Alessandra Fasson
La villa degli orrori
Mysterious park
Titolo originale: "La villa degli orrori" © 2015 Giovane Holden Edizioni Sas - Viareggio (Lu) I edizione cartacea febbraio 2015 ISBN edizione cartacea: 978-88-6396-572-8 I edizione e-book marzo 2015 ISBN edizione e-book: 978-88-6396-621-3 www.giovaneholden.it
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UUID: 9788863966213
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Indice
I II III IV V VI VII VIII IX X XI XII XIII
L'Autrice
Qui una stella, e là una stella, alcuni si perdono! Qui una nebbia, e là una nebbia, infine - il giorno!
Emily Dickinson
I
Prima di salire al vigneto, il Santi, attraversò per l’ennesima volta la stradina che saliva alla villa delle sorelle Mariani. Era compito arduo vederci dentro all’intrico infestato del giardino, strati di fogliame sparso, rami aggrovigliati e nodosi cresciuti senza ordine né guida. Delle sorelle non sapeva più nulla da giorni, ormai mesi, nemmeno un cenno di risposta. Non che avesse molti contatti, solitamente raccattava i biglietti lasciati al cancello d’ingresso e andava a comprare quanto segnato; di ritorno appoggiava la spesa all’interno del portone socchiuso, poi riava per prendere i soldi. Qualche volta aveva intravisto Faustina, la più giovane delle Mariani, ma le altre due ormai da anni non si vedevano, le ricordava vagamente al funerale della vecchia. Nere come corvi, le schiene curve piegate dal dolore, o forse dall’artrosi, o per la fatica di uscire di casa stando insieme alla gente, strisciavano i piedi a terra, tenendo il capo basso. A lui avevano sempre fatto impressione, difficile trovare esempi così malfatti del genere femminile. Il giorno del funerale della madre, il volto delle figlie non si vedeva, coperto da un fazzolettone scuro calato sulle guance e da cupi occhiali, in compenso spuntava nitido il naso, a fendere l’aria come un aberrante aculeo. Sembrava più lungo e ostile per via delle gote scavate, la punta prendeva un colore violaceo e quasi scompariva la fessura secca e tremula della bocca. Sin da bambino, appena le avvistava, Danilo Santi, gonfiava le guance, si mordeva le labbra per far circolare il sangue, fingeva di essere tondo e turgido nel tentativo di esorcizzare tanta aridità. Erano tutte e tre puntute, con quel naso acuminato, seppure la bruttezza prendesse forme specifiche in ciascuna. Danilo le aveva studiate bene sin da piccolo, quando venivano in visita dalla madre: quelle strambe vicine di casa, in qualche modo lo turbavano. Il vecchio padre delle Puntute, Filiberto Mariani, se n’era andato molto tempo prima in strane circostanze, dopo un oscuro incidente di caccia. ò due giorni a urlare come un ossesso, pareva che un morbo fulminante, un fuoco bruciante gli ardesse nello stomaco. Furioso imprecava contro tutti, la moglie e le figlie si alternarono al suo capezzale senza riuscire a placarlo. Dopo la tragica dipartita,
le quattro donne presero a vestire sempre di nero, ritirandosi progressivamente dalla vita sociale. I Santi erano tra i pochi privilegiati ad avere contatti con loro, insieme al prete, al medico, e alla signorina Zita Vendramini, anch’essa stravagante e isolata in paese. Il padre di Danilo, considerato uomo fidato, venne scelto come fattore, teneva in ordine il giardino e svolgeva ogni lavoro necessario a villa Mariani. Governava la sua terra e a tempo perso si curava anche delle Puntute. Alla morte del padre l’impegno ò a Danilo, il quale lo conservò come una sorta di eredità, ma lo faceva svogliatamente, mosso da un impulso di dovere-pietà mescolato a disgusto, un sentimento che non si spiegava affatto. “Manco un segno di vita! Nemmeno oggi! Sarà l’aria pesante, la nebbia umidiccia che cala a tradimento coprendo i campi e le case ad avvolgere le vecchie Puntute, costringendole a tagliare i ponti con il resto del mondo,” mugugnava a mezza voce il contadino sulla strada di casa. Nella testa di Danilo lavoravano le lamentele della consorte, infatti, non fece in tempo a mettere piede in cucina che Rosa attaccò il solito disco: “Ancora niente vero? Ormai bisogna pensare che ci sia sotto un fatto brutto. Dobbiamo fare qualcosa!” Trafficava in cucina e sembrava presa da altri interessi, in realtà si preparava a tormentarlo sull’argomento, ben sapendo che ogni riferimento alle tre vecchie gli era indigesto. Da anni non si curava più di sistemare il giardino, per le vecchie andava bene così, bastava portare la spesa, e già quello era un servizio pesante. “Domani andrò ai servizi sociali,” tagliò corto per zittire la moglie. “Prima bisognerebbe interessare il prete,” puntualizzò la donna, sfiancandolo con quella prudenza ossessiva e pedante. “Lui sa come comportarsi in queste situazioni delicate. In paese dicono che siano partite in piena notte, per ritirarsi in una casa di riposo privata. Soldi ne hanno, sono andate a farsi servire, meglio per loro, se fosse vero!” In quel paese di case vecchie, di gente isolata e stramba, in cui Danilo si sentiva
quasi un estraneo, non accadeva mai niente, salvo baruffe e maldicenze tra donnette ormai appartenenti a un mondo superato. L’indomani sarebbe andato alla villa, deciso a infiltrarsi nel giardino sino alla casa, vincendo lo schifo delle Puntute. Borbottava sul consiglio di andare dal prete, a che scopo? Ormai da anni le sorelle evitavano di entrare in chiesa, un tempo saliva da loro la signorina Zita Vendramini, donna di nobile famiglia, sino a quando l’annebbiamento senile non l’aveva ancora colpita. A far cosa poi? Un ritrovo di vecchie squilibrate con una religione tutta particolare, si diceva in giro. Seppure controvoglia, il mattino seguente era già nei pressi della villa, gli occhi umidicci, appesantiti da una nottata insonne con qualche crosta resistente all’abluzione, e un’irritazione che gli scoppiò più forte quando fu dinnanzi al cancello. La strada tortuosa e ciottolata, a tratti sconnessa, era coperta da erbacce, sul ciglio cespugli di rovo e bacche selvatiche, un intrico da cui spuntava qualche pianta di corbezzolo e mora, ma ormai più nessuno saliva sino a lì per prendersi i frutti. Un silenzio sinistro, la mano di Danilo toccò il cancello in ferro battuto, inchiodato e fermo, nella grossa serratura poco oliata, da tempo non entrava la chiave. La ruggine attaccava le alte inferriate simmetriche, lavorate sulla fascia mediana con motivi floreali, la vernice scrostata accentuava la desolazione di un luogo in abbandono. Inutile scuoterlo, solido e lugubre faceva da barriera, avrebbe dovuto scavalcarlo, ma non ci pensava nemmeno: rompersi una gamba per le Puntute. Poteva provare dal muro di recinzione, ma anche quello era piuttosto alto, sovrastato da rami e coperto sulla sommità da vetri di bottiglia spessi. Stavano lì da sempre, un’idea del vecchio patriarca Filomeno Mariani, il nonno delle Puntute. Bottiglie di tal fatta ora non se ne vedevano più, un vetro scuro, verde nerastro, tagliente e cupo. Ebbene che cosa gli restava da fare? Percorse la stradina che affiancava a levante la casa, in cerca di un punto più basso e accessibile nella recinzione. Era l’unico tratto percorribile oltre all’ingresso, il lato a ponente continuava nel folto della boscaglia, dopo un muro di roveri bianchi si entrava nella vallata dei vecchi castagni. L’aveva studiata bene la scelta del terreno, Filomeno Mariani, per
starsene isolato dal paese, di lui si raccontava quanto fosse chiuso, misantropo, solitario, tratti di carattere trasmessi al figlio, il quale si premurò di accentuarli. A tramontana la casa confinava con l’alta muraglia di contenimento del monte, più in alto solo un sentiero scosceso per arrivare in cima, da lì non si sarebbe visto nulla, la dimora era stata costruita all’interno, dopo gli alberi di ligustro alti parecchi metri, intersecati agli ontani folti e slanciati. Avrebbe potuto portarsi una scala, ma come riuscire a scrutare alcunché in mezzo a quella selva? A levante prima d’inoltrarsi nella massa dei rovi lasciati vegetare senza contenimento, sulla recinzione di mattoni e pietre, ad altezza d’uomo, si ricordò della presenza di un foro. Estirpò i cespugli di capperi infestanti, le cui radici si incuneavano violente nelle fessure delle pietre sino a spaccarle, e si aprì un varco tra i sassi. Allungò il braccio per spostare i rami, si fece spazio, tirò con decisione e strappò qualche frasca, imprecò furente, punto dagli spini del giuggiolo. La villa si intravvedeva appena attraverso il fogliame, era l’angolo giusto per scrutare; i balconi parevano chiusi, almeno quelli visibili e comunque dall’interno non filtrava luce. Poco discosta dall’edificio era stata costruita una specie di dependance, una veranda con ampie vetrate profilate da un legno ora consunto. Era diventata il rifugio della sorella mezzana: Felicita vi teneva al riparo i suoi gatti, ormai in numero imprecisato. Anche da lì non filtrava luce, era impossibile distinguere qualcosa all’interno dei vetri appannati. Ascoltò i rumori con circospezione, un qualche miagolio avrebbe dovuto tradire segni di vita, eppure neanche i felini si sentivano. Gli sembrava di annusare un olezzo umidiccio di polvere sedimentata e cibi avariati, qualcosa che irritava le narici, ma era certo suggestione, quel senso di orrore che provava da bambino le rare volte in cui entrava in quella casa con la madre. Brevi soggiorni, perché obbligato, che gli costavano l’emergere notturno di strani timori.
Quell’odore particolare, solo lui lo avrebbe potuto descrivere, lo assaliva sin nell’atrio della villa, mentre nascosto dietro la madre osservava la grande sala. Costruita sullo stile delle dimore padronali, la villa presentava un ampio spazio al centro, disimpegnante gli ambienti disposti ai lati, la scala situata in fondo all’atrio conduceva alle camere, non c’erano terrazzi, ma finestre regolari con balconi scuri, di un marrone quasi nero. Unico vezzo nel blocco rettangolare dell’edificio, il timpano triangolare, decorato con stucchi a soggetto floreale, forniva alla facciata un che di solenne. Un ampio porticato all’esterno l’avrebbe assimilata alle barchesse di campagna, ma il vecchio Filomeno, il nonno delle Mariani, aveva manie di grandezza. La sua doveva essere una dimora nobile, altera, anche se di fatto appariva fuori posto nel borgo. Nascosto tra le gonne materne, Danilo si riparava dalle possibili effusioni delle Puntute, sicuramente sarebbero comparse. Inevitabilmente, comunque, prima o dopo, il suo sguardo sarebbe caduto sull’enorme ritratto del Mariani. L’atrio era infatti sovrastato da una gigantografia a olio, bordata da una cornice spessa e intarsiata, dove imponente campeggiava la figura del padre delle Puntute: Filiberto Mariani, ritratto in abito da caccia. Bastava non guardarlo per uscire vivi, evitando il maleficio che irradiavano gli occhi nervosi e sinistri dell’uomo. Era forse il fucile posto a tracolla o la cartucciera zeppa di bossoli enormi a terrorizzarlo? Oppure la posa del Mariani con un piede appoggiato a un masso, ficcato dentro ai grossi scarponi o piuttosto il ghigno ironico e crudele impresso sul suo volto? Sembrava pronto a uccidere qualsiasi cristiano provandone sottile soddisfazione, così senza rimorso, mosso soltanto dall’impulso di misurare la propria forza. Appariva ancora più alto nella rappresentazione, stagliandosi su uno sfondo d’improbabili montagne. Indossava una camicia a quadroni sin troppo larga che lasciava trasparire le braccia, coperte di una peluria arruffata, tormentate da vene nodose; era di una magrezza particolare, ma aveva in sé una forza nervosa e impulsiva che non lasciava scampo. Ma da dove era uscito un tale demonio? A chiunque sarebbe sorto spontaneo tale interrogativo. Filiberto Mariani, unico rampollo generato per portare avanti la stirpe, a caccia ci andava e sin da piccolo, una ione cruenta che lo accomunava al padre Filomeno.
