In Fine 2m1h6h

Versi di segale

Titolo originale: “In fine” © 2013 Giovane Holden Edizioni Sas - Viareggio (Lu) I edizione cartacea novembre 2012 ISBN edizione cartacea: 978-88-6396-261-1 I edizione e-book settembre 2013 ISBN edizione e-book: 978-88-6396-382-3 www.giovaneholden.it [email protected]

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Ilaria Cipriani www.giovaneholden.it/autori-ilariacipriani.html

A chi soffre e gioisce con me, come me, oltre me: vivendo.

…su me la vita che mi sfugge mi insegue e finirà il giorno del suo inizio.

Samuel Beckett My way is in the sand flowing

(Seguo questo corso di sabbia) Da Le poesie. Traduzione di Gabriele Frasca. Torino, Einaudi, 2006.

Prefazione

Ilaria non è semplice. Ilaria è complicata.

Minuta su due trampoli vive la vita quotidiana di insegnante di lettere, contornata dall’amore per e dei suoi alunni. Ma dietro al sorriso onnipresente si cela il dolore di una donna fragile che lotta interiormente per la consapevolezza di se stessa.

L’ho incontrata per caso.

Ma il caso non esiste.

Ho centellinato le sue poesie, frase per frase, impossibilitato a continuare fino a quando quell’ossimoro non mi avesse trasmesso la più sottile vibrazione che lei stessa aveva percepito e cristallizzato nell’attimo descritto.

La mia parte razionale e la mia logica si sono sentite derise e, a volte, offese dai voli pindarici di Ilaria, fino al punto di riuscire a riconoscere la totale imprevedibilità della fantasia di parole che disegnano forme caleidoscopiche vissute.

Il mondo di Ilaria è un viaggio nel profondo dell’essere umano, spesso in quella parte di dolore negato alla vita o di vita negata al dolore.

Vita di chi si trova a ripartire da zero dopo aver costruito e distrutto un castello di sogni e che si ritrova in una terra e in un’età di mezzo dove ogni parametro cambia concretizzando la crisi.

Crisi sputata o accarezzata come foglia nel vento, crisi nascosta dietro fuochi d’artificio che esplodono improvvisi, come a voler dire che la sua bambina è sempre viva e non abbandona la speranza di riuscire a volare ancora.

Giacomo Crott

Al ivo

Certi giorni mi sveglio chiusa dentro un bottone.

Schiacciata, compressa, con il corpo di plastica bloccato in se stesso.

I capelli sono fili che mi cuciono sul mondo appuntandomi ben fissa al gilet della mia vita.

Io non posso, non ci riesco.

Con la schiena nei talloni le mie labbra in mezzo al ventre gli occhi stretti sopra il petto.

Io non riesco, no, non posso.

Una spinta e sono lì,

dentro l’asola del tempo, una inversa e vado via nella folla dei minuti.

Sempre immobile nel flusso ferma e statica nel vento sasso stupido sul fondo.

Voglio ridere e non posso; voglio amare e non ci riesco.

Chiusa qui, dentro un bottone.

Ore 5:00 La violenta percezione di un pugno dritto allo stomaco e mi ritrovo seduta sul letto, con le mani bagnate e gli occhi tremanti dentro di me. L’impossibilità di agire, di essere soggetto attivo nella mia giornata, è subito evidente quanto un enorme e insensato autografo a china sulle lenzuola gialle che si attorcigliano alle mie gambe nude, abbronzate.

Inazione

“Tu non fare. Nel dolore, non pensare. Nella rabbia, non agire.” Me lo dice dall’esterno la mia voce più interiore.

Che fatica è aspettare.

Come un angelo in pensione, con le ali penzolanti giù dall’orlo di una nube, leggo il cielo e non ci scrivo.

Che stanchezza è non dire.

Sulle ustioni del mio io

spargo lucide pomate che schiariscano la vista, ma poi vivo nel languore di un continuo svenimento senza perdere coscienza.

Che fatica. Che stanchezza.

Ore 5:30 Non mi voglio e quindi non mi vogliono. Come un minuscolo specchio rotto rifletto l’immagine incrinata di me nell’infinita specchiera del mondo.

Via di qua

Sono una palla da biliardo ricacciata dalle sponde troppo rigide del campo che non gioca di rimbalzo.

Sono una nota musicale allontanata dalle righe di uno splendido spartito che le stelle hanno già scritto.

Sono un rifiuto rifiutato.

