell’Europa. Per questo motivo un flusso crescente di popolazione del Sud si spostò verso il Nord Italia e verso i paesi europei che avevano già creato un tessuto industriale che richiedeva manodopera poco qualificata e a basso costo. Città come Torino e Milano si riempirono di gente venuta dal Sud con le valigie di cartone oppure con pochi stracci legati dentro una coperta. Erano i tempi eroici nei quali individui provenienti dalle campagne, praticamente analfabeti, si ritrovavano a lavorare in fonderia o alle catene di montaggio della Fiat o dell’Alfa Romeo e percepivano un salario. La grande metropoli, con i suoi svaghi, i suoi bar, gli edifici popolari con tanto di bagno e acqua corrente, furono per molti di questi emigranti la fine di un incubo: la fame quotidiana! Ma è risaputo che quando un incubo finisce un prezzo si deve , bene o male, pagare e che spesso il vecchio incubo viene sostituito da un altro più moderno. Ed il costo fu certamente il trauma dello sradicamento, dell’alienazione e dell’anomia.
La perdita dell’identità sociale, dei propri stili di vita e dei propri modi di pensare per potersi integrare in un contesto sociale sconosciuto, significarono per i molti una solitudine a cui, prima, non erano mai stati abituati. Il piccolo paese, o la piccola frazione cittadina da cui provenivano, avevano concesso una propria identità magari scandita dal soprannome! Nella grande metropoli ciascuno si ritrovava solo dentro le mura di una casa che faceva parte di un enorme alveare dove nessuno si conosceva ed aveva un nome. Tale meccanismo di sradicamento fu ancora più sentito da coloro che emigrarono nei paesi europei come la Svizzera o la Germania nei quali anche la lingua, oltreché il cibo, erano diverse e non permettevano la comunicazione. Lo zio Concetto era emigrato in Germania perché, diceva, aveva la minchia rotta dai suoi connazionali e se doveva essere sfruttato da qualcuno tanto valeva che questi non fosse un italiano. Aveva fatto domanda per andare a lavorare in Germania ed era stato “ richiamato”. Gli avevano anche pagato il biglietto del treno. Arrivato in Germania lo avevano prelevato dal treno, lo avevano portato in un ufficio e lo avevano spogliato nudo: una visita accurata con lastre radiografiche, prelievo del sangue ed altre mille diavolerie. Aggiungeva che era stato ben consigliato dalla sorella di lavarsi tutto, anche i piedi, prima di partire. E ricordava che tale operazione, non potendola fare a casa sua, era stata compiuta nella caserma dei pompieri dove conosceva un tizio che lo faceva lavare nelle docce almeno una volta al mese anche con il sapone. Dei quindici anni trascorsi in Germania raccontava volentieri alcune storie: sempre quelle e mai con aggiunte che rendessero nuove quelle storie. Segno che erano molto veritiere. In quelle storie compariva il mondo del lavoro e quello della sessualità. Fatto particolare questo perché lo zio Concetto non parlava mai di sesso al di fuori dei suoi giudizi di valore sulle donne: il suo erotismo era strettamente confinato alla Germania. Tanto è vero che quando volevamo stuzzicarlo cominciavamo ammiccando che a lui “l’aria della Germania aveva fatto bene”, lo aveva reso cazzuto e assatanato! Ricordava che quando in Germania lavorava nella fabbrica delle bottiglie per medicinali era giunta una coppia di italiani. Venivano anche loro da un piccolo paese del sud. Avevano dei figli che avevano lasciato ai parenti in paese in attesa di trovare una sistemazione accettabile. Appena giunti si erano rivolti ai compaesani. Quando uno va fuori dalla sua nazione cerca sempre i propri compaesani, diceva lo zio Concetto; anche se è
sbagliato, anche se sarebbe meglio unirsi agli abitanti del luogo ospitante, per integrarsi nel nuovo gruppo , invece si va sempre a finire per fare gruppo con i propri connazionali. Questo permetteva di non sentirsi troppo soli e diversi in una terra le cui tradizioni e i modi di fare erano diversi dai propri. Era la nostalgia delle proprie tradizioni, dei propri modi di pensare che comportava la ricerca del proprio gruppo. I connazionali rappresentavano la propria identità, le proprie radici. Ricordava come queste due persone gli erano sembrate frastornate e come pesci fuori d’acqua. Avevano trovato loro una casa e il lavoro era nella fabbrica dello zio Concetto. La loro storia non era particolare perché era la storia di tutti gli emigranti. Lui e il marito avevano ben presto fatto amicizia anche perché era una ottima persona: educata, schiva e di poche parole. Un tipo all’antica, fatto della buona pasta meridionale, tutto lavoro e famiglia. Per potere incrementare i guadagni e richiamare al più presto i figli anche lei si era messa a lavorare in fabbrica! Molte donne che al paese non mettevano piede fuori di casa in Germania andavano regolarmente a lavorare. Fuori dai vincoli del controllo sociale, in una scelta di vita che privilegiava il guadagno, le regole del costume venivano a mutare. Sottolineava lo zio Concetto che la sua narrazione si riferiva a diversi decenni addietro, quando i costumi morali, diceva, erano molto rigidi e seri. La famiglia era posta sopra ogni altro interesse e l’educazione delle donne consisteva nel prepararle ad essere mogli e madri. Lei infatti era una donna molto chiusa, che dava poca confidenza soprattutto agli uomini, ma che parlava poco anche con le donne. Non era certo una persona estroversa con la quale si poteva entrare facilmente in discorso. In birreria non scendeva mai e quando lo zio Concetto saliva a casa loro per giocare a carte con suo marito ella compariva solo per il caffè: ottimo, fatto veramente all’italiana! Tuttavia un giorno, mentre erano in fabbrica a lavorare, lo zio Concetto lasciò la pressa per andare in bagno. Oltre che andare a pisciare doveva pure riposarsi un poco e fumarsi una sigaretta. Aveva pure bevuto a pranzo molta birra e questa su di lui aveva un vigoroso effetto diuretico. Tra le cose belle delle fabbriche tedesche vi erano certamente i bagni: puliti, con
il deodorante nelle tazze dei cessi ed anche appiccicati ai muri che non davano il senso di degrado dei cessi pubblici italiani. Non vi erano i bidè! Ma quella era una mancanza relativa perché, in compenso, vi erano le docce che uno poteva sempre fare. I bagni tra uomini e donne non erano separati: chi arrivava per primo entrava. Entrando di fretta nel primo bagno che gli capitò trovò la moglie di quel suo conoscente. Stava pisciando all’impiedi con le gambe divaricate sulla tazza del cesso. Probabilmente nella fretta, o per distrazione, si era dimenticata di mettere il fermo alla porta. Lo zio Concetto rimase immobile tanto per l’imbarazzo provato quanto per la scena che gli si presentava inaspettatamente. Ella, toltasi il camice e le mutandine, si era salita fino ai fianchi la gonna in modo da potere fare pipì senza sedersi sulla tazza del cesso. Ripeteva sempre lo zio Concetto che l’impressione fu molto forte! tanto forte che gli era rimasta impressa per sempre e che ancora lo eccitava. La cosa che più gli era rimasta impressa e che lo aveva più eccitato era quel pube divaricato e coperto da una fitta peluria che si estendeva verso l’ombelico e all’interno delle cosce. Il profilo delle cosce e delle natiche, estremamente chiare, faceva da forte e visibile contrasto con lo scuro di quella folta e diffusa peluria scura. Lo zio Concetto non avrebbe mai immaginato che una donna così insignificante e schiva avesse “sotto” quel ben di dio, quel cespuglione fatto per il godimento: solo per provare piacere e dare godimento. Lo zio Concetto sottolineava che si erano guardati tra il sorpreso e l’imbarazzato. Poi quella posizione ed il contrasto tra la nudità della parte inferiore del corpo e la totale copertura della parte superiore crearono un meccanismo di eccitazione tale che egli superò la sua naturale “timidezza”, come soleva chiamarla, nei confronti delle donne e si richiuse la porta alle spalle. Per qualche attimo ebbe paura che la donna lo cacciasse mettendosi magari ad urlare e che così sarebbe stato scoperto dal marito di lei. Ma la donna era rimasta immobile, forse troppo sorpresa ed imbarazzata di essere stata trovata in quella posizione. Rimase immobile. “Come fu e come non fu mi avvicinai a lei e le misi una mano sui fianchi, verso le natiche; poi mi scesi i pantaloni con tutte le mutande di lana che portavo in Germania e me la sono chiavata all’impiedi, in quella posizione mentre stava ancora pisciando”. Lo zio Concetto ripeteva sempre questa scena con una estrema dovizia e precisione di particolari. Finimmo per saperla a memoria e in noi non creava più alcun interesse. Ciò su cui si soffermava di più come un o obbligato che per qualche modo aveva fissato nella memoria era l’atteggiamento di lei, della
donna, in quella circostanza. Infatti ella era rimasta in uno strano atteggiamento! Per un verso aveva accettato quella strana situazione e si era lasciata penetrare come se lo volesse coscientemente. Subito dopo si era irrigidita. Poi, lentamente, si era cominciata a muovere ritmicamente. Era come se godesse da sola, come se fosse soltanto un corpo, una vagina che funzionava da sola, che godeva con se stessa per la scena a cui partecipava. Poi c’era una parte di lei che non c’era. Godendo non emise neppure un grido: ma una specie di muggito. Lui le mise le mani dentro le natiche e stringendole la godette in modo sopraffattorio come se le stesse dicendo: ti sto godendo perché ti piace anche se sei reticente perché vuoi apparire a te stessa, come anche agli altri, diversa da come sei, cioè buttana e vogliosa. Anzi è proprio questo che mi ha eccitato di più e cioè il fatto che vuoi apparire reticente ma che invece sei vogliosa e che io sto violando le tue resistenze. Forse non hai mai confessato a te stessa di possedere una sessualità fine a se stessa, indipendente dal tuo essere moglie e madre. Io sono riuscito a dimostrartelo imponendoti il riconoscimento di questa sessualità che tu hai sempre nascosto e disconosciuto. Questa sensazione aveva reso quell’incontro unico nell’esperienza dello zio Concetto. Proprio facendo riferimento a questo incontro che egli generalizzava i suoi giudizi sulle donne, vale a dire che sono buttane e che hanno due anime e due facce: come il diavolo. E che, naturalmente, sono troione perché il loro vero pensiero, alla fine dei conti, è sempre il cazzo. Diversamente da quest’unica esperienza che era rimasta impressa vivamente nella sua memoria tanto da essere sempre rievocata, non si ricordava una delle tante altre fottute che si era fatto con una tedesca con cui diceva di avere convissuto per sette anni. Di questa ricordava solo che si faceva inculare molto volentieri richiedendoglielo e divaricandosi le natiche con le sue stesse mani. La differenza tra tempo pieno e tempo vuoto è nelle azioni e nei fatti che questo contiene. Se i fatti sono ripetitivi ed uguali il tempo è vuoto. Se azioni ed operazioni sono eventi particolari ed inusuali, se scandiscono fatti particolari che si fissano nella memoria per la loro diversità, allora il tempo è pieno. Allora la memoria presenta un panorama di eventi pieni che permettono di pensare che c’è stato un tempo e che questo tempo è stato una modalità del nostro vivere. La vita si fa notare nella condizione della diversità. Essa è il tempo ritrovato nella nostra memoria attraverso i fatti che lo testimoniano. Il
resto del tempo finisce nell’oblio e abbiamo l’impressione che noi non ci siamo mai stati. Oppure che dormivamo, che eravamo distratti e che non sappiamo dove è andato a finire. Il tempo vuoto, quello delle cose ripetute e perdute, non permette di sentirci vecchi perché non lo ritroviamo nelle nostre cose, nelle faccende della nostra esistenza. Ecco perché, aggiungeva sempre lo zio Concetto, la vita è una corda fatta di nodi: ricordiamo i nodi ma dimentichiamo la corda. Il fatto che manchi la corda e che ci sono soltanto i nodi rende impossibile accorgerci che il tempo a e che ci facciamo vecchi e che dobbiamo morire. E così noi siamo sempre impreparati alla morte. Lo zio Concetto diceva sempre che non si sentiva più vicino e più disposto a morire ora che era anziano di quanto non era giovane. Come si rifiutava di pensare alla morte da giovane nello stesso modo si rifiutava di pensarci ora che gran parte della vita era trascorsa. Diceva che per lui la morte era sempre di quello che moriva: vicino di casa, amico, fratello o sorella; o magari di uno sconosciuto del quale osservava il funerale! Aggiungeva che la morte propria non si vive: la morte è sempre quella dell’altro! Eppure è proprio la morte il fatto sicuro della nostra vita; tutto il resto è probabile. Da quando nasciamo, anzi da quando i nostri genitori decidono di farsi la fottuta di rito, magari perché quella sera non c’è un programma interessante in televisione, noi cominciamo a morire, dobbiamo finire, presto o tardi. E anche se facciamo finta che la morte è quella dell’altro, tuttavia sappiamo che, prima o poi, sarà la volta nostra. Una volta aggiunse che lo faceva incazzare l’idea che lui, o chiunque altro, avrebbe potuto non essere in questo mondo di merda se, ad esempio, il padre quella sera che si era fatto la fottuta con cui era nato lui, avesse avuto un maldipancia e tanto cacarello! Mah, soggiungeva “ siamo il frutto di un cacarello mancato”. Oppure di una trasmissione televisiva cazzona! Anche se non ci pensiamo- asseriva- la nostra vita è programmata per la morte e l’unico conforto è che non sappiamo mai quando ciò avverrà e per questo possiamo fingere che non succederà mai. Usava come metafora un raccontino che ripeteva con soddisfazione attribuendosene la paternità e sottolineando che lui, anche senza avere mai studiato, sapeva essere filosofo e capiva bene le cose. Diceva che l’uomo, tutti gli uomini, erano come dei vagoni di un treno che partiva da una stazione sconosciuta nella quale si trovavano senza sapere il come ed il perché. Che in ogni vagone c’era un solo uomo, proprio solo, che vedeva are attorno a sé paesaggi diversi ma spesso uguali, molto spesso così uguali che non si orientava con precisione; che ogni tanto vedeva salire sul vagone altri individui, femmine
e maschi che, poi, a qualche sconosciuta fermata scendevano e se ne andavano per i fatti propri. Il treno viaggiava sempre ad una stessa velocità tranne che per brevi tratti sui quali accelerava o diminuiva la velocità. Poi, ad un certo punto, cominciava a rallentare! Ed alla fine si fermava. Il problema è che il viaggiatore non sapeva quando il treno si fosse fermato ed in quale stazione doveva scendere. Non sapeva neppure cosa avrebbe trovato in quell’ultima fermata. Pensava solo al paesaggio e a quelle persone che erano scese o salite dal treno delle quali anche i volti perdevano i loro connotati specifici e sfumavano in una nebbia indeterminata. L’unico aspetto positivo era proprio quello di non sapere mai dove il treno fosse rallentato e poi fermato. L’altra cosa ambigua ed inquietante di questo viaggio è che nessuno sa ne dove è salito ne quando o perché ha preso quel treno. Con questa metafora egli esprimeva la sua concezione dell’esistenza e del suo senso. O della mancanza di senso. Gli fu fatto notare che nel mondo contemporaneo, nella società attuale, l’idea della morte viene rimossa, nascosta, non discussa: si vive come se si dovesse farlo per sempre, come se la morte fosse sempre assente. Si ignora la vecchiaia e il trascorrere del tempo; le rughe vengono cancellate con interventi di vario genere; si cerca di non ingrassare e di restare sempre in forma facendo dello sport e delle diete; si parla di progetti e di come are le vacanze: si fa di tutto per pensare alla vita e non si parla mai del programma finale per cui la vita è stata ideata. Egli ripeté ancora una volta che noi viviamo in un mondo che è considerato sempre al presente e che non guarda mai al ato se non a quello di ieri. Non abbiamo più un ato a cui fare riferimento perché il ato non ha più nulla da dirci, non ha nulla da insegnarci perché il presente è troppo diverso ed abbiamo poi paura di tutte le cose schifose che abbiamo saputo fare. La sofferenza l’emarginiamo sempre di più, facciamo finta che non esiste perché tanto noi non possiamo farci nulla: siamo troppo impegnati con i nostri problemi e dobbiamo fare finta che le cose che accadono lontano da noi siano irraggiungibili o non vere. Tanto se il mondo in cui viviamo è stato ridotto ad immagine chi ci garantisce che queste immagini di cui non possiamo fare diretta esperienza siano vere ? Diceva sempre che lui in Germania c’era stato e sapeva che quella nazione che chiamiamo Germania esiste e che è posta in un determinato posto e che ci si arriva con un certo treno; che ci sono le femmine tedesche con i capelli biondi e gli occhi azzurri vogliose di fottere. Ma quando la televisione mostra l’Australia, i canguri, gli indigeni australiani con gli anelli nel naso, a lui che in Australia non c’era mai stato chi gli garantiva che quella terra
esisteva veramente e che un certo numero di uomini non si erano messi d’accordo per falsificare mappamondi, carte geografiche, programmi turistici e che avevano costruito le immagini di quel continente? Insomma faceva notare che un mondo che perde la solida condizione dell’esperienza sensibile diventa un mondo a cui bisogna credere per fede. E lui, soggiungeva, al mondo delle immagini televisive credeva poco ed aveva sempre dei dubbi su tutto. Non credeva, ad esempio, che in Africa c’era tutta quella miseria e che i bambini morivano come mosche per la fame. Non credeva che il comunismo non esisteva più in Unione Sovietica e non credeva che l’Italia fosse una nazione in crisi economica. Diceva che in una nazione dove tutti camminano in automobili che costano decine di milioni non può esservi crisi economica: “è che i soldi la gente li nasconde per non pagare le tasse! Ma ci sono! Tutti nascosti”. Nella vecchia società i traditori, i bugiardi, erano i pochi, i cattivi e fetenti. Nella moderna società dell’immagine tutti sono diventati “magunzisi”, tutti sono traditori ed agiscono soltanto per i loro interessi. Questo diceva e di questo sembrava profondamente convinto!
