Ugo l'Allezzíto
La morte ci deve trova' vivi
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Indice dei contenuti
LA MORTE CI DEVE TROVA' VIVI UNO DUE TRE QUATTRO CINQUE SEI SETTE OTTO NOVE DIECI UNDICI DODICI TREDICI QUATTORDICI QUINDICI SEDICI DICIASSETTE
DICIOTTO
LA MORTE CI DEVE TROVA' VIVI
UNO
«Sei peggio di una padellata di ricci sul groppone!» L’esclamazione, rivolta al sottoposto, gli sfuggì come un graffio, furiosa nella gola, deformata come la silhouette di un ghiozzo di bua in posizione d’attacco. Si vide nelle squame dell’insignificante, quanto perfido ghiozzo, minuscolo pesce da preda, pronto a mangiarsi un allezzíto di gamberetto, vittima convinta di continuare una lunga vita uggiosa e si commiserò. Lui, il pesce grosso, nel ristorante della giustizia, di s’uro ‘un l’avrebbe mai ingollato. La sua pena coinvolse anche l’altro, circondando entrambi di una stessa aureola d’inutilità. Valevano meno di un due di briscola e insieme non facevano neanche quattro. Loro non avrebbero mai smosso di una pùce il mondo con le sue montagne di caáte da fronteggia’, nemmeno a piglia’ un badile con un mani’o alto come l’asse terrestre. Pensò, poi, lasciandosi trascinare dal suo abituale e nero umorismo, che il bischero che gli stava davanti non sapesse neanche cosa fosse un riccio di mare e la similitudine labronica della padellata di ricci non avesse alcun senso per lui. Tutt’al più quel vicecapodiunsottoaiuto, piovuto a Livorno, piedipiatti per fame, aveva calpestato solo sabbia nella sua esistenza vacanziera e non aveva la minima idea di cosa fosse una scogliera, dove vivevano i ricci che rifiutavano i granelli fastidiosi. Fissò lo sguardo sull’uomo che aveva davanti e gli fece la domanda: « Ma tu Nico, dove cazzo vai al mare d’estate?» «A Tirrenia commissa', a Castiglioncell e Quercianell vado quacche volt, ma rarament!»
Notò che gli occhi opachi e biliosi dell’agente De Filippo erano piatti come il fondale più amato dai vicini terragnoli pisani, apionati più dei trattori che delle barche, cioè la dannata spiaggia di Tirrenia, che va dal Calambrone petrolifero e pieno di tarponi fino alla foce mercurifera dell’Arno, a Marina di Pisa. Rifletté come quel meschino si perdesse tutti i fondali multicolori dell’alta scogliera del Romito, a causa della sua incapacità natatoria. Come disse lo stitío, la vedo dura. Affogherebbe co’ la maschera e ‘r boccaglio! pensò immaginandoselo in tenuta da bagno. Poi si rivolse all’agente: «Mi dici un poìno, dov’è che hanno stiantàto l’omo?» Nico, poliziotto irpino, maledì anche in quell’occasione il suo mestiere, che considerava comunque l’unica soluzione per poter mettersi a tavola e riempirsi mediamente la pancia, almeno fino a quando qualche delinquènt non gliela avesse bucata. Chinò poi, in un falso ossequio, il capo e gli ripeté stoicamente l’indirizzo dell’ammazzato, mandandolo, tuttavia, mentalmente a fanculo, perché gliel’aveva appena detto dieci minuti prima: «Vvia Rroma duccentocinquantassei.» «Voi di’ via Roma 256?» gli chiese il commissario Nedo Lonzi. Il poliziotto era sicuro di aver ben scandito già prima sia il nome della strada che il numero, ma non era certo colpa sua se quel dannato commissario livornese aveva i tappi di cerume negli orecchi. Ma come parla natodancane? rimuginò Nedo che stentava a capirlo. Che popò di toppone anarfabeta! Il Lonzi si guardò incontro. Si era solo illuso di trovare una Livorno intatta, così come l’aveva lasciata e, invece, la sua città era profondamente cambiata.
Ho fatto il giro d’Italia, trasferito in continuazione, sbavando di ritornare al centro del buo… perché se ‘r mondo fosse ‘n culo, Livorno sarebbe il buo e, invece, mi ritrovo in questo troiaio di città, dov’era meglio che mi pa’ si fosse sognato ghiande, prima di fammi nasce! Ripensò, poi, con nostalgia al paesino del nord abbarbicato sulla montagna, da cui si era trasferito per tornare a Livorno e soprattutto alla sposina, bellafìa condiscendente, che appariva al marito una tranquilla massaia. Con l’immaginazione gli si mostrò d’incanto il suo ber culo, che sembrava avecci il dono della parola. Ripensò a come gentilmente gli venisse offerto quasi tutti i santi giorni e la fava all’istante gli s’irrigidì, mostrando in tutto il suo splendore il suo profilo pronunciato. Poi considerò, che non fosse proprio il caso di esibire in giro quell’arnese al momento completamente inutile. La testa di sotto ‘omanda a quella di sopra e c’è un morto ammazzato e devo lavora’! gli comandò la coscienza poliziesca. Lasciò lentamente che lulì dei piani bassi si ghiacciasse dal bollore, restituendo ai piani alti del cervello il nobile comando dell’afflosciamento. Ricacciò via con forza i piacevoli ricordi che gli sfrecciavano nella testa a velocità supersonica e si tuffò nelle solite tristi stronzaggini quotidiane. Era meglio se un si trastullava con mi pa’! Questa voltail pensiero era per l’altra artefice della sua nascita, cioè su’ ma’, argomento in età infantile di liti frequenti coi ragazzi della sua età. Al fatidico ‘r tegame di tu’ ma, a lui rivolto, ne aveva scianguinati a stiaffi tanti, anche se già allora, nell’età in cui tutti i bimbi pensano di avere delle sante madri, sapeva che la sua era considerata una sorta di crocerossina predisposta al bene di molti, soprattutto se erano arrapati, ma non voleva certo sentirselo ricordare dai suoi coetanei. Certe volte i grandi si dimostravano generosi. Il latte spesso era gratis e veniva portato direttamente dal gentile lattaio, così
come faceva il macellaio che, talvolta portava, ‘na bistecca, un conigliolo o un po’ di presciutto, soprattutto in assenza del marito. Aggaìti dalla miseria, nella famiglia Lonzi nissuno si fasciava il ceppione. Ogni dubbio morale spariva di fronte alla tragica certezza che la pancia sarebbe stata finalmente zibilla. I grandi, pagati in natura, tacevano, magari sorridevano a volte un po’ maliziosamente e niente più. I bimbi, invece, erano stronzi e non badavano a spese con le parole e lui li sciagattàva. A suon di gollettoni cambiavano idea e diventavano boni come la Madonna di Montinero.
Tutto il colloquio tra i due, se così si può definire un battibecco a senso unico fra un commissario con i suoi pensieri e il suo sottoposto, si era svolto in piazza Cavallotti, sede del mercato ortofrutticolo. Chi viene da via Grande ne percepisce già a distanza il vocio indistinto, anche se non può ancora vedere i venditori di zucchini o di melanzane che urlando, fanno gesti osceni alle donne provocanti, mimando le superbe misure dei loro prodotti. Il mercato a quell’ora era finito e mostrava rimasugli marci di frutta e verdura nelle cassette di legno rovistate da pensionati senza vaini. I due si mossero. Nedo davanti e il subalterno dietro come un’ombra. Attraversarono piazza Cavallotti, pavimentata con assurde e costose nuove pietre già sconnesse e Nedo immaginò quanto qualcuno ci avesse mangiato. Nico intanto lo seguiva a pochi metri di distanza senza sapere cosa gli stesse balenando nel cervello. Nedo rivide con l’immaginazione le torme di ragazzi imbestialiti che in quella piazza, in un tempo glorioso e ormai lontano del Palio Marinaro, che sfogavano, nelle risse, la rabbia della loro carenza d’affetto. Comparvero nella sua mente, per incanto, le battaglie della sua adolescenza fatte di lanci di pomodori, patate, carote, cavoli e quant’altro fosse già abbastanza marcio, recuperato sotto i banchetti di legno nelle file sgangherate, lasciate pigramente di traverso dagli erbivendoli.
Monumenti intarlati di un commercio popolare che guardavano un cielo bugiardo che non prometteva niente di buono per il futuro. Rivide, come in un sogno a occhi aperti, le facce della sua banda dell’ Ovo Sodo, con i nasi e i denti rotti e scomposti dagli schiaffi dei genitori disperati per la miseria, affrontare quelli del Borgo con il giallo, il bianco e il nero delle insegne, che si mescolava nelle lotte furibonde. Ripensò con nostalgia ai pantaloni rattoppati, alle braciole ai ginocchi e alle teste rotte dalle sassaiole. Considerò che ora i bimbi stavano davanti al computer con feisbukke, tenevano il cellulare sempre in mano al posto dell’uccello, come usava una volta e tutt’al più guardavano L’isola del merdosi o Il Grande Budello, appicciati ar televisore come i porpi. Allora, invece, si stava ‘na cea bene a Livorno, anche se si mangiava un po’ poino, ma ner naso c’avevi l’odore pulito del mare. Poi riagganciò i suoi pensieri al grigio presente: Boia dé! Ritorno pensando di trovare chissà cosa e invece mi scopro co’ na’ popo’ di merda addosso che la metà basterebbe! Pensò che da quando era rientrato a Livorno erano ati già due anni e per tutto il tempo non aveva fatto altro che osservare una città foderata di cemento, amianto e mattoni, ripiena di schifo come un panino Usa & Getta del Mc Donald’s che fa’ caà da non mangiare neanche a forza. C’era stato una volta, ma s’era levato subito di ‘ulo e co’r cazzo che ci sarebbe ritornato da quei popò di spaccascuregge, quei lezzi che usavano la maionese, gialla come il vomito di briào, la ciccia di Chi l’ha visto e altri troiai da allezzíti. Boia dé! Bella mi Livorno o chi ti rionosce più! Valutò che, da un fottío, le solite quattro o cinque ghigne si spartivano la torta a buo a buo coi soliti politicanti. Razzumaglie dinastiche, che erano sempre lì, abbarbicate alle poltrone con le loro teste dure. Ma ogni testa dura trova ‘r su’ scoglio! e in questo sperava Nedo, commissario figlio di un tegame che la dava a tutti, ma la rispettava lo stesso, perché sapeva quant’è amaro il pane.
Con questo pensiero riconsiderò il poliziotto che aveva davanti. A proposito di pane, il terrone che aveva davanti era molto meglio del catròzzolo di panino ameriano e dei troiai che c’erano dentro. Ammesso che l’agente non capisse una mazza oppure per quieto vivere le sue parole gli fero come il cazzo alle vecchie, considerò che almeno lui rischiava la vita e alla famiglia portava il pane amaro, proprio come quello di sua madre.
Un’ora prima che Nedo si perdesse in queste congetture, all’altro capo della città, nei quartieri nord, in un cubo a cui avevano portato via la testa di una grossa aquila scolpita sulla grigia facciata e l’ascia del fascio littorio, una fredda luce al neon aveva fatto luccicare la testa del questore Gaspare Rossi, nominato di fresco a capo di bottega. «Allora lei dice che il commissario Lonzi è quello giusto?» L’uomo aveva tentennato la testa e i riflessi della luce artificiale si erano proiettati sul soffitto come scaglie di pesce. Il questore aveva chiesto ancora: «Ma ne è proprio sicuro?» Aveva voluto rassicurazioni dal suo vice, che viveva a Livorno da parecchio tempo e conosceva bene i suoi polli. Il vicequestore aveva fatto un gesto eloquente con il capo che non aveva lasciato dubbi. Il suo sì era stato incondizionato. Conosceva il Lonzi ormai da due anni e aveva spulciato con cura il curriculum di tutto rispetto, che si era portato dietro. Era sicuramente uno fatto a modo suo, su questo non c’era ombra di dubbio. Non ci sarebbe mai andato neanche a cena a farsi sputtanare nei locali pubblici dall’enorme montagna dei suoi moccoli, sparati a raffica ogni due o tre parole che pronunciava. Meno che mai lo avrebbe invitato a casa e presentato alla moglie che gli avrebbe trombato di certo, viste le sue non ottime performance, ma era l’unico che
avrebbe potuto risolvere il caso di via Roma. Su questo era più che sicuro e così aveva convinto anche il questore, titubante per natura, ma indiscutibilmente uomo di legge.
Mentre il Rossi stava riflettendo ancora se avesse affidato le indagini all’uomo giusto, Nedo Lonzi non aveva alcun dubbio su cosa fare al momento e, preso dalla gola, si piantò come un palo di fronte al frataio. Tanto il morto era morto e più che morì ‘un poteva fa’! Dé, aspetterà quarche menuto da sdraiato… C’ho na’ fame che fra poìno moio anco io! considerò il Lonzi, prendendosela con calma. Intanto, però, c’era una coda di clienti e nell’attesa del suo turno si stava impregnando del fritto di frati e bomboloni che usciva da quel buco di negozio in forma quasi solida, quasi fosse un antico gozzo di legno dei Fossi Reali che, un tempo, saturavano di pece nera. Decise che dopo aver mangiato si sarebbe recato a piedi nel palazzo di via Roma, luogo del delitto. Avrebbe dovuto scarpinare alquanto, ma gli avrebbe fatto bene, visto che il suo medico, per i trigliceridi in eccesso gli aveva consigliato di camminare un po’ di più e questa poteva essere una delle rare occasioni per farlo. E poi con la ‘arrozza del Gambini, arrivi lo stesso e risparmi e’ vaini! Considerò che Nico, che c’aveva du piedi che parevano du cani lupo a cuccia, in cuor suo avrebbe smoccolato, ma avrebbe ubbidito come sempre. Controllò il suo cellulare per le eventuali comunicazioni al questore. Lo toccò coi polpastrelli dall’esterno della tasca. Il suo aggeggio era per trogloditi, di questo era consapevole, ma non gliene importava più di tanto. Nico, che guadagnava meno di lui e doveva mantenere tre figli, ne possedeva uno migliore, quasi di ultima generazione. Il suo cellulare era almeno due volte più grande e pesante del suo sottoposto.
Gli ingombrava una delle tasche della giacca e pesava almeno quanto la vecchia e cara Beretta che giaceva nell’altra. Era la zavorra che ci voleva, perché metteva in equilibrio perfetto le sue giacche col suo peso equivalente all’arma. Di comprare un telefonino multifunzionale con internet, mail, e diretta tv, non ne voleva sapere. Al ciaccióne di turno che lo sollecitava all’acquisto di uno nuovo rispondeva: «Ma fa’ la burletta per davvero! Boia dé! E’ saòsa…Ci faranno anche i toast col cellulare e una manina, che spunterà dal troiaio, ti massaggerà se c’hai il bruciaúlo!» «Be’ mi’ vaíni!» aggiungeva. «Dammi retta, oh brodo, béviteli di ponci!» Le sue narici intanto fremevano agli aromi del frataio. L’attesa si prolungava e l’acquolina in bocca cresceva, mentre i frati e bomboloni galleggiavano nell’enorme pentolone, ripieno d’olio, lo stomaco di Nedo emise un brontolio sordo che supplicava riempimento. Nico guardava ora Nedo ora il pentolone e un’espressione di disgusto gli si stampò sul viso. A lui i frati e i bomboloni facevano schifo, soprattutto alla sua ulcera che li odiava ferocemente. Il Lonzi, dopo qualche minuto, finalmente riuscì a mordere con foga un bombolone, ma la crema fuoriuscita a bollore gli bruciò la bocca e il moccolo uscì all’istante, forte e chiaro: «Malidetta te e chi t’ha fatto! Crema di merda, m’ha spicinato ‘r labbro! Bruci più te di un cristere di ‘avallo!»
DUE
Due ore prima Massimo Lischi aveva salito affannosamente le scale del palazzo numero 256 di via Roma, una scalcinata costruzione, un tempo un edificio signorile, ma i pochi che se lo sarebbero potuto ricordare erano ormai dietro le lapidi del cimitero dei Lupi. Aveva calcolato lo sforzo della salita, ancor prima della fatica, già nel posteggiare la sua vecchia auto. Ci aveva pensato e sbraitato simultaneamente, dopo aver fatto inutilmente un paio di giri dell’isolato, perché trovare parcheggio in quella zona centrale era né più né meno come vincere una grossa cifra al superenalotto. Il suo ciclomotore di servizio era come nuovo, occultato nella cantina di casa, sotto una coltre di polvere, visto che non gli era mai riuscito di stare su due ruote, neanche in bicicletta. Una volta arrivato, aveva guardato preoccupato il portone del palazzo. L’ultima volta aveva trovato l’ascensore fuori uso, così come era successo il giorno precedente e quello ancora prima e c’era da scommetterci che ancora una volta sarebbe stato immobile a pianterreno con il suo cartellino rosso del guasto appeso alla maniglia. Avrebbe avuto il compito ingrato di raggiungere a piedi il terzo piano del palazzo di via Roma dai soffitti alti almeno quattro metri, con le scale lunghe come quelle di un sei piani di uno moderno. Aveva dato un’occhiata fugace alla guardiola, desolatamente vuota del portiere pensando che, come al solito, l’inetto stesse fregandosene del prossimo, anche se aveva una divisa da postino. Andrea Rossigni gli era rimasto antipatico fin dall’inizio e ormai erano ati una decina d’anni da quando lo aveva conosciuto. La sua indolenza era giustificata solo in parte dal magro stipendio che gli rifilava l’amministratore di condominio, il cui braccino corto, nei confronti altrui, era notorio. Massimo Lischi, il postino del quartiere, si era preoccupato del fiatone che negli
ultimi tempi andava aumentando. Si era impensierito più del solito, perché non si trattava di una dannata scala a chiocciola e nemmeno stava arrampicandosi sugli ultimi scalini che precedono un monolocale ricavato da una vecchia soffitta. Aveva poi pensato di farsi le analisi per il colesterolo, perché il cuore gli stava battendo a più non posso, senza che avesse pensato ad alcuna topa. Il Lischi era un ometto obeso, più largo che alto e brutto come i debiti. Più che camminare, sembrava rotolare tutto il santo giorno per le case del quartiere. Un brav’uomo lo consideravano i più, con un carattere accondiscendente e gentile con tutti. Al postino la preoccupazione era poi cresciuta, perché a ogni gradino successivo le gambe gli erano diventate sempre più legnose, ma questo fu niente rispetto alla scena che gli si sarebbe prospettata di lì a poco. Alla fine della rampa aveva pensato che il suo peso fosse raddoppiato, ma coraggiosamente aveva fatto i pochi i che gli restavano per arrivare al portone di Wladimiro Bianchi. Giunto sulla soglia, aveva considerato che avrebbe dovuto suonare un bel po’ prima che il signore in questione, con tutti i suoi malanni, arrancando come sempre, fosse venuto a prendersi il pacchetto che gli stava portando.
Il Bianchi, invece, non aveva la minima volontà di spostarsi, visto che giaceva a pelle di leone e il postino rimase esterrefatto. Quando il commissario, arrivando sulla scena del delitto, vide il cadavere, stramazzato a pancia all’ingiù in un lago di sangue con un coltello, piantato nella schiena, non ebbe dubbi sulla sua dipartita. Nedo Lonzi, nel vederlo, ma più che altro nel sentire il cadavere che avellava, ebbe un rigurgito acido che gli risalì per l’esofago. Si compiacque di non aver affondato i denti anche in un secondo bombolone, come la sua golosità gli aveva invano suggerito, altrimenti a quell’orrida visione avrebbe sicuramente vomitato. Il signore, un uomo sull’ottantina, ato a miglior vita e traato da un
coltellone, si era reso conto di morire e si era fatto i bisogni addosso. Il commissario ne aveva già percepito il fetore sulla soglia, prima di entrare nel lungo corridoio che precedeva il salotto con le poltrone di pelle rinsecchita e un tavolino, dove le tazze e le chicchere, oltre che essere piene di polvere e muffe, erano decisamente in eccesso. Nedo si dette una mossa, chiamò gli specialisti per i rilievi, ordinò ai poliziotti di fare una perquisizione accurata dell’appartamento e si apprestò a interrogare chi aveva trovato il cadavere.
Il Lonzi trovò il pover’uomo del Lischi al bar dell’angolo. Prima qualcuno lo aveva accompagnato alla sua auto, un macinino con un sacco di anni girati nelle ruote. Lui aveva la posta ancora da consegnare e chissà quando l’avrebbe consegnata. Aveva posato sui sedili posteriori le lettere, mentre nella concitazione continuava a tenere in mano un pacco, appiccicato come se fosse stato saldato dal vinavil. Un’altra anima caritatevole gli aveva poi offerto un beverone che aveva chiamato grappino con un improprio diminutivo. Nedo notò che il barista aveva elargito al tapino quasi un quartino di acquavite in un bicchierone di vetro spesso, che gli ricordava un vaso da fiori di cimitero. D’altra parte il morto c’era e pure ammazzato. Il liquido trasparente, leggermente ambrato, ristagnava mezzo bevuto nel bicchiere. Gli occhi del postino, oltre che umidi per l’emozione, erano anche rosso sangue per la pressione, sicuramente troppo alta. Sembrava quasi un vampiro e le parole che gli uscivano dalla bocca emanavano nuvole d’alcool, che giungevano al naso di Nedo. Si fece forza e interrogò il testimone con tutta la pazienza disponibile: «Perché si trovava nel palazzo?» Il Lonzi in servizio non beveva, non fumava e si dimenticava del linguaggio
interiore, che era livornese e rispolverava l’italiano per le occasioni solenni e funerarie. «Ero a consegnare la posta all’intera via, come faccio d’abitudine tutti i santi giorni» rispose il Lischi. «Visto che il portone si apre automaticamente, prima lei avrà certamente suonato, vero?» «Sì, ho suonato un paio di volte, ma siccome nessuno apriva e nemmeno il portiere poteva aiutarmi, mi sono permesso di entrare. Dovevo far firmare il signor Bianchi per la ricevuta di una raccomandata e sono salito per le scale fino alla sua porta.» «Sa dirmi all’incirca che ore erano?» «Erano ate da poco le dieci.» «Ha visto uscire qualcuno dall’appartamento della vittima?» «Né dall’appartamento né per le scale. Glielo giuro, signor commissario!» Il postino stava rispondendo, piagnucolando in preda alla più completa apprensione. A Nedo, quel signore lì, con la divisa da postino, gli ricordava un suo compagno di classe delle elementari che il pianto ce l’aveva sempre in cima e tutti si divertivano a prenderlo per i fondelli proprio per questo, ma non era certo il caso di fermare l’interrogatorio per la comione. Quell’omino, che sembrava una palla di grasso, era un testimone chiave e non poteva certo risparmiargli un interrogatorio. Si grattò quindi la testa per fare qualcosa e riprese il filo del discorso da dove lo aveva lasciato. Gli scaricò la domanda di rito, che non poteva mancare, guardandolo in faccia, una rossa faccia da scorfano bollito da cacciucco. «Ha notato qualcosa di strano?» gli chiese, sperando che il caóne non fosse
troppo fióso e riuscisse a ricordarsi qualcosa. L’uomo riprese a parlare con difficoltà: «La porta socchiusa e niente altro, l’appartamento mi sembrava in ordine. Mi sono affacciato sul corridoio, ho dato una sbirciata in fondo, dove cominciava la sala e ho visto le gambe. Ho pensato a un malore, ma poi ho visto la macchia rossa sulle mattonelle e mi è venuta ancora più paura.» Il cellulare di Nedo cominciò a vibrare. «Commissa', ha finito col testimone?» Nico, che si trovava sul luogo del delitto, non aggiunse altro, ma il Lonzi capì che l’altro doveva dirgli ancora qualcosa. «Sì, praticamente sì, ma cosa c’è?» «Deve salì commissa’! Abbiamm truvat cos interessant!» gli rispose il poliziotto. Irnerio Bencivenga, che faceva coppia con l’agente Nico, poliziotto giovane e sveglio, ma anche un po’ ruffiano, gli venne incontro fin sulle scale, facendo capolino dalla rampa. Al suo cospetto fece un inchino e gli spifferò: «Venga, venga, vedrà che sorpresa!» Aveva gli occhi spiritati e c’era da scommettere sull’eccezionalità della scoperta. Tuttavia Nedo pensò che sull’erba molle tutti ci si puliscono i piedi e non era proprio il caso di fare troppi complimenti al leccapiedi di turno se no, alzava la testa e chi lo fermava più? In mancanza der cane abbaia la volpe! Quindi gli rispose a tono con la ferma convinzione che non dovesse volare troppo alto e continuasse a strisciare come faceva di solito. «Mi auguro solo che tu non faccia il cazzabúbolo, perché altrimenti ti faccio lavà i cessi de la questura!» Irnerio aggrottò le sopracciglia e rispose con una voce fastidiosamente mielosa: «Ma capo, le assicuro che... e la lingua gli morì tra i denti.» Nedo salì gli ultimi gradini fino a raggiungere il piano dell’appartamento della vittima, seguito come un’ombra dallo zelante poliziotto.
Dalla porta d’ingresso, in fondo al corridoio, apparve la camera da pranzo dirimpetto, avara di sole, con una larga tavola tutta bianca, rinsecchita alle estremità consumate dal tempo. Sopra si potevano notare i bicchieri opachi e mal lavati, le posate in simmetria, in attesa di un pranzo o di una cena da parte del proprietario, che non ci sarebbe mai stata, perché i morti non hanno fame e non l’avranno mai più. Il commissario superò la sala e si diresse verso il salotto. Era già tardi, il locale era nella semi oscurità. Solo un enorme abat-jour gettava una luce gialliccia su di un divano basso a forma di cavallo, sommerso da cuscini accatastati. Il resto della stanza era in penombra. Intravide a stento i tre poliziotti, che erano appoggiati alla libreria e lo stavano aspettando. Scorse Nico che agitava le mani in un richiamo per attirare la sua attenzione. Quando arrivò, Irnerio spostò di novanta gradi la libreria con tutte le sue scaffalature di noce. Venne spalancata una finestra. Solo allora il Lonzi notò che alla base c’erano delle rotelline e che, assieme ai libri veri, ce n’erano anche di fasulli. Solo scatole di cartone, simili a volumi, con la copertina da best seller e niente più. Poi vide la porta d’acciaio con la blindatura. «E questa?» chiese. Gli rispose Irnerio: «Di sicuro c’è roba importante, ma non siamo riusciti a trovare la chiave!» «E che cosa aspettate a chiamare un professionista?» urlò arrabbiato Nedo. Forse dentro non c’era niente di valore e comunque non era stata forzata. Almeno questo sembrava, ma bisognava pur aprirla. Non ci fu bisogno di un fabbro né di uno scassinatore pentito, perché il
commissario Lonzi, con il suo acume, notò il finto libro con la copertina del romanzo La chiave dello scrittore giapponese Jun'ichirō Tanizakidi. Del libro vero Nedo non aveva letto neanche una riga, ma si ricordò di quel porcone di Tinto Brass che c’aveva fatto un film con lo stesso titolo, pieno di chiappe più o meno sode, molto care al regista che di ‘uli se ne intende. Cosa ci fa sto cazzo di titolo nella ‘asa di un vecchio a cui l’uccello non gli si arrizzerebbe neanche col cric? pensò. Fu l’intuizione giusta, perché, in effetti, il finto libro conteneva proprio la chiave della porta blindata, che girando tre volte nella toppa, mostrò tutto il suo favoloso contenuto. Apparve una vera e propria gioielleria fatta in casa: Rolex, collane di brillanti, anelli con rubini, bracciali a forma di serpentino e altre fogge, orecchini a cerchi, pendenti e un sacco di altre preziosità. Non erano nuovi, molti oggetti erano in buono stato, ma usati, altre con varie ammaccature e graffi. Un tesoro nella casa del tranquillo pensionato, un valore immenso da far girare la testa a molti, un ottimo movente, ma tutto era a posto, perché non c’erano forzature e quindi di certo non era stato rubato nulla. Il vecchio, quindi, conduceva una doppia vita! considerò il Lonzi. Si mostrava come un modesto pensionato, chiuso come un recluso in uno squallido alloggio, senza avere, all’apparenza alcun contatto con il mondo esterno e, invece, disponeva di ingenti ricchezze che gli avrebbero potuto far fare la vita da nababbo Il vano dei preziosi era una sorta di sgabuzzino con la porta blindata nascosta dai libri. Ai lati, per maggior sicurezza, il vecchio aveva fatto costruire spesse pareti di cemento armato. Vando sei senza denti, arriva ‘r pane!, rimuginò il commissario labronico. Cosa se ne faceva il fu Wladimiro Bianchi di tutte quei valori e soprattutto come
era riuscito ad accumulare tanta ricchezza? Il Lonzi doveva scoprirlo e decise di are all’azione. Ordinò ai poliziotti di smantellare la grande tavola e di depositare tutto ciò che vi era sopra da qualche altra parte. Lì andavano messi tutti preziosi. Magari si trattava di ricettazione, perché gli avi del vecchio erano dei poveri in canna e non avevano il becco di un quattrino e questo fu subito accertato. Il fu Wladimiro Bianchi al superenalotto non aveva vinto, sennò i gioielli se li sarebbe comprati nuovi, ammesso che fosse stato un apionato di quel genere di lusso, cosa di cui fortemente dubitava. Tutta quei monili apparecchiati su quella tovaglia bianca, dai lembi ingialliti dal tempo, mostravano una quantità ingente di ricchezza, una ricchezza anonima però. Poi, però, notò l’orologio che aveva un numero di codice ben preciso e, impresso e marchiato nell’acciaio, anche il nome dell’orefice da cui era stato acquistato. Almeno poteva rintracciare il pollo che l’aveva comprato e soprattutto come mai il suo orologio si trovasse proprio lì nella casa di un cadavere insanguinato.