Ore 6:00 Sul guanciale accanto al mio, l’impronta ben visibile del silenzio, che riposa senza neanche russare. Ha la testa pesante di mio padre, del marito che non c’è più da tempo, dell’amante mai voluto. E le mie bimbe dormono, nella camera accanto, in silenzio.

Silenzio d’amore

Una panchina in attesa masticata dal tempo: la ruggine del mondo sulle viti ormai scurite nel legno scrostato

da unghiate di vita.

Lei sì, lei sì che l’ha sentito.

Nei baci di un padre sputati alla luna sbattuta per terra da sospiri segreti.

Nelle dolci carezze appiccicate alle tasche, con le dita tremanti bloccate dal miele.

Nelle parole non dette, palpitate sul cuore coi morbidi battiti celati per sempre.

Lei sì che ha sentito il silenzio d’amore.

Quel silenzio che basta ma non è sufficiente. Quel silenzio che parla ma non dice abbastanza.

Quel silenzio che abbraccia ma non sempre riscalda.

Una figlia in ascolto, appena nata da anni, dentro un bozzolo duro di sentimenti annodati mai aperti a farfalla sul cielo del giorno.

Lei sì, lei sì che l’ha sentito.

Nelle confidenze negate, quasi schegge di vetro inghiottite a ferire la gola.

Nei consigli mai chiesti, come uncini a domanda trattenuti a ulcerare lo stomaco.

Nell’affetto nascosto,

un arcobaleno emotivo cancellato dal sole del sottinteso.

Lei sì che ha sentito il silenzio d’amore.

Quel silenzio che dice senza parlare. Quel silenzio che stima senza darlo a vedere. Quel silenzio che ama senza poter morire.

Ore 6:30 è inutile alzarsi, tempo perso. Eppure lo faccio, incapace di resistere al brillio fra le imposte.

Nel no

Il sole piange la sua luce, oggi.

Gocce pesanti di cera ingiallita

s’incrostano dure sulle candele del cielo.

Una lacrima densa cattura un insetto di donna inconclusa che zampetta a mezz’aria.

È un corpo formato in strati di carne con l’animo a fette su lame di tempo.

È un cuore che batte a sincopi alterne pompando l’amore col vuoto in ritorno.

Si muove cammina corre sempre ferma sul posto.

Pensa ragiona riflette sbagliando in eterno.

Desidera sogna realizza senza prendere niente.

E il sole vende la sua alba, stamani.

Ore 7:00 Sbatto le palpebre e le tengo socchiuse quanto basta perché inizi a piovermi tra le ciglia. L’umidità della tristezza indipendentemente dal sereno…

In prigione

Si è stancato il cielo

e spiove.

Il mondo tondo di ombrelli si chiude.

La terra spinta alla luce svapora.

Spiovere, snebbiare, svaporarmi, lo voglio anch’io. Anch’io desidero chiudere, asciugare, metter via. Mi sono stancata, anch’io.

Ma resto lì.

Col viso fatto ruggine sotto il ferro delle stecche;

coi capelli inumiditi dal bagnato della tela; con il buio nella bocca dentro il chiuso del mio ombrello.

Ho solo l’eco, della vita, prigioniera in un ombrello.

In fine

È petrolio sul cuore. Mezzo battito in meno un sussulto sottratto emozioni perdute.

Ogni giorno ogni sera ogni notte.

E goccia a goccia si muore vivendo.

Le ali bloccate un dolore oleoso il catrame negli occhi.

A ogni gesto mancato a ogni palpito spento a ogni sguardo distante.

E piano piano si vive morendo.

Perché è petrolio sul cuore un amore disciolto in grumosa agonia.

Ore 7:30

Schifosi lombrichi scavano gallerie dolorose nel fango del mio cervello. Ho sapore di terra nella bocca e i denti scricchiolano arrabbiati.

L’altalena

Nel giorno infinito di una notte senza buio.

È stata lì, prima.

Nella notte infinita di un giorno senza luce.

È tutta qui, ora.

La mia instabile esistenza, sull’altopiano del cuore.

Divieto vietato

“Soggetto a imminente pericolo di vita”:

uno stupido ammasso di sillabe ammucchiate malamente, come sacchi d’immondizia affastellati lì ad appestare il sole;

un sintagma cretino di parole accatastate banalmente, senza neanche un verbo coniugato così a sperare il futuro;

sei termini assurdi quasi innocui da soli inaspettatamente trasformati tutti insieme

nello sciame che è qui coi pungiglioni sull’anima;

sei inaccettabili espressioni per un divieto d’accesso brutalmente schiaffato sulla strada di una vita che, sì, è ancora troppo da viaggiare.