Cap. X
“ La morte propria non si vive: la morte è sempre quella dell’altro”. Ed era vero questo fatto. La morte, la sua idea, proviene a tutti noi dal fatto che la vediamo sperimentare a qualcun altro. Nessuno di noi va’ al proprio funerale! E’ un’esperienza soggettivamente negata perché non è possibile farla: ed è forse questo che la rende così oscura ed ignota da farci paura. Tanta paura che facciamo finta che non ci sia. Lo zio Concetto raccontava di non avere mai messo gli abiti scuri del lutto, neppure per la morte di qualche fratello o sorella, perché riteneva che il lutto è una forma di partecipazione formale al dolore; e che esso ci giova a testimonianza rassicurativa che noi siamo ancora vivi e che è l’altro ad essere morto. Comunque i segni del lutto possono avere un qualche senso perché testimoniano che qualche persona ci ricorda perché siamo stati affettivamente importanti per lei. Anche il lutto ed i riti funebri sono un modo per essere vicini alla morte ma potere fingere che non è una nostra faccenda. Anche andare al cimitero, diceva, è un sistema di rassicurazione. E’ quasi fingere un gioco nel quale il morto è capace di percepire il nostro cordoglio e il nostro dolore per non averlo più vicino, disponibile per noi. Come se i nostri morti potessero raccomandarci ed aiutarci nei nostri problemi in rapporto all’affetto che noi gli tributiamo: una sorta di riconoscenza dovuta perché noi ci ricordiamo con affetto di loro e loro sono morti al posto nostro e, visto che li ricordiamo ancora, ci devono qualche sorta di favore: di non farci soffrire su questa terra e di preservarci dalla nostra morte. Aggiungeva che, secondo lui, l’elemento che più turbava della condizione dei morti è il loro essere soli. Se guardiamo ad una foglia caduta da un albero ci mette tristezza il fatto che è disseccata, gialla, che non è del suo normale colore. Ma ciò che ci turba di più, ciò che ci intristisce è il fatto che è sola, che non fa più parte di quell’insieme a cui apparteneva. E’ la solitudine delle cose morte che ci impressiona, il fatto che esse non abbiano più rapporti con le altre cose, con l’insieme. I fatti del mondo non sono le singole cose, gli oggetti isolati, gli individui : ma l’insieme delle relazioni entro le quali le cose, tutte le cose, stanno. Lo zio Concetto diceva che lui era lo “zio Concetto” perché, pur non avendo ne moglie ne figli, viveva con altre persone ed era in relazione con altri: i cicloamatori, il barbiere, il fruttivendolo, le sue sorelle scroccone e quei gran
fetenti dei suoi nipoti. Eccetera! “Gli uomini sono come le parole: quando sono soli non raccontano niente”. Un campo di battaglia con migliaia di uomini morti può farci paura, può anche angosciarci; ma non ci rende il senso di isolamento e di finitezza di un solo morto. E’ la solitudine irreversibile della morte individuale ciò che provoca in noi il senso di maggiore angoscia: molti morti in una volta ci appaiono in una condizione di minore solitudine. Forse, aggiungeva, il vero problema della morte è appunto il fatto che non possiamo dividerla con nessuno. Essa è un fatto solo ed esclusivamente nostro: non possiamo farci aiutare da nessuno che abbia più esperienza di noi. Essa è l’esclusione definitiva dalle relazioni del mondo; e fuori da queste relazioni l’uomo non è più nulla, perché non può raccontare e non può ascoltare. Qualcuno dice che la specie ominide si è evoluta in modo diverso dagli altri primati perché ha scoperto la socializzazione, il gruppo che permette cooperazione tra gli individui e condivisione delle conoscenze acquisite. Non occorre cominciare ogni volta nuovamente a sperimentare determinate conoscenze perché il gruppo ha la funzione di conservarle dopo la scomparsa del singolo. Il gruppo offre inoltre protezione agli elementi più deboli che così possono sopravvivere anche se devono accettare una gerarchia di dominanza e magari rinunciare all’accoppiamento e a mangiare tra i primi. Tuttavia la socializzazione è stato certamente un grandissimo contributo all’evoluzione delle specie superiori. Ebbene nella morte neppure la forza di coesione sociale può essere di alcun aiuto all’individuo se non attraverso il richiamo di una qualche memoria collettiva. Il culto dei morti, la festa che a loro si dedica una volta l’anno, ha come scopo quello di fare sentire la morte come partecipe del mondo della vita. Coloro che non ci sono più, una volta all’anno, oppure qualche domenica, riacquistano vita perché rientrano nel circuito delle relazioni umane: li si ricorda, li si compiange, li si rivorrebbe in vita. E tutto ciò aiuta a sentire meno lontana la morte dalla vita, a relazionare coloro che non ci sono più al mondo dei nostri affetti, delle nostre sensazioni. E’ un sistema di rassicurazione che ci permette di risistemare la morte dentro la vita e di tornare a quest’ultima. Diceva anche che lo impressionavano le tombe antiche, quelle abbandonate e senza più ne fiori ne pulizia: segno che nessuno più le andava a visitare. Ciò che lo turbava era proprio questo fatto: che quando il ricordo delle persone che
hanno condiviso gli affetti, le speranze ed i sogni di coloro che sono morti, muoiono a loro volta anche il ricordo si perde. Quando in una famiglia muoiono tre generazioni la quarta difficilmente ricorderà chi era il bisnonno e dove costui è sepolto. La tomba resterà priva di esseri umani che la ricordano ed anche la memoria dell’individuo scompare per sempre: “come se non fosse mai nato e non ci fosse mai stato in questo mondo” soggiungeva cupo lo zio Concetto. “Io che non ho figli e nipoti diretti scomparirò per prima nella memoria dei miei simili; ma anche le mie sorelle che hanno figli e nipoti scompariranno dai ricordi di questo mondo quando i loro figli ed i loro nipoti saranno morti! Il nostro destino è di perderci per sempre da questo mondo. In realtà siamo proprio degli stranieri! Forse per questo è giusto che ci sia un altro mondo dove non ci si dimentica di nessuno”. Vi sono alcuni, diceva lo zio Concetto, che non vanno mai al cimitero! Questi, secondo lui, sono coloro i quali hanno talmente paura della morte che evitano accuratamente anche le cose che possano ricordarla. Come il cimitero o le bare. E si toccano i coglioni o fanno le corna quando incontrano un funerale, un prete o una monaca. Si tratta di una serie di gesti che dovrebbero annullare le conseguenze negative di condizioni per noi angosciose o spiacevoli. E ricordava quel tizio, quel cicloamatore, che aveva una moglie con otto amiche, tutte vedove, con le quali giocava spesso a carte o si riuniva per discutere e prendere il tè. Ebbene quando lui sapeva di quelle riunioni usciva da casa per non farsi vedere dalle vedove ed imponeva alla moglie di non parlare di lui in nessun caso con le sue amiche. Poi, prima di lasciare campo libero al gruppo di “cornacchie” come lui le chiamava, si toccava i coglioni tre volte e recitava quattro avemaria. E scappava fuori di casa andando a finire dallo zio Concetto. Una volta che la moglie si dimenticò di avvertirlo che venivano le “vedove allegre” egli fu costretto a rovinare un paio di ottimi pantaloni perché tagliò le tasche per potersi toccare continuamente le balle. Questo rituale si agganciava alla convinzione che aveva il tizio che essendo il nove un numero perfetto la prossima vedova doveva essere sicuramente sua moglie. E poi, soggiungeva, il tizio si toccava i coglioni come gesto scaramantico, perché i testicoli sono il simbolo della vita, della fertilità maschile che si oppone e che contrasta l’idea della morte e della negatività. Anche le corna sono scaramantiche perché evocano il toro che ha dei grossi testicoli che significano fertilità, contrastante con la morte. Lo zio Concetto non aveva nulla da eccepire a questo comportamento: anche lui ne aveva uno simile. Quando vedeva un gatto nero che gli attraversava la strada non ava se prima non transitava qualcun altro. Una notte rimase fermo con il motorino in mezzo alla campagna perché un gatto nero aveva attraversato la
strada! E siccome per tutta la notte non ò nessun altra anima viva, decise di restare in quel posto senza muoversi. E fece bene perché quando all’albeggiare transitò una motoape carica di arance questa sbandò ed il carico andò a finire sulla strada assieme alle bestemmie su santi e madonne del conducente. La certezza che il gatto nero portava iettatura gli era venuta dai racconti di sua madre e da alcune circostanze che confermavano quella credenza. Innanzi tutto sua madre gli aveva raccontato che nel mondo c’è il bene e c’è il male; che ci sono persone che fanno il bene e persone che fanno il male! Non magari perché lo vogliono liberamente: ma perché nascono in quel modo, con quel destino segnato. Ella diceva: “ ricordati figlio mio di stare attento alle persone negative, a quelle magre, vestite di nero e con il naso ad uncino: sono invidiose e, se ti guardano con l’occhio storto, ti fanno del male senza che te ne accorgi! Una fucilata alle spalle ti può anche mancare ma una occhiata malevola ti colpisce sempre; non può mancarti mai! Guardati pure dalle persone vestite di verde e dai gatti neri”. I gatti neri, secondo la mamma dello zio Concetto, nascondono anime dannate che vengono a portare guai ai vivi. Non tutti i gatti neri racchiudono anime malvagie: ma nel dubbio meglio evitare tutti i gatti di quel colore. La conferma di quelle storie gli veniva dal fatto che suo padre era morto dopo avere avuto la strada tagliata da un gatto nero; che sua madre era morta dopo avere scacciato con la scopa un gatto nero entrato in casa; che lui aveva dovuto chiudere l’officina ed andare in Germania dopo che una gatta, tutta nera, aveva partorito tredici gattini tutti neri davanti alla sua officina. Si era pure convinto che il “cavaliere” a lui portava male. Essendo il “cavaliere” una figura nuova della politica italiana, non essendo un politico di professione legato agli interessi di particolari gruppi politici, dei soliti “ mangiatari”, di quelli che si erano “ammuccati” l’Italia, egli ascoltava volentieri le trasmissioni televisiva a cui questo partecipava. Gli piaceva quel tizio che con parole semplici, più chiare, diceva pane al pane e vino al vino. Diceva che i politici, tutti quanti e senza eccezione, avevano badato al potere, al loro personale beneficio, fottendosene della povera gente e non aiutando nessuno che voleva veramente lavorare. Insomma che i politici avevano rovinato l’Italia facendo leggi che favorivano il consenso della gente ma che rovinavano lo stato perché i soldi erano stati spesi inutilmente, soprattutto per essere divisi tra gli stessi partiti, i sindacati e tutti i vari disonesti. Questi discorsi piacevano allo zio Concetto che era sempre stato nemico giurato dello Stato e, soprattutto, delle tasse. Per lui lo Stato non erano le strade, gli ospedali, le scuole: erano le tasse. Il “cavaliere” diceva che bisognava diminuire le tasse perché gli Italiani avevano la
minchia rotta di vedersi sottrarre i soldi che lavoravano onestamente. Diceva pure che bisognava ridurre le pensioni normali e dare buone pensioni sociali a quelli che non avevano mai versato contributi previdenziali: allo zio Concetto stava bene perché lui la pensione non l’aveva perché non aveva mai versato i contributi ed eventualmente avrebbe avuto quella sociale. Insomma si era convinto che quell’uomo, quell’industriale che si era fatto da sé, dicesse finalmente cose giuste, normalmente giuste o che, comunque, gli convenivano. Per questo, quando lo vedeva in televisione, lo ascoltava sempre con un certo interesse. Il problema sorse quando si accorse accidentalmente che ogni volta che lo vedeva in televisione gli succedeva qualche cosa di spiacevole. Una volta gli capitò la visita della finanza; la seconda volta gli capitò di fare undici alla schedina che aveva giuocato per sbaglio al posto di quell’altra che aveva il tredici nelle colonne; la terza volta, sotto una tempesta di acqua e di grandine, rimase con il motorino sfasciato in mezzo alla strada; alla quarta volta ebbe un incidente di una certa gravità e stupido: le biciclette ammassate in modo casuale e caotico nell’officina gli caddero addosso tagliandogli il muscolo di una gamba. Si accorse proprio in quell’occasione che stava vedendo il “cavaliere” che parlava. Associare quell’unico episodio a tutte le coincidenze precedenti capitate mentre ascoltava sempre il cavaliere fu una vera rivelazione di pericolo imminente: “questo è peggio di un gatto nero; non voglio sentirne più nulla e quando leggo il nome o lo vedo in televisione mi tocco i coglioni e faccio le quattro avemarie “. Da quel giorno in poi lo zio Concetto non ascoltò più il cavaliere e decise di votare per gli odiati ex democristiani: “se a me porta questa sfortuna che ci stavo lasciando la vita e le mutande figuriamoci se diventa presidente del consiglio! Finisce che fallisce l’Italia! Meglio il male conosciuto che quello che si deve conoscere”. E poi tutti dicono che lui si è costruito da solo la propria fortuna, come ho fatto io, con il suo lavoro! Ma mia madre diceva che i soldi si fanno o per rubeca o per futteca! Se uno lavora onestamente i soldi possono accumularsi con grandi sacrifici: ma non si può mai diventare ricchi. E allora, visto che non ha poi un culo così interessante che se lo siano voluto fottere pagandolo bene, vuole dire che ha rubato! Vuole dire che anche lui si è messo d’accordo con qualcuno dei politici di prima e che ha rubato. O rubeca o futteca: il resto sono chiacchiere.” E comunque, da allora in poi, ogni volta che vedeva il “cavaliere” nei suoi abiti tutti oscuri come quelli di un gufaccio, si toccava per sicurezza i coglioni e recitava quattro avemaria. Almeno si sentiva sicuro di non morire nella prossima settimana.
Lasciando da parte le sue fobie sulla sfortuna e sulle varie contromosse per annullarla concludeva concretamente che anche parlare della morte era perfettamente inutile perché “quando c’è la morte non ci siamo noi e quando ci siamo noi non c’è la morte” Aggiungeva poi sorridendo che “della vita e dell’amore” non c’è certezza. Si tratta di una scommessa che facciamo e alla quale non possiamo pensare giornalmente, minuto per minuto. Così come siamo sicuri che il sole domani sorgerà allo stesso modo pensiamo che, sempre domani, torneremo al lavoro, ad osservare i culi delle belle ragazze che ano, a sbrigare le piccole faccende del quotidiano, più o meno sempre le stesse e che fingeremo sempre nuove. Le cose sono una questione di abitudine e di probabilità. Siamo abituati a pensarci vivi e possiamo avere una certa probabilità di esserlo anche tra un’ora. A meno di un infarto, di un terremoto o di una macchina con i freni rotti che ci piombi addosso, delle corde di un ascensore che si rompono, di un fulmine che ci caschi addosso mentre eggiamo tranquillamente in bicicletta o di mille altri accidenti presumibili e che, tuttavia, per molti di noi non capiteranno mai. E tutto ciò per caso, per fortuna, perché non è ancora venuta la nostra ora: sempre toccandoci i coglioni e facendo le corna dovute! Comunque lo zio Concetto non era un ateo. Se è vero che non andava a messa la domenica o le feste comandate diceva sempre che credeva in Dio: che Dio è nel cuore di tutti gli uomini e che li aiuta ad agire per il meglio. Quando agiamo male la nostra coscienza ci rimorde e avvertiamo un disagio. Ciò significa che sappiamo cosa è il bene e come dobbiamo conseguentemente comportarci. E i rimorsi della coscienza li abbiamo tutti, vengono a tutti, indipendentemente dalla cultura che abbiamo o dal nostro ceto sociale. Questo significa che una coscienza la abbiamo tutti e che Dio ha posto in tutti la consapevolezza del male e del bene. Gli animali invece non conoscono il rimorso: agiscono automaticamente, per istinto. Solo gli uomini riconoscono se stanno agendo bene o male. E tuttavia molti uomini agiscono male anche se sanno che stanno sbagliando e che stanno facendo il male; lo fanno consapevolmente. Ciò è possibile perché gli uomini possono agire come vogliono, sono liberi di fare come meglio ritengono: se dovessero fare il bene per forza non sarebbero liberi e non avrebbero nessun merito per il bene che fanno. Lo zio Concetto concludeva sempre con un mezzo sorriso che la diversità tra il bene ed il male era che fare il bene è sempre difficile; fare il male è sempre facile. Ed è per questo che, solitamente, l’uomo compie più facilmente opere negative che azioni buone ed il prete, alla messa per i defunti, chiede che Dio non guardi ai peccati del singolo ma abbia misericordia attraverso le opere e le preghiere della sua chiesa.
L’individuo abbandonato alle sue colpe personali sarebbe abbandonato a se stesso: la misericordia viene invocata in nome e per le opere di tutta la comunità cristiana. Questo non significa eludere le responsabilità personali ma chiedere scusa dei peccati fatti a nome di tutta la comunità. Così lui era perfettamente convinto che essersi fottuta la moglie del suo amico non era stata una buona azione; che avrebbe dovuto rinunciare a godersi la donna di un altro uomo. E tuttavia rinunciare al piacere che aveva provato gli sarebbe sembrato, sul momento, inutile e stupido. Anzi, ciò per cui quell’unica fottuta gli era rimasta impressa nella memoria, evocandogli ancora piacere al solo ricordo, era proprio il piacere della trasgressione, il gusto di avere fatto qualche cosa di proibito e di diverso dalla norma, di avere violato la volontà e l’intimità di quella donna nonché le sue false reticenze e le regole sociali che volevano imporle il rispetto di determinati rapporti. Come l’etica del lavoro imposto dalla fabbrica funziona, come quasi tutti i lavori, contro il piacere degli individui perché li costringe al lavoro ed al sudore e comunque a fare cose di cui non sempre hanno voglia allo stesso modo, diceva, ci insegnano fin da piccoli che sacrificarci sia un fatto positivo: noi uomini siamo più contenti quando facciamo le cose che ci piace di fare, non quelle che gli altri vogliono che facciamo; “a noi piace fare le cose che ci piacciono ed è per questo che, visto che l’uomo non deve fare necessariamente il bene, più spesso preferisce fare il male!” Ed aggiungeva: “quando il piacere è poco vince la coscienza; ma quando il piacere è molto vince sempre lui”. La vera rottura di cazzo è che la morte ci ha messo addosso un sacco di paure di cui non ci rendiamo conto: “ potremmo goderci semplicemente le cose ed invece finiamo per agire in modo che la debolezza sia forza, il piacere diventi peccato, mandare a fanculo il nostro prossimo, i nostri parenti ed i cicloamatori sia disdicevole; fotterci le mogli dei nostri amici sia da fetentoni e fare la cresta sulla riparazione della bicicletta sia disonesto. Non sarebbe tutto più semplice se riuscissimo a fottercene di tutte queste paure ed a dire che può essere più spacchioso chi riesce a fottere gli altri: sul prezzo delle riparazioni della bicicletta, contro i nipoti strafottenti, contro chi ha bisogno ed è debole ed infine fottendoci le donne anche se sono mogli dei nostri conoscenti o di chi sa chi”. Mah! Concludeva: forse è meglio riparare le biciclette piuttosto che porsi questi problemi; “solo i maccheroni riempiono la pancia”.
