La Petite Mort 4a5x2u

Luigi Salerno

La petite mort

UUID: 9db86d24-700d-11e4-8373-9df0ffa51115

This ebook was created with BackTypo (http://backtypo.com) by Simplicissimus Book Farm

Table of contents

La petite mort I II III IV Epilogo Notes

La petite mort

"On that solemn night (it may be their last) those that knov me seek me". Walt Whitman

I

È molto tardi quando mi affiora un certo pensiero. Un pensiero tardivo al quale mi affido senza alcuna resistenza. Quello di uno che fa molto tardi senza un motivo mai chiaro, nemmeno così ortodosso e legittimo, per una mezzanotte inoltrata di vigilia e di solitudine natalizia. Una come questa. Forse perché gli occhi a quest'ora avvertono meglio e in modo più scandito il crepitio di tutto quello che avviene, di quello che freme e che non accade ancora del tutto, in modo troppo esplicito e compiuto. Alcuni pensieri si addensano ai pochi battiti d'aria rimasti vivi, come ai suoni calmi dalle sonagliere di un albero lasciato . Il baffo di pandoro che nemmeno due ore fa una mia amica seduta accanto a me avvicinava alla mia bocca, chiedendomi sulla mia giornata di domani, – quando abbassava gli occhi scuri, un po' arrossendo. Dalla finestra appannata il fioco di un pianino che fischia dalle Americhe. Il rigo d'ombra di un piovasco accenna sulle grondaie; una mano notturna di donna che cuce una coperta bianca e nuziale, mentre canta e ricorda. Un pensiero come questo, che mi ha sfiorato in una smorfia di sonno, come la sfida di un qualsiasi rumore che si avvinghia tra i pochi doni aperti e sbarca di colpo nella mia stanza già oscurata. In una notte fonda di misteri, inglobando in nuce una pace epifanica e molto più cara di qualsiasi possibile silenzio inalterato. Il vero silenzio è quello del suono che tace: i tacchi svelti di una donna dal cortile, che rientrano e poi rallentano – è difficile che non riesca a intuire la profondità naturale di uno sguardo dal solo o lesto femminile. Spesso intuisco la grandezza e lo spazio indaco tra i seni; la lunghezza delle mani, dei capelli e degli occhi. Ancora: lo sbattere fradicio del portone, che rilascia la sua eco tra le rampe. L'ululato lacerante di un cane, rimasto solo in casa per troppe ore. Il tuono di un televisore al massimo, contro un anziano completamente sordo e frastornato. Il sibilo di un rasoio sul vetro bagnato dello specchio. La stoccata di un ascensore che ferma al mezzo piano e poi rimbalza di pugni e di monete. L'acuto di un concerto lirico da una finestra dimenticata aperta. Una bambina che fuma con una bambola in braccio. Un cenone malinconico tra compagni di classe, che frana in un ultimo applauso di brindisi e in un ultimo cognac fuori orario.

Una telefonata oscura, nel cuore nero della notte - quelle mute e appena affannate avrebbero lasciato insonni diversi individui per intere nottate. C'è addirittura chi pensa che da una particolare telefonata anonima e notturna ti si possa spezzare qualcosa dentro e per sempre, nel varco più insondabile del dirupo, senza alcuna possibilità di rimedi. Ho i brividi... Anche in una notte di veglia e di vigilia così solitaria e insulare, di cui mi accingo proprio adesso a narrarvi. A volte basterebbe non rispondere, ma anche quella sarebbe una forma di risposta. Ma quella notte del ventiquattro io risposi. Non riuscivo a prendere sonno a causa dei rumori, di alcuni tra i più funesti che una notte di solitudine natalizia potesse mai riservare a un mio rientro tardivo, tra televisioni lampeggianti senza volume e basilischi Bittersweet shimmer e Honolulu Blue di luminarie, cercando di annegare a fatica nella quiescenza di un sonno crepuscolare e continuo.