Eppure io…

Sbriciolerò macinerò triterò il mio cuore impietrito a quella sentenza.

Raccoglierò lancerò scaglierò

i miei sassi pulsanti di carne e di sangue.

Colpirò abbatterò atterrerò quell’odioso cartello che non deve restare. È vietato! È vietato! Non va rispettato!

È vietato! È vietato! Non va neppure guardato!

È vietato! È vietato! È un divieto vietato!

Dentro

Ho un cavatappi infilzato nel cuore

per stappare il mio corpo ridotto a bottiglia.

Oltre il vetro di un verde da foglia nell’ombra la mia anima opaca fermenta rigonfia di un vino novello che bolle irrequieto.

Non è buono quel gusto e io non lo conosco; sa d’aceto di uva e non lo digerisco; fa bruciare le labbra del mio cuore già fosco.

È una strana bottiglia questo fragile corpo infilzato nel mezzo dal suo cavatappi.

Ore 8:00 È proprio tanto difficile sfiorare almeno col dito l’arcobaleno d’acqua della felicità?

Essere non

Una stella si gratta la pancia orgogliosa di luce.

Il sole si scioglie i capelli contento del giorno.

Il cigno si becca le piume sicuro del bianco.

Solo un essere non riesce

mai a essere.

Non almeno del tutto.

Mai felice, pienamente mai.

Mai appagato, fino in fondo mai.

Mai tranquillo, in assoluto mai.

Completo d’incompletezza, finito d’infinito, concluso d’inconcluso, è solo l’essere umano che non può e non sa

essere.

Ore 8:30 È davvero così raro e complicato non vivere sempre sopra un mare in tempesta?

Mare d’aria

C’è il grigio, dovunque.

Si aggira rotondo, arrabbiato, nell’aria arruffata, coi ricci di nuvole annodati a cespuglio alle piume bagnate degli angeli spenti.

Ondeggia increspato, furente, nell’aria in rivolta,

con rotoli lunghi di onde cadenti intrecciati alle code di sirene sfinite.

I fulmini sfrigolano nel freddo del mare con luce spezzata; i tuoni rimbalzano, bolle in vapore ripiene di suono; il giorno ritarda col sole a ciambella nel buio del forno.

E il grigio resiste, compatto, nel cielo salato di nubi marine. Dovunque.

Ore 9:00 In ogni caso mi alzo. Mi alzo e cerco. Cerco me, cerco i miei piedi scalzi sul pavimento, cerco energia dentro e fuori, cerco la pelle senza le ossa, cerco il volo sotto i miei i. Ancora neonati, traballanti, in preghiera, mentre mi aggiro quasi sulle punte in una casa che mi aspetta, a prescindere.

In and out

L’ombelico sulla schiena le zampe nella pancia le antenne nella testa: tutto dentro a una lumaca che cammina e guarda il suolo che cammina e sente il cielo.

L’ombelico sopra il guscio la pelle sopra il corpo gli occhi sulle antenne: tutto fuori a una lumaca che si ferma e scrive a terra che si ferma e legge in aria.

Lungo un arco di lumaca c’è un ossimoro latente: vive nomade dovunque, chiusa in casa anche all’aperto; non si stacca dalla soglia, con l’istinto del randagio.

È impossibile.

È un non senso.

Ma nel cuore madreperla che le cola sulla scia c’è il messaggio del non detto c’è il consiglio del non fatto tra la falsa verità di una vera falsità.

Dentro e fuori a una lumaca.

Ore 9:30 E le stanze in cui vivo non mi attendono senza motivo, in fondo. Il dolore deve lasciare queste mura, nella carezza della malinconia, tra musiche incantate che cambiano in curve accattivanti un rettilineo senza spessore.

Malinconia

Sbuffi di i infantili soffiati lungo le scale in un sospiro d’addio.

Tacchi indecisi da donna poggiati sopra i gradini in un distacco dubbioso.

Tonfi di piedi maschili schiacciati accanto alla soglia oltre la porta appoggiata.

La casa rugosa annusa il silenzio di un abbandono previsto.

L’intonaco stanco si colora di sera sulle pareti scrostate.

La vecchia finestra socchiude le ciglia sotto grondaie piangenti.

Più niente e nessuno nelle stanze lasciate, solo niente e nessuno.