CAP. XI
Se la vita è un aggio meglio are in Ferrari che in Cinquecento! Tuttavia per are in Ferrari non bisogna rovinare la propria vita e quella delle persone che credono in te come, ad esempio, i tifosi. La stagione ciclistica era oramai alla fine ed il giro di Francia concludeva l’anno delle grandi corse ciclistiche. Mentre era al comando il “pirata” avevano scoperto che c’era tutta una squadra che faceva uso di droghe per ottenere migliori risultati. Il problema dell’uso di sostanze chimiche particolari, che rendono migliori le prestazioni degli atleti, è diventato un problema un po’ in tutti gli sport. Anche ai tempi d’oro del ciclismo l’uso di alimenti particolari e di sostanze vegetali stimolanti, come il caffè od il tè, contraddistinguevano alcuni grandi campioni. Tuttavia si trattava sempre di sostanze e di cibi perfettamente naturali. La moderna chimica e la ricerca farmacologica avevano messo a punto sostanze capaci di alterare il rendimento fisico di un atleta. Naturalmente da sole non bastavano a trasformare un somaro in un giaguaro: tuttavia aiutavano parecchio i campioni nelle loro prestazioni al limite. Lo zio Concetto era convinto che il problema delle sostanze dopanti era diffuso in tutto il mondo dello sport. Diceva infatti che lo sport è diventato troppo ricco, che ci sono troppi soldi e troppi interessi: non è più un gioco dove le regole si rispettano anche con una certa flessibilità. Partecipare al giro di Francia costa ad una squadra un sacco di “piccioli” e bisogna conquistare dei piazzamenti per ottenere i premi che sono previsti a parziale rimborso delle spese sostenute. Insomma bisogna vincere a tutti i costi. Ed allora i campioni che costano molto debbono rendere molto; anche a costo di sottoporsi a farmaci che possono in seguito provocare il cancro o l’impotenza maschile. L’importante è vincere non partecipare. Secondo lui bisognava tornare ad uno sport non professionistico, non legato ai soldi ed al guadagno smodato, ma ad uno sport come gioco e divertimento. Ammetteva comunque che questa sua idea era piuttosto antiquata e forse irrealizzabile nella società attuale. Ciò che oggi conta è il denaro! La società ci dice: sei qualcuno se consumi molte cose inutili e, per consumare, devi guadagnare molti soldi. Ma non dice che bisogna guadagnarli in un certo modo; dice che bisogna avere il denaro ma non come procurarselo! Comunque, secondo lo zio Concetto, anche il “pirata” si
faceva le “pere”, cioè si prendeva la droga. “Speriamo che non lo becchino mai perché allora ci fa una figura di merda e finisce come uno stronzo cacato da un culo pieno di emorroidi: altro che grande del ciclismo tirato su a piedine e nutella”. Noi, anche per il gusto di contrariarlo, rispondevamo che il Pirata non aveva bisogno di nessuna sostanza dopante e che, in ogni caso, piccoli aiuti erano presi da tutti i corridori e gli sportivi. Comunque noi eravamo tutti felici dei successi dell’italiano al Tour e provavamo un più forte e determinato piacere nell’uscire in bicicletta le domeniche ed i giorni liberi. Ci sentivamo immersi nell’aria calda e sudavamo le fatidiche quattro camicie a pedalare: ma ci si sentiva liberi di stare all’aria aperta e di essere almeno concittadini di quel tizio che quando la strada cominciava a salire sembrava che volava, come uno stambecco tra l’azzurro delle montagne o come un’aquila nella solitudine e nel silenzio delle alte quote. Insomma si era quasi felici, come quando vince la Ferrari oppure la nazionale di calcio italiana. Forse per questo motivo davamo poco ascolto ai mugugni dello zio Concetto e ritenevamo le sue diffidenze frutto di vecchiaia e, soprattutto, di diffidenza verso il prossimo. Qualcuno mormorava che era oramai rincoglionito e negativo come un gatto nero o una cornacchia, anzi un cornacchione con le palle avvizzite; che le sue idee erano il frutto delle sue esperienze negative e del fatto che era “zitello”. Un rudere mentale sopravvissuto in una società in movimento, che cambiava costantemente. Chi non è capace di adattarsi rapidamente al nuovo finisce per soccombere, per non essere più capito e per non capire più le cose. Il risultato è una diffidenza cronica verso tutto e tutti, anche verso le cose più comuni e familiari. Certamente il suo ato, come per ciascuno di noi, aveva il suo peso. E’ perfettamente accettabile che ciascuno di noi dipenda dalle esperienze, belle o brutte, che abbiamo fatto. Ed è anche evidente che chi è nato nel primo trentennio del secolo aveva dovuto lottare non poco per adattarsi a dei cambiamenti tanto rapidi quanto radicali della società civile ed economica. Il Novecento è stato denominato come il secolo “breve” proprio perché il ritmo del suo trascorrere, i suoi avvenimenti vorticosamente vissuti e contraddittori, hanno fatto sembrare tale secolo rapidissimo nel suo trascorrere verso il Duemila. Sembrava ieri, diceva lo zio Concetto, che la città era illuminata dai pochi lumi a gas e che le persone vivevano in case senza riscaldamenti e senza frigorifero.
Poi, tutto in una volta, la città fu riempita di luce, le case di colori, di musica, di immagini; e le strade di automobili, di motociclette di cinema e di teatri. La vita aveva assunto il ritmo vorticoso dei nostri giorni nei quali tutti hanno fretta e non sanno il perché: anche lo svago deve essere rapido e a costi ragionevoli. Se uno non ha i soldi per comprare le cose basta firmare delle cambiali e le cose sembrano venire da sole. Poi gli uomini sono andati nello spazio: a rompere la minchia anche alla luna che, secondo lo zio Concetto, non avrebbe voluto gli ospiti umani anche perché “non sapeva che cazzo farsene”. E poi tutti quei soldi spesi inutilmente, solo per dimostrare che una nazione era più forte e potente dell’altra: si ammazzavano tra America ed Unione Sovietica per fare vedere al mondo quale era la nazione più potente, quella che aveva i missili più capaci che potevano portare le bombe atomiche più devastanti e distruttive. Per tanto tempo abbiamo vissuto nel terrore che qualche pazzo rottoinculo di una nazione o dell’altra scatenasse, magari per sbaglio, una guerra nucleare, ricordava lo zio Concetto. E quello che lo faceva incazzare maledettamente era che il cittadino comune, lui ad esempio, non ci poteva fare niente, non poteva prendere la parola per dire: “non mi importa un cazzo se hanno ragione gli americani oppure i sovietici; quello che mi interessa e prendermi cura delle mie piccole cose, fossero anche quegli scrocconi dei cicloamatori o quegli strafottenti dei miei nipoti”. A proposito della conquista dello spazio ricordava anche che un povero cane di nome Laica ci aveva rimesso la pelle perché lo avevano mandato in orbita senza pensare a come farla tornare a terra. Gli fu fatto notare che la conquista dello spazio aveva comportato una ricaduta positiva sullo sviluppo della tecnologia e della scienza e che anche altre discipline, come la medicina, aveva fruito della tecnologia e della ricerca spaziale; e che comunque i progressi scientifici si erano rivelati positivi per le persone a parte il fatto che oramai il pericolo di una guerra atomica era scomparso per sempre perché uno dei due sistemi politici antagonisti era collassato da solo. Ma lui rispondeva che il suo secolo non era stato solo il secolo del progresso tecnologico ma che era anche stato il secolo nel quale i rapporti umani si erano degradati: “non c’è più famiglia, non c’è più religione e patria e abbiamo ammazzato con cento scuse centomilioni di persone almeno!” - “ Quando ero giovane c’era tanta miseria che potevamo venderla al mercato per guadagnare qualche cosa! Però c’era il rispetto per i genitori ed anche per le persone, soprattutto se erano degli anziani. Oggi non c’è più rispetto perché nessuno ha un posto suo, un ruolo: nessuno vuole essere padre e le donne non vogliono essere madri; e neppure vogliono essere maschi o femmine. I maschi
sono diventati tutti puppi: hanno il cazzo ma preferiscono farsi inchiappettare. Le femmine hanno il pacchio ma stanno sempre con i pantaloni come i maschi. Anzi femmine e maschi stanno con gli stessi pantaloni, i jeans, che vanno bene per tutti perché non sottolineano nessuna differenza, rendono tutti uguali e diversi. Io dico che tutto questo bordello è dovuto al fatto che nessuno vuole più essere quello che gli spetta di essere: vogliono apparire tutti uguali ed essere diversi nella loro uguaglianza. Da giovani sapevamo quello che eravamo e cosa, più o meno, dovevamo fare nella vita. Oggi nessuno sembra sapere cosa vorrà fare da grande, che ruolo avere e dove sistemarsi. Sembra che nessuno pensi al domani e al fatto che diventerà grande. E’ come se tutti aspettano che qualche cosa accada, che qualche cosa, prima o poi, dovrà accadere e aspettano sempre disponibili a quello che può succedere. Ma per ciò che potrà succedere non gli frega un cazzo. O forse sono tutti così sbandati e preoccupati che preferiscono fare finta di niente. Comunque sono convinto che quando in una società mancano i ruoli le persone non sanno più chi sono e che cazzo vogliono. I ragazzi non hanno comunque tutti i torti perché sono stati educati da genitori che non si sanno imporre perché essi stessi non hanno accettato un ruolo ben definito. E poi sembra che tutti abbiano un sottile disagio che non riesco a spiegarmi. La nostra è una società ricca dove tutti mangiamo, beviamo e fottiamo senza problemi. E intanto siamo sempre in difficoltà, non siamo mai contenti di nulla. Forse perché nella mia vita ho visto tanta miseria mi riesco ad accontentare di poco mentre i giovani non si accontentano mai di niente. Dobbiamo tornare al ato se vogliamo stare bene. Certe volte andare indietro significa andare più avanti di dove uno si trova. Forse la vera colpa di tutto è stata la democrazia”. Era vero che spesso, nei periodi di rapido cambiamento, le generazioni meno giovani evocavano una nostalgia per il ato, per un’epoca che, bene o male, proponeva sicurezze. Almeno sicurezze immaginate e viste nell’orizzonte di un ato già trascorso. I lodatori dei tempi ati sono una costante generazionale ed umana. Tuttavia è anche legittimo pensare che il ato è più rassicurante del futuro soprattutto quando questo non esprime certezze e bisogna adattarsi a profondi rinnovamenti. Certo, aveva pure ragione lo zio Concetto quando affermava che nel recente ato ciascuno si assumeva le proprie responsabilità integrandosi nel ruolo sociale che gli veniva,direttamente o indirettamente, proposto, mentre la nostra epoca si connota dal rifiuto di ruoli ben definiti anche perché non ce ne sono più o sono molto sfumati ed elusivi. Tuttavia non è possibile dimenticare che
l’abbandono dei ruoli è anche l’effetto di una perdita di questi ruoli da parte della società per le trasformazioni che in essa si verificano. Il ruolo di madre e di moglie, legato alla femminilità di una società contadine e rurale, nonché povera, era funzionale ai parametri di quella stessa società che viveva grazie alla riproduzione di una forza lavoro poco specializzata ed abbondante. Nel momento in cui la società procede verso un’economia più industriale, o addirittura post industriale, nella quale è necessaria una forza lavoro specializzata o ultra specializzata, fare molti figli significa investire molte risorse presenti nel futuro che non possiede ritmi certi e scontati. Dunque appare opportuno diminuire la natalità e concentrare gli sforzi dell’economia familiare sulla qualità dell’istruzione che deve essere protratta per periodi sempre più lunghi. E la lunghezza del periodo preparatorio all’inserimento sociale abitua i figli a dipendere per lungo tempo dai genitori, a non assumere ruoli ben definiti se non quelli di figli, pur non rinunciando a dei bisogni primari come il consumo o la sessualità. Sessualità che prima veniva espletata prevalentemente nel matrimonio che era la modalità per ricostruire la forza lavoro. Dunque le nuove generazioni si abituano a non avere che un solo ruolo e ad ignorare per lungo tempo i ritmi sociali. L’adolescenza si allunga sempre di più fino a diventare una larga parte della vita: anche perché i consumi vengono assicurati dal benessere creato nella famiglia con pochi figli e nella quale lavorano solitamente entrambe i coniugi. Il ruolo femminile si è infatti trasformato: non moglie e madre, ma soggetto produttore di quelle risorse economiche, materiali e psicologiche, che giovano alla lunga preparazione delle nuove generazioni ed anche all’automantenimento. Ma una donna che lavora si crea relazioni proprie al di fuori del nucleo familiare, assume responsabilità verso se stessa e verso altre persone che non siano il coniuge o i figli. Pertanto assume altri ruoli e, tra questi, una propria autonomia di gestione della ricchezza prodotta e dei propri desideri ed aspirazioni. In una società in rapido mutamento economico e sociale i ruoli stabili e rassicuranti non giovano più perché risultano un impedimento alla stessa evoluzione economica. Necessita invece una relatività di ruoli, spesso intercambiabili, che permettano un rapidissimo adattamento alle trasformazioni sociali. Adattarsi in modo flessibile, assimilare i connotati specifici della variazione del sistema, costituisce il modo vincente per vivere nella nostra società. Dunque la perdita di ruolo è un elemento funzionale allo sviluppo del nostro tipo di sistema sociale. Dobbiamo sforzarci continuamente di essere, parafrasando Pirandello, uno, nessuno e centomila! Ed è chiaro che tutto ciò comporti un costo in termini psicologici ed emotivi. Ad esempio la crisi del riconoscimento: di noi stessi e degli altri.
L’idea di una variazione nella continuità della nostra identità è un fatto piuttosto consolidato nella tradizione culturale europea. Basterebbe ricordare Hume oppure Freud. Tuttavia mai come nella nostra epoca ci si accorge che non possiamo essere dei monoliti, che non possiamo attaccarci a nessuno scoglio e lasciarci vivere tutta l’esistenza infischiandocene delle tempeste che si verificano attorno a noi. Ed in questo trascorrere rapido delle cose ci accorgiamo che non riconosciamo più i nostri modi di essere, che emergono aspetti della nostra personalità nuovi e perturbanti. Ma che anche le persone che conoscevamo sono sottoposte alla nostra stessa variabilità, a mostrare volti psicologici che non avevamo assolutamente previsto. E questo ci spiazza e ci confonde perché non sappiamo dove andiamo e come possiamo regolarci. Viviamo in un mondo senza centro, senza riferimenti forti e stabili e ci andiamo abituando a tale mondo diventando instabili noi stessi. Se non abbiamo più un centro non significa che non ne abbiamo nostalgia. Il momento in cui tutta la realtà è ridotta ad immagine cangiante desideriamo talvolta che un qualche fotogramma si fissi in modo stabile e ci indichi coordinate rassicuranti e certe. Comunque finiamo poi per adattarci e per accettarci nella nostra discontinuità, nel nostro essere diversi da come ci pensiamo ed a tollerarci nella nuova personalità che ci appare sconosciuta ma che è l’unica che possiamo indossare. Le consapevolezze di cui disponiamo fanno di noi uomini più liberi, meno compressi nelle nostre emozioni e nei nostri desideri. Tuttavia questa decompressione dell’io, indotta dallo sviluppo sociale e dalle consapevolezze scientifiche, a quale risultato concreto ci ha portato? A ben riflettere all’emergere di un universo di pulsioni naturali e genuine, preculturali, che si trovano nel fondo più arcaico del nostro cervello, l’amigdala ed il talamo, che sono inseriti nel sistema limbico. Desiderio di cibo e di sopravvivere, pulsioni sessuali e riproduttive, principio del piacere e della continua gratificazione, aggressività competitiva, paure, violenza, abitano come emozioni forti ed immediate in quelle regioni del nostro encefalo che per prime reagiscono agli stimoli ambientali baiando spesso la corteccia cerebrale sede del pensiero logico. Se al pensiero razionale sostituiamo il valore ed il significato delle emozioni e dei sentimenti, le icone sintetiche ed artistiche al pensiero sequenziale ed analitico, otteniamo il prevalere delle strutture emozionali su quelle del comportamento logico. Appare allora retorico interrogarsi sull’aumentare dei casi di violenza esperita e posta in atto! Nell’era della supertecnologia viviamo in modo sempre più emotivo ed artistico, alla ricerca di sensazioni piuttosto che di un pensiero analitico.
In un universo dove trionfa l’idea di competizione anche la guerra diventa uno strumento di accettazione e riequilibrio della realtà e anche la menzogna sistematica sulla pericolosità del presunto nemico un mezzo politicamente accettabile. Se abbiamo bisogno di risorse energetiche per espandere la nostra aggressività nell’ambiente circostante dobbiamo andarle a prendere da qualche parte e spesso dobbiamo dire che da quella parte ci andiamo per portare la libertà o la democrazia o altre cento minchiate che fungono da scusa almeno plausibile. Mah? E’ così che andava il mondo ed è così che continua ad andare! Sembra proprio che non abbiamo fatto alcun progresso sostanziale, biologicamente fondato da quando siamo scesi dagli alberi della savana: solo che ci siamo abituati a credere a certe parole e ogni tanto pensiamo che siano vere veramente.
