sco Grifoni
Inversione di marcia
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Table of contents
Capitolo 1 Capitolo 2 Capitolo 3 Capitolo 4 Capitolo 5 Capitolo 6 Capitolo 7 Capitolo 8 Capitolo 9 LA NAZIONE – CRONACA NAZIONALE LA NAZIONE – CRONACA DI FIRENZE Capitolo 10 Capitolo 11 LA NAZIONE – CRONACA NAZIONALE LA NAZIONE – CRONACA DI FIRENZE Capitolo 12 Capitolo 13 LA NAZIONE – CRONACA NAZIONALE
LA NAZIONE – CRONACA DI FIRENZE LA NAZIONE – CRONACA DI FIRENZE Capitolo 14 Capitolo 15 Capitolo 16 Capitolo 17 Capitolo 18 Capitolo 19 Capitolo 20 LA NAZIONE – CRONACA NAZIONALE LA NAZIONE – CRONACA NAZIONALE LA NAZIONE – CRONACA DI FIRENZE LA NAZIONE – CRONACA DI FIRENZE Capitolo 21 LA NAZIONE – CRONACA DI FIRENZE Ringraziamenti
Capitolo 1
La città è bellissima da quassù. Non l’avevo mai osservata da questa prospettiva, e mi ero perso la parte più bella, quella più…spirituale. Da quassù appare tutto così distante, è come se quello che accade in basso non mi riguardasse. Anche l’aria che si respira è diversa, non ha odori, non ha densità, è più pura. Se guardo in su non c’è niente, neppure una velatura, nemmeno un uccello; è tutto azzurro, infinito. In questo istante, più in alto di me, c’è solo l’ Essere superiore, un Qualcuno che è il regista di tutto questo. Già! Chissà se facciamo parte di un progetto già scritto da Qualcuno; un Qualcuno certamente molto importante, che possiede la “trama” di tutte le vite, catalogate in un immenso schedario diviso per nazionalità, per sesso o per importanza. Oppure se veramente siamo noi che abbiamo la facoltà di destreggiarci tra i tanti e diversi episodi che ci capitano durante la nostra esistenza. Se possiamo in qualche modo guidarli secondo la nostra volontà e le nostre capacità, influenzarli. Insomma se siamo noi a decidere la nostra vita. Esistono tante teorie, tante ipotesi più o meno scientifiche o filosofiche o religiose, ma la verità non la potrà mai dimostrare nessuno. Non in questa vita almeno. …Certo…ricordo perfettamente quando ebbe inizio questa storia…la mia Storia. Una storia con la “S” maiuscola, nata dalle ceneri di un’altra che era decisamente diversa e di certo più “semplice”, ma che, e lo dico subito, e ne sono arciconvinto, sono contento di aver vissuto. Di aver vissuto quella “nuova” intendo, ovviamente.
Era un tardo pomeriggio come tantissimi altri tardi pomeriggi. La giornata di lavoro era terminata ed il ritmico picchiettio della pioggia sulla carrozzeria della mia monovolume era ipnotizzante. Il “Generale Inverno” se ne stava andando ma ci urlava contro le sue ultime minacce, tanto per farci ricordare che se ne andava solo per un po’, che sarebbe tornato…come succede sempre, da sempre. Erano le sette di sera e, come me, altre migliaia di persone si accingevano a fare ritorno alle loro case, ognuna con una propria esistenza trascorsa con delle aspettative future, ognuna con i propri malesseri e le sue soddisfazioni. Era difficile pensare che tutte quegli individui chiusi nelle loro scatole di lamiera motorizzate avessero un loro microcosmo, fossero tutti i protagonisti delle loro vite. Eppure era certamente così, anche se a volte mi trovavo a pensare che solo la mia fosse la situazione reale, l’unico copione del film della Vita dove tutti gli altri erano solo il contorno, comparse necessarie affinché la Mia realtà si svilupe secondo una trama probabilmente già scritta da chissà chi. Il mondo appariva e spariva davanti ai miei occhi con la cadenza sincronizzata dei due tergicristalli, lasciando la luce rossa del semaforo a fare da sfondo ai tanti pensieri che mi assalivano, quotidianamente ormai, da un po’ di tempo. Malinconici. Le condizioni meteo non mi aiutavano certo, ma mi sentivo triste nel profondo dell’ anima, rassegnato. Rassegnato ad un’esistenza che non era quella per la quale credevo di essere stato messo al mondo. In realtà non riuscivo a comprendere quali fossero le mie aspettative, ma avevo la sensazione che quell’esistenza nella quale mi ero adagiato fosse un errore; un mio errore dovuto ad una certa pigrizia mentale. La luce di sottofondo divenne repentinamente verde, frastagliata dalle gocce d’acqua che scivolavano lungo il parabrezza. Con un gesto automatico inserii la prima e lasciai lentamente la frizione, facendo avanzare il mio veicolo dolcemente, in una danza alla quale partecipavo insieme a tutti gli altri automobilisti, come un ballo di gruppo in un villaggio vacanze da incubo, popolato di mostri meccanici ed esseri umani lobotomizzati.
…Seconda marcia, poche decine di metri… di nuovo frizione… folle con leggera pressione sul pedale del freno…mi arresto dolcemente a una trentina di centimetri dalla vettura che mi precede. La luce rossa di sottofondo mi fa di nuovo sprofondare nella mia depressione, cancellando in un attimo quel minimo di vitalità che mi aveva concesso il movimento. Ormai era un po’ di tempo che non riuscivo più a essere me stesso, a realizzare cioè qualcosa che mi desse soddisfazione, che mi fe credere di essere sulla strada giusta, quella del mio destino. No, c’era qualcosa che non andava. Troppe volte avevo cercato di non pensarci, avevo ricacciato indietro quella vocina che mi diceva “ma cosa cazzo stai facendo Robbo, chi credi di prendere per il culo. Guarda che la vita è una e una solamente, ed ogni giorno che trascorre non torna più, è andato, perso…e tanti giorni fanno i mesi, che poi fanno gli anni…e tutto prima o poi finisce…” Un clacson mi scuote dai miei ragionamenti che stavano diventando assillanti. Mentre riparto per percorrere altri pochi metri nel traffico prendo una Marlboro dal pacchetto imboscato nella tasca laterale dello sportello e l’accendo con l’accendisigari in dotazione. Già le sigarette: avevo giurato a Maria che non avrei più fumato. E’ una cosa stupida, è matematico che “fumare nuoce gravemente alla salute”. Ormai la medicina ha ampiamente ed accuratamente dimostrato che il fumo aumenta in maniera esponenziale la possibilità di contrarre malattie mortali. “E noi non siamo stupidi quindi perché dobbiamo fumare?” ripete ossessivamente Maria durante una qualsiasi discussione con un fumatore. La prima boccata è come un antidoto al mio malessere psicologico. Il fumo che mi scende nei polmoni mi irrora di nicotina il sangue che trasporta la sostanza nociva al cervello. Mi stordisce e neutralizza tutte le mie riflessioni, tutte le mie angosce e le mie negatività. L’importante è che per un attimo queste mi lascino respirare e non mi deprimano ancora di più. ano pochi secondi durante i quali sto avanzando a o d’uomo e devo svoltare a sinistra. Mi brucia lo stomaco ed il benessere iniziale della nicotina si trasforma di colpo in un leggero senso di nausea. Mi sento stringere lo stomaco e i riflessi appaiono adesso rallentati.
Inserisco la freccia e scalo in prima, stringendo la sigaretta tra le labbra contemporaneamente agli occhi che mi bruciano, e non vedo niente: il fumo ha ormai invaso l’abitacolo e, in apnea, cerco il tasto degli alzacristalli elettrici. Intanto la cenere che non sono riuscito a scuotere mi cade sui pantaloni e sul sedile, lasciando ampie strisciate nere dove cerco di mandarla via… Il conducente completamente fradicio di uno scooter mi suona e mi manda a cacare mentre frena in preda al panico, intraversando il suo ciclomotore sull’asfalto bagnato. Cazzo sembro Fantozzi. Spalanco il vetro e sputo fuori la cicca mentre gocce di pioggia fredda mi schizzano sulla faccia lasciando piccole chiazze scure sul giubbottino scamosciato, regalo di natale dei suoceri. Mi fa schifo questo giubbottino ma Maria dice che è tanto “fine” e mi da un tocco di eleganza. E poi me l’ha regalato la sua “mamma” con gli ultimi risparmi della sua pensione. “Un gran sacrificio ma l’ha fatto volentieri per te, che sei il figlio maschio che non ha mai avuto”. Che palle la mamma di Maria…che palle Maria, che palle questa vita di merda. Accidenti a me e a quella voglia di famiglia e di calore umano che mi ha assalito cinque anni fa. Ne avevo 27 allora e credevo di aver già vissuto la parte di esistenza da dedicare ai cosiddetti divertimenti, alle cazzate giovanili. Avevo ato un periodo trasgressivo ai tempi delle scuole superiori, quando inizi a tagliare il cordone ombelicale con la famiglia e debutti nell’esplorazione del mondo senza quella guida coscienziosa quale solo la mamma e il papà possono essere. Mi ero affascinato ai vizi ed alle illegalità che si potevano trovare fuori dalla cameretta di casa e che gli amici più scafati ti facevano conoscere con la tipica soddisfazione di chi ci è arrivato prima di te.
Le serate trascorse a cercare una canna che era diventata indispensabile per trascorrere una serata altrimenti sicuramente fiacca e priva di stimoli; le risate alterate e contagiose che ti facevano sembrare il resto del mondo una congregazioni di automi imbecilli devoti alle regole imposte da una società che non ci apparteneva. La “fame chimica”, quel frenetico desiderio di appagare le papille gustative divenute iperattive che ci spingeva a girare tutti i forni della città appena aperti, mentre questa era ancora profondamente addormentata. E poi le prime discussioni politiche, nelle quali ognuno spiattellava pari pari le convinzioni ascoltate in casa dagli odiati genitori, che ormai ti erano entrate in profondità nella mente costruendoti dentro delle certezze irremovibili che difficilmente avresti cambiato nel corso della tua vita. E ancora i primi amori: quelli veri, reali, fatti di carne, ione, sesso e sudore, non quelli indimenticabili e romantici della prima adolescenza. Quelli consumati velocemente in preda ad una magica pasticca in un’auto prestata da un amico con la bruttona di turno e poi magnificati al momento dell’attesa conversazione successiva con gli amici. Quelli dove credi di sapere tutto dopo aver studiato decine di riviste e filmini pornografici e invece ti ritrovi nel peggiore degli imbarazzi perché manco sei in grado di “montarti” un preservativo. No, non rimpiango quei momenti. Non erano certo quelli lo scopo della mia vita. Neppure quelli. Poi il servizio militare. La festa della partenza con tutti gli amici, la puttana da due lire ed il coma etilico della mattina seguente, quando con la testa che ti scoppia ed il sapere del vomito ancora in bocca saluti i genitori e sali sul treno della tua prima vera partenza. Una secchiata di acqua fredda in faccia che ti sveglia dal torpore come quella che ti riservavano i “nonni” durante il c.a.r… Le angherie dei caporali e la disciplina dei sergenti. Le notti insonni con il freddo che ti intorpidiva tutto il corpo, trascorse sull’altana di una polveriera sperduta in un bosco a fare finta di vigilare qualcosa di inesistente ; a difendere il niente da un nemico immaginario, a pensare alla prima vera fidanzata lasciata a casa. Ti aspetta trepidante di sicuro, accanto al telefono, mentre tu sei a fare la coda all’unica cabina disponibile dove centinaia di dialetti sembrano rincorrersi su quei fili del telefono.
Col cazzo. Quando torni ti ha messo le corna con il ganzo della compagnia, tanto che ti ritrovi senza fidanzata e senza amici. E quindi il lavoro. Decine di colloqui per sfruttare quel diploma agguantato faticosamente e centinaia di chilometri trascorsi sul cinquantino a consegnare pizze a domicilio, in modo da raccattare i soldi per farsi qualche fine settimana di balli e di sballi. Le palline di “bamba” comprate a mezzo con l’altro sfigato di turno, alla ricerca di una condizione mentale eccitata e eccitante. Tutto finto. Tutte sensazioni sofisticate e irreali. E insoddisfacenti anche quelle. Niente di quello che il mio inconscio riconosce come motivo di esistenza. Dopo l’assunzione a tempo indeterminato come ragioniere in una ditta di apparecchiature per l’automatizzazione di pompe di carburante avuta grazie alle vecchie conoscenze dio mio padre e dopo alcune storielle sentimentali finite male, ecco Maria. Me la presentò un collega di lavoro e la prima impressione non fu così eccitante. L’uscita era stata schifosamente combinata dalla ragazza del mio collega, della quale Maria era l’amica del cuore. Lei veniva da una storia finita male nella quale era stata lasciata da un “poco di buono” che poi si era messo con una ballerina di lap dance. Era vestita come una bomboniera. Si sforzava di piacermi alternando atteggiamenti pudicamente provocanti a manifestazioni di una cultura che voleva essere superiore ma che era invece superficiale, fasulla e quindi fondamentalmente assente. La classica ragazza di origine meridionale e di modesto ceto sociale che, pur manifestando una volontà da donna in carriera, trasuda la cupidigia di accaparrarsi un marito ed una casa. Chiunque esso sia va bene lo stesso, l’importante è raggiungere lo scopo prefissato. Non feci mistero al mio amico delle mie perplessità sulla ragazza, ma lui, con il
cinismo tipico di chi vuole solo il tuo bene, mi fece notare che anche io non ero proprio un fotomodello e che forse avrei anche dovuto iniziare ad accontentarmi abbassando l’asticella delle mie pretese. In effetti il mio fisico non era mai stato particolarmente atletico. Già da bambino ero in evidente sovrappeso tanto che le ginocchia tendeva a piegarsi all’interno conferendo alle gambe la tipica forma a X. Nell’adolescenza i miei genitori cercarono di tonificarmi iscrivendomi ad una scuola calcio del mio quartiere ma da subito ottenni risultati modesti, sia dal punto di vista squisitamente tecnico che da quello fisico. Successivamente frequentai saltuariamente varie palestre e piscine, in special modo quando venivo colto dai sensi di colpa a causa di disavventure sentimentali. Adesso che la pancetta aveva assunto una caratteristica definitiva ed anche i capelli iniziavano ad abbandonarmi, formando delle vistose stempiature sulla fronte e diradandosi sulla nuca, presi sul serio quell’osservazione così severa, ringraziandolo pure per la sincerità. Iniziammo a frequentarci dapprima ad un cinema tutti insieme, e poi per una bevuta da soli. E quando dopo la pizza con la più classica sosta romantica lungo la strada panoramica della città, finimmo a letto, mi affascinò irrimediabilmente. Faceva l’amore con una ione incredibile ed aveva una vocazione ad assecondare qualsiasi desiderio sessuale mi asse per la mente. E poi era veramente premurosa e servizievole: mi donava una sicurezza infinita sulla sua fedeltà e sulla sua accondiscendenza. Galleggiai per un paio di anni su quell’esperienza di sesso sfrenato e benessere fisico fino a che mi trovai prigioniero di un matrimonio senza quasi rendermene conto. I nostri genitori si erano già conosciuti e si trovavano bene insieme, e tutta la situazione ricalcava perfettamente la tradizione secondo la morale cristiana. Avevo vinto un concorso pubblico come dipendente comunale presso l’acquedotto: un posto fisso e uno stipendiuccio sicuro. A questo punto il mutuo per l’appartamentino in un palazzo in una zona residenziale del quartiere di Rifredi era stato equamente diviso così come l’anticipo necessario e i soldi per la mobilia, rigorosamente Ikea, con qualche “oggettino” di classe per valorizzare il
tutto. Lei lavorava come igienista in uno studio dentistico all’estrema periferia sud della città e si diceva pronta per continuare gli studi universitari interrotti e finalizzare il terzo sogno della sua vita: aprire uno studio dentistico specializzato in odontoiatria infantile. Il secondo sogno l’ho già ricordato: un uomo sul quale appoggiarsi per tutta la vita. E poi c’era il primo sogno: semplice e scontato…ovviamente: un figlio, anzi meglio due. Nel mio stato di demenza mi ero lasciato trascinare nell’esaudire anche quel desiderio. Era già un annetto che Maria tentava di rimanere in cinta, sfruttando le fasi lunari, le posizioni scientificamente studiate, rispettando i tempi e l’alimentazione e tutte le minchiate che puoi trovare su Cosmopolitan e su quei cessi di riviste femminili. Ancora niente. Puntuali come le tasse giungevano le sue mestruazioni, deprimendola dapprima in maniera lieve e poi, via via che i mesi trascorrevano invano, in modo sempre più profondo, andando ad incidere sul suo sistema nervoso e di conseguenza sul nostro rapporto. Fu la svolta. La dimostrazione che non tutti i mali vengono per nuocere. Lentamente ma inesorabilmente iniziai a scuotermi dal mio torpore amorfo, dal mio stato soporifero e demenziale. “Ma che cosa vuole questa?” iniziai a chiedermi. Sembrava che fosse colpa mia se il “primo sogno” non si avverava. Forse lo era davvero, ma una persona perdutamente innamorata credo che rinunci anche a questo pur di vivere felice accanto all’uomo della sua vita. Col cazzo. Alla prima difficoltà il suo atteggiamento nei miei confronti era radicalmente cambiato. Era diventata ipercritica. Quello che dicevo io non era più “il Vangelo” come lo era stato fino a poco prima, in maniera così scontata che mi
dava quasi fastidio. Non si faceva più trovare da me così provocante e piacente, e anche a letto la sua ione era drasticamente calata, tanto che erano più le volte che si ritirava nella parte più lontana dandomi le spalle e addormentandosi fingendo di essere stanca, che quelle in cui amoreggiavamo come una coppia innamorata amoreggia. Decisamente, finalmente, iniziavo a svegliarmi. Verde…arancione…rosso…”cazzo… rosso!” La frenata era stata tardiva e l’asfalto fradicio aveva fatto il resto. Urtai l’auto che mi procedeva facendole così impegnare l’incrocio. Uno scooter che era partito a razzo dalla strada proveniente da sinistra l’aveva centrata in pieno e il conducente era ato oltre il cofano del veicolo che avevo tamponato rotolando poi sull’asfalto fino ad andare ad incastrarsi tra le ruote di una bicicletta condotta da un giovane di colore che stava pedalando sulla vicina pista ciclabile e che era quindi finito rovinosamente a terra. Bellissimo, sembrava di essere al cinema. Adesso tutto il mondo che mi circondava appariva più chiaro e le gocce di pioggia, invece di urtare sul parabrezza in attesa di essere cancellate dai tergicristalli mi si stampavano direttamente sul viso donandomi una piacevole sensazione di benessere. Mi ci volle un po’ per capire che il cristallo del parabrezza anteriore della mia vettura era andato in frantumi a causa di una mia violenta capocciata. Istintivamente mi portai le mani sopra la fronte da dove sentivo scendere una sostanza liquida, calda e appiccicosa. Rimasi stupito dal constatare quanto bello fosse il colore del mio sangue, un colore rosso che non ha eguali nelle varie scale cromatiche che si trovano in commercio. Sembrava essere qualcosa di animato, di vivo. Scesi dalla mia monovolume con lo sguardo ammirato e compiaciuto, prendendomi le offese dello scooterista che si era rialzato praticamente illeso e della signora che guidava l’auto che avevo tamponato. Entrambi sembrava che avessero i piedi inchiodati a terra e, sporgendosi in avanti in maniera del tutto
innaturale, mi apparivano come due figure mitologiche mostruose, tanto i loro volti erano deformati dalla rabbia: -….stronzo…Sei proprio un coglione… -…oh, ma guarda che faccia da babbaleo che si ritrova…ma dove cavolo guardi… -…sei proprio una fava, così fai ammazzare qualcuno… -…Ha ragione…ma dico io: cosa cavolo ci sta a fare al mondo gente del genere?... Già…ultimamente me lo chiedo un po’ troppo spesso anch’io: “Cosa cazzo ci sto a fare al mondo” .
Capitolo 2
Arrivai a casa con tre ore di ritardo e trovai mia moglie assopita davanti alla TV con indosso una logora tuta da ginnastica e delle terrificanti pantofole con la faccia di Minnie, che guardava apionatamente il famoso reality “il Grande Fratello”. “E ti pareva che non arrivavi proprio adesso” mi salutò acida senza spostare lo sguardo dal monitor al plasma da 42 pollici che ci eravamo regalati per Natale,mentre si sporgeva concitata verso il televisore strizzando gli occhi attraverso le spesse lenti degli occhiali da vista che indossava solo in mia compagnia: “ adesso non rompere che siamo alle nominations ed è tutta la sera che aspetto di vedere se quella stronza di Gianna nomina veramente Alberto o se invece nomina Rosalinda. Le fa tanto l’amica ma sono sicura che cercherà di buttarla fuori per fregargli Andrea…è proprio una zoccola…nel congelatore ci sono dei sofficini se hai fame…oggi non ce l’ho fatta a fare la spesa perché ero con Giulia e Rita e s’è fatto tardi a cercare il regalo per il bimbo di Lucrezia… ah domani sera non ci sono perché esco con loro per l’aperitivo…eccoci adesso chetati per cortesia, anzi vai di là che così non rompi…” Non proferii parola e mi diressi in cucina sempre più disgustato da quella situazione. E’ vero che avevo chiamato mentre mi trovavo al Pronto Soccorso dicendole che avevo avuto un problema di nessuna gravità particolare, ma mi aspettavo un minimo di interessamento, mi aspettavo quel piccolo calore al cuore generato dal fatto che qualcuno si preoccupa per te. Mentre scaldavo l’olio per tuffarci dei saporitissimi sofficini ai quattro formaggi marchiati “coop” cercavo di capire cosa mi tratteneva dall’interrompere quello schifo di relazione. Ero davvero così codardo da temere di restare solo per il resto della mia vita? No, non era quello, era che ormai la mia vita aveva preso quel canale che in fondo era quello giusto. E poi avrei dato un dispiacere a una cifra infinita di
persone: a mia madre, a mio padre, ai nostri amici in comune…no non potevo rovinare tutto quello che avevo in qualche modo costruito in quegli anni. In fondo Maria non era stata sempre così, probabilmente era solo un periodo no ed anch’io avevo certamente le mie responsabilità. L‘olio di semi di girasole iniziava a fumare ed i due sofficini vi si immersero dentro con un allegro sfrigolio, rilasciando una miriade di piccole particelle di grasso sul piano cottura e sulle piastrelle lucide. Come se non stesse aspettando che un motivo per aggredirmi, Maria si mise a strillare dal salotto: “Ma sei proprio un marrano! adesso guarda di pulire subito il porcaio che stai facendo perché io non lo faccio di certo, non sono mica la tua servetta eh…come se avessi lavorato poco oggi” continuò bofonchiando tra se Continuai nel mio mutismo, riprendendo le mie riflessioni. “Magari se mi fi delle analisi appropriate potrei verificare se il problema a riprodurmi è mio e se magari è curabile. Al giorno d’oggi curano di tutto, magari basta una terapia di un paio di mesi e riesco a metterla in cinta. Così si da una calmata e tutto torna come prima…o anche meglio. In fondo siamo nati per riprodursi, è la cosa più naturale del mondo e alla fine farà felice pure me…” Mentre adagiavo la mia cena su un foglio di carta assorbente per fare in modo di eliminare un po’ dell’olio in eccesso e mi sedevo sullo sgabello giallo di design di fronte al tavolino “ a isola” in stile minimalista che si allungava dalla cucina, mi misi a ripensare all’incidente occorsomi poco prima. L’indomani avrei telefonato alla mia compagnia assicurativa per denunciare il sinistro e, appena terminato l’orario di lavoro, avrei fatto una scappata dal carrozziere. Per fortuna il paraurti in plastica aveva assorbito bene l’urto e me la sarei cavata con poche centinaia di euro. L’importante era che non lo vedesse Maria, altrimenti mi avrebbe rotto le palle finché non la riparavo. Già mi pareva di sentirla: “ nemmeno gli zingari vanno in giro con una macchina ridotta in queste condizioni, io mi vergogno…” Meno male che nessuno si era fatto troppo male, anche se il ragazzo di colore aveva battuto la testa e appariva un po’ frastornato, oltre che sbucciato e sanguinante in varie parti del viso. “Vabbè, l’assicurazione la paghiamo per
questi motivi quindi…magari trova pure il verso di tirarci su due lire” pensai, tanto per pulirmi un po’ la coscienza. Mi venne in mente che lo straniero non parlava assolutamente la nostra lingua, anzi non parlava proprio, e, probabilmente per la paura provata, mi fissava dal lettino del Pronto Soccorso dell’Ospedale di Careggi con due occhi sgranati che sembravano voler uscire dalle orbite. Eravamo stati appoggiati nella stessa sala di medicazione perché entrambi avevamo necessità di alcuni punti di sutura alle ferire riportate e dovevamo sottoporci alla Tac. Durante l’attesa, nella quale ci sottoposero ambedue ad un check up completo comprensivo di analisi del sangue e misurazioni di parametri vari, ebbi modo di tentare di scusarmi con lui per quello che avevo provocato, ma questo non sembrava in grado di capire un accidente di quanto gli dicevo. “Ma come cavolo farà questo a vivere in un mondo che non capisce…boh…io non ci riuscirei” riflettevo ammirato. Il tipo non era molto alto, ma aveva un fisico asciutto ed atletico, con la pelle nera opaca tipica delle popolazioni dell’Africa centrale, che si tendeva ad ogni minima contrazione dei muscoli tanto da sembrare che si potesse lacerare in ogni momento. Alla base del collo, appena sotto il cranio rasato, si poteva appena scorgere un piccolo fregio tribale in rilievo a forma di “S”, quasi una cicatrice provocata da un’incisione sull’epidermide, probabilmente era il simbolo distintivo della etnia tribale di appartenenza. Quando improvvisamente venne rimproverato e riportato al suo lettino dal personale sanitario perché aveva iniziato a vagare per i locali della struttura come fosse un automa, compresi che non era assolutamente abituato alle regole di un ospedale, tanto che, riflettei, probabilmente era in primo che vedeva in vita sua. Gli esami a cui fui sottoposto non rivelarono niente di preoccupante, così fui subito dimesso con una prescrizione di antidolorifici e la raccomandazione di un paio di giorni di assoluto riposo. Mentre ripensavo alla serata movimentata appena trascorsa accarezzandomi il vistoso cerotto che mi avevano applicato sul taglio sopra l’arcata sopraccigliare, mi sorpresi a gustarmi un sottile piacere in tutta quella situazione, una semplice variante alla mia routine che assumeva però un gusto particolare, quasi
premonitore. “Mi porteresti un bicchiere d’acqua?!” venni svegliato dal mio torpore “Si arrivo” risposi mentre mi accingevo a riempire un grosso bicchiere di vetro colorato dal rubinetto della cucina. Quella fu una delle poche cose su cui mi ero scontrato con Maria e l’avevo avuta vinta. Quando ci sposammo lei era una di quelle fissate con l’acqua minerale in bottiglia. Pretendeva che mi sciropi, tutte le volte che facevo la spesa, un carico di almeno sei bottiglie di acqua di quelle pubblicizzate alla TV per le loro virtù dimagranti, diuretiche, antiossidanti, povere di sodio e cazzate varie. Da quando lavoravo preso l’acquedotto di Firenze non avevo più alcun dubbio sull’acqua da consumare: quella del rubinetto. Ogni giorno trasmettevo all’ufficio analisi chimica i risultati degli esami effettuati sull’acqua distribuita in città e potevo quindi toccare con mano i rigidissimi protocolli sanitari ed i maniacali controlli effettuati sull’acqua pubblica. Quindi mi chiedevo come poteva essere che qualcuno ancora non si fidasse a consumarla, preferendo quella analizzata magari tre anni prima e che era stata conservata all’interno di bottiglie di plastica lasciate per mesi al sole ed alle intemperie su pancali in mezzo ai piazzali delle ditte di trasporto. Il tutto senza contare l’inquinamento provocato dai milioni di bottiglie di plastica e le diossine emesse nell’atmosfera dai migliaia di camion che percorrevano avanti e indietro la nostra penisola, facendo pure smoccolare tutti gli automobilisti…. Insomma, Maria era una di quelle e mi ero impegnato, con successo, a convincerla del suo errore. Risultato che adesso non avrei mai ottenuto, visto che nemmeno si era accorta della mia medicazione, ma all’epoca, quando ancora diceva di amarmi… Terminata la mia cena e ripulita la cucina e le stoviglie, mi sedetti in salotto, nella poltrona dell’Ikea vicino al divano sul quale la mia apatica consorte si era assopita. L’interessantissimo Talk Show era appena terminato e scorrevano i nomi dei vari addetti ai lavori sulla base del teleschermo. Non osai cambiare canale per non correre il rischio di svegliarla, e rimasi così in contemplazione di quel corpo abbandonato tra le braccia di Morfeo. La camicia da notte di flanella le si era aperta sulle cosce, lasciando intravedere le mutandine di pizzo sulle quali si era adagiata una pancetta decisamente poco
attraente, mentre sulle cosce una crescente cellulite condita da alcune smagliature rendevano quella figura tutt’altro che sexy. Come se non bastasse Maria si era addormentata con la testa leggermente reclinata all’indietro, e gli occhiali le erano scivolati fino in fondo al naso; dalla bocca socchiusa in un’espressione scocciata usciva un sibilo che si avvicinava molto al russare di un camionista ubriaco. Mi resi conto che certi dettagli non li avevo mai notati prima, o non li avevo voluti notare…ma adesso si. Ci facevo caso quasi provando piacere nel disgustarmi, archiviando questi difetti in un angolo della mia mente, pronti ad essere utilizzati come alibi al momento opportuno. No…dovevo trovare una soluzione: decisamente non la sopportavo più.
Capitolo 3
Ero sdraiato nel letto matrimoniale ma non riuscivo a smettere di pensare alla mia situazione coniugale. Maria era all’estrema mia sinistra, rannicchiata e girata di spalle, mentre io occupavo i restanti ¾ di letto, rigirandomi in continuazione e trascinandomi dietro il piumone, tanto da provocare gli inconsci lamenti di mia moglie. Infine mi alzai con l’intento di andare a bere un bicchiere d’acqua per rinfrescarmi e placare una sensazione di arsione che mi aveva assalito. La ferita alla testa mi pulsava e il collo mi doleva tanto da non riuscire a raddrizzarlo completamente senza provare dolori lancinanti. Eseguendo continui esercizi di stretching, più istintivi che efficaci, appoggiai la fronte al vetro gelato, provando una immediata sensazione di sollievo. Guardai distrattamente fuori dalla finestra, attraverso l’appannamento provocato dal mio respiro: erano le quattro del mattino e per strada non c’era nessuno, tutto era immobile come in una natura morta post moderna. Improvvisamente un grosso fuoristrada nero che proveniva molto lentamente dal fondo della strada, frenò davanti alla mia finestra, rischiarando la notte con la forte luce rossa degli stop. “Cavolo che macchinone, vediamo chi è la troia che si fa riportare a casa a quest’ora” mi chiesi curioso, avendo realizzato immediatamente che quell’auto non apparteneva a nessuno degli abitanti di quell’isolato. Dall’auto scesero invece due uomini che rapidamente sparirono dalla mia vista portandosi sotto il palazzo, proprio in corrispondenza del mio portone di ingresso, mentre l’auto andava a parcheggiare sul lato opposto della carreggiata, spengendo i fari ma mantenendo il motore , come denunciava il lieve filo di fumo che usciva veloce e silenzioso dallo scarico.
Forse era solo suggestione, ma ebbi come l’impressione che uno dei due, prima di sparire, avesse dato una rapida occhiata proprio nella mia direzione, mostrandomi per un attimo un volto che aveva un qualcosa di inquietante. Immediatamente un brivido mi percorse la schiena mentre cercavo di tranquillizzarmi ripetendomi che mi ero sicuramente sbagliato e che magari il tipo stava solo sincerandosi che la troia lo stesse aspettando sveglia. Anzi li stesse aspettando. Rimasi comunque nel silenzio più assoluto, cercando di carpire ogni rumore utile a tranquillizzarmi. Udii chiaramente il rumore dell’ascensore che era stato chiamato dal basso e che transitava in discesa dal mio pianerottolo. Arrivò il suono dell’apertura automatica delle due porte metalliche e dopo poco quello della chiusura. Ma l’ascensore rimase fermo al piano terra. Non so perché ma un secondo brivido, più forte del precedente, mi fece trasalire ed una piccola goccia di sudore iniziò a scivolarmi dalla fronte. Mi avvicinai silenzioso alla porta blindata di ingresso e appoggiai l’occhio allo spioncino. Quasi svenni quando mi accorsi che a pochi centimetri da me si trovava l’uomo che mi aveva guardato dalla strada. Era intento ad armeggiare con dei chiavistelli che teneva custoditi in un piccolo marsupio, come se stesse scegliendo quello adatto ad aprire la mia serratura, aiutato dall’altro soggetto che però non mi rimaneva visibile. Ero pietrificato, sia nei movimenti che nella mente, e non so dire se più per la situazione o più per le caratteristiche del viso di quella persona: i capelli erano rasati ma potevano essere chiari, come chiari erano gli occhi, di un azzurro trasparente del tutto simile al ghiaccio. Il viso scavato era segnalo per tutta la lunghezza che separa l’orecchio dall’angolo della bocca da una cicatrice che faceva apparire la sua espressione come compiaciuta, ghignante, fossilizzata in un sorriso sadico. Mentre i polmoni tornarono a riempirsi di aria e la mia bocca si stava spalancando per fare esplodere un urlo di terrore, la porta dell’appartamento di fronte al mio, abitato da un vecchio giudice in pensione, si aprì e ne uscì una giovane donna dell’Est europeo, probabile albanese o rumena, in abiti succinti, accompagnata affettuosamente dall’uomo anziano abbigliato con una vestaglia decisamente retrò.
I quattro rimasero per un istante in silenzio, evidentemente tutti scocciati dall’essere stati notati da altri, ognuno per motivi differenti. Il primo ad aprire bocca con un tono di voce molto pacato e senza alcuna inflessione dialettale, fu lo sfregiato: “…Ma…Carlo dobbiamo smettere di bere” disse rivolto al suo compare “ abbiamo di nuovo sbagliato pianerottolo, questo non è il nostro appartamento…” continuò poi rivolto al giudice con la massima tranquillità: “non siamo al sesto piano vero?” “No…questo è il quarto…” rispose perplesso il vecchio, più imbarazzato che sospettoso “Ecco lo sapevo…ci siamo trasferiti da poco in questo condominio e siamo rimasti con la testa al nostro vecchio appartamento che era al quarto piano… vabbè gli ultimi due ce li facciamo a piedi così ci rinfreschiamo le idee… buonanotte e grazie…” “…notte” biascicò il vecchio mentre osservava i due salire le scale, sodisfatto di essere rimasto illibato nella sua moralità davanti ai condomini che lo conoscevano . Rimasi bloccato in quella posizione non sapendo se aprire la porta per sputtanare quei tipi che non abitavano affatto al sesto piano, o se era preferibile non imbarazzare l’anziano signore, sempre molto gentile e comato e non meritevole di fare una tale figura di merda. L’indecisione mi fu fatale ed il giudice, dopo aver baciato la mignotta spingendola dolcemente nell’ascensore, chiuse la porta. Pochi istanti dopo sentii i i veloci dei due soggetti di prima che scendevano le scale e, affacciatomi di nuovo alla finestra, ebbi modo di vedere il fuoristrada che si allontanava sgommando mentre gli sportelli si chiudevano. Non sapevo se svegliare Maria per raccontarle l’accaduto e se chiamare la Polizia, così rimasi per un tempo indefinito immobile, con il cellulare in mano e la faccia da ebete. Alla fine riuscii a convincermi che erano sicuramente due ladri e che io sarei stato in grado di spaventarli anche da solo, senza la fortunata casualità del mio vicino. Sarebbe bastato un urlo e quelli se la sarebbero filata, visto che
probabilmente pensavano, chissà per quale motivo che in casa non ci fosse nessuno. Da domani avrei chiuso la porta anche con il paletto interno e poi avrei fatto comunque denuncia alla polizia. Mi sdraiai sul letto tentando di rilassarmi, ripetendomi che era stato solo un brutto episodio e che avevo avuto una gran fortuna, e che la mattina seguente avrei affrontato al meglio la situazione dimenticando il panico che mi aveva paralizzato; ma appena chiudevo gli occhi mi compariva davanti il ghigno del tipo con i suoi occhi demoniaci che sembrava darmi appuntamento ad una prossima occasione.
Capitolo 4
Il risveglio fu alquanto traumatico. Quelle poche ore che mi separavano dall’alba le avevo vissute in uno stato di semi incoscienza che non mi aveva fatto per niente riposare, trasportandomi in un mondo parallelo costellato da incubi e cattivi presagi, di quelli che non sei in grado di raccontare ma che ti lasciano dentro uno stato di malessere che non riesci a scollarti di dosso per tutto il resto della giornata. Al suono della sveglia, che avevo atteso nel mio subconscio come una liberazione dalla prigione di angoscia in cui ero precipitato, Maria si era trascinata in bagno insieme alle sue ciabatte con la solita aria disgustata e senza neppure rivolgermi la parola, confermando quindi che non si era assolutamente accorta di niente. Quando fu il mio turno, mi osservai nello specchio rotondo incassato nelle piastrelle colorate della parete, notando che la nottata pressoché insonne aveva lasciato le sue tracce ben visibili sul mio viso: il colorito era simile a quello di un cadavere dopo tre giorni di cella frigorifera di un obitorio e i pochi capelli che mi erano rimasti apparivano come piccoli serpenti impazziti, dritti sulla mia testa. Gli occhi cerchiati da profonde occhiaie erano arrossati mentre le due rughe che scendono dai lati del naso apparivano molto più marcate del solito, facendo apparire le mie guance del tutto simili a quelle di un vecchio Bulldog. Istintivamente mi stropicciai forte la faccia con le mani fino a sentire quasi dolore e mi schiacciai i pochi capelli stirandoli all’ indietro, come per cancellare quella visione schifosa che avevo di me: quando riaprii gli occhi notai comunque un leggero miglioramento dovuto ad una più vigorosa circolazione sanguigna, o forse solo ad un innato senso di conservazione. Mi sfiorò un pensiero piacevole: “sicuramente è stato solo un brutto sogno…” ma durò solo alcuni istanti. Ne ero certo. Era tutto vero. Uno stato d’ansia mi partiva dallo stomaco fino ad arrivare alla gola
intralciandomi il respiro. Telefonai al capufficio del mio reparto per avvertirlo che avrei fatto tardi al lavoro e mi recai al Commissariato di Pubblica Sicurezza della zona per sporgere denuncia circa l’accaduto. Dopo una breve attesa nella sala d’aspetto, un agente in un’ordinata divisa della Polizia di Stato mi fece accomodare ed ascoltò imperterrito il mio racconto della trascorsa nottata. “Lo sfregiato…la macchina in attesa…l’armeggiare intorno alla mia serratura….” Mentre io mi emozionavo tanto da farmi tremare la voce mentre ripercorrevo quei terribili istanti, il poliziotto picchiettava imperturbabile la tastiera del vecchio computer senza pormi alcuna domanda e senza mostrare alcun turbamento per il mio racconto. Colto da un sentimento di pudore e di recondita complicità maschilista, omisi di citare la parte che riguardava il vecchio giudice e la mignotta, sperando che questo non influisse sull’utilità della mia denuncia, e mi convinsi presto che avrei potuto raccontargli qualsiasi cosa, visto che non riuscivo a capire se stava pensando agli affari suoi o se mi aveva preso per il solito mitomane che aveva verbalizzato pazientemente centinaia di volte. Mi congedò consegnandomi una copia della mia dichiarazione piena di banali frasi di rito e, senza la benché minima variazione del suo atteggiamento, ma probabilmente compiendo il massimo dello sforzo secondo un protocollo ormai imparato a memoria, mi consigliò di contattare immediatamente il 113 qualora si fossero ripetuti episodi analoghi. Quando uscii da quella struttura pubblica ebbi comunque la sensazione di aver fatto il mio dovere di cittadino onesto che paga le tasse, e che per questo motivo verrà in qualche modo tutelato. Entrai finalmente al lavoro che era quasi mezzogiorno, percorrendo il corridoio della palazzina riservata agli uffici amministrativi dove già l’attività quotidiana scorreva monotona e cadenzata. Mi venne da osservare che non erano certo gli uffici frenetici di Wall Street o di qualche multinazionale londinese, dove i manager e gli impiegati corrono nevrotici con lo sguardo intelligente e spiritato di chi decide il destino del mondo. Pareva piuttosto un ufficio burocratico sovietico prima del crollo del muro di Berlino, dove persone più o meno raccomandate scivolano faticosamente verso la fine della giornata, consapevoli del fatto che la loro presenza non è affatto fondamentale e, in molti casi, neppure necessaria. Mentre attraversavo le varie
stanze, gettai un’occhiata all’interno di ognuna di queste e vedevo impiegati occhialuti che, con le scrivanie sommerse di bicchierini di plastica della macchinetta del caffè, erano intenti a leggere il quotidiano sportivo o, con lo stesso entusiasmo, fogli riportanti noiosi dati statistici sul consumo e sulla distribuzione dell’acqua in città. Ognuno di loro analizzava quei fogli da decine di anni: prima manoscritti, poi battuti sulle storiche macchine da scrivere Olivetti lettera 35, poi con le elettroniche Canon, e infine impressi da futuristiche stampanti laser collegate a computer giapponesi di quasi ultima generazione. Sicuramente nessuno di loro faceva più caso al significato di quei dati e alle loro successive applicazioni; d’altronde sono solo cifre che devono rimanere entro parametri consolidati e legalmente concordati, a cui nessuno di loro attribuiva mai un significato concreto. Finalmente arrivai alla mia stanza: un buco di tre metri per tre arredato secondo i canoni stabiliti dalla società a cui appartengo e i cui muri sono impregnati del mio odore, che solo io non posso riconoscere ma che il resto del mondo può chiaramente percepire. In maniera meccanica, ripetendo gesti ormai divenuti istintivi, mi sedetti alla mia postazione e accesi il computer cercando di raccogliere le energie necessarie ad iniziare la mia monotona giornata lavorativa. I risultati da trasmettere alle Autorità Sanitarie Locali erano ammonticchiati in una pila di fogli che provenivano direttamente dal laboratorio chimico sottostante. Presi il primo e, mentre il computer stava caricando tutti i programmi istallati, cercai di verificare la corrispondenza dei primi dati con quelli di riferimento. Ancora non avevo messo a fuoco le cifre collocate nella tabella Excell quando una voce che mi riempì le orecchie e il cuore di benessere arrivò dall’ingresso dell’ufficio. “Salve signor Roberto, come va? …Mi scusi se mi permetto ma… Lei è sempre così puntuale solitamente e quando stamani non l’ho vista…beh mi sono un po’ preoccupata” In piedi sulla porta, appoggiata garbatamente allo stipite, una ragazza con una cascata di riccioli neri sulle spalle mi guardava stupita con i suoi grandi occhi
scuri. Dal camice bianco pieno di macchie e di bruciature provocate dagli acidi di laboratorio che fasciava un corpo magro, ma giovanile ed atletico, spuntavano un paio di stivali di cuoio neri consumati sui quali mi concentrai per non far notare l’emozione che pervadeva il mio sguardo. Stefania era la nuova chimica del laboratorio di analisi, lavorava da noi da poco più di un mese ed era la prima volta che mi rivolgeva la parola. Varie volte l’avevo notata mentre parlava con altri colleghi che, ovviamente, le giravano intorno come avvoltoi. Non era molto alta ed aveva un viso particolare che mi era rimasto impresso da subito. Quella voce che si rivolgeva proprio a me mi aveva colto completamente di sorpresa e quasi mi mancava la forza di rispondere, tanto che balbettai alcune parole: “…emh….beh…ecco…ho avuto qualche problema…in famiglia, cioè non proprio in famiglia ecco…a casa…di notte…insomma mi spiace, non volevo farla preoccupare…” Stefania nascose un sorriso consapevole sotto un grazioso gesto della mano: “Si figuri, non volevo farmi gli affari suoi…beh, le ho fatto avere le analisi di stamani…arrivederci ci vediamo più tardi…” indicò l’apice di una pila di documenti ordinati alla mia destra e se ne andò con la camminata disinvolta di chi è consapevole di aver fatto colpo. Rimasi a bocca aperta a ripensare a quelle parole: “stamani non l’ho vista…mi sono un po’ preoccupata”. Cavolo quanto tempo era che qualcuno non si diceva preoccupato per me, cavolo quanto era bello…e poi aveva detto che sono sempre puntuale, quindi mi aveva già notato, e io che pensavo non sapesse nemmeno della mia esistenza… Mentre terminavo queste osservazioni mi arrivò alle narici il suo profumo, un’ intensa fragranza di un profumo se da donna mischiata all’odore acre del tabacco di una sigaretta appena spenta. “Che spettacolo di donna, fuma pure…altro che quella scassa palle di Maria”… Rimasi così, con la faccia da ebete e il cervello perso a fantasticare ed a farsi dei film sugli ipotetici sviluppi di quelle poche parole… “Buongiorno signor Pagliai…alla buon’ora…” Una voce dal timbro completamente diverso da quello della precedente, carico di sarcasmo e disapprovazione, mi svegliò nuovamente dalle mie fantasticherie.
