© Edizioni SENSOINVERSO Collana OroArgento www.edizionisensoinverso.it
[email protected] Via Vulcano, 31 – 48124 – Ravenna (RA) ISBN 9788867930944 1° edizione – Febbraio 2014 © 2014 - Copyright | Tutti i diritti riservati Sensoinverso - P.I. 02360700393 Creazione e impaginazione eBook | http://creoebook.blogspot.com
MARIO GRASSO
LA LUCERTOLA A DUE CODE
Questa è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi e avvenimenti sono fittizi o usati in modo fittizio. Tutti gli episodi, le vicende, i dialoghi di questo libro, sono partoriti dall’immaginazione dell’autore e non vanno riferiti a situazioni reali se non per pura coincidenza.
1
Quella rivista elegante, in carta patinata, l’aveva trovata nella tasca portaoggetti dello schienale della poltroncina davanti alla sua. Più che dal suo accattivante aspetto, era stata colpita dai contenuti: valori universali che spingono in avanti la società invece che voleri fuggevoli sui quali spesso si adagia la pubblicità. Comprendeva anche un interessante articolo sulla filantropia intesa come qualcosa di più complesso della semplice beneficenza. C’era molto Cicerone in quello scritto, pensò Silvana appoggiando il suo giudizio sulle reminiscenze degli studi giovanili di filosofia. Si era rivelata una sorpresa quella rivista, una piacevole sorpresa, perché sugli aerei era più facile trovare magazine di gossip e shopping che una pubblicazione di quella levatura. Forse non era il risultato di una scelta della compagnia aerea, ma solo la dimenticanza del viaggiatore che l’aveva preceduta, pensò. La sfogliò con grande soddisfazione, ritenendola coerente con i valori dell’educazione che aveva ricevuto, tesa a inculcare il principio che i propri diritti non potessero essere difesi limitando quelli degli altri. In questi valori - convivenza civile, senso dello Stato, rifiuto della violenza, giustizia, rispetto per gli altri, altruismo, amicizia, lavoro, famiglia - aveva sempre creduto e provava un intimo compiacimento per non essersene mai allontanata. Soddisfazione e stima di sé. Le erano tornati prepotentemente alla mente poche ore prima quando, dirigendosi in taxi verso l’aeroporto, aveva letto una scritta piuttosto inquietante che imbrattava il muro di cinta di una villa: “La mafia è cuore”. L’aveva allarmata non solo il senso della scritta ma anche il fatto che fosse vergata su un muro di Brindisi e non di Palermo. Pensava ancora a tutto questo, Silvana, comodamente seduta su uno dei sedili dell’elicottero che l’aveva prelevata all’aeroporto di Nizza per trasportarla a Montecarlo con un volo di una decina di minuti. Sotto di lei uno dei paesaggi più belli della Costa Azzurra. All’albergo trovò un messaggio di benvenuto della MGR. La informavano che poteva disporre dell’auto a suo piacimento e che all’autista erano già state date disposizioni per accompagnarla alla sede della società non appena fosse stata
pronta. L’albergo era accogliente e grazioso, all’altezza della fama di cui godeva la catena che ne deteneva la proprietà, senza lo sfarzo pacchiano che spesso offusca l’immagine degli alberghi esclusivi. Dalla finestra della sua camera poteva godere della vista di uno scorcio suggestivo del famoso porto, ricco di colori e forse di sogni, ma non certo di poesia. Le eleganti imbarcazioni ormeggiate, sventolanti bandiere non proprio familiari, la invitavano a pensare più a transazioni finanziarie che a situazioni romantiche. Circostanze, queste ultime, che le erano diventate estranee da quando Stefano con c’era più. Il pensiero corse subito, per una spontanea associazione, a Sabino e Letizia, i suoi bambini, dei quali avvertì una struggente nostalgia, sebbene li avesse lasciati soltanto da poche ore. Sarebbe tornata a casa subito dopo l’incontro di lavoro, rinunciando al paio di giorni di svago che i suoceri le avevano consigliato, si disse. Due brave persone, i suoceri. Sempre disponibili, cortesi, affettuosi con i bambini, non le avevano mai fatto mancare il loro sostegno e una discreta presenza da quando il loro figlio Stefano era morto. I loro interessi si erano concentrati su di lei e i ragazzi perché loro tre rappresentavano il naturale collegamento con il figlio, il modo indiretto per averlo ancora vicino.
Si concesse una rapida doccia e indossò un abito sportivo, di sobria eleganza, adatto alla circostanza che l’attendeva. Alla reception chiese di dire all’autista che era pronta. Dopo una ventina di minuti giunse a destinazione. La sede della MGR era in una splendida villa settecentesca adagiata sulla cima di una collinetta col prato rasato di recente, macchiato qua e là da piccoli variopinti cespugli. Si trovava nel quartiere Les Révoires nei pressi del giardino esotico, uno dei punti più alti del Principato, al cui interno vi erano grotte che scendevano fin sotto il livello del mare. Provò un po’ di soggezione nel varcare la soglia di quella costruzione massiccia, quadrata, con vetrate linde e statue di marmo che guardavano immobili chiunque entrasse. Fu accolta da un signore anziano, un po’ rotondetto, vestito in modo elegante, con una ricercatezza d’altri tempi, ben rasato, senza un capello fuori
posto. “Buongiorno, signora Silvani” le disse, porgendole la mano. “Sono Nicola Ladisa e le do il benvenuto alla MGR. Le faccio strada” aggiunse avviandosi lentamente lungo un corridoio che pareva una pinacoteca per le pareti cariche di quadri antichi, le cui tele erano impreziosite da cornici dorate, finemente intarsiate. La guidò in un ampio ufficio arredato con gusto e mano competente, con mobili d’epoca, arazzi e tappeti pregiati. Due signori attempati erano mollemente adagiati su poltrone di pelle dall’aria molto comoda. Uno di loro fumava un grosso sigaro che diffondeva nella stanza un odore penetrante ma non sgradevole. “Le presento Frank Nicosia e Ivan Solonik, responsabili dell’area americana e asiatica. Noi tre, assieme a Pierre Lamartine, responsabile dell’area europea, costituiamo il comitato di presidenza della MGR.” “La disturba il fumo?” chiese l’uomo mingherlino nascosto dietro il sigaro, il cui nome indicava una chiara origine russa. “Trovo insopportabile l’odore delle sigarette, la fragranza del suo sigaro è invece più delicata. Continui pure, se ci tiene.” “Ho letto che il fumo fa male alla pelle e non vorrei assumermi la responsabilità di rappresentare una minaccia per la sua straordinaria bellezza” rispose con tono carezzevole il signor Solonik. Aveva uno sguardo penetrante, di quelli che mettono soggezione e che, a volte, offendono. Forse la sua era soltanto suggestione, ma si sentì spogliare dai suoi occhi pieni di lussuria. Non erano certo state parole buttate là, quelle dell’omino. Lei era proprio bella. Piuttosto giovane, meno di quarant’anni, di media altezza, un corpo ben proporzionato e armonico. Elegante e sportiva allo stesso tempo, profumata senza esagerazioni, portamento fine. Un viso che qualsiasi pittore avrebbe voluto dipingere, curato con sobria cosmesi, su cui troneggiava una chioma castana, quasi nera, raccolta in uno chignon che lasciava scoperta la linea esile del collo. Due occhi penetranti e nerissimi, nei quali c’era un velo di delicata malinconia, e un sorriso magnetico reso più prezioso da denti perfetti e bianchissimi. Bella in assoluto.
Silvana provò un grande imbarazzo per quella inaspettata galanteria, ma riuscì a non perdere il controllo della situazione. “Grazie” disse a bassa voce, ammiccando con un sorriso civettuolo. “Trovo che il suo nome, Silvana Silvani, non sia meno avvenente della sua figura” sentenziò il signor Ladisa. Sorrise e inevitabilmente il pensiero corse al tempo dedicato, nell’infanzia e nell’adolescenza, al suo nome e cognome. Ricordò che faceva un vero e proprio lavoro di ricerca approfondito e costante, con l’obiettivo di farlo diventare un vestito da calzare a pennello. Si interrogava sul nome, ripetendolo all’infinito, masticandone i suoni che lo componevano, dividendo e scandendo le sillabe, pronunciando prima il nome, poi il cognome; provandone poi l’effetto sonoro invertendo le due parole. Ne ascoltava il suono, le evocazioni, il ritmo, le suggestioni. Analizzava singolarmente tutte le lettere alfabetiche che lo componevano. Sperimentava se l’abbinamento tra nome e cognome “suonava bene”. Si spingeva anche a cercare ogni significato nascosto contenuto nel suo nome, anagrammandolo. “Più che avvenente, lo trovo singolare” rispose la donna. “Ma non ho nessun merito, perché non l’ho scelto io” aggiunse. I tre uomini sorrisero. Sapeva benissimo che veniva spontaneo attribuire la peculiarità del suo nome all’intento di coniugare al cognome, Silvani, un nome di armonica corrispondenza, ma non aveva voglia di precisare che il suo nome rispondeva a una scelta più banale, essendo la trasposizione al femminile di quello di suo padre. “Le propongo di bere qualcosa in giardino, così possiamo parlare delle nostre cose in un ambiente meno austero di questo” suggerì il signor Ladisa disegnando un ampio arco con la mano. Silvana si dichiarò d’accordo. Il signor Solonik spense il mozzicone di sigaro in un ampio posacenere e si alzò dalla poltrona, imitato dal signor Nicosia. L’ampio giardino che circondava la casa era ingentilito dalla carezzevole dolcezza del prato. Un venticello caldo costringeva macchie colorate di fiori eleganti e sinuosi a un armonico ondulare. Ma lo faceva con garbo e rispetto. L’odore dei frutti di stagione si fondeva con quello della terra bagnata generando
un’essenza inebriante. Il canto delle rondini che saettavano fra gli alberi, incontaminato da qualsiasi tossico rumore urbano, faceva da colonna sonora in quell’angolo di paradiso che invitava alla serenità. All’ombra di un pergolato trovarono un tavolo ricco di bevande, stuzzichini, frutta di stagione e una bottiglia di spumante sprofondata in un recipiente pieno di ghiaccio. “Preferisco il vino italiano” commentò il signor Ladisa con un tono di voce che le parve di complicità. Ladisa parlò a lungo della MGR, della struttura societaria, della sua articolazione internazionale, delle alleanze tecnologiche con le principali società produttrici di software, della missione finanziaria dell’azienda, dei lusinghieri risultati realizzati negli ultimi dieci anni, delle prospettive di crescita attese. Sciorinò dati, cifre e quote di mercato con grande trasporto e col malcelato intento di stupire la sua avvenente interlocutrice. Spiegò che il punto di forza della società erano le applicazioni informatiche sviluppate per il settore bancario, nell’ambito del quale erano ormai un indiscusso riferimento a livello mondiale. Silvana cercò di camuffare il fastidio che le procurava il tono enfatico, quasi esaltato, di quella presentazione, mostrando una finta partecipazione attraverso domande di approfondimento che nulla potevano aggiungere alla conoscenza che già aveva della MGR, essendo lei un’addetta ai lavori, responsabile di una società piccola ma molto accreditata, che si era imposta all’attenzione per un paio di applicazioni sofisticate che avevano riscosso un grande successo. Ladisa stappò la bottiglia di millesimato e riempì quattro flute, porgendone uno alla signora e invitando i due uomini a servirsi. “E ora vorrei brindare alla nostra associazione di affari” disse, sollevando il suo bicchiere e puntando gli occhi su quelli di lei. “A cosa?” “Al nostro accordo.” “Ma non abbiamo ancora nessun accordo!” obiettò la donna. “Sono certo che troveremo un’intesa. Le faremo una proposta che non potrà
rifiutare.” “Parliamone” lo sollecitò Silvana, incuriosita dalla sicurezza che aveva ravvisato nelle sue parole. “Signora Silvani, lei sa bene che siamo interessati al suo prodotto RhSoft.” Si trattava di un complicatissimo sistema di simulazione che consentiva di accumulare serie storiche di dati di specifiche operazioni. La peculiarità rispetto ad altri sistemi similari era che, sulla base dei dati disponibili, poteva replicare le operazioni in modo autonomo, senza l’intervento umano. Il suo utilizzo era particolarmente utile nel caso di operazioni ripetitive al maturare di specifiche condizioni. “Di questo prodotto non posso cedervi l’esclusiva” rammentò la donna, avendo già trattato altre volte l’argomento con vari esponenti della MGR. “Questa opzione per noi non è più strategica. Del suo prodotto, che lei può continuare a vendere liberamente, noi chiediamo la licenza d’uso e il diritto di apportarvi delle modifiche con la sua diretta collaborazione, che è la cosa che più ci preme avere.” Ladisa spiegò che, a fronte di una consulenza a tempo pieno, erano disposti a riconoscerle una partecipazione nella loro consociata italiana del valore di cinque milioni di euro e una retribuzione annua di un milione di euro. La durata del contratto, non inferiore ai due anni, poteva essere decisa liberamente da lei. Silvana stentò a crederci. Si trattava di cifre considerevoli, anche per una persona come lei che non soffriva di preoccupazioni finanziarie. Alla morte di Stefano, avvenuta due anni prima, aveva ereditato, oltre all’azienda, anche un cospicuo portafoglio in azioni e titoli di Stato, tre alloggi e una copertura assicurativa di tutto rispetto. Tutto ciò garantiva una vita più che dignitosa a lei e ai due bambini. E, inoltre, l’azienda andava a gonfie vele. Eppure quelle cifre, per un impegno di due anni, rappresentavano un sigillo di sicurezza, soprattutto per il futuro dei figli. Superato l’iniziale smarrimento, Silvana riprese il pieno controllo della situazione. “Perché vi interessa la mia consulenza e non quella di qualcuno dei miei
collaboratori, che conoscono bene RhSoft e che, fra l’altro, vi costerebbero anche meno?” “Perché lei ha progettato e sviluppato il prodotto, anche se l’idea iniziale è stata di suo marito.” “È vero. Ma come fate a saperlo?” “Sappiamo… sappiamo.” “Capisco” disse, anche se in effetti non capiva come potessero sapere. “Ma…” “Ma?” “Voi non avete una consociata italiana” obiettò lei. “La decisione è stata presa da tempo. La squadra che ne costituirà l’ossatura è già operativa a Parigi. E presto avremo anche una sede, l’ubicazione dipende dalla sua risposta.” “In che senso?” “Se accetterà di collaborare con noi, come ci auguriamo… e aspettiamo, la sede sarà a Fasano per consentirle di non allontanarsi dalla sua casa e dai suoi figli, cosa per lei molto importante.” “Sapete anche questo…” “Già” ammise. “Naturalmente la sede sarà una clausola del contratto che le proporremo.” Silvana era sbalordita. Una proposta così allettante, perché? Chiese del tempo per poter riflettere e il tempo le fu concesso. Le proposero una variazione del programma stabilito per poter incontrare l’indomani, a Parigi, Pierre Lamartine, quarto componente del comitato di presidenza e responsabile dell’area europea, e il signor Saverio Locascio che, in quanto responsabile della nascente consociata italiana, le avrebbe sottoposto una prima bozza del contratto. “Con un pezzo di carta in mano le sarà più facile riflettere” osservò Ladisa. “Inoltre il signor Locascio ha il mandato di discutere e apportare eventuali
modifiche che lei riterrà opportuno richiedere.” Silvana acconsentì, brindò ancora una volta e si diresse verso l’auto, scortata dai tre uomini contenti come bambini che hanno trovato sotto l’albero il regalo tanto atteso. “Che donna stupenda, che classe… e che gambe. Non so cosa darei…” sbottò Solonik non appena l’auto si fu allontanata. “Lascia perdere, Ivan, pensa alla tua prostata fuori uso” consigliò Ladisa sarcastico. “Piuttosto, pensate che accetterà?” chiese ai suoi due compagni. “Secondo me, senza dubbio. Ho visto i suoi occhi contare gli euro, quando le hai sparato quelle cifre” disse Nicosia. “Lo penso anch’io” si associò Solonik. “Concordo con voi” disse Ladisa. “Così, oltre al prodotto più adatto alle nostre esigenze, avremo la disponibilità assoluta della persona che lo conosce nei minimi particolari e che è in grado di modificarlo senza problemi. E poi, non dimentichiamo che non sarà una semplice dipendente. Se qualcosa andasse storto, la MGR non avrebbe nulla da temere: in quanto azionista, si assumerà in prima persona la responsabilità delle sue azioni.” I due uomini assentirono ripetutamente, con un sorriso diabolico disegnato agli angoli della bocca. “Ma se accettasse e al momento opportuno si tirasse indietro?” obiettò Nicosia. “La convinceranno i suoi figli” sentenziò gelido Ladisa.
2
Il trasferimento verso Parigi fu lungo ma non noioso. Silvana si ritrovò a riflettere sulla proposta formulata dai boss della MGR, inattesa e per molti versi incredibile, e sull’altrettanto inattesa ricchezza che stava per pioverle in testa. Non aveva dubbi che l’avrebbe riservata ai suoi figli per spianare ulteriormente la loro strada, ma stimò che fosse opportuno non metterli al corrente di quella nuova disponibilità per evitare di turbare il loro sviluppo psicologico. Ai suoi figli non aveva mai fatto mancare nulla, avevano goduto di una discreta agiatezza anche quando era venuto a mancare il papà, ma per nulla al mondo voleva che maturassero la convinzione di aver raggiunto il porto dell’agiatezza garantita a vita. Il loro viaggio era ancora lungo e non dovevano abbandonare la consapevolezza che il benessere andava più conquistato attivamente che difeso ivamente. Un valore, quello dell’impegno, che aveva cercato di trasmettere loro insieme agli altri che avevano fin lì guidato la sua esistenza. Sì, avrebbe parlato loro della nuova opportunità professionale, ma non dei relativi risvolti economici. Il problema era piuttosto capire cosa fare per proteggere nel tempo la nuova e cospicua disponibilità economica. Ne avrebbe parlato col commercialista, consulente di fiducia fin da quando lei e Stefano avevano avviato l’attività, i cui consigli si erano sempre rivelati utili e talvolta determinanti. Avrebbe utilizzato la sua competenza per capire come tutelare la sua partecipazione azionaria nella consociata italiana della MGR nel caso di un’improvvisa rottura della collaborazione. Un altro problema da affrontare era come difendere in termini legittimi dall’esosità fiscale italiana le sue competenze, qualora avesse optato di farle accreditare all’estero. Anche questi problemi sarebbero stati più chiari una volta disponibile una bozza contrattuale. L’avrebbe esaminata col suo commercialista prima di firmarla.
La sede della MGR era in Place Vendome in un palazzo d’epoca che esprimeva al contempo storia e benessere. Alla reception le indicarono l’ascensore da prendere, che fermava soltanto all’ultimo piano dello stabile, quello direzionale. Ad attenderla, sul pianerottolo, trovò un uomo corpulento sulla cinquantina, che
ispirava un’immediata simpatia. “Buongiorno, signora Silvani. Sono Saverio Locascio” le disse. “Piacere di incontrarla, signor Locascio” rispose lei, contraccambiando sorriso e stretta di mano. L’uomo le fece strada verso l’ufficio di Lamartine, un ambiente piuttosto particolare. La scrivania era confinata in un angolo della parete di destra, su cui era dipinta con colori cupi una foresta inquietante che ricordava la selva oscura dantesca, simbolo dell’ignoranza umana. La libreria occupava un’intera parete e traboccava di libri, trofei e targhe. Sulla parete del vano porta troneggiava il dipinto di un’Europa stilizzata nel quale erano evidenziate tutte le sedi della MGR. Qua e là quadri dipinti dalla stessa mano, con uno stile infantile, descrivevano scene di inaudita violenza quotidiana. Nel locale vi erano molte comode poltrone orientate verso l’ampia vetrata della finestra e non verso la scrivania. Le sedie posizionate in quel modo sembravano un invito a non fermare lo sguardo sui dipinti e a guardare fuori. Un insieme un po’ insolito, non sgradevole, ma del quale Silvana non riusciva a capire l’atmosfera ricercata con quel tipo di scelta. Ammesso che vi fosse stata l’intenzione di crearne una. “Alla fine del buio c’è sempre una luce” disse Lamartine, che di certo aveva colto il suo smarrimento. “Sì, questa sistemazione può apparire irragionevole, me ne rendo conto, ma io suggerisco sempre molta prudenza quando si ragiona sull’irragionevole, perché siamo abituati a pensare secondo stereotipi, rifiutando tutto ciò che ci allontana dalla loro apparente tranquillità.” La guardò per capire se lo stesse seguendo nel ragionamento e, in mancanza di sue reazioni, continuò: “L’uomo ragionevole si adatta al mondo circostante, e fa bene. Ma questo gli impedisce di migliorarlo, perché la ragionevolezza è spesso un ostacolo al cambiamento. La storia ci ricorda che alcune grandi ipotesi sono state formulate in momenti di irragionevolezza, non di consapevolezza.” Quelle parole la inquietarono. Le spiaceva ammetterlo, ma non aveva capito dove volesse andare a parare l’uomo che aveva di fronte, un signore molto alto, sorridente, sulla cinquantina, fasciato in un abito blu chiaro di ottima fattura che esaltava l’eleganza della sua figura. Aveva un fisico asciutto, il volto scavato sotto capelli cortissimi e brizzolati e un portamento molto distinto. “Non sto vaneggiando” la tranquillizzò lui. “So bene che l’irragionevolezza è
figlia dell’idiozia, ma a volte può essere alimentata dalla ione o dalla fede. Ecco perché bisogna essere cauti nel giudicarla. Ma veniamo a noi” aggiunse con un repentino cambio di tono. La sensazione di disagio svanì del tutto quando Lamartine cominciò a parlare dell’oggetto del loro incontro, mettendo in vetrina una competenza ammirevole oltre a un eloquio non meno elegante del suo portamento. Durante l’incontro si rivelò un grande professionista, rigoroso, sicuro, preparato. Non lesinò informazioni sulla società e sulle persone, per consentire a Silvana di farsi un’idea precisa della situazione, prima di prendere una decisione. Parlò della MGR, della sua articolazione territoriale, delle persone che ne facevano parte, delle loro caratteristiche professionali e persino dei loro tratti psicologici. Molte cose le aveva già sentite a Montecarlo, ma Lamartine aveva la capacità di renderle più interessanti forse perché le esponeva senza spocchia e con un’invidiabile lucidità mentale. Si convinse che non si trattava soltanto di una notevole abilità comunicativa, aveva di fronte un uomo innamorato del proprio lavoro, nel quale riversava ione, convinzione e impegno professionale. Inoltre aveva notato che il suo modo di esporre l’aveva fatta sentire al centro della vicenda, come se i suoi interessi fossero prevalenti su quelli della MGR. Un fine psicologo, aveva pensato, un capo che si relaziona con le persone e non con i dipendenti. “Perché aprite una consociata in Italia, un paese che finora ha avuto un ruolo marginale nel giro d’affari della società?” gli chiese. “Perché da lì pensiamo di seguire non solo il mercato italiano ma anche quelli del Nord Africa e dei paesi arabi, ai quali attribuiamo grande importanza per la nostra crescita” rispose con naturalezza, senza enfasi, Lamartine. Specificò che la direzione generale, quella finanziaria e la funzione commerciale sarebbero state ubicate in un moderno edificio nel centro di Fasano, mentre la direzione tecnica, a lei affidata, si sarebbe insediata in un piccolo edificio storico – molto bello, precisò – che però richiedeva dei lavori di ristrutturazione, che sarebbero iniziati non appena lei avesse sciolto le riserve e firmato il contratto. “Questa è la nostra proposta” disse Locascio, porgendole un fascicoletto elegantemente rilegato. “Se vuole, possiamo scorrerla insieme, per chiarire punti che possono richiedere eventuali modifiche e aggiunte.”
“Preferirei di no” controbatté Silvana con un tono gentile ma fermo. “Vorrei leggermi serenamente il documento e poi discuterne.” “D’accordo, facciamo come dice lei. Però, per noi è importante che lei sciolga le riserve nel più breve tempo possibile” chiarì Lamartine. “Mi bastano un paio di giorni, non di più.” “Allora facciamo così: dopodomani ci dice se accetta o rifiuta la nostra proposta. Se poi ci sono delle modifiche da apportare, può prendersi ancora qualche giorno per redigerle e presentarle al signor Locascio che, come sa, è abilitato a intervenire sulla bozza di contratto.” “Per me va bene.” All’improvviso, Lamartine cambiò radicalmente l’oggetto della conversazione, intrufolandosi nella vita privata della signora, con domande sulla famiglia, sui figli, sugli amici. Silvana provò un senso di fastidio per l’inatteso tono confidenziale, quasi impertinente, che il suo probabile capo funzionale stava imprimendo alla conversazione. “Mi offro di accompagnarla all’aeroporto” propose lui, rendendosi conto di aver esagerato. “Ho cambiato programma: questa sera mi fermo a Parigi, ospite di amici italiani” rispose lei. Si salutarono con molta cordialità e con una calorosa stretta di mano. Silvana aveva appena schiacciato il pulsante dell’ascensore che l’avrebbe riportata al pian terreno quando il telefono di Ladisa prese a squillare. “Ciao Nicola.” “Ciao Pierre. Hai incontrato la Silvani?” “Sì, l’ho appena lasciata. Mi sembra tutto ok, penso che sia la persona giusta per noi.” “Ritieni che accetterà?”
“Con tutti i soldi che le diamo, direi di sì.” “Ha firmato?” “Non ancora. Si è presa un paio di giorni prima di sciogliere le riserve. Vuole leggersi con tranquillità la proposta, ha detto.” “Credo che voglia esaminarla con qualcuno di sua fiducia.” “Lo penso anch’io. Ma non dovrebbero esserci problemi, non riesco a immaginarli.” “Potrebbe crearne quando arriverà il momento?” “Non credo. Non ha amicizie pericolose e poi… è molto attaccata ai figli. L’unica cosa che mi preoccupa è il legame quasi affettivo con il prodotto, la sua creatura, e questo potrebbe spingerla ad assumere atteggiamenti di chiusura. Sarò più preciso quando cominceremo a lavorare insieme.” “Ok, Pierre. Tienimi informato. Ciao.” “A presto, Nicola.”
Uscendo a o sostenuto dal palazzo, e con la testa ancora rivolta all’incontro appena avuto, Silvana evitò di un nulla di scontrarsi con un signore fermo fuori dal portone, con lo sguardo puntato sulla citofoniera. Indossava un abito di ottimo taglio che gli stava a pennello, ma non portava la cravatta, bensì una sciarpa elegante e leggera che attirava l’attenzione, anche se in quel capo di abbigliamento non c’era nulla di frivolo. Il modo con cui era annodata ne imponeva l’immagine di virile girocollo piuttosto che di laico collarino. Dettaglio che la colpì, chissà perché. Dopo aver borbottato reciprocamente scusa, Silvana tirò diritto, dirigendosi verso la casa del suo amico italiano. Filippo l’accolse con grande calore. Era proprio contento di vederla, dopo tanto tempo. Era stato compagno di studi di Stefano, al quale era sempre stato legato da profonda amicizia. Poi avevano deciso di percorrere strade professionali diverse e lui aveva scelto di dedicarsi al mondo della comunicazione visiva, in particolare alla pubblicità. Il piccolo studio che aveva aperto a Parigi, dopo una
breve esperienza milanese, era subito decollato e oggi si ritrovava a capo di una delle più accreditate aziende europee di marketing pubblicitario. Silvana lo considerava l’amico più caro, ne subiva il fascino irruento e lo stimava profondamente come uomo e come professionista. Sapeva anche che la loro amicizia non sarebbe mai diventata qualcosa di diverso, non solo per la lealtà che entrambi conservavano nei confronti di Stefano, ma anche perché il carattere esuberante, imprevedibile e incostante di Filippo mal si conciliava con il suo bisogno di sicurezza e stabilità. La sua compagnia le riusciva però sempre gradita, perché la metteva a proprio agio, la spingeva a confidarsi con lui, cosa che trovava particolarmente difficile fare con altri, e finiva per trasformarsi in una fonte di energia. Filippo le illustrò con grande entusiasmo il programma che aveva predisposto. Per il pomeriggio aveva pensato a una eggiata disintossicante attraverso i posti che più volte li avevano visti felici, loro due, Stefano e la compagna del momento, sempre diversa, risultato delle capacità di conquista di Filippo, il cui lavoro teneva a contatto con le donne più belle e sofisticate. Poi, cena in un nuovo ristorantino esotico, in un posto mozzafiato. Per finire, un piano bar a Montparnasse. La mattina successiva l’avrebbe invece portata a visitare lo studio di un pittore che aveva conosciuto pochi mesi prima e col quale si era subito stabilita una forte amicizia. “Un programma intrigante, che accetto volentieri.” “Gioisco all’idea di farti felice.” Fu davvero una bella serata, rilassante e simpatica, resa gustosa da una cena saporita che saziava lo stomaco e lo spirito in un locale accogliente e intimo, più da coppiette che da amici, ma questo non la disturbò. Si aggiornarono reciprocamente sulla propria vita, sugli amici comuni, sul lavoro. Silvana gli illustrò la proposta che aveva ricevuto, senza reticenze e senza omissioni. La reazione di Filippo fu di quelle che non lasciano dubbi: “Devi accettare, non puoi rifiutare una simile offerta, è un’opportunità che non si presenta una seconda volta.” Ne discussero parecchio anche al piano bar dove arono il resto della serata e Filippo manifestò più volte la convinzione che si trattasse di una proposta
imperdibile, di quelle che possono cambiare il percorso di una vita. Glielo confermò anche quando la salutò all’ingresso dell’albergo. “Pensaci bene, ne vale la pena” le disse, schioccandole un bacio sulla guancia. La visita allo studio del pittore fu sicuramente per Silvana la cosa più coinvolgente di quel breve soggiorno parigino. Lo studio era piccolo, modesto, avvolto in una silenziosa penombra, e in esso imperava un disordine forse artistico ma di certo totale. L’odore di acqua ragia impregnava ogni cosa in quel posto. In quell’atmosfera bohemien tutto sembrava fuori posto, come la persona che lo abitava. Momo era un uomo mingherlino, stanco nelle movenze, dimesso, scapigliato. Le mani invecchiate, annerite di fusaggine e ricoperte da uno strato di pelle sottile e trasparente come un velo raggrinzito, vivevano di una vita propria e sembravano comunicare una tensione artistica alla ricerca di nuove combinazioni cromatiche. L’insieme trasandato era tuttavia nobilitato da un sorriso radioso, sia pure venato di tristezza, e da uno sguardo luminoso. I muri dello studio erano contesi da attrezzi, fotografie, ritagli ingialliti di giornale, bozzetti. Una valanga di lettere in attesa di una risposta sempre rinviata a un momento mai arrivato ingombrava un banco da lavoro. Per mancanza di tempo era la spiegazione che Momo dava a se stesso, anche se si rendeva conto della singolarità di questo bisogno di più tempo che ognuno avverte quando comincia a capire che ne avrà sempre meno a disposizione. In un angolo del locale erano accatastati alcune coppe e un attestato incorniciato. La polvere che li ricopriva indicava uno scarso interesse dell’artista per quei riconoscimenti. Molte tele pendevano da cavi agganciati al soffitto, come tanti salami in fase di essicazione. Non avevano cornice e sembravano corpi gocciolanti appena usciti dalla doccia in attesa di un asciugamano in cui avvolgersi. Una signora si aggirava fra di essi con l’aria trasognata di chi non riesce a nascondere la sua meraviglia. Una potenziale cliente, forse, sulla settantina, con i capelli color cenere e un portamento fiero, per nulla stanco. Il suo sguardo incrociò per un attimo quello di Silvana ma tornò a posarsi sulle tele con sollecitudine, come se non volesse che avvertissero il suo abbandono. Dal generale senso di confusione dell’ambiente si distaccava un cavalletto,
posizionato in un angolo dello stanzone, su cui era appoggiata una tela ricoperta da un drappo rosso sgargiante. Il cavalletto attirò subito l’attenzione di Silvana, solo in parte distolta dalle frasi di circostanza che seguirono le presentazioni. “Silvana, quel drappo nasconde il mio regalo per te” disse Filippo. “Che bello! Posso vederlo? Cos’è?” chiese lei incuriosita e in preda a un’ansia inspiegabile. “È un tuo ritratto. Momo lo ha fatto basandosi su alcune tue foto che gli ho fatto vedere e sulle cose che gli ho raccontato di te.” Momo sorrise e, con un gesto deciso e delicato allo stesso tempo, scoprì la tela. Si trattava di un carboncino. Silvana guardò l’opera con una partecipazione emotiva che spinse i due uomini a seguire la scena in religioso silenzio. Quello che vedeva non era una semplice interpretazione della sua immagine, era qualcosa di più, l’essenza di se stessa. C’era anche un’impercettibile imperfezione di una delle arcate sopraccigliari che riteneva di aver individuato soltanto lei: come poteva averla colta Momo da una semplice fotografia? “Ho usato una modalità più appropriata a illustrazioni tecniche e immagini architettoniche per raggiungere contorni ben definiti perché non volevo perdere nessun dettaglio” spiegò il pittore. “Ho intravisto nei suoi lineamenti una capacità di trai espressivi tanto dolci e così squisitamente delicati… e ho cercato di fissarli su questo schizzo” aggiunse. Lo disse con le mani congiunte e gli occhi che guardavano qualcosa che non c’era in quello studio. In lui era evidente lo scarto fra la lucidità mentale e la debolezza della complessione fisica. Silvana sentì un brivido correrle lungo la schiena e provò un grande smarrimento: quelle parole “trai espressivi”, quello sguardo che inseguiva un’immagine più immaginata che reale, accompagnato da un movimento ondulante delle sopracciglia, e quel carezzevole congiungersi delle mani, tutte cose che aveva visto numerose volte in Stefano quando le ricordava il suo amore. Una combinazione di parole e di gesti che le procurava un impareggiabile senso di felicità. Ma quel ricordo marcì subito, diventando una sensazione d’angoscia che la sconvolse profondamente.
La vecchia signora si era avvicinata al cavalletto. “Stupendo, ha un’anima” disse sorridendo maternamente a Silvana. Ritornò alle tele penzolanti senza altri commenti. Momo arrotolò il disegno infilandolo in un tubo di cartone che consegnò a Filippo. Non volle accettare soldi. “Ne parleremo la prossima volta che verrai a trovarmi” disse a Filippo battendogli amichevolmente la mano sulla spalla. Si salutarono con un abbraccio. Anche Silvana baciò Momo, sotto lo sguardo divertito dell’anziana signora. “Grazie” fu tutto ciò che le riuscì di dire. Pur essendo in considerevole anticipo decise di raggiungere l’aeroporto, dopo essere ata dall’albergo a ritirare il bagaglio. Ne approfittò per farsi un’altra doccia e cambiarsi d’abito per liberarsi dell’odore di acqua ragia. Per fortuna un grande aeroporto offre diverse opportunità per riempire le attese evitando di ingannarle con uno snervante autocompatimento. Si può gironzolare per negozi e fare acquisti oppure guardare la tv muta che da grandi schermi proietta immagini in nessuna lingua, si può telefonare oppure continuare a inviare e ricevere mail col proprio Blackberry, si possono gustare specialità gastronomiche provenienti dai più remoti paesi del mondo oppure starsene con se stessi. Lei aveva sempre preferito sedersi in un angolo appartato, osservare la gente e gustarsi quel mosaico di tanti piccoli corti cinematografici. Basta saper guardare e tenere le orecchie ben aperte per scrutare le vite degli altri. Ma non come un osservare superficiale, è necessario concentrarsi su volti, bagagli, abbigliamento, voci e rumori vari, dai jingle agli annunci. Se la concentrazione è buona è possibile entrare a far parte di quelle scene per dare un ruolo e degli obiettivi a ciascuno di quei volti senza nome, attribuendo loro sogni, speranze, desideri. Per esempio è possibile andare oltre il bacio apionato fra due avvenenti ragazze dirette a imbarchi diversi per cercare di immaginare la loro vita quando sono insieme e come la separazione la faccia cambiare. Oppure entrare nelle motivazioni di un gruppo di ricchi russi che sembrano voler comprare l’intero contenuto del duty-free shop. “Oggi è proprio la nostra giornata” disse una voce alle sue spalle. Era l’anziana signora che aveva incontrato nello studio di Momo. Le si sedette accanto, con
fare familiare, senza attendere un invito. Non c’era invadenza nel suo comportamento, si muoveva come fosse una parente o un’amica di lunga data. “È proprio bello il ritratto che le ha fatto quel pittore” disse. “La rappresenta in modo sorprendente.” “Piace molto anche a me” ammise lei. “La sua espressione sembrava più di sorpresa che di piacere” rilevò la signora. Silvana decise di aprirsi con quella sconosciuta che la metteva a suo agio e le parlò delle sensazioni che aveva provato, senza reticenze, come se si stesse confidando con una vecchia zia. “L’espressione e la mimica del pittore le hanno ricordato suo marito ma non provenivano da lui. È questo che l’ha sconvolta: parole e gesti che lei ha sempre identificato con lui, che potevano provenire solo da lui ed essere rivolti soltanto a lei.” “Proprio così.” “E invece non è così. Ora ha scoperto che possono appartenere ad altri ed essere rivolti a chiunque.” “È come se si fosse rotto un mito, quello della singolarità di Stefano e dell’unicità delle sue parole.” “Già.” “Ma dopo lo smarrimento iniziale ho provato una sorta di ebbrezza irrefrenabile, un senso di serenità e di liberazione…” confessò lei. “È una cosa che non deve inquietarla. Lei ha semplicemente ricollocato il ricordo di suo marito. Come è giusto che fe.” “Il ricordo c’è sempre, forte, immutato.” “Ma non è più incombente. Nel ricordo, suo marito è sempre un riferimento luminoso, ma anche una presenza sempre più lontana. Non deve sentirsi in colpa: è la vita che reclama di vivere e non vuole confondersi con la morte.”
Silvana era affascinata da quella donna che esprimeva concetti molto profondi con la stessa semplicità con la quale si descrive la ricetta del piatto preferito. “Dove è diretta?” chiese la signora. “Torno a casa, a Brindisi” rispose lei. “Brindisi…” fece eco la donna con una voce colma di sorpresa. “Sembra quasi un segno del destino” aggiunse. “Non la seguo” ammise lei. La signora raccontò di chiamarsi Grant e che il suo cognome da nubile era Fornasari. Suo padre, Nicola, aveva un fratello, Saro. Quando i due fratelli erano rimasti orfani, le loro strade si erano divise. Nicola, allora ventenne, aveva lasciato la squadra di atletica dei lavoratori portuali di Brindisi, della quale era il numero uno, si era imbarcato su un mercantile per girare il mondo. Dopo un paio d’anni era sbarcato da clandestino a Baltimora, aveva trovato un lavoro, si era sistemato e, dopo qualche anno, aveva legalizzato la sua posizione. Incontrata una ragazza di origini italiane, l’aveva sposata e dal matrimonio erano nati tre figli: lei e due fratelli. La famiglia era felice perché poteva contare su un padre meraviglioso, che faceva di tutto per assicurare benessere e istruzione ai figli. Concluse dicendo che la madre era in una casa di riposo, il padre invece era morto con un desiderio insoddisfatto: ritrovare il fratello Saro. Le sue ricerche non avevano mai dato risultati. Lei avrebbe voluto continuare le ricerche del padre, anche per scoprire se avesse dei cugini, ma non sapeva da che parte girarsi. “Sapesse come mi piacerebbe annodare questi due pezzi di corda, ma non so da dove cominciare. E poi da così lontano…” rivelò con tono sconfortato, precisando che si sarebbe imbarcata di lì a poco per Baltimora. “Se vuole posso tentare di darle una mano” sentì dire dalla propria voce. “Le sarei molto grata” disse la signora abbracciandola. “Lei è proprio una brava figliola.” Si scambiarono gli indirizzi e i rispettivi numeri di telefono e continuarono a parlare sino all’annuncio dell’imminente imbarco per Baltimora.