II

Colpa di quei rumori, dicevo. Cominciavano dal piano superiore, dove vivono due coniugi anziani. Sempre così tranquilli, anche nelle notti profane; dei tipini silenziosi e abitudinari, dai capelli tinti corvini – così l'uomo, di un nero formica lucido da scarpe sempre intatto. Quello che ascoltava sempre la radiolina straniera e poi di sera l'operetta, non oltre le sette, ma sempre molto discreto, cerimonioso e diabetico. Anche la sua signora, bassina e dal viso lungo e tremolante, ex dattilografa al Comune, dalle dita dolci di pianista, che gli faceva l'insulina e la pasta fresca all'uovo ogni Domenica. Se mi accorgo di loro è solo verso il periodo estivo dei soliti anziani fobici e non partenti. Abitanti spettrali, gli unici più bianchi di carni e di cuori, dai gomiti nudi e rugosi posati sulle finestre celestine della sera, a fissare le camicie semiaperte alla brezza lunare, perché le finestre sono sempre ariose, come le camicie degli uomini d'estate, quando snudano da un davanzale le primavere di panna dei seni più giovani. E invece quella notte, dal loro appartamento, pareva infuriare un cavalluccio a dondolo impazzito, ad accanirsi come martello di carpenteria sulla mia povera testa innocente. Un suono torvo di ariete, così disturbante e mai accaduto, da una coppia di vecchietti così deboli e soli, e a quell'ora così tarda, poi. Facevo difficoltà a immaginare in che modo i due anziani potevano mai causare quello strano galoppo metallico e sfrenato. Due persone sempre così metodiche e serene nel etto borghese di coppia, lei con una mantellina color panna e lui con un lungo cappotto scuro. Due formiche ormai stanche, quando affioravano lungo il corso Angelica Kauffmann, e senza mai nipoti in giro, mai visti e forse nemmeno mai nati. Neppure nelle giornate natalizie di vacanze, ne ero certo, non avevano mai ricevuto nessuno nella loro casa, oltre agli addetti lettori dell'acqua e del gas. L'immaginazione si fa ancora più violenta di un qualsiasi suono, nel vederli deformati in pose visive o perverse, nel favorire quella strana mischia di galoppo sofferto e di ciondolio. Quando smisero, arrivò a ruota un cane, un cane solitario e infernale, credo molto randagio, ma che non avevo mai sentito prima con quel tipo di suono. Dal suo abbaiare fumante, nel freddo, lo immaginavo nero. Ma quel latrato era diverso, aveva lo stesso mistero inquietante del cavalluccio a dondolo ubriaco del piano di sopra. Poi smise anche il cane. In ultimo, prima del

suono regina, – quello che avrebbe segnato su tutti gli altri la memoria di quella mia notte –, una voce compulsiva e incavigliata tra due persone vicine, credo di sesso opposto, imbrigliate in un riso nervoso e senza redini, la risata di chi avverte una mano addosso e finge di volersene liberare, ma invece se la trattiene e se la guida attraverso il cappotto, nel calore infernale delle vesti pesanti, dove pompano le carni nelle calze, oltre le file dei bottoni rossi. Erano due che rientravano, parlando a brani e già sfasciati nelle loro risate nebbiose; trattenendosi poi a fatica, le mani spalancate sulla bocca, per non creare troppo frastuono. E subito dentro, sfiancati dal peso delle buste dei regali, a ridere ancora, di quella gioia già viziata, attutita dalla benda delle sciarpe alte. Dentro l'ascensore o forse ancora in piedi e distrutti sull'ingresso di casa. Lei con le scarpe alte, le cosce bianche e già scoperte, segate dal cilicio e dalla tinta Apricot dell'autoreggente. L'orlo della gonna lunga sollevata trattenuto tra i denti; ancora i pacchi profumati che le premevano un grosso seno nudo e traboccante dalla costa in velluto, sgualcendo tutta la carta strappata. Mentre l'uomo si pettinava allo specchio con l'acqua fredda e il capo obliquo e stempiato, gli occhi fissi: adesso senza più ridere o parlare, nella luce viola di un bagno rosso e moderno. Quando il portone si chiuse, era calato uno strano velo sul teatro di quegli ultimi istanti. Ogni suono fu imbavagliato oltre la patina flou dei miei vetri, e così ritornava il grande silenzio sospeso, quello della festa di vigilia ormai finita, che si scandiva nelle luci di brandy delle ultime cucine aperte. Ma durò poco. Erano le due meno dodici, quando squillò il mio telefono. Prima di allungare il braccio alla cornetta, scorrevo i visi sulle persone della mia vita che in quel momento avrebbero potuto avere bisogno del mio aiuto, della mia voce e del mio primo soccorso di ascolto. Doveva trattarsi di qualcosa di molto grave e di molto urgente, pensavo, come poteva essere un malore, un decesso, la necessità di uno sfogo, di un consiglio, per telefonarmi a quell'ora. I più fragili e probabili erano sempre i miei costretti e subiti consanguinei: l'età selezionava la sequenza dei loro ultimi visi, sentiti tutti una manciata di ore prima, per gli auguri, e che adesso si riaccendevano uno dopo l'altro come in una parata macabre, sezionando il sentore e il sospetto della loro possibile urgenza o necessità di sorta. Non riuscivo a immaginare nessun amico che poteva chiamarmi a quell'ora e per un motivo grave del genere. Lo avrebbe fatto per qualcosa di spirituale e di molto intimo, e in quel caso avrebbe potuto attendere anche il giorno dopo, semmai approfittando di una eggiata silenziosa nel