“Buongiorno Direttore…avevo avvisato il signor Bruschi del mio ritardo… credevo l’avesse avvisata lui…” “No, non mi ha avvisato nessuno, comunque recupererà il tempo perso a farsi gli affari suoi. Tra cinque minuti la voglio nel mio Ufficio perché le devo parlare. E cerchi di essere puntuale questa volta.” Mi recai immediatamente in bagno per una rassettata e, non privo di curiosità, dopo trenta minuti di anticamera, fui ricevuto dal Direttore della Società Acquedotto di Firenze, il dottor Cesare Renai. Era un uomo magro e stempiato, con l’espressione perennemente corrucciata, che tentava di nascondere le sue mancanze culturali con una sgradevole dialettica volgare da sergente dei Marines. “Mi ha contattato il responsabile della Asl della zona per informarmi che lei non si è ancora sottoposto alle analisi mediche richieste, e questa mancanza può portare ad una sanzione amministrativa che andrà a gravare sull’Azienda, oltre far collezionare una figura di merda al direttore dell’ufficio del personale, cioè a me.” Rimasi interdetto da quanto affermato dal Direttore e lo osservai mentre leggeva una lettera con aria comunque perplessa: “ mi scusi Direttore ma io non ero a conoscenza di nessun controllo medico…io non ne ho mai fatti da quando lavoro qui e, sinceramente credo che nessuno dei miei colleghi vi si sia mai sottoposto” La faccia del signor Renai divenne, se possibile, ancora più irritante. Si sporse in avanti poggiando i gomiti sulla enorme scrivania in legno nero arredata con i classici ed inutili accessori in pelle: “Non mi frega un cazzo se né lei, né qualche altro lavativo del suo reparto l’ha mai fatta. Secondo una circolare del Ministero della Sanità, dell’Ufficio del Lavoro regionale reparto sicurezza ed igiene e che cazzo ne so io, lei ci si deve sottoporre. E ci si deve sottoporre entro sabato prossimo, altrimenti vengono a scassare le palle al sottoscritto che ha altre cose a cui pensare che non a fare da balia a lei. Quindi ha tre giorni di tempo, prenda questa lettera e vada al più presto a fare queste analisi. Se poi non crede di doversi sottoporre a quanto le sto dicendo basta che mi faccia avere la sua lettera di dimissioni e sarò ben lieto di accettarla. E non voglio sapere altro. Adesso vada a lavorare che mi pare abbia già perso troppo tempo per oggi” Mi gettò la lettera che stava leggendo pochi istanti prima si concentrò sullo
schermo piatto del suo pc. Appena uscito dalla stanza lessi il foglio con l’intestazione della ASL che riportava tutti i miei dati anagrafici e mi esortava effettivamente ad effettuare non meglio specificate analisi presso l’ ambulatorio pubblico di quella zona. In tanti anni di lavoro non avevo mai ricevuto niente di simile. “Non sanno più cosa inventare per rompere i coglioni…sarà un modo come un altro per spillarmi un po’ di soldi” rimuginai tra me; piegai il foglio e lo riposi nella tasca della giacca. Era davvero una giornata speciale, visto che mai ero stato ripreso per un ritardo e mai ero stato convocato nell’Ufficio del Direttore. Eppure, mentre tornavo nel mio “loculo” osservato dallo sguardo incuriosito e maligno dei miei colleghi che sicuramente avevano origliato gustandosi la sfuriata, dal profondo del mio stato d’animo percepii un fattore positivo, motivo di una certa soddisfazione: già due persone si erano accorte di me in meno di un’ora: che stesse davvero cambiando qualcosa nella monotonia della mia vita? che fossi sulla strada giusta per diventare una persona “interessante”?
Capitolo 5
Trascorsi i giorni successivi immerso nella solita routine, ma mi rendevo conto che c’era qualcosa di diverso. Era come se mi stessi svegliando da un lungo sonno e stessi lentamente emergendo dal torpore ormai cronico per riprendere il contatto con la realtà. Quello scorrere monotono delle ore lavorative iniziava a darmi sui nervi, ed una certa agitazione, fino ad allora latente, mi stava crescendo dentro e, piano piano, dilagava, invadendomi lo spirito. Come mi ero immaginato nessuno dei miei colleghi si era ancora sottoposto a quelle dannate analisi, ed il fatto di essere stato il primo, cosa che in altri momenti mi avrebbe provocato il solito sentimento di rassegnazione alla sfiga che ormai mi perseguitava da anni, mi faceva venire il nervoso, mi faceva crescere dentro una voglia di ribellione agli eventi che continuavano ad accanirsi contro di me, mi faceva sentire finalmente vivo. E poi c’era Stefania. Da quando mi aveva rivolto la parola la prima volta, l’avevo incontrata in altre occasioni: nei pressi della macchinetta automatica del caffè, vicino ai bagni, fuori dal portone di ingresso mentre si fumava una sigaretta… e sempre era stato un tuffo al cuore. Non erano stati incontri casuali: ormai mi affacciavo continuamente nei luoghi dove sapevo che c’era la possibilità di vederla nella speranza che ciò avvenisse. Ormai riuscivo ad individuarla con l’olfatto, seguendo come un cane da caccia il suo profumo se sempre accompagnato dalla fragranza del tabacco che sembrava essersi impossessata di lei. E tutte le volte che riuscivo ad incrociarla notavo sempre un particolare, benché minimo e apparentemente insignificante, che mi faceva presupporre, o quanto meno sperare, un suo interesse nei miei confronti: un sorriso appena accennato, un saluto di sfuggita, un’occhiata fugace da sotto i suoi splendidi riccioli. E tutte le volte per me era come un balsamo di lunga vita, un brivido che mi attraversava il corpo
dalla punta dei piedi fino all’ultimo dei capelli, facendomi accelerare i battiti cardiaci. Era bellissimo e stimolante. Con l’arrivo della sera accadeva esattamente il contrario. Il giungere dell’orario di chiusura dell’Ufficio e l’avvicinarsi al rientro a casa assomigliava sempre più ad un incubo. Durante il viaggio di ritorno la sensazione di malessere cresceva via via che la distanza dalla mia abitazione e da Maria diminuiva. Una volta in casa mi pareva che le pareti domestiche si chiudessero sopra di me soffocandomi e, con il pensiero, tentavo di trovare una via di fuga per un’evasione che ancora, però, mi sembrava impossibile da attuare. Ovviamente Maria non si accorse di tutto questo e, anzi, sembrava soddisfatta del mio silenziosempre più assiduo. Lei continuava tranquillamente a vivere la sua esistenza piatta e scontata, fatta di reality tv e telefonate spettegolanti ed uscite con le amiche, mentre io non riuscivo più a giustificare quel suo comportamento. Ormai era diventato un tarlo che lavorava in continuazione sul mio cervello in maniera sempre più frenetica ed insopportabile. Una sera, mentre tentavo inutilmente di addormentarmi con lei che già russava al mio fianco, rintanato nel mio angolo di letto, esasperato e claustrofobico, mi trovai a desiderare ardentemente che avesse un altro uomo e che magari sarebbe stata lei ad andarsene, prendendo una decisione che io non sarei mai stato in grado di prendere. Questa speranza riuscì a rilassarmi facendomi addormentare e permettendomi di vagare in un paradiso fatto di amore, profumo e tabacco. Quel sabato mattina, invece di girarmi nel letto fino a tardi come usavo fare di solito nel fine settimana, fui svegliato dalla suoneria del mio cellulare che mi ricordava della visita medica a cui dovevo sottopormi. Arrivai puntuale e mi misi in coda all’accettazione insieme ad una miriade di anziani che sembravano di casa in quel posto tanto si trovavano a loro agio, al contrario di me. Mentre aspettavo, leggevo i nomi dei medici operanti in quell’ambulatorio, composti con piccoli caratteri di plastica arancione fissati su un vecchio pannello
di tessuto verde appeso sulla parete di fronte all’entrata: nonostante li avessi letti tutti ripetutamente e con attenzione, non riuscii a trovare quello indicato nella lettera consegnatami dal Direttore; attesi quindi pazientemente il mio turno, sciroppandomi una mezz’ora di polemiche di ogni tipo, legate al ticket, agli orari, alle ricette mediche assenti o non pertinenti ed ad altre mille problematiche della nostra sanità pubblica. Quando finalmente giunse il mio turno e comunicai alla signorina addetta allo smistamento dei pazienti il nome del medico con il quale avevo appuntamento, questa apparve contrariata e mi riferì con tono di rimprovero che quel medico lì non esisteva e che avevo sicuramente sbagliato ambulatorio. A seguito della mia insistenza a cui fece seguito la presentazione della lettera che mi riguardava, la scorbutica occhialuta, dopo una serie di negazioni, dette segno di stupore mentre staccava un post-it dal vetro divisorio. Del tutto stizzita mi riferì indicandomi una stanza in fondo al corridoio: “Ah…certamente si tratta di una prestazione occasionale che non mi era mai capitato di vedere, lei avrà certamente qualche buona raccomandazione…” “Mai come quelle che le permettono di lavorare qui, mia cara signorina scassa palle sottuttoio!” pensai mentre riprendevo la mia lettera e mi dirigevo ringraziando ossequiosamente verso lo studio indicatomi, seguito da decine di sguardi invidiosi e commenti sprezzanti. Giunsi davanti ad una porta di legno bianca non contraddistinta da nessuna indicazione e bussai “Avanti” provenne dall’interno Entrai nella stanza e mi pervase una sgradevole sensazione di freddo stantio e di muffa, tipica dei locali che non vengono areati da molto tempo. Dietro una scrivania disadorna posizionata sul fondo di una stanzetta anonima e arredata esclusivamente con un paio di sedie ed un calendario vecchio di tre anni, si trovava un medico con indossato un camice bianco immacolato; Avrà avuto una cinquantina d’anni ma era senz’altro un uomo molto piacente che ci teneva alla forma fisica e all’apparenza. I capelli brizzolati erano corti ma pettinati all’indietro in maniera impeccabile e la corporatura slanciata e atletica ben si completava con la carnagione abbronzata del viso.
“buongiorno, lei deve essere…vediamo…il signor Pagliai…Roberto Pagliai?” chiese con un affabile tono interrogativo mentre si alzava appena dalla sua sedia sporgendosi in avanti per stringermi la mano “Si, precisamente” “Piacere, dottor Michelozzi, Carlo Michelozzi…” Ci fu un attimo di pausa con una crescente situazione di disagio da parte mia “Bene” continuò, leggendo alcuni documenti che teneva in una mano mentre con l’altra estraeva dal taschinodel camice, indossandoli, un paio di minimalisti occhiali Versace con la montatura in acciaio rossa laccata: “si accomodi. Vediamo…lei lavora presso l’acquedotto di Firenze…con mansioni contabili?” “Non esattamente. Inoltro dati analitici di laboratorio. Sono un tecnico e, non un contabile, per maggior precisione” “Ah si certo…bene bene. Prima di are agli esami medici compiliamo la modulistica sui dati personali…sa, sono le nuove disposizioni del Ministero della Sanità in materia di sicurezza sul lavoro…” “Si ho saputo, ma non conosco ancora nessuno che si è sottoposto a tale procedura, e poi tutta questa urgenza…” osservai un po’ scocciato ma tenendo sempre un tono carico di riverenza tipico di chi è sempre stato abituato a nutrire un dogmatico rispetto verso le istituzioni “ No, nessuna urgenza particolare” sorrise sornione “solo una richiesta di sollecito inoltrata al suo direttore in modo che non si perda tempo nelle solite lungaggini che inevitabilmente intasano questi tipi di accertamenti” Fornii tutti i miei dati anagrafici, quelli di tutti i componenti della mia famiglia di origine e di quella attuale, con i relativi indirizzi, recapiti telefonici e vincoli di parentela, malattie genetiche e quant’altro mi veniva richiesto, mentre il dottore trascriveva manualmente quanto da me indicato. Notai che il medico usava una penna “Mont Blanc” che, sebbene non l’avessi mai posseduta, sapevo avere un elevato valore economico. Questo dettaglio, sommato agli occhiali alla moda, mi portò ad osservare che al polso sinistro portava un orologio Rolex in oro e acciaio e, sotto al camice, si intravedeva un
completo scuro di ottima fattura, certamente confezionato da qualche stilista rinomato. Anche le scarpe parevano nuove e certamente erano di gran classe. Quei particolari male si associavano all’ambiente in cui quel dottore si trovava e alla funzione che stava svolgendo e quindi, non so per quale motivo, la sensazione di disagio che già provavo dal primo momento che avevo varcato la soglia di quel minuscolo ambulatorio, parve aumentare in maniera decisamente anomala. “Bene, si arrotoli la camicia sopra il gomito che procediamo alle analisi, ci vorranno pochi minuti” disse mentre estraeva una siringa monouso da una confezione che aveva prelevato da una grossa borsa in pelle appoggiata sulla scrivania. “Di cosa si tratta precisamente, se posso chiedere?” Lo interrogai con un tono sospettoso che non era certo nelle mie caratteristiche comportamentali “Niente di particolare, un prelievo di un campione di sangue che verrà analizzato per escludere la presenza di alcuni batteri che potrebbero risultare incompatibile con le delicate mansioni da lei espletate. Immagino si renda conto di quanti danni potrebbe causare un problema sanitario derivante dal sistema idrico pubblico… ” Effettivamente in meno di cinque minuti avevo terminato e, dopo essere stato informato che la trasmissione dei risultati clinici della visita sarebbe stata a cura della Asl procedente, fui congedato. Scesi in strada dirigendomi verso la mia auto con la sensazione di aver fatto qualcosa di sbagliato e cercai di convincermi del contrario,ma quando al termine di un comato ragionamento logico c’ero quasi riuscito, fui attratto da un veicolo parcheggiato nei pressi dell’ingresso dell’ambulatorio. Ci gettai un’occhiata distratta e proseguii ma, fatti pochi i mi sentii ghiacciare il sangue nelle vene. Mi voltai lentamente in direzione di quella macchina e mi pietrificai: Il veicolo che aveva attirato la mia attenzione era uguale al fuoristrada che avevo
visto sostare la notte del tentato furto sotto il mio appartamento, e seduto al posto di guida, c’era un uomo che credetti subito di riconoscere: “lo sfregiato!” Cazzo era proprio lui, il tipo che stava tentando di forzare la mia serratura. Come munito di un sensore che percepiva lo sguardo altrui, l’uomo voltò la testa verso di me dandomi la possibilità di vedere i suoi occhi di ghiaccio e la cicatrice che gli attraversava il viso ghignante. Mi fissò immobile per alcuni istanti ed io, dopo aver fatto alcuni i all’indietro, colto dal panico più completo, mi detti alla fuga travolgendo un venditore ambulante senegalese e tutti i suoi pupazzi. Quando mi sembrò di trovarmi a distanza di sicurezza infilai in un bar pieno di gente e, con le mani ancora tremanti per la paura e per lo sforzo della corsa, estrassi dalla tasca del giubbotto il mio telefono cellulare e composi il 113. Mentre sentivo il classico tuutuu del libero, tentavo di calmarmi facendo dei profondi respiri, senza però mai perdere di vista l’ingresso del bar; alcune gocce di sudore mi scivolavano veloci lungo la schiena mentre continuavo a tentare inutilmente di inumidirmi le labbra con la lingua. “113…” disse una voce femminile “…si…si 113…lui è qui…quello dell’altra notte è in macchina e mi stava guardando…” urlai tutto d’un fiato con la voce rotta dall’emozione e dalla mancanza di salivazione, tanto che diversi clienti del bar si voltarono stupiti verso di me “come scusi?…mi dica il suo nome, il suo numero di telefono, da dove chiama e di cosa ha bisogno” chiese meccanica la voce femminile senza tradire alcuna emozione Deglutii nervosamente cercando mi rendere la mia voce quanto più comprensibile possibile “Cavolo correte, mandate subito una macchina…era lì e ho paura che venga qui…aiuto….Cavolo...ho bisogno di aiuto…” continuai ad urlare nel mio cellulare dimenandomi in preda all’agitazione e facendo calare il completo silenzio dentro il bar, con tutti i clienti che mi osservavano come fossi un marziano o, meglio, un malato di mente: mentre, con la manica del giubbotto mi asciugavo le gocce di sudore che mi imperlavano la fronte sentivo un rigagnolo ghiacciato scivolarmi lungo la schiena per finire tra le natiche, nelle
mutande. “…bene, noi arriviamo subito, ma adesso si calmi e mi dica come si chiama, mi dica qual è il suo nome” “Roberto, mi chiamo Roberto” “Bene…ha bisogno di un’ambulanza signor Roberto?” “No cazzo, ho bisogno della Polizia…per adesso, ma se non correte ho paura che avrò bisogno pure dell’ambulanza…forse!” risposi cercando adesso di calmarmi e abbassando il tono della voce mentre istintivamente, ormai cosciente della curiosità che avevo creato e quindi in preda ad un pudico imbarazzo, mi giravo dando le spalle ai clienti e appoggiandomi con il gomito alla parete, cercando inutilmente di apparire rilassato. Continuai con la faccia nascosta nell’incavo venutosi a formare tra il bicipite e l’avambraccio: “Sono in P.zza Dalmazia dentro un bar, ma il tipo che mi sta cercando è vicino alla Standa, in un fuoristrada nero, ha uno sfregio sul viso e credo che voglia uccidermi. Adesso non sto a spiegarle tutta la storia ma, mi creda, ho i miei buoni motivi per esserne certo, o almeno abbastanza certo” “Ok le mando una volante e spiegherà tutto agli operatori, intanto mi lasci il suo numero di telefono, il suo cognome, non si isoli e cerchi di tenere a vista il suo molestatore” mi informò la voce con la medesima cadenza priva di qualsiasi emozione. Doveva essere un modo di fare dei poliziotti quello di apparire sempre distaccati, al limite tra il professionale ed il cinico, riflettei dopo aver riagganciato il telefono ed essermi , per quanto possibile, ricomposto, e prima di affacciarmi all’esterno con la massima prudenza. Del fuori strada non c’era più traccia. La volante della Polizia arrivò dopo pochi minuti e percorse per un paio di volte l’itinerario intorno alla piazza, prima di fermarsi davanti alla Standa con i lampeggianti accesi. Mi avvicinai agli occupanti spiegando loro l’accaduto e la storia della famosa nottata, senza però menzionare che avevo avuto la netta sensazione che “lo sfregiato” sapesse benissimo dove mi trovavo e che oggi fosse stato lì solo per
me. Presero nota delle mie descrizioni e ricevetti l’assicurazione che avrebbero pattugliato per un po’ la zona per cercare di rintracciare la persona e si raccomandarono di comporre nuovamente il 113 qualora avessi di nuovo notato il tipo. Tornai verso casa in preda ad una forte agitazione, ormai certo che qualcosa intorno a me stava accadendo.
Capitolo 6
Dopo la disavventura di Piazza Dalmazia, prima di rientrare a casa, battei la zona circostante svariate volte nel timore di individuare di nuovo il tipo con la cicatrice o la sua macchina, magari parcheggiata sotto ilmio appartamento. Scrutavo nei parcheggi più frequentati e negli angoli più bui degli androni dei palazzi con il cuore che mi batteva impazzito in gola per il terrore di vedere sbucare qualcosa o, peggio, qualcuno che confermasse le mie paure. Eppure, nel recesso più sperduto della mia mente gemeva il solito, perverso e indescrivibile desiderio, che tutto ciò che più temevo si concretizzasse. Ebbene si: volevo la conferma che qualcuno si stesse interessando a me con sempre maggior assiduità. Invece niente. Né quella sera, né la sera dopo e neppure nei giorni seguenti accadde niente di sospetto, tanto che la preoccupazione, e di conseguenza la mia soglia di attenzione, calarono sensibilmente. Ripresi il mio lavoro con una certa tranquillità nei giorni successivi fino a quando, esattamente il giovedì mattina, quando avevo quasi completamente rimosso quel brivido di eccitazione che aveva preso a sollecitarmi strane sensazioni, al momento del mio arrivo all’acquedotto per iniziare il mio turno di lavoro, accadde qualcosa di veramente speciale. Avevo appena parcheggiato la mia utilitaria e mi stavo assicurando di averla chiusa secondo una mia consuetudine quasi maniacale, quando mi sentii chiamare da una voce piena di agitazione e di carica erotica: “signor Roberto, per l’amor di Dio signor Roberto, ma cosa è successo?” Stefania mi stava correndo incontro e tanto era trafelata che la sua voce risultava rotta dallo sforzo. Mi si arrestò davanti premendosi una mano sul petto lasciato
scoperto dallo scollo generoso , quasi volesse arrestare il movimento sussultorio dello stesso. Mi vergognai di me stesso quando mi accorsi che non potevo fare a meno di osservare il suo seno sodo e perfetto che premeva da sotto la maglia attillata, quasi volesse farla esplodere. Violentandomi mi costrinsi ad osservarla negli occhi mentre un piacevole formicolio mi cresceva dentro al cavallo dei pantaloni, improvvisamente divenuti troppo stretti. Aveva il volto paonazzo e gli occhi neri brillavano esprimendo tutta la sua preoccupazione. Prima di continuare, con un gesto nervoso si scostò con le dita affusolate un piccolo ciuffo di capelli che gli si era incuneato in un angolo della bocca mentre gli altri riccioli si dimenavano sulla sua testa facendola apparire una “Caravaggesca” Medusa, moderna e sensuale: “ci sono delle persone che la cercano. Non so chi siano ma non mi piacciono per niente. Hanno chiesto del direttore e lui, che è sempre così autoritario, si comporta con loro come un cagnolino. Sembrano quasi poliziotti, ma della peggiore specie: hanno controllato in tutti gli Uffici e ci guardano come se fossimo tutti dei cospiratori, come se pensassero che la vogliamo nascondere e…” Vidi are dentro i suoi occhi sgranati una tetra conclusione e mi si rivolse come se gli fosse balenata in mente per la prima volta un’idea: “…non è che ha combinato qualcosa vero? Qualcosa di grave dico…no vero…io non ci credo…” Non riuscii a proferire parola, paralizzato da una miriade di sensazioni troppo forti per essere superate in pochi istanti. Era come se il cuore mi si fosse bloccato a causa di una gigantesca cascata di acqua gelata che mi aveva sommerso. Allora lei riprese scuotendo la testa, come se la domanda fosse stata solo una stupida formalità: “…certo che no, avranno certamente sbagliato persona, ci sarà certamente un equivoco, ma mi creda signor Roberto, quegli uomini sono veramente inquietanti e mettono in soggezione tutti quanti…” Riuscii per un attimo a prendere fiato e, fingendo un coraggio che non mi apparteneva, le presi delicatamente la faccia tra le mani; con una voce ferma che mi sentivo uscire dalla bocca senza che il cervello lo avesse ordinato, la
tranquillizzai: “Ok Stefania, è tutto ok, si calmi ora. Sarà certamente un equivoco che adesso vado a chiarire, ma lei si calmi per cortesia, non è successo niente. La ringrazio per avermi avvisato, ma vedrà che risolverò tutto in un attimo, mi creda” Sentii i muscoli del suo collo che si rilassavano ed il peso della testa che si abbandonava dolcemente sul palmo delle mie mani; i suoi occhi adesso erano fissi nei miei e manifestavano una stupita ed infinita ammirazione, donandomi la sensazione di averla definitivamente conquistata. Fu un attimo. Uno di quei periodi di tempo che escono dal normale conteggio effettuabile con orologi, cronometri o fotocellule, o qualsiasi altro meccanismo di precisione più o meno tecnologico. “Un attimo” è quell’unità di misura del tempo completamente soggettiva, durante la quale una persona arriva a vedere trascorrere nuovamente tutta la sua esistenza come in un film, oppure riesce ad arrivare a conclusioni che teoricamente necessiterebbero anni di studio, oppure, come in quel caso, si trattava di una porzione di tempo nella quale un essere umano può pervenire a toccare con mano l’apice del piacere di tutta una vita, l’essenza del benessere spirituale. Un piacere allo stato puro, indescrivibile. Inspirai profondamente il suo magnifico profumo riempiendomi i polmoni e percepii il calore della sua pelle morbida che transitava attraverso le mie mani e mi arrivava dritto al cuore, trasportato da un flusso sanguigno divenuto impetuoso come un torrente di montagna in piena: avrei voluto fermare il tempo in quell’attimo per farlo proseguire in eterno, ma la sua effimera durata fu comunque sufficiente a farmi sentire finalmente una persona realizzata. Carico di orgoglio come non lo ero mai stato ed ormai entrato completamente nella parte dell’eroe senza macchia e senza paura, la lasciai nel parcheggio e mi diressi con o deciso verso l’ingresso senza voltarmi indietro. “No!” gridò Stefania dopo pochi secondi, mentre mi accingevo a varcare la soglia della porta a vetri dello stabilimento. Aveva ripreso completamente il controllo delle sue emozioni: “Non lo fare…ho un brutto presentimento”
Mi raggiunse di corsa e mi prese le mani guardandomi con occhi divenuti umidi, febbricitanti. “Ho un’idea, meglio non rischiare. Vada al bar all’angolo e mi aspetti lì. Io vado ad informarmi meglio su cosa vogliono da lei e le faccio sapere, così potrà decidere cosa è più opportuno fare. A volte, anche in caso di equivoci, è meglio fare intervenire un avvocato o comunque qualcuno più competente, in modo che sbrighi la cosa nella maniera più pratica e veloce possibile. Mi aspetti là che ci metto un attimo” Appena colse un minimo cenno di accondiscendenza da parte mia, mi fece un occhiolino di complicità e, dopo avermi leggermente spinto verso l’esterno, varcò decisa la soglia dello stabilimento precipitandosi su per le scale con o deciso. Io rimasi un po’ interdetto sul da farsi, combattuto tra la caparbietà di voler subito chiarire la questione e la voglia di gratificare Stefania per la sua preoccupazione eseguendo le sue direttive. Ovviamente prevalse la seconda sensazione e mi diressi verso il bar indicato con la testa confusa da un turbinio di interrogativi. Il tempo di un caffè ed un occhiata distratta alla Gazzetta dello Sport e vidi, attraverso la vetrina, Stefania che attraversava la strada e si dirigeva velocemente verso di me. Notai il suo atteggiamento che era, se possibile, ancora più nervoso del precedente e si voltava continuamente indietro come se temesse di essere seguita. “Allora?” la interrogai ansioso non appena aprì la porta del bar e si diresse verso di me “Allora non lo so…ma sembra una cosa grave” rispose scuotendo lievemente la testa; adesso appariva quasi stanca, delusa e contrariata. Abbassò notevolmente il tono della voce e, con fare cospiratorio, continuò preoccupata: “Dicono che lei ha combinato qualcosa di grave, qualcosa di pericoloso. Ho
sentito la segretaria del Direttore che ne parlava al telefono con il marito. Diceva che ha sentito i due uomini che spiegavano tutto al Direttore, ma lei ha capito solo quando affermavano che “quello che ha fatto è molto pericoloso…” perché poi hanno chiuso la porta ed abbassato la voce. E’ riuscita solo a comprendere che la vogliono interrogare e che parlavano sempre di una sigla “h1b13”, ma forse ha capito male, perché, sebbene sembri il nome di un Virus, io non ho mai sentito niente del genere... Gli occhi le si riempirono di lacrime di delusione: “Oh mio Dio signor Roberto… ma cosa ha combinato?” Rimasi ad ascoltarla a bocca aperta e non sapevo cosa risponderle. Ormai qualsiasi cosa le avessi detto non sarebbe servita a convincerla, quindi decisi di non giustificarmi ulteriormente: “ Che mi creda o no la questione non cambia. Io non ho fatto niente e adesso vado a sentire cosa vogliono da me, una volta per tutte!” Mi detti una lisciata alla mascella come per caricarmi, sistemai meccanicamente il nodo della cravatta e mi diressi deciso verso l’ingresso. Appena iniziato ad attraversare la strada un’emozione mi penetrò nello stomaco come una gelida lama d’acciaio: di nuovo il fuoristrada. Quel fuoristrada! Era parcheggiato in doppia fila lungo la strada fuori del parcheggio, a una cinquantina di metri dall’ingresso carrabile, ed usciva un leggero filo di fumo dallo scarico: non riuscivo a distinguere bene il conducente, ma avrei potuto giocarci qualsiasi cosa: era lo sfregiato! Mi paralizzai nuovamente ed ebbi come la sensazione che mi stesse guardando, poi mi parve addirittura di vedere le ruote anteriori del grosso Suv che si giravano verso di me e di sentire anche lo stridio dei grossi pneumatici sull’asfalto. In realtà l’auto era ancora ferma e, seppure ci sarebbe voluto veramente poco a notarmi impalato così com’ero in mezzo alla strada, l’autista pareva non vedermi; improvvisamente mi sentii strattonare per un braccio: “Corra signor Roberto, si nasconda! quello sta con loro!” Entrai nuovamente nel bar ed avevo immediatamente perso tutte le mie sicurezze e la mia decisione. Ero inebetito e ormai deciso ad attendere di essere catturato, investito o ucciso, a seconda dei desideri di quelli che mi cercavano; non avrei opposto alcuna resistenza, desideravo solo che fero una cosa veloce.
“Tenga, queste sono le chiavi della mia auto; è una Lancia Y nera ed è parcheggiata qua dietro, se esce dall’altra porta non la vedranno. Meno male che oggi mi sono fermata a comprare le sigarette e ho parcheggiato subito, senza andare a metterla nel parcheggio! La sua la staranno sicuramente già sorvegliando. Prenda la mia e si allontani, vada dove meglio creda ma si allontani, mi dia retta la prego! Più tardi mi telefoni e così la potrò aggiornare meglio su cosa sta succedendo…dia retta a me…scappi!” Finì il discorso e ci fu un attimo di pausa. Mi prese le mani e, sul dorso della sinistra, scrisse il suo numero di cellulare con una matita di quelle usate per truccare gli occhi. Mi piaceva il contatto con quelle lunghe dita affusolate e ben curate, avrei voluto che le cifre che componevano quel numero fossero infinite… un attimo dopo sentii le sue labbra che mi baciavano su una guancia, molto vicino all’angolo della bocca. Il mio fu un gesto impulsivo, ma ragionandoci sopra tutta la vita per prepararlo, non avrei saputo fare di meglio: mentre lei stava lasciandomi le mani con la massima delicatezza possibile, io l’afferrai con una presa decisa per i polsi sottili e la tirai a me con autorevolezza. Lei non oppose alcuna resistenza, anzi sembrava accompagnare i miei gesti. Sentivo aumentare il profumo ed il calore del suo alito femminile ed entrambi ci assaporammo per pochi istanti; percepivo la punta del suo naso che mi accarezzava il collo salendo su, finché le nostre bocche si sfiorarono, si schiacciarono dolcemente l’una contro l’altra, prima di socchiudersi e combinarsi nel bacio più bello che avessi mai potuto immaginare. Il calore umido e la morbidezza della sua lingua che accarezzava delicatamente la mia mi fece entrare la mente in un’altra dimensione, in un mondo caleidoscopico a me sconosciuto, fatto di miele e tabacco, di desiderio e di mistero. Mi parve durare cento anni ma in realtà furono solo pochi secondi. Poi lei mi allontanò premendo leggermente i palmi di entrambe le sue mani sul mio petto; abbassando pudicamente lo sguardo dolce ma carico di imbarazzato, riprese come se niente fosse successo: “ vada signor Roberto, la prego si sbrighi e sia prudente…la prego…” Come un automa telecomandato, stringendo le chiavi nel pugno fintanto che le nocche divennero bianche, uscii di corsa, montai sulla piccola utilitaria e scappai sgommando come in una serie tv di ultima categoria.
Capitolo 7
Ero felice. Ero molto più che al settimo cielo.Forse ero al quindicesimo, al ventesimo, nell’attico della stratosfera. Altre volte, negli anni della mia adolescenza e giovinezza, avevo provato sensazioni di estasi di quell’intensità, sensazioni dovute ad incontri sensuali con l’altro sesso che mi facevano sentire realizzato. Ma a quei tempi, seppure nel pieno della stupidità giovanile, nel mio inconscio sapevo che si trattava di momenti più o meno effimeri. Questa volta no. Sarà stata la mia attuale situazione sentimentale con Maria, sarà stato il mio attuale momento di iperattività emozionale o chissà cos’altro, ma potevo giurare che quella che mi era appena accaduta era la cosa più bella del mondo, di un’intensità riservata solo a pochi eletti all’interno di tutto il genere umano. Avrei voluto gridare al mondo la mia felicità, tutti dovevano sapere quanto ero felice e che cosa stupenda mi stava capitando. Invece no. Non potevo distrarmi in simili esternazioni, anzi dovevo cercare di farmi notare il meno possibile. Ero alla guida della Lancia Y di Stefania e tutto, lì dentro, mi ricordava lei. I piccoli dettagli che ingraziosivano quel veicolo, dettagli che solo una donna può curare in quel modo, i suoi capelli impigliati nel poggiatesta, un pacchetto vuoto delle sue sigarette….e poi c’era l’odore. La tappezzeria era impregnata del suo splendido profumo ed ogni volta che respiravo lo sentivo dentro di me, e serviva a tenere vivo il ricordo dell’Emozione provata poco prima. Non sapevo dove ero diretto, non mi interessava affatto. Era come se lo scopo della mia vita fosse già stato raggiunto e quindi il futuro non mi interessava. Viaggiai per molto tempo, non saprei definire quanto, e percorsi molti chilometri
di strada senza vedere niente di quello che scorreva fuori dai finestrini. Quando finalmente riuscii a tornare sulla terra fu come quando, durante il servizio militare, mi buttavano giù dalla branda nel pieno della notte. Accostai in una piazzola sterrata alla mia destra e mi guardai intorno. Come ho già detto, avevo viaggiato per molto tempo ma non ero andato poi così distante. Mi trovavo a non più di una decina di chilometri dall’acquedotto, sulla via aretina, la statale che porta verso Pontassieve, Arezzo e poi Roma. Da un esame più accurato del paesaggio che mi circondava riconobbi il paesino di Compiobbi, una località formata da poche case che si affacciano sulla strada e sulla ferrovia che le corre parallela: quelle costruzioni, con le loro finestre oscurate da vecchie persiane in legno sbiadito, osservano da sempre, pigre ed indifferenti, il transito di carri, macchine, treni e camion che mai si fermano e raramente le osservano, prese come sono dalla frenesia di raggiungere la loro destinazione finale. Edifici vecchi e corrosi dall’umidità dell’Arno che scorre lì sotto, i cui abitanti, terminate le fatiche quotidiane in città, si ritrovano da sempre presso la vecchia Casa del Popolo, il “circolino”, come lo chiamano da queste parti, consci ed allo stesso tempo beati del fatto che il mondo li ignora. Parcheggiai meglio l’auto e mi diressi verso quell’unico locale pubblico, il Circolino Arci appunto, con l’intento di tirare un attimo il fiato ed organizzarmi al meglio. Meno male. Ero arrivato alla conclusione che quel fantastico momento non era finito, anzi, avevo la possibilità di farlo continuare, di svilupparlo, di migliorarlo ancora. Se solo fossi riuscito a sopravvivere. Si, la mia vita era ad una svolta e non dovevo fermarmi proprio adesso, non dovevo permettere a nessuno di fermarmi, neppure allo “sfregiato”. Il destino mi stava pagando il conto della mia buona fede e certamente mi avrebbe aiutato ancora. Incredibile. Per la prima volta nella mia vita stavo pensando positivo. Però adesso dovevo metterci del mio, quindi avevo l’obbligo di riflettere e di scegliere le mosse migliori da fare. Mi sedetti su una sedia formata da una fitta rete di fili di plastica intrecciati ed
appoggiai sul tavolino di formica rosso sbiadito la mia Moretti da tre quarti, che una giovane e procace barista mi aveva indicato di prelevare da solo dal frigorifero posizionato in fondo alla grande sala disadorna. Appollaiati attorno ad un altro tavolino del tutto simile al mio c’erano quattro vecchietti che, sotto lo sguardo corrucciato di un obsoleto Lenin ritratto in un romantico poster ormai sbiadito dalle ere politiche trascorse, bestemmiavano tra loro per una primiera contestata, litigando in un dialetto che non sentivo dalla mia fanciullezza e che credevo ormai scomparso. Mentre il primo sorso di birra, gelata e amara, mi scivolava lungo la gola donandomi una sensazione di freschezza e di nuova vitalità, cercai per prima cosa di escludere gli errori: Non potevo tornare a casa: certamente sarebbe stata controllata. Non potevo chiamare la polizia: non mi avrebbero capito o, peggio, mi avrebbero arrestato. Stefania aveva detto che sembravano poliziotti… Non dovevo usare il mio telefono: in parecchi film che avevo visto tutti i telefoni delle persone ricercate venivano messi sotto controllo e intercettati. Non dovevo essere precipitoso: tutte le scelte fatte senza la dovuta calma potevano risultare fatali, tanto più per una persona come me, eterno indeciso e per niente sveglio. Dovevo trovare una sistemazione dove rifugiarmi almeno per quella notte, dopo di che, tramite un telefono pubblico avrei chiamato Stefania che mi avrebbe informato sulla situazione. Valutando le informazioni che mi avrebbe fornito avrei preso ulteriori decisioni, ma intanto avevo bisogno di un rifugio sicuro dove riposarmi. Detti un’occhiata al portafoglio e mi accorsi che i soldi per un albergo non li avevo: possedevo si e no una ventina di euro e non potevo ricorrere alla Carta di Credito, sicuramente rintracciabile. Accidenti a Maria. Mentre maledicevo la cattiva sorte ravvisai che anche quel problema derivava da lei, dalle sue manie di economia spiccia: “non prelevare
tutti quei soldi…” continuava a ripetermi tutte le volte che mi recavo presso uno sportello automatico del Bancomat “…quando li hai poi li sperperi, e tu non sei certo un miliardario! ci ridurrai sul lastrico e non potremmo mai permetterci una vacanza dignitosa…” Ma chi se ne frega della vacanza dignitosa All inclusivein un cazzo di resort di lusso in qualche angolo merdoso del pianeta dove la gente muore di fame, tanto per poter poi mostrare le foto alle sue amiche di merda e spararsi delle gran pose da donna di mondo, da primadonna della minchia! Si, perché tanto sarebbe solo per quello. A lei non frega certo di immergersi nella realtà naturale e sociale dei posti che va a visitare; macché, per lei andare in un Club Med della Colombia, della California o della Cambogia non fa alcuna differenza, tanto iniziano tutte per “C”: l’importante è che siamo al Club Med! Stronza superficiale con la sensibilità e l’intelligenza di un cecio! Stefania invece…lei si che saprebbe apprezzare le differenze. Lei si che saprebbe come fare per godersi a pieno un viaggio… Appena il mio pensiero sfiorò la figura di Stefania mi resi conto che il mio cuore ebbe un sussulto e le mie labbra si erano increspate in un sorriso da ebete. Il problema dei soldi era diventato improvvisamente marginale. Controllai l’ora: le 11 e 10. “Un’ora bastarda” pensai, senza una vera e propria giustificazione plausibile alla mia avversione verso quell’orario. Solitamente a quell’ora, da molti anni a quella parte, mi trovavo nel pieno della mia giornata lavorativa, nel momento di “massima produttività” secondo moderni studi di economia aziendale; avrei atteso l’ora della sosta per mangiare una sana e dietetica insalatona al bar vicino all’acquedotto: una ciotola di erba insapore e verdure gonfie di estrogeni mischiate con sottoli industriali e mozzarelle chimiche;avrei assistito ai vani tentativi di abbordaggio verso la giovane cameriera rumena da parte dei miei colleghi e di altri colleghi di altri dipendenti di altre aziende pubbliche o private della zona; avrei sbirciato rapidamente lo stropicciato quotidiano sportivo che riportava poche notizie della mia squadra del cuore che non vince mai mentre trangugiavo meccanicamente l’ennesimo caffè senza sentirne neppure più il sapore; avrei fatto rientro nel mio loculo dove avrei ripreso apaticamente la mia monotona attività fino a sera.
Da lì avrebbe ripreso la parte “libera” della mia vita, quella che, in teoria, avrebbe dovuto essere la più piacevole: rientro a casa nel traffico, pochi monosillabi scambiati con quel cesso di moglie che mi ero condannato a ciucciarmi, una cena di merda e un paio d’ore di televisione, dove stupidi programmi zeppi di pubblicità intendevano farmi credere ad una marea di cazzate create ad arte per guidare una società di lobotomizzati. Oggi no. Oggi non era così e non lo sarebbe più stato. Oggi uscivo dalla routine che assassina l’”io” di ogni individuo che vive in questa società moderna occidentale. Oggi mi trovavo nel pieno di una fuga. Stavo scappando da un personaggio misterioso e inquietante, da una situazione cinematografica ed adrenalinica, dal mio posto di lavoro che avrei certamente perso per sempre, dalla mia vita che fino ad ora avevo tenuto in stand by. “’Fanculo tutti i principi cattolico – economico –sociali, non sono più roba mia; ‘fanculo la famiglia e gli amici, non mi servono, non gli servo e non mi rimpiangeranno; ‘fanculo i progetti per un futuro migliore ed una vecchiaia tranquilla, sono tutte minchiate irrealizzabili: “ …Ok Robbo” mi promisi “da oggi si naviga a vista, finche durerà, potesse essere anche solo un’altra ora, sarà una vita da vivere in ogni momento e senza sosta, da conquistare e da assaporare ad ogni o: sarà una vita in corsia di soro!”. Terminai la mia birra con un lungo sorso, ruttai sommessamente mentre appoggiavo con decisione la bottiglia vuota sul tavolino e mi diressi a o deciso verso la barista: l’odore del disinfettante a basso costo con il quale la ragazza stava pulendo il pavimento dietro al bancone pungeva le narici. Pagai sbattendo sul bacone una moneta da due euro come se mi trovassi in un saloon del selvaggio west. Ebbi la sensazione che la giovane barista, che mi aveva praticamente ignorato dal momento del mio ingresso nel circolo, mi avesse adesso rivolto uno sguardo interessato, quasi ammirato, come se avesse colto il senso dei miei pensieri e ne fosse rimasta anche lei affascinata.