CAP. XII
Erano diversi giorni che lo zio Concetto non apriva l’officina. Le biciclette avevano i loro bisogni tecnici e noi avevamo il bisogno di incontrarci e di prenderci in giro: insomma di stare in compagnia. Dato poi che conoscevamo l’attaccamento dello zio Concetto al denaro ci cominciavamo a preoccupare di quei cinque giorni di chiusura infrasettimanale. Ricordammo pure che da qualche mese lo zio Concetto era affetto da un cacarello cronico che noi tutti attribuivamo alle sue scorpacciate di cozzole di Messina. Amava mangiarle crude con il limone spremuto dentro la cozzola: diceva che cotte perdevano il loro sapore e la componente afrodisiaca. Gli dicevamo spesso che, a causa dell’inquinamento, le cozzole crude potevano portare malattie come il tifo, la salmonellosi e l’epatite virale. Lui rispondeva che bastava il limone per disinfettare da qualunque malattia. Ci preoccupammo che proprio queste cozzole crude gli avessero provocato il dolore allo stomaco e la cacarella. Qualcuno di noi disse che se si era salvata sua madre dall’infezione intestinale prima degli antibiotici si sarebbe sicuramente salvato anche lui ora che c’erano i rimedi adatti. E poi lo zio Concetto era della vecchia pasta e se era riuscito a sopravvive alla fame della sua gioventù, alle sue fissazioni, alle sorelle ed ai nipoti, sarebbe certamente sopravvissuto a qualunque morbo. Si decise comunque di telefonare a casa della sorella per sapere qualche notizia sulla sua salute. La sorella ci disse che una notte si era sentito male per i dolori di stomaco e che aveva cacato sangue! Un nipote lo aveva consegnato a quelli dell’ospedale per vedere che malattia aveva. Avevano deciso così perché non era facile curarlo a casa. Faceva storie che non voleva andare a finire in mano ai medici, non voleva farsi visitare e non voleva prendere le medicine chimiche. L’ospedale era la migliore soluzione per lui e per i suoi parenti che non volevano combattere con quella testa stramba. Fu allora deciso di andarlo a trovare all’ospedale per vedere di cosa si trattava veramente. Il giorno dopo, benché fosse un festivo, andammo a trovarlo. Dal
momento che era abituato a vivere da solo fu particolarmente felice di vederci, quasi incredulo di risultare così benvoluto e di avere amici che lo andavano a trovare anche in un giorno festivo. Era molto pallido ma per il resto appariva in buona forma e, come al solito, incazzato. Ci disse subito che i suoi parenti erano degli schifosi serpenti che lo avevano subito scaricato all’ospedale; che è vero che era stato molto male e che lui stesso si era preoccupato quando aveva visto le mutande sporche di tutto quel sangue che gli era all’inizio sembrato cacarello. Ma concludeva che, secondo lui, non sarebbe stato il caso di imprigionarlo in quella merda di ospedale. La cacarella gli aveva fatto rompere le emorroidi che aveva sempre avute soprattutto da giovane! Lì in ospedale lo avevano portato in una sala per risuscitare i morti, lo avevano spogliato tutto nudo senza dargli alcuna spiegazione e gli avevano caramattato tante di quelle iniezioni e di quei tubi, compreso uno nel cazzo, che aveva realmente pensato di stare per rendere l’anima al creatore. Dopo due giorni lo avevano rivestito di un pigiama portato da sua sorella e lo avevano messo in una corsia con altra gente. Gli avevano anche tolto il tubo dal cazzo e finalmente era potuto andare al cesso a farsi una pisciata ed una cacata come Dio aveva voluto per i cristiani. Si sentiva quasi bene ed aveva solo una grande fame: in quei due giorni lo avevano lasciato a digiuno e non lo avevano fatto parlare con nessuno dei suoi fetentissimi parenti. Aggiungeva che questo era stato l’unico aspetto positivo di tutta la faccenda. Una persona che sta male vuole restarsene in pace e non dovere raccontare a tutti come si sente e se si sente meglio o peggio. L’aspetto più antipatico delle malattie è che ti distraggono dalla vita normale, dalle piccole abitudini quotidiane che fanno tutt’uno con la tua vita, per metterti in una sospensione nella quale non sai cosa fare veramente. Vaffanculo le malattie ci disse: già la vita è complicata per se stessa! Ci vogliono pure le malattie a renderla ancora più complicata: “ho sempre sperato che quando verrà il mio momento di crepare, non mi devo svegliare dal sonno. Ma non voglio finire per crepare soffrendo, facendomi compatire e annegando nella piscia che non mi accorgo più di fare oppure nella merda. Dal padreterno ci voglio arrivare asciutto e pulito; se ho ato la mia vita con le mani sporche e con le robbe sempre imbrattate di grasso voglio almeno morire pulito e lucido.” Poi soggiunse: “mi sono reso conto quanto sono belle le cose che facciamo giornalmente: il lavoro, quegli scrocconi dei cicloamatori, quelle buttane delle
mie sorelle, quei cornutacci dei miei nipoti e, soprattutto, quei discorsi con gli amici sulle quattrocentonovanta minchiate che diciamo. Anche una giornata di pioggia e di vento ata in officina è bella rispetto allo starsene rinchiuso in questo ospedale tra persone che si lamentano di tutto e alle quali non ci frega nulla di come uno si sente.” L’osservazione sulla bellezza della quotidianità della quale non ci accorgiamo mai e da cui siamo sempre stufi ci colpì! Siamo sempre incazzati con il quotidiano e la sua banalità ma non ci rendiamo conto di quanto sia bello non dover rinunciare a quelle cose apparentemente stupide perché usuali. Come quando sentiamo la mancanza di una persona che ci è stata cara solo nel momento che non possiamo trovarla più nei posti e nei luoghi che conosciamo: allora capiamo quanto era importante per noi; allora ci chiediamo perché non abbiamo cercato di starle più vicino nei momenti in cui ciò era possibile. Una nostalgia talvolta struggente ci assale e pensiamo spesso che la vita sarebbe stata meno complicata e sfuggente se avessimo saputo godere anche dei momenti meno belli di questa approfittando della vicinanza delle persone che volevamo bene. Quando queste non ci sono più ci accorgiamo finalmente che una parte della nostra esistenza non c’e più, è irreversibilmente andata via, assieme alle cose di cui parlavamo con quelle persone: compresi i nostri sogni. Era forse vero quello che diceva spesso lo zio Concetto: “dovrebbe esserci concesso di vivere almeno due volte: una per imparare ed una per vivere!” La prima volta potremmo imparare dai nostri errori e la seconda volta finalmente usare il nostro tempo per vivere in modo adeguato. Rimasimo con lui tutto il pomeriggio e poi lo salutammo. Era stato molto soddisfatto di quella visita: quasi commosso. Tuttavia, mentre ci avviavamo all’uscita dell’ospedale, ci venne in mente che lo zio Concetto era troppo rozzo per capire quale malattia poteva essere. Decidemmo di chiedere a qualche dottore a so per l’ospedale. Non fu facile avere delle informazioni anche perché ancora non c’era una diagnosi precisa e sicura. Anzi il dottore di turno disse che bisognava fare una serie di accertamenti piuttosto sofisticati che avrebbero richiesto parecchi giorni. Comunque, ad occhio e croce, poteva anche essere un cancro al colon, agli intestini o allo stomaco visti i dolori lancinanti che aveva avuto e la presenza di sangue nelle feci.
Uscimmo dall’ospedale piuttosto increduli e sforzandoci di rimuovere quel termine detto un po’ troppo freddamente. Se lo zio Concetto avesse avuto il cancro allo stomaco erano cazzi amari sia per lui che per la sua famiglia. Era una persona troppo indipendente, abituata a dipendere solo da se stesso e dalle sue particolari esigenze, praticamente ingovernabile sotto il profilo delle medicine, dei ritmi di vita e delle sue convinzioni. A parte il fatto che viveva da solo perché litigava sempre con i suoi parenti. Può anche essere vero che, come lui diceva, si muore sempre da soli perché nessuno può accompagnarci ed indicarci la via. Tuttavia è orribile il preludio della propria morte quando si comincia a capire dal proprio stato fisico che si sta per morire e che non esiste possibilità di ritorno. E questa consapevolezza si insinua anche attraverso i gesti e le parole misurate degli altri che diventano più gentili ed accondiscendenti, che quando parlano con noi, o ci vengono a trovare, sembrano distratti e ritrovano il solito umore quando se ne vanno via, finalmente liberi dall’angoscia che dà la sofferenza e l’idea della morte. Nessuno di noi affrontò l’argomento a cui aveva accennato il medico. Sperammo solo che si trattasse di una remota congettura. Qualcuno comunque accennò al fatto che avevamo spesso cazziato lo zio Concetto perché mangiava le scatolette di tonno o di carne in scatola aiutandosi con qualche cacciavite in mancanza di posate in officina. Il fatto era che magari poco prima aveva usato quel cacciavite per mettere del grasso alla grafite in qualche ingranaggio di bicicletta. Sperammo proprio che tale circostanza, da lui spessissimo operata, non fosse la causa di un tale malanno.
CAP. XIII
La settimana successiva andammo a trovare lo zio Concetto per sapere degli sviluppi della sua salute. Lo trovammo in ospedale tutto arzillo e vestito di tutto punto. Era comunque visibilmente pallido e appariva piuttosto dimagrito. Ci disse che lo stavano dimettendo e che tutte le analisi che gli dovevano fare le avevano fatte. I risultati erano in una cartella che gli avrebbero consegnato all’uscita. Aveva telefonato a sua sorella per dirle di venire a prenderlo in mattinata e comunque prima di mezzogiorno. La sorella aveva risposto che all’uscita del lavoro, verso le due, lo avrebbe preso un suo nipote. Dissimo allo zio Concetto che potevamo accompagnarlo a casa noi senza bisogno di scomodare il nipote che era di turno e lavorava fino alle due! Telefonò alla sorella e la mise al corrente del fatto nuovo. Gli chiesimo scherzando come andava il suo cacarello ed egli ci rispose che era tornato quasi normale; ma così puzzolente che avrebbe ucciso nella fogna tutti i microbi dello scarico. Prendemmo all’uscita la carte di dimissione e, cercando di non farlo accorgere, leggemmo la diagnosi ed il motivo delle dimissioni. Lo zio Concetto aveva un cancro al fegato con metastasi diffuse nello stomaco e negli intestini. Anche la prostata appariva coinvolta. Non si prevedeva un intervento chirurgico perché il fegato era oramai invaso e le metastasi molto estese. Con un atteggiamento volutamente strafottente gli fecimo notare che aveva la pelle dura, che era dell’antica pasta ma che i residui di grasso alla grafite presenti sul cacciavite con il quale accompagnava i suoi pasti all’officina avevano avuto come effetto quello di una gravissima irritazione alla mucosa dell’intestino. Gli confermammo che forse lo avrebbero dovuto operare ma che più probabilmente avrebbe continuato ad avere bruciori di stomaco ed anche dei doloretti e qualche cacarello di tanto in tanto. Lo zio Concetto non aveva alcuna conoscenza medica e si sarebbe facilmente convinto che eventuali altri dolori di stomaco erano dovuti a quella fantomatica irritazione grave alla pancia. Ciascuno pregò in cuor suo che i dolori a venire non fossero troppo lancinanti e che non creassero una lunga e penosa agonia. Pensammo pure che se era
inoperabile qualche cosa bisognava pur fare. Certamente una terapia antidolore magari a base di morfina oppure qualche altra strategia. L’importante era almeno una morte senza dolore e sofferenze aggiuntive inutili. Lo accompagnammo a casa. La sorella non era quella brutta arpia che lui descriveva sempre a tinte fosche. Lo accolse molto affettuosamente commovendosi nel vederlo tornare a casa; anche lui fu molto affettuoso nel vederla e non si sarebbe detto che i loro rapporti fossero così conflittuali come lui diceva sempre. La versione che lui dava delle cose e dei rapporti umani non necessariamente doveva essere quella giusta. Molto probabilmente anche lo zio Concetto aveva un certo carattere cocciuto e prevenuto nei confronti dei suoi parenti, forse ossessionato dall’idea che volevano scroccargli i suoi soldi. Le paranoie dell’anziano erano elementi normali del suo vissuto. Dopo pochi minuti giunse un nipote, forse quello che avrebbe dovuto prenderlo all’ospedale. Approfittando di quella presenza mettemmo al corrente della diagnosi il nipote confermando che per lo zio Concetto non restava molto tempo di vita e che noi comunque gli avevamo già detto che la situazione non era così grave e che avrebbe avuto altri fastidi allo stomaco. Per quanto riguardava la cura vera e propria sarebbe stato opportuno portarlo alla sezione oncologica dell’ospedale per somministrargli una cura antidolore. Comunque di non dirgli mai la verità e di non comunicarla neppure alla sorella. Si dice talvolta che occorre dire sempre la verità al paziente sui suoi malanni, soprattutto quando sono gravi, affinché abbia la consapevolezza di cosa gli stia per capitare e di quali terapie debba affrontare. Il fatto è che se uno deve sapere la verità su una malattia lunga e piena di sofferenze terapeutiche, che comunque si possa concludere positivamente, il discorso potrebbe funzionare. Tuttavia il cancro, così come una marea di altre patologie come il raffreddore o l’influenza, la sclerosi multipla o l’aids, non è curabile se non preso allo stato iniziale e possibilmente in fase operatoria, quando cioè può ancora asportarsi. Ma quando esso è diffuso, non più operabile, la chemioterapia o la radioterapia risultano per lo più inutili accanimenti terapeutici. La tossicità di tali presidi terapeutici crea degli effetti collaterali tali che si allungano inutilmente i tempi di sopravvivenza. La verità era forse ancora una volta quella dello zio Concetto: la medicina non è una scienza ma solo una serie di empirismi controllati! Esistono delle sostanze che danno dei risultati verso certe forme patologiche: si verificano le dosi alle quali tali sostanze sono efficaci e si forma un protocollo d’impiego. Ma se scienza significa conoscenza dei meccanismi essenziali dei fenomeni nella
medicina tali conoscenze sono molto scarse. In realtà non sappiamo come si combattono le forme virali, come si contrasta efficacemente un’artrite o il morbo di Parchinson e mille altre malattie. Insomma siamo alla medicina preventiva che ci dice un sacco di cose che non dobbiamo fare perché non ci sa curare. Forse vorremmo una scienza più esatta che ci permettesse di seguire il principio della gratificazione e che poi provvedesse a curarci veramente quando ci ammaliamo. Comunque lo zio Concetto il giorno appresso, forse proprio perché non era consapevole della sua malattia, era all’officina a scartaminare tra i vecchi scheletri delle biciclette ammassate; diceva che era sceso a mettere ordine perché in tutto quel casino non riusciva a starci più e che si confondeva il cervello. Voleva un ambiente più ordinato e decoroso che non somigliasse ad un casino ambulante. -“ Ogni cosa è quella specifica cosa perché è diversa da tutte le altre ed è diversa perché fa parte di un tutto”! Pertanto ogni cosa al suo posto e ogni posto ad una cosa: altrimenti non capisco più un cazzo. Il casino è come la democrazia: rappresenta l’esclusione”. Lo zio Concetto quella mattina era particolarmente loquace: forse l’aria tetra e formale dell’ospedale lo aveva invogliato ad essere loquace, a trovare una relazione più piena con il mondo e, quindi, a prendere la parola. Noi eravamo molto contenti di rivederlo nello spazio che solitamente occupava. Forse provavamo tutti un senso di tristezza o di angoscia nel vedere quella persona che presto non avremmo avuto più a nostra disposizione, con la quale non avremmo più potuto questionare e prendere in giro. Le cose ci cominciano a mancare quando le abbiamo perdute o sappiamo che dobbiamo farne a meno. Tuttavia, per evitare di cadere nel non detto e di fargli accorgere di qualche differenza rispetto al prima, presimo quella sua frase al volo per cominciare ad irritarlo polemizzando con quell’affermazione. Gli fecimo notare come si era fatto qualche settimana di ospedale ma che tutte le medicine che aveva dovuto fare non gli avevano depurato il cervello: restava sempre azzardato e poco preciso nelle sue definizioni. Che significava che la democrazia è un grande casino e che rappresentava il sistema dell’esclusione anziché dell’inclusione? Egli sconosceva che la democrazia significa governo
del popolo, che era un’invenzione teorica del popolo greco e che un certo Solone aveva scelto, essendo stato eletto arconte e mediatore, di rendere politico un conflitto sociale che, altrimenti, si sarebbe risolto con lo scontro fisico degli appartenenti alla città di Atene. La politica è la scelta della mediazione tra interessi conflittuali all’interno di una comunità sociale e la democrazia è il reggimento da parte del popolo, tramite suoi rappresentanti, delle sorti dello stato. Egli rispose che non sapeva chi era questo fesso di Solone che aveva inventato la politica come forma di confronto e di mediazione tra interessi contrapposti dei cittadini di uno stato; ma soggiunse subito che non sempre tali interessi possono essere mediati e non esserci né vincitori né vinti. Qualcuno ci guadagnerà certamente più di un altro! Prova ne sia che ci sono anche state guerre civili cioè scontri tra cittadini di uno stesso stato. Dunque la politica non è uno strumento sempre valido a risolvere le controversie all’interno di una società. Essa risulta vincente quando ci sono molte risorse che si possono distribuire e questa distribuzione deve essere molto equilibrata, cioè accontentare quasi tutti e deludere solo poche aspettative. “In questo caso la politica funziona – aggiunse altrimenti la mediazione tra interessi contrapposti risulta insufficiente e una delle due parti deve scegliere di imporsi sull’altra attraverso la forza”. “ La democrazia è un grande casino perché pretende di essere il migliore dei sistemi di governo possibili dal momento che le leggi vengono fatte dai rappresentanti eletti dagli stessi cittadini: ma in realtà non è affatto così. Infatti non sono tutti i cittadini a fare le leggi!” Gli fecimo notare che ogni legge non può essere votata da tutti i cittadini. Ci diede una risposta straordinariamente semplice ma non priva di intelligenza pratica. “ Visto che ci sono tutti questi computer con i quali guardano dentro il corpo come se fosse trasparente, che regolano il movimento dei treni e degli aerei, dei soldi che uno tiene nei conti correnti ed un sacco di altre diavolerie, si potrebbero chiamare tutti i cittadini a votare attraverso i computer che ci sono e si potrebbe dare ad ogni cittadino un terminale per votare: questa sarebbe una vera democrazia perché tutti parteciperebbero al voto o potrebbero farlo.” Ma il problema per cui la democrazia non può mai funzionare è che le leggi devono essere proposte e fatte da qualcuno che vuole risolvere i problemi della
società in un certo modo piuttosto che in un altro: per questo si fanno le elezioni e queste vengono vinte da una maggioranza e quelli che perdono formano una minoranza. Il fatto vero, soggiunse, è che i problemi di una società, formata da tanti individui, sono tanti e che solo alcuni si possono risolvere. Lo scarto forma una maggioranza e delimita una minoranza. Se i biciclettisti hanno dei loro problemi particolari e votano per un certo gruppo politico che li rappresenta nel momento in cui tale gruppo si quantifica come minoranza i problemi dei biciclettisti vengono esclusi: nel caso migliore verranno elusi. Allora la democrazia non risulta più il sistema dell’inclusione nel governo dello stato ma piuttosto il sistema dell’esclusione. L’unica possibile democrazia sarebbe quella priva dell’organo governativo. Ma tale sistema sarebbe ingovernabile perché dovrebbe rispondere a moltissimi bisogni con risorse che risultano limitate. La democrazia allora non garantisce a tutti gli individui la loro libertà che consiste essenzialmente nella soddisfazione dei propri bisogni. La democrazia è un modello politico come qualsiasi altro e non è affatto detto, razionalmente, che abbia più possibilità di soddisfare i bisogni della collettività di un altro sistema politico. Forse, continuò lo zio Concetto, il sistema migliore, teoricamente più rappresentativo dei bisogni dei cittadini, è il sistema politico che avevamo fino a poco tempo addietro: il sistema proporzionale. Ma questo è fallito perché aveva un vizio insuperabile: anche un partito piccolissimo poteva influenzare una maggioranza molto più vasta e rappresentativa. L’unica realistica possibilità era quella di obbligare rappresentanze sociali minoritarie ad unirsi in comuni interessi in modo da formare gruppi di consenso percentualmente rilevanti. Insomma creare uno sbarramento percentuale alle varie aggregazioni sociali. Ma anche questo sistema non era preciso perché semplificava artificiosamente il quadro sociale escludendo ancora una volta coloro i quali non raggiungevano la percentuale richiesta. Il problema di noi Italiani, sentenziava, è che siamo rimasti divisi come popolo e come territorio per troppo tempo e che i nostri interessi economici e culturali sono troppo differenti. Insomma, secondo lo zio Concetto, la democrazia come sistema politico non era un sistema che rappresentava gli interessi del popolo e non era un sistema di inclusione degli interessi dei vari cittadini: era un sistema di esclusione per il quale chi perdeva veniva escluso dalle decisioni collettive e dagli indirizzi generali. - “ Se la parte che ha deciso di difendere gli interessi dei biciclettisti perde le
elezioni e si fa una legge contro i biciclettisti, o contro un loro bisogno, succede che questi vengono esclusi dal voto: il loro voto dato non conta più nulla, viene escluso!” E’ per questo, aggiungeva, “che da molto tempo non voto più e che non sono più democratico. Insomma non credo più che qualcuno mi rappresenti e rappresenti bene i miei interessi!” Comunque, dal momento che i suoi interessi erano l’officina ed il caos che vi regnava dentro, decise di continuare a mettere ordine: un ordine che era sempre mancato e che era stato sempre rinviato e che adesso sembrava divenuto improvvisamente importante! Talvolta diciamo che gli animali percepiscono la morte anche se non la capiscono consapevolmente: chissà perché non pensiamo che anche agli uomini possa capitare la stessa cosa.