dopo pranzo di Natale, così la mia amica e possibile sweetheart, vicina di posto e arrossita. Ma per un infarto notturno, un trombo o sbocco di sangue scoppiato nel pieno sonno, qualsiasi amico o parente e congiunto di amico, avrebbe dato di sicuro la precedenza a qualche suo diretto consanguineo, semmai con maggiore intimità di morte subita, sfiorata e riavvicinata. Se si fosse mai trovato da solo, intendo, e allora al proprio vicino di casa, al proprio medico curante, a quello di guardia. Nel mio veloce rodeo di supposizioni rimaneva solo l'alternativa dell'errore e del nemico, pensando così di aver esaurito almeno tutte le principali possibilità, per uno squillo fucilata di quell'orario. Avevo dimenticato però quella di un estraneo e di un pazzo furioso, di uno che non aveva sbagliato per un errore casuale, ma al contrario, per una volontà mirata di un errore che causasse disturbo, molestia e anche spavento. Di qualcuno che anche non essendomi amico né parente, desiderava soltanto di sottomettere in qualche modo la mia voce, in quanto sconosciuta e trovata a caso, per una combinazione di colpi ciechi battuti sulla tastiera. Erano ati alcuni secondi dal primo squillo. Tutti quei pensieri, che ero riuscito a codificare a distanza, erano sfrecciati in virate acrobatiche, senza darmi più il tempo di pensarli ma di reggerli appena nel loro shining, come le pubblicità più lontane dagli aeroplani gialli ed estivi, che annunciano gli incontri ippici di trotto della sera, prima di svanire nell'azzurro.

III

Alzai il telefono. Fuori ormai dormivano tutti, anche gli ultimi possibili molestatori e rimanevano soltanto i riflessi in rosaurora degli alberi accesi, palpitanti da qualche finestrino sull'argento vivo della strada. La voce al telefono: né giovane né anziana, graffiata appena dal sonno o dallo spavento della mia risposta. Adesso l'avvertivo barcollante, appena ubriaca, come se la sua bocca oltre che a parlare fosse impregnata di qualcosa di indefinibile. Una voce femminile ma così antica, con una riga venefica nel piumino del timbro, appena più familiare delle possibili altre mai immaginate. Qualcuno che mi raggiungeva dalla sua nebbia senza un motivo, o per il rogo di un dolore lontano. Non riuscivo a credere più a un'emergenza privata, se in quei pochi segnali di vita non riconoscevo nemmeno, tra le persone più vicine e più fragili della mia esistenza, qualcuna che avrebbe potuto cercarmi nella notte per un Buon Natale. Quelle stesse che invece si sarebbero avvertite nel pericolo già dallo squillo nella notte. La lasciai procedere, allora, la voce notturna e velata, come da un naviglio dolce di fate. Sembrava poco più nitido il segnale. Poteva provenire stesso dal palazzo. Un' interferenza da un appartamento segreto e murato, uno scherzo di un'idiota col telefono in camera, oppure il semplice desiderio di un'altra voce ancora, prima di prendere sonno o di spararsi un colpo alla tempia. Nel desiderio di amare qualcuno, di nascosto dal mondo, cercato da una vita e oltre il tempo. A questo di solito non si pensa mai, ché è delittuoso il solo sfiorarlo col pensiero. Si accetta con maggiore apertura e comprensione lo scherzo notturno e violento, il misfatto sadoerotico e la minaccia di morte: perché riescono in qualche modo a creare l'identificazione comune di quell' istinto torvo e attraente, che un po' ci appartiene quando si snoda verso la paura del buio dell'altro che non ti vede. La possibilità di dominare le emozioni di qualcuno dal riparo del proprio antro e con l'alberello accanto ancora e intermittente. È ancora tutto più nobile e plausibile, con il genio di uno scherzo violento o con la minaccia di morte, anche nella rabbia del rifiuto e nella più sprezzante bestemmia di rinculo, contro una cattiva parola, frase sconcia o cattivo pensiero al telefono. È anche quello che si farebbe in prima persona, se da soli al mondo in quel preciso momento di febbre, con un movente adeguato di follia o di ione funesta per la circostanza del