Ma una presenza flautata compare improvvisa dietro tende di suono.

Leggera e suadente si adagia in poltrona fra cuscini di note.

Un esercizio alla sbarra sul corrimano di legno in armonie a saliscendi.

E lo spirito triste si aggira suonando tra le mura deserte.

È una lacrima dolce uscita dal cuore di un ricordo che manca.

È un’essenza strisciante che scivola lenta sui pavimenti già freddi. La luna macchiata, vicina a distanza, inargenta la casa.

Le stelle pungenti che strappano il cielo

la tengono accesa.

E allora non muore nella musica viva della sua Malinconia.

In potenza

Avrei voglia di donare un gran boccone del mio cuore ma lo stomaco del mondo è chiuso.

Avrei modo di sentire i miei respiri dentro un bacio ma la bocca

del mio giorno resta chiusa.

Avrei tempo di volere mille abbracci in un istante ma il petto della terra sta lì chiuso.

E mi apro solo io sola in mezzo a me da sola.

Tra i capelli

Le orecchie insaponate di dubbio sentono a bolle.

Il vapore inumidito d’incerto appanna lo specchio.

La bocca scrosciante di colpa ne beve la doccia.

Ho un immenso andirivieni sotto questi miei capelli. Sotto e sopra, con la testa in confusa confusione.

Sono sabbia dentro un’onda, sono polvere nel vento, sono alga in fondo al lago.

Non mi muovo ondeggio oscillo. Non distinguo comprendo non capisco. Desidero non temo non voglio.

E c’è immensa confusione sotto questi miei capelli.

Per vedere

Sono utili e belli gli occhiali da bugia.

Li voglio comprare al bazar dei pensieri dove l’incrocio d’idee si fa incontro a parole.

Me li appoggio sul naso e infilo i tra l’erba nella sabbia o sul grigio di un asfalto che imbroglia.

Li sorseggio con gli occhi e bevo intero il caffè lasciando dentro alla tazza tutto il fondo in menzogna.

Perché sono utili e belli i miei occhiali fantasia.

Ore 10:00 Perché non è morto, in effetti. Almeno non è morto del tutto. Il desiderio di esistere a pieno è una palla da tennis in arrivo sopra la mia fronte. Un colpo di racchetta ben piazzato e potrebbe far punto nel campo avversario, oltre la rete di metà vita. Ma ho i capelli sugli occhi e la vista confusa nel mio perfetto disordine.

Se solo

Vorrei tagliare le ali a quelle finte farfalle che avvelenano il cielo, incendiare il bagnato

delle false verità, camminare nell’onda delle anomalie.

Indossando la vita come un accappatoio di spugna dentro cui ci si scalda.

Oserei dare forma al nulla che crea dentro i vuoti di senso, stringere in mano il profumo di un quadro non fatto, scoprire il volume di un corpo fantasma.

Tenendo addosso la vita come una coperta di lana su cui fare l’amore.

Riuscirei a chiudere gli occhi

trovando la strada che sorride tra i piedi, a viaggiare da sola nell’ombra amica degli altri, a correre nuda, felice, dentro le vesti del vento.

Calzando la vita come la scarpa più bella con cui danzare sui fiori.

Se solo.

Se solo io vivessi la vita.

Ore 10:30 Si svegliano, finalmente. Le mie figlie si svegliano e io le amo. Io le amo forte e le bimbe, piano, si svegliano. I loro muscoli bambini raccontano già barzellette stiracchiandosi nel letto e c’è gioia su quei visi scontornati dal sonno. Com’è giusto. Come deve essere. Perché l’infanzia è un parco giochi, una commedia multiforme che attacca la risata anche ai pagliacci tristi quanto me.

Ubicumque

È mio e lo vedo.

In una nuvola di sole, in un raggio di pioggia, in un bagliore di tenebra.

È mio e lo sento.

Nel frastuono della neve, nel pianto di un sorriso, nel silenzio della musica.

È mio e lo riconosco.

Nel volo alato di un serpente,

nel cielo verde di un albero, nel mare dolce di una roccia.

Perché sopravvive anche in un ovunque impossibile l’amore onnipotente di una mamma.

Sbagliato

È una cellula di sole che rotola per sbaglio sulla faccia della luna.

Silente cadente splendente.

È una resina rotonda che scivola per sbaglio

sopra un vetro di finestra.

Gommosa legnosa appiccicosa.

È una sfera inumidita che precipita per sbaglio nella boccia del profumo.