“Potenza dell’autosuggestione…pensa positivo Robbo, pensa positivo!” Ricambiai le mie fantomatiche impressioni sulla ragazza rivolgendole un enigmatico sorriso di approvazione mentre con lo sguardo frugavo nel suo decoltè e me ne andai senza salutare, donando così ai presenti che mi tenevano gli occhi puntati alle spalle come fossero un mirino laser, un argomento su cui discutere durante la loro monotona giornata. Dopo un rapido controllo per rassicurarmi di non essere stato seguito, mi misi nuovamente alla guida in direzione sud, lungo la via aretina, cercando di farmi venire in mente un modo per racimolare qualche soldo; proseguii per un’altra decina di chilometri, quando una luce verde a forma di croce al termine dell’ennesimo paesino che mi accingevo a superare attirò la mia attenzione. “Ecco i miei contanti!” pensai in un lampo, come forse potrebbe fare un rapinatore consumato e reduce da mille colpi messi a segno. Transitai lentamente davanti alla farmacia prendendo nota del personale presente e dei clienti: sembrava deserta, fatta eccezione per una vecchia farmacista che pareva intenta a sistemare dei medicinali negli scaffali. Accostai e parcheggiai la macchina pochi metri dopo, feci un lungo respiro e cercai di pianificare al meglio la mia azione. Non doveva essere difficile: avevo letto mille articoli di giornale sulle continue rapine messe a segno nelle varie farmacie di Firenze, e questa sembrava ideale. Dalla trousse degli attrezzi in dotazione all’auto estrassi il cacciavite e soppesai la sua potenza dissuasiva guardandomi riflesso nello specchietto retrovisore mentre mimavo la figura e le movenze del rapinatore pronto a tutto: poteva andare. Con dei volantini promozionali di un supermercato che trovai nella cassetta della posta di un’abitazione lungo la strada coprii alla meglio la targa posteriore, mentre con una maglietta rosa abbandonata da Stefania sul sedile avrei completato il mio travisamento. Non appena il profumo del quale era impregnata la t shirt che mi ero premuto sul viso mi pervase le narici, sentii dentro di me una convinzione assolutamente ingiustificata ma decisamente stimolante. Sarebbe certamente andato tutto bene! Senza pensarci troppo mi tuffai nella rapina del secolo: spalancai la porta della farmacia e, prima che la proprietaria avesse il tempo di capire cosa stava accadendo, aggirai il bancone e, trattenendola da dietro, le puntai il cacciavite alla gola. “Dove sono i soldi puttana!” le urlai nelle orecchie con la voce da vero bullo di periferia; immediatamente dopo, la mia innata educazione ebbe inconsciamente il sopravvento, mi resi conto che stavo esagerando e allentai immediatamente la presa: “Mi scusi ma ne avrei bisogno…davvero… anche solo di un centinaio di
euro” La carica adrenalinica stava rapidamente scemando in maniera assai pericolosa. La farmacista, a metà tra lo stupito ed il terrorizzato, indicò la cassa davanti a me ed aprì il cassetto con le mani tremanti. Presi tutte le banconote riponendole freneticamente nelle tasche dei jeans, tanto che più della metà finirono per terra e, mentre stavo per andarmene, la donna, in preda al panico più o meno quanto me, sollevò il cassetto e mi mostrò il resto dell’incasso, formato da diversi biglietti da 50 e da 100. Per un osservatore esterno si sarebbe dimostrata una situazione veramente paradossale e grottesca: dopo averla ringraziata prelevai solamente una banconota da 50 riponendola in tasca insieme alle altre e, farfugliando le mie scuse intendevo esprimerle la mia gratitudine per la disponibilità; quindi, goffamente, mi diressi verso l’uscita. Giunto sulla soglia notai una telecamera fissa puntata proprio verso di me ed istintivamente gettai il cacciavite e portai la mano al volto per verificare il mio travisamento: con mio grande sgomento mi accorsi che la maglietta di Stefania mi era scivolata dalla faccia e realizzai che il fotogramma del mio primo piano sarebbe stato su tutte le macchine delle Forse dell’Ordine da lì a 10 minuti. Ormai claudicante per il terrore oltreai la porta e mi diressi verso la mia auto e lì mi pietrificai del tutto: intorno alla macchina c’erano tre carabinieri in divisa che stavano osservando perplessi la copertura della targa. Erano scesi a piedi dalla piccola caserma che si trovava esattamente sul lato opposto della strada, chiamati da un ante che ancora si trovava sul posto incuriosito da quella trasgressione alla sua giornata standard. Probabilmente si era insospettito nel vedere quel forestiero con una maglietta rosa sul viso che entrava in farmacia con in mano un cacciavite. Ho un vuoto riguardo agli attimi che seguirono. Un vuoto riempito solo da sporadici flash di urla e momenti concitati, nei quali venivo strattonato da tutte le parti e gettato a terra mentre qualcuno mi serrava i polsi dietro la schiena. Quando ripresi una parvenza di logicità di pensiero, ero seduto su una panca di ferro in una squallida stanza della Caserma dei Carabinieri dalle pareti scrostate dall’umidità, addobbata solo con un crocifisso in legno stilizzato ed un calendario dell’Armavecchio di quindici anni. Ero in attesa che si compisse il mio destino di galeotto, deluso da me stesso per l’assoluta incapacità di intraprendere la mia nuova vita. La farmacista era stata soccorsa da un’ambulanza a causa dello shock che le avevo procurato ed i pochi soldi che
ero riuscito a trafugare erano gettati alla rinfusa, ancora accartocciati, sulla scrivania del Maresciallo, nell’ufficio adiacente, come potevo osservare attraverso un piccolo spiraglio lasciato dalla porta socchiusa. Un giovane carabiniere dalla divisa immacolata mi osservava con aria stupita, mentre il resto dei suoi colleghi erano riuniti nella stanza accanto, dalla quale proveniva un concitato quanto incomprensibile brusio. Non riuscivo a capire cosa avevano da discutere: i fatti erano abbastanza chiari anche per degli investigatori di campagna quali certamente erano quelli nei quali mi ero imbattuto. Però forse tutto questo discutere significava che qualche punto da chiarire lo avevano, e questo non poteva che giocare a mio vantaggio. Forse. La sola speranza che non fosse tutto già finito mi fece pensare subito a Stefania, alla sua voglia di vivere, alla sua freschezza. Mi sembrava quasi di sentire il suo profumo giungere sotto le mie narici, nascosto dietro alla puzza di un Toscanello. Finalmente la porta di legno dietro la quale si era svolta la riunione si aprì del tutto ed il Maresciallo, seguito da un appuntato sull’orlo della pensione che masticava il mezzo sigaro, con un’aria molto contrariata si sedette dietro la sua scrivania; dopo avermi scrutato con grande attenzione per qualche secondo biascicò con uno spiccato accento siciliano annacquato da tanti anni di toscana: “Signor Roberto, per questa volta la a liscia. Credetti di aver capito male o dio essere vittima di qualche allucinazione. Il carabiniere, notato il mio stupore si senti in dovere di darmi alcune spiegazioni: “ Ebbene si, ha capito bene. La farmacista, Santa donna, ha deciso di non sporgere denuncia, affermando che lei era solo una persona bisognosa di aiuto che le ha solamente domandato un’offerta. Legalmente quindi lei non è punibile e se ne può andare. E si prenda pure questi soldi, da considerarsi come la donazione che le viene fatta. Adesso se ne vada, e faccia bene attenzione a non farsi mai più rivedere da queste parti, che non sempre è domenica! Continuavo a non credere alle mie orecchie ma, prima che potessero ripensarci, raccolsi i pochi denari dalla scrivania e, farfugliando delle scuse e dei ringraziamenti, mi allontanai velocemente da quell’incubo, salendo sulla macchina di Stefania e correndo come un pazzo lungo la statale, ancora
incredulo per quanto mi era capitato ma cosciente del fatto che la mia vita stava veramente prendendo un’altra piega, una piega decisamente migliore! Guidai in stato di trance fino a chela stress accumulato si riversò improvvisamente su tutte le mie membra, facendomi quasi collassare. Per fortuna riuscii a percorrere ancora poche centinaia di metri, quando notai uno squallido motel lungo la statale, di quelli dove il portiere ha rinunciato a chiedersi il motivo di un soggiorno in una zona tanto anonima e dove mai fino a quel momento avrei pensato di poter un giorno soggiornare. Mi fermai e chiesi una stanza senza nemmeno essermi preoccupato di saperne il prezzo. Avevo già deciso: a giudicare dai mezzi parcheggiati fuori, furgoni carichi di materiale edile e auto da rappresentante, dedussi che la struttura fosse occupata per lo più da operai in trasferta e da coppiette clandestine in cerca di qualche ora di intimità, così stabilii che faceva al caso mio. Il portiere non mi degnò neppure di uno sguardo continuando a navigare su internet dal computer al suo fianco, mentre mi avvicinava una schedina da compilare con i miei dati anagrafici. Al termine dei veloci adempimenti si limitò ad indicarmi con un gesto distratto la direzione della mia stanza. Entrai nella cameretta, sincerandomi che fosse stata esaudita la mia richiesta fatta al portiere, cioè che si affacciasse sulla strada; accesi il televisore sistemato sull’angolo in alto davanti al letto ad una piazza e mezzo sintonizzandolo su un canale a caso e mi sdraiai con l’intento di aspettare l’ora per telefonare a Stefania. Nella mia mente si affollavano pensieri e ricordi che divenivano, lentamente, sempre più reali: il fuoristrada dello sfregiato che mi aspettava…la volante con il lampeggiante …gli sguardi della gente del bar di Piazza Dalmazia…i vecchietti che giocavano a carte sul tavolino di formica…l’elegante dottore con il suo squallido studio…gli occhi di Stefania …la Gazzetta dello Sport…la Moretti……la barista….h1b13… Le immagini si mischiavano nella mia mente e si materializzavano in circostanze sempre più assurde, che seguivano un filo logico appartenente esclusivamente ad un dimensione onirica.
Dormivo, ma il mio cervello stava elaborando qualcosa che non ero in grado di codificare. Forse se avessi saputo usare quella parte inutilizzata della nostra materia grigia, avrei avuto un quadro dettagliato e chiaro di quel momento della mia vita; evidentemente non ero in grado di farlo e quindi fui portato a accantonare quei ragionamenti dove tutti siamo abituati ad accantonarli per poi dimenticarli: nella categoria dei sogni. Mi svegliai di soprassalto e mi precipitai come un automa verso la finestra scostando le tendine in nylon rosa. Lo spiazzo sterrato davanti all’ingresso dell’hotel era ormai avvolto nell’oscurità, fatta eccezione per una piccola area circolare illuminata da un lampione della carreggiata e per i saltuari fasci di luce creati dalle auto che transitavano velocemente. Per quanto mi era possibile vedere, le auto ed i furgoni parcheggiati erano notevolmente aumentati, quindi l’orario lavorativo doveva essere terminato. Guardai il display del mio telefonino: le 19.30. Avevo dormito almeno quattro ore: troppe per un uomo in fuga. Dovevo contattare Stefania ma non potevo certamente usare il mio cellulare. Sul comodino c’era un telefono; chiamai la reception e mi feci dare la linea: composi il numero di Stefania, ancora indelebile sul dorso della mia mano, e rimasi in trepida attesa. Libero…avano i secondi, ma nessuna risposta. Dopo diversi squilli cadde la linea ed io rimasi impietrito con la cornetta in mano. Cosa diavolo era successo? Perché non rispondeva? I pensieri più terrificanti presero ad assalirmi la mente: la vedevo nelle mani dello sfregiato mentre questo provava un sadico piacere nel torturarla per estorcerle informazioni su di me. E forse l’avrebbe anche stuprata. A quel pensiero fui colto da uno spasmo di schizofrenica impotenza. Il battito cardiaco mi aumentò furiosamente mentre un groppo alla gola mi impediva di respirare. Scagliai la cornetta sull’apparecchio e presi a camminare freneticamente per la stanza mordendomi le mani. Non sapevo assolutamente cosa fare e non ero in grado di sviluppare un ragionamento costruttivo. Cosa dovevo fare: chiamare la Polizia…chiamare il
mio direttore…uccidermi…No, non poteva essere già finita la mia avventura. Stavo per sollevare nuovamente la cornetta quando il telefono squillò: “Pronto” pronunciai timoroso con le mani sudate che stringevano l’apparecchio fino a fare scricchiolare la plastica con la quale era formata. “Pronto signor Roberto…Robbo?” Sentii il cuore che si allargava e il cervello che si rilassava. Il sangue aveva ripreso a scorrere regolarmente lungo il mio corpo e i muscoli, divenuti contratti fino a dolermi, si rilassarono dandomi una sensazione di benessere. Mi lasciai cadere a sedere sul letto: “Pronto?” disse ancora quella voce paradisiaca “Stefania…oddio…cosa ti è successo….oh mio Dio mi stava per venire un infarto…perché non mi hai risposto?” “Calmati Robbo io sto bene. Non ti ho risposto perché temo che tengono sotto controllo anche il mio telefono quindi sono uscita a cercare un telefono pubblico. Sai ho saputo alcune cose…direi molto inquietanti.” Rimase in silenzio come a voler analizzare una mia reazione. Tacqui. “Robbo ci sei?” “Si…cos’hai saputo?” “Beh, ho parlato con la segretaria del capo che, dice, ha origliato il colloquio tra quei tipi di stamani e il nostro direttore…” “…quindi? Cosa dicevano? Cosa vogliono da me?” Ci fu un’altra lunga pausa “Stefania dimmelo ti prego…cosa vogliano da me? Io non li conosco e non ho fatto niente di male ma… ultimamente mi stanno accadendo cose strane...parla ti prego! “Beh Robbo, è allucinante lo so…ma…dicono che sei un terrorista.”
“Un terrorista? Io? Ma terrorista di che? Nemmeno so com’è fatta un’arma, non ho mai fatto male a nessuno…ma stai scherzando vero, mi prendi in giro?” “No, dicono che sei legato ad una cellula di Al Qaeda, e dicono che vuoi fare un gravissimo attentato contro la tua città, contro il tuo paese. Una cosa tremenda. Una cosa che avràuna risonanza mediatica maggiore di quella delle Torri Gemelle di New York!” “Ma chi…ma cosa…ma…io? Non è possibile, dai smettila ti prego, mi fai sentire male” “…Diconoche non sarà un attentato fino a se stesso ma sarà una cosa duratura, i cui effetti si dilazioneranno nel tempo in maniera inarrestabile.Robbo…dicono che tu hai infettato l’acqua dell’acquedotto con un virus chiamato h1b13, e questo provocherà la morte di migliaia di persone. Dicono che sei un fanaticoestremista convertito all’Islam e che hai trasportato il Virus nel tuo sangue per poi contagiare l’acqua dell’acquedotto e quindi hai alterato i dati delle analisi chimiche in modo che tutto sembrasse regolare…in modo che il virus avesse tempo per dfondersi e compiere una strage!” Adesso il tono della voce era quasi un sussurro, debole e disperato: “Vogliono
prenderti Robbo, vogliono il tuo sangue in modo da poter meglio isolare il virus e creare un antidoto... Credo che vogliono farti del male.” Restai attonito con la bocca spalancata. Avrei voluto dire che non era vero niente ma non riuscivo a parlare dallo stupore che mi avevano provocato quelle notizie. Dopo un altro lungo periodo di silenzio mi si accese una luce di speranza: “Basterà analizzare l’acqua e vedranno che c’è stato uno sbaglio…e se non è così manderò un campione del mio sangue, così potranno vedere che io non c’entro nulla…” Un’altra pausa, poi Stefania pronunciò alcune parole con il tono di chi ti comunica una sentenza già ata in giudicato: “Ho già analizzato personalmente l’acqua: c’è qualcosa di sbagliato, i valori batterici sono impazziti, si riproducono in maniera inarrestabile: l’acqua che già scorre dai rubinetti dellecase di Firenze è contaminata ed è…letale.” “…incredibile…ma il mio sangue, ti porto una fiala…” “Dicono che hanno visto le tue analisi di pochi giorni fa…sei portatore sano di un virus letale costruito in un laboratorio di qualche paese arabo: si trasmette attraverso i batteri presenti nell’acqua e pare sia inattaccabile. ” “Il dottore di piazza Dalmazia” pensai “ecco a cosa serviva!”
“Ma non è così Stefania, io ti giuro che non ne so niente…”udii la mia voce rotta dall’emozione, vicina a quella del pianto di un bambino. Ci fu una lunga pausa, dopo di che Stefania riprese con voce seria e convinta: “Secondo te, se non ne fossi convinta anche io, ti avrei richiamato? Cerca di stare tranquillo, incontriamoci in qualche posto e organizziamoci al meglio, vedrai che la verità verrà fuori. Ma per il momento è meglio se non ti fai trovare. Se stanno cercando di incastrarti, una volta che ti avranno in mano , non potrai più difenderti, ti tapperanno la bocca per sempre.” “ma chi sono?” “Credo siano dei Servizi di Sicurezza nazionale, roba di Antiterrorismo, Servizi Segreti, non lo so, non mene intendo, ma di certo è gente sopra la legge, gente molto pericolosa” “Non capisco perché proprio io, cosa cavolo ho fatto di male per meritarmi tutto questo” continuai a piagnucolare mostrando tutto il lato peggiore del mio carattere da perdente nato “Non lo so, staremo a vedere, intanto diamoci un appuntamento per domani. Troviamoci in un posto affollato, in una grande città, dove ti posso raggiungere con il treno e dove possiamo far perdere le nostre tracce.” Sembrava quasi già sapesse
dove andare ma volesse che ci arrivassi da solo, tanto per far risalire un po’ la mia autostima “Roma?” mi azzardai timido “Perfetto, bravo! Domattina mi darò malata e prenderò il primo treno utile per la Stazione Termini. Lì vicino c’è un’osteria, La vecchia Roma, è in una piccola contrada di via dei Serpenti. Mi ricordo che ci andavo sempre ai tempi in cui frequentavo un corso di specializzazione in genetica animale nella capitale. E’ sempre piena di gente e riusciremo a are inosservati. Fatti trovare là verso mezzogiorno.” “OK ci sarò.” Ci fu un’ultima, lunghissima pausa carica di imbarazzo “Ti voglio bene” riuscii a dire “Anche io, ma forse, per me, è qualcosa di più, ciao” mi rispose imbarazzata con un filo di voce chiudendo la comunicazione. Sentii la terra mancarmi sotto i piedi e caddi sul letto.
Capitolo 8
La capitale era già scaldata da uno splendido sole che sembrava fare da antipasto all’estate che sarebbe arrivata di lì a poco. Il traffico lungo gli enormi viali intasati dai mezzi pubblici strombazzanticon le lamiere già bollenti, era caotico; la puzza di smog che prendeva la gola ricordava una megalopoli sudamericana mentre gli stupendi palazzi della città eterna ricordavano al mondo la sua antica potenza. Avevo parcheggiato l’auto di Stefania in un parcheggio scambiatore in periferia, e avevo raggiunto il centro storico con la Metro. Intorno alla stazione Termini era un brulicare di turisti e venditori ambulanti, tassisti e impiegati, e operai, e studenti, e barboni, e personaggi equivoci che offrivano di tutto in cerca di qualche soldo per sbarcare il lunario, mentre orde di scooter saturavano l’aria di un rumore assordante facendo lo slalom tra i pedoni: pareva andassero tutti di fretta. Tutto questo era invece molto europeo. Era certamente una città viva, il punto di incontro di una società che ormai vive la vita bruciandola, rincorrendo quel benessere mai sufficientemente appagante inculcatoci nella testa da chissà quanti spot pubblicitari e riviste patinate. Sembrava che tutti quanti corressero in una direzione precisa, sapessero benissimo cosa fare, avessero dei programmi ben precisi per il loro futuro, quantomeno per quello più prossimo. Io invece no. Nonostante le mie nuove convinzioni mi sentivo perso, sbatacchiato da un mare in tempesta nel quale non sapevo nuotare. Avrei voluto fermare tutta quella gente e, una per una, chiedergli aiuto, un consiglio, una conferma alle mie idee. Loro avrebbero certamente saputo come venirne fuori, ma io non ne ero più così certo.
Mi ò per la testa il pensiero di come avrebbe preso Stefania una mia resa: sarebbe certamente rimasta delusa e non mi avrebbe più regalato i suoi sguardi carichi di ammirazione. Non potevo perderla, dovevo stringere i denti e proseguire. Più per lei che per me. Nel pieno del mio tormento psicologico mi ritrovai a pensare anche a mia moglie Maria. Non l’avevo chiamata e non gli avevo neppure rivolto un pensiero. Nonostante i nostri rapporti fossero ormai scaduti, questo fatto mi fece sentire in colpa. Quella notte non ero rientrato a casa e probabilmente aveva ricevuto la visita da parte di quei tipi che mi cercavano o chissà da chi. Sarà stata preoccupata da morire ed a me non era neppure ata per la mente l’idea di avvertirla, di tranquillizzarla. In fondo era una brava ragazza e non si meritava questo trattamento. Adesso che mi ero preso una cotta per un’altra non avevo minimamente esitato a dimenticarla ed a mancarle di rispetto, nonostante tutto il tempo che, in un modo o in un altro, avevamo trascorso assieme. Allora…Forse ero io la parte sbagliata della coppia, e forse non aveva tutti i torti a disprezzarmi come aveva preso a fare ultimamente. No, non potevo comportarmi così, dovevo chiamarla. Entrai in uno dei mille Call Center: anche questo, come tutti gli altri, era colmo di stranieri dall’aspetto equivoco e gestito da un cingalese: mi feci are la linea mentre, osservando la fauna umana che mi circondava, realizzai che avrei potuto trovarmi tranquillamente in una città araba o africana, o mediorientale, ma non certo nella capitale dell’Italia. Ricordavo a memoria il numero del cellulare di Maria e lo composi senza esitazioni. Dopo pochi squilli mi rispose: “pronto!” La pronuncia di quella sola parola cancellò di colpo tutti rimorsi che mi avevano assalito. Il tono di voce con il quale mia moglie aveva risposto al telefono era la sintesi di 10 anni di malessere con il quale avevo convissuto. Non c’era un briciolo di preoccupazione né di aspettativa, ma solo rabbia e sospetto. Era incredibilmente tutto concentrato in una sola, inutile e insignificante parola, quel “pronto” che pronunciamo continuamente senza renderci conto delle conseguenze che certe volte può provocare nell’umore dell’interlocutore. Rimasi con la cornetta del telefono in mano mentre la voce rispondeva con un’aggressività sempre crescente:
“…Pronto…allora pronto…chi è….pronto!... Come mille altre volte nella mia esistenza, un senso di panico mi iniziò ad assalire; una paura di non essere in grado di giustificare un “reato” che comunque non avevo commesso mi ricordò la malinconia della mia vita fino a quegli ultimi avvenimenti “…ma chi è che rompe…cos’è uno scherzo?… oppure sei Roberto?” Ci fu una lunga pausa: “...ah! sei tu deficiente, vero? … che fai non parli? Sei sempre il solito cacasotto!...” Adesso mi sentivo il viso avvampare dalla rabbia: avrei voluto averla per le mani per prenderla a schiaffi e farle ringoiare tutti quegli anni di angherie.. “…Vieni a riprenderti i tuoi quattro stracci da pezzente perché in casa non ci rimetti più piede brutto ciccione impotente… e trovati subito un avvocato perché mi dovrai sganciare dei bei soldoni per questa tua cazzata, coglione…ti sto andando a denunciare anche per i danni morali che mi hai creato, sono sulla bocca di tutto il quartiere da quando la Polizia ti è venuta a cercare...Non so cos’hai fatto, razza di imbecille, ma sicuramente sarai un ladro di polli perché certamente non sei in grado di fare neppure il delinquente. Lo ha sempre detto mia mamma che sei una cosa inutile e come sempre aveva ragione…accidenti a me ed al momento in cui ti ho sposato…non hai neppure le palle di parlare eh? Coglione…” Scostai lentamente la cornetta dall’orecchio e sentivo la voce isterica di Maria che continuava ad offendermi, andare sempre più affievolendosi. Così come affievolendosi andava sempre più il mio rancore verso di lei, lasciando spazio ad una piacevole indifferenza. La mia coscienza si ripuliva ogni frazione di secondo che trascorreva, ad ogni offesa che mi rivolgeva, fino a tornare limpida come quella di un bambino. Riagganciai la cornetta che già l’avevo dimenticata e mi stavo concentrando sulle prossime mosse. La telefonata ebbe l’effetto di rinfrescarmi la memoria circa le mie condizioni di vita fino a quel momento, e tutto questo mi dette la nuova energia di cui avevo
bisogno: mi feci forza pensando che peggio di prima, comunque, non sarebbe potuta andare; così, anche se mancava ancora quasi un’ora all’appuntamento, mi diressi con calma verso il ristorante indicatomi da Stefania. Mi ero fatto spiegare la strada dall’addetto al parcheggio dove avevo lasciato l’auto ed il percorso mi era abbastanza chiaro, così mi addentrai deciso nei vicoli tortuosi intorno alla stazione. Entrai nell’Osteria “la Vecchia Roma” che erano appena le 11.30 ma all’interno già fervevano le attività culinarie. Un oste grasso e unto mi fece sedere indicandomi sbrigativamente e con modi sgarbati un piccolo tavolino in un angolo dell’angusto locale dove antichi soprammobili e vecchie bottiglie di liquori italiani riempivano ogni minimo spazio disponibile. Le pareti in pietra erano tappezzate dalle classiche locandine di Cinecittà: in bianco e nero, le facce sorridenti di Totò e “der monnezza” e la bocca straripante di spaghetti di Alberto Sordi, donavano all’ambiente un’aria retrò carica di storia, tanto da sembrare che quegli attori mi volessero ricordare i nomi di tutti i commensali che erano ati da lì. Un numero di camerieri sproporzionato rispetto alla capienza della vecchia osteria correva tra i tavolini già quasi completamente occupati; parlavano tra di loro sovrastando il brusio di sottofondo in quel dialetto romanesco che sa tanto di arroganza ma resta automaticamente simpatico; dalla cucina proveniva un assordante rumore di stoviglie che cozzavano fra loro e un continuo sfrigolio di olio trasportava nella saletta il tipico aroma del soffritto di cipolla e di aglio. Uno di questi, andomi accanto veloce come il vento, mi “sganciò” sul tavolo un fiasco di vino bianco “de’ li castelli” ed un piattino straripante di fette di prosciutto crudo tagliato grossolanamente a mano e di carciofi sott’olio, mentre continuava la sua corsa discutendo animatamente ad alta voce dell’ultimo derby Roma – Lazio con qualcuno che rispondeva sfottendolo da dietro ai fornelli. Era tutto molto caratteristico e piacevole, ma quando vidi un cesto di riccioli neri aprire la porta di ingresso, la situazione divenne addirittura paradisiaca. Stefania avanzava zigzagando tra i tavolini con grazia e decisione, ed ogni o che faceva, mi riempiva il cuore d’orgoglio il sapere che stava venendo da me. “ciao signor Roberto, coma stai?” mi salutò con il suo sorriso enigmatico
bloccandosi in piedi davanti a me mentre, con le gambe leggermente divaricate e la testa reclinata su di un lato; teneva le braccia diritte e con entrambe le mani reggeva una graziosa borsetta di tessuto, facendola leggermente oscillare in mezzo ai jeans elasticizzati infilati dentro al solito paio di stivali di pelle consumati: i suoi occhi scintillavano come e forse più di come me li ero tante volte ricordati nelle ultime ore ed il suo inconfondibile profumo aveva subito riempito il locale, cancellando tutti gli odori culinari che lo caratterizzavano da sempre. “B…Bene grazie” balbettai mentre l’ammiravo dal basso verso l’alto“…ma siediti ti prego, altrimenti mi fai svenire” Sempre sorridendo, compiaciuta del complimento, si accomodò graziosamente sulla sedia impagliata e, prendendomi una mano tra le sue, si sporse verso di me baciandomi delicatamente sulle labbra: “mi sei mancato” sussurrò Non ebbi il tempo di replicare che il grasso oste si posizionò tra noi con in mano un blocchetto di carta unto e stropicciato ed una penna: “…a piccioncini, s’è capito che ve volete bbene ma vedemo d’ordina’ che ciò già la ggente in coda qua fori!” Feci scegliere Stefania tra le pochissime pietanze proposte e io mi limitai a confermare anche per me le solite cose, anche perché ero talmente eccitato che mi si era completamente chiuso lo stomaco e non riuscivo neppure a concentrarmi abbastanza da comprendere il menu. Appena l’oste se ne fu andato urlando ai cuochi la nostra ordinazione, Stefania si fece seria e cominciò con un fare cospiratrice che la rendeva, se possibile, ancora più attraente: “Sono sicura di non essere stata seguita, almeno dalla stazione Termini a qui, perché ho fatto cinquemila giri e inversione di direzione, tanto che se ci fosse stato qualcuno dietro a me l’avrei certamente notato, quindi stiamo tranquilli” “ma tranquilli da chi?…e perché?” “Allora Roberto, come ti ho già accennato per telefono la situazione sembra molto grave. Non so chi siano quelli che ti cercano ma credo abbiano a che fare
con l’Agenzia per la Sicurezza Nazionale, la nostra Nca per intendersi. Pensano che tu abbia fatto certe cose ma certo è che non te lo chiederanno in maniera troppo garbata. Purtroppo, come ti ho detto, quello che affermano è vero, l’acqua dell’acquedotto è contaminata in modo irreversibile. Ho fatto delle ricerche sul tipo di virus che risulta dalle analisi e, una volta attivo, oltre a insinuarsi nell’organismo umano tramite ingestione, pare si trasmetta anche per via aerea, come una banale influenza. In pratica chiunque si sia anche solamente lavato i denti con l’acqua del rubinetto, può essere stato contagiato e diventa un veicolo di infezione per tutte le persone che gli stanno intorno. Il virus h1b13attacca direttamente le cellule dei polmoni, inibendone immediatamente ed in maniera costante la loro riproduzione. In pratica, dopo un paio di settimane di incubazione, le cellule che formano il tessuto polmonare iniziano a diminuire progressivamente il loro ciclo di riproduzione: i primi sintomi si andranno a manifestare poco dopo un mese e, oltre ad una febbre leggera ed una tosse persistente, consisteranno in una costante sensazione di affaticamento associata a fastidiose cefalee; successivamente si arriverà ad una riduzione delle dimensioni degli organi stessi che comporteranno anche una proporzionata riduzione delle loro capacità funzionali: l’effetto terminerà con la completa atrofizzazione di tutto il sistema respiratorio e quindi…con la morte. In pratica dalla comparsa dei primi sintomi, sarà come se una persona invecchiasse di 4/5 anni ogni settimana che a. Nel giro di un paio di mesi un uomo di quarant’anni in buona salute si ritroverebbe a non riuscire più a salire qualche scalino, e dopo poche settimane, ando per sofferenze inimmaginabili si spegnerebbe come una candela a seguito del blocco della respirazione. Naturalmente i laboratori di ricerca stanno già lavorando per scovare una soluzione e certamente riusciranno a sintetizzare un antibiotico capace di inibire e sconfiggere il virus prima di giungere a questa situazione, ma per molti, a quel punto, i danni subiti saranno già del tutto irreparabili, mentre le persone più deboli come i vecchi ed i bambini difficilmente riusciranno a sopravvivere abbastanza a lungo. Intanto le autorità competenti hanno già bloccato la distribuzione dell’acqua inventandosi un guasto alle tubature e non so che altro, e stanno provvedendo ad avviare nuovamente il sistema di distribuzione con rifornimenti provenienti dagli acquedotti vicini: ma il danno è già stato fatto. Secondo le analisi chimiche che ho effettuato nei giorni scorsi, è quasi una settimana che l’acqua inquinata scorre nei rubinetti delle case dei fiorentini ed il Virus si riproduce all’interno dei batteri comunemente presenti nell’acqua”
Rimasi sbigottito da quella spiegazione e trascorsi alcuni momenti durante i quali mi affollarono la mente le immagini di migliaia di persone in mezzo di strada che stramazzavano al suolo assetate d’aria in una situazione da “dayafter post guerra atomica”; quindi domandai incredulo: “e io sarei stato capace di provocare tutto questo?” Stefania sorrise della mia ingenuità “Così dicono, ma io non ci credo. Temo che cerchino solo un capro espiatorio da sacrificare alle masse qualora gli effetti della pandemia non saranno contrastati efficacemente in tempo. Io sono stata precettata per effettuare in gran segreto tutte le analisi chimiche del caso perché non vogliono che la notizia possa trapelare ulteriormente affidandosi a tecnici esterni all’Acquedotto. Infatti oggi devo rientrare immediatamente a lavoro. Dice che non coinvolgeranno altri periti e tutte le responsabilità per eventuali fughe di notizie saranno addebitate alla sottoscritta. E’ necessario che tu te ne stai nascosto finché non riuscirò a capire meglio cosa sta realmente accadendo.” Dette un’occhiata istintiva al grande orologio da polso alla moda che gli valorizzava le mani affusolate e ben curate, mentre due piatti stracolmi di bucatini “ alla Gricia” ci venivano appoggiati con decisione sul tavolo proprio sotto il naso. “Non puoi capire quanto mi tranquillizza la fiducia che riponi in me, anche se qualcuno deve pur aver combinato questo guaio e non capisco perché questi signori sono così convinti che sia stato io” Ero così contento del fatto che, al contrario di mia moglie, Stefania era certa della mia innocenza, che il fatto di essere al momento la persona più ricercata d’Italia non mi preoccupava più di tanto e ava decisamente in secondo piano. Il profumo delle fettine di guanciale di maiale abbrustolito mischiato a quello del pecorino romano fuso ebbe l’effetto di un balsamo benefico, tanto che percepii distintamente lo stomaco che mi si apriva in una voragine, ricordandomi che era diverso tempo che non mettevo in bocca niente.
Mi gettai sul piatto quasi con violenza, inforchettando la cupola di pasta con assoluta determinazione e, mentre le mie papille gustative assaporavano quella delizia, Stefania riprese: “tu hai qualche idea su dove andare a nasconderti per qualche giorno?” Deglutii faticosamente l’enorme boccone con cui mi ero riempito la bocca e, dopo essermi pulito con il dorso della mano il grasso che mi aveva imbrattato fino al mento, risposi: “Boh…io non mi sono mai trovato a dover scappare…non ne ho idea. Ad essere sincero confidavo nella tua capacità di trovare soluzioni ad ogni situazione che mi hai già ampiamente dimostrato… altrimenti, pensandoci bene… proprio non saprei dove andare a sbattere la testa…” Contemporaneamente mi venne alla mente l’episodio della farmacia e, contrariamente a quanto mi ero prefissato, valutai di non raccontarglielo, in modo da evitare una figura decisamente meschina. Stefania, completamente ormai assorbita nella parte della direttrice delle operazioni riprese carica di falsa modestia: “non riporre in me troppa fiducia che non credo di meritarmela, comunque… vediamo… fossi in te escluderei di tornare a Firenze e sfrutterei questa situazione di riservatezza che le persone che ti stanno cercando desiderano sostenere. Infatti non credo sia stato pubblicato assolutamente niente di questa storia sui media e forse anche le “normali” Forze dell’Ordine non sono al corrente della vicenda.” Si fece assai pensierosa e stette alcuni secondi che a me parvero un’eternità a fissare un punto invisibile al centro della tovaglia a quadretti; improvvisamente, come se avesse trovato il giusto sito internet da cui apprendere informazioni, riprese: “Se vuoi ti potrei mandare da un mio amico che vive in maremma, dove ha messo su da poco tempo un’attività turistica sul mare. Me ne ha parlato e, anche se non l’ho mai visitato, pare sia un posto piuttosto isolato e non credo abbia difficoltà ad ospitarti per qualche tempo, visto anche che la stagione estiva non è ancora iniziata. Se sei d’accordo posso provare a fargli una telefonata”
“Certo, proprio come credevo: hai sempre la soluzione ad ogni problema. Io non so come sono arrivato a conoscerti e perché ti perdi dietro a me, ma questa cosa mi fa impazzire di gioia” “…E’ che io odio le ingiustizie e quello che ti stanno facendo credo che lo sia, e poi …” continuò facendosi dannatamente sensuale “…non lo so perché, ma…mi attrai, non credo che a certi sentimenti sia possibile dare una spiegazione, ma mi hai affascinato dalla prima volta che ti ho visto” Rimasi bloccato con la forchetta carica di bucatini a mezza strada tra la bocca ed il piatto, non trovando nessuna frase da pronunciare adatta a descrivere il mio stato di estasi all’aver udito quelle parole, limitandomi a fissarla con gli occhi che andavano riempiendosi di lacrime “…ehi non volevo essere indiscreta…fai finta che non ti abbia detto niente e finiamo di mangiare, ok?” Mi riscossi immediatamente: “ma quale indiscreta, mi stai rendendo la persona più felice del mondo, brindiamo a noi due!” Così dicendo sollevammo i nostri bicchieri colmi dell’ ottimo vino bianco fresco e lo trangugiammo come due vecchi amici ubriaconi Proseguimmo il nostro pranzo con un abbondante piatto di croccanti sardine fritte e concludendolo con una fetta di torta al cioccolato e pere annaffiata da un bicchierino di ito di Pantelleria offerto dall’oste, che ci congedò invitandoci garbatamente, ma in maniera decisa, a lasciare il tavolino per andare a prendere il caffè al bar all’angolo: “ perché qui non lo famo bbono” si giustificò sorridente. Evitai di accompagnare Stefania alla Stazione per non incappare in eventuali persone che l’avessero seguita fino a lì e che magari adesso la stessero aspettando, così la salutai fuori del baretto che ci aveva servito dell’ottimo caffè:
“grazie di tutto Stefania, allora siamo d’accordo, mandami la conferma della possibilità di nascondermi dal tuo amico mediante posta elettronica al nuovo indirizzo che mi andrò a creare e poi…beh ci sentiamo per aggiornarci sugli sviluppi. Non vedo l’ora che questa storia sia finita per poter stare una giornata con te, in totale tranquillità” “…non vorrei sembrarti troppo impetuosa ma a me interesserebbe anche… are la nottata con te…” Sentii immediatamente il solito disagio all’altezza del cavallo dei pantaloni che erano divenuti di nuovo scomodi e, con la salivazione azzerata, la baciai sulle labbra: “Spero di essere all’altezza”, e mi allontanai sforzandomi di apparire disinvolto.
Capitolo 9
Il paesaggio scorreva come scorre un pezzo jazz in un bar alla moda mentre sei impegnato a conversare con una bella ragazza che vorresti portarti a letto: assolutamente ignorabile. Le campagne che mi si mostravano mentre le attraversavo con il mio trenino regionale che mi stava portando con una lentezza esasperante sul litorale maremmano della Toscana, mi apparivano totalmente prive di interesse, tanto ero preso dal ripercorre gli ultimi aggi della mia avventura. L’auto di Stefania, come da accordi, l’avevo lasciata parcheggiata nei pressi della Stazione ferroviaria di Roma Tiburtina, con le chiavi nascoste all’interno del aruota posteriore destro. Era inutile e pericoloso per entrambi continuare a girare con un veicolo che ormai, con tutta probabilità, era già stato individuato come il mio mezzo di fuga e quindi, di comune accordo con la mia Musa ispiratrice, ne avevamo deciso l’abbandono ed il futuro recupero da parte di Stefania stessa, o chi per lei, quando fosse tornata la calma. Tramite il mio nuovo indirizzo di posta elettronica e la tecnologia di Skype, eravamo riusciti a tenerci in contatto senza rischiare di venire intercettati e quindi raggiunti da quelle persone che ancora non ero in grado di qualificare. Lei aveva telefonato a questo suo conoscente e mi aveva confermato che avrei potuto soggiornare da lui per qualche tempo, promettendomi pure che, appena possibile, sarebbe venuta a trovarmi. Mi aveva fornito un indirizzo molto approssimativo che, sommato alla particolare situazione del periodo, donava a questo luogo un certo alone di mistero. Avevo raggiunto il porto di Civitavecchia con un pullman di linea e, da lì, ero arrivato a Grosseto con un altro mezzo pubblico analogo. Come da accordi mi ero accertato di non essere seguito mettendo in pratica i vari stratagemmi che avevamo precedentemente studiato: salivo e, immediatamente, scendevo da un mezzo pubblico differente da quello che poi avrei utilizzato; effettuavo almeno due giri di un isolato prima di prendere la direzione definitiva; cercavo di memorizzare gli individui che incontravo, specie quelli che giravano in coppia e che avevano l’aria di trovarsi in quel luogo per puro caso, senza un motivo ben
definito. In particolare mi era stato consigliato di dubitare di tutti quelli che davano l’impressione di non voler farsi notare . Tutto questo al fine di evitare di creare problemi anche ad altre persone del tutto estranee alle mie vicende. Alla fine ero salito a bordo di questo fantastico trenino, più simile ad un’attrazione turistica di altri tempi che ad un moderno mezzo di trasporto. Ad ogni fermata controllavo attentamente tutti i eggeri che sostavano lungo i binari di arrivo delle varie stazioncine per verificare che non ci fosse nessuno di quelli che avevano contribuito a cambiare così radicalmente la mia vita; alla ripartenza, mi rilassavo nuovamente sul seggiolino facendomi cullare dai pensieri sulla mia futura vita con Stefania. Non mi fregava niente di quale sarebbe stata la nazione in cui avrei vissuto, di quale lavoro sarei andato a fare o sotto quale tetto avrei abitato: mi bastava l’idea di poter condividere quello che restava della mia esistenza con quella cascata di riccioli neri e di poter assaporare tutti i giorni il suo dolce profumo. Finalmente giunsi alla piccola stazione di Rio Torto, nei pressi di Piombino, nel Golfo di Follonica. Riando mentalmente le indicazioni ricevute, dopo aver proceduto a piedi fino al centro del piccolo paese, mi fermai all’unico bar per un caffè, chiedendo notizie di un locale sulla spiaggia del parco della Sterpaia chiamato “Baia Perduta”. Al sentire quel nome, il vecchio barista scosse la testa in segno di disapprovazione e, con la tipica cadenza livornese, attaccò a sparlare del posto facendo chiaramente intendere di non essere tra i suoi estimatori: “Deh! E’ un baretto di sballati gestito da due tipi che si credono di essere negli anni settanta, tutti “peace and love” anarchia e polemiche ambientaliste…deh gente fuori dal mondo. Ma cosa ci va a fare in quel posto uno come lei, e poi adesso... guarda che credo che apra tra un mesetto. E poi, scusa se te lo dico, ma non mi sembri proprio il tipo. Quello è un locale da bimbetti, da gente che si imbenzina di brutto e si smonta dalle canne…gente che nella vita non c’ha una casa, non c’ha un affetto…deh lasciatelo dire…te mi pare proprio che non c’entri un cazzo!” Pensai tra me e me quanto a volte le apparenze ingannano e, divagando sul
motivo del mio interessamento, chiesi indicazioni su come raggiungerlo “Deh io non ci vado in quel posto di pulciosi, ma a quanto ne so, durante la stagione, c’è pure un servizio di trasporto con dei carretti trainati da due ronzini. Ma adesso credo che uno se la deve fare a piedi, sarà una mezz’oretta dall’ultimo parcheggio. E per arrivare al parcheggio, se non hai un mezzo tuo, ti devi fare un’altra oretta a piedi sull’Aurelia vecchia in direzione di Piombino… deh, sempre che qualche camionista che va di fretta non ti asfalti prima…” Mentre il simpatico barista si stava ancora sganasciando per la sua battuta, lo ringraziai per le informazioni e mi avviai verso la direzione indicata. Prima di uscire però, istintivamente, mi detti una guardata al grande specchio che si trovava nel bar: effettivamente non parevo proprio uno dei “bimbetti sballati” descritti: vidi riflesso un uomo con la calvizie incipiente, le guance cadenti ricoperte da una barba di due giorni spruzzata di bianco, la pancetta prominente fasciata in un maglioncino grigio con lo scollo a V indossato sopra una camicina a righe azzurre e bianche e dei pantaloni di velluto marroni su un paio di mocassini in similpelle: avevo davvero l’aspetto di un signore di cinquant’anni, con una famiglia che non nutre per lui alcun rispetto, assuefatto alla TV e rassegnato ad un’esistenza mediocre. Non c’era più un attimo da perdere: era giunto il momento di cambiare anche il mio look e, in questo mondo dove “l’abito fa il monaco” dovevo farlo il prima possibile. Cosi, prima di incamminarmi verso la mia futura dimora, decisi di fermarmi presso il Centro Commerciale presente in quel piccolo paese, costruito probabilmente in vista dell’assalto turistico del periodo estivo, ma al momento praticamente deserto. Al suo interno trovai un negozio di barbiere, dove mi feci rasare a zero i pochi capelli rimasti, ed una boutique di abbigliamento alla moda, dove mi rivestii con un paio di pantaloni ampi con grosse tasche laterali, una maglietta volutamente sdrucita e una felpa con cappuccio e cerniera sul davanti. Completai il mio shopping radicale con un paio di scarpe da ginnastica adidas “Gazzelle” un vintage tornato ultimamente di gran moda: gettai tutti i miei vecchi vestiti nel primo bidone dell’immondizia e partii contento come una Pasqua e carico di nuove ambizioni. Ripensandoci adesso ritengo che quello fu un gesto liberatorio: sembrava il simbolo della mia morte e resurrezione!