TRE
Decise di cenare. Il bombolone era ormai digerito. Dopo aver ato tutto il santo pomeriggio in compagnia di un cadavere, all’aria fresca risentiva il brontolio dello stomaco, resuscitato e pronto all’uso dalla brezza di mare. Chiese per cortesia a Nico se voleva accompagnarlo al ristorante, sapendo che non ci sarebbe mai venuto, conoscendo già la risposta all’invito: «Sa, la mogliera, i figli, mic li posso lasciare soul…» La tana del sorcio, pur con un nome poco raccomandabile, non aveva niente a che fare col formaggio che nessuno dei clienti ordinava mai e tantomeno coi topi. Il ristorante si trovava a due i dal Mercato Coperto di ottocentesca memoria, un bell’edificio su cui si sarebbe potuto giungere dai Fossi Reali su di un’imbarcazione e invece ci voleva un sacco di tempo per trovare un parcheggio e a pagamento. Oimmèi che bròdi di amministratori! considerò il Lonzi, dopo aver visto girare a vuoto un’infinità di macchine alla ricerca disperata di un posto. Decise che sarebbe stato meglio pensare ad altro e si concentrò sul mare e sulle prelibatezze che avrebbe mangiato. Il ristorante si presentava in una forma modesta, quasi anonima, rispetto ad altri molto più lussuosi presenti in città ma, appena entrato, vi ritrovò la solita gradevole accoglienza. Alle pareti erano attaccati un’infinità di piatti del buon ricordo, intervallati dai quadri delle marine di Livorno in preda al libeccio con la spuma bianca delle onde che si frangeva sugli scogli neri e immobili, quasi estasiati dalla forza del mare. Notò che i diversi tavoli erano ben distanziati nella disposizione, proprio come al solito. Il commissario considerò che avrebbe potuto gustarsi, come sempre, in
santa pace del buon cibo senza doversi ingollare le chiacchiere del vicino e tirò un sospiro di sollievo. Si accomodò al suo solito tavolo, posto in un angolo appartato e spiò con l’acquolina in bocca il carrello vetrina con il pescato del giorno. Osservò quello che conteneva: tutto era fresco e locale. Scrutò con particolare intensità le orate, i saraghi e i dentici. Si presentò poi, con la consueta camminata svogliata il cameriere, che spesso lo serviva: un bimbo, come dicono a Livorno, di circa trent’anni con una pancetta da donna gravida di cinque mesi, che prorompeva dal grembiule bianco. Aveva un lapis sull'orecchio e mentre prendeva le ordinazioni dal commissario, sembrava che gli fe un favore e che poi avrebbe pure dovuto pagare al posto del poliziotto. Segnò su di un piccolo foglio a quadretti i piatti da portare. Non c’era bisogno di mostrare la carta del menù, perché il commissario in quella parrocchia era di casa, ma forse per pigrizia il cameriere non l’avrebbe data neanche a un estraneo. Per cominciare annunciò al buzzo indolente quello che avrebbe preso: «Un bell'antipasto a base di frutti di mare e pesce leggero!» Poi si dedicò al primo. Nedo aggredì le bavette cacciuccate, condite con sugo di ricci e molluschi cotti, insaporiti con pomodoro, aglio e olio, un po' piccanti ma insuperabili. Per secondo si fece fuori un intero sarago al forno con patate. Tutta la cena si svolse frettolosamente. Nedo mangiava con l’imbuto e sembrava il Pozzo di San Patrizio. Poi, prima di uscire, tracannò l’ennesimo bicchiere di vino rosso, che usava come ammazzacaffè. A lui piaceva rosso e lo preferiva sempre, qualunque fosse la pietanza. Il bianco lo trovava debole e fiacco e adatto alle signorine. Si sentiva satollo e tranquillo, pensando di aver raggiunto finalmente la pace per
quella giornata, quando, invece, sentì vibrare il cellulare. «Non la disturbo mica…» Il questore chiedeva lumi sul caso di via Roma. «No, nessun disturbo…dica pure…», ma il moccolo gli venne fuori spontaneo nella sua mente: Vai in culo te e ‘r quadribuo di tu’ ma’! Dopo il lungo colloquio telefonico gli dedicò il successivo rutto per la rabbia di essere stato disturbato in tarda serata e fuori servizio. Lo avrebbe voluto sommesso e delicato e, invece, gli uscì reboante per la digestione già ben avviata e, per non fare una figuretta con gli altri avventori del locale, cercò di camuffarlo spostando una sedia rumorosamente. L’operazione, però, non gli riuscì alla perfezione, perché alcuni clienti si erano girati nella sua direzione e ridevano di gusto. A loro, fuori del locale, dedicò la successiva emissione gassosa che aveva preso un’altra direzione, decisamente più bassa. «Tromba di ‘ulo sanita di ‘orpo’, aiutami culo, se no son morto!» sentenziò uscendo, sbattendo con rabbia la porta del ristorante.
La mattina dopo bevve tre caffè distanziati mezz’ora l’uno dall’altro e si schiarì ulteriormente le idee dopo una doccia completamente fredda. Sogni e peti si lasciano nel letto! filosofò. Per tutta la notte aveva sognato il culo della sposina di montagna, ma quello che aveva tastato per ore era stato un cuscino flaccido, non delle chiappe sode. Considerò che doveva fare solo il poliziotto, perché di pipa’ un ci si poteva pensa’ con l’omicidio di mezzo. La sua mente andò in cerca d’ipotesi da verificare. Andando per esclusione si era convinto che la vittima doveva essere invischiata per forza in loschi traffici. Appariva inevitabile prendere quella direzione.
Escluse definitivamente che la vittima fosse un ricettatore, dopo aver consultato diversi informatori, che non conoscevano il Bianchi neanche di vista. Non poteva quindi essere in combutta con qualche individuo con la fedina penale sporca per furto o rapina. Doveva ritornare sul luogo del delitto. Con un po’ di fortuna, solo là, avrebbe potuto trovare qualche indizio.
Alle nove e un quarto di mattina era nuovamente nell’appartamento di via Roma a cercare ulteriori prove. Guardò distrattamente la sagoma per terra, disegnata col gesso, ripensando al fetore del giorno prima. Dopo si diresse nel salotto in cerca della libreria. Sentiva che proprio tra quegli scaffali andava cercata la soluzione del mistero. Tirò giù con furia tutti i libri finti e veri. I tonfi erano vari, alcuni sordi, altri acuti a seconda dell’impatto dei solidi con il pavimento. Da un’altra scatola, un finto libro di letteratura, apparvero finalmente i bigliettini. Scritti a matita segnavano con precisione le garanzie di tanti disgraziati travolti dai debiti, che s’impegnavano a pagare somme mostruose in spazi di tempo ridottissimi. Coll’asso di picche, ‘r sette e ‘r sei, perse la villa ‘r cavalier Mattei! considerò il Lonzi. Poi pensò ai tempi della crisi che avevano gettato nella disperazione molte persone. Ora, purtroppo, si facevano i debiti anche per mangiare e non solo per giocare d’azzardo. Le fabbriche chiuse, la Cassa integrazione quando andava bene e la disoccupazione dilagante. Perfino le vie del Centro, ormai orfane di cinema e teatri, erano sole con la loro ingombrante tristezza. Ritornò poi con la mente alla sua indagine. Restava un fatto certo: Wladimiro Bianchi non era così cristallino com’era apparso ai condomini e ai più, perché era un usuraio e aveva ricavato un vano segreto dietro la sua libreria, dove teneva gli oggetti pignorati ai debitori. La causa della sua morte andava cercata lì e non altrove.
Le indagini del commissario subirono un’inevitabile accelerazione con l’estrema gioia del questore, che non stava più nei panni per la soddisfazione e lo convocò. «Bravo!», gli proclamò «Ero più che sicuro del suo valore!» «Ha trovato degli ottimi indizi», aggiunse «e ora vada avanti, mi raccomando! Ormai siamo vicini alla meta!» Riteneva che la pista fosse già tracciata e che l’osso stesse per essere spolpato del tutto. Su indicazione del Lonzi, in effetti, la polizia scoprì presto quello che riteneva essere il responsabile del delitto. Si trattava di un pregiudicato, già colpevole di vari reati e possessore, o meglio ex possessore, di un orologio di marca, finito nella casa della vittima, quello appunto segnato dal gioielliere, su cui il commissario aveva ordinato le indagini. Silvio Nesti, l’accusato, mentre lo portavano in cella scuoteva la testa e si dichiarava innocente. Il commissario Lonzi lo interrogò subito nella serata. Aveva con sé, chiuso in una busta di cellophane, l’orologio incriminato. Lo depositò bruscamente sul tavolaccio, mentre al Nesti gli occhi andavano a destra e a sinistra, impazziti come un tergicristallo di un’auto. «Hai mai visto quest’orologio?» gli chiese deciso il commissario. «No, non l’ho mai visto!» esclamò a quel punto il Nesti, ma la sua voce non era sicura come voleva far credere e si sentì preso al laccio. «Vuoi negare che sia tuo? Sull'orologio sono state trovate le tue impronte digitali!» sentenziò il Lonzi, guardandolo dritto negli occhi. «Le dico che non è mio e che non l’ho mai visto!» rispose stizzito l’indagato. Dopo riprese a parlare, cercando di convincere il commissario: «Qualcuno mi vuole incastrare, non sono stato io a uccidere il signor Bianchi!»
«Basta così!» gli urlò il Lonzi. Si rivolse poi al poliziotto che attendeva davanti alla porta della cella, invitandolo a chiamare la persona che aspettava. Al richiamo, il signor Luca Lemmi, di professione gioielliere, entrò spedito, pronto a collaborare con la giustizia. Il Nesti impallidì. Più morto che vivo, si sentì ormai in trappola. «A lei risulta che quest'orologio appartenga al suo negozio?» la domanda del Lonzi era rivolta al gioielliere, ma lo sguardo era tutto dedicato al sospettato che, nel frattempo, si stava tormentando le mani. «Sì, se guarda sotto l'orologio, può notare il numero di matricola che corrisponde alla serie 150… Tento di spiegarmi… Nella mia lunga attività ho cercato di catalogare i modelli più belli elaborati dai miei artigiani e quello è appunto della serie 150.» Era arrivato il momento di affondare il coltello nella piaga e così il Lonzi fece: «Senta, ha mai visto questo signore nel suo negozio?» «Sì, è venuto nella mia bottega, poco meno di tre mesi fa, ad acquistarlo.» «Va bene. Grazie della sua testimonianza.» «Lei ritiene quindi che si possa affermare con certezza che l'orologio appartenga al signor Nesti qui davanti a lei?» Il gioielliere non manifestò alcun dubbio e ci mancò poco che l’indagato non stramazzasse a terra. Il fatto che l’orologio appartenesse al Nesti non significava affatto che fosse lui il colpevole. Ma poi venne il testimone oculare che lo inchiodò definitivamente. Si presentò spontaneamente dopo che il commissario aveva invitato a recarsi alla polizia chi si fosse trovato a are per via Roma, all’incirca alle dieci del mattino o avesse visto qualcosa di sospetto nei paraggi.
Al di là del vetro di riconoscimento non ebbe dubbi e lo indicò con sicurezza al Lonzi. Dopo ci fu l’interrogatorio del testimone per la convalida dell’arresto. L’uomo, che si chiamava Corrado Cenci, venne invitato a sedersi dal commissario. Si dimostrò disponibile, pur rispondendo con un’estrema timidezza alle domande del Lonzi. Il tizio sembrava impacciato. Quando alzò la mano destra per toccarsi il mento, essa sembrò volteggiare nell’aria come una foglia rinsecchita d’autunno, che casca dall’albero compiendo un lungo giro. «Dov’era il giorno dell’omicidio?» gli chiese il commissario. «Ero in macchina ad aspettare mia moglie che doveva tornare da una visita medica.» «E l’ambulatorio dove si trova?» «Proprio di fronte al palazzo del povero signor Bianchi.» «Lei lo conosceva?» Il testimone scosse la testa alla domanda e poi continuò: «No, non l’ho mai visto. Ho saputo della sua morte sulla cronaca nera dei giornali cittadini.» «Era la prima volta che si trovava davanti al palazzo?» «Non è che i da lì tutti giorni…» gli rispose il Cenci. «Accompagnavo mia moglie per una visita. La solita seduta settimanale che fa da due anni…» «Non vorrei invadere la sua vita privata…» gli disse il commissario, notando il suo imbarazzo e poi aggiunse: «Ma di cosa soffre sua moglie se è lecito chiederglielo e se lei ha la bontà e la voglia di rispondermi?» «Preferirei non entrare sull’argomento, è un po’ delicato e non vorrei urtare la suscettibilità di mia moglie che, tra l’altro, mi sta aspettando fuori.»
Al commissario, che accompagnò il testimone dabbasso, non ci volle molto per capire che la signora soffrisse di nervi, perché mostrava occhi così spiritati e fuori dalle orbite che immediatamente trasse le sue ovvie conclusioni e cioè che il Cenci aveva affermato la verità. Non c’era alcun dubbio: lo stipendio del Cenci stava ingrassando qualche psicologo o forse il professionista più probabile era lo psichiatra. In effetti, il commissario appurò, in seguito, che proprio davanti al palazzo, suppergiù allo stesso piano dell’appartamento del delitto, stava l’ambulatorio del medico Callisto Cellai. «Un buo di ‘ulo di psichiatra che viaggia,» così gli spifferò un suo amico mezzo matto, «con la tariffa di quattrocentocinquanta euro per visita, soldi che naturalmente non tocca lui personalmente, ma che fa incassare dalla sua affidabile segretaria, una zitella lunga lunga e secca secca, che sembra aver ingoiato un manico di scopa.»
Due anni dopo, in tribunale, la moglie del Cenci confermò la visita nel giorno dell’omicidio. Suo marito poi rispose prontamente in aula, quando il giudice arrivò al nocciolo della questione e gli sparò la domanda: «Ha visto entrare qualcuno nel condominio del palazzo?» Poi ci ripensò e aggiunse: «Intendo il palazzo di fronte, quello della vittima.» L’esperienza aveva insegnato al giudice che la gente spesso caà fori dar vaso e bisognava essere precisi, anzi pignoli di fronte alla stupidità umana, ma il signor Cenci aveva capito molto bene e rispose alla domanda con sicurezza, una sicurezza schiacciante per qualcuno: «Certo che ho visto entrare una persona! Un signore proprio a quell’ora ha infilato la tromba delle scale ed è salito velocemente.» Il giudice arrivò alla fatidica domanda: «L’uomo è qui presente nell’aula?» «Sì, si tratta dell’imputato.»
QUATTRO
Il caso poteva definirsi chiuso, almeno in primo grado, prima del ricorso in appello che sarebbe stato inevitabile. Viste le condizioni economiche dell’imputato, Nedo non avrebbe scommesso un centesimo su di un capovolgimento della sentenza. L’avvo’ato difensore s’era mostrato un fottìo incasinato e anche un antro non sarebbe stato diverso, perché senza lilleri, un si lallera. I principi del foro non si muovono per beneficienza. Agli zoppi pedate negli stinchi! Per me son tutti bòni lo disse solo ‘r ce’o!
La notizia della risoluzione del caso fece scalpore e tutti i giornali ne approfittarono per tirare su le vendite. Gli avvoltoi fanno affari d’oro sulla morte, né più né meno come i becchini. Il principale quotidiano della città titolava così: Era il 27 ottobre a Livorno. Oggi, a due anni dall’omicidio di via Roma, la condanna per Silvio Nesti Nedo lo scoprì prima del cacciucco, allo stesso ristorante di sempre, sfogliando il giornale unto, che puzzava di fritto di pesce. Il questore, certo del colpevole, aveva dato in pasto ai giornali la notizia, dando, così, mano libera alla sua presunzione. Era sempre lui il protagonista che si presentava in giacca e cravatta a riscuotere la gloria, con un sorriso e gli occhi da pesce lesso, prendendosi tutto il merito dei casi risolti. Infatti, la foto del questore, che aveva incastrato il feroce assassino, era in prima pagina, in bella evidenza e a colori. Notò che il titolo era piuttosto ordinario e privo di sussulti, senza né occhiello né
catenaccio, che in questi casi erano la prassi. Poi seguiva un lungo articolo, dove il giornalista tentava di illustrare ai lettori del quotidiano una storia che somigliava a un antico feulleitton d’altri tempi, raccontando dagli inizi la vicenda e tentando un incipit da romanzo ottocentesco... La vita continuava, come d'altronde accadeva sempre, mentre proprio quel giorno, il 27 di ottobre, in una via antica, la romantica e tranquilla via Roma, un uomo perse la vita. A trovare la vittima fu il postino che quotidianamente aveva il compito di consegnare la posta in tutto il condominio. Il caso fu subito esaminato dalla polizia di Livorno, che dopo aver ispezionato a lungo il luogo del delitto, trovò indizi molto interessanti, tali da consentire l'indagine nei confronti di un sospetto e di esaminare il caso da parte del tribunale.
Poi l’articolo si dilungava sui particolari, mostrando la solerzia del questore Rossi, l’artefice della brillante operazione, che, però, non aveva mai mosso il caaprànzi dalla sedia durante le indagini. Dopo il quotidiano continuava con la cronistoria del processo: In ottobre iniziò la prima udienza. La corte entrò e in seguito comparvero vari testimoni, tutti di estremo interesse. Il giudice cominciò la procedura spiegando il caso e dopo aver terminato la sua relazione, decise di affidare il compito di interrogare l'imputato al Pubblico Ministero. L'indagato si trovava in una cella, sorvegliato da due carabinieri. Dopo il giuramento iniziarono le domande. Il giornalista proseguiva insistendo sui particolari. Sapeva quanto a lungo si fermino i anti sulle civette della cronaca nera e come quasi tanti comprino il giornale solo per questo. Faceva seguire quindi il testo dell’interrogatorio come in una diretta televisiva, lasciando ben immaginare al lettore la scena in tribunale:
Pubblico Ministero - Dove si trovava il giorno dell'omicidio attorno alle ore dieci? Imputato - Naturalmente ero in camera, come mi capita sempre la mattina, di solito nel disordine generale. Pubblico Ministero - Le sue abitudini non interessano alla corte. Risponda piuttosto alle domande. Lei afferma con sicurezza che si trovava proprio in casa sua? Imputato - Ma certo che si! Pubblico Ministero - Ci risulta che lei sia stato diverse volte a casa del signor Bianchi, vero? Imputato - No, non ci sono mai stato! Pubblico Ministero - Allora perché la polizia ha trovato dietro lo scaffale segreto della biblioteca quest'orologio che ci risulta suo, è vero?
Nedo Lonzi posò infastidito il quotidiano. Quella cronaca gli suonava falsa come un soldo di cioccolato. Non si sentiva affatto tranquillo. Aveva interrogato lui stesso l’indagato e il Pubblico Ministero non aveva fatto altro che seguire la sua stessa traccia durante le fasi del dibattimento. Gli avvocati dell’imputato avevano scelto il processo con il rito abbreviato. Evidentemente anche loro non erano così sicuri dell’innocenza di Silvio Nesti e il pregiudicato era stato ritenuto colpevole fuori di ogni ragionevole dubbio per aver commesso il fatto e si era così beccato vent’anni di galera. Sarebbe finito alle Sughere, carcere da lui già ampiamente conosciuto con buona pace di tutti i cittadini che al contempo si erano visti sbarazzare da Livorno uno dei più squallidi usurai della città.
Magari qualcuno aveva anche portato un cero alla Madonna di Montenero, perché non avrebbe dovuto pagare allo strozzino neanche il becco di un quattrino. Bene, si disse tra sé Nedo anche questa è fatta! e si alzò avviandosi un po’ barcollante all’uscita, dopo aver pagato il conto al cameriere con la pancetta da donna incinta di cinque mesi. Si addormentò quasi subito, ma il suo sonno fu piuttosto travagliato. Rigirandosi tra le lenzuola inveì contro il cacciucco: Era troppo salato, malidetti budiuli! Pensò anche di aver bevuto troppo vino. Nedo aveva, però, uno stomaco che digeriva anche i sassi. Tutto il pesce del ristorante era fresco e sano e non aveva rivali, quindi c’era qualcosa che non tornava nella sua testa che si somatizzava nella pancia. Si ricordò che durante il sonno aveva rivisto nei sogni più volte il Nesti, mentre alla fine del processo lo riportavano in galera a farsi i suoi vent’anni. Lo aveva osservato con le lacrime agli occhi e le mani tremanti, mentre urlava a squarciagola: «Sono innocente!»
Al bar dell’angolo fece colazione. Un cappuccino al vetro con lo zucchero di canna e una sola pasta. Anzi, per essere più precisi, un budino di riso. Era un’eccezione perché Nedo odiava i budini di riso. Quelli erano buoni solo per l’E.C.A. L’Ente Comunale Assistenza era stata una vecchia istituzione, scomparsa da più di cinquant’anni, che continuava a vivere nella mente del Lonzi, attraverso il ricordo delle parole di sua madre che da giovane e viva ci faceva parecchia osteria. Bucatini e patate non mancavano mai, come un dolce che pareva il Buccellato di Lucca, che non sai mai se è un dolce o un pane e almeno per i
livornesi fa caà. Il budino di riso andava bene per le pottine lesse o per chi digeriva male e lui rientrava nel secondo caso, perché doveva smaltire la cena. Manrico, il barista, un ex bell’uomo, alto e rinfiosecchíto dall’eccesso di sole preso sul mare a Calignaia, che non sapeva decidersi a invecchiare, alla cassa gli si pose davanti con le mani sui fianchi. Quando pagò, assieme allo scontrino, gli consegnò una busta, tipo quelle dei biglietti d’auguri dei mutilati pittori con la bocca o con i piedi, che ti chiedono di fare un piccolo versamento e che ti senti in colpa se non lo fai. La busta era strana anche nel colore, di un rosso sbiadito e conteneva un biglietto sul quale c’era scritto:
Signor Lonzi, Vi prego, ascoltatemi! Sono la mamma di Silvio Nesti e vi giuro su Dio che mio figlio è innocente. So che siete una persona che ama la verità e vorrei parlarVi. Purtroppo per motivi di salute non posso muovermi e ho pregato un’amica di farVi recapitare questo biglietto. Mi troverete in via Dell’Origine numero 34, il mio nome è Corinna Lenzi. Vi prego ancora, venite a trovarmi a qualunque ora, Ve ne sarò eternamente grata!
Il commissario Lonzi rimise il biglietto dentro la busta, che s’infilò dapprima nella tasca dove c’era la Beretta e poi, per rispetto della madre che sembrava disperata, la ò nell’altra, quella del cellulare. Era perplesso, ma non solo per via della lettera.
La bodda ‘un vede artro ‘he su’ boddicchi e in questo caso il boddicchio, visti i precedenti, poteva anche aver sbudellato lo strozzino. Ma non era questo. Tutto troppo facile, tutto troppo semplice. L’indagine era scorsa veloce, come anda’ in biciciua in discesa senza mane, ma si sa che ci si pole smusa’ ‘a andà a rotta di ‘ollo. Tutti erano convinti della colpevolezza del Nesti. Era comprensibile che la madre lo difendesse fino all’ultimo. Ripensò alla notte col voltastomaco, trascorsa in bianco e agli occhi umidi del condannato, che ava sconsolato davanti ai giudici e andò all’appuntamento.
CINQUE
Una volta in via Dell'Origine batteva il cuore della vecchia Livorno, un cuore stantio, impregnato di umidità, avvinghiato alle antiche case calcinose. Ora non più. Lonzi notò che i barrocci di cui gli raccontava la madre quando era bambino, erano scomparsi, lasciando il posto a vaghi fantasmi nella sua testa. Gli aveva raccontato che, una volta, aveva visto un parrucchiere, che faceva anche pedicure, raccogliere la zotta di un cavallo da tiro per concimare le belle piante del suo negozio. Si muoveva veloce con una paletta di ferro e non gli dava noia la puzza. Nedo Lonzi pensò alla fine del cavallo, probabilmente fatto a fettine per qualche bambino rachitico, abbondanti nel dopoguerra per aver patito la fame, che avevano bisogno di globuli rossi per sopravvivere. Adesso in quella via, una volta piena di vita, non circolava più nessuno, un silenzio assoluto alle tre del pomeriggio, una sorta di mortorio, solo confuse voci e ronzii di televisori. Le case erano quasi tutte ristrutturate con colori pastello. Avevano le piantine fiorite appese alle facciate e davanti agli usci la polvere gialla per non far pisciare i cani. Le finestre, rimaste basse come nei racconti di sua madre, lasciavano intravedere gli interni con mobili vecchi mescolati ai nuovi. Ripensò a come sua madre gli descrivesse le donne che uscivano dalle botteghe con le ceste piene, con i fagottini fumanti in mano, i pittori che entravano e uscivano dai corniciai e lo sgolarsi dei pesciaioli. Avrebbe voluto scrivere anche lui come Giorgio Caproni, che, all’insaputa di tutti, leggeva di soppiatto. . . Anima mia leggera, va’a Livorno, ti prego.
E con la tua candela timida di nottetempo. . . Nessuno se lo sarebbe mai immaginato nei panni di un amante della poesia e forse era molto meglio così. I teneri non hanno mai fortuna con la gente! considerò il Lonzi. Il numero trentaquattro era quasi al bivio di via del Fagiano, un nome dato quando lì terminava Livorno, la strada era di fango e iniziava la campagna, nel tempo in cui nel vicino quartiere di Coteto c’erano solo erbe selvatiche e in pochi si spingevano fin laggiù dal centro città. In quella strada la vita continuava ora in sordina, mortificata dalle screpolature delle case, nonostante le ristrutturazioni. Non c’era più l’allegria bonaria, fatta di sorrisi, scherzi e moccoli. Il portone del 34 era di legno, un po’ corroso dalla pioggia che aveva screpolato la coppale, ma teneva. Il Lonzi suonò a un camlo d’ottone dalla vecchia forma circolare sopra la targhetta dei due cognomi Lenzi-Nesti. Dopo il suono stridulo, l’uscio si aprì con uno scatto solo dopo diversi minuti. Una donna in carrozzina si sporse con molta fatica e con una voce flebile lo pregò di entrare. Gli stava davanti seduta e raccolta nel suo mezzo, vestita di scuro, con i gomiti stretti ai fianchi e le mani sul grembo che giocherellavano tra loro. I capelli candidi e le sopracciglia nere, ricurve e ferme, sovrastavano due occhi tristi, che tuttavia lanciavano lampi di vitalità. «Mi scusi signor commissario per averla disturbata!» gli disse pregandolo di accomodarsi. «Se mi ha chiamato qui, avrà avuto i suoi buoni motivi!» gli rispose il Lonzi, sedendosi sulla poltrona che stava già pronta, proprio davanti alla carrozzina. «Le posso giurare che mio figlio è innocente!» lo implorò la donna.
Se avesse potuto si sarebbe messa in ginocchio e il tono della voce si sarebbe tradotto proprio attraverso quel gesto, se solo ne avesse avuto la capacità. Continuò: «Mio figlio Silvio è il terzo, gli altri due hanno già fatto una brutta fine, sia il maschio che la femmina, uccisi dalla droga come il loro babbo. Lui è l’ultimo dei tre ed è quello che mi assomiglia di più.» Poi aggiunse: «Si è comprato l’orologio che l’ha incastrato per fare il ganzo con la sua ragazza. Non dico che sia un santo. Ne ha combinate di tutti i colori, ma un assassino mai, glielo posso giurare! Ci sono solo degli indizi. Il giudice l’ha condannato, perché non aveva un alibi, ma non è lui il colpevole!» Il commissario Lonzi scrutò la fotografia, dalla cornice argentata, sul tavolo di noce a fianco della donna. Là c’era immortalato il figlio Silvio, con un sorriso distante mille miglia da quel volto da funerale, che aveva intravisto uscire disperato dal tribunale per finire nella cella. Abbracciava una giovane donna prosperosa, che mostrava le cosce da trofeo e aveva una faccia da maiala. Una bella donna ma dalla faccia da maiala pensò. Le puttane, più si fanno paga’, più son belle. Ma se quella povera donna avesse avuto ragione?
Quello che, però, lo fece smuovere verso altre direzioni fu la lettera anonima che trovò sotto la porta del suo appartamento Commissario, cerchi bene il colpevole. Il portinaio di via Roma è un farabutto. E’ stato lui ad uccidere Wladimiro Bianchi. Sembrava quasi un telegramma oppure un’epigrafe di denuncia. Poche righe che dicevano poco o niente. Cosa fare? Doveva iniziare altre indagini? Ne valeva la pena?
Decise di andare a trovare il portinaio più che per altro per curiosità.
SEI
L’appartamento del portiere si trovava in una specie di sottoscala ed era improprio definirlo tale. Nell’angusta sala, dove Nedo s’accomodò, c’erano due minuscole finestre con sbarre di ferro, che inquadravano un mondo fatto delle scarpe dei anti e del fetore dei veicoli circolanti nei paraggi. Andrea Rossigni, il portiere, era un uomo alto e filiforme, di quelli che hanno bisogno di radersi tutti i giorni, perché la peluria è nera e recidiva. Aveva ai piedi due ciabattine rosa e da lì si capiva tutto. Poi squittì aprendo gli occhi dolci e tenui e si comprese definitivamente la sua collocazione sessuale. «A che devo la visita commissario?» «Niente di particolare, una semplice formalità…» gli rispose il Lonzi. «Devo esaminare alcuni dettagli dell’omicidio» gli aggiunse. L’uomo dalle ciabattine rosa sembrava inquieto, anche se cercava di non farlo vedere, tuttavia gli tremavano le mani e gli occhi cercavano di posarsi su tutto, tranne che su quelli del commissario. Cercò una rassicurazione: «Ma l’assassino non è stato condannato?» «Certo!» gli rispose il Lonzi. Non aveva in mano niente di compromettente per l’uomo, tuttavia gli sembrò giusto continuare, perché l’indecisione del portinaio andava analizzata. Poi rivide are le stesse scarpe che aveva già inquadrato dalle finestrelle solo cinque minuti prima: un paio di mocassini marroni con un curioso fiocchettino
sulla tomaia. «Così, solo per curiosità, vorrei porle delle domande, solo per fare un favore a una povera donna…» «Quale donna?» rispose preoccupato il portinaio. «Lasci perdere, per scrupolo, solo per scrupolo, non si preoccupi. . .» Intanto riò ancora lo stesso paio di mocassini col fiocchetto. Il commissario Lonzi partì con le domande che stillò goccia a goccia e con la quasi consapevolezza di fare un buco nell’acqua. Tutto fa, disse quello che pisciava in mare! pensò mentre iniziava l’interrogatorio. «Senta, dove si trovava il giorno dell’omicidio?» «All’ora del delitto, lo ricordo bene, perché ne ho aspettato l’apertura appunto per le dieci, mi sono recato a comprare delle medicine alla farmacia che si trova qui vicino, alla fine di via Roma, proprio all’incrocio con piazza Matteotti.» «Ma perché stava male o che cosa?» «Avevo l’influenza e la febbre alta. Mi sono imbacuccato come potevo e sono uscito. Ho comprato alla farmacia un po’ di antifebbrile e la pompetta per il naso, perché non ero assolutamente in grado di respirare.» Il paio di mocassini con il fiocchetto riò di nuovo. Era la quarta volta che succedeva e la cosa puzzava alquanto. Non c’era stato bisogno di verificare l’alibi della farmacia, perché Silvio Nesti aveva lasciato il suo orologio nello sgabuzzino ed era stato visto salire nel palazzo. Anche il postino, testimone chiave, aveva trovato la guardiola della portineria chiusa all’ora del delitto e nessuno metteva in dubbio che il portiere fosse uscito, tuttavia Nedo fece il tentativo di mettere in discussione quanto gli era stato appena dichiarato dal portiere.
Verificò, quindi, la conferma dell’alibi, chiedendogli di esibire lo scontrino della farmacia. Il portiere a quel punto scoppiò in un riso isterico che sembrava non fermarsi più. Finalmente la fece finita e gli rispose: «Ma commissario, crede che io abbia conservato lo scontrino dopo più di due anni! E poi non c’è stato il processo? Non hanno già condannato quel pregiudicato? Chi lo trova adesso lo scontrino? L’ho buttato via!» In quel frangente però l’ilarità del portiere gli era sembrata piuttosto stonata. Il Lonzi sapeva a naso quando doveva scavare e quindi continuò: «Lei le paga le tasse, vero?» «Ma scusi, cosa c’entra con le tasse, lei è della polizia, mica della finanza!» Ora Andrea Rossigni stava ricominciando a ridere istericamente. La sua risata assomigliava a un canto in falsetto, un canto decisamente femminile. Stava perdendo i freni inibitori, abbandonandosi alla sua vera natura. La sua bocca però si chiuse all’istante, come sigillata dal silicone, quando il commissario con decisione gli chiese: «Lei lo fa il 730?» Solo dopo diversi secondi il portiere rispose: «Certo che lo faccio, lo porto al C.A.F con tutte le ricevute. Ma scusi commissario, forse lei dubita che non paghi le tasse?» «M’importa ‘na sega se paghi le tasse o no! Piuttosto tira fuori il contenitore, insomma il troiaio in cui hai messo tutte le ricevute da scalare dal 730!» Il portinaio, con gli occhi fuori dalle orbite, non riusciva a capire la metamorfosi del commissario. Fino a quel punto lo aveva giudicato un signore garbato e civile e, invece, improvvisamente scaricava tutta la sua bile inaspettata fuori dai gangheri. In effetti al Lonzi erano saltati un po’ i nervi per via della risata fuori luogo. A volte succedeva. Era più forte di lui e difficilmente tornava indietro,
recuperando la calma dovuta. Premeva il piede sull’acceleratore della collera e non sapeva più fermarsi, salvo rare eccezioni, soprattutto quando rischiava l’oltraggio, perché lì c’era il codice penale, che contava di più della sua rabbia. Fece quindi marcia indietro per usare una similitudine automobilistica e ritornò sui suoi i come un pedone. Si rendeva conto di aver sbagliato. Cercò quindi di essere meno duro, ritornò al “lei” riformulando in maniera più civile la domanda che aveva rivolto prima al malcapitato in forma non proprio impeccabile. Si sentiva livornese fin dentro le midolla e si sa, i livornesi so’ più’gnoranti delle ‘apre di ‘Astellina, che si grattano il culo colle ‘orna. Assunse una faccia più o meno diplomatica e gli rivolse la domanda nel modo più gentile a cui poteva arrivare uno come lui. «Senta, mi scusi per il tono di prima, ma avrei bisogno di sapere dove conserva le ricevute da scalare sulle tasse nel 730. Mi riferisco, non so se lo intende, ai ticket dei dentisti, alle polizze delle assicurazioni, e le medicine appunto. E’ lì che potrebbe stare lo scontrino della farmacia. Forse non l’ha buttato via. Magari non se lo ricorda, ma lo ha riposto. Se le medicine per l’influenza le ha comprate in farmacia e ha fatto lo scontrino fiscale con la tessera sanitaria, magari lo scontrino è ancora lì. Forse non l’ha ancora buttato via se le medicine le deduce dalle tasse.» «Non ce l’ho, gliel’ho già detto, l’ho buttato via, sono sicuro e poi sono ati più di due anni!» «Sì, ma di solito si conservano dieci anni per l’eventuale controllo dell’Ufficio delle Imposte… lei comunque mi porti il contenitore e non si preoccupi se non c’è lo scontrino della farmacia. Facciamo il tentativo, lo dico per il suo bene. E’ un caso remoto, il colpevole è stato acchiappato ed è in guardina, ma se poi rivedono il processo e lei non ha un alibi. . . Lo so, è un’ipotesi impossibile, ma non si sa mai. A volte la giustizia è imprevedibile.» L’insistenza del commissario fece tentennare la testa al portinaio. Delicatamente, molto delicatamente.