“La saluto, mia cara. Aspetto sue notizie.” Si abbracciarono ancora, poi la signora Grant si allontanò a o lento ma deciso. Silvana rimase alcuni minuti a riflettere su quell’incontro casuale e sull’impegno che, forse un po’ frettolosamente, aveva assunto. Decise poi di sgranchirsi le gambe e di fare una capatina alla vicina edicola. Dopo alcuni i, avvertì accanto a sé una presenza. Si girò e incontrò lo sguardo dell’uomo con la sciarpa. “Non ho intenzione di importunarla, signora Silvani” disse costui. “Come fa a conoscere il mio nome? Cosa vuole da me?” chiese lei, sorpresa e un po’ sul chi vive. “Mi auguro che non perda l’opportunità che le è stata offerta e che accetti la proposta della MGR.” “Lei fa parte della società?” “Assolutamente no.” “E allora come fa a sapere?” “Sappiamo, signora Silvani, sappiamo.” “Ma lei chi è? Come fa a conoscere il mio nome?” “Per il momento, non posso dirle altro. Se firma il contratto, mi rifarò vivo io e saprà tutto. Ci tengo, però, a rassicurarla: da me non ha nulla da temere, anzi posso aiutarla.” “Ma…” L’uomo si allontanò a o lento, senza mai voltarsi. Silvana cercò di mettere a fuoco la situazione, ma senza successo. Non capiva perché quell’uomo si interessasse a lei e come sapesse della sua trattativa con la MGR. Di una cosa era certa: la seguiva, e questo la inquietava non poco. Avrebbe voluto confidarsi con qualcuno, ma con chi? Silvana era felice di ritrovarsi nella sua casa, nel nido che lei e Stefano avevano
scelto non molto tempo prima della sua scomparsa. Era spaziosa, comoda e funzionale. Le piaceva soprattutto l’ampio terrazzo la cui posizione consentiva di far correre lo sguardo dal più levantino porto italiano al centro storico, abbracciando una vasta area di quella terra baciata dalla natura e da una solarità mediterranea che rendeva ancora più straordinario quell’avamposto verso l’Oriente. Aveva appena finito di leggere, non per la prima volta, a dire il vero, la bozza del contratto MGR ed era più che soddisfatta: per lei era accettabile e rimanevano da chiarire soltanto alcuni aspetti per i quali contava molto sulla competenza dell’amico commercialista, al quale aveva inviato una copia del contratto e che a momenti l’avrebbe raggiunta per discuterne i contenuti. “È una proposta che oserei definire favolosa” fu il commento del commercialista, quando si incontrarono. “Sembra sia stata redatta dal tuo legale per la difesa dei tuoi diritti. Si capisce che hanno voglia di averti come collaboratrice. Ti consiglio vivamente di accettare.” “Penso anch’io che sia un’ottima proposta, anche se ho ancora dei dubbi sulla tutela della partecipazione azionaria in caso di rottura anticipata del contratto, sulle modalità di pagamento all’estero degli emolumenti dovuti e sulla salvaguardia degli eredi.” “Su questi aspetti ritengo sia necessaria la consulenza di un legale con esperienza di finanza internazionale. Ma servono ancora alcuni giorni.” “Ma io mi sono impegnata a sciogliere le riserve per oggi” obiettò lei. “Cosa devo fare?” “Devi dire che accetti la proposta così com’è, alla quale chiedi di aggiungere una postilla relativa alle modalità e ai tempi di trasferimento del titoli azionari e degli emolumenti. Ritengo che non debbano esserci problemi, perché questa postilla mi sembra nello spirito del contratto proposto.”
3
Le acque spumeggianti del torrente impazzito sbattono la zattera contro le rocce emergenti e i tronchi d’albero galleggianti in scatenata libertà. Per non essere sbalzata nelle acque gelide e arrabbiate, Silvana si aggrappa con tutte le sue forze ai bordi della zattera, fino a farsi sanguinare le mani. Il corpo dolorante per i mille urti subiti implora pietà, ma i salti di quella danza infernale non fanno che aggiungere nuove ferite alle tante che martoriano le sue carni. Ogni volta che la zattera si inabissa spera sia l’ultima, ma nel momento in cui riemerge vede il torrente farsi più stretto, più scorbutico, più minaccioso. E la paura diventa angoscia.
Il risveglio la liberò da quell’incubo ripetitivo che le aveva appestato il sonno per tutta la notte, ma il sollievo si rivelava sempre effimero perché l’angoscia per le nuove responsabilità che l’attendevano si sostituiva all’incubo che il risveglio aveva scacciato dal suo letto. L’assalivano mille dubbi: sarebbe stata all’altezza del compito che volevano affidarle? Avrebbe soddisfatto le attese riposte in lei? I dubbi diventavano paura e per sfuggirle si rifugiava nel sonno. Ed ecco tornare l’incubo. Un vero tormento. Poi era arrivato il giorno a tirarla fuori da quella situazione insopportabile e la sua attenzione si era concentrata su ciò che l’attendeva nelle ore successive. Era il suo primo giorno di lavoro alla MGR. Scoprì di aspettare l’auto aziendale con la stessa impazienza che riempiva le ore che precedevano l’incontro con Stefano, quando avevano cominciato a frequentarsi. Si rese conto che i figli si attardavano in cose senza senso, contrariamente alle loro abitudini, e che per tale motivo rischiavano di arrivare tardi a scuola. Forse anche loro aspettavano l’auto, per vedere una mamma “diversa”, con un autista solerte che le apriva la portiera per farla salire. Ripensò ai giorni precedenti, all’eccellente lavoro del commercialista che, con l’aiuto di un avvocato, aveva stilato una clausola sintetica ma completa e ben organizzata che toccava tutti i punti che le stavano a cuore. L’aveva letta più volte e inoltrata via fax a Locascio che l’aveva richiamata un’ora dopo per
confermarle l’inserimento della postilla nel contratto, senza alcuna modifica, e per comunicarle che l’indomani Lamartine sarebbe venuto a Fasano per incontrare il sindaco e l’architetto cui erano stati affidati i lavori di ristrutturazione della sede. Vinta la meraviglia generata dal fatto che tutto era filato liscio, senza intoppi, aveva deciso di comunicare personalmente la notizia a Ladisa e Lamartine, certa che, pur essendo già a conoscenza della cosa, avrebbero gradito il gesto di cortesia. − Bene, − pensò non appena fu salita in macchina − non rimane che rimboccarsi le maniche e cominciare questa nuova avventura. – Ma c’era ancora un’ombra che gravava sulla vicenda e della quale non riusciva a liberarsi: l’uomo con la sciarpa. Aveva detto che si sarebbe fatto vivo non appena lei avesse firmato il contratto. Lo avrebbe fatto? Ma per dirle cosa? E perché lei avrebbe potuto aver bisogno di lui? Ma forse, si disse, non sarebbe successo niente e quell’uomo non si sarebbe più intrufolato nella sua vita. Ritrovò Fasano e la sua bellezza, che già conosceva. La cittadina faceva parte dello scenario della splendida Valle d’Itria, reso fiabesco dalle manciate di trulli sparsi qua e là in raggruppamenti di varie fogge, incastonati nella campagna lussureggiante, fra vigneti assolati e solenni ulivi secolari, con tronchi spaccati dal tempo e dai fulmini e grotte profonde scavate dentro la ceppaia. Bianchi muriccioli a secco, costruiti per segnare i confini delle singole proprietà e sostenere terrapieni, sembravano voler proteggere gli uni e gli altri. Una valle di terra rossa, abilissima a rubare l’acqua e conservarla in fiumiciattoli carsici che poi generosamente la restituivano seguendo leggi indecifrabili che solo pochi rabdomanti sapevano intuire ma non interpretare del tutto. All’arrivo trovò ad attenderla Saverio Locascio. Aveva un viso piccolo, tondo e sanguigno, la fronte stempiata, una folta capigliatura nera e una barbetta vanitosamente curata. Le folte sopracciglia facevano risaltare ancor più due occhietti vispi, da furbetto. Si rivelò subito un uomo cordiale e loquace, fragorosamente accogliente, non quello controllato che aveva conosciuto a Parigi. Il suo carattere estroso non era meno prorompente della sua stazza. “Signor Locascio…” azzardò timidamente Silvana quando furono seduti una di fronte all’altro, in uno dei rari momenti in cui l’uomo smetteva di parlare per prendere fiato. “No, no, lasciamo i convenevoli. Diamoci del tu e chiamami Saverio, se non ti
spiace. È un cameratismo che mi fa sentire fra amici e non fra colleghi.” “Va bene, Saverio, come vuoi. È che sono un po’ sorpresa, mi aspettavo un’accoglienza più contenuta, meno esuberante…” parve scusarsi lei che però, in cuor suo, apprezzava molto la semplicità spontanea di quella montagna umana. “Sono fatto così, Silvana. Ho cercato di creare un ambiente poco formale e devo dire che i risultati mi danno ragione, almeno così mi sembra” spiegò. “Cerco di essere attento alle relazioni sociali, perché creano l’ambiente più degli edifici e delle case.” “E io non voglio cambiare le regole. Spero di integrarmi presto nel gruppo e di essere accettata…” disse lei. “Accettata? Ma tu sei la benvenuta! Non si fa altro che parlare di te. Ti conoscono tutti e aspettano di poter collaborare con te. Anzi, mi sono permesso di frenare l’entusiasmo e ho fatto sapere in giro che se qualche bellimbusto ti manca di rispetto dovrà fare i conti con me, come uomo, non come capo” rispose con enfasi, accompagnando le parole con una risata fragorosa. Saverio descrisse con dovizia di particolari l’imponente portafoglio di prodotti e servizi telematici che la MGR offriva a tutti i settori merceologici, in particolare a quello bancario, che rappresentava il 50 per cento circa dell’intero fatturato. L’offerta della società era basata in prevalenza sui prodotti standard ma, quando le circostanze lo imponevano, interveniva la direzione tecnica, quella di cui Silvana assumeva la responsabilità, per personalizzare le singole applicazioni in base alle esigenze del cliente di turno. Nel corso della mattinata, Saverio espose anche le sue idee su possibili applicazioni di RhSoft, il prodotto che lei portava in dote, sostenendo che, con le opportune modifiche, poteva diventare uno strumento formidabile nella ricostruzione in tempo reale di archivi e banche dati danneggiati in situazioni disastrose come incendi, attentati, incursioni di hacker. Precisò anche che aveva individuato un paio di bravi tecnici che lei avrebbe potuto utilizzare per quelle operazioni, se lo avesse ritenuto opportuno. Silvana fu colpita non solo dalla competenza organizzativa evidenziata da Saverio ma anche dalla padronanza tecnica e dalla dimestichezza che dimostrava con problematiche concettuali assai complesse. Quell’omone non era solo simpatico, pensò, ma meritava anche stima.
“E ora” disse Saverio, guardando l’orologio “ti porto in un posto che non dimenticherai tanto facilmente.” Disse che sarebbero andati a pranzo col sindaco e l’architetto, che nelle ore precedenti avevano incontrato Lamartine per definire in modo più trasparente alcune clausole del contratto di sponsorizzazione con il quale la MGR si accollava tutti i costi di ristrutturazione dell’antico torrione. Spiegò che si sarebbero recati nel tempio della cucina frugale, quella che, quando i pasti non erano puntuali e l’imprevedibilità dei raccolti rendeva un obbligo il fare di necessità virtù, metteva insieme piatti casuali, accostando in modo confuso quel poco che era disponibile. “Oggi questa cucina di riciclaggio è considerata il top e bisogna fare la fila per poter mangiare una tiella di verdure, patate e ortaggi” disse. “Ma anche questo è un modo per difendere le proprie radici” aggiunse con una fierezza volutamente accentuata. La condusse in un agriturismo a pochi chilometri dalla cittadina. Era una vecchia stazione di posta incastonata in una piana di ulivi millenari e carrubi secolari. Alcune caprette scorrazzavano liberamente sul terreno pietroso alla ricerca di qualche eroico filo d’erba. Un luogo protetto dalle contaminazioni del tempo, perfetto per dimenticarsi del mondo tra il profumo degli agrumi e delle essenze mediterranee, che si avvertiva anche nel penetrante odore del fieno. I due uomini li stavano aspettando sull’uscio di una stalla dalla quale provenivano accorati muggiti. A tavola Silvana si trovò a proprio agio e scoprì i gusti forti delle cozze fritte, delle olive nere cotte nella cenere e della malva arrostita. Mangiarono per alcuni minuti, limitandosi a brevi commenti sul cibo. Il sindaco, uomo di età indefinibile e dal piglio determinato, si rivelò un’autentica sorpresa. Grazie alla sua cultura poliedrica riusciva ad affrontare in modo non banale, risultando interessante, qualsiasi argomento venisse trattato. Sottolineò a più riprese la fierezza di sentirsi pugliese e parlò molto della sua famiglia. Dichiarò di essere nativo di Altamura e che un suo bisnonno aveva fatto parte del comitato permanente che aveva guidato l’insurrezione e che ancor prima del aggio dei garibaldini aveva decretato l’adesione di Altamura all’Italia “una e indipendente sotto la guida del Re Vittorio Emanuele”.
Anche l’architetto non ava inosservato. Quarant’anni circa, così stimava lei, aveva una statura superiore alla media e un fisico aitante esaltato da un abito di foggia sportiva. Dal volto quasi rettangolare, pallido, risaltavano due occhi nerissimi come i capelli, che emettevano una luce particolare, intensa e penetrante. Silvana si trovò più volte a incrociare lo sguardo dell’uomo che le rivolgeva sempre un lieve sorriso, da lei ricambiato. Non capiva cosa fosse, ma qualcosa di quell’uomo la colpiva fortemente, procurandole una sensazione indecifrabile, quasi imbarazzante. Un ineffabile stato emotivo, un’ansia incomprensibile, che nulla aveva a che vedere con l’attrazione che esercitava su di lei per il suo aspetto più che gradevole. “Devi sapere, Silvana, che Vanuccio è una persona molto cara, amico di tanti, oltre che l’architetto cui abbiamo affidato il progetto di ristrutturazione della torre.” Saverio parlò molto di Vanuccio, della cui amicizia doveva essere proprio orgoglioso. Lo descrisse come un baluardo culturale della cittadina, instancabile animatore di iniziative e fervente sostenitore della necessità di recuperare il centro storico non solo dal punto di vista architettonico. “Ma questo non lo vuole fare come assessore” lamentò il sindaco. “A ognuno il suo mestiere” sentenziò l’architetto. “Agli impegni pubblici si dedica con tanto fervore da dimenticarsi della sua vita privata” continuò Saverio. “Gli ho sentito rispondere molte volte ʻho già sposato la mia cittàʼ a chi gli chiedeva perché non prendesse moglie, e pensare che attorno gli ronzano tante pretendenti.” Vanuccio non riuscì a camuffare l’imbarazzo che gli provocavano le parole di Saverio e ciò lo rese ancora più simpatico agli occhi di Silvana. “La torre di cui si sta interessando non è sufficientemente grande per accogliere tutte le funzioni della consociata e allora ho deciso di riservarla alla direzione tecnica, il vero motore produttivo dell’azienda” continuò Saverio. “Vanuccio mi ha chiesto di poterti illustrare il suo progetto solo dopo averti fatto visitare il centro storico, che nessuno conosce meglio di lui.”
“Penso che sia opportuno un inquadramento storico e ambientale della torre per apprezzare meglio la proposta di ristrutturazione” disse l’architetto. “Sempre che lei sia d’accordo” precisò. “Considero un privilegio l’attenzione che mi riserva e non posso che essere contenta.” “Le chiedo di non lasciarsi condizionare dallo stato di alcuni scorci del centro, non è incuria né degrado: è una malattia curabile.” “Di cui noi tutti siamo impegnati a cercare le medicine giuste” intervenne il sindaco. “Deve sapere che la torre ha anche un significato emblematico: è il primo restauro di rilievo del progetto di recupero totale del centro storico. I lavori sono finanziati dalla MGR, che poi godrà di un diritto di utilizzo ventennale.” “E tu, come prima destinataria della torre ristrutturata, entrerai nella storia di questo ambizioso progetto.” “Che onore!” esclamò lei, ridendo. “Perché non vi date del tu, vista la straordinaria coincidenza dei vostri nomi?” propose all’improvviso Saverio, spiegando che Vanuccio era il diminutivo di Silvano. Ai due non restò che accondiscendere.
Vanuccio la guidò in un ampio giro del centro storico, che conservava la struttura medievale, un labirinto di piazzette, vicoli stretti, archi e scalinate per lo più fiorite. Il colore predominante era, come nella maggior parte dei centri storici pugliesi, il bianco della calce che conferiva nitore e luce alle case, ai muri sbrecciati e alle stradine quasi sempre strette e lastricate. “Molta della nostra storia è racchiusa nelle chiese e nelle lame degli insediamenti rupestri” disse. “Le lame sono delle spaccature nel terreno, vero?” chiese lei. “Sono degli avvallamenti nella roccia calcarea nelle cui pareti, per rimanere a quelle più vicine a noi, i Messapi scavarono abitazioni, ricoveri di animali,
frantoi, cripte, veri e propri villaggi.” L’architetto spiegò che il centro storico un tempo era racchiuso in un quadrilatero di mura alte e imponenti, fortificate da dodici torri delle quali era rimasto più o meno in piedi solo il Torrione delle Fogge a est della cittadina, vicino al luogo che in ato ospitava i pozzi all’aperto dove si raccoglievano i corsi d’acqua piovana provenienti dalle colline, chiamati fogge. Girarono per il dedalo di viuzze, sulle quali si affacciavano case modeste e palazzi maestosi. Ogni edificio, ogni spezzone del muro di cinta, ogni pietra quasi, divenne pretesto per il racconto di una pagina di storia della cittadina. L’architetto si rivelò un pozzo di conoscenze storiche e culturali, proposte con naturalezza e semplicità, senza saccenteria. Parlò a lungo delle fontane magnificamente scolpite, dei campanili, dell’abbeveratoio, della piazza del mercato, degli stemmi che impreziosivano la facciata del palazzo del feudatario padrone della quasi totalità delle terre. Lo fece con ione e sentimento, come se parlasse di una persona cara. “Le stradine strette e le case addossate le une alle altre hanno anche un lato positivo: impediscono al sole di picchiare, garantendo il fresco per quasi tutta la giornata. Non a caso questa zona è chiamata U’mbracchie, ombra.” Giunsero nella piazza principale. “Qui” disse lui “si incontrano, forse per un gioco di correnti d’aria, gli echi delle massicce campane di bronzo sospese alle cupole delle chiese della cittadina, fiduciose che qualcuno le strappi alla loro quiete obbligandole al dondolio da cui nasce il vibrante rintocco.” Attraversarono un arco da dove si accedeva all’antica residenza dei Cavalieri di Malta, al Palazzo dell’Orologio e ad altre sontuose ricchezze architettoniche come il Palazzo Gaito, sulla cui parete era stata scavata una nicchia per la statua della Madonna del Pozzo. “Apparve ai fasanesi il giorno della battaglia finale contro i turchi” spiegò “e da allora è la patrona della città.” Quella vittoriosa battaglia del 1678, raccontò, viene rievocata ogni anno il due giugno con la Scamiciata, una sfilata in costume con sbandieratori, figuranti e artisti di strada, che si conclude con la consegna delle chiavi della città alla statua della Madonna.
“La drammatizzazione della battaglia” disse “è l’evento centrale della festa in costume, allietata dal suono delle chiarine, dai rulli dei tamburi e dallo sventolio delle bandiere. I turchi aggressori vengono trascinati in catene per le vie della città da un corteo storico pieno di militari a cavallo, carrozze d’epoca con figuranti che rappresentano i nobili del tempo e alabardieri. Intorno al corteo è un brulicare di animatori, musicanti e gruppi folkloristici. Nelle strade i macellai allestiscono bancarelle e tavolate ricoperte di tovaglie di carta bianche dove si possono gustare carni e salsicce arrostite sul momento.” “Anche nel paese dove sono nata, a San Michele Salentino, c’è questa usanza” disse lei. L’architetto le parlò del Portico delle Teresiane, un antico chiostro trasformato in centro commerciale e luogo di ritrovo per i giovani, e della chiesa delle Anime Purganti, uno dei fiori all’occhiello dell’architettura religiosa locale. Le parlò della Chiesa Matrice, la principale della città, e delle preziose tele e sculture in legno che conservava. “Quella è invece la chiesa di San Giuseppe, oggi utilizzata per incontri culturali” disse mostrandole il tempio una volta dedicato a San Giovanni Battista. “Che tu frequenti spesso, immagino” osservò lei. “È la mia seconda casa” ammise lui con un sorriso imbarazzato. L’attraversamento dell’antico cimitero consentì di aprire nuove pagine di storia, ricche di aneddoti, miti e tradizioni. Dopo un po’ si ritrovarono in una piazzetta al centro della quale sorgeva il Torrione delle Fogge, una mole pietrosa massiccia, adornata nella parte superiore con grossi speroni che facevano venire alla mente i ballatoi che, nelle antiche fortificazioni, venivano usati per rovesciare pietre, olio bollente, fuoco e quant’altro potesse uccidere, mutilare o semplicemente respingere gli assalitori. Silvana non riuscì a evitare le immagini delle cruente battaglie che aveva visto numerose volte al cinema e si chiese come un luogo così carico di morte e di orrore, che tutti vorrebbero dimenticare, potesse generare allo stesso tempo fascino e desiderio di conservare per ricordare un antico ato. Si chiese anche come potesse un edificio così rozzo e primitivo, strettamente legato al ato, ospitare un’attività immateriale ed evoluta, decisamente proiettata nel futuro. Si fece coraggio e il quesito lo pose a Vanuccio.
“È possibile” rispose lui “e quando vedrai il plastico, tutto ti sembrerà più chiaro. Anzi, andiamo a vederlo.” La guidò verso casa sua, situata nelle immediate vicinanze della torre. Una casa a due piani, modesta come le altre fra le quali era incastrata, ma con una facciata più curata che le conferiva una maggiore solidità. L’interno si rivelò un’autentica sorpresa: era finemente arredata, dotata di sofisticate soluzioni funzionali e animata da un efficace gioco di luci indirette. Un lavoro creativo che faceva toccare con mano la genialità di chi lo aveva realizzato. Fu sufficiente un’occhiata a quell’ambiente per far capire a Silvana che il rudimentale ammasso pietroso che aveva appena visto sarebbe diventato la sede moderna di un gruppo di specialisti informatici. Vanuccio intuì che la donna era giunta a quella conclusione e fu contento. Il plastico troneggiava su un tavolo nella stanza accanto, illuminato da un cono di luce proveniente dal soffitto. Silvana non riuscì a nascondere lo stupore che le provocò quell’immagine. La torre, alta una cinquantina di centimetri, aveva una forma pentagonale, cosa che poco prima non aveva colto. La parte superiore era coperta da una cupola di vetro, una piramide che conferiva al complesso una sorprendente snellezza strutturale. Grazie a quella copertura, il tozzo ammasso di pietre diventava una struttura slanciata che puntava verso il cielo. “È stupenda, una cosa inaspettata.” “Questo sarà il tuo futuro ufficio” disse lui, indicando la piramide. Spiegò che l’ufficio sarebbe stato circondato da un terrazzo e che rimaneva da decidere la colorazione delle vetrate. Non era stato facile ottenere l’assenso delle Belle Arti al progetto, ma alla fine era stato raggiunto un compromesso: la cupola doveva essere costruita in modo tale da essere facilmente rimossa alla fine del periodo di locazione, in caso di mancato rinnovo del contratto, senza alterare ogni altro elemento della ristrutturazione. Ripresero a gironzolare per le stradine della cittadina, parlando più di loro che della torre. “Quanti anni hai, Vanuccio?” chiese lei all’improvviso. “Trentasette.”
“Abbiamo in comune non solo il nome ma anche l’età” osservò ridendo. “E perché hai deciso di sposare la professione, invece che una donna?” volle sapere. “Nulla di originale, la solita delusione amorosa. Una donna per la quale stravedevo è uscita dalla mia vita senza una ragione apparente, mettendomi al tappeto.” Non c’era traccia di tristezza nella sua voce e nei suoi occhi. − È un uomo forte − pensò lei. − Ha rimosso tutto oppure sa conservare i tormenti. − “Per aiutarmi a dimenticare sono andato anche in Africa” continuò lui. “Una volta mi portarono nel deserto. Vidi dei cespugli che rotolavano sulla terra bruciata dal sole, il vento li spingeva gli uni contro gli altri, poi li separava e li allontanava. Sembrava un gioco di gruppo, fra soggetti liberi di muoversi. Invece erano soltanto cespugli in balia del vento. Mi identificai con essi perché anch’io in quel periodo non avevo radici e mi sentivo sballottare in ogni direzione.” La guardò e lei nei suoi occhi non lesse lo smarrimento di chi cerca aiuto. Sembrava sereno, emotivamente lontano dalla vicenda che stava narrando. “Al ritorno, mi rifugiai per un periodo nella comunità monastica di Bose, alla ricerca più di me che di Dio, e trovai un padre spirituale, il priore del monastero, che fu per me padre, fratello e amico. Mi aiutò moltissimo, anche il giorno in cui mi congedò dicendomi: ʻGesù amava ritirarsi in disparte, sul monte o nel deserto, ma poi ritornava fra gli uomini. Qui hai trovato una parte di te, l’altra dovrai trovarla fuoriʼ.” Si fermò come se stesse rivivendo quel momento e lei rispettò il suo silenzio. “Ricordo che una volta ero nel refettorio con lui e altri frati,” proseguì “cercavano di farmi capire, con molta sensibilità e grande rispetto, che dovevo girare pagina e che potevo farlo solo io. Avevo con me una sua foto di ridotte dimensioni. Con una forbice la tagliuzzai in minuscoli pezzi, formando un piccolo cumulo di coriandoli multicolori. Poi ne presi un pizzico portandolo alla bocca e lo ingollai con l’aiuto di un sorso di vino bianco. Seguito dalla muta sorpresa dei frati rifeci l’operazione numerose volte, fino a radere al suolo la montagnetta.”
Sorrise con amarezza a quel ricordo. “Ho sepolto il ato dentro di me, dissi rispondendo alle loro occhiate interrogative.” Silvana preferì rimanere in silenzio nel timore di non trovare le parole giuste. “Ho faticato a rialzarmi e non voglio ripetere l’esperienza. E tu? Parlami di te” aggiunse, cambiando discorso. Silvana si ritrovò a parlare della sua vita privata con leggerezza, quasi con piacere. Non le capitava da tempo, ma trovava naturale aprirsi in quel modo a Vanuccio. Lo faceva spontaneamente, senza remore. Gli parlò di Stefano, della loro bellissima storia d’amore, dei figli, delle scelte professionali, della società che avevano creato, della MGR. Vanuccio non riusciva a distogliere lo sguardo da lei. Silvana aveva una figura sottile, elegante e fresca, col collo lungo e roseo che sembrava disegnato dalla mano di una figurinista. Si faceva fatica a darle trentasette anni. Ma la sua non era una bellezza trascendentale, di quelle che fanno girare la testa per strada. Non aveva nulla della stereotipata bomba sexy, niente seno prosperoso, labbra carnose o curve prorompenti, la sua carica erotica esplodeva nel momento stesso in cui il suo sguardo si attorcigliava a quello dell’interlocutore. Il suo fascino, perché di questo si trattava, esplodeva nella relazione, nel contatto con gli altri. La sicurezza che mostrava in se stessa contribuiva non poco a metterla subito in una luce particolare. Era evidente che si piaceva e chi piace a se stesso facilmente piace anche agli altri. Ma erano soprattutto gli strumenti del comportamento – il gioco di sguardi, l’armonia dei movimenti, la gestualità, la voce calda e suadente, una naturale eleganza del portamento – a suggerire a chiunque che di lei c’era ancora molto da scoprire, e questo generava curiosità, quindi interesse. E attrazione. Ecco, sicurezza e mistero erano gli ingredienti principali del suo fascino. La disarmante naturalezza con cui si proponeva diventava capacità ipnotica ed era la spiegazione prima della sua attrazione. E il suo sorriso… ah! Quel sorriso che sembrava voler dire “ti autorizzo a fantasticare tutto ciò che vuoi, ma senza esagerare”. Sicurezza, mistero e irraggiungibilità, e i sogni degli uomini partono al galoppo e non li ferma più nessuno. Anche i suoi occhi erano affascinanti. Esprimevano la bellezza di una persona
pura, ma la loro lucentezza era come appannata da un’ombra segreta. “Hai deciso di vivere in questa casa perché è vicina alla torre?” chiese lei. “È la casa di famiglia e ho deciso di tenerla.” “E i tuoi?” “Non ci sono più. Mia madre è mancata una decina di anni fa e non mi sono ancora abituato all’idea, mi manca molto.” “E tuo padre?” “Non l’ho mai conosciuto. È morto prima che nascessi. Non so bene cosa sia successo, mia madre è sempre stata reticente. A volte ho pensato cose brutte sul suo conto, anche che si sia tolto la vita. La verità è che non so proprio nulla di lui, so solo che porto il suo nome.” “Mi dispiace, Vanuccio, non potevo immaginare.” “Credo che non sapesse nemmeno che mia madre fosse incinta” continuò lui con amarezza. “Terribile.” “Questo spiega perché porto il cognome di mia madre, Milella. Non ha fatto in tempo a sposarsi…” “È una storia veramente triste. Immagino cosa hai vissuto, anzi lo so: l’ho provato anch’io.” “Cosa intendi?” “Non ho mai avuto dei genitori” disse di colpo, come per liberarsi di un peso indesiderato. “Mia madre è morta di parto e non era sposata. L’ultima sua volontà fu di chiamarmi Silvana, come mio padre. Ho preso il cognome di mia madre da nubile, Guadalupi. Poi mi sono sposata e sono diventata la signora Silvani.” “Come hai fatto a cavartela?”
“Sono cresciuta in un istituto di suore a Brindisi. Per fortuna andavo bene a scuola e hanno deciso di sostenermi fino al diploma. Durante l’ultimo anno ho conosciuto Stefano. Se me la sono cavata devo dire grazie alle suore e a lui.” “Ma perché abbiamo aperto questo baule di ricordi? Non ci meritiamo questo supplemento di dolore. Cambiamo discorso?” “Sono d’accordo con te, però consentimi di osservare che a volte la vita presenta delle coincidenze che ti lasciano a bocca aperta: abbiamo la stessa età e abbiamo ereditato il nome per identica disgraziata circostanza.” “Eh sì, questa benedetta esistenza a volte è impietosa e crudele. Ma vale la pena viverla.” Silvana non riuscì a evitare che, nella sua mente, alle loro storie si affiancasse quella della signora Grant: storie di famiglie frantumate dal caso, con i cocci riversati sulle spalle dei membri che nulla avrebbero potuto fare per evitare quelle rotture. Quella considerazione la indusse a nobilitare ancora di più il tentativo dell’anziana signora di annodare i due pezzi di corda, come aveva detto. Decise che, compatibilmente con gli impegni, si sarebbe interessata della ricerca che aveva promesso di fare. Quella sera fece il viaggio di ritorno a Brindisi assorta in un silenzio totale, accompagnata dallo sguardo dell’architetto che sentiva addosso in maniera insistente. Pensò che ora erano diventate due le presenze misteriose che incombevano su di lei: l’uomo con la stravagante sciarpa e l’intrigante architetto. Con la differenza che quest’ultimo lo avrebbe rivisto il giorno dopo mentre dell’altro cominciava ad avere un ricordo sbiadito. Meglio così, si disse, un problema in meno.
4
“Alla signora Silvani” era scritto sulla busta priva di affrancature. L’aveva trovata nella cassetta della posta e la portinaia non aveva saputo dire chi ce l’avesse messa. La casa era vuota, i ragazzi erano fuori - uno in piscina, l’altra dai nonni - e, con una palpitazione montante, decise di aprire la busta. Un foglietto anonimo, senza intestazione, nessuna firma, poche parole: “L’aspetto domani alle undici al bar delle Colonne.” Si era rifatto vivo, ne era certa, l’uomo con la sciarpa. Non sapeva spiegarsi perché, ma a quell’appuntamento sarebbe andata. Intendeva chiarire la situazione una volta per tutte. Il giorno dopo, alle undici in punto, entrò nel bar vicino alle due colonne romane in marmo proconnesio, collegate al porto dai cinquantadue gradini della Scalinata Virgiliana. Parlare di due colonne era, per la verità, improprio perché di una restava solo il basamento e un rocchio coricato, mentre l’altra era integra e sovrastata da un capitello con otto Tritoni e i busti di Giove, Nettuno, Pallade e Marte. Nel bar non fece fatica a individuarlo, anche perché c’erano pochi avventori. Era seduto a un tavolino appartato e mostrava attenzione solo per la tazzina davanti a lui. Lo raggiunse e si sedette senza dire una parola. “Buongiorno, signora Silvani” disse, senza sollevare lo sguardo. “Grazie per essere venuta.” “Ora spero che si decida a dirmi cosa sta succedendo.” “Prima di tutto le dico che sono contento che abbia accettato l’incarico alla MGR.” “Bene, e ora mi dica chi è lei.” L’uomo sollevò lo sguardo e lo fissò negli occhi di Silvana.
“Sono un ispettore di un ente intergovernativo. Per ora si accontenti di questo.” “Accontentarmi? Ma si rende conto che mi ha scaraventato addosso un mistero di cui avrei fatto volentieri a meno? E mi dice che devo accontentarmi…” “La situazione richiede cautela, mi creda. E si fidi.” “Per fidarmi dovrei almeno sapere perché tanto interesse per me.” “Il nostro interesse è per la MGR e solo di riflesso per lei.” “Si spieghi meglio.” L’ispettore arricciò le labbra e corrugò la fronte, un duplice indicatore di estrema concentrazione, considerò lei. Scandendo bene le parole, come per garantirsi che ne capisse a fondo il significato, l’agente le disse: “La MGR, o meglio un suo ramo, è una potentissima organizzazione fiancheggiatrice di diverse mafie, delle quali riesce a ripulire il denaro che viene investito in attività lecite.” “Come fa a saperlo?” “Li seguiamo da anni, ma ci manca la prova provata per incastrarli.” La conoscenza che aveva dei quattro membri del comitato di presidenza era davvero approfondita. Lo dimostrò con un resoconto dettagliato snocciolato anche con l’intento di impressionarla. Raccontò che Ladisa aveva lavorato per diversi anni nell’ufficio studi di un grande istituto di credito, dove aveva maturato la convinzione che la finanza non ha solo basi oggettive, ma apre grandi spiragli alla fantasia personale. Per quel motivo si era apionato all’ingegneria finanziaria. Si era fatto ben presto notare per le sue proposte originali, a cavallo fra la genialità e la bizzarria. Era uscito dall’anonimato attirando l’attenzione del direttore generale, ma un giorno, sorprendendo tutti, aveva rassegnato le dimissioni e deciso di fare l’esattore di una piccola agenzia finanziaria che poi, con l’aiuto di qualche amico influente, aveva rilevato facendola crescere e ripagando quelli che l’avevano sostenuto con aiuti prima piccoli, poi più grandi, sempre più grandi. Nel giro di poco tempo, l’agenzia si era ritrovata a trattare masse considerevoli di soldi che, seguendo traiettorie misteriose e transiti attraverso società di comodo e prestanome di lusso, avevano perso l’opacità della loro provenienza. Era diventata una lavanderia di denaro sporco, punto di riferimento obbligato per tutte le operazioni di riciclaggio
pugliesi. Poi aveva guardato fuori della porta di casa e cominciato a operare in tutto il meridione, poi al nord, infine all’estero. Si era trovato così a collaborare con i porti off-shore, abituali rifugi dei flussi di denaro frutto di operazioni illecite, in cerca di nuova identità. Questo lo aveva portato a contatto con ambienti caratterizzati da un impenetrabile segreto bancario, disposti a riciclare denaro di dubbia provenienza nei circuiti finanziari regolari. Aveva lavorato parecchio con soggetti del Principato di Andorra, della Liberia, della Repubblica di Nauru e dell’Isola di Antigua. E infine col Principato di Monaco, dove aveva trasferito la sua residenza fiscale che in precedenza era a Guernsey, un isolotto nella Manica dove un terzo della popolazione lavorava nel settore bancario. Si era trovato ben presto a far parte di un sistema reticolare di mafie transnazionali che lo mettevano a disagio, non in quanto organismi malavitosi ma perché propendevano all’uso della violenza attraverso veri e propri eserciti criminali. Anche i simbolismi arcaici che pulsavano in quelle organizzazioni lo infastidivano. Con i giuramenti di sangue, la sottomissione totale a un capo, i codici d’onore, la struttura organizzativa patriarcale, lui non aveva nulla a che vedere perché li considerava elementi contro la modernità. La frequentazione degli uomini d’onore gli aveva fatto tuttavia capire una cosa importante: tutti gli affari vanno patteggiati e conclusi con estrema discrezione, senza alzare la voce, e senza lasciarsi alle spalle degli scontenti. A quella visione delle cose aveva ispirato il suo comportamento. Quando era in disaccordo con qualcuno lo invitava a discuterne e non si alzava dal tavolo senza aver prima trovato una soluzione. Non si rivolgeva mai a un giudice per dirimere una questione privata, la soluzione la trovava sempre seguendo altre strade. Trovava conforto nella Bibbia, che citava spesso. Ne aveva una copia sempre con sé, piena di sottolineature e commenti a bordo pagina, segno evidente di consultazioni continue, forse quotidiane. Al collo portava sempre una catenina con un crocefisso, tutto in acciaio perché non amava lo sfoggio di gioielli e preziosi. Nonostante il benessere, conduceva una vita sobria, evitando di ostentare il potere e il lusso lucido e scintillante. Abiti gessati, anelli con brillanti, grossi sigari e pistola bene in vista non facevano parte della sua iconografia. Rifiutava il ruolo di capo assoluto, preferendo vestire i panni di chi concorda le proprie
decisioni. Non impartiva ordini ma elargiva consigli, sapendo tuttavia che difficilmente essi non sarebbero stati seguiti. La fede aveva avuto un ruolo notevole nella sua vita privata, nei comportamenti, nelle relazioni. Parlava spesso come un uomo ispirato che non lesina perle di saggezza a chi gli sta attorno. Riteneva che non si debba tradire la propria compagna nemmeno col pensiero. Chi tradisce la moglie, sosteneva, lo fa anche con gli amici, i compari e chi fa affari con lui, è un uomo inaffidabile, da tenere lontano. Lui odiava la violenza. Da ragazzo manifestava un forte senso di ribellione contro le ingiustizie sociali e giungeva a confidare agli amici che da grande avrebbe fatto il sindacalista, per togliere ai ricchi padroni e dare ai poveri lavoratori. Nel frattempo, a carnevale continuava a vestirsi da Zorro. Le cose erano andate poi in modo diverso e si era ritrovato a capo di una poderosa struttura aziendale, forse più potente delle sue stesse aspettative. A renderla tale avevano contribuito tre persone conosciute attraverso i rapporti e le relazioni internazionali. Silvana era a dir poco esterrefatta. Quel racconto la teneva col fiato sospeso. La prima persona che aveva incontrato era Frank Nicosia, continuò lo sconosciuto, emigrato negli Stati Uniti da ragazzo con la famiglia dall’Italia meridionale. Si era sistemato a New York, dove il padre era riuscito a mettere su un negozio di frutta e verdura, lavoro già praticato in Italia. Dopo alcuni anni di duro lavoro, sacrifici e sudati risparmi, il padre aveva aperto un piccolo ristorante specializzato in primi piatti di pasta e verdure, tipici dell’Italia meridionale. La pasta veniva fatta tutti i giorni a mano da sua madre. Frank non era certo uno stupido, e la voglia di riscattare un ato di stenti e rinunce lo aveva spinto ad attivare tutte le sue potenzialità e a valorizzare ogni sua specificità. Giovanissimo era stato accolto nel corpo di polizia, soprattutto per la sua capacità di parlare con disinvoltura diversi dialetti meridionali. Grazie a questa sua propensione, aveva contribuito a far condannare diverse decine di delinquenti di origine italiana. Per questi eccellenti risultati, il comando aveva chiuso spesso un occhio per le sue assenze determinate dagli impegni di studente in economia, alla fine dei quali era stato trasferito nella sezione che si occupa della repressione dei reati finanziari. In quella veste si era occupato delle attività
della Irish Mob, la più vecchia organizzazione criminale operante negli Stati Uniti, e dei suoi legami internazionali. In una delle tante operazioni aveva conosciuto Ladisa, del quale aveva apprezzato subito la statura morale, la grande generosità che esprimeva attraverso una serie di interventi a favore dei più deboli, la totale estraneità a faccende riguardanti droga, prostituzione, appalti, scommesse clandestine, cose che considerava meschine e che sporcano l’anima più che le mani. Nicosia sfoggiava una spiccata eleganza, che a volte infastidiva Ladisa. Ma era uno su cui si poteva contare e lo aveva convinto a lavorare per lui. I risultati erano stati subito evidenti. Nicosia era intervenuto per primo quando erano sorti problemi o incomprensioni con le forze dell’ordine dei paesi in cui operava la società e, forse per la sua mentalità da poliziotto, era riuscito a spiegare, tranquillizzare, trovare una via d’uscita. Il secondo era stato Pierre Lamartine, un affermato avvocato se che Ladisa aveva contattato quando gli era venuta l’idea di costituire la fondazione PNPB, Perseverare Nella Pratica Benefica, per gestire le attività filantropiche della MGR. Uno strano personaggio, questo Lamartine, perché oltre a giurisprudenza aveva fatto studi approfonditi in informatica e negli ambienti che frequentava era considerato un mago del computer. Qualcuno sosteneva che fosse uno dei più spavaldi hacker internazionali, uno di quei pirati capaci di violare i sistemi informativi di banche, centri di ricerca farmacologici, organizzazioni politiche, eserciti e gendarmerie, temuto dai governi dei più importanti paesi. Ma la cosa non era mai stata provata. Sempre impeccabile nell’abbigliamento, si proponeva come uomo di mondo accomodante, che sa comprendere, mediare, transigere. Curava le relazioni esterne della società, per la sua innata predisposizione a coltivare rapporti con politici, uomini d’affari, magistrati. Un uomo rassicurante, intellettualmente dotato. Soddisfaceva la sua fame di cultura accumulando sulle sue numerose librerie testi di ogni genere, fra cui volumi di filosofia, teologia e mistica con i quali rispondeva a ricorrenti richiami morali che riteneva ormai sepolti nella profondità della coscienza, dopo i lontani anni di studio nel seminario arcivescovile. Diversi ripiani erano occupati dalle traduzioni dal greco dei dialoghi platonici, da libri su Gandhi e dall’intera produzione degli scritti di Marx.