ando davanti ad una vetrina questa volta mi tornò il buon umore. Nonostante che mi fossi lasciato la barba incolta, dimostravo almeno dieci anni di meno e, potenza della suggestione, mi sentivo molto più pronto ad affrontare il mio destino. Come aveva descritto il barista, mi sciroppai una lunga camminata sul ciglio della statale, sobbalzando ogni volta che lo spostamento d’aria dei camion diretti alle acciaierie di Piombino che sfrecciavano alle mie spalle rischiava di gettarmi nel fossetto laterale. Quando finalmente arrivai al bivio che mi portava al parcheggio indicato, da lì il paesaggio cambiava radicalmente. La puzza dei gas di scarico dei mezzi pesanti e lo sferraglio dei treni in transito sembravano ora un ricordo tanto sgradevole quanto lontano. L’aria della primavera in arrivo era carica dei profumi delle alghe essiccate sulla spiaggia e delle erbe aromatiche che infestavano la macchia mediterranea; le piccole onde si infrangevano sul bagnasciuga veloci e ritmate, facendo da colonna sonora ai miei i strascicati lungo il sentiero polveroso. Di tanto in tanto un gabbiano strillava il suo disappunto a quell’intrusione ancora fuori stagione, mentre i primi insetti ronzavano nervosi sui fiori multicolori che sbocciavano coriacei su quel terreno arido. Era incredibile come ci fosse un posto così incantevole a pochi chilometri da casa mia ed io non ne fossi a conoscenza. Ma quali gravi peccati avevo commesso nella vita precedente per aver vissuto fino ad allora un’esistenza così monotona ed insulsa! Continuando nel mio cammino costeggiai una vecchia fabbrica diroccata ma ripulita e conservata quasi come un’attrazione turistica del periodo postindustriale ed ebbi modo di verificare, dall’inconfondibile odore degli escrementi secchi e dalle numerose impronte presenti sulla terra sabbiosa, che quel sentiero doveva essere percorso da cavalli. Non riuscivo a scorgere una traccia di rifiuto urbano, né una cicca di sigaretta, né una bottiglia di birra, né un fazzoletto di carta: tutto faceva pensare che stessi entrando in un’altra dimensione, una dimensione da sogno, ecologica ed incontaminata. Finalmente, quando ormai diverse gocce di sudore avevano preso ad imperlarmi la fronte, sbucai improvvisamente dal fitto della vegetazione in un ampio spiazzo sabbioso ombreggiato da alti pini marittimi, disseminato di tavoli e panche di legno piantati nella sabbia. Al centro una struttura squadrata costruita con tronchi di pino era ombreggiata da ondeggianti e variopinte vele di vecchi
paracaduti, fissati a terra con sagole da imbarcazione. Sul tetto ricoperto di scope, sostenuta da due pali ricurvi, spuntava una larga corteccia di un grosso albero che faceva molto Brasile: infatti era dipinta a pennello con vernice verde un po’ scolorita dalle intemperie e sopra di essa, in un bel giallo carioca, era vergato il “titolo” di quel posto: “BAIA PERDUTA”. Stavo ancora finendo di ammirare quell’angolo del Mar dei Caraibi riportato in Toscana, quando mi sentii chiamare da dentro ad un’amaca di tessuto che ciondolava pigra tra un tronco di pino ed un altro: “hei! cerchi qualcuno in particolare o ti sei perso nella jungla amazzonica?” Ebbi la certezza che la voce proveniva proprio da lì dentro quando vidi spuntare da quel fagotto, prima un braccio che terminava in una birra Tennent’s, e poi un cesto di capelli rasta che sembravano usciti da una copertina di un album di Bob Marley. Il tizio mi osservava dal basso in alto con gli occhi chiari mezzi socchiusi che gli donavano un’aria a metà tra uno strafatto di Marjuana e quello che si era appena svegliato dopo una notte di bagordi alcolici. Dopo pochi istanti che lo conoscevo optai per entrambe le soluzioni. “Mi scusi, stavo cercando un certo Taz, credo che viva qui…” Il tipo continuava a dondolarsi dentro la sua amaca e ad osservarmi con un’espressione completamente rincoglionita “Taz? Potrebbe anche essere che lo hai trovato…oppure no…dipende da chi lo cerca… e perché lo cerca…” “…ecco…io mi chiamo Roberto e… mi manda Stefania… e credo che lo abbia avvertito del mio arrivo..” Bevve un lungo sorso di birra e continuò con il solito tono apatico: “Roberto…Roberto…boh, non mi dice niente…e poi oggi è tutto chiuso…oggi riposo in vista del tour de force della prossima estate…torna la prossima settimana… e portaci anche la tua amica Stefania che magari potrebbe essere piacevole da conoscere…”
Il solo sentire il nome di Stefania in bocca ad un altro uomo che osava pensare a lei in maniera lubrica mi innervosì immediatamente: “Senti giovane: io cerco Taz, per motivi seri che non sto certo a spiegare a te, me lo puoi chiamare per piacere visto che sono venuto quaggiù, a piedi, apposta per lui?” “Più che per lui credo tu sia venuto per te, signor Roberto…” La voce mi fece trasalire e mi voltai di scatto. Alle mie spalle, seduto nella sabbia con le spalle appoggiate ad un cestino dell’immondizia per la raccolta differenziata, c’era un uomo che non so come si fosse materializzato in quel posto. Ero pronto a scommettere che pochi istanti prima non ci fosse nessuno, invece, senza che me ne fossi minimamente reso conto, lo trovai a pochi i da me, con un lungo machete in una mano ed una pietra per affilarlo nell’altra. Non mi stava guardando e poneva un’attenzione quasi maniacale ad arrotare la lunga lama del coltellaccio, ma, per il suo tono tranquillo e confidenziale, dava l’impressione che mi conoscesse già da una vita: era scalzo e, sopra un vecchio paio di bermuda da bagno scoloriti, indossava una maglietta di cotone a maniche lunghe talmente sudicia e sdrucita che mi ricordò immediatamente quella indossata da Terence Hill nel famoso film “Trinità”. Aveva una barba nera ormai punteggiata da diversi peli bianchi, lunga di almeno di una settimana, i capelli rasati quasi a zero e, come il suo compare, aveva l’aria di uno che ha dormito poco e male. Mi venne da chiedermi se avevo fatto la scelta giusta ad affidarmi a questi amici di Stefania senza che lei, forse, avesse ben chiaro di che tipi si trattasse, e rimpiansi di non aver ascoltato il vecchio barista di RioTorto. “ insomma zio, mi dicono che hai dei problemi nel posto da dove vieni e vorresti startene qui per un po’ a riflettere sui tuoi peccati” Continuò Taz senza smettere di affilare il suo machete Raccolsi tutta la riserva di coraggio e sicurezza che mi era rimasta accantonata chissà in quale angolo dell’anima e, cercando di tenere la mia voce più ferma possibile risposi: “Ecco…veramente io…non ho commesso nessun peccato, questo voglio che sia chiaro. Vorrei solo far are un po’ di tempo finché non si chiariscano determinate situazioni…insomma finché le cose torneranno al posto giusto”
“Beh… senti zio, questo non è un albergo, ma quella bella ricciolona di Stefania mi ha chiesto un piacere e io i piaceri alle belle ragazze li faccio sempre, anche quando non mi conviene, perché sai com’è…non si sa mai, ed ogni lasciata è persa” concluse con una strizzatina d’occhio ed il ghigno malizioso di chi la sa lunga su certe avventure “Guarda che io posso pagarti…” protestai subito “ Si, certo, quello era scontato. E’ sulla cifra adeguata che dobbiamo accordarci. Stefania non è scesa nei particolari ma mi ha dato l’idea che ti sei cacciato in un bel pasticcio…e più bello è il pasticcio più caro è il conto della “Baia Perduta”. Prova un po’ a spiegarci quanto è grosso il pasticcio, zio.” “Senti bello io capisco che mi stai aiutando ma non mi va di essere chiamato “zio”. Mi sa di scemo. E non mi va neppure di farmi prendere per la gola, quindi se vuoi darmi una mano bene, altrimenti mi arrangio in un altro modo.” Mentre pronunciavo queste parole, dovute principalmente alle allusioni su Stefania, sentivo che la faccia mi era diventata bollente e suppongo pure paonazza, e che la rabbia che mi stava salendo mi avrebbe concesso di fare qualsiasi cosa. Taz smise per un attimo di affilare la sua lama e sollevò lo sguardo su di me per la prima volta. Per un attimo vidi are in quegli occhi verdi un lampo di attenzione, prima che tornassero di nuovo assonnati e svogliati. “heihei zio… tranquillo! qui siamo tutti peace and love, nessuno te la tocca la tua Stefania. Solo che vorremo tu ci spiegassi quali tipi di problemi hai avuto, in modo che pure noi possiamo prendere le adeguate precauzioni, quindi mettiti comodo e facci un riassuntino della tua vita.” Così dicendo mi indicò un punto immaginario nel terreno sabbioso dove sedermi, mentre sentivo l’aria riempita di un nuovo profumo, più acre ed esotico dei precedenti, che mi riportò ai tempi della scuola. Non feci in tempo ad identificare l’esatta provenienza che il tipo nell’amaca mi allungò una canna di marija lunga e gonfia come un sigaro cubano. Mi accomodai e accettai lo spinello. Stavo iniziando a parlare quando decisi, più per darmi un tono che per il piacere di farlo, di dare una lunga tirata. Immediatamente mi sentii affogare, mi mancava l’aria ed i miei polmoni erano saturi di fumo. Gli occhi mi presero a lacrimare e tutto il mondo divenne appannato mentre un sibilo sinistro mi usciva
dalla bocca tra un colpo di tosse ed un altro. “E dai Giulio, lascialo stare, non lo vedi che lo zio innamorato ha una certa età!” Mentre io cercavo di riprendere il controllo della respirazione inalando lunghe boccate di ossigeno, i due si scompisciavano dalle risate, proprio come due qualsiasi adolescenti fumati. Allungai la canna a Taz sporgendomi in avanti e, nonostante la situazione di estremo imbarazzo, mi sorpresi nel constatare che veniva da ridere pure a me. Si, strano a dirsi ma ebbi una sensazione di complicità con quei due personaggi decisamente strambi che mi mise di buon umore e, come in preda ad un raptus, iniziai a ridere come un matto. Appena ci fummo tutti un po’ calmati, e ci vollero almeno una decina di minuti, cominciai a spiegare quanto mi era accaduto. Parlai loro dello “sfregiato”, di quando aveva tentato di entrarmi in casa e di quando lo vidi fuori dallo studio del dottore; raccontai della perquisizione presso il mio Ufficio dell’Acquedotto e delle notizie raccolte da Stefania su quel fantomatico virus che io avrei introdotto nell’acqua distribuita in città; conclusi con la fuga a Roma ed il mio viaggio fino a Riotorto. Per una timidezza quasi adolescenziale, omisi di confessare la cotta tremenda che mi ero preso per Stefania, ma credo che questo punto gli era chiaro fin dalle prime battute. Al termine del mio racconto ci fu un lungo silenzio, come se quei due avessero preso molto sul serio quanto avevo riferito, tanto che aleggiava nell’aria uno stato di tensione e preoccupazione. Durò solo alcuni istanti, dopo di che Taz si alzò goffamente dalla sabbia piantando il suo machete sul pino che cresceva alle sue spalle e, con la voce di quello che accetta filosoficamente gli eventi, riprese: “eh beh caro Robbo, sembra un film. Se solo la metà delle cose che ci hai detto è vera e non è frutto della tua immaginazione, sembra che sei infilato proprio in un bel casino, e finché stai qui, questo casino mi sa che potresti anche portarcelo a casa. Quindi, da questo momento in poi, se decidi di rimanere con noi, farai solo quello che ti diciamo noi, tutto quello che ti diciamo noi, niente di più e niente di meno di quello che ti diciamo noi. Alla prima cazzata che fai te ne ritorni sull’Aurelia e vai dove ti pare, basta che sia molto lontano da qui. Questo
almeno fino a quando non ci abbiamo capito qualcosa di più. “ “va bene, vi ringrazio per avermi creduto, e …per il compenso?” chiesi titubante alzandomi a mia volta dal terreno sabbioso “Intanto sistemati in quella capanna laggiù e guarda se è di tuo gradimento, poi si parlerà di soldi” così dicendo mi indicò una piccola baracchetta di legno affogata nella macchia mediterranea, sul retro di quella che doveva essere la loro abitazione. Altro non era che il rimessaggio degli ombrelloni e delle sdraio che noleggiavano ai clienti della Baia Perduta. Entrai dentro e mi guardai intorno mentre i miei piedi affondavano nella sabbia fresca che faceva da pavimento: l’aria era bollente e sapeva di salmastro e coppale. Tutta la casetta di legno con il tetto a spiovere ad un paio di metri di altezza, sarà stata di una superfice di 15 metri quadrati, ma togliendone almeno 10 che erano occupati dal materiale lì riposto, me ne rimanevano quasi 5 a mia completa disposizione. La luce che filtrava dalla porticina rischiarava l’ambiente che era sprovvisto di finestre ed una lampadina penzolava al centro, appesa a due fili elettrici fermati insieme con del nastro isolante. Arrotolate in un angolo c’erano anche alcune amache di stoffa simili a quelle sulla quale si ciondolava Giulio; così ne presi una scegliendola tra quelle meno puzzolenti di sudore e salmastro, e la sistemai da una parte all’altra del locale, fissandola a due ganci che qualcuno aveva già provveduto a fissare alle pareti di legno. “Allora zio ti piace?” Mi chiese con tono di scherno Giulio che aveva ficcato la testa dentro prima di trangugiare l’ultimo sorso dell’ennesima bottiglia di Tennent’s doppio malto “Niente male, fa molto sistemazione dell’ultimo minuto, ma devo dire che ha il suo fascino” gli risposi sinceramente soddisfatto “ok mi fa piacere. Anche perché non ti devi muovere da qui dentro senza che veniamo noi a prenderti, quindi mettiti comodo” Mi lasciò infilate nella sabbia davanti alla porta due Tennents e due mele “nel caso ti venga fame o sete… intanto fatti un riposino e…mi raccomando, non uscire per nessun motivo” Girò su se stesso e se ne andò, facendo oscillare i lunghi dred biondi sulla
canottiera sudicia e sui bermuda extralarge che gli scivolavano dai fianchi fino a scoprire l’inizio del sedere. Quando fui solo ebbi la sgradevole sensazione che si deve provare quando si varca la soglia di un carcere e si sente la porta che ti si chiude dietro. Inalai una profonda boccata d’ossigeno che, riempiendomi i polmoni, mi rallentò la sensazione di angoscia che si apprestava a pervadermi; decisi che, almeno per il momento, era meglio stare alle regole, almeno fino a quando non avessi trovato una soluzione migliore. Mi distesi goffamente sull’amaca umidiccia e sabbiosa stiracchiandomi tutti i muscoli indolenziti dall’inusuale attività fisica che ero stato costretto ad effettuare e lasciai che le palpebre mi calassero lentamente sugli occhi, mentre lo sciabordio delle onde sul bagnasciuga mi conciliava il sonno ristoratore a cui mi accingevo ad abbandonarmi.
LA NAZIONE – CRONACA NAZIONALE
15 aprile 2012
RUBRICA SALUTE E BENESSERE COME DIFENDERSI DALL’INFLUENZA FUORI STAGIONE
Ahi ahiahi!!! Come tutte le primavere, anche questa appena arrivata porta con se una serie di malanni legati alle varie allergie: alle graminacee, ai vari pollini, alla betulla e chi più ne ha più ne metta. In più, quest’anno, per non farsi mancare proprio niente, sembra che un virus di ceppo africano sia arrivato da noi e ci abbia regalato un bel problemino che credevamo aver lasciato tra i vestiti invernali durante il cambio dell’armadio: l’influenza. Ebbene si, quest’anno l’influenza ci colpirà anche mentre siamo in procinto di recarsi sulla spiaggia, costringendoci ad aggiungere ai teli da mare ed alle creme abbronzanti anche aspirina e fazzoletti di carta! Certo, intendiamoci, non sarà come le sue sorelle dei mesi freddi, ma anche questa è importante che non venga sottovalutata. Gli effetti che porta questo nuovo virus dell’influenza ribattezzata “l’africana” ma il cui nome scientifico è “N1H5”, almeno stando ai primi sintomi, sembra siano molto noiosi, ma fortunatamente sono di breve durata, anche se per le fascia più deboli, come anziani e bambini, in caso di problemi che si protraessero più a lungo, sarà bene farli controllare al primo posto di Pronto Soccorso. Infatti una tosse persistente provocherà problemi alla respirazione e, anche se come assicurano del Ministero della Sanità, il tutto tende a normalizzarsi in
poche ore, è bene non sottovalutare il problema, in special modo se esiste il rischio che i sintomi che compaiono si possano sommare ad eventuali malattie preesistenti. Nei casi di infezione più acuta è possibile che compaia uno stato febbrile con una temperatura anche molto alta. Comunque, sempre il Ministero della Sanità, ha comunicato che un vaccino è già stato preparato dalle nostre case farmaceutiche ed è attualmente in distribuzione, tanto che nei prossimi giorni sarà disponibile da tutti i medici di famiglia. Il Ministero consiglia vivamente di assumere detto vaccino in quanto, a seguito di vari test già eseguiti, risulta assolutamente innocuo e non ha nessuna controindicazione, oltre ad essere sottoposto al pagamento secondo la vigente normativa che prevede l’esenzione per le fasce di reddito più basse ed il solo pagamento del ticket per le altre. Ricordiamo infine che, qualora si decida di non vaccinarsi, in caso di comparsa dei sintomi, la cura da sostenere è a base di antibiotici, che mal si conciliano con l’esposizione ai raggi solari. Infatti, se si omette di prendere le dovute precauzioni, è assai probabile la comparsa di sgradevoli macchie cutanee che risulteranno molto persistenti e irritazioni pruriginose che potrebbero rovinare le vostre vacanze: sarà quindi necessario riposarsi nelle vostre camere d’albergo, possibilmente al buio, almeno per qualche giorno prima di tornare in spiaggia. Questa volta come poche altre sarà perciò prudente affidarsi ai consigli del nostro Ministero e, previa consulto con il proprio medico di famiglia, sottoporsi alla vaccinazione che sembra sia efficace al 100%! Per ulteriori e più dettagliate informazioni è possibile consultare il sito internet www.Ministerodellasalute.it
LA NAZIONE – CRONACA DI FIRENZE
15 aprile 2012
ACQUEDOTTO ANCORA IN PANNE, C’E’ POLEMICA IN COMUNE
Ancora problemi per il servizio pubblico di distribuzione dell’acqua in vari quartieri del nostro Comune. Infatti, in alcune zone del centro storico e a Gavinana, Sorgane e Bellariva fino al confine con il Comune di Bagno a Ripoli, la distribuzione dell’acqua in tutte le abitazioni private è stata razionata a causa della rottura di un impianto di depurazione che, ad oggi, non è stato ancora rimesso in funzione. L’acqua viene quindi tuttora distribuita grazie alle autobotti provenienti dall’acquedotto di Mantignano che, ovviamente, non possono garantire un servizio h24. Con l’arrivo ormai prossimo della calura estiva, molti anziani e famiglie con bambini fanno già sentire la loro voce tramite le associazioni dei Consumatori che hanno chiesto un urgente incontro con il Sindaco al fine di risolvere al più presto questa situazione di grave disagio. I vertici aziendali dell’acquedotto di Via di Villamagna, intanto, fanno a scaricabarile sulle responsabilità della mancata riparazione del depuratore incriminato, adducendo le colpe alla burocrazia straripante della Regione Toscana prima e del Ministero della Salute poi. Quest’ultimo infatti non darebbe l’autorizzazione alla messa in opera del nuovo macchinario se preventivamente non saranno stati effettuati tutti i controlli tecnici e igienici previsti dalla normativa europea attualmente in vigore. Gli addetti a questi tipi di accertamenti lamentano quindi la mancanza di fondi che dovrebbero essere stanziati da una commissione del Parlamento europeo; commissione che, a sua volta, si dovrebbe riunire entro la fine del mese, salvo ulteriori slittamenti dovuti alla discussione già inserita in agenda di particolari argomenti che riguardano l’omologazione dei Depuratori in uso nei paesi dell’Est europeo appena entrati nella Comunità. Anche questi, infatti, non sono assolutamente in regola con le vigenti normative comunitarie e, pare ,possono avere un diritto di prelazione su detto stanziamento
economico. Ovviamente la “coperta” è corta e ci sono grosso possibilità che la parte che rimarrà “al freddo” sia la nostra. Insomma, il solito affare all’italiana, ed intanto le previsioni meteo indicano per la prossima settimana l’arrivo della “bolla africana” che porterà le temperature a picchi tra i più alti del periodo da almeno 200 anni!
Capitolo 10
I camerieri giravano sempre al tavolo prima del nostro correndo come equilibristi con i loro vassoi stracolmi di pesce fritto e bottiglie di vino bianco ghiacciato. Avevo parecchia fame, una sensazione identica alla fame chimica che si prova dopo aver assunto una dose importante di THC, il principio attivo della cannabis; quei pinguini vestiti di un elegantissimo bianco e nero ed i capelli impomatati alla Rodolfo Valentino sembravano ignorare il nostro tavolo ed io stavo iniziando a perdere la pazienza. Come se non bastasse sentivo il bisogno di bere: mi sarei potuto scolare una di quelle fantastiche bottiglie di bianco ghiacciato in un attimo. “Cazzo – dissi accarezzando dolcemente il pancione di Maria- cazzo dovevamo ordinarne almeno due di bottiglie di vino perché una me la trangugio da solo in un sorso, senza neppure farla posare sul tavolo!” Maria mi sorrise dolcemente fissandomi allegra con gli occhi carichi di amore e comprensione, uno sguardo che non avevo mai notato prima di allora: “Dai amore stai tranquillo, appena arriva il nostro cameriere gli ordiniamo subito la seconda bottiglia; anche a me quelle belle bottiglie ghiacciate stanno facendo gola da morire!” Poi, strizzando l’occhio verso di me in maniera sfacciatamente sensuale eguardandosi il pancione ormai prossimo al nono mese, terminò: “Sono convinta che anche lui verrà su vizioso come il babbo se continuiamo così! …e speriamo che il babbo continui per sempre così… a farmi impazzire!” Sarà stato la condizione di avanzata gravidanza, oppure quel nuovo centro estetico che stava frequentando, ma non avevo mai notato la sua bellezza e la sua ionale femminilità. Dovevo essere gonfio di orgoglio per quelle parole che mi aveva rivolto con tono così sensuale, ma i camerieri di quella festa paesana sembravano ignorarmi volutamente e la cosa mi innervosiva parecchio, tanto da non farmi apprezzare a sufficienza i complimenti di mia moglie.
Il posto era bellissimo ma stranamente, nonostante ci trovassimo su un prato in cima alla sommità di una scogliera a picco sul mare, l’aria era sì carica di salmastro, ma pareva pesante, così pesante che si faceva fatica a respirare. Nell’ambiente si diffondeva una piacevole musica brasiliana, una melodia affascinante ma decisamente triste, precisamente il contrario di quello che io avrei selezionato in una serata festosa come quella. Era proprio una serata particolare. Maria continuava a guardarmi con un’ammirazione mai vista e con la mano iniziò a sfiorarmi i pantaloni all’altezza delle ginocchia per poi salire delicatamente, fino a giungere all’inguine. Percepii immediatamente un irrigidimento generale ma era quasi una sensazione fastidiosa. Avevo sete, e avevo fame. Mi sentivo appiccicoso e gocce di sudore salato mi scorrevano sulle palpebre facendomi frizzare gli occhi; la gola mi si era completamente asciugata e provavo dolore a deglutire. La situazione stava diventando insostenibile. Vidi il cameriere che correva verso un altro tavolo e questa volta ero deciso a fermarlo appena si avvicinava a noi. “Scusa” gridai alzandomi in piedi di scatto “scusa pensi di considerare anche noi o preferisci che ce ne andiamo!” “Che figure…Il solito cafone!… te l’avevo detto che non ne valeva la pena, che non era la persona giusta per te!” La mamma di Maria era seduta al mio fianco e si rivolgeva alla figlia sporgendosi sul tavolo verso di lei, indicandomi con lo sguardo e lanciandomi perfide occhiate con aria schifata: “non riesco proprio a capire cosa ci pensavi di trovare: non è ricco, non è colto, è brutto e pure mezzo impotente: nello scegliere gli uomini non hai proprio preso da tua madre. Spero almeno che gli metti un cesto di corna a questo fallito!” Maria aveva la camicia da notte sdrucita che usava ultimamente a casa, i bigudini in testa e la bocca semi aperta dalla quale usciva un rivolo di bava. Gli occhi erano socchiusi e le guance, pallide e mollicce, penzolavano su una pappagorgia incipiente, dandole l’espressione di un cane molossoide appena sveglio.
La vestaglia era sbottonata su di una pancia prominente che si ammassava su se stessa in quattro o cinque rotoli di grasso, dovuti non certo ad una gravidanza. “Non preoccuparti mamma, di sicuro questo stronzo prima lo spenniamo per bene e poi, dopo essermi scopata tutti suoi colleghi in modo che venga preso per il culo tutta la vita, lo mando a cacare!” Mentre finiva di pronunciare queste parole con un tono rauco ed impastato dal sonno, il cameriere si diresse con decisione verso di me “Certo che vengo da te signor Roberto, che fai adesso non scappi più?” Aveva poggiato entrambi i pugni sul tavolo e i suoi occhi carichi di violenza mi fissavano da non più di trenta centimetri, mentre un ghigno accentuato da una grossa cicatrice che gli solcava la faccia lo rendeva paragonabile ad un essere diabolico. Improvvisamente spalancò la bocca che divenne enorme, sproporzionata al resto del corpo che era comunque mastodontico. Continuava ad avvicinarsi con la sua faccia verso la mia, tanto che adesso riuscivo a sentire il suo alito, caldo e stantio come una pozza d’acqua putrida stagnante da secoli. Improvvisamente si avventò su di me mostrando i canini che erano gialli e aguzzi, grandi e taglienti come colli di bottiglie di Tennent’s spaccate… “Che c’è Robbo, mangi troppe mele e dormi agitato?” La faccia di Giulio incorniciata da una cascata di dred biondi mi guardava dall’alto, mentre ero con il viso quasi completamente affondato nella sabbia umida della mia baracca e le gambe ancora appese all’amaca dalla quale ero caduto come una pera. Tentai invano di ricompormi ma la sabbia mi si appiccicava ovunque e la sentivo scricchiolare pure sotto i denti. Dopo vari tentativi riuscii a districarmi dai tiranti nei quali ero rimasto impigliato, a rimettermi in piedi e ad uscire dalla mia “abitazione”, sputacchiando in continuazione e tentando inutilmente di togliermi la sabbia dal viso e dagli occhi. In compenso la leggera brezza marina mi congelò il sudore sulla pelle e mi penetrò nei polmoni rigenerandoli, facendomi sentire ancora vivo. “Era tutto un sogno” pensai trovando immediato giovamento a quella
constatazione “cazzo era tutto uno schifoso incubo, meno male….” “Forse è meglio se ti vai a fare un bagno, così ti ripigli e puoi venire a mangiare un boccone con noi” Sentenziò Giulio mentre con un braccio mi sosteneva accompagnandomi fino al bagnasciuga che distava non più di una ventina di metri Per quanto potevo vedere, mi resi conto che il solo era già tramontato lasciando il posto all’imbrunire, e appena un’onda mi bagnò i piedi mi resi conto che il bagno sarebbe stato tutt’altro che piacevole. Comunque non protestai, mi tolsi i bermuda rimanendo così in mutande e, senza ulteriori esitazioni, mi incamminai nel mare, immergendomi lentamente nell’acqua gelata. La sgradevole sensazione iniziale lasciò gradualmente il posto ad una percezione sensoriale esaltante. Una botta di adrenalina e vitalità più o meno paragonabile ad una doccia gelata dopo una nottata post-sbronza . Venni fuori dall’acqua accogliendo con piacere i brividi che mi si formavano sulla pelle: la spiaggia era deserta e adesso la luna faceva proiettare su di essa le ombre degli alti pini e della macchia mediterranea in cui era immersa la “Baia perduta”. Rimasi per qualche istante paralizzato sulla battigia, con le braccia strinte al corpo e i denti che battevano insieme rumorosamente. Giulio mi attendeva con le braccia conserte e una sigaretta che gli penzolava dalle labbra, con l’espressione tipica di chi sta studiando un fenomeno naturale a lui del tutto sconosciuto. Poi, una volta esaurita la curiosità, mi si rivolse in tono scherzoso: “vieni Robbo, stasera ti testiamo lo stomaco facendoti mangiare quelle schifezze che ha cucinato Taz. Se ce la fai puoi sopravvivere a qualsiasi cosa, vedrai!” Così dicendo mi allungò un vecchio asciugamano certamente dimenticato da qualche bagnante la stagione scorsa. Era sporco, scolorito e puzzava di muffa, ma quel gesto mi scaldò il cuore: non accadeva da quando ero un bambino e mia madre mi aspettava sul bagnasciuga che qualcuno mi forniva un asciugamano appena uscito dall’acqua del mare: ebbe l’effetto di farmi sentire di casa.
Capitolo 11
Contrariamente a quanto asserito da Giulio, la cena era stata veramente ottima. Avevamo mangiato su uno dei tavolini in plastica della “Peroni” posizionati immediatamente dietro al bar, nel tratto sabbioso prospicente la loro abitazione. Dopo una gustosa zuppa di polpo piccante preparata in un capiente e vissuto pentolone di terracotta, Taz aveva cucinato una grossa palamita alla griglia, farcita di aglio e spezie, su un braciere ricavato da mezzo barile di petrolio sistemato accanto al tavolo. Il tutto era stato annaffiato, da noi commensali, con dell’ottima Vernaccia di S. Giminiano ghiacciata, che mi scorreva lungo la gola come un balsamo rigenerante. Dopo l’incubo dentro la capanna da cui ero emerso solo pochi minuti prima, adesso mi sentivo in paradiso. Era piacevole avere la sensazione di sentirsi completamente protetto e di mangiare in un ambiente tanto ospitale. Era tutto molto primitivo ed essenziale e la cosa mi faceva sentire bene. Eravamo tre uomini, vestiti solo con i loro costumi da bagno, con i piedi affondati nella sabbia e una grossa candela sistemata dentro un sacchetto di carta pieno di sabbia che aiutava le stelle a rischiarare l’ambiente, donando alle nostre facce una colorazione rossastra, tendente al demoniaco. Nonostante non ci conoscessimo per niente, quantomeno per quanto mi riguardava, trovavo una certa complicità in quella situazione priva dei formalismi che ormai caratterizzano la nostra vita sociale; non era stato necessario prepararsi per andare a cena, fissare il ristorante o fare la spesa al supermercato. Il pesce, pescato da un loro amico, era stato donato dal mare; il fuoco per cuocerlo veniva alimentato dai rami secchi forniti della pineta mentre le tre bordolesi di vino provenivano direttamente dal frigorifero del bar, un rimasuglio della ata stagione.
La cena si svolse in un clima disteso e gioviale, accompagnata dalla colonna sonora del trillo dei grilli e della leggera risacca del mare. Poi, dopo aver trangugiato l’ultimo sorso di vino e cacciato fuori l’ultima boccata di fumo, mentre Giulio era impegnato a preparare un grosso spinello farcendolo abbondantemente con della marijuana secca arrivata chissà da dove, Taz spense accuratamente la sua sigaretta e si fece improvvisamente serio. “Adesso veniamo a noi Robbo” cominciò, guardandomi dritto negli occhi ed assumendo un atteggiamento, oserei dire, professionale: “Raccontami nuovamente cosa è successo senza trascurare alcun dettaglio, anche se a te può sembrare privo di importanza. Dicci pure quello che sai o che credi di sapere e quello che ti ha raccontato Stefania. Se vuoi che proviamo ad aiutarti devi sforzarti di non tralasciare assolutamente niente. Fai finta di essere dal prete a confessarti per la prima volta, non ti preoccupare di dichiarare i tuoi “atti impuri” oppure altri peccati di cui ti vergogni. Credimi, per quanto ne son ti stai giocando il culo e, come ti ho già detto, finché resterai qui, ti giochi anche il nostro. Coraggio, non ti interromperò.” Così dicendo tirò una lunga boccata dal cannone che Giulio gli aveva ato e si sistemò in maniera ancora più comoda, stiracchiandosi sulla sua sedia di plastica, senza però distogliere mai il suo sguardo indagatore dal mio viso. Mi sistemai anch’io nella posizione più comoda che potevo trovare, guadagnando così alcuni istanti che mi servivano per raccogliere e incolonnare tutte le vicissitudini che mi erano accadute con i relativi dettagli; quindi ripresi dal principio, dallo “sfregiato” nel condominio dove abitavo, alla visita dal dottore, alla perquisizione alla fuga. Riferii quello che mi aveva detto Stefania circa le accuse che mi erano rivolte riguardanti la diffusione del virus nell’acqua dell’acquedotto e parlai a lungo del nostro incontro a Roma. Cercai di essere il più esaustivo possibile, questa volta confessando anche i miei problemi con la moglie e la mia cotta per Stefania. Durante il mio racconto i due ascoltatori avevano terminato di fumare e mi guardarono con gli occhi arrossati e socchiusi, che sapevano tanto di inquisizione. Taz interruppe il lungo momento di silenzio che stava iniziando ad imbarazzarmi: “Robbo, mi sbaglierò ma sono convinto che te con questa storia non c’entri un cazzo, ci metterei la mano sul fuoco. Quindi resta da capire perché
sei entrato in questo vortice di merda. Stefania ti ha confermato che anche dalle analisi che lei ha effettuato, l’acqua è effettivamente contaminata. Questo dato te lo possiamo confermare anche noi.” Così dicendo mi mostrò una pagina del quotidiano di Firenze che riportava la notizia di un guasto all’acquedotto. “Beh ma qui parla solo di un guasto, problemi che capitano spesso, posso assicurarvelo” dissi “Si certo e i bambini li porta la cicogna… sveglia Robbo, alla tua età dovresti aver imparato a leggere i giornali. Quello che scrivono non è mai la verità assoluta, ma solo quello che hanno interesse che la popolazione sappia!” “…ma hanno chi?” chiesi scettico “Hanno tutti quelli che nutrono interesse sul modo nel quale viene assorbita la notizia: al livello più basso possono essere i redattori, i giornalisti ed i giornalai vari per vendere più copie, poi via via salendo nella scala di controllo di questa nostra società possiamo trovare le società che finanziano i giornali per farsi pubblicità, i nuovi governi per raggiungere consensi o, nei casi più seri, i servizi di sicurezza dei vari paesi per guidare le masse in una direzione decisa a tavolino da loro o addirittura da quelli che controllano loro. Nel nostro caso mi pare normale che non abbiano riportato la seguente notizia: -acque contaminate da un attacco terroristico, morirete tutti, cazzi vostri!- Pare anche a te oppure no?” “Beh effettivamente ecco…non ci avevo mai pensato….può essere che avete ragione voi ma…boh non saprei…” balbettai ancora un po’ perplesso “Ok dopo questo breve rio sulla realtà in cui sei immerso dalla nascita e che sconoscevi totalmente, torniamo al nostro caso specifico: sei sicuro di non aver avuto contatti con qualche personaggio particolare, anche prima della visita notturna dello “sfregiato”? Vedi, cerca di capire, deve esserci un qualcosa che ha scatenato questa serie di avvenimenti, non puoi esserci cascato dentro per caso. Credimi, in questo mondo niente succede per caso, te lo posso assicurare, visto che l’ho provato sulla mia pelle.” Cercai di raccogliere maggiori elementi nella mia memoria, scavando anche nei fatti che avevo accantonato:
“non saprei boh, del dottore ve l’ho raccontato, quello mi pareva un po’ strano anche se non so bene dirvi perché... poi con Maria non andava più bene ormai da tempo; figuriamoci che anche quando sono tornato dall’Ospedale non mi ha neppure guardato perché era completamente assorbita dal “Grande Fratello” e quella è stata forse la goccia che mi ha fatto capire che non l’amavo più, o che forse non l’avevo mai amata…poi c’era sempre la suocera a rompere i coglioni… “Cos’hai detto?” scatto su Giulio che fino a quel momento se n’era stato assente a guardare le stelle “Niente, dicevo della suocera che si intromette sempre…” “No prima… hai detto qualcosa di un ospedale” “ No macché, una cosa da niente, un piccolo incidente che ho avuto mentre tornavo a casa in macchina” “Quando è avvenuto?” “Beh vediamo…si, mi pare proprio il giorno prima della visita notturna dello sfregiato” “e cosa cavolo aspettavi a dircelo?” intervenne Taz con tono di rimprovero “beh guardate che stata una cosa da niente e non penso che…” “nessuno ti ha chiesto di pensare ma solo di riferire quindi…procedi!” ordinò Taz “okok, vediamo, dunque…stavo tornando a casa in auto dopo una giornata di lavoro e stava piovendo. Ero un po’ preso dai miei problemi, ora non ricordo di preciso ma mi pare proprio che stavo pensando alla mia storia d’amore che…” “…si abbiamo capito, che palle…andiamo oltre, non divagare… grazie” “beh allora? Prima mi dite di non tralasciare niente e poi vi innervosite se mi dilungo un attimino sui miei sentimenti, magari sono quelli la causa scatenante…”
“si certo come no, ai Servizi frega parecchio delle tue corna” mi interruppe Giulio “…corna, che centrano le corna. Maria non mi ha mica messo le corna…cioè… almeno non credo…” “si certo come no, e i bambini nascono sotto i cavoli…” continuò il rastone “ancora con questa storia dei bambini! secondo me tu Giulio hai un inconsapevole desiderio di paternità!” “che c’è adesso ti metti a fare lo spiritoso?” rispose Giulio accigliandosi e irrigidendosi sulla sedia “tranquilli dai, cerca di restare su argomenti concreti Robbo. E te Giulio che fai, te la prendi? Cos’è, c’hai il culo sudicio?” lo sfottèTaz Giulio grugnì qualcosa di incomprensibile circa i bambini fastidiosi e si stravaccò nuovamente sulla sedia dondolandosi e cacciandosi in bocca il collo di una Tennent’s appena stappata. “Allora, stavo dicendo che, mentre tornavo a casa, ho tamponato l’auto che mi precedeva che si era arrestata al semaforo; a causa dell’ urto l’auto ha centrato uno scooter che poi ha colpito una bici, insomma una gran bella carambola. C’è stato un po’ di parapiglia, ma alla fine a riportare qualche lesione siamo stati solo io e il ciclista, un ragazzo africano. Poi sono arrivati i vigili urbani ed un’ambulanza che ha accompagnato me e il ragazzo straniero al Pronto Soccorso dell’ospedale di Careggi. Ci hanno medicato e io sono stato dimesso la sera stessa, mentre lo straniero non lo so, ma sembrava non avesse niente di grave.” “E come era questo ragazzo, prova a descriverlo meglio” mi incitò Taz, visibilmente interessato da questo nuovo personaggio “ Era giovane, avrà avuto si e no 20 anni. Portava i capelli molto corti, anzi proprio rasati, un po’ come quasi tutti i venditori ambulanti senegalesi che girano per il centro storico. Aveva un fisico atletico e vestiva, mi pare, con dei jeans e una semplice maglietta, ma non ricordo di preciso. Ricordo invece che non parlava una parola d’italiano e pareva parecchio spaesato, poi…non mi viene in mente altro…anzi no, aspetta…ecco un particolare che mi sovviene: aveva un piccolo tatuaggio, anzi una specie di incisione a forma di “S” sul collo, dietro al
collo per la precisione, alla base della nuca; non so se era un serpente o solo una lettera un po’ più elaborata…” Avevo appena terminato di descrivere quel particolare che Giulio e Taz si irrigidirono immediatamente fissandosi, come se gli avessi raccontato di essere stato a cena con un loro vecchio amico che credevano morto e sepolto da anni. “Ok Robbo, credo che abbiamo individuato il bandolo della matassa e quindi possiamo iniziare a tentare di districarla” mi informò Taz alzandosi in piedi “Già ti preannuncio, però, che la matassa appare parecchio ingarbugliata e non sarà affatto semplice venirne a capo. Credo che navigheremo in acque pericolose e bisogna che tu ti dia una bella svegliata ed incominci ad aprire tutti gli occhi che madre natura ti ha donato e che te non hai mai immaginato di avere. Devi stare attento a tutto ed a tutti e non ti fidare mai di nessuno, se prima non hai una spiegazione logica sul motivo per il quale lo hai incontrato. Non ho ancora idea di cosa vogliano fare di te, ma sappi che prima o poi ci riusciranno; io e Giulio faremo il possibile per darti una mano ma, né noi né nessun altro potrà aiutarti ad evitarlo. Devi solo essere bravo a prolungare per il maggior tempo possibile la tua libertà, oppure la tua vita. E devi cavartela da solo”. Ci fu una pausa in cui sentii il mio cuore che iniziò battere tanto forte che sembrava volesse uscire dalla cassa toracica e la mia respirazione divenne talmente affannata che non riuscii a proferire parola. Deglutii faticosamente ed intrecciai le mani per evitare che gli altri notassero come stavano tremando. Trassi un profondo respiro che mi permise di rilassarmi quel tanto da poter parlare: “Ok signori, grazie dell’avvertimento, ma credo che loro, chiunque essi siano, dovranno faticare un bel po’ per mettermelo nel culo!” “Grande Robbo, così mi piaci, tira fuori le palle! E’ l’unica strada che puoi percorrere per tentare di andare avanti il più possibile, e posso assicurarti che, per breve che possa essere, sarà più appagante della vita che hai vissuto fino ad ora. Adesso vai a dormire che domani cercheremo di capirci qualcosa di più. E ricorda, stai vivendo in un mondo dove niente è quello che sembra.” Dopo gli sbrigativi saluti con i quali Taz e Giulio si congedarono per recarsi nei loro alloggi, decisi di andarmi a fumare una sigaretta sulla spiaggia della “Baia
perduta” . Lo specchio d’acqua era divenuto ora piatto come una tavola e scintillava sotto il riflesso della luna e delle migliaia di stelle che rischiaravano tutta la zona. Sembrava di vedere il fondale del mare e tutti i pesci che lo abitavano muoversi sulla sabbia chiara ed ondulata. L’odore della macchia mediterranea, ormai assalita dall’umidità, si mischiava al salmastro ed al fumo del tabacco bruciato, formando un esotico cocktail di profumi pungenti che mi donava un gran senso di libertà. Un po’ come se mi fossi trovato solo, in una tenda Tuareg in mezzo al deserto del Sahara o accanto al fuoco di un bivacco su una cima delle Ande. Eravamo io e la natura: un binomio primordiale ed esente da pregiudizi o sotterfugi che mi faceva sentire al centro dell’Universo. Entrai nella mia baracca con questa sensazione positiva nella testa e nel cuore.
LA NAZIONE – CRONACA NAZIONALE
3 maggio 2012
PRIME VITTIME DELL'INFLUENZA: CRESCE LA PAURA!
Nella giornata di ieri si è purtroppo verificato il primo decesso causato dal nuovo virus dell’influenza estiva, denominata ormai “l’africana”. Si tratta di una signora di 86 anni che si trovava già ricoverata all’Ospedale Careggi di Firenze per altri motivi. Il decesso è avvenuto a causa dell’insufficiente funzione polmonare che, agendo su un fisico già debilitato da un’altra patologia, ha causato la morte della donna. Sembrerebbe che anche un secondo decesso che ha colpito una persona anziana, un uomo di 91 anni, sempre ricoverato presso una struttura sanitaria della città di Firenze, possa essere riconducibile all’”africana”, anche se in questo caso mancano riscontri certi in quanto la persona era già affetto da una grave sindrome di carenza respiratoria che potrebbe averne causato di per sé la morte. Questi casi, seppure riguardanti persone particolarmente anziane ed in uno stato di salute moltoprecario, hanno fatto alzare il livello di guardia del Ministero della Salute riguardo a questo nuovo Virus. Infatti sembrerebbe sia al vaglio dei dirigenti delle varie ASL la possibilità di rendere obbligatoria la vaccinazione per le fasce così dette “a rischio”, cioè i bambini fino agli 8 anni e gli adulti di età maggiore di 65 anni. Per quanto riguarda il reperimento dei vaccini, le maggiori case farmaceutiche sono già al lavoro per la produzione in larga scala di quanto necessario, che sarà disponibile su tutto il territorio nazionale nel giro di poche ore .