Percorreva i sentieri del monte in lunghi e pazienti appostamenti per fiutare le prede e condividere solitarie emozioni con il cupo progenitore. L’atrio della villa traboccava delle spoglie di animali imbalsamati, avvolti dentro un odore di bosco marcio, di humus depositato, non un buco di muro libero ove posare lo sguardo. Danilo lo sapeva cosa gli sarebbe accaduto, lo diceva alla madre: “Te l’ho detto che quella casa mi fa paura, piena di bestie morte attaccate al muro. E se succede... che…” Non sapeva nemmeno lui cosa dovesse accadere, un animale poteva materializzarsi, magari la grossa testa di cinghiale o la donnola o la faina o lo sparviero o la poiana. Oppure, e si vergognava a dirlo, quell’assassino del Mariani sarebbe uscito dall’inquietante ritratto e avrebbe caricato il fucile per farlo fuori. “Nell’atrio devo tenere la testa bassa e non fissare niente. E poi non voglio che le Puntute mi becchino con quel naso che fora.” “Non sono discorsi da farsi,” tagliava corto sua madre, aggiungendo come sempre: “Cresci, diventa uomo e ragiona con la testa”. La testa Danilo la usava sin troppo e stava all’erta, da ragazzo e poi uomo fatto non era più entrato alla villa, stava fuori con suo padre a sistemare quel campo in cui cresceva di tutto, tirando con la fionda ai gatti che la facevano da padroni, come fossero delle divinità. I ricordi erano perciò vaghi e per quanto si sforzasse di fendere con lo sguardo le fessure dei balconi non riusciva a immaginare cosa accadesse all’interno. Secondo lui le vecchie erano in quarantena, tutte e tre malate e contagiose, da mangiare certo ne avevano, ricordava una dispensa sempre colma, in caso di bisogno potevano cuocersi i gatti e sarebbero sopravvissute anni. Disprezzava le vecchie e ancora di più i felini, bestie infide e selvatiche, non ne aveva mai avuti, anche per non far torto ai suoi cani. Quando ne vedeva in giro, ci pensava lui a farli scappare rincorrendoli, fulminandoli con lo sguardo, mentre intercettava il loro impavido muso. “Gli strambi erano pericolosi e comunque bisognava curarli.” Lui la pensava
così, e quella casa era una fabbrica di matti, dunque meglio starci alla larga. Liberata Mariani, la madre-matrona, genitrice delle tre sorelle Puntute, era l’unico essere tondo in quella famiglia di aculei e spigoli, una palla rimbalzante, con la faccia gonfia, di un ovale imperfetto. Gli occhi li aveva grandi, sferici e sporgenti, appena entrava nell’atrio, lo fissava di traverso catturandolo subito con le sue mani gonfie, se lo coccolava, ma almeno era morbida, tanti strati di soffice ciccia, anche il naso pareva quasi umano con una puntina lievemente stondata. Lo trascinava in sala strascicando i piedi, con un sorriso giallastro e un alito micidiale. ava a interrogarlo sulla scuola, gli amici, i fratelli, per poi riempirgli le tasche di caramelle dolcissime fatte in casa: con zucchero, burro, panna di latte, vaniglia e miele. Una delizia insuperabile, inaspettata in tal luogo, capace di esorcizzare l’odore di muffa imperante. La matrona, portava i capelli raccolti a cipolla, divisi equamente da una riga dritta in mezzo alla testa, pareva scavata con un coltello tanto era profonda, un fossato spartiacque da cui partivano radi fili grigi. Certo pensava di essere bella, perché rideva spesso e di gusto, chiocciava come una gallina nel pollaio, non taceva un minuto e al colmo dell’assurdo si massaggiava la barbetta che le spuntava sul mento, senza curarsi di nasconderla. Di maschi non ne aveva fatti, la taumaturgica lettera effe già rimbalzata dal nonno Filomeno all’unico erede Filiberto, non poté posarsi in forme né virili, né tanto meno eccezionali. Non videro la luce i tanto attesi Fosco, Felice e Fausto, sviluppando un’amarezza pressoché incolmabile alle mai taciute ambizioni paterne. Quando il ciclo riproduttivo di Liberata si arrestò, decadde ogni ulteriore tentativo, la sorte aveva deciso! Dopo l’implacabile verdetto medico di sopraggiunta sterilità, Liberata godette di una pace totale, non era portata per l’attività riproduttiva, e come donna venne totalmente dimenticata. Danilo Santi, era sempre stato convinto che Liberata fosse un po’ debole di mente, quasi normale però, la vecchia non perdeva tempo a porsi grossi problemi esistenziali, oltre alla ione per la cucina, coltivava il suo orto, standosene a schiena bassa e respirando aria buona. Peggiore la sorte delle figlie, tutte e tre cupe, avevano preso dal padre, si
vedevano di rado, e Dio sa se erano brutte anche da giovani! Quando avano in paese bisognava toccarsi, nessuno se le sarebbe prese, portavano pegola, ormai era assodato. Felicita, la più giovane, forse era abile, appariva quasi aggraziata, di solito si rintanava in cucina vicino al camino, leggeva o scriveva quaderni di appunti, preparava gli erbari, e almeno sapeva conversare con la gente. Era caduto nei ricordi d’infanzia, il contadino, allontanandosi dall’obiettivo, ma gli venivano fuori da soli senza sforzo solo a vedere il confine della villa. Inutile sradicare altri rami di giuggiolo, più di così non poteva vedere dentro, il suo dovere l’aveva pur compiuto. Riò davanti al cancello d’ingresso, poco discosto si elevava in un unico esemplare un cedro del Libano, più a destra apparivano dei pini marittimi di dubbia provenienza, e poi i roveri ramificati e tortuosi dalla corteccia scura e rugosa che formavano una boscaglia. A complicare l’insieme vegetante inoltrandosi nel giardino della villa, si incontravano degli alberi da frutto: ciliegi, pruni, meli e melograni; nella parte assolata qualche olivo catturava i raggi del sole più cocenti, e per finire appariva una vigna bassa, arida e attorcigliata, ricoperta da frasche e cespugli cresciuti alla base. La zona preferita da Danilo era un punto dietro l’edificio con due enormi piante di fico, un rifugio fresco coperto da foglie palmate e pruriginose, producevano in abbondanza una qualità speciale di fichi piccoli, secchi, dolcissimi; molti finivano nel suo stomaco, gli altri nelle composte della vecchia Liberata. Affioravano senza posa una folla di immagini, fatte di odori e sapori, sedimentate chissà come nella sua mente, sensazioni piacevoli selezionate dai suoi ricordi, forse per cacciare i pensieri nefasti. A cosa doveva pensare poi? E comunque l’esplorazione andava interrotta, il sole saliva e l’aria si riscaldava, il tempo giusto per occuparsi dei suoi interessi. In giro si sentiva solo qualche scricchiolio, il rumore sommesso della vegetazione. Armeggiando con il bastone forgiato dal ramo del bagolaro, forte e flessibile, Danilo si fece spazio a terra e proseguì spaccando i rovi. Vetri di bottiglia
dappertutto, anche più avanti, anzi il muro di recinzione diventava sempre più imponente, perché a un certo punto il vecchio Filiberto, caduto in chissà quali sospetti, cominciò ad alzarlo, stabilendo un confine sempre più netto con i comuni mortali. Spaccava pietre, incuneandole e smaltandole con vecchi mattoni, sbatteva e sudava in un’inutile operosità, e avrebbe continuato a fabbricare se non fosse arrivata inaspettatamente la sua ora. Manco morto, Danilo avrebbe faticato per guardare, ammassando sassi sotto i piedi per alzarsi, si risolse a delegare ad altri il compito. Bisognava fare una bonifica là dentro, c’era da tagliare, sradicare, ripulire, e soprattutto mettere giudizio a quelle tre prima che fosse troppo tardi.
II
Il caso sembrava aver giocato bene le sue carte collocando i Mariani proprio in quel paese, strambi certo, ma non così fuori posto. Il borgo antico era cresciuto dall’alto verso il basso, le prime case arroccate sul colle e poi via via si sviluppò un secondo insediamento a valle. Le strade rimasero però ripide e tortuose, lastricate con piccoli blocchi di porfido, sullo sfondo l’abbraccio dei monti dolcemente digradanti, lo sguardo catturato dalla varietà dei toni di verde. Un luogo fuori dal tempo, inaccessibile quel tanto da isolarlo dal resto della comunità civile, capace sin dall’antichità di scoraggiare la presenza di troppi abitanti. Barrio Alto e Barrio Basso, erano sorti ciascuno intorno a una chiesa, antiche pietre tuttora congelate nel tempo, legate a un’architettura medievale, di cui il progresso non era riuscito a offuscare il suggestivo aspetto. Poco più di millecinquecento abitanti, si dividevano i silenzi interrotti dal suono delle campane, dai rumori dei campi, dai fruscii nella boscaglia, dai i ovattati degli animali nella macchia. Scarsa la presenza degli autoveicoli, troppo strette e ripide le viuzze, da scoraggiare anche i più rampanti fuoristrada. Uno spazio da vivere a piedi, inarcando la schiena e misurando il fiato, delineando così una sorta di selezione naturale delle presenze. Controllato il problema delle frane, contrastata con muretti di contenimento la natura calcarea dei terreni, e affrontata con una rete di canali d’irrigazione la scarsità d’acqua, non si registravano problemi emergenti, eccettuata la guerra ai cinghiali che devastavano le colture, razziando gli animali da cortile; erano giunti lì chissà quando e avevano prolificato trovando un ambiente favorevole. Non mancavano in ogni dispensa insaccati e carni di cinghiale, catturati in trappole speciali o impallinati, le bestie devastatrici assaporavano così il calice amaro della vendetta. Gli alberi da frutto, i vigneti, gli oliveti, i campi di
giuggioli, costituivano la ricchezza del posto, il suo tratto identitario, ne veniva incentivata la piantumazione; un giardino speciale accoglieva una pianta per ogni nuovo nato, le radici affondavano nella terra, testimoni di un’alleanza tra uomo e natura. A Barrio erano tutti contadini o quasi, ciascuno aveva il suo podere, anche i più restii ambivano a curare almeno il giardino, in un’implicita competizione di forme, chiome, e fioriture. Apparivano gli ulivi dal tronco disegnato come una scultura, bassi e raffinati con le foglie disposte nelle forme più svariate, i melograni ammiccanti, i giuggioli avvolti dalle chiome in modo aggraziato e vanitoso, per finire con leziosi cespugli di corbezzolo, rose selvatiche e arruffate aiuole di cisto. Anche quelli che trovavano impiego in città, poi dovevano affondare le mani nella terra, e la tradizione si perpetuava, tirando su immancabilmente olivi, viti, mandorli, giuggioli e melograni, produzioni sedimentate nel tempo. Danilo di campi ne governava parecchi, alcuni vicino casa e altri poco distante sul monte Rotto, erano tutto il suo orgoglio, dopo i figli naturalmente, ma quelli si vedeva bene che non volevano seguire la sua strada. Forse il più vecchio, era riuscito a convincerlo, ma gli altri erano stati traviati dalla TV o i troppi libri avevano messo in capo ambizioni, sicché erano caduti nel miraggio della vita cittadina. Di giovani a Barrio ne erano rimasti pochi, vacillavano le iscrizioni alle prime classi della scuola elementare, ate appena da nuove famiglie sistemate a valle, insolite portatrici di nostalgiche ioni per i luoghi isolati. Nel borgo alto, qualche artista ricco e illuminato aveva scelto la sua dimora, seguito a ruota da professionisti in carriera risoluti a concedersi l’esclusivo panorama dei colli, restaurando ville appartenute a famiglie patrizie. Il comune di Barrio, che stranamente evocava nel toponimo un’anima spagnola, non vantava abitanti illustri, seppure intorno al Cinquecento un proficuo a parola lo rese appetitoso per famiglie nobili e facoltose alla ricerca di quiete. Vi costruirono le loro residenze di campagna, notabili, medici, canonici, vicari, duchi, conti e altra crema della società con cui i popolani non ebbero mai buon sangue.
Le pietre trasudavano storia, delle due chiese, il vecchio oratorio, ampliato e modificato nel tempo, risaliva ai primi secoli dopo il mille, e la pieve arroccata su un pendio era di poco posteriore. Pareva scolpita su un blocco di pietra perfettamente avviluppata alla roccia, si slanciava con il lungo campanile, imponente e solenne guardiana dei colli. Tutti aspetti che attiravano una cospicua categoria di curiosi: i turisti, con i quali bastava non mescolarsi limitandosi a fascinarli con i più fantasiosi prodotti tipici locali. Secondo un non formalizzato accordo, nel paese non vi erano né pensioni, né alberghi, solo trattorie, taverne, ameni ristorantini, frasche e locande, luoghi pensati per soggiorni temporanei, poi il visitatore doveva togliere il disturbo. Certo di strambi in giro se ne vedevano, ma erano parte dell’ambiente, nessuno ci faceva caso, gente che se ne stava perlopiù muta e solitaria, diffidente e ombrosa, vagava lungo i viottoli parlando e imprecando tra sé, sputando a terra e fissando ogni forestiero con sguardi circospetti e sfuggenti. Andando a scandagliare più a fondo si scopriva che non era infrequente sposarsi tra cugini e parenti di secondo o terzo grado, un’endogamia che non faceva certo bene, produceva nelle persone sterilità, stravaganze comportamentali e confusioni mentali non meglio identificate. Le bizzarrie dei più miti risultavano integrabili nel consesso civile, e accadeva anche a Danilo Santi di portarsi appresso talvolta il Femminella, un tipetto basso, con la voce gracchiante e stridula tutto preso a ripetere ossessivamente le stesse domande. Poteva avere sui quarant’anni, difficile stabilire un’età precisa, si presentava ingolfato da pesanti maglioni di lana spessa, abbelliti dai ricami materni, pantaloni in velluto a coste larghe, tenuti su da bretelle e solidi scarponi da montanaro. Un paio di baffetti orgogliosamente portati, ingannavano restituendogli un piglio maschile, ma la voce stridente lasciava sconcertato l’interlocutore, sembrava un falsetto costruito ad arte per rendere comico l’insieme. Vendeva mazzetti di fiori di campo, confezionati con un certo gusto oppure sacchetti di lavanda essiccata. Era sempre innamorato e prossimo a fidanzarsi con chiunque gli desse retta, ragazzine o donne attempate, bastava parlargli e offrigli attenzione.