Cap. XIV
Lo zio Concetto appariva più arzillo ed impipiricchiato che mai. Sarà pure stato il cortisone che gli avevano somministrato, o altre medicine, fatto è che appariva in migliore stato. Soprattutto psicologicamente appariva quello di sempre: non accennava mai al ricovero in ospedale, ai medici strafottenti e agli infermieri scansafatiche. Non parlava neppure del suo cacarello o dei doloretti che doveva avere ogni tanto. Sembrava proprio avere rimosso il problema, non pensarlo più ed averlo accantonato come non appartenente alla sua vita attuale. Rimuovere le cose spiacevoli che ci turbano, o i dolori che abbiamo provato, è certamente una strategia difensiva dalle nostre paure. E tuttavia questo meccanismo è necessario e lo impieghiamo molto spesso nella vita per evitare di restare paralizzati in moltissime circostanze. Sarebbe infatti impossibile prenotarci, o anche solo progettare, le nostre vacanze se immaginassimo i mille fatti negativi che potrebbero accadere: l’aereo che cade, il traghetto che affonda, un nostro grave malore o di un nostro caro, il nostro appartamento svaligiato dai soliti ladri estivi…………. E le altre mille ipotesi negative. Dobbiamo accantonare nei nostri pensieri queste mille eventualità negative e pensare che tutto andrà bene. Le cose che ci fanno male dobbiamo escluderle dalla nostra vita quotidiana ed eluderle altrimenti finiscono per soffocarci e sembra proprio vero che il nostro cervello sia programmato contro la sofferenza attuando strategie dell’oblio per rimuoverla. Parlava in continuazione di tutto e non risparmiava il suo sarcasmo su nulla. Sembrava che volesse dire tutto quello che aveva spesso non detto o di cui si era dimenticato. Ogni tanto taceva come a riprendere il filo di pensieri aggrovigliati e discontinui ai quali cercava di dare un ordine consequenziario. In una di queste piccole pause si girò con gli occhi attorno e guardando i palazzi che sovrastavano l’officina e chiudevano con il loro incombere tutta la via ebbe a dire: “il mondo è tutto costruito in questo modo! Non ci sono più spazi vuoti perché sono riempiti dai palazzi, dalle case che sono abitate dagli uomini; e gli uomini occupano tutto il mondo ed essi non si conoscono. Ciascuno di noi pensa di essere il centro di tutto l’universo o, almeno, della parte di mondo che occupiamo e che le cose che ci capitano sono il centro del mondo. E invece non è vero perché ci sono infiniti centri nel mondo, infiniti palazzi ed abitazioni dove
risiedono enormi quantità di persone che hanno sogni, speranze, dolori e paure e che ritengono di essere il centro del mondo. E nessuno di noi, in questo mondo che abbiamo voluto e costruito e nel quale non ci conosciamo, è così importante che la voce dei propri pensieri e il significato dei propri sogni sia significativa e dica nel fondo qualche cosa. Siamo come la luce nebulosa che osserviamo nel cielo scuro di certi luoghi solitari, lontani dalla luce delle città, che disegna una ipotetica via di luce nel cielo: quegli ammassi stellari, che a noi appaiono come una nebbia, sono costituiti da milioni di stelle ciascuna molto più grande del nostro sole. Sono così enormi che al loro cospetto, ed in proporzione, un punto oscuro e nebuloso appare il nostro sistema solare e la nostra terra. Anche noi, se visti da quei luoghi, dobbiamo apparire come un punto insignificante, evanescente ed indeterminato per la nostra piccolezza. Eppure a noi questa terra appare così grande ed importante. Anzi appare grande ed importante anche il nostro quartiere o la nostra casa, i nostri figli che abitano la nostra casa ed i vicini di casa i cui figli sono amici dei nostri figli. Di fronte alla vera grandezza dell’universo che possiamo osservare e congetturare noi siamo fenomeni così piccoli da risultare praticamente insignificanti: delle apparenze che svaniscono in un battere d’occhio nel respiro dell’universo. Eppure ci crediamo importanti ed i nostri problemi ci appaiono come questioni rilevanti. La morte di milioni di esseri umani non sposta nulla nell’economia dell’universo: e tuttavia noi riteniamo importante anche la morte di un singolo individuo. Questa nostra insignificanza appare subito significativa se pensiamo al fatto che questo universo indeterminato sembra essere lì per qualcuno che lo osservi. Senza un osservatore che si ponga il problema della grandezza dell’universo, e delle leggi che lo fanno vivere, che senso avrebbe quella grandezza infinita e quel vuoto illimitato che può solo immaginarsi e che si riduce ad una indeterminata intuizione psicologica o matematica. Forse l’unico significato dell’universo è quello di essere osservato ed è questo il suo unico fine. Nei palazzi di cui è costituito il mondo ci sono persone che mangiano, si accoppiano e muoiono in un ciclo continuo nel quale le nuove generazioni si sostituiscono alle vecchie e le vite scorrono come centri che si perdono costantemente. Anche i ricordi di queste persone svaniscono e la memoria si riempie di una nebbia opaca nella quale i volti perdono la loro consistenza e specificità. Non sembra restare nulla di certo e determinato in questo fluire incessante della realtà! Il senso profondo dell’esistenza ci scappa continuamente lasciandoci solo la paura del vuoto che ci aspetta e l’angoscia per le risposte opache che non siamo riusciti a chiarire. Può esserci un senso in tutto ciò? O forse questa mancanza di senso è l’unica indiretta conferma che abitiamo questo mondo ma non siamo di questo mondo che è destinato ad accoglierci ma non a contenerci. La disperazione del nulla
oppure la fede in una vita a venire oltre la morte sembrano il nostro destino.” Questi erano i suoi pensieri e le sue sensazioni o almeno il modo come noi eravamo riusciti a tradurli. Sembrava che lo zio Concetto si fosse posto domande e risposte che riguardavano tutta la sua esistenza nel momento in cui questa volgeva al tramonto. Di fronte alla percezione della nostra fine cominciamo ad avere bisogno di risposte e se anche lo zio Concetto non sapeva che stava morendo forse percepiva il desiderio di porsi di fronte alle riflessioni sul significato della propria vita. E fu anche per questo che andò con la sorella alla messa domenicale e che confessò i suoi peccati al prete. E forse perché era andato a messa e aveva sentito il prete dire che l’uomo è polvere e che in polvere terminerà sentì il bisogno di parlarci del padreterno. Cominciò ponendosi una domanda che era anche un invito ad esporre il nostro parere. Diceva sempre che lui non aveva potuto studiare e che gli piaceva parlare con quelli che avevano studiato più di lui perché poteva parlare di cose interessanti sulle quali non aveva potuto riflettere perché era stato sempre troppo impegnato a procurarsi da vivere e, quando uno lavora per mangiare, non ha il tempo di porsi certe domande. Adesso voleva discuterne. Disse che non si era mai reso conto del perché ci sono persone che nascono in famiglie ricche, dove tutti sono dottori, avvocati, notai: insomma persone importanti e altolocate! Altri invece nascono in famiglie povere, senza istruzione e devono magari lavorare tutta la vita in modo umiliante al servizio degli altri e con mille tribolazioni di salute: alcuni costruiscono le case per altri e per loro non possono mai avere nessuna casa; oppure fare i ladri e finire in galera; o andarsene dalla propria nazione e abbandonare per sempre le cose che sono care e rassicuranti. Insomma perché a chi tanto e a chi niente: chi decide se uno avrà la vita più facile oppure più difficile? Chi decide chi nascerà in uno sperduto villaggio africano e morirà a pochi anni di vita per denutrizione oppure in un ricco paese dell’Europa occidentale e diventerà obeso? E tra coloro che nascono nei paesi dell’Europa perché ci sono persone che muoiono a centosei anni e chi invece muore di cancro a sedici? Per quale motivo ciò accade: vi è un progetto munito di senso dietro tutto questo apparente casino oppure è tutto frutto di una pura casualità? Gli rispondemmo che aveva fatto una domanda troppo pretenziosa e che nessuno di noi aveva la risposta sicura. Anche le conoscenze più condivise come le così dette scienze esatte non hanno molto spesso risposte complete ed univoche alle loro domande. Figurarsi nel campo dell’esistenza umana dove due più due fa
sempre un po’ più o un po’ meno di quattro! Forse si poteva rispondere solo indirettamente. Attaccammo il discorso partendo da lontano: ci sentivamo impegnati moralmente a dare risposte confortanti, anche se non esaustive, allo zio Concetto. Se pensiamo che l’universo è libero dobbiamo dedurre che esso è casuale, vale a dire che le cose accadono senza un ordine prestabilito e necessario. Vi sono, compaiono tuttavia, delle leggi che hanno una loro regolarità ed è possibile tramite queste prevedere certe condizioni future. Possiamo così pensare che una sigaretta che cade dalla bocca mentre la stiamo fumando cadrà a terra. E questo avverrà sempre, immutabilmente! Ma quando scendiamo al livello più piccolo della materia, ad un livello sempre più microscopico, fino alle parti costitutive più essenziali della materia, le leggi della fisica si trasformano. Vi è come una indeterminatezza a cogliere realmente gli stati di fatto della materia stessa perché l’osservazione altera le condizioni della realtà osservata. Anche il livello dell’osservazione macroscopica, come quella del nostro universo, ci pone di fronte alla necessità di rivedere le certezze del campo di osservazione medioscopico e a rivedere le nostre teorie. Ciò significa che anche le certezze nelle leggi fisiche dipendono dal posto che occupiamo nella natura e che dobbiamo spesso fare riferimento a quel luogo per avere delle certezze. Se sulla terra la sigaretta che cade dalle dita precipita a terra; sulla luna cadrà molto più lentamente. Un’ enorme stella di un’altra galassia che transita vicino ad un buco nero viene da questo risucchiata e muore come qualsiasi piccola creatura predata da un’altra più grande. Dio gioca a dadi nell’universo. Non diversamente sembrano andare le cose nel campo umano. Ciascuno di noi si viene a trovare in un certo spazio e in un certo tempo. Tale spazio e tale tempo è costituito dalle coordinate della realtà che ci circonda: quella famiglia, quelle persone, quel quartiere, quella nazione, quel dato periodo storico. La nostra visione del mondo, il modo con cui lo acquisiamo facendone esperienza ed interpretandolo, cambia in rapporto a dove ci troviamo: se siamo in un quartiere pieno di palazzi, con ristoranti, pizzerie e sale da ballo, immagineremo una realtà fatta con ristoranti, palazzi, sale da ballo e pizzerie; se nasciamo in un ambiente ostile e molto naturale, ad esempio una savana o un deserto africano, penseremo ad un mondo fatto da una natura ostile dove anche sopravvivere è un’impresa ardua e dobbiamo accontentarci di poche cose da consumare. Dunque l’immagine del mondo varia a seconda delle coordinate spaziali e temporali nelle quali ci veniamo a trovare. E tali coordinate sembrano essere a tutti gli effetti casuali. Qualcuno ha anche scritto che il mondo è solo “una mia
rappresentazione” e che il mondo, così come è veramente, essenzialmente, non lo conosceremo mai perché noi possiamo vederlo solo con i mezzi che abbiamo ed inoltre subiamo il condizionamento dell’ambiente e del periodo storico che viviamo. Allora, disse per nulla soddisfatto lo zio Concetto, non esiste alcuna legge, non c’è nessun progetto per le persone di questo mondo! Tutto avviene per puro caso e niente è scritto! Dio gioca agli scacchi con regole che mutano incessantemente e che non sono causali. Gli risposimo con molta flemma che aveva fatto una domanda difficile, di quelle da un miliardo di dollari e che nessuno aveva una risposta pronta e sicura. Potevamo solo discutere e vedere se le conclusioni a cui potevamo giungere erano o meno condivisibili, munite di un qualche senso logico che rispettasse i fatti attorno a noi. La casualità con cui veniamo a cadere nel mondo può non contenere nessun progetto: ma ciò non esclude che potrebbe, tale casualità, essere il progetto. E tale progetto potrebbe prendere il nome di libertà. Lo zio Concetto, grattandosi un’orecchia con l’unghia più lunga del dito mignolo, rispose che stavamo a prenderlo per il culo approfittando della sua ignoranza e credendolo un rincoglionito: “nessuno può credere che il casino sia una forma di ordine; nessuno è tanto cazzone da pensare che la tegola che gli è caduta in testa sia un ordine del disordine possibile. Se volete darmi a bere minchiate sceglietevi un’altra giornata che questa mi va storta”. Le argomentazioni sofisticate urtavano sempre la logica del concreto dello zio Concetto. Gli dissimo senza troppe delicatezze, facendolo anche a posta per sdrammatizzare la serietà del discorso e la delicatezza del momento, che avevamo sempre evitato di discutere con lui di certi argomenti perché era incapace di andare al di là delle apparenze: “se uno è incapace di discutere è inutile rompersi il cazzo a parlare di cose serie. E’ meglio farsi sistemare la bicicletta”. La nostra provocazione andò a segno perché cominciò subito a sbraitare i suoi soliti improperi contro la penna, i libri, i padri che mandano inutilmente i figli a scuola, i cicloamatori scrocconi, perditempo ed in particolare quelli intellettuali che fanno incazzare un povero vecchio che non ha potuto studiare. Fummo
contenti di questa sua arrabbiatura perché significava che il suo umore tornava alla normalità. “Zio Concetto, solo un universo casuale, dove esiste un certo bordello, può essere libero: vi possono cioè accadere fatti di tutti i generi. E se nel mondo accadono fatti di tutti i generi quel mondo è libero: uno nasce in Africa e muore a sei anni di fame e un altro nasce in Italia e campa centosei anni.” “ Se ammettiamo per un attimo che le cose del mondo nascono da questo bordello- rispose lo zio Concetto- noi uomini che facciamo progetti della nostra vita e che riusciamo a concluderne parecchi di questi progetti, che funzione abbiamo?” Appunto quella di potere modificare la realtà che ci sta attorno tramite la nostra intelligenza: ci sono palazzi, bar, pizzerie, biciclette e mille altre cose, ed il nostro mondo è tutto costruito, perché noi esseri umani abbiamo inserito un nostro ordine, un nostro progetto, nel disordine casinistico della natura. Se la realtà intorno a noi fosse stata tutta ordinata e chiusa in un progetto già dato noi non saremmo potuti intervenire mettendocene un altro; se la realtà è aperta possiamo metterci dentro ciò che vogliamo. Il paradiso terrestre era tutto organizzato tranne che per un albero: abbiamo assaggiato il frutto proibito della libertà ed abbiamo scelto, in qualche modo, di essere trasferiti in un universo tutto da costruire e, per questo, più faticoso e rompicoglioni! Ma si sa che la libertà ha un costo elevato ed è una grande responsabilità. L’universo è libero e casuale perché possiamo modificarlo come vogliamo: l’indeterminazione delle leggi naturali, lo spazio lasciato libero per un ordine diverso, permette una nostra libertà di azione. “E cosa significa allora essere liberi: nascere in Africa e morire di fame a sei anni oppure nascere in Italia e potere campare fino a centosei anni?” insistette lo zio Concetto! Ma c’è giustizia in tutto questo? Ma che cazzo me ne faccio di un universo libero se poi nasco in Africa? Meglio un universo predeterminato dove posso nascere in Europa e non crepare di stenti a sei anni, quando non mi rendo manco conto del perché sono campato e del perché sto morendo.” Il discorso è magari giusto. L’unica risposta potrebbe essere che siamo solo degli osservatori di aggio destinati ad altro; forse a concludere un progetto lasciato aperto apposta, risposimo allo zio Concetto. La libertà non è solo una
condizione per la quale tutto è possibile. La libertà è anche un costo ed un impegno, un rischio e la necessità di progettare la nostra vita, di fare scelte. Oppure di non farne perché anche non fare scelte e lasciare che le cose vadano in un certo modo significa fare delle scelte, modificare le cose che ci circondano! - “Mi sapreste fare un esempio concreto visto che avete studiato tanti libri”? - “non è facile per nessuno, manco per uno che ha studiato un milione di libri ,dare risposte semplici e sicure: la libertà si realizza, per noi uomini, nelle infinite possibilità di vita che sono offerte a ciascuno. Noi abbiamo veramente infinite vite possibili. - “che significa che abbiamo infinite vite possibili? Io ho la mia come voi avete la vostra; ogni uomo ha la sua ed è stato e sarà sempre così! - “Ciascuno di noi ha una propria vita questo è vero. Ma è vero dopo! Prima di averla in un certo modo essa è tutta da progettare, da venire; poi la indirizziamo e facciamo dei progetti. Qualcuno si realizza ma molti altri no. Scegliamo alcune cose e indirizziamo in modo imprevedibile gli avvenimenti. - Sarebbe? Disse più interessato lo zio Concetto. - Andiamo ad una festa da ballo ed incontriamo una femmina che ci inguaia con i suoi occhioni azzurrissimi. A quella festa ci hanno magari invitati all’ultimo momento e magari avevamo progettato di andarcene al cinema o a farci una camminata serale con la bicicletta. Oppure, viceversa, dovevamo incontrare quella tale donna ad una festa alla quale ci avevano invitato un mese prima ed invece non la incontreremo mai perché, eggiando in bicicletta, siamo cascati e ci siamo rotti un piede! Ebbene da quelle diverse circostanze, fortuite ed occasionali, ci siamo costruiti diverse esistenze che prima di verificarsi erano tutte possibili con una marea di altre conseguenze che nel mondo si sono o non si verificheranno mai.
Insomma la liberta si realizza nelle infinite possibilità di vita che sono offerte a ciascuno di noi. Ecco perché noi abbiamo infinite vite possibili delle quali si verifica una soltanto che conosciamo dopo: quando questa è avvenuta. Solo alla fine della nostra vita possiamo sapere veramente che quella è stata la nostra vita: non si è infatti realizzata nessun’ altra!