Inodore insapore incolore.

È uno sbaglio un equivoco un errore.

È uno sbaglio per errore un equivoco per sbaglio un errore che fa orrore.

È la lacrima che appare sulla guancia di un bambino.

Ore 11:30 È uno squillo che spacca i rumori di casa con la morbidezza di una goccia d’olio stretta e scoppiata fra le dita. C’è, per fortuna, sulla fetta di pane del giorno, che continua così ad acquistare sapore.

Luna park

Un sospiro sbuffante emesso tra i denti a ricacciare dal naso di plastica rossa un ricciolo verde striato d’azzurro.

Attorno alla bocca allargata dal trucco, oltre labbra dipinte di un viola violento,

il bianco si espande su quel viso da clown: un bianco totale, che esalta i colori; un bianco assoluto, interrotto dagli occhi brillanti d’ombretto e di lucido pianto.

Nelle tasche profonde, palloncini ammucchiati e un gran fazzoletto di stoffa a quadretti che beve d’un fiato la lacrima grassa rotolata a riempire la tazza del mento. È una goccia di nero e salato mascara che riga la guancia del triste pagliaccio

col tasto affilato di un bel pianoforte disciolto dal fuoco, nel buio ronzio delle giostre a riposo.

Poi tutto si accende al tocco segreto di dita invisibili schioccate nel vento.

Le note scintillano su caroselli di luci, i profumi sfarfallano nelle musiche urlate, le risa si inseguono tra i piedi agitati.

E nel mezzo c’è il clown, che saltella. Il trucco rifatto,

divenuto di cera, è una maschera allegra uncinata alla pelle da punti cattivi che mordono il volto. Non piangono gli occhi nell’aria ubriaca, ma piangono dietro i bulbi rotondi un liquido acido che brucia la gola.

Eppure non può, questo triste pagliaccio, tradire l’attesa di chi lo circonda.

Lui… È scherzo, burla, sorpresa! È sberleffo, gioco, sorriso! È battute, gioia, magia!

E i piccoli… Sono lì che lo cercano! Sono lì che lo vogliono! Sono lì che lo chiamano!

Coi guanti tagliati ne sfiora le mani, con la parrucca sbilenca attira gli sguardi, con le scarpe all’insù li invita a ballare.

Bambini sul collo bambini abbracciati bambini saliti sul pagliaccio in ginocchio.

Si accresce il calore bollente d’infanzia, aumentano i gradi

d’ingenua allegria, si alza il livello di festa emotiva.

Allora si scalda la cera indurita e libera infine la faccia nascosta che ora è davvero la faccia di un clown.

Un allegro clown triste, un triste pagliaccio allegro, che ritrova suo figlio nei rimbalzi dei bimbi sulla trottola folle del suo luna park.

Ore 14:30 Basta pochissimo, in realtà. Un doppio schiaffo alla pigna secca della mia paura e le mani, in autoritaria adorazione, cominciano a raccogliere pinoli di stupore.

Assonanze d’affetto

Non ti dirò cosa e se: non ne avrò il tempo.

Non chiederai come e quando: non avrà senso.

Non cercherai per me consigli: li avrai già dentro.

Perché tu leggi nei miei suoni parlandomi in silenzio, respiri nei miei occhi lacrimanti controvento; disegni anche i bisbigli che io tratteggio a stento.

Il mio e il tuo sorriso sono onde in armonia;

sulle rive della noia mulinellano in poesia; le conchiglie di dolore si fan sabbia per magia.

Non chiederai come e quando: tu mi vedrai in salita.

Non cercherai troppo lontano: ha un senso qui, la vita.

Non ti dirò cosa e se: io avrò con me l’amica.

Contro paura

La paura crea paura: è inevitabile.

Puoi trattenerla, cacciarla, sfidarla, per forza e per niente.

E il controllo emotivo tentato è già vinto in partenza, perché un pezzo di notte produce comunque le stelle anche sotto alle nubi vestite d’assenza.

La paura fa paura: è ineluttabile.

Puoi non volerlo, non ammetterlo, non accettarlo, con forza e per niente.

E la moltiplicazione emotiva che aggiunge panico a panico si potenzia al quadrato nelle leggi severe di un’algebra dura impermeabile al cuore.

Ma…

La paura ha paura: è innegabile.

Puoi non crederci, sorprenderti, stupirti, a forza e per niente.

E il flusso emotivo

si inverte di senso con la causa efficiente a diventare soggetto di un terrore temuto che in fondo anche teme.