Gli ricordò la sua prima fidanzata, quella che non gliela dette mai. Si muoveva garbatamente con la testa proprio come lui, ma non gliela dette mai, nonostante le insistenze e i toccamenti vari, con un’ostinazione esasperante. L’uomo con le ciabattine rosa, oltre a tentennare la testa era arrossito, poi nel giro di una manciata di millesimi di secondi impallidito e poi aveva sbarrato gli occhi, con i quali cercava disperatamente l’angolo più lontano della stanza. Nedo si rese conto che doveva insistere e percorrere il tragitto che portava allo scontrino della farmacia fino in fondo. Chissà cosa c’era nel raccoglitore che doveva rimanere oscuro. Almeno questo realizzava il commissario in quel momento sulla chiara resistenza del portinaio a fornirglielo. Andrea Rossigni continuò nel suo atteggiamento di rifiuto. Si difese strenuamente come un pugile messo all’angolo da un avversario molto più forte di lui: «Ma ora, in questo momento, non so neanche dove sia la cartellina… Mi ci vorrebbe del tempo… Dovrei rimettere in ordine… C’è un po’ troppo caos in casa mia. Rii magari domani. . . Facciamo così, quando la trovo le telefono e lei viene. Mi dovrebbe però dare il suo numero di cellulare. Magari la chiamo io.» Al commissario preoccupava molto la ritrosia di non voler cercare la documentazione. Che ci fosse il contenitore ormai l’aveva capito, quindi non rimaneva che comprendere il resto, cioè cosa ci fosse dentro. Lo stesso Rossigni lo aveva ammesso: disponeva di un contenitore e questo era una cartellina. Se non avesse avuto niente da nascondere si sarebbe già precipitato a prenderla. Che cosa conteneva di imbarazzante? Si capiva che il portiere cercava in tutti i modi di rinviare l’incontro con la cartellina. Di sicuro non voleva il suo numero di cellulare per un appuntamento galante. Probabilmente si rendeva conto di non essere il suo tipo e soprattutto che avrebbe potuto battere una musata molto fastidiosa con uno della polizia. Il Lonzi non era seccato per il fatto di lasciare il suo numero personale a uno che, tutto sommato, neanche conosceva.
La sua apprensione consisteva in ben altro e cioè che appena lui avesse alzato i tacchi, il portiere avrebbe avuto tutto il tempo e la libertà di far sparire qualcosa di compromettente e lui non avrebbe fatto chiarezza su quello che di oscuro stava emergendo. Mentre stavano parlando, riò ancora lo stesso paio di mocassini dal fiocchettino sulla tomaia: era la quinta volta che calpestava quel selciato proprio davanti alla finestra socchiusa. Forse l’individuo di sopra aveva anche le orecchie dritte ad ascoltare i loro discorsi, anzi questa volta il paio di scarpe sostò lì davanti alla finestrella un tempo più lungo di prima, facendo insospettire ancor di più il commissario. Intanto Andrea Rossigni era andato a cercare la cartellina delle tasse e il Lonzi dovette precipitarsi al più presto per seguirne le mosse e non poté attardarsi più del dovuto davanti alle grate di ferro per osservare le scarpe più attentamente. Quindi si affrettò a fissare con lo sguardo quanti più particolari possibili nei pochi secondi che aveva a disposizione. Allungò rapidamente il collo a sbirciare più alto. L’unica cosa che riuscì a scorgere sopra i mocassini furono i risvolti di un paio di pantaloni marroni e niente più. Un flash subito abbandonato, perché si precipitò alla volta del Rossigni che, intanto, si trovava in camera e aveva in mano una cartellina, da cui stava estraendo nervosamente delle carte, che cercava di nascondere disperatamente sotto il letto. Il tentativo non era, però, riuscito, perché facevano capolino sul coprimaterasso un paio di fogli. Il commissario guardò sotto la branda e trovò il resto: le ricevute mediche e una caterva di scontrini di farmacia, che cominciarono a volteggiare insieme alla polvere della stanza mal spazzata. Le ricevute erano tantissime e questo essenzialmente significava che Andrea Rossigni non aveva certo una buona salute. Ma perché nascondere tutto sotto il letto? C’era qualcosa di losco. A quel punto il Lonzi ne era sicuro. Non restava che appurarlo esaminando, uno per uno, tutti quei fogli.
In mezzo ai numerosi tentativi di essere sano, trovò pure lo scontrino della farmacia. Recava scritto il giorno e l’ora del delitto e rappresentava la prova che il portiere si trovava proprio lì e che quindi aveva un ottimo alibi per non essere lui l’assassino. E allora perché tutte quelle storie? Guardò meglio lo scontrino con l’intestazione della farmacia. Lo lesse attentamente, allontanandolo vistosamente e questo lo preoccupò, perché fra poco avrebbe avuto bisogno di un bel paio di occhiali nuovi con una gradazione più forte, però ce la fece a leggere le parole scritte più grosse: Farmacia Bertagni e il cervello si mise furiosamente in moto. La Bertagni si trovava esattamente al capo opposto della città, molto distante da via Roma, nella periferia nord, ammorbata dai gas tossici delle ciminiere. Il giorno del delitto era un giorno feriale e tutte le farmacie erano aperte. Perché quindi spostarsi all’altro capo della città e per giunta con una terribile influenza addosso? Doveva indagare più a fondo: sequestrò la ricevuta per leggerla meglio con gli occhiali nuovi che avrebbe comprato. Il portiere restò con un palmo di naso, soprattutto quando il Lonzi gli comunicò di non spostarsi dalla città e di tenersi a disposizione per un interrogatorio nel suo ufficio nei prossimi giorni. Nedo fece a piedi un centinaio di metri e si ritrovò in piazza Matteotti. Là c’era un’edicola ben fornita. Osservò le civette dei quotidiani con le solite foto dei morti per vendere di più. A caratteri cubitali lesse un titolo fatto di un solo verbo MUORE con la foto di un giovane, che si era schiantato su di un muro la notte precedente e mandò mentalmente a quel paese i soliti avvoltoi, pronti a spolpare le povere carogne. La sua indignazione lasciò posto alla sorpresa quando notò un signore di mezza età con una barbetta sale e pepe, un naso piuttosto pronunciato con un giornale in mano appena comprato. Il signore era distinto e vestiva elegantemente con giacca e cravatta, tutto in
marrone e soprattutto aveva ai piedi un paio di mocassini con un curioso fiocchettino sulla tomaia. Era l’uomo che stazionava davanti alla finestrella del portinaio e faceva finta di nulla. Aprì il giornale e se lo schiaffò davanti al muso, procedendo dritto con noncuranza, ma una mano gli strappò d’impeto il giornale dalla faccia. Era quella del Lonzi. «Come si permette?» fece quello, mostrando due occhi altezzosi e tirando ancora più a dritto. «Cosa ci faceva davanti alla casa del portiere Andrea Rossigni?» «Guardi che lei si sbaglia con qualcun altro e poi io questo Rossigni non so nemmeno chi sia!» «Va bene che se ‘r mondo fosse un culo, Livorno sarebbe ‘r buo, ma quel cazzo di mocassini chi vuoi che li porti oltre a te?» L’uomo si guardò istintivamente le scarpe, ma continuò la sua recita. «Senta, mi lasci stare o chiamo la polizia!» «La polizia sono io, chiorbone! E se non spifferi subito chi sei e soprattutto perché stavi davanti alla casa del portinaio, ti faccio un culo così!» e si espresse con un eloquente gesto della mano indicante una piccola circonferenza che si allargava progressivamente diventando di un diametro superiore. Al commissariato l’uomo perse tutta la sua sicurezza e si sciolse in lacrime, calde lacrime d’amore o meglio di gelosia per l’amato Andrea Rossigni, suo ex amante, che lo aveva abbandonato per un altro fidanzato più giovane e più bello di lui. Confessò che si trovava lì davanti, perché temeva che fosse con il suo nuovo amante e ava avanti e indietro con tutta la rabbia possibile. Ammise di aver confezionato la lettera anonima per vendicarsi, ma che si era subito pentito, perché continuava ad amarlo, anche se lui non ci pensava più a ricambiare il suo affetto.
«Lo amerei, anche se fosse lui l’assassino del Bianchi!» aggiunse alla fine in maniera sibillina. «Perché, lui c’entra qualcosa nell’omicidio?» chiese il commissario. E fu così che Fabio Chetoni, antiquario di professione, scaricò su Andrea Rossigni tutta la sua bile come fosse un fiume in piena. Sciorinò che s’incontrava spesso con il suo giovane amante e che lo strozzino Wladimiro Bianchi, avendolo saputo, lo ricattava, perché l’altro aveva una moglie e una figlia e sembrava un tranquillo signore nella sua normalità, ammesso che sulla Terra esista la normalità, cosa di cui il commissario dubitava molto. Sulla stronzaggine dell’antiquario Chetoni ebbe, invece, la certezza assoluta.
SETTE
Non valse neanche la pena di trattenere in commissariato l’amante respinto. Andrea Rossigni, invece, era fortemente indagato: aveva un ottimo movente per uccidere il vecchio Wladimiro Bianchi e poi il suo alibi si era sciolto, come neve al sole, di fronte alla successiva verifica del Lonzi. In effetti, i sospetti sul portinaio aumentarono quando saltò fuori che la tessera sanitaria, ata sul codice di riconoscimento della farmacia, non era la sua, ma di Piero Lunghi, il suo nuovo e giovane amante. Andrea Rossigni quindi non si era mosso dal palazzo di via Roma e avrebbe potuto avere tutto il tempo per compiere l’omicidio.
Il giorno dopo Nedo Lonzi interrogò Piero Lunghi. Appena entrato, ancor prima di accasciarsi sulla sedia, sconsolato per l’interrogatorio, gli disse accorato: «La prego commissario, non mi rovini! Ho famiglia e se si venisse a sapere della mia storia non potrei più continuare a vivere. La prego, lo faccia almeno per mia moglie e mia figlia!» «Tranquillo, tranquillo!» gli rispose il commissario «Quello che intendo fare per il momento è solo porle qualche domanda e niente più.» L’amico intimo del portiere accavallò nervosamente le gambe, mentre il Lonzi stava prendendo tempo. Il commissario stava pensando al dramma di chi aveva davanti e a come, per raggiungere a forza la cosiddetta normalità, si facciano scelte sbagliate, come quella di formarsi una famiglia e trascinare degli innocenti nello scandalo dei perbenisti, quando i gusti sessuali sono altri.
Il Lonzi pensò che se per un uomo valesse il detto La fia ci fa, la fia ci sfa, nel caso del Lunghi lo strumento che avrebbe potuto distruggere lui e la sua intera famiglia era invece un altro, ma non era certo il caso di fare falsi moralismi. Meditò su se stesso, sulla sua forte carica sessuale e a come, se avesse avuto gli stessi gusti dell’uomo che gli stava davanti, probabilmente si sarebbe comportato in maniera peggiore. Considerò che sarebbe diventato una sorta di puttanone sfacciato che avrebbe fatto marchette a ogni angolo di strada. Lasciò da parte i suoi pensieri e cercò di torchiare quanto più possibile il giovane amante. Andò quindi subito al sodo: «E’ lei che ha comprato le medicine per il portiere?» «Sì, lo ammetto. Andrea mi ha telefonato verso le nove e trenta, sapendo che mia moglie aveva accompagnato mia figlia a scuola e io ero rimasto solo a casa, chiedendomi di comprargli le medicine.» «Lei sa che con quest’ammissione il suo amico Andrea Rossigni si troverà nei guai, perché non ha più un alibi per l’ora dell’omicidio?» «Non è stato lui a uccidere Wladimiro Bianchi, mi creda commissario, Andrea è un bravo ragazzo!» «Questo lo appureranno le indagini. L’unico che può stare tranquillo, perché non sarà accusato è invece proprio lei. All’ora del delitto si trovava in farmacia e non poteva essere nel palazzo di via Roma. Anche se lei aveva un ottimo movente per ucciderlo, non è vero?» «Purtroppo quel farabutto del Bianchi ci stava ricattando, perché ci aveva sorpreso in atteggiamenti inequivocabili e diceva che avrebbe spifferato tutto a mia moglie. S’immagini lo scandalo!» A questo punto il Lunghi si accasciò ancor più sulla sedia, lasciandosi andare in un pianto disperato. Tra un singulto e l’altro commiserava il suo amante, portiere non solo del palazzo, ma anche del suo cuore d’innamorato infelice. «Povero Andrea, povero Andrea mio! La prego commissario, mi creda, non è lui
il colpevole!» Il farmacista all’altro capo della città aveva una memoria da elefante e confermò di avere dato le medicine al Lunghi, di cui si ricordava perfettamente, perché somigliava molto a un attore della televisione e non ebbe alcun dubbio in proposito. Poi per ulteriore convalida della prova c’erano lo scontrino e la verifica sulla tessera sanitaria recante il numero di codice fiscale del Lunghi, che facevano il resto.
Il giorno dopo il Lonzi convocò nuovamente Andrea Rossigni in commissariato per chiarire ancor meglio la faccenda. Quando il portiere si fu accomodato sulla sedia, anziché guardare il commissario, s’incantò a osservare la lampada da tavolo. Era mattina ed era buio pesto. A parte le nuvole, che amplificavano l’oscurità, era soprattutto per la stramalidetta ora legale, come la definiva il commissario, perché gli scombinava per almeno quindici giorni i bioritmi. Il commissario lo guardò e gli fece piuttosto pena. Aveva perso gran parte dello smalto della prima volta che lo aveva incontrato. Probabilmente non chiudeva occhio da svariate notti e aveva gli occhi che si toccavano co’ gomiti. Il Lonzi pensò che già ‘un c’è peggio ch’esse gallina e ‘un potè fa’ l’ovo e poi che a questa condizione esistenziale, piovendo sul bagnato, si aggiungevano l’accusa potenziale di omicidio e la prospettiva di marcire in galera per svariati anni, oltre allo sputtanamento del suo compagno. Cercò di sdrammatizzare con il poveraccio. In fin dei conti se fosse stato lui a uccidere il Bianchi avrebbe fatto un favore all’umanità. L’ucciso, usuraio e ricattatore, racchiudeva nella sua persona una bella accoppiata di stronzaggine e in un eventuale condanna per omicidio gli avrebbero concesso di sicuro le attenuanti.
«Sono già le otto e c’è un buio della madonna!» esclamò il commissario, mentre l’uomo, che aveva davanti, continuava a fissare la lampada che illuminava un tavolo strapieno di pratiche. «E’ l’ora legale!» esclamò Andrea Rossigni distogliendo lo sguardo dalla luce. «In realtà sono solo le sette e non è molto che ha fatto giorno» aggiunse. «Già, l’ora legale, l’unica cosa di legale che è rimasta in Italia!» replicò il Lonzi. Nedo cercava di sdrammatizzare il penoso colloquio con una battuta sarcastica, anche se non troppo felice per un uomo di legge come lui. Poi lo guardò. Andrea Rossigni non aveva accennato nemmeno un pur minimo sorriso e si era rivolto nuovamente alla lampada da tavolo guardandola fissa. Sembrava pensare ad altro. Poi il suo sguardo si abbassò verso il pavimento. Forse stava osservando il numero preciso dei puntini bianchi e neri della graniglia delle mattonelle. Era preoccupante, perché al di là della battuta fatta dal Lonzi, che non gli aveva fatto né caldo né freddo, dimostrava di essere psicologicamente distrutto. Il commissario s’impensierì per la sua incolumità. Sapeva che in certi casi potevano accadere gesti estremi e disperati contro la propria persona. Gli avvocati difensori di Silvio Nesti, che giaceva in galera, avrebbero fatto i miracoli per riaprire il processo, puntando soprattutto sull’eventuale colpevolezza del portiere, anche se c’era un testimone che lo inchiodava, l’automobilista che lo aveva visto entrare nel palazzo. ò quindi alle domande cercando di smuovere il portiere dal suo nevrotico torpore. Lo faceva comunque per il suo bene, perché Andrea Rossigni, anche se fosse stato innocente, doveva incominciare ad abituarsi a sopportare una caterva di domande e non solo le sue. Nedo prevedeva che avrebbe presto ricevuto un avviso di garanzia e sarebbe stato sottoposto a stressanti interrogatori da parte di molti interlocutori. «Allora lei nel giorno del delitto si trovava nel palazzo!»
«A questo punto credo che sia inutile negarlo, visto che lei ha trovato lo scontrino della farmacia che non è mio.» «Bene, allora perché non l’ha detto dall’inizio delle indagini? Lei si rende conto di aver messo nei guai anche il suo amico Piero Lunghi, magari per complicità nell’omicidio?» «Non era certo mia intenzione. Sono ormai tre anni che ci frequentiamo e io desidero solo il suo bene.» «Però non ha esitato a coinvolgerlo per crearsi un alibi e tirarsi fuori dal delitto!» «E’ stato lui a insistere che ero stato io in farmacia e non lui. Purtroppo sapevamo entrambi che la polizia avrebbe potuto trovare facilmente dei documenti compromettenti, che segnalavano la nostra relazione. Il Bianchi ci ricattava e ci aveva fatto già tirar fuori un sacco di soldi.» «Già… così per farlo smettere l’ha ucciso, mentre il suo amico comprava le medicine!» Il commissario tentava in quel momento di indurlo in tutti i modi alla confessione del delitto. «Perché, se avessi detto che mi trovavo qui nel palazzo a poca distanza dal morto, non sarebbe stato lo stesso? Non mi avrebbe accusato di omicidio?» si difese il Rossigni. «Sì, indubbiamente avremmo indagato su di lei, anche se tra i foglietti del Bianchi non abbiamo trovato niente sul suo conto né su quello del suo amico. Magari avrà fatto sparire lei le prove dopo averlo accoltellato…» «Mi creda commissario, sono innocente. A volte sono stato tentato di ucciderlo, ma non mi sarebbe mai riuscito!» Il Lonzi non sapeva cosa credere. In vita sua ne aveva viste tante. Onesto morì ner casino! Gli uomini sanno mentire facilmente e anche quello sarebbe potuto essere uno dei tanti casi. Ciò che era stato combinato fino a quel punto, la pace del questore per aver risolto brillantemente il caso, il delinquente incallito messo dentro per buona
pace dell’opinione pubblica, il giudice sicuro che aveva emesso la sentenza, ogni cosa sarebbe potuta andare a finire in burletta. Son teste e lische, acqua a’ ginocchi e pesci punti! pensò con delusione. Forse il vero colpevole era proprio lì davanti a lui, un portiere dai gusti sessuali opposti ai suoi, che forse faceva finta di guardare una lampada e un pavimento di graniglia solo per recitare la parte del povero innocente frustrato. Continuò. Cercò di sapere, nell’eventualità che non avesse salito le scale e traato il Bianchi con il coltello da cucina, se avesse sentito o visto qualcuno o qualcosa all’ora del delitto: «Va bene, ammettiamo pure la sua innocenza e che lei si trovasse nel suo appartamento. Che cosa stava facendo nell’ora del delitto?» gli chiese il Lonzi. «Gliel’ho detto già che stavo male e che avevo l’influenza. Mi ero messo a letto perché dalla febbre alta non ce la facevo a stare in piedi.» «E’ rimasto a letto per tutta la mattina?» «Beh, via via ero costretto ad alzarmi . . .» «Ma non ha detto che stava male?» «Sì, è vero, ma dovevo alzarmi per forza, sa per via dei dolori addominali… della diarrea insomma.» Chi va ar cesso e’ un caa bene, tre vorte va, tre vorte viene!, considerò mentalmente il Lonzi e s’immaginò quante volte avesse tirato lo sciacquone il disgraziato portiere. Si sforzò di non sorridere in un momento così delicato delle indagini e continuò il suo interrogatorio: «Ha sentito per caso dei rumori provenire dall’ingresso del condominio?» «Per la verità, mi ricordo che verso le dieci ero in bagno, quando ho sentito delle scarpe con i tacchi scendere di corsa per le scale. Probabilmente le persone che venivano giù frettolosamente erano due, perché ho inteso anche un altro
calpestio che accompagnava il ticchettio dei tacchi. Il secondo rumore era più sordo. Sembravano scarpe più grosse e basse.» «Come fa ad averle sentite?» gli chiese il Lonzi. «Vede, il mio bagno è subito vicino alla guardiola di portiere, proprio all’inizio del corridoio, vicino all’ingresso del palazzo.» Il commissario gli chiese se erano scarpe di donna o di uomo, ma il portinaio rimase sul vago senza dare una risposta certa. Il Lonzi ritenne che il portiere potesse aver architettato di aver percepito quei rumori solo come scusa per far deviare i sospetti su qualcun altro, ma, in effetti, il bagno, come appurò, si trovava proprio posizionato nel luogo in cui era stato descritto e il Rossigni poteva anche aver dichiarato la verità. « Perché non l’ha detto prima? gli chiese tuttavia dubbioso il commissario. «Mi avreste creduto?» gli rispose a tono il portiere. La risposta da parte del commissario non ci poteva essere. Gli disse soltanto: «Si tenga a disposizione e non lasci la città!»
Erano diventati due i presunti colpevoli e ora forse se ne presentava un altro o un’altra che indossava delle scarpe con i tacchi. I due maschi amanti avevano comunque degli ottimi moventi per far fuori la vittima. Il caso, che dapprima sembrava di facile risoluzione, appariva ora molto più intricato.
OTTO
Per Nedo era venuto il tempo di svagarsi. Dopo le indagini, almeno la domenica mattina, il commissario Lonzi aveva il diritto di divertirsi. Appena alzato, scivolò dritto verso il gabbione che si trovava nei pressi della rotonda di Ardenza. Scivolò era il termine giusto, perché il commissario giudicava il campo di calcetto del bagno marino una frittata di scaracchi tutto poggi e bue. C’erano già quattro ciabattoni che facevano due contro due, rifilandosi, di quando in quando, pedate negli stinchi e qualche offesa, tra le quali le più frequenti erano: ‘r budello di tu’ ma’ e malidetto’i ti ‘oce ‘r pane! Mancava ancora all’appello uno dei due eroici giocatori a guardia della porta ristretta, mentre l’altro dello stesso ruolo, in attesa degli altri componenti della squadra, stava facendo il terzino. Nel frattempo tutti si alternavano a fare i portieri. Dei due estremi difensori, quello più grosso che alto, era inevitabilmente destinato a quel ruolo perché oscurava, come un’eclissi di sole, tutta la porta con la sua mole; l’altro, ancora assente, era invece di stazza normale, ma propenso al masochismo. Le pallonate, che respingeva stoicamente e gli ematomi violacei, stampati in tutte le parti del corpo non coperte da stoffa, stinchi, ginocchi, braccia e faccia compresa, ne erano l’emblema. Si trattava dell’agente scelto Mattei, un piombinese, trapiantato recentemente alla questura di Livorno, che si era unito alla comitiva del gabbione e, di solito, giocava nella squadra di Nedo. Per tutto l’inverno ato aveva partecipato ai tuffi invernali, compreso quello fatidico dell’ultimo dell’anno, assieme a una marea di associati dell’era glaciale, variabile per età, sesso e professione, che si sentivano ganzi solo perché si bagnavano li zibidei o la topa con quel popò di freddo. Non mancava di prendere anche il sole per tutto gennaio, con uno slip sfilacciato che faceva intravedere un membro modesto e due flaccide palle, che talvolta uscivano dall’elastico di sotto. Poi aveva smesso di esibirsi al freddo, perché a
un ottantenne, tuffandosi, era venuta una sincope e ora si era spostato sul calcetto, preferendo un ruolo quasi altrettanto eroico. Ce l’avevano tutti con lui, ma dove lo trovavano una simile testa di zuba che s’immolava per loro? Quando finalmente il Lonzi lo vide giungere con la sua borsa ai bordi del campetto si sentì riavere, perché lui era uno di quelli che voleva giocare esclusivamente in attacco. Vinse quattro partitine su tre. Solo nell’ultima giocò un po’ più arretrato, perché le piante dei piedi gli bruciavano a più non posso per via delle scarpe da calcetto nuove. Maledisse il cinese che gliel’aveva affibbiate e si trincò il solito chinotto con la scorza di limone alla Baracchina Rossa, una delle poche che ce l’aveva, mentre quasi tutti i bar di Livorno si ostinavano a tenere la coca o pepsi cola e magari qualche cedrata del cazzo. Mangiò in fretta, dividendo il pranzo col suo cane, un beagle bianco e marrone, che aveva voluto chiamare Beppe come suo nonno, imponendosi con la sua ex moglie che gli voleva dare un nome ameriano. Poi lei se n’era andata fuori di casa e gli aveva lasciato il cane e ci mancava poco che l’animale si mettesse a tavola con lui. Sarebbe ingrassato troppo e questo era l’unico motivo per cui non poteva stare a tavola come una persona. I bocconi se li doveva guadagnare facendo qualche salto, più o meno acrobatico attorno alla mangiatoia, così avrebbe almeno smaltito un po’ di ciccia. Nedo ci teneva molto a Beppe e aveva paura di perderlo da un momento all’altro. Rimuginava che forse la moglie lo considerasse un pegno e, presto o tardi, sarebbe ritornata a riprenderselo o magari a stare di nuovo con loro. Era già successo, ma il Lonzi non si augurava né l’una né l’altra cosa. Gli bastava il cane, che era furbo come una volpe e gli voleva bene, molto più della consorte che non aveva sopportato il suo mestiere. Sicuramente il cane era più paziente e lo aspettava sempre, anche a notte fonda a differenza dell’ex moglie. A lui bastava lasciare unicamente la ciotola piena d’acqua fino al suo ritorno e qualche croccantino.
Beatrice Belli era una vecchietta arzilla, striminzita come un calzino di lana
ristretto e ricurva come un boomerang. Aveva, però, tutti i suoi sensi intatti e rappresentava il gazzettino parlante del palazzo. Non era mai stata in un negozio dell’ampliphon, perché le sue orecchie erano paraboliche e percepivano ogni minimo suono, soprattutto se riguardavano un essere umano che stava litigando. Abitava al secondo piano del condomino di via Roma, subito sotto quello dell’omicidio e seguiva, o o, il fu Wladimiro Bianchi in ogni suo spostamento con le orecchie indirizzate verso l’alto. Dormiva poco: era bell’è sveglia alle cinque di mattina, pronta a vivere la sua vita attraverso gli altri. Viveva con Simeone, così si chiamava il gatto persiano della vecchia che, ingrassato spropositatamente dopo la castrazione, giaceva spaparanzato sul divano, quando entrò nell’appartamento della signora. Quando lo vide Nedo se lo immaginò teso e col pelo ritto, in sintonia con la morbosa attenzione della padrona, mentre lei porgeva le orecchie alla porta per vedere chi saliva o scendeva le scale, quando si affacciava alla finestra a osservare chi ava per strada oppure si sdraiava sul pavimento per ascoltare la confusione che facevano i Mannucci del primo piano, che più che una famiglia sembravano piuttosto una tribù, vista l’enorme quantità di figli, che avevano sfornato i due prolifici genitori. Il commissario, che forse amava più le bestie degli uomini, si accomodò sul divano accanto al gattone che stazionava nel posto, probabilmente a lui più congeniale. Non si era smosso neanche di un centimetro, quando la vecchia aveva aperto la porta e il Lonzi si era incamminato deciso nella stanza, finendo per sedersi proprio accanto a lui. Allungò con delicatezza i suoi lunghi baffi verso la manica della sua giacca e poi ritornò a sdraiarsi come se nulla fosse. L’animale si addormentò tranquillo dopo appena qualche minuto, chiudendo lentamente gli occhi gialli, come se accanto a lui ci fosse un’anima buona che non avrebbe mai fatto del male né a lui, né alla sua padrona. Nedo pensò che la bontà del gatto fosse autentica. Forse era non solo buono ma anche saggio, perché i casi della vita lo avevano privato della virilità che talvolta conduce l’animale all’irrazionalità, uomo compreso.
Cazzo ritto ‘un vor consigli!, esclamò nella sua mente il commissario. Scacciò poi con forza i suoi pensieri pseudofilosofici e si rivestì dei panni del poliziotto. Cominciò a parlare, rivolgendosi alla vecchia con un tono piuttosto sostenuto, non conoscendo ancora la perfetta funzionalità del suo udito, pensando che a quell’età, circa ottantotto anni, fosse abbastanza sorda e non sentisse una mazza. «Allooora signora, mi dicono che a volte sentiiivaaa dei rumori prooovenire dal piaaano di soopra!» «Boia dé, commissario, o cosa urla? Ci sento benissimo, un c’ho mia l’orecchi foderati di presciutto! Parli normale, ‘un si preoccupi!» «Bene, allora ha mai sentito dei rumori nel palazzo?» «Romori? Altroché! Sapesse commissario che popò di letiàte!» gli rispose la donna. Il suo volto si era all’istante di fronte alla possibilità di poter fare un bel cappottino a più di un condomino e tutti i muscoli della sua lingua erano prontissimi a esercitare il loro completo dovere. Il commissario Lonzi ci sperava in quel gazzettino parlante, perché aveva saputo da uno del palazzo, cui aveva chiesto inutilmente informazioni, che l’unica persona che avrebbe potuto aver notato qualcosa era proprio la vecchia. Si era aperta una voragine di situazioni che indicavano più piste e diverse possibilità di probabili assassini e forse l’anziana signora avrebbe potuto chiarire alcune zone buie del delitto. Wladimiro Bianchi si era fatto molti nemici e forse i tre indagati non erano i soli a volere la sua morte. La lingua più veloce del condominio si muoveva raramente dalla sua abitazione. Si era abbarbicata alla casa come le radici di una vecchia quercia alla profondità del terreno da cui trae la linfa e il sostentamento della sua vita. Viveva di chiacchiere senza aver bisogno di stare tutto il santo giorno a ubriacarsi dei reality della televisione. Lei al virtuale preferiva il concreto, ai palinsesti falsi, le persone che litigavano veramente. La vecchia era un’imbattibile e antipatica pettegola, che non si faceva i cazzi suoi, ma forse, in un caso di omicidio, poteva tornare utile per le indagini.