Sarebbe sbagliato, anche alla luce degli avvenimenti che accaddero in seguito, considerare il paese come un luogo di ordinaria follia, poiché la maggior parte delle famiglie erano equilibrate, ma qualche stramberia c’era, e tutti conoscevano le situazioni. Si pensi ad esempio alla strana coppia insediata sul monte Cervaro, senza dubbio il più incantevole nella catena dei colli. Mozzafiato la fioritura del viale di mandorli a primavera, un percorso incantato tra due filari di alberi, oltreando tronchi scuri e intagliati, sommersi da nuvole di fiori digradanti nei toni dal bianco candido al cremisi, al rosato. Superata la cinta fiorita, inerpicandosi su un sentiero laterale si giungeva a un vallone, dove oltreando una muraglia di meli conficcati in file regolari, si entrava nella caotica corte della vecchia Natalina, Pina per i compaesani. La donna si era guadagnata una certa fama in paese, provocatoriamente soprannominata Puzzona. Non era poi così vecchia, ma lo sembrava, lasciata completamente andare nell’aspetto, ma quanto mai scaltra e avveduta per quanto riguarda gli affari, diffidente e avara all’inverosimile. Andava accumulando un patrimonio che si diceva cospicuo, in tutto il resto però poteva considerarsi completamente persa. Arduo descriverla, perché lo sguardo riusciva a soggiornare poco sulla sua sagoma, la bruttezza particolare nel suo genere, era seconda al puzzo insopportabile che emanava. Quel liquido incolore così essenziale alla vita, necessario a ripulire e igienizzare, lei lo praticava forse soltanto due volte l’anno, presenziando alle celebrazioni del Natale e Pasqua di Resurrezione. L’olezzo che diffondeva appariva deciso e sferzante, pungente come un cacio ammuffito, umido come di indumenti lasciati a depositare per anni in un luogo bagnato, un odore frutto della raffinata distillazione di piedi sudati e unti abbandonati a macerare. Il volto era ampio e disarmonico, scuro, quasi marrone, sotto i folti sopraccigli, gli occhi a mandorla erano disposti su piani lievemente irregolari con un accentuato strabismo. I cappelli grigiastri e arruffati cadevano ai lati del viso divisi da una linea zigzagante. Tarchiata e bassa, indossava sempre diversi strati di indumenti atti a farla deambulare dentro e fuori casa con ogni clima. Nel tempo le gambe le si erano gonfiate per l’incuria e lo scarso movimento, divenendo territorio di vene grosse e contorte, apparivano violacee e pesanti. A un certo punto, superata la soglia dei sessanta, si era reclusa in casa con il pollame che viveva incontrastato nelle stanze dell’abitazione libero di fare i propri bisogni, neppure lo sposo riusciva a farla recedere da questa nuova mania. Si udivano sino a valle le imprecazioni della
donna delle pulizie, che saliva regolarmente due volte alla settimana a mettere ordine, batteva i polli e li ricacciava all’esterno, mentre Pina si chiudeva in bagno rassegnata. Il vecchio Aquilino, assuefatto alle stravaganze della moglie, reagiva soltanto nei momenti di lucidità. A vederlo ispirava simpatia ed era, contrariamente a Pina, lustro e dignitoso. Si presentava sin dal mattino, della stessa tonalità di rosso del vino incorporato, rosso granato dal colore del Merlot, più scuro e asprigno con quel sapore allappante la lingua se aveva scolato del Raboso, privilegiando sempre vini dal gusto deciso e fermo, secondi soltanto in preferenze ai liquidi invecchiati in botte. Una tazza di rosso con panbiscotto e zucchero era la ritemprante colazione del mattino, e poi avanti fino a sera, per tornare a casa cantando, con un colorito ormai tendente al violaceo. Sul capo indossava un cappellaccio nero schiacciato, appoggiato di traverso, la camicia a quadri dal collo tirato e le brache di lana nera piene di tasconi. Aquilino si teneva bene, sapeva anche stirare la biancheria, aveva appreso la tecnica per disperazione e vi si era apionato. Al colmo delle raffinatezze, egli indossava immancabilmente il panciotto, anche per i lavori nei campi, ogni tanto ficcava le mani nel taschino trascinando fuori uno dei suoi preziosi orologi a cipolla. La coppia si dimostrava particolarmente accogliente e prodiga di informazioni verso i turisti che a primavera salivano ad ammirare la fioritura dei mandorli. La Puzzona si scatenava e chiacchierava, inframezzando le sue competenze naturalistiche con un sorriso sghembo e giallastro. Nelle migliori giornate invitava le persone dentro la corte e offriva una bibita fresca, Pina guadagnava così un po’ di compagnia e attenzione, tutto sommato conversare con le galline non le dava la stessa soddisfazione. Il primo a lasciare questo mondo fu Aquilino, problemi di fegato si disse, risucchiato nei vapori alcolici della cantina, lo seguì di poco Natalina. Ormai quasi immobilizzata con le gambe gonfie e paonazze, trascorreva la giornata seduta su un particolare seggiolone costruito per tenerle gli arti inferiori lievemente alzati. Furono gli anni più lustri della sua esistenza, niente più polli in casa, stanze tenute a specchio dalla paziente Teresa, finalmente soddisfatta dell’ordine recuperato. Quando Pina morì si venne a conoscenza con precisione della sua età, ma soprattutto si scoprì la fortuna accumulata a dispetto dell’aria svagata e persa. La ereditarono lontani pronipoti mai visti prima del funerale, eccettuata una parte destinata al prete e al buon cuore della signora Teresa, unica
capace di affrontare gli odori acri della Puzzona, curandola sino alla fine. Una decina d’anni dopo la dipartita della coppia del Cervaro, la loro fama non si era spenta, diffusa oltre gli stretti confini del borgo, fissando l’incomprensibile contrasto tra la natura incantevole del luogo, e lo strampalato legame tra due esseri diversi e capaci di intendersi. La barchessa con la sconclusionata corte restavano immote a perpetuare il ricordo di Aquilino e Pina, attendendo un accordo risolutivo da parte degli eredi sulla destinazione dei beni immobili. In molti ambivano ad acquistare quel terreno baciato dal sole, isolato al punto giusto, dentro una natura artefice di uno scenario unico progettato attraverso il lavorio dei secoli. Gli agenti immobiliari salivano a ritmi regolari con facoltosi acquirenti, ma lo scoglio dei litigiosi eredi fermava per il momento ogni prospettiva di ristrutturazione. Danilo andava raramente da quelle parti, non aveva interessi nel Cervaro, legna se ne trovava poca, e le mandorle, a tempo debito, venivano raccolte per tradizione da alcune famiglie, pagate quasi niente dalla Puzzona. In compenso i vendemmiatori malpagati tenevano per sé grandi quantità di frutta secca trasformata poi in liquori e dolciumi, tostata e venduta in sacchetti artigianali. Si era guadagnato una fama tutta speciale quel liquore amarognolo, l’iscrizione fissata sulle etichette, suonava così: Dal colore ambrato brillante, con insistenti riflessi ramati, profumo intenso, sapore netto e amabile, il liquore di mandorle Monte Cervaro, per i palati eleganti. Etichette altrettanto ricercate corredavano biscotti e torte, nulla a che vedere con il disordine radicato dei proprietari del terreno, ormai defunti. Queste presenze quasi teatrali e del tutto innocue non esaurivano però la natura contraddittoria di Barrio, la tradizione popolare divideva gli abitanti in due tipologie: introversi, taciturni e diffidenti quelli del monte, più disponibili e aperti i valligiani. Del tutto fuori dalle categorizzazioni si configuravano le nuove famiglie giunte nel borgo, in realtà mai completamente integrate. Eppure a scavare sotto la crosta degli eventi qualche episodio enigmatico in paese era successo, poi dimenticato o messo da parte sino al ripresentarsi delle stesse situazioni. Si trattava di strani ritrovamenti di animali squartati e lasciati nel cuore dei boschi, macabre scene si presentavano ai contadini sui sentieri
inerpicati: lepri, fagiani, cinghiali, vittime di una furia devastante, poi abbandonati a decomporsi. Riti satanici? Sacrifici suggeriti da culti demoniaci? Questo sembrava veramente troppo per un quieto paesetto. La forestale indagò e perlustrò le zone in prossimità dei ritrovamenti, stabilì multe salate per i presunti responsabili. Ma poi tutto cadde nel dimenticatoio, rispolverando elucubrazioni e sospetti quando i fatti incomprensibilmente si ripetevano. Ma tra i tratti inquietanti del borgo, opportunamente celati, vanno citati i casi di suicidio; su questi episodi, non frequenti eppure allarmanti, non erano stati compiuti studi o rilevamenti statistici. Protagonisti tutti abitanti del monte, giovani e vecchi, uomini e donne, ciascuno avvolto dentro un proprio dramma. Danilo ci pensava, si arrovellava con Rosa sulle possibili cause, a loro parere i fatti non andavano liquidati come semplici episodi che possono accadere in un momento di disperazione, si doveva andare a fondo, cogliere il messaggio avvinghiato dentro ogni storia. “Quando non si parla, si sta chiusi nel proprio silenzio, non si butta fuori quel mostro di dolore che c’è dentro, può finire così!” predicava Rosa, con quella sua predisposizione a indagare i drammi altrui, poco apprezzata da Danilo. “E nel conto delle morti per suicidio io ci metto anche l’incidente di caccia del Filiberto e nessuno può convincermi del contrario.” Ragionare e rivangare sui fatti drammatici accaduti, era una delle abitudini preferite di Rosa, se ne occupava con piglio deciso e ostinato, affaticando in complesse elucubrazioni la sua mente semplice ma curiosa. “Perché non pensi ai fatti tuoi?” la bloccava subito Danilo, ben sapendo che lo avrebbe torturato con ipotesi, ragionamenti da verificare, magari costringendolo a visitare la famiglia, nella strenua ricerca di intravedere una riparazione, una consolazione. “Non ti basta snocciolare rosari, chiedere l’aiuto del Padreterno per la famiglia, ti illudi di cambiare le cose, bisogna accettare e tirare avanti.” Danilo se ne stava il più possibile fuori di casa in prossimità di questi eventi, sapeva che la testa di sua moglie sarebbe partita con le sue insistenti
macchinazioni, poiché non si poteva rimanere indifferenti o distratti di fronte a certi fatti. Un altro argomento di conversazione per l’infaticabile consorte, che spuntava immancabile a intervalli regolari, riguardava le stranezze della signorina Zita Vendramini. Si trattava in questo caso di bizzarrie di matrice sottilmente intellettuale. La colta donna figurava tra i cittadini più influenti di Barrio. Apionata di arte, letteratura, storia e antropologia, religioni e simbologie, accoglieva nel suo palazzo artisti e strani personaggi accuratamente selezionati. La signorina Zita, abitava in uno dei fabbricati più belli del borgo. Situato a mezza costa tra Barrio Alto e Basso, si raggiungeva imboccando una strada sbucante a lato di due muraglie di casone accostate tra loro. Edilizia popolare, si direbbe, ma le pietre a vista, i balconi fioriti, le rendevano suggestive e assolutamente integrate nel luogo. Salendo lungo la viuzza ben tenuta, affiancata da abbeveratoi per cavalli e lavatoi scolpiti nella trachite scura, si entrava in un tempo lontano, assaporando le tracce vive degli antichi abitanti. Nei punti più umidi degli abbeveratoi appariva il muschio, l’acqua stagnava bassa e scura, gelida, rinfrescata dalla pietra. Al termine della salita superando le curve decise, leggermente arroccato tra il verde pallido e perlaceo degli olivi, si ergeva palazzo Vendramini. Il maestoso edificio, seppure un po’ alterato nei secoli, manteneva la sua solida impronta trecentesca, vibrando nelle giornate assolate di un nitore abbacinante, dentro al gioco chiaroscurale del paramento murario in cotto. L’insieme possente della costruzione a tre piani era ingentilito da monofore, bifore e trifore archiacute; nella facciata a meridione, grandi archi interrompevano la muratura massiccia, un’architettura fasciante tesa a racchiudere tutto il più possibile unitariamente. Sotto il cornicione si intravvedevano gli stemmi nobiliari in marmo, ma era la luce a catturare lo sguardo, quasi si posasse lì per ravvivare le pietre sottolineando la sapiente commistione tra la natura e l’opera dell’uomo. Si perdeva nel tempo la consuetudine nobiliare della famiglia, l’unica rimasta a vantare una tradizione secolare di permanenza a Barrio. Figlia unica, Zita, stava chiudendo la dinastia, ben rappresentata da medici, letterati, astronomi, musicisti e nell’ultimo ramo del percorso centenario da viticoltori; a un certo punto si registrò urgente la necessità di rimpinguare il patrimonio familiare portando a
frutto i terreni e ci fu chi seppe farlo. La Vendramini era del tutto negata per qualsiasi occupazione professionale, fissata cronologicamente per tradizione e costumi in qualche secolo addietro. Trascorreva il tempo conducendo sapienti conversazioni nel suo salotto letterario, intervallate dall’ascolto musicale e dalla più fantasiosa costituzione di gruppi con particolari intenti filantropici, artistici, e anche pseudo-religiosi. Di statura media e corporatura robusta, della Vendramini colpiva anzitutto la ricercatezza nell’abbigliarsi, capi di pregio, decorati con spille, sofisticate collane, fiori di seta svolazzanti appuntati alla giacca e leziosi cappellini, delle più varie fogge. Di copricapi bizzarri se ne contavano centinaia, seguivano l’umore quotidiano: di feltro, velluto, lana, cotone, paglia, rafia, tulle, raso e seta, decorati con fiori, frutti, piume svolazzanti, sbuffi di taffetà, un segno distintivo che la rendeva davvero inconfondibile. Tra i piumaggi d’uccello svolazzanti sul capo di Zita, figuravano anche penne speciali provenienti dalle battute di caccia del Mariani, scambi di oggetti tra amiche, a siglare la simpatia tra le sorelle Puntute e la donna più nobile del borgo. Quali interessi legassero due famiglie così diverse non è facile spiegarlo, più volte l’ostinata Rosa aveva cercato l’appoggio intellettuale di Danilo per scandagliare anche questo mistero trovando ipotesi efficaci. “Ma per quale motivo dovrei faticare a spiegarmi una cosa che non mi interessa, gli altri saranno liberi di trovare le loro amicizie?” Già metteva le mani avanti Danilo, ma poi doveva pur dire quello che pensava, quando veniva portato al colmo dell’esasperazione. “Sono famiglie strambe, cosa c’era da indagare? La Vendramini con la testa per aria capace soltanto di perdere tempo e spendere denari in vestiti. Le Puntute, Dio le abbia in gloria! Una più fuori dell’altra, allora, la conclusione è che tra strampalati si intendono, anche se sono diversi!” Già percepiva la banalità della sua risposta, leggendo l’effetto nel disappunto della sposa; ma chi era lui uno psicologo forse? Un sociologo, un esperto di disturbi della mente o un contadino deciso a badare ai fatti propri? Capire, indagare, poteva mutare il corso dei fatti? Da dove proveniva quella smania investigativa radicata nella testa di sua moglie, questo sì gli sarebbe piaciuto capirlo per tagliare di netto questa tendenza.
Ogni tanto gli venivano in mente i polpacci della Vendramini, esattamente quelli, neanche la faccia, paffuta e pallida dove spiccava la bocca tinta di un rosso smaccato, ma quei salsicciotti torniti che si elevavano dritti e tonici dalle caviglie sottilissime. Erano due piccoli prosciutti crudi, ben sodi e disegnati con arte, chiusi dentro i collant chiari, ebbene qualche volta, bisogna ammetterlo, avevano solleticato la sua fantasia, ma poco, perché il resto del corpo era troppo tozzo e decisamente non invitante. Le donne gli piacevano formose e longilinee, con le curve nei punti giusti, invece la Vendramini, non aveva quasi seno, poteva pure lasciare aperti i bottoni nelle camicette in chiffon e organzino, ma bisognava lavorare con la fantasia per vederci qualcosa. Ogni riferimento alla nobile Zita, conduceva il povero Danilo entro queste derive, anziché scandagliare la natura sociologica dei fatti, lui si fermava su dati più concreti. L’improvvisa irruzione della demenza senile colse la nobile Zita all’età di appena sessantatré anni con un progressivo aggravarsi delle sue condizioni psichiche, la perdita della memoria e dell’autonomia, venne lasciata alle cure di un’infermiera, accasata da lei come fosse il suo alter ego. In conseguenza di ciò si placarono di molto le esigenze chiarificatrici di Rosa, tutta presa in un sentimento di comione libero da ulteriori ragionamenti. Indulgeva sulla malasorte della Vendramini, valutando, non senza una sotterranea soddisfazione, quanto il destino avesse impedito a una donna così ricca di godere sino all’ultimo dei propri beni.