Il fatto che i due decessi siano avvenuti entrambi nel capoluogo toscano, a parere degli esperti, sarebbe dovuto solo ad una coincidenza, in quanto a Firenze si trova l’Istituto di Analisi che per primo ha isolato il Virus ed è chiaro che risulterebbe quindi maggiormente preparato al riconoscimento dello stesso; invece, purtroppo, anche in altre città italiane si troverebbero persone con sintomatologie corrispondenti a quelle dell’”africana” e, seppur trattabile qualora presa in tempo, come ci tengono a ricordare gli esperti, la malattia sta creando non poche preoccupazioni. Intanto il portavoce del Ministero della Sanità invita le persone che accusino sintomi analoghi a quelli già noti, ovvero difficoltà respiratorie, tosse persistente e febbre alta, a recarsi immediatamente presso il Pronto Soccorso dei vari Ospedali cittadini che già sono predisposti alle cure del caso. Sempre il Ministero si raccomanda inoltre di essere certi dei sintomi sopra descritti prima di portarsi presso gli Ospedali, al fine di non intasare le strutture e creare quindi disagio a chi ne ha realmente bisogno. Fortunatamente sembra che questa piccola epidemia abbia i giorni contati, in quanto, con l’arrivo della stagione secca, i batteri dell’”africana” non dovrebbero sopravvivere.
LA NAZIONE – CRONACA DI FIRENZE
3 maggio 2012
ACQUEDOTTO ANCORA IN PANNE, C’E’ POLEMICA IN COMUNE
Ancora niente di fatto sull’ormai cronico problema all’acquedotto dell’Anconella. Nonostante le varie Giunte politiche, sia Comunali che Provinciali, si siano già riunite più volte, il guasto sembrerebbe impossibile da riparare. Come sempre rimbalzano le responsabilità tra chi deve risolvere, ovvero sganciare i denari, e chi i soliti denari deve ricevere. Infatti il nodo della questione sarebbero gli stanziamenti necessari per pagare i collaudi di cui necessitano le nuove apparecchiature tecniche che, stante a quanto dichiarato dai vertici della società di gestione, sarebbero già pronte per essere installate. Permangono però le necessità di sottostare alle rigide normative europee sul collaudo delle stesse apparecchiature; infatti i vari filtri di nuova concezione da inserire nelle pompe di aspirazione dei bacini artificiali sono l’oggetto del controllo che, a quanto pare, nessuno degli organi interessati sembra in grado di effettuare: fatto sta che tutta la struttura è di fatto paralizzata. Sembra infatti il classico spreco all’italiana: una volta effettuata la spesa maggiore, cioè l’acquisto dell’apparecchiatura, tutto lo stabilimento non entra in funzione per un cavillo, lasciando così a secco vari quartieri della città. Tutto di guadagnato invece, con buona pace del contribuente, per le società private che stanno effettuando la distribuzione giornaliera con le loro autobotti: queste costano al Comune cifre astronomiche che verranno detratte, nel bilancio preventivo, dalle spese previste per la manutenzione dei parchi verdi che la
nuova Giunta Comunale ha sbandierato in campagna elettorale. Anche tutti i dipendenti dell’acquedotto, escluso i vertici della dirigenza, sono stati costretti a prendersi un periodo di ferie forzate e, pare, addirittura cacciati dalla direzione se tentano di avvicinarsi ai loro Uffici. Infatti, alcuni dipendenti accompagnati da una delegazione sindacale, vogliosi di conoscere i motivi di tale decisione, pare si siano recati presso la Direzione della Società per avere maggiori delucidazioni, ma, a loro dire, sono stati allontanati in malo modo dal personale di una fantomatica Azienda di supervisione che sta valutando l’efficienza generale dell’impianto. Effettivamente il nervosismo inizia a salire tanto che da questa notte l’ingresso dell’azienda è presidiato da un paio di automezzi della Polizia di Stato che non permettono a nessuno, nemmeno a noi cronisti, di avvicinarsi. Stando a quanto si apprende da un comunicato ufficiale diramato nelle ultime ore dalla Direzione della Società Acquedotto di Firenze, la vigilanza sarebbe stata predisposta per garantire la massima velocità nelle procedure di ripristino della normale situazione di distribuzione, altrimenti rallentata da eventuali forme di protesta “inutili e controproducenti” . Mentre i vari comitati di lavoratori si stanno organizzando per far valere i propri diritti, noi staremo a vedere nei prossimi giorni l’evolversi della situazione.
Capitolo 12
Fu orribile. Una delle cose peggiori che mi fossero mai capitate. Non riuscivo a comprendere se stavo dormendo o se ero sveglio, ma ero consapevole del fatto che non riuscivo quasi a respirare. Qualcosa mi serrava la gola. Stavo sognando. Sicuramente stavo sognando. Un altro incubo. Eppure il dolore che provavo ai muscoli delle braccia e la sensazione di essere immobilizzato ed impotente era reale, troppo reale. Il tempo ava e non riuscivo a svegliarmi. Volevo svegliarmi, ero consapevole di volermi svegliare eppure, nonostante gli sforzi, non ci riuscivo e rimanevo immerso nell’incubo. Non riuscivo più a comandare il mio corpo e la cosa era insopportabile: volevo respirare ma non ne ero capace, volevo muovermi ma mi era impossibile. Sentivo la mia bocca spalancata e i respiri si susseguivano frenetici, ma sempre più brevi; avevo la necessità di riempirmi i polmoni per placare subito la sete d’ aria ma niente: poca aria, calda e priva di ossigeno. Sapeva di plastica e sangue. Si… sangue, probabilmente il mio sangue. La lingua si era gonfiata all’inverosimile e mi ostruiva la trachea. Il mio corpo galleggiava in un’atmosfera priva di gravità, eppure la sensazione di cadere a terra era proprio quella che si prova quando a terra ci si finisce davvero, con tanto di dolore lancinante ad una spalla. Sotto le mani informicolate che mi trovavo immobilizzate dietro la schiena da una forza sovrumana, sentivo la sabbia umida e appiccicosa. Mi sembrava di essere in un’enorme lavatrice da quanto ero sballottato da una parte all’altra. Adesso la spalla mi faceva un male boia e mi pareva pure di aver sentito un crok, un
rumore forse dipeso dall’osso che strappa i tendini mentre esce dalla sua sede naturale. Ero trascinato da qualcosa o da qualcuno. Mi pareva di sentire una…forse due persone che ansimavano. Adesso sentivo la pelle del corpo che si rinfrescava con la brezza della notte, ma non riuscivo ancora a respirare e il viso mi bruciava, mentre la testa era sempre più pesante. Era terribile il buio che mi circondava e l’impotenza che provavo nel fare qualunque cosa credevo potesse prolungare la mia sopravvivenza. Intorno a me era tutto nero e la testa mi stava scoppiando. Stavo soffocando. Doveva essere quella, quindi, la sensazione che si prova quando si muore. Una grossa mano nera e puzzolente che ti copre la faccia, ti chiude gli occhi, ti tappa le narici e le orecchie e ti serra la bocca. E ti ferma il cuore. Si, perché anche i battiti del mio cuore, fino a pochi istanti prima frenetici, apparivano ora lenti, sempre più lenti e profondi come un tonfo sordo che proviene dalle viscere della terra. Le gambe tentavano di calpestare la terra, di appoggiarsi a qualcosa, di sentire un contatto materiale ma niente: si agitavano inutilmente nell’aria e stavano diventando sempre più insensibili. “Assenza di gravità” pensavo “ sto sognando di essere nello spazio, eiettato fuori dalla mia navicella senza maschera d’ossigeno. Che sogno di merda!”. No, non stavo sognando. Una mano mi stava sollevando da sotto le ascelle per trascinarmi sulla sabbia e qualcos’altro adesso mi bloccava anche le caviglie. Avevo voglia di vomitare ma non riuscivo a fare neppure quello. Sentivo delle contrazioni addominali che mi provocavano un dolore lancinante fino al cervello: “le contrazioni tipiche che annunciano la sincope” riflettei in un rigurgito di lucidità dove mi si materializzò davanti agli occhi l’istruttore di immersioni subacquee del corso che avevo frequentato controvoglia quasi vent’anni prima: ”E’ il pericolo mortale della pesca in apnea, sport enormemente più pericoloso delle immersioni con l’ausilio di gas respirabili” sentenziava l’istruttore mentre mi fissava con sguardo accusatorio. “Ma speriamo cazzo!” volevo urlargli in faccia “basta che tutto questo finisca al
più presto!” Le forze mi stavano abbandonando definitivamente. Avevo già perso la sensibilità alle gambe, poi anche alle braccia. Non sentivo più alcun dolore ma solo un malessere totale. Ero come se fossi stato completamente svuotato, eviscerato. Ricordo l’ultimo tentativo di respirare, una corta boccata inutile che mi annunciò la fine. La luce del led rosso dell’apparecchio televisivo in stand by si affievoliva velocemente. Poi tutto fu nero. Riaprii gli occhi ed un bagliore me li fece immediatamente richiudere per il dolore che mi aveva provocato. Provai di nuovo a socchiuderli ma il dolore continuava a pungermi. Era come se ce li avessi pieni di frammenti di vetro. Adesso la luce penetrava anche attraverso le palpebre chiuse, serrate. Lentamente, però, riuscivo ad abituarmi. Nonostante il dolore distinsi il bianco. Tutto era bianco, con varie sfumature che di sdoppiavano e si sovrapponevano in un contesto completamente bianco accecante. La testa mi martellava in maniera insopportabile, stava scoppiando. Svenni nuovamente. Il tempo non apparteneva più alla mia dimensione attuale, quindi non tentavo neppure di quantificarlo, cosa che mi faceva ignorare da quanto ero in quelle condizioni. La testa mi doleva ancora ma questa volta riuscii a realizzare che potevo respirare; l’aria sapeva di un gusto indefinito, direi artificiale, probabilmente chimico, ma mi pareva buonissima . ava ancora del tempo: un minuto, forse un’ora non saprei dirlo. Adesso riuscivo a distinguere delle piastrelle. Bianche, di ceramica, a dieci centimetri dalla mia faccia. Riuscivo a sentirne l’odore che mi donava una sensazione di fresco. E di disinfettante. Ecco…ne ero certo. Era il disinfettante usato negli ambulatori. Mi avevano riempito la fronte di quella merda gialla pochi giorni prima, non potevo sbagliarmi.
Ero sdraiato ma non potevo muovermi. Ogni tentativo mi provocava delle fitte insopportabili, e più scorreva il tempo e più i dolori aumentavano di numero e di intensità. ò un altro periodo di quel tempo non quantificabile e adesso riuscivo a fare una generica diagnosi delle mie condizioni di salute: la testa martellava costantemente; la spalla destra era inutilizzabile, forse rotta. Le estremità delle mani erano completamente informicolate ed insensibili mentre i polsi erano immobilizzati dietro la schiena da qualcosa di sottile e tagliente che pareva essermi penetrato nella carne fino all’osso: fascetta di plastica che immaginai potesse essere nera, chissà perché. Ero adagiato sul pavimento sul fianco sinistro, che appariva intorpidito e dolente dal bacino alle ginocchia per quanto riguarda la parte inferiore, ed al gomito, alla spalla e alla tempia per quanto concerne quella superiore. Con enorme fatica e attraverso dolori lancinanti mi misi seduto con la schiena appoggiata alla parete. La lingua era gonfia in maniera inimmaginabile, tanto che mi ostruiva parzialmente la trachea. Probabilmente me l’ero morsa ripetutamente, infatti sapeva di sangue. Sentii i pantaloncini da bagno completamente fradici e gelati che si staccavano e si appiccicavano nuovamente alle mie cosce. Compresi di essermi pisciato addosso solo quando un pungente odore di urina mi pervase le narici mischiandosi a quello del disinfettante. La cosa non mi imbarazzava assolutamente, ora avevo altre priorità. Ero distrutto ma finalmente potevo avere un quadro completo della situazione. Mi trovavo in una stanza di circa 4 metri per quattro sprovvista di finestre. Sulla parete alla mia sinistra si notava a malapena una porta di metallo bianco che si confondeva con le piastrelle di ceramica, anch’esse candide, che ricoprivano tutte le pareti fino al soffitto, ovviamente bianco, con al centro un grosso neon. Accanto a me, ribaltata a terra, c’era una lettiga da ospedale: probabilmente mi trovavo là sopra prima di cadere e svegliarmi. Davanti a me c’era una scrivania
con un computer piuttosto obsoleto su un lato e, sparsi in maniera disordinata su tutta la sua superfice, alcuni ferri chirurgici e flaconi di disinfettante e confezioni di cotone idrofilo e guanti in lattice; dietro di questa era sistemata una poltroncina in plastica ed un piccolo lavandino in acciaio. Sulla parete alla mia destra, al centro, si trovavano due armadietti in metallo bianco, mentre spostato sulla sinistra un apparecchio per l’ecocardiogramma con tutte le piccole ventose inserite faceva supporre che era stato appena utilizzato. Sempre addossato a quella parete c’era un piccolo defibrillatore. La parete alle mie spalle era completamente libera, se si eccettua una piccola sedia in metallo imbullonata a terra e degli strani legacci che gli penzolavano intorno, fissati alla parete insieme ad una grossa lampada che pareva direzionata sopra di essa. L’impiantito, in resina verdognola con un piccolo tombino per lo scarico dell’acqua al centro della stanza, pareva quello di un’autorimessa e stonava un po’ con l’aspetto asettico del resto del locale. Provai ad alzarmi ma non ne avevo la forza, anche perché, notai, le caviglie erano legate insieme da una fascetta di plastica nera. Volevo urlare ma, appena tentai di aprire la bocca mi accorsi che era serrata da un nastro adesivo che mi irritava la pelle del viso facendomela bruciare. ò ancora del tempo in cui la mia mente non riusciva a fare ordine negli eventi che mi avevano investito come un treno in corsa. Ricordavo la chiacchierata con Taz e Giulio, l’ottima cena, il vino fresco, la sigaretta fumata sotto le stelle ed il momento in cui mi ero adagiato sulla mia amaca. Poi tutto diveniva confuso e spiacevole. Mi trovavo nelle mani della banda dello “sfregiato”. Di questo ero sicuro. Che Taz e Giulio mi avessero tradito? oppure lo “sfregiato” li aveva fatti secchi? No, parevano due brave persone ma non ce li vedevo a farsi ammazzare per proteggere una cosa inutile come me. D'altronde mi conoscevano appena. Forse gli avevano offerto dei soldi, chissà. Già! Ma cosa stavo dicendo? Mi erano stati raccomandati da Stefania, quindi lei li conosceva bene e sapeva che non mi avrebbero mai tradito. Quindi erano sicuramente morti.
….Stefania. Le stavo sicuramente dando un enorme dispiacere e non se lo meritava. Mi ero fatto prendere come un pollo nonostante le sue raccomandazioni di fare attenzione. L’avevo delusa. Anche se in qualche modo fossi uscito da quella situazione tra noi non sarebbe stato più la stessa cosa. Ai suoi occhi non sarei stato più l’eroe imprendibile che le avevo fatto credere di essere. Non sarei più riuscito a conquistarla nuovamente. Questo era il vero problema. Del resto, della mia situazione, di quello che mi sarebbe accaduto, del motivo per il quale mi avevano rapito e trascinato nel posto dove mi trovavo: “chi se ne frega!”… non aveva alcuna importanza in confronto al dolore che provavo per aver perso l’amore di Stefania. Avrei dato la vita o la mia permanenza eterna in quel posto in cambio di rivederla di nuovo, anche solo per un istante, solo per poterle dire quanto la amavo e per poter sentire di nuovo il suo profumo. Adesso non avevo idea della durata della permanenza in quella scomoda posizione, ma sapevo che avevo di nuovo la vescica piena e mi scappava tremendamente da pisciare. La bocca era completamente riarsa, la lingua mi pulsava e non riuscivo più a deglutire. Mi pareva che mi avessero versato dell’acido lungo la gola per quanto mi bruciava. Il silenzio era assoluto, tanto che mi pareva di sentire il ronzio della corrente elettrica che alimentava le luci accecanti di quel posto. Provai di nuovo a muovermi puntando la schiena contro la parete e facendo forza sulle gambe in modo da cercare di alzarmi. Sollevai il sedere di pochi centimetri dal pavimento ma, improvvisamente, i muscoli delle cosce mi abbandonarono facendomi ricadere pesantemente a terra. A causa del brusco movimento, gli addominali, fino a quel momento contratti, si rilassarono facendo si che la vescica si svuotasse automaticamente: il liquido caldo mi ristagnava per un attimo sul ventre dandomi una sensazione piacevole, prima di scivolare lungo l’inguine e gocciolare sul pavimento, dove andava formandosi una piccola pozzanghera giallastra proprio nel punto dove ero seduto. Pozzanghera che poi, molto lentamente, defluiva verso il pozzetto di scolo.
Sollevai la testa imprecando per la disdicevole situazione in cui mi trovavo e notai che non ero solo. Una telecamera brandeggiabile era istallata nell’angolo in alto della stanza, alla mia destra, ed era puntata palesemente su di me. Ebbi anche la percezione che si fosse mossa, anche se in maniera millimetrica , come per zoomare sulla mia faccia. Il led rosso sembrava un occhio di un ciclope alieno che mi privava anche dell’unica cosa che mi era rimasta: la mia intimità. Compresi che anche quella mi era stata sottratta spudoratamente, visto che qualcuno mi stava osservando chissà da quanto tempo, ed istintivamente sentii le guance avvampare per la vergogna. Improvvisamente la porta si aprì. Un uomo dall’aspetto molto professionale e intraprendente attraversò con i lunghi e decisi la stanza, senza degnarmi di uno sguardo; dopo di che si andò a sedere dietro la scrivania, concentrandosi immediatamente sul computer che era già stato . Era una faccia conosciuta ma non riuscivo a rammentare dove l’avevo visto: poi, in un attimo, come fosse scattato un interruttore, ricordai. Fu sufficiente osservare il gesto meccanico con il quale si concentrò sul testo che appariva sul monitor del computer: si sporse in avanti estraendo dalla tasca della giacca elegante ed inforcò un paio di occhiali rossi, piccoli e alla moda. Il medico di Piazza Dalmazia.
Capitolo 13
Trascorsero pochi istanti che mi parvero un’eternità prima che il “dottore” concludesse di leggere su quel maledetto monitor e si voltasse verso di me con un’aria quasi divertita, mentre si accomodava alla meglio sulla sua poltroncina: “allora signor….Roberto Pagliai, come si sente? Mi chiese cortesemente, come avrebbe potuto domandare ad un paziente qualsiasi e non ad un uomo che era stato appena rapito, drogato come un’arista, legato come un salame e lasciato a bagno nel suo piscio. Istintivamente provai a rispondere ma emisi solo un mugolio soffocato dal nastro adesivo “oh cavolo, mi perdoni….che sbadato, dimenticavo il piccolo bavaglio….” Si scusò mentre, dopo essersi rapidamente alzato, si dirigeva verso di me e provvedeva a togliermi delicatamente il nastro adesivo dalla faccia. Tornò subito al suo posto e mi osservò con aria interrogativa. Io tentai di dire qualcosa sforzandomi terribilmente ma non ero in grado di articolare alcun suono comprensibile ad eccezione di un penoso sibilo strozzato “…ah già…capisco, non si preoccupi, vedrà che lentamente riprenderà l’uso di tutte le sue facoltà al cento per cento. E’ l’effetto del cloroformio che tende ad irritare tutte le vie respiratorie superiori e quindi anche ad inibire il corretto funzionamento delle corde vocali. Ma è solo un effetto eggero stia tranquillo…Facciamo così, per il momento si limiti ad assentire o meno alle mie domande con il movimento della testa…ok?” La situazione era paradossale. Il dottore aveva un aria molto professionale a metà tra il manager rampante e il professore universitario, ma in quel momento stava facendo le funzioni di un aguzzino della Gestapo. Accennai ad un timido “si” mentre cercavo inutilmente di muovere le braccia e le gambe, cosa che mi fece trapelare una smorfia di dolore che non ò
inosservata al dottore “Si certo…ha ragione…purtroppo a volte i ragazzi sembrano un po’ esagerati ma, mi creda, è necessario. Vede…sono spiacente ma non posso farla mettere “più comodo” perché è fondamentale che i nostri “pazienti” siano completamente concentrati nell’ascoltare cosa abbiamo da dire, senza distrarsi in ipotetiche congetture di fuga o reazioni istintive che sortirebbero solo effetti negativi per la nostra causa oltre che per loro stessi…lei mi capisce vero?” Compresi che ormai dovevo stare al gioco e che era inutile resistere o incazzarsi quindi, dopo un sottomesso gesto di assenso, attesi che proseguisse e sperai di capirci qualcosa di più su quella mia imbarazzantissima situazione “bene, vedo che iniziamo a viaggiare sulla stesa lunghezza d’onda…allora, immagino che si stia chiedendo dove si trovi i questo momento e, più che altro, cosa ne sarà di lei. Bene, una cosa alla volta: lei si trova in una “struttura” in uso ai Servizi di Sicurezza nazionali. Sono autorizzato a riferirle che più precisamente è in un laboratorio di analisi specializzato nella ricerca di strategie in grado di fronteggiare pericoli di tipo batteriologici. Questi pericoli possono insorgere principalmente per due motivi: per cause accidentali e naturali, quali epidemie o pandemie dovute alla naturale circolazione batterica nell’atmosfera o al continuo ingresso di svariati soggetti di diverse etnie sul nostro territorio che ci trasmettono, oltre alla loro cultura, anche i loro problemi sanitari contro i quali il nostro organismo non è abituato a combattere; oppure per cause dolose, volontarie, cioè per attacchi cosi detti “terroristici”: pare che le nuove leve di Al Qaeda trovano ormai obsolete e poco efficaci le vecchie azioni che si estinguevano con un bel botto, ma reputano molto più idoneo incutere terrore nella popolazione in maniera più subdola e prolungata nel tempo. Per quanto riguarda la seconda domanda che si sta ponendo, ma sicuramente la prima in ordine di importanza…beh, sinceramente questo non lo posso sapere, ma sono certo che molto del suo futuro prossimo dipenderà dalle sue risposte, cioè dalla sincerità delle sue risposte. Fino a questo punto le è tutto chiaro?” Il suo sguardo era ora carico di interesse verso di me, come se mi stesse caricando di una responsabilità enorme.
Accennai di nuovo di si con un deciso movimento della testa “benissimo, allora possiamo cominciare. Io faccio parte di questa “struttura” in qualità di Ufficiale responsabile della sezione “analisi”, insomma faccio parte dei buoni, anche se capisco che in questo momento stenterà a crederlo. Come avrà notato io le ho parlato in maniera molto franca perché le porto rispetto; lo stesso rispetto che mi attendo da lei nelle risposte. Nello specifico intendo rispetto verso la mia professione e le mie capacità intellettive. Da ormai diversi anni, tutti i risultati di qualsiasi tipo di analisi medica effettuata presso una struttura pubblica vengono analizzati, tramite un sistema informatico, dai nostri Servizi di Sicurezza, cioè da me e dai miei collaboratori. Appena emerge qualcosa che può sembrare di nostra competenza, cioè che potrebbe rientrare nei due casi che le ho spiegato prima, ci attiviamo per cercare di saperne di più, comunicando e comparando i dati con le notizie in possesso dei corrispondenti Servizi di sicurezza, nazionali ed esteri, che si occupano di informazione. Bene, si da il caso che alcuni giorni fa il suo sangue, analizzato al Pronto Soccorso a seguito di un incidente stradale, risultava infettato da un potente Virus denominato h1b13, ancora sconosciuto sul nostro territorio ma particolarmente potente ed inserito in una informativa dei nostri Servizi detti appunto “Informativi”. Secondo queste notizie raccolte nell’area mussulmana del Corno d’Africa, questo Virus avrebbe dovuto essere utilizzato già da diverso tempo in un attacco terroristico contro il nostro paese da parte delle “nuove generazioni” di Al Qaeda, ma non se ne era mai riscontrata traccia, tanto che era stata catalogata come una delle tante notizie “non attendibili” che ormai infestano i nostri archivi. Poi, come le dicevo, all’improvviso….arriva in ospedale lei.” Ci fu una lunga pausa durante la quale sentivo gli occhi del dottore che mi frugavano fino a dentro i più remoti angoli della mia mente, ma dubito che riuscisse a leggere qualcosa visto che ero talmente confuso da perdermi io stesso nelle mie elucubrazioni; quindi proseguì con un tono sempre più accusatorio: “A questo punto, come è ovvio, la nostra attività si è concentrata su di lei, signor Roberto… o Robbo per gli amici giusto? Come vede sappiamo tutto di lei e di chi la circonda, e anche del suo conto in banca che, guarda caso, nell’ultima settimana è stato aumentato di 2 milioni di euro tramite un bonifico proveniente dalle isole Cayman, da parte di una società finanziaria fantasma. Mi pare anche
inutile precisare che quei soldi le sono già stati …diciamo congelati” Rimase in attesa della mia reazione che, anche questa volta non ci fu. Ero talmente confuso che riuscivo a realizzare le notizie che sentivo solo quando me ne veniva fornita un’altra, ed anche in quel momento non ero abbastanza reattivo da provare alcuna emozione. Mi sembrava di essere fuori dal mio corpo e di osservare quella scena dall’alto, da un’altra dimensione. “Purtroppo non siamo stati in grado di intervenire in tempo” riprese non nascondendo un gesto di stizza “vuoi per la scarsa professionalità di chi ha operato, vuoi per una disdicevole sottovalutazione del problema: fatto sta che lei è riuscito ad inquinare le acque dell’acquedotto, non sappiamo in quale maniera, ma indubbiamente servendosi della posizione che ricopre nel suo lavoro, che guarda caso si svolge nel centro analisi dei rilevamenti chimici e batteriologici dell’Acquedotto di Firenze. A questo punto posso solo fare delle supposizioni ma ho la quasi certezza che queste sono esatte: lei è stato usato da qualcuno come “portatore” del Virus h1b13,un qualcuno che glie lo ha iniettato nel sangue. Dopo di che lei ha materialmente estratto il virus dal suo organismo secondo quanto insegnatole dai committenti,ed è stato lautamente ricompensato per il disturbo. Ovviamente non immaginava che saremo subito risaliti a lei e quindi non ha fatto in tempo a completare il suo piano sparendo dalla circolazione, dovendosi così accontentare di nascondersi in quel buco sul mare da quei due pulciosi…pace all’anima loro… Fino a questo momento ho detto qualcosa di sbagliato? No vero?…bene proseguiamo: cosa abbiamo fatto noi invece? Dopo alcune piccole difficoltà e servendoci di un fastidioso stratagemma che non sto a ricordarle, siamo stati in grado di raccogliere un campione del suo sangue e, infatti…colpo di scena…il Virus era sparito ed i parametri di riferimento erano perfettamente regolari….qualora si escludesse un piccolo valore sballato del colesterolo…” concluse con una punta di sarcasmo dopo aver soppesato con gli occhi la mia pancetta prominente. “Vede, un altro dato fondamentale che voglio confessarle è che i nostri Servizi di intelligence ci avevano già da tempo pronosticato la possibilità di un attentato
simile ma, riguardo agli autori, non avevano minimamente ipotizzato che potessero essere delle cellule dormienti presenti sul nostro territorio, e meno che mai che una di queste cellule potesse essere una persona come lei, effettivamente integerrima nel suo comportamento fino a pochi giorni fa e in alcun modo collegata a nessuna frangia terroristica. E, anche ammettendo che le nostre informazioni avessero fatto cilecca e in realtà lei fosse un personaggio veramente “sopra le righe”, ci risulta che per cancellare completamente il Virus, qualora non sia stata effettuata una preventiva vaccinazione oppure una prolungata cura a base di antibiotici, è necessaria una completa trasfusione del sangue. E non sempre il risultato è garantito al 100%. Inoltre resta il fatto che lei non avrebbe avuto il tempo materiale di fare tutto questo, quindi… qualcosa ci sfugge. Questi sono i fatti in nostro possesso, incontrovertibili e ampiamente dimostrabili; quindi fino a questo punto tutto appare… cristallino, mada adesso in poi, iniziano varie possibili interpretazioni del suo “atto terroristico”, ovvero le porrò i quesiti ai quali avrà il dovere di rispondere” Ci fu una pausa che il dottore utilizzò secondo un metodo di analisi della psiche umana che sicuramente aveva perfezionato dopo anni di esperienza nel campo degli interrogatori: infatti fu abbastanza prolungata per fare in modo che mi preparassi a rispondere ma non sufficientemente durevole perché mi permettesse di studiare un’eventuale soluzione alternativa a quella da lui desiderata: “Adesso l’effetto anestetizzante dovrebbe essere quasi concluso, quindi credo che potrà articolare una qualche forma di risposta: partiamo con la prima domanda. Ovviamente non le chiederò chi sono i mandanti di tutta questa faccenda perché credo che mi risponderebbe di non conoscerli, di essersi sempre rapportato con una casella postale o con un numero di telefono sconosciuto o con una persona che non saprebbe mai riconoscere perché non l’ha mai vista in viso e altre menzogne del genere. Quindi andiamo più sul semplice: quanto tempo fa le è stato iniettato il Virus h1b13?” Risposi d’ istinto la cosa più stupida che avrei potuto dire: “n…on lo so…” riuscii a pronunciare con un tremendo sforzo “non lo sa. Partiamo male ma non mi voglio arenare subito, vediamo di andare un po’ avanti…domanda numero due:
come ha estratto il virus h1b13dal suo corpo per infettare le acque?” Scossi violentemente la testa in segno di negazione: “io...nn fatto niente!” Il dottore alzò gli occhi verso il soffitto con fare sconsolato e si allontanò dalla scrivania spingendosi indietro con le mani. Poi riprese con un tono più confidenziale, quasi paterno: “suvvia signor Roberto, non insista con questo comportamento che non la porterà da nessuna parte. Anche sua moglie Maria ci ha confermato che da un po’ di tempo era strano e non comunicava più con lei. Personalmente non credo che sia la mente di tutto questo, ma certamente lei, signor Roberto, è solo una pedina. Una pedina sacrificabile che verrà immediatamente sostituita da un’altra. Non vale la pena patire tutto questo qualora riguardi un ideale; se invece si tratta solo del lato economico, le posso garantire che i suoi soldi non le verranno toccati e anzi, se la sua collaborazione porterà a dei risultati, saranno incrementati secondo le leggi dello Stato in materia di sicurezza nazionale. Mi dica quando ha incontrato le persone che l’hanno convinta a questo genere di scelta, mi dica come la contattano, come ha ricevuto il Virus h1b13e come lo ha immesso nella rete idrica. Inizi con il riferirmi queste poche cose e la nostra collaborazione sarà redditizia per entrambi. Non so se fu a causa dell’anestetico che avevo ancora in circolo o per un sistema di autodifesa, ma la mia mente si rifiutava di pensare alle domande che mi venivano poste. Pensavo a Taz e Giulio, alla fine che potevano aver fatto a causa mia; pensavo a Maria, al fatto che mi creasse problemi tutte le volte ce la sentivo nominare; pensavo alla mia nuova vita; pensavo a Stefania: chissà quanto era in ansia per me, come la stavo facendo soffrire a causa della mia inettitudine; per un attimo mi era quasi sembrato di sentire nell’aria il suo profumo e mi ricordai la dolcezza delle sue labbra… Svenni e fu di nuovo buio.
LA NAZIONE – CRONACA NAZIONALE
12 maggio 2012
L'INFLUENZA DILAGA: E' PANDEMIA?
Brutte notizie sul fronte sanitario. Anzi bruttissime. Il fenomeno dell’influenza che ci ha colpito in un periodo dell’anno solitamente più flagellato dalle allergie e dalle cosi dette “frescate”, e che ormai è nota a tutti come ”l’Africana”, sta iniziando adesso a farsi davvero preoccupante. Dopo una prima fase durante la quale sembrava fosse solo una fastidiosa ma tollerabile novità, questa influenza fuori stagione sta iniziando a mietere vittime in quantità preoccupanti. Secondo i dati forniti con una nota ufficiale dal Ministero della Salute, i decessi causati da questa malattia, nella sola giornata di ieri, sono stati 56, portando così a più di 60 il numero globale e denotando quindi una crescita esponenziale terrificante. Il dato che salta subito all’occhio è che la quasi totalità delle vittime, così come quella dei ricoverati presso le strutture nazionali con sintomi riconducibili al Virus di cui stiamo parlando, si è rilevata in toscana, e più precisamente nella provincia di Firenze. Quello che prima sembrava solo un dato dovuto al primo luogo nel quale si è individuato il Virus, adesso viene confermato in maniera alquanto sospetta. L’alta percentuale di persone colpite dalla malattia nel capoluogo toscano sembra sia dovuto ad una serie di condizioni atmosferiche che avrebbero posizionato il Virus sopra quest’area geografica, ed alla facilità del contagio. Infatti, da un’accurata indagine sanitaria, è emerso che molte delle vittime hanno avuto contatti tra loro ed i terribili sintomi si sono verificati dopo poche ore. E’ vero che, per il momento, la maggioranza delle persone decedute erano di età
avanzata o già debilitate da altre malattie, ma una seppur piccola percentuale di queste, pare godesse di ottima salute. La potenza del Virus appare veramente mostruosa ma, fortunatamente, sembra che questo sia anche facilmente eliminabile, se combattuto in tempo, grazie alla sua scarsa resistenza agli antibiotici. Comunque, per evitare qualsiasi tipo di problema, il Ministero della Salute ha diramato una nota nella quale si invita la popolazione tutta a sottoporsi alla vaccinazione per questo tipo di influenza. Tale profilassi si può effettuare tranquillamente presso il medico di famiglia o nei centri ospedalieri pubblici, in quanto le case farmaceutiche hanno già dato inizio alla consegna dei vaccini che forniscono una copertura completa dal rischio contagio. Per qualsiasi ulteriore chiarimento il Ministero ha messo a disposizione della popolazione il numero verde gratuito 800-299989, aperto 24 ore su 24, al quale risponderà una persona qualificata che sarà in grado di consigliare al meglio le prime cure da eseguire e di indicare il centro più vicino per la vaccinazione.
LA NAZIONE – CRONACA DI FIRENZE
12 maggio 2012
ANCORA PROBLEMI ALL’ACQUEDOTTO. SI DIMETTE IL DIRETTORE
I camion cisterna continuano il loro andirivieni dagli acquedotti limitrofi verso le cisterne di quello dell’Anconella, in modo da rifornire quotidianamente i quartieri della città rimasti a secco dopo il perdurare del guasto all’impianto di depurazione e le lungaggini burocratiche necessarie per il suo riavvio. Dal fronte amministrativo, sempre molto riservato riguardo alla situazione, è trapelato che il Direttore della struttura, il signor Cesare Renai, si è dimesso per una sorta di polemica con le Istituzioni locali e con quelle nazionali, anche se voci di corridoio sembra indichino che le sue dimissioni siano state “forzate” in quanto ci sarebbero indagini in corso sul suo recente operato. Infatti, con una nota molto stringata dell’Amministrazione comunale, si comunica che la direzione dell’impianto è stata assunta da un nuovo dirigente appartenente al Ministero per le risorse idriche dello Stato. Il nuovo Direttore, di cui ancora non è stato riferito il nome, assume l’incarico in una sorta di commissariamento dovuta alla cattiva gestione precedente della situazione e all’emergenza che si è venuta a creare. “Il nuovo dirigente – così si legge nel comunicato - resterà in carica solo per il tempo strettamente necessario alla risoluzione dei problemi dopo di che verrà eletto il nuovo direttore dal Consiglio di Amministrazione della Società Acquedotto dell’Anconella, che si terrà appena possibile”. Comunque sia l’ombra delle tangenti e di appalti poco chiari riguardo alla gestione dell’Acquedotto e delle sue attrezzature pare allungarsi sempre più minacciosamente sul vecchio dirigente anche se, al momento, non appare
destinatario di alcun Avviso di Garanzia. Questa redazione ha tentato più volte di mettersi in contatto con il signor Cesare Renai, ma questo pare svanito nel nulla, tanto che anche la moglie, che è in regime di separazione ed in attesa di divorzio, e da tempo non vive più con lui, dice di non sapere niente, di non sentirlo da alcuni giorni e di aver appreso delle sue dimissioni dall’incarico solo da noi giornalisti. Comunque, se si escludono le classiche vicende di “mala gestione all’italiana”, appare veramente alla fine il calvario degli abitanti delle zone colpite da questo disagio, in quanto il nuovo depuratore è stato finalmente installato e omologato, quindi già dai primi giorni della prossima settimana la rete idrica riprenderà il normale funzionamento.
LA NAZIONE – CRONACA DI FIRENZE
13 maggio 2012
SI SUICIDA L’EX DIRETTORE DELL’ACQUEDOTTO
Macabro ritrovamento quello effettuato da un addetto alla manutenzione di un condominio nella zona residenziale di Coverciano. L’operaio, contattato dall’Amministratore dello stabile a causa di alcuni problemi all’impianto automatico di irrigazione del giardino condominiale, al momento di entrare nel piccolo locale adibito ad alloggiare la pompa di aspirazione, ha trovato il corpo ormai senza vita del signor Cesare Renai, lì residente e recentemente salito alla ribalta della cronaca cittadina in quanto licenziatosi dalla direzione dell’Acquedotto dell’Anconella a causa di disguidi politici e dirigenziali relativi alla gestione del problema verificatosi negli ultimi giorni
ad un impianto di depurazione. L’ex dirigente si è impiccato per mezzo di una corda allacciata alle tubazioni del riscaldamento, quasi a voler seguire così il suo destino che sembra indissolubilmente legato all’acqua. A nulla è valso l’intervento della Misericordia e del Medico legale, che ha solo potuto costatarne la morte, avvenuta probabilmente pochi giorni prima. Il Pubblico Ministero di turno, contattato immediatamente dai Carabinieri intervenuti a seguito della chiamata dell’ operaio, ha disposto di restituire subito la salma ai familiari, ritenendo inutile il macabro rituale dell’autopsia, dato che non vi erano dubbi sul suicidio dell’uomo. Infatti il signor Renai avrebbe pure lasciato un messaggio sulla segreteria telefonica della sua abitazione dove si scusava con i parenti per il suo gesto. Esistevano inoltre alcuni certificati medici dell’Azienda Ospedaliera di Careggi che attestavano lo stato di particolare depressione che opprimeva il dirigente da ormai diverso tempo e che, tra l’altro, lo avrebbero anche convinto a
dimettersi.
Capitolo 14
Questa volta il risveglio fu decisamente più rapido. E più scioccante. Un getto di acqua gelida mi percuoteva violentemente ed in continuazione la faccia, impedendomi quasi di respirare e affogando in insensati gorgoglii le mie grida di terrore. Come lo spruzzo ghiacciato terminò riuscii ad aprire gli occhi, e la visione fu più agghiacciante del traumatico risveglio, portandomi il freddo fino a dentro le viscere: lo “sfregiato” era a poco più di un metro da me e mi osservava divertito con il suo ghigno diabolico stampato sulla faccia “Adesso non scappi più signor Robbo?” mi schernì venendo con la sua bocca tanto vicino al mio viso che, oltre all’alito pestilenziale di chi ha gravi problemi di stomaco, riuscii chiaramente a distinguere diverse otturazioni scure ai molari inferiori. Effettivamente il primo istinto fu quello di fuggire ma solo la mia testa riuscì a spostarsi lateralmente: le gambe e le braccia non risposero al comando, facendomi rimanere immobile nella mia posizione. Mi guardai attorno terrorizzato: ero nella solita stanza dell’interrogatorio ma questa volta mi trovavo completamente nudo e seduto sulla sedia imbullonata per terra, con le braccia e le caviglie legate a quegli strani legacci fissati alla parete. La lampada posizionata sopra la mia testa era adesso accesa e contribuiva in maniera esagerata all’illuminazione dell’ambiente. Inoltre avevo un ago infilato nell’avambraccio collegato ad una flebo, probabilmente contenente una soluzione indispensabile per tenermi sveglio e per donarmi il sufficiente nutrimento. “Sa una cosa signor Robbo, mi spiace molto che il ”metodo” scelto per lei sia diverso da quello tradizionale, da quello di stampo occidentale. Vede a Guantanamo io ci sono stato diversi mesi e devo dire che le buon vecchie maniere forti danno ben altre soddisfazioni. Il dottore ha detto che con lei
dovremo usare il metodo “sovietico”, ma personalmente sarei per accelerare i tempi con una buona dose di corrente elettrica direttamente su quei due testicoli secchi che si ritrova tra le zampette!” Rise di gusto dopo aver gettato un’occhiata ai miei organi genitali che, effettivamente, non erano mai stati così rattrappiti. Lo ”sfregiato” si era appena allontanato di un o da me quando la porta bianca si aprì ed il “dottore” entrò, come al solito, senza degnarmi di uno sguardo, andando ad accomodarsi di nuovo sulla sua poltroncina. Come la prima volta che lo conobbi all’ambulatorio di Piazza Dalmazia e la successiva che fece la sua apparizione in quella sala delle torture, rimase concentrato per diverso tempo sul monitor del computer; poi si rivolse a me con il solito tono educato e professionale: “ben trovato signor Pagliai, vedo che le hanno dato una bella ripulita, come sta?” Rimase in attesa di una mia risposta che tardava ad arrivare “Guardi signor Pagliai che adesso sono certo che è in grado di parlare, l’effetto dell’anestetico è sicuramente terminato….coraggio” “b…bbene…grazie” risposi trovando ancora difficoltà a coordinare il movimento della bocca mentre respiravo e sentendo una parte della saliva in eccesso che avevo in bocca gocciolarmi lungo il mento ed il collo. “sono contento che si senta meglio. Vede signor Pagliai, capisco che la situazione in cui si trova è quanto meno…spiacevole, ma appena lei deciderà di collaborare tutto questo avrà immediatamente termine. Siccome è matematico, scientifico diciamo, che lei collaborerà, resta solo da decidere quando. Quindi, e lo dico nel suo interesse, prima si decide a fornirci le informazioni che ci interessano e prima potrà togliersi da questo impiccio. E poi, qualora qualche dubbio etico la assalga, la cosa che si deve sempre ricordare è che “noi” siamo “i buoni” mentre quelli per cui lavora sono i “cattivi”. Spero di essere stato chiaro, signor Pagliai. Sono stato chiaro vero?” Accennai un si con la testa ma non lo stavo ascoltando; dentro di me sentii crescere una sensazione nuova, inedita. Non mi andava di essere trattato come un deficiente. Non avevo fatto assolutamente niente di male, ma questo non era importante anzi, a questo punto quasi mi dispiaceva essere innocente. Volevo essere colpevole. Volevo una motivazione per meritare quel trattamento. E
siccome non la trovavo, volevo almeno dimostrare a me stesso di non essere l’imbecille che credevano. Improvvisamente non ero più preoccupato per quello che poteva accadermi ma iniziai a concentrarmi solamente su quello che potevo e dovevo fare per togliermi da quell’inferno. “…Quando le è stato ato il Virus….come ha fatto ad immetterlo nella rete idrica?…chi l’ha aiutata neldisintossicare il suo organismo dal Virus?…” L’interrogatorio durava sempre un periodo di tempo che potrei quantificare in un paio d’ore, durante il quale mi venivano riproposte continuamente le solite domande. Una volta terminato, il dottore se ne andava e venivo lasciato da solo nella stanza, sempre nudo, seduto sulla sedia e legato come un salame, con quella luce accecante puntata dritta in faccia. Appena stavo per addormentarmi arrivava lo “sfregiato” che mi svegliava con il suo getto di acqua ghiacciata e con le sue pessime battute di spirito. E quella maledetta luce mi continuava a martellare il cervello, perforandomi le palpebre ed andando a conficcarsi nelle orbite come tanti spilli roventi. ate altre tre o quattro ore tornava il dottore che ricominciava con le sue domande, alle quali non tentavo nemmeno di rispondere. Mi limitavo a rimanere in silenzio, con lo sguardo basso, a fissarmi la punta dei piedi, a maledire quella luce assillante e quella flebo che mi teneva in vita. arono vari interrogatori e la luce, che mi filtrava dalle palpebre nonostante le tenessi serrate fino a farmele dolere, credevo che ormai mi avesse reso completamente cieco. Le mani e le gambe erano completamente atrofizzati e non sentivo più niente, mentre la testa mi scoppiava per il dolore. Credevo di impazzire e mi chiedevo quanto oltre avrebbe potuto spingersi la sopportazione di un uomo, quanto potesse durare la sua sopravvivenza. Ad un certo punto, nei vari periodi in cui cadevo in quello stato di semi incoscienza, ero tanto vicino a perdere definitivamente il contatto con la realtà che mi pareva di sentire il profumo di Stefania, l’odore del fumo delle sue sigarette ed anche il sapore della sua bocca. Era chiaro che stavo perdendo anche le poche energie mentali che mi rimanevano, ma quella sensazione mi rigenerò quel tanto che bastava: il momento era quasi arrivato, così mi sforzai di riattivare la circolazione ai miei arti costringendoli ad effettuare microscopici movimenti, finché un certo calore iniziò a dilagare al loro interno facendomi percepire il sangue che scorreva, causando dapprima una fastidiosa parestesia, ma poi donandomi di nuovo il loro completo controllo.