non sentirsi amati, e senza altri testimoni diretti che possono controllarci e amarci, in quell'ora così morta e proibita. Invece la richiesta notturna di un amore impossibile, è una cosa di fronte alla quale non puoi porti né prepararti e nemmeno reagire con le solite convenzioni di circostanza. Non puoi nemmeno abbassare con il polso rovente e maledirlo. Al massimo puoi accenderti una sigaretta nel buio, cercando con un braccio aperto il posacenere di pietra agata e vedere fino a che punto può arrivare e a volte anche commuoverti, se qualcuno potrebbe averti cercato da lontanissimo e in una lunga notte del genere. Una richiesta superiore e inspiegabile, che rende difficili e inesauribili le possibili parole e risposte alternative a tutte le spiegazioni e supposizioni appena scorse. Una voce femminile che mi svuota in sottovoce, nella sua fumosa rapina di profumi e di luoghi lontani, creando quell'aria di pericolosa sospensione dove la rabbia e la pace in un solo animo, si incrociano in un silenzio desertico di perdita, nella paura di quello che ancora non conosci e che fino a un istante prima non c'era nella tua vita, ma che ancora ti intrattiene nel suo misterioso Largo. La donna mi parlava e io lasciavo che sciogliesse le sue parole come capelli appena scomposti da un nastro scuro, risonanti dalla fessura di un elmo, scolpite in quel suo rango d' ignoto, di cui adesso ancora mi confondo, come nell'ascolto di un canto di uccelli di una specie mai esistita. Ma qualsiasi ignoto sarà sempre sottratto al dominio comune del mio tempo, se forse quella voce ignota non era nemmeno una voce e non avrei mai saputo se mi fosse davvero accaduta. Ascoltarla, o come leggerla, non sarà mai una fase iva, ma una partecipazione occulta a un nuovo estro possibile, di qualcuno che potresti non raggiungere più se non in quello strano appuntamento mascherato e necessario, con il caso di quel solo attimo delicato quanto inspiegabile, che non potrebbe più ritornare. Non mi parla ancora di sé e non mi dice ancora il suo nome, ma intanto mi sta narrando soltanto di me, di cose che non ricordo ma che conosco senza saperle e che ho imparato senza averle mai comprese né apprese. Non accendo più la luce – avevo il dito pronto ma lo abbandono - che la donna ancora mi parla, con lentezza e non mi stanca, e intanto ingoia tutto il residuo del mio silenzio rimasto e apito, tutto quello che era già accaduto o non successo oltre il mio balcone socchiuso. Le voci sfumate del cenone triste di classe, il mutismo dei portoni e del cavallo a dondolo dopo lo squarcio del cluster e gli alberi di Natale e tutto quello che mi sembrava respirare e che adesso era sfinito e astratto, oltre il muro blu del mio

vetro appannato. Che non aveva più tempo e spingeva alcune frasi verso le lacrime e mi chiedeva come sarebbe stata la mia vita con lei; che io non potevo ancora arrivarci a risponderle o a immaginare una qualsiasi risposta. Ero pronto a rovesciare tutte le mie possibili supposizioni su quell'origine così oscura e complessa. Il tempo dei suoi diciassette anni, averla appena sfiorata in una foto o nemmeno, se era una donna tenuta così ben sepolta nella pomata di un seno materno, soprattutto a noi bambini; se gli adulti avevano tutti già ben rimosso e dimenticato, dietro gli occhiali d'epoca, alcuni mai saputo, dal ramo materno della famiglia di mio padre, — credo di associarla a quella linea più lirica di discendenza. Adesso che mi svaniva ancora nella voce, ritornando nel fondo della sua armatura, come se più lontana ma di colpo più vicina, quando riconobbi il suono lento del suo nome, quando lo scandì, anche se per una sola volta, giusto all'inizio di un suo bacio fitto e notturno, che mi schioccò nel buio e facendomi chiudere gli occhi al telefono, a uno mai visto né sognato, pensavo, tremando nel picco di batticuore, che in un accesso comune di solitudini aveva incrociato in un mio ricordo stordito – una mano calda affondata nei capelli bagnati — ma non del tutto dimenticato, perché da un pomeriggio d'infanzia, adesso un po' lo ricordavo: Elvira, la mia nonna paterna, mi aveva parlato una sera di lei, e forse ero l'unico al mondo a sapere di una cosa del genere, così segreta e tremenda, quando ero ancora troppo piccolo per misurarla. Ma certe storie troppo dolorose spesso si negano ai figli, anche se già grandi, e in particolari momenti si possono rivelare a un nipote ancora piccolo ma così attento e solitario, come ero io nei suoi occhi stanchi e innamorati di me, che mi brillavano davanti come candele.