III
Don Fortunato era perplesso: ascoltava Danilo con stanchezza mista a una controllata tensione. Dopo la morte della madre, le sorelle Mariani lo avevano allontanato, non gli era permesso nemmeno di recarsi a benedire la casa. “Meglio interessare i servizi sociali o direttamente i carabinieri. Se le Mariani non ti rispondono ormai da un mese può essere successo qualcosa.” Era prossimo alla pensione il parroco, portava con un piglio deciso i suoi settantacinque anni, basso di statura, lievemente arrotondato e completamente calvo, la sua piazza liscia e lucida brillava come un cristallo. Oramai Barrio rappresentava per lui un libro aperto, ed era stanco di leggerlo, le presenze in chiesa diminuivano e lui doveva arrovellarsi per coinvolgere i giovani, rimediare alle false illusioni del consumismo in cui cadevano gli adulti, consolare i vecchi lagnosi, offrire un sentimento di speranza ai più piccoli, entusiasmandoli alla sequela del Vangelo. Nemmeno un santo sarebbe riuscito nell’impresa! E se non bastasse si aggiungevano le famiglie con difficoltà economiche, uomini su cui gravava la responsabilità della casa rimasti disoccupati e nemmeno provvisti di campi, privati anche dell’ammortizzatore rappresentato dalla terra, questi costituivano il cruccio maggiore del prete. Giungevano poi sino al borgo i nuovi costumi a sgretolare il tessuto familiare, ed era veramente troppo per don Fortunato, affrontare la superficialità, raccattare i pezzi di famiglie disgregate, sostenendo come poteva genitori e figli. Muoveva, sfregandosele, le mani piccole e tozze, come se questo gesto lo aiutasse a riflettere, si percepiva lo struscio secco della pelle rosata e i gonfi polpastrelli sembravano seguire un discorso proprio. Sarebbero partiti da soli a cercare, agire, sistemare, erano fatti per operare, ma l’azione doveva essere
meditata e raffinata, aspettando un qualche risultato solo a lungo termine. “Tranquillizza pure Rosetta, mi rivolgo io ai carabinieri cerchiamo di vederci chiaro in questa storia.” Di poche parole il parroco lo congeda, ritornando a inginocchiarsi. “Fermati, così recitiamo la compieta insieme, non ti fa male ringraziare il Signore ogni tanto.” Danilo vorrebbe rifiutare, è sporco, ritorna dai campi, ma con don Fortunato non serve, è perentorio e bisogna cedere. E poi cos’è questa compieta si chiede tra sé sperando solo che si tratti di una cosa breve, magari bisogna dirla in latino, perché ogni tanto il vecchio curato salta fuori con litanie antiche, snocciolando un lessico enigmatico. Non gli piace puzzare in chiesa e per la verità non è portato per le giaculatorie, cose da donne, lui va in chiesa ma pensa ai fatti suoi durante tutta la messa, alla vigna da potare, a come sistemare gli olivari, a piantare altri giuggioli che danno poco lavoro. Ci scappa una preghiera per le Puntute nelle intenzioni, ed è troppo, nemmeno all’inferno le prenderebbero, altroché! Tutto si conclude in breve, una stretta alle mani salde del prete, un ultimo sguardo alla pelata più lustra mai vista, e Danilo è già fuori a tirare un’avida boccata d’aria. Il pregare era sempre stato per lui un tormento, aveva provato e ci provava tuttora, ma la ripetizione di quelle parole uguali lo innervosiva, capitava anche che sbagliasse il testo o annase nella memoria dimenticandolo. Certo doveva prestare attenzione al senso dei vocaboli gli imponeva la moglie, e pronunciarli ogni volta riflettendo sul loro messaggio profondo. Cose da pazzi! Tutta quella fatica a controllare la sua testa che se ne andava libera per i fatti suoi respirando l’aria dei campi. In quel mondo tutto personale, nessuno poteva entrarci, nemmeno il Padreterno a costo di essere blasfemo; annuiva solo formalmente alle richieste della consorte, continuando a comportarsi come credeva giusto. Una volta aveva ascoltato in parte un’omelia, forse fu la voce dell’oratore a catturarlo dai suoi pensieri, celebrava la messa un sacerdote dal tono oratorio
poco conciliante il sonno, il vigore della voce imprimeva autorevolezza al discorso, e così Danilo conobbe la storia del pellegrino russo alla ricerca della preghiera perfetta. E fu un bene per lui memorizzare quelle sette parole, semplici e poco impegnative, che sembravano esaurire in sé una sorta di mantra capace di rinsaldare l’animo con poco: “Signore Gesù Cristo, abbi pietà di me! ” Ma il peso più grosso, il vero macigno rimanevano comunque le confessioni, assolute perdite di tempo per un uomo senza peccati quale era lui, nemmeno a scandagliare nei meandri più profondi riusciva a trovare qualcosa. Travolto dalle insistenze di Rosa, la vigilia di Natale e la Settimana Santa permeavano il suo animo di sottili patimenti, bisognava andare a sversare i liquami interni, e lui marciava fuori parrocchia perché il sorrisetto ironico di don Fortunato gli dava una rabbia infame. Il prete era a conoscenza delle sue pene, leggeva il suo stato d’animo con totale trasparenza, e sembrava aspettarlo con una qualche soddisfazione. Che attendesse pure! Sarebbe rimasto a secco, con un palmo di naso, con la sua odiosa curiosità non corrisposta, il frutto del suo tormentato esame di coscienza l’avrebbe raccolto qualcun altro. Questa volta ritornando al focolare aveva buone notizie per Rosa, lo sforzo di parlare col prete lo aveva fatto, guadagnandoci anche una preghiera per la salvezza dell’anima. La consorte sembrò finalmente placarsi, era riuscita nell’intento di indagare sulle Puntute, ora non rimaneva che aspettare.
A seguito del colloquio con il parroco, il Comando dei carabinieri decise di intervenire. Nei pressi non c’erano parenti prossimi e sentita la Vendramini, amica di famiglia, non riuscirono a cavare un ragno dal buco. Venne convocato anche il medico, il dottor Giacomelli, che si era reso subito disponibile a collaborare. Il giovane dottore aveva da qualche anno rilevato la condotta del vegliardo
Olindo Soloni, faticando non poco a imporre i propri metodi seppur manifestando un’ineccepibile professionalità. Il suo predecessore era una sorta di patriarca-despota, che vendeva a caro prezzo e in ragione delle proprie simpatie la scienza medica. Un’eredità pesante per il giovane, il quale doveva anche districarsi nell’interpretazione dello stretto dialetto locale per capire la volgata, in assenza di vocabolari atti a illuminarlo. I consigli del patriarca non gli erano serviti granché, bisognava intuire a quale medicina si ispirasse, non quella su cui si era formato lui sgobbando parecchi anni, compresa l’esperienza anglosassone: un anno di studio in cui l’affinarsi della lingua inglese cozzava ora con le più basse involuzioni gergali. Il povero Giacomelli non aveva mai incontrato le sorelle Mariani, sinceramente colto in fallo, consultò il suo archivio informatico, perfettamente efficiente e organizzato al termine del suo secondo anno di condotta, senza raccogliere nulla. Bisognava arrendersi, non aveva granché da dire alle forze dell’ordine! A causa di un’indole insicura si sentiva sempre in colpa e mancante, nonostante fosse sin troppo scrupoloso. Sollecitato dai carabinieri, cercò ogni riferimento nella memoria ma era certo: le sorelle non si erano mai presentate nel suo studio, né tanto meno l’avevano convocato per visite a domicilio. Mise a fuoco la villa dove risiedevano controllando la mappa dei colli, in quella parte del monte non abitava nessun altro, la stradina per arrivare in villa bisognava prenderla di proposito. Qualcosa però si ricordava, affermazioni, mezze parole sentite in giro sulle stranezze delle vecchie, era Danilo Santi a metterlo al corrente delle stramberie del posto, e lui registrava nella mente dati e pettegolezzi, cercando di individuare una chiave efficace di approccio nelle relazioni. I carabinieri si congedarono lasciandolo ad arrovellarsi nei suoi dubbi, rassicurandolo che lo avrebbero informato tempestivamente sugli sviluppi.
A breve il pretore concesse l’autorizzazione per il sopralluogo nella villa.
In paese si respirava un’aria strana, una calma densa di cattivi auspici, quel silenzio che precede il dipanarsi di un enigma oppure la sua inesplicabile complicazione. La camionetta delle forze dell’ordine giunge a villa Mariani un martedì ai primi di aprile, verso le dieci del mattino, l’autoveicolo fatica a inerpicarsi sull’impervia stradina, coperta da fogliame e arbusti lasciati vegetare nell’incuria. È un mattino offuscato da una nebbia impercettibile, cadono piccole gocce umidicce e fastidiose, ma si apre il cielo e filtra dai nuvoloni bassi un sole chiaro e fiacco. Un piccolo spazio sterrato affianca il cancello d’ingresso, proprio sotto i rami imponenti del cedro del Libano distesi sin fuori della proprietà, gli agenti fermano la camionetta, scendono e si avvicinano al portone. Un attimo per valutare la situazione; bisogna interessare i Vigili del Fuoco e attendere che venga disserrato il cancello, poi si penetra dentro il giardino annaspando tra la vegetazione intricata. I rami e le sterpaglie permettono scarsa visibilità, piante straripanti avvinghiate tra loro, la sensazione è di un luogo dimenticato dalla civiltà, abbandonato da anni. Giunti nei pressi della piccola costruzione usata come veranda, serra o disbrigo, gli agenti sono investiti da un odore pungente. “È puzzo di marcio, umido e irritante, un olezzo indefinibile. Non saprei dire a cosa assomiglia,” il maresciallo Tanni, si rivolge ai colleghi, scrutando i visi perplessi. “Muoviamo il fogliame vicino all’ingresso della veranda, pare che il tanfo provenga da lì.” Dapprima non si mette a fuoco bene cosa sia quella tavola coriacea, poi si capisce, si tratta di una carcassa di gatto, dell’animale resta ben poco: un sottile foglio di pelle, ma più in là se ne trovano altre, dissepolte e sommerse da insetti. Carcasse di gatti sparse in giro alla rinfusa, assaltate da un via vai di formiche e avidi parassiti pronti a risucchiare i poveri resti senza pietà. “Si concentrano tutte in questa zona, saranno una decina,” puntualizza il maresciallo. “Sembra un cimitero improvvisato, ci sono peli a brandelli, ossa scomposte, teschi scarnificati o ancora rivestiti di pelle, non mi pare si evidenzi
un senso intenzionale nella deposizione di questi animali. Potrebbe trattarsi di un particolare rito funebre? Chissà da quanto sono morti e perché? Potrebbero essere stati avvelenati oppure si è diffusa una malattia?” Il maresciallo Tanni scambia un’occhiata d’intesa con l’appuntato Vedova, mentre si tiene un fazzoletto davanti alla bocca, il puzzo vicino all’ingresso della veranda è insopportabile, ci vorrebbe una mascherina per entrare. Il sopralluogo alla villa è stato affibbiato al maresciallo Tanni, il quale non ha fatto obiezioni, per niente sminuito dall’assegnazione di un lavoro in provincia, meglio non rompere le scatole ai superiori e tacere! La sua filosofia professionale tende a essere accomodante e poi non si è dovuta fare molta strada per giungere in loco. Macabro lo scenario dinnanzi agli agenti quando vinta la nausea per i miasmi si decide di entrare, altre carcasse sono sparse sul pavimento coperte da vermi grossi e scuri. In un angolo sbucano vasi di fiori assemblati, altri divelti con il terriccio sparso frammisto a cocci di cotto e ghiaino. Si fatica a decidere dove posare lo sguardo, la scena non ha ordine, pare priva di senso, è un coacervo di tracce confuse immerse entro un fetore irrespirabile. Nascoste tra il marciume e i vegetali disseccati, negli spazi liberi della pavimentazione in pietra rossastra, sbucano immagini sacre sparse a terra: santini ingialliti e accartocciati, corone e crocifissi di varie fogge, tracce di cera e candele smozzicate. Ci si ferma un attimo a osservare l’insieme. La veranda è costituita da un unico vano, contornato da finestroni, uno spazio rettangolare, occupato da mobilio logoro. Al centro della stanza c’è un tavolo dalle dimensioni imponenti su cui giace un materasso a righe. La stoffa a tratti forata, lascia intravedere l’imbottitura di filamenti impagliati, è da lì che si diffondono più intensamente le putride inalazioni. Il maresciallo cammina tappandosi il naso con il fazzoletto, cercando di raccogliere un qualche messaggio nello squallido insieme. L’arredo è costituito da mobilio ammuffito, antiche credenze in legno di castagno tappezzate di fori, assediate da tarli sovrani incontrastati della materia, strani panni boccheggiano dalle cassettiere semiaperte. Dentro le vetrine dal cristallo opaco e battuto, prossime alla frantumazione, sbucano ramificate ragnatele. Nei vani, coperti da
carte fiorite chiazzate di marrone, compaiono porcellane unte e sbeccate, bicchieri dai vetri colorati e sfaccettati. Comuni oggetti immersi in un sapore di vecchio senza tempo, un mondo perduto di abitudini e interessi congelato per sempre. Il maresciallo Tanni preso nella suggestione delle prime impressioni valuta come l’insieme sia a metà strada tra l’assurda confusione senza significato e una qualche intenzione, seppure rintracciabile a fatica. Si avvicina al centro della stanza ove troneggia il tavolone. È oscurato da piante elevate, invasate in terrecotte decorate che sembrano vive, il fusto è giallastro, ma il fogliame mantiene ancora un verde pallido. Dai fori del tetto filtrano gocce d’acqua, l’ambiente caldo-umido potrebbe conservare una qualche vita vegetale. È acre il fetore accanto al materasso, Tanni afferra un lato della stoffa, affonda la mano protetta da un guanto sul bordo consunto e rimane irrigidito. Sul tavolo, deposto sopra una tovaglia a quadri sbiaditi, giace un corpo di donna che sembra mummificato, pochi resti, conservati dentro gli abiti scuri. Nel teschio scarnificato, le cavità orbitali sono coperte da spessi occhiali, quasi una macabra maschera di carnevale, un manichino che conserva poco di umano. Sul capo un fazzolettone a fioroni scuri, la mascella serrata mostra i denti ben conservati, giallastri, piccoli e regolari. “Da quando è morta?” La domanda del maresciallo rimbalza nel vuoto. “Lo stato di decomposizione parrebbe indicare un lungo tempo, che ne dici? Ha un rosario sul petto, e delle immagini sacre sopra i vestiti.” L’appuntato è come inebetito dalla visione d’insieme, scruta le mani, le falangi trapunte di anelli sbucano come una fredda rastrelliera dalla maglia di lana, i monili paiono gli abbellimenti di un fantoccio, decori appoggiati su di uno spaventaeri. Dalla gonna lunga affossata all’interno delle cosce, spuntano tracce di femori. Il piede destro è racchiuso all’interno di uno scarpone, il sinistro nudo e scomposto, scivolato fuori dalla calzatura di pellame scuro, ha le falangi media distale e prossimale confuse, unici resti delle ampie estremità. Da un osso lungo e sbrecciato si può scrutare l’interno del tessuto, un materiale
quasi spugnoso costruito a nido d’ape, è una fibula o forse una tibia. La scena getta lo sguardo dei presenti all’interno di un corpo umano, una pietà mista a orrore cattura gli animi, gli occhi scrutano ciò che resta a parlare di una storia, rivelandone ambigui particolari. “Quale delle sorelle sarà?” si chiede l’appuntato Vedova, già vincendo lo schifo in previsione di quanto tra breve potrebbe trovare nella villa. “Chi poteva immaginare una situazione del genere? Già mi figuro la cronaca, un paese anonimo, teatro delle più orride vicende.” Tanni tace, a lui lo squallore produce un effetto quasi di rallentamento, la favella si blocca, la mente si chiude in una osservazione ossessiva, deciso a farsi impregnare dai fatti, per trovare ragione solo in essi. Cammina verso l’uscita attribuendo ai felini la causa del disastro interno e l’impressione di squallore dell’insieme: rinchiusi nella veranda senza via di scampo, lasciati agonizzare, condannati a morire di fame. Il maresciallo possiede qualche rudimento di anatomopatologia, reminiscenze nascoste chissà dove nella mente; dà ordine di chiamare il medico condotto ed esce fuori a respirare aria pulita. Un bel quadro per il dottorino del paese, giusto per entrare a capo basso negli aspetti più controversi dell’animo umano, scontrandosi con le peculiarità buie e celate dell’animo dei Barrioti. Mentre Tanni aspira lentamente il fumo del sigaro, inalando a narici piene l’aroma del tabacco, il medico condotto giunge trafelato, ha chiuso lo studio e congedato i vecchi pazienti, prendendosi la sua dose giornaliera di maledizioni. Tanni gli indica di entrare nella veranda. Giacomelli, dopo la visita, esce in stato di fibrillazione, balbetta e non sa da dove iniziare il discorso, la sua testa macchina già ipotesi, senza aver esaminato il cadavere con una strumentazione più dettagliata. “La donna per me è morta da tempo, forse un anno, lo stato di decomposizione è avanzato. Questo dipende anche dalle condizioni caldo-umide dell’ambiente in cui si trova, che hanno favorito la putrefazione; se poi aggiungiamo il lavoro