E proseguimmo: “zio Concetto cosa sarebbe successo se non fosse andato in Germania a lavorare per quindici anni? quante situazioni che si sono realizzate non sarebbero mai avvenute; ed a tutte quelle che, invece, si sarebbero realizzate! Alle persone, comprese le femmine vogliose, che avrebbe potuto incontrare qui in Italia in quei quindici anni. Chissà se forse non si sarebbe anche sposato e non avrebbe fatto figli e nessuno avrebbe potuto dire che lei “è monaco”, cioè con poca minchia. Lei non può dire che non si è voluto sposare: non le è capitata la vita nella quale si poteva sposare perché avrebbe incontrato quella gran buttana che gli faceva perdere la testa e lo inguagliava. E forse questo è capitato perché lei ha deciso di andare a lavorare in Germania. Viceversa avrebbe avuto un’altra vita, incontrato altre persone, fatto altri sogni e altri progetti.” Certo il progetto iniziale dovrebbe essere qualche cosa di irrazionale che possiamo chiamare amore; qualcuno ci vuole qui e in questo mondo: perché è nato lei e non una bella donna può essere spiegato solo con un atto arbitrario. Ma perché qualcuno ha vissuto meglio di lei, ha avuto bellezza, salute, intelligenza e tante altre qualità e fortune che lei non ha avuto, questo è frutto della libertà, di quell’intorno di casualità bordellosa che si chiama libertà. Nessun gesto d’amore potrebbe giustificare i suoi limiti, o le sue sofferenze, se non lasciando aperte le porte di un’estrema libertà di scelte che lei ha fatto personalmente costruendosi in un certo modo la sua vita e scegliendo liberamente in un universo casuale. Sarebbe ben strano e comunque incomprensibile qualcuno che decida come gesto di amore nei nostri confronti di farci nascere per la sofferenza ed il dolore, pretendendo inoltre che ci stiamo pure bene. Il progetto è solo nel desiderarci, nel volerci all’essere e nel lasciarci liberi di progettarci come vogliamo. “Comunque sia andata l’unica vita che ho avuto è questa, rispose lo zio Concetto. Non è stata molto bella ma è l’unica che conosco! Se potevo farne altre non lo so: sono sicuro che ho fatto questa. E questa è ata rapidamente, senza che me ne rendessi veramente conto, rompendomi i coglioni appresso i cicloamatori, facendomi un pugno di fottute e combattendo con le mie sorelle e quei cornuti dei miei nipoti. Comunque devo dire che se la mia vita non è stata molto bella non è stata sempre brutta. Ho avuto le mie sorelle che mi hanno anche voluto bene; ho avuto degli amici che mi sono venuti a trovare all’ospedale e che mi fanno compagnia; e ho conosciuto delle donne che mi hanno dato qualche gioia e mi sono sentito libero quando ho camminato in bicicletta in certe giornate nelle quali il cielo era azzurro ed il mare era calmo ed infinito. Nella vita non si può avere tutto e il contrario di tutto. Me ne sono
andato a lavorare in Germania perché non volevo sempre stare a combattere con la fame: altri miei amici sono rimasti qui. Io sono andato via e forse per questo non ho trovato moglie e mi chiamano monaco. Ma non sono rimasto zitello perché ho poca minchia: questo lo pensano quelli che non sanno che gli ho messo le corna con le loro sorelle e quelle buttane delle mogli.” Il soprannome lo aveva fatto incazzare non poco e come al solito prendeva un atteggiamento polemico e di rivincita verso gli altri. E questo ci rassicurava che ancora lo zio Concetto era pienamente se stesso e che la chemioterapia non aveva fatto nessun effetto sul suo morale. E comunque, oltre ai medicinali che gli avevano somministrato durante il ricovero, non aveva più preso nulla. Tuttavia aveva assunto un colorito strano: sembrava marrone chiaro, olivastro, di una cromia poco definibile.
CAP. XV
Anche se talvolta non sembrava convinto di ciò che dicevano gli altri e polemizzava anche in modo fine a se stesso, tuttavia poi tornava a riflettere sugli argomenti che erano stati discussi. Lo faceva anche per darsi delle arie, per non farsi sminuire davanti a quelli che avevano studiato e dimostrare che anche chi si fonda sull’esperienza della vita certi problemi li capisce e si riesce in qualche modo ad orientare. Disse che voleva vederci tutti appena fosse stato possibile ed anzi soggiunse se potevamo vederci di sabato sera al bar della Barriera dove si giocava le sue schedine che erano uscite molto raramente. Ci fece sapere che voleva giocare una schedina supercazzolata con noi tutti. Era piuttosto complicato spiegare agli amici del sabato sera, oppure alle famiglie, che quel sabato saremmo dovuti andare al bar con lo zio Concetto. Tuttavia, data la situazione, decidemmo tutti di aderire: forse non sarebbe capitato mai più di giocare una schedina con lo zio Concetto e quella, l’ultima, poteva anche essere quella fortunata. Almeno per noi che restavamo. Era seduto nell’affollatissimo locale bar ed aveva lasciati occupati per noi alcuni posti del tavolino. Il locale era molto affollato perché oltre al servizio bar vendeva anche tabacchi e faceva giocate del totocalcio e dei vari concorsi pronostico che si fanno da noi in Italia e con i quali speriamo di arricchire una volta per tutte. Chissà perché pensiamo sempre che se vinciamo la schedina o il superenalotto tutti i problemi della nostra vita scomparirebbero? In fondo sappiamo tutti che il denaro non toglierebbe tutte le nostre insicurezze. Non certo quelle legate alla sofferenza ed alla morte! Talvolta diventerebbe esso stesso fonte di divisioni, rancori ed inimicizie familiari o amicali. E tuttavia l’idea di possedere tanto denaro da non doverlo contare è fascinosa perché ci permetterebbe l’acquisto di oggetti gratificanti della nostra sociocultura: avremmo tanti giocattoli da permetterci di giocare per sempre e senza limitazioni. Una vita senza limiti immediati: fatta da una realtà sempre diversa con tutti i tempi vuoti riempiti e piena di mille cose da vedere da toccare e da fare. Una realtà da potere sempre inventare e superare con i desideri della
nostra immaginazione resi possibili e concreti. Visto che tutto ha un prezzo posso comprarmi qualsiasi cosa e sentirmi onnipotente. Questo è forse il desiderio di una ricchezza grande quanto le nostre immaginazioni. O più grande ancora. Sappiamo comunque benissimo che non è vero che tutto si possa comprare e che qualsiasi desiderio esaurito non né faccia nascere un altro lasciandoci sempre insoddisfatti di qualcosa che è sempre più avanti. Da qui l’insieme dei detti per cui “se i soldi non fanno la felicità figuriamoci la miseria” e che, comunque, “se la ricchezza non permette la felicità aiuta a stare più tranquilli”. Non è da scartare l’idea che il denaro e l’idea del benessere in generale è legata alla storia della nostra evoluzione culturale: solo da pochi decenni la sicurezza di poterci sfamare adeguatamente, di coniugare il pranzo con la cena, si è determinata nella civiltà occidentale. La pochezza dei beni e della loro produzione ha sempre costituito una grande aspetto di precarietà della nostra vita. Abbiamo sempre bisogno di sicurezze, almeno parziali, per fronteggiare i meccanismi aleatori che costituiscono lo sfondo della nostra esistenza. Il denaro rappresenta questa rassicurazione fittizia facendoci apparire la vita come un giuoco. E il giuoco è spontaneità, immaginazione, interruzione della contrapposta serietà del lavoro, scelta di tempi e di desideri, interruzione della realtà limitata alla quale siamo costretti. Per altro, ma forse anche per questo, quella sera eravamo al bar a giocare la schedina cazzuta con lo zio Concetto. Seduto al tavolino si stava godendo una delle sue sigarette puzzolenti. Diceva che non avrebbe smesso di fumare neppure in punto di morte perché il fumo “è il più bel vizio del mondo insieme al vino”. Era comunque altrettanto convinto che, come occorre bere vino buono e non sofisticato , così bisognava fumare sigarette con il buon tabacco nero e non conciato. Ricordava che un tempo, molti anni addietro, vi erano sigarette molto forti e puzzolenti, senza filtro. Diceva che con quelle sigarette non aveva mai avuto un colpo di tosse e non gli pizzicavano mai la gola. Quante belle serate aveva ato in compagnia di quelle sigarette dopo avere fatta una bella mangiata di pesce e una lauta bevuta di vino. E quanti bei momenti aveva trascorso in loro compagnia mentre pensava liberamente le sue fantasticherie giovanili o le sue preoccupazioni per il lavoro o per i soldi che da giovane non aveva mai posseduto. Insomma considerava le sigarette come le migliori compagne della sua vita e odiava il ministro della salute che voleva proibirle. Diceva spesso che era un figlio di puttana perché, essendo il tale medico, anziché pensare a proibirle non pensava a studiare il modo di curarne gli
effetti nocivi: “è mai possibile che tutte le cose che piacciono ad un povero cristo di uomo devono fare male e quei cornacchioni dei medici devono proibire tutto ciò che piace e che conforta? Ma perché non studiano i mezzi per guarire le persone piuttosto che rompergli i coglioni con i divieti?” La verità, secondo lui, è che anche i medici sono gente che ha studiato cose teoriche, non abituate a risolvere problemi della pratica e che preferiscono prendersi lo stipendio piuttosto che fare veramente il proprio lavoro e ricercare farmaci nuovi per le vecchie dannate malattie. Anche i medici erano dei mangiapane a tradimento, dei scriviricette del vaffanculo e scrocconi matricolati come i cicloamatori. Gente inutile, insomma. Ci accolse chiedendoci se avevamo portato dei soldi perché il suo sistema risultava piuttosto costoso. Lo aveva elaborato già da alcuni anni ma non aveva mai provato a giocarlo perché molto costoso per una singola persona. Con aria saccente ci invitò a bere un caffè perché dopo ci avrebbe spiegato il suo sistema di giuoco. Almeno, disse, avremmo imparato qualche cosa di utile per le nostre inutili vite. Cominciò da lontano dicendoci che tutte le partite comportano due risultati: la vittoria di una squadra sull’altra o il pareggio delle due squadre. Se vince la prima squadra si usa il segno uno; se vince la seconda squadra si adopera il segno due; se entrambe le squadre fanno lo stesso punteggio si usa il segno X per indicare il pari. Borbottando gli dissimo di andare al sodo perché queste cose le sapevamo benissimo! “Orbene, continuò soddisfatto di prendere una volta tanto le direttive del maestro, se alla vittoria della prima squadra diamo il valore numerico di due, al pareggio diamo il valore di zero, e alla vittoria della seconda squadra diamo il valore uno, ci accorgiamo che tutte le schedine vincenti realizzano un numero compreso tra l’undici ed il diciassette! Raramente, molto raramente, il valore complessivo si discosta da questa oscillazione. Dunque la schedina che contiene il pronostico deve contenere questi valori!” Guardammo lo zio Concetto con una certa ammirazione e gli dissimo: “ Se lei avesse studiato avrebbe fatto molta strada”. E tuttavia obiettammo che le colonne del totocalcio da giocare che entravano come risultato in quella gamma di oscillazione dovevano essere moltissime: migliaia! “E’ vero. Ma ho pensato che il campo di oscillazione può essere ristretto e che
comunque i pareggi sono in media tre per le schedine vincenti e i risultati con il due sono relativamente pochi. In linea di massima in una schedina vincente ci sono cinque - sette risultati di vittoria della prima squadra, due o tre della seconda squadra ed il rimanente sono pareggi.” “Comunque zio Concetto restano sempre un sacco di incognite e le schedine da giocare sono sempre un’enormità” gli fecimo notare; inoltre le schedine che prendono un sacco di piccioli sono sempre anomale, contengono risultati non prevedibili! “ Comunque esistono anche i sistemi ridotti: certo bisogna azzeccare sempre i risultati fondamentali, quelli scontati! Ma in questo modo abbiamo più possibilità” E vada! Ma lei ha già preparato qualche cosa per questa settimana? Egli ci fece un cenno affermativo e ci spiegò quali risultati di base aveva scelto, come aveva distribuito i due ed i pareggi e quale sistema di riduzione aveva scelto. La spesa complessiva non era comunque apocalittica soprattutto per essere divisa in otto. Venivano circa ventidue euro a persona. Acconsentimmo decisi a sfidare la sorte e ad accontentare lo zio Concetto. Lui ci chiese soltanto di non pensare a problemi politici fino l’indomani sera, a risultati conclusi. Noi mostrammo di non capire ed egli, portandosi il dito alle labbra per intimarci il silenzio, disse che bisognava a tutti i costi evitare di nominare l’innominabile iettatore: se fosse successo casualmente parlando di politica non avremmo avuto alcuna probabilità di successo. Quella sera la nostra sfida alla fortuna fu concretizzata anche se con parecchio scetticismo e molta ironia. Dissimo infatti allo zio Concetto che se vincevamo con il suo sistema gli avremmo fatto rilasciare una laurea in schedologia calcistica e minchiatologia comparata. Avrebbe potuto lasciare definitivamente l’officina, i cicloamatori scrocconi e dedicarsi all’insegnamento delle schedine calcistiche presso la stessa università, oppure al Coni. Insomma sparammo tanti di quei paroloni che lo zio Concetto ebbe l’impressione che dicevamo cose vere anche se un po’ esagerate. Anche questa possibilità di giocare con lui ci faceva stare bene perché le persone semplici sono spesso capaci di dare felicità agli altri. O comunque di farli sorridere per un attimo. E comunque sorridemmo molto di più la sera della domenica perché avevamo finalmente vinto!
Non certo una gran cifra. Avevamo totalizzato infatti quattro dodici in diverse colonne e la società dei giocatori era composta da otto elementi! Dunque una vittoria di Pirro perché la cifra da dividere sarebbe stata veramente esigua. Tuttavia ci sentivamo ringalluzziti e di ottimo umore perché eravamo riusciti a sconfiggere la iella, la monotonia del quotidiano ed eravamo anche riusciti a fare sorridere lo zio Concetto. Comunque presimo nota che quel sabato sera non avevamo parlato di politica e non avevamo nominato l’innominabile! Che lo zio Concetto avesse ragione? Mah solo il Padreterno sapeva la vera verità.
Cap. XVI
Il giorno dopo lo zio Concetto ci comunicò esattamente l’ammontare della nostra vincita: ciascuno di noi doveva avere ottocento euro! Infatti i dodici realizzati erano cinque e non quattro. Aggiunse che data la somma potevamo permetterci una lauta cena a base di pesce in una discreto locale nel porto che lui conosceva perché il proprietario era un suo lontano parente e, tra l’altro, anche cicloamatore. “Dal momento che mi sento discretamente bene con lo stomaco, non ho dolori e la nausea la sento appena, mi voglio fare una bella mangiata di pesce con il vino rosso nuovo. Mi piace il vino nuovo perché allappa e condisce benissimo il sapore forte del pesce. Mio padre diceva sempre che se uno deve morire lo deve fare con la pancia piena: così resta soddisfatto lui ed anche i vermi che se lo ammuccheranno. Povero mio padre: è morto come una sucasimmula ed è rimasto scontento lui e i vermi che hanno trovato solo le ossa.” Stabilimmo che avremmo definito la data di questa mangiata di pesce e che comunque conveniva farla a metà della settimana quando il locale non è troppo pieno: “Quando ci sono troppe persone c’e fudda e mala vinnita; e meglio andare quando le persone sono poche ed essere serviti meglio.” Concordammo tutti con la sua idea: quando nei locali ci sono troppe persone il rischio è che si venda male, o nel nostro caso, che si sia serviti frettolosamente e si mangi poco. L’appuntamento fu fissato per mercoledì della settimana successiva perché in quel frattempo avremmo incassato la cifra vinta. Ma dopo un paio di giorni lo zio Concetto fece a tutti noi una telefonata nel suo stile. Ci disse che aveva cambiato idea, che non voleva aspettare una settimana per sbafarsi il pesce e bersi il vino nuovo e che, per non avere debiti con nessuno, ci avrebbe anticipato di tasca sua le somme che avevamo vinto al totocalcio. Poi lui avrebbe incassato tutto dopo! Restammo stupiti di questa sua generosità pelosa ma accettammo di andare a cenare il venerdì. Il locale era molto caratteristico perché si trovava dentro il porto. Un porto è
come la stazione ferroviaria: gente che va e gente che viene; gente che si muove e va chissà dove o gente che viene da chissà dove. Che persone sono; cosa provano ad essere lontani da casa; cosa pensano del mondo, della loro vita, della vita degli altri. Preferirebbero forse quella di un altro perché ritengono che sia più bella, più piena e con meno fastidi. Mah! Nessuno sa cosa pensano gli altri che si muovono, che vanno e che vengono e che pare non si fermino mai. Forse pensano quello che pensiamo noi e si lagnano dei guai che hanno. O sono solo altre forme di vita, altri racconti che si spezzano e si ricostruiscono, che sperano che domani qualche cosa cambi e che si accorgono che, da qualunque parte dell’universo si trovano, la speranza che la vita, almeno quella che fugge davanti a loro, abbia un senso ed una finalità è un fatto vuoto, una speranza senza risposta. Talvolta è piacevole camminare senza porsi troppe domande o semplicemente ignorandole. Nel locale si respirava un misto di odori di cibi. Quello che sovrastava tutti gli altri era certamente l’odore forte del pesce fritto. Lo zio Concetto appariva in buona forma fisica ad eccezione di quel colorito terreo, che oscillava dal pallido al marroncino. Aveva anche la parte bassa dello stomaco, l’intestino, che appariva più rigonfio del solito. Si lamentò subito del fatto che l’officina in quel periodo non rendeva nulla: “resto aperto solo per accentrare le ruote di quegli sfaticati dei cicloamatori! Camurria a loro e alle loro fissazioni che ci debbo andare di mezzo io ed il mio portafoglio”. Disse poi che gli piaceva molto il pesce e che ne avrebbe mangiato sempre in grandi quantità se non fosse stato per quei ladri dei pescivendoli che davano poco ai pescatori ma che si strafottevano un sacco di utile. La solita storia: chi lavora e si fa un culo a cappello di parrino vive male; chi vive bene è chi approfitta del lavoro altrui raccogliendone i frutti. Lui non aveva approfittato di nessuno ed aveva vissuto del suo lavoro. Ci disse che quando era molto piccolo era andato qualche volta a lavorare sulla barca di un cugino di suo padre che faceva il pescatore ma che quel lavoro era stato troppo pesante perché soffriva il mal di mare e perché si guadagnava pochissimo e si lavorava come le bestie. Disse comunque che era un lavoro bellissimo quando il mare era calmo e la terra scompariva all’orizzonte: il silenzio metteva quasi paura e solo la compagnia degli altri sulla barca dava coraggio. Con atteggiamento perentorio e decisionista disse che voleva mangiarsi delle
triglie fritte, dei ricci di mare crudi e degli occhi di bue arrostiti. E che voleva del vino rosso nuovo. Voleva anche un piatto di pasta con le vongole giganti ma che voleva prenderla dopo il pesce, come secondo piatto. Soggiunse che se avrebbe dovuto lasciare qualche cosa voleva almeno che fosse la pasta e non il pesce. Fecimo le ordinazioni e poi ci accendemmo le sigarette mentre lo zio Concetto esclamava: “in culo al governo”! Fu un pasto memorabile per qualità e per quantità. Anche il vino era stato ottimo ed abbondante. Il vino rosso si sposa benissimo con il pesce! Alla faccia dei così detti intenditori. Uscimmo dal locale e l’aria marina del porto comunicò il salmastro al nostro olfatto. Pieni di cibo e di vino decidemmo di fare due i lungo i moli. Lo zio Concetto si muoveva con una buona scioltezza per avere ingurgitato tutto quel vino; si portava comunque la mano allo stomaco di tanto in tanto con un’espressione di sofferenza. Credo che in quel momento, proprio per quel suo atteggiamento volutamente superficiale e strafottente ma velato da una sofferenza che oscillava tra la paura e la rassegnazione, capimmo che egli aveva la percezione di stare per morire. Il suo eccessivo interesse per argomenti che solitamente evitava o criticava come inutili era una indiretta ma sicura conferma di tutto ciò. Guardò la mezza luna che splendeva chiara nel cielo e disse: “chissà se dietro quella luna, dopo quelle stelle che luccicano così lontane da sembrare una nebbia sparsa per l’universo, si nasconde qualche altra forma di vita, ci sono altri modi con cui la vita si manifesta? Oppure se tutto inizia e finisce in questo mondo e siamo delle meteore senza né tetto né ordine che transitano e finiscono per sempre? Mah! Forse è vero quello che dite: potremmo saperlo solo quando tutto ciò finirà; quando la vita finisce sapremo la verità! Ma in fondo cosa siamo noi uomini; che cosa significa la nostra esistenza; che cosa è ogni singolo uomo e perché siamo costretti ad uscire dal grande nulla ed a nascere e poi avere tanta nostalgia quando dobbiamo uscire di scena con il peso delle nostre sofferenze. Quanta sofferenza e quanto dolore vi è nella vita di ciascuno di noi ed in quella degli altri, quanto male facciamo e quanto ne riceviamo: il dolore ed il male sono acquattati dietro ogni incrocio, la storia è piena di cattiverie e violenza, di morte e di aggressività. Il bene, le buone azioni e le cose che portano felicità, è poco ed effimero e scompare subito. Questo mondo sembra proprio una battaglia che non finisce mai.” Questi furono i suoi pensieri.