L’idea di poter essere confuso con gli uomini d’onore narcisisti ed esaltati, paranoici e spietati, gli metteva addosso i brividi. Per lui mettere a posto le persone significava aiutarle, sistemarle col lavoro. Quando Ladisa aveva approfondito la sua conoscenza lo aveva considerato un uomo dalla mente raffinata, che mai si sarebbe rifugiato in uno sperduto casolare a mangiare pane e cicoria per sfuggire alla giustizia, e che da grande affabulatore, sottilmente ironico, mai avrebbe accettato di comunicare con gli altri attraverso pizzini e intermediari. Era stata poi la volta di Ivan Solokov, il meno raffinato dei tre e sicuramente il più malsopportato per certe asprezze del suo comportamento. Era stato un uomo delle istituzioni sovietiche, un influente membro del Kgb, l’organizzazione dalla quale era nata una delle più potenti criminocrazie che la storia ricordi. Dei tre, era l’unico risultato impelagato in faccende di rifiuti tossici, materiali radioattivi, armi e contrabbando di valute. Indossava abitualmente una giacca a doppio petto con fazzoletto nel taschino e scarpe di cuoio inglesi, ma portava slacciato il colletto delle camicie dai colori più improbabili che stravaganti. Era sempre a caccia di donne e ciò infastidiva Ladisa che spesso, molto spesso, chiudeva un occhio senza tuttavia nascondergli la scarsa stima che provava per lui. Era un uomo di potere, che conosceva molte cose sulla giovane economia russa postsovietica. Faceva parte della setta segreta “Ladri nella legge”, una casta monastica di superuomini - circa duecento eletti - integrati nei circuiti dell’economia ufficiale, che si poneva in contrasto con il potere dominante accoppiando attività criminose e sovversione politica. Come segno tangibile del suo potere la scia di cadaveri che lasciava al suo aggio, pur senza mai sparare un colpo di kalashnikov. Si dichiarava esplicitamente contro la violenza, ma manifestava una grande tolleranza verso quella praticata da altri. Era entrato in contatto con Ladisa perché faceva parte della commissione con l’incarico di svendere sui mercati internazionali una montagna di 140 miliardi di rubli in cambio di 7 miliardi di dollari. Aveva instaurato stretti rapporti col capo del principale clan mafioso albanese che basava la propria attività sul Kanun, una sorta di decalogo sociale che imponeva di investire in attività legali tutti i ricavi dei traffici illeciti. Tutto con
l’obiettivo di sostenere lo sviluppo del Paese delle Aquile. Solokov aveva tentato più volte di portare in MGR questo suo conoscente, ma Ladisa non ne aveva voluto sapere, ritenendo tutta la mafia albanese troppo aggressiva e feroce. La relazione fra i quattro era stata facilitata dall’essere accomunati da un grande senso della lealtà e da un’ideologia basata su una quaterna di fattori: finanza, religione, rifiuto della violenza e solidarietà. “Con queste quattro gambe, il nostro tavolo non traballerà mai” dicevano. L’uomo con la sciarpa guardò Silvana per essere certo che lo seguisse e continuò il suo racconto. Sotto la guida dei quattro, la MGR aveva avuto uno sviluppo verticale, senza mai impelagarsi in faccende redditizie ma di basso profilo. Loro si erano sempre occupati di finanza, alta finanza, di paradisi fiscali, pacchetti azionari, movimentazioni di denaro. E continuavano a farlo all’interno della MGR, occupandosi di gestioni patrimoniali, private equity, consulenza nei settori degli immobili di lusso e opere d’arte, successioni, fondi di investimento. La società si era specializzata nell’utilizzo dei trust, strumenti finanziari che impediscono di ricostruire di chi sono i soldi gestiti. Per mantenere queste attività su livelli di eccellenza si erano avvalsi delle prestazioni di superesperti portati via a banche e finanziarie, allettandoli con retribuzioni faraoniche, dopo una severissima selezione fatta da una società di head hunting gestita da un cugino di Ladisa. La MGR aveva stretto solidi legami con la filiale italiana di una banca svizzera, attraverso la quale i soldi potevano essere dirottati ovunque senza l’obbligo di segnalazione all’unità antiriciclaggio della Banca centrale. Si erano intensificati i rapporti con alcuni paesi, quasi sempre piccoli, veri e propri paradisi non solo per quanto concerne il fisco, grazie a una tassazione pressoché nulla, ma anche per la capacità di garantire un anonimato assoluto e un segreto bancario totalmente inesplorabile dalla magistratura. Senza mai dimenticare le attività filantropiche, alle quali destinavano una percentuale dei profitti e la cui gestione era affidata alla fondazione PNPB, attraverso la quale venivano stanziate sontuose elargizioni a ospizi, orfanotrofi, enti di assistenza a ragazze madri, parrocchie, associazioni di volontariato.
In quella loro scelta, un modello di riferimento era la Yakuza, la famigerata mafia giapponese, i cui membri erano stati un tempo degli eroi popolari nell’immaginario collettivo, una sorta di Robin Hood locali che difendevano i deboli dai soprusi dei potenti. Un riferimento molto alla lontana, per la verità, perché di quella setta Ladisa respingeva senza tentennamenti la struttura gerarchica, autoritaria e violenta. Silvana lo ascoltò con attenzione mista a incredulità. “E io come entro in tutto questo?” chiese lei con apprensione. “Crediamo che la MGR voglia utilizzare lei e il suo RhSoft per appropriarsi sui circuiti internazionali di ingenti somme, attraverso operazioni bancarie fraudolente.” “Ma quelle che ho conosciuto finora mi sembrano tutte persone per bene” obiettò timidamente. “Lasci perdere la filiale italiana, è solo un braccio operativo dell’organizzazione ed è molto probabile che le persone che la compongono non siano consapevoli di tutte le attività societarie. La mente delle operazioni che ci interessano è a Montecarlo, e lei può aiutarci a incastrarla.” “Cosa le fa pensare che io sia disposta ad aiutarvi?” buttò lei lì, con un tono volutamente ironico. “Perché lei, come azionista, c’è dentro fino al collo. Quando li prenderemo, e stia certa che prima o poi li prenderemo, starà a noi, alla nostra discrezione, decidere… mi spiego?” “Non poteva fare meglio” ammise. L’ironia era completamente scomparsa dalla sua voce, che si era fatta debole e un po’ tremante. “È per questo che contiamo sulla sua collaborazione” aggiunse l’uomo. “Temo che se volessi tirarmi indietro voi me lo impedireste. Dico bene?” Un interrogativo inutile, perché ne era certa. “Proprio così, ma penso che a impedirglielo sarebbero soprattutto quelli della MGR.”
“E come potrebbero? Mi basta disdire il contratto.” “Lei crede? Non è così facile. Dopo averle dato tanto per farla entrare, non la lascerebbero uscire.” Le concesse qualche istante per digerire quelle parole e riprese: “Deve rendersi conto che questa è una potente impresa criminale, che non si ferma davanti a nulla. E ha molti mezzi per persuadere.” Il suo fu un vero e proprio attacco frontale, condotto con tono grave e stoccata finale. “Lei ha due figli” concluse con un filo di voce. Per scatenare una grande paura a volte bastano poche parole. Silvana sentì mancarle le forze e le parve di svenire. Provò un grande senso di colpa perché in modo inconsapevole aveva tradito i suoi figli: si era imbarcata nella nuova avventura per il loro benessere e invece li aveva attratti nella tana della belva affamata. Perché prendersela con loro? Cosa c’entravano con i loschi affari di un gruppo di manigoldi? Si rese conto che questi erano i pensieri di una mamma e che altre erano le argomentazioni che potevano far vibrare le corde emotive di un’organizzazione criminale. “Noi non rappresentiamo un pericolo per lei” cercò di rassicurarla l’ispettore. “In caso di necessità, invece, potrà contare su di noi a occhi chiusi. Se ci aiuta, sapremo sdebitarci, i mezzi non ci mancano.” “Mi chiede di crederle sulla parola, ma non so chi sia lei e quale ente rappresenti.” “Le ho detto tutto quello che era possibile, per il momento.” “Cosa dovrei fare, con precisione?” “Per il momento, nulla. Aspetti. Dovranno per forza fare loro il primo o.” “Come possiamo tenerci in contatto?” “Mi farò vivo io, in qualche modo. Non la chiamerò al telefono perché di certo i suoi apparecchi sono sotto controllo. Se si verifica qualche urgenza, mi telefoni pure, ma sempre da un posto pubblico. Non dica chi è, né con chi vuole parlare: questo numero lo può usare solo lei e può cercare solo me.” Le allungò un biglietto con un numero che a Silvana parve lunghissimo.
“Lo divida in due e segni le parti in posti diversi, poi distrugga questo biglietto.” Lei annuì e intascò il foglio. Con una familiarità inaspettata, lui le pose una mano sulla spalla e le disse: “A presto”. Si alzò e si allontanò a o lento, senza mai voltarsi, come aveva fatto la prima volta. Sulla strada del ritorno, occhi puntati sul selciato, Silvana si sentiva oppressa da un peso enorme, che le gravava sulle spalle e sull’anima. Aveva la bocca secca e un senso di vuoto nella testa. Si sentiva prigioniera di qualcosa più grande di lei e non sapeva come comportarsi. Avvertì un martellamento alle tempie e come un suono di campane che ebbe l’effetto di scuoterla. Si rese conto che il suono era reale e proveniva dal campanile della Chiesa del Cristo, a pochi i da lei, una delle più antiche della città, sul cui altare era situato un Crocifisso in legno di pregevole fattura proveniente da Alessandria d’Egitto e destinato a Venezia. La nave che lo trasportava aveva fatto sosta a Brindisi in attesa che il mare si calmasse e la statua era stata provvisoriamente sistemata dietro l’altare. Ma non era stato più possibile rimuoverla, così raccontavano i vecchi. A Venezia era stato portato soltanto l’indice della mano destra, spezzatosi durante uno dei tentativi di rimozione. Silvana raggiunse l’ingresso e lo varcò. Il tempio era vuoto. Decise di inginocchiarsi di fronte al grande Crocifisso e si ritrovò a pregare, cosa che non faceva da tanto tempo. Implorò aiuto per i propri figli, ripromettendosi di non tenere tutta per sé quella storia dall’apparenza inverosimile e di confidarsi con qualcuno, magari con i suoceri, per liberarsi e sorreggersi. Sentì un groppo alla gola e alzò lo sguardo verso il volto di Cristo che lentamente sembrò trasformarsi e assumere colori indescrivibili mentre i lineamenti si alteravano acquistando le sembianze di Vanuccio. Quasi certamente quella sorta di trasfigurazione era dovuta soltanto all’annebbiamento della vista provocato dalle lacrime liberatorie che avevano preso a sgorgare dai suoi occhi. Tuttavia l’idea di potersi confidare con Vanuccio non era da scartare, pensò, perché sentiva che di lui poteva fidarsi. Avrebbe riflettuto sul da farsi, concluse. Alcuni giorni dopo, Silvana si recò da Vanuccio, su richiesta di quest’ultimo, per concordare il tipo e la colorazione del vetro da utilizzare per la copertura della cupola. I lavori di consolidamento della torre erano già cominciati ed era stata creata un’impalcatura che ne consentiva l’accesso alla sommità. Silvana non seppe resistere alla tentazione di salirvi per osservare il panorama che avrebbe visto dal suo futuro ufficio.
Lo spettacolo che si presentò ai suoi occhi le tolse il fiato. Il sole rossastro si inabissava all’orizzonte lentamente, sembrava volesse ritardare il più possibile l’uscita di scena da quel paesaggio che forse gli spiaceva abbandonare, sia pure momentaneamente. Un paesaggio veramente bello. Non c’era soltanto macchia mediterranea, ma anche monumentali ulivi, frutteti, appezzamenti seminativi ed estesi vigneti segnati dalle geometrie dei muretti a secco, dai coni fiabeschi dei trulli e dalle altrettanto suggestive casedde. Gigantesche querce fragno, dalle foglie seghettate e ghiande enormi, garantivano generosi coni d’ombra al terreno infuocato. In lontananza era visibile la scarpata della Selva, la cui forte pendenza era resa ancora più misteriosa da un bosco impenetrabile. Silvana provò una forte emozione, si sentì come sciogliere dentro e provò il desiderio di rifugiarsi fra le braccia di Vanuccio, per gridargli la sua gioia e chiedere le sue tenerezze. Dal fondo del petto, quasi alla bocca dello stomaco, sentì salire un senso di calore, una piacevole sensazione di euforia. Un desiderio tanto forte che la impaurì, spingendola lontana da lui, nella parte opposta dove c’era la scala, che imboccò con decisione per ridiscendere. Vanuccio, che doveva aver intuito la causa di quello smarrimento, la seguì in silenzio. Poco dopo si ritrovarono nel suo studio e cominciò a illustrarle le caratteristiche dei vari campioni di vetro che si era procurato, evidenziando la loro risposta alle diverse condizioni climatiche. Cercava di essere chiaro, evitando l’uso della terminologia specialistica. Ma Silvana non lo seguiva, il suo pensiero restava concentrato sull’emozione appena provata e sulla reazione avuta e che continuava a considerare giusta. Era attratta da Vanuccio, dal suo fascino e dalla sua personalità, stava bene in sua compagnia e sentiva che l’unica persona che avrebbe coinvolto nella sua strana vicenda era proprio lui. Ma non riusciva a dimenticare che era un amico di Locascio e che lavorava per la MGR. È vero che l’ispettore aveva escluso responsabilità della filiale italiana e delle persone che in essa lavoravano, ma lei doveva essere cauta, diffidare di tutti e pensare esclusivamente ai propri figli. Sì, per il momento doveva continuare a considerarlo un estraneo. “Allora, cosa ne pensi?” La domanda diretta la costrinse ad abbandonare i suoi pensieri e ritornare alla realtà della cupola e della sua copertura.
“Non so cosa dire, Vanuccio. Non sono una specialista di materiali e non saprei come aiutarti. Decidi tu. Potrò esserti utile quando parleremo di arredamento. Scusami.” “Va bene, deciderò io. Però…” “Però?” “Vorrei che questa sera tu rimanessi qui. Ho bisogno di parlarti di una cosa importante.” La richiesta la colse alla sprovvista, costringendola a nascondere la sorpresa dietro una risposta gelida e secca. “No, non posso.” “Perché?” “Ho gente a cena” mentì. “Ma io ho proprio bisogno di parlarti.” “Sarà per un’altra volta.” “Quando?” Silvana pensò che non sarebbe stato razionale chiudere tutte le porte e prese tempo. “Ho promesso ai ragazzi di portarli qui a fine mese, un sabato, e il giorno dopo a Egnazia.” “Potrei aggregarmi e farvi da guida. Se poi vuoi far vedere la torre, beh, sono parte in causa.” “Mi sembra una buona idea.”
Il lunedì mattina Silvana trovò una convocazione di Locascio. L’aspettava nel suo ufficio. Sembrava eccitato e un po’ teso. Fu stranamente sintetico, ma molto
chiaro, nell’esporre la situazione. “Abbiamo ricevuto da una banca araba la richiesta di presentare un’offerta per una serie di servizi. Siamo in concorrenza con una società se e la consociata locale di una multinazionale tedesca” disse tutto d’un fiato. “È una concorrenza che non ci preoccupa, ma per essere più sicuri abbiamo pensato di integrare nell’offerta anche una versione di RhSoft adattata al mercato arabo. La sua inclusione sarebbe un valore aggiunto notevole per l’acquisizione del contratto. Basterebbero delle modifiche” aggiunse, dando la netta sensazione che avesse ancora qualcosa da dire. “Ti ascolto” lo incoraggiò lei. “Ladisa vuole che le modifiche siano concordate con la direzione di Parigi, anche se il potenziale cliente rientra nella nostra area di competenza” proseguì Locascio. “Forse ha in mente qualche particolare utilizzo di RhSoft e vuole che ogni modifica sia coerente con il suo disegno.” La guardò come se si aspettasse una reazione alla notizia, in particolare all’ultima frase. Silvana rimase imibile e lui continuò: “Questo significa che dovrai incontrarti con Lamartine per definire modifiche e tempi di realizzazione. E bisogna farlo anche in fretta, domani stesso, perché l’offerta alla banca araba deve essere presentata entro la fine della settimana.” Silvana continuò a mantenere il suo atteggiamento imperturbabile, come se le avessero detto la cosa più ovvia del mondo. Locascio fu anche sfiorato dal dubbio che non avesse capito del tutto il senso dell’informazione che le aveva dato, ma si limitò ad aggiungere: “Non possiamo sbagliare perché è il nostro primo intervento su quel mercato e dobbiamo conquistare il contratto.” Scandì bene quelle ultime parole. “L’ufficio viaggi è stato già attivato per la prenotazione del volo e dell’albergo.”
Il giorno seguente, in tarda mattinata, Silvana era nell’ufficio di Lamartine, affaticata da un viaggio lungo e pesante soprattutto nella tratta in taxi dall’aeroporto alla sede della MGR. L’accoglienza di Lamartine fu impacciata più che fredda e questo la mise in agitazione. Il capo dell’area europea, e suo responsabile funzionale, ripeté le stesse cose già
dette da Locascio, aggiungendo che le modifiche che Ladisa voleva apportare al prodotto richiedevano molto lavoro. Si trattava di specificare le nuove funzionalità richieste, valutarne la fattibilità e stimarne i tempi di realizzazione. Silvana si concentrò su questi obiettivi per il resto della giornata, lavorando a contatto di gomito con Lamartine e con un senso di all’erta che la spingeva a ricercare indizi che le fero capire il senso vero di quella richiesta, che le sembrava chiara ma allo stesso tempo indefinita. Fu una giornata dura, tirata, senza pause. Silvana approfittò dell’unica interruzione che si concesse Lamartine per telefonare a Filippo e proporgli di vedersi la sera. Proposta che fu accolta con grande calore dal suo amico, contento di rivederla e di avere un pretesto per evitare un noioso ricevimento al quale era stato invitato. A fine giornata, Silvana declinò l’invito per un aperitivo e rifiutò persino l’auto aziendale per il rientro in albergo. “Preferisco camminare un po’” fu la sua spiegazione. Qualche minuto dopo, Silvana telefonò da un posto pubblico. Fece il numero che le aveva dato il misterioso agente, con un prefisso di cui non immaginava nemmeno l’esistenza. Rispose una voce roca, senza inflessioni. “Pronto.” “Vorrei parlargli” disse lei, senza fare nomi, come le era stato chiesto. “In questo momento non c’è.” “Ho bisogno di vederlo.” “Domani?” “No, sono fuori. Fra qualche giorno.” “Riferirò.” Click, fine della telefonata con un posto che poteva essere ovunque e che, ne era convinta, risultava sconosciuto persino alla società telefonica
La cena con Filippo fu serena e giocosa, come tutti i momenti d’incontro fra i due. Silvana riuscì a liberarsi di tutte le tossine emotive accumulate negli ultimi giorni e forse fu proprio questo riconquistato benessere a spingerla a una confessione che sorprese lei stessa. “Credo di essere innamorata di Vanuccio” disse all’improvviso, rendendosi conto che quell’ammissione non l’aveva fatta nemmeno a se stessa. Filippo accusò il colpo, ma le sorrise ugualmente. Versò del vino nei bicchieri di entrambi e, con una gioia forse anche eccessiva, disse: “Dobbiamo brindare, è una bella notizia. Dai, raccontami tutto.” Un invito a nozze per Silvana, che avvertiva il bisogno di liberarsi del grumo di sentimenti ed emozioni che, giorno dopo giorno, cresceva dentro di sé. Gli raccontò tutto, con ingenuità e trasparenza disarmanti, compreso particolari semplici e banali, del tutto ininfluenti. Volle essere sincera con lui. E lo fu, tranne che sulla MGR, sui quali sviluppi si autocensurò. Lo fece per il timore di offuscare l’immagine di Vanuccio, anche se lei sentiva, anzi ne era certa, che non aveva nulla da spartire con quella brutta storia. Lui l’ascoltò con molta partecipazione, da vero amico qual era. Le disse che meritava di essere felice, augurandole che fosse l’uomo che lei riteneva di avere conosciuto. A questo proposito, le rivolse un consiglio, più fraterno che amicale: darsi un po’ di tempo, un attimo di riflessione, prima di spiccare il volo. Non voleva interferire o condizionarla, solo invitarla a decidere con calma. Affettuoso e commosso fu l’abbraccio con cui Silvana lo salutò a fine serata per esprimergli la propria riconoscenza. Un abbraccio che confermava la solidità della loro amicizia. Il giorno seguente Silvana riprese il lavoro di analisi con Lamartine, che non aveva un’aria riposata. “Ho ato tutta la notte a pensare alla modifica che dobbiamo apportare al prodotto e mi sono fatto un’idea su come impostarla, ma non su come realizzarla in pratica perché conosco solo relativamente RhSoft.” “Sentiamo” disse lei, con un malcontenuto risentimento nella voce per quel lavoro fatto senza di lei, perché era certa che Lamartine avesse individuato la strada giusta da percorrere, date le sue notevoli capacità tecniche.
“Secondo me, la modifica comporta due interventi” proseguì il suo responsabile funzionale. “Il primo è di tipo procedurale e comporta la realizzazione di una nuova routine.” “Che dovrebbe fare cosa?” chiese lei. “Deve consentire di individuare una transazione rispondente a determinate caratteristiche e ripeterla modificando l’indirizzo di partenza, l’importo e l’indirizzo di destinazione.” “Uhm.” “Le nuove transazioni devono essere effettuate con le stesse modalità e gli stessi controlli di quella originaria.” “Capisco” disse lei con un filo di voce e le sopracciglia aggrottate. “E il secondo intervento?” “Questo è più complesso. La nuova routine deve essere generata e attivata al verificarsi di condizioni predeterminate e, dopo la sua esecuzione, deve essere disattivata ripristinando le condizioni di partenza.” “Cioè non deve lasciare traccia alcuna del fatto di essere stata generata ed eseguita” commentò Silvana, certa di aver centrato il nocciolo della questione. “Esatto” confermò lui. “Proprio così.” “Uhm” mugugnò ancora lei. “C’è ancora una cosa, che è l’aspetto più cruciale della modifica: la generazione, l’esecuzione, la disattivazione e la cancellazione della procedura devono essere decise a distanza, a discrezione di un unico gestore abilitato a gestire il processo. Il prodotto consegnato al cliente non deve contenere traccia della procedura né prima né dopo il suo utilizzo.” “Ah” fu il laconico commento di Silvana. “Ma a cosa serve una procedura di questo tipo, in ambiente bancario?” chiese la donna, con la consapevolezza di chi formula un quesito impertinente. “Non lo so” rispose gelido Lamartine. “Non sono abituato a porre domande che
non siano funzionali al mio lavoro, cerco di concentrarmi su quello che mi viene chiesto, per farlo nel modo migliore.” “Capisco” fu il commento rassegnato della donna. Sapeva benissimo che Lamartine non aveva un semplice ruolo esecutivo ma una fondamentale responsabilità decisionale e che la sua reticenza era un modo indiretto per dirle di non fare troppe domande. Continuarono a lavorare. L’esplorazione delle alternative possibili si concluse con l’individuazione di un modo di procedere che avrebbe consentito di contenere al massimo i tempi di implementazione della modifica. Silvana si dichiarò disponibile a seguire in prima persona le fasi di progettazione e sviluppo della procedura, suggerendo il coinvolgimento di Locascio nella fase di sperimentazione, ma la sua proposta fu drasticamente bocciata da Lamartine, il quale sottolineò che quel progetto rientrava sotto la competenza di Parigi e che la consociata italiana non doveva essere coinvolta in nessun modo. Lei, Silvana, avrebbe avuto la responsabilità tecnica della modifica, ma doveva riportare direttamente a lui, Lamartine. Per quanto concerneva Locascio, aggiunse, sarebbe stato sollecitato da lui o dallo stesso Ladisa a mettere in primo piano gli interessi della società e far prevalere il gioco di squadra sui diritti gerarchici. Silvana abbozzò e, con la mente rivolta ai suoi figli, si dichiarò pronta a procedere secondo le direttive di Lamartine. A fine giornata si salutarono, senza che Lamartine le rivolgesse una qualche attenzione particolare. Appena fu solo, l’uomo si precipitò a chiamare Ladisa sulla linea riservata. “Ciao Nicola.” “Oh, Pierre, come è andata?” “Abbiamo individuato un modo per procedere che ci consentirà di realizzare in tempi contenuti ciò che ti aspetti” rispose senza enfasi Lamartine. “Però?” incalzò Ladisa, per fargli capire che aveva intuito una qualche remora da parte del responsabile delle operazioni europee.
“Non so come spiegarti… avverto delle resistenze da parte della signora… è disponibile, collaborativa… ma guardinga: fa troppe domande, si concentra più sul perché che sul come. Dà l’impressione di avere delle riserve mentali su quello che sta facendo.” “Capisco. Il suo telefono è sotto controllo?” “Sì.” “Mi raccomando con le intercettazioni, non voglio noie. Stalle alle costole, non voglio sorprese.” “Farò del mio meglio, ti terrò informato.”
5
Interagire con Lamartine e non con Locascio consentì a Silvana di godere di una maggiore libertà di manovra. Decise di effettuare a casa gran parte del lavoro di sviluppo delle modifiche richieste, per risparmiarsi i trasferimenti quotidiani. Questa scelta le consentì, fra l’altro, di dedicare parte del tempo alle ricerche che aveva promesso alla signora Grant. Una mattina si recò alla sede dell’Autorità portuale, ma la visita si rivelò infruttuosa perché l’ente non conservava traccia delle attività agonistiche dei suoi dipendenti. Inutile fu anche la sosta agli uffici comunali, dove scoprì che non erano disponibili i dati antecedenti la meccanizzazione dei servizi anagrafici, per consultare i quali le fu suggerito di rivolgersi a un distaccamento del comune in cui venivano gestite le cartoteche manuali. Alla responsabile dell’ufficio, una giovane donna ossuta e occhialuta, poco incline al sorriso e con gli occhi verdi e freddi come un ghiacciolo alla menta, espose il caso dei due fratelli separatisi subito dopo la prima guerra mondiale e del desiderio della figlia di uno dei due, espatriato in America, di mettersi in contatto con i discendenti del fratello rimasto a Brindisi. La ragazza ascoltò attentamente, ma spiegò che non poteva effettuare alcuna ricerca perché la persona richiedente non era parente dei soggetti interessati e non le avevano rilasciato alcuna delega scritta che l’autorizzasse a cercare quei dati che la legge opportunamente proteggeva. Profondamente delusa per l’insuccesso del suo tentativo, Silvana decise di utilizzare le rimanenti ore della mattinata per una eggiata disintossicante fra le stradine del centro storico, massacrato dai bombardamenti durante l’ultima guerra poiché la città era stata la sede del comando alleato per il basso Adriatico. Ma poi si era ripresa, confermando la sua natura di città forte, forse perché fondata da un figlio di Ercole. Si era ripresa come altre volte aveva superato carestie, epidemie e terremoti. Tutta la sua vita, del resto, era stato un alternarsi di periodi fastosi e periodi di decadenza determinati, gli uni e gli altri, dall’importanza altalenante del suo porto.
Gironzolò con piacere in piazza Duomo dove, oltre alla Cattedrale e al Palazzo Vescovile, c’era il Palazzo del Seminario che l’aveva sempre affascinata perché sulla balconata del secondo piano c’erano otto statue in pietra raffiguranti la matematica, l’etica, la teologia, la filosofia, la giurisprudenza, la poetica, l’oratoria e l’armonia. Si era sempre chiesta perché le avessero disposte in quell’ordine, ma non era mai riuscita a darsi una risposta. All’ora di pranzo raggiunse una famosa paninoteca per un veloce spuntino, con una fetta di puddica, una focaccia con pomodori, acciughe e olive, e un bicchiere di Verdeca. Con sua grande sorpresa, vide seduta a un tavolino la ragazza del distaccamento comunale che aveva incontrato un paio d’ore prima. Era sola. Fece appello a tutta la faccia tosta di cui disponeva, non molta per la verità, la raggiunse e le chiese se poteva sedersi allo stesso tavolo. La ragazza le sorrise e acconsentì, forse contenta che qualcuno le rivolgesse la parola al di fuori dell’ufficio. Parlarono per un po’ del più e del meno, poi Silvana riportò il discorso sull’argomento che le stava a cuore, con molta cautela, facendo attenzione a non suscitare la permalosità della ragazza. Sottolineò il suo disinteresse e la voglia di aiutare due famiglie separate dall’emigrazione a riunirsi, sia pure attraverso i discendenti. Specificò che questo era stato il grande desiderio di un uomo che aveva dedicato la vita al benessere dei propri cari e che era morto senza poter riabbracciare suo fratello. Sarebbe stato bello poterglielo consentire attraverso i figli oppure i nipoti. La ragazza l’ascoltò con la stessa attenzione manifestata in ufficio, ma con uno sguardo che a lei parve meno freddo, e dopo qualche attimo di silenzio, disse che forse aveva trovato il modo per aggirare la burocrazia, pur rimanendo all’interno della legalità Mezz’ora dopo, Silvana aveva in mano un foglietto su cui era scarabocchiato un reticolo di nomi e date, dal quale si evinceva che del fratello rimasto a Brindisi risultava in vita una nuora. Del figlio di quest’ultima, Vito, era indicato anche l’indirizzo. Felice per la bella notizia, Silvana si precipitò a sfogliare l’elenco telefonico dove trovò il numero dell’uomo, che chiamò senza perdere tempo. Rispose una voce gutturale che si fece sempre più diffidente man mano che lei spiegava il motivo della chiamata. Alla fine, l’uomo acconsentì a incontrarla.
Non abitava lontano e, meno di un’ora dopo, Silvana suonava alla sua porta. Le aprì un signore distinto, gentile, sulla quarantina, cui bastò una semplice occhiata alla sua visitatrice per far scattare un senso di colpa per la diffidenza manifestata nel corso della telefonata. “Mi scusi se sono stato brusco, cerchi di capirmi: una sconosciuta entra nella vita della mia famiglia, in vicende così lontane nel tempo… non ero preparato” si giustificò l’uomo. “Capisco la sua reazione” lo tranquillizzò Silvana, sintetizzandogli la storia, già raccontata al telefono, del laborioso e nostalgico emigrante che investe tutte le sue energie nella costruzione del benessere della sua famiglia e nella ricerca del fratello rimasto in Italia, del quale si erano perse le tracce. “Il mio unico obiettivo è cercare di creare un contatto fra i discendenti dei due fratelli, dopodiché uscirò dalla vita delle due famiglie” aggiunse con il tono più rassicurante che riuscì a confezionare. Vito l’ascoltò con lo sguardo fisso sul pavimento, come se questo potesse aiutarlo a concentrarsi. Quando risollevò la testa, i suoi occhi tradirono un senso di delusione, quasi di scoramento. Con malcelata impazienza, estrasse dalla tasca un foglietto ripiegato e glielo porse. “L’ho ripescato fra le carte di famiglia, dopo la sua telefonata. L’avevamo ricostruito alcuni anni fa, per una questione di eredità. Ricordavo di averlo… eccolo.” Era l’albero genealogico della famiglia, con nomi, cognomi e date. Arricchì la completezza dello schizzo con descrizioni e dettagli. Lui era il nipote del fratello dell’emigrato, quello rimasto in Italia. “Non si è mai mosso da Brindisi” precisò. La madre, anziana ma ancora molto lucida e con un’invidiabile memoria, lo aveva sostenuto più volte e, a differenza di quanto affermato da Silvana, era stato lui a cercare di rintracciare il fratello emigrato, ma senza successo. Le ricerche erano state ripetute più volte anche su sollecitazione di una ragazza di Fasano che con l’emigrato aveva avuto una relazione e che aveva scoperto di essere incinta quando di quest’ultimo si erano perse le tracce. La ragazza era sempre rimasta in attesa del padre della sua bambina e non aveva mai voluto prendere
marito. Era morta di leucemia poco prima che la figlia si sposasse e mettesse al mondo Silvano, un bel maschietto di quattro chili, rimasto ben presto orfano di entrambi i genitori per uno di quegli assurdi accanimenti del destino. Silvana, ascoltò, annotò e pensò che sarebbe stato problematico comunicare alla vecchia signora Grant quanto aveva appreso: come poteva compromettere, o addirittura distruggere, l’immagine di padre ideale, senza ombre e riserve, che lei e i suoi fratelli avevano del genitore scomparso? Al contrario, come poteva permettersi di nascondere dei fatti di cui era venuta a conoscenza e che aveva cercato su esplicita richiesta della signora? Decise che avrebbe raccontato tutto, con il distacco del cronista, pensando che i fatti da lei ricostruiti con quella ricerca potessero anche essere interpretati in modo diverso dalla crudezza con la quale erano apparsi a lei. Sì, doveva raccontare tutto, perché così si era impegnata a fare. E lei era solita mantenere fede agli impegni assunti. Nei due giorni successivi tornò spesso a Fasano per alcune riunioni sindacali che richiedevano la sua presenza. Il venerdì sera, al rientro dal lavoro, trovò nella cassetta della posta una busta, indirizzata “Alla signora Silvani”. Ne indovinò il contenuto e il mittente ancor prima di aprirla. Era dell’ispettore, che le fissava un appuntamento per il giorno successivo in un bar della città. Aveva atteso con ansia quella comunicazione, ma sentiva di non essere contenta di averla ricevuta perché si era impegnata a trascorrere il weekend con i ragazzi, e anche con Vanuccio, e a quell’impegno non intendeva venir meno. Disse ai figli che doveva fare una veloce commissione e uscì per raggiungere una vicina postazione telefonica. “Vorrei parlargli” disse. “Un attimo” rispose la solita voce. Pochi attimi di attesa. “Buonasera.” Era lui. “Domani non posso incontrarla, e nemmeno dopodomani.” “Come mai?”
Silvana masticò male quella domanda così indagatrice, ma si sforzò di rispondere in modo controllato. “Ho promesso di portare i ragazzi domani a Fasano e domenica a Egnazia.” “Allora ci vediamo a Egnazia, alle undici, all’ingresso del museo. Dobbiamo incontrarci questo fine settimana, perché poi sarò assente per diversi giorni.” “Mi organizzerò per esserci.” “A domenica, allora.”
Partirono presto il sabato mattina. Furono i ragazzi a dare la sveglia a Silvana e a caricare le borse in macchina. Erano impazienti di visitare il paese in cui lavorava la mamma e la torre destinata a diventare il suo ufficio. Silvana li informò che il responsabile del restauro della torre si sarebbe unito a loro e la notizia fu accolta dai figli con un’imprevista freddezza, quasi un esplicito rifiuto. L’incontro con l’architetto a Fasano fu molto formale, vissuto con imbarazzo da Silvana. Per fortuna, le cose cambiarono in fretta. Vanuccio fu molto bravo con i ragazzi, interessandoli con aneddoti e credenze legati alla storia della cittadina e dei monumenti che visitarono. Già prima di arrivare al Torrione i ragazzi lo guardavano con molta simpatia, trattandolo con cordialità e amicizia. Ma fu nella torre che il credito nei suoi confronti salì alle stelle perché riuscì a tagliare con maestria le vicende dell’antico torrione, mettendone in risalto gli episodi militari e avventurosi con una capacità narrativa che li incantò, liberando la loro fantasia e rendendoli protagonisti del luogo che stavano visitando. I ragazzi presero a trattare Vanuccio con più familiarità, quasi con affetto e quel clima sereno fu molto gradito a Silvana. Continuarono il viaggio con la macchina di Vanuccio che si pose alla guida. L’architetto sciorinò tutto il suo sapere sulla Selva, sullo Zoo e sulle cose che avrebbero visto, catturando ancora una volta l’attenzione dei ragazzi rimasti spesso a bocca spalancata di fronte alle cose che raccontava. “La Selva è il punto più alto di questa zona, anzi è la terrazza di tutta la provincia di Brindisi” spiegò Vanuccio. “A me piace molto perché ci sono alberi
di ogni tipo che diffondono un odore di resina che riempie i polmoni. E poi ci sono i trulli, il Minareto e lo Zoo Safari.” “Non sapevo che ci fosse anche una chiesa musulmana” disse Silvana. “È una villa residenziale che riproduce una costruzione orientale, con terrazze e un’altissima torre. Pensa, è stata costruita con materiali e manodopera provenienti dall’Africa.” Anche i bambini trovarono buffa la notizia, ma abbandonarono subito quell’argomento. “Ci sono tanti animali allo zoo?” indagò Sabino. “Tantissimi, quasi duemila. Ci sono anche gli unici gorilla presenti in Italia” rispose. “Che bello! Dai, facciamo in fretta” esclamò il ragazzo. C’era tanta eccitazione nella sua voce. “Ci siamo quasi” lo tranquillizzò. “Tu, Silvana, ci sei mai stata?” “Una volta, con Stefano, quando eravamo ancora fidanzati.” Ricordava che lo avevano percorso in lungo e in largo, a bordo della loro vecchia Cinquecento, con i finestrini rigorosamente chiusi, come imponevano le norme di sicurezza. A un certo punto, si erano fermati in una radura dove alcune scimmiette erano intente in un’operazione collettiva di spulciatura, durante la quale ognuna rovistava nel pelo di un’altra. Stefano aveva abbassato il vetro del suo finestrino e, allungando il braccio, aveva depositato sul cofano un bel mucchietto di arachidi. Ancor prima che richiudesse il finestrino, si era scatenato il finimondo. L’auto era stata assalita da un branco di scimmie provenienti da chissà dove, che si contendevano le ambite spagnolette. La scena, molto coinvolgente perché consentiva di vedere da vicino i vispi animaletti, era poi degenerata non appena spolverato il monticello di arachidi. Le scimmie, stizzite, si erano abbandonate a scene di isterismo, picchiando i pugnetti sul parabrezza e sul cofano, strappando con estrema facilità le spazzole tergicristallo. Qualcuna si era addirittura accanita col tettuccio apribile, cercando di strapparlo. Quando erano usciti dal parco, il custode, che si era reso conto dell’accaduto, aveva rivolto loro un sorriso ironico, indicando con un leggero movimento del capo la
base della guardiola, dove tergicristalli, cerchi dei fanali, antenne, borchie e mascherine erano ammucchiati in un’involontaria opera d’arte che assumeva il significato di un monito a sostegno del messaggio di un cartello che invitava i visitatori a non dare cibo agli animali, sottolineando i rischi connessi all’azione. “Potevate mangiarle voi le spagnolette” aveva commentato il guardiano con un sorrisino beffardo che chissà quante altre volte aveva rivolto a malcapitati automobilisti. I ragazzi risero a questo ricordo della mamma, Sabino quasi a crepapelle. “Ci sono stati anche incidenti più seri, per la sprovvedutezza dei visitatori” ammonì Vanuccio, anticipando i consigli che aveva già in animo di dare prima dell’ingresso allo zoo. “Come fai a conoscere così bene questi posti?” chiese Letizia. “Io sono nato a Fasano, e ho ato molto tempo nella casa della mia nonna, che aveva un piccolo cortile.” Dopo la pioggia, disse, il cortile diventava ancora più angusto e soffocante, ospitava solo pozzanghere e sudava fango. Invece di lavarlo, l’acqua lo faceva puzzare di più. Si abbandonò ai ricordi e raccontò delle serate d’autunno ate intorno al braciere sul quale, in una vecchia teglia bucherellata, scoppiettavano le castagne. La nonna aveva la faccia raggrinzita come una noce di Sorrento, dal guscio brutto ma buona dentro. Gli preparava un decotto di malva e, mentre sferruzzava i suoi lavori a maglia, la faccia le prendeva fuoco dal caldo. Gli dava sempre dei consigli come quello di non dormire mai con la testa sull’erba perché, diceva, “ci sono le zecche e se una ti entra nell’orecchio fa il nido e bisogna andare dal medico per farsela togliere col bisturi”. “Le chiedevo sempre di raccontarmi una storia e lei mi parlava del vecchio contadino che d’inverno faceva sdraiare le capre sul letto per farselo riscaldare oppure dei maestri trullari che accettavano di costruire un trullo solo se convenivano che il posto fosse adatto. Spesso le sue storie riguardavano i ʻgemelliʼ, due ulivi secolari identici che erano già vecchi prima che nascessero i nonni dei più anziani del paese.” I ragazzini lo ascoltavano in religioso silenzio.
“Queste terre le ho percorse in lungo e in largo” continuò “e ho imparato ad amarle. Le ho viste crescere con me.” “In che senso?” “Le ho viste cambiare, rimanendo sempre se stesse. Per esempio, oggi non c’è la povertà di un tempo, ma le persone sono rimaste quelle di una volta, semplici, ospitali, portate all’amicizia.” “Eravate poveri?” “Sì. I contadini erano talmente poveri che i vecchi del paese dicevano: ʻSe un contadino mangia una gallina, o è malata la gallina o è malato il contadinoʼ.” “Allora non mangiavate mai il pollo?” “Sì, ma era meglio lasciare vive le galline, perché facevano le uova tutti i giorni. E nella settimana santa ne facevano di più, sapendo che servivano a essere cucinate sode per decorare le scarcelle. Uova tricolori: bianche oppure rosse, se cotte in acqua con cipolla rossa o rali, oppure verdi, se nell’acqua si mettevano spinaci o cicoria selvatica.” Letizia e Sabino sorrisero a quella descrizione, contenti di aver appreso un segreto che forse molti compagni di scuola non conoscevano. “I più poveri erano i braccianti” continuò Vanuccio. Spiegò che ricevevano dal massaro, ogni giorno, un filone di pan rozzo, un pane nerastro e schiacciato, di cui consumavano una parte a metà mattinata, da solo, e l’altra la sera, in una scodella di legno nella quale il fattore versava dell’acqua calda appena salata e qualche goccia olio. “Questa era la loro zuppa” specificò “ma molti il pane non lo consumavano tutto, lasciandone un pezzo per la famiglia.” “I bambini avevano i giocattoli?” si preoccupò Sabino. “Pochi, ma si giocava lo stesso, con la fantasia e la voglia di stare insieme.” “Mi racconti il gioco più strano che facevi?”