degli insetti e probabilmente dei roditori ecco chiarirsi la situazione del ritrovamento. È stata lasciata lì, deposta sopra il tavolo, non mi spiego il motivo!” “Il materasso trascinato sopra che senso ha? Forse per coprirla dallo sguardo, non vedere più lo stato in cui andava trasformandosi.” Il dottorino sembra gasato e non dà retta al Tanni, è troppo occupato nelle sue elucubrazioni. Finalmente risponde al maresciallo. “Sì, i felini sono stati chiusi dentro successivamente, paiono deceduti più di recente. Hanno sfasciato tutto, graffiato e divelto vasi, scomposto terriccio e ghiaino; una fine lenta e disperata.” Vedova se ne stava in disparte pallido, preso in altre considerazioni, certe situazioni non fanno per lui, sta viaggiando con la memoria visualizzando altre scene del genere a lui poco gradite. Ecco, ora ricorda, si tratta dei resti di martiri esposti in certi santuari, era entrato ignaro e ne era uscito inorridito. Non era come vedere un cadavere in carne e ossa, quello non gli dava la stessa sensazione di disgusto, era quasi normale, ma soltanto immobile. “C’è qualcosa di demoniaco, queste vecchie! Vuoi vedere che sono adepte di una setta religiosa?” dichiara convinto l’appuntato. “Basta pensare alle immagini religiose sparse, ai ceri consumati, chissà quali riti celebravano, forse sacrificavano animali.” Tanni lo blocca facendogli segno di tacere. Vedova tende a interpretare i fatti, più che esaminarli, le sette sono la sua deriva preferita, spuntano ovunque come funghi, segno delle sua diffidenza verso l’equilibrio umano o forse della paura verso l’insondabile. Nel contempo Giacomelli insegue un pensiero in maniera febbrile, sembra ripiombato all’improvviso ai suoi primi esamini di anatomopatologia, vaga con la mente rivivendo le sensazioni provate nello studiolo delle autopsie. Sarà stato sicuramente il puzzo del cadavere a rimuovere la trama affastellata dei suoi ricordi. Nelle prime autopsie non era lo schifo per il corpo sezionato a colpirlo di più, bensì il tanfo dei visceri, i reni che giravano nel piatto, consegnati agli studenti per essere esaminati, si portavano dentro il fetore del loro contenuto. Il professore tagliava con perizia, tradendo una punta di sadismo, estraeva intestino
e organi, per poi rinfilare tutto nello stomaco senza ordine nelle parti e ricucire soddisfatto. Novello dottor Jekyll, Giacomelli avrebbe provato in seguito la stessa sottile soddisfazione, dall’assuefazione verso l’analisi dei corpi sezionati alla percezione del potere di maneggiarli, ficcando le sue mani dentro agli organi altrui. Riemergendo finalmente dai propri pensieri, Giacomelli si decide a rispondere ai quesiti dell’appuntato Vedova, inchiodato sui misteri insondabili del disfacimento dei corpi. “La decomposizione comincia subito al momento della morte,” sentenzia il dottore, già minando le illusioni del Vedova. “Immediatamente dopo di essa, anche se la visibilità esterna dei suoi effetti è relativamente successiva. Anzitutto scatta il processo di autolisi, la materia organica si divide dai propri prodotti chimici interni e dagli enzimi, e poi i batteri cominciano ad attaccare i tessuti che vanno in putrefazione. Lo sente questo odore insopportabile?” Una cosa è certa: impossibile non sentire quel fetore, che impedirà a Vedova di gustarsi la pausa pranzo. Già vede irrimediabilmente guastato l’agognato momento di tregua, innaffiato da un bicchiere di bianco o più deciso rosso, certe scene deturpano un sano piacere. “I processi di disfacimento rilasciano gas che sono la causa principale delle esalazioni caratteristiche dei corpi morti,” puntualizza il dottorino diventando loquace in ragione dell’interesse rivolto alla sua competenza in materia. “Nella composizione di questi gas può esserci una rilevante percentuale di metano, magnesio e potassio. Talvolta questa miscela innesca una fiammata al contatto con l’aria, da qui nascono le fantasie popolari sui fuochi fatui, associando le fiammelle all’improbabile salita delle anime verso l’oltretomba.” Mentre il gruppo si dirige all’ingresso della villa, Vedova pare soddisfatto delle acquisizioni raggiunte, sfodererà alla prima occasione la propria competenza, agghiacciando le ingenue credenze popolari alla luce della scienza medica. Ci si attarda, fatto sta che nessuno pare entusiasta all’idea di entrare nel palazzo. C’è un abbozzo di primavera sugli alberi da frutto, scroscia il fogliame sotto gli anfibi degli agenti, attraversato il groviglio di sterpi si staglia sinistro il portone d’accesso dell’edificio.
Scamlate e colpi sul legno corroso e ingiallito non ricevono risposta, un obbligo formale, prima di forzare la serratura del pesante infisso. I balconi di un marrone scurito sono chiusi, il giro di perlustrazione intorno all’edificio non fa registrare nulla di particolare, non si vedono resti di animali, si concentrano tutti in zona veranda. La porta d’ingresso altissima e ampia, scavata da regolari quadroni senza intarsi, è segnata alla base con graffi e striature da cui si intravede il legname originario privo di vernici e colore. Non va meglio, in quanto a inalazioni all’interno della villa, la luce filtra di traverso dalle fessure degli infissi, Tanni dà ordine di aprire i balconi, la sala centrale si illumina, gelido l’ambiente. Lo spazio vasto, è sgombro da impicci, la palladiana dal fondale tempestato di pietruzze nere, con qualche pezzo rosso e grigiastro, è soltanto impolverata, non vi sono oggetti fuori posto. Ma lo sguardo corre alle pareti dove spiccano ridondanti le teste di animali imbalsamati; unico arredo luminoso a disegnare la scena la scala in marmo biancastro con la balaustra in ferro battuto. Poco mobilio nello stanzone, madie e basse credenze di un noce incupito, e dinnanzi allo sguardo, l’imponente ritratto di un uomo. La severa figura sembra quasi uscire dalla spessa cornice cesellata con abile manifattura. “È il ritratto di Filiberto Mariani,” si appresta a spiegare Giacomelli, “il padre delle sorelle, me ne ha parlato Santi, il contadino che dava un aiuto alle tre donne. Ma da dove proviene il fetore?” Il medico parla tra sé e rimane un attimo bloccato. “Con un antenato di tal genere, c’è poco da stupirsi se le tre sorelle non ci stanno con la testa,” esce di getto la prima riflessione del Vedova, non può trattenersi, sta accadendo troppo per la sua mente accomodante. “Quel Filiberto sembra uscito in libertà vigilata dal servizio psichiatrico, ma potrebbe colpire ancora. Mi sta fissando in un modo agghiacciante! Di certo gli occhi sono dipinti in maniera da seguire chi guarda da destra a sinistra, una trovata originale del pittore. Avrà un colpo in canna nello schioppo che si tiene in spalla... Ma le avrà fatte fuori lui tutte queste bestie?” Giacomelli tace e osserva, sembra un segugio che fiuta, presta attenzione più agli
odori, non pare attratto da altri dati sensoriali, aggira il ritratto e si dirige a sinistra, imboccando la porta chiusa al lato opposto della scala, ove si sale al reparto notte. L’uscio dà nella cucina, gli occhi assuefatti alla luce dapprima non vedono nulla, poi nell’ombra pare disegnarsi una sagoma umana sottile e ferma. Le luci elettriche non si accendono, bisogna ricorrere al chiarore naturale aprendo i balconi. L’insieme trasmette un senso di squallore, riappare il disordine, stoviglie accasciate e unte, piatti con avanzi di cibi avariati e ammuffiti. Il focolare spento, annerito, con resti carbonizzati, ma soprattutto il fetore attanaglia gli agenti, una ventata di aria marcia, indescrivibile, con punte agghiaccianti di afrore. Il dottorino è il più arzillo di tutti, sembra aver finalmente sbloccato quella strana rigidità che attanaglia ora gli agenti in una sconcertata fissità; si avvicina alla figura seminascosta dal tavolo, immobile, seduta su una sedia impagliata da cucina, non è morta, eppure è come se lo fosse. La gabbia toracica segna il ritmo di un lento respiro, lo sguardo è completamente perso nel vuoto, il capo irrigidito è lievemente reclinato a destra, la bocca dalle labbra secche e biancastre disserrata, il naso sottile e appuntito domina sui tratti del volto, accentuando l’idea di trovarsi di fronte a una sorta di burattino umano, un fantoccio che respira. Giacomelli le rivolge parola, ma la vecchia non risponde, si avvicina anche il maresciallo, mentre osserva la situazione degli oggetti accanto alla donna. La sagoma rimane immota, i cappelli, raccolti sulla nuca, paiono ancora scuri, è probabilmente la più giovane delle Mariani. È seduta accanto a una carcassa di cane, la bestia le giace poco discosta, ma non sembra morta da molto, è ancora ricoperta dal pelo chiazzato di bianco e grigio, appare soltanto rigida come una tavola. La scena ha qualcosa di ancora più macabro rispetto a quanto scoperto nella veranda, poiché la donna è viva, seppure in stato confusionale. Sotto la sedia c’è un barattolo con un liquido giallo dorato, un vaso enorme utilizzato per le composte, sigillato da un tappo in vetro munito di una gomma per fissare ermeticamente la chiusura, sul pavimento carte sparse e resti di cibo. “È un barattolo di urina!” spiega il Giacomelli, indeciso se lasciare la parte di osservatore per are a quella di medico tastando la situazione fisica della
donna. “Prendo la borsa e sento il battito, ma è meglio chiamare un’ambulanza, giudicando l’aspetto fisico, da tempo non mangia è in stato di denutrizione e sotto choc, dubito che percepisca chiaramente la nostra presenza, è staccata dalla realtà. Non credo, maresciallo, che a breve ricaverà da lei qualche spiegazione, forse con il tempo, sperando che si riprenda!” Tanni dà ordine di chiamare un’ambulanza, la Mariani continua a rimanere rigida, non muove un ciglio e non risponde, il pallore sin troppo deciso, la totale staticità la rendono un assurdo pupazzo. Si aprono le due grandi finestre della cucina per ossigenare l’aria, la Mariani resta immota. Solo ora si mettono a fuoco i resti marroni sotto la sedia, malamente nascosti da carte sparse di quaderno e giornali accartocciati, sono escrementi sparsi sul pavimento. La donna indossa un abito in lana grigio topo, il busto coperto da una giacca allacciata di sghembo e sopra le spalle uno scialle nero, sulle ginocchia appuntite una coperta logora, cucita assemblando quadri di lana variopinta lavorati a mano. I capelli scuri, con pochi segni bianchi, sono raccolti in una treccia e poi girati sotto la nuca. Il fazzolettone da testa a fioroni lo tiene in mano, forse le è scivolato dal capo e non aveva più la forza di risistemarselo. Tanni e Giacomelli, seguiti da Vedova escono dalla stanza, ritornano nell’atrio e si apprestano a perlustrare le stanze al piano superiore, si sente il suono stridulo dell’ambulanza, il maresciallo attende gli operatori sanitari per dare indicazioni, li invita a restare, potrebbero esserci altre ritrovamenti. “Avete presente Psycho di Alfred Hitchcock?” getta lì Vedova, che da troppo taceva solo per assecondare il mutismo riflessivo del maresciallo, ma era giunto al limite del suo autocontrollo. “Lo psicopatico protagonista del film teneva la vecchia madre morta nella sua camera. Stava seduta su una sedia a dondolo, oramai scheletrita, ma vestita di tutto punto. Lui andava a visitarla ogni giorno, le parlava, le portava da mangiare, la cambiava d’abito. Si comportava come se fosse viva! Potremmo trovarci in una situazione simile, ma in questo caso, quella seduta in cucina non veglia nessuno, sembra invece che sia lei ad aspettare di crepare. Potrebbe essere devastata dal rimorso, per aver fatto fuori la sorella chiusa nella veranda insieme ai gatti. Dietro quello sguardo impenetrabile
potrebbe nascondersi una psicopatica, spietata e assassina.” “Tra tutti i collaboratori possibili, doveva capitarmi un apionato dei film horror,” lo blocca Tanni. “Però a seguire le libere associazioni della mente non sempre si sbaglia, anche se nella tua testa viaggiano un po’ troppi psicopatici.” La perlustrazione delle altre stanze al pianterreno non offre dati di rilievo se si eccettua il disordine e la confusione di oggetti, residui di frutta e verdure avariati, abiti, stracci, cassoni straripanti di tessuti, biancheria unta, libri e riviste ingialliti, un quadro irrazionale, un luogo teatro espressivo di menti confuse, a cui manca la capacità di ordinare la propria esistenza. Si sale in silenzio la scala, abbandonando le impressioni della cucina, quel tanto che serve a liberare la testa e lasciarla registrare i prossimi eventi. Buio pesto anche sul pianerottolo, tracce di mozziconi di candela sono deposti in alcuni punti dell’atrio, spazioso ma meno vasto rispetto all’ingresso, dalla sala si dipartono cinque stanze. La prima a destra ha la porta socchiusa, subito dopo un bagno e un’altra camera, altre due stanze a sinistra, inframezzate da un vano lungo e stretto coperto da una tenda fiorita, un probabile disbrigo. Varcata la porta semiaperta si entra in una matrimoniale, l’insieme appare in buono stato di conservazione, regna la polvere, ma non c’è nulla fuori posto, un mobilio in legno laccato di un noce chiaro, spicca per lo stile ridondante, quasi rococò. Sul comò, abbellito da merletti lavorati all’uncinetto di un bianco oramai ingiallito, domina la specchiera, bordata da una cornice lavorata sin troppo, disegni floreali scavati, rami e fogliame avviluppati in un abbraccio legnoso. Poggiato sul ripiano della cassettiera, accanto alla scatola porta gioielli in radica e argento annerito, c’è un ritratto della coppia genitoriale nel giorno dello sposalizio. Tondeggiante e bassa lei, accenna un timido sorriso addolcendo le gote arrossate, alto e nervoso lui, chiuso in un abito scuro, sempre con quello sguardo sferzante e allucinato. “Comodini, armadio, cassettone, un’immagine sacra al centro del letto, il copriletto in velluto damascato ben sistemato,” Tanni questa volta commenta ad alta voce. “Sembra di entrare in una sorta di museo, lasciato lì per fermare il tempo. C’è un profumo di canfora e lavanda, finalmente qualcosa di accettabile
per depurare i nasi.” La lavanda abbonda in mazzetti essiccati sparsi ovunque, e dinnanzi al ritratto dei genitori è sistemato un vasetto di fiori secchi: rose selvatiche dai colori sbiaditi e rametti di rosmarino fiorito con le foglie spesse e sottili. Fermo il tempo anche nel bagno, da molto non usato; le piastrelle di un bianco perlaceo sono ancora lucide, solo lievemente ingialliti i sanitari, gli asciugamani bianchi a nido d’ape, disposti con cura negli accessori in legno, appeso allo specchio un grosso mazzo di lavanda. Le tende di lino intagliato e ricamato, lasciano trasparire una luce fioca, hanno catturato una dose titanica di polvere, in alcuni punti sono chiazzate e ingiallite, come quelle della stanza matrimoniale, attendono da anni un lavaggio depurante. Gli agenti seguiti da Giacomelli procedono con calma, registrando ogni percezione nell’intento di rilevare qualche traccia esplicativa e srotolare il bandolo della matassa. La prima stanza dopo il bagno ha un letto singolo, accuratamente sistemato, stesso stile ridondante della camera matrimoniale, per un mobilio laccato di un noce chiaro, sopra il comò il ritratto di una della sorelle, è vestita da festa, appare alta e sottile. È netta la somiglianza dello sguardo con l’espressione paterna congelata per i posteri nel ritratto in ingresso, appesantita da un paio di occhiali con spesse montature. Sullo sfondo della foto un prato contornato da alberi, forse è stata scattata in una parte del giardino. In silenzio si a all’ala sinistra aprendo l’uscio di un’altra stanza in cui campeggia un lettone singolo coperto da un copriletto rosa. Qui il mobilio riprende lo stile essenziale dell’arte povera, il legname è più scuro, trattato a olio e lucidato, non laccato. Anche in questa stanza appare una sorta di equilibrio studiato, si vede l’immancabile ritratto, sistemato sopra la cassettiera. Tanni lo afferra e se lo studia, lo a al Vedova, poi finisce nelle mani del dottorino, il quale non ha dubbi, è riconoscibile, seppure a fatica, la Mariani appena ritrovata seduta in cucina. “Vi dico che è lei, l’espressione è inequivocabile, e poi ha il viso lievemente
arrotondato, meno appuntito della spilungona occhialuta, padrona della prima stanza. Questa è di statura bassa, ha i lineamenti più gradevoli della sorella. Capite? Il cadavere nella veranda appartiene alla spilungona, ne sono quasi certo, vi ricordate i femori, la tibia e la rotula così lunghe. Dunque, tutto quadra.” “Lei è ottimista a far quadrare tutto, qui non si capisce molto per il vero!” commenta Tanni, ma non in tono polemico, il dottore lo aveva capito al primo sguardo, curioso e ostinato, uno che vuole andare a fondo nelle questioni. “Stiamo soltanto cercando di distribuire l’identità delle sorelle, ma del loro modo di vivere, di pensare, di quanto sia successo qui dentro non sappiamo nulla.” Ora il trio dirige lo sguardo sulla foto appoggiata nel comò. La Mariani, considerata più aggraziata, appare nel ritratto con un abito bianco, perfettamente in sintonia col pallore accentuato del volto, scomposti sullo scialle spiccano i capelli corvini e quasi lucidi, lasciati cadere sulle spalle. Anche in questa stanza mazzi di lavanda e sopra il comodino accuratamente riposti alcuni quaderni con la copertina nera e le pagine bordate di rosso. Tanni li afferra e li sfoglia superficialmente, li guarderà con calma, per il momento basta osservare che si tratta di diari, vergati con bella grafia a inchiostro blu, in rosso sono segnate alcune cifre che probabilmente indicano le date. Il disbrigo, che separa le due stanze a manca, è un pertugio, illuminato da una finestrina con il balcone socchiuso, è una sorta di serra con gerani e decine di piante dal fogliame eccessivo, le sansevierie, altrimenti dette lingue di suocera. Le foglie un tempo carnose, lunghe e appuntite, ornate da bande gialle laterali, mostrano ora solo un lungo aculeo, accartocciate su se stesse, rigide e secche, paiono bastoni affilati. La vita vegetale risulta decisamente disidratata, frammisti alle piante stecchite, scaffali ricolmi di coperte di lana, e poi deposti in un angolo: scope, stracci, secchi, mastelli, spazzole da pavimento. Dentro ad alcune casse di legno poggiate in terra, frutta marcita e decomposta, sulle mensole più in alto sbucano dei sacchetti di stoffa fiorita, con gomitoli di lana, spole e nastri traboccanti. Il Giacomelli è già sulla soglia dell’ultima stanza, avido di mettere insieme le tessere del mosaico ricomponendo la trama delle sue più sconosciute pazienti.