Tutte queste considerazioni apparvero e scomparvero nel giro di pochi secondi dalla testa di Nedo, mentre attendeva che Beatrice Belli sciorinasse il suo racconto. «Commissario, un brànco di letiàte a tutte l’ore, gli ci voleva un quintale di capomìlla a lulì!» «Quindi il signor Bianchi litigava. E con chi signora?» Il Lonzi sollecitava la donna, ma non ce ne sarebbe stato bisogno, perché aveva i pettegolezzi in automatico. «L’ex moglie er su’ figliolo ‘un lo potevano vedé. Era stitìo con loro e ‘un gli dava manco un euro!» proclamò la vecchia. «Ah sì? Gli chiedevano soldi e lui non glieli dava?» sottolineò il commissario, istigando la donna a perfezionare il cappottino. «A nessùni gnéne dava. C’aveva il braccino corto con tutti, anche con la giovane che puliva e dirazzolava in casa e ‘un voleva paga’!» Il quadro di Wladimiro Bianchi, da lei descritto, era spietato. Evidentemente la vecchia era realista e non pensava come tanti che quando uno è morto diventa necessariamente buono. Poi la descrizione divenne caricaturale, perdendo ogni residua pietà. «Pensi, vando prendeva l’autumobile pe’ anda’ in città, puliva i vetri per la caona di dove’ da’ la mancia a quarche lavavetri ar semaforo!» L’anziana signora stava allontanandosi un po’ troppo dal filo del discorso che interessava al Lonzi, quindi la interruppe, riportandola a quello che gli importava veramente: «Mi diceva dell’ex moglie e del figlio che non lo potevano vedere per via dei soldi che non gli dava . . .» I ragguagli si fecero molto più interessanti, quando la vecchia spifferò che Claudio Bianchi, il figlio, non si era limitato a inveire contro suo padre, ma gli aveva messo addirittura le mani addosso e non solo in un’occasione. Aveva sentito lei stessa il fu Wladimiro Bianchi inveire contro di lui chiamandolo
delinquente, e figlio stronzo che picchia il proprio padre Gli altri condomini non avevano sentito o molto più semplicemente non avevano voluto sentire. Si sa l’omertà spesso è di casa nei palazzi di città, dove se uno muore, talvolta non lo vieni neanche a sapere. Ognuno si fa i fatti suoi per quieto vivere ovunque, anche nel civile centro di Livorno. Naturalmente era necessario interrogare il figlio della vittima, visto quello che gli era stato rivelato dalla vecchia. Il Lonzi lo andò a trovare nella sua abitazione, perché non era il caso di farlo venire in commissariato e, soprattutto, per studiare meglio l’ambiente in cui viveva. Claudio Bianchi risiedeva nel quartiere de La Leccia. L’appartamento era in uno di quei palazzi costruiti spartanamente a pannelli di cartongesso, ma catalogati al catasto dai piagiastronzoli come alloggio di lusso e i proprietari avevano pagato l’Ici, l’Imu, la Iuc o come… ciaralle, ciaralle, ciaralle…ciai rotto le palleeeee!, si chiamasse di volta in volta, come se fossero state ville. Fu difficile trovare il numero civico dei Bianchi, perché era sommerso da una caterva di camli. Aspettò un po’ senza che nessuno aprisse. Poi un’anima caritatevole, che abitava allo stesso numero civico, gli fece gentilmente strada e con la sua chiave gli aprì il portone. Lo informò che i citofoni del condominio funzionavano a intermittenza, nonostante che all’amministratore frizzassero le orecchie per le lamentele dei residenti inferociti. Nell’appartamento non c’erano ingressi. Per risparmiare il costruttore aveva fatto a meno dei preamboli e un grosso televisore al plasma occhieggiava nell’angolo subito dopo la porta di entrata. Teresa Laniero, la madre, si era alzata per aprire, facendo i convenevoli al Lonzi, mentre il figlio Claudio, seduto in poltrona, si mostrava piuttosto indifferente. Gli occhi però lo tradivano. Lasciavano trasparire un terrore difficilmente contenibile. Forse il giovane poteva semplicemente fare la parte del menefreghista, proprio perché era lui l’assassino. Fra l’altro in città c’era già stato un caso analogo: un padre ucciso dal figlio e fotografato impietosamente riverso in un lago di sangue.
Il commissario pensò che, in quel caso, assieme al figlio sarebbe stato giusto arrestare anche il fotografo che lo aveva immortalato e soprattutto il direttore responsabile del quotidiano, ma questo la democratica legge ancora non lo prevedeva, perché il reato di sciacallaggio iconografico non era ancora contemplato dal codice penale. Nedo Lonzi si accomodò sulla poltrona, proprio di fronte a Claudio Bianchi e cominciò a bersagliarlo di domande, mentre la madre mostrava un volto piuttosto preoccupato. Cominciò di brutto, senza corridoi o preamboli, proprio come il costruttore che aveva razionalizzato sui locali. «Che rapporti aveva con suo padre?» Il giovane rispose, dopo aver tossito due o tre volte per l’imbarazzo o forse meglio per l’ansia che lo stava attanagliando: «Non avevo buoni rapporti, perché non s’interessava a me. Mi ha sempre fatto fare una vita schifosa già prima che si separasse da mia madre. Ho dovuto lavorare duramente per pagarmi le tasse universitarie, perché lui se n’è sempre fregato del mio avvenire.» «Lei quindi fa l’università? Qual è la sua facoltà?» «Giurisprudenza, ma sapesse quanti sacrifici! Fare lo studente lavoratore è difficile e molti professori pretendono la frequenza ai corsi, anche se non è obbligatoria.» Lo studente Claudio Bianchi si stava infervorando nella discussione del suo corso di laurea. Il commissario pensò che, se fosse stato lui il colpevole, non si sarebbe animato così tanto per i suoi studi. Avrebbe solo pensato a come difendersi da un’accusa di omicidio che stava per piovergli sulla testa e, siccome cretino non gli sembrava, se lo era sicuramente immaginato che il commissario non era certamente a casa sua per una eggiata. Tuttavia il Lonzi continuò a fare le domande al giovane, perché la vita gli aveva serbato molto più che una sorpresa e si era meravigliato di come molti assassini avessero saputo mentire anche di fronte a poliziotti esperti come lui, quindi continuò:
«Ci sono state liti fra lei e suo padre?» «Purtroppo sì. Gliel’ho già detto, mio padre era uno schifoso egoista e pensava solo a se stesso!» Il Lonzi colse una rabbia estrema nel giovane, nonostante che il padre avesse scontato ampiamente le sue colpe con un coltello piantato nella schiena e gie in un loculo del cimitero dei Lupi dopo l’autopsia. «Nelle litigate siete mai arrivati alle mani?» L’interrogatorio del commissario diventata sempre più stretto e voleva arrivare al sodo. La madre diede un’occhiata eloquente al figlio che significava: «Ti prego, stai zitto, non dire nulla!» La signora Teresa Laniero teneva molto a quel figlio e aveva capito che sarebbe potuto cadere in una trappola, da cui difficilmente sarebbe uscito. Claudio Bianchi continuò con le risposte, incurante dello sguardo supplichevole della madre. «Purtroppo sì, perché la rabbia era tanta e non era facile mantenere la calma di fronte a tanto egoismo.» «Vuol forse dire che ha messo le mani addosso a suo padre?» Claudio Bianchi si mise la testa fra le mani. Quel gesto equivaleva a una chiara risposta affermativa. «E gli ha procurato ferite, suo padre è andato a finire all’ospedale?» «Non c’è andato, gli ho spaccato un labbro con un pugno, ma non volevo fargli male! Mi ha fatto perdere la pazienza! Mi è venuto addosso e mi ha dato una spinta. Ho avuto una reazione violenta di cui mi sono pentito subito.» «Purtroppo per lei ci sono dei testimoni che hanno sentito le urla e sanno di suo padre ferito e se verrà riaperto il caso, lei sarà nei guai, perché aveva un ottimo movente per ucciderlo.»
«Maledetta pettegola!» urlò il giovane, seguito subito dopo dalla madre, che si unì al coro delle lamentele sulla testimone. «Dannata vecchia, maledetta strega, vuol rovinare mio figlio!» «Senta lei, a chi si sta riferendo? Forse sta inveendo contro la persona sbagliata!» «Beatrice Belli, la vecchia strega con la bocca sempre aperta! A chi mi devo riferire se non a quella maledetta donna che non si fa mai i fatti suoi!» La vecchia ora rischiava qualche ripercussione, perché il giovane Claudio Bianchi si era dimostrato violento in più di un’occasione e non solo a parole, anche se aveva i suoi bravi motivi. Anche nel caso della vecchia pettegola avrebbe potuto avere le sue ragioni e far del male alla testimone. La vecchia rischiava e andava sicuramente protetta, pertanto il commissario Lonzi mentì, sapendo di mentire, ma esclusivamente per il bene dell’anziana signora: «Macché Beatrice Belli, sono altri i testimoni e non solo uno, non so se rendo l’idea!» Il giovane protestò su quella che sembrava una scusa per non far are dei guai alla Belli: «E chi può essere se non lei… La vecchia mi ha sentito quando ho litigato con mio padre. Dopo che sono uscito, l’ho vista col naso appiccicato al vetro della finestra che mi osservava mentre andavo via e scuoteva la testa.» «Si vede che è una che non si fa i fatti suoi, ma le posso giurare - il Lonzi incrociò le dita senza farsi scorgere - che a me non ha detto assolutamente niente!» cercò di spiegare il commissario, tentando di far dirottare Claudio Bianchi dalla sua idea e rivolgendo contemporaneamente lo sguardo anche alla madre che, nel frattempo, non si era persa una parola del dialogo. Anche Teresa Laniero, in qualità di madre e di ex moglie di un ex stronzo, sarebbe potuta diventare violenta e magari essere lei l’assassina del Bianchi. Non si sa mai nella vita come uno sia. Anche gli agnellini possono diventare lupi in casi estremi e si doveva sempre essere sospettosi. Tranquillo ch’aveva le ‘orna! pensò Nedo.
Entrambi avevano un alibi, perché si trovavano in casa insieme nel giorno e all’ora del delitto, ma ognuno avrebbe potuto tenere bordone all’altro. Magari la pugnalata l’aveva data il figlio o la madre oppure avrebbero potuto compiere il delitto insieme. In effetti, la vecchia poteva essere aggredita e non essere messa in condizione di testimoniare in un nuovo eventuale processo. Se fosse stata intimidita, addio testimonianza. Così, mentendo ancora una volta, cercò di fare gli scongiuri, in maniera più efficace della prima volta. Avrebbe voluto stringere la fedele Beretta, ma siccome aveva una mano infilata nella tasca sinistra, non quella della rivoltella, che portava a destra, finì per toccarsi il coglione sinistro e giurò il falso: «Vi giuro che la Belli non c’entra per niente! Sono altri i testimoni. Se fate del male alla vecchia, tutti sapranno che i colpevoli siete voi e soprattutto non è il caso di scagliarsi contro chi non ce l’ha con voi!» e si ritoccò il coglione sinistro per la seconda volta.
NOVE
La faccenda si complicava sempre di più. Aumentava il numero dei sospettati, ma non esistevano prove certe per nessuno di loro, neanche per chi fino a poco tempo prima era stato sbattuto in galera alle Sughere. Silvio Nesti era stato, infatti, scarcerato, perché i suoi nuovi avvocati difensori avevano trovato il sistema di farlo uscire, invalidando il processo precedente e puntando sull’inconsistenza delle prove contro di lui. I suoi nuovi legali, a differenza di quelli di prima, erano dei veri professionisti. Il commissario si chiese da dove potesse essere saltata fuori la valanga di quattrini che serviva per pagarli. Comprese che probabilmente la madre del Nesti avesse ipotecato la casa per aiutare il figlio, ammesso che l’alloggio di via Dell’origine fosse di sua proprietà. Pensò che se non fosse stato così, probabilmente lei o suo figlio stavano ingrassando altri strozzini, che in una città piena di disoccupati e cassaintegrati non mancavano di certo e soprattutto, ahimè, erano ancora vivi. Gli avvocati che difendevano il Nesti sottolinearono alle autorità inquirenti che nel vano segreto del Bianchi c’era una gran quantità di oreficeria e tante persone potevano essere incriminate proprio per lo stesso motivo del Nesti. Come ex proprietari degli oggetti di valore, che giacevano nella cassaforte dello strozzino, erano molte le vittime del traffico di usura. Tutti gli indebitati potevano avere un ottimo movente per uccidere il Bianchi e non solo il loro assistito, anche se rimanevano sconosciuti. Questa fu la prima direzione strategica seguita dagli avvocati difensori per far uscire il Nesti, ma non fu la più importante. In seguito, infatti, raffinarono il loro piano di difesa, smontando completamente la testimonianza dell’automobilista che inchiodava il Nesti, quel Corrado Cenci,
che aveva accompagnato la moglie dallo psichiatra. L’edicolante, che lavorava vicino al palazzo del delitto, lo aveva notato più volte nei paraggi di via Roma e non vedeva l’ora di vendicarsi, perché aveva il vizio di parcheggiare sempre davanti alla civetta dei quotidiani, facendo il velo ai anti che non vedevano i titoloni e tiravano avanti senza, fra l’altro, comprare mai un giornale. Gli gridava in continuazione di spostarsi, ma lui se ne era sempre infischiato, rimanendo sullo stesso posto fisso come un palo. Il giornalaio aveva notato che portava sempre un paio di occhiali da vista con un vetro così spesso che sembrava un culo di bottiglia. Nel giorno del delitto, però, proprio alle dieci di mattina, aveva osservato che ne era privo e gli era sembrata una cosa strana. Alle domande che gli furono poste dagli avvocati difensori del Nesti e da un investigatore privato in aggiunta, reclutato per l’occasione, aveva spifferato volentieri il fatto, purgandosi di tutta la bile che aveva accumulato per colpa del Cenci e sperando in cuor suo che gli procurassero qualche fastidio. L’ipotesi dell’edicolante andava vagliata. Il testimone poteva benissimo essersi messo le lenti a contatto, ma se non fosse stato così? I legali cercarono in tutti i modi di accertarsene ed ebbero fortuna. Si trattava di contattare le persone che avrebbero potuto fornire informazioni in proposito: l’oculista di cui era il paziente e l’ottico da cui aveva comprato gli occhiali. Fu lo stesso Corrado Cenci a fornire ingenuamente i loro i nomi. Con un espediente si presentarono a casa sua come rappresentanti di commercio di occhiali, dicendo che stavano compiendo un’indagine di mercato per appurare come si comportassero con i clienti gli ottici della città. Gli chiesero anche il nome dell’oculista con la scusa di conoscere se il medico stesso avesse fornito il nome del negoziante e il Cenci abboccò facilmente all’amo. Il pool Pro Nesti, quindi, senza indugi andò immediatamente a trovare l’oculista del Cenci, il quale candidamente confermò che il suo paziente non ci vedeva un tubo e che senza occhiali avrebbe stentato a riconoscere anche sua madre.
Riguardo alle lenti a contatto dichiarò che la forte allergia del suo paziente avrebbe reso impossibile il loro uso. Poi il colpo di grazia lo dette l’ottico, di cui il testimone automobilista era cliente. Un investigatore privato lo andò a trovare e gli chiese, senza far alcun riferimento all’omicidio, se per caso ci fosse un motivo per cui il signor Corrado Cenci non avesse gli occhiali il 27 ottobre. «Sa, io mi annoto tutto… dé vole sapeé di quer giorno e der mi’ cliente. . . mi ha detto che si ’ama… Cenci. . . mi facci controllà. . . » Aveva afferrato a quel punto il suo computer, premuto in velocità qualche tasto e poi aveva aggiunto: «Ah dé sì sì, eccolo qui… il 27 ottobre ir mi’ criente aveva i su’ occhiali da vista in riparazione da me.» «E quando li ha ritirati?» gli aveva chiesto. «’r giorno dopo. . . Ecco sì, il 28 ottobre erano pronti. . . Mi pare che sia ato alle 18 del pomeriggio, menuto più, menuto meno.» «Lasci stare l’ora, a me interessa il giorno. E’ sicuro che fosse il 28 ottobre?» «Certo, preciso ‘ome un dito ‘nculo! » aveva risposto l’ottico.
I nuovi avvocati del Nesti, ormai completamente ringalluzziti, andarono avanti, portando tutta la documentazione agli atti del nuovo processo da istruirsi e il Cenci rischiò anche di essere incriminato. Il giudice, infatti, confidò nella buona fede del ceo come ‘na tarpa dopo qualche tentennamento e non lo condannò per falsa testimonianza solo per un pelo. La moglie del Cenci, poveretta, continuò ad andare dallo psichiatra per tutto il tempo del riesame del processo, anzi intensificò le visite. Lui soffriva per la moglie malata che forse tanta patologia non aveva. All’automobilista mezzo orbo restò, per tutta la sua vita futura, il ricordo amaro
e traumatico di aver ato, anche se per una sola notte, un periodo in commissariato sotto interrogatorio e il sospetto di essere stato incornato dalla moglie proprio in quel frangente. Quando, in nottata, in una pausa dell’interrogatorio, aveva telefonato preoccupato, il suo cellulare aveva squillato ininterrottamente per diversi minuti, senza che la sua consorte malata rispondesse. Quando, finalmente, si era decisa, aveva udito in sottofondo la voce cavernosa dello psichiatra, intervallata da lamenti e sospiri, mentre lei gli diceva: «Coraggio Corrado, vedrai che tutto erà. Sono qui dallo psichiatra che mi ha accolto così gentilmente. Anche lui ti sostiene. Dice di salutarti e ti fa gli auguri!» Sarà che me la curi?, si era chiesto dubbioso il povero signor Cenci, perché la moglie ormai ava più tempo in ambulatorio che a casa, compresa la notte. Nel giorno del rilascio del Nesti, pregiudicato ma innocente, per quanto riguardava la responsabilità del delitto, il cellulare del commissario Lonzi squillò a lungo inutilmente. Beppe, definito il più delle volte da Nedo un lotro malidetto, perché c’aveva la calamita per le ‘ose da mangià e riusciva a afferra’ ogni ‘osa e a ingollarla in mezzo seondo, tanto per cambiare ne aveva combinata una delle sue. Era riuscito a scovare un vecchio panettone di Natale dimenticato da mesi nel mobile di sala. Il commissario si era scordato una delle ante aperte e il lotro si era subito precipitato a papparselo. In più nella foga di afferrarlo aveva rotto piatti e bicchieri. Dopo qualche ora aveva osservato il cane imbolsito che si lamentava per la scorpacciata. Erano poi seguite le diarree dell’animale, sparse a macchia di leopardo per tutto l’appartamento. Pensò che per il cane andasse applicata la ricetta del Cestoni Mangiate meno, budelloni!, anche se in quel momento il cane gli faceva più pena che rabbia. Quando sentì la chiamata al cellulare, oltre alla riflessione sulla nota ricetta del Cestoni, era intento a seguire le tracce maleodoranti e non fece neppure in tempo a rispondere. Dopo circa quindici minuti squillò nuovamente il cellulare e questa volta ci riuscì.
«Sono la mamma di Claudio, si ricorda?» Era una madre che aveva perso nome e cognome per il bene del figlio. Ora contava solo lui, che rischiava più di lei un processo, visto che aveva messo le mani addosso al padre che era stato ucciso. Naturalmente si mostrò gentile e gli si rivolse con delicatezza: «Non l’ho mica disturbata, vero? Chissà a quante pratiche starà lavorando!» Nedo avrebbe voluto dirle che era nella merda, anche per via dell’indagine che non aveva sbocchi concreti, ma soprattutto per via della zotta, non solo mentale, che stava materialmente togliendo di mezzo, incavolato come una bestia. Si limitò a rispondere: «No, nessun disturbo signora! Mi dica piuttosto…» «Vorrei parlare con lei perché ho importanti notizie da darle.»
DIECI
Teresa Laniero aveva capito che era giunto il momento di vuotare il sacco, perché lei e suo figlio potevano essere sottoposti a indagine per omicidio con il rischio di essere accusati per l’assassinio. Non si potevano neanche permettere costosi avvocati, perché erano poveri in canna. Avevano ormai raschiato il fondo dei loro risparmi, giacché l’ex marito e padre, ormai defunto, non li aveva foraggiati neanche uno spillo. La donna si presentò al commissariato, decisa a portare avanti il suo compito, cioè far slittare i sospetti su di lei e il figlio verso altri possibili indiziati. Parlò di Tamara Rusic, l’inquilina rumena che tre volte la settimana andava a servizio dall’ex marito. Gli sbrigava le faccende: lavava, stirava e scopava, facendo intendere per scopare non solo le pulizie. La signora Laniero non fu però così esplicita. Quella fu la traduzione simultanea del commissario alla definizione garbata dell’ex signora Bianchi: È una donna dai facili costumi. La Rusic aveva un fidanzato molto geloso, che essendo dotato di un fisico da armadio a quattro ante, si divertiva a esercitare la sua forza sui disgraziati che talvolta gli capitavano a tiro. Denunciato più volte per aggressione e spaccio di stupefacenti non vedeva di buon occhio la fidanzata, che si ostinava a continuare a fare le faccende in casa di Wladimiro Bianchi. In realtà l’interesse della Rusic non riguardava il vegliardo ottuagenario, ma la sua ingente ricchezza, di cui la fardona era ghiotta. Non proprio così si espresse Teresa Laniero, precisando che la rumena, allegra giovane, faceva la politica del riccio, cercando di insinuarsi nei sentimenti del vecchio per ottenere quanto più possibile da lui.
Boia dé, propio vero. Vando ir diavolo t’accarezza, vòle l’anima!, considerò Nedo.
Aumentava sempre di più il numero dei sospettati, ammesso che quanto detto dall’ex moglie del Bianchi corrispondesse al vero, ma il peggio doveva ancora venire. Il giorno dopo fu trovata uccisa l’anziana Beatrice Belli al secondo piano del solito palazzo di via Roma. La trovarono sdraiata sul letto come se stesse dormendo, ma le macchie violacee attorno al collo non lasciavano alcun dubbio sull’omicidio per strangolamento. L’autopsia successiva rivelò che era stata ammazzata nella mattinata, mentre il cadavere era stato ritrovato solo nella notte, quando il televisore continuava a funzionare ad alto volume, anche se la vecchia andava a dormire come le galline. Il televisore era stato dalla mattina e si erano accorti un po’ tutti del rumore che disturbava l’intero condominio, ma non avevano protestato, perché la vecchia Beatrice Belli meritava comunque rispetto: era sì pettegola ma molto ben educata e non faceva mai confusione. In realtà qualcuno aveva alzato il volume del televisore per non far sentire i lamenti della povera donna che stava agonizzando e se n’era andato, lasciando tutto come stava. Era la stessa persona che aveva deciso che la vita della vecchia doveva terminare proprio quel giorno.
Al commissario Lonzi andò di traverso il ponce al rum che stava tracannando. Avrebbe fatto molto meglio a non rispondere a quel dannato cellulare. Perlomeno avrebbe messo il suggello alla meravigliosa cena che aveva gustato senza rotture di palle, ma quella telefonata rappresentava molto di più di un fastidio. Un’altra vittima nello stesso palazzo! Mesi e mesi di indagini inutili con un assassino impunito che continuava a farla franca. «Puttana Eva!» esclamò ad alta voce, fregandosene ampiamente dei pochi clienti
presenti e dei commenti che inevitabilmente gli sarebbero piovuti addosso. Il cameriere con il buzzo da donna gravida, che conosceva le sue invettive, ebbe il buon senso di girarsi dalla parte opposta per evitare probabili ripercussioni su di sé, ma il commissario aveva ben altro per la testa. Non rimase neanche un attimo di più nel locale e uscì sbattendo la porta più forte del solito. Si mise a camminare per le strade buie e solitarie, in parte anche silenziose, se non fosse stato per il ronzio dei televisori che vomitavano le solite stronzaggini. I suoi i somigliavano al battito di un orologio senza tempo e Nedo pensò che segnassero la sua inutilità. S’immaginò poi la rabbia del questore, beatificato dai giornali per la sua alta professionalità. Ora, invece, sarebbe diventato agli occhi dell’opinione pubblica uno spaccascurregge e, siccome si prendeva i meriti ma non le colpe, avrebbe accusato qualcun altro del fallimento delle indagini e chi avrebbe potuto essere se non lui, povero commissario di provincia? Valutò in quale stato d’animo potesse trovarsi il totterone dopo la cocente delusione, non solo per non aver acciuffato il vero colpevole del primo delitto, ma di trovarsi un’altra uccisione nello stesso palazzo. Le indagini si complicavano sempre di più e nessun altro collega, avrebbe potuto dargli una mano. C’era, infatti, un’altra difficoltà per il Lonzi: l’aspetto caratteriale del questore, comune agli insicuri nei posti di comando, che tendono a circondarsi d’inetti che dicono loro sempre sì, anche quando ci sarebbe da dire no, anzi, talvolta, da urlarglielo a squarciagola nella ghigna. Si ricordò dei manuali di storia, studiati ai corsi per diventare commissario. Si era apionato ai servizi d’Intelligence dei vari Paesi e aveva fatto le sue personali riflessioni. Aveva costatato come fossero più efficienti quelli dei paesi democratici, i cui capi non avevano paura di essere eliminati e non guardavano, con sospetto, chi stava loro vicino con l’angoscia di dover cedere lo scettro del comando da un momento all’altro.
Aveva considerato che i dittatori finivano per circondarsi di uomini mediocri che non temevano, ma tutti facevano poi una brutta fine, perché non avevano nessuno che li sapesse consigliare nel momento del vero bisogno, fermandoli al momento giusto, prima di essere sull’orlo dell’abisso. Il questore non era certamente un dittatore, un megalomane forse sì, ma amava, anche lui, circondarsi di nullità. Il Lonzi pensò di essersi sopravvalutato e che lui stesso rappresentasse molto bene questa categoria di bischeri alla corte di Gaspare Rossi. Per la rabbia prese a calci un’innocente lattina di birra che qualche briao aveva pensato bene di seminare per strada. In effetti, il questore era su tutte le furie. La notizia dell’uccisione di Beatrice Belli era stata comunicata al gran ceppione in contemporanea con il commissario. Zelanti funzionari, informati dai poliziotti di servizio, cui era toccato l’ingrato compito di scoprire il cadavere della vecchia, lo avevano fatto sobbalzare sulla sedia. Il Lonzi s’immaginò il questore col cranio pelato, dove i tre peli superstiti e indisponenti si erano irrigiditi alla funesta notizia che faceva crollare tutte le sue certezze sulla facile risoluzione del caso su cui stavano indagando. Chissà cosa mangiava uno così, grigio e mezzo spelacchiato che dicevano avesse una bella topa per moglie, una straniera mora di trent’anni più giovane che gliela dava. Questa era la principale malignità di cui si parlava nei corridoi della questura, anche se il Rossi non faceva trasparire nulla e se la teneva ben nascosta. Magari era una che moriva di fame in quarche paese dell’Ameria Latina prima di conoscere lulì!, pensò il Lonzi. Prima di coricarsi considerò come avesse potuto la bella e giovane latina accasarsi con un uomo sgangherato come il questore e arrivò alla conclusione: Meglio ‘he nulla, marito vecchio!
Nell’appartamento della Belli le istituzioni si mossero subito.
I poliziotti misero i sigilli alla porta della vittima e il questore dovette lasciare quella popò di fia che si ritrovava per casa e far luccicare, ancora una volta, il suo cranio pelato sotto il neon dell’ufficio, prendendosela con chi gli aveva dato il parere sbagliato. «Era bravo il commissario Lonzi, eh? Bel consiglio mi ha dato, allezzìto che non è altro. Propio un investigatore lorfio mi doveva consiglia’!» In quel momento il questore si stava arrabbiando con il suo vice che gli aveva suggerito di affidare le indagini al Lonzi. Il questore, di origini napoletane, cominciava a usare il vernacolo labronico, per lui sconosciuto fino a poco tempo prima. Strano a dirsi, si era quasi dimenticato della parlata del nonno materno, che quando lo accompagnava a scuola in perenne ritardo lo apostrofava sempre con un: Iamme bell piccirill! Il nonno era un altolocato, non in quanto nobile o ricco, ma perché era un morto di fame che abitava in un quinto piano del quartiere napoletano di Forcella, pieno di clienti per il carcere, di cui lui era un’eccezione. Gaspare Rossi aveva solo vaghe immagini, frammenti di ricordi, sommersi da altre vite vissute, altre parlate, altre sensazioni, tanti quanti erano stati i suoi trasferimenti per il suo dannato lavoro che lo portava a fare le valigie in continuazione. Ricostruirsi ogni volta una nuova esistenza, come se tutto quello che aveva vissuto prima non contasse più niente, non era mai stato facile. Forse l’amnesia era l’antidoto all’eccessivo attaccamento alla città perduta, ai paesaggi, all’angoscia di dover ricominciare da capo ancora una volta e non tutti possono permettersi il lusso di rimanere attaccati alle proprie radici. L’immagine del nonno, però, talvolta affiorava e sempre nello stesso luogo, nella stessa ora. Lui era lassù, affacciato alla finestrella del vicolo e appariva nel ricordo come un busto marmoreo. Lo rivedeva dal basso verso l’alto, lui bambino e il nonno lassù 'ncopp', mentre di prima mattina si radeva alla finestra e cantava alla dirimpettaia del vicolo distante un metro da lui ’O sole mio sta’ in front’a te! scrutandole il seno prosperoso con il rasoio in mano, mezza schiuma sulla faccia e probabilmente u pesc, come lo chiamava lui, intustat.
Tutto questo quadretto del questore il commissario Lonzi se l’era dipinto benissimo nella testa, il giorno dopo, a cena nel suo solito ristorante. Il suo comandante gliene aveva parlato un giorno, durante le indagini, quando era zeppo di gloria per l’illusione di aver risolto il caso di via Roma e forse proprio per questo incline alla confidenza. Nedo stava pensando proprio al questore, mentre divorava il pane tostato e impepato, apprezzando i calamari affogati nello splendido sugo, assaporando e centellinando i pezzi di palombo. Diliscando la candida carne di uno scorfano e quasi ingoiandosi i piccoli tentacoli a ventosa di un polpetto tenero e gustoso, rivedeva l’immagine del nonno del capo e pensava anche al suo, il suo tenero nonno Beppe, che di fame nella vita ne aveva fatta tanta. Aveva annaffiato il suo cacciucco con un buon vino rosso, che gli era sceso giù come un torrentello, sperando in cuor suo che il suo povero nonno Beppe si trovasse nel cielo azzurro in compagnia degli angeli. Pensò che, in alternativa, gli sarebbe andata bene lo stesso la compagnia di un paio di diavolesse un po’ porche e con un ber culo, magari strette in un’attillata tuta rossa e soprattutto propense al divertimento altrui. Considerò infine che anche il nulla gli sarebbe andato bene: sempre meglio di una vita di merda in mezzo a tanti stronzi che l’avevano sfruttato e non gli avevano neanche pagato le marchette per la pensione. Il Lonzi pensò che suo nonno Beppe, con la squallida esistenza, che era stato costretto a vivere, si sarebbe trovato meglio dappertutto. Distolse il pensiero e si concentrò di nuovo sulla cena. Si pappò il dolcetto della casa, una crostata niente male, che solo lì sapevano fare, ma proprio alla fine, quando sazio e soddisfatto stava per andarsene dal locale, dopo l’ultimo tassello culinario costituito dal ponce a vela, tutto gli andò di traverso. Al posto del solito rutto di buon pro gli venne un rigurgito acido e cominciò a tossire diverse volte con la saliva che aveva preso un’altra strada. Quello non era un buon segno per il Lonzi. Quando il cibo si soffermava più del dovuto, dove non doveva stare e il piloro
faceva le bizze, era il segnale che qualcosa non stava funzionando, nelle viscere, ma soprattutto nelle considerazioni del suo cervello. C’era qualcosa che non quadrava, l’enigma andava risolto e invece stava perdendo di vista tutta la situazione. Pensò alla vecchia e ricominciò a tossire diventando paonazzo. Nel frattempo il Lonzi sorprese con lo sguardo il solito cameriere dal buzzo di cinque mesi che lo stava osservando divertito. In effetti, l’uomo sembrava che stesse per scoppiare, non sapendo come trattenere il riso. Il volto del commissario divenne livido e assieme agli occhi fuori dalle orbite, sembrava la testa di un tonno bollito. Il commissario non si trattenne. Già fra loro due non correva buon sangue ma ora il cameriere se ne stava approfittando. Non si trattenne più e lo aggredì a male parole: «E’, buo di ‘ulo, chi credi di prende’ pei fondelli!» Il cameriere si strinse nelle spalle e non profferì parola e fece bene. Il Lonzi poi girò i tacchi inferocito e guadagnò l’uscita senza più voltarsi.