Quello stronzo del dottore continuava a formulare le solite domande, ma io vedevo solo il piano che si stava definendo nella mia mente. Era decisamente improbabile che riuscissi a portarlo a termine ma ero determinato a provarci. Volevano portare me all’esasperazione, ma ero certo che anche loro non si stavano certo divertendo e avrebbero voluto farla finita al più presto. Ci fu una pausa, un’ennesima pausa durante la quale il dottore inforcava i suoi occhialini rossi alla moda e mi lasciava solo con quella luce, con i miei pensieri, i miei dolori e le mie paure. Come spesso accadeva il dottore si allontanò da me di qualche o e si andò a sedere alla sua scrivania. Anche lui aveva la faccia provata e pareva decisamente più trasandato rispetto alla sua prima visita. La barba brizzolata cominciava a punteggiargli le guance ed il mento, mentre delle incipienti occhiaie scure rendevano il suo sguardo decisamente più stanco. Anche il camice, seppure sempre candido, appariva decisamente spiegazzato, così come il colletto della camicia aveva adesso l’ultimo bottone sganciato “Dottore mi vado a fare un panino al bar qua fuori, se non è un problema; ci metto dieci minuti” chiese “lo sfregiato” continuando ad osservarmi con disgusto, come avrebbe potuto guardare un pedofilo colto in flagranza di reato. Io ero accasciato sulla mia sedia inchiodata a terra, con un filo di bava che mi pendeva dalla bocca e lo sguardo assente perso in un punto immaginario sul pavimento. “Certo vai pure, nessun problema” acconsentì distrattamente il dottore, intento a navigare su internet alla ricerca della notizia relativa al nuovo acquisto della sua squadra del cuore. In me scattò un interruttore: “Eccoci” pensai “o ora o mai più” “Do….dottore…dottore…” sibilai con un filo di voce, dichiarando meno energie di quelle che avevo in realtà “sii?” rispose con voce carica di speranza il dottore, sollevando rapidamente la testa dal monitor e riponendo gli occhiali nel taschino del camice, tradendo così una notevole impazienza “Dottore…d’accordo…le racconto tutto ma…non ce la faccio più…questa luce…il braccio sinistro…mi devo sdraiare…il cuore…la prego dottore… le racconto tutto ma… mi devo…”emisi una serie di rantoli strozzati, poi abbandonai la testa in avanti, in modo che il mento mi poggiasse sul petto e un
copioso rivolo di saliva schiumosa mi scivolasse fuori dalla bocca. Rimasi immobile in quella posizione da infartato. “signor Robbo” scattò in piedi il dottore avvicinandosi a me velocemente, tanto che sentii lo scalpiccio delle sue eleganti scarpe della Tod’s sul pavimento bagnato dai ripetuti lavaggi “signor Pagliai… non adesso cazzo! una attimo che le do una mano…” Percepii una crescente preoccupazione nell’uomo che freneticamente cercava di slacciarmi i legacci dai polsi mentre io mi lasciavo andare completamente come se fossi già morto. L’ago della flebo si era spostato ed il mio avambraccio si stava gonfiando in maniera del tutto innaturale. Rimasi immobile nella mia posizione, omettendo di respirare e tenendo gli occhi sbarrati. Come le mani furono libere mi feci cadere in avanti, costringendo così il dottore a sostenermi. Con l’abilità di un borseggiatore provetto, mentre mi appoggiavo a lui, gli sfilai con un gesto rapido gli occhialini dal taschino anteriore del camice e li tenni stretti nella mano destra, mentre il dottore si chinava con l’intento di slacciarmi le cinghie che mi fermavano le caviglie. Caddi a terra sbattendo pesantemente la schiena contro il pavimento e facendo attenzione a trattenere il respiro in modo tale da limitare al massimo il movimento della cassa toracica, e il dottore, secondo un istinto della categoria alla quale apparteneva, pose l’orecchio vicino alla mia bocca mentre con le mani armeggiava sui cerotti che tenevano l’ago della flebo. Avvenne tutto in un attimo. Esplose in tutta la sua violenza quel naturale istinto di sopravvivenza che tutti gli animali possiedono, anche i più innocui come un pollo o un agnello… oppure come me: alzai entrambe le braccia in alto e staccai una stanghetta dei costosi occhialetti di Versace, poi, con il braccio sinistro serrai il collo del dottore in una morsa, stretto al petto come se fosse un vecchio amico con il quale giocavo a fare la lotta; contemporaneamente con la mano destra, prendendo tutta la rincorsa possibile e facendo appello alle ultime energie rimastemi, andai a piantare la stanghetta dentro al collo del dottore. Fu un baleno, una sensazione di piacere primordiale che mi provocò un godimento tanto spontaneo quanto inaspettato; si…provai piacere, un piacere profondo, cerebrale e fisico, quasi un orgasmo. Appena la sottile stanghetta di plastica giunse a contatto con la pelle del collo, percepii una leggera e breve resistenza
che, per un attimo, mi fece temere che la mia arma improvvisata si spezzasse. Invece no. La morbida pelle di quella zona del corpo cedette insieme ai muscoli sottili che la attraversano, e la stanghetta andò a perforare l’arteria giugulare, mentre io continuai a spingerla con il palmo fino a che non scomparve, fino a che non penetrò del tutto dentro al collo, inondandomi la mano ed il viso con una serie regolare e potente di fiotti di liquido viscoso e caldo. Mollai la presa ed il dottore si sollevò di scatto con la bocca aperta, guardandomi stupito in silenzio e provando a tapparsi con entrambe la mani quel buco dal quale continuava però a zampillare una quantità incredibile di sangue. Non rimasi a godermi lo spettacolo; secondo il mio piano corsi a posizionare una poltroncina sotto la telecamera in modo da poter arrivare a rivolgerla contro la parete opposta, sperando che qualcuno non avesse assistito alla scena in diretta. Per un osservatore esterno privo di partecipazione emotiva, il tutto poteva sembrare molto paradossale. C’era un dottore, con il suo camice candido che era diventato del tutto simile a quello di un macellaio, che girava a casaccio per la stanza, spruzzando le pareti del suo liquido rosso vaporizzato, quasi fosse un graffitaro metropolitano; c’ero io, completamente nudo e ricoperto a mia volta di sangue, con la faccia da scemo ed una calma totale che in realtà era solo uno stato di trance, che continuavo ad attuare il mio semplice piano: mi diressi verso il lavandino tentando di detergermi le mani e la faccia, ma più mi bagnavo e più l’ambiente che mi circondava cambiava colore. Adesso anche lo specchio e il pavimento, e la scrivania ed il monitor del computer e gli armadietti in metallo, tutto stava diventando rosso. Il dottore mi guardava con gli occhi sgranati che sembravano implorare il mio aiuto e mi veniva incontro gorgogliando frasi incompresibili. Non avendo ben chiaro come comportarmi mi allontanavo da lui, con i piedi nudi che continuavano a scivolare sul liquido appiccicoso lasciando lunghe strisciate più chiare sull’impiantito. Finché il dottore, finalmente, si accasciò a terra stringendosi il collo e scalciando con i piedi l’aria per alcuni secondi, in un ultimo scatto di agonia, pima di rimanere immobile con gli occhi spalancati. Per sempre. Calò improvviso un silenzio di morte. Sentivo il mio respiro che si faceva sempre più affannato. Tirai un paio di profonde boccate d’aria e cercai di scacciare il terrore che mi stava salendo verso il cervello sotto forma di nausea man mano che la più alta
scarica di adrenalina andava scemando, e mi misi a pensare in maniera ossessiva al piano che avevo formulato in quelle lunghe ore di tortura a cui ero stato sottoposto. La porta era chiusa e sprovvista di maniglia. L’aria, adesso, non sapeva più di disinfettante, ma c’era un odore che mi riportava ad una macelleria sudamericana, un odore dolciastro di sangue fresco, decisamente nauseante. Dovevo sbrigarmi. Anche se nessuno avesse osservato i monitor delle telecamere, lo sfregiato sarebbe rientrato a breve. Frugai nelle tasche del camice del dottore e trovai un mazzo di chiavi. Corsi alla porta e, con le mani tremanti ed impiastricciate di liquido ematico che andava lentamente coagulandosi, iniziai a cercare la chiave giusta. Era un tentativo impossibile. Erano già trascorsi diversi secondi ma ancora non ero riuscito a centrare neppure una volta la serratura con la prima chiave. No, così non andava, dovevo calmarmi. Mi ritrassi dalla porta e chiusi gli occhi cercando di rallentare il battito cardiaco in una sorta di training autogeno fai-da-te. Funzionò, quantomeno perché mi fece ricordare che ero completamente nudo e non sarei potuto andare da nessuna parte senza destare sospetto. Avevo appena ucciso un uomo, le tracce di sangue erano ancora ben visibili su di me nonostante il frettoloso lavaggio. Non avrebbero mai creduto alla mia storia. Mi avrebbero ripreso subito ed io non avrei neppure potuto rivedere Stefania per l’ultima volta. Potevo spogliare la mia vittima ma i suoi abiti erano decisamente inservibili, quindi ero nella merda… a meno che…gli armadietti! Erano chiusi a chiave ma c’erano delle fessure per far are dell’aria, in alto. Ci infilai le dita e tirai forte. Al primo tentativo la lamiera mi tagliò la pelle ed una fitta di dolore mi arrivò dritta al cervello. Non mi arresi. In preda ad un raptus rabbioso continuai a tirare, a strattonare quel cazzo di sportello di latta; ad ogni strattone la lamiera penetrava di più nella carne facendomi imprecare ma al tempo stesso donandomi nuova vitalità; finché non cedette di schianto facendomi finire a terra, nella pozza di sangue del dottore. Faticai non poco a rimettermi in piedi, scivolavo e cadevo di nuovo imbrattandomi ancora, completamente. Il tempo stringeva. Questa volta non usai l’acqua per lavarmi. Mi sembrava di sentire la porta che si apriva, mi sembrava di vedere comparire lo sfregiato. Nell’armadietto c’erano tre camici, nuovi, candidi. Ne usai due per pulirmi velocemente. Mentre me li avo sul viso il loro buon odore di pulito mi nascose per un attimo quello nauseabondo del sangue…e della paura.
Indossai il terzo e, dopo averlo abbottonato completamente, tornai alla porta. Fui fortunato perché al secondo tentativo trovai la chiave giusta. Entrò completamente nella serratura e ruotò dolcemente verso sinistra, emettendo uno scatto metallico che sapeva di libertà.
Capitolo 15
Ricordo perfettamente l’odore di pulito che mi inondò le narici ed i polmoni appena misi la testa fuori da quella maledetta stanza delle torture. Il solo respirare aria diversa da quella stagnante e piena di sofferenza mi fece stare decisamente meglio, ma ancora avevo parecchia strada da percorrere. Intanto non avevo idea di dove mi trovassi. Sbirciai fuori e vidi un lungo corridoio asettico senza nessuna finestra, illuminato da infinite luci al neon; lungo lo stesso si affacciavano diverse porte, tutte bianche e tutte contrassegnate da semplici numeri stampati in alto a destra, come fossero pagine di un libro. Tutte uguali a quella dalla quale stavo uscendo. Tutte chiuse. Il silenzio era estremo, indubbiamente artefatto. Non c’era traccia di anima viva ma dei led rossi accesi posizionati equidistanti tra loro lungo il soffitto denunciavano la presenza di parecchie telecamere. Non ero particolarmente credente ma pregai il Signore che nessuno degli addetti alla sorveglianza stesse osservando i monitor in quel momento. Cercai di acquistare comunque un atteggiamento composto e il più anonimo possibile mentre richiudevo la porta alle mie spalle e mi incamminavo lungo il corridoio. Il contatto con il pavimento gelido e il rumore appiccicoso dei miei i mi fece ricordare che ero scalzo e completamente nudo sotto il camice; un leggero sorriso mi comparve sulla faccia al pensiero di quanto poco “anonimo” dovevo sembrare a chi mi avesse incontrato. Fu una bella sensazione perché per la prima volta da tanto tempo sentivo i muscoli del viso distendersi, rilassarsi. Rimasi immobile per alcuni secondi, in attesa di qualcosa di negativo che non avveniva. Non compariva nessuno, nessuno pronto a ricacciarmi dentro a quella stanza ed a farmi del male; decisi che era un segno del destino. Un destino che finalmente mi iniziava a sorridere. Riresi a camminare e giunsi al termine del lungo corridoio, trovandomi davanti ad un muro. Mi voltai indietro ed anche dalla parte opposta la situazione
sembrava del tutto simile. Sembrava un videogioco e non riuscivo a indovinare la soluzione. Il tempo stringeva, di questo ero certo, e dovevo inventarmi qualcosa perché, purtroppo, ero ancora in trappola. E con un morto in più sulla coscienza. La poca lucidità che avevo riconquistato mi stava abbandonando velocemente mentre continuavo a percorrere quel corridoio avanti e indietro, lasciando il posto ad una sensazione di panico sempre più totale: il cuore mi stava battendo così velocemente che sembrava desideroso di scappare via dal corpo, ed il respiro diveniva sempre più affannato. Improvvisamente, pochi centimetri davanti a me, una delle tante porte si aprì lasciandomi impietrito. Lo “sfregiato” mi sbucò davanti, con gli occhi e la mente completamente assorti nella voracità con la quale stava divorando un enorme panino che profumava di mortadella fresca. Il destino, anche questa volta, mi volle ripagare per la vita da sfigato che avevo trascorso fino a pochi giorni prima: il mio torturatore, infatti, del tutto ignaro della mia presenza, si diresse verso la parte opposta, verso la stanza nella quale ero stato recluso. Senza neppure toccare la porta dalla quale era uscito, sgusciai dentro e lasciai che questa si chiudesse automaticamente alle mie spalle, andando poi a bloccarsi con il solito scatto metallico. Una corta rampa di scale, anch’essa sorvegliata da una telecamera, portava ad un nuovo accesso che, una volta aperto grazie al maniglione anti panico, mi proiettò nel mondo reale. Fu come se di colpo qualcuno avesse azionato il tasto del volume: un via vai frenetico di barelle cigolanti, infermieri e medici, malati intubati e parenti angosciati, mi fece capire che mi trovavo dentro un ospedale, più precisamente nel reparto di terapia intensiva dell’Ospedale di Careggi, stando a quanto riportato su una piccola tabella appesa ad una parete. Notai una addetta alle pulizie che riponeva il carrello con le varie pattumiere e scopettoni in uno stanzino e così non persi tempo: appena questa si fu allontanata, mi infilai dentro e calzai un paio di zoccoli bianchi, maledettamente piccoli per il mio piede ma mai così desiderati. Trovai pure un paio di larghi pantaloni verdi di stoffa ed alcune mascherine. Indossai il tutto e mi mescolai così tra i presenti, questa volta ando veramente inosservato. Era incredibile come a pochi metri da lì ci fosse quel maledetto corridoio deserto e silenzioso, completamente insonorizzato. Erano ati pochi minuti ma mi sembrava ormai solo un sogno. Cioè, un incubo.
Non mi occorse molto tempo per ricordarmi, invece, che tutto era stato assolutamente reale. Infatti notai alcuni uomini ben vestiti, in giacca e pantaloni scuri su camicia bianca: abbigliamento che stonava decisamente con l’ambiente sanitario che li circondava. Erano tesi in viso e andavano decisamente di fretta quando si facevano largo tra i presenti schivandoli e spintonandoli discretamente, fino ad imboccare le scale dietro la porta che avevo varcato per evadere dalla mia prigione. Abbassai lo sguardo ed affrettai il o, percorsi la scalinata principale e, uno volta sceso al piano inferiore e poi a quello terreno, raggiunsi l’uscita dello stabile. Era una splendida giornata e rimasi abbagliato da tanta bellezza e dal piacere che mi provocavano i raggi del sole sulla pelle del viso. E’ incredibile quanto si possono apprezzare certe cose che hai sempre ignorato al momento che ti vengano a mancare, anche se solo per un breve periodo. Chiusi gli occhi un attimo e respirai profondamente: mi sembrava di fare il pieno di nuova linfa vitale. I tanti dolori che mi avevano assillato durante gli interrogatori erano spariti come per incanto lasciando spazio ad una nuova energia. Ritornai alla realtà della mia situazione di fuggiasco e, dopo aver calcolato grazie alla posizione del sole ed ai discorsi dei anti, che poteva essere più o meno l’ora di pranzo, mi voltai indietro. Vedevo l’intero complesso ospedaliero, con la sua forma squadrata e funzionale del periodo fascista, ma non riuscivo a capire dove ero stato tenuto segregato. Avevo disceso due piani largamente “popolati” e notai le relative finestre spalancate per arieggiare le camere che si affacciavano sul piazzale; niente lasciava supporre l’esistenza di quel maledetto corridoio segreto e dei suoi “abitanti”. Realizzai quindi che il “corridoio silenzioso” si trovava tra il primo ed il secondo piano, effettivamente invisibile dall’esterno. Praticamente un piano fantasma, tale e quale a quello esistente nella famigerata Lubianka, la prigione staliniana di Mosca, almeno secondo quanto raccontato da Aleksandr Solgenitsin nell’ “l’Arcipelago Gulag”. Ero senza denaro e senza telefono, quindi non sapevo come avvertire la mia Musa ispiratrice, Stefania, per poterle chiederle l’ennesimo consiglio. Solo lei avrebbe potuto capirmi, ed aiutarmi.
Salii a bordo del primo autobus di linea che transitava da quella strada, tanto per allontanarmi il più possibile da quel luogo, e mi accorsi che era diretto verso casa mia. Probabilmente era l’unica cosa sensata da fare, anche se parecchio pericolosa. Così scesi all’isolato precedente e mi appostai qualche minuto per cercare di capire se poteva essere controllata. Poi, quando fui abbastanza sicuro di non aver notato nessuna sorveglianza, ruppi gli indugi. Era il momento di rischiare, così mi feci aprire il portone da un condomino e, una volta giunto sul pianerottolo, bussai forte alla porta del mio appartamento. Sembrava avesse visto un fantasma. Maria aprì tranquilla e rilassata ma, appena mi riconobbe, esplose in un urlo stridulo e assordante. Istintivamente le tappai la bocca e la spinsi dentro casa, contro la parete, richiudendo velocemente la porta alle mie spalle: “Zitta Maria zitta per amor di Dio… Non ti preoccupare, non voglio farti del male, me ne vado subito, non preoccuparti... Prendo solo due cose e scappo via, ma non urlare, ti prego... Mi stanno cercando e se mi trovano mi fanno la pelle ma io non ho fatto niente di quello che m accusano, te lo giuro, credimi!” Attesi ancora qualche istante e quando mi parve che si fosse un poco calmata, lentamente, allentai la pressione sulla sua bocca. Non appena la lasciai completamente, Maria mi dette uno spintone e scappò verso la cucina, riprendendo ad urlare come una forsennata: “Aiuto!... aiutatemi!...vuole uccidermi è un pazzo!” Fece per chiudersi a chiave nella stanza ma riuscii ad impedirglielo frantumando con un calcio la porta a vetri, prendendola per i capelli e trascinandola poi a terra. Per quella cazzo di porta mi aveva fatto perdere una settimana in giro per tutti i grandi magazzini della toscana perché non ce n’era una che la soddisfaceva a pieno e mi dette un grande piacere vederla sbriciolare in un attimo. Mi inginocchiai e le tappai di nuovo la bocca cercando di farla ragionare, ma sentii un tonfo sordo ed un improvviso dolore sulla nuca che mi fece quasi perdere i sensi. Mi voltai mentre tutta la casa sembrava girarmi attorno e vidi mia suocera con una scopa in mano che tentava di nuovo di colpirmi. “Schifoso… assassino…lascia stare la mia bambina…ti ammazzo brutto
maiale!” “mamma fai veloce, chiama la polizia…presto!” urlava Maria isterica Mi alzai barcollando instabile sulle gambe e disarmai con facilità la vecchia scassapalle. Cercai di immobilizzarla senza farle troppo male, in un rigurgito di sudditanza psicologica maturata in anni di sottomissione, ma così facendo persi di vista Maria. Così improvvisamente un dolore lancinante dietro la spalla, appena sotto il trapezio, mi fece pensare che la mia ora era giunta. Maria aveva raccolto dal ceppo dell’Ikea regalatoci da qualche amico spilorcio per il nostro matrimonio, un coltello da cucina e me l’aveva piantato sopra la scapola, sfilandolo e ripiantandolo di nuovo, in profondità, fino a che la punta non rimbalzò sull’osso. Il dolore mi offuscava la vista, ma ancora di più lo faceva la rabbia verso quelle due streghe, così cancellai ogni forma di rispetto e, grazie alla scarica di adrenalina fornitami dall’odio che provavo in quel preciso momento, colpii prima la vecchia con un pugno diretto alla mandibola che le fece schizzare via tutta la dentiera e la mandò, svenuta, ad accasciarsi in un angolo; dopo di che, con le energie residue, afferrai la sedia di modernariato in plastica rossa anni ‘70 acquistata per 300 euro in un famoso negozio di design dopo un terrificante pomeriggio di shopping e, sollevandola in aria, andai a distruggere il lampadario in vetro di Murano regalatoci per le nozze da una coppia di amici allora innamoratissimi e freschi di matrimonio ma ormai già separati da anni. Quindi, con tutta la forza che avevo in corpo e ignorando il dolore, l’abbassai violentemente e la scassai sulla schiena di Maria che si stava dirigendo verso il balcone, mandandola k.o. Allungando il braccio dietro la schiena afferrai il manico del coltello e tirai forte. Mi sembrava che, insieme alla lama, uscisse dal mio corpo anche l’anima! Rimasi per un po’ inginocchiato a terra cercando di riprendere una respirazione più o meno normale, nel tentativo di ignorare il dolore; poi, con uno sforzo sovrumano, mi rimisi in piedi e barcollai fino a quella che una volta era stata la nostra camera matrimoniale. Notai subito che di mio, adesso, non c’era più niente: la mia parte di armadio era occupata da alcune cianfrusaglie della vecchia suocera ed i miei vestiti chissà dove erano stati gettati. Così arraffai tutto quello che poteva avere un qualche valore, compresi alcuni gioielli di Maria, il suo cellulare e tutti i soldi che aveva in borsa, circa 20 euro. Stavo infilando tutto nelle tasche del camice quando provai un senso di ribrezzo verso quel furto
meschino, così tenni solo il telefono e gettai a terra il restocon disprezzo, dirigendomipoi, con calma, verso l’uscita. Mentre davo un ultimo sguardo alla spettacolare devastazione che regnava in cucina, notai mia suocera ancora priva di sensi con un piccolo rivolo di sangue che le usciva dalla bocca, e mia moglie che, mentre si contorceva a terra per il dolore, tentava ancora di raggiungere il coltello con il quale mi aveva colpito e che ora si trovava, insanguinato, a pochi centimetri da lei; istintivamente gli sferrai un lieve calcio, mandandolo a finire sotto il frigorifero. Poi ripensai al suo gesto: adesso non riuscivo più a muovere il braccio sinistro, ma solo perché la fortuna aveva ancora una volta deciso di assistermi ed aveva fatto pescare a Maria il coltello più piccolo, anche se erano pur sempre dieci centimetri di lama che mi avevano perforato la schiena andando a lesionare chissà quali muscoli o tendini. Non c’era alcun dubbio: mi voleva morto. Mi riscossi e mi guardai allo specchio dell’ingresso mentre provvedevo a strappare il filo del telefono fisso: notai sul retro del camice una macchia rosso scura che andava allargandosi all’altezza della scapola. Non potevo uscire così, quindi mi appoggiai sulle spalle la pesante giacca da camera rosa di mia suocera sperando, quantomeno, di are solo per matto. Una volta in strada salii al volo sul primo autobus, che era semi deserto, e mi accomodai nell’angolo in fondo. La città scorreva sotto i miei occhi anonima ecaotica , ignara che uno dei suoi abitanti era entrato in un circolo vizioso di perdizione, in un limbo dal quale non sembrava esserci via di scampo. Adesso avevo un telefono ma non sapevo cosa farne. Non ricordavo a memora nessun numero ad eccezione di quello di casa e del mio cellulare… Già, chissà che fine aveva fatto. L’ultima volta l’avevo lasciato nella capanna degli attrezzi alla “Baia perduta”. I miei sequestratori non credo avessero avuto il tempo di prenderlo e Taz e Giulio temevo avessero fatto una brutta fine. Comunque era un tentativo che potevo fare, anche perché l’unico che mi veniva in mente al momento. Composi il mio numero e sul display comparve la dicitura “Senzapalle”. “Puttana!” pensai “ …brutto cesso, speriamo che crepi te e quella vecchia
zoccola di tua madre!” Il telefono squillava libero. Me lo immaginavo mezzo sommerso dalla sabbia vicino a un monte di ragazzi stesi sulla spiaggia a prendere il sole… ”pronto!” una voce rispose investendomi la mente ed il cuore di un’emozione indescrivibile. Forse era frutto delle mie speranze più recondite, o forse era solo una che le assomigliava. No, non avrei sbagliato mai quella voce con nessun’altra sulla terra: “Stefania?” dissi titubante mentre lacrime di gioia mi colavano lungo le guance “Roberto! Sei tu Roberto?” “s…si…ma…come stai?” “io? Io sto bene ma tu piuttosto, che fine hai fatto? Sono venuta da Taz e Giulio ma non c’era nessuno, era tutto abbandonato. Poi girando ho trovato questo telefono nella baracca degli attrezzi insieme ad altre cose tue. Pensavo tu lo avessi dimenticato così l’ho raccolto e ti ho aspettato. Ho aspettato per tutto il giorno, e poi anche il giorno successivo, ma non ho trovato mai nessuno. Tutte le persone che incontravo alla “Baia Perduta” non mi sapevano dire niente…o mio Dio che angoscia…temevo ti fosse successo qualcosa di brutto…” Sentire quella voce così preoccupata mi riempiva d’orgoglio. Era come un balsamo che dalle orecchie mi penetrava nel cervello, nel cuore e per tutto il corpo. “Beh, è successo un po’ di casino, mi hanno preso…mi hanno legato e fatto un sacco di domande assurde…poi ho…insomma ho fatto un gran puttanaio e… sono scappato, cioè sto ancora scappando…poi ti racconto, ma adesso ho bisogno di te, ti devo vedere. Sono ferito alla schiena e credo di avere bisogno di un medico ma ho paura ad andare al Pronto Soccorso, ho paura che mi facciano troppe domande…cavolo sono in una brutta situazione…solo tu puoi aiutarmi adesso e poi…poi ho bisogno di vederti, beh…ecco…non riesco a vivere senza di te…scusami …” “…certo fai bene, non fidarti di nessuno…oh Robbo anch’io voglio vederti, non ho fatto altro che pensare a te. Dove sei adesso? Io sono a lavoro ma credo di potermi sganciare senza dare nell’occhio”
“adesso sono su un autobus… mi sembra che si diriga verso il centro storico… possiamo trovarci in un bar, oppure alla stazione ferroviaria di Santa Maria Novella… dimmi te dove credi meglio” “…ma stai male? Ti sento sofferente…senti ho un’idea. Vai in via Faenza, vicino al mercato di San Lorenzo, lì c’è uno studio di tatuaggi. Ci lavora un mio amico. Si chiama Tommaso, è un tipo un po’ strano ma ti puoi fidare. Digli che ti mando io e aspettami lì, intanto lo avverto e poi vedo di arrivare il prima possibile” “ok Stefania. Ho un sacco di cose da raccontarti, non ci crederai a quello che mi è successo…Grazie... Grazie di tutto, ci vediamo lì” Pronunciai le ultime parole con la voce strozzata dall’emozione, mentre piangevo come un bambino. Chiusi la conversazione e mi nascosi la faccia tra le mani, mentre una signora con le borse della spesa piene di verdure e mandarini si sporse all’indietro guardandomi sospettosa, poi borbottò qualcosa tra se e si voltò di nuovo in avanti, tornando a pensare agli affari suoi mentre la vita continuava a scorrere veloce e confusa fuori dal finestrino.
Capitolo 16
Scesi in Piazza Unità d’Italia e, sotto gli occhi incuriositi delle migliaia di turisti che affollavano quella zona centrale di Firenze, mi incamminai lentamente lungo via S. Antonino. Le tante botteghe dei vecchi pizzicagnoli fiorentini straripanti di salumi e formaggi saporiti, insieme all’odore dei Wafer caldi spalmati di nutella trangugiati dai turisti, mi davano il voltastomaco. ai nel mezzo ad una scolaresca in gita ed il mio abbigliamento a dir poco bizzarro provocò l’ilarità di tutti i bambini e la preoccupazione delle maestre che li esortavano ad accelerare il o, sospingendoli e guardandomi come una scrofa di cinghiale potrebbe guardare un boy scout mentre è con i cuccioli nel mezzo al suo bosco. Tenevo lo sguardo basso e cercavo di sbrigarmi a togliermi da quella posizione: dentro di me sentivo crescere la paura di veder comparire da un momento all’altro lo “sfregiato” o qualcun altro di quei tipi vestiti eleganti; ad ogni o strascicato, con il braccio sinistro ormai completamente abbandonato lungo il fianco, sentivo il dolore lancinante alla schiena che ormai mi si era espanso dalla scapola al collo ed alla spalla, poi giù giù fino a farmi perdere completamente la sensibilità alla mano. Avvertivo ora il sangue caldo e denso che mi scivolava lungo la schiena fino alle natiche e poi lungo la gamba. Istintivamente guardai in basso e notai delle gocce rosse che continuavano a macchiare gli zoccoli bianchi da infermiere troppo piccoli per il mio piede, che mi facevano procedere con quell’andatura claudicante. La visione di Stefania, che da principio era solo un desiderio, adesso stava velocemente prendendo una forma pericolosamente concreta. La vedevo sorridente davanti a me che mi invitava a seguirla mentre con una mano si accarezzava i suoi bellissimi riccioli neri. I rumori della città intorno a me apparivano ovattati e la mia mente iniziava ormai ad offuscarsi e ad abbandonarmi, proprio adesso che avevo ancora bisogno di lei, ancora per un altro po’... Arrivai all’incrocio con via Faenza e, con la vista ormai del tutto annebbiata,
scorsi un’insegna nera sulla quale campeggiava un’ appariscente scritta bianca: “Chrome Chain Tatoo”. Con le ultime forze spinsi la grossa maniglia d’acciaio cromato, appoggiandomi alla pesante porta di vetro e metallo con tutto il peso del mio corpo: appena mi affaccia fui immerso in un mondo orientale e mistico. Un profumo penetrante di incenso al muschio bianco pungeva le narici mentre il brusio di una macchinetta elettrica si mischiava ad una musica hard rock dei primi anni ’80. Al di là di un ulteriore vetrata, un po’ come in un grande acquario, un tatuatore stava chinato su un ragazzo a torso nudo semisdraiato su di una poltrona che, con l’espressione sofferente, osservava un punto inesistente sul soffitto, mentre un complesso disegno polinesiano prendeva forma sul suo petto muscoloso. Seduta al suo fianco, una giovane ragazza poco vestita con una moltitudine di piercing che le sfiguravano il volto grazioso osservava il lavoro dell’artista con aria annoiata. Questa, appena mi vide, si alzò ed uscì dall’ ”acquario”, dirigendosi verso di me con un’andatura decisamente provocante: le seducenti gambe nude e abbronzate erano valorizzate da un paio di scarpe eleganti con tacchi vertiginosi. “Che ti serve zio, mi sa’ che hai sbagliato posto: se stai cercando la mensa della Caritas è qualche bottega più avanti…”mi disse guardandomi incuriosita mentre masticava un chewingum a bocca aperta” “Ancora con questo zio!” pensai. Poi riuscii a sibilare: “Sto cercando Tommaso, mi manda Stefania” La ragazza mi squadrò stupita e, ancora non del tutto convinta, si diresse nuovamente verso il tatuatore, facendo ondeggiare il sedere perfetto, fasciato dentro una minigonna di pelle quasi inesistente che copriva appena le mutandine. L’uomo, dopo un breve conciliabolo, sollevò leggermente lo sguardo verso di me, osservandomi da sopra i suoi piccoli occhiali da vista; dopo di ché posò la macchinetta e si alzò dando una pacca sulla spalla del suo cliente. Mentre la ragazza provvedeva a pulire il disegno ancora quasi totalmente da riempire e ad accompagnare il ragazzo fuori, Tommaso si sfilò i guanti in lattice, si accese una sigaretta e mi fece cenno di entrare. Era un uomo di una cinquantina d’anni, con l’aspetto di quello che nella vita ne ha fatte e viste di tutti i colori. I capelli erano completamente rasati mentre due lunghi baffi alla “mongola” terminavano fermati con della perline colorate
almeno dieci centimetri sotto il mento. Indossava solo un gilet di pelle da motociclista degli “Hell’sAngels” completamente sbottonato, che faceva notare, oltre a decine di collane di metallo, un lungo Pitone tatuato che lo avvolgeva per tutto il corpo fino al punto in cui la sua testa sbucava minacciosa nel mezzo alla gola. Completavano l’abbigliamento un paio di stivalacci texani con la punta d’acciaio che sbucavano dai jeans, consunti e macchiati di inchiostro, e sostenuti da una cintura di cuoio dalla fibbia a forma di teschio. Mi fissò in silenzio fino a che fece un lungo tiro alla sigaretta stringendo gli occhi e soffiò fuori il fumo riempiendo la stanza di una nuvola dall’odore acre. “Allora… Qual è il problema?” chiese scorbutico con la voce resa rauca dalle diecimila sigarette traspirate Ormai le forze mi avevano del tutto abbandonato e riuscivo a rimanere in piedi per un mistero della gravità. Abbassai lo sguardo e lo fissai sulla chiazza rossa che andava allargandosi intorno a me, sul pavimento. “Non mi sento molto bene…” riuscii a dire mentre sentivo le ginocchia che si piegavano e la stanza iniziava a girare vorticosamente. Ripresi i sensi dopo un periodo di tempo che non saprei quantificare e mi guardai intorno. Ero sdraiato su un letto matrimoniale in un piccola stanza dal soffitto molto basso e tinteggiata di colori caldi che variavano dal giallo ocra al rosso mattone, appena rischiarati da una tenue luce soffusa che proveniva da una lampada giapponese di carta di riso. L’arredamento era molto kitsch, con grandi cuscini zebrati sparsi un po’ ovunque sul pavimento di legno e uno specchio attaccato al soffitto. In un angolo, dentro una vetrina, un grosso serpente tale e quale a quello che Tommaso portava tatuato sul petto, dormiva arrotolato sotto una calda luce rossa. Tentai di sollevarmi ma una fitta lancinante alla scapola mi fece urlare dal dolore, ricordandomi il motivo per il quale mi trovavo in quel posto. Indossavo ancora i pantaloni verdi dell’ospedale mentre il torace era nudo, fasciato da una garza bianca in maniera molto professionale. Sentii dei i pesanti che sembrava provenissero dall’inferno mentre in realtà salivano dalle scala a chiocciola di legno ai piedi del letto
“Che succede, il Bell’addormentato è tornato tra noi?” Tommaso sbucò dal piccolo ballatoio ai miei piedi restando chinato per non battere la testa sul soffitto basso. Dietro di lui, la visione di una cascata di riccioli neri mi fece quasi svenire dalla gioia “Stefania! Finalmente! Che bellezza…” Riuscii a pronunciare solo queste parole, poi il cervello mi si riempì di mille domande o racconti che avrei voluto farle e si inceppò, lasciandomi in silenzio come un ebete. “Robbo! Come stai? Cosa ti è successo? Ti prego dimmi che stai bene…” mi si rivolse emozionata Stefania “Si, certo che sto bene…adesso che ti vedo sto benissimo…ma che ore sono?” “sono quasi le dieci di sera. E’ un bel po’ che sono arrivata ma eri svenuto così non ti abbiamo disturbato…devi aver perso molto sangue e credo che sei arrivato qui giusto in tempo, vero Tommy?” Il tatuatore se ne stava nella penombra della stanza ed osservava la scena in maniera del tutto distaccata, mentre sorseggiava il contenuto di una bottiglia di Jack Daniel’s che teneva per il collo: “Già…altri due minuti e sarebbe diventato un’attrazione trash per le macchine fotografiche dei turisti…” sentenziò “Tommaso ti ha medicato e ricucito per bene…lui è un maestro, credimi, avrebbe da insegnare a tanti chirurghi su come si ricuce una ferita da arma da taglio!” Tommy fece un mezzo sorriso di ringraziamento e tirò giù un’altra lunga sorsata di whisky: “beh …ho una certa esperienza in materia…” Stefania si sedette sul letto e mi accarezzò la faccia: “Raccontami cosa ti è successo” “Si, certo…ecco…all’inizio non so di preciso come sono andate le cose…ero dai tuoi amici, Taz e Giulio, poi qualcuno mi ha preso…durante la notte credo, e mi
hanno portato in una specie di ambulatorio. C’era un dottore, uno che mi aveva fatto delle analisi per il lavoro, che diceva di fare parte dei Servizi Segreti e mi chiedeva qualcosa circa un Virus e circa dei terroristi. Però non sono sicuro che sia successo realmente…cioè ero un po’ stordito e non ricordo bene. Poi c’era un altro uomo, con una lunga cicatrice sulla faccia e l’alito pestilenziale…anche lui l’avevo già visto. Era uno di quelli che voleva entrare in casa mia…credo fosse proprio lui…” “ma cosa volevano da te?” “Non lo so precisamente…mi chiedevano di Al Qaeda…ecco…dicevano che avevo molti soldi in banca e quindi ero un terrorista. Il dottore diceva pure che le mie analisi erano ok ma avevo il colesterolo alto…e…e poi non mi facevano dormire…e io avevo un gran sonno ma mi svegliavano continuamente con delle secchiate di acqua gelida…” Via via che ricordavo quei momenti la mia emozione cresceva e trovavo difficoltà a parlare, tanto che alla fine mi dovetti fermare per scoppiare in un pianto a dirotto. “Dai Robbo…cerca di calmarti, adesso è finita, ci sono qua io e ti posso aiutare. Come hai fatto a fuggire?” Stefania mi accarezzava la testa che tenevo chinata in avanti, strinta tra le mani Il calore della sua pelle placò immediatamente i miei singhiozzi e, acquistata una lucidità che rasentava la follia, esposi gli eventi con una precisione maniacale per i dettagli. Mentre raccontavo come avevo affondato la stanghetta nel collo del dottore e come mi ero imbrattato con il suo sangue il mio animo si riempiva di orgoglio ed un’irrefrenabile impulso sessuale mi faceva seccare la gola e inturgidire il pene. Non nutrivo nessun pentimento per quello che avevo fatto e mi ricordai che anche al momento dell’omicidio provai le medesime sensazioni di piacere. Spiegai dove era l’esatta ubicazione della “stanza delle torture” e, infine, raccontai della visita a casa di mia moglie, senza tralasciare il pestaggio suo e di mia suocera. Al termine del mio dettagliato resoconto su quanto mi era accaduto ci fu un periodo di pausa lungo quanto la vita di una sigaretta accesa: era possibile udire
distintamente lo sfrigolio della cartina tutte le volte che Stefania inspirava una boccata di fumo che poi spandeva per la stanza già inondata dal suo profumo, mentre il ticchettio di un orologio al quarzo in stile “anni 80” appeso alla parete determinava in maniera netta il tempo che trascorreva, facendomi assaporare ogni secondo di quella situazione nella quale mi sentivo l’attore protagonista. Infine Stefania spense meticolosamente la cicca in un posacenere ricavato da un vecchio pistone di motocicletta, sbuffò fuori l’ultima nuvola di fumo e, assumendo un atteggiamento molto professionale mi si rivolse decisa: “Senti Robbo, a quanto mi sembra di capire ti sei infilato tuo malgrado in una storia parecchio pericolosa, quindi devi cercare di uscirne fuori al più presto perché non sei….non siamo in grado di sostenerla ancora per molto. Cerchiamo di ricominciare da capo ancora una volta: da quando sono iniziati i tuoi guai? Cerca di ricordarlo, fai uno sforzo” “Un’altra volta? Guarda che lo stesso discorso che mi stai facendo tu adesso, pari pari, me lo avevano fatto Taz e Giulio quando mi trovavo alla Baia Perduta…anche loro insistettero parecchio sul principio della storia e mi pare…..si, anzi, sono certo, che alla fine riferii un particolare che sembrò chiarirgli molte cose…” “Cioè?” mi incalzò Stefania interessata “Ricordo di avergli riferito di aver avuto un incidente, uno stupido incidente automobilistico mentre tornavo a casa dal lavoro, per il quale fui trasportato al Pronto Soccorso…aspetta….cavolo ora che ci penso era lo stesso Ospedale nel quale mi hanno legato, quello dove si trova il corridoio segreto…già, adesso ricordo, il dottore mi ha spiegato che loro, cioè i Servizi Segreti raccolgono i dati delle analisi del sangue di tutti i pazienti…” Riferii queste ultimi ricordi in un tono sempre più eccitato, come se avessi avuto la sensazione che mi stessi velocemente avvicinando alla verità “ma cosa centra questo con Taz, riferiscimi cosa aveva colpito Taz nel tuo racconto, non divagare” “si, scusa…con me avevano portato in ospedale anche un ragazzo di colore con uno strano tatuaggio alla base della nuca, una specie di “S”, ma non tatuata con l’inchiostro, sembrava incisa sulla carne…”
Stefania si voltò di scatto verso Tommaso che fino a quel momento aveva seguito in silenzio la conversazione “Scarificazione” sentenziò questo “E te ne sai qualcosa di questo simbolo?” gli chiese Stefania “Credo proprio di si, devo solo controllare su internet e poi ti do la conferma, ma se la memoria non mi inganna, non promette niente di buono” terminò la frase mentre scendeva le scale per recarsi nello studio dove teneva il suo computer Approfittando della momentanea intimità Stefania mi si avvicinò e, mentre arrivava a sfiorare le mia bocca con la sua mi sussurrò “Amore, non ti preoccupare, riuscirò a toglierti dai guai e poi avremo tutto il tempo per noi” Socchiuse le labbra e mi baciò teneramente, a lungo. Mentre sentivo la sua lingua morbida che accarezzava la mia, il dolce sapore della sua saliva mi fece quasi svenire dal piacere, donandomi una sensazione di estasi paradisiaca sconosciuta, che dilatava il tempo proiettandomi in una dimensione quasi mistica, in un Nirvana dove tutto ciò che è materiale lascia il posto alla spiritualità ed al piacere inteso nel senso più ampio del termine. Il rumore dei i di Tommaso che salivano pesantemente la scala a chiocciola ci fece staccare di scatto e mi riportò brutalmente alla realtà, lasciandomi solo un vano ricordo di quello che avevo appena provato, un ricordo che andava nebulizzandosi velocemente nella mente come un bel sogno al momento del risveglio. “E’ questo?” mi chiese il tatuatore senza avere idea dell’idillio che aveva interrotto, oppure fregandosene abbondantemente, mentre mi mostrava un foglio appena stampato riportante un serpente arrotolato in modo da ricordare una “S” in caratteri gotici. Un flash back improvviso mi apparse chiarissimo nella mente: “Si si, era proprio così, lo ricordo benissimo” risposi emozionato “Sostanzialmente significa Sciafeismo, una delle quattro scuole giuridico religiose del Corano che fanno riferimento alla legge islamica, la famosa
Sharia…” “Non ci vedo niente di tremendo in uno che studia la sua religione, un mucchio di gente si tatua Cristi e Madonne e Buddha e altri simboli religiosi” affermai “Infatti di per se non è niente di tremendo visto che questi tipi di scuole sono presenti comunemente nell’Africa orientale ed in alcuni paesi asiatici come la Malesia e l’Indonesia; il problema è che il simbolo è stato utilizzato come segno di distinzione da qualcuno che tende, diciamo… ad esagerare. Quel tipo di scarificazione è tipico di una sorta di setta religiosa presente in alcune popolazioni che vivono ancora allo stato tribale nel Corno d’Africa, tra la Somalia e l’Etiopia e che mimetizzano dietro a quello della scuola coranica il loro vero simbolo, quello nel quale la “S” sta per Shabaab, ovvero il gruppo terroristico estremista formatosi in quelle regioni e accordatosi recentemente con quelli di Al Qaeda . Il loro credo ha un fondamento di origine mussulmana, ma poi è andatoben oltre, estremizzando certi concetti del Corano fino ad enfatizzare la jihad, la guerra santa mussulmana, la guerra contro gli infedeli, meglio se occidentali; in sostanza una sorta di Talebani dell’Africa nera, con lo stesso odio religioso che però manifestano in maniera, se possibile, ancora più spietata. Ma contrariamente a quello che intendono far credere, il fattore religioso è per loro solo un alibi, una giustificazione alla fame di potere e denaro da parte dei capi di questo movimento. Infatti potrei scommettere che, al contrario dei loro colleghi arabi, questi sarebbero pronti a svendere le proprie convinzioni religiose in cambio di importanti accordi economici e commerciali quali grosse forniture di armi con le quali imporre il dominio del loro Clan sulla regione. Inoltre non bisogna dimenticare che queste popolazioni sono state da noi colonizzate ai tempi del fascismo e appare evidente l’esistenza di un certo rancore mai sopito verso il nostro paese, ancora visto come una potenza capitalistica” “E tu come fai a sapere tutto questo?” chiese Stefania che aveva ascoltato tutto esterrefatta “A parte il fatto che sono un apionato di Simbologia tribale, ho fatto io stesso uno di quei “disegni” ad un ragazzo di origine somala che vive qui a Firenze. E’ stato lui a spiegarmi a grandi linee il significato, anche se c’è voluto parecchia pazienza per capirlo visto che non parlava una parola d’italiano…”
“Anche lui…anche quello che dicevo io non parlava niente…me lo ricordo, non riusciva a farsi capire nemmeno dai medici infatti io all’epoca mi chiedevo come….” “Hai un’idea di come potremo fare a rintracciarlo?” mi interruppe bruscamente Stefania rivolgendosi a Tommaso “Mah non saprei, è stato diversi mesi fa….però, aspetta….mi pare di averlo visto una sera in centro a Firenze, più precisamente in Piazza Sant’Ambrogio...si certo ero lì a farmi una birretta con gli amici. Mi pare che vendeva qualcosa, forse dei libri…si, dei libri di scrittori africani sui problemi dello sfruttamento dei loro territori da parte delle potenze occidentali…” La ragazza mi guardò con un’espressione carica di speranza, l’espressione di chi vede la luce dopo un lungo tunnel. Poi mi prese entrambe le mani stringendomele forte e si sporse verso di me quasi a sfiorare le mie labbra con le sua, tanto che riuscii ad assaporare di nuovo il suo alito caldo e profumato : ”Ci siamo, siamo sulla strada giusta. Rintracciamo questa persona e facciamoci spiegare un po’ di cose. Sono certa che riusciremo a farti scagionare, in qualche modo ci riusciremo. Con le buone o con le cattive, ci riusciremo.