Lo sguardo preoccupato indica l’evolversi esponenziale del suo sentimento di colpa: Come ha potuto non cercare notizie, o meglio recarsi lui stesso di persona alla villa delle Mariani? Gli bastava prendersi la quota mensile delle donne, senza che gli rompessero le scatole in studio?Inflessibile il suo super io, che incarna il codice deontologico ippocratico, continua a piagarlo, con fitte micidiali, sinché rincara la dose, inesorabile, dopo l’apertura dell’ultima stanza. Sempre ossessivamente ordinato l’insieme della camera, ma questa volta adagiata nel letto c’è una donna o quello che ne resta. “È una donna!” conferma Giacomelli poiché il maresciallo e l’appuntato non hanno particolare competenza nel rilevare la sessualità dei corpi pseudo mummificati. “Lo stato di conservazione è migliore di quella sulla veranda, è morta dopo, di preciso non saprei, ma qualche mese dopo credo.” Ha parlato di getto per scaricare la tensione ma adesso tace, un interrogativo percorre muto le testa dei tre uomini: si tratta di una scena reale o siamo dentro a un set cinematografico? Questo è troppo per il Vedova, ulteriormente sfiancato dalla ripresa subitanea dell’orrendo tanfo, solo per qualche minuto dimenticato. Estrae il fazzoletto dalla tasca e si tappa la bocca, cerca di guardare senza troppo investimento emotivo la solita rastrelliera di dita, le falangi ordinate e trapuntate di anelli, escono dalle coperte risvoltate accuratamente, prova a convincersi che la donna sia morta nel sonno, così per mitigare l’insieme. La vecchia ha il cranio coperto da una cuffietta arricciata, un copricapo lezioso di raso bordato di pizzo, si intravede qualche ciocca di capelli ingialliti e stopposi, le solite ossa sbucano all’interno della camicia in seta ricamata. Nemmeno i denti deve guardare il Vedova, oppure solo di sfuggita, perché la mandibola gli fa impressione, quasi potesse riprendere a muoversi, come una tenaglia, vomitando un tetro linguaggio di creature emerse dalle tenebre. Si concentra su altri aspetti, si sforza di portare la testa in ambito più neutrale. “Il cranio è più piccolo nelle femmine ,” sostiene l’appuntato, cercando di dominare lo schifo attraverso il suono rassicurante del linguaggio umano. “Come
quello di nonna Lucy, mi faccio una cultura studiando con mio figlio gli Australopitechi e le fasi di evoluzione dell’uomo.” Non riceve credito la sua osservazione, si tratta di reminiscenze emerse dalle recenti interrogazioni del figlio; con il sussidiario rigorosamente sotto il naso, Vedova, finge competenza e rigore, dandosi il tono di un apionato storico, e nell’occasione acquisisce una serie di notizie per lui accattivanti. “Una volta non si studiava la storia in quel modo,” riprende il discorso imperterrito, in fondo non riesce a stare zitto di fronte all’ennesimo ritrovamento. “Io manco sapevo chi fossero gli archeologi, gli antropologi, i paleontologi e i geologi, e neppure pensavo agli scavi, ai reperti, alle tracce da analizzare, agli ecofatti e manufatti, un mondo totalmente sconosciuto. A proposito, i corpi umani sono da considerarsi ecofatti, come i resti di animali, di cibo, e ogni altra traccia organica. Altro che interpretazioni, la storia era così perché l’avevano scritta sui libri, quella doveva essere! Ma adesso è tutto più affascinante sembra che ogni cosa sia possibile.” “Vedi di applicare queste scoperte alla tecnica investigativa,” sentenzia Tanni, dimostrandosi competente anche in ambito archeologico. “Lo storico è come un poliziotto, legge le tracce del ato, analizza cosa è accaduto, costruisce delle ipotesi, arrivando a ipotizzare come potrebbe essere andata. Ora concentrati su questi indizi, invece di divagare per i fatti tuoi.” L’arredo della stanza è decisamente diverso dalle altre, i mobili sono di un legno molto chiaro, dipinto con motivi floreali, le tende di un rosa carico, voluminose e arricciate, sembrano in seta, sul pavimento tappeti di pregio in lana intessuta con trame ricercate e motivi orientali. Deposti sopra il comò una serie di vasi in porcellana cinese con donne ammiccanti, boccette di profumo di svariate fogge, piumini da cipria, rossetti e belletti straripanti anche sul tavolino basso affianco al cassettone. Appese al muro vestaglie di raso e seta, camice da notte leziose e costosa lingerie. Con il fazzoletto premuto sul naso si cerca il ritratto, questa volta è attaccato in un tondo con la cornice anticata, sopra il comodino. La giovane ritratta ha un trucco accentuato, l’abito di un rosso , è piuttosto corto e lascia vedere le gambe magre con i polpacci appuntiti dentro le calze di seta nera. La figura non attrae, c’è qualcosa di disarmonico nell’insieme, eppure
sembra cercare ammiccante lo sguardo. Il naso pare un becco acuminato, di sotto, la bocca dipinta di un rosso aranciato, vorrebbe sembrare turgida e gonfia, e invece è sottile e senza disegno, un taglio rosso orizzontale piazzato in faccia. Gli occhi sono la parte più bella del viso, scurissimi e grandi con ciglia folte, sembrano frugare d’intorno per catturare con un impeto febbrile ogni sensazione. I capelli arricciati in ciocche, cadono lungo le spalle, castani e rigogliosi, offrono un ulteriore aspetto di seduzione, ma posti in nell’insieme danno un risultato poco allettante. Sullo sfondo del ritratto un ambiente interno, una tenda di raso bianco e un divanetto di damasco fiorito. L’ultimo esemplare delle Mariani, tiene in mano un ventaglio di pizzo nero, le dita trapuntate di anelli e pietre, sembrano frenare a fatica il fremito interiore. “La nostra fortuna è che non ci sono più stanze!” esclama Vedova. “Vado a riferire agli operatori sanitari che possono andarsene trasportando la Mariani seduta, qui non c’è niente per loro!” In cucina la situazione è piuttosto agghiacciante, la donna non risponde a nessuno stimolo, sembra insensibile anche al dolore, la depositano piegata sulla barella, continua a mantenere la forma da seduta con le ginocchia rannicchiate, ma si lascia muovere senza esprimere un fiato. “È un burattino di legno rivestito, rispetto alle sorelle ha solo un po’ di carne in più!” Vedova si rivolge agli infermieri, finalmente autorizzati a uscire da quel puzzo. “C’è dell’altro in casa, ma non è per voi, tra poco sarà qui il medico legale. Fateci sapere come evolve la donna, insomma se dà segni di ripresa!” Una situazione drammatica certo, ma che ha in sé qualcosa di ironico, sfiora il grottesco, non si tratta di insensibilità, è una sorta di lettura insita negli eventi, il Vedova cade nella deriva sarcastica, ma non è colpa sua. Il suono dell’ambulanza taglia il silenzio e riporta tutti nodi alla loro reale tragicità. Scendono lentamente le scale Tanni e Giacomelli, il medico ha spostato le coperte sopra la Mariani scheletro allettato, e quanto si è stampato sulla biancheria nel corso dei mesi ha fatto toccare al maresciallo la punta massima del disgusto. Il fetore di questa giornata se lo porteranno addosso chissà per quanto, finirà sedimentato in qualche cellula neuronale nei meandri del magazzino mnestico,
per balzare fuori all’improvviso, quando meno te lo aspetti. I due discutono nel salone d’ingresso, accostati a un angolo zeppo di fauna collinare, dall’alto li squadra una splendida volpe, il muso aguzzo, gli occhi vitrei, la bocca socchiusa lascia intravedere i denti affilati, elegante il manto rossastro, un esemplare unico, finito sotto il tiro del Mariani. “Ho bisogno di saperne di più su questa famiglia, a chi posso rivolgermi?” chiede al dottorino. “Se la donna non si riprende sarà arduo vederci chiaro.” “L’unico rimasto in contatto con la famiglia è il contadino che ava a raccogliere la lista della spesa, Danilo Santi, so che è stato lui ad avvisare il parroco e a mettere in moto le ricerche,” ribatte Giacomelli, “io stesso ho ricavato da Santi le notizie essenziali, conosce da tempo la famiglia, rappresenta una sorta di memoria storica. È un uomo che tace e osserva, un tipo affidabile.” Giunge sul posto il medico legale, lo affianca l’appuntato Vedova, ha già dato una breve occhiata alla situazione nella veranda, ora viene accompagnato sopra. Dopo una prima analisi sommaria, il gruppo si ritrova fuori, si ragiona all’aria aperta per non soffocare. Il medico legale, non è nuovo a queste scene, Rosario Salinas, viene da un paesino dimenticato in terra sarda e sembra conoscere questo complesso intreccio di solitudine e follia, la deriva in cui si cade nell’isolamento forzato, perdendo gradualmente i contatti con la realtà. “Dovrò lavorarci sopra, ci sono parecchi resti da esaminare, certamente i cadaveri non sono recenti, quella deposta nella veranda, potrebbe essere deceduta più di un anno fa, probabilmente una morte improvvisa, forse le sorelle non sono riuscite a spostarla in casa e l’hanno coperta con un materasso. È morta di certo dopo, la donna sistemata in camera. Indossa biancheria da notte, è molto probabile che fosse a letto perché malata.” Salinas scambia con il maresciallo le prime impressioni. “Riguardo alle carcasse di animali, per i gatti chiusi dentro la veranda c’è stata una fine rabbiosa in assenza di acqua e cibo. Le carcasse appena di fuori, saranno meno di una decina, tutti felini, erano più accessibili agli insetti responsabili della decomposizione, sarcofagi e calliforidi, di loro resta poco.” “Come sono morti? Si tratta di una malattia, oppure sono stati avvelenati?” incalza il maresciallo. “Le pare che la disposizione confusa e sparsa all’ingresso della veranda, risponda a qualche particolare rito pseudo religioso?”
“Presumibilmente,” spiega Solinas, “i resti sono stati finiti da volpi, topi di grosse dimensioni o anche cani, tutti animali che possono nutrirsi di un corpo morto se lo trovano, poi ne rimuovono e spargono le ossa, questa può essere una spiegazione plausibile dell’immagine a cui ci troviamo di fronte. Per le cause di morte le saprò dire. Non le assicuro di occuparmi direttamente delle Mariani, di solito non analizzo cadaveri in queste condizioni. Credo che qui ci sia materiale per il mio collega anatomopatologo, a lui certi resti apionano, sarà opportuno contattarlo.” “Qui di veleni ne giravano,” sbotta Giacomelli, macchinando pensieri suoi. “È stato Danilo Santi a confidarmi certe ioni alchemiche dei due Mariani, padre e figlio.” Vedova riteneva che le carogne fossero appetibili solo per avvoltoi, coyote e iene, ma oggi la sua cultura riceve un sensibile impulso, ato dal museo faunistico appeso nel salone della villa.