E allora non serve. Allora non basta. Allora non puoi avere solo paura.

Occorre bisogna si deve impaurire con forza la nostra paura.

A forza e di forza, per non essere un niente.

Orando

Ora provo

ad accendere il fiore di un sole nel mio ventre a giardino.

Ora prego di sentire la risata dei giorni coi miei occhi di ieri.

Ora posso far girare la giostra del mondo coi miei pochi gettoni.

Ore 16:30 Davanti a me, il tragitto di un pomeriggio estivo tutto da percorrere. Lo guardo con le mie scarpe, incerta. Le suole, intimidite, bisbigliano al terreno impregnato di caldo, senza staccarsi dal suolo cotto dall’afa. Ma è sufficiente toglierle perché tutto cambi con me. Sciolta, vestita di sole, cammino sui tentacoli d’aria del cielo, volo nella corrente di un fiume, regalo la schiena alla carezza erbosa di un giardino. Io e il resto: in ubbidiente, insperata armonia.

Con luglio

Nella resina d’ambra

del sole si muove denso, appiccicoso, rallentato il bianco planante di un gabbiano.

Lontano, nell’ultimo cassetto della credenza del cielo.

E le note si allungano, dolci, ragnatele di carta allargate e distese dalle onde del mare.

Nella trasparenza di cristallo del sole sbatte rapido, veloce, accelerato il bianco scattante

di un gabbiano.

Più vicino, nella vetrina illuminata del negozio del cielo.

E le note si rincorrono, svelte, piume di musica ripetute e rafforzate tra lo sbattere di ali.

Nella luce color carne del sole vola incerto, confuso, sfumato il bianco dissolvente di un gabbiano.

A mezza altezza,

sulla mensola attaccata alla parete del cielo.

E le note si scrivono, curve, linee di destino incrociate e parallele sopra il palmo di una mano.

Perché si chiude, all’improvviso? Perché accartoccia in un pugno l’orizzonte? Perché si mangia il gabbiano fra le dita?

Per rinnovare il senso a tutto quanto. Per regalare il sogno a un altro mondo. Per far volare il volo all’infinito.

Dentro un sole giallo ambra, dentro un sole trasparente, dentro un sole color carne, che è materia di vita e dà vita alla vita.

Comunque.

Nei pressi

Rimanere qui; desidero solo quello.

In una bolla di spazio dove rotola il tempo che, zitto, si assenta: un orologio fermato sul ticchettio senza suono di lancette impigliate

al gancio del vento.

Restare qui; nei pressi del Paradiso.

Sopra una pietra rovente dentro al ghiaccio del fiume che, , riflette: una lucertola inversa impegnata a mangiare le parole del sole pronunciate negli occhi.

Starmene qui; pensando senza pensare.

Sotto sopra

Ho l’erba tra i capelli: cammina ferma sotto le mie braccia; mi legge la schiena coi suoi fili.

Ho il cielo sui capelli: enorme, non pesa sopra la mia fronte; mi scrive la pancia con le nubi.

E sto sdraiata, così, dentro la mano del mondo.

Ore 20:00 Sotto un cappello da capostazione la vita fischia, trillante, all’orecchio dell’io. E il mio treno sferraglia proseguendo il viaggio coi vagoni affollati. Un aggio a livello si abbassa, ogni tanto, a frenare la corsa in una sosta d’incertezza, ma le rotaie si snodano, ormai, senza alternativa.

Nell’aperitivo

Appese a fili da pesca innumerevoli facce di plastica piovono al neon dal soffitto del bar.

Lucidi visi multicolor sullo sfondo artificiale di chiacchiere in nebbia tra la pianura dei suoni e il cristallio roccioso delle cime di bicchieri.

Parlo ma non dico; domando senza risposta; non sento eppure ascolto: con la testa che nuota

dentro il mio aperitivo.

C’è un volto ad un tratto non appeso a quel filo; niente amo nel palato dietro l’esca della bocca che ride.

Ci guardiamo un momento oltre l’acqua del tempo e un sentiero a ruscello ci bagna del presente risalendo ri-risalendo ri-ri-risalendo le cascate dei ricordi coi pensieri da salmone.

Lui mi parla e io gli dico; io domando e lui risponde;

ci sentiamo, già in ascolto: con le mani vicine, attorno a due aperitivi.

E tutto il resto si spenge nella luminosa vibrazione di due amici sconosciuti.

In dubbio

È bello, ma.