“ Zio Concetto non è facile, con tutto questo vino in corpo, prendere in considerazione queste domande serie! Ma visto che ogni tanto vuole fare discorsi seri ed il suo animo rozzo stasera è ingentilito dal vino, proveremo a discutere mentre continuiamo a eggiare per potere digerire”. “Non ho l’animo rozzo: caso mai ce lo hanno le vostre mogli e le vostre sorelle! Ma voglio sentirvi parlare; una volta tanto approfittatene perché voglio sentire la voce di qualcuno che ha studiato più del sottoscritto, che forse ha avuto la fortuna di avere più tempo per potervi riflettere piuttosto che pensare a coniugare il pranzo con la cena”. “Innanzi tutto, zio Concetto, avete detto bene dicendo che questo mondo sembra un campo di battaglia! Sembrare non significa essere! In secondo luogo noi siamo creature che provengono dalla natura: e siamo incompleti perché possiamo diventare tante vite, tante storie diverse, fare tante strade diverse a seconda delle nostre scelte che sono libere perché ne avremmo potuto fare altre e cambiare le regole del giuoco. Solo una regola non possiamo cambiare: ed è il fatto che siamo mortali, che la nostra vita deve finire. Può durare più a lungo o meno: ma deve finire! Noi siamo creature mortali perché sappiamo che dobbiamo morire. Gli antichi Greci lo sapevano e quando denominavano l’uomo questo significava mortale. Il gatto della sua vicina di casa non è mortale perché non sa che la sua esistenza dovrà interrompersi: pertanto non è mortale. Il nostro essere mortali condiziona la nostra esistenza, in qualche modo la determina. - “In che modo la determina”- chiese lo zio Concetto mentre continuava a massaggiarsi lo stomaco e si accendeva un’altra sigaretta bofonchiando “in culo a Sirchia”. “Ebbene, tutte le cose che facciamo quando siamo vivi, come lavorare, mangiare, fottere, andare al cinema o andare a mangiare il pesce e parlare con gli amici o firmare un mutuo ventennale per acquistare una casa, sono forme di resistenza alla morte, sono modi con i quali resistiamo all’idea della morte contrapponendo il fare, il riempire la vita, all’ineluttabilità della morte. Il problema, non essendo eludibile, ci costringe a fare e a dire del fare, che sono racconti che bloccano in qualche modo la vita stessa resistendo al terrore dell’aldilà, all’ancestrale paura dello sparire come identità personale” “ Io voglio parlare della vita perché sono convinto di averla finita, di averla tutta consumata. Sono convinto di morire e voglio parlare della vita e di un racconto
possibile oltre questa. Non ditemi che sono pazzo o iettatore come mi ha detto mia sorella. Lo sento come sento questo dolore continuo alle budella che non mi permette di dormire più la notte. Non mi fa più male un posto: è tutta la pancia che mi duole; comprese i coglioni ed il culo; e non caco più da parecchi giorni”. “ Zio Concetto se lei per caso, come minchia dice, sta morendo, non sta morendo perché è malato: muore perché è vivo! Se fosse immortale, se non dovesse morire mai, non avrebbe il desiderio di parlare di un’altra forma di esistenza dopo la morte. La vita è oscillazione, insicurezza, precarietà; essa si sviluppa come tentativo di sostituire una qualche sicurezza alla precarietà che ci circonda. Dopo la sua morte il suo io o, come lo chiamiamo più normalmente, la sua anima, potrebbe avere una forma di esistenza diversa. Dovrebbe infatti vivere per sempre, avere l’immortalità e questo la porterebbe a non avere insicurezze ed oscillazioni. Ma questa non è la vita come la sperimentiamo tutti noi dal momento che questa è sempre un’oscillazione tra possibilità di dolore e di gratificazione, di momenti belli e di altri dolorosi o inutili. Se dopo la vita vi è un altro tipo di esistenza questa non è la vita: è un’altra cosa! Per questo, morendo, si ha nostalgia di quel sistema di insicurezza che è la vita. Che strano: quando siamo vivi vorremmo certezze rassicuranti; quando stiamo per morire abbiamo nostalgia di quella precarietà. Dovremmo andare contenti verso la stabilità di un’esistenza eterna e vorremmo una vita precaria. Il fatto vero è che non abbiamo nessuna certezza, se non il desiderio di volerci credere, che esiste, oltre la morte, una qualsivoglia forma di esistenza che ci garantisce individualmente.” “Ma perché possiamo pensare che esiste un’altra forma di esistenza oltre la nostra vita. Come ci è venuta una simile idea. Ce la siamo sognata una notte?” “Forse zio Concetto? Forse è proprio così! Quando dormiamo ci capita spesso di sognare e nel sogno percepiamo immagini di un’altra esistenza nella quale corriamo inseguiti da un qualche pericolo indeterminato oppure con il volto specifico di persone che ci hanno fatto del male o che temiamo; oppure facciamo all’amore; o vinciamo una corsa in bicicletta; oppure vinciamo un tredici al totocalcio e facciamo baldoria con gli amici. Nello stesso modo in cui il sogno ci mostra un’altra esistenza forse abbiamo cominciato a pensare che nel sonno della morte vi sia anche un’altra forma di esistenza nella quale una parte di noi continua a sussistere perché può vivere il sogno di un’esistenza altra. Se fossimo immortali in questa esistenza non penseremmo a nessun tipo di esistenza oltre la vita perché tanto la nostra vita non finirebbe mai. Forse, se fossimo immortali,
non avremmo mai pensato all’esistenza di un Dio. La speranza ed il sogno di un’esistenza oltre la morte è dovuto al fatto che la vita finisce. Il nostro destino di creature mortali è la nostra consapevolezza di dovere individualmente morire” “ Allora l’idea di un’altra esistenza potrebbe essere solo un sogno?” “ Non è detto zio Concetto. Non è assolutamente detto! La verità è che non ne sappiamo assolutamente nulla. Abbiamo già detto che gli altri animali che vivono in questo mondo non sono mortali perché non hanno consapevolezza di dovere finire e non possono immaginare di sognare oltre il sogno. E’ anche vero che, in ultima analisi, tutto il nostro agire, il nostro fare e progettare è un resistere alla morte, un pensare che possiamo fare tante cose che occupino la vita ignorando che la consumiamo e procediamo in ogni caso verso la conclusione necessaria. Il giuoco resta aperto fino a quando riusciamo a fare castelli sulla sabbia.” “ Ma i castelli sulla sabbia non hanno fondamenta solide e durano poco interruppe lo Zio Concetto con un leggero sorriso”. “ Zio Concetto c’è comunque, perché esiste già in quest’esistenza mortale, un antidoto che rende la vita meno mortale, più rassicurante: la capacità di provare dei sentimenti. Piccoli o grandi che siano, occasionali o continuativi e di lungo periodo, noi proviamo vari livelli di sentimento, di attaccamento verso le cose e verso gli esseri viventi. Questi sentimenti hanno un nome comune: amore. L’amore è il più forte antidoto alla necessità della morte. Avere dei figli non è solo conservare il nostro patrimonio genetico nell’ambiente e mantenere una dominanza nonché mantenere l’immortalità della specie. Amare è soprattutto una speranza: quella di avere vinto il grande nulla del non essere mai stati. Come stava il mondo prima che noi nascessimo e come sarà il mondo quando noi non ci saremo mai più? Apparentemente uguale ma sostanzialmente questo non è vero. E’ vero che la vita non può ripetersi, non concede mai il bis. Essa può solo svilupparsi in altre forme ed in altri modi anche se proviene da noi o da altri simili a noi. Ed in quei modi noi potremmo esserci se il nostro amore, ciò che abbiamo fatto od omesso per gli altri, sarà presente nel mondo come l’insieme delle nostre relazioni. Vi è anche dell’ineffabile nell’esistenza ed il linguaggio non riesce ad esprimere ciò che proviamo. E’ ciò che resta negli altri di noi non è soltanto la nostalgia che proviamo in certi momenti per certe persone o per certi oggetti.
“Non sono sicuro di avere capito bene! Cosa è ineffabile: quei sentimenti, quelle sensazioni che non sappiamo dire?” “E’ come il fatto di essere innamorati di qualcuno: sapremmo fare l’analisi delle varie componenti del nostro sentimento: ad esempio che siamo attratti sessualmente da quella persona; che ci è simpatica; che vorremmo sempre tenerla vicino a noi ed averne consiglio e o. Ma l’insieme, la totalità del sentimento non scomposta è indicibile, è una sensazione ineffabile. La avvertiamo, la percepiamo, ma non possiamo riferirla tutta intera. Si tratta di stati d’animo non riferibili attraverso il filtro razionale delle parole che devono, se usate, indicare qualche cosa di specifico.” “Forse ho capito: ma non mi avete detto che siamo come delle meteore che iamo e che anche il ricordo a e si estingue dopo un certo tempo, disse lo zio Concetto asciugandosi con il fazzoletto lo scirocco umido dal viso e dalla fronte”. “ Zio Concetto i grandi problemi della vita sono aperti e difficili; lei ha bevuto molto vino ed il risultato è il sudaticcio sul suo viso e l’impiccicamento sul suo corpo. Scommettiamo che le stanno sudando pure le mutande?” “Ma vaffanculo! E’ possibile che non si possa fare un discorso serio manco quando uno muore? Ma che razza di amici ho: anziché darmi conto pensano che sto sudando per il troppo vino.” “Zio Concetto è inutile che si incazzi: prima di tutto non sta sudando per il vino ma suda proprio il vino. Ed è proprio questo l’odore che emana. Seconda cosa anche noi stiamo sudando il vino di questa sera e non sempre viene facile ad inseguire i problemi. E per ultima cosa non crediamo affatto alla sua solita minchiata serale vale a dire che lei sta per tirare le cuoia di quella pellaccia grigia che si ritrova.” Approfittammo del vino che ci aveva reso allegri ed estroversi per ingannarlo e per sfotterlo come al solito. Può essere divertente, se capita per caso, divertirsi con la morte fino al punto da giocarci, come se fosse un vecchio caro compagno di scherzi e di avventura. Ma lo zio Concetto era anche un vecchio compagno di scherzi anche se un tantino incazzoso e permaloso. Anche la morte si può talvolta non prendere sul serio: basta che sia quella degli altri e che si abbia un bel po’ di alcol nel sangue. “ E’ vero zio Concetto. Noi siamo delle meteore che non lasciano nessuna traccia
nell’universo perché scompariamo anche dalle carte geografiche della memoria. E tuttavia, per un sia pur breve periodo, noi siamo negli altri e nei loro pensieri. Se non fossimo mai nati e non avessimo vissuto mancherebbero delle relazioni, delle cose, dei sentimenti che si sono costituiti nelle relazioni che ci hanno unito o diviso dagli altri. Tante persone, un’infinità di persone, non abbiamo conosciuto e tante persone non ci hanno conosciuto: ma tante altre si! E noi siamo rimasti in loro, nella loro esperienza. Il nostro amore è la cura che ci siamo presi in questi incontri e, attraverso questa sgangherata attenzione, abbiamo vinto il grande nulla del non essere. Siamo stati infatti presenti in qualche cosa e da qualche parte. Non ci sono vite a perdere, non ci sono vite inutili. Anche la più elementare e flebile forma di vita ha una sua presenza ed identità nell’insieme dei fatti del mondo: non sappiamo cosa provoca nel resto del mondo una farfalla che muore nella foresta dell’Amazzonia. Il fatto che prima c’era e poi non c’è più rappresenta una mancanza. E se poi non ci fosse mai stata cosa sarebbe successo? Questo universo sembra tutto casuale e tale casualità sembra permettere la nostra libertà; ma appare talvolta tutto programmato in modo minuzioso e preciso: quasi maniacale. Proviamo a riflettere un pochino: cosa sarebbe accaduto se non fosse nato Giulio Cesare; oppure Napoleone Bonaparte; o addirittura Ponzio Pilato? Se al posto di Ponzio Pilato ci fosse stato qualche altro console romano che ai giudei avesse detto: qui comando io e questo che chiamate Cristo io lo mando assolto dopo avergli fatto dare quattro belle nerbate e quattro calci nel culo! Ebbene se Gesù di Nazaret non fosse stato lasciato agli Ebrei ma fosse stato assolto e protetto da questo altro ipotetico console romano cosa ne sarebbe stato di tutto il Cristianesimo? Se Gesù non moriva sulla croce cosa sarebbe accaduto nella civiltà occidentale? E se non nasceva Giuda che tradisce il Cristo ma al suo posto nasceva un apostolo che avrebbe salvato Gesù proteggendolo e nascondendolo ai giudei? Cosa sarebbe successo se lei, zio Concetto, non fosse mai nato, non ci fosse mai stato? Forse quel tale cicloamatore non avrebbe avuto le ruote ben accentrate: avrebbe sbandato su quella curva e, cadendo, sarebbe morto. Ed essendo morto non avrebbe avuto quel tale figlio che avrebbe inventato quella determinata tecnica chirurgica e……..quanti uomini sarebbero morti perché quella tecnica operatoria non sarebbe stata inventata……………………… Insomma tutto è legato da una catena di relazioni molteplici: se manca una rotella tutto l’ingranaggio funziona male e finisce con il fermarsi. “Certo se non nasceva quel Giuda, il capo di tutti i magunzisi, sarebbe stato meglio! Ma se Gesù non veniva condannato e non faceva quella orribile morte sulla croce la religione cristiana che fine avrebbe fatto? Mah! E chi ce ne capisce
un cazzo a farsi tutte queste domande soggiunse lo zio Concetto.” Se fossimo immortali non parleremmo di Dio: questo problema non avrebbe per noi neppure senso perché non dovremmo pensare ad un dopo il tempo limitato della nostra vita. Ma siamo mortali e dobbiamo resistere alla morte attraverso il progettare, l’agire ed il sognare. Lei non muore perché è ammalato ma perché è vivo. E’ vero che per ogni morte c’è “una scaciuni”, un motivo come siamo soliti dire. Infatti se uno non si ammala può vivere altri dieci o venti anni. Ma dovrà lo stesso morire perché nessun vivente può salvarsi per sempre. Adesso le dispiace, se davvero deve morire, lasciare le cose che le sono care: gli amici, le sue sorelle ed anche i cicloamatori. Erano delle rotture di scatole ma adesso che deve lasciarle per sempre le dispiace proprio. Si dice che le cose si apprezzano di più quando non si hanno o si sono perse. Lo zio Concetto era rimasto ad ascoltare senza interrompere ma con un atteggiamento non eccessivamente concentrato: evidentemente non gli era risultato troppo difficile seguire il discorso. Si limitò ad osservare che è comunque meglio morire dopo piuttosto che prima e che chi si ammala conosce il fatto che deve morire mentre chi sta bene non sa mai quando questo capiterà, anche se può capitare in qualsiasi momento. Insomma il non sapere è meglio del sapere o comunque del sospettare. “ Scoprirsi ammalati significa non potersi dimenticare che non possiamo vivere per sempre e che quindi i nostri progetti hanno una fine: la malattia è una sorta di segnale specifico, un semioforo, che ci ricorda la vita perché questa può essere interrotta. La malattia è un ricordati che sei vivo e che la vita è una conquista, non una necessità scontata e dovuta. Quando si è malati la presenza dell’esistere è più a portata di mano e ci rende più vigili – disse lo zio Concetto – uscendo dal suo prolungato silenzio.” Ma ce una cosa, proseguì, che voglio dirvi perché ci ho pensato nell’ultima volta che sono stato in ospedale: la malattia è molto spesso legata al dolore. Da quando sono ammalato ho provato sempre dolore. Talvolta è più forte e penso di non sopportarlo, che sarebbe meglio morire. Ma oltre al dolore fisico vi sono altre forme di dolore: essere lontano dalle cose che mi sono familiari, come il lavoro, le persone che mi sono care, ed essere affidato agli altri per le mie necessità. Ed i medici che ti vogliono curare anche se le medicine che ti danno tolgono un dolore e accendono altri malesseri e difficoltà. Ora io dico una cosa: se è vero, come mi avete detto, che con le mie scelte ho determinato e costruito la mia vita ed ho deciso quale doveva essere il mio progetto di
esistenza, perché al momento di morire non posso scegliere il momento in cui voglio morire; se la morte fa parte del mio progetto di vita perché non debbo occuparmene personalmente ma debbono farlo gli altri al posto mio. Ed è per questo motivo che non sono più andato all’ospedale: non voglio morire squartato come quella mia nipote che è morta in Francia senza neppure un seno o come la vicina di mia sorella che l’anno curata fino a quando è diventata di quarantaquattro chili e tutta grigia che neppure i cadaveri dei campi di concentramento. Quando la ho vista morta mi è sembrata scappata dal campo di concentramento. Se la morte fa parte della mia vita voglio scegliere da me stesso quando è giunto il momento nel quale non voglio più provare dolore, nel quale voglio riprendermi la mia dignità. Tanto mi avete detto che se non mi fossi ammalato potevo vivere un po’ di tempo in più: ma non potevo evitare il problema come nessun altro individuo che vive. Siccome sono vivo debbo morire e allora voglio farlo decidendolo da solo. In ospedale non voglio tornarci e non voglio che mi riducano pezzi a pezzi o come un cadavere dei lager tedeschi. Però ho una paura: e se dopo la morte non c’è nulla, non c’è nessun’altra forma di esistenza, che cosa mi succederà? - Zio Concetto, è una paura inutile la sua: se non c’è nulla non c’è sicuramente nessuna sofferenza! E’ come quando non eravamo nati. Il posto in cui eravamo, o non eravamo, non ci ha creato nessuna sofferenza altrimenti ce ne ricorderemmo! Ricordiamo dolori e gioie della vita: ma del periodo quando non eravamo ancora nati non ricordiamo nulla. E lo stesso sarebbe se dopo la morte non ci fosse nulla. Questo non sarebbe proprio un gran problema! Il vero problema è se dopo c’è un’altra forma di esistenza; questo, caso mai, è il vero problema. Se c’è qualche cosa dove sopravviviamo con la nostra individualità vuole dire che lei potrà incontrare sua madre, suo padre, gli amici che sono morti e continuerà a parlare con loro. Tanto, se vogliamo essere un poco ottimisti, una prova di Dio noi l’abbiamo senza andare troppo lontano.