La tensione dei ritrovamenti cala, si pensa ora a dare un senso all’insieme, si apre lo spazio della lunga fase ricostruttiva, ci penseranno i giornali a fungere da cassa di risonanza agli eventi, squarciando il velo su un anonimo paesetto di provincia. Completa le sue curiosità il Vedova uscendo finalmente dal cancello d’ingresso della villa degli scheletri, e pare la liberazione da un girone infernale. Non soddisfatto, tormenta il dottorino, sente l’urgenza di una puntualizzazione sui vermi bianco-giallognoli che gli pare di avere intravisto in mezzo alle carcasse dei gatti. Vuole sapere se sono imparentatati ai molluschi che usa per pescare. “Una buona osservazione la sua,” lo incalza il Giacomelli, ringalluzzito di avere trovato conferme alle sue teorie nelle prime analisi del medico legale. “Quei bigattini vermiformi che lei usa come esche, non sono così innocui ma bensì esseri precisi e determinati. In climi con temperature calde possono contribuire alla completa distruzione delle parti non ossee in tempi sorprendentemente rapidissimi, grazie anche alla loro capacità riproduttiva impressionante per rapidità e proporzioni. Scientificamente vengono detti larve apode dei batteri calliforidi e di altri ditteri.” Vedova si sente cognitivamente appagato, la quantità di nozioni incorporata oggi
gli consentirà un figurone con il figlio, sarà lui a erudirlo sulla natura intrinseca dei ritrovamenti archeologici, a spiegargli come paleontologi e anatomopatologi sposino insieme le loro competenze per are ai raggi X i ritrovamenti umani e animali. Il Giacomelli continua l’esposizione, aggiungendo la ciliegina: “Ha presente la mosca color verde-bottiglia che si vede d’estate, è chiamata mosca metallica, tecnicamente Calliforida. Questo insetto depone le sue uova bianche su qualunque carne morta, stessa tendenza anche sulle carni vive purché siano esposte, cioè prive di pelle. È illusorio pensare che preferisca le carni morte, in realtà gli animali vivi possono scacciarla ed essa non potrebbe agire su di loro come farebbe su un cadavere”. La mosca verde, altro tema affascinante per il Vedova che già assapora gli effetti che riuscirà a produrre nel figlio, andando a colpire quella inspiegabile simpatia per il macabro presente nei fanciulli: mostri, vampiri, zombi, sino ai più normali orchi, animali feroci, draghi, giganti e lupi mannari. Bisogna pur constatare il fascino del male, della parte oscura di noi, ragiona ad alta voce il Vedova, e il dottorino gli dà corda, parlandogli della hýbris, del Leviatan, delle figurazioni di Satana, sin dal serpente primordiale, prima metafora del lato maligno e tenebroso presente nell’umanità. Ora il Giacomelli deve dettagliare sui significati di quella parola di derivazione greca, l’hýbris, perché la mente del Vedova non può tollerare tali voragini cognitive. “Questo termine deriva dalla tragedia greca, possiamo tradurlo con eccesso, superbia, orgoglio, prevaricazione,” illustra didatticamente il dottorino, soddisfatto di andare a scandagliare anche la sua formazione umanistica risultato della maturità classica. “Nella trama della tragedia, la hýbris è una colpa causata da un’azione che ha violato le leggi divine immutabili. Come conseguenza di questa azione, anche a distanza di molti anni, i colpevoli e la loro discendenza saranno portati a commettere crimini o a subire azioni malvagie. Gli dei puniranno il responsabile per la sua arroganza e imprudenza.” Quale innesco migliore per la suggestionabile mente del Vedova, scattano repentini i collegamenti più azzardati tra la rilevata follia presente negli antenati della stirpe dei Mariani, immortalata con evidenza nel ritratto del salone e le discendenti, vittime di chissà quale deviazione mentale. Ebbene non si tratta di derive colloquiali, di assurdi temi emergenti, di strani effetti delle libere associazioni mentali, c’è un filo conduttore nei pensieri, così brutalmente
sollecitati dalle scene vissute in una giornata di certo particolare. A tarda mattinata si chiude il sipario dopo il primo sopralluogo a villa Mariani, sul posto arriva anche la polizia scientifica e il sostituto procuratore, si scattano le foto, immortalando i macabri ritrovamenti.
IV
Aprono sul fatto le cronache locali e se non bastasse anche quelle nazionali, il borgo medievale di Barrio assurge agli onori della notorietà, quella più succulenta e scabrosa, una materia ricca e variegata per quanti amano intingere nel torbido. Covano una rabbia malcelata i barrioti, già riservati e misantropi di loro, vedono con totale disprezzo e diffidenza i numerosi giornalisti che riempiono di parole i loro taccuini, per non parlare degli scatti invasivi e spietati dei fotografi. Un va e vieni di riempitori di carta stampata, titoli, catenacci e sommari che sembrano parlare di un altro mondo, sino alla deriva peggiore costituita dalle impietose videocamere delle TV, sofisticati occhi elettronici inviati a scrutare l’anima nascosta del borgo. Servizi brevi e puntuali trapuntano i notiziari, riprese del paese, solitario e indifferente, anche le pietre mute, solide testimoni del tempo, rimangono distaccate. Un tacito accordo tiene tutti in casa, difficile trovare qualcuno lungo le vie ciottolate, solo gli alberi sbocciati nell’incantevole fioritura primaverile esprimono il netto contrasto di una bellezza senza tempo, imperturbabile testimone del degrado umano. Ai più tenaci cronisti capita di incontrare il Femminiella, nulla può trattenerlo in casa, le eggiate quotidiane scandiscono i ritmi naturali del suo tempo. Basta un’occhiata al sorriso sbieco, per capire l’inefficacia di ogni sua testimonianza, ma allora chi intervistare? Non bastano le due parole sin troppo pacate ricavate da don Fortunato, né tanto meno le burocratiche dichiarazioni del maresciallo Tanni, il ritrovamento si presta a risvolti alquanto sinistri, ma dove andare a parare? Danilo Santi, è stato recluso in casa, costretto dalla moglie a non uscire, i campi possono attendere. Qualche intraprendente reporter si avvicina ai figli che non sanno nulla, Danilo
non può parlare, si tratta di due rigide prescrizioni, quella della consorte, e già sarebbe bastata, a cui si aggiunge l’indicazione prescrittiva del maresciallo Tanni, deciso a smontare il prima possibile l’attenzione mediatica. E se non bastasse ci si mette anche don Fortunato a consigliarlo, tramite l’infaticabile sposa: lo esorta a starsene fuori, potrebbe lasciarsi sfuggire una parola di troppo, non è certo un esperto di comunicazione, capace di cavarsela in situazioni a cui non è abituato. Il Femminiella attirato dall’insolito movimento di persone è convinto che sia giunto il suo momento, non si dà pace, potrebbero aprirsi gli orizzonti della sua esistenza, e così finalmente trovare l’anima gemella tra le intraprendenti giornaliste o imprimere un impulso decisivo al business nelle vendite di sacchetti di lavanda. In fondo era proprio Faustina Mariani la sua maggiore acquirente e dopo i mesi di silenzio dalla villa, gli affari segnavano un punto morto. L’unica anima vagante di Barrio pareva proprio lui, presente in qualsiasi orario, implacabile con il cestino in vimini colmo di sacchetti odorosi. L’incubo ossessivo dei cronisti e ancor più delle croniste, si era costretti a svuotargli il cestino per farlo sparire in fretta. Qualche giornalista dal cuore tenero ci aveva provato a farlo parlare, così per aggiungere una nota di colore al servizio, ma nulla di sensato usciva dalla conversazione del Femminiella. Era ardua anche l’interpretazione del dialetto, oltremodo complicata da una faticosa articolazione delle parole, la saliva usciva abbondante e schiumosa dalle labbra impastando ogni suono, la lingua ruotava nel palato addossandosi alle pareti della cavità orale nell’intento di biascicare consonanti e vocali. In realtà era l’espressione mimica e la gestualità a dare le informazioni essenziali alla comprensione dei contenuti. Inutile e dannosa ogni fatica di traduzione, si finiva innaffiati da dosi sovrabbondanti di liquido biancastro, senza ricavare null’altro. Gli occhietti curiosi e indagatori del Femminiella scrutavano stupefatti l’interlocutrice all’ennesima richiesta di ripetere le sue parole, ancora più scuri fendevano gli spessi occhiali cerchiati da montature pesanti, tenute su con pezzi di spago. Cosa doveva ripetere poi, era tonta questa? Non aveva ancora compreso il suo discorso? Queste femmine straniere, lo esaurivano, nervose e dure d’orecchi, certo graziose ma di sicuro non adatte a lui. Tutto sommato a lui non dispiaceva Faustina, la più giovane delle Puntute, da tempo si era dichiarato, rispettando il vecchio proverbio distillato della sapienza contadina: Mogli e buoi
dei paesi tuoi, ma la Mariani prendeva tempo e non si decideva, lasciandolo a bocca asciutta. A essere precisi, accanto al Femminiella, un’altra anima in pena vagava in libera uscita per il borgo, rappresentandone un giusto contraltare, Tarcisio Corsin, detto il Capitano. Tanto il Femminiella traboccava verboso saliva schiumante condita di parole, quanto il Capitano, muto e dolente, annullava ogni quesito con un silenzio inquietante e assoluto. Il Capitano era una figura alta, robusta, barbuta e solida, camminava con o deciso e militaresco affondato le estremità in pesanti scarponi, sia d’inverno che d’estate. Viaggiava con una dignitosa borsa in cuoio a forma di piccolo baule, in cui stipava i suoi averi, sul capo un colbacco di camoscio scuro, le spalle coperte da un giaccone di montone, pesante chiaro e giallastro, portato sino al limite della sopportazione, quando il caldo si faceva opprimente e spietato. Il capitano pareva un uomo giunto dalle terre polari, stava sempre coperto, anche perché bivaccava all’aperto, stanziava per le vie di Barrio ma non era del posto, il prete lo ospitava per il pranzo o la cena se serviva. Di mattino presto lo vedevi lavarsi alla fontana del Pissarroto, la più antica del paese, scolpita sulla pietra qualche metro dopo la chiesa, con una coppa di contenimento grigia e fresca, segnata dai secoli, dove la mano dell’uomo si era posata innumerevoli volte per dissetarsi. Il barbuto Tarcisio aveva sempre qualche spicciolo per pagarsi un bicchiere di vino. Quando alzava troppo il gomito barcollava assumendo in viso un sorriso leggero e beffardo, ma non c’erano in lui altri segni di sciatteria, manteneva la propria dignità, a ciò gli era valso il soprannome di Capitano, siglando quell’inesplicabile tratto eroico racchiuso in lui. Non si sapeva se avesse una dimora, né cosa teneva dentro quella speciale borsa di cuoio; spiazzava l’osservatore con la sua nobile imponenza, aveva in sé un non so che di fiero e forte, scrutava di netto le persone incontrandone lo sguardo e pareva comprenderle nel profondo. Aveva colpito anche i cronisti, toccando lo spirito crocerossino delle reporter, c’era un fascino calamitoso in lui, novello Jack London, riassumeva in sé l’anima del pioniere, la seduzione dell’esploratore solitario.
Uomo che sa scrutare nel profondo, quasi ti denuda, osserva, memorizza, cattura i sentimenti più reconditi nella gabbia del suo sguardo deciso, chissà quante cose sapeva, certo se le teneva per sé. Nulla da fare, nessuna informazione usciva dalle labbra carnose, coperte da uno spesso strato di barba del capitano, nemmeno sotto le molli pressioni delle più avvenenti imbrattartici di carta. Lo sguardo conciliante poteva ingannare, ma era lui a condurre il gioco, né mance, né bicchieri di vino, potevano varcare il suo fermo proposito di tacere. Per alcuni giorni regnò padrone incontrastato e incorrotto delle vie del borgo, insieme al lezioso Femminiella, battendo le vie solitarie dell’enigmatico paese. Nel frattempo Danilo Santi, da giorni recluso in casa, si dava alla lettura dei quotidiani, non era un lettore forte, quando poteva frugalmente scorreva le pagine locali, magari al bar risparmiando i soldi del giornale. Ma ora si immergeva nella carta stampata, addirittura sottolineando alcuni punti e tenendo traccia delle diverse versioni; ciascun cronista raccontava gli eventi a modo proprio, si trattava magari di sfumature, ma uno, che conosceva i fatti come lui, le registrava. Tagliava e incollava titoli, rappezzava di ritagli e foto il suo fascicolo, un quadernone a quadretti minuti, fuori standard, scartato dai figli, corredato da una copertina per niente di tendenza, egli se ne impossessò senza far torto a nessuno. Divennero buoni anche i colori e gli evidenziatori per costruire lo sua rassegna stampa, come un allievo diligente raccoglieva tutto, chi avrebbe mai immaginato che proprio le Puntute costituissero il veicolo della sua iniziazione alla collaborazione con le forze dell’ordine, si sentiva, senza false modestie l’uomo decisivo per l’evoluzione del caso. Le spesse mani, abbrustolite dal sole e tagliate dal freddo, sminuzzavano goffamente la carta, profilavano gli articoli di spalla e sistemavano senza consumare spazi le notizie più corpose sistemate nel taglio alto della pagina. Non contento si permetteva di criticare, brontolava a voce alta dando del bugiardo ora a questo ora a quel cronista, scopriva un’innata ione al racconto minuzioso dei fatti, e doveva controllarsi oltremodo per non uscire fuori allo scoperto vomitando ai lettori la sua versione. I titoli e i catenacci racchiudevano il sunto della situazione: “Anziana viveva con due cadaveri in casa. Erano le sorelle, morte da un anno”; “Anziana donna vive
in solitudine in una situazione di degrado”; “Denutrita e in stato confusionale, la donna ritrovata a Barrio, insieme ai cadaveri delle due sorelle”. E ce n’era già abbastanza da far rizzare i capelli, Danilo leggeva a voce alta alla sposa, sciorinando le notizie con apparente indifferenza, sino a giungere al o in cui anche lui veniva citato. Faustina Mariani stava vegliando le sorelle, Fosca e Felicita, da un numero imprecisato di mesi. I due corpi, in stato di mummificazione, si trovavano l’uno in camera da letto e l’altro all’esterno, in una verandina. Ancora in stato confusionale, la più giovane delle Mariani, Faustina, non ha fornito spiegazioni dei fatti. La sorella Felicita quasi certamente è morta per una malattia mentre si trovava in veranda e non avendo la forza per spostarla, è stata coperta con un materasso. La secondogenita Fosca, invece, sarebbe morta nel suo letto, le cause rimangono incerte. Secondo gli inquirenti, le tre donne tutte nubili, un tempo presenti nella vita sociale di Barrio, da alcuni anni si erano isolate completamente. L’unico rapporto umano, con un contadino della zona che ogni giorno faceva loro la spesa.
E qui Danilo sottolinea le parole scandendole con cura, giunge a sillabare per essere più esplicito, riprendendo con tono solenne la lettura.