Fa bene, però.

Ora c’è, tuttavia.

Avversative di paglia intrecciate in un nido

attorno al rosso del cuore.

Il becco giallo di un dubbio aperto e chiuso nel centro.

Piume tenere e bianche da raccogliere piano.

E con queste la firmo, nell’aria, la condanna sicura di presunta innocenza.

Ore 21:30 Sono dentro una parete di sasso, in questo momento, murata libera. Felice di felicità.

Durante una finestra

Squadrata e profonda mi accoglie dentro sé profilandomi col cielo che fa la trave sul verde per atterrare nel mare.

È una ruga visiva sopra un volto di pietra, una finestra di pelle nella facciata coi sassi imburrati di luce.

Immobile e attenta mi ascolta ascoltare mentre parlo emozioni che si fanno energia nella stanza già in ombra.

È un orecchio del vento sotto capelli di tegole, una finestra di mente nella facciata coi sassi impastati di sera.

Annerita e vibrante mi sente pensare con le cellule tese che rilassano il corpo nel piacere inatteso.

È una bocca di senso tra le guance del muro, la finestra di un bacio nella facciata coi sassi infarinati di buio.

E la notte respira nel respiro eccitato di una finestra a finestra.

Ore 22:30 È tutto accelerato, ormai. La tachicardia emotiva del tempo rischia di far sballare il mio sistema. Un sistema chiuso che si è aperto verso l’esterno con tanta perentoria rapidità da svitarsi su se stesso. In un’ebbrezza fisica capace di ubriacare la mente, con la metamorfosi corporea in atto sulla psiche.

Sensi

Non dirò mai cosa succede nel mio corpo perché la pelle non si scrive.

Non chiederò mai quanto fremano le mie ossa perché il respiro non si indaga.

Non saprò mai come sorride il mio ventre perché l’istinto non si guarda.

Ma sarò lì, sempre.

Quando il piacere volerà fuori dentro il perché di un non perché.

Devil’s dance

Corri! Sul buio del prato che beve la notte. Salta! Fra tenebre d’erba attaccate ai tuoi piedi. Danza! In gocce di luna stillate dal cielo.

Fuggi veloce, regalo del bosco! Scappa felice, presenza velata! Balla tra i rami, ninfa leggera!

In fretta, più in fretta, di più. Più in fretta. Di più.

Avanti! È vicino il respiro arrossato dal volto. Ancora! C’è un brivido lungo nei tronchi arruffati. Adesso! Le foglie già vibrano con l’aria eccitata.

Scatta improvviso, diavolo buffo! Continua i dispetti, satiro furbo! Inseguila svelto, creatura bizzarra!

Presto, più presto, di più. Più presto. Di più.

Finché la corteccia che cela la donna si scioglie in abbracci di rami maschili e il gioco danzante dei corpi agitati si allunga addolcito in righe sottili.

Son fili di miele sfiorati fremendo; son linee leggere su curve di pelle; son lunghe carezze di dolce languore.

Piano, più piano, di più. Più piano. Di più.

Corri! Nelle braccia dell’uomo dai muscoli tesi. Salta! Verso il tuo desiderio oltre il cono d’attesa. Danza! Sull’amplesso ritmato dalla Terra che ruota.

Avanti! Esplode l’affanno nelle bocche carnose. Ancora! Si uniscono i corpi in una virgola viva. Adesso! C’è il ballo del mondo nell’acme cercato.

Come sempre.

Per sempre. Di più.

Ore 2:00 Non sono l’unica ad avere sonno, a questo punto. Anche il tuorlo di luna cucinato sulla padella scura del cielo si lascia mangiare per trovare riposo. Ed io, chiusi gli occhi con la pace del buio, vado via, mi distacco, navigando dentro un mare travasato nel cielo.

Vuoto di luna piena

Una luna-non-luna chiude l’occhio, stanotte, sui rumori del cielo che ascoltano i sogni.

Ne tocco il profumo nebbioso dentro la siepe d’oleandro; ne annuso il calore bagnato

con la bocca strisciante di luce; ne assaggio il dolciastro di pietra sulle dita zuccherate d’argento.

Tonda, gonfia, arrossata, le macchie del bulbo inturgidite di pianto, chiude l’occhio, stanotte.

Per poco. Soltanto per poco.

Ne sento la palpebra nera d’oblio calare sul giallo dell’oro speranza; ne vedo il silenzio dell’ombra crescente coprire il frastuono

di mali lontani; ne osservo il riposo cedente in alone segnare una virgola, pausa di tempo.