In realtà il commissario ce l’aveva solo con se stesso. Sì, quel cameriere dal buzzo di donna gravida gli stava sulle palle, ma in definitiva non aveva fatto niente di male. Il vero motivo per cui si rodeva dentro era un altro: non era riuscito a scoprire l’assassino del Bianchi e forse aveva provocato la morte della povera Beatrice Belli che non aveva fatto del male a nessuno, se non a chiacchiere.
UNDICI
Il giorno dopo salì, ancora una volta, le maledette scale di via Roma 256, fermandosi al piano della vecchia. L’appartamento sembrava che parlasse con gli oggetti al posto della donna, un’umile creatura indifesa che allargava il suo piccolo mondo, fatto di solitudine, con le fotografie ingiallite appese un po’ da tutte le parti, prima fra tutte quella del marito defunto dai possenti baffi neri. Gli animaletti di cristallo, sparsi tra le trine della vetrina, forse ricamate dalle sue stesse mani, facevano capolino, guardandolo indispettiti come se lo rimproverassero. In una mattina, apparentemente normale e nell’indifferenza generale, si era compiuta un’altra violenza estrema, cui lui non aveva saputo porre rimedio. La vecchia aveva aperto al suo assassino che, evidentemente, conosceva, perché nella stanza non c’erano segni di confusione né di lotta alcuna. Il commissario stabilì, dopo gli interrogatori, che nessuno aveva visto entrare sconosciuti nel palazzo. L’assassino aveva agito indisturbato con la buona fede della donna e ora se la sava sereno e sicuro nella sua tana, a distanza di troppe ore dal delitto e avrebbe dormito sonni tranquilli per tutta la notte. Non trovò niente di importante, solo un foglio scritto a mano. Lo guardò più volte e lo lesse ripetutamente. C’era scritto in stampatello: LA CROCIERA COSTA. Lasciò la Scientifica al lavoro nell’appartamento, mentre il cadavere della donna abbandonava la sua casa per diventare oggetto di studio del medico che lo avrebbe sottoposto ad autopsia. In attesa dei risultati delle analisi, il commissario Lonzi indirizzò le indagini sulle conoscenze della signora Belli, per scoprire eventuali lati oscuri della sua
vita. Sai ‘osa, gli amici sono ‘ome ‘fagioli: parlano dietro! Dubitava, però, che la vecchia, quasi sempre chiusa in casa, ne avesse. Al bar, assieme al cappuccino e al budino di riso al posto della solita brioche alla crema, assaggiò le amare notizie del quotidiano locale. Il titolo di un articolo, messo bene in evidenza in prima pagina, non dava certo una medaglia né a lui né all’intera questura. Lesse: Un altro delitto nello stesso palazzo di via Roma e la polizia brancola nel buio! Seguivano le invettive del giornalista, autore del pezzo, contro chi non riusciva ad assicurare l’incolumità dei cittadini, mettendo a repentaglio le loro vite per incapacità professionale. Poi rincarava la dose: Quanto dovremo ancora aspettare per avere giustizia? E’ possibile che l’autore degli efferati delitti resti impunito? L’articolista si dilungava poi nella mancanza di tutela dei più deboli, Un’anziana indifesa che non faceva male a nessuno, mettendo in mostra un moralismo di prim’ordine, dimenticandosi di essere al servizio di una multinazionale che, oltre alla gestione di vari giornali, aveva costruito un’infinità di mine, su cui era saltata una quantità immensa di vittime innocenti un po’ in tutto il mondo, soprattutto nei Paesi più poveri. Al colmo della sventura, mentre stava finendo il maledetto e odiato budino, giunse la telefonata del questore. Non ci fu né buongiorno, né buonasera ma una frase mitragliata all’impazzata che non concedeva repliche. «Allora cosa fa? Dorme? Non li legge i giornali? Si decide o no a darsi una mossa?»
Le contò: erano quattro domande a ripetizione che potevano esse ridotte a una: «Allora, 'r budello di tu’ ma', nato d'an cane, ti movi o no?» «Va bene questore, la terrò informato sulle novità!» gli rispose il Lonzi, ma quello, incazzato, aveva già buttato giù la cornetta del telefono. Il commissario ritenne che il Rossi avesse pensato che a Livorno c’è ponci ‘n der cervello, però effettivamente come si diceva in città da secoli: Nulla è un po’ po’ino e più o meno quello era il risultato che aveva ottenuto, cioè nemmeno Teste e lische. siccome, però, Se ‘un piangi,’un puppi, cercò di darsi una mossa, anche se non fu una cosa facile. Ripercorse con la mente tutto quello che aveva notato nella casa della povera signora Belli. La vecchia era come sepolta viva nel suo appartamento, ermeticamente attaccata ai suoi ricordi e l’unico spostamento che faceva frequentemente era quello di avvicinarsi alla finestra e stare col naso schiacciato sul vetro a osservare la vita degli altri, perché la sua era inutile e meschina. Povera donna! pensò il Lonzi che di umanità sofferente se ne intendeva per averla sperimentata direttamente sulla sua pelle. Forse la signora Belli stava patendo la fame, proprio com’era successo a lui da bambino, perché aveva trovato il frigorifero desolatamente vuoto. La povera vecchia non era morta da un’eternità, giacché era ato solo un giorno dal suo assassinio e qualcosa doveva pur esserci là dentro e invece niente, nemmeno un cartoccio di latte, un uovo o un tozzo di pane. La vecchia era sola come un cane, anzi peggio del suo Beppe che almeno aveva lui. Poi si ricordò che anche la signora Belli aveva un gatto che le faceva compagnia. Entrando nell’appartamento si era guardato intorno e non lo aveva visto. Sperò per lui che avesse trovato un altro padrone che gli volesse bene come la vecchia, anche se non sarebbe stato facile, perché nello sgabuzzino dell’appartamento aveva trovato il sacchetto dei croccantini pieno a differenza del frigorifero vuoto. La vecchia preferiva farsi mancare qualcosa, piuttosto che dare privazioni al suo gatto. A quel punto il povero animale gli fece pena, sottratto a un bene così prezioso. Considerò però che il gatto fosse abbastanza furbo e forse, grazie alla sua
astuzia, sarebbe sopravvissuto, almeno lo sperò con tutti i suoi sentimenti.
Il giorno dopo ritornò nell’appartamento della vecchia. Si mise a sfogliare gli album di fotografie che trovò nel canterale. L’aveva già fatto la prima volta, subito dopo l’omicidio, ma in modo superficiale. Adesso doveva studiarli attentamente, carpire i loro segreti celati nelle immagini, ammesso che ve ne fossero. Pensò di violentare la vita della donna, la sua stessa anima, di penetrare in un’intimità che non gli apparteneva e, prima di iniziare l’osservazione di tutti quei momenti di vita, rimase indeciso se procedere o no. Pensò poi che la stessa Beatrice Belli lo avrebbe autorizzato, perché la sua morte gridava giustizia e siccome Il fine giustifica i mezzi, come diceva quel cazzabúbolo di Machiavelli, doveva andare avanti. Il professore di filosofia, che aveva al liceo, era sì una rottura di palle, ma tutto quello che gli aveva spiegato gli era rimasto in testa e soprattutto era spesso applicato nella vita pratica molto più delle formule d’algebra o di fisica che non gli erano più servite a un kaiser. Dalle foto scoprì che la vecchia era stata da giovane dritta come un fuso e che non era stata come La signora del Cignù che c’ha na’ fame e’ ‘un ne pole più. Occhio nero, pelo biondo, è la più bella del mondo! e lei era appunto così negli anni verdi, una splendida fanciulla, sicuramente ammirata da molti maschi. S’intravedeva la caratteristica coscia lunga, taglio fine e siccome ’r morbido spacca ‘r duro, tanti sarebbero voluti entrare in quella dolce fessura, pensando che era meglio ‘n quer corpo lì che in fanteria. Ritenne di mancare di rispetto alla defunta, tirando fuori quei pensieri osceni, ma sapeva per esperienza che alle donne piacciono i complimenti, anche quelli indecenti, e che se li vogliono sentir dire nel letto per godere meglio. La Belli li avrebbe apprezzati in gioventù e sicuramente non si sarebbe scandalizzata, lei come tutte le altre donne nel ato, nel presente e nel futuro, anche se quasi tutte fanno finta di offendersi e solo le più sincere ammettono di apprezzarli.
La donna da giovane era stata splendida e aveva avuto in sé tutte le potenzialità per suscitare sentimenti incontrollabili, però molta acqua era ata sotto i ponti. La vecchia aveva troppi anni e le ioni, inevitabilmente erano lontane e ormai perse nel tempo. Un nuovo amore per lei sarebbe stato come un impacco d’acqua calda su di una gamba di legno e valeva il detto labronico per dichiarare una cosa quando diventa inutile che si confaceva alla circostanza e cioè gli fa come il cazzo alle vecchie. Il movente dell’uccisione di Beatrice Belli, quindi, andava cercato altrove, probabilmente in questioni d’interesse o ricatto, anche perché probabilmente la sua morte era in qualche modo legata a quella dello strozzino Wladimiro Bianchi. Una volta sceso a pianterreno decise di chiedere lumi al portinaio sulle eventuali amicizie della vecchia. Gli aprì con le solite ciabattine rosa ai piedi e dopo un po’ di tempo. Al Lonzi, mentre aspettava davanti alla porta, gli parve di sentire una voce dall’interno che somigliava a quella del suo amico Piero Lunghi, ma non entrò neanche. Pensò solo che ci fosse di mezzo una vera ione, perché dopo tutto quello che era successo, se i due continuavano a frequentarsi, si amavano veramente. Rimase al di fuori della porta, in attesa della risposta che venne di lì a poco. Non chiese neanche di entrare per l’informazione e se la fece dare sulla porta. Andrea Rossigni gli comunicò che, in effetti, un’amica, la vecchia ammazzata, ce l’aveva, ma non poteva spostarsi, perché soffriva di crisi di panico e non osava mettere il naso fuori di casa. La Belli talvolta l’andava a trovare anche se raramente. Si chiamava Silvia Landi e abitava in piazza Due giugno 23.
DODICI
Era un giorno di scuola e impressionavano le frotte dei ragazzi all'uscita. In quella piazza erano concentrate tutte le scuole professionali della città. Erano le tredici e trenta. Si stava scatenando l’euforia degli studenti, che a gruppi s’incamminavano, a o veloce, verso casa o si rizzavano sui motorini per fare i ganzi con le bimbe, che un li caàvano nemmeno uno spillo. Fece vari dribbling fra le tante auto posteggiate a cazzo di ‘ane per giungere al portone dell’amica di Beatrice Belli. Sperò per lei che fosse dura d’orecchi, così avrebbe sopportato meglio la confusione delle mandrie studentesche, che uscivano ed entravano da scuola per allargare le fila dei disoccupati. Silvia Landi era una curiosa signora d’altri tempi, che si ostinava a lavorare con la macchina per cucire, una di quelle di antiquariato con i ghirigori dorati e il pedale. Era talmente malmessa che l’ispettore Lonzi si chiese come fe a confezionare degli abiti, delle camicie o che altro. Per chi e per che cosa gli sfuggiva. Chi avrebbe avuto interesse a chiederle dei lavori del genere, considerando il tempo che ci avrebbe messo e la fretta della gente? La macchina da cucire era forse solo un atempo per sopravvivere e ingannare la morte. La sua amica Beatrice Belli invece non ce l’aveva fatta e non era neanche deceduta per morte naturale. La vecchia gli offrì un tè, l’unica cosa che teneva in casa, in una tazzina di vera porcellana che recava, forse dipinto a mano, un ramo di un albero di limone così come di limone era quella piccola scorza che galleggiava in un liquido giallastro e assai opaco che emanava un fetore di lezzo. Il bordo della tazza era nerastro, quasi listato a lutto, come se porgesse le dovute condoglianze a un’amica del
cuore. L’ispettore si chiese quanti mai anni avesse avuto la bustina di tè che, dopo tanto tempo, aveva avuto l’onore di immergersi nell'acqua bollente. L’epoca del suo acquisto doveva risalire pressappoco a quella in cui era stata lavata rigorosamente a mano la tazzina che conteneva il torbido succo. Aveva accettato l’offerta del tè e ora la tazza bollente giaceva nelle sue mani titubanti che non avevano minimamente immaginato lo schifo. Si rivolse alla donna dopo aver trovato un motivo decente da presentare: «Mi scà, ma mi sono ricordato solo adesso che il mio medico mi ha proibito in maniera assoluta di prendere qualsiasi tipo di tè. Sa, per via dell’allergia.» «Mi aveva detto, però, che lo voleva, se no non glielo avrei preparato!» «Mi scusi signora, ma il tè mi piace talmente che spesso mi scordo di quello che mi dice il mio medico… » «E allora lo prenda, cosa vuole che sia per una volta!» «Eh no, signora Landi, non posso davvero, andrei incontro a un attacco di allergia con forti probabilità di broncospasmi con conseguente auto soffocamento o crisi cardiocircolatorie irreversibili!» La vecchia, molto suscettibile ai paroloni attinti dalla scienza medica e, vista l’età avanzata, anche al solo pronunciamento di patologie complesse e per lei sconosciute nei nomi, lasciò stare e non insisté più sul tè, ma ò ai pasticcini: «Allora, un pasticcino lo gradisce? Aspetti che glieli vado a prendere. . .» «No, la ringrazio per la sua gentilezza, ma ho avuto un disturbo di stomaco proprio ieri sera!». Il Lonzi pensò sarcasticamente se quei pasticcini risalissero all'epoca dello Sbarco dei Mille di Garibaldi e che a mangiarli si sarebbe di nídio acchecchinàto lo stoma’o.
A parte le battute, che Nedo si raccontava nella testa, perché la vita è ‘na barzelletta e chi la racconta meglio va in paradiso, era giunto a una conclusione logica. Proprio attraverso la tazzina e il tè, che facevano onco ai ba’i, s’intuiva che quella casa non era frequentata e da un bel pezzo nessuno ci metteva piede. Forse solo la vecchia Beatrice Belli, potente nell’udito, ma probabilmente debole nell’olfatto, c’era capitata qualche volta. Lo confermarono anche dei testimoni, i quali dichiararono che la Landi non riceveva mai visite. L’unica eccezione era appunto Beatrice Belli che ogni tanto l’andava a trovare. «E di cosa parlavate nelle vostre interlocuzioni?» chiese il Lonzi, alla prima domanda vera dopo i convenevoli. «Come scusi?» gli disse la vecchia che evidentemente non aveva capito e aggiunse: «Interlocuzioni? O cosa sono. . . roba da mangià?» «No, mi scusi, volevo solo sapere di cosa parlavate» affermò il commissario, pensando che la donna avesse frequentato a malapena la seconda o terza elementare, e chiedendosi, lui così rozzo, da dove avesse tirato fuori quel termine da sciabolino dell’Accademia Navale. La Landi si aprì alle chiacchiere, anche troppo. Avrebbe voluto parlare di tutti gli argomenti affrontati con l’amica. Sarebbe stato possibile scrivere un almanacco, come il soffitto di quella stanza, che aveva i travicelli di legno intarlato e la coppale smessa, ma soprattutto era alto almeno quattro metri. Dopo le scorciatoie e le sintesi suggerite dal commissario, gli argomenti essenziali si ridussero a tre, cioè le malattie, i ricordi e su come divertirsi, avendo potuto disporre di denaro e are così al meglio il poco che restava da vivere.
«Sa,» disse la vecchia all'inizio «parlavamo soprattutto dei nostri dolori romantici!» «Ah capisco, le vostre delusioni amorose. Dunque, vi consolavate a vicenda…» Lo disse, ma non ci credeva. La donna dubitò fortemente dell’intelligenza del commissario. «Ma quale amore e amore si parlava dei dolori all’ossa!» «Ah capisco!» fece a quel punto il commissario «Allora lei intendeva dire . . . dolori reumatici!» «E appunto, io cosa ho detto?» rispose la vecchia. «Ci siamo fraintesi signora, solo fraintesi. . .» La donna lo guardava interrogativa, perché la parola fraintesi le ricordava solo un frantoio, ma ora erano tutti spariti da quel dì e fece finta di nulla. Il Lonzi lasciò stare e la Landi continuò a parlare. I ricordi, che la vecchia sciorinò, erano tanti e riguardavano un lontano ato, dove gli omicidi più frequenti erano quelli legali di una guerra. Raccontò al Lonzi dei bombardamenti, delle battaglie aeronavali e dei cannoneggiamenti, dove avevano perso la vita non solo soldati e marinai, ma anche una caterva di donne, vecchi e bambini, poveri innocenti che non avevano fatto male a nessuno. Tutti erano stati assassinati secondo la legge del più forte e gli omicidi continuavano ancora, in altre parti del mondo, come se la storia avesse dimenticato se stessa, perché la storia siamo noi. Continuavano, quindi, i morti sepolti sotto le macerie e gli annegati nei sottomarini o nelle navi per la gioia dei pesci che se li mangiavano e i piloti di aereo che si schiantavano al suolo diventando pulviscolo. Poi, con l’andar degli anni anche i sopravvissuti alla sua guerra l’avevano
lasciata sotto il peso degli anni per morte naturale. La vecchia, in mezzo a tutte quelle facce fotografate in bianco e nero, si sentiva una sopravvissuta allo sfacelo. Nedo ritenne che in quegli album non avrebbe trovato alcun assassino da arrestare e le antiche immagini non lo avrebbero portato da nessuna parte. I divertimenti, quelli sì invece, potevano condurre a qualche sbocco, perché riguardavano il presente o un ato recente vicino all'omicidio. Venne fuori il desiderio di una bella vacanza per l’estate, una bella crociera per esempio. Il desiderio del viaggio non venne espresso dalla vecchia nella stessa forma che avrebbe usato uno studente di Oxford o Cambridge, ma fu efficace lo stesso. «Volevamo levacci un po’ di ‘ulo, insomma dè… fa come ir Baglioni e levassi dai coglioni. Fa’ ‘na bella girata per mare, anda’ in Grecia, perché ci piaceva. Boia deh! Non c’eravamo mai allontanate da Livorno, ma la crociera costa!» La Landi continuò: «Però Beatrice me l’aveva promesso. Ci andremo, mi aveva detto siura, con quali vaini poi? Scianguinava dalla miseria!» «Ma lei era si’ura… presto ci saremmo ite!» Il commissario si ricordò del biglietto trovato: LA CROCIERA COSTA. Comprese che nel leggerlo aveva equivocato, perché la scrittura era in stampatello e aveva scambiato la C di costa per una lettera maiuscola. Non era, infatti, il famoso nome della compagnia di navigazione Costa, ma la semplice constatazione che per fare quel viaggio ci volevano molti euro. Dove si sarebbe procurati quei soldi la vecchia?
TREDICI
Nei giorni successivi le indagini subirono un sussulto. Il questore Rossi aveva richiamato, in soccorso della sua rispettabilità professionale, il Ris di Roma, per ricercare maggiori indizi negli appartamenti delle due vittime. Non si era limitato a questo: aveva anche chiesto di riesumare il cadavere di Wladimiro Bianchi per farne un’autopsia più accurata rispetto alle indagini approssimative, che avevano dato corso al primo processo, indebolito dalla convinzione da parte delle autorità di aver già trovato il colpevole. I carabinieri del Ris, questa volta, avevano spulciato ancor di più tutto quanto fosse possibile. L’indagine era stata minuziosa, perché il principale imputato era uscito indenne dai sospetti e il processo andava rifatto completamente. Era stato necessario sottoporre gli appartamenti a tutti gli esami possibili e immaginabili, ma ne era valsa la pena. Alla fine erano emersi un capello, rimasto miracolosamente attaccato al battiscopa della stanza del delitto e residui di pelle nelle unghie del vecchio usuraio. L’autopsia sui miseri resti di Wladimiro Bianchi aveva rivelato nelle unghie la prova concreta della sua difesa disperata nei confronti dell’assassino. Le tracce organiche della pelle e del capello nel battiscopa appartenevano, però, a due persone diverse, così come un altro capello, ritrovato, questa volta, sul vestito dell’anziana Beatrice Belli, era di una terza persona. Il DNA parlava chiaro: apparteneva a un individuo con una mappa genetica differente dagli altri due. La soluzione del caso si presentava, quindi, più complicata del previsto. C’erano forse non uno, ma più assassini, con la possibilità che i due omicidi non
fossero per niente collegati tra loro. Furono sottoposti all’esame del DNA tutti i condomini e saltò fuori che la pelle nelle unghie del morto corrispondeva alla rumena Tamara Rusic. Andava interrogata più che subito e il compito toccò proprio al commissario Lonzi.
Tamara Rusic era una ragazza prosperosa che faceva venire in mente ai maschi un’unica idea. Lo ricevette nella sua abitazione e lo accompagnò alla poltrona di sala, ancheggiando in maniera vistosa. Donna ‘he dimena l’anca, è puttana o po’o ci manca! pensò il commissario. Lasciò l’idea malsana che gli stava per venire in mente, ando direttamente all’interrogatorio. «Mi hanno detto che lei svolgeva dei servizi in casa del signor Bianchi, è vero?» «Sì, circa tre volte la settimana, ma lavoravo come collaboratrice domestica anche in altri appartamenti.» Il Lonzi considerò che anche lui avrebbe volentieri collaborato con lei, vista la coscia piuttosto lunga e il desiderabile balconcino che si trovava davanti e forse non era l’unico che la pensava così. Magari qualcuno da cui andava a servizio non la pagava solo per le pulizie. «Dov’era il giorno dell’omicidio del signor Bianchi?» le chiese deciso, dimenticandosi in quel frangente anche del culo sodo della donna. «Ero a fare shopping in centro città, perché era il mio giorno di festa.» «Che rapporti aveva con la vittima?» le domandò. «In che senso, scusi?»
Il Lonzi cambiò tono della voce, riconoscendo a se stesso di aver commesso un errore nel porre la domanda che poteva prestarsi a qualche equivoco. Si morse le labbra e poi continuò come se nulla fosse. La donna, però, non si era per niente scomposta e rispose tranquillamente, trascurando l’eventuale malignità della domanda, ammesso che l’avesse capita: «Avevo buoni rapporti con il signor Bianchi, lui era molto disponibile per qualunque cosa.» «Era pagata regolarmente per i suoi servizi?» «In genere sì, solo qualche volta non pagava, lasciando degli arretrati, ma raramente.» La Rusic, però, aveva commesso l’errore di confidarsi con i condomini per i mancati pagamenti del Bianchi e il portinaio, pur di far uscire lui stesso e il suo amico Lunghi fuori dai guai, non aveva esitato perfino a giurarglielo. Più sospettati c’erano e più rapidamente lui e il suo amico sarebbero stati esclusi dall’inchiesta per l’omicidio dell’usuraio, ma questo la donna non poteva ancora saperlo. Quindi il Lonzi continuò imperterrito mettendo il dito nella piaga: «A me non risulta che i pagamenti avvenissero regolarmente, anzi! Come lo spiega?» «No, guardi, le risulta male, perché i pagamenti del signor Bianchi erano regolari.» « Lei sta dicendo tutta la verità, vero?» «Certo che sì!» rispose la Rusic. Il commissario non era per niente convinto della sincerità della donna. Il Bianchi era un taccagno e tra le due ipotesi era molto più probabile quella del portinaio, il quale lo descriveva come uno che elargiva difficilmente quattrini. Del resto anche la vecchia morta ammazzata aveva detto che la vittima aveva il
braccino corto e sganciava soldi con difficoltà. La donna vide che la faccia del commissario rimaneva dubbiosa e ripeté ancora una volta: «Certo che mi pagava!» e si zittì definitivamente. A quel punto al Lonzi non restò che dirle: «Grazie per la collaborazione signora!» Si alzò dalla poltrona e raggiunse l’uscita dell’appartamento con più dubbi di prima. L’unica certezza era rappresentata dal fatto che una traccia consistente, per giunta tra le unghie dell’assassinato, apparteneva proprio a lei. Decise di non comunicale ancora niente di quel che sapeva, aspettando il momento più propizio per spiattellarglielo in faccia e magari farla cadere in trappola. Voleva, però, capirne di più. Ci potevano essere stati dei contatti di vario tipo tra l’uomo e la rumena. Sarebbe stato possibile che in un ipotetico rapporto sessuale, il Bianchi, in un momento di eccitazione, si fosse lasciato andare a qualche effusione sadica, graffiandole in maniera un po’ più consistente la schiena o altro, ma sembrava essere un’ipotesi remota, anche se non del tutto trascurabile, perché il vecchio era piuttosto malandato. Tamara Rusic non era di quelle che si piegavano a novanta gradi con lo strofinaccio per pulire. Per faccende di altro tipo sì, probabilmente aveva preso più schizzi lei che li scogli di ‘alafuria, ma forse non era quello il caso della perdita di pelle nelle unghie del vecchio Bianchi. Gli venne poi in mente il suo fidanzato, l’armadio a quattro ante, che sottopose alla prova del DNA e i risultati furono sorprendenti, perché la seconda traccia e cioè il capello ritrovato appiccicato sul battiscopa della stanza del Bianchi corrispondeva proprio al suo. Molto probabilmente i due fidanzati erano stati insieme nella stanza del morto. E cosa ci facevano in compagnia del povero Wladimiro Bianchi, una persona che
non faceva mai entrare estranei in casa sua, meno che mai il fidanzato della sua governante tuttofare?
Quando si presentò al commissariato, Roberto Galli, fidanzato di Tamara Rusic, simpati’o come un gatto attaccato a ‘oglioni, si caò addosso, tremando come una foglia. Ne aveva visti diversi come lui, che frequentavano le palestre per gonfiarsi i muscoli con gli anabolizzanti per rendere più sopportabile una vita ordinaria. Sotto la doccia mostravano di solito il loro tallone d’Achille: due palline esigue e un carattere molto fragile nei momenti difficili che si potevano presentare nella vita. Ora il tipo si trovava di fronte proprio a uno di questi. Dei due, tra lui e la fidanzata, era sicuramente quello più debole di fronte a un interrogatorio, mentre la sua donna sembrava più dura delle pine verdi. Il commissario Lonzi gli mitragliò ostinatamente le domande finché non si afflosciò come un sacco vuoto. Iniziò con la solita prassi consolidata mettendolo apparentemente a suo agio. «Buongiorno signor Galli, come sta, tutto bene?» La frase fu condita con un largo sorriso prima di are al resto: «Conosceva la vittima, il povero signor Bianchi?» «Non è che lo conoscessi bene. Sapevo di lui dalla mia fidanzata, ma non ho mai oltreato la soglia del suo appartamento. Accompagnavo Tamara e, alla fine del lavoro, la tornavo a riprendere per uscire insieme. «Quindi, lei afferma che non è mai entrato nell’appartamento del Bianchi?» «Mi limitavo a suonare il camlo e ad aspettare fuori della porta, in attesa che lei uscisse. No, non sono mai entrato… perché non dirglielo? Se l’avessi fatto glielo direi.»
Non sembrava affatto convinto delle parole che stava pronunciando e, nel frattempo, era sbiancato in volto. Roberto Galli e i suoi possenti muscoli si stavano letteralmente sciogliendo come il burro. Si stava ingobbendo sotto la pressione delle domande. Assumeva sempre più una posizione fetale, raggomitolandosi su se stesso, per offrire maggiore protezione alla sua insicurezza. Il Lonzi ò ad altro: «Il signor Bianchi pagava regolarmente la sua fidanzata?» «Sì, certo, lei non si è mai lamentata con me, perché lui non la pagava.» Si stava riducendo sempre di più e il suo corpo sembrava sempre più conforme alle sue probabili minuscole palle. «Lei e la sua fidanzata non avete mai litigato con la vittima, vero?» Il commissario stava cuocendo a fuoco lento il pollo d’allevamento gonfiato dal doping. Gli rivolse infine l’ultima domanda che si era serbato come botto finale decretando l’inizio del suo incubo futuro: «Allora cosa ci faceva nella stanza del Bianchi?» «Che cosa dice commissario?» rispose il Galli che, in quel momento, sembrava più morto che vivo. «Abbiamo trovato due tracce organiche nella camera della vittima, caro signore, che corrispondono alle sue e a quelle della sua ragazza.» Gli parlò del suo capello sul battiscopa e della pelle della fidanzata nelle unghie del defunto. L’uomo sembrava aver perso completamente la parola. Rimase fermo come un baccalà in salamoia. Al commissario non restò che dirgli: «Mi dispiace, ma poiché non collabora,
sono costretto ad arrestarla!» e così chiuse il suo interrogatorio.
Quando il poliziotto lo portò via ammanettato, fu costretto a chiamare un suo collega, perché non ce la faceva a sostenerlo. Lui non si reggeva più in piedi per la paura, nonostante le palestre e i vistosi muscoli delle gambe, che non riusciva più a utilizzare neanche per camminare. Tamara Rusic si mostrò decisamente più refrattaria del fidanzato e non era lei l’elemento debole su cui contare per una confessione, ammesso che fossero proprio loro due gli autori del delitto Bianchi, anche se rimaneva l’incognita dell’omicidio della vecchietta, per il quale non era stato trovato alcun indizio che li riguardava. La traccia della pelle e quella del capello potevano poi essere state lasciate anche in tempi diversi da quello dell’omicidio, ma naturalmente non gli sembrò il caso di specificarlo proprio al Galli per non dargli alcuna possibilità di difesa. Contava sulla testimonianza del Rossigni, sul rumore di i sentito dal portiere mentre era al cesso. Il Rossigni affermava che le persone potevano essere proprio due, di cui una sicuramente portava i tacchi alti, ammesso e non concesso che anche il portinaio mentisse, perché aveva un ottimo movente per far fuori lo strozzino. I due, supposto che fossero loro gli assassini, potevano anche essere in combutta con un terzo complice che aveva eliminato per qualche motivo la povera Beatrice Belli, ma completamente sconosciuto rimaneva il movente del delitto, ammesso che ve ne fosse poi uno e che la vecchia non fosse stata uccisa in un impeto di follia da un pazzo o da un tossicodipendente in cerca di soldi per la dose giornaliera. Il Lonzi, però, credeva poco nelle coincidenze fortuite e due delitti nello stesso palazzo gli sembravano decisamente fuori dalla statistica. Poteva anche darsi che le tracce lasciate dai due fidanzati non fossero in relazione con il delitto, ma rimaneva il forte sospetto, collegato all’ingresso del Galli nell’appartamento che lui, mentendo, aveva negato, mentre la prova era
inoppugnabile perché gli accertamenti del Ris erano inconfutabili. Cercò, nel successivo interrogatorio con Roberto Galli, di agire come un giocatore di poker e di bleffare, confidando sull’ingenuità del giovane e sulla sua debolezza mentale, che gli pareva quasi ovvia. Con Tamara Rusic ci aveva già provato inutilmente. Gli aveva spiattellato in faccia la prova inoppugnabile della pelle ritrovata nelle unghie della vittima. La ragazza teneva duro, facendo finta di non capire e non poteva essere raggirata più di tanto. Sicuramente, vista la popò di roba che si portava appresso, avrebbe trovato in un battibaleno un avvocato compiacente alle sue formosità che l’avrebbe subito fatta liberare nel caso fosse stata arrestata…e trombata poi ripetutamente. Chi ha potta ha pane, chi ha cazzo more di fame! pensò il Lonzi. A Nedo non restò che tornare dal fidanzato, un tipo sicuramente più malleabile, che non era in grado di trovare avvocati di grido disponibili, sia per mancanza di soldi sia per un ipotetico pagamento in natura che difficilmente sarebbe stato accettato.