- E quale sarebbe questa prova, disse lo zio Concetto, con aria piuttosto perplessa.
Nel mondo ci sono gli angeli che fanno il bene: e lo fanno senza un motivo! Non sono creature eteree, senza forma e con grandi ali bianche. Sono diversi e semplicissimi. Apparentemente ci somigliano come due gocce d’acqua. - “ E chi sarebbero. Io non né ho mai incontrato uno!” - “ Ma certo che anche lei li ha incontrati zio Concetto. La verità è solo che non li ha visti.
Sono angeli i cui piedi camminano nella polvere; essi stessi non sono bianchi e candidi ma sono sporchi della fatica degli altri uomini e della sporcizia delle infinite strade del mondo senza asfalto e senza nessuna segnaletica. Sono angeli che al posto delle ali hanno soltanto le mani per volare e le usano per condividere la sofferenza degli altri e portare sassi ed acqua per edificare il mondo di coloro che non hanno mondo e sono senza speranza. Questi angeli portano senso ad un mondo apparentemente privo di senso perché è destinato a scomparire per sempre per ciascun essere vivente. Il loro amore permette al mondo di essere un mondo nel caos di tutte le possibilità esistenti. Essi sono il nostro vicino di casa che porta una parola di conforto alla vecchia signora sola del piano di sotto; è il medico che combatte la sua battaglia contro la sofferenza e il degrado umano nelle regioni più povere dell’Africa e dell’Asia o dell’America latina; è il religioso che offre intera la sua vita di amore e di dedizione per gli altri, per gli umili, per gli offesi all’ultimo posto del mondo ed accetta l’ ineludibile sofferenza che nel mondo causa la libertà; sono i milioni di persone che offrono qualche cosa a qualcuno, magari una sigaretta ad un immigrato che non ha nulla se non il fatto di essere un essere umano sperduto in mezzo a milioni di altri esseri umani che circolano per il mondo; oppure i giovani che vanno come volontari presso popolazioni oppresse dal bisogno o che si spendono, nel loro tempo libero, in opere di o ai bambini oppure ai vecchi. Insomma se ci soffermiamo ad osservare il mondo ci rendiamo conto che il bene è tantissimo: un oceano aperto fatto da milioni di gocce. Forse l’elemento che ci confonde è la libertà assoluta del nostro universo che ci fa intravedere qualche angelo ribelle che compie il male. Ce ne accorgiamo talvolta in modo eclatante perché il male fa sempre molto rumore: ci ricorda di
come è fatta la nostra pasta. Fa scena e fa rumore il folle che uccide facendosi saltare consapevolmente assieme a decine di esseri umani. E’ difficile pensare che tale violenza e follia sia l’estremo confine di una disperazione che non vede alternative al proprio degrado e che qualche altro uomo, o gruppo di esseri umani, hanno creato quel degrado e l’impossibilità ad uscirne e la risposta disperata ed inutile. E’ più rassicurante pensare alla follia del gesto che alla causa dello stesso. Quella causa ci porterebbe in causa ed è allora meglio eludere le nostre responsabilità e pensare che la risposta violenta, compressiva, sia la migliore risposta alla violenza stessa. Ma l’umiliazione genera altra violenza, altro rancore, ed il cerchio si allarga chiudendo gli spazi della ragione e della speranza. Certamente è meno appariscente un religioso che va a vivere in una gigantesca discarica di immondizia nella quale vivono migliaia di esseri umani la loro quotidiana sofferenza. La sofferenza, l’angoscia della precarietà del vivere, il morire nella fame e nel degrado di ogni moralità, fanno paura, atterriscono chi può disporre di minime certezze quotidiane. E’ meglio non sentire queste notizie, queste vite consumate in un’angoscia così totale da risultare vuota ed inutile. L’angoscia totale non è una forma di resistenza alla morte: ma un preludio dell’inutilità della vita e del suo inavvertito ma necessario consumarsi. Dunque facciamone a meno, evitiamo di parlare di morti senza senso: meglio pensare questa topografia umana abbastanza lontana da noi da salvaguardare il senso del nostro esistere. - “Ho sempre pensato, anche senza avere studiato i vostri libri, che il male lontano, oppure zittito, fa meno male a ciascuno di noi. Più il male è lontano meno male è” disse con una smorfia ironica lo zio Concetto - “Ebbene zio Concetto gli angeli sono proprio tra di noi e lavorano in silenzio. Se non fosse per qualche cosa di diverso che li muove e che li rende diversi per quale motivo degli esseri umani dovrebbero sacrificare se stessi, il proprio tempo, le proprie sostanze, i propri affetti per altri individui che neppure conoscono. Perché dovrebbero soffrire insieme agli altri, con gli altri e resistere in vicinanza del loro dolore: tutto ciò sarebbe contrario alla nostra struttura biologica che vorrebbe che ci prendessimo cura solo di noi stessi. Una spiegazione razionale a questa comione non c’è. Esistono prove scientifiche della nostra aggressività; ma non ce ne sono per la nostra comione. E allora tale modo di agire non è nostro: ci appartiene ma non è il nostro. E’ per questo
che ci sono esseri diversi: forse sono quelle che la cultura popolare chiama creature angeliche. Dove andranno a finire e quale è il loro destino nessuno lo sa! Ma ci sono ed agiscono e, come milioni di goccioline, formano un mare e fungono da o agli altri e si offrono all’angoscia degli altri e a quella diffusa per il mondo. La sofferenza è forse una forma dell’amore e qualcuno lo consegna gratuitamente a coloro che ne hanno bisogno. Questo è veramente inspiegabile, non è comune, è estraneo al quotidiano umano: appartiene solo a creature diverse e straordinarie anche se apparentemente normali. Ebbene zio Concetto questa forma di esistenza diversa dalla nostra è l’unica prova razionale che c’è un modo diverso di vivere la vita, di pensarla e di trovarvi rassicurazione. E che l’amore, la solidarietà, la comione pervadono ed invadono il mondo anche se non sono iscritte nel nostro codice genetico né appartengono alle nostre aree neuronali. Altre prove dirette non ci sono. O almeno è difficile scorgerle ed occorre il dono della fede: e questa non tutti la possediamo ne la possediamo tutta intera ed una volta per tutte. Comunque si accontenti di questa e le spiegazioni più complicate le lasci alle persone che hanno studiato e che sono colte". Questa ultima frase risvegliò lo zio Concetto dalla sua concentrazione, forse sul discorso o forse dal dolore intestinale, stizzendolo per sentirsi deriso della sua ignoranza che non riconosceva e che, comunque, lo offendeva. - “ Fino a prova del contrario io capisco sempre quello che dite; e quando voglio capisco di più. Ma non voglio lamentarmi questa sera perché ho mangiato dell’ottimo pesce e ho bevuto del vino migliore. E poi non ho voglia di litigare! Andando a fanculo dite pure quale è l’argomentazione più difficile che io non sono in grado di capire. Parlate apertamente tanto, con il dolore di pancia che mi è tornato, non ho nessuna voglia di tornare a casa e mettermi a dormire. Tanto non dormirei.” – - “ Non tirate fuori il discorso del male di pancia o di culo che avete, zio
Concetto. Vi siete sbafato una cona di pesce ed un porto di vino; anche un toro avrebbe mal di pancia e cacarello al posto vostro”. Annuimmo tutti dicendo che avevamo anche noi del male allo stomaco. Era certamente una pietosa menzogna ma volevamo che fosse tranquillo che non era la sua malattia a farlo stare male ma piuttosto la quantità di ciò che aveva mangiato e bevuto. Fece finta di crederci o ci credette veramente: comunque non voleva tornare a casa. - “Allora quale cazzo di ragionamento ci dice che esiste qualche altra cosa che non siano le mie mani, il mio viso, questo mio corpo che un tempo era giovane e che ora è vecchio e cacarellato. Continuate a parlare che questa sera ho desiderio di sentirvi parlare” – - “E’ il problema più cazzuto di tutti. Ma è anche il più difficile a capirsi di tutti. Perché è un discorso del linguaggio ed è un linguaggio che è difficile ad essere espresso. E’ un poco come quando parliamo di certi concetti della fisica e della matematica: non sono a portata di mano, non fanno riferimento ad oggetti veri e propri; non hanno un rapporto diretto con le cose: rappresentano attraverso il linguaggio che le enuncia ma non sono rappresentazioni di cose.” - “E che cazzo sono allora?” - “Si chiamano concetti, schemi mentali, rappresentazioni di immagini mentali!” - “Vedete che si chiamano “concetti” proprio come mi chiamo io.” - “E va bene che si chiamano concetti; ma non sono come voi! Sono più complicati”. - “Provate a descrivermeli e vedremo se anche io non li capisco – aggiunse con tono stanco e non aggressivo lo zio Concetto. - “Si tratta della metafisica e del problema dell’essere! Il ragionamento sarà per lei semplificato al massimo. Ebbene quando noi parliamo, di qualunque cosa, parliamo di qualche cosa!” - “Ma che significa: ho sempre saputo anche io che se parlo di biciclette sto
parlando di qualche cosa: di biciclette appunto. Quelle biciclette che mi sono incazzato a riparare tutta una vita.” - “Benissimo zio Concetto: provi a pensare ora a qualche cosa che non c’è!” - “Non ci sono coglioni che ascoltano un discorso scontato e che sanno tutti” - “No! Non qualche cosa che c’è e che manca; qualche cosa che proprio non c’è” - “Non ci sono somari che volano sul nostro porto.” - “Sbagliato ancora una volta zio Concetto! Ma cerchi di essere più intelligente questa sera. Non le abbiamo chiesto oggetti della fantasia: perché questi esistono nella nostra fantasia, sono prodotti di questa nostra attività di inventare. Deve pensare e dirmi di qualche cosa che non c’è! Che non c’è da nessuna parte.” - “Inculatevi. Non riesco a capire il problema. Se una cosa non c’è, non esiste, non posso ne pensarla ne, tanto meno, dirla. Neppure i pazzi possono fare quello che dite”. - “Appunto zio Concetto…….appunto! E’ una cosa che non si può e non si riesce a fare. E questo significa che quando pensiamo e parliamo pensiamo e parliamo di qualche cosa che c’è. Questo che c’è lo chiamiamo essere.” - “E allora…………………... - “E allora noi siamo qualche cosa………..qualche cosa che è tutto noi. Anche ciò che percepiamo come la nostra identità. Ad esempio lei è lo zio Concetto non solo con il suo corpo un tempo giovine e racchio ma anche adesso che è vecchio e cacarellato. Insomma lei è una condizione dell’essere: non è solo mani e viso. E’ una totalità nella quale ci sono le sue mani, il suo volto e la sua identità: l’insieme è diverso dalla somma dei particolari”. - Ma noi come identità siamo costretti a finire: siamo nel tempo, siamo vivi e poi scompariamo: ma non è detto che ci annulliamo totalmente, perché facciamo parte dell’essere, di ciò che è. Tuttavia la nostra partecipazione all’essere non è una condizione definitivamente acquisita. Perché il nostro essere individualmente comporta parti dell’essere e queste parti si perdono. - “Imprevedibilmente lo zio Concetto chiese: “perché l’essere va via?”
- “Non va via: si disperde nelle cose che finiscono con il distrarlo, che gli creano diversivi e si dimentica di se stesso. L’esistenza si interessa e si riduce al valore delle cose ed al discorso su di esse. Certamente l’essere cosa non implica la sua esclusione dall’essere: il problema sorge quando le cose occupano totalmente il discorso dell’essere diventando l’ente dell’essere, cioè il senso stesso dell’essere.” A questo punto nasce il nichilismo che è la negazione dell’essere perché si dimentica e riduce tutto ad un presente privo di senso. Il nichilismo è la perdita dell’essere perché si riduce al valore delle cose. - “Come sappiamo dell’essere" interruppe lo zio Concetto. - “La sua rappresentazione è il linguaggio. Il linguaggio è lo spazio in cui si determina l’essere. Quando il linguaggio, come rappresentazione del pensiero, si riduce alle cose perde di vista il tempo ed il fluire delle cose stesse. In questa perdita di consapevolezza della propria identità consiste il venire meno dell’essere e la sua dispersione. Solo la prossimità di qualche cosa di diverso dall’ente ripristina il senso dell’essere, la consapevolezza della sua diversità dalle cose.” - “Potete essere più chiari?” - “Un uomo apionato di ciclismo ama e si prende cura della sua bicicletta: ma egli non è identico, non fa parte dell’oggetto di cui si cura. Se perde questa consapevole certezza perde la sua essenza specifica di essere umano. Perde quanti di essere a favore della cosa ma il suo essere differente radicalmente dalla cosa resta. Se e quando riemerge l’idea della sua diversità egli può riprendere a divertirsi e giocare con le cose, con la sua bicicletta, ma saprà con certezza che egli è assolutamente diverso dalla cosa stessa. E allora il senso di questa diversità diventa il senso del suo essere, della sua identità come radicale diversità, il suo acquisto di quanti di essere. L’essere è con le cose ma non è nelle cose.” - “E come ci accorgiamo della presenza dell’essere, con quale mezzo.” - “Attraverso le parole. Le cose infatti non parlano e non si pongono il problema: l’essere è il problema dell’essere. La vita non è un problema perché non ha una soluzione specifica che valga per tutti. L’essere è un problema perché la soluzione è la sua presenza nel linguaggio e, dunque, nel pensiero. Il suo mostrarsi nel linguaggio ha una soluzione positiva o negativa: ma ammette
soluzioni possibili” - “Ma se questo essere, che vorrebbe apparire come la mia stessa essenza, non lo vedo e non lo tocco come faccio ad ammetterlo o a negarlo?” - “Il fatto di parlare significa farlo presente, indicarlo. E questa è già una determinazione abbastanza concreta. Poi vi è il mistico. Vi è del mistico, dell’intuito, nella nostra realtà. Esso è fuori dal discorso logico e da quello usuale che descrive le cose. E’ l’ineffabile, ciò che non si può dire e che resta oltre il detto ed il noto. La soluzione vera dell’essere appare quando il linguaggio finisce e, con questo, il discorso sul mondo. A quel punto la soluzione si presenta. Vale da sempre che la soluzione di un problema appare quando il problema svanisce. Allo svanire del linguaggio che contiene il problema dell’essere la soluzione appare. Quando parliamo e quando pensiamo attraverso le parole parliamo e pensiamo sempre di qualche cosa: anche la religione dice che in principio era il Verbo, cioè che l’essere nasceva attraverso qualche cosa che lo racconta e lo presenta e permette che sbocci. - “Allora, se sono riuscito a capire qualche cosa di tutta questa follia, se muoio avrò la soluzione del problema e capirò tutto quello per cui voi avete studiato tutta una vita?” - “Appunto! Prima che il problema scompaia il linguaggio può solo indicare, nella nostra diversità dalle cose, la nostra singolare differenza e parlarci dell’essere. Dopo, quando il detto tace, può emergere il discorso. - “Mah io in fondo credo alle indicazioni. Anche chi guida una bicicletta crede ai segnali che gli dicono di andare a destra o a sinistra, di fermarsi, di dare precedenza o di prepararsi ad affrontare una salita faticosa o un discesa pericolosa. Se voglio posso anche credere ai segnali che ci sono sull’essere nel linguaggio. Non ho paura della soluzione: spero solo che ci sia e che sia positiva. In alternativa ci sarà la stessa serenità e lo stesso silenzio che c’era prima che io nascessi. Qualunque forma di esistenza spetti al mio essere spero solo di potere rincontrare i miei genitori per dire loro che li ho voluti bene anche se molte cose che volevo dire, soprattutto a mia madre, non ho avuto il coraggio di dirle oppure le ho rimandate. Spero anche di incontrare i grandi campioni del ciclismo per sapere da loro come facevano a stravincere. A Bartali ed a Coppi se era vera la loro inimicizia oppure se recitavano la commedia per avere successo con il pubblico. Gli chiederei poi chi dei due aveva ato quella dannata bottiglia di
acqua all’altro. Vorrei anche avere degli amici con cui questionare ed incazzarmi ma con i quali mi sentissi in compagnia come mi sono sentito in compagnia in questo tempo. E vorrei poi giocarmi la schedina del totocalcio e potermi fumare una sigaretta dal tabacco amaro e secco dopo il caffè e dopo una bella mangiata di pesce. E vorrei anche giocare come non ho potuto fare da bambino e fregare la finanza non pagando le tasse. Poi vorrei andare in bicicletta nelle giornate di primavera e ritrovare il profumo delle zagare o delle ginestre della montagna oppure l’odore di salmastro sul lungomare. Non vorrei le mani sempre sporche di grasso e vorrei consumare tre normali pasti al giorno. Non vorrei essere costretto a pagare i soldi del condominio e vorrei vivere in una casa tutta mia. Forse mi piacerebbe avere dei figli ma senza dovere avere per forza una moglie. E mi vorrei riposare svegliandomi la mattina alle nove e vorrei restare a casa, protetto ed al sicuro, quando piove e ci sono tuoni e lampi. Poi vorrei avere un pezzetto di terra da coltivare per piantarci i pomodori e un bell’albero di fichi da raccogliere a settembre ed anche tante viti per farmi il vino da solo con la vinicuttata di carrube. Vorrei………. vorrei non provare il dolore che provo questa sera qui nella pancia, nei reni e dappertutto………… fino al culo………… Comunque ho ato una bellissima serata con i miei amici………ascoltando un sacco di belle cose che……….non ho forse capito del tutto. Forse la cosa di cui sono più soddisfatto e di sapere che ho degli ottimi amici che mi vogliono bene e che sono disposti ad ascoltarmi anche in un’altra vita. E se non mi aspetta niente nell’altro mondo starò comunque tranquillo perché loro si ricorderanno di me e mi verranno a trovare al cimitero……… almeno una volta l’anno.
- Adesso riaccompagnatemi a casa che mi è venuto di cacare e che mi sono stancato: sono le quattro del mattino. Meno male che domani è domenica e che mi posso alzare più tardi………. e visto che è la santa domenica spero di potere dormire fino a tardi senza il tormento che mi da questo stomaco. Mah………..ci vediamo lunedì……….se Dio vuole!
EPILOGO
L’io filosofico è non l’uomo, non il corpo umano o l’anima umana di cui tratta la psicologia, ma il soggetto metafisico, il limite – non una parte – del mondo.
Noi sentiamo che, anche una volta che tutte le possibili domande scientifiche hanno avuto risposta, i nostri problemi vitali non sono ancora neppure toccati. Certo allora non resta più domanda alcuna; e appunto questa è la risposta.
La risoluzione del problema della vita si scorge allo sparire di esso.
Vi è davvero dell’ineffabile. Esso mostra se, è il mistico.
dal Tractatus di Wittgenstein
Rino Busacca.
In bicicletta, per strada e alla ricerca di un senso - Serafino Busacca
Stampato nel mese di aprile 2011 da www.stampalibri.it - Boon on demand - Macerata
Versione digitale realizzata da: Eugenio De Angelis nel mese di gennaio 2013