Spenta, buia, cancellata, il cerchio scomparso incavato di sonno, chiude l’occhio, stanotte.

Per poco. Solo poco di poco.

E poi la vita-non-vita risorge in questa morte apparente di luna.

Buio d’acqua

Meduse di sale si aprono a boccio nell’acqua tagliata dal coltello profondo.

Si sciolgono svelte oltre i fianchi in metallo col tondo di schiuma che chiude le labbra.

Un bacio va al mare, un bacio alla notte, qualcuno nel cielo, un altro nell’acqua.

Son baci di nero, oscuri e profondi, che vanno dall’onda alle chiome di stelle.

La luna arrossisce,

guardando.

E la nave procede, nel vento.

Ore 5:00 L’alba mi trova colorata.

Aurora

Volteggia. Con scarpette di aria in punta di nuvole, velata di stoffe rubate alle fiamme, tra cirri rosati fluenti sul collo, l’aurora volteggia.

In una mano pastelli dal viola all’arancio,

nell’altra dei nastri cangianti di rosso e il foglio del cielo si tinge compatto di strisce intrecciate a pettinare lo sfondo.

Il ballo silente si muove incorporeo sul sonno degli uomini e sopra il mare distratto, ma lo starnuto di un albero infastidito dai merli saluta l’aurora con plauso di foglie.

Poi

uno sbadiglio, largo e rotondo. Uno sbadiglio e un sospiro

che risucchia i colori pronti ora a dormire nel ventre del sole.

L’astro diurno si desta, dorato, con le guance arrossate, ancora calde di letto, che son lì, per un po’, a ricordare l’aurora.

Sbattendo le ciglia nel balbettio del risveglio il sole cesella la terra di luce, al tocco fatato di un mago inesperto che fa brillare la vita con cenni indecisi.

Schizzi di tono sopra tele di ragno, preziosità madreperla sull’erba bagnata, scaglie di lampi tra imposte socchiuse.

Ancora ancora ancora.

Finché il sole si allarga, potente e sfacciato, dentro un occhio ciclopico esploso in calore.

Sempre più sempre più sempre più.

Ed eccole, allora.

Sono macchie di giallo schiaffeggiate sul mondo dalla carezza del sole.

Sono vernici pastose sbattute con forza sulle pareti dei cuori.

Sono quello che resta dei giorni futuri sulla scia dell’aurora.

Ore 7:30 E il nuovo giorno mi accompagna in un separarsi che diventa ipotesi d’avvicinamento al principio. In fine.

Dissolvenza

Allontaniamoci così lungo la luce di un luminoso mattino di luglio.

Così, senza paura, nel sospiro del sole che socchiude le labbra a sorriso.

Allontaniamoci sopra il confuso contorno dei conti in stupida attesa con tutti.

A distanza

Ti mando una mia lacrima, una lacrima che ride.

Proteggila nel bacio delle tue dita gentili che ora non possono assaggiarmi.

Offrila al raggio di un sole che asciuga quando sarà bagnata d’assenza.

La mia lacrima che ride. La mia risata in lacrima.

Possibilmente

È possibile tutto se si chiudono gli occhi e si ascolta nel naso il rumore di fondo della vita che gratta con gli sci sulla neve. È possibile tutto se si cerca

ogni giorno quella neve di sale oltre l’acqua marina che ci lascia in regalo i cristalli dei sogni.

Possibile è tutto se si danza nel sole e si suona la pioggia cantando nel vuoto emozioni e speranze che massaggiano il corpo dentro l’anima a sacco.

Perché tutto si può.

E si può

tutto.

Se.

Ilaria Cipriani è nata a Pietrasanta e vive a Valdicastello Carducci. Laureata in Lettere Moderne, è giornalista freelance e insegna presso la Scuola Media P. E. Barsanti di Pietrasanta. Ha collaborato col maestro Novello Finotti alla stesura dei testi critici di Soffio d’anime (2004) e Radiografia per un eccidio (2007). Altri suoi testi critici sono stati presentati in occasione delle personali dello scultore Armen Agop (2005) e della pittrice Federica Finotti (2009), e per la mostra “L’arte del cavallo” (2007) alla Versiliana di Pietrasanta. Nel 2011 pubblica il suo primo romanzo, Con la testa sotto il cuscino (L’Autore Libri Firenze), e vince il Premio Letterario Nazionale “S. Anna - Gennj Marsili”.