Andò a trovare il palestrato direttamente nella cella. Lui scattò in piedi al suo arrivo e piegò la testa nel saluto in modo schifosamente ossequioso. Aveva un volto emaciato e gli tremavano le mani per l’emozione. Il Lonzi ò ai convenevoli di rito che non venivano fatti certo a caso. Bisognava far intravedere al succube un’indole umanitaria da parte dell’inquisitore, che poteva lasciare spazio a un’eventuale libertà, magari vigilata:
«Allora, come va signor Galli? Come se la a in guardina? Mi dispiace molto, sa? Se dipendesse da me, la lascerei andare anche subito…» «Non mi prenda in giro commissario. Come vuole che vada... sto male… Un’esperienza così non l’avevo mai fatta!». «Dentro però c’era già stato!» gli rispose il Lonzi. «Ma non con l’accusa di omicidio!» gli replicò accorato l’altro. «Guardi che dipende da lei, se è chiuso qui dentro. Dipende solo da lei e questo lo sa bene. Basterebbe che lei collaborasse!» «Se lei potesse solo aiutarmi e farmi uscire!» piagnucolò l’omone, messo in brache di tela dalla situazione carceraria. «‘r se è ‘r patrimonio de’ ‘oglioni!» gli rispose il commissario labronico e poi aggiunse: «Mentre ti stai a vota’ le scatole in carcere, quella si diverte e tu continui a stare zitto!» «Che cosa vuol dire commissario... non mi faccia stare sulle spine, non capisco!» «Vuol fare forse delle insinuazioni sulla mia ragazza?» «La tua bella non è una delle ragazze del Logo Pio che mangiano, bevono e pensano a Dio!». «Non capisco!» esclamò Roberto Galli. Non si rendeva conto che il Lonzi lo stava lavorando ai fianchi, nonostante il gran fascio dei suoi muscoli. «Si vede che sei un bravo ragazzo che non conosce il mondo. Va bene che sotto le lenzòla ‘un c’è miseria, ma poi ‘r miele a, la luna resta e ora a t’è restata la luna, storta per giunta!» Il giovane si era fatto pensieroso. Il commissario sembrava mostrarsi amico, gli stava dando del tu e parlava in dialetto. Finalmente cominciò a intuire qualcosa di negativo sulla sua ragazza, tuttavia non osava ancora afferrare del tutto la realtà descritta dal Lonzi. Una presunta verità che stava decretando la sua fine in
un carcere, in mezzo al menefreghismo generale, compreso quello della sua fidanzata. «Si riferisce forse a Tamara? Cosa c’entra la mia fidanzata con la galera… Lei mi vuol bene, ne sono sicuro!» strillò turbato il giovane. «Povero bischero!» dichiarò Nedo, in maniera più esplicita al malcapitato. Era l’unica cosa su cui non stava mentendo, tutto il resto era solo aria fritta, che faceva mangiare all’omone affamato, una realtà fittizia che gli stava fuggendo via. «La tua bella ora è fuori!» disse il Lonzi. Fece are alcuni secondi, in cui lo fissò negli occhi in attesa di una sua reazione, ma quello rimase inebetito. Aggiunse poi: «C’è da scommetterci che se la starà sando con altri. Credo proprio che i pretendenti non le manchino e nemmeno le sue elargizioni sessuali agli uomini vogliosi, visto che a lei piacciono molto i quattrini.» «Che cosa dice commissario, la mia fidanzata è una donna onesta!» «Tórsolo che ‘un sei altro!» gli urlò il commissario e poi continuò: «Me l’ha detto lei stessa che zebàva col vecchio, tutte e tre le volte della settimana se gli s’arrizzava l’uccello! Ha già confessato. Cosa credevi, che a casa sua sarebbe stata a riama’ coll’uncinetto?!» Il commissario terminò momentaneamente il suo discorso e scrutò ancor di più l’atteggiamento del recluso. Gli occhi del Galli non avevano mai smesso di guardare il pavimento per tutto il tempo dell’interrogatorio. Quella fissità di sguardo dimostrava tutta la sua delusione per essere stato beffato da tutti, compresa la sua amata Tamara. Il commissario osservò il suo stato di estrema frustrazione e giudicò il momento opportuno per tirargli il colpaccio: «Ti ha fatto fare come San Lorenzo, pigliallo ner culo e fa’ silenzio e, infatti, tu te ne stai zitto mentre lei ha confessato incolpandoti. Gl’importa ‘na sega di te!»
«Non credo a una parola di quello che mi sta dicendo!» rispose il Galli, ma si vedeva chiaramente che stava cedendo e non era convinto della sua stessa affermazione. Stava semplicemente continuando a negare per un riflesso condizionato, perché, fino a quel momento, aveva risposto allo stesso modo, ma non credeva più in quello che diceva e neanche a se stesso. Assieme alle frasi dette gli avano altri pensieri, che non avevano alcun riferimento con quanto stava pronunciando. In contemporanea con le parole, che ribadivano l’onestà della fidanzata, i suoi pensieri andavano in altre direzioni esprimendo concetti opposti che coincidevano con quanto il commissario voleva fargli entrare nella testa, cioè che di pulito c’è solo ‘r sole e forse neanche più quello, visto il buco dell’ozono e le cifre astronomiche che stava facendo guadagnare ai dermatologi di tutto il mondo. «Senti toppóne, Tamara non ti caa nemmeno di striscio e se la sta sando. Magari è solo lei che ha ucciso il Bianchi e tu non c’entri per niente. Ci ha detto che una volta si è sbucciata un dito mentre puliva e il Bianchi, per aiutarla la voleva disinfettare, ma prima le ha tirato via dal dito un po’ di pellicina che forse gli è rimasta nelle unghie, mentre lei non riesce a capire come mai c’era il tuo capello.» Il Lonzi affilò il suo coltello mentale per demolire le certezze del malcapitato Galli: «Vuoi sape’ cos’ha detto di te?» Il commissario stava attaccando la coscienza dell’imbranato, imbrogliando le carte e continuò a spacciare per vera una confessione di Tamara Rusic che, in realtà, non c’era mai stata e quindi continuò come se la falsa dichiarazione della fidanzata fosse il vangelo: «Magari è entrato per conto suo. Io non ne so niente. Un po’ violento lo è sempre stato e poi era geloso del vecchio, non voleva neanche che lavorassi per lui. Se gli è presa la testa può essere anche entrato, magari sospettava che me la intendessi con lui e si è voluto vendicare. . .» I tempi per l’acchechinàmento di Roberto Galli erano ormai maturi e la sua rabbia esplose senza ritegno, come una scorreggia di elefante che ha mangiato quintali di foglie della foresta senza aver caáto da più di un mese: «Popò di búo di ‘ammello di donna! Proprio come la sarciccia: budello fuori e
maiala dentro. L’ho tolta dal marciapiede quel buovàdro e questa è la ricompensa!» e si lasciò andare a una caterva di definizioni che avrebbero fatto impallidire anche un frate confessore in un reclusorio di ergastolani. Il Galli si era tolto la pelle da animale mansueto e ora faceva finalmente uscire la sua vera natura bestiale, in cui la violenza predominava su tutto il resto. «Ma cosa aspetti a parla’!» gli suggerì a quel punto, molto prontamente, il commissario. Roberto Galli non si fece pregare. Si accasciò desolato sulla panca della cella e sciorinò tutta la sua confessione come un fiume in piena. Aveva avuto dei litigi anche molto violenti con la vittima, perché Tamara gli raccontava che la offendeva e voleva abusare di lei. Aveva creduto nella buonafede della donna che, invece, se la sava intascando i quattrini a sua insaputa. Continuava a fare il mestiere più antico del mondo che solo apparentemente aveva abbandonato. Lui era solo il fidanzatino cornificato, esposto in pubblico, a coronamento di una falsa vetrina di onestà che invece Tamara aveva perso da tempo immemorabile. Fu trovato anche un paio di scarpe dai tacchi altissimi, posseduti dalla Rusic, di colore rigorosamente rosso, come spesso si usa negli ambienti più fini. Per prova la donna fu fatta sgambettare per le scale e il portiere riconobbe lo stesso ticchettio del giorno dell’omicidio. Il Lonzi lo ritenne un intenditore dei tacchi a spillo, ma sperò ardentemente che la notte non si travestisse uscendo per strada a fare marchette. Gli sarebbe dispiaciuto sia per lui sia per Piero Lunghi che probabilmente lo amava alla follia. Il palestrato firmò la deposizione che inchiodava, con forti indizi sul movente del delitto, lui e la sua fidanzata, anche se aveva trovato una scappatoia per non farsi una lunga galera, perché rifiutò da subito la responsabilità di averlo ammazzato.
Nella deposizione, poi controfirmata anche dalla Rusic, messa ormai alle strette, i due non si accusavano del delitto di Wladimiro Bianchi, ma di una semplice aggressione al vecchio che non l’aveva assolutamente condotto alla morte. La rumena era stata interrogata a lungo e aveva risposto allo stesso identico modo del fidanzato. Si era presentata al commissariato su invito del Lonzi e di fronte alla confessione scritta del Galli si era seduta, accavallando le gambe e mettendo in mostra delle mutandine di pizzo nero, che Nedo avrebbe osservato volentieri più da vicino, se non ci fossero stati due cadaveri di mezzo. Aveva distolto volutamente lo sguardo dal pizzo e le aveva chiesto deciso: «Allora signorina, le prove sono concrete. Lei c’entra con l’omicidio. Il suo fidanzato ha già confessato!». «Non può aver confessato quello che non ha commesso!» rispose la donna e poi continuò con una voce rauca e piagnucolosa, giacché le sue forme non servivano a far decollare l’uccello del commissario: «Sì, abbiamo avuto una lite col signor Bianchi per problemi di soldi. Io e Roberto siamo entrati per farci dare quello che mi spettava per il lavoro, ma lui non ne voleva sapere e dalla rabbia l’abbiamo aggredito. Roberto lo ha spinto e lui è caduto… Noi non l’abbiamo ucciso! Il signor Bianchi era solo stordito e si stava riprendendo. Mi sono avvicinata per soccorrerlo, ma lui per la rabbia mi ha graffiato un braccio per respingermi ed io gli ho dato una spinta. Era sdraiato ma tentava di rimettersi a sedere sul pavimento quando siamo usciti!» «Quindi lei confessa l’aggressione. E del coltello cosa mi dice? La vittima è stata ritrovata con un coltello nella schiena.» «Niente coltello, niente armi, ci siamo limitati a spingerlo!» si giustificò la Rusic e poi aggiunse: «Lo so, è un fatto grave non averlo detto prima, ma non l’abbiamo ucciso. Ne sono sicura. Non abbiamo detto niente per non essere accusati dell’omicidio!» La donna sembrava convinta, ma il commissario ne aveva viste di tutti i colori e non poteva fidarsi di nessuno. Forse quelli erano solo dei suggerimenti degli avvocati, che li avrebbero difesi. Potevano semplicemente aver fatto concordare ai due fidanzati una stessa versione dei fatti per essere scagionati dall’omicidio.
Alla fine Tamara Rusic, prima di raggiungere anche lei la prigione di Stato dopo l’arresto, precisò piangendo: «Mi creda commissario, il Bianchi era sempre vivo! Abbiamo lasciato la porta socchiusa e da lì abbiamo visto che stava cercando di alzarsi. Era vivo commissario, mi creda, sto dicendo la verità!»
QUATTORDICI
Il questore Rossi aveva riconquistato la sua rispettabilità. I giornali ne riconoscevano il merito per aver condotto con professionalità le operazioni che avevano portato all’arresto dei due colpevoli per l’omicidio dell’usuraio. Rimaneva, però, ancora irrisolto il delitto della vecchia, compiuto, senza un apparente movente. Forse il questore si accontentava di aver acciuffato i due fidanzati, che avevano già ammesso l’aggressione e probabilmente con un interrogatorio più serrato, avrebbero finito di confessare l’uccisione del Bianchi. Per l’omicidio della signora Belli presumeva che l’assassino andasse invece cercato tra le fila dei tossicodipendenti incalliti che a Livorno non mancavano di certo. Il commissario Lonzi non credeva all’ipotesi del questore e rimuginava in continuazione alla ricerca di piste attendibili che lo portassero anche all’omicida della povera vecchia. Non poteva essere escluso che i due delitti non fossero legati tra loro, ma valeva anche l’ipotesi opposta e cioè un nesso che in quel momento gli sfuggiva e poteva saltare fuori da un momento all’altro.
Questi erano i pensieri del Lonzi che stava ancora una volta seduto al solito tavolo del suo ristorante preferito in attesa della cena. Il cameriere dal buzzo da donna incinta si presentò con un vassoio di antipasti di mare. Avanzava titubante, perché il commissario era uno che sul mangiare era pignolo e lo avrebbe fucilato se solo avesse trovato una cozza chiusa o una vongola che racchiudesse anche un solo granello di sabbia.
Lo avrebbe volentieri insultato, se il Lonzi non fosse stato un affezionato cliente del ristorante. Il cameriere aveva famiglia e voleva tenersi ben stretto il posto di lavoro, perché a Livorno avere un’occupazione era merce rara. Avere la possibilità di incassare un sicuro mensile era come essere nella condizione di un animale in via di estinzione, protetto dal WWF che continua a campare per misericordia a dispetto di tutti gli altri che, nel frattempo, hanno tirato le cuoia per l’ingratitudine umana. Per il cameriere non valeva il detto labronico Meglio esse’ disoccupato a Livorno che ingegnere a Milano. Lui non voleva sperimentarlo sulla sua pelle e si teneva ben stretto il lavoro al ristorante. Depose quindi con cautela il vassoio sulla tavola bianca, dov’era seduto il cliente non proprio simpatico. Non poté fare a meno di osservare con disgusto la caraffa di vino rosso al posto del vino bianco, chiaro e fresco. Tentennò il capo mentre il cliente era girato per non farsene accorgere e si allontanò, in attesa di ordini, verso un altro tavolo, dove si era accomodata una famiglia piuttosto rumorosa. Il commissario Lonzi non fu infastidito da quella confusione, perché aveva altro per la testa e il groviglio di pensieri che lo stava attanagliando non aveva spazio per nessuno. L’enigma di via Roma sembrava un ginepraio inestricabile. In quel pasticcio c’era capitato proprio lui e non sapeva proprio come uscirne. Non riusciva a comprendere la sicurezza del questore. Lui sprizzava ottimismo da tutti i pori della pelle. Era sicuro che il caso si sarebbe presto risolto e che i colpevoli degli omicidi sarebbero stati arrestati in pochissimo tempo. Ma cosa ava per la testa del gran capo? Non si rendeva conto di brancolare nel buio senza trovare il bandolo della matassa? Chi poteva aver ucciso lo strozzino del terzo piano? Wladimiro Bianchi si era circondato di un sacco di nemici, che avevano molte ragioni per farlo fuori. Roberto Galli per esempio, che a causa della sua gelosia e magari anche per arraffargli qualche soldo, lo avrebbe potuto uccidere non solo spingendolo all’inizio, ma anche piantandogli definitivamente un bel coltello nella schiena, magari facendo in modo di non lasciare alcuna traccia, perché purtroppo sul coltello, arma del delitto, non era stata trovata alcuna
impronta, tranne quelle del povero signor Bianchi. Il capello rinvenuto nell’appartamento era suo e su questo non c’era ombra di dubbio. Aveva l’aggravante di aver mentito negando di non esserci mai entrato. Perché non aveva detto subito la verità? Che cosa aveva da nascondere? Mentendo aveva soltanto voluto evitare delle grane e un pericoloso coinvolgimento nelle indagini, oppure voleva depistare gli inquirenti proprio perché era lui il responsabile del delitto? Tamara Rusic, la fidanzata avrebbe poi potuto compiere il delitto da sola. Lavorava a casa del vecchio e forse gli concedeva anche il suo bel corpo senza neanche essere pagata. Esasperata dal comportamento dello strozzino poteva essere anche lei giunta alle estreme conseguenze. Il Bianchi era un uomo anziano, piuttosto indifeso e non avrebbe offerto troppa resistenza anche nel caso che la responsabile del delitto fosse stata una donna. Il commissario non escludeva poi altre piste: magari i due potevano anche aver agito in coppia e avevano trovato la scusa della colluttazione senza la responsabilità dell’omicidio. E che dire poi del portinaio, il signor Rossigni, che sotto l’aspetto innocuo delle ciabattine rosa, poteva aver tranquillamente salito le scale nel momento del delitto, essere giunto al terzo piano e accoltellato il povero uomo, affinché smettesse di ricattarlo. Con astuzia poteva essersi creato un ottimo alibi, grazie alla complicità del suo amico intimo Piero Lunghi. I due potevano anche recitare la parte degli agnellini, pur potendo essere dei lupi famelici. L’alibi del Rossigni, del resto, era caduto miseramente, grazie alla sua insistenza nel chiedere lo scontrino della farmacia, nonostante che il portiere avesse tentato di tutto per non farglielo trovare. Diverse persone quindi avevano omesso la verità. Forse non erano assassini, ma solo animati dalla preoccupazione di entrare pericolosamente nelle indagini sui delitti che non avevano commesso, ma chi poteva escluderlo? Le elucubrazioni del commissario non finivano lì, perché nella sua mente si
arrovellavano altri pensieri. Questa, considerava Nedo, è soltanto una piccola parte dei sospettati, perché nel vano blindato c’era un sacco di oggetti preziosi e molti di quelli che avevano ceduto i loro gioielli erano nei guai fino al collo. I pezzettini di carta con le somme dovute accuratamente segnate, infilati nella scatola del finto libro, erano tanti e dimostravano che quasi mezza città era indebitata con il Bianchi. Silvio Nesti, il primo sospettato, poteva essere tra quelli e, come lui, molti altri sull’orlo della disperazione per non poter più pagare, avrebbero avuto un ottimo motivo per far fuori l’usuraio.
Sull’omicidio del Bianchi molti erano i sospettati, ma sulla vecchia pettegola morta ammazzata nello stesso palazzo di via Roma, il commissario non aveva la minima idea su chi avesse potuto farla fuori. A complicare le cose c’era poi il capello trovato sul suo vestito, che non apparteneva a nessuno del condominio. Chi avrebbe avuto motivo di uccidere una donna dalla vita insignificante che ormai non usciva nemmeno più, se non per andare a trovare Silvia Landi, la sua vecchia amica? Osservò il cibo apparecchiato sul tavolo cui non aveva neanche più rivolto lo sguardo da quando il cameriere l’aveva depositato sulla tovaglia. Ingoiò con l’imbuto l’antipasto di mare e tracannò in un battibaleno mezzo litro di rosso. Non ordinò nemmeno il secondo, perché i troppi pensieri gli avevano fatto are la fame. Al dolce non volle però rinunciare. Si fece portare una fettina della crostata della casa, ne mangiò avidamente lo strato superficiale di marmellata di more, prima di are al resto, che masticò appena. Infine si scolò un ponce al mandarino che gli arrostì la lingua, perché trangugiato troppo in fretta. Si alzò, pagò il conto al buzzo da cinque mesi e si avviò verso l’abitazione dell’ex signora Bianchi e di suo figlio. Considerò che, tutto sommato, fossero gli unici che avessero una ragione per
uccidere la vecchia linguacciuta, che sapeva dei loro litigi con il vecchio e, forse, erano stati proprio loro a eliminarla. Non è detto che le cose più ovvie non siano anche vere! considerò fra sé. Idee da principi, entrate da cappuccini! si ripeté nella testa per dare un senso a quello che stava facendo. Però non doveva farsi soverchie illusioni. La pista della madre e del figlio, che facevano fuori la Belli, perché avrebbe potuto fare chissà mai quali rivelazioni, era assai debole. Il commissario lo capiva bene, ma doveva percorrere comunque quella strada. Bisogna visita’ le sette ’hiese! si disse tra sé e si recò all’appuntamento che aveva fissato il giorno prima con la signora Laniero nel quartiere de La Leccia. L’incontro si rivelò un completo fallimento. L’interrogatorio nel loro appartamento non risolse proprio nulla e non mise in luce dubbi o contraddizione da parte dei due. Sia la Laniero che suo figlio Claudio ribadirono più volte che con la morte della vecchia Beatrice non c’entravano, anche perché quello che era successo tra padre e figlio era già di sua conoscenza e non c’era veramente altro. Ostentavano la loro buona fede mettendosi a disposizione delle autorità per il futuro e quando il Lonzi chiese se erano disponibili per la prova del DNA, si dichiararono pronti. Tutto questo deponeva a loro favore e il commissario fece la considerazione che la vita era complicata e le cose ovvie sono le più rare. I due, infatti, non avevano niente da temere perché il Ris di Roma appurò, in seguito, che il capello ritrovato sul vestito della vecchia Belli non apparteneva a loro e i sospetti sulla madre e il figlio della prima vittima sembrarono al Lonzi piuttosto inconsistenti. Niente, meno che niente e siccome le grazie le fa la Madonna, mi devo dare una mossa! rimuginò Nedo.
Rimaneva un’unica persona da risentire e quella era l’amica della Belli, cioè Silvia Landi. Alcuni giorni dopo la chiamò. La donna per arrivare al telefono fisso, l’unico di cui disponeva, ci mise un’eternità. Rispose infine con una voce affannata che sembrava quella di un maratoneta, giunto al traguardo dopo il lungo percorso e in piena estate con il sole che cuoce i sassi. Voleva parlare con lei al più presto, ma lo infastidiva che la povera donna si recasse in commissariato. Si rese conto che doveva scomodarla di nuovo, andandola a trovare a casa sua. La persona era molto anziana e probabilmente sopportava poco le scocciature, ma farla arrivare alla questura per rispondere alle domande sarebbe stato peggio. «Quando potrei venire a trovarla?» le chiese e poi aggiunse: «Sa…dovrei farle ancora delle domande…» «Ancora?» gli rispose «non me l’ha già fatte?» «Se vuole, vengo un’altra volta con comodo. Se non può in questi giorni, facciamo la prossima settimana, non c‘è fretta.» Nedo, in effetti, aveva furia di interrogarla. Stava mentendo semplicemente per metterla a suo agio, tanto sapeva che avrebbe accettato anche subito.» Continuò: «Aspetto volentieri, non vorrei scomodarla. Ci risentiamo. Senta, facciamo così le telefono la prossima settimana per un appuntamento. . . Certo sarebbe meglio se si potesse fare al più presto. . .» Stava per chiudere la telefonata, pensando di aver fatto il gentile in eccesso, quando quella invece rispose: «Ma sì, mi venga a trovare pure subito, tanto ‘un ch’o da fa’ ‘na sega per tutto il giorno. Venga pure commissario che l’aspetto. Magari se è allergi’o al tè, le preparo qualcos’altro.» Dopo il colloquio telefonico, il Lonzi era giunto a due considerazioni. La prima riguardava la povera vecchia che aveva bisogno di compagnia: era sola come un cane, ancor di più dopo la dipartita della sua cara amica Beatrice, e le
andava di fare volentieri quattro chiacchiere per are il tempo, anche con un maledetto commissario come lui. La seconda riguardava invece la sua incolumità personale. Era, infatti, terrorizzato dall’idea che la gentile vecchietta potesse offrirgli chissà che cosa in una di quelle dannate tazzine. Decise che non avrebbe bevuto proprio niente e avrebbe rifiutato ogni offerta con garbo. Comunicò con il cellulare a Nico De Filippo, il suo fidato e scoglionato subalterno, dicendo che sarebbe andato dalla vecchia Silvia Landi in piazza Due giugno. «Telefonami fra un’oretta,» gli disse «così guardiamo insieme come sistemare la faccenda.» Il problema cui si riferiva consisteva nel fatto che l’agente De Filippo aveva un guaio che riguardava il codice della strada. Un fottuto de carabbiniere, così lo definiva il suo subalterno, gli aveva fatto una multa sulla superstrada solo per cinque chilometri in più di quelli consentiti. «Che lo possina ‘accide!» aveva sbraitato nel comunicargli la notizia. Era uno sbotto di soldi per lui e si era raccomandato al Lonzi per farsela togliere. «L’ha fatto pecché, cumme carabbiniere, ce l’ha con i poliziotti!» aveva sentenziato con malignità il De Filippo. Voleva sfogarsi ancora a lungo con il superiore e si trattene al telefono. «Lo sfaccimme m’ha fatto o’ sgarb!» Poi aveva aggiunto: «Ce po’ fa’quaccos? Conosce nu’ sacc ‘e pesc gross, magari trova ‘u giust!» Il Lonzi non aveva tempo da perdere al cellulare. Il gestore telefonico, fra l’altro gli aveva aumentato le tariffe e in più, a lui le raccomandazioni non piacevano, quindi, aveva tagliato corto e chiuso la comunicazione con il poliziotto. Avrebbe pagato lui due volte la contravvenzione del sottoposto, prima di votarsi le scatole a chiedere favori a qualcuno. Sapeva già che tanto non conveniva, perché questo supposto qualcuno avrebbe voluto, prima o poi, essere contraccambiato con un
altro favore e chissà cosa avrebbe preteso, quindi tanto valeva pagare subito e togliersi successivi pensieri di pretesa gratitudine. Nico però aveva famiglia e quei soldi gli facevano comodo. Il commissario avrebbe voluto aiutarlo, anche se non sapeva come. Intanto sarebbe andato a interrogare la vecchia e poi avrebbe visto cosa poteva fare per lui. Di sicuro gli sarebbe venuta qualche idea in proposito. Forse tra i carabinieri ce n’era qualcuno con cui poter ragionare e fargli capire che per soli cinque chilometri in più di velocità non sarebbe morto nessuno, neanche una rana zoppa che avesse avuto la ventura di attraversare la strada in quel momento.
Lasciò stare quel pensiero e si avviò a piedi verso piazza Due giugno. Gli alberi della piazza sembravano affogare nel cemento, completamente fermi, nonostante la brezza che stava spirando. I negozi erano illuminati. Le commesse delle cartolerie si stavano dando da fare con i clienti. Una di loro era intenta a fare delle fotocopie e le porgeva a una ragazza. Gli permaneva nelle narici l’odore buono, simile a quello di quando era bambino, del negozio di generi alimentari da cui era ato pochi minuti prima. Era lo stesso delicato profumo miscelato di pane, mortadella, acciughe e un sacco di altre leccornie, reminiscenze del ato, amato e odiato, esaltato dalla fame patita dal Lonzi nell’infanzia, che gli era rimasto appiccicato nel cervello come il superattak. L’effluvio del negozio, amato e odiato, era proprio come quelle gocce di colla e gli aveva graffiato l’anima fino a farla sanguinare. Forse quell’odore legato alla pancia vuota, che molti anni prima gridava vendetta, non era stato inutile ed era servito a essere meno duro nel suo mestiere, perché erano tanti i derelitti che, nonostante i loro reati, talvolta meritavano più rispetto di tanti onesti uomini farabutti. Per andare a finire in galera bisognava rubare poco. Per non entrarci mai, invece, tanto.
Quel profumo si era attaccato alla sua vita e non lo avrebbe mai dimenticato, portandoselo fin nella tomba. Sarebbe stato con lui nella cassa da morto oppure sarebbero volati nell’aria insieme, se avesse deciso di diventare povera polvere gettata al vento, sicuramente di mare. Attraversò la piazza. Senza studenti sembrava vedova. Tutto sommato il gran casino che quei ragazzi facevano all’entrata e all’uscita di scuola era una consolazione per quegli alberi, per le panchine, per i negozi, per i lampioni, per i cartelli. Gli stessi abitanti, perennemente arrabbiati per la confusione, si sarebbero sentiti molto più soli e sicuramente anche più tristi. Guardando la scala tortuosa, che in varie rampe conduceva all’appartamento, di Silvia Landi, si chiese come la donna fosse impossibilitata a scendere e a salire tutta quella fatica, a come il suo fosse una specie di esilio forzato dall’indifferenza umana. Pensò che adesso la povera vecchia se la stesse ando molto peggio di prima, perché era morta una sua cara amica, forse l’unica che aveva e provò una profonda pietà per lei. Il portone d’ingresso era uno di quelli che sono lasciati perennemente aperti, dove c’è sempre il fetore di orina di gatto, perché è sempre lì che vanno a farla i poveri gatti randagi di città. Gatti che, quando gli va di lusso, vivono nei cortili e nei casi peggiori sono costretti a sorbirsi i sottomacchina con l’olio grezzo e il tanfo del benzene, senza contare le accelerate dei mezzi per strada, propensi a farli fuori perché portano sfortuna. Questo valeva soprattutto per i poveri gatti neri, i più sfortunati di tutti, gli sfigati nella sfiga. Nedo, mentre aspettava che la vecchia aprisse, in preda a questi pensieri, si sentiva proprio come un gatto nero, un commissario sfortunato, cercatore di notizie da una vecchia, che mai e poi mai, avrebbe potuto fornirgliele. Solo perdita di tempo, come una pisciata in mare che non lo avrebbe mai fatto crescere di livello. Udì un rumore di i che s’incamminava al piano di sopra.
La vecchia tardava ad aprire. Pensò ai suoi malanni, all’estrema difficoltà negli spostamenti, alla vecchiaia e alle malattie, alla sfiga insomma e ancora ai gatti neri ancora più sfigati e la vecchia era anche lei sicuramente un gatto nero. Suonò al camlo della Landi e, mentre stava aspettando che aprisse, sentì un rumore di i che continuavano a salire per le scale. Niente, nessuna risposta, la vecchia non si decideva ad aprire. Pensò, poi che il tempo ato da quando aveva suonato fosse davvero parecchio e si preoccupò. Si pentì di non aver raggiunto in fretta le scale e chiesto, a chi prima le stava salendo, notizie sulla vecchia. Magari sarà uscita! considerò, ma subito si accorse di aver pensato una cavolata, perché la vecchia non sarebbe mai stata in grado di andare fuori e non aveva nessuno che le potesse darle una mano in tal senso. Temé il peggio, all’eventualità che l’ultraottantenne Silvia Landi avesse potuto lasciare questo mondo nella più completa indifferenza umana. Il commissario rimuginò che alla vecchia si dovesse comunque rispetto, anche se, vista l’età, in caso di decesso non si potesse certo dire che l’avesse strozzata la balia nella culla. Si appoggiò al portone dell’appartamento senza sapere cosa fare e quello si aprì cigolando, perché era stato solo accostato. Entrò e sentì i rantoli. La povera vecchia giaceva in un angolo della cucina in una pozza di sangue. Vide un coltello accanto al suo corpo e le ferite da taglio sparse un po’ da tutte le parti. La Landi continuava a respirare, ma sembrava messa piuttosto male. Prese il cellulare per chiamare soccorso. Si ricordò poi dei i per le scale e si precipitò fuori dal portone nella speranza che chiunque fosse stato a compiere quella violenza sulla povera vecchia non
avesse ancora fatto in tempo ad abbandonare il palazzo. Non fece in tempo a uscire dalla porta. Venne colpito da qualcuno proprio sulla soglia. Sentì la sua testa risuonare come un gong e poi più niente, solo il buio assoluto.
QUINDICI
Si svegliò solo dopo diverse ore nell'ospedale. Nico era accanto a lui e non pensava più alla multa, considerando che nella vita ti può capitare di peggio. Quando aprì gli occhi il primo pensiero di Nedo fu per la povera vecchia. «E’ viva?» chiese all’agente. «E’ in coma, commissa’!» gli rispose il De Filippo. Al Lonzi stava scendendo una lacrima di compatimento, pensando alla povera donna. Indugiava pigramente sulla mascella dura del commissario e non ne voleva sapere di precipitare su questa terra. «E lei cumme sta’?» gli chiese Nico che aveva visto la lacrima. «Bene» dichiarò laconico Nedo e poi aggiunse in tono sarcastico osservando la flebo che scorreva goccia a goccia: «Fin quando c’è la salute!» Nico aveva una faccia preoccupata. Si rivolse al Lonzi: «Lo sa che ha rischiat ‘a mort... se l’assassin picchiavv chiù forte, c’avrebbe rimess ‘a pell!» «La morte ci deve trova’ vivi e ‘n bòna salute!» gli rispose il commissario, che non aveva perso la sua ironia. Il poliziotto si trattenne per più di un’ora e poi si congedò dal suo superiore scusandosi: «Sa, la mogliere, i figl, la devo accompagna’ a fa’ ‘a spes. Ci sono jurni ‘e fest e vol aiut…»
Il commissario, al di là della botta, considerò che, per fortuna, lui non dovesse rendere conto a nessuna moglie e non rientrava in una delle categorie del proverbio livornese: Tre cose ‘un si sopportano: gio’a’ di nulla, bacio di moglie e caffellatte diaccio!