Capitolo 17
Adesso avevamo una strada da seguire. Non che la cosa per me fosse fondamentale. Fondamentale era solamente essere insieme a Stefania, ma era comunque importante che esistesse la possibilità di togliermi da quel pasticcio. Avevo una sensazione positiva: ormai ero certo che la mia vita aveva finalmente preso una piega favorevole. Era una certezza statistica. Avevo mangiato troppa merda nella mia esistenza, arrivando al culmine della sfiga con quegli strani avvenimenti che mi si erano accaniti contro nell’ultimo periodo; ma avevo anche ritrovato la gioia di vivere. Uno scopo ultimo per cui valeva la pena soffrire per raggiungerlo. Ormai erano già sei giorni che mi trovavo rintanato su quel soppalco e lì mi sentivo al sicuro. La ferita si era quasi completamente rimarginata e non mi doleva quasi più, anche se ancora trovavo difficoltà a muovere il braccio. Tommaso era un tipo strano ed un poco burbero ma, tutto sommato, sembrava mi avesse preso a ben volere e mi trovavo bene con lui. Si comportava come se non esistessi: non mi chiedeva mai niente, ne mi interpellava sulle mie condizioni di salute: si limitava a controllare il taglio suturato ed a medicarlo senza proferire parola. Entrava ed usciva dalla bottega senza mai salutarmi e spesso riceveva delle sue “amiche” con le quali si intratteneva senza sentire la necessità di presentarmele o di accennare loro qualcosa circa la mia presenza. Trangugiava litri di Jack Daniel’s nei momenti più disparati della giornata come se si trattasse di succo di frutta e sembrava non dormisse mai e non fosse mai stanco. Era sempre iper attivo e lucidissimo, cosa che poteva fare supporre che fosse anche un grande consumatore di cocaina, ma era pur vero che non lo avevo mai visto farne uso. Una volta al giorno, prima di chiudere definitivamente, si faceva portare una pizza napoletana da un tipo della Pizza express e me la lasciava in cima alla scala del soppalco; tutte le sere una pizza napoletana, ed io, che odio i capperi,
non mi ero mai permesso di chiedergli di farsi portare….che ne so….una margherita! Lui aveva preso in mano la situazione dal lato strettamente operativo, mentre Stefania continuava ad essere la mente pensante. Io mi limitavo ad esprimere pareri non vincolanti e ad ammirare la velocità cerebrale e le capacità tecniche degli altri due. C’era da rintracciare questo ragazzo e, una volta trovato, dovevamo trovare il modo di fargli confessare i suoi misfatti. Stefania aveva decisamente una marcia in più. Si dimostrava sempre più capace di adattarsi a questa situazione, benché fosse del tutto nuova pure per lei, e riusciva a pianificare le mosse necessarie per tentare di giungere ad una soluzione: si era nuovamente raccomandata di non usare assolutamente il telefono né tantomeno Bancomat o Carte di Credito; tutti dispositivi che, diceva, mi avrebbero fatto individuare in pochi secondi. Nello studio del tatuatore, sempre su sua disposizione, era già stata approntata una piccola sala incisione dotata di telecamera, dove sarebbe stata registrata la deposizione del giovane e successivamente inviata agli organi di Polizia ed alla stampa, in modo che questa dovesse essere obbligatoriamente presa in considerazione. Lo stesso Tommaso aveva provveduto a contattare tramite telefono una moltitudine di amici fidati che usavano bazzicare con una certa frequenza il quartiere di Sant’Ambrogio, con la disposizione di avvertirlo immediatamente quando avessero individuato il tipo e, meglio ancora, qualora avessero rintracciato il suo domicilio. A questo punto non restava che aspettare. Stefania, dopo la sua visita, era tornata alle sue occupazioni quotidiane evitando di are dallo studio, tante volte qualcuno dei miei inseguitori avesse fiutato qualcosa e la stesse tenendo d’occhio. Anche Tommaso continuava a tatuare decine di giovani che cercavano in quei dolorosi disegni permanenti sulla pelle un segno di distinzione e, come ho già detto, non tralasciava di consumare trasgressivi rapporti sessuali negli angoli più disparati dello studio con le giovani clienti affascinate da quell’artista così fuori
dagli schemi. A volte mi dava l’idea che, una volta chiusa al pubblico la bottega, lui e la sua assistente, insieme ad altri avventori e avventrici, si dilettassero in esilaranti nottate a base di sesso & droga, dove il tatuatore era chiaramente il direttore dei giochi mentre gli altri si limitavano a fare da comparse. Ovviamente io me ne stavo tappato nella mia cameretta, anche se, specie in quelle occasioni, la curiosità di osservare quello che accadeva da basso era quasi insostenibile. Ma poi pensavo a quello che rischiavo e mi stendevo nuovamente sul letto restando nascosto e pensando ad altro, cosi che nessuno di quelli che mi stavano sicuramente cercando avesse potuto avere modo di rintracciarmi. Non mi annoiavo, anzi, mi piaceva essere il protagonista di quella storia. Coccolato dalla persona che amavo ed al centro di un’apionante avventura che mai avrei sperato di poter vivere. Con la mente fantasticavo sulla mia futura vita insieme a Stefania: certamente saremo andati a vivere sotto lo stesso tetto; pensavo alle serate in intimità trascorse abbracciati sul divano dopo un’ottima cena; alla nottata piena di amore, sesso e delicate effusioni; al risveglio mattutino carico del suo profumo. Assaporavo la quotidianità di tali eventi ed la bellezza della mia vita da quel momento in avanti. Per il momento però mi limitavo a navigare su internet. Cercavo con insistenza notizie che riguardassero le mie avventure ma inutilmente. C’erano riferimenti alla situazione politica nazionale ed estera, alle vicissitudini economiche e sociali del paese, ai tanti fatti di cronaca nera che quotidianamente creano crescenti preoccupazioni nell’opinione pubblica e ovviamente, c’era tanto sport. Tantissimo spazio dedicato al campionato di calcio e alle malefatte del campioncino del momento, e non mancava l’attesissimo gossip sui vari personaggi pubblici. Eppure non riuscivo a trovare niente che, ad esempio, riguardasse la morte del medico, né tantomeno alcun riferimento a quei fantomatici atti terroristici che io avrei compiuto per conto di Al Qaeda o chi per essi e che avrebbero messo a rischio la stessa esistenza del genere umano. Sembrava che la mia avventura si svolgesse al di fuori della realtà quotidiana, come se le due cose fossero due rette che corrono parallele e sono destinate a non incontrarsi mai. Infine arrivò la notizia. Tommaso, il pomeriggio del settimo giorno, salì sul soppalco e, invece di limitarsi a raccogliere il cartone della pizza della sera prima ed andarsene, entrò
nella stanza da me occupata e, come se mi stesse informando sul risultato parziale di una partita di calcio, mi riferì: “Hanno trovato il tipo che stai cercando. Abita nei pressi di Piazza Dalmazia, al civico 13 di via Corridoni, secondo piano, prima porta a destra una volta salite le scale. E non vive da solo: sono almeno in tre, tutti appartenenti ad una banda del Basso Shebeli, una zona periferica di Mogadiscio nel sud della Somalia; più precisamente fanno parte del clan dei Gare, attualmente capeggiato da Mohamed Said Atom, uno dei più importanti tra i cosiddetti Signori della guerra. Ufficialmente sono qui sotto lo stato di rifugiati politici, ma sembra siano sospettati di fare parte di una cellula dormiente di Al Qaeda” Ascoltai a bocca aperta le informazioni e mi venne spontanea una domanda stupida: “cavolo, ma chi ti ha detto tutte queste cose?” Tommaso mi lanciò uno sguardo pieno di disgusto, si voltò senza proferire parola e scese di sotto; dopo alcuni secondi sentii riprendere il consueto ronzio della sua macchinetta per tatuare. Non era ata un’ora che dei i leggeri e cadenzati salirono le scale. Erano musica per le mie orecchie e, istintivamente, tentai di darmi una rassettata in modo da rendermi il più presentabile possibile. Fu inutile perché un istante dopo Stefania irruppe nella stanzetta; non dette certo l’impressione di aver fatto caso ai miei pochi capelli scompigliati sulla testa ed alla mia camicia stropicciata dai troppi giorni trascorsi sdraiato in quella tana. Si sedette sul letto e mi prese le mani tra le sue mentre il profumo aveva già saturato la stanza: “Ci siamo Robbo. Adesso non possiamo sbagliare niente.” Poi avvicinando la sua bocca alla mia continuò in tono molto più sensuale: “ne va della nostra felicità, del nostro futuro” “C…C…Certo” balbettai inebetito “ non sbaglierò niente. Dimmi cosa devo fare e non ti deluderò…giuro”
Capitolo 18
“Innanzi tutto mi volevo scusare. Si, ti volevo chiedere perdono perché non ho mai trovato il coraggio di esprimerti esplicitamente i sentimenti che provo verso di te, in modo particolare in questo ultimo periodo in cui ci siamo potuti vedere raramente.Ma adesso è giunto il momento in cui il raggiungimento della consapevolezza di quello che sarà il mio destino mi ha dato il coraggio di farlo. Scusami anche per quello che ti ho fatto are in questo periodo, ma il fato pare abbia voluto che le cose andassero proprio così. Ricordo quando ti ho incontrato la prima volta e, da quel giorno, ti giuro, non so più come fare a vivere senza di te. Nonostante tutti i rocamboleschi fatti che mi sono accaduti, non ho mai trascorso un attimo della mia esistenza senza pensare a te, rivivendo continuamente tutti i momenti che abbiamo trascorso assieme, da quelli più tragici a quelli più romantici. Il tuo profumo mi si è insinuato nel cervello e nel cuore ed i tuoi baci mi fanno provare sensazioni sconosciute e fantastiche. Insieme a te mi sento il Re del mondo mentre senza di te mi rendo conto che la mia vita non ha più alcun senso. Finalmente è giunto il giorno in cui potrò dimostrarti il mio valore ed il mio immenso amore per te. Grazie di esistere. Ti amo. Per sempre tuo Roberto.” Mi svegliai che non era ancora l’alba; sveglio e carico come una molla. Avevo trascorso tutta la notte a riflettere sul modo migliore per celebrare quel momento di gloria che mi attendeva l’indomani, quando finalmente avrei potuto chiarire quel gigantesco equivoco che si era creato, mettendo la mia persona al centro di un complotto internazionale ordito da agenti segreti, spie, terroristi e sicari. Una storia decisamente troppo grande per me, ma che aveva avuto il merito di dare un senso alla mia esistenza, inutile fino a quel momento, e, principalmente, mi aveva permesso di incontrare la mia vera anima gemella, l’amore della mia vita, quello con la A maiuscola; mi aveva fatto assaporare un piacere che solo nei primi anni adolescenziali avevo percepito, ma in maniera appena superficiale, come una piccola degustazione, un aperitivo veloce. Adesso era diverso: adesso
lo stavo gustando a pieno e in futuro avrei potuto saziarmene in continuazione, avrei potuto farne indigestione. Sentii il bisogno di scrivere quel biglietto a Stefania, in modo da cristallizzare quello stato di ebrezza, quell’euforia che avrebbe certamente preannunciato una vittoria. Mi impegnai ad usare la calligrafia migliore che potevo, dopo di che piegai accuratamente in quattro il piccolo foglio strappato da un quaderno a quadretti che avevo trovato nella camera e sul quale si trovavano diversi schizzi di futuri tatuaggi formati da teschi, demoni e draghi, e lo consegnai a Tommaso con la preghiera di fare in modo che venisse recapitato a Stefania non appena avessi lasciato lo studio per recarmi all’indirizzo indicatomi. La missione non appariva facile ma, visto la professionalità dimostrata dai miei due compagni, sarebbe senz'altro andata a buon fine. Avevano studiato dettagliatamente il piano d’azione, scegliendole persone e le attrezzature che sarebbero state utili durante l’azione, calcolando i tempi necessarie ed preparandomi anche ai possibili imprevisti. Dovevo posizionarmi alla fermata dell’autobus posta vicino al portone di ingresso della piccola palazzina, al mattino di buon’ora come un qualsiasi cittadino che si sta recando al lavoro, ed attendere che qualcuno dei tre occupanti l’appartamento in questione uscisse. Non doveva essere un problema riconoscerli visto che erano tutti somali e, dagli accertamenti effettuati da Stefania grazie ad un suo amico che lavorava al servizio anagrafico del Comune, gli altri abitanti presso quel numero civico erano bianchi, o comunque avevano cognomi italiani. Una volta individuato il mio uomo mi sarei spacciato per agente di Polizia in borghese, gli avrei mostrato un tesserino falso che Tommaso mi aveva procurato, e mi sarei fatto aprire la porta dell’appartamento. A quel punto avrei chiesto a tutti i presenti i loro documenti e avrei lasciato aperta la porta in modo che Tommaso ed alcuni suoi amici potessero entrare. Se fosse sorto un qualsiasi problema loro lo avrebbero risolto sfruttando il fattore sorpresa. A quel punto, in qualunque maniera fossero andate le cose, li avremmo ammanettati e bendati tutti, ed accompagnati poi nello studio di via Faenza dove, sempre sotto la falsa identità di poliziotti, avremo proceduto all’interrogatorio. In quell’occasione Stefania avrebbe fatto la parte dell’avvocato d’Ufficio dei fermati e li avrebbe
sollecitati a rispondere alle nostre domande in maniera esaustiva. Il tutto sarebbe stato ripreso e consegnato ad un famoso legale fiorentino amico di Stefania che quindi lo avrebbe usato nelle sedi opportune per scagionarmi completamente dalle accuse che mi erano state mosse. Il problema dell’omicidio del medico torturatore sarebbe stato giustificato dalla legittima difesa o da quello che loro avrebbero ritenuto più credibile ed anzi, se qualcuno avesse mosso delle obiezioni, li avremmo minacciati di rivelare alla stampa nazionale il modo in cui vengono estorte certe confessioni da parte dei Servizi Segreti, che in teoria avrebbero il compito di garantire la sicurezza dei cittadini. Avremmo potuto fornire tutti i dettagli necessari per verificare le mie dichiarazioni. Avremmo accompagnato i giornalisti nel “corridoio nascosto” dell’ospedale di Careggi; avremmo mostrato loro lo studio medico fantasma di Piazza Dalmazia e avremmo denunciato la verità sulla sfortunata sorte di Taz e Giulio, i due ragazzi della Baia Perduta. Non c’era alcun dubbio: gli interessi in gioco da parte del governo e le ripercussioni politiche che avrebbe suscitato la vicenda erano troppo alti per non concedermi l’unico desiderio che possedevo: quello di essere lasciato in pace. Ero pronto. Mi ero vestito con un vecchio paio di jeans ed una larga felpa con il cappuccio, abiti casual che mi aveva portato Stefania qualche giorno prima, e mi sentivo abbastanza in forma: infatti durante quei giorni di attesa, appena mi sentii leggermente meglio, avevo iniziato a dedicarmi alla riabilitazione del mio fisico grazie ad esercizi specifici, appresi seguendo i consigli dei vari fisioterapisti dei più famosi personaggi sportivi che, ovviamente, avevo scaricato da internet. Prima di uscire Tommaso mi invitò a seguirlo. In un angolo dello studio, sotto uno spesso tappeto orientale, si trovava una pesante botola di ghisa del tutto simile a quelle usate per tappare l’accesso alle fognature lungo la sede stradale. Grazie ad un grosso chiavistello di ferro la sollevò scoprendo una scala a pioli infissa nella parete di pietra che si spengeva nelle profondità del sottosuolo, scendendo in verticale lungo un cunicolo completamente buio e dal quale proveniva una corrente di aria gelida, stantia e carica di umidità. La puzza di muffa vecchia di secoli e di fogna si mescolava rapidamente con l’odore di incenso della bottega creando una miscela che
sapeva di morte: era un po’ come scendere all’inferno, tant’è che mi immobilizzai davanti all’imboccatura, fino a che Tommaso non si decise a spostarmi sgarbatamente senza proferire parola e ad infilarcisi dentro per primo, non senza avermi lanciato un’occhiataccia. Un po’ imbarazzato per la titubanza dimostrata, mi calai subito dopo di lui in quel budello inquietante dove i i sui pioli di ferro arrugginito rimbombavano in maniera amplificata, fino a che non sentii sotto i miei piedi la fine della discesa. Ero arrivato su di un impiantito sconnesso e non si vedeva assolutamente niente ad eccezione dell’imboccatura del tombino dal quale provenivo, posta circa dieci metri più in alto ma che sembrava aprirsi su un altro pianeta; l’odore sgradevole adesso prendeva la gola costringendomi a reprimere conati di vomito. Improvvisamente una forte luce bianca illuminò l’ambiente in cui ero finito facendomi istintivamente serrare gli occhi. In quell’attimo ebbi la sensazione di essere tornato nella sala delle torture dell’ospedale ed il cuore mi si bloccò nel petto: si trattava invece di una stanza stretta e lunga almeno quanto la superficie dello studio soprastante. Il locale non era alto più di due metri, coperto con un soffitto dall’architettura detta “ a cielo di carrozza” creato secoli prima con mattoncini rossi sapientemente incastrati da mani esperte. Attraverso le lunghe crepe, larghe anche un paio di centimetri, gocciolavano infiltrazioni d’acqua sull’impiantito, che era stato composto con pietre di fiume tondeggianti e completamente asimmetriche tra loro: questo era percorso da maleodoranti rigagnoli di liquami probabilmente alimentati dalla rete fognaria cittadina ormai troppo vecchia per trattenerli tutti, mentre decine di piattole giganti scappavano rapide in tutte le direzioni sulle loro zampette sottili. I lunghi neon anni settanta, polverosi ed allineati tra loro, rischiaravano l’ambiente in maniera del tutto innaturale donandogli un fascino se possibile ancora più inquietante. Tommaso non dava alcun segno di sentire i ripugnanti odori che pareva avessero assalito solo me: infatti stavo ancora cercando di assuefarmi a quell’aria putrescente che la mia guida si era già inoltrata nello stretto locale. Lo seguii lungo quella stanza facendo attenzione a scansare le decine di ragnatele che penzolavano come liane fino a toccare il pavimento: le pareti laterali erano ricoperte da vecchi mobili in legno ormai decrepiti e completamente tarlati, intervallati con scaffalature di latta piene di vecchie bottiglie polverose ed altre cianfrusaglie. Più o meno a metà della stanza si
trovava un tavolo da lavoro munito di compressore e vari attrezzi meccanici che stonavano con gli altri arredi perché parevano piuttosto moderni ed avevano tutta l’aria di essere stati usati di recente. In un angolo del locale, feci appena in tempo a notare una pesante poltrona di legno dal quale penzolavano dei lacci di cuoio, prima che Tommaso risistemassecon cura iltelo che serviva per avvolgerla e che si era leggermente scostato. In quell’attimo che l’osservai prima che venisse di nuovo coperta ebbi l’impressione di aver visto delle grosse macchie scure alla base di essa: avevano tutta l’aria di essere formate da sangue umano essiccato. Quando il tatuatore giunse sul fondo della lunga stanza, ci trovammo di fronte ad un vecchio armadio bianco laccato appartenente al design dei primi anni ’70 che occupava tutta la lunghezza della parete, cioè circa quattro metri: aprì una delle tre grandi ante facendola scorrere dentro l’altra ed ebbi modo di osservare che all’interno era custodito del materiale tutt’altro che obsoleto: tra le cose che riuscii ad identificare tra le scaffalature interne vi erano alcune divise delle varie forze di polizia con tanto di cappelli recanti i diversi fregi, vari computer portatili di ultima generazione, telefoni satellitari e cellulari, una moltitudine di Sim card prepagate nuove di pacca delle varie compagnie , minuscole radioline ricetrasmittenti con auricolari, fotocellule, lampade a led e visori notturni ad infrarossi, un paio di giubbotti anti proiettili e cartelli per la segnaletica stradale. Allineati su di una piccola mensola si trovavano numerosi aporti con la copertina di diversi colori, che attirarono la mia attenzione. Istintivamente ne presi in mano un paio e notai che entrambi riportavano la foto di Tommaso. Era sempre la solita foto tessera, nella quale il tatuatore appariva sorridente e un po’ ingenuo. L’unica differenza era che in una si chiamava Gonzales Pedro Luisito ed era messicano e nell’altra invece Bregociov Dimitri ed era russo. Appena Tommaso si accorse di quello che stavo guardando mi strappò di mano i due documenti e li ripose accuratamente al loro posto. “Fatti i cazzi tuoi” mi rimproverò superficialmente. Non so perché ma ebbi la netta sensazione che anche gli altri aporti recassero tutti la foto di Tommaso che veniva identificato in altrettante persone di altrettante nazionalità. Appoggiata a terra vi era una grossa e pesante cassa metallica con apertura a combinazione, alta almeno un metro e lunga due, che praticamente occupava
tutta la parte bassa dell’armadio: sembrava una cassa da morto rettangolare ma aveva l’aria di essere molto robusta, probabilmente blindata. Tommaso la trascinò fuori faticosamente chiedendo il mio aiuto e l’appoggiò a terra. Dopo aver composto con successo la combinazione, le due serrature si aprirono contemporaneamente emettendo il classico “clak” e mostrando il contenuto di quel sarcofago futuristico. Era formato da vari ripiani e, sistemate in appositi alloggiamenti intagliati su misura negli strati di gommapiuma, vi erano, perfettamente lubrificate e pronte all’uso, una notevole quantità di armi da fuoco: notai almeno cinque pistole automatiche di varie dimensioni e probabilmente di diversi calibri, un paio di fucili di precisione con relative ottiche, alcuni fucili mitragliatori dotati di mirino ad infrarossi, un piccolo lanciagranate anticarro monouso ed alcuni timer e detonatori applicati su dei pacchetti di materiale plastico fasciato con nastro adesivo recante la dicitura “C4 - esplosivo militare”. Tommaso prelevò senza esitazione una pistola Beretta 92F, del tipo di quelle usate dalle nostre Forze dell’Ordine, estrasse il caricatore bifilare e, dopo aver verificato che fosse completamente rifornito, lo inserì nuovamente all’interno della pistola dimostrando una grande maestria nel maneggio delle armi; prese infine un secondo caricatore già carico di proiettili e mi consegnò il tutto. Mentre estraeva un’altra rivoltella, questa volta a tamburo, dall’interno della grossa cassa e se la infilava nei jeans, mi chiese se ero in grado di usare quell’”attrezzo” “Certo…credo di si…beh ho fatto il servizio militare e qualcosa ricordo ma forse…ecco…magari una rinfrescatina non guasterebbe” Con l’espressione un po’ scocciata Tommaso mi riprese l’arma di mano, inserì il colpo in canna e, dopo aver abbattuto il cane con un rapido gesto del pollice, mi restituì la pistola: “Quando lo reputi necessario, puntala verso il bersaglio e premi il grilletto.” Senza aggiungere altro tornò ad occuparsi di rimettere in ordine il suo arsenale. Io rimasi con quel pezzo di ferro tra le mani ed ebbi modo di osservare che il numero di matricola alla base della canna era completamente abraso. Quindi, ripresomi dall’emozione, la infilai orgoglioso nella cintura sul retro dei pantaloni e coprii il calcio che rimaneva fuori con la felpa, così come avevo visto fare in tanti film polizieschi. Provai subito il beneficio di quel peso ingombrante e
freddo che mi premeva sulla schiena: mi fece sentire più forte; era come se avessi acquistato ancora più consapevolezza delle mie possibilità. “Un’ultima cosa…” mi disse Tommaso mentre era intento a staccare con i denti l’ogiva da un proiettile di grosso calibro Rimasi ad osservarlo in attesa di comprendere cos’altro mi avrebbe prospettato: da una lunga pila di vecchi cd musicali ricoperti di polvere completi di custodia originale, dopo un’accurata selezione, ne scelse uno degli AC/DC ed estrasse il disco girandolo dalla parte incisa. Dopo averci versato la polvere da sparo contenuta nel bossolo, prelevò dal solito armadio un sacchetto pieno di polvere bianca cristallizzata; ne versò un po’ sopra quella già disposta sul cd e sminuzzò il tutto delicatamente con un affilato coltello a scatto che teneva in tasca. Formò quindi due strisce grigiastre e mi ò quello stupefacente vassoio con mistica lentezza. Rimasi per un attimo interdetto, combattuto tra il desiderio di assecondarlo e la volontà di rispettare le mie vecchie convinzioni puritane. Gli bastò veramente poco a convincermi: “…credimi, è una cocktail da favola, si chiama brown-brown: lo usano i soldati africani per essere più aggressivi durante le loro incursioni, e credo proprio che tu ne abbia bisogno. A meno che tu non voglia rischiare di dare una delusione a Stefania facendoti assalire da un attacco di cacarella proprio sul più bello, mandando così tutto a puttana!” ghignò come un diavolo tentatore mentre mi avvicinava le due strisce al viso “In fondo mi ha già salvato la vita una volta…” pensai mentre afferravo quel vassoio e, prima con una narice e poi con l’altra, cancellavo, inalandolo, tutto il contenuto. Il mio naso parve incendiarsi mentre un sapore amaro mi calò lungo la gola intorpidendomela e, dopo un attimo, una scarica elettrica mi attraversò il cervello e si diresse verso tutte le estremità del corpo, rendendomele insensibili. La faccia di Tommaso e i locali che mi circondavano assunsero dei contorni e dei colori così definiti da sembrare intagliati nell’atmosfera mentre tutti i rumori, anche quelli impercettibili, erano adesso assordanti. La velocità del mio pensiero ora sembrava permettermi di vedere oltre le mie paure, di leggere nel futuro, di
capire la composizione degli oggetti fino al più piccolo atomo che li formava, mentre un’energia fisica straripante mi faceva impazzire dalla voglia di agire. Adesso ero veramente invincibile.
Capitolo 19
Le otto meno un quarto. Ero carico come una molla. Una molla compressa da troppo tempo. Guardavo con insistenza il mio orologio da polso digitale e mi sembrava di sentire il rumore dell’ inesistente lancetta dei secondi scandire il tempo che ava. Il Tic-Tac era così forte che scuotevo in continuazione la testa per cercare di scacciarlo, come fosse un insetto fastidioso. Le persone che si recavano al lavoro mi sembravano alieni, con le facce assonnate ed annoiate deformate dagli sbadigli. “Un tempo ero anche io in quelle condizioni” pensai soddisfatto “ma adesso non più, adesso non subisco più la vita: la gestisco!” La temperatura risentiva ancora dell’umidità della nottata ed era piuttosto fresca, ma io avevo la fronte continuamente imperlata da microscopiche goccioline che asciugavo in continuazione con la manica del giubbotto, mentre un rivolo di sudore mi scivolava incessantemente lungo la schiena. Avevo la bocca asciutta e faticavo a deglutire, ma non ci badavo. Ero troppo concentrato ad osservare tutto quello che mi circondava ed a memorizzarlo, in modo da non tralasciare alcun dettaglio e di poter completare al meglio la mia missione. Sbattevo le palpebre ad una velocità supersonica, tornando poi a spalancare gli occhi in maniera del tutto innaturale, mentre sentivo la mascella che scattava lateralmente, prima a destra e poi a sinistra, in maniera del tutto autonoma dalla mia volontà. Improvvisamente il portone del civico 13 si spalancò cigolando sui cardini ed un ragazzo di colore, alto ed allampanato, si diresse verso la fermata del bus con il suo zaino probabilmente carico di libri da vendere. Non era la persona che cercavo ma sicuramente abitava con lui.
Comunque era giunto il momento di agire. Avevo focalizzato il mio obiettivo tanto che lo vedevo avanzare verso di me come se fosse stato illuminato da un riflettore: tutto il resto del mondo che mi circondava era in secondo piano, quasi al buio. Automaticamente, dopo aver fatto un cenno a Tommaso che si trovava sull’altro lato della strada, mi incamminai deciso verso il somalo tenendo in una mano, bene in mostra, il falso tesserino della Polizia di Stato, mentre con l’altra accarezzavo il calcio della pistola da sopra la felpa, avvertendo il suo peso rassicurante premermi dietro la schiena. “Buongiorno signore, sono della Polizia. Potrebbe gentilmente favorirmi i suoi documenti di identità?” La mia voce era metallica ed impersonale e mi sembrava di sentirla arrivare dall’alto, era come una voce “fuori campo”. Avevo serie difficoltà ad articolare le parole e, mentre parlavo, ebbi un improvviso eccesso di salivazione, tanto che notai distintamente numerosissime goccioline di saliva che mi spruzzarono dalla bocca. Mi asciugai il mento dalla saliva usando il dorso della mano, ma sentivo che continuavo a sbavare. Il ragazzo parve sorpreso e sgranò gli occhi. Dopo di che, seppure mantenendo un atteggiamento molto sospettoso, in un italiano stentato, mi fece capire di non avere i documenti con se ma di custodirli nel suo appartamento, a pochi metri da dove ci trovavamo. Mi teneva gli occhi puntati addosso, provocandomi una crescente agitazione. Ma le cose stavano prendendo la giusta direzione. Lo invitai quindi a rientrare in casa ed a mostrarmeli e questo, seppure mantenendo sempre una certa titubanza, aprì il portone e mi accompagnò sulle scale, fino al secondo piano. Prima di entrare, come pianificato, ebbi l’accortezza di lasciare il portone socchiuso e sentii chiaramente i i del mio amico Tommaso che mi stava dietro di qualche gradino. Una volta davanti alla porta di accesso all’appartamento il tipo, sempre più nervoso, mi fece cenno di aspettare sul pianerottolo mentre lui sarebbe andato prendere i documenti. Detto questo spinse la pesante porta a due ante e, come un’anguilla, sgusciò dentro sbattendomi l’uscio in faccia. Non riuscii ad impedirglielo e rimasi immobile come un ebete con il naso ad un centimetro dal legno, tanto che potevo sentire l’odore della coppale: ricordo alla perfezione il sentimento di frustrazione che provai in quell’instate. Frustrazione data da quel
comportamento maleducato e dalla completa mancanza di rispetto verso un Istituzione che in quel momento sentivo di rappresentare e che quello straniero aveva volontariamente calpestato. Per uno psichedelico autoconvincimento avevo pensato che una volta convintolo che ero un appartenente alle Forze dell’Ordine, lo avrei potuto soggiogare completamente alla mia volontà, e la delusione che provai in quell’istante provocò un crollo verticale della mia autostima. Fui distolto dai miei ragionamenti da Tommaso che nel frattempo mi aveva raggiunto “che cazzo fai qua fuori, perché non sei entrato con lui?” abbaiò “……è che…non me lo aspettavo ma…tranquillo…. mi ha detto che mi avrebbe portato i documenti fuori…” tentai di giustificarmi mentre sentivo il viso avvamparmi per l’imbarazzo “Ma sei scemo, mica sei un vero poliziotto. Se questochiama in Questura per sincerarsi della cosa? Cosa cazzo te ne frega dei suoi documenti, tu devi entrare a prendere il suo compagno, quello che ti ha messo nella merda!” mi gridò l’artista sul viso, mentre mi scuoteva dopo avermi afferrato per il bavero del giubbotto con entrambe le mani “Ma…ma…ormai…devo aspettare che apra di nuovo…che ne so…come faccio…” balbettai confuso “Muoviti stronzo muoviti, che se hanno annusato qualcosa a quest’ora se la stanno squagliando da qualche altra uscita, butta giù sto cazzo di porta, veloce!” Non feci in tempo a realizzare cosa dovevo fare che Tommaso dette un calcio con i suoi stivali di cuoio al centro della porta, tre le due ante,all’altezza della serratura. Con uno schiocco secco di legno spezzato ed in un’esplosione di schegge, la porta si spalancò all’istante. “Vai adesso vai! prendi quello stronzo che ti si vuole inculare!” mi urlò negli orecchi Sentii una vampata di rabbia sotto forma di calore che mi inondò tutto il corpo e mi precipitai all’interno. La cocaina, che si era per un momento “depositata” nel sangue, riprese a circolarmi vorticosamente arrivandomi al cervello come un
fiume in piena, devastandomelo. Il giovane che avevo fermato poco prima mi si parò davanti gesticolando e dicendo qualcosa, ma non capii. I miei occhi stavano guardando oltre. In quella che doveva essere la cucina, la porta finestra era aperta ed una sagoma scura la stava attraversando velocemente per recarsi su di un terrazzo. Per una frazione di secondo notai gli occhi del fuggiasco e mi tornarono subito alla mente quelli del ragazzo al Pronto Soccorso: era lui, non c’erano dubbi. Istintivamente estrassi la pistola e la puntai in faccia al ragazzo che mi stava sbarrando la strada, tenendola stretta con entrambe le mani. Sul suo volto prese forma la paura ed oltre agli occhi bianchi che spiccavano sulla pelle nera, spalancò pure la bocca in un urlo agghiacciante, mentre con le mani tentava di coprire la canna della mia arma. Io non avevo intenzione di usarla ma solo di spaventarlo in modo che mi fe are, ma improvvisamente un altro giovane somalo comparve alle sue spalle brandendo un lungo coltello da cucina. “Spara Robbo, falli secchi questi “smilzi” del cazzo, falli secchi” mi incitò Tommaso urlando alle mie spalle Fu un attimo: senza neppure rendermene conto contrassi tutti i muscoli del mio corpo andando a schiacciare il grilletto: una fiammata illuminò il corridoio mentre un boato mi rese momentaneamente sordo. Ricordo con esattezza il buco che si era formato sul palmo della mano protesa verso di me, attraverso il quale vidi la testa del somalo reclinarsi all’indietro di scatto, mentre tutto l’ambiente si tingeva di pulviscolo rosso. Cadde a terra con gli occhi completamente rovesciati, travolgendo anche l’altro che era venuto in suo soccorso. Mentre il secondo tentava di rialzarsi scrollandosi di dosso il compagno, quest’ultimo sembrava in preda alle convulsioni: schiumava una bava rossastra dalla bocca e del materiale cerebrale si intravedeva attraverso la parte di cranio mancante. “Finiscili questi stronzi, muoviti prima che quello scappi!” continuava ad incitarmi il tatuatore. Ma non era più necessario. Invece di provare disgusto per quello che avevo appena fatto, come quando uccisi il dottore, sentivo dentro di me un piacere crescente, un piacere animale,
primordiale, dato dall’affermazione della propria superiorità su un altro tuo simile. No. Non era solo l’eccitazione data dalla droga. Era un istinto malsano che viveva già dentro di me. Probabilmente da sempre, ed adesso era venuto prepotentemente fuori. Sparai anche sull’altro ragazzo che era ancora a terra. Uno, due, tre, quattro colpi da non più di un metro di distanza. Ogni volta che schiacciavo il grilletto un’ondata di sangue caldo mi schizzava sulla faccia, dolce e appiccicoso, ed il mio piacere cresceva. Una sorta di orgasmo di violenza. Ad ogni colpo che esplodevo cresceva la consapevolezza del mio predominio. Altri due, tre, quattro colpi sul primo che avevo colpito, da distanza sempre più ravvicinata, fino ad inginocchiarmi su quei corpi ormai esanimi. Avrei voluto togliergli la vita con le mie stesse mani, strappargli via anche l’anima. Alzai gli occhi e vidi il ragazzo che aveva tentato di fuggire che era tornato indietro, forse per tentare di soccorrere i suoi amici, o forse solo perché non c’era nessuna via di fuga. Era rimasto pietrificato, terrorizzato dallo spettacolo che aveva dovuto osservare. Scavalcai rapidamente i due corpi con le facce ormai rese irriconoscibili dai proiettili e caddi a terra, scivolando sulla viscosità di quella pozza di sangue che andava allargandosi sempre più. Per due volte tentai di rialzarmi ed altrettante volte caddi nuovamente sui corpi ormai privi di vita, impiastricciandomi in quella sostanza viscida e ancora tiepida. Il ragazzo non si mosse. Continuava a guardarmi con gli occhi sgranati, fuori dalle orbite, in un’espressione di puro terrore. Quando finalmente riuscii a rimettermi in piedi, questo scuoteva la testa e farfugliava qualcosa nella sua lingua, mentre tentava di tenermi lontano allungando le sue braccia verso di me, come avrebbe potuto fare se si fosse trovato di fronte ad un demonio. Sollevai ancora la mia Beretta 92F, glie la puntai mirando al viso, e feci fuoco, fuoco, fuoco, fuoco! Svuotai il caricatore su quel povero ragazzo e, una volta terminati i proiettili, continuavo a schiacciare quel grilletto, ancora ed ancora, fino a che il dito indice era diventato insensibile. Ero in preda ad una follia
omicida indipendente dalla mia volontà. Non riuscivo a smettere, provavo troppo piacere ad uccidere. Finalmente mi fermai. Avevo raggiunto l’apice del piacere ed ora mi preparavo a subire le conseguenze. Sentii le pulsazioni che iniziavano a rallentare e le forze che mi andavano rapidamente abbandonando, mentre il respiro affannato, quasi un rantolo, mi riempiva le orecchie. L’aria era satura dell’odore della polvere da sparo e del sangue, mentre quei pochi metri di abitazione erano completamente imbrattati di un rosso che facevano sembrare quelle stanze verniciate da qualche pittore della pop art americana seguace di Andy Warhol. Era incredibile che io, da solo, fossi stato capace di creare un tale macello. Il silenzio che regnava in quel momento era quasi assordante, visto che era il frutto del puttanaio di qualche secondo prima. “Bravo Robbo, bravissimo! Adesso scappa però, con tutto il casino che hai fatto qui tra poco si riempirà di sbirri. Sali su, fino al tetto, io do una sistemata e ti raggiungo. Poi verranno a prenderci e ce ne andremo” Tommaso ruppe il silenzio con un timbro di voce che, per la prima volta, sembrava quasi dolce, rispettoso della sacralità di quel momento. Ero inebetito e, abbandonandomi allo sconforto, mi rilassai definitivamente, tanto che la pistola mi scivolò dolcemente di mano andando ad adagiarsi ai miei piedi, delicatamente: “cazzo…, ma adesso come faremo a farlo testimoniare… a fare in modo che mi scagioni? Mi sa che ho fatto un casino…Stefania aveva detto…” Sentivo gli occhi riempirsi di lacrime e percepivo un sentimento di delusione invadermi il cuore. “Non preoccuparti, penso a tutto io. Adesso raccolgo le prove che ci servono a dimostrare la tua innocenza e ti raggiungo. Tu sali sul tetto, rapido! In cima all’ultimo pianerottolo c’è una botola aperta con la scala già sistemata. Sali sul tetto e aspettami lì!” Obbedii agli ordini come un automa e, salii i sei piani soprastanti, fino a che raggiunsi il tetto del palazzo. Appena uscii all’aperto una fresca brezza mi investì la faccia aiutandomi a riprendere coscienza sulla mia attuale situazione, facendomi tornare un briciolo di positività. Mi approssimai al bordo del tetto mosso da un’invincibile attrazione verso il vuoto. In lontananza già si sentivano
le diverse tonalità di sirene che si avvicinavano, ognuna appartenente ad un mezzo di soccorso diverso: alla Polizia, ai pompieri, alle ambulanze. Una cacofonia di suoni che ben si sarebbero adattati ad una megalopoli americana come New York o Los Angeles, ma il fatto che fossimo solo nella periferia di Firenze, faceva sembrare il tutto ancora più irreale. Intanto sotto di me il traffico si era paralizzato e si stava raggruppando la solita folla di curiosi. Si raggruppavano vicino al portone di ingresso come le schegge di metallo si avvicinano alla calamita: velocemente, da ogni direzione. Le voci, laggiù in strada, erano così lontane che non sembravano riguardarmi. Io, ormai, ero al di sopra di tutto, al di sopra di tutti: avevo raggiunto lo scopo della mia vita, ero arrivato al compimento della missione per la quale ero stato generato. Ed ero soddisfatto di me. Respirai ancora profondamente assaporando il gusto del vento: sapeva di… vittoria. La città era bellissima da lassù.
Capitolo 20
Salgo sul basso parapetto che circonda il terrazzo e respiro ancora più profondamente quell’aria frizzante del mattino, riempiendomi i polmoni fino a che una fitta dolorosa allo sterno mi annuncia che la capacità di assorbimento è finita . E’ frizzante e profumata. Talmente piacevole che mi pare quasi di sentire il mio profumo preferito: quello di Stefania. Mi sembra quasi di sentire anche l’odore del fumo della sua sigaretta. Certo che è lei. Che stupido! E’ lei che è venuta a salvarmi. E’ tutto veramente perfetto! Il cuore si riempie improvvisamente di gioia e percepisco la pelle agli angoli della bocca che si stira a causa dell’enorme sorriso che autonomamente prende forma sul mio viso. Mi volto di scatto già pregustando la mia visione preferita. A pochi centimetri da me la faccia dello “sfregiato” mi appare come quella di un drago in un incubo. Sorride soddisfatto, ed il suo volto si distorce in un ghigno demoniaco. Sento il suo indimenticabile alito pestilenziale mentre una pioggia di goccioline di saliva mi irrogano il viso. Un brivido di panico e ribrezzo mi corre lungo la schiena facendomi accapponare la pelle. “Buon giorno signor Robbo. Che fa non scappa più? Questa volta è tutto finito… tutto veramente finito. Faccia buon viaggio!” Una spinta forte come uno tsunami mi colpisce in pieno petto, ma non sarebbe stata necessaria. Bastava molto meno. Non ho più un muscolo in tensione adesso, nemmeno uno. Sono come un vecchio pupazzo di stoffa. Non oppongo alcuna resistenza. La sostanza stupefacente che mi aveva regalato tutta quell’energia adesso se l’era ripresa con gli interessi lasciandomi completamente inerte.