IV

Non ricordo quanto tempo ci parlammo ancora quella notte, ma ormai cominciava a sciogliersi il nodo di quel dubbio, nonostante non fosse semplice dedurne e quantificarne i riferimenti più precisi, oltre alla pronuncia di quel solo nome possibile e rallentato. Quella voce era dell'unica sorella di Elvira, conosciuta da tutti come una nonna figlia unica. Lo scoprii e lo rinvenni da solo e ancora più avanti, nel tempo, cercando conferme tra parenti lontani, vecchie lettere d'amore raccolte in un nastrino verde e piccole foto sbiadite. Questi erano i dati certi, quelli che avevo raccolto in quella manciata di parole soffiate, e quanto mi rimase nell'orecchio e negli occhi chiusi da quel suo bacio di Natale, tardivo e malinconico, che dovetti mantenermi dentro per parecchio, non riuscendo a resistere alla tentazione di saperne oltre. Perché non mi avevano mai più parlato di questa sorella segreta di nonna; avrei avuto ancora i suoi stessi occhi, appena allungati al maschile o la sua stessa voce, i suoi i e le sue mani dolci di inizio secolo. Elvira e sua sorella vivevano in una casa dai soffitti molto alti, dove sono rimaste per diciassette lunghi anni, a respirarsi accanto e confidarsi l'impossibile, prima del sonno e prima dell'inizio del giorno. Quella stessa stanza dove Elvira avrebbe continuato ancora a dormire, allo stesso posto di sempre, da sola, per diversi altri anni, mentre l'altra si uccideva in una strana notte radiosa e stellata, – si disse con un veleno, per un amore sofferto e non corrisposto (unrequited love), in un abbaino di una vecchia casa colonica, accanto a una filanda dove si cantava e si rideva fino a tardi. E poi fu spostata di furia e in gran segreto al cimitero vecchio, nel pomeriggio del giorno dopo che diluviava ancora di nero, dopo un giorno prima così sereno, che quando si mossero per la fretta, scivolarono anche i becchini sulla curva grande e lanciarono una bestemmia impetuosa, da far sganciare un grosso corvide dal ramo più alto, mentre la carrozza infossava di schizzi nell'acqua e due cani bianchi e neri la scansavano, dissolvendosi e latrando tra le pozze di fango e la schiuma folta della bava. Mi fu detto solo questo e poi mai più ripetuto, forse pensando che io non capivo e che non potevo mai ricordare di un sussurro così fioco, credendomi un

bambino distratto e troppo sognante, – forse mia nonna Elvira, quando mi parlava come se fosse da sola, nel suo cucinino dal soffitto rosso. Ma c'era ancora qualcuno che l' aveva sentito, quel mio ascolto distratto ma ricordato, serbato per me solo, designandomi come unico testimone vivo per lo spavento di non avere al mio di fuori più ragioni vive di memoria e di una piccola eternità. E allora io aspetto ancora, invece, che quella piccola antenata smarrita, in qualche notte più chiara e con meno rumori nell'aria, riprenda ancora a chiamarmi e si riveli per quanto non potrà, per imparare a trasformarmi e a fingermi suo amante più giovane di quasi un secolo, e consolarla del nostro soffiato e feèrico incesto segreto. Senza occhi e senza mai tradirla, nemmeno per gioco, e soltanto in attesa di un suo nuovo bacio fantasma. Appena prima del sonno e del giorno.

Epilogo

Il mattino dopo la giornata schiariva del suo sereno. Era molto fredda e luminosa. Aprendo la mia finestra, assonnato, sul viso l'aria fredda di Natale. Ancora la luna. Da una voluta di fumo, il crepitio di un pianino stonato e giocattolo: sul balcone di fronte due bambini ancora nei pigiami, mostrando al loro vicino stordito i loro regali, quando la loro madre compariva in una vestaglia rossa, nel gelo. I capelli calati sul viso, quando si tirava entrambi i figli dentro, a fatica, abbandonandosi a un breve sorriso impacciato e trattenuto verso di me, dietro gli occhiali sottili e colorati, prima di chiudere la tenda e di andare. Riprese dopo un poco a fioccare.

Luigi Salerno Autunno 2011

[1] Copyright di Luigi Salerno 2011

Tutti i diritti riservati

[2] MCN: CXJDV-GJWQ6-KDQXR © copyright Sun Dec 11 10:36:14 UTC 2011 - All Rights Reserved