Da alcuni mesi il contadino non aveva più visto nessuno e allora aveva allertato il parroco e poi i servizi sociali. Ma alle insistenti chiamate a quel cancello malandato non si sarebbe mai affacciato nessuno. A quel punto si era ipotizzato che le anziane donne si fossero trasferite altrove. Fino a quando le forze dell’ordine hanno deciso di intervenire. Ora si indaga per cercare di capire cosa abbia causato la morte delle due donne e perché la sorella, portata in ospedale in stato confusionale e denutrita, non ne abbia segnalato la morte. L’autopsia è stata disposta non solo sui cadaveri ma
anche sulle carcasse degli animali. Al vaglio degli inquirenti anche un diario trovato nella villa. Di sicuro c’è che la Mariani, nubile, viveva da anni in una penosa condizione di solitudine e abbandono insieme alle due sorelle. Il parroco spiega che un tempo erano inserite socialmente, ma in seguito alla morte della madre, gradualmente si sono completamente isolate da tutti. In paese si pensava che si fossero trasferite in una casa di riposo. Gli inquirenti si interrogano su un altro aspetto ovvero la presenza di oggetti e immagini sacre accanto ai cadaveri, insieme ai fogli sparsi, numerose carte scritte in un italiano ordinato, resoconto giornaliero di un’esistenza di lucida follia. Il pubblico ministero e gli uomini del maresciallo hanno cominciato ad analizzare i primi scritti. Appuntato in un foglietto senza data, si legge questo messaggio, più volte ripetuto: “Saremo prese insieme, aspettiamo la resurrezione”.
Più sintetiche e schematiche le notizie date da un quotidiano nazionale, dettagliano sull’età delle Mariani, così viene soddisfatta la curiosità di Rosa. Si sa che a Barrio non era facile rilevare le età femminili, in certi casi bisognava aspettare eventi al limite, come la demenza senile per la Vendramini, la tragica dipartita per la Puzzona, e le Mariani non erano certo da meno nel rivelarsi in codeste lugubri circostanze.
Anche se non è stata ancora esclusa la morte violenta, il macabro ritrovamento delle sorelle Mariani, fa pensare a una situazione di abbandono: il cancello non curato, il viale coperto di fogliame, il degrado e l’incuria. Le donne morte, sono Fosca Mariani di settantatré anni e la maggiore Felicita di settantotto. Dei loro corpi sono rimasti solo pochi resti, portati in obitorio, tutti e
due in una bara. La sorella sopravvissuta, Faustina ha sessantasette anni. È stata condotta in ospedale in stato di choc e in una condizione di notevole denutrizione.
“Faustina, tutto sommato si conservava bene,” puntualizza Rosa, attratta dal resoconto di cronache costruito con rigore dal marito. “Come ha potuto perdersi in questo modo? Chi poteva immaginare una situazione del genere, starsene un anno in casa con le due sorelle morte? C’è qualcosa di disumano in questi fatti, chiudersi dal mondo e coltivare dei pensieri assurdi e ossessivi. Possibilità economiche ne avevano e guarda come si sono ridotte, a far da contraltare alla loro amica Vendramini.” Danilo non si precipita a rispondere, guai a farlo senza appurare il reale stato d’animo della sposa, si tratta di una pacata riflessione che ha già risolto in sé i nodi cruciali o bensì del pericoloso avvio di una serie infinita di quesiti senza risposta. Da attento conoscitore dell’animo femminile, a Danilo non è sfuggita una sottile soddisfazione percepita nel tono della consorte, seppure non dichiarata, riguardante la connessione tra possibilità economiche e fallimento esistenziale. Questo dato a parer suo dovrebbe placare ogni ulteriore e sterile indagine introspettiva, ci mancavano anche i diari e le carte volanti, ritrovate nei successivi sopralluoghi, a farcire di ulteriori risvolti inquietanti una situazione già atroce. “Si sa nulla sul contenuto del diario di Faustina, ha sempre avuto la mania di scrivere fin da piccola,” interviene Rosa, raggelando il povero Danilo, che già presentiva l’affondo. “Sì, intendo dire se si sa qualcosa di quello che c’era scritto, magari il prete è stato informato, cosa dici?” “Il prete dovrebbe essere aggiornato su ogni sviluppo secondo te? E perché poi? Questi sono problemi degli agenti, non del prete,” taglia corto il contadino. “Non arrovellarti sempre su storie prive di senso, manco un collegio di psichiatri può riuscire a vederci chiaro dentro quelle tre teste. O meglio dentro l’unica testa rimasta.” E già si pentiva di averla nominata, poiché scattò di getto il quesito sulla sua
possibile ripresa, di questo si sapeva ancora niente? E il prete sapeva qualcosa di Faustina, certo era andato a trovarla in ospedale. E via, la macchina era ormai in moto, la testa di Rosa lavorava a pieno ritmo, chi avrebbe potuto fermarla, un evento del genere poteva solleticare chiunque, anche quelli non predisposti. Non potendo uscire di casa Danilo era la vittima designata delle vacue ricostruzioni esplicative della sposa. Lo squillo deciso e liberatorio del telefono li fece sussultare entrambi. La telefonata proveniva dal commissariato, la voce roca e decisa del Tanni finalmente lo investì richiedendo la sua collaborazione; ma certo, si metterà a disposizione, era il momento di vederci chiaro nella vita delle Puntute. A scandagliare dentro la storia delle sorelle mummificate avevano designato il maresciallo Tanni in odore di promozione, non serviva scomodare un capitano, e comunque sarà la conclusione di questo caso a segnare l’avanzamento di carriera del maresciallo, e anche il Vedova farà un o innanzi, era quello che ci voleva per muovere le acque stagnanti della professione. Un caso da anatomopatologi, da antropologi, in cui scatenare le furie interpretative di medici e santoni della psiche, sfiorando magari il paranormale, per finire a chiedere consiglio al prete, saldo conoscitore delle anime, ricostruendo un quadro dai vari tasselli interpretativi. Il nosocomio a qualche chilometro da Barrio ove è stata trasportata Faustina, è già preda dei giornalisti, ma le immagini restano in esterna, blindato l’accesso ai reparti. È il quarto giorno dal ritrovamento, la Mariani ripulita, idratata ed esaminata, è stata collocata nel reparto neurologico, ora blatera qualche frase di dubbio significato. Giace in stato di sedazione, poiché tende a deambulare, vaga cercando disperatamente la sedia di paglia con cui ormai viveva in stato simbiotico, per risistemarsi a vegliare i resti delle sorelle. Di certo Tanni non è portato per questo genere d’interrogatorio, per non parlare del Vedova, ma la carriera incalza e bisogna adeguarsi. L’ingresso dell’ospedale è affollato, concitazione e lunghe file d’attesa, qualche diverbio per le precedenze, si tratta di ordinaria amministrazione, comunque ognuno pensa ai fatti suoi, non emerge nessuna ione per il giallo delle
Puntute. Tanni, aspetta il dottorino che ha fatto convocare, ormai si è affezionato, poi si occuperà di raccogliere le informazioni, diciamo così anamnestiche dal contadino, e alla fine potrà viaggiare a pieno registro nelle stranezze umane. Il Giacomelli giunge in ospedale stralunato, i cappelli alzati sulla fronte con una brutta piega, ha dormito male, accovacciato di traverso, magari con un mazzo di carte sotto la guancia, ha una riga rosso sfumato sulle gote, lo stampo inequivocabile di una copertina rigida malamente ripiegata. L’occhio plumbeo è coperto dagli occhiali sottili, chiusi da una montatura metallica e leggera al platino, roba infrangibile, raffinata, finita chissà come sulla faccia del medico della mutua. Egli cerca di evitare i cronisti perdendosi nei meandri degli ingressi ospedalieri, ma è troppo tardi, doveva pensarci prima! Fulmineo si ritrova un microfono piazzato in bocca, e come sempre quando viene preso alla sprovvista ci mette un secolo prima di connettere una sensata risposta. Poco male l’impressione è quella di un uomo che pondera alquanto prima di parlare, pesa le parole, alla fine l’oracolo profetizza una qualche spiegazione. “Il ritrovamento è stato devastante, all’esterno tutto giaceva nell’incuria, la veranda era un cimitero improvvisato, carcasse di animali e una delle sorelle nascosta da un materasso, morta da circa un anno. Ancora più inquietante la sorella ritrovata in cucina, in stato confusionale e denutrita, in mezzo a una scena di degrado, disordine, abbandono. E poi l’ultimo ritrovamento nella stanza da letto, in quel piano della villa c’era però un ordine particolare, una sorta di museo costruito per fissare nel tempo, oggetti, accessori, foto, tutto fermo e congelato, una specie di sacrario,” dopo un blocco iniziale, partono le riflessioni del Giacomelli, che in realtà come al solito parla con se stesso nell’intento di chiarirsi. “Poi ci sono le immagini sacre i quaderni e i fogli ritrovati, carte da analizzare con cura per comprendere la psicologia delle tre donne.” “Le pare possibile che nessuno sapesse qualcosa delle sorelle?” Il cronista lo incalza. “Lei come considera l’atteggiamento della gente del borgo?” Vogliono tirarmi fuori l’idea che questo è un paese di fuori di testa, ma non mi faccio infinocchiare dai giornalisti, Giacomelli si sta innervosendo, inoltre è in ritardo all’appuntamento con il maresciallo, quindi perde il controllo, come
sempre equivocando le situazioni. “No! Non è un paese di pazzi! Non possiamo fare queste associazioni qualunquistiche!” tronca improvvisamente la conversazione, spazientito e furente, non certo disponibile a enfatizzare gli accadimenti a fini mediatici, lui che se ne frega dell’immagine. Seccato si allontana con o deciso, grattandosi la testa, già infuriato per aver parlato troppo, imbuca i corridoi avanzando a capo basso, pur conoscendo l’ospedale come le sue tasche sbaglia strada, impreca e inciampa, giungendo finalmente dinnanzi alla vetrata che chiude il reparto di neurologia. Il puzzo da disinfettante gli irrita le narici, un’allergia quanto mai inconsueta per uno nelle sue condizioni professionali, ma l’esistenza umana è zeppa di contraddizioni, torcendosi il naso freneticamente, afferra la maniglia ed entra nel reparto, scrutando il corridoio lustro e asettico. Il maresciallo è a colloquio con il medico responsabile del reparto, Giacomelli attende squadrando la scena di traverso, vomitando mentalmente i suoi improperi al neurologo affermato, in odore di cariche politiche di rilievo. Lo disgusta soltanto incrociarne lo sguardo, con quel sorriso studiato in faccia solo per accattivarsi il consenso, un uomo dalle mille risorse, primario, proprietario di un poliambulatorio, con i giusti agganci, niente di più distante da lui, teso soltanto a esercitare con scrupolo il suo umile lavoro e incapace di mettersi in altri ambiti. Cosa starà pontificando l’abile esperto delle connessioni neuronali, niente di risolutivo, il Giacomelli, al colmo delle giornate nere, entra nella stanza della Mariani, analizzando da sé la situazione. Nell’occasione si è trovata disponibile una camera singola, linda, quasi brillante, il pavimento verdino, in linoleum lustro e scivoloso, riflette le immagini, spicca il metallo del letto opalescente, affiancato dall’armadietto sterilizzato, su cui una sapiente regia teatrale ha deposto un vasetto di orchidee. Il mobiletto di laminato verde è tirato a specchio, ai piedi del letto un paio di pantofole bordeaux in velluto. Le tende tirate, dipingono lo spazio di una luce soffusa, perfettamente sposata al mesto silenzio, Faustina sbuca appena dalle coperte tirate sino al collo. E anche qui un colpo di teatro, curato il volto della paziente, forse incipriato, i
cappelli lavati e raccolti, davvero un reparto capace di trasformare la persona, diretto da un uomo idoneo a convertire con la propria abilità amministrativa le sorti municipali. Ribolle il Giacomelli, mentre legge nervosamente la cartella clinica sfalsando le righe, si applica decodificando l’illeggibile grafia medica, una categoria di appartenenza che gli sta stretta, lui rimane comunque un cane sciolto, una voce fuori dal coro. Osserva il volto di Faustina, è appena sopita, tra un po’ sarà possibile parlarle, prima che gli venga inflitta un’ulteriore dose di benzodiazepine. Un respiro sommesso anima il petto della Mariani, la bocca è socchiusa, ed emette a momenti alterni un impercettibile fischio. Scosta le coperte, osserva meglio il petto, lo sterno, le mani incrociate sono adagiate sul seno, manca solo il rosario o lo scapolare dei Carmelitani per decretarla già pronta a intraprendere l’ultimo viaggio, portandosi via gli enigmi familiari. Un movimento meccanico delle labbra sposta l’attenzione del Giacomelli, seguito da altri lievi spostamenti della bocca, parole senza suono, forse giaculatorie, abbassa il volto e accosta l’orecchio, riverbera solo l’impasto della saliva biancastra, la lingua scivola nel palato producendo un ritmico scricchiolio. Nello stato in cui riversa la Mariani, è ardua anche soltanto la percezione del tempo e dello spazio, figuriamoci il proferire parole sensate. Dove penserà di trovarsi, magari già nell’aldilà accanto alle sorelle? Tutto sommato a lui non era così estraneo il processo mentale di Faustina, uscire dal reale costruendosi un mondo proprio, praticava spesso questo esercizio per non finire sopraffatto dai problemi fisici e mentali dei pazienti. Si stava trasformando in una sorta di confessore laico, sì, certo l’ascolto attivo era parte della terapia medica, ma rischiava di scivolare nella deriva. Sarebbe finito di certo sopraffatto se non avesse raggiunto il fermo proposito di fruire sempre di più della barriera chimica, offrendo farmaci in risposta a ogni problema, bloccando definitivamente la lava eruttante dei disagi esistenziali dei pazienti. Andassero pure a esprimere in altri siti più appropriati i loro travagli psicologici con afflizioni sentimentali connesse. Due erano le derive catartiche del suo mondo parallelo: i libri e i fumetti. La
raccolta di albi illustrati aveva oramai colonizzato la sua libreria, dai nipponici, ai classici, al genere western; comics, historieta, graphic novel, come le si voglia chiamare, costituivano la sua uscita di sicurezza. Guai a toccare la sua via di fuga, quella che assunse, sin dalla tenera età, il posto lasciato scoperto dalle collezioni di figurine, tappi, biglie, e anche ammettiamolo, dai chewing gum depositati nei luoghi più assurdi. Con tale materiale gommoso, frutto del lavorio di sapienti mascelle, si potevano forgiare le sculture umane più insolite per forma e colore. Egli riusciva a scovarle in ogni dove, scrutando il lato nascosto degli oggetti, le ripuliva, e scaldandole dava vita a nuove costruzioni, attività purtroppo incompresa, se non osteggiata in famiglia. Tale abilità non ebbe modo di esprimersi a lungo, ci pensò la madre a bloccarla in tempo, senza possibilità di discussione. Ficcato in un tascone della giacca, pronto per ogni evenienza, utile a coprire i vuoti di tempo, scovò un volumetto e lo trasse, dalla dimensione poteva essere un fumetto di Rat-Man, roba da tenere nascosta, non certo per via dei contenuti scabrosi, ma per evitare di esporsi al ridicolo. Ben lo sapeva lui schiavo del fascino di Topolino, Lupo Alberto, Mafalda, quanto sarebbe stato l’inevitabile vittima delle frecciate di pseudo intellettuali di adulti maturi e navigati. Giacomelli si sistema sulla sedia ai piedi del letto ed estrae il fumetto, si prepara a ingannare l’attesa con le disavventure di Rat-Man, un povero deficiente che va in giro in calzamaglia con le orecchie da topo in testa. Il maggiordomo, l’unico a conoscere la sua identità segreta, ogni tanto gliela ricorda, ma l’uomo-topo se ne frega. In tutto il resto Giacomelli non va per il