“Un atempo crudele consisteva nel costruire delle bombe-rospo. Dagli stagni catturavamo alcuni di questi animaletti sgraziati ma anche disgraziati, almeno quelli che capitavano nelle nostre mani. Gli infilavamo in bocca una specie di sigaro fatto con le foglie secche del granoturco e loro respiravano il fumo. In mancanza di ossigeno, continuavano a respirare sempre più avidamente. E si gonfiavano. Sempre di più. E poi… bum, scoppiavano, andavano in frantumi. E noi ridevamo.” Anche Sabino rise, in un modo che a Silvana parve sgraziato e che la meravigliò. Letizia rimase invece in silenzio e tutto diceva in lei che non aveva apprezzato quel ricordo. Se ne rese conto anche Vanuccio. “Naturalmente, non è vero che scoppiavano, si gonfiavano e si ubriacavano di fumo. Quando li lasciavamo liberi facevano dei salti strani, non per la felicità ma per lo stordimento provocato dal fumo” spiegò. Letizia sorrise a quella spiegazione mentre il fratello emise un “mmh” di delusione. Silvana non riuscì a capire quale delle due versioni fosse vera ma evitò di approfondire l’argomento. Sulla strada che li portava allo Zoo Safari decisero di fermarsi a pranzare in una masseria medievale munita di torri merlate e alte mura di cinta. Una sorta di cittadella fortificata, comprendente un frantoio oleario, un caseificio e un’azienda familiare di trasformazione dei prodotti agricoli. Comprendeva anche una trattoria gestita da una famigliola di tre persone. La donna aveva un seno a dir poco esuberante, che faceva venire in mente le balie friulane che, nel dopoguerra, allattavano per mestiere i figli d’altre donne. Il marito, invece, di grosso aveva il naso, violaceo per i numerosi e frequenti mezzi litri nei quali indulgeva. Dava l’impressione che, a strizzarlo, ci si potesse cavare tanto rosso ma poco sangue. La figlia, una ragazzina bianca e rossa, sembrava impastata di latte e vino, e non poteva essere diversamente. La giornata trascorsa fra Selva e Zoo non tradì le aspettative e la sera, quando si fermarono nell’albergo della piazza centrale, erano tutti spossati. La cena era stata cordiale, serena, disintossicante, ricca di commenti sulle cose che avevano visto. I ragazzi trattavano Vanuccio con una spontaneità che intenerì la mamma. Alla fine, vinti dalla stanchezza, chiesero di poter andare in camera a vedere un po’ di televisione, prima di addormentarsi.
“Non li vedevo così felici da tanto tempo” disse Silvana, quando furono soli. “Sei stato meraviglioso con loro, sei sempre così abile con i ragazzi?” chiese. “Con loro è stato facile perché mi piacciono” rispose lui. “Si sono trovati bene perché anch’io sono stato bene con loro, è stato tutto così naturale. E poi, credo dipenda anche dal motivo per cui sono qua” concluse con voce più flebile. Silvana provò una strana sensazione, qualcosa di simile a un imbarazzo, ma più profondo: desiderava che Vanuccio le parlasse, che la rendesse partecipe del motivo che lo spingeva a essere lì, ma al contempo temeva di sentirsi dire… temeva o sperava? Si sentiva vulnerabile come una quindicenne alle prese con i primi tormenti d’amore e non sapeva come affrontare la situazione. Come si sarebbe comportata se lui… e se, contrariamente alle attese, le avesse detto… Pensieri contrastanti, confusione… ma lei, cosa si aspettava? Cosa voleva? Come se le avesse letto nei pensieri, Vanuccio disse d’un fiato: “Credo di amarti.” − Ecco, l’ha detto! − pensò Silvana, che si sentì sospesa in un vuoto d’estasi, avvolta da una soffice nuvola. Si sentiva leggera come quella nuvola, immersa nei veli infuocati del tramonto che aveva visto dalla torre. − Ecco, l’ho detto − pensò lui. − E ora? Possono queste tre parole trasmetterle l’intreccio delle emozioni, delle fantasie e dei desideri che provo? Sì, certo, l’amore ha bisogno più di sguardi che di parole, ma la mia non è una dichiarazione troppo razionale? Quel “credo” non le toglie forza, non ne riduce l’impatto emotivo? E poi, rischia di essere percepita come la richiesta di conclusione di un accordo… quasi fosse un patto… esige una risposta… che forse lei non sa dare. − L’imbarazzo del momento era palpabile. Silvana prese a strofinare fra le dita un lembo del tovagliolo, mentre Vanuccio con un dito cominciò a giocare con le briciole di pane sulla tovaglia. Fu lui a uscire per primo da quella situazione di disagio. “Avrei voluto dirtelo con altre parole, ma non le ho trovate, ho usato quelle che sono capace di usare, per essere me stesso anche in un momento come questo.” Allungò una mano e la posò su quella di Silvana. Lei non ritrasse la sua. “Avrei voluto dirtelo nei giardini d’Alhambra, a Granada, fra i suoi magnifici
cipressi e i giochi d’acqua delle sue fontane, ma ho scelto la nostra terra, con i ragazzi vicini a noi, per rendere più casalinga la mia dichiarazione. Forse non è molto romantica, ma è sincera, viene dal cuore.” “Vanuccio, io…” “Non mi respingere, ti prego.” “Non ti sto respingendo… ho solo bisogno di tempo… devo capire… non posso sbagliare. Evitiamo di sciupare per fretta qualcosa che può essere importante per entrambi.” “Ciò che rischiamo è di non cogliere un frutto che è già maturo.” “Quando sarà tempo, avverrà spontaneamente, senza che nessuno chieda” rispose lei con un filo di voce e lo sguardo che implorava di non parlare più dell’argomento. Vanuccio andò a dormire a casa sua, in compagnia del ricordo di lei.
Il giorno dopo partirono di buon’ora per Egnazia. I ragazzi erano riposati ed eccitati per la nuova giornata piena di scoperte che li attendeva. Silvana mostrava di non nutrire alcun risentimento per come si era conclusa la serata e Vanuccio non portava segni evidenti del rifiuto ricevuto. Fu molto disponibile con i ragazzi, fornendo loro molte notizie sulle cose che man mano incontravano. Parlò a lungo delle masserie e del ruolo che un tempo avevano avuto, sottolineando che quasi tutte avevano un frantoio scavato nella roccia e una chiesetta interna, con decorazioni, affreschi e reliquie antichissime. Disse che Egnazia era un’antica città messapica, specializzata nella produzione di ceramiche, abbandonata dai suoi abitanti dopo la caduta dell’impero romano a causa delle numerose invasioni da parte dei barbari e dei Saraceni. Era stata proprio la gente che aveva abbandonato Egnazia a fondare il Casale di Santa Maria de Fajano, che poi era diventata Fasano, aggiunse. “Di quella grandiosa città rimangono solo rovine” disse. “Nella necropoli sono stati ritrovati corredi funerari e sono già venuti alla luce resti di abitazioni romane, il foro, l’anfiteatro, fornaci, sacelli e un deposito di cereali con il soffitto a botte. Ma le cose più belle sono ancora sotto due metri di terra. È come un
cofanetto pieno di capolavori, di cui non abbiamo ancora la chiave” ammise con un po’ di tristezza nella voce. “Un nostro obiettivo è il totale restauro del sito archeologico, ricco di tombe, acropoli e parte del lastricato della via Traiana. Ma servono molti soldi” disse guardando Silvana. “La MGR ha promesso di aiutarci. Speriamo.” Parlò del fascino misterioso di quella città sprofondata nelle acque per l’abbassamento della costa provocato da un violento maremoto. “È una località unica, dove i bagnanti per accedere al mare devono calpestare tombe scavate nelle rocce e dove nelle giornate serene, quando l’acqua è trasparente, è possibile vedere biancheggiare le colonne dei templi ricoperte dal mare. Qualcuno sostiene che chi raggiunge Egnazia dal mare il primo agosto può ammirare la città come era nell’antichità. Ma è solo una credenza” precisò. Parlò del Dolmen di Montalbano, una testimonianza funebre dell’Età del Bronzo, del Duemila avanti Cristo, e i ragazzi chiesero di poterlo vedere. “Ci eremo” promise, e aggiunse che in una grotta, ad Aquano, erano stati trovati i resti fossili di una donna incinta vissuta oltre ventiquattromila anni prima. “È stata chiamata Delia.” A Egnazia, Silvana propose la sosta a un bar per dissetarsi. Approfittando della momentanea assenza dei ragazzi, appartatisi in un angolo del locale per vedere da vicino la locandina di un concerto che si sarebbe tenuto il mese successivo a Bari, disse: “Ho bisogno di un favore. Devo vedere una persona in un posto qua vicino. Mi serve non più di mezz’ora, ma vorrei che i ragazzi non sapessero. Ti chiederei di portarli nella zona del porto e di tenerli impegnati fino al mio ritorno. Io dirò che devo fare una commissione.” L’inattesa richiesta di Silvana colse di sorpresa Vanuccio che non nascose il suo stupore ma evitò di fare domande. Alle undici in punto, Silvana raggiunse l’ingresso del museo dove trovò ad attenderla l’uomo che, col suo aggio, aveva lasciato una traccia profonda nella sua vita. “Cosa c’è di nuovo?” le chiese, saltando saluti e convenevoli. “Sono stata convocata a Parigi per discutere di una modifica da apportare a RhSoft. La responsabilità strategica della modifica è stata attribuita a Lamartine,
quella operativa a me.” “A cosa serve la modifica?” “Ad attivare a distanza una procedura che consenta di emulare transazioni reali.” “Cioè frodare qualcuno, sottraendo e trasferendo fondi in modo illegittimo” fu il commento dell’ispettore. “È probabile che l’obiettivo sia questo, ma Lamartine non ha voluto dire nulla sul perché della modifica, sostenendo che lui esegue ordini.” “Un modo come un altro per evitare di rispondere.” “La cosa più preoccupante è che le operazioni fatte con la nuova routine devono essere cancellate alla fine della loro esecuzione, senza lasciare alcuna traccia.” “E questo è tecnicamente possibile?” “Sì, senza problemi.” “Chi effettuerà la modifica?” “Io, ma mi è stato imposto di non parlarne con Locascio, che è il mio responsabile gerarchico e capo della consociata italiana.” “Non mi sorprende, anzi è un’ulteriore conferma che lui e le sue persone sono all’oscuro dei traffici loschi della MGR.” “Come devo comportarmi?” “Non assuma iniziative. Continui a operare secondo le direttive che le impartiscono. Quanto tempo ci vorrà per realizzare la nuova routine?” “Un paio di mesi. Lamartine vuole che io faccia tutto da sola.” “Bene. Continui come se nulla fosse. Mi farò vivo io al momento opportuno.” “D’accordo.” Si salutarono e Silvana si diresse verso la zona del porto antico dove, ad
attenderla, trovò Vanuccio che sfogliava un giornale e i ragazzi attratti dalle operazioni di alcuni pescatori. Trascorsero il resto del pomeriggio a visitare la città sotto la guida dell’uomo che, ancora una volta, confermò di essere un profondo conoscitore della storia e dei costumi di quei posti.
Silvana ò parte del viaggio di ritorno con gli occhi chiusi, simulando una stanchezza che peraltro appariva più che verosimile. Aveva bisogno di mettere un po’ d’ordine nei suoi pensieri e decidere se poteva confidare a Vanuccio i tormenti della sua odissea alla MGR. Era certa di potersi fidare di lui e che non avesse alcun coinvolgimento nelle losche attività dell’azienda, dalla quale veniva utilizzato per le sue competenze professionali, grazie anche all’amicizia con Locascio, anch’egli estraneo all’anima mafiosa della società. Non sapeva in che modo lui potesse aiutarla, ma il fatto stesso di poter parlare delle paure generate in lei da quella brutta storia l’avrebbe fatta sentire meglio, liberandola dal groppo che si era incastrato nella sua gola. Sì, gli avrebbe parlato. All’arrivo a Fasano, mentre i ragazzi caricavano le valigie sull’auto della mamma, convenne con Vanuccio di incontrarsi a pranzo il giorno dopo. Lui la guardò fisso negli occhi, come a volervi trovare il perché di quell’offerta, ma non disse una parola. Era la seconda volta che quel giorno lo sorprendeva ma, a differenza della prima, provò molto piacere. Non poteva essere diversamente visto che da quando l’aveva conosciuta la sua immagine continuava a fargli avanti e indietro nella testa. Si scopriva a sorridere senza un motivo, come un povero scemo. Silvana gli raccontò tutto il giorno dopo, quando si incontrarono. Non omise nulla, gli descrisse la vicenda nei minimi dettagli, compreso lo stato d’animo che le aveva generato e, soprattutto, l’angoscia per ciò che poteva capitare ai suoi figli che, si premurò di chiarire, erano all’oscuro di tutto e tali voleva che restassero. Vanuccio non perse una parola del racconto, ma evitò volutamente qualsiasi coinvolgimento emotivo. Si sforzò di rimanere distaccato, freddo e razionale. Era il suo modo per entrare in una storia ed evidenziarne eventuali punti di debolezza. Si limitò a fare un solo commento, rilevando che il comportamento
dell’agente intergovernativo non era meno immorale di quello del management della MGR coinvolto nella presunta frode. “Preferisco definirla presunta fin quando non verrà accertata la sua reale consistenza” disse. Tuttavia, aggiunse, lei aveva fatto bene a schierarsi con lui che, almeno in via di principio, rappresentava la parte legale. Ma espresse anche un suo dubbio: come si fa a fidarsi della parola di un uomo che non aveva esitato a manifestare tendenze ricattatorie e che, in cambio della sua collaborazione, aveva promesso, ma non garantito, una generica protezione? No, disse, questo rapporto andava rivisto, ridefinito meglio nei suoi ruoli e nelle responsabilità, ma anche nei diritti e doveri. E bisognava farlo subito, prima che fosse troppo tardi. Ma, ammise con umiltà, non sapeva come, voleva pensarci, anzi dovevano pensarci entrambi. La donna si sentì sollevata e si disse che aveva fatto bene a confidarsi con Vanuccio. Percepiva che il suo approccio razionale poteva essere di grande aiuto per trovare una via d’uscita sicura, per sé e per i suoi figli, da quell’intrigo.
6
Silvana si era integrata con facilità nella vita professionale della MGR e in quella sociale della città. Si era sentita ovunque benvoluta, a conferma dello straordinario spirito di accoglienza della comunità pugliese, una delle più ospitali fra quelle italiane. La sua scarsa partecipazione alle iniziative cui veniva invitata, avendo scelto di rientrare tutte le sere a casa dai figli, non aveva intaccato in alcun modo la simpatia che rasentava l’affetto che avvertiva intorno a sé. Si era sentita coccolata anche dalle mogli dei colleghi con alcune delle quali aveva pranzato o preso un aperitivo. Sì, stava proprio bene, grazie anche a Vanuccio che, rivelando buone doti psicologiche, non l’aveva più incalzata sul loro possibile rapporto sentimentale, argomento che lei non intendeva ancora affrontare perché… no, non aveva un perché razionale, ma sentiva di non essere ancora pronta. Il blocco non derivava dal ricordo di Stefano, che era ormai impastato nella sua vita e tale sarebbe sempre rimasto, ma veniva da lei, dalla sua volontà. Anche se l’attrazione che provava per lui cresceva giorno dopo giorno, coinvolgendola sempre più, ma non tanto da indurla a impostare diversamente la sua vita. Le premure che Vanuccio le riservava e gli sguardi sfolgoranti nei quali l’avvolgeva la saziavano di piacere, soddisfacevano il suo bisogno narcisistico di sentirsi al centro delle sue attenzioni, ma non la inducevano a cambiare atteggiamento. − Il mio non è masochismo − si diceva per farsi forza − piuttosto la maniera che ritengo giusta per certificare la saldezza di un sentimento che deve durare nel tempo. − Anche con Stefano si era comportata nello stesso modo: aveva resistito… rallentato… raffreddato, ma poi lui era diventato l’uomo della sua vita, il primo e unico. Con Vanuccio stava facendo la stessa cosa ed era convinta che lui avesse capito questo suo bisogno e l’assecondasse. Gliene era profondamente grata. I loro incontri si erano fatti più frequenti e di certo non erano ati inosservati agli occhi di un paese assetato di argomenti da commentare, ma non se ne curava. Anzi ne era contenta, convinta che l’architetto fosse uno dei figli prediletti della comunità. Al centro dei loro incontri, gli argomenti erano sempre gli stessi: il restauro della torre e la vicenda che la legava, tramite la MGR, all’agente intergovernativo. Era
soprattutto su questa seconda questione che si concentravano le loro attenzioni. L’avevano voltata e rivoltata più volte, senza peraltro riuscire a definire un preciso piano d’azione. Ogni mossa ipotizzata comportava rischi e incertezze di tale rilievo da indurli subito ad accantonarla. L’unica cosa concretamente praticabile sembrava essere l’attesa degli eventi, ma era un’opzione logorante, che costringeva Silvana a sentirsi una fragile barchetta in balia delle onde di un mare arrabbiato. Si sentiva prigioniera, impossibilitata a tirarsi fuori da quella situazione incresciosa e indesiderata senza incappare nelle ritorsioni della MGR o dell’altra parte, che continuava a rimanere nella sua percezione un’entità indistinta, dai contorni sfuocati, senza una precisa identità. Era soprattutto terrorizzata dalle ripercussioni che un suo abbandono della collaborazione con la MGR avrebbero potuto avere sui figli. Per non parlare delle minacce non tanto velate che l’agente le aveva prospettato in caso di rifiuto a collaborare con lui. Vanuccio non aveva cercato di tranquillizzarla con le frasi vuote che di solito sono utilizzate in circostanze simili, ma aveva fatto ricorso alla sua razionalità per esaminare con ponderatezza la situazione e capire cosa potesse riservare il futuro; questo era l’unico modo, secondo lui, per affrontare con lucidità situazioni spiacevoli o comunque difficili. Dalla sua analisi emergevano scenari che era difficile non definire raccapriccianti. In caso di interruzione della collaborazione con la MGR, sosteneva, era probabile che i responsabili della società avrebbero fatto ricorso a rivalse legali impugnando qualche clausola del contratto da lei sottoscritto oppure avrebbero fatto ricorso a misure più spicce. Nel caso in cui avessero appurato la sua collusione con l’ispettore, era logico attendersi una reazione ancora più violenta. Sul versante opposto, aveva proseguito l’architetto, nel caso di un rifiuto a collaborare con l’ente intergovernativo, lei doveva attendersi un suo diretto coinvolgimento nella vicenda, sarebbe finita in un’aula di tribunale e il peso delle sue responsabilità sarebbe stato determinato su base discrezionale, come aveva sostenuto l’agente. Non c’era di che stare allegri. Da questa sua analisi, Vanuccio fece derivare una conclusione non meno indigesta: Silvana doveva prepararsi al peggio e pensare a rimedi estremi. Doveva innanzitutto rivedere il suo rapporto con l’agente, assumendo una
posizione più rigida tesa alla difesa dei suoi interessi così come stipulati nel contratto sottoscritto con la MGR, pretendendo un riconoscimento finanziario per la sua collaborazione e il sostegno per un eventuale rifugio all’estero, per tutta la famiglia, al riparo da possibili rappresaglie da parte della società. L’analisi e le conclusioni dell’uomo convinsero Silvana, che decise di assumere un atteggiamento meno accondiscendente nei confronti dell’agente e di rivendicare maggiori garanzie a tutela dei propri diritti. Certo, rimanevano da definire numerosi dettagli su come muoversi anche nel caso di accoglimento delle richieste che avrebbe formulato. E, ancora una volta, sorprese Vanuccio proponendogli di are insieme un fine settimana, per esaminare a fondo e con calma la situazione. I suoi suoceri avevano deciso di portare i ragazzi al delfinario di Fasano e quella poteva essere l’occasione giusta. Gli propose anche il luogo: Erchie, che ricordava, per averla visitata alcuni anni prima, come una bella località della costa amalfitana, in provincia di Salerno. L’uomo era fuori di sé per la gioia, che cercò di camuffare con una spiritosaggine. “Con una sistemazione in camere separate, va da sé” disse. “Naturalmente” rispose lei, con tono secco. Le sorprese della giornata non erano però finite, perché Silvana trovò nella cassetta della posta una nuova missiva con la quale l’agente le chiedeva un incontro il prima possibile. Non avrebbe potuto desiderare di meglio e si precipitò a telefonargli. L’agente propose di incontrarsi il giorno dopo, alle dieci, davanti alla chiesa di Sant’Anna. La conosceva, una chiesetta anonima, in muratura semplice, in una stradina laterale del centro storico. Un tempo, così raccontavano i vecchi, vi si recavano le donne quaranta giorni dopo il parto, in particolare quelle che temevano di perdere il latte. “Ci sarò” disse e riagganciò. Dalla stessa postazione richiamò Vanuccio e con lui concordò l’atteggiamento da tenere. La chiamata era stata provvidenziale, perché nel frattempo lui aveva messo a punto un’ipotesi di richiesta da formulare all’ispettore che le avrebbe illustrato durante il weekend e che le anticipò telefonicamente.
L’indomani, Silvana arrivò all’appuntamento in orario, come era sua abitudine. Lui era già lì, ad aspettarla. “Buongiorno, signora Silvani.” “Buongiorno” rispose lei. “Mi è sembrato di capire che avesse urgenza di vedermi. Cosa succede?” chiese. “Intorno alla MGR stanno succedendo diverse cose e volevamo sapere a che punto è il progetto che la vede coinvolta.” “Abbiamo concluso i test, con esito positivo, e sto ultimando la documentazione, dopodiché si può partire.” “Partire per che cosa?” “E che ne so, io! Per fare ciò per cui è stata realizzata la nuova routine, immagino. Ma ne so meno di lei. Spero di saperne di più mercoledì: sono stata convocata a Parigi per una riunione.” “Chi ci sarà?” “Ci saranno Ladisa, Nicosia, Solonik, Lamartine e la sottoscritta. Non so se ci saranno anche altre persone. Di sicuro non verrà Locascio, che continua a rimanere fuori dal progetto.” “È importante che ci si veda subito dopo.” “Perché io l’aggiorni su ciò che è stato deciso e, magari, le consegni la documentazione del progetto.” “Direi di sì, mi sembra chiaro.” “Vorrei che le cose fossero chiare anche per me, sono stufa di brancolare nel buio” sbottò lei con veemenza. “Come posso contribuire a chiarirle la situazione?” chiese lui, sorpreso da quell’inattesa esplosione. “Prima di tutto mi deve dire, una volta per tutte, chi è lei e chi rappresenta.”
L’ispettore spostò il peso da una gamba all’altra e si assestò nervosamente la giacca. Poi, con gesto stizzoso, trasse dalla tasca un tesserino e lo porse a Silvana. “Ecco chi sono” disse con tono secco, un po’ risentito. Era un tesserino del Ministero delle Finanze, che lei rigirò più volte fra le mani, leggendo tutto quello che c’era da leggere. Per le sue conoscenze, sembrava tutto in ordine. “E per dimostrarle la mia sincerità,” aggiunse l’agente “le dico che non è vero.” “Si sta prendendo gioco di me?” “Tutt’altro, intendo solo dimostrarle che ho rispetto per lei e non voglio nasconderle nulla.” “E allora?” “Questo è un tesserino di facciata, avuto ufficialmente dal Ministero. Io sono un ispettore intergovernativo, internazionale.” “Chi rappresenta, per l’esattezza?” “Opero in un servizio di raccordo fra Interpol, Europol e altri organismi internazionali di repressione della criminalità, compresa quella finanziaria e politica. Questo non glielo posso dimostrare, né posso dire di più sulla mia attività.” “Bene, allora se lavora per un ente così potente non avrà difficoltà a garantirmi alcune cose a protezione del mio futuro.” “Di cosa si tratta?” “Di tre richieste: la trasformazione in contanti di tutte le mie spettanze previste dal contratto con la MGR, un riconoscimento di due milioni di euro, la disponibilità di alcuni aporti extracomunitari.” “C’è dell’altro?”
“No.” Lui si guardò attorno, con la mascella serrata e gli occhi socchiusi, senza dire una parola. Gonfiò le gote facendo saltellare una pallina d’aria da destra a sinistra e viceversa, più volte. Dopo alcuni istanti che parvero interminabili, fissò i suoi occhi in quelli di Silvana e parlò con una voce forzatamente calma. “Vedo che ha le idee molto chiare. Bene, approfondiamo la prima richiesta, in cosa consiste?” “Io trasferisco i diritti previsti dal contratto MGR, in termini di retribuzioni e azioni, a favore di chi decidete voi. In cambio mi accreditate, su un conto che vi comunicherò, il controvalore di mercato delle azioni e l’anticipo della remunerazione prevista. È una transazione alla pari, senza costi aggiuntivi. Non dovrebbero esserci problemi.” “Lo penso anch’io. Quando e come dovrebbe avvenire questo scambio?” “Nel momento in cui vi verrà consegnata la documentazione del progetto. Delegherò un avvocato a realizzare lo scambio.” “Tutto chiaro. E i due milioni di euro?” “È il compenso per la mia collaborazione, a parziale copertura dei rischi che dovrò assumere. Anche questa operazione sarà eseguita dal mio legale al momento della consegna dei risultati del primo test pratico effettuato sul prodotto.” “Capisco. E noi che garanzia abbiamo sull’affidabilità della documentazione e dei risultati del test che ci verranno consegnati?” “Nessuna. Ma questo non dovrebbe preoccuparla: non mi ha detto più volte che sono nelle vostre mani?” “E i aporti? Quanti sono? Per chi?” “Tre di certo, forse cinque, magari sei. Sarò più precisa la prossima volta e le dirò anche i nomi.” “Per quale paese?”
“Un paese non europeo, quasi certamente l’Australia. Anche su questo mi impegno a fornirle dati più definitivi.” “Uhm” grugnì l’uomo. “Come può immaginare, non posso decidere così su due piedi, devo consultarmi. Ho bisogno di qualche giorno.” “Aspetterò.” “Che margini di flessibilità mi concede?” “Nessuno.” Si salutarono. Silvana si sentì sollevata e fiera per come erano andate le cose. Aveva temuto una trattativa tirata, estenuante, piena di insidie e, invece, era stata serena e lineare, non per sue particolari abilità negoziali ma, riteneva, per il sangue freddo che aveva saputo mettere in campo. Poteva ritenersi più che soddisfatta e non rimaneva che attendere gli sviluppi.
Fu la prima ad arrivare nell’ufficio di Lamartine e ingannò l’attesa chiedendosi ancora una volta il senso di quell’arredamento che le appariva tanto insolito, forse per la pesantezza delle scaffalature ingigantita dalla leggerezza fisica e culturale di Lamartine. Si ritrovò a chiedersi perché la scrivania fosse stata relegata in un angolo, ma il flusso dei suoi pensieri fu interrotto dall’ingresso di Ladisa, Nicosia, Solonik e Lamartine. Era la prima volta che li vedeva tutti assieme e provò una strana sensazione di inadeguatezza, come se si trovasse di fronte a una severa commissione esaminatrice. Si sentì indifesa e vulnerabile e cercò negli occhi dei quattro la conferma dei suoi timori, che scomparvero non appena incrociò lo sguardo di Solonik. Fu come se quegli occhi spalmassero ogni parte del suo corpo con uno strato oleoso di viscida libidine. All’improvviso si sentì sicura e agguerrita, decisa a utilizzare a proprio vantaggio il fascino che sapeva di esprimere. Strinse in modo vigoroso la mano di ciascuno, accompagnando la stretta con lo sguardo più voluttuoso che riuscì a confezionare. Forza e fascino, un connubio che manda in confusione qualunque maschio, pensò. E questo la fece sentire ancora più sicura. Dopo alcuni brevi scambi di formalità, Ladisa la invitò a illustrare lo stato di
avanzamento del progetto. Silvana partì con un resoconto dei primi incontri con Lamartine, tesi a definire le caratteristiche della nuova routine e i tempi di implementazione, descrisse nei minimi dettagli la fase di sviluppo e i risultati ottenuti con i test di certificazione e aggiunse che la stesura della documentazione era alle battute finali, le servivano ancora pochi giorni di lavoro. “Attendo vostre indicazioni” fu la sua conclusione. Nessuno dei quattro intervenne durante la lunga e dettagliata dissertazione della donna. Lamartine si limitò a qualche cenno di assenso con il capo per confermare alcune affermazioni che riguardavano aggi del processo che lo avevano visto direttamente coinvolto. Gli altri tre si erano limitati a scambiarsi qualche occhiata enigmatica. Silvana non sapeva come interpretare la situazione e riprovò la sensazione dell’esaminanda che si tortura in attesa del giudizio della commissione. Il silenzio durò un tempo che le parve infinito e fu interrotto da un breve colpo di tosse con il quale Ladisa prese la parola. “Signora Silvani” esordì con voce calma e fredda. “Mi congratulo per l’ottimo lavoro che ha finora svolto e sono certo di interpretare l’opinione degli altri colleghi. Del resto nessuno ha mai dubitato delle sue eccellenti doti professionali” tenne a precisare. Si fermò un attimo, facendo correre lo sguardo sui tre colleghi e soffermandolo infine su Silvana. “Siamo arrivati al momento critico del processo” aggiunse. “Quello dell’utilizzo pratico della modifica. Parlo di utilizzo reale, non di sperimentazione da laboratorio” sottolineò scandendo ogni parola con un tono che a lei parve ancora più freddo. “Questi aggi comportano sempre dei rischi e di questo siamo consapevoli. Lo siamo sempre stati ed è per questo che abbiamo cercato di prevenirli curando le cose nei minimi dettagli. In questa circostanza, c’è un rischio potenziale del quale, lo ammetto, non riusciamo a valutare la portata e ciò ci rende irrequieti, molto irrequieti” aggiunse con tono tanto gelido da dare l’impressione che avrebbe potuto surgelare un tizzone ardente. “Posso sapere a cosa si riferisce?” chiese lei, con la fronte corrucciata e una voce
non proprio distesa. “A lei, signora” rispose, puntandole addosso lo sguardo. “Potrebbe spiegarsi meglio, per favore?” chiese con un filo di voce. “Certamente. Credo che lei abbia intuito cosa ci accingiamo a fare con il suo software.” “Credo di sì” ammise la donna. “Questo non ci dispiace, ciò che ci allarma è la sensazione che lei non lo condivida, che abbia grosse riserve sul nostro operato.” “Confermo che la vostra sensazione è giusta” ammise, pentendosi subito del modo diretto e sbrigativo che aveva appena usato. La sua risposta colse di sorpresa i quattro interlocutori, che forse se ne aspettavano una più cauta e articolata. Manifestarono tutti segni di agitazione e impazienza, solo Ladisa mantenne il controllo di sé. “Quindi non ci sbagliavamo” si limitò a rilevare. “Vede, signora Silvani, non sono le sue riserve a preoccuparci, ma il pericolo che esse rappresentano per il successo della nostra operazione.” “Non vedo il nesso. Io ho firmato un contratto con la MGR che intendo onorare. E nessuna clausola mi impedisce di avere delle riserve” osservò lei, rendendosi subito conto che questa seconda affermazione confermava in pieno la prima, senza attenuarne la portata. Non le restava che gestire la partita così come l’aveva impostata, non aveva alternative. “Apprezzo la sua volontà di rispettare il contratto, soprattutto per la rilevante portata economica dell’operazione che intendiamo realizzare. Lei sa benissimo che in caso di insuccesso, per responsabilità riconducibili a lei, le conseguenze ricadrebbero tutte sulla sua persona” disse, socchiudendo appena gli occhi. “E sui suoi cari” aggiunse con tono lapidario. “Lo so” ammise lei. Ladisa si concesse qualche istante di silenzio, forse per consentire a Silvana di
digerire meglio le sue ultime terribili parole. Estrasse il portafoglio dalla tasca interna della giacca e vi rovistò come se cercasse qualcosa. Un gesto che faceva spesso, quasi un rito. Pochissime persone sapevano che portava sempre con sé, in un comparto del portafoglio, una piccola lucertola a due code essiccata, che nell’immaginario della gente pugliese, soprattutto di campagna, aveva sempre avuto la stessa importanza del quadrifoglio, di talismano portafortuna. Da ragazzo l’aveva cercata dappertutto, anche se raramente capitava di vederne una e ancora più di rado di acchiapparla. Un giorno l’aveva trovata per caso, era distesa su un sasso a prendere il sole e la cosa doveva piacerle tanto a giudicare dai fianchi che palpitavano. Aveva allungato la mano certo che sarebbe scappata, ma lei era rimasta lì e lui l’aveva portata via con sé. L’aveva essiccata un suo vecchio zio che ogni tanto prendeva un pizzico di tabacco da fiuto, per schiarire la testa, diceva. Non si era mai staccato da quel simulacro divenuto ancora più prezioso dopo che il potere e i soldi lo avevano spinto fra quelli che potevano dirsi arrivati. Arrivato, lo era di certo. Poteva consentirsi di tutto, ma si ritrovava spesso a ricordarsi ragazzino quando, alle prime piogge, andava sui campi bagnati a raccogliere le lumache che la nonna gli arrostiva sulla brace del focolare. Mangiava goloso mentre lei gli raccontava storie di lupi buoni. Lo affascinavano quelle storie che andavano contro corrente e che rendevano più amichevole l’immagine di un animale da tutti considerato cattivo. Ladisa ripose il portafoglio nella giacca, si sistemò meglio sulla sedia, intrecciò le dita delle mani congiunte e, con un tono di voce volutamente più rassicurante, riprese a parlare: “La nostra attività può essere considerata criminale e per molti versi lo è, ma ha anche una componente umanitaria.” Poi si rivolse a Lamartine. “Pierre, a te la parola. Cosa ci dici del piano operativo?” Lamartine disse che l’operazione sarebbe stata eseguita in simultanea in tre sedi diverse e sarebbe stata coordinata da Solonik a Montecarlo, da lui a Parigi e da Silvana, coadiuvata da Nicosia, a Fasano. Precisò i termini dell’operazione, indicando la dimensione degli importi interessati, le caratteristiche dei conti sui quali effettuare i prelievi e le modalità di sventagliamento degli importi su una ventina di conti riceventi. Distribuì a Solonik, Nicosia e Silvana copia dei codici da utilizzare e delle modalità operative da seguire. Come data di esecuzione
propose il terzo venerdì a seguire, sottolineando che si trattava del giorno e dell’ora migliori per effettuare l’operazione e precisando che prima non era possibile operare per una serie di ragioni. La discussione andò avanti ancora per qualche minuto, poi i quattro salutarono Silvana che era attesa dall’auto aziendale che l’avrebbe accompagnata all’aeroporto per il viaggio di rientro in Italia. “Frank, perché insisti con i tuoi dubbi sulla Silvani?” chiese Ladisa a Nicosia. “Non so, Nicola, è una sensazione che non riesco a scrollarmi di dosso. Non si basa su niente di preciso… è una cosa di pelle.” “Una pelle che a Ivan piacerebbe tanto toccare, da quello che ho intuito.” “Non sai cosa darei…” rispose Solonik. “Lascia perdere. Pensiamo a cose più importanti. Allora, cosa proponi, Frank?” “Arrivati a questo punto, non possiamo fermarci, dobbiamo andare avanti, anche se…” “Anche se?” “In queste ultime settimane io la farei pedinare. Finora non l’abbiamo fatto perché i pedinamenti per un periodo prolungato sono pericolosi, ma ora lo farei. Forse non serve, visto che le intercettazioni sono state più che rassicuranti, ma la sicurezza non è mai troppa. Io la farei seguire” rimarcò. “Siamo in grado di attivare un pedinamento accorto in tempi brevi?” chiese a Lamartine. “Sì” fu la laconica risposta. “E allora procediamo.”
Beatamente accoccolata sulla sedia a sdraio, Silvana si godeva il paesaggio di Erchie, accarezzata da un sole caldo ma non rovente. Sarebbe rimasta volentieri
così per ore, sul terrazzino dell’albergo, con quel senso di benessere e beatitudine che non provava ormai da tempo. Forse era la vicinanza di Vanuccio a renderla più forte. Lo sentiva camminare nella stanza accanto, intento in chissà quali operazioni. Ogni tanto si affacciava sul terrazzino attiguo senza rivolgerle parola, per non distoglierla da quella contemplazione che pareva assorbirla molto. Erano arrivati in quell’albergo la sera precedente. I suoceri avevano portato i ragazzi nella fattoria di amici nei pressi di Fasano e avrebbero avuto un fine settimana pieno di eggiate nella Selva e, c’era da scommetterci, una lunga permanenza nel delfinario. “Perché non andiamo a fare due i?” chiese lui dal suo terrazzino, distogliendola da quei ricordi. Silvana accettò con entusiasmo, sorridendo mentalmente all’idea di fare una eggiata attaccata al suo braccio. E poi, non lo dimenticava di certo, avevano deciso di dedicare quel fine settimana all’approfondimento dell’incredibile situazione che la donna stava vivendo alla MGR. Si incamminarono verso l’ipnotico sciabordio delle onde del mare contro gli scogli vestiti di piccole cozze nere e di altri molluschi dal guscio bianco e madreperlaceo. Sembrava un applauso alla loro avanzata. D’inverno quel mare era spesso grosso e agitato e, quando mugghiava, grigio e schiumoso, metteva paura. Ma perfino in quei frangenti manteneva un fascino che catturava l’attenzione, calamitando gli sguardi. Vanuccio l’aggiornò sui lavori di restauro della torre e sulla battuta d’arresto provocata da uno di quegli incomprensibili problemi che la macchina burocratica italiana era in grado di sfornare a getto continuo. Poi, però, volle sapere tutto sull’ultima riunione di Parigi e sull’incontro con l’ispettore. Silvana ripercorse i due avvenimenti evitando di trascurare qualsiasi particolare, consapevole del fatto che spesso è nei piccoli dettagli che si nascondono i grandi significati. Illustrò anche gli stati d’animo provati, i dubbi che avevano tormentato le sue notti e le paure paralizzanti che in alcuni momenti le avevano morso la gola. Lui l’ascoltò con molta attenzione e partecipazione, interrompendola più volte per chiedere precisazioni e ulteriori dettagli.
“Sei stata molto brava nella gestione dei due colloqui,” si complimentò alla fine “non penso che si potesse fare di meglio.” Silvana provò un’indicibile soddisfazione per i complimenti ricevuti, soprattutto per il fatto che fossero arrivati da lui. “C’è una cosa che mi sfugge” disse Vanuccio all’improvviso. “Hai chiesto ʻdeiʼ aporti o ʻseiʼ aporti?” La domanda la colse del tutto impreparata e farfugliò una risposta che parlava di aporti, paesi extraeuropei, tre o cinque, Australia, forse sei, numeri da precisare, nomi da dare. Vanuccio lasciò cadere l’argomento per non infierire sul suo imbarazzo. Forse aveva capito, non ne era certo, ma gli bastava il pensiero che potesse essere così. Il sole li avvolse nel suo ardore implacabile. Alla ricerca di frescura, si inoltrarono in un boschetto che si estendeva sul fianco di una piccola collina. Imboccarono una stradina che si inerpicava fra felci e cespugli di mirto, sotto una cupola di rami di pino. Ben presto si resero conto della falsa dolcezza con cui si impennava il viottolo, ma proseguirono nonostante il fiato grosso. Camminarono per oltre mezz’ora senza incontrare anima viva. Raggiunsero una piccola radura dalla quale si poteva ammirare un paesaggio mozzafiato. Silvana si lasciò assorbire da quel paesaggio. Scivolando sul verde azzurro delle foglie di aloe mediterranea, il suo sguardo arrivò al mare azzurro merlettato a riva da una lunga striscia di schiuma bianca che accarezzava i confini della cittadella. La radura era ricoperta da un soffice tappeto d’erba verdolina, macchiato qua e là da vezzosi fiorellini di vario colore, in prevalenza bianchi. Una chiesetta sgangherata con il campanile a una sola campana, così leggera che a volte il vento, quasi per scherzare, le faceva da campanaro, era l’unica presenza su quella piana, oltre agli alberi. Il perimetro della spianata confinava quasi tutto con un dirupo, tranne il lato della stradina che li aveva portati lì. Dietro una grossa siepe, l’erba era più alta e protetta dal cono d’ombra prodotto dalle fronde di due altissimi alberi. Silvana non seppe resistere alla tentazione di sdraiarsi. Chiuse gli occhi e prese a respirare a pieni polmoni quell’aria che sapeva di resina, di muschio e di corbezzoli. Con l’immaginazione cercò di ricostruire il meraviglioso paesaggio
che aveva appena visto, arricchendolo di minuscole nuvole bianche e uccelli variopinti. Dai luoghi più segreti del suo corpo sentì salire aneliti di dolcezza esaltati dalle inebrianti carezze che il venticello donava alla sua pelle. Sentì le sue labbra fremere come se volessero afferrare quella brezza voluttuosa. Sorrise mantenendo gli occhi chiusi. Il biancore dei denti luceva fra il granato di due labbra che chiedevano di essere baciate. D’un tratto avvertì una mano alla ricerca della sua e la strinse forte, avvertì un alito nuovo farsi sempre più vicino e lo respirò profondamente, immaginò il volto di Vanuccio sfiorare il suo e delle mani vogliose che le avvolgevano il collo. Si abbandonò a quella indescrivibile sensazione e sentì le sue braccia avvolgere un corpo per attrarlo a sé. Sentì delle labbra appoggiarsi alle sue, prima titubanti, poi dominanti, e una lingua cercare la sua con frenesia. Fu un fibrillare di mani, respiri dentro respiri. Sentì il suo corpo infuocarsi e fu come se le ioni che avevano attraversato quel luogo dalla notte dei tempi si riversassero su di lei. Sentì montare dentro di sé tutto il fermento del vivo desiderio della sua carne, represso per tanto tempo. Si lasciò andare assorbita da quell’amplesso lungamente atteso, con una voluttà consapevole e desiderosa di esplodere. Vanuccio percepì l’odore incantevole della sua pelle e si perse del tutto in quel profumo di albicocche che diventava sapore nella sua bocca. Cercò più volte la bocca di Silvana: era calda e cedevole. Liquida. Fu assalito da una furia di possesso e nell’istante del delirio supremo non riuscì a scacciare l’immagine del falco che ghermisce l’ignara colomba. Quando uscì da lei, capì che non ne sarebbe mai uscito in modo definitivo. Mai più. Nel silenzio stagnante della collina, rotto solo dal frinire dei grilli e dal ronzio degli insetti, placarono la loro ione circondati da fili d’erba e fiorellini di campo, fra sospiri affettuosi e ansiti soffocati, fin quando lui gemette nella sua bocca e lei bevve quel suono che sapeva non solo di ione ma anche di grande affetto. Ansimanti, le guance arrossate, le tempie pulsanti, i cuori impazziti, rimasero abbracciati e, dopo essere precipitati nell’abisso della ione, ritornarono a galleggiare in un mare di beatitudine. L’aderenza fra i loro petti si fece meno forte e lasciò are quel velo d’aria che era rimasto ad aspettare. “I papaveri sono diventati ancora più rossi dall’emozione” disse lei.
“Vedi quella nuvoletta lassù? Si è fermata a guardare e quando sarà notte lo racconterà alle stelle” rispose Vanuccio. Risero entrambi per quelle innocenti riflessioni da innamorati appagati. “Mi piace il tuo odore” disse lui, quasi un richiamo alla realtà. “Sa di vita, di ione, di frutta. Fa venire voglia di morderti.”
La mattina dopo furono assorbiti dalla fantastica esperienza di vedere dal mare la splendida costiera amalfitana e lo spettacolo dei paesini che si inerpicavano come tanti presepi naturali lungo le fiancate delle colline. Diverse le grotte visitate, tanti i baci scambiati fra le salaci ma non irriverenti battute di un allegro skipper che mal vestiva l’immagine del taciturno uomo di mare. Ritornati a Erchie, fecero sosta in una trattoria a ridosso di una delle due torri saracene che si ergevano ai lati della spiaggia quasi a scrutare il mare per avvistare l’arrivo di improbabili pirati. Scelsero di mangiare le stesse cose, un modo come un altro per sentirsi vicini: ravioli di ricotta insaporiti con la scorza grattugiata di limoni e fette di mozzarella affumicata tra foglie di limoni. E, naturalmente, un babà e un bicchiere di limoncello fatto con lo sfusato, qualcosa di più di un limone, una vera gloria locale. Ripartirono nel primo pomeriggio e Vanuccio propose un itinerario un po’ più lungo percorrendo le strade dell’olio, situate all’interno o a ridosso di aree Unesco, ricche di borghi rurali, frantoi medievali trasformati in musei della civiltà contadina e antiche masserie, alcune delle quali ospitavano rinomate elaioteche. Quando giunsero a Matera, Vanuccio propose una sosta per ammirare il panorama da un punto della strada che consentiva una visione dall’alto della città scavata nella pietra, abbarbicata lungo i pendii della Gravina, un profondo vallone dalle caratteristiche naturali veramente sorprendenti. Davanti a quel paesaggio indimenticabile Silvana rimase in religioso silenzio per alcuni minuti. “A me piace moltissimo questo posto” disse Vanuccio “perché è la massima rappresentazione di come l’uomo abbia adattato ai propri bisogni la natura di un territorio arido, modificando la fisionomia del paesaggio e mimetizzandosi con esso. Una vera e propria vittoria della volontà umana di sopravvivere in un
contesto ostile.” − Parole di uomo o di architetto? − si chiese Silvana. “Vedi quella chiesetta laggiù?” proseguì Vanuccio indicando col dito. “È San Pietro in Monterrone, una chiesetta rupestre scavata nei Sassi. Scavata e non costruita, come tutte le casegrotte, una meraviglia.” − Di architetto − rispose Silvana alla sua stessa domanda. − Comunque è commovente questo suo trasporto, deve essere proprio innamorato del lavoro che fa. − “Quello che si vede da qui non è tutto, perché oltre alle strutture a cielo aperto ci sono labirinti sotterranei e meandri cavernosi che rendono unico questo sistema abitativo. E c’è anche un sistema di raccolta delle acque piovane molto razionale, che risolverebbe il problema della scarsità d’acqua in tante zone del pianeta.” Continuò a parlare del quadro un po’ surreale che vedevano dal quel punto col piglio del conferenziere che commenta a una muta platea le immagini proiettate su uno schermo. “Quando fa buio e si accendono le luci delle abitazioni, delle botteghe e dei ristoranti, si rimane senza fiato perché sembra di essere davanti a un presepe di cartapesta” disse. “Vuoi che ci fermiamo?” “No, grazie, preferisco rientrare, devo completare una relazione che discuterò domani. Ci verremo un’altra volta.” “Alla festa patronale della Madonna della Bruna” propose Vanuccio. “È una festa particolarmente movimentata: comincia all’alba con i pastori che portano in processione il quadro della Madonna e si conclude nel tardo pomeriggio con una solenne processione con cui la statua della Madonna viene accompagnata in cattedrale su un carro trionfale di cartapesta che, dopo la cerimonia, viene assaltato e distrutto dalla popolazione. Una tradizione di cui non so spiegarti le origini.” “Magari ci veniamo con i ragazzi.” “Penso che si divertirebbero tantissimo.”
Ripartirono in direzione Brindisi. Al crepuscolo giunsero a Oria, avvolta in una densa foschia. “La nebbia di questa stagione!” rilevò sorpresa Silvana. “La storia di questa nebbia è legata a un’antica leggenda” spiegò Vanuccio raccontando che Oria era stata fondata dai Cretesi che decisero di costruirle intorno una poderosa cinta muraria. Il re, desideroso di fare le cose per bene, chiese consiglio ai suoi sacerdoti che consultarono gli oracoli ed emisero un crudele responso: bisognava cementare le fondamenta delle mura con il sangue di una vergine. I soldati si lanciarono subito alla ricerca di una fanciulla e tornarono dal re con una bambina lasciata sola dalla madre andata in cerca di legna da ardere. Il re ordinò il suo sacrificio. La madre al suo ritorno, saputa la notizia, impazzì dal dolore e maledisse la città sentenziando: “Possa tu, Oria, fumare nei secoli come arde e brucia oggi il mio cuore!” “Sono solo i vapori delle paludi circostanti” fu infine la spiegazione del fenomeno.
7
Al ritorno dal lavoro, il lunedì sera, Silvana trovò due buste, una dell’agente, facilmente identificabile per la solita scritta “Alla signora Silvani”, l’altra della signora Grant, come si evinceva dal mittente sul retro. Aprì senza indugio la prima, dopo aver infilato l’altra nella borsetta. L’ispettore la pregava di richiamarlo il prima possibile, a qualunque ora. Senza esitare, uscì dirigendosi verso un bar relativamente distante. “Buonasera, signora” rispose l’agente subito dopo la sua chiamata. “Cosa c’è di nuovo?” “Non dobbiamo più vederci. Abbiamo buoni motivi di ritenere che la stiano pedinando, per cui ci sentiremo solo per telefono. Le ricordo di utilizzare solo apparecchi pubblici e, aggiungo ora, possibilmente lontani da casa sua” disse lui tutto d’un fiato. “Vuol dire che sospettano di me?” “Non necessariamente. È probabile che il pedinamento in questa fase faccia parte di un piano predefinito. Ma è meglio essere cauti.” “Spero che sia come dice lei. E le mie richieste?” “Siamo d’accordo nel rilevare subito i suoi diritti contrattuali. Aspettiamo di conoscere gli estremi del legale che dovremo contattare.” “Dopodomani lo vedo per firmare le deleghe, dopodiché le comunico i suoi dati.” “Va bene.” “I aporti?” “Siamo d’accordo anche su quelli. Deve farci avere copia dei documenti delle persone cui intestarli e una foto di ciascuno. Spedisca il tutto per raccomandata
all’indirizzo che domani troverà nella cassetta della posta.” “Farò come dice. E l’altra richiesta?” “Ci sembra un po’ esagerata. Facciamo la metà.” “Niente affatto. Metto a rischio l’incolumità mia e dei miei cari e lei mi parla di esagerazione. Suvvia” sbottò lei. “Va bene per la cifra” rispose lui dopo qualche istante di silenzio. “Però la dividiamo in due tranche: metà prima della partenza, metà quando sarete nella nuova destinazione.” “Metà assieme ai aporti e l’altra metà prima di partire” ribatté lei, con tono fermo che non ammetteva repliche. “Sarà fatto” rispose lui riattaccando dopo un frettoloso saluto. Giunta a casa, Silvana aprì la seconda busta e lesse l’accorata lettera con la quale la signora Grant si dichiarava incredula e dispiaciuta per le impensabili rivelazioni sul padre che costringevano lei e i fratelli a ricredersi sull’immagine meravigliosa che si erano costruiti del proprio genitore. Ringraziava sentitamente Silvana per l’impegno che aveva messo in quella ricerca e sperava di incontrarla a Brindisi dove sarebbe andata, sola o con i fratelli, per incontrare Vito e la madre. A proposito, concludeva la signora, sarebbe stata così gentile da incontrare la madre di Vito e di riferirle le impressioni personali? Silvana fu sorpresa da questa richiesta che, peraltro, le pesava non poco in un momento in cui aveva mille altri pensieri. Però, si disse, arrivati a quel punto, non aveva senso lasciare le cose a metà. E decise che avrebbe soddisfatto la richiesta della signora.
Quando Silvana telefonò a Vito, le rispose la voce di un uomo cordiale e disponibile, non di quello scostante e sulla difensiva della prima telefonata. Lo aggiornò sulla richiesta della signora Grant e lui rispose che non vedeva ostacoli di sorta. Fissarono di incontrarsi nelle prime ore del pomeriggio alla De Torres, una fontana dal perimetro irregolare, nella centralissima piazza della Vittoria.
La casa della madre di Vito era in una zona periferica - silenziosa ma non isolata, aveva precisato lui - e mostrava un aspetto modesto ma decoroso. La signora, sulla settantina, era esile ma il suo modo di muoversi esprimeva una grande energia. Parlava ad alta voce, senza tentennamenti, gesticolando in continuazione, quasi a voler sottolineare l’importanza delle cose che diceva, anche se a volte queste contraddicevano cose appena dette. Ogni tanto intercalava qualche frase di insofferenza verso il figlio che, diceva, la considerava un po’ sclerotica, mentre lei si sentiva ancora in piena forma fisica e mentale. A quelle battute, Vito abbozzava un lieve sorriso di condiscendenza sollevando appena le sopracciglia. La donna confermò ogni dettaglio della versione fornita da Vito sulla sparizione del fratello del suocero, compreso il particolare non certo trascurabile della ragazza abbandonata in stato interessante. Non c’era stata né la trasciuta, il fidanzamento ufficiale e tranquillo, né la menata, il fidanzamento riparatore, disse. Nulla, solo le disperate richieste della ragazza a suo suocero perché l’aiutasse a ritrovare il fratello di lui. L’anziana signora sottolineò l’imbarazzo del suocero di fronte a quell’accorata richiesta d’aiuto e la sua frustrazione per i numerosi e infruttuosi tentativi effettuati per ritrovare il fratello. Silvana l’ascoltò attentamente, cercando soprattutto di stabilire il livello di coerenza fra le varie cose che diceva al fine di poter esprimere alla signora Grant un’opinione sul grado di attendibilità della sua interlocutrice. A questo fine, ò a farle delle domande dirette. “Lei l’ha mai conosciuta quella ragazza?” “Personalmente no, ma diversi conoscenti e numerose mie amiche l’hanno conosciuta, prima che morisse di leucemia.” “Ebbe anche lei una figlia, se ho capito bene.” “Sì, ebbe una figlia” confermò. “Disgraziata come sua madre” aggiunse con tono patetico. “Si sposò ed ebbe un figlio, Silvano, che lasciarono presto orfano perché morirono entrambi nel giro di qualche mese.” “E del figlio, cosa ne è stato?” “Quando ci penso, mi viene sempre voglia di farmi il segno della croce” disse con voce sommessa, mentre un velo di tristezza rabbuiava il suo viso.
“Perché dice così, signora?” “Perché anche lui fu un povero sciagurato nel quale si sommarono le disgrazie di sua madre, di sua nonna e del fratello di mio suocero che la mise incinta.” “Cosa gli è successo?” “Una maledizione. Rifece gli stessi errori del nonno e finì male come lui.” “Non capisco.” “Mise incinte due diverse ragazze, ma invece di scappare come aveva fatto suo nonno, il fratello di mio suocero, si suicidò.” “Ma è tremendo!” commentò Silvana. “Sembra proprio una maledizione. Che famiglia disgraziata!” “Sì, una maledizione che ha fatto altre due vittime, una ragazza di Fasano e l’altra…” Silvana non ascoltò nemmeno la fine della frase. Rimase a lungo senza fiato, come se qualcuno le avesse sferrato un pugno nella bocca dello stomaco. L’accostamento di quelle parole a Vanuccio era stato automatico, immediato. Vanuccio, diminuitivo di Silvano, il nome che aveva ricevuto in ricordo del padre che non aveva mai conosciuto… e che lui riteneva si fosse suicidato… e tutto questo avvenuto a Fasano. Semplici coincidenze? Troppe per essere considerate tali. Non poteva crederci, non doveva crederci. “Quanti anni fa è successo questo, signora?” chiese, sperando di sentirsi dire un numero diverso da quello che le aveva occupato il cervello. La mamma di Vito fece un calcolo mentale, non troppo rapido per la verità, aiutandosi con le dita della mano destra mentre con la sinistra si stringeva le tempie come a voler favorire la concentrazione. “Trentasei o trentasette” disse. “Più trentasette che trentasei. Sì, direi proprio trentasette, perché il mio Vito cominciava quell’anno le elementari” precisò senza esitazione. Tum, un altro colpo in pieno petto per Silvana. Non potevano esserci dubbi: tutti
gli elementi concordavano. Si sentì oppressa da una cappa nera che le offuscò i pensieri ma che non le impedì di pensare che il suo Vanuccio avesse così ritrovato il padre mai conosciuto, anche se quella del suicidio era solo un’ipotesi che lui aveva formulato in mancanza di qualsiasi riscontro. Sarebbe stato felice della notizia? Oppure avrebbe fatto meglio a tenergliela nascosta? Ci avrebbe pensato su, anche se propendeva per la rivelazione fatta con accortezza e parole giuste. Ritornò al presente, anche perché avvertì su di sé lo sguardo interrogativo di Vito e di sua madre, determinato dall’improvviso silenzio. “Cosa ne è stato delle due ragazze?” chiese per riprendere il discorso. “Della madre di quel bambino non so molto, anche se è sempre rimasta a Fasano. È morta una decina di anni fa. Dell’altra, quella di San Michele, si sa che morì di parto dando alla luce una bambina che fu poi affidata alle suore di Brindisi, con le quali ha vissuto e studiato fino ai diciotto anni.” Tum. Il colpo che avvertì fu più forte del primo e le tolse il fiato. Quello che stava avvenendo aveva dell’inverosimile. Due notizie di quella portata, una dietro l’altra; troppo, veramente troppo! Tutto cominciò a girare vorticosamente intorno a lei, si sentì malferma sulle gambe e avvertì un subbuglio allo stomaco, come se stesse per vomitare. Un’improvvisa secchezza della bocca la costrinse a chiedere a Vito un bicchiere d’acqua. “Sa come chiamarono la bambina?” “Anche questa ragazza chiamò la bambina Silvana, in ricordo del padre. Lasciò questa indicazione prima di morire.” L’arsura si fece più forte. Bevve l’acqua tutta d’un fiato e ne chiese dell’altra. “E la ragazza, come si chiamava?” “Il nome non lo ricordo… forse Teresa… no, non lo ricordo proprio. Come soprannome la chiamavano ʻla napoletanaʼ. Di cognome faceva Guadalupi, di questo sono sicura.” Guadalupi? Come sua madre! Quella ragazza era sua madre! Non c’erano dubbi: troppi elementi concordanti per essere considerati semplici coincidenze, il nome, il luogo, il periodo, la morte di parto, l’adozione delle suore. Aveva incontrato sua madre, anche se non poteva abbracciarla. Che strani scherzi gioca il destino,
pensò. Sentì affacciarsi con prepotenza nella mente i ricordi della sua infanzia, di quelle notti di sofferenza e angoscia nelle quali cercava di immaginare un viso mai conosciuto e il solo pensare la parola “mamma” le riempiva gli occhi di calde gocce che la manina portava via. In uno di quei momenti di tormento aveva anche scritto una lettera, “Alla mamma che mi guarda da sopra una stella”, infilandola sotto la base della statua della Madonna situata a metà del corridoio dove c’era il dormitorio. L’aveva trovata la madre superiora e molte suore non erano riuscite a trattenere le lacrime. Da allora le avevano voluto ancora più bene e avevano cercato in tutti i modi di non farla sentire sola. I pensieri mulinavano nella sua testa, sempre più veloci, cozzando gli uni contro gli altri, provocando scintille che le scoppiettavano davanti agli occhi. Bevve ancora dell’acqua e cercò nella borsetta una salviettina umidificata, con la quale si umettò la fronte e il viso. “Qualcosa non va?” chiese l’anziana signora. “Fa un po’ caldo” fu la sua laconica risposta. “Apro la finestra” aggiunse la mamma di Vito, versandole ancora dell’acqua nel bicchiere. In pochi minuti, il suo mondo era cambiato in modo radicale: aveva incontrato la madre, dato un’identità a suo padre e, soprattutto, cosa veramente terribile, aveva scoperto di essere l’amante del suo fratellastro, perché lei e Vanuccio erano figli dello stesso padre! Silvana lasciò di gran carriera Vito e sua madre, ringraziandoli della grande disponibilità che le avevano concesso. Si diresse verso casa, rallentando progressivamente l’andatura. Non aveva fretta di arrivare: sapeva che il suo viso rifletteva in modo inesorabile il tormento che le mordeva l’anima e non voleva che i figli la vedessero in quelle condizioni. Non avrebbe sopportato il loro sbigottimento. Era in preda a una grande confusione. Non riusciva a mettere in fila i pensieri per un qualsiasi ragionamento. Sentiva di dover fare qualcosa per liberarsi dal senso di orrore che la stava imprigionando, ma non sapeva cosa. Era come schiacciata da un peso insostenibile che la spingeva sempre più giù verso il magma fumante dei suoi anfratti più fondi.
Girovagò per qualche tempo senza una meta precisa. eggiando lungo i bastioni, l’antico sistema difensivo della città, si ritrovò a Porta Napoli, la più antica porta di accesso alla città, vicino alla quale erano i resti delle vasche limarie di epoca romana, un grandioso esempio di ingegneria idraulica del tempo in cui confluiva l’acqua proveniente dai pozzi esterni alla città per alimentare le fontane brindisine. Continuò a camminare, sempre senza una meta precisa. Raggiunse la Fontana delle Ancore in piazza Cairoli. Lo specchio d’acqua rifletteva la sua immagine tremolante come i pensieri che sbattevano nella sua testa. − Chi sei tu, Silvana Guadalupi? − si chiese. − Sei figlia di un gruppo di suore caritatevoli o carne della carne di una donna morta per darti la vita? Perché non ti hanno consentito di morire con quella carne di cui eri parte? Hai sperato tanto di conoscere tuo padre e ora sai che quando hai visto la luce non poteva essere con te perché era già avvolto dal buio del nulla. Hai desiderato tanto che la provvidenza desse un corpo al sogno di padre che ti portavi dentro e ora sai che quel corpo ne ha generati due che si sono uniti in un amplesso immorale e che si bramano in modo sacrilego. Cosa vuoi fare, Silvana Guadalupi, chi vuoi essere? – Non lo sapeva. Sentiva che Vanuccio era l’uomo della sua vita, non il sostituto di Stefano, ma la sua continuità, il suo completamento, e non voleva perderlo. Ma lui, come avrebbe reagito alla notizia? E come dargli la notizia? Gli avrebbe parlato? Per dirgli cosa, partendo da dove? Le avrebbe creduto? Oppure si sarebbe trincerato dietro l’incredulità e avrebbe voluto verificare, approfondire, controllare? Avrebbe troncato subito la relazione oppure avrebbe tentato di convincerla a continuare convivendo con il senso di colpa per l’amore incestuoso? E se lui avesse troncato, che ne sarebbe stato di lei? Chi l’avrebbe sostenuta in quella diabolica vicenda della MGR? Forse sarebbe stato meglio non dirgli niente, almeno per il momento, per non accavallare due storie di quel peso. Ma cosa poteva autorizzarla a prendere una simile decisione? Ne aveva diritto? No, fu la sua risposta, doveva dirgli tutto e affrontare con responsabilità la situazione assieme a lui. Gli avrebbe scritto, sì, avrebbe scelto quella soluzione per ridurre l’impatto emotivo della notizia. Almeno così credeva. “Anch’io avrei bisogno di un’ancora” disse, sollevando lo sguardo verso le quattro ancore della fontana dalle quali sgorgava l’acqua. Silvana riprese il controllo di sé e tornò a casa. ò una tranquilla serata con i
ragazzi, e quando loro andarono a letto decise di scrivere il più difficile e doloroso componimento della sua vita.
“Caro Vanuccio, perdonami per questa inconsueta forma di comunicazione fra due persone che si amano e che sono vicine. Ho deciso così perché non saprei dirti a voce ciò che sto per scriverti. Ho scoperto una cosa stupenda e terribile allo stesso tempo: siamo fratellastri.” Gli scrisse tutto, in modo preciso e conciso. “Io sono frastornata e non so cosa fare. Spero che tu abbia idee più chiare” fu la conclusione della lettera, firmata semplicemente Silvana. La consapevolezza di aver esposto i fatti in modo chiaro non placò tuttavia la sua ansia. Aveva dato per certa la loro fratellanza, sapendo che questa conclusione era basata soltanto su una testimonianza, per quanto precisa e dettagliata, senza riscontri di alcun tipo. Si rendeva conto della necessità di verifiche atte a certificare la liceità di quella conclusione. Per esempio, il suicidio del padre c’era effettivamente stato? Ci dovevano pur essere cronache dell’episodio e resoconti giudiziari. E poi, Guadalupi era un cognome abbastanza diffuso nella provincia, e la morte per parto non era certo rara a quel tempo. Insomma, superato lo shock iniziale, in lei affioravano dubbi che suggerivano cautela. Chiuse la lettera nel cassetto della scrivania e andò a letto, sprofondando per fortuna in un sonno profondo.
Il telefono trilla ripetutamente. Nel buio, Silvana allunga il braccio senza riuscire a trovarlo. Il trillo continua, sembra implorare. Lei annaspa e, alla fine, riesce a raggiungere l’apparecchio. È la voce di Saverio Locascio, concitata. “Vanuccio è impazzito” dice. È salito in cima alla torre, stringe un foglio fra le mani e minaccia di buttarsi. L’intero paese si è raccolto intorno alla torre. Molti hanno tentato di dissuadere Vanuccio, ma sembra determinato a fare ciò che minaccia. “Vieni, Silvana” sollecita la voce di Saverio “forse tu puoi avvicinarlo, parlargli.” Lei si scaraventa nel buio, corre a perdifiato, i piedi nudi feriti da pietre e sterpaglie, il volto graffiato dai rami bassi degli alberi che non riescono ad arrestarne la corsa accompagnata dal pulsare forsennato del cuore e del sangue nelle tempie. Giunge trafelata, si fa largo nella folla in muta attesa, urla a
Vanuccio di aspettarla, si avventa sulla scala provvisoria e traballante, incurante del pericolo, raggiunge la sommità ansimante e con una mano che preme sul fianco. Quando gli occhi si abituano al buio, si rende conto di essere nel suo nuovo ufficio, arredato con i mobili di noce e la scrivania quadrata, come aveva concordato con Vanuccio. La maestosa cupola pentagonale, con le sue enormi vetrate, sembra sospesa nell’aria, ma non può lasciarsi assorbire da tanta bellezza perché la sua attenzione è calamitata dal pallore cadaverico di Vanuccio e dall’orrore della sua espressione delirante. Poi quell’immagine comincia a sbriciolarsi lentamente. L’urlo lacerante che esce dalla bocca di Silvana sembra far vibrare le vetrate della cupola e forse l’intera torre, e diventa ancora più acuto quando vede che anche il suo corpo comincia a sbriciolarsi.
Fu quella tremenda paura a svegliarla di colpo, tremante e madida di sudore. Si precipitò allo scrittoio e ne aprì il cassetto. La lettera era lì. Richiuse a chiave e decise che, per il momento, non l’avrebbe consegnata a Vanuccio. Anzi, per qualche tempo - quanto tempo? Non lo sapeva - lo avrebbe evitato. Aveva bisogno di riflettere. Da sola.
La sera, al rientro dal lavoro, fu affrontata con viso severo da Sabino, che le chiese a bruciapelo: “Chi è Vito, mamma?” “Vito chi?” “Questo dovresti dirmelo tu. Ha telefonato tre volte, ha detto che ha bisogno di parlarti e che ti avrebbe richiamato lui.” “Ah, va bene.” “Si può sapere chi è?” incalzò il ragazzo. “Perché tanti segreti?” “Macché segreti! È solo il parente di una signora che ho conosciuto e con la quale devo metterlo in contatto.” Come se volesse confermare quell’affermazione, il telefono annunciò la nuova telefonata di Vito.
“Buonasera, signora Silvani. Spero di non averla importunata con le mie telefonate, ma ci tenevo a parlarle prima che lei scrivesse alla signora Grant.” “Cosa è successo?” “Mia madre dice che parlandole di Silvano ha detto che aveva conosciuto una ragazza di San Michele. Ecco, vuole precisare che si tratta di San Michele di Serino, in provincia di Avellino, e non del nostro San Michele Salentino.” Si appoggiò al mobile sul quale era posato il telefono perché ebbe la sensazione di perdere il senso dell’equilibrio. Trasse un respiro profondo e poi un altro ancora. Si avvide dell’aria preoccupata del figlio e cercò di tranquillizzarlo con un sorriso, scuotendo leggermente la testa come per dire “non è niente”. “C’è ancora, signora Silvani?” chiese Vito che non riusciva a capire il silenzio che era seguito alla sua comunicazione. “Sì, sì. Va tutto bene. Non avevo ancora spedito la lettera, non è successo niente. Rassicuri sua madre e la ringrazi per questa precisazione. E grazie anche a lei, Vito, per la sua gentilezza.” Dopo la telefonata, si diresse allo scrittoio, prese la lettera e la stracciò in mille pezzi. “A volte, gli incubi svaniscono come per incanto” disse a Sabino che la guardava con incredulità e muto rispetto. E, finalmente, due lacrime liberatrici inumidirono i suoi occhi.
8
Saverio Locascio sembrava un ciclone. Urlava come un ossesso al telefono, si sbracciava e calava paurose manate sulla scrivania, facendo sobbalzare tutto ciò che vi era posato sopra. La poltrona girevole su cui era seduto emetteva sinistri scricchiolii ogni volta che muoveva la sua imponente figura. Si dimenava come un tarantolato. Tuttavia il viso, piccolo rispetto al dilagare di quella corpulenza, e gli occhi furbeschi e luminosi tradivano la commedia che stava recitando. Silvana era incantata dal suo fare istrionico e si gustava ogni movimento come se fosse a teatro. Vanuccio, seduto accanto a lei, se la rideva di gusto. Saverio era incontenibile, superbo in quella sua performance, e compiaciuto dell’effetto che produceva sui due spettatori della sua rappresentazione. Deposto il telefono con veemenza, continuò la sfuriata contro quell’emerito idiota di collaboratore che pensava di utilizzare le risorse dell’azienda come fossero sue, spendendo con disinvoltura ogni qualvolta andava in missione. Era soprattutto risentito del fatto che quel cretino patentato ritenesse di poterlo gabbare con le sue straripanti note spese. “A volte è duro fare il capo” esclamò con una convinzione accentuata dal fatto di avere di fronte Silvana, sua collaboratrice ma a sua volta responsabile di un’area importante. “Allora, Vanuccio, cosa posso fare per te?” “Volevo parlarti dell’ipotesi di suddivisione degli spazi all’interno della torre e della scelta di alcuni materiali.” “No, no, queste cose preferisco che tu le veda direttamente con Silvana. In fondo, sarà lei l’utilizzatrice della torre e ha di certo più buon gusto di me.” “Io invece volevo dirti che giovedì ho bisogno della totale disponibilità del centro” intervenne Silvana. “Però non so cosa suggerirti per tenere impegnate le persone.” “Non ci sono problemi: farò erogare il corso di aggiornamento sulla protezione dei dati, che ci trasciniamo dietro da tanto tempo. Ma cosa c’è giovedì?”
“Devo fare le prove di un’operazione che sarà eseguita venerdì pomeriggio, in simultanea con Parigi e Montecarlo.” “Ok, provvedo io a farti lasciare la totale disponibilità del centro.” Saverio si accomiatò perché lo attendeva una videoconferenza con Ladisa e Lamartine per un aggiornamento sulla nuova relazione commerciale con la banca araba. Silvana e Vanuccio decisero di andare allo studio di quest’ultimo per vedere gli schizzi sulla suddivisione degli spazi e i campioni dei materiali. “Sai che per un giorno siamo stati fratellastri?” disse lei fra il serio e il faceto. “In che senso?” chiese lui, sorpreso non solo dalle parole ma anche dal tono indecifrabile di Silvana. Gli raccontò tutto, dell’incontro con la signora Grant, delle ricerche effettuate, dei successivi incontri con Vito e la madre, del terribile equivoco che si era creato e del chiarimento che l’aveva liberata da un incubo. Gli raccontò tutto, tranne della lettera che gli aveva scritto e dell’orribile sogno che aveva fatto. “Ti preferisco come compagna… ma anche come sorellastra non eri male” disse lui celiando, quasi a voler chiudere il discorso. Per la parte della notizia che lo riguardava - la possibile identificazione di suo padre - disse che avrebbe fatto delle verifiche, ne aveva già fatte tante, muovendo da quell’indizio, da quel nuovo punto di partenza. Sarebbe andato anche lui a trovare Vito e la madre, con lei naturalmente, ma ora avevano altro cui pensare. “Hai più sentito l’ispettore?” chiese, a conferma che voleva cambiare discorso. “È tutto a posto. Hanno ritirato la documentazione e le specifiche dell’operazione, è stata fatta la voltura del contratto e il corrispettivo è già stato accreditato assieme alla prima tranche della cifra concordata. Nessun problema nemmeno per i aporti, che sono stati consegnati all’avvocato.” “I tuoi sono al corrente di tutto?” “I miei suoceri sanno tutto.”
“E come hanno reagito?” “In modo splendido. La fiducia che hanno in me e il bene che continuano a volermi sono incredibili. È commovente.” “Ti seguiranno in Australia?” “A occhi chiusi… anche se si augurano che non sia necessario lasciare l’Italia. Mio suocero si è organizzato per vendere la casa.” “Sanno di noi?” “Ho detto loro tutto, per rispetto e affetto.” “E concordano con la tua scelta?” “Non si sognano nemmeno di discuterla. L’hanno accettata come due amorevoli genitori. Sono molto contenti che io ti abbia incontrato.” “E i ragazzi?” “Ho concordato con i nonni cosa dire e cosa non dire. Ho sostenuto che, nell’interesse dell’azienda familiare, sarà forse necessario are qualche tempo all’estero e che, in quel caso, i nonni verranno con noi. E anche tu.” “Sanno anche di me?” “Sì, e sono felici. Li hai stregati, ti adorano. Anzi, mi hanno detto che sono fortunata ad averti incontrato.” “Anch’io mi sento fortunato, immensamente.” “Nonostante quest’assurda vicenda della MGR, mi sento una donna felice e innamorata. In questo momento, vorrei essere in un posto isolato con te.” “Qui siamo soli” disse lui stringendole il viso fra le mani. “E al piano di sopra c’è un letto invitante” aggiunse con voce roca.
La giornata del giovedì fu frenetica, con momenti di parossismo. Silvana arrivò
in ufficio prima del solito e convocò tutti i suoi diretti riporti per predisporre un programma di lavoro che minimizzasse i disturbi alla normale operatività del centro. Dopo aver individuato le persone cui affidare la responsabilità del controllo degli accessi alle banche dati, dei collegamenti delle reti telematiche e delle tre operazioni che sarebbero state eseguite, predispose una copertura con altre persone per ogni eventuale emergenza in ciascuna di quelle attività, che sarebbero durate complessivamente non più di sette-otto minuti. Criteri di sicurezza ridondanti ma non superflui, vista la criticità di quanto si apprestavano a fare. Subito dopo, cominciarono a simulare le tre operazioni, alla ricerca della necessaria sincronizzazione delle varie attività. Provarono e riprovarono, non riuscendo a evitare momenti di grande nervosismo. In qualche occasione, Silvana fece fatica a trattenere reazioni e scatti d’ira perché non riusciva a ottenere ciò che voleva. Nel pomeriggio le cose presero a girare meglio, sempre meglio, e riuscì a inanellare una serie di prove senza sbavature. Finalmente sentì di potersi fidare della squadra che aveva messo assieme.
Il giorno seguente fu meno frenetico ma la tensione si avvertiva comunque e ovunque nella sede della MGR, in particolare nella sala allestita per la triplice operazione. I volti erano tirati, anche se nessuno conosceva la reale portata di ciò che avrebbero fatto, tutti erano consapevoli dell’enorme importanza che il top management attribuiva all’evento. Alle diciassette e quindici una telefonata ruppe il silenzio che si era impadronito della sala. Era Lamartine, che chiamava per l’ultima verifica. Abbassata la cornetta, Silvana parlò con voce calma e controllata. “Ragazzi, ci siamo. Quest’operazione è di estrema delicatezza e non possiamo consentirci errori. Dobbiamo ripetere la procedura che abbiamo provato con successo ieri pomeriggio. Vi chiedo una decina di minuti di concentrazione totale, deve esistere soltanto ciò che state facendo. Lavoreremo in linea con la direzione europea e la casa madre e dobbiamo tenere alto l’onore di questa giovane consociata. Non c’è altro. Incominciamo pure. Buon lavoro.” Tutti si immersero nel gioco multicolore delle schermate, dei codici e delle istruzioni che comparivano e scomparivano sui video dei computer con i quali
era stata allestita la sala. Silvana manteneva lo sguardo fisso sul terminale che aveva di fronte, sbirciando di tanto in tanto una cartellina per controllare la corrispondenza degli sviluppi procedurali. Alle diciassette e trenta precise il telefono squillò ancora. All’altro capo Lamartine. Silvana mise in vivavoce affinché tutti ascoltassero. “Ci siamo, signora Silvani?” “Sì.” “Frank, ci siamo?” “Sì, Pierre” “Bene, procediamo.” Silvana lesse per conferma i codici dei conti di partenza e di destinazione della prima operazione. Dopo pochi secondi apparve sullo schermo l’importo da trasferire: dieci milioni di dollari. Subito dopo la voce di Lamartine ordinò: “Inviare.” Una breve attesa e Silvana vide apparire sullo schermo gli estremi dell’avvenuta esecuzione. “Tutto bene, Frank?” chiese ancora Lamartine. “Sì, Pierre” fu la risposta di Nicosia. “Procedura di chiusura.” Silvana batté due comandi da tastiera per attivare la procedura che avrebbe cancellato ogni traccia dell’operazione dai computer delle tre sedi MGR e da quelli della banca araba sui quali girava la versione modificata di RhSoft. Dopo circa due minuti un grosso OK verde apparve sullo schermo. Silvana respirò profondamente. “Molto bene” disse la voce di Lamartine. “Procediamo con la seconda operazione.”
Stessa procedura. Otto milioni di yen giapponesi. Altra attesa, altro OK verde. “Benissimo, via con la terza operazione.” Stessa procedura. Trecento milioni di rubli russi. Altra attesa, altro OK verde. “Esecuzione perfetta. Signora Silvani, congratulazioni a lei e ai suoi collaboratori. A risentirci.” Click. Un applauso spontaneo e liberatorio si levò nella sala. Silvana respirò profondamente e sentì il bisogno di deglutire. Rispose con un abbozzo di inchino al sorriso compiaciuto di Locascio e al cenno di consenso di Nicosia, che avevano ambedue seguito l’operazione da un angolo della sala.
Rientrò a casa più tardi del solito quella sera, spossata dalla stanchezza e dalla tensione accumulata negli ultimi due giorni. Da un punto di vista professionale, era soddisfatta di come erano andate le cose e dei complimenti ricevuti da Lamartine, e subito dopo da Ladisa, ma dal punto di vista etico… Cercò di rimuovere quella sgradevole sensazione dicendosi che aveva agito sotto coercizione, non per libera scelta, e che il suo primo dovere era tutelare la sicurezza dei suoi figli. Ciò nonostante un senso di nausea continuò a impastarle la bocca e stringerle la gola, dandole la sensazione di respirare con molta fatica. Non vedeva l’ora che finisse quella giornata. Ma il momento di tirare il fiato non era ancora arrivato perché nella cassetta della posta trovò una nuova missiva dell’agente. Le chiedeva di richiamarlo l’indomani mattina, a qualunque costo. Una precisazione, quest’ultima, nella quale lesse un’incomprensibile urgenza. Riteneva infatti che, per analizzare gli estremi delle operazioni effettuate poche ore prima, l’ispettore avrebbe avuto bisogno di qualche tempo e invece eccolo lì a chiederle… già, a chiederle cosa? Che approfondimento, che chiarimento poteva chiederle dopo così breve tempo? Per evitare di are il resto della serata ad arrovellarsi con quell’interrogativo prese, così su due piedi, una decisione che sorprese se stessa: propose ai figli di invitare a cena per la sera dopo i suoceri e Vanuccio. I ragazzi si mostrarono entusiasti e tutti e tre presero a discutere di menù, ordine dei posti a tavola, comportamento da tenere…
La mattina successiva Silvana chiamò l’agente dal supermercato nel quale era andata per procurarsi le cose necessarie per la cena della sera. “Avete già analizzato le operazioni fatte ieri?” chiese subito dopo il contatto, evitando convenevoli e inutili giri di parole. “Assolutamente no” fu la mesta risposta. “È andato tutto storto ed è di questo che volevo parlarle, con un mio collega, ma non al telefono.” “Cosa propone?” L’agente non rispose immediatamente, anche se lei non faceva fatica a immaginare che stesse cercando le parole giuste. “Una cosa inusuale ma che, verificate tutte le alternative, ci sembra la più praticabile… se lei ci sta, ovvio.” “Sentiamo.” “Uhm, lei dovrebbe essere ricoverata, per due o tre giorni.” “Scusi?” esclamò Silvana sbigottita. “Mi spiego meglio. Dovrebbe simulare un incidente d’auto. Niente di grave: diciamo una botta alla testa e alla schiena. Deve sbattere contro qualcosa, un palo, un muro, veda lei, provocando danni vistosi alla macchina, che ovviamente le faremo riparare a nostre spese. Dietro di lei ci sarà una macchina della polizia che farà intervenire subito un’ambulanza che la trasporterà in una clinica… non so ancora quale. Rimarrà in osservazione qualche giorno, il tempo necessario per analizzare il problema per cui le ho chiesto di chiamarmi.” “…” “È necessario che lo faccia” incalzò l’ispettore con voce implorante. “Quando?” “Oggi stesso.” “Non è possibile. Mi sono già impegnata con i suoceri e i ragazzi per una cena
che non posso rinviare” disse lei. “E poi vorrei allontanare i miei figli, tenerli fuori da questa storia.” “Domani pomeriggio?” Silvana si prese qualche attimo di riflessione, poi rispose. “Va bene. Uscirò di casa alle cinque.” “Grazie.” Click.