Alcuni giorni dopo Silvia Landi lottava ancora fra la vita e la morte e il Lonzi riscaldava le meningi sotto il turbante bianco della botta. Siamo a guasi tre! pensava mestamente, sperando che la vecchia se la cavasse e gli omicidi rimanessero soltanto due.
Nella camera dell’ospedale ebbe tutto il tempo di riflettere. Se non appariva alcun nesso tra la morte dello strozzino Wladimiro Bianchi e la signora Belli, forse invece tra le due donne ci poteva pur essere un collegamento. Ma quale? Ora non poteva neanche chiedere nulla a Silvia Landi, che era sospesa in un limbo, da cui poteva uscire o non uscire.
Qualche giorno dopo l’andò a trovare in rianimazione. La povera vecchia era sommersa da un mare di fili elettrici e cannelli di ogni tipo, che entravano e uscivano da tutte le parti del suo corpo. I diagrammi delle macchine, che contornavano il suo letto candido, disegnavano ghirigori che lui non sapeva come interpretare, ma non promettevano niente di buono. Chiese ai medici quale fosse la situazione sanitaria della paziente, ma quelli si limitarono a scuotere la testa; uno soltanto si espose con una concisa diagnosi: «La vecchia ha una forte fibra, speriamo che se la cavi!» e niente più. Non restava che attendere.
Si augurò che la vecchia sopravvivesse per il suo stesso bene e per la giustizia che reclamavano quelli che erano già defunti, forse per la stessa mano. Lei con le sue parole avrebbe potuto rendere giustizia alle vittime. Si accorse di voler bene alla povera vecchia, nonostante le tazzine e il tè avariato. Forse era il senso di colpa per non averla saputa proteggere, ma forse c’era dell’altro. La signora Landi sembrava una delle cenciaiole del Fattori. Si presentava come una di quelle esili figure femminili, dipinte con umanità e rispetto dal pittore macchiaiolo. Il suo mondo, però, non era una pinacoteca, ma un appartamento di tazze e chicchere, un piccolo mondo crepuscolare, che tendeva a sparire dalla faccia della Terra, fagocitato dalla violenza.
Il Lonzi non sapeva pregare e non pregò. Per lui, se fosse esistito un dio, non si sarebbe accontentato delle preghiere o dei ceri, che bruciavano nel chiuso, mandando per l’aria il loro fumogeno di speranza. Talvolta si immaginava il suo dio che chiedeva all’anima: «Che cazzo hai fatto nella vita?» S’immaginava il suo dio un po’ sboccato come lui, ma estremamente giusto. Forse il Lonzi applicava troppo alla lettera il significato a sua immagine e somiglianza che aveva appreso al catechismo da bambino. Con la mente fantasticava il dialogo che, essendo lui un commissario, sembrava più che altro un interrogatorio. Del resto pensava che la pena in ballo fosse peggiore dell’ergastolo. Sulla dannazione eterna non si poteva scherzare, non ci sarebbe stata alcuna possibilità di appello e tanto meno di Cassazione. «Nella tua vita terrena hai mai rotto le palle?» Avrebbe chiesto il suo dio, senza dare il tempo della risposta all’anima, dannata o santa, che gli stava davanti. Immaginava poi un’altra domanda
dell’extracaposupergalattico, che dominava l’ambiente da dove stava parlando e non solo ma cielo, terra e ogni luogo: «Erano tanti?» «Cosa?» avrebbe risposto a quel punto il malcapitato, forse un po’ frastornato dalla troppa luce celestiale. «Lo sai a cosa mi riferisco. Quelli a cui hai rotto i coglioni! Non fare lo gnorri e rispondimi subito. Va bene che ho in mano l’eternità, ma comunque non ho lo stesso tempo da perdere e quindi datti una mossa e parla!» Lo avrebbe chiesto, proprio Lui, con quel tono, un Onnipotente, fatto a immagine e somiglianza di Nedo Lonzi, sapendo già benissimo la risposta. Se l’anima, che non aveva ancora il biglietto né per il paradiso né per l’inferno, si fosse mostrata indecisa, gli avrebbe comunque riformulato la domanda in altro modo, perché non solo gli intelligenti e i colti hanno il diritto di andare in paradiso, ma anche gli scemi e gli ignoranti, che devono avere almeno questa possibilità dopo la morte, giacché in vita non l’hanno mai avuta. E il dio immaginato dal Lonzi non era meno onnipotente degli altri, comunque si chiamassero e queste cose le capiva benissimo. «Hai fatto più bene o più male a quelli come te, sai quelli che camminano con due piedi e che hanno due braccia e una testa?» Poi avrebbe aggiunto per essere più preciso e per rispetto di tutti, sennò cosa cazzo li aveva creati a fare gli altri esseri? «Ah, a proposito, non hai mica fatto del male anche a quelli che hanno due, tre, cinque zampe o tentacoli o non so neanche io cosa, a quelli che hanno le lische e le squame, a quelli che strisciano, che si arrampicano o che so io. . . Ne ho fatti talmente tanti… sai quelli che voi della Terra chiamate animali?» A quel punto il Lonzi s’immaginava che il suo dio guardasse l’anima in trasparenza per vedere se avesse capito e poi per spiegare ancora meglio gli precisasse: «Insomma, le mie creature. Quelle che i preti, ma non tutti, chiamano creature del Signore, attribuendomi un rapporto proprietario che non mi è mai piaciuto, perché sa di padrone, di feudatario.» e poi avrebbe aspettato tutto il
tempo necessario sapendo benissimo già la risposta. E se quell’anima, vistasi spacciata per l’innumerevole numero di esseri cui aveva rotto i coglioni, avesse dichiarato in sua difesa: «Ma io ho pregato tanto!» l’avrebbe mandata immediatamente a pedate nel culo nell’inferno col suo piede infinitamente grande e roccioso senza darle alcuno scampo. Facendola precipitare in un oltretomba di merda, dove tutti i gatti neri della Terra, ormai defunti, si sarebbero trasformati in diavoli, divertendosi a torturare quelli che pregavano solamente e non facevano un cazzo per l’umanità. Un inferno, dove chi ci era mandato dal suo dio, si trasformava in tutti quelli che avevano subito i torti di quella stramaledettissima anima dannata, perfino nei ragni o nelle zanzare, presi a ciabattate sul muro per spregio o per paura.
Quindi non pregò per la vecchia ma si limitò a sperare per lei, anche per un senso di giustizia, perché chi non aveva nessuno che pregasse per lui sarebbe stato svantaggiato e doveva morire per forza e non era giusto per chi è solo. Strano a dirsi la sua speranza funzionò oppure fu soltanto il grosso culo della vecchia che funzionò assieme alla sua forte fibra, ma anche la fibra era un grosso culo ad avercela. Fatto sta che la vecchia continuò a vivere e non fu neanche più sola, perché fu piantonata, ventiquattro ore su ventiquattro, da due agenti su ordine del commissario, prima all’ospedale e in seguito in casa sua, in piazza Due giugno. Ci volle un mese affinché si riprendesse un po’ e fosse in grado di sostenere le domande del commissario che aveva un vantaggio dalla sua parte: averle salvato la vita e quindi la sua completa disponibilità a parlare.
Per evitare guai con il tè o le tazzine sporche fu lui che offrì alla vecchia. Appena lei si rimise in sesto, l’andò a trovare a casa sua con un paio di birre in lattina con cannucce e un bel vassoio di paste alla crema, cioccolato e panna che la vecchia trangugiò in un attimo, dimostrando che si era ripresa alla grande ed era andata in culo a chi voleva farle la pelle.
Ma cosa metteva in comune la sorte delle due vecchie che consisteva nel comune desiderio dell’assassino di farle fuori entrambe? Avevano dato ai nervi a qualcuno, sempre ammesso che il loro assassino fosse lo stesso? Sfogliò di nuovo, insieme alla Landi, gli album di fotografie, riparlò di crociere, dei soldi che ci volevano per farle, ma tutto sembrava inutile. A un certo punto si affacciò un attimo alla finestra della camera della vecchia che dava sul lato opposto della piazza, in una delle vie laterali meno frequentate. Era quasi buio ed era orario di chiusura dei negozi e notò la concessionaria di auto di lusso che aveva spento i neon e stava abbassando le saracinesche. Un’automobile di grossa cilindrata stava uscendo dal garage. Sorridevano in due a sessantaquattro denti. Il venditore per la soddisfazione di aver piazzato il suo bolide di lusso, il cliente contento di ostentare al prossimo la prova della sua prosperità, manifestata sulle quattro ruote. Era un’auto che pochi nababbi potevano permettersi. Per un misero mortale guidarla rappresentava un’utopia. Neanche pagandosela a rate in trent’anni ci sarebbe riuscito. Con gli stessi soldi, ammesso di poterseli procurare in qualche modo da qualche finanziaria sanguisuga, Nedo ci avrebbe comprato un appartamento invece di continuare a pagare l’affitto e, talvolta, a non sapere come arrivare alla quarta settimana del mese. La vecchia signora si avvicinò al commissario e scorse anche lei l’auto. La marca era di una grossa casa automobilistica tedesca e raggiungeva la tremenda velocità di duecentocinquanta chilometri orari. Il Lonzi aveva letto le sue caratteristiche su una rivista specializzata. L’auto non era il suo tipo o meglio lui non era il tipo per l’auto. Cercava semplicemente un’automobile usata e aveva inciampato nell’annuncio. Aveva notato la smagliante carrozzeria, che ricordava i fianchi di una donna, la vernice metallizzata che dava nell’occhio e la massima velocità. Si era chiesto come cazzo fero a costruire macchine con quella potenza
quando al massimo in autostrada ci si poteva andare a centotrenta l’ora. A quelli che sostenevano che non era tanto per andare a duecentocinquanta, ma per l’accelerazione del mezzo che rendeva più sicuri, opponeva le sue considerazioni mentali. Siuri di ’osa, di spiaccicarsi più volentieri in un muro? Poi aveva continuato la sua lettura se così si poteva chiamare un giornale che serviva per vendere di più, girando incazzato la pagina della rivista e ritornando alle normali offerte delle auto usate che il più delle volte erano delle sonore fregature, ma comunque costavano poco e se le poteva permettere. Osservò l’automobile di lusso e la vecchia, che sembrava anche lei molto interessata al mezzo. La guardava con intensità, come assorta in un pensiero lontano. Il Lonzi pensò che la vecchia avesse perso qualche rotella e fosse stata completamente stravolta dal coma, ma non era tanto l’automobile che interessava alla vecchia, piuttosto un ricordo. «Guarda un poíno, una macchina spiaccíata a quella che avevo visto con Beatrice, proprio uguale, proprio uguale…» e continuava a ripeterlo come un pappagallo parlante al Lonzi. Il proprietario intanto era sceso e stringeva la mano al venditore che con premura, prima di chiudere definitivamente la saracinesca, si stava attardando a dare utili consigli sui tagliandi, che avrebbe dovuto fare per la manutenzione dell’auto, pregustando già gli altri guadagni futuri. Il compratore era un giovane quadrinaio che dimostrava vent’anni all’incirca, se non meno e, presumibilmente, non si comprava la macchina, perché si era fatto mancare il pane, ma solo perché aveva l’alto privilegio di essere della razza dei trulli trulli, chi ce l’ha se li trastulli. «Vi eravate affacciate a questa finestra?» chiese il Lonzi e la domanda gli sembrò piuttosto banale, di quelle che si fanno quando non si sa cosa dire. «Propio ‘osì!» rispose la vecchia «Maremma tremota, propio vero, coll’occhi se’ guardato da qui e c’era lo stesso popo’ di macchina!»
«Quando è successo?» chiese sempre il commissario, pensando più che altro di cazzeggiare e non di far domande. «Aspetti mi spremo la chiorba… sì, mi rammento…tre giorni prima che Beatrice, poveretta tirasse il calzino» precisò con sicurezza la vecchia. «Me lo riordo, perché c’era sciopero a scuola e la piazza sembrava un mortorio.» «E la macchina era la stessa?» chiese il Lonzi. «Non la stessa auto, ma lo stesso tipo» chiarì la vecchia. Poi entrò meglio nei dettagli spiegando che quella che avevano visto lei e la sua amica era di un colore grigio metallizzato, mentre quella che era appena uscita era di un blu come il mare e le piaceva molto di più. «Perché, le piacerebbe comprarsela così?» disse a quel punto il Lonzi. «Magari commissario, ma c’ho ‘na fame che scianguino… e poi cosa me ne farei… Fra poco avrò bisogno, Dio non lo volesse, di una sedia a rotelle, altro che macchina di lusso!». La vecchia è una morta di fame, proprio come la sua amica Beatrice, che prima di morire non aveva riscosso alcuna eredità e nemmeno una vincita colossale al superenalotto, quindi nessuno poteva averla assassinata per questioni di soldi pensò il Lonzi. Ritornò all’immagine delle due donne affacciate alla finestra, che osservavano l’auto color metallizzato dell’autorimessa. «E si ricorda altro?» chiese, speranzoso che gli fornisse degli indizi, sapendo già che difficilmente sarebbero arrivati. «Per la verità no, quel giorno è finito con la macchina che si levava di ‘ulo. Dé, dopo quarche menuto la mia ami’a se n’è ita e non l’ho più vista.» Poi precisò: «Vista non più ma sentita sì! M’ha telefanàto un paio di giorni dopo, dicendomi che sarebbe andata in agenzia a prenota’ una crociera per l’estate. Le chiesi, a quel punto. come avesse fatto a trovare tutti quei vaini. Lei mi rispose che menomale esisteva l’amicizia.»
Il commissario ringraziò la donna e guadagnò l’uscita. Forse l’aveva sforzata più del dovuto e non voleva compromettere la sua salute. La vecchia era molto debilitata. Si reggeva in piedi con i fili ed era già un miracolo che fosse sempre viva. Nedo si affacciò alla porta e fece cenno ai due poliziotti, che stazionavano sul pianerottolo di entrare per vigilare sulla sua incolumità, quando la signora Landi lo richiamò: «Ah… mi dimenticavo…»
SEDICI
La vecchia lo aveva fatto tornare indietro, perché doveva dirgli una cosa che prima le era sfuggita. «Mi sono riordata che la mi’ ami’a Beatrice dalla finestra ha salutato l’omo che usciva dalla concessionaria con la macchina metallizzata…» «Quindi lo conosceva!» esclamò il commissario. «Sì, credo di sì!» «Era lo stesso che è uscito, poco fa, con la macchina blu?» chiese il Lonzi, che era subito rientrato in casa, fatto accomodare la vecchia davanti a lui e non era più in vena di fare domande stupide. «No, ‘un era lui, ne sono siura!» rispose sicura l’anziana signora. Poi specificò meglio: «Quello che abbiamo visto uscire po’o fa è po’o più di un bimbo, mentre l’altro era n’omo di molti anni più grande.» «Saprebbe dirmi più o meno l’età?» chiese curioso il Lonzi. «Lei mi ‘iede troppo commissario… Io già ci vedo po’o, poi era una giornata nuvolosa, quasi buia, distinguevo appena la figura, però era diverso dal giovane, di questo sono siura.» «Non si ricorda niente di questo signore, se era alto o basso, com’era vestito?» «No, niente, le ripeto era quasi buio ed io non ‘un ci vedo ‘na sega. So solo che la povera mi’ Beatrice l’ha salutato e nisba.» « Non ha mica fatto il suo nome?» Nedo cercava, in tutti i modi, di mettere a fuoco le eventuali osservazioni della vecchia, ma inutilmente.
«No, niente nome, gli ha detto solo bonasera e quello le ha risposto anche lui con un saluto e poi se n’è ito via di ‘orsa con l’auto.» Il Lonzi fece le sue considerazioni: l’uomo non aveva quindi né un nome né un cognome e sembrava destinato a rimanere sconosciuto. Non era neanche il caso di saperne di più. Sicuramente non c’entrava per niente con l’omicidio della vecchia. Alla sua età la povera vegliarda chissà quanta gente aveva conosciuto e chi compra una macchina nuova, ha tutto il diritto di farlo, anche se Beatrice Belli era stata ammazzata solo dopo tre giorni da quando aveva visto uscire il tizio con la macchina. Per scrupolo il pomeriggio seguente si presentò lo stesso alla concessionaria. Parlò col titolare che se la ava molto bene, visto che nell’ultima settimana aveva venduto una quindicina di auto di grande cilindrata. Evidentemente quel tipo di macchina funzionava alla grande e andava per la maggiore. Il commissario pensò che a Livorno ci fossero molti squattrinati, disoccupati, cassaintegrati e una marea di persone che sguazzavano nei debiti, ma non mancavano quelli che potevano permettersi auto di lusso di quel tipo. Osservò l’elenco dei compratori che gli fu fornito dal titolare della concessionaria. Notò che la maggior parte di loro era costituita da donne e solo cinque erano uomini. S’immaginò il mestiere che potevano fare quelle femmine, che entravano volentieri nelle boutique e facevano il carico di vestiti griffati in cambio di prestazioni in natura. Dei cinque uomini, che avevano comprato la macchina, solo due abitavano a Livorno. Degli altri tre, due venivano dalla provincia e l’ultimo della lista da un’altra città. Era un lucchese che, pur di risparmiare quattrini, si era spinto fino a Livorno. La concessionaria faceva dei prezzi competitivi o forse c’era dell’altro, magari strani traffici intorno. Fece venire la finanza per controllare. Al proprietario venne un colpo, sbraitò parecchio, perché alla fine del controllo gli scoprirono un bel po’ d’iva evasa, ma niente che riguardasse ricettazione di auto usate, prostituzione o altro.
Il Lonzi si fece dare assieme ai nomi anche gli indirizzi dei compratori e li andò a trovare uno per uno, cominciando dai due di Livorno. Uno fu subito escluso, perché aveva scelto una macchina di colore nero. Ci rimase l’altro livornese, che invece aveva comprato un’auto proprio dello stesso colore di quella vista uscire. Si trattava di un pelato con un riportino sulla fronte che faceva rabbrividire chi lo guardava. Il commissario quando lo vide per poco non scoppiò a ridere e si trattenne a stento. La vecchia Landi, conciato in quel modo, lo avrebbe riconosciuto di certo, anche se fosse stata cieca e, infatti, lo escluse subito, quando lo vide in fotografia dopo aver smesso di sghignazzare. Fra l’altro, l’uomo dal riportino non era conosciuto né al Lonzi, né agli altri condomini e nessuno aveva visto entrare estranei nel palazzo di via Roma nel giorno del delitto. In più quando gli vide la macchina nuova non poté fare a meno di osservare la pacchiana scelta optional: un enorme spoiler nero sul davanti che sembrava la pinna di uno squalo tigre. Lo escluse, così, definitivamente, perché una grottesca appendice di quel genere sarebbe stata notata con certezza dalla Landi. Rimanevano le donne. Ce n’erano tre che avevano comprato lo stesso tipo di macchina, ma quello che era stato visto uscire con l’auto in questione era un maschio. Il fatto era spiegabile, perché poteva essere ato a ritirare l’auto anche un uomo per conto di una donna, che compariva negli atti di compravendita come acquirente. Il Lonzi chiese al proprietario della concessionaria se poteva fornirgli i nomi di chi era ato dalla concessionaria a ritirare una macchina nello stesso giorno in cui Beatrice Belli aveva salutato l’uomo dalla finestra e chiese anche se un’eventuale donna avesse fatto una delega di ritiro dopo aver acquistato l’auto. Il titolare dapprima invocò la privacy, poi disse che non era in grado di fornire informazioni, perché quel giorno lui non era in concessionaria, giacché era in giro per affari. L’unico presente era uno dei suoi venditori che, però, era andato in ferie ai Caraibi per una ventina di giorni ed era appena partito.
Era tutto vero e costituiva un problema per le indagini. Frugò negli scaffali e nelle pratiche in cerca di deleghe o attestati, ma inutilmente. Sarebbe così ato troppo tempo. Al suo ritorno, il venditore, forse pensando alle ferie, al sole, all’abbronzatura e alle esposizioni culinarie delle varie indigene presenti nel luogo ameno non si sarebbe ricordato più niente. Aveva tirato su la baracca con le sue vendite, fra l’altro in un momento di congiuntura. Il proprietario voleva tenerselo buono e gli aveva concesso le ferie e lui ne aveva approfittato per fare un viaggetto. «Con la ganza di turno, bon per lui!». Il titolare gli specificò il particolare e aggiunse che aveva una gran fama di puttaniere. Sorrise compiaciuto, pensando forse che l’indole di Black & Decker del suo dipendente fosse più che utile nel lavoro di venditore, soprattutto se i clienti erano donne vogliose. Poi il capo della baracca ritornò tra il serio e il faceto dichiarando: «Sa, se lo è meritato. Mi ha venduto un sacco di macchine!» Anche se l’uomo, uscito con l’auto nuova fiammante, fosse stato coinvolto in qualche modo nell’assassinio della vecchia, cosa molto vaga, per il momento non c’era verso di risalire a lui e la ventola delle palle per l’incertezza cominciò a girargli vorticosamente e sperò di non decollare come un elicottero.
ò una settimana senza sbocchi e con il questore che sbraitava, perché doveva sprecare due uomini, che si alternavano a tutela della vecchia con tutti gli spacciatori in giro per la città e tutti gli accoltellamenti delle bande che si gestivano il giro della droga tra piazza della Repubblica, via Garibaldi e via dell’Oriolino. Il Lonzi non si sentiva tranquillo per la vecchia, che rischiava la vita e non voleva assolutamente lasciarla da sola.
Se le fosse successo qualcosa di brutto non se lo sarebbe mai perdonato. Il questore poi gliel’avrebbe fatta pagare in tutti i modi. Sentiva già le sue parole risuonare nella testa: Bravo commissario Lonzi, siamo a tre delitti, al quarto le regaliamo la bambolina come al Luna Park!
La sera al ristorante, mentre il buzzo da cinque mesi lo guardava di sottecchi con un sorriso ironico, lui avrebbe voluto urlargli: «Quando partorisci, razza di disgraziato, ti buco la pancia se ‘un ti levi di ‘ulo!» Continuò a imprecare farfugliando davanti al quarto bicchiere di vino rosso, che vedeva progressivamente offuscarsi. E’ colpa dell’alcool o della delusione? chiese mentalmente a se stesso, non sapendo chi incolpare per la torbida visione del bicchiere e della vita. Neanche più il pensiero del culo possente della sposina costituiva un deterrente alla tristezza. E coi ricordi non ci si fa proprio niente. Penza’ senza trombà è come pulissi ‘r culo senza caà! bofonchiò tra sé. Si decise ad uscire. Sbatté con rabbia la porta del locale, sperando che presto o tardi non gli fero pagare i danni, mandando per l’ennesima volta a fanculo il cameriere che lo serviva come se gli fe un favore, quando era invece lui che contribuiva a pagarlo con le sue cene. Considerò che forse avrebbe dovuto smettere di andare in quel locale e mangiare da un’altra parte, ma dove lo facevano un cacciucco così buono e dove glielo davano un tavolino tutto per sé, dove poteva anche ruttare in santa pace? Da nessuna parte! rimuginò rassegnandosi al pensiero che sarebbe tornato nello stesso locale e allo stesso posto, sedendosi allo stesso tavolino come sempre. Camminò per le strade e i canali del quartiere vecchio. La Venezia era nebbiosa nella notte. Crocicchi silenziosi e melanconici di
giovani delusi con ragione dalla società perbenista si riunivano e si allontanavano dagli angoli delle strade, come formiche in prossimità di un formicaio, per vincere la solitudine e la disoccupazione che, spesso, sono sorelle gemelle. Un ubriaco stava pisciando nei Fossi senza neanche guardarsi attorno. Forse tra poco anche lui si sarebbe ridotto così. Sarebbe anche lui affogato nell’alcool e nei pensieri sconclusionati come l’ubriaco, che mentre pisciava nel canale, parlava da solo in un grottesco dialogo con l’acqua sudicia e nera violentata come lui. Commiserò quei giovani che dovevano sorbirsi le stronzate dei reality alla televisione, facendosi prendere per i fondelli dal solito gruppo fritto e rifritto del cast: il giovane aitante, muscoloso e tatuatissimo, la budellona che mostrava le chiappe e trombava in diretta, il rozzo e possibilmente villoso dal manto nero come la pece, che scorreggiava in tutti gli angoli dell’appartamento lager con telecamere. Pensò che, forse in contemporanea con lui, anche il telespettatore, arieggiasse, pallido e assorto, in sintonia con la trasmissione e che, tra una scorreggia e l’altra, asse un altro dei suoi inutili giorni, prima di addormentarsi, come al solito, sulla poltrona del salotto. I giovani ingoiavano spazzatura virtuale fatta di finti corteggiamenti, in programmi, dove certi giovanotti con le camicie sganciate sul petto a faccia vista recitavano la parte degli uomini duri. Le pesanti catene d’oro al collo, affogate tra i peli erano di una finezza eccezionale. Tutta quella presunta virilità in molti casi nascondeva il desiderio insopprimibile di essere femmina. Molti di loro si erano esibiti come spogliarellisti, non solo per il fisico scolpito, costruito in palestra, ma soprattutto perché erano ipodotati e il loro piccolo membro poteva essere contenuto dallo slip in miniatura. C’erano poi le donne che forse volevano invece essere uomini, perché erano scelte, una per una, dalla conduttrice, che aveva la voce da baritono, si muoveva come uno scaricatore di porto e forse aveva pure la prostatite. Anche in quel caso si poteva intuire con facilità che cosa dovevano concederle le privilegiate che venivano scelte.
Pensò ai miseri traffici che si nascondevano dietro il sipario, ai promoter, alle agenzie d’ingaggio, all’intera baracca dei contratti che probabilmente cominciava con la P2, P3, P4 o chissà a quale numero fosse arrivata, che invece era una cosa molto seria e soprattutto reale. Considerò, stomacato, l’enorme quantità di cazzate, che erano proclamate nelle trasmissioni, spesso fabbriche del consenso e a come tutto il mondo continuasse a girare sempre nello stesso verso. La rotta era sempre la stessa e perentoria: cambiare tutto per non cambiare niente. Tutti quei giovani vivevano nel virtuale, perché la realtà era come la scala di un pollaio: corta e merdosa. Un gatto nero in quel momento ò per la via stretta, appunto un gatto nero come lui, un gatto nero come quei ragazzi, spesso laureati, che non sarebbero mai andati avanti e si dovevano sorbire dei governanti inetti e quasi analfabeti, che parlavano un italiano stentato e sbavavano ogni cinque parole messe insieme. Si guardò intorno e vide in lontananza le insegne luccicare traballando nella notte. Forse erano i neon o forse le sue gambe. Era un locale del quartiere che sembrava un veliero e aveva il nome di un famoso vascello di antica memoria. Decise di andarci per farsi un bicchierino, uno di troppo pensò, ma non gliene importava e poi era a piedi e non c’era quindi alcun palloncino di controllo alcolico pronto ad aspettarlo. Il cane l’aveva già sistemato. Gli aveva dato tanti croccantini per farlo stare quieto e non gli interessava se ingrassava. Ormai Beppe sembrava un baule, ma gli avrebbe voluto bene, anche se fosse diventato una botte. Sarebbe stata una botte piena di dolcezza e colma di carezze. Gli aveva parlato da uomo a uomo, perché il cane capiva, come faceva sempre sussurrandogli: «Beppe, mangia cosa cazzo ti pare, ingozzati alla faccia di chi vuol male alla gente e agli animali e dormi bene. Sogna la caccia al cinghiale che non hai mai fatto, fantastica le volpi che non hai mai inseguito, cullati nel desiderio dei boschi che non hai mai attraversato. Perdonami ti prego, assolvimi per averti reso umano, per averti costretto a fare la piscia sul giornale quando
non ci sono, quando ti brontolo, anche se non te lo meriti.» Il commissario avrebbe anche pianto, perché le sue sbronze erano tristi, ma continuò nei suoi discorsi melanconici rivolti a mezza voce al suo grande amico: «E abbaia! Fregatene del condominio stressato che non sopporta che tu abbai. Cosa cazzo deve fare un cane? Miagolare forse, oppure dire: “Scusate!” a una massa di smidollati quali voi siete, che andate alle riunioni dell’amministratore e quello è il vostro maggior impegno culturale.» Ripensò a Caproni… Anima mia leggera, va’ a Livorno e con la tua candela timida nottetempo… e all’ingratitudine cittadina. Neanche una strada, nemmeno una scuola intitolata a uno dei maggiori poeti italiani, neppure un viottolo, nessuna cittadinanza, neanche un premio! Noi livornesi si fa’ ride’ in tutti i sensi, non solo, perché siamo delle macchiette! Vergogna! esclamò nella sua testa che sembrò risuonare come una grancassa nel silenzio della notte e scoreggiò sonoramente come forma di protesta contro il mondo intero. Poi vide le luci fluorescenti molto più vicine. Camminando lentamente nella Venezia era giunto in prossimità del locale. I neon dell’insegna gli parvero traballare ancora di più. Forse era una polena di un vero veliero che stava solcando le onde di un mare agitato? Gli piacque immaginarselo, era molto meglio di una tana affumicata in cui uno annega i pensieri nel bicchiere. Entrò. La musica lo travolse, una musica da piano bar, che urlava vendetta per chi l’ascoltava. Si udiva la voce storpiata di un pianoforte e si vedevano due mani che faticavano a trovare i tasti, come se giero all’ufficio oggetti smarriti. S’immaginò una rappresaglia surreale: nella sua mente una scimmia maschio,
dalle chiappe arrossate, si calava da una delle funi che scendevano verso il basso, come fossero gomene incresciose di un vascello fantasma, ma la nave non era di legno, bensì di mattoni e non aveva mai osato muoversi da lì e, oltre a tutto, era solo un pub. Vide, con la fantasia accecata dall’alcool, atterrare l’agile animale alla volta del pianoforte, dove il pianista bollito aveva appoggiato il suo bicchiere di whisky. L’uomo, tra una stecca e l’altra, lo tracannava di tanto in tanto, per darsi un tono da musicista navigato, tanto per rimanere in sintonia con il locale. S’immaginò la scimmia che allargava le gambe attorno al bicchiere e, a spregio, si sciacquava i coglioni nell’alcool ambrato. Cercò di togliersi dalla testa l’animale immaginato. Sapeva che gli alcolizzati, all’ultimo stadio, vedono animali mostruosi e deformati che procurano visioni angosciose. La scimmia, però, lo faceva sorridere e forse era solo la visione grottesca della sua anima afflitta. Nedo, comunque, aveva fatto il pieno e forse il pianista era nelle sue stesse disgraziate condizioni. Poteva essere anche più ubriaco di lui oppure, sventurato, avere l’artrite deformante alle mani e incespicava sui tasti per una patologia conclamata o cronica. La musica, ignara delle malevole considerazioni del Lonzi, continuava però imperterrita a sovrastare le voci delle persone sedute ai tavoli che si sforzavano, urlando a più non posso, per capirsi anche a dieci centimetri di distanza. Si guardò intorno e notò la figura enorme. C’era un biondone, seduto a un tavolo di sbieco, che sembrava un travestito. Non avrebbe sfigurato in una sfilata del Carnevale di Viareggio. Due spalle da lottatore, inguantate a forza, in una vistosa tunica rossa che sembrava scoppiare da un momento all’altro. Il massimo della finezza! pensò Nedo, non sapendo se era più giusto riderci o piangerci, perché nella sbronza gli prendeva così. Scrutò i piedi della donna, ma era una donna? Il suo era quasi sicuramente un paio di scarpe del numero 45, il minimo per sostenere quel fisico corpulento.