Sento lo stomaco che mi sale in gola ed il vuoto che si apre sotto di me, ma prima che la forza di gravità mi strattoni verso l’abisso, un’ultima visione paradisiaca mi appare: dietro la sagoma massiccia dello sfregiato, per una frazione di secondo ne scorgo un’altra: snella, sensuale, provocante come sempre. E’ appoggiata allo stelo di un’antenna televisiva, tiene le gambe leggermente accavallate e con un braccio si cinge la vita mentre con l’altro sostiene una sigaretta appena accesa. Ha la faccia stanca e forse anche un po’ scocciata, ma è bellissima. Allungo le braccia verso di lei, vorrei abbracciarla e, per un istante, mi sembra pure di riuscire a bloccarmi e di avvicinarmi a lei. Ma è solo una brevissima illusione: una forza sovrumana mi tira giù con una violenza inaudita e non posso resistere.Vedo il palazzo scorrere sempre più velocemente accanto a me, mentre la sua estremità si allontana diventando sempre più piccola, sempre più vicina al cielo. Stefania. Non so se l’ho vista davvero oppure l’ho soltanto immaginata, ma non importa, sono contento che quella sia l’ultima cosa che vedrò in questa vita!
LA NAZIONE – CRONACA NAZIONALE
Prima pagina
30 maggio 2012 FOLLIA OMICIDA
MASSACRO RAZZISTA A FIRENZE
Sembrava di essere sul set di un brutto film anni ’80, ma purtroppo non era così. Purtroppo era tutto vero. La città si era appena svegliata per iniziare una giornata come tutte le altre, ma così non è stato. Di prima mattina una sequenza di spari che sembrava non dover finire mai ha scosso l’anima del tranquillo quartiere di Rifredi. Alcuni testimoni riferiscono che pensavano a qualche ragazzetto che festeggiava la volata finale dell’anno scolastico con dei residui pirotecnici dell’ultimo capodanno, ma questa illusione è durata ben poco, visto che la zona si è subito riempita di polizia e ambulanze. Ecco la sequenza dei fatti: Tutto è accaduto nel palazzo che si trova al civico 13 di Via Corridoni, appena dopo la commercialissima Piazza Dalmazia, verso le 8.00 di mattina. Un uomo, un uomo qualunque verrebbe da dire, tale Roberto Pagliai, si è introdotto nello stabile sopra indicato armato di una pistola semiautomatica Beretta con matricola abrasa, ed è salito al secondo piano. Qui, probabilmente con qualche stratagemma, si è fatto aprire la porta dell’appartamento abitato da
alcuni ragazzi somali e, con fredda follia omicida, ha ripetutamente aperto il fuoco su tutti e tre, uccidendoli sul colpo ed infierendo poi sui loro corpi in maniera bestiale. Dopo di che, con tutta calma, è salito sul tetto del condominio e si è lanciato nel vuoto, schiantandosi a pochi centimetri dalla prima volante della Polizia che era appena giunta sul posto. Alla base del gesto, pare ci siano motivazioni di tipo raziale, dovute ad un forte squilibrio mentale dell’uomo. Infatti, dalle prime indiscrezioni filtrate dall’apparato investigativo, sembra che questa persona abbia lasciato un biglietto farneticante indirizzato alla moglie, nel quale si scusa per il suo comportamento, le conferma il suo amore per lei e le annuncia di aver trovato il coraggio di fare il o decisivo, probabilmente proprio quello della strage e del suicidio. Ma oltre al contenuto, agli investigatori appare interessate il retro del foglio sul quale è stato scritto il biglietto in questione: qui sarebbero state disegnate, con particolare cura, raffigurazioni di teschi, demoni e draghi, effigi di una cultura fantasy che riportano al mito della razza pura e quindi appartenente a certe frange di estrema destra,. Anche la moglie, intervistata da un nostro cronista, seppure scossa per gli avvenimenti, ci ha riferito che aveva perso di vista suo marito da qualche settimana fino a quando, d’improvviso, si è presentato a casa sua pochi giorni fa e, senza alcun motivo, ha massacrato di botte lei e sua madre, che si trova ancora oggi in ospedale a causa delle gravi lesioni riportate. Da allora, riferisce sempre la donna che mostra tuttora sul viso i segni delle ferite infertele dal pazzo, ha vissuto costantemente nel terrore che il marito tornasse per infierire ancora su quelle creature indifese, tanto che da quel momento ha vissuto barricata in casa e neppure si è recata a denunciare quanto accaduto. L’uomo, dipendente presso l’acquedotto di Firenze, aveva lasciato inspiegabilmente il posto di lavoro senza far sapere niente a nessuno dei suoi colleghi che, increduli, lo ricordano come una persona apparentemente normalissima. Una persona qualunque appunto. Gli investigatori accerteranno eventuali altri moventi per quanto avvenuto ma, dalle prime indiscrezioni e allo stato dei fatti, appare evidente l’assoluta componente fatalistica nella scelta delle vittime che, in nessun modo, sarebbero collegate al loro assassino. Purtroppo non è la prima volta che assistiamo impietriti a manifestazioni di violenza di questo tipo, messe in atto da persone insospettabili che, per ragioni ancora sconosciute legate alla loro psiche
evidentemente disturbata, improvvisamente e senza alcun motivo, si trasformano in mostri, capaci delle più efferate nefandezze. Per tentare di dare una spiegazione scientifica al fenomeno, potendo ricondurre tali accadimenti al disagio sociale dei nostri tempi, abbiamo sentito a questo proposito, il professore dell’Università di Psicologia di Firenze, specializzato in Criminologia, Prof…(…) Varie manifestazioni di solidarietà verso la comunità somala si sono sviluppate spontaneamente in città mentre è previsto per sabato prossimo il corteo ufficiale che avrà anche la partecipazione delle maggiori cariche istituzionali, sia comunali che nazionali.
LA NAZIONE – CRONACA NAZIONALE
30 maggio 2012
RUBRICA SALUTE E BENESSERE
Vi ricordate la famigerata influenza estiva subito ribattezzata “l’africana” che tanto ci aveva preoccupato nelle scorse settimane? Beh, pare che effettivamente sia rientrata velocemente tra i cosi detti “malanni di stagione”. Infatti, nonostante il panico che si era venuto a creare a causa dei numerosi decessi avvenuti nei primi giorni in cui il Virus si era manifestato, è bastata una corretta vaccinazione, specie nelle persone considerate più a rischio, quindi bambini e anziani, che tutto è rientrato sotto controllo. In effetti, come peraltro più volte ribadito da fonti del Ministero della Sanità, i decessi sarebbero stati causati sì dal Virus dell’”africana”, ma fondamentalmente, dal già precario stato di salute in cui le vittime vertevano. Comunque, una volta di più, questa patologia, ha dimostrato l’efficienza del nostro Sistema Sanitario nazionale che, grazie alla completa collaborazione delle maggiori case farmaceutiche e degli Istituti di Ricerca, è riuscito ad isolare il Virus a tempo di record ed a produrre e distribuire i vaccini in maniera rapida e capillare, evitando così il proliferare della malattia. Appare quindi utile ricordare ancora una volta l’importanza delle vaccinazioni preventive, specie nei soggetti considerati a rischio. Tali vaccinazioni, completamente prive di contro indicazioni, sono solitamente disponibili presso il proprio medico curante previa appuntamento oppure, qualora la situazione richieda maggiore celerità, come appunto in questo caso, presso tutti i Centri di Immunologia delle Aziende Ospedaliere nazionali.
LA NAZIONE – CRONACA DI FIRENZE
30 maggio 2012
FIRENZE SUD: FINITA L’AGONIA!
Fortunatamente è finita l’agonia dell’acquedotto di Firenze che per tutto il mese ha creato così tanti disagi alla popolazione della zona sud della città. Dopo giorni e giorni del continuo via vai dei camion cisterna che erano costretti a fare la spola tra gli altri acquedotti cittadini e le abitazioni rimaste a secco di acqua potabile, da domani riprenderà la normale erogazione dai nostri rubinetti grazie alla messa in opera effettiva del nuovo depuratore, finalmente approvato dalla Commissione di vigilanza e quindi, a tutti gli effetti, operativo. L’improvvisa accelerazione nelle pratiche burocratiche che tante polemiche avevano sollevato nei giorni scorsi, pare sia stata dettata dal nuovo direttore dell’Acquedotto che si è dato molto daffare per snellire le pratiche, esponendosi in prima persona anche di fronte alla Commissione ed alla Giunta comunale. Speriamo che questo sia di buon auspicio per il futuro della gestione non solo dell’acquedotto, ma di tutti i servizi pubblici indispensabili come quello sanitario, dei trasporti ecc. Comunque, almeno per il momento, non possiamo far altro che fargli i nostri complimenti e augurargli buon lavoro.
LA NAZIONE – CRONACA DI FIRENZE
30 maggio 2012
DECEDUTO GIOVANE MEDICO
E’ stato trovato morto, stroncato da un infarto mentre si trovava nel suo studio, il Dott. Carlo Michelozzi. A rinvenire il cadavere una pattuglia della Polizia, intervenuta sul posto a seguito di segnalazione della ex moglie che, preoccupata in quanto non rispondeva al telefono, ha allertato i soccorsi. Purtroppo, al momento del rinvenimento, non c’era più niente da fare in quanto, come stilato nel referto dal medico legale intervenuto, il decesso per arresto cardio respiratorio sarebbe avvenuto, per cause del tutto naturali, diverse ore prima. Il dottore, conosciuto personalmente dai giornalisti di questa redazione e stimato professionista nell’ambiente della Ricerca Virologica, aveva 52 anni e lascia due figli di 14 e 16 anni che vivono con la madre a Milano. Alla sua famiglia vanno le nostre più sentite condoglianze.
Capitolo 21
Il rumore di un accendino che fa ardere una sigaretta è inconfondibile. Il gas che sibila fuori dalla macchinetta, la carta che inizia a sfrigolare, l’espirazione soddisfatta del fumatore: anche senza guardare sembra di vedere il fumo della prima boccata che sale e si disperde dolcemente nell’aria. Stefania era seduta sul letto con la schiena appoggiata alla testata di legno scuro e si stringeva le ginocchia con la mano libera, rannicchiandosi quasi in posizione fetale. La stanza era piena del suo odore e i bellissimi riccioli neri le ricadevano sulle spalle mentre reclinava la testa all’indietro soffiando fuori un’altra nuvola di fumo. Aveva l’aria stanca, una stanchezza non dovuta alla notte di sesso appena consumata, ma una stanchezza più profonda, più cerebrale. “Cavolo, perché non è possibile farsi un’ora di sonno in più con te… eh bellezza?” Taz era nel pieno del torpore post orgasmo, a pancia sotto con la faccia sprofondata quasi completamente dentro un morbido cuscino foderato di seta nera. Le lenzuola erano attorcigliate ai piedi del letto, insieme ad una matassa di abiti gettati a terra alla rinfusa, mischiati assieme in un cocktail confezionato dalla fretta dell’eccitazione erotica. “Cos’è che hai da fare stamani di così urgente, quale pianeta devi conquistare? Guarda che anche se ti rilassi per un altro po’…domani arriverà lo stesso…” continuò a lamentarsi Taz mentre tentava disperatamente di riprendere il suo sogno da dove l’aveva interrotto Un’altra nuvola di fumo denso fluttuò nell’aria: “Mi dispiace un po’..” disse timida lei, quasi rispondesse ai suoi pensieri e non alla domanda del suo compagno di letto Taz scostò di scatto la faccia dal cuscino voltandosi verso di lei con aria stupita
ed anche un po’ sospettosa, come se non capisse se era solo una battuta o se quell’affermazione celasse qualche risvolto più importante e pericoloso e lui non fosse in grado di coglierlo “Scusa? Ti dispiace …cosa?” Lei gli rivolse uno sguardo decisamente risentito “si, mi dispiace per quel poveretto. Era puro. Non aveva tutta quella malizia che imperversa nel nostro mondo…insomma era una brava persona ed aveva riposto in me tutta la sua fiducia. Ed io…beh… mi sento un po’ come se l’avessi tradito. Cavolo, non riesco a togliermi dalla mente il suo sguardo mentre cadeva giù. Sembrava quasi…contento” Taz si alzò dal letto e recuperò le sue mutande dal groviglio di vestiti. Non voleva affrontare un argomento importante completamente nudo; gli dava fastidio e lo faceva sentire in condizioni di sudditanza psicologica. Poi si sedette sul letto accanto a Stefania con la voglia di approfondire quel discorso che lo interessava particolarmente “Tradire tu? Nooo, macché tradimento…assolutamente no! Cosa te lo fa pensare? Sarà mica perché hai fatto in modo che si innamorasse di te per poterlo usare per le tue manovre vero? In fondo hai solo programmato la sua morte facendolo poi are per un pazzo omicida razzista, infangando la sua immagine tanto che lo ripudierà anche sua madre: io non sono certo un esperto analista del genere umano, ma per il poco che l’ho conosciuto, posso tranquillamente affermare che sei stata in grado di far diventare un killer spietato una persona che non avrebbe fatto del male neppure ad una mosca! Complimenti davvero!” Lei spense nervosamente la sigaretta in un posacenere ricavato da una mezza lattina di birra strappata, un accessorio decisamente fuori luogo in quella stanza che sembrava studiata da un esperto di design: “certo che è un piacere cercare conforto in una persona come te! Anche tu non sei certo una verginella, sai benissimo come funziona: quel tipo è stato solo un danno collaterale, il male minore. Il nostro lavoro è quello di tutelare la sicurezza di milioni di persone e, purtroppo, a volte dobbiamo servirci di qualcuno che, suo malgrado, si sacrifica per diventare utile alla Causa.” Taz ascoltò la retorica giustificazione della ragazza sorridendo in maniera
sarcastica “senti bellezza, io collaboro solo saltuariamente con il tuo Mondo, ma qualcosina ho iniziato a capirci, quindi non ci prendiamo per il culo. La sicurezza sociale di cui parli, se proprio ci vogliamo allargare, è solo quella economica. E, per giunta, solo per pochi, per il solito gruppetto di persone che si tramanda da secoli certi privilegi. Noi partecipiamo volentieri a questo giochino, ma se qualcuno si fa male non siamo assolutamente giustificati a livello morale e dobbiamo assumerci tutte le nostre responsabilità. Ora io non so che cazzo avete combinato ma mi da l’idea che tu ti senti in colpa non tanto per quel poveraccio di per sé, ma perché, questa volta, avete fatto una porcata epocale.” Il silenzio calò pesante nella stanza finché Stefania, che aveva abbassato gli occhi andando a nascondere la faccia tra le ginocchia rannicchiandosi ancora di più, riprese con tono rassegnato: “all’inizio non credevo che fosse così. All’inizio pensavo davvero che il nostro lavoro servisse alla sicurezza nazionale, a fornire la coperta sotto la quale tutti quanti potessero ripararsi dal freddo. Adesso comincio a capire che noi forniamo anche…anche il freddo…” Taz si fece ancora più serio e riflessivo: “Per quello che mi riguarda penso che quando mi capita di lavorare per voi, mi fa lo stesso effetto che farebbe a uno che si droga: sa che è sbagliato ma lo fa, perché gli piace. Ecco, in fondo penso che a noi piaccia giocare a questo gioco, a prescindere da quello che sarà il suo scopo finale, a prescindere dal fatto che il fine ultimo sia giusto o meno. Chissenefrega! Ci piace usare le persone, galleggiare sopra le apparenze, creare i destini degli altri e incasinarci la vita. E poi ci sono i soldi. Tanti soldi. Quelli sono la cosa che ci piace di più. Anche a noi come a tutti, non solo a quelli che ci comandano…” Ci fu una pausa durante la quale Taz esternò il ragionamento che da giorni lo martellava, fu come se pensasse a voce alta, apparentemente incurante dell’importanza delle sue parole: “Per quanto riguarda il freddoinvece…beh, per esempio, vorrei sapere quanto ci hai guadagnato in questa storia. Se ci ho capito qualcosa, tu hai giocato su due tavoli e li hai sbancati tutti e due. Non credo esista una persona capace quanto te
di tenere i piedi su due staffe…” Stefania si irrigidì e impercettibilmente iniziò ad allungare la mano verso la sua borsetta alla moda che, invece di essere sparpagliata come le mutandine ed il reggiseno, era posizionata “casualmente” accanto a lei, al lato del letto, immediatamente accessibile: “cosa vuoi dire Taz, io lavoro per il Governo, io sto con i buoni..” Lui la interruppe bruscamente: “innanzi tutto lascia perdere la borsa, tanto ho scaricato la calibro 22 che ci tieni dentro…” Lei ritrasse subito la mano e lo guardò con un lampo di odio “…sai come si dice bellezza- preseguìTaz – fidarsi è bene….ma visto cos’hai fatto al tuo ultimo spasimante..” “Stronzo!” “Un po’, ma mai quanto te…comunque, stavamo dicendo, tu hai fatto il lavoro per il governo, certamente. Sei pure ata per quella che ha individuato e neutralizzato il terrorista responsabile dell’attentato batteriologico che i nostri Servizi di informazione avevano largamente preannunciato. Bravissima, un lavoro veramente eccezionale…cristallino: numero di vittime insignificante, terrorista eliminato in maniera pulita, opinione pubblica presa per il culo e lasciata nella sua ignoranza con la storia del pazzo omicida, pure reo confesso grazie alla letterina di addio alla moglie…Ma, correggimi se sbaglio, tu hai voluto favorire la ditta produttrice di quel cazzo di vaccino, e di certo non l’hai fatto per nobili fini umanitari! No cara la mia bellezza, non sono in grado di dirti fino a che punto sei invischiata con le Case Farmaceutiche e le Multinazionali che le controllano, ma secondo me ci sei dentro fino al collo... E dire che avevo sempre sentito parlare dei Servizi deviati, ma credevo fossero solo una reminiscenza del periodo della guerra fredda: beh… comincio a credere che esistano ancora e che io, con una parte di loro, ci faccio pure l’amore…” Questa volta dallo sguardo di Stefania trasparì un qualcosa di molto simile all’ammirazione: “ e cosa te lo farebbe pensare che io farei parte dei Servizi deviati?”
La domanda fugò gli ultimi dubbi di Taz che comprese di aver fatto centro, così proseguì deciso: “quando mi hai consegnato il tipo spedendomelo alla Baia Perduta, mi avevi spiegato che avrei dovuto carpirgli delle informazioni che potevano tornarci utili per scoprire eventuali complici e contemporaneamente proteggerlo da chiunque avesse voluto toglierlo di mezzo per eliminare un testimone scomodo. Beh, se a me sono occorsi cinque minuti per capire che quel poveraccio non c’entrava un cazzo con la storia dell’attentato batteriologico alle acque, a te deve essere bastata un’occhiata. No cara, tu avevi solo bisogno di tempo. Avevi bisogno che il Virus si diffondesse quanto bastava per creare un po’ di panico nella gente e così il vaccino sarebbe stato acquistato in massa dalle strutture sanitarie nazionali. Allo stesso tempo, però, volevi avere la possibilità di tenere il tuo capro espiatorio sotto controllo. Era un soggetto troppo perfetto per i tuoi scopi per fartelo scappare…o perché, magari, venisse eliminato da qualche tuo collega troppo zelante. Così, quando le cose per la Casa Farmaceutica sono andate a posto perché gli ordini del prodotto hanno cominciato a fioccare, mi hai ordinato di impacchettartelo e lo hai fatto prelevare. Dimmi se fino a qui il mio ragionamento fila?” Stefania sorrise soddisfatta, contenta che avessi avuto la perspicacia di capire la storia: “…potremmo anche esserci. Continua” “Veramente, a questo punto, mi piacerebbe sentirla da te tutta la vicenda. L’unica cosa che posso ancora constatare è che cominci ad accusare lo stress. Sono orgoglioso del fatto che credi ti sia utile venire a letto con me per fartelo are, ma non vorrei tu lo fi perché hai in mente una particina anche per me in questo tuo film… Quindi credimi, non sono un fenomeno, ma in culo da te cercherò di non farmelo mettere. Anzi facciamo un patto: te mi racconti esattamente come stanno le cose magari facendomi mangiare qualcosina anche a me, ed io eviterò di sputtanarti con il dottor Cosentino, il responsabile della Sezione dei Servizi per cui lavori, che guarda caso è pure il mio referente. Ci stai?” Stefania si lasciò sfuggire un sorrisetto che lasciava intendere tutta la sua superbia: “Sei proprio “di primo pelo”! Credi davvero che il nostro responsabile non sia al corrente di tutto quello che faccio. Credi che esistano ancora i Servizi deviati, un
tipo di Ufficio dei Servizi Segreti che lavora autonomamente? Credi che gli enormi risvolti economici di questa storia che, fai attenzione, non sono a livello nazionale ma mondiale, sfuggano al controllo dei vari Governi? Credi di non essere pure te una pedina, come me o come quel povero cristo di Roberto? Siamo tutti parte del solito meccanismo che si muove a prescindere da chi sono gli attori, ed i Produttori sono delle persone che neppure puoi arrivare ad immaginare. Ed anche questi, a modo loro, sono manovrati da altri. Non esiste un capo. Il capo è il “Sistema”: un congegno strutturato a livello planetario dove niente è lasciato al caso. Un ingranaggio perfetto che riesce ad articolarsi in completa autonomia, automaticamente. Vuoi sapere veramente come stanno le cose? Te lo dirò, ma non credere che la conoscenza ti serva a vivere meglio. La consapevolezza di quello che stai commettendo ti logora, e non esistono soldi che possano attenuare questa situazione.” “Ok, grazie del consiglio ma non preoccuparti, non li ho mai ascoltati i consigli…” Stefania lo fissò senza dare l’impressione di vederlo, con uno sguardo che era diventato impersonale, quasi inumano, e iniziò la sua spiegazione: “Tanto per inseriti al meglio nel ragionamento che ti sto per fare, voglio raccontarti un episodio avvenuto nel 1978 in Africa” “…te nel 1978 non eri neppure nata!” “non preoccuparti che certe cose sono tenute segrete ma sono ampiamente documentate e presenti nei nostri archivi. Altrimenti come pensi possono tenersi vicendevolmente per le palle senza che nessuno assuma il controllo totale. Comunque non mi interrompere più se vuoi che ti spieghi come gira questo mondo, altrimenti mi rivesto e ci vediamo la prossima volta che sento il bisogno di fare sesso con una persona lobotomizzata” Taz allargò le braccia in segno di scusa e si rassegnò a subire ivamente la lezione “…bene, andiamo avanti: ti stavo dicendo che nel 1978, in alcuni stati dell’Africa centrale, gli aitanti medici dell’Organizzazione Mondiale per la Sanità,alla faccia del Giuramento di Ippocrate, somministrarono almeno 70
milioni di dosi di vaccino contro il Vaiolo a quelle popolazioni, con la giustificazione di voler estirpare definitivamente quella malattia. Bene, anzi male: perché non fu il vaccino contro il Vaiolo ad essere inoculato, bensì il virus dell’HIV. Questo Virus venne creato nei laboratori per la guerra biologica di Fort Detrik, nel Maryland. E questa non è una supposizione ma una verità scientifica documentata documentabile, visto che è dimostrato che i geni del Virus stesso non sono assolutamente presenti né nei primati, né nel genere umano, quindi non è una cosa naturale. Tanto per essere più chiara: se si prende il materiale genetico di scimmie, scimpanzé, esseri umani e lo si riordina in qualsiasi combinazione, non si può ottenere l’Aids. Capisci?” Taz restò allibito davanti a tali dichiarazioni: “avevo letto qualcosa in merito ma pensavo fossero le solite dietrologie di fanatici teorici della cospirazione! ma… perché avrebbero fatto una cosa simile?” “Controllo Demografico della Popolazione. In sostanza, ai tempi della presidenza Carter, negli Stati Uniti, si erano accorti che la crescita demografica mondiale, specie a causa dei paesi africani, stava assumendo proporzioni inaccettabili; tutto ciò avrebbe portato,nell’immediato futuro e a livello mondiale, ad una carenza di risorse idriche, energetiche e delle materie prime strategiche. Quindi fu trovata questa soluzione. Fatte le dovute proporzioni questo mio esempio ci riporta al nostro caso: c’è sempre un danno collaterale che dobbiamo sopportare in nome del benessere sociale, quanto meno del benessere di quelli che restavano vivi” “ma è possibile che nessuno abbia mai denunciato tutto questo: medici, giornalisti, ricercatori….” La giovane biologa sorrise comprensiva come se si trovasse davanti ad un bambino e non ad un ex galeotto senza scrupoli pronto a vendersi al migliore offerente: “si certo, qualcuno ci ha provato. Io stessa conservo le copie del quotidiano “Patriot”di Nuova Dehli del 1985 e del brasiliano “l’Estado de Sao Paulo” del 1986. Ho pure la relazione medica del Prof. Jakob Segal, docente universitario sovietico all’Università di Humboldt, nella ex Germania Est, nonché quella del ricercatore americano Robert Stecker…li ho tutti i documenti che dimostrano quanto ti ho appena detto. Ma devi sapere che qualsiasi fonte, benché autorevole,
per poter risultare probante deve ricevere l’approvazione alla pubblicazione di una commissione medica internazionale eletta da chi?” “eh…eletta da chi?” Eletta da “chissachi”! Eletta da persone che sono al soldo delle solite Multinazionali che impongono ai vari Governi le linee guida sia sociali che economiche. E ovviamente questa approvazione non c’è mai stata. Fatto sta che tali denunce non hanno mai avuto alcuna Pubblicazione Ufficiale ne tantomeno alcuna risonanza sui maggiori mezzi di informazione e quindi, davanti all’opinione pubblica, sono ate sotto silenzio. Anche perché, e rivelartelo mi sembra quasi offensivo verso la tua intelligenza, tutti i mezzi di informazione sono finanziati, e quindi controllati, dai Governi stessi” La lunga pausa che entrambi si presero servì loro per riflettere su quanto quella verità sembrava comunque improponibile. Poi Taz si riscosse: “ok, prendiamo per buono tutto quello che hai detto: ma alla fine cosa è accaduto, la situazione è sfuggita di mano? Perché il Virus non è stato debellato una volta raggiunto lo scopo?” “Non lo so con certezza. C’è chi dice che, appunto, la situazione sia effettivamente sfuggita di mano in quanto il Virus ha preso a mutare continuamente rendendo inutile qualsiasi vaccinazione o antidoto preventivamente preparati. Oppure si può pensare che ancora non è stato raggiunto l’obiettivo prefissato. Altrimenti c’è anche un’altra spiegazione, che personalmente ritengo la più attendibile: la cura c’è, ma viene conservata ben nascosta, in quanto fa sempre comodo tenere sotto controllo la crescita di certi tipi di persone, come i gay e i neri africani. Ma queste sono solo opinioni personali probabilmente dovute ad una certa educazione sociale ricevuta in gioventù, ipotesi comunque prive di fondamento…” “quindi, mi viene da pensare che anche alcune epidemie virali e Virus terrificanti tipo Ebola o la Sars, siano in realtà il frutto di una programmazione scientifica, giusto?” “potrebbe essere, ma per adesso non ci riguarda, quindi non divaghiamo troppo e
restiamo ai nostri fatti: forse è meglio ripartire dall’inizio” “ok, sono tutt’orecchi!” “Come sai, stiamo oltreando un momento di forte decadenza economica, la così detta Crisi. C’è un ristagno delle risorse che non vengono investite a causa di questa Crisi e la cosa non fa altro che alimentare la Crisi stessa. Bene. Saprai anche che le grandi Multinazionali sono le maggiori aziende del mercato. Sono loro a fare muovere l’economia ed a creare in continuazione posti di lavoro, quindi benessere. Può capitare però che, in certi momenti come quello che stiamo attraversando, per rimettere in moto la situazione, ci sia bisogno, diciamo… di una spintarella a tutto il sistema. Non voglio dilungarmi troppo ma, per esempio, certamente avrai sentito dire che l’attentato dell’11 settembre alle torri gemelle di New York sembrerebbe causato dagli americani stessi per giustificare la guerra in Afghanistan e risollevare le industrie belliche che erano sull’orlo della bancarotta” “Si, se ne parla molto in certi ambienti alternativi sinistroidi…” “perfetto…solita storia: anche in questo momento alcune industrie farmaceutiche minacciavano di chiudere i battenti, congelando enormi ricchezze, chiudendo laboratori che finanziano la formazione dei giovani ricercatori e mandando a so migliaia di lavoratori, che a loro volta si sarebbero resi inadempienti verso vari Istituti di Credito, sarebbero diminuito i consumi e quindi i guadagni e quindi le tasse e così via….ci siamo? “credo di si” “bene. Per eliminare questo problema serviva una piccola scossa. Quindi entriamo in gioco noi. Sono bastate poche migliaia di mine antiuomo e qualche centinaio di lanciarazzi per convincere gli Shabaab, una associazione tribale del corno d’Africa conosciuta per la sua complicità con Al Qaeda, a realizzare un attentato, diciamo controllato, presso un acquedotto italiano. La scelta è caduta su quello di un città simbolo conosciuta nel mondo per la sua arte ed il suo turismo: Firenze appunto. La stessa casa farmaceutica ha creato il Virus da diffondere, nei loro laboratori esistenti in Africa e costruiti grazie anche ai soldi di ignari donatori convinti di sovvenzionare le varie Associazioni umanitarie... Dopo di che è stato consegnato ai terroristi che avrebbero dovuto trasportarlo e diffonderlo nel nostro paese…”
“Ok, è tutto chiaro. Ma cosa cavolo c’entra il nostro Roberto con i terroristi? “Infatti ho detto avrebbero. Vedi, io te l’ho fatta semplice, ma in realtà il trasporto e la diffusione di un Virus non è come vendere aspirapolvere porta a porta. La posta in gioco è altissima e devono venire prese delle precauzioni. Il Virus in questione, per il trasporto dall’africa all’Italia, è stato appoggiato nel sangue di un vettore...” “si certo, e questo non è crepato?” Stefania sorrise comprensiva dell’ignoranza di Taz e si accomodò meglio sul letto accendendosi un’altra sigaretta. Poi, come una maestrina paziente riprese la sua lezione: “Affinché il Virus si sviluppi diventando letale, questo come tutti gli altri, ha bisogno di un certo periodo di incubazione. Il nostro è stato inserito artificialmente in alcuni batteri presenti nella flora intestinale del vettore dopo essere stato reso tracciabile per mezzo di una molecola fluorescente che, una volta entrata in contatto con gli anticorpi dell’uomo, si lega a questi ultimi illuminandosi e rendendosi rintracciabile. Un procedimento vecchio di decenni ma sempre efficace. A quel punto è quindi possibile estrarne un campione con un semplice prelievo delle feci, mentre i restanti batteri contaminati, ma ancora “non attivi”, vengono distrutti con l’antidoto precedentemente confezionato. Sempre qualora si intenda lasciare in vita il trasportatore, ovviamente. Inoltre, bisogna ricordare che il Virus è si un organismo molto complesso e difficilmente individuabile perché oggetto di continue mutazioni a seconda della situazione in cui viene a trovarsi, ma fondamentalmente è solo un parassita che, per sopravvivere, ha necessità di aggregarsi ad una cellula. Quindi, per creare un effetto a dir poco devastante, è sufficiente inserirlo in una cultura batterica semplice che, a sua volta, viene usata anche come mezzo di trasportoall’interno dell’acqua: come un autobus. Qui, come tutti i batteri di quel tipo, che essendo organismi monocellulari si riproducono facilmente e velocemente in quell’elemento, viene sguinzagliato per tutta la rete idrica della città rendendo, a questo punto, impossibile il controllo, se non con una vaccinazione globale della popolazione ed una disinfestazione totale dell’acqua infetta e di tutto quello con il quale questa è venuta a contatto.
Naturalmente gli unici in possesso di tale Vaccino e di tale Antidoto nell’immediatezza, sono coloro che hanno creato il Virus, ovvero le stesse case farmaceutiche multinazionali”. La spiegazione stava diventando sempre più complicata e Taz dovette sforzarsi parecchio per continuare a seguire Stefania in un campo a lui completamente sconosciuto, quindi cercava insistentemente di semplificare i concetti: “Praticamente i terroristi avrebbero dovuto solamente…defecare nell’acquedotto?” “Volgarmente parlando…si. Ma solo nell’acqua che aveva già superato i primi filtri.” “ok, tu dici che non esistono Servizi deviati. E allora perché tu sapevi di questa storia del Virus mentre, per quel che so io, altri Uffici del governo cercavano i terroristi da diverso tempo? “io non sapevo proprio niente. Io ho saputo tutto quando sono arrivate nei nostri laboratori i risultati delle analisi del sanguedi Roberto, risultato infettato dal Virus h1b13. Da quel momento ho ricevuto l’incarico di stargli addosso, visto che quello spastico di Ottavio, quello con quel cavolo di cicatrice sulla faccia, non era stato neppure in grado fargli un prelievo” “un prelievo?” “si, avevano deciso di prendere un campione di sangue per ulteriori analisi. Dovevano narcotizzarlo e fargli un piccolo prelievo simulando un furto, ma quell’incapace non è stato neppure in grado di entrargli in casa senza farsi beccare…lasciamo perdere che è meglio! Infatti poi ci siamo dovuti inventare la storia delle analisi sul lavoro, che se veramente avessimo avuto a che fare con un terrorista, questo avrebbe mangiato immediatamente la foglia e sarebbe subito sparito. Solo allora, visto anche che i nuovi risultati erano completamente negativi, ho iniziato a fare domande minacciando i miei superiori di andare più a fondo: così mi è stata spiegata tutta la faccenda” “Cioè?” “Cioè, che erano già pronti i vaccini e gli antidoti, ma che era successo qualcosa che rischiava di fare precipitare la situazione fuori dal nostro controllo, visto che
quel Virus doveva essere in possesso di un africano che, però, era sparito nel nulla. Infatti il vettore non si era presentato per l’estrazione del Virus come da programma e non aveva portato a termine l’attentato che sarebbe dovuto avvenire almeno tre mesi prima. Inoltre, se Roberto, chissà come, era già stato infettato, significava che comunque il portatore era ancora in vita e gironzolava per il nostro paese o chissà dove come una bomba atomica innescata, cioè con la possibilità di creare danni in Nazioni che non erano state preventivamente preparate a quell’epidemia. Quando te e Giulio mi avete riferito circa la storia dell’incidente con il ciclista, era chiaro che il nero avesse sostituito le provette e che comunque fosse ancora in giro, fuori controllo.” “Già, quindi l’unico punto di contatto era il povero Robbo che, non sapendolo, ha reso un enorme servizio all’umanità. Ma tu credi che se non fosse avvenuto quello stupido incidente, il terrorista non avrebbe comunque portato a termine la sua missione prima o poi?” “Non lo so, ma sicuramente è stata commessa una grossa leggerezza da parte di chi ha organizzato tutto. Vedi, io credo che il terrorista fosse solo un povero cristo sacrificabile reclutato dai Signori della Guerra del Corno d’Africa. Era chiaro che una volta commesso l’attentato l’avremmo scovato ed eliminato, ma questo tutto scemo non doveva essere: deve averci ripensato, oppure si è impaurito, o forse, addirittura non era proprio capace di fare quello che doveva, così deve aver pensato di nascondersi a Firenze da alcuni suoi amici connazionali e rifarsi una vita, non valutando che il Virus che gli era stato inoculato, lo avrebbe comunque ucciso prossimamente. Poi, una volta accortosi che all’ospedale gli prelevavano il sangue, ha avuto paura di essere individuato e magari rispedito dai suoi capi, quindi ha pensato bene di sostituire le provette per continuare a vivere in clandestinità. In ogni caso non avremmo potuto lasciarlo in vita, sapeva troppe cose. Così ho assunto Tommaso, un tipo che saltuariamente collabora con me e con altri Enti governativi quando è necessario un servizio di pulizia di tipo chirurgico, e abbiamo organizzato il lavoro. Mi spiace per gli altri ragazzi africani che, poveracci, non c’entravano assolutamente niente, ma non è stato possibile non coinvolgerli” “altri danni collaterali?”
“precisamente” Taz rimase assorto nella sua personale valutazione di tutti quegli accadimenti, facendo il conto delle vittime di quella storia: “e del dottore del laboratorio. Quel danno collaterale so che è toccato a uno di voi. Ma non mi sei sembrata dispiaciuta per lui, non è che sei stata te a fare in modo che cree?” “guarda che non sono la causa di tutti i casini del mondo. Comunque è vero, il “dottore” mi stava sulle palle con i suoi modi da professorino dell’alta società, sempre rileccato e pronto a squadrarti dall’alto in basso. Penso che fosse l’unico, insieme al celebroleso di Ottavio, a continuare credere alla versione di Roberto il terrorista. Quando sono stata al laboratorio e ho visto quel poveraccio legato alla sedia degli interrogatori più morto che vivo…beh ti confesso che mi ha fatto un po’ pena. Quel genio, visto che le nuove analisi di Robbo risultavano ovviamente completamente negative, credeva che fosse riuscito a farsi ripulire il sangue dai suoi complici, tanto che lo ha torturato fino…a farsi ammazzare. Siccome Robbo lavorava per l’Acquedotto, lui era certo che qualcosa c’entrasse e che il suo coinvolgimento non fosse solamente frutto della casualità.” Ci rifletté qualche istante e terminò: “No, non mi mancherà, ma non ho fatto in modo che morisse” Ci fu un’altra pausa di riflessione che Taz interruppe: “Beh, effettivamente è una bella coincidenza, e mi hanno sempre detto che nel nostro lavoro è proibito credere alle coincidenze… …Ma…cavolo, aspetta un attimo…sono proprio uno scemo, mi sfuggiva una cosa fondamentale: a quanto mi risulta la contaminazione delle acque è avvenuta ugualmente: quindi chi è stato? ” I pensieri di Taz si accavallarono velocemente nell’ aria tanto che sembrava possibile vederli. Infine gli parve gli si accendesse una luce nella testa e raggiunse la sua soluzione. Scattò in avanti e fissò Stefania con un’aria da Giudice dell’inquisizione : ”Sei stata tu! Ma quali africani terroristi del cazzo. Era già tutto preparato: Roberto che lavorava all’acquedotto, tu che lavoravi già all’acquedotto da prima della storia dell’incidente ed avevi accesso ai sistemi di filtraggio, le analisi nello studio medico, il ragazzo africano tatuato che vendeva i libri e che il tuo
compare…Tommaso…aveva già individuato da tempo in Piazza Sant’Ambrogio…che stronzi, era tutto già organizzato. Molto semplicemente tu avresti diffuso il Virus accedendo direttamente all’acqua già filtrata ed analizzata, e la colpa ricadeva sullo scemo del signor Roberto. E se qualche dubbio fosse nato sulle capacità terroristiche di un uomo qualunque come il signor Roberto, il signor Roberto era diventato un pazzo omicida fuori controllo capacissimo quindi di fare un attentato del genere. E se ancora fosse emerso qualcosa circa la palese innocenza del tipo, ti eri già preparata la storia di scorta tirando in ballo i terroristi incapaci del Corno d’Africa…Quel povero Cristo non c’entrava una beata mazza, non aveva sostituito nessuna provetta, vi siete basati sulle mie informazioni che avevo raccolto da quello scemo circa il suo stupido incidente per crearvi la vostra sceneggiatura…” Ormai Taz era un fiume in piena. La sua mente aveva preso a girare ad una velocità sorprendente pure per lui e le ipotesi continuavano a prendere forma nella sua testa: “…Oppure no…che scemo…ma cosa cavolo sto dicendo, è ancora più semplice, elementare e geniale: nessun Virus, non esiste nessun Virus, non è mai esistito, non era necessario! sei stata tu! Ti sei solamente limitata a modificare i dati delle analisi delle acque e chissà, certamente con l’aiuto di qualche medico compiacente dell’ospedale fiorentino di Careggi che ha iniziato a rilasciare dichiarazioni allarmistiche, hai fatto credere a tutti che ci fosse un’epidemia in corso…Infatti la maggioranza dei casi si sarebbero sviluppati solo a Firenze! Un gran polverone per coprire una cosa assolutamente inesistente!… Era tutto un bluff, solo un bluff…” Stefania lo osservava in silenzio, sorridente e per niente preoccupata dalle pesanti accuse che le venivano mosse Infine Taz, che appariva stremato da tutti quei ragionamenti, le formulò la prima domanda che avrebbe voluto farle: “…Ma tu chi sei in realtà? Per chi lavori?” Come se fosse suonata una sveglia, Stefania si alzo delicatamente dal letto iniziando a rivestirsi. I dorsali ben definiti e i glutei rotondi e muscolosi, frutto di intensi allenamenti in palestra, risaltavano mentre si contraevano rapidi a
seconda dei movimenti di lei, illuminati dalle prime luci del mattino che filtravano dalle persiane. Quando ebbe terminato, e dopo essersi data una rapida rassettata ai riccioli in modo che riprendessero volume, si chinò su di lui, che era rimasto immobile seduto sul letto, affascinato da quello spettacolo e impaurito dalle sue stesse conclusioni, e gli schioccò un innocente bacio sulla fronte: “ Ascoltami Taz: hai preteso una spiegazione e io te l’ho data, ma se ti fa piacere, inventati anche te la tua verità! Per quanto riguarda me, beh …diciamo che sono una ragazza…con varie sfumature. Grazie della nottata, ci sentiamo presto” Si accese ancora una sigaretta e, mentre apriva la porta per andarsene sentenziò: “…e comunque forse hai ragione te…a prescindere da tutto, fregatene e cerca di godertela, tanto domani ….arriverà lo stesso…” Si chiuse la porta alle spalle allontanandosi leggera, lasciando su Taz tutto il peso delle sue angosce.
LA NAZIONE – CRONACA DI FIRENZE
20 giugno 2012
CASTELLO TORNA A VIVERE
Adesso è ufficiale. Se ne parlava da giorni ma la conferma si è avuta solo oggi. Il Sindaco e la sua Giunta comunale hanno annunciato solennemente che nell’ex area Elettrotecnica, ormai da anni in stato di abbandono, sorgerà un nuovo Polo produttivo. Vi nasceranno gli stabilimenti della nuova società farmaceutica Aulente, di proprietà della famosa Multinazionale. Finalmente, viene da aggiungere. Negli ultimi tempi l’intera area era divenuta un ricettacolo per balordi di ogni genere che, in special modo nelle ore notturne, creavano grossi disagi ai residenti del quartiere, oltre a procurare un allerta sociale e sanitaria per le precarie condizioni igieniche del luogo. Ovviamente, con la riqualificazione dell’area, si creeranno nuovi posti di lavoro che, come specificato dal Consiglio di Amministrazione, saranno in buona percentuale riservati ai neo laureati e a quelli che lo sono da anni ma ancora non hanno trovato un impiego consono alle loro qualità. I cantieri, per i quali verranno impiegate le tre ditte locali vincitrici della gara d’appalto che si terrà nei prossimi giorni, prenderanno il via già dal prossimo settembre e, se i tempi saranno rispettati come garantisce il Sindaco, i laboratori potranno entrare in funzione già dall’estate successiva. Oltre al reparto di produzione prettamente scientifico ci sarà poi anche il polo commerciale e quello amministrativo, per un totale di oltre 100 posti di lavoro qualificato. Per la cronaca va menzionato che un gruppo di attivisti autonomi si è raggruppato davanti al consiglio Comunale mentre questo stava dando l’annuncio, inscenando una manifestazione di protesta contro la Multinazionale in questione rea, a loro dire, di godere di benefici governativi che invece sono
negati alle piccole imprese. Comunque tutto è già deciso e, finalmente, ci attende un domani ricco di speranze.
Ringraziamenti
RINGRAZIO:
Annamaria, Valentina, Lorenzo: le mie fonti per le consulenze biologiche, mediche ed informatiche;
i miei amici, instancabili tifosi della mia avventura letteraria;
Hudini....per la compagnia.