La cena si svolse in un clima disteso. L’incontro fra Vanuccio e i suoceri fu molto cordiale e Letizia e Sabino contribuirono non poco a evitare ogni formalità, trattando l’ospite con una familiarità pur sempre rispettosa. Sapevano che sarebbe diventato una presenza importante nella loro vita e ogni loro parola sembrava volesse confermare una totale adesione a quella decisione. Quando i ragazzi si appartarono per seguire il loro programma preferito alla televisione, Silvana aggiornò i suoceri e Vanuccio sulla singolare esperienza che avrebbe vissuto il giorno dopo. “Devo farlo, ormai ci sono dentro fino al collo e mi conviene assecondarli” disse per tranquillizzare tutti, in particolare la suocera che aveva un’aria smarrita mai vista. “Vorrei però tenere i ragazzi fuori dalla storia” precisò. Il suocero confermò la sua notevole capacità gestionale, da ex capo d’azienda, elaborando seduta stante una soluzione razionale: i nipoti si sarebbero trasferiti da loro per alcuni giorni, il tempo necessario all’imbianchino per dare una rinfrescata alle pareti delle loro stanze. Lavoro già deciso da tempo, che si trattava solo di anticipare. Con l’imbianchino non ci sarebbero stati problemi, rassicurò.
“Mi sentite bene tutti e tre?” chiese Lamartine, ricevendo una risposta affermativa da Ladisa, Nicosia e Solonik. “Vi chiedo scusa per questa improvvisa telefonata, ma volevo informarvi che la Silvani è in ospedale.” “Cosa è successo?” chiese con apprensione Ladisa. “È andata a sbattere contro un palo con la sua auto. Le due TAC che le hanno fatto escludono complicazioni, ma hanno deciso di trattenerla in osservazione perché lamenta dolori alla testa e alla schiena.” “Era da sola?” volle sapere Nicosia. “Sì. L’ambulanza è stata chiamata da una pattuglia della polizia che era sul posto.” “E l’auto?” indagò Solonik. “È conciata male, sul lato destro. Ma con tutti i soldi che le diamo potrà comprarsene una nuova.” “Ivan voleva sapere se è pulita” intervenne Ladisa. “Sì, non ci sono dispositivi di alcun tipo, dal momento che la facciamo pedinare.” “I nostri cosa hanno visto?” “Nulla di particolare. Deve aver perso il controllo della macchina.” “Bene Pierre. Continua a seguire la cosa e tienici informati.” “Naturalmente.” “Per quando è fissata la prossima operazione?” chiese Ladisa, senza rivolgersi a qualcuno in particolare. “Per venerdì prossimo” rispose prontamente Nicosia. “Rinviamo tutto di due settimane” ordinò. “Ok” disse Nicosia.
“D’accordo” fu il commento di Solonik. “Penso che sia meglio” aggiunse Lamartine. “C’è dell’altro, Pierre?” volle sapere Ladisa. “Nulla di particolare,” rispose il responsabile dell’area europea “solo una curiosità.” “Dimmi.” “Pare che fra la Silvani e l’architetto che cura il restauro della torre ci sia qualcosa di più di un’amicizia.” “Peccato!” interruppe Solonik. “Dovrebbe interessare anche noi, oltre che Ivan?” “No, era solo una curiosità.” “Va bene, continuiamo a tenere gli occhi aperti” concluse Ladisa, salutando gli altri tre.
Poche ore dopo quella telefonata, in un’asettica camera d’ospedale - non sapeva ancora in quale clinica l’avessero portata - Silvana ripensava all’esperienza che stava vivendo, che rendeva ancora più inverosimile la sua storia alla MGR. Le riusciva addirittura difficile separare gli aspetti seri da quelli comici, perché come altro definire se non comici, i colloqui che nelle ore precedenti aveva avuto con i medici? Questi, analizzando radiografie e TAC, escludevano fratture, lussazioni ed ematomi, mentre lei continuava ad avvertire, così sosteneva, dolori alla base del cranio e alla zona lombare della colonna. “È soprattutto la testa che mi fa male” sosteneva. E allora, nuove radiografie, nuovi medici. Un andirivieni di camici bianchi, ma la sua sceneggiata era sempre la stessa. Aveva avuto anche il dubbio che la sceneggiata la recitassero pure i medici, ma non ne era sicura. Sentì bussare alla porta e, nel buio, intravide altri due camici bianchi. Accese la luce e scoprì che uno dei due era l’ispettore.
“Buonasera, signora Silvani. Ha fatto un ottimo lavoro” disse. “Il primario garantisce che non ha nulla, anche se lei lamenta dolori.” “Recito la parte che mi avete affidato” rispose lei con un pizzico di risentimento. “Recitano anche loro, i medici?” “No, loro fanno tutto sul serio. Ignorano la finzione. Sanno solo di lasciare in pace eventuali medici esterni come noi che entreranno in questa camera negli orari morti della clinica.” “Fino a quando starò male?” chiese lei con ironia. “Fino a quando saremo nel guano” rispose l’uomo con voce asciutta. “Per noi è andato tutto storto, abbiamo intercettato tutte le trasmissioni, ma non siamo riusciti a registrare nulla. Non abbiamo addebiti da muoverle, è solo colpa nostra, ci siamo mossi su ipotesi sbagliate” precisò. “Cosa pensate di fare, ora?” “Per ottenere una documentazione delle transazioni utilizzabile come prova c’è bisogno di modificare il suo software” disse d’un fiato. “Ma è impossibile, Lamartine se ne accorgerebbe subito” sbottò lei. “L’abbiamo pensato anche noi ed è per questo che siamo qui. Ma è meglio che lasci la parola al dottor Basile, che è un esperto informatico.” Il collega dell’ispettore ripercorse tutte le fasi della procedura che Silvana aveva eseguito durante le tre operazioni, individuando gli ostacoli che avevano impedito la registrazione delle attività coinvolte. Poiché non era possibile modificare il software MGR, disse, era necessario intervenire su quello che usavano loro al fine di realizzare un aggancio fra i due prodotti. Precisò anche che aveva individuato i punti della procedura utilizzabili per l’aggancio, ma era necessario che la modifica tenesse conto di ogni possibile interrelazione con l’insieme del software MGR e questo poteva garantirlo solo lei, Silvana. “È corretta l’analisi del dottor Basile?” chiese l’agente. “Sì” rispose lei.
“Allora, si può fare?” “Si può.” “Quanto tempo occorre?” “Un paio di giorni, non di più.” “Bene, allora procediamo. Il mio collega verrà a trovarla nei momenti in cui i pazienti vengono di norma lasciati in pace e porterà la documentazione.” “Ok, continuerò a stare male fino a quando mi direte di stare bene” celiò lei.
9
Il lavoro, come previsto, durò un paio di giorni durante i quali incontrò soltanto medici, veri e fasulli, e infermiere. Ci fu soltanto un breve intervento di un tecnico della società telefonica che lei stessa aveva sollecitato perché il suo apparecchio gracchiava in modo impressionante. Non incontrò altri, nemmeno i suoceri e Vanuccio, come concordato. In quei due giorni continuò ad accusare dolori alla testa e alla schiena. Alla fine della modifica, tuttavia, a Silvana non fu consentito di lasciare la clinica perché si resero necessari altri due giorni per convincere i medici che i dolori erano ati. Suo suocero ne approfittò per far dare una rinfrescata anche ai muri delle altre stanze, trattenendo senza problemi i due nipotini che con loro stavano benissimo. Il primario della struttura sanitaria la lasciò andare solo dopo aver sottoscritto una dichiarazione con la quale Silvana si assumeva la responsabilità della dimissione. Vanuccio era andato a prenderla per accompagnarla a casa. La telefonata arrivò proprio mentre richiudeva la borsa nella quale aveva riposto le sue cose. “Silvana…” disse la voce del suocero, insolitamente flebile e incerta. “È terribile.” Non capiva, ma qualcosa le consigliò di prepararsi a una brutta notizia. Non aveva mai sentito suo suocero utilizzare quel termine, terribile, e con quel tono di voce poi. “Cosa è successo, nonno?” “La bambina e la nonna… le hanno portate via.” “Che significa portate via?” “Le hanno rapite.” “Cosa?” urlò. “Chi è stato? Quando è successo?” chiese.
“È successo pochi minuti fa. Stavamo eggiando… io e Sabino siamo rimasti un po’ indietro per guardare una vetrina di articoli sportivi. È arrivata una grossa macchina blu, sono scesi due energumeni e hanno scaraventato la nonna e Letizia dentro, senza molti complimenti” disse. “È stato tutto così veloce… non sono nemmeno riuscito a prendere il numero della targa. Cosa devo fare, Silvana?” chiese. “Aspetta un attimo” rispose lei con voce tremante. Con poche parole ragguagliò Vanuccio sull’accaduto, decidendo con lui una linea di condotta. “Non fare niente, nonno. Tornate a casa, nel frattempo ci pensiamo. ami Sabino, per favore.” “Mamma…” esclamò il piccolo, con voce piena di paura e sofferenza. “Ciao Sabi. Non ti preoccupare, si risolverà tutto. È solo un equivoco, vedrai. Fra un po’ sarò a casa, stai calmo.” “Va bene, mamma. Ciao.” Posò la cornetta, guardando Vanuccio con occhi smarriti. Ma non riuscì a dire nemmeno una parola perché il telefono squillò ancora. “Buonasera, signora Silvani” salutò Lamartine. “Buonasera” rispose lei. Tutto le fu più chiaro ed ebbe paura. “All’ingresso troverà un’auto che l’accompagnerà all’aeroporto.” “Per andare dove?” “In un bel posto, faccia presto.” “Non so se sono nelle condizioni di viaggiare” disse tanto per prendere tempo. “Certo che può” affermò Lamartine e il tono usato la indusse a immaginare una sorta di ghigno dall’altra parte. “I dolori sono scomparsi e poi… non ci sono pali sulla rotta che farete.”
“Non ho niente di decente da mettermi… sono perfino a corto di biancheria” obiettò. “Provvederà a destinazione” rispose con tono tagliente. “E non si preoccupi nemmeno per i suoi, sono al sicuro, purché lei non faccia altri scherzi. Vada, la macchina l’aspetta” concluse con un tono che non ammetteva repliche. Riagganciò senza salutare e la cosa la fece traballare come se avesse ricevuto uno schiaffo potente. “Chi era?” domandò Vanuccio, preoccupato dall’ulteriore peggioramento dell’espressione del volto di Silvana. “Lamartine” rispose lei. “Sono stati loro a rapire mia suocera e la bambina. Mi ha anche detto che all’ingresso mi aspetta un’auto per portarmi all’aeroporto dove mi imbarcherò, ma non so verso quale destinazione.” “Ha detto qualcos’altro?” “Sanno della simulazione dell’incidente e mi ha ammonito di non fare altri scherzi.” Si scambiarono un muto sguardo costernato. “Devo andare, Vanuccio. Per favore, parla tu con mio suocero e con Sabino. Cerca di tranquillizzarli.” “Non preoccuparti” disse lui, posandole una mano protettiva sulla spalla. “Dammi il numero dell’ispettore” aggiunse con determinazione. Silvana rimase per un po’ con lo sguardo perso nel nulla, prima di rispondergli. “Sì, informalo tu.” E gli dettò il numero. Lasciarono la stanza proprio quando il tecnico, lo stesso di alcuni giorni prima, effettuava un nuovo controllo sull’apparecchio telefonico. Scesero con due ascensori diversi. Da una finestra del piano terra Vanuccio la vide salire su una macchina grigia di grossa cilindrata della quale segnò marca e numero di targa. Quando l’auto si fu allontanata, cercò una postazione telefonica all’interno del complesso ospedaliero e compose il numero che gli aveva dato Silvana.
“Pronto” rispose una voce nasale. “Telefono da parte della signora Silvani che è impossibilitata a farlo e…” Non ebbe tempo di concludere la frase. “Mi dica” intervenne una voce diversa. “Sono l’architetto Milella. Le telefono per comunicarle che hanno rapito la suocera e la figlia della signora Silvani.” “Lo sappiamo già. Come mai non ha telefonato lei?” “L’ha chiamata Lamartine. Sono loro gli autori del rapimento. Le ha anche detto che un’auto in attesa all’ingresso della clinica l’avrebbe accompagnata all’aeroporto per un imbarco immediato.” “Dove è diretta?” “Non si sa.” “Mi sa dire qualcosa sull’auto che l’ha prelevata?” “Sì.” E gli lesse gli appunti che aveva preso. “Grazie. C’è dell’altro?” “Vorrei incontrarla.” “Ora non è possibile. Mi dia un recapito telefonico e la contatterò io. In caso di emergenza mi chiami qui, sempre da un posto pubblico.” Vanuccio gli dettò il proprio numero di telefono e si salutarono.
All’aeroporto l’auto entrò da un cancello di servizio e si fermò davanti alla scaletta di un piccolo aereo in attesa. A bordo Silvana fu accolta da un uomo in divisa che, con un largo sorriso, le disse che poteva scegliere uno qualunque degli otto posti, essendo l’unica eggera. Le indicò anche un frigo bar che poteva utilizzare liberamente.
“Dove siamo diretti?” chiese lei. “A Londra, ma faremo scalo a Parigi” rispose l’uomo che, subito dopo, prese posto accanto a un altro pilota già alle prese con levette e pulsanti. L’aereo partì dopo una manciata di secondi. La rivista che sfogliò non riuscì a distrarla dalla vicenda sempre più aggrovigliata che stava vivendo, cominciata con una lauta offerta professionale, continuata con la sua complicità in una truffa finanziaria e con un finto incidente d’auto e conclusa, almeno per il momento, con il −rapimento della suocera e della figlia. E anche suo: come altro poteva etichettare questo suo viaggio, improvviso e obbligato, a Londra, se non come rapimento? Cercò di immaginare la paura che avevano provato, e che di certo ancora provavano la nonna e Letizia, trattenute contro la loro volontà da persone estranee. Non doveva essere meno intensa nemmeno l’ansia che di sicuro attanagliava il nonno e Sabino rimasti a casa. Era già riuscito Vanuccio a parlare con loro e a tranquillizzarli? E lui, l’architetto del suo nuovo ufficio e della sua nuova famiglia, si era forse già pentito di averla incontrata e di essere stato trascinato in quell’assurda storia? Cercò di immaginare la conclusione di quella vicenda ma si rese subito conto che i suoi meccanismi di difesa le impedivano di guardare in faccia la realtà. − Devo avere paura? − si chiese. E la desolata risposta fu affermativa. Le manovre di atterraggio la distolsero, per fortuna, da quei cupi pensieri. Erano a Parigi, in un piccolo aeroporto turistico. − E ora, cosa succederà? − si domandò ancora. La risposta la ebbe subito, quando all’ingresso dell’aeromobile vide stagliarsi la figura di Lamartine che le si avvicinò, la salutò con un breve cenno del capo e si sedette di fronte a lei. Aveva un sorrisetto ironico sulle labbra. Silvana lo squadrò con attenzione e sentì crescere dentro di sé una sensazione impossibile da etichettare perché fatta di rabbia, scoramento, incredulità e ripulsa. Come poteva un uomo fine come lui, dagli atteggiamenti signorili ed eleganti, essere protagonista di frodi, atti criminosi e rapimenti? Tutte cose che trovava più adatte a uomini rozzi come Solonik, non a un intellettuale come lui, dal quale è normale attendersi pensieri e gesti nobili. Non certo lo squallido atto che le sciorinò sotto il naso.
Lamartine trasse dalla tasca un piccolo registratore e lo accese, guardandola con occhi gelidi e un viso privo di espressione. Silvana si rese subito conto della portata devastante di quella registrazione. Sentì la sua voce e quella del dottor Basile mentre concordavano le caratteristiche del dispositivo software da mettere a punto per consentire l’intercettazione delle prossime operazioni MGR. Era evidente che nella sua camera d’ospedale era stato piazzato, a sua insaputa, un dispositivo atto a registrare le cose che vi si dicevano e che alla MGR sapevano ormai tutto. Si limitò ad ascoltare, senza commenti. Anche Lamartine non disse una parola per il resto del viaggio. Si immerse nei suoi pensieri e, come tante altre volte, ritornò indietro nel tempo, a quando si sentiva un bambino diverso dagli altri - sono un bambino indaco, diceva a volte e come tale spesso si comportava. Viveva in un mondo tutto suo, più virtuale che reale, parlava il linguaggio dei personaggi dei fumetti, sognava di diventare il progettista di macchine avveniristiche, ma non amava la scuola, lo studio, le regole. E quando il padre lo riprendeva, si raccoglieva in silenzio a ricevere i rimproveri oppure reagiva con veemenza, dicendosi pronto a scappare di casa. I fratelli gli davano la baia ma lui non se ne curava e tirava diritto per la sua strada. Aveva poi scoperto la bellezza della lettura e aveva cominciato a divorare libri su libri anche se un meccanismo inconscio gli impediva di leggere autori considerati da tutti dei grandi della letteratura. Lo avvertiva come un obbligo, un’imposizione sia pure involontaria e la rifiutava. A Londra, all’uscita dell’aerostazione secondaria nella quale erano atterrati, i due presero posto su una sontuosa auto che, in meno di mezz’ora, li portò in una radura della buia campagna londinese, dove si ergeva una splendida villa antica di pietra rosata. Furono accolti da un signore anziano, in abito elegante e dai tratti aristocratici, che manifestò una grande deferenza nei confronti di Lamartine. Percorrendo i lunghi corridoi per raggiungere la sua stanza, Silvana si rese conto che nella villa c’erano, nonostante fossero ormai le undici di sera, molte persone indaffarate intorno a computer e altre sofisticate apparecchiature che riempivano numerose stanze dell’edificio. Quadri del Settecento, arazzi, tende damascate e maestosi camini di marmo facevano da contrappeso a quella dovizia di materiale informatico e telematico, creando un inusitato connubio fra ato e futuro. Il signore che l’aveva ricevuta, e che ora le faceva strada verso la sua stanza, le
diede appuntamento per le otto e trenta del giorno dopo, per farla accompagnare a un negozio di abbigliamento poco lontano, perché sapeva che doveva fare degli acquisti. La sua stanza, spaziosa e arredata con gusto, affacciava su un angolo del parco molto bello. Dalla finestra entrava soltanto silenzio e buio, non un alito di aria. Decise di coricarsi, sebbene gli ultimi quattro giorni li avesse trascorsi più a letto che in piedi, sperando in un sonno profondo che l’affrancasse, almeno per qualche ora, dai pensieri negativi che affollavano la sua mente. Si ritrovò a pregare e a implorare la misericordia di liberare lei e i suoi cari da quell’orribile desolazione. Dopo la colazione, la mattina successiva Silvana fu accompagnata da un aitante giovanotto in un grande magazzino, a pochi chilometri di distanza, dove comperò degli effetti personali e alcuni abiti. Quando ritornò alla villa si rese conto che Ladisa era già arrivato. Era nel parco, sprofondato su una comoda poltrona, così come Nicosia, Solonik e Lamartine. C’era una quinta poltrona libera e capì che era per lei. Quando li raggiunse, i quattro uomini si alzarono in contemporanea, riservandole un impercettibile inchino. Con un cenno della mano, Ladisa la invitò a sedersi. Prese posto e girò lo sguardo su quella galleria di volti immobili, senza espressione, con gli occhi rivolti verso il manto erboso. Solo Ladisa aveva lo sguardo puntato su di lei. Nessuno fiatava, quasi a non voler disturbare il concerto degli uccelli che, numerosi, abitavano gli alberi del parco. Silvana non capiva a che gioco stessero giocando e provò una grande irritazione che andò a sommarsi alla paura che si era insediata in lei a partire dalla telefonata di Lamartine del giorno prima, acuita dall’ascolto della registrazione sull’aereo. Insieme alla rabbia, sentì crescere come un baobab una prepotente determinazione a lottare, a non farsi sopraffare. Decise di giocare d’anticipo. “Spero che qualcuno mi spieghi” disse con tono risoluto. I tre sguardi prima puntati sull’erba si concentrarono su Ladisa e tutti esprimevano incredulità. “Dice sul serio, signora Silvani?” chiese Ladisa. “La registrazione che abbiamo ascoltato non lascia dubbi. Però mi sono detto che bisogna sentire l’altra campana… bisogna farlo sempre. Ed eccoci qua” disse allargando leggermente
le braccia. “Siamo convinti che sia lei a doverci delle spiegazioni” aggiunse senza ironia, col piglio da vecchio patriarca. “Non dirò niente fino a quando non saprò cosa ne è stato di mia figlia e di mia suocera” azzardò. “Stanno bene, godono di ogni comfort e non corrono rischi” la tranquillizzò. “E così sarà se lei lo vorrà” pontificò solennemente. “Vorrei vederle.” “Non è possibile, sono in Italia.” “E allora voglio parlare con loro.” Ladisa fece un segno a Lamartine che, composto un lungo numero sul satellitare, parlottò con qualcuno e ò il ricevitore a Silvana, che si ritrovò in contatto con la suocera. “Stiamo bene” la tranquillizzò la nonna. Erano in una bella casa di campagna, circondata da un grande parco. C’erano anche dei cavalli e a Letizia era consentito di montare su un puledro. Potevano girare liberamente, purché rimanessero all’interno del recinto. Silvana ammirò la serenità che la suocera si imponeva per non darle ulteriori motivi di preoccupazione, dato che ne aveva già così tanti. Rispose anche lei con un tono rassicurante, chiedendole di pazientare: avrebbe fatto di tutto per limitare la loro separazione, ma non sapeva dire quanto sarebbe durata. Parlò anche con la bambina e fu sorpresa dalla serenità con la quale le rispose, mostrando di avere più preoccupazioni per il fratello e il nonno che per se stessa. Silvana provò un grande senso di sollievo, restituì il telefono e si rivolse a Ladisa. “Grazie” gli disse e in quella parola non c’era formalità, ma la materna soddisfazione di sapere la propria piccola al sicuro. “Non ho tradito la MGR” aggiunse subito, forse per bloccare sul nascere una lacrima che chiedeva di uscire. “Sono stata costretta a comportarmi in un certo modo, non avevo scelta.” “Costretta da chi?” “Da un ente intergovernativo internazionale di cui non le so dire il nome. Sono stata avvicinata da un loro agente che mi ha dato l’impressione di sapere molte
cose sul vostro conto. Conosceva i dettagli del mio contratto ancora prima che lo firmassi.” “Come si chiama?” “Non lo so. Posso contattarlo per telefono a questo numero.” E gli ò un foglietto dopo avervi scarabocchiato la lunga sequenza di numeri che componeva per parlargli. “Cosa vuole da lei?” “Che li aiuti ad avere la prova documentale per incastrarvi. Ha detto che vi sono alle calcagna da tempo e che prima o poi vi prenderanno con le mani nel sacco. A me chiedono di aiutarli a costruire la prova. Mi hanno detto chiaramente che non posso tirarmi indietro perché, col contratto che ho firmato, ci sono dentro fino al collo.” Sul viso degli altri tre uomini si abbozzò un leggero sorriso. Sì, avevano fatto proprio un bel lavoro con quel contratto. “In che modo li ha aiutati?” continuò Ladisa, mantenendosi distaccato. “Ho dato la documentazione della modifica effettuata su RhSoft e, quando ero in clinica, ho aiutato un loro tecnico a realizzare un dispositivo che consente al software che hanno in dotazione di registrare le operazioni effettuate dalla MGR.” “Quando si è in due a correre, non si può pretendere di stare in mezzo” disse il patriarca. “Dopo aver fatto questo, sostiene ancora di non aver tradito la MGR?” “Sì, perché quello che hanno in mano non serve senza le coordinate relative alle modalità, alle linee utilizzate, ai punti di collegamento e al momento di esecuzione della singola operazione.” “E ora cosa si aspettano da lei?” “Queste coordinate, appunto.” “E lei cosa ha risposto?”
“Che non so quando sarà effettuata la prossima operazione.” “Chi sa dei suoi contatti con l’agente?” “Nessuno.” “Nemmeno i suoi suoceri?” “Neppure loro.” “E il suo amico del cuore, l’architetto?” “Anche lui è all’oscuro di tutto. Non mi sembrava il caso di coinvolgere altre persone nella vicenda.” Ladisa si appoggiò allo schienale e chiuse gli occhi. Rimase un po’ in silenzio, poi li riaprì e guardò uno per uno gli altri uomini. “Signora Silvani, noi quattro faremo una colazione di lavoro. Lei è libera di muoversi come vuole e di fare qualunque cosa, con due vincoli: non può comunicare con l’esterno e sarà sempre affiancata da un nostro collaboratore, che non la mollerà mai, se non quando sarà in camera sua. Ci rivediamo alle tre.” Ciò detto, si alzò e si avviò a o lento verso la villa, seguito dagli altri tre uomini. Silvana scoprì che il collaboratore che sarebbe stato il suo inseparabile angelo custode era lo stesso giovanottone che l’aveva accompagnata al grande magazzino. Non era un grande conversatore, se non quando si parlava di cose tecniche. Le fece visitare i tre piani della villa, illustrandole con precisione la funzionalità e l’operatività delle varie apparecchiature che riempivano la quasi totalità degli spazi dell’antico edificio. Spiegò che quel centro servizi, che impiegava oltre duecento persone, in massima parte giovani donne, fungeva da polo di transito e controllo di tutte le attività europee verso l’America e l’Asia. Silvana trovò molto interessante quella visita, al punto che non si concesse nemmeno una sosta per un panino. Alle tre precise raggiunse il punto del parco dove poche ore prima aveva incontrato Ladisa e gli altri. I quattro uomini arrivarono pressoché nello stesso
istante e si accomodarono sulle poltrone, le stesse che avevano occupato nel precedente incontro. Anche lei si sedette. Fu Ladisa a prendere la parola. “Signora Silvani, abbiamo deciso di fidarci di quello che ci ha detto, almeno per il momento. Le sue attività saranno trasferite da Fasano a questo centro e lei continuerà collaborando con il signor Nicosia. Rimanendo qui.” Disponeva le parole, distanziandole con sapienza, come se fossero epitaffi destinati al ricordo. C’era molta insolenza dietro l’accuratezza di quelle frasi, ben costruite ma gelide come le carezze che una persona dà al partner che tradisce. “Per quanto tempo dovrei rimanere qui?” “Usi il futuro anziché il condizionale. Dà più certezze” le suggerì. “Va bene. Per quanto tempo?” “Diciamo un mese. Abbiamo diverse operazioni in attesa di essere eseguite e con l’uso del suo RhSoft possiamo accelerare i tempi. Fra un mese dobbiamo sospendere ogni attività, per ragioni di sicurezza.” Ladisa guardò a turno gli altri tre uomini e poi Silvana. L’incontro dei loro sguardi durò solo qualche istante, un lasso di tempo sufficiente per dirsi tutto quello che avevano da dirsi. “Noi produciamo opportunità per i nostri clienti, mettendo insieme competenze tecniche, fiuto, relazioni e creatività” disse. “Vede, una cosa è fare denaro, altra cosa è gestirlo. Per molte persone è più facile farlo, con tutti i mezzi, che gestirlo. Il nostro compito è gestire quel denaro.” “Ma i vostri clienti guadagnano soldi con attività illecite, sono quasi tutti…” Lasciò sospesa la frase, intuendo che si sarebbe completata da sola. “Mafiosi. Non abbia timore a pronunciare quella parola” la rimbeccò paternamente. “Mi ascolti: i nemici più infidi del bene, dalla parte del quale lei si sente certamente schierata, non sono i mafiosi ma quelli che ciondolano nella zona grigia, nell’indifferenza, senza schierarsi a favore o contro. Costoro dovrebbero riflettere sulle parole del libro di Giovanni Evangelista che chiude la Bibbia: ʻPoiché tu sei tiepido, cioè né caldo né freddo, io sono sul punto di
vomitarti dalla mia boccaʼ.” Silvana fu come presa in contropiede, non si aspettava una citazione biblica. Rimase in silenzio. “La mafia ha il sapore acre dei limoni, dalle cui esportazioni verso l’America è nata subito dopo l’Unità d’Italia” intervenne Lamartine. “E a molti il sapore del limone non dispiace” aggiunse Ladisa. “Capisco” disse lei. “È l’indifferenza della gente che rende più forte la mafia, sono d’accordo. Ma voi la ripulite e l’arricchite” aggiunse accalorandosi un po’. “Noi gestiamo il loro denaro. È un lavoro tecnico che altri saprebbero fare.” “Ma intanto…” “Sì?” la incalzò lui. “Vi macchiate di complicità, fiancheggiandoli.” “Ne è certa?” chiese. “Mi dimostri il contrario” lo sfidò lei. “Noi ripuliamo il loro denaro, lo facciamo crescere e… glielo portiamo via” disse compunto, senza sorridere, con gli occhi che si erano fatti più pungenti. “Non capisco” ammise lei. “Il nostro senso di giustizia ci porta a prendere da chi ha per aiutare chi ha bisogno e questo ci fa sentire puliti, generosi, in pace con noi stessi.” Ladisa mise una mano in tasca, estrasse un santino di san sco, lo rimirò a lungo e lo ripose dove l’aveva preso. “Continuo a non capire” fu costretta a ribadire. “Ci appropriamo di soldi altrui, è vero. Ma poiché non sono il frutto di un lavoro pulito, da un punto di vista morale noi non rubiamo. E poi quei soldi li distribuiamo in buona parte per opere di bene, seguendo un nostro codice: aiuto
a strutture di sostegno ai tossicodipendenti se i soldi provengono dal traffico di droga, aiuti a vittime di stupri se i soldi provengono dallo sfruttamento della prostituzione, aiuti alle famiglie che hanno avuto vittime innocenti, e fra questi ci mettiamo anche le famiglie di poliziotti morti in operazioni anticrimine, se i soldi provengono dal commercio di armi… e potrei continuare.” “Ci ispiriamo a una Bolla di Componenda dei nostri tempi” specificò Lamartine “che, come ricorderà, era un elenco di possibili crimini redatto nel 1477, accanto a ciascuno dei quali era indicata una tariffa, pagata la quale il reo poteva godere del frutto del reato come cosa propria giustamente ottenuta.” “Con la nostra azione, aiutiamo molte persone a ridistribuire alla società civile parte del valore che hanno accumulato senza andare troppo per il sottile” disse Ladisa. “In fondo, noi usiamo il suo software come un prodotto di finanza etica, devolvendo una parte delle risorse ottenute in modo discutibile in iniziative benefiche e sociali di valore indiscutibile” aggiunse Lamartine. “Siete dei filantropi” saettò lei con tono canzonatorio. “Non faccia dell’ironia e lasci perdere il moralismo” suggerì Ladisa. “Oggi la filantropia si allontana dal concetto di donazione e diventa parte delle strategie aziendali attraverso iniziative di carattere culturale, umanitario o di tutela ambientale. Ma questa beneficenza diventa un affare per chi la fa.” “Ostentazione di buonismo” rincarò Lamartine. “Quello che ricaviamo da queste operazioni lo investiamo nell’azienda, per farla crescere e per creare lavoro. A noi riserviamo solo una piccola parte” chiarì Ladisa. “Come vede, non calziamo scarponi chiodati, ma scarpe fatte su misura.” “Non vogliamo provocare indignazione, rabbia e dolore, ma consenso, serenità e gioia” aggiunse Nicosia. “Non siamo contro le leggi” disse ancora Ladisa. “Solo che le interpretiamo, non ci limitiamo ad applicarle a occhi chiusi. Ci comportiamo come la giustizia” sentenziò. “Il suo contratto è un esempio di come rispettiamo le leggi” aggiunse Lamartine
“ed è per questo che ne pretendiamo il rispetto.” “Senza la sua collaborazione sarebbe molto più difficile realizzare il nostro obiettivo.” Silvana non sapeva cosa dire, era completamente spiazzata. “Possibile che di una cosa del genere non ne parli nessuno?” chiese. “Preferiamo essere, non apparire. Rimaniamo nell’ombra perché la beneficenza deve essere discreta. ʻQuando fai l’elemosina non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destraʼ disse Gesù nel discorso della montagna. E noi rispettiamo quel monito.” A Silvana tornò in mente l’articolo sulla filantropia che aveva letto sull’aereo proprio all’inizio della sua avventura con la MGR. Una sorprendente coincidenza, pensò. “E dei vostri prigionieri, che ne sarà?” chiese. “I nostri ospiti” corresse lui “rimarranno dove sono.” “Ho bisogno di comunicare con loro.” “Potrà farlo quotidianamente, sempre alla presenza del suo accompagnatore, che conosce l’italiano.” “Voglio parlare anche con mio figlio e mio suocero.” “Questo è più difficile.” “È una mia condizione.” “Le sconsiglio di usare questo tono. E non credo che lei possa porre condizioni. Vedremo cosa si può fare. Pierre, hai qualche idea?” “Escludo telefono e mail. Penso che la soluzione possa essere una combinazione fax-posta in entrambe le direzioni. Ci vorranno circa 48 ore per ogni comunicazione, non si può fare prima.” “Frank, Ivan, avete altre proposte?”
Entrambi risposero con un movimento di diniego. “È tutto quello che si può fare, signora. Le va bene?” “Sì.”
Nello stesso momento in cui Silvana saliva la scaletta dell’aereo che l’avrebbe portata a Londra, Vanuccio varcava la soglia dell’abitazione dei suoi suoceri, dove l’attendevano Sabino e il nonno, ai quali aveva chiesto per telefono di incontrarlo. All’arrivo dell’ospite, un’inattesa telefonata di una compagna di scuola di Letizia costrinse Sabino ad allontanarsi per qualche minuto, il tempo necessario a Vanuccio per convincere il nonno della necessità di dire al nipote le cose come stavano, al fine di evitare contraddizioni e malintesi. Il nonno acconsentì, per cui Vanuccio mise al corrente il ragazzo dell’intera vicenda, raccontandogli dell’irrinunciabile offerta della MGR, dell’involontario ruolo della mamma nelle malefatte della società, della comparsa sulla scena dell’agente, dei ricatti di entrambe le parti, del finto incidente, del prelevamento della madre. “Dove sono ora la nonna e Letizia?” “Non lo so.” “E la mamma?” “Non si sa nemmeno questo” ammise. “Ma ritengo che nessuna delle tre corra pericoli per il momento perché hanno bisogno della mamma per i loro loschi traffici.” “Perché non diciamo tutto alla polizia?” “Non è necessario, l’ispettore rappresenta un’autorità pubblica anche più potente della polizia.” “Autorità? Ma se fa i ricatti come quegli altri criminali? Che differenza c’è fra lui e gli altri?”
“Hai ragione, però lui lo fa per qualcosa di positivo.” “Bella roba! Magari sa dove tengono la mamma, la nonna e Letizia.” “È probabile che lo sappia.” “Perché non glielo chiedi?” “Lo farò alla prima occasione. Ma voglio incontrarlo di persona, guardarlo negli occhi. Gli telefonerò per chiedergli un appuntamento.” “Chiamalo da qui.” “No, devo usare soltanto telefoni pubblici, per ragioni di sicurezza.” Quando lasciò la casa, Vanuccio si fermò alla prima cabina telefonica e chiamò l’agente. Fu fortunato. Gli fissò l’appuntamento per il giorno dopo alla testa di cervo, il nome che molti davano al porto di Brindisi per la sua particolare conformazione. Prima di riattaccare gli rivelò: “Io non avrò problemi, la conosco già.”
Il giorno dopo, Vanuccio era arrivato da qualche minuto al porto quando fu avvicinato da un signore con una strana sciarpa annodata al collo. “Da qui partivano gli eserciti romani diretti alla conquista di nuove terre e qui approdavano le legioni reduci da vittoriose imprese” disse. “E qui ci incontriamo noi, chissà perché. Un caffè?” propose con cordialità. Entrarono nel bar più vicino e scelsero un tavolino appartato. “Lei sa dove sono Silvana, sua suocera e Letizia?” chiese senza inutili giri di parole. “Sì.” “Può dirmelo?” “Diciamo che la signora è in Inghilterra, la suocera e la figlia in Italia. Non c’è motivo di preoccuparsi per la loro salute, stanno bene.”
“Ma nessuno sa nulla degli altri! Questo è inumano, se ne rende conto?” “Sì, ma riteniamo di avere la situazione sotto controllo e non vogliamo che qualcosa o qualcuno pregiudichi il nostro lavoro. La loro incolumità è un nostro obiettivo, non lo dimentichi.” “Le credo, ma è una situazione difficile da sopportare.” “È questione di poco tempo. Riteniamo che la signora Silvani sarà dirottata su altri progetti che sono sotto la nostra attenzione da tempo. Ci vuole un po’ di pazienza.” “La pazienza non è una prerogativa dei ragazzi. Il figlio freme e potrebbe fare qualche sciocchezza.” “Che c’entra il figlio? Cosa sa? E che sciocchezza può fare?” “Sa tutto di questa storia e temo che, per amore dei suoi, possa rivolgersi ai carabinieri.” Anche gli uomini tutti d’un pezzo possono sbandare. L’agente assunse un’espressione perplessa e, dopo qualche istante di silenzio, disse: “La signora è nelle vicinanze di Londra, in una villa storica, dove continua a lavorare. La suocera e la figlia sono in una masseria nei pressi della collina di Ostuni, a un paio di chilometri. Anche loro stanno bene. Dica al ragazzo di stare calmo e di avere fiducia nelle istituzioni.”
10
“Come sapete, devo rientrare perché domani c’è il consiglio di amministrazione della fondazione e non posso mancare” esordì Ladisa. “Ma, prima di partire, voglio vedere il piano di lavoro delle operazioni delle prossime settimane. Visto quello che sta succedendo, meglio una verifica in più che una in meno” aggiunse. Erano nella sala riunioni del primo piano, seduti a un’estremità del lungo tavolo fratino che occupava l’intera sala in senso longitudinale. Ladisa e Lamartine erano seduti da un lato, Nicosia e Solonik dall’altro. Ognuno aveva davanti a sé una cartellina di pelle, un bicchiere di cristallo e una caraffa d’acqua. “Pierre, vuoi cominciare tu?” chiese Ladisa. “Sì Nicola, e comincio col mettere in evidenza che ci sono diverse sovrapposizioni tra le operazioni in partenza da qui con quelle di Parigi. Va da sé che è opportuno garantire la massima sincronizzazione.” Nicosia e Solonik annuirono. Il responsabile dell’area europea continuò la sua esposizione comunicando che per le operazioni programmate era stata selezionata la clientela formata dagli istituti di credito con diramazioni internazionali. Una seconda scrematura era stata effettuata considerando soltanto gli istituti oggetto in ato di operazioni speciali andate a buon fine e quelli presso i quali era in uno stadio avanzato l’installazione di RhSoft. Da queste scremature era emersa una lista di cinquanta clienti con soddisfacenti volumi di scambi internazionali. Era stata poi fatta un’analisi statistica sulle dimensioni delle transazioni estere, i cui risultati avevano determinato una riduzione della lista a diciotto nominativi, dieci su Londra e otto su Parigi. Aggiunse che tutte le operazioni sarebbero state condotte il venerdì o il giorno precedente una festività. Il mese di riferimento prevedeva quattro venerdì e una festività infrasettimanale in Inghilterra. Per motivi di sicurezza, era stato deciso di compiere due operazioni al giorno, ecco spiegato il perché delle dieci operazioni su Londra e otto su Parigi. Lamartine concluse illustrando i criteri con i quali era stata determinata la sequenza delle operazioni e le caratteristiche dei conti di partenza, di transito e di destinazione.
“A quanto ammonta la somma degli importi di queste operazioni?” chiese Ladisa. “Circa cento milioni di euro.”
Sabino nutriva una grande stima, oltre che un crescente affetto, per Vanuccio e le sue parole lo avevano rassicurato, tuttavia non riusciva a liberarsi dai timori sulla sorte della mamma, della nonna e di Letizia, ingigantiti dai ricordi di immagini truculente viste in tanti film dell’orrore. Immaginava la madre segregata in qualche buia cella sotterranea, incatenata a umide pareti e terrorizzata da topi, ragni e altri orribili insetti. Si figurava Letizia che scappava ansimante dalla sua prigione, col viso stravolto dalla fame e dal terrore, con cani rabbiosi che la inseguivano. Gli sembrava di vedere la nonna impazzire per l’impotenza di alleviare le sofferenze dell’amata nipotina. A liberarlo da questi putridi pensieri arrivò il suono del citofono: la portinaia lo avvisò dell’arrivo di un espresso. Spinto da una forza di cui non riusciva a capire il significato, si precipitò giù per le scale, senza aspettare l’ascensore. Quando ebbe la busta fra le mani, sentì crescere a dismisura quella forza che lo riportò in casa in men che non si dica. Ansimante, lacerò la busta ed ebbe la conferma: era della mamma. Divorò in fretta la lettera, masticandola male e perdendo qualche briciola del discorso, spinto dal grande bisogno di sapere. “Carissimo Sabino, tesoro mio” esordiva la lettera. “Mi dispiace per tutti questi grattacapi che, contro la mia volontà, sto procurando alla famiglia. Ti prego di perdonarmi e di continuare a considerarmi la tua amatissima mamma, che non esiterebbe a dare la vita per te.” Silvana riconosceva di non riuscire a controllare completamente gli eventi, ma di ciò non poteva ritenersi responsabile. Al momento giusto, prometteva, gli avrebbe raccontato tutto, fatti e antefatti. Gli chiedeva di avere fiducia in lei e di essere tranquillo anche sulle sorti di Letizia e della nonna: vivevano in un’enorme casa di campagna in mezzo a un bosco, dove c’erano anche dei cavalli che potevano trottare liberamente in uno spazio recintato. Aveva parlato con entrambe e le aveva trovate serene. Anche lei veniva trattata con riguardo e continuava a lavorare. Era certa che si sarebbero rivisti presto, qualche settimana, non di più. Sabino urlò di gioia e si precipitò dal nonno che, letto a sua volta, telefonò a
Vanuccio. L’architetto si fece leggere la lettera e più volte il aggio relativo alla grande casa nel bosco. Vanuccio riattaccò pervaso da un incomprensibile ottimismo. Ripeté mentalmente quello che aveva sentito: una grande casa in mezzo al bosco, un recinto con dei cavalli. Dove? Nei pressi della collina di Ostuni, a un paio di chilometri, aveva detto l’ispettore. Accese il computer e andò alla ricerca di una mappa della zona. Ne trovò una abbastanza dettagliata che gli procurò un autentico tuffo al cuore: era una zona relativamente limitata, con poche strade. Ostuni si sviluppava su tre colli, all’estremità della Murgia brulla e arida, da ognuno dei quali partiva una strada in direzione di Carovigno, Ceglie Messapica e Cisternino e su ciascuna delle tre c’era una frazione abitata a un paio di chilometri circa: Ramunno Secondo, Lamardilla e Campanile. Certo, potevano esserci molte case, ma non dovevano essere molte quelle in mezzo al bosco e ancor meno quelle con un recinto con dei cavalli. Istintivamente decise di andarci e provare a rintracciare Letizia e la nonna. Avrebbe setacciato la zona e controllato ogni casa. Riteneva di avere in mano elementi sufficienti per una ricerca e non si pose il problema se il suo comportamento potesse in qualche modo compromettere il lavoro dell’agente. Richiamò Sabino e rispose il nonno. Gli raccontò dei nessi che aveva notato fra le cose scritte da Silvana e le cose dette dall’ispettore e lo mise al corrente del proposito di provare a cercare Letizia e la nonna. Meglio non dire niente a Sabino e fargli credere che era via per lavoro. Consigliò di rispondere a Silvana, fingendo di scrivere a una persona lontana per impegni di lavoro. L’anziano signor Silvani non sollevò obiezioni per la decisione e i suggerimenti di Vanuccio, ma volle raccomandargli di stare in guardia e di evitare qualsiasi pericolo. Dopo la telefonata, Vanuccio mise in un borsone un po’ di indumenti, gli effetti personali, delle cartine geografiche e un binocolo. Fece alcune telefonate per avvisare che sarebbe stato via qualche giorno e si mise al volante. Conosceva bene Ostuni, cittadella che fondava il suo fascino su una terna di elementi: una campagna immensa leggermente ondulata, un mare maestoso e un cielo infinito. La chiamavano la città bianca perché le case erano tutte dipinte di bianco con la calce, un disinfettante naturale che, oltre a conferire una nettezza inusitata all’ambiente, l’aveva protetta dall’unto della peste alla fine del Seicento. Anche le stradine a gradini, caratteristiche del borgo medievale, erano
spalmate di calce bianca. Era stata costruita dai Messapi su tre colline dalle pareti molto ripide, che si elevano bruscamente dalla pianura costiera, per motivi di sicurezza. Viveva di agricoltura e turismo e, ricordò, anche di allevamenti di purosangue di razza Murgese. Fu felice di queste reminiscenze scolastiche. Durante il viaggio pensò che avrebbe dovuto procurarsi una cartina della zona più dettagliata di quella in suo possesso e che, se fosse stato possibile, sarebbe stato meglio lasciare da qualche parte la sua voluminosa berlina e noleggiare un piccolo fuoristrada, più adatto per i percorsi che intendeva effettuare. Si disse anche che, per la sua ricerca, sarebbe stato utile rivolgersi ai veterinari della zona o alle guardie forestali, se avesse avuto la ventura di incontrarne qualcuna. − Il sole della Puglia è capace di colorare di rosso e di giallo perfino il grigio cupo dell’asfalto stradale − pensò guardandosi attorno e ripromettendosi di ritornare in quei posti con Silvana. C’erano diversi villini a mare, come venivano denominati da quelle parti le abitazioni sulla costa con qualche metro di verde intorno. Anche in quella zona c’erano ulivi secolari, che incutevano rispetto per la loro maestosità. Ne aveva scalati tanti da bambino, per abbacchiare le olive ostinate rimaste attaccate ai rami. Un gioco che gli procurava anche delle gradite mancette da parte dei proprietari del podere. Dopo aver noleggiato il piccolo fuoristrada s’avventò sul sentiero che menava alla collina, ma l’impeto ben presto si spense e si ritrovò a percorrerla a o d’uomo o poco di più. Continuava a sentirsi fiducioso sull’esito della sua ricerca. L’unico dubbio che lo disturbava era l’attendibilità delle informazioni avute dall’agente: nei pressi della collina di Ostuni. È vero che il suo obiettivo era evitare colpi di testa da parte di Sabino, ma avrebbe potuto essere più generico. Gli era sfuggita quell’informazione? Difficile a credersi, per un agente abituato a fare della segretezza un punto di riferimento costante della sua attività. Forse aveva fatto quella precisazione non aspettandosi che sarebbero arrivate altre informazioni da Silvana. Oppure la sua era stata una semplice sparata, difficile da verificare, che gli consentiva di prendere tempo. In questo caso la ricerca era destinata a naufragare. Non gli restava comunque che tentare, non aveva alternative. Il momento del naufragio sembrava prossimo. Dopo quattro giorni di vane ricerche si ritrovò con un pugno di mosche. Cominciava a sentirsi stanco e scoraggiato. Aveva battuto la zona in lungo e in largo, parlato con veterinari,
contadini, portalettere e vecchi del posto, ma senza risultati. Si era anche spinto fuori della zona di Ostuni, andando oltre le tre frazioni che aveva setacciato palmo a palmo, sperando in un colpo di fortuna, ma tutto era stato vano. Aveva anche ritelefonato all’agente, sperando in qualche indizio aggiuntivo, ma questi aveva interrotto in modo sbrigativo la comunicazione, risentito di essere stato contattato senza alcun motivo. Si era tenuto costantemente in contatto con Sabino e il nonno, trovandoli sempre sereni, soprattutto perché avevano ricevuto una seconda lettera da Silvana, ancora più rassicurante della precedente. Con il morale in fase calante, come la luna di quelle notti, Vanuccio si apprestò quel tardo pomeriggio a fare un nuovo tentativo, anch’esso fuori dell’area indicata dall’ispettore, ma in direzione Fasano, sulla base delle informazioni ricevute da un venditore ambulante di pentole e articoli casalinghi, che gli aveva parlato di una casa nei cui pressi era ato alcuni giorni prima col suo furgone notando nel recinto tre o quattro cavalli. Decise di andarci, sia pure senza molta convinzione, perché non voleva lasciar perdere nessun tentativo, nemmeno il più improbabile. E quella sua cocciutaggine fu premiata: il posto corrispondeva, almeno in apparenza, alla descrizione fatta da Silvana. Salì su quella collina di nemmeno quattrocento metri di altezza, formata da una roccia bianca calcarea sulla quale era adagiato un sottile strato di terra rossa. Lungo la strada aveva incrociato un paio di tratturi, piccoli sentieri larghi meno di un metro, che un tempo convogliavano gli armenti alla ricerca di pascoli. Arrivato quasi in cima alla collina, ricordò le indicazioni date dal venditore ambulante, secondo le quali la casa si trovava sul versante opposto in una sorta di avvallamento. Lasciò l’auto su una piccola radura, forse un antico riposo, una di quelle aree di parcheggio in cui sostava il bestiame durante le lunghe transumanze, ormai coperto da un fitto fogliame, e proseguì a piedi. La casa era proprio lì, al centro di una grande spianata circondata da un recinto alto e fitto. Non vi erano persone, tantomeno cavalli. Un grosso fuoristrada era posteggiato sul retro. Da due finestre trapelava una luce fioca, perché incominciava a fare buio. La luce silenziosa delle lucciole si era sostituita al canto infinito delle cicale, colonna sonora dell’intera giornata. L’ombra si era ritirata dagli alberi e le siepi di fichidindia si erano disposte in paziente attesa del sole del giorno dopo per continuare la maturazione dei loro frutti colorati e spinosi. Era certo di aver trovato il luogo in cui erano trattenute Letizia e la nonna, ma non sapeva come comportarsi. Pensò che la cosa migliore fosse ritornare la mattina seguente e studiare la situazione alla luce del giorno.
Il mattino dopo, dal ristorante dell’albergo si fece preparare un sacchetto con panini, bibite, frutta e un thermos di caffè. Erano da poco ate le otto quando, lasciata l’auto nello stesso punto del giorno prima, si avviò verso il ciglio della collina. Scelse un posto riparato fra le piante e riprese la perlustrazione servendosi del binocolo. La continuità del recinto era interrotta da tre cancelli, due in corrispondenza di ciascuna delle due stradine di accesso alla casa, il terzo di apertura verso la parte della spianata utilizzata a pascolo per i cavalli. Una stradina era la continuazione di quella che aveva percorso lui, l’altra scendeva dal versante opposto della valle e si mimetizzava con il bosco. Continuando a perlustrare i dintorni della casa, a un tratto notò un bagliore proveniente da un punto ben nascosto della stradina sul versante opposto della valle. Puntò il binocolo in quella direzione e dopo un po’ riuscì a inquadrare qualcuno fra il fogliame. Si convinse che qualcun altro, oltre lui, teneva la casa sotto osservazione. Allargando il raggio della sua perlustrazione, riuscì a intravedere la sagoma di un’automobile nascosta tra il verde. All’improvviso fu assalito dal dubbio che anche sulla strada che aveva percorso lui ci potesse essere qualcuno interessato alla masseria. Osservando meglio con il binocolo, in particolare verso il punto in cui più fitto era il fogliame, riuscì a localizzare la sagoma di un’automobile sulla cui fiancata era appoggiato un uomo con un teleobiettivo puntato verso la struttura. Si convinse che quei due appostamenti portassero il marchio dell’agente e che pertanto era nel posto giusto. − Che fare ora? − fu la domanda che si pose. Attendere, null’altro poteva che attendere qualche evoluzione. Una risposta non soddisfacente, convenne. I dubbi ripresero a rotolare nella sua testa, moltiplicandosi. − La casa è tenuta sotto controllo da un ente istituzionale che ha mezzi e capacità di intervento − si disse. − E allora, io che ci faccio qui? Su quali competenze posso contare per agire in una situazione come questa? Che mezzi ho a disposizione? Non corro il rischio di compromettere l’azione che l’ispettore sta di sicuro organizzando? O peggio, non sto giocando con l’incolumità di Letizia e della nonna? Cosa cerco di dimostrare, di essere coraggioso? Di essere un eroe? Voglio l’ammirazione della donna che amo, dimenticando che anche lei è nei guai e che un mio errore le si può ritorcere contro? Può un uomo razionale innescare tanti dubbi col suo agire? –
Forse fu proprio quest’ultima domanda a far vibrare le corde della sua sensibilità - o della sua permalosità? - e a raffreddare il suo entusiasmo. Decise comunque di aspettare sperando che accadesse qualcosa, quanto meno per soddisfare la sua curiosità e ripagarsi di quattro giorni di pellegrinaggio. L’attesa fu lunga, ma non tanto da scoraggiarlo. Dopo un paio d’ore qualcuno uscì dalla casa. Era un uomo, con qualcosa arrotolato sotto il braccio, apparentemente una borsa o un sacco. Salì sul fuoristrada che, dopo una manciata di secondi, sentì ruggire lungo il viottolo nei pressi del quale era appostato. Poi più nulla. Dopo circa un’ora lo stesso rombo avvisò che l’auto stava ritornando verso la casa. Lo stesso uomo ne scese con un borsone fra le mani. Doveva essere pieno. Ne dedusse che era andato a fare la spesa. Dopo pochi minuti, dal retro della casa sbucarono due cavalli, dietro i quali trotterellava un puledro. Quasi nello stesso istante, dalla casa uscì una donna seguita a breve distanza da altre due sagome femminili, quelle di Letizia e della nonna. Ebbe un sussulto e dovette trattenersi per non lanciare un urlo di gioia. La ragazzina montò sul pony e prese a girare intorno alla casa sotto lo sguardo della nonna e della giovane che, appoggiata alla staccionata, fumava una sigaretta dopo l’altra. Dopo circa una mezz’ora, i cavalli furono lasciati liberi di pascolare sullo spiazzo adiacente e le tre donne rientrarono in casa, probabilmente per il pranzo. Decise di addentare anche lui un panino. Il pomeriggio fu lungo a are perché non si verificò alcunché. Solo verso il tramonto riapparve la giovane donna, che fece rientrare i cavalli nel recinto della casa e urlò qualcosa. Letizia uscì con la nonna e, ancora una volta, balzò in groppa al puledro, girando numerose volte intorno alla costruzione. All’improvviso, Vanuccio udì il rumore di un’altra auto che ava poco distante da lui, si fermò davanti alla casa e ne discesero un uomo e una donna. La coppia che aveva visto durante il giorno, quello del borsone e la fumatrice incallita, uscirono di casa, li salutarono, salirono sul fuoristrada e si allontanarono. − Il classico cambio di guardia − pensò. L’oscurità cadde dal cielo senza che nient’altro succedesse. La notte si ammassava sull’acqua che vedeva in lontananza e dipingeva di buio ogni cosa. Il cielo terso esponeva, come su di una grande bancarella, un’infinità di stelle
acerbe e mature, tutte radiose. Sembrava più vicino del solito e invitava ad allungare una mano per toccarlo. L’aria si era fatta fresca, ma lui non aveva nulla da mettere attorno al collo, suo punto debole. − Siamo ancora lontani da San Biagio – pensò. Ricordava che durante la festa del santo, agli inizi di febbraio, il sacerdote appoggia la reliquia del patrono di Ostuni sul collo dei credenti per preservarli dal mal di gola per tutto l’anno. Decise di interrompere quell’attesa e rientrare, sapendo che non sarebbe riuscito a evitare di impiegare la serata, e forse parte della notte, per riflettere sui dubbi che lo avevano assalito e per escogitare qualcosa di coerente con essi. − E adesso torniamo a Terra − si disse, sorridendo per la sua ingenua battuta. Terra era il nome della parte vecchia di Ostuni, il borgo antico, un affascinante groviglio di straducole anguste e tortuose, dove aveva trovato un albergo in una delle piazzette più caratteristiche, tra vicoli e chiassuoli. L’aveva scelto anche per la sua cucina casereccia, allergica alla fretta e legata ai prodotti della terra. Aveva voglia di mangiare le stacchiodde, le orecchiette locali, condite con sugo di pomodoro e una generosa spolverata di cacio ricotta grattugiato, e i carciofi arracanati. Bagnando il tutto con l’Ottavianello, un rosso che ben si adatta a quei piatti. E magari avrebbe anche sgranocchiato dei fichi maritati, fichi secchi con mandorle, semi di finocchio selvatico e scorzetta di limone. “Fafi e fogghij?” chiese la signora che serviva a tavola. Un consiglio, più che una domanda. Ma lui non aveva voglia del purè di fave con verdure selvatiche, che pure era una specialità del posto, e le disse ciò che voleva mangiare. “C’è da aspettare un po’…” commentò la donna, accogliendo comunque l’ordinazione. “Aspetterò” disse lui. Un’altra attesa si consumava nel frattempo. A Bruxelles l’ispettore, vestito con un inappuntabile abito scuro, percorreva nervosamente su e giù la saletta in cui si trovava. Aveva l’aspetto di uno studente che ria mentalmente la materia prima di un’interrogazione. Impressione confermata dalle frequenti soste per sbirciare le carte di un voluminoso dossier appoggiato su un tavolino assieme a
una valigetta nera. Un’occhiata alle carte e una all’orologio da polso. Aspettava di essere ammesso nella sala accanto, dove era in corso una riunione del CICOMFI, il comitato internazionale di controllo operativo sui movimenti finanziari illeciti, riunito in sessione plenaria. Quando fu convocato, raccolse frettolosamente la documentazione e seguì il valletto che lo pilotò verso la commissione che lo attendeva. La dimensione della sala, la sua maestosità e il numero di persone, sedute in doppia fila intorno a un enorme tavolo rettangolare, ebbero l’effetto di bloccare la frenesia che lo aveva caricato durante la lunga attesa. Il presidente di turno lo presentò agli altri membri della commissione e gli diede la parola, indicandogli con il braccio teso il podio con leggio riservato agli oratori. L’ispettore si scusò per l’emergenza della sua richiesta di audizione e cominciò il suo intervento con una autopresentazione integrativa della breve introduzione del presidente e con una descrizione dettagliata della MGR, della quale furono illustrate le modalità degli innesti delle attività illecite nell’ambito di quelle normali finanziarie della società. L’agente ricordò che già in ato la MGR era stata oggetto di attenzione da parte del CICOMFI, ma che non erano emersi elementi che autorizzavano interventi di alcun tipo nei suoi confronti. Le indagini dell’ultimo anno, invece, avevano sbloccato la situazione, rendendo possibile un intervento. L’urgenza dell’audizione richiesta, precisò l’ispettore, risiedeva nel fatto che per il giorno successivo, venerdì, la MGR aveva pianificato una rilevante operazione internazionale sulla quale era possibile intervenire con successo, grazie agli elementi accumulati con le indagini. La missione richiedeva, però, una massiccia partecipazione di Scotland Yard e delle similari di altri paesi. Non vi erano ostacoli al loro coinvolgimento e infatti tutte le organizzazioni avevano confermato la propria disponibilità, con l’unica eccezione di Scotland Yard che condizionava la propria a una specifica approvazione da parte del CICOMFI. “Una posizione ineccepibile, in linea con le procedure attualmente vigenti” interruppe il rappresentante britannico. “Certamente, signore. La mia non è una critica ma una semplice constatazione.
Siamo consapevoli di non aver seguito la normale prassi, e ce ne scusiamo, ma siamo in piena emergenza. Le intercettazioni documentate che ci autorizzano a chiedere un intervento del CICOMFI le abbiamo potute effettuare soltanto negli ultimi giorni.” “Ma perché tutta questa fretta?” incalzò l’inglese. “Riteniamo che domani sera verrà effettuata un’operazione di grande importanza, della quale non conosciamo gli estremi, ma ci saranno noti non appena l’evento partirà.” “Ha detto che dispone della documentazione di tre intercettazioni che accertano gli illeciti della MGR.” “Sissignore.” “La documentazione è veramente accurata?” “Sissignore. Ho qui una copia, in italiano e in inglese, che lascio agli atti del comitato.” “Ma allora perché questo intervento, se disponete già di una documentazione dettagliata?” “Per tre motivi, signore” rispose l’ispettore con un’invidiabile flemma. “Il primo è che all’operazione di domani parteciperanno le direzioni di Londra e Parigi e la stessa direzione generale di Montecarlo. In caso di successo del nostro intervento possiamo dimostrare che le attività illegali non sono l’iniziativa di un ramo deviato della MGR ma il risultato di una scelta strategica aziendale.” “Prosegua.” “Il secondo motivo è di poter cogliere in flagranza di reato l’intero comitato di presidenza, presente al completo nella sede di Londra.” “Good.” “Il terzo motivo riguarda tre donne italiane tenute in ostaggio perché una delle tre ha collaborato fattivamente per aiutarci a mettere insieme le prove.”
Alla fine dell’intervento dell’ispettore, fu il presidente a prendere la parola. “Cosa possiamo fare per rendervi completamente operativi?” “È sufficiente una comunicazione telefonica del rappresentante inglese a Scotland Yard.” “Of course, certo” esclamò il britannico, annuendo vistosamente col capo. “Ci sono domande?” chiese il presidente. Nessuna domanda dall’aula. “Vi sono obiezioni a un nostro intervento?” Nessuna obiezione dall’aula. “Molto bene. Siete autorizzati a procedere” concluse il presidente, congedando l’agente.
Fu lunga quella notte per Vanuccio. Provava un’intensa eccitazione per il successo delle sue ricerche ma anche un poderoso senso del ridicolo perché si era scoperto a rivivere mentalmente le scene dei film polizieschi visti in ato, sperando di ricavarne qualche spunto che lo aiutasse a individuare un approccio efficace alla situazione che stava vivendo. − Ma è il comportamento di un uomo razionale, questo? − si chiese, ricordando le parole dell’ispettore, “non vogliamo che qualcosa o qualcuno pregiudichi il nostro lavoro”. Non sapeva che fare. I pensieri si attorcigliavano nella sua testa, moltiplicandosi a dismisura, costringendolo alla fatica di dipanarli. Al posto della testa gli pareva di avere un’urna nella quale si rivoltavano i numeri del Lotto in attesa di essere estratti. Solo con le luci dell’alba riuscì a pervenire a una determinazione. La sua fu una decisione di pancia e non di testa, tanto istinto e poco ragionamento. Si disse che il momento propizio per un suo intervento era collocabile nel breve periodo, in tarda mattinata e nel tardo pomeriggio, quando Letizia cavalcava il puledro sotto lo sguardo della nonna e di una guardia. In quei momenti all’interno della casa
ce n’era solo una, almeno così pareva, che lui avrebbe potuto immobilizzare in attesa che rientrasse la seconda. Gli sembrava tutto relativamente facile, anche perché sul piano fisico era nettamente avvantaggiato rispetto alle guardie che aveva visto il giorno prima, giovani e mingherline. Ma era proprio certo che sarebbe andata così? Gli conveniva agire alla prima uscita per evitare il pericolo di un arrivo anticipato delle altre due guardie per il cambio. L’unica difficoltà l’unica? - consisteva nell’entrare in casa senza essere notato dai suoi occupanti. Era certo - ma su quale base? - di riuscire a trovare il modo e il momento opportuno per farlo. L’unico dubbio - l’unico? - riguardava la reazione dell’ispettore. Come avrebbe reagito? E se, per ritorsione, avesse deciso di non interessarsi più a Silvana, abbandonandola al suo destino? Un’improvvisa folgorazione lo convinse di aver trovato la quadratura del cerchio - ma ne era proprio certo? Liberate Letizia e la nonna le avrebbe consegnate all’uomo appostato poco lontano dalla sua macchina, lasciando all’organizzazione dell’agente il merito della loro liberazione. Sì, i conti tornavano, ne era certo ma era proprio così? Nonostante queste sue convinzioni, peraltro non molto solide, lasciò l’albergo torchiato da un atroce dubbio: e se il suo intervento si fosse ritorto contro Letizia e la nonna? Se qualcuno avesse fatto loro del male? Sentì il cervello intorpidirsi mentre la vista gli si annebbiava. Provò una grande paura, che si scrollò di dosso dicendosi che non c’era altro da fare. Doveva andare fino in fondo, con determinazione. Eppure ricordava bene il monito secondo il quale se non si possono regolare gli eventi, bisogna regolare se stessi.
Non meno feroce era la belva dell’incertezza che azzannava l’anima di Silvana quella mattina. La sua agitazione non discendeva dalla condizione di prigionia, in apparenza dorata, nella quale vivevano Letizia e sua suocera. Al telefono le erano sembrate serene, per nulla preoccupate. Nemmeno gli eventi programmati per quella giornata le creavano ansia. La messa a punto dell’operazione che sarebbe andata in onda entro la mattinata proseguiva senza intoppi ed era certa che la sua esecuzione sarebbe avvenuta secondo le previsioni. Anche l’operazione pianificata per la sera non presentava particolari difficoltà e si sarebbe svolta senza intoppi. La procedura, già sperimentata numerose volte, era consolidata e di alta affidabilità. Eppure il suo subbuglio non si chetava. La sua inquietudine, lo sapeva bene, era legata alle decisioni che i quattro uomini del comitato di presidenza della MGR - erano tutti presenti, quel giorno avrebbero preso riguardo lei e i suoi cari che mantenevano in ostaggio. Sapeva
che il destino di loro tre si sarebbe giocato quel giorno e si trovava schiacciata dalla propria impossibilità di intervenire. Non le costava nulla perseverare nell’atteggiamento di fredda professionalità che aveva adottato sin dal suo arrivo in quel posto. Negli ultimi giorni, Nicosia e Lamartine avevano sottoposto a una verifica costante la versione che lei aveva fornito a Ladisa, attraverso domande improvvise e indirette oppure con veri e propri interrogatori. Non era mai caduta in contraddizione e aveva addirittura l’impressione che l’atteggiamento dei due uomini nei suoi confronti si fosse man mano ammorbidito. Solonik aveva invece mantenuto un atteggiamento diverso, rivolgendole di rado la parola ma destinandole in ogni occasione sorrisini enigmatici e sguardi lascivi che la insudiciavano tutta. Alle undici venne chiusa la prima operazione. Tre minuti e quaranta soltanto, tutto liscio, OK verde e complimenti a vagonate da Lamartine. Solonik le si avvicinò e, con un lieve cenno della testa, le fece capire di seguirlo. Si fermò in un angolo appartato della sala, dove più attenuato era il ronzio delle apparecchiature che avevano da poco eseguito con successo un’operazione importante. “Ottimo lavoro, signora” disse. “In questi giorni ho avuto modo di apprezzare la sua professionalità, che trovo impeccabile. Infallibile, direi” fu il botto finale che le indirizzò. Lo guardò senza nascondere la propria sorpresa. Fu sul punto di dire un freddo “grazie” e allontanarsi, ma decise di utilizzare quella situazione per capire cosa doveva attendersi. “L’infallibilità è una qualità irraggiungibile, alla quale ci si può avvicinare solo con l’amore verso Dio e i propri cari.” “E non attraverso l’assoluto rispetto degli impegni assunti?” proferì con un ghigno il russo. “Non quando si è costretti da ricatti.” Solonik sostenne imperturbabile lo sguardo fermo e severo col quale Silvana aveva accompagnato le sue parole, ridusse la distanza fra di loro e, con fare
distratto, le appoggiò una mano sul braccio scoperto. Lei avvertì la pressione e il ributtante calore di quella mano, ma non si mosse. Voleva giocare quella partita per capire, sapere. “Signora Silvani, lei sa quanto io potrei fare per venirle in aiuto…” continuò Solonik. Silvana ricreò la distanza fra di loro, con tatto, senza scatti, per liberarsi di quella mano e si schiarì la gola. “Posso intuirlo” buttò lì con tono civettuolo, perdonandosi per la goffaggine di ciò che stava facendo. “Però in questi casi non mi fido del mio intuito. Preferisco sentirlo da lei.” “Questa sera si parlerà di lei e dei suoi cari” disse l’uomo a voce bassa. “Saranno prese decisioni, forse gravi” aggiunse quasi sillabando le parole. “Molto gravi, e io potrei…” “Sì?” lo incoraggiò lei. “Potrei ottenere che vengano rinviate, per ulteriori verifiche, nuove conferme… in modo…” “Sì?” insistette lei. “In modo che noi due si possa riparlare della cosa, con calma, a tu per tu.” Se lo aspettava. Ecco il vecchio porco che sente l’odore della scrofa in calore. Ma lei non era una scrofa e non era in calore. Non per lui. Avvertì come un’esplosione dilaniarle le viscere e un insopportabile dolore percorrerle tutto il corpo. Era sbalordita dall’incredibile insulto che stava ricevendo, disgustata dalla bassezza di cui veniva considerata capace. Sentì una pena plumbea per l’umiliazione che stava subendo. Provò forte il desiderio di schiaffeggiare quel disgustoso individuo e sputare sulla sua schifosa libidine. Ma si controllò. Si disse che doveva gestire freddamente la situazione, pur ripugnante che fosse. Quella era l’unica arma a sua disposizione. E decise di usarla per prendere tempo. Deglutì per respingere il rigurgito che le premeva verso la gola e sentì la sua voce chiedere: “Dove? Quando?” “L’unico posto in cui le è concesso di restare sola è la sua stanza…” lasciò in
sospeso la frase. Quando è costretto a subire un dolore troppo forte, l’animo umano reagisce confinandolo nell’inconscio dell’irrealtà. Così fece lei, trovando in questa reazione la forza di andare avanti. “Va bene. Stasera.”
11
Due panini, una bibita in lattina, una bottiglietta d’acqua, una mela e un thermos di caffè. Pure quella mattina Vanuccio si fece preparare dal ristorante dell’albergo una colazione al sacco prima di partire per raggiungere la postazione del giorno prima. Lasciò il piccolo fuoristrada preso a noleggio nel solito posto e percorse con molta circospezione il tratto che lo separava dal punto di osservazione. Col binocolo esplorò i due versanti della valle ed ebbe conferma che i punti di appostamento che aveva individuato il giorno prima erano ancora presidiati. Ebbe anzi la sensazione che su entrambi ci fosse più di una presenza. Dalla casa non provenivano segni di vita, se non un pennacchio di fumo da uno dei comignoli. L’auto arrivata la sera prima era posteggiata allo stesso posto e presumibilmente nessuno l’aveva usata da allora. Dei cavalli nemmeno l’ombra. Alle tre del pomeriggio la situazione era sempre la stessa e cominciò a temere che si fosse verificato qualche imprevisto. Doveva ancora tenere per buono il piano che aveva impostato? Non fu necessaria una risposta perché all’improvviso sentì dei nitriti in lontananza. Pochi secondi e sullo spiazzo irruppero quattro cavalli, i tre che già aveva visto e un altro con una vistosa bendatura sulla zampa sinistra, seguiti da un uomo, da Letizia e dalla nonna. La ragazzina, aiutata dal suo custode a salire sul puledro, salutò la nonna e cominciò a girare intorno alla grande casa. Sembrava felice. L’uomo si sistemò sui gradini davanti alla porta e si accinse a scorticare un rametto con un piccolo coltello mentre la nonna si chinava sul prato a ogni o per raccogliere qualcosa, forse dei fiorellini. Non si concesse ulteriori indugi e si avventurò nella boscaglia in direzione della casa. Nessun sentiero si intravedeva tra la vegetazione più fitta del previsto e il terreno ingombro di sterpaglia secca e pungente. Avanzò a rilento, spesso zigzagando col rischio di smarrire la giusta direzione per mancanza di riferimenti precisi. Cominciò a temere di non farcela prima che Letizia finisse la sua cavalcata, ma di colpo gli apparve la costruzione. Era a pochi metri dalla staccionata. L’uomo continuava a scheggiare il suo legnetto e la nonna a
raccogliere fiori. Aggirò lo steccato per portarsi sul retro della casa nello stesso momento in cui sopraggiungeva Letizia in groppa al puledro. I loro sguardi si incrociarono, la bimba non nascose la sua sorpresa e lui le fece segno di tacere e di avvicinarsi. “Vanuccio, come hai fatto ad arrivare fin qui?” gli chiese con un filo di voce. “Non c’è tempo per spiegarlo” rispose. “Chi c’è nella casa?” “Una donna.” “È sola?” “Sì.” “Dov’è?” “In cucina, là” disse, indicando con la mano il lato stretto della casa sulla sinistra. “Come posso arrivarci da qui?” “Dalla stalla.” E gli indicò la porta. “È armata?” “Sì, ha una pistola nella cintura sulla schiena.” “Ok, vai. Fa’ come se non mi avessi visto. Non una parola nemmeno con la nonna. E stai calma.” “Stai attento…” “Vai” la sollecitò. E lei incitò il suo puledro a riprendere il cammino a o più svelto per recuperare quella manciata di secondi. Vanuccio scavalcò la staccionata, attraversò il prato ed entrò nella stalla. Non c’erano cavalli e questo lo tranquillizzò: niente improvvisi nitriti che avrebbero
potuto allarmare le due guardie. La porta che dava all’interno della casa era in fondo alla stalla. La raggiunse, muovendosi con cautela sul selciato di pietra cosparso di paglia, si tolse le scarpe e la socchiuse leggermente. Vide un corridoio con un pavimento della stessa pietra e due porte semiaperte, che raggiunse con circospezione. Attraverso una delle due aperture vide la donna di spalle, con la fondina bene in evidenza: era a non più di tre metri, curva su un grosso focolare. Nella cucina c’era un forte odore di strinato, tipico delle carni di pollo bruciacchiate. Due grosse ceste, piene di frutta e verdura, erano adagiate sul pavimento, a ridosso del muro. Fra la porta e la donna non c’erano ostacoli di nessun tipo. Sentì crescere la tensione e il pulsare del sangue alle tempie. Provò una grande paura che cercò di bloccare con un respiro profondo. Con tre lunghi i in punta di piedi raggiunse la donna e le sfilò la pistola dalla fondina. “Non ti rialzare” sentì dire alla sua voce. La donna ubbidì e rimase con le mani appoggiate al focolare. Fece cenno di girare la testa, ma fu subito stoppata. “Non ti voltare” intimò. “Sposta indietro i piedi” aggiunse con tono perentorio. Lei indietreggiò, un piede alla volta, di una ventina di centimetri. “Ancora” disse lui. La donna spostò i piedi di altri venti centimetri, fino ad assumere una posizione goffa e di certo non riposante. Vanuccio si guardò intorno. Non cercava nulla di preciso, non sapeva bene cosa fare. Sentì ricomparire la paura, pompata dal battito furibondo del proprio cuore. Grondava sudore che gli scendeva lungo le guance e il collo, entrandogli persino negli occhi e irritandoli. Le voci dell’uomo di guardia e della nonna gli fecero capire che la cavalcata di Letizia si era conclusa e che tra poco sarebbero rientrati in cucina. Si chiese quale porta avrebbero usato, quella sul fronte o quella della stalla, e cosa gli convenisse fare per sorprendere l’uomo. Un vociare improvviso e un rumore di i pesanti e affrettati gli fece capire
che fuori stava avvenendo qualcosa. “Cosa succede?” chiese la ragazza con la voce spaventata. “Stai zitta” le rispose, ma avrebbe voluto dirle che non lo sapeva nemmeno lui. Le due porte si spalancarono quasi di colpo. Da una entrarono tre uomini armati, con tuta mimetica ed elmetto, dall’altra entrò come una saetta Letizia. “No, lui non c’entra” urlò con tutta la voce che aveva. L’uomo entrato per primo aveva già il fucile all’altezza della spalla puntato direttamente su Vanuccio, che istintivamente aveva orientato la pistola verso di lui. Il militare fu sorpreso dall’inatteso arrivo della bambina, ebbe uno scarto impercettibile e per una frazione di secondo distolse lo sguardo dall’architetto che, non meno stupito dell’altro, lasciò cadere il braccio. Partì un colpo di pistola verso il pavimento, rimbalzando chissà dove. Nello stesso istante ne partì un altro dal fucile dell’uomo in divisa che colpì Vanuccio alla spalla. Quella microscopica deviazione era stata provvidenziale. L’architetto avvertì una botta tremenda che lo sollevò, dandogli la sensazione di volare. Piombò di colpo sul pavimento, sentendosi inondare da un liquido caldo che capì subito essere sangue. Alle urla di Letizia si unirono quelle della nonna, che continuava ad agitare il dito indice verso i tre militari dicendo: “No, no, no.” L’uomo che aveva sparato si avvicinò al focolare e col piede allontanò la pistola dal corpo di Vanuccio e fece segno a uno dei altri due di sistemarsi accanto alla donna che, nel frattempo, si era sollevata dal focolare guardando la scena con occhi sbarrati. Era poco più di una bambina e aveva gli occhi colmi di terrore. Vanuccio si portò una mano alla spalla e il suo viso fu alterato da una smorfia di sofferenza. Il dolore non lo aveva avvertito subito, ma poi era arrivato di colpo, lancinante. La nonna si affannò intorno alla sua ferita, cercando di capirne la gravità. Letizia si inginocchiò e gli prese una mano fra le sue. La vide piangere e sentì un senso di colpa che non aveva mai provato prima. “Serve un medico” disse la donna della casa. “Sta perdendo molto sangue. Sono un’infermiera” spiegò.
Il militare che aveva sparato parlò con qualcuno al telefono satellitare e disse: “D’accordo.” Fece cenno al terzo uomo e ad altri due che erano appena entrati di dare un’occhiata al piano di sopra e, rivolgendosi all’infermiera, raccomandò: “Cerchi di tamponare la ferita, stanno arrivando.” Dalla porta della stalla entrarono altri tre poliziotti e il giovanotto addetto alla guardia fuori. “Grazie per avermi consentito di portare i cavalli nella stalla” disse rivolgendosi a quello che sembrava essere il capo. Alcuni minuti dopo, il rumore di un elicottero tagliò il silenzio della valle, prima piano e poi sempre più forte, fino a diventare assordante quando atterrò sulla spianata, facendo sventolare l’erba tutt’intorno e terrorizzando i cavalli nella stalla. Vanuccio vi venne issato a braccia, poi fu la volta di Letizia e della nonna, aiutate dai poliziotti. Prima, però, a Letizia fu concesso un rapido saluto al suo puledro.
L’ispettore si trovava assieme ad alcuni ufficiali della polizia inglese, in una baracca a un paio di chilometri dalla villa in cui era Silvana. Stavano discutendo un piano di intervento quando gli arono un cellulare per una telefonata urgente. “Sì?” “Ci sono sviluppi e necessitiamo di istruzioni.” “Cosa è successo?” “Abbiamo dovuto anticipare la missione.” “E per quale motivo?” urlò. “Perché in casa è entrato un uomo che avevamo già individuato e identificato ieri.” “Di chi si tratta?”
“Dell’architetto Silvano Milella.” “Porca miseria, quel pazzo!” disse. “È andata bene?” “Abbiamo preso le due guardie in servizio, ma non quelle del cambio, non sono ancora arrivate.” “Non arriveranno più” disse sconsolato. “Lasciate comunque qualcuno nella villa, almeno fino a domani. I due ostaggi?” chiese. “Stanno bene.” “L’architetto?” “È stato ferito. È stato colpito dal capo della squadra B che non ne conosceva l’identità e che si è visto puntare contro una pistola.” “È grave?” “No, l’hanno beccato alla scapola.” Un agente porse all’ispettore un altro cellulare con una seconda telefonata urgente. “Devo lasciarla, c’è un’altra urgenza. Tenetemi informato” ordinò al primo interlocutore. “Sì?” disse nel secondo telefono. “Un uomo ha telefonato a Nicosia per dirgli che i due ostaggi sono stati portati via dalla polizia, insieme alle due guardie della villa. C’era anche un altro uomo, che è stato ferito ma non ha saputo dire chi fosse. Ha chiesto come comportarsi e Ladisa gli ha risposto di staccarsi dalla villa.” “Maledizione, sanno tutto!” esplose. “Dobbiamo anticipare anche qui.”
12
Ladisa era di malumore, nonostante l’esecuzione senza intoppi dell’operazione mattutina e le ottime notizie avute sull’esito delle prove di quella serale, che sarebbe stata attuata da lì a poche ore. Nemmeno il racconto di Lamartine, sul modo in cui era riuscito a neutralizzare un paio di inconvenienti che si erano verificati il giorno prima a Parigi e che avevano rischiato di compromettere le due operazioni programmate, era riuscito a ridargli serenità. Continuava a martellare con le dita il ripiano del tavolo della sala riunioni intorno al quale era seduto con Lamartine e Solonik. Motivi concreti che giustificassero quello stato di apprensione non ce n’erano eppure continuava a essere irrequieto come un cane che avverte l’arrivo di un temporale. “Dove cazzo si è ficcato Frank?” urlò, calando una manata rumorosa sulla cartella di pelle che aveva di fronte. “Non innervosirti, Nicola” esortò Solonik. “Vuoi che vada a cercarlo?” domandò, proprio nel momento in cui Nicosia entrava in evidente stato di agitazione. “Che c’è, Frank?” chiese Ladisa, più con apprensione che col risentimento che aveva manifestato pochi istanti prima nei suoi confronti. “La bambina e la nonna sono state liberate.” “Liberate? E da chi?” L’incredulità che accompagnava le parole di Ladisa si palesò all’istante anche sui volti cerei di Lamartine e Solonik. “Dalla polizia. Con un elicottero.” “La villa non era presidiata?” “Sì, da due guardiani, portati via da una decina di agenti.” “Qualcuno ha visto?”
“Sì, le due guardie del cambio, che erano in ritardo ma avevano avvertito. Ho detto loro di allontanarsi dalla villa il più possibile, di non farsi beccare.” “Hai fatto bene” sentenziò. “Quando è avvenuto tutto questo?” “Pochi minuti fa.” “C’è altro?” “Nella casa c’era un altro uomo. È stato ferito. I nostri hanno sentito un paio di spari mentre si avvicinavano alla villa. Col binocolo hanno visto molti poliziotti nel recinto e, quasi subito, arrivare un elicottero sul quale sono stati caricati le due donne e il ferito.” “Da dove cazzo salta fuori questo qui? Chi è?” “Non lo sapevano. Lo hanno descritto come un quarantenne alto e atletico, con i capelli neri, vestito in modo sportivo.” “Sembra la descrizione dell’architetto che segue la ristrutturazione della torre. L’ho conosciuto una volta che sono andato a trovare Locascio” intervenne Lamartine. “L’amico del cuore della Silvani!” esclamò Ladisa, il cui volto era ormai diventato una piattaforma di permanenza stabile dell’incredulità. “Ma ci aveva detto che l’architetto era all’oscuro di tutto…” aggiunse, quasi sorpreso, lasciando in sospeso la frase. “Ci ha mentito!” fu il commento acido di Nicosia. Ladisa prese a grattarsi la tempia destra, un gesto che compiva nei momenti di grande tensione e che gli altri avevano imparato a rispettare. Nella sala si avvertì un silenzio spesso, fastidioso, incombente. Lamartine e Solonik avevano entrambi le mani intrecciate, appoggiate sul tavolo, e gli occhi puntati sul viso tremebondo e pensieroso di Ladisa. Nicosia era rimasto in piedi, incerto se sedersi o no. Continuava a guardarsi la punta delle scarpe come se le vedesse per la prima volta. “I conti non tornano” disse Ladisa con voce grave. “Se la polizia sapeva, e di certo sapeva perché era già lì, come si spiega la presenza dell’architetto? Perché
lo hanno coinvolto in un’operazione dalla quale, di solito, i civili sono tenuti lontano?” L’interrogativo era chiaramente rivolto a tutti. “Non è detto che se lo siano portati dietro” disse Nicosia. “Concordo con te che la polizia non vuole nessuno tra i piedi in queste circostanze, soprattutto parenti e amici.” “E allora?” “Può darsi che le cose siano indipendenti” si intromise Lamartine. “L’architetto può aver agito da solo, senza sapere che la polizia era già sul posto.” “Perché lo avrebbe fatto? Cosa gliene veniva?” “Voleva farsi bello con la sua bella” commentò acido Solonik, consapevole che quella notizia pregiudicava non poco l’incontro con la Silvani previsto per la sera. “Può darsi” riconobbe Ladisa. “Le belle femmine ci fanno scimunire, vero Ivan?” “Succede” ammise il russo con evidente imbarazzo. “Ma come ha fatto a sapere dov’erano?” chiese ancora Ladisa. “Questo non lo so” rispose Nicosia, come se la domanda fosse stata rivolta a lui in modo specifico. “Forse ha avuto un’imbeccata da quell’ispettore che diceva di sapere molte cose su di noi” azzardò. “È una cazzata… non avrebbe mai fatto una stronzata simile… credo. A che pro, poi? No, non può averlo saputo da quell’agente” sentenziò. “Il problema vero, però, è un altro: cosa dobbiamo fare ora? Andare avanti come se nulla fosse? Fare quest’ultima operazione e poi basta? Oppure sospendere tutto da subito?” Domande importanti, che non ammettevano disquisizioni filosofiche, che richiedevano una decisione immediata soprattutto in relazione a quanto programmato per la serata.
Nicosia e Solonik si dichiararono propensi a portare a termine l’operazione programmata per poi sospendere ogni attività in attesa di chiarimenti. Lamartine propendeva invece per una sospensione immediata del programma, ritenendo che la liberazione dei due ostaggi aggiungesse rischi agli elementi di incertezza che si erano accumulati negli ultimi tempi. “Trovo sensate entrambe le posizioni” disse Ladisa. “Il problema è capire se ci conviene cogliere l’opportunità di quest’ultima operazione, la più importante e significativa del programma, oppure privilegiare la sicurezza e lasciar decantare la situazione. Dal piatto ricco ci dividono poche ore, ma la sicurezza è spesso questione di istanti. Pensiamoci. Ci vediamo fra un’ora, non un minuto di più. Io resto qui.” E ciò detto, chiuse gli occhi incrociando le mani sul tavolo. Gli altri tre uomini si alzarono. Lamartine si sistemò al capo opposto del lungo tavolo e cominciò a guardare i fogli ricchi di tabelle e grafici racchiusi nella sua elegante cartelletta. Nicosia prese posto a un tavolino vicino a una delle porte di accesso all’ampia sala e prese a smanettare col suo Blackberry. Soltanto Solonik lasciò la sala, richiudendosi la porta alle spalle.
Silvana era al ristorante, seduta a un tavolino, con una fumante tazza di tè che la separava dal suo accompagnatore, seduto di fronte a lei. Era il giovanottone che in quei giorni era stato il suo indesiderato ma non insopportabile angelo custode. Una persona per bene, educata, rispettosa, persino servile in certi momenti. Uno di poche parole. Probabilmente era solo timido e mostrava di essere a suo agio solo se gli argomenti di discussione vertevano su computer e reti telematiche. Nei suoi occhi Silvana notò qualcosa di diverso, uno sguardo sornione e impertinente di chi ha una gran voglia di dire qualcosa ma si trattiene. “Cosa c’è?” gli chiese, invitandolo anche col sorriso a parlare. “Ecco, signora… Io… noi…” farfugliò. “Noi chi?” “I colleghi, i ragazzi e le ragazze che sono qui… tutti pensiamo la stessa cosa.” “Cosa?”
“Ci sembra che lei non sia qui di sua volontà, sembra costretta. E la cosa ci dispiace, perché lei ha fatto colpo su tutti.” “Ah, sì? E perché?” “Perché ha un grande fascino, e non mi riferisco soltanto alla sua bellezza, che è notevole, ma anche alla sua preparazione e alla professionalità che ha dimostrato nelle cose che ha fatto” disse tutto d’un fiato. “Anche se nessuno ha capito cosa fossero” ammise. “Grazie, e allora?” lo incalzò. “È come se lei fosse portatrice di un segreto e noi…” Non finì la frase perché Solonik si avvicinò e le fece segno di raggiungerlo. “Dobbiamo anticipare la nostra chiacchierata” disse con tono gelido. “Le cose stanno precipitando, dobbiamo andare ora.” Un’intimazione che non ammetteva repliche. “La signora è con me” disse al giovanotto. “Aspetti qui, gliela riporto.” Il russo era una delle persone, insieme agli altri membri del comitato di presidenza, con le quali poteva muoversi senza avere vicino il suo custode. Così era stato convenuto. Si allontanarono a o lento verso la stanza di Silvana.
Quasi nello stesso istante, una guardia di sicurezza giunse concitata nella sala riunioni e confabulò con Nicosia, il primo che aveva incontrato entrando. Quando la guardia lasciò la sala portandosi dietro la concitazione, Nicosia si avvicinò a Ladisa, che lo guardò in faccia dicendogli con gli occhi che era pronto alla nuova brutta notizia. “Nicola, siamo circondati dalla polizia!” “Che significa?”
“Ci sono agenti lungo tutta la cinta. Sembrano tanti.” Sul volto di Ladisa transitò di tutto: stupore, rabbia, dispetto, odio. Ma soprattutto paura. “Chiama l’elicottero. Ci troviamo tutti e quattro nel mio ufficio” ordinò. “Fai cercare Ivan.”
Solonik procedeva con calma lungo il corridoio, senza guardare Silvana e senza rivolgerle la parola. Lei era annichilita, non sapeva che fare. Le parve di sentirsi male e pensò che se avesse vomitato lo avrebbe fatto addosso a quel miserabile individuo che voleva insozzarla con la sua schifosa libidine. Non poteva gridargli in faccia tutto il suo disprezzo e sputargli in quella lurida bocca con la quale si aspettava di sbavare sul suo corpo, ma non poteva neanche consentire che quel verme strisciasse su di lei, nemmeno sui suoi piedi. Se Letizia e sua suocera non si fossero trovate in quella situazione, a causa sua ma non per sua scelta responsabile, avrebbe agito in modo diverso, rischiando persino la vita. − E ora? Che fare? Cristiddio tirami fuori di qui − invocò tra sé. Un fragore assordante interruppe quel monologo silenzioso e indusse il suo accompagnatore a fermarsi. Comandi secchi, urla esagitate, i pesanti sui pavimenti di legno e di marmo, rumori di porte - sbattute o abbattute? - vetri che andavano in frantumi, qualche pianto: un frastuono indescrivibile. Dalle due opposte scale, una moltitudine di uomini, molti in divisa altri no, tutti armati, invase il corridoio. Fra questi Silvana riconobbe l’ispettore e fu da lui riconosciuta. “Signora, mi segua. Mi stia vicino.” Un ordine, più che un invito. Due uomini in uniforme, armati fino ai denti, si piazzarono ai lati di Solonik intimandogli di seguirli. Silvana guardò l’ispettore e gli fece un cenno di attesa, si avvicinò a meno di venti centimetri dal russo, gli fece gli occhi più dolci del mondo e gli confezionò il sorriso più invitante che avesse mai regalato a qualcuno, sbatté le ciglia, si umettò maliziosamente le labbra e gli mollò una ginocchiata al basso ventre con fulminea determinazione.
“Ugh!” mugolò il russo, impallidendo e piegandosi in avanti. L’ispettore le sorrise più con gli occhi che con le labbra e volse lo sguardo in altra direzione. Non aveva visto nulla! Il lamento soffocato di Solonik non giunse nell’ufficio di Ladisa, ma l’immane frastuono sì. “Dov’è Ivan?” chiese Ladisa. Nessuno seppe rispondere. “L’elicottero?” chiese ancora. “Sarà qui a minuti” rispose Nicosia. “Atterrerà vicino alla piscina.” “Perché proprio lì?” “È a pochi metri dalla baracca degli attrezzi” fu la spiegazione. “E lì come ci arriviamo?” “Attraverso lo scantinato che collega la baracca alla sala delle caldaie, posta sotto la lavanderia, dal lato della cucina.” Il trillo del telefono di Lamartine attirò l’attenzione di tutti. “Hanno portato via la Silvani e Ivan” disse il se. “Così impara, quel fottuto arrapato” sentenziò Ladisa. “Andiamo” ordinò seccamente.
L’ispettore scortò Silvana fuori dalla villa, la affidò a un ufficiale al quale impartì delle disposizioni, e si avviò verso una camionetta posteggiata vicino alla piscina, che fungeva da centro di controllo dell’operazione in corso, all’interno della quale due ufficiali parlavano alla radio. “Novità?” chiese l’ispettore.
“Tre uomini sono stati avvistati nella lavanderia, nell’ala della villa vicino alla piscina. Confrontando le riprese del teleobiettivo con le foto segnaletiche in nostro possesso sembrerebbero i tre che stiamo cercando. Il quarto è già sul furgone, sotto scorta.” “I panni sporchi vanno in lavanderia!” ironizzò l’ispettore, gongolando per la sua battuta. Il rumore delle pale di un elicottero in avvicinamento interruppe la conversazione. “È nostro?” chiese dubbioso. “No” rispose senza esitazioni uno dei due ufficiali. “Maledizione, vengono a prelevarli.” L’altro ufficiale smanettò sul quadrante della centralina e parlò calmo al microfono: “Due elicotteri armati, subito!” “Ok,” gracchiò una voce dall’apparecchio “saranno lì fra meno di quattro minuti.” “Fate spegnere le luci intorno alla piscina” disse subito dopo l’ispettore. Il rumore dell’elicottero a tratti si sentiva più lontano. Continuava a girare sulla villa, faticando a individuare la zona della piscina. “Fate aprire il fuoco” disse l’ispettore ai due ufficiali. Con quella azione si prefiggeva l’obiettivo di tenere alto l’elicottero, impedendogli di atterrare. “Siamo collegati tutti?” chiese avvicinandosi alla centralina, non appena fu partito il fuoco di sbarramento. Uno degli ufficiali smanettò ancora sul quadrante e accennò di sì con la testa. “A tutti gli ufficiali” disse l’ispettore parlando nel microfono. “Dobbiamo prendere vivi i tre nella lavanderia. Date ordine di non sparare, se non in caso di necessità. Il fuoco in atto deve cessare non appena arrivano sul posto i nostri elicotteri. Fate affluire gli uomini intorno alla lavanderia.”
Il rumore si faceva sempre più assordante, sia perché erano in avvicinamento i due elicotteri delle forze speciali, sia perché quello della MGR, cessato il fuoco, stava atterrando. Quando l’ispettore vide aprirsi la porta del casotto vicino alla piscina e tre persone correre verso l’elicottero, capì che qualcosa non aveva funzionato. Disse a uno dei due ufficiali della camionetta di mettersi in contatto con i due elicotteri, di guidarli sulla piscina e di dare ordine ai due piloti di impedire che il terzo elicottero si sollevasse. I tre uomini montarono senza difficoltà sul velivolo che cominciò a prendere quota nel momento in cui gli altri due cominciarono a girare sull’area della piscina, come pendolando in una danza incerta. Uno dei due aeromobili della polizia scese di quota piazzandosi sopra l’elicottero che si stava levando. La manovra fu seguita da Silvana che aveva preso posto sul sedile anteriore di una macchina della polizia che sostava su una stradina a poche centinaia di metri dalla villa, in una zona riparata dagli sguardi indiscreti e anche dal vento, particolarmente forte in quell’area. Il poliziotto seduto al posto di guida seguiva le comunicazioni che giungevano attraverso la radio di bordo. Silvana capiva ben poco di quelle comunicazioni e ancor meno di quello che avveniva nella villa e nel cielo sopra la piscina. Trovava comunque affascinante la danza dei tre velivoli. Quello in basso si spostava lateralmente in più direzioni, cercando di evitare quello che incombeva sopra. Seguiva traiettorie sempre nuove, ma non riusciva a liberarsi dalla marcatura di quello sovrastante, che pareva più duttile e veloce. Seguiva quella danza fra gatto e topo che, a scatti successivi, si era approssimata all’adiacente campo eolico dal quale spuntavano diversi aerogeneratori. Anche i balli più trascinanti finiscono. Fu un attimo. Il rotore principale dell’elicottero più in basso cozzò contro le pale di una di quelle turbine ad alta velocità di rotazione. Il violento impatto mandò in frantumi l’ala rotante e il mezzo si schiantò al suolo incendiandosi. Un tremendo boato e una gigantesca fiammata violacea furono tutto quello che rimase del velivolo blu con la pancia d’argento. Silvana rimase a guardare quelle lingue di fuoco e gli sputi delle fumate nere quasi imibile, ignara che in quel rogo si stavano consumando i tormenti, gli affanni e le angosce della sua avventura alla MGR. Chissà a cosa pensarono i tre in quei momenti. Forse si chiesero se Pietro avrebbe aperto loro la porta, accettandoli nel regno dei buoni. Chissà. Forse
Ladisa lasciò il suo ultimo pensiero alla lucertola a due code, rimasta sola nel cassetto della scrivania.
13
“Non l’abbiamo accolta con un trionfo degno di Radames perché lei per noi non è un eroe, ma un pasticcione che ha messo a repentaglio la nostra missione e la vita di due persone.” Il rimbrotto dell’ispettore fu raccolto da Vanuccio con molto imbarazzo. Era stato trasportato in un ospedale militare, un complesso di una dozzina di padiglioni sistemati a ferro di cavallo intorno a un grande parco al centro del quale si trovava la cappella. Ogni edificio aveva pavimenti in quadrelle di cemento, zoccolatura a smalto, doppia illuminazione chiara e azzurra, riscaldamento a pannelli. Lui era nel padiglione ufficiali, con camere singole dotate di servizi igienici. “Questo complesso è citato nei testi universitari di igiene come valido esempio di edilizia ospedaliera multi padiglione” aveva spiegato il direttore sanitario che aveva accolto l’ispettore accompagnandolo alla camera del degente. Durante il percorso lo aveva informato sulle condizioni del ricoverato. “Non c’è stato bisogno di trasferirlo in terapia intensiva” aveva detto. “Quando è arrivato qui era vigile e cosciente. È stato operato dal primario di chirurgia che gli ha estratto il proiettile e suturato la lesione alla spalla. La prognosi sarà sciolta fra due giorni ma non sono previste complicazioni.” Una signora con un grosso cane al guinzaglio li aveva sfiorati e l’ispettore aveva avuto uno scarto impercettibile che tuttavia non era sfuggito al dottore. “Non ama i cani, vero?” “Antichi ricordi” aveva confessato lui. “Sono sorpreso di vederne uno in un ospedale.” “Il sentimento che l’uomo ha per gli animali è oggi riconosciuto come un diritto costituzionale e consente a chi è ricoverato in una struttura sanitaria di continuare a frequentare il proprio cane perché ciò contribuisce alla qualità della sua vita.”
Nella camera si respirava un’asettica purezza determinata dall’assenza di qualsiasi odore. Forse per questo l’ispettore aveva avvertito subito l’inconfondibile profumo di Silvana seduta di fianco al letto. Vanuccio era a torso nudo, con una vistosa fasciatura alla spalla e un braccio collegato a una flebo. “Se non se la sente di parlare non si sforzi” disse l’ispettore con un tono più morbido per farsi perdonare l’asprezza della considerazione che gli aveva appena rovesciato addosso. “Mi sento in vena” rispose Vanuccio, indicando con lo sguardo la flebo e sorridendo per la sua battuta o forse per l’imbarazzo che provava di fronte all’ispettore. “E lei come sta?” chiese l’agente a Silvana, aggiustandosi la sciarpa intorno al collo. “Come chi è appena uscito da un nido di vipere velenose ed è consapevole di averla scampata per un pelo” ammise lei. “Non immaginavo che la MGR fosse un covo di mafiosi” aggiunse. “Non tutti” precisò lui. “Lo erano solo quelli del comitato di presidenza che però potevano contare sulla complicità indulgente di molti capi di primo livello, che sicuramente sapevano di partecipare a processi illeciti come il riciclaggio di denaro sporco.” “Credo di capire che il riciclaggio sia una delle scappatoie che consentono alla mafia di proteggersi” disse lei. “Sì. Purtroppo la normativa è inadeguata e il lavaggio del denaro sporco avviene quasi alla luce del sole” ammise lui. “I soldi vengono di solito inviati in un paradiso fiscale dove producono altri soldi, tanti soldi.” “Tutti puliti!” “Esatto” disse. “I prestanome che fanno da cerniera fra i mafiosi e le banche quando vengono pizzicati in possesso di ingenti patrimoni dovrebbero essere obbligati a giustificare la disponibilità di quelle risorse.” “Perché non si fa una legge?”
“La legge esiste, solo che l’onere della prova spetta al magistrato ma dovrebbe essere il contrario: è il prestanome che deve dimostrare la provenienza della ricchezza di cui dispone. Comunque la maggior parte delle persone della MGR era all’oscuro di tutto.” “Quelli del comitato di presidenza sembravano quasi tutti persone per bene, un paio addirittura di un livello culturale superiore.” “Questa vicenda non ci svela nulla di nuovo, cara signora, conferma cose già note come il fatto che i mafiosi non sono necessariamente di bassa estrazione sociale o di mediocre intelligenza.” Vanuccio azionò un piccolo telecomando che aveva sul comodino per avvisare le infermiere che la flebo era finita. “Bisogna evitare l’errore di pensare che l’obiettivo ultimo del mafioso sia soltanto l’arricchimento personale” spiegò l’ispettore. “La mafia è un fenomeno molto più complesso, nel quale l’operato dei manovratori è diretto più all’acquisizione del potere che del denaro.” “Tanto il potere porta comunque denaro.” “Appunto. E questo rende la mafia diversa dalla criminalità comune, rispetto alla quale chi la dirige è più sofisticato, più colto, più incline ai valori. Col risultato che non fatica a insinuare nell’immaginario della gente il principio della sua accettabilità.” Silvana non perdeva una battuta, ammirata dalla capacità di analisi dimostrata dall’ispettore verso il quale cominciava a nutrire un sentimento di simpatia oltre che di stima. “Anche perché sono persone uguali a noi” continuò l’ispettore. “Le storie dei singoli assomigliano maledettamente alle nostre. Sono impastate degli stessi ingredienti, i loro volti sono noiosamente ordinari. Forse hanno lo sguardo più triste, perché la loro esistenza, anche quando si ammanta di lusso e di sprechi, è misera e genera miseria.” “Quello che mi spaventa è che può essere ovunque.” “Proprio così. I nuovi santuari sono le università, le banche, i vescovadi, le forze
dell’ordine, la magistratura, le istituzioni internazionali.” “Addirittura!.” “Non sto esagerando, ed è proprio questo che rende la mafia un fenomeno complesso, dalle mille facce. Siamo di fronte a un cancro che ha seminato metastasi in ogni settore e in ogni angolo del mondo diventando un sistema di potere che ha ramificazioni capillari e impensabili, che si mantiene chiuso e autonomo rispetto a qualsiasi altro sistema sociale. La sua complessità spiega perché è difficile fare carriera in questa organizzazione nella quale vigono regole rigorosissime, occorre dare garanzie, essere rispettati, dimostrare senso di appartenenza, essere leali, avere una vita ineccepibile, un alto senso della famiglia.” “La lealtà è un debito verso se stessi, scriveva Pirandello” osservò Vanuccio. “Loro invece questo debito lo pagano più per paura che per rispetto di un valore. Sanno che il tradimento costa la vita.” “Sono d’accordo con Vanuccio, la loro è la lealtà del servo che si concede anima e corpo al padrone” intervenne Silvana. “La lealtà è una virtù solo se poggia su dei principi condivisibili. Quando è concessa senza riserve diventa uno strumento negativo, per agire male.” “È proprio così. La lealtà è sempre stata una zavorra in questa organizzazione.” Ma non era l’omertà l’aspetto più inquietante, spiegò l’ispettore, bensì le intese fra mafiosi e poteri collusi - politica, economia, Chiesa - senza la quale la mafia sarebbe poco più di un banditismo da quattro soldi. “È questa collusione, fondata sul compromesso fra soggetti che hanno convenienze differenti ma complementari, che va spazzata via. E lo si può fare soltanto rendendo chiaro il mutuo sostegno fra mafia e soggetti collusi che porta benefici a tutte le parti in causa.” “Ma quelli che ho conosciuto io erano uomini di fede, come potevano insozzare la Chiesa!” “Erano certamente persone di fede e sono disposto a riconoscere che la proclamazione di appartenenza cristiana di molti mafiosi non sia un atteggiamento privo di sincerità adottato per darsi una legittimazione sociale agli
occhi della gente” rispose lui “ma credo sia doveroso prendere le distanze dalla convinzione che essere mafiosi sia un modo di vivere il cristianesimo in maniera più autentica e che la mafia sia un’organizzazione ideologicamente schierata dalla parte dei deboli.” Si soffermò non poco su questo argomento, ritenendolo probabilmente uno dei punti centrali, raccontando anche un episodio curioso. “Un cugino di Ladisa organizza i vattienti calabresi che, durante alcune processioni, si battono a sangue e si bagnano le ferite con spugne imbevute di acqua e aceto, non per punirsi dei propri peccati ma per vincere sul dolore e vivere una propria resurrezione dopo il male provato. Sono manifestazioni che ricordano da vicino l’Ashuria dei musulmani sciiti.” Raccontò che, di una di queste manifestazioni, il cugino di Ladisa era il segretario del circolo cui era affidata la regia dei festeggiamenti della patrona, una festa molto sentita dalla comunità. Al circolo competeva la nomina del capovara, il pilota del fercolo, quella dei capimaniglia, i responsabili dei cordoni che tirano il fercolo, e quella dei portatori della varetta, lo scrigno reliquario di oro massiccio nel quale sono custoditi i resti della santa. Tutte cariche di grande prestigio, molto ambite e intorno alle quali si scatenavano battaglie tanto silenziose quanto cruente. Era da queste cariche che dipendeva il tragitto della processione e il numero delle fermate. “E sulle varie tappe si concentravano le scommesse clandestine, con un giro di soldi enorme. Fede e affari, un connubio esplosivo” commentò con un freddo sorriso. Aggiunse che a volte alla base della scelta mafiosa c’era un confuso sentimento di giustizia e chi la operava mostrava sovente una forte sensibilità ai richiami morali. Per sostenere questa argomentazione propose anche degli esempi, ricordando casi in cui i mafiosi avevano lisciato il pelo agli ultras che allo stadio terrorizzavano donne e bambini con le loro intemperanze oppure avevano fatto are la voglia a quelli che importunavano le prostitute nell’esercizio del loro mestiere. Per non parlare delle azioni di solidarietà a sostegno delle famiglie di qualche arruolato finito in prigione. “Sono proprio queste azioni che alimentano un clima di accettazione iva intorno alla mafia” disse. “I collusi sono pochi, meno di quelli che si schierano
contro, ma di più, molti di più, sono quelli che si adagiano in una sonnacchiosa indifferenza.” Spiegò che l’assicurazione dei mafiosi era rappresentata proprio dalla fascia sociale che vivacchiava in equilibrio instabile fra la loro condanna e l’acquiescenza più o meno interessata. Una fascia piuttosto ampia, che si spostava un po’ di qua e un po’ di là, rimanendo sempre prigioniera di quella disgraziata equidistanza. “È in questa zona che malavitosi e cittadini comuni si toccano senza abbracciarsi, cercando di strappare qualche reciproco vantaggio senza stipulare patti formali e duraturi” sentenziò. A Silvana ritornarono in mente le parole di Ladisa. “L’errore è lasciarsi sedurre da queste azioni, dimenticando che sono comunque prodotte da soggetti malavitosi” continuò. “Si confessavano sistematicamente” azzardò la donna. “Molti uomini si confessano non per cancellare i vecchi peccati, ma per far posto ai nuovi.” “Ladisa leggeva spesso la Bibbia.” “La Bibbia è un testo di grande levatura letteraria, ma molto discutibile dal punto di vista etico perché è zeppo di comportamenti discutibili come violenza, incesti, stupri, adulteri. Comportamenti che non possono insegnare nulla di buono.” Si rese conto di aver espresso un’opinione non facile da accettare e cercò di porvi rimedio. “A volte la mia formazione laica diventa rigidità, mi scuso se l’ho scossa.” “Non deve scusarsi, in quello che dice c’è del vero ma comunque la Bibbia non è un libro che avvicina al male” obiettò lei. “Bene e male spesso si avvinghiano, non per azzuffarsi ma per possedersi come due amanti” rispose lui con un sorrisetto beffardo. “E non dobbiamo nemmeno dimenticare che il male è nato con la Creazione. Ce lo confermano la
disobbedienza di Adamo ed Eva, l’omicidio di Abele da parte di Caino e un certo numero di incesti, visto che la specie si è sviluppata dai figli della prima coppia.” “Vedo il meglio e lo approvo ma scelgo il peggio, confessa Medea nelle Metamorfosi di Ovidio” fu il nuovo sfoggio culturale di Vanuccio, un modo come un altro per dire all’ispettore che era nuovamente incappato nella sua rigidità. “Facevano comunque opere di bene” rilevò Silvana, dando la sensazione di essere alla ricerca di chiavi di lettura dell’esperienza appena vissuta. “Anche Al Capone nel 1929, durante la Grande Crisi, faceva distribuire dalle sue aziende pulite cibo e vestiti a chi ne avesse bisogno. Ma rimaneva pur sempre un gangster.” “Nonostante il rapimento, sembravano persone non violente.” “La mafia moderna prima seduce, poi corrompe e, se non riesce, molla e cambia obiettivo. Solo se la preda è insostituibile a alle minacce e, infine, alla violenza. Ma, se non è composta da delinquenti da quattro soldi, lo fa malvolentieri, perché sa che la violenza, in particolare l’omicidio, è un sintomo di scarsa autorevolezza.” Spiegò che per gli uomini d’onore, il ricorso alla violenza plateale era di norma l’eccezione che confermava la regola, e la regola era che chi contava davvero non aveva bisogno di premere il grilletto. “E quando lo preme fa in modo che all’opinione pubblica sia chiaro che l’assassinato non era un innocente, ma un colpevole giudicato, condannato e giustiziato da un tribunale invisibile più tempestivo ed efficace di quelli dello Stato” disse con un trasporto che poteva essere anche mal interpretato. − Il militare pronto a riconoscere le regole del nemico pur senza condividerle − pensò Vanuccio. “Prima che alla violenza, ricorrono alla costruzione di un consenso sociale, offrendo lavoro, organizzando sagre e feste di quartiere, sostenendo la squadra di calcio locale, elargendo cospicue somme alla parrocchia. Alimentano amicizie, minuscole alleanze e protezioni attraverso favori e benevolenze” continuò
l’ispettore. “Questo rende più difficile sconfiggerla.” “Proprio così. La vera sconfitta della mafia non può essere determinata dalla repressione, da un feroce controllo del territorio o dalla confisca totale dei beni. Deve avvenire a livello culturale, col rigetto totale della sua esistenza.” “E i giovani sono le prime vittime di questo malefico incontro” dedusse Vanuccio. “I giovani sono spesso affascinati dal male non perché siano cattivi, ma perché ne avvertono la forza, dalla quale sono sempre stati attratti. La colpa è anche della religione che non sa più valorizzare in modo adeguato il potere concettuale del bene. La Chiesa dovrebbe ricordare ai giovani che se incontrano un leone non devono chiedersi se è inappetente, ma devono scappare e basta.” La sua conclusione sorprese non poco Vanuccio e Silvana. “La mafia ci dice che nessuno di noi può dirsi migliore degli altri, che il contesto e le circostanze della vita possono fare di ciascuno un essere imprevedibile e negativamente sorprendente ai suoi stessi occhi, ci dice che il bene alberga in ognuno quanto il male e che rinchiudere in categorie per noi salvifiche - incivili, ignoranti - chi in qualche modo si è lasciato coinvolgere nel fenomeno non è che un patetico tentativo di nascondere il male che purtroppo è presente in ognuno.” Ancora una volta si aggiustò la sciarpa intorno al collo. “Comunque, ogni infezione stimola gli anticorpi e questo è avvenuto anche in MGR.” “Vuol dire che nella MGR c’erano forze che si opponevano al progredire dell’infezione?” chiese piena di sorpresa Silvana. “Sì. L’anticorpo in questione aveva una stazza notevole, sia fisica che morale. E lei l’ha conosciuto!.” “Saverio Locascio?” “Proprio lui. È… era un ufficiale della Finanza, con un ruolo di primo piano
nell’ambito della struttura che si occupa della gestione del sistema informativo del Corpo.” Locascio era riuscito a penetrare nella rete telematica della MGR, le cui attività erano già sotto osservazione, e a sentire odore di bruciato, spiegò l’ispettore. Poiché le operazioni sospette avvenivano in gran parte estero su estero, transitando anche per noti paradisi fiscali, il coinvolgimento della sua organizzazione era stato inevitabile. Locascio si era immedesimato in modo sorprendente in quella storia al punto che, quando nel corso di una riunione congiunta era emerso che la MGR stava cercando un esperto informatico di alto profilo tecnico, si era offerto di infiltrarsi nell’organizzazione candidandosi per quel posto. La prima reazione era stata di rigetto della proposta perché lui ricopriva un ruolo di o, senza alcuna esperienza di missioni speciali. Il generale che presiedeva quella riunione era stato però di diverso avviso, considerando che proprio questa sua anonimità fosse un punto di forza da sfruttare. Era vero, sosteneva il generale, che gli infiltrati nelle organizzazioni criminali provenivano da reparti speciali e avevano una formazione specifica. Ma nel caso della MGR non c’erano i rischi legati al narcotraffico o al contrabbando, lì c’era in gioco la finanza creativa e la moneta virtuale, argomenti sui quali Locascio era molto preparato. Tramite una società internazionale di cercatori di teste, il suo curriculum, ricco di esperienze di consulenza presso società private ed enti pubblici, era stato inviato alla MGR. Le organizzazioni citate erano ovviamente “pronte” a certificare la qualità delle prestazioni ottenute. Locascio aveva sostenuto diversi colloqui e alla fine era stato scelto e inviato a Parigi. “Il resto lo sapete.” Silvana e Vanuccio seguirono il racconto con molta attenzione, quasi col fiato sospeso. “Per quanto tempo è durata questa storia?” chiese lei. “Per circa tre anni.” “Senza mai destare sospetti…”
“Locascio da ragazzo era cresciuto in un quartiere ad alta concentrazione malavitosa e aveva imparato cosa fare e cosa non fare per evitare di entrare in rotta di collisione con chi comandava. La strada gli aveva insegnato come comportarsi, senza destare sospetti.” “Ma c’è voluto anche un pizzico di incoscienza” osservò la donna. “Direi che c’è voluto un grande senso del dovere” rettificò l’ispettore. “Posso confermare che ha sempre manifestato un grande senso del dovere” confermò Vanuccio. “Lei ha detto che era un ufficiale della Finanza. Ho capito bene? Non lo è più?” chiese la donna all’ispettore. “Ha chiesto di lasciare il Corpo.” “Perché?” “Dice che vuole continuare l’esperienza aziendale. Credo che avverta il dovere di non abbandonare al loro destino le persone che hanno collaborato con lui alla MGR.” “Cosa ne sarà di questa azienda?” “La MGR sarà inizialmente acquisita dall’agenzia nazionale che amministra i beni confiscati alla criminalità organizzata. In un secondo momento, dopo essere stata bonificata, verrà ceduta a qualche banca, tutta tranne la consociata italiana.” “Cosa succederà di questo pezzo d’azienda?” “Locascio ha chiesto di farne una cooperativa di produzione di servizi software per le banche e penso che questo suo progetto andrà in qualche modo in porto. Anzi, ne sono convinto: la nostra struttura spingerà in questa direzione.” “In qualche modo perché?” “Speriamo di convincere Locascio a occuparsi dell’agenzia.” “Mi sembrava di aver capito che fosse già operativa” rilevò Silvana.
“Sì e no. Vede, l’agenzia è oggi una scatola pressoché vuota, con risorse inadeguate e incapace di evitare il deperimento dei beni confiscati, che non sono soltanto soldi e mezzi di trasporto ma anche immobili e aziende. Ci sono migliaia di immobili - palazzi, ville, capannoni, terreni - che non possono essere destinati a usi sociali, come impone la legge, per intoppi burocratici ma anche per la mancanza di una cabina di regia. Così come molte imprese confiscate falliscono perché nessuno se ne occupa.” “Ne ha già parlato con Saverio?” “Sì, ma non vuole abbandonare i ragazzi che hanno lavorato con lui… è combattuto… ci sta pensando.” Il trillo del cellulare di Silvana lo interruppe. “È lui!” esclamò incredula la donna, guardando lo schermo del telefonino. “Pronto!” disse con una voce carica di emozione. “Ciao, Silvanuccia, ti sei ripresa dallo shock?” “Sì, grazie. Sto bene.” “Senti” tagliò corto lui, con la solita schiettezza “perché non ci sposiamo?” “…” “Non mi fraintendere, Silvana. So di te e Vanuccio e sono molto contento, anzi rivendico il diritto di essere testimone alle vostre nozze.” “Se ci saranno…” “Ci saranno, ci saranno. Per noi due intendevo nozze professionali. Ascolta…” Silvana ascoltò in silenzio, con gli occhi dei due uomini puntati su di lei. “Ne riparliamo” disse. Si salutarono e riattaccò. “Puntuale come sempre” commentò lei. “Mi ha illustrato un’ipotesi: dividere la consociata italiana della MGR in due, una parte da annettere alla mia società, che avrebbe in dote tutti i contratti siglati negli ultimi periodi, e l’altra da far
confluire nell’agenzia antimafia, nella quale entrerebbe lui. Così, dice, accontenterebbe i suoi collaboratori e l’ispettore.” “Io ne sarei felicissimo. Questa soluzione consentirebbe di iniettare nuove competenze ed energie manageriali nella gestione dei beni confiscati alla malavita, in collaborazione con gli enti territoriali e le associazioni antimafia.” “Ho promesso che ne riparleremo.” “Per la seconda volta punto su una sua decisione positiva” ironizzò bonariamente “perché sarebbe decisiva per la creazione di una banca dati nazionale dei beni confiscati alla mafia, visto che non se ne conosce nemmeno il numero esatto. Si ritiene che siano oltre dodicimila, pensi. E questo sarebbe soltanto il primo obiettivo dell’agenzia.” “Anche a lei dico che ne riparleremo” rispose lei. “A meno che da qualche parte non ci sia un impegno dell’agenzia ad acquisire anche l’altra metà dell’azienda se le cose non dovessero decollare” aggiunse subito dopo “Lei ha proprio il bernoccolo degli affari” ammise l’ispettore. “Ora sono io che le dico ne riparliamo.” Risero tutti e tre. “E lei, ispettore, come ne esce da questa avventura?” volle sapere Silvana. “Provo soddisfazione e amarezza, abbiamo raso al suolo un’organizzazione molto potente ma potevamo raccogliere molto di più. La morte dei tre boss non era prevista. Ci è rimasto il russo, il più duro del comitato di presidenza, ma da lui non caveremo nulla e rischiamo di ritrovarlo in circolazione fra non molti anni. Se il processo non dimostrerà l’appartenenza mafiosa, il reato finanziario gli costerà non molti anni di galera.” Silvana aggrottò le ciglia e serrò le mascelle, forse più per il ricordo dell’individuo che per la notizia. L’ispettore guardò l’orologio e lasciò intendere che era arrivato il momento di salutarsi, ma prima rivolse ancora una domanda a Silvana. “Mi tolga una curiosità: perché ha chiamato il suo prodotto RhSoft?”
“Rh è il simbolo del rodio, il metallo più prezioso che esista.” “Il software più prezioso, che rende ricco chi lo ha!” esclamò l’ispettore con l’enfasi di chi ha fatto una scoperta. “Già” rispose lei. “Ma i composti di questo metallo sono altamente tossici e possono macchiare la pelle umana se trattati in modo inadeguato.” Vanuccio sorrise a quella considerazione e le strizzò l’occhio. “Mi tolga anche lei una curiosità: perché porta sempre una sciarpa intorno al collo, anche quando fa caldo?” Forse si aspettava quella domanda. Con movimenti lenti, ma senza alcuna teatralità, l’ispettore si tolse la sciarpa e inclinò la testa di lato quel tanto che consentisse di mettere in evidenza una vistosa cicatrice. “È il regalo di un cane da guardia durante una delle mie prime operazioni antimafia cui ho partecipato quando militavo nel corpo della Finanza.” Il cane, un poderoso mastiff, un molosso molto abile come guardiano e difensore del padrone, era sbucato all’improvviso e si era avventato contro di lui, il primo di un gruppetto di cinque finanzieri che si stavano avvicinando alla villa che dovevano perquisire. L’aggressione gli aveva procurato diverse ferite, la più preoccupante al collo. I suoi colleghi erano stati costretti a finire l’animale. Le ferite gli avevano procurato anche una grave infezione, domata con una lunga e severa terapia di antibiotici. Quel ricordo gli si era attaccato addosso come una sanguisuga salassandogli energie soprattutto psicologiche. Era ritornato a farsi vivo in tempi recenti attraverso il sogno ricorrente di un’aggressione simile a quella subita nella realtà. Ne aveva parlato anche con l’ufficiale medico specializzato in psicologia. “L’immagine del morso nei sogni va collegata al simbolismo dei denti e alla loro funzione” gli aveva spiegato il medico. “Il dolore indica invece la consapevolezza di qualcosa diventato insopportabile. Conoscendoti, tradurrei in questi termini l’interpretazione: i denti, che proteggono la vulnerabilità della bocca ma possono anche essere strumenti di offesa, rappresentano l’insieme dei soggetti e delle azioni che non solo proteggono la mafia - la bocca - ma aggrediscono chi vuole combatterla. Il dolore che provi è il senso di impotenza che avverti di fronte a un fenomeno che non si riesce a debellare. Il consiglio che
mi sento di darti è di vivere in maniera meno emotiva la tua azione di contrasto alla mafia. Svolgi egregiamente il tuo lavoro e nessuno può muoverti appunti.” “Sono convinta anch’io che lei svolga il suo lavoro con grande professionalità e non molta partecipazione emotiva. E me ne compiaccio” disse Silvana. “Spero di poterla presentare un giorno ai miei figli, anche se Sabino ha criticato i suoi metodi, ritenendoli sostanzialmente uguali a quelli mafiosi.” Vanuccio sentì le sue guance riscaldarsi perché anche lui aveva pensato la stessa cosa. Gli altri due mostrarono di non accorgersi del lieve rossore. “Non c’è metodo più ingiusto che fare parti uguali fra diseguali. Forse abbiamo utilizzato lo stesso metodo, ma abbiamo obiettivi opposti” sentenziò l’ispettore. “Su questo non ho alcun dubbio” convenne lei. “Importante è il fine della verità, non la sua forma che è sempre limitata e fluttuante. La forma cambia spesso, a seconda dei tempi e dei luoghi.” “Nel nostro caso il fine è la morte della mafia, che però non avviene mai. Perché?” “Perché ci sono persone che hanno ottenuto potere grazie all’interessamento della mafia e altre, molte altre, che girano volentieri la testa dall’altra parte per non vedere e non sentire: sono queste persone, le une e le altre, che tengono in vita la mafia.” L’ispettore li salutò e dopo un dietrofront, militaresco per abitudine, uscì dalla stanza. Con lui Silvana sentì allontanarsi anche l’incubo della MGR. Trattenne invece il pensiero dell’Australia: in un certo senso si era abituata all’idea di viverci, perché rinunciarvi del tutto? Almeno una vacanza potevano concedersela, subito dopo la chiusura delle scuole. Sorrise a quel pensiero e la cosa non sfuggì a Vanuccio. “Condivido qualunque cosa tu stia pensando, visto che ti fa felice” disse elargendole il sorriso più accattivante di cui disponeva. “Allora domani comincio i preparativi” rispose senza dirgli nulla di più.
F I N E
Grazie a Pia Barletta che ha curato l'editing del libro.
© Edizioni SENSOINVERSO Collana OroArgento www.edizionisensoinverso.it
[email protected] Via Vulcano, 31 – 48124 – Ravenna (RA)
Il committente esonera espressamente l’Editore da ogni e qualsiasi responsabilità discendente dagli scritti contenuti nel libro garantendo di tenerlo indenne da qualsiasi azione e danno che potrebbe a lui derivare per la pubblicazione del libro