Il suo sguardo risalì verso l’alto e si sorprese della pancia, un ventre mastodontico, trattenuto a stento nel velluto della veste, che si assottigliava in quel punto in un logorio costante, per sostenere uno sforzo estremo nella pinguedine. Guardò ancora più sopra. I capelli, sciolti sulle spalle, di un biondo improbabile se non impossibile, e un uomo di fronte a lei che intravide sorriderle. Il signore in questione era un po’ grassoccio e ordinario e faceva un sacco di fusa alla signora, signorina o signore. Di sicuro costituiva la dolce metà di quella donna, non solo nel senso del marito o dell’amante, ma proprio la mezza parte per le dimensioni e anche dolce, come si dice a Livorno, per definire il fesso che non aveva capito una fava a mettersi con quella. I due stavano mangiando una pizza e scherzavano coi fili della mozzarella che si stavano allungando davanti alle loro bocche come un chewing gum. Quella di lei, violacea, sembrava spessa quattro dita. Gli ricordò la testa di un calamaro, fatto in graticola e si scusò con il calamaro immaginato per averlo confrontato con quella lì. Lui aveva davanti un grosso boccale di birra, lei una coca cola in un calice da champagne con dentro una scorza di limone. Cosa ci fa un troiaio di ‘oca ‘ola in un bicchiere da champagne? considerò il commissario briao che, pur essendo di fuori come i terrazzi, non perdeva mai del tutto il suo buon gusto. Nedo poi si considerò troppo critico nei confronti della coppia. In fin dei conti era tutto in tono. Il paradosso albergava in quell’abbinamento e tutto tornava per filo e per segno, se visto sotto l’ottica del grottesco. I due mangiarono una fetta di dolci diversi, lei forse all’ananas perché era dorata, lui forse alla mela, perché la sua fetta appariva più abbronzata. Infine bevvero entrambi una Margarita, simile a un’acciuga salata, come la
facevano là e si levarono di torno. Quando il Lonzi uscì dal locale, dopo essersi trattenuto ancora una mezz’oretta, la coppia era sempre sul muretto di un ponte della Venezia, avvinghiata come le anguille che attraversano gli oceani in un allacciamento bestiale. Sembravano l’articolo il della lussuria. Lui era la i, lei la l. Si stavano scambiando baci salati alla Margarita e al commissario sembrò che gli fosse sopraggiunta l’esofagite da reflusso per il rigurgito acido che gli stavano provocando. Distolse lo sguardo dalla coppia per non vomitare. Disgustato dalla scena non proprio edificante, decise di avviarsi verso il suo appartamento, quando per caso notò l’automobile. Stesso modello, stesso colore, magari la targa era diversa, questo nessuno poteva dirglielo, ma era lo stesso tipo di macchina, vista uscire dalla concessionaria, dalle due vecchie in piazza Due giugno. Era nuova, ma poteva essere stata acquistata anche un mese prima, magari da un’altra parte, in un’altra concessionaria. Quella coppia gli stava antipatica, ma forse non era il caso di seguirla solo per questo. Era a piedi. Vide una bicicletta appoggiata a un fanale dei Fossi e la fregò d’istinto. Reputò che bastasse una bicicletta, per seguirli non occorreva prendere un’auto e correre come un forsennato tra i vicoli. Il quartiere era così contorto che, anche andando a piedi, forse ce l’avrebbe fatta a raggiungere il suo scopo e la bicicletta per quel tragitto era l’ideale. Mentre pedalava, si chiedeva come fosse scemo a inseguire fantasmi che non avevano senso.
I due percorsero solo pochi chilometri. La donna che guidava non abitava molto distante dal locale da cui erano usciti.
Risiedeva in un palazzo che guardava il monumento dei Quattro Mori alle spalle del porto. Dopo aver parcheggiato, il biondone salì, accompagnata dallo sguardo dell’uomo, che rimase in strada senza ricevere alcun invito dalla donna di riscaldargli la notte con la sua coperta d’amore. Sarebbe stata inevitabilmente una coperta corta che l’avrebbe lasciata nuda in molte parti. Insomma, l’aveva visto ricoprirla di sguardi amorosi, pagarle la cena, porgerle con grazia il bicchiere per farle assaporare il drink e lei nemmeno gliela dava. Forse gliela stava promettendo, ma non gliela dava, almeno per quella notte e l’uomo era stato lasciato penosamente in bianco. Il tizio, deluso, lasciò ricadere lo sguardo sul selciato, s’incamminò un centinaio di metri più avanti e infine aprì la portiera della sua macchina lì parcheggiata. Era un’auto molto diversa da quella del donnone e gli sembrava di conoscerla vagamente. Nedo non era per niente fisionomista, ma, a pensarci bene, anche l’uomo gli ricordava qualcuno che aveva già visto. Un brivido lo percorse e l’adrenalina gli fece are immediatamente la sbronza. Non chiuse occhio per tutta la notte, pensando all’uomo e alla sua maledetta automobile. Stava uscendo di cervello nell’esasperazione di voler ricordare, a tutti i costi, i particolari della persona e dell’auto, così come quando hai un nome sulla punta della lingua e non riesci a pronunciarlo e maledici il mondo. Rimuginò a lungo senza trovare una soluzione. Osservò per tutta la notte il suo beagle che dormiva col permesso di soggiorno sul suo letto, satollo dei suoi croccantini. Lo udì più volte abbaiare sommessamente, come se rincorresse felice una preda, spensierato nel suo prato di sogno e gli fece tenerezza, ma non per questo si addormentò.
DICIASSETTE
Il giorno dopo il Lonzi non andò al commissariato, ma si piantò come un palo davanti al palazzo della biondona. Il donnone uscì sculettando come una cagna in calore. Nelle previsioni del commissario i risultati dell’incedere tardavano a venire, visto che la femmina in questione si avvicinava molto più a un gorilla che a una top model. Si doveva accontentare di quello che, per il momento, ava il convento, cioè di un ometto piuttosto insignificante, che si mostrava gentile e sganciava facilmente quattrini.
La biondona, dopo qualche giorno di corteggiamento, abboccò come un ghiozzo di bua all’amo del Lonzi, tranquilla e ignara della tempesta imminente. Nedo, che sapeva pescare molto bene a traina, per l’occasione utilizzò invece il paziente bolentino, in attesa che il sughero di galleggiamento sprofondasse all’ingiù per la preda ingannata che pensava di riempirsi lo stomaco e invece faceva mangiare il pescatore. Sarebbe bastata una buona esca e dei bocconcini appetitosi intorno alla canna e la cattura del pesce si sarebbe compiuta. Si sentiva bella, si vedeva bella, e questo era il limite del donnone. Reputò che l’uomo, che gli si parava davanti nella sua attesa, avesse visto in lei la luna e ne fosse rimasto ammaliato. Si trattava invece di un commissario che cercava i responsabili di due delitti. Un uomo della polizia ostinato e coriaceo che, in quel momento, non pensava ad altro. Lei rappresentava solo una pista da seguire. Era solo uno strumento, tra i tanti,
da usare per saperne di più, soprattutto quando un commissario, come lui, brancolava nel buio senza riuscire a trovare una soluzione. Un certo complesso di colpa, però, ce l’aveva. Non gli piaceva usare nessuno, tanto meno una donna. Ma era una donna quella? E anche se non lo fosse stato, sarebbe stato giusto? Un amico, che aveva lavorato diversi anni in Brasile, gli aveva parlato dei travestiti che laggiù, ma non solo, conseguivano un enorme successo. Gli aveva spiegato come sui carri del Carnevale di Rio c’era bisogno che comparisse una figura femminile in primo piano, piena di aggeggi colorati, piume di struzzo e un gran sacco di cianfrusaglie che pesavano come il piombo. Le donne non riuscivano a sopportare la fatica e quindi gli organizzatori avevano fatto ricorso agli uomini, fra l’altro, con taglia xxl come minimo. Così erano diventati protagonisti i travestiti e i transessuali che ora comparivano anche da noi nei viali bui della notte. Tra Pisa e Livorno ce n’era un fottìo. Nel 1945, verso la fine della seconda guerra mondiale, a Tombolo i soldati neri americani scopavano le bianche, che si prostituivano, perché morivano di fame. Ora, per una strana ironia della sorte, negli anni duemila i bianchi trombavano i mori taglia xxl, che stavano lì per lo stesso motivo. Considerò che le tipologie da marciapiede cambiano con la storia. Solo la fame rimane sempre la stessa e che, senza la pancia piena, ognuno ha il suo prezzo di vendita. Pensò ai vari politicanti di tutti i colori che si erano alternati da diversi decenni alla guida del Paese. Tanto per essere in sintonia con le variazioni cromatiche ne avevano combinate anche loro di tutti i colori. Tutti i vari capoccioni sembravano tante belle bottiglie allineate con gusto sugli scaffali di un bar con l’intento di attirare l’attenzione dei clienti che se le dovevano bere per forza. Le etichette erano però false e il liquido in loro contenuto era assai diverso da quello che esponevano. L’unica costante del contenuto delle bottiglie era il gusto amaro che lasciavano nel palato del bevitore dopo averlo assaporato.
C’era forse solo fumo, nebbia o che altro al posto del liquido? Per caso contenevano un gas che creava allucinazioni? A questo stava pensando il commissario, piuttosto inbelvito per tutti gli inetti che non sapevano vincere la miseria umana, lasciando che la fame restasse inalterata. Molti avevano promesso di togliere la prostituzione dalle strade, altri di legalizzarla. Un sacco di trasmissioni televisive sull’argomento, fiumi d’inchiostro sui giornali e dibattiti a non finire da tutte le parti per non farne di nulla. Secondo il Lonzi quasi tutti i capoccioni, imbevuti dalle chiacchiere, non riuscivano a scopare con qualcuno, che glielo dava o gliela dava gratis e, proprio per questo, si dimenticavano sempre di chi ha fame.
Scrutò la biondona che stava uscendo dal portone del palazzo. La guardò avvicinarsi. Forse il donnone era una vera donna. La natura si era semplicemente divertita a farla così, ma era una vera femmina. In effetti, il titolare della concessionaria di auto aveva parlato di documenti ufficiali d’acquisto che riguardavano in prevalenza donne e lei probabilmente lo era. Reputò che non fosse il momento di farsi eccessivi scrupoli, però gli rimase comunque il senso di colpa per la strumentalizzazione che stava facendo alla persona. Donna, travestito o transessuale che fosse, era degno di rispetto e lui, a pensare alle differenze, rischiava di essere uno stronzo razzista come quelli che spesso criticava. Tornò freddamente al suo piano e si assolse, perché lo scopo che si prefiggeva era molto importante e non compiva le sue azioni per un proprio tornaconto. C’era uno scopo valido per la sua strategia e, alla fine, la tipa con cui sarebbe andato a pranzo, se collaborava, l’avrebbe tirato in tasca a qualcun altro. Se accettava il corteggiamento, anche lei avrebbe fregato un’altra persona, uno che si faceva in quattro e pagava volentieri i suoi sfizi.
Il Lonzi doveva scoprire uno o più assassini che andavano assicurati alla giustizia per buona pace della vecchia e anche per quella dello strozzino che meritava la fine che aveva fatto, ma forse chi l’aveva ucciso era ancora peggio di lui. Si guardò accuratamente attorno. Per fortuna non c’era anima viva e nessuno stava osservando la scena. Aveva scelto un orario di primissima mattina proprio per quel motivo, ma non si sa mai nella vita. Il suo percorso, che vedeva lui come attore di primo piano per accelerare l’indagine, era a rischio rispettabilità, ma non solo per quello. Farsi vedere compiacente con un donnone così, comportava dei pericoli. Difficilmente se la sarebbe levata poi di ‘ulo e poteva esse anco manesca di fronte a un abbandono. Le aveva osservato con preoccupazione le mani che parevano simili alle pale di un fornaio. Solo le unghie erano diverse, perché erano lunghe e nere di smalto come la notte. Il biondone aveva accettato l’invito a pranzo difilato senza tentennare, sperando forse di esse trombata, prima di subito, da un signore così snello e distinto, che sembrava anche possedere un bell’arnese, e lei probabilmente se ne intendeva di quegli strumenti. Dopo un tortuoso giro in auto, il cui unico obiettivo era di perdere più tempo possibile e fare l’ora del pranzo, la portò in uno dei più squallidi locali della provincia, dove non avrebbe mai messo più piede per tutto il resto della sua vita. Alla donna il locale non importava; sarebbe andata anche in una caverna piena di pipistrelli, pur di coronare il suo desiderio. La biondona sembrava davvero affamata, ma non di cibo. Non gliene importava un tubo se il ristorante sembrava un letamaio. Le sue attenzioni erano rivolte più che altro all’uccello dell’uomo con lei, anche se era ignara che appartenesse a un commissario della polizia di Stato e lei non possedeva la chiave per aprire la gabbietta e farglielo volare. Con lui il donnone si sbottonò completamente, nel senso verbale s’intende, perché il commissario non glielo avrebbe mai permesso in quello materiale. Gli parlò dell’uomo che stava con lei, quello con cui era andata nel locale dalla
forma di veliero, di come fosse gentile e al contempo ingombrante e che non gliene fregava un bel niente. Si sbilanciò ancora di più: disse che lo avrebbe lasciato anche subito se solo lui lo avesse voluto e strinse le labbra a forma di calamaro in vena di sdolcinature. «Sai…. » La sua pausa al Lonzi sembrò un’eternità. Gli rivelò apionata, stringendo le labbra che volevano assomigliare a un improbabile bocciolo di rosa: «Credo di essermi già innamorata di te!» Il commissario glielo lasciò credere, tanto il giochino sarebbe durato poco. Correva parecchio la donna e s’innamorava con facilità o forse quella era solo la sua tattica per conquistare gli uomini. Forse l’aveva già usata anche con l’ometto che ora aveva abbandonato, come qualche stronzo, sedicente amante degli animali, abbandona il suo cane quando va in ferie. Il gentile uomo del locale a forma di veliero, che le pagava le cene, questo non poteva immaginarselo. Il tipo in questione si cullava nell’illusione che bastasse accontentarla tirando fuori un grosso gruzzolo di soldi e lei gliene fosse eternamente riconoscente.
Mangiò poco e pensò molto Nedo. Quando infine prese a morsi svogliatamente una mela giallastra, che aveva ato la maggior parte della sua inutile vita, reclusa in un frigorifero e si vendicava fornendo al suo ultimo carnefice un sapore disgustoso, finalmente capì. Tutte le linee e le direzioni ipotetiche avevano preso il verso preciso che conduceva alla pista giusta. Al ristorante si sarebbe mangiato le mani al posto delle pietanze per non aver capito quello che doveva comprendere prima. Aveva permesso a un assassino di uccidere una seconda volta dopo la prima e, solo per una pura combinazione, di non avergli fatto compiere il terzo delitto.
Si sentì sepolto da un peso più grande di lui per non aver capito subito quello che c’era da afferrare. Poi si consolò, considerando che aveva fatto di tutto per scoprire chi aveva la responsabilità dei delitti. Non ci aveva neanche dormito la notte e non poteva tormentarsi. La sua anima ebbe così un po’ di pace. Poi pensò ai suoi colleghi, al gran ceppione e alla stampa. Chissà cosa avrebbe detto il questore e come avrebbero titolato i giornali. Pensò che stesse correndo troppo, anticipando i tempi, perché non aveva uno straccio di prova in mano e il colpevole dei delitti, con un buon avvocato non avrebbe fatto neanche un giorno di galera. C’erano solo indizi e niente più. Salutò la biondona che l’aveva accompagnato al ristorante con la macchina di lusso e prese un autobus per tornare a casa, lasciandola con un palmo di naso mentre gli diceva sconsolata: «Come, mi lasci così!» «Ho molto da fare!» le aveva risposto laconico ed era andato via più veloce del vento senza nemmeno voltarsi, altrimenti c’era il rischio di impietosirsi.
DICIOTTO
Il Lonzi diramò l’invito a tutto il condominio, grazie ai suoi piedipiatti che per tutta la mattinata del giorno seguente si diedero da fare, così come per tutto l’intero pomeriggio. Rintracciarono tutti quelli che dovevano essere presenti. Chi lavorava ebbe dei permessi con il beneplacito della questura e si presentò puntuale, come tutti gli altri, all’appuntamento di Nedo. Il commissario non mancò di invitare Claudio Bianchi, figlio della prima vittima, la signora Laniero ex moglie dello strozzino, l’affettuoso amico del portiere, Piero Lunghi, Tamara Rusic e il suo fidanzato palestrato. Non mancò neppure la vecchia Silvia Landi, quella che poteva essere la terza vittima. Per l’occasione la fece trasportare di peso da una macchina della polizia, utilizzata apposta per l’incontro e lei non ebbe alcuna crisi di panico. Li fece accomodare tutti nell’appartamento dello scantinato, il cui proprietario, il portiere Andrea Rossigni, si mostrò preoccupato per la moltitudine che gli occupava la casa e forse non solo per quello. Non poteva mancare all’appuntamento neanche Silvio Nesti, il primo sospettato che si era fatto un po’ di galera alle Sughere, forse innocente e forse no. Fuori dell’appartamento stavano in attesa degli eventi tre poliziotti armati, di cui uno era il fedele agente Nico De Filippo. Il Lonzi esordì così: «Vi chiederete perché vi ho convocato. Tutti voi avevate un ottimo movente per far fuori il signor Wladimiro Bianchi, nessuno escluso. Neanche uno per la vecchia, invece, e questo è stato il motivo scatenante della mia riflessione che mi ha portato finalmente alla conclusione del caso.» Continuò: «Lei, signora Laniero, era scontenta di suo marito. Oltre a negarle anche i soldi per l’università di suo figlio non l’ha mai considerata. Anche Lei,
Claudio, aveva ottimi motivi per farlo fuori e potrebbe avere agito insieme a sua madre, costruendo un falso alibi che sarebbe valso per entrambi.» «Lei signor Rossigni era ricattato e potrebbe aver ucciso il Bianchi con la complicità del suo amico Lunghi.» «Lei, signorina Rusic, era compromessa e anche il suo fidanzato avrebbe potuto ammazzare il datore di lavoro della sua fidanzata in un impeto d’ira, perché non la pagava e perché. . . lasciamo stare.» «Tutti, quindi, potreste aver avuto ottimi motivi per sopprimere il Bianchi, ma la vecchia…la vecchia non ci combinava con voi, tranne che per il signor Claudio Bianchi e per la signora Laniero, ma ucciderla così dopo che l’avevano minacciata davanti a me. . . » «Poi il DNA li scagiona, non c’era alcuna traccia di loro nella stanza di Beatrice Belli. Il capello apparteneva a un’altra persona. . . Quindi niente di fatto.» Tutti si stavano guardando, l’uno con l’altro, in cerca di ulteriori spiegazioni, quando si sentì suonare il camlo. Erano le dieci precise, la stessa ora del delitto di Wladimiro Bianchi ed entrò il postino. Era il suo giorno di consegna e cercava il portinaio per sbrigare la posta in maniera più veloce. «Scusate, devo consegnare delle lettere...» Tutti lo guardarono. «Non vorrei disturbare…» disse ai presenti. Tossì e poi aggiunse: «Ve le lascio qui.» e le appoggiò sul tavolo della sala, salutando tutti con un cordiale buongiorno. Il Lonzi lo invitò a sedersi. «Prego, si accomodi anche lei. Perché ci vuole già abbandonare? La posta può anche aspettare un po’. Mica la licenziano!»
«Proprio all’ultimo, ci mancherebbe! Mi restano solo un paio d’anni alla pensione. Ormai vorrei finire in bellezza. Sciuparmi la carriera così!» e ostentò un sorriso di sicurezza che la metà bastava. Il postino accennava ad andarsene, ma il commissario gli fece un gesto eloquente che lo invitava a trattenersi ancora. «Mi lasci andare commissario, la ringrazio per l’ospitalità, ma devo consegnare la posta.» e giù un altro sorriso di convenienza, ma lui voleva assolutamente andar via. Il commissario era però inflessibile nell’invito a trattenerlo in quella stanza. «Prego, si accomodi signor Lischi. Non credo che lei possa lasciarci così. Tutti le saremo grati se lei rimanesse. Io stesso ne sarei lieto se non altro per la carezza che mi ha fatto in testa!» Il postino era diventato terreo, ma nessuno sapeva se era per la paura o per la rabbia di essere accusato ingiustamente. Tutti tranne il Lonzi, il quale lo sapeva benissimo e, infatti, continuò imperterrito: «Signora Landi, è questo il signore che ha visto uscire dalla concessionaria con l’auto nuova?» e indicò il Lischi. «Certo che è lui !» esclamò sicura la vecchia «Come se lo vedessi adesso!» aggiunse con la stessa certezza di prima. «Perché, è vietato comprarsi la macchina nuova?» inveì l’uomo alla volta del commissario. Aveva perso la sua ineffabile gentilezza e adesso sembrava piuttosto scontroso. «Certo che sì, se si compra con i soldi di un delitto!» specificò il Lonzi. «Ma quale delitto?» Il postino negava con fermezza ogni tipo di coinvolgimento in un omicidio. «Quello della povera Beatrice Belli che la vedeva solo come un amico e invece lei non ha esitato a strozzarla, nonostante la sua buona fede!»
«Io non ho ucciso proprio nessuno!» protestò l’uomo Continuò convinto a sostenere fino in fondo la sua versione dei fatti: «Non avevo alcun motivo per ucciderla, mi creda commissario!» la sua voce si stava indebolendo dal terrore. «Su questo non posso che darle ragione. Lei ha ucciso inutilmente la povera signora Belli. Le ha tolto la vita proprio senza motivo!» Il postino era perplesso e il commissario continuò imperterrito. Avrebbe volentieri disintegrato l’uomo che gli stava davanti, il quale mentiva sapendo di mentire, ma doveva mantenere la calma e portare avanti le sue ragioni, perché così deve agire un uomo di legge, quindi continuò con le sue domande: «La signora Belli l’aveva vista con il macchinone e quando le avrà portato la posta, gli avrà chiesto qualcosa.» Il postino lo stava guardando dubbioso in attesa delle spiegazioni che ancora non poteva comprendere. «Dico bene?» e chiuse a quel punto il discorso cercando di individuare le reazioni del signor Lischi che esitava a parlare. «Sì, in effetti, me l’ha chiesto.» si decise a chiarire il postino. «E lei cosa le ha risposto?» le domande del commissario si facevano sempre più incalzanti. «Che me l’ero comprata e basta.» «Non le ha chiesto come ha fatto a comprarsela col suo mestiere di postino, giacché costava un sacco di soldi?» «In effetti, me l’ha domandato e io le ho detto che avevo ereditato.» «Ma quale eredità! Lei non ha più parenti ormai da un pezzo. Chi glieli ha dati tutti quei soldi per comprarsi un’auto di lusso come quella?» «Lei non si preoccupi, sono fatti miei! Io mi compro cosa mi pare!»
«Non si scaldi troppo, perché presto dovrà abituarsi al fresco della cella in compagnia degli ergastolani.» «Scommetto che la vecchia non ha creduto all’eredità e le ha fatto altre domande.» gli disse, a quel punto, il commissario. «Assolutamente no!» Il postino negava e aveva ragione, ma soprattutto capiva finalmente la verità. Comprese infine anche lui quello che era già nella mente del Lonzi e cioè che la Belli ci aveva creduto all’eredità e lui come un imbecille l’aveva uccisa inutilmente, perché non avrebbe avuto niente da temere da lei. La vecchia non era come il commissario e l’aveva bevuta subito, ma il postino non ne era stato sicuro, quindi per non rischiare più del dovuto, l’aveva fatta fuori. Questo era stato l’inizio della sua fine. Il Lonzi continuò: «E poi le avrà detto della crociera. Di come costa fare una crociera e che anche lei avrebbe voluto levarsi qualche sfizio, magari come un postino che aveva ricevuto un’eredità improvvisa.» Il commissario s’immaginò la vecchia a colloquio col suo assassino e lo ricostruì interamente al portalettere: «Magari era anche contenta che lei si fosse comprato una bella macchina e non intendeva affatto ricattarla, pretendendo dei soldi in cambio del suo silenzio. La povera donna pensava che la gente fosse tutta buona, ma si sbagliava di grosso. Beatrice Belli era un’ingenua che credeva nell’amicizia e non avrebbe mai minacciato nessuno, ma lei che è malfidato per natura, perché conosce se stesso e pensa che tutti siano come lei, non ci ha creduto e ha pensato solo a un ricatto.» Lo incalzò ancora: «Probabilmente le ha promesso i soldi della crociera e le ha dato appuntamento il giorno dopo per strangolarla. Ha agito con tranquillità, si è preso tutto il tempo che voleva. Ha il televisore, ha aumentato il volume per non far sentire le grida della povera donna e forse non ce ne sarebbe stato neanche bisogno. La povera Belli era così fragile! Poi si è ricordato anche dell’altra signora qui presente, la signora Landi. Anche lei l’aveva visto e ha deciso di eliminarla per stare tranquillo.»
«Lei non ha uno straccio di prova!» urlò a quel punto il Lischi rivolto al commissario che gli replicò immediatamente: «Lo dice lei! Abbiamo il capello sul vestito della Belli. Ci scommetterei la testa che è proprio suo. Lei sarà sottoposto all’esame del DNA e vedremo se non avrò ragione!» Il Lischi si lasciò andare sulla sedia, accanto alle lettere che aveva depositato. «Questo non prova niente!» continuò la sua difesa alzando ancora di più il tono della voce, un tono che ormai non convinceva più nessuno. Il commissario diventò implacabile: «Vede, caro signor Lischi, abbiamo poi la testimonianza della signora Landi che la schiaccia. L’ha visto dalla finestra ed è disposta a testimoniarlo in tribunale. Se non bastasse abbiamo i dati del suo conto in banca e dovrà dimostrare dove ha preso tutti quei soldi. Per un postino ottocentocinquantamila euro sono decisamente troppi, senza contare il costo della macchinona e le spese per la sua donnona bionda!» Il Lischi non protestava più, stava quasi per svenire sulla sedia. Il commissario stava spiegando a tutti, compreso l’assassino, la sua strategia. Era dovuto partire a ritroso per capire l’omicidio del Bianchi. Aveva iniziato dal secondo, quello della Belli, ed era risalito come uno storione alla sorgente del fiume. Poi aveva fatto le sue brave congetture e aveva costruito l’intero disegno. Il postino era entrato in casa del Bianchi, tramortito dopo la colluttazione dei fidanzati, che avevano lasciato socchiuso il portone d’ingresso. All’inizio voleva solo soccorrerlo ed era entrato in cucina per prendergli semplicemente un bicchier d’acqua. Forse non aveva neanche l’intenzione di ucciderlo, ma è l’occasione che fa l’uomo ladro e, in quel caso, era l’uomo stordito che faceva l’assassino. Sapeva dei gioielli, del vano blindato e dei soldi, soprattutto dei soldi. La chiave sarebbe stato difficile trovarla e aveva poco tempo per agire. «Invece del bicchiere lei ha visto soprattutto il coltello da cucina appoggiato sul lavello e lo ha afferrato, non è vero?»
Il Lischi non reagiva più. Era inebetito ma il commissario imperterrito continuò: «Lei avrà afferrato un tovagliolo di carta per non lasciare impronte, se lo sarà poi messo in tasca e buttato via con comodo.» Il Lischi continuava a tacere, non osava nemmeno più contraddirlo. «Ha accoltellato il povero Wladimiro Bianchi alla schiena, mentre stava scappando da lei, dalla sua morte!» Lo osservò mentre abbassava gli occhi verso il pavimento e mitragliò ancora la sua spiegazione: «Quanto c’era nel pacco? Sicuramente ci possono star dentro un bel po’ di bigliettoni da cinquecento euro. Facciamo pure un milione come cifra. Il conto torna: la macchina di lusso, il grosso deposito in banca, la biondona consenziente.» Tutti erano rimasti muti come pesci, in attesa del successivo chiarimento che venne subito per bocca del Lonzi. «Ci siamo informati. Il giorno del delitto del Bianchi, lei era fuori servizio. É il postino che porta i pacchi, le lettere. Che stupido sono stato a non averci pensato subito! Lei è sempre rimasto appiccicato al suo pacco il giorno dell’omicidio. L’hanno visto portarlo dentro la sua macchina, lo stesso macinino che ho visto parcheggiato vicino alla casa del donnone che lei frequenta. Lei rappresentava il corriere ideale per uno strozzino, uno che andava avanti e indietro nei palazzi a riscuotere i soldi che dovevano a lui e nessuno che l’avrebbe potuto sospettare per questo!» Il commissario lo stava guardando con disprezzo, perché invece della posta aveva portato la morte due volte in quel palazzo e contribuito a rovinare un sacco di gente con i prestiti a strozzo. Poi riprese a parlare fissandolo negli occhi per gustare la soddisfazione nel demolirlo definitivamente: «Scommetto che il Bianchi per tutto il suo servizio gli dava una miseria oppure per lei non bastava e ha approfittato dell’occasione. Sapeva della rumena e del suo fidanzato, li aveva intravisti, qualche minuto prima, uscire trafelati dalla porta dell’appartamento del Bianchi. C’erano già i colpevoli per l’omicidio, bastava scegliere i tempi giusti. Lei ha accoltellato il Bianchi, si è messo in tasca il fazzoletto usato per il coltello per non lasciare tracce ed è sceso gridando aiuto e recitando con la polizia la parte del povero postino impaurito.»
«Maledetto!» urlò a quel punto il Lischi e il Lonzi non sapeva se ce l’aveva con lui o con quel taccagno del Bianchi che forse, come compenso, gli dava veramente una miseria. La cosa più probabile era che ce l’avesse con entrambi, ma ancor di più con se stesso, perché se non fosse stato così stupido da uccidere inutilmente la vecchia, nessuno avrebbe potuto mai sospettare di lui. Il postino uscì ammanettato dai poliziotti. La sua faccia anonima e insospettabile comparve varie volte sul quotidiano locale, che vendette un sacco di copie proprio per quel motivo. Si sa, la nera funziona sempre, è una panacea per gli avvoltoi, ma in quel caso gli uccelli rapaci si cibavano di un postino carogna. Cercò di avere delle attenuanti dal giudice e confessò spontaneamente in aula i delitti, ma tutto ciò non servì a togliergli l’ergastolo. Se ne continuò a parlare per un po’ di tempo. Chi ava da via Roma, vedendo il palazzo dei delitti, si ricordava del Lischi e della Belli ammazzati. Fu difficile vendere i due appartamenti, dove erano avvenuti gli omicidi, ma poi i due affari si conclo. Su tutta la faccenda infine cadde il velo dell’oblio. Rimasero della vicenda solo alcuni ricordi, come se fossero ex voto della Madonna di Montenero, in cima alla collina che sovrasta la città, cui tutti si raccomandano, spesso anche quelli che non ci credono. Non si tratta né di un cuoricino d’argento dedicato alla Madonna per grazia ricevuta contro una malattia perniciosa, né il volante tutto contorto di un’auto incidentata, né la palla di ferro, messa ai piedi di una donna, resa schiava dai pirati. I ricordi sono altri: un capello di postino archiviato negli atti giudiziari, la domanda senza risposta della vecchia Silvia Landi al commissario Lonzi che gli chiedeva perché doveva dire al Lischi di averlo riconosciuto, quando lei non ci vedeva un tubo. Infine l’esatta combinazione oraria di un postino che aveva suonato due volte, sempre alle dieci precise nello stesso palazzo, compiendo azioni che avrebbe pagato per sempre. A circondare, come un alone di nostalgia, tutte le vicende narrate, una città di mare come Livorno, che si può amare oppure odiare e, strano a dirsi, anche
amare e odiare allo stesso tempo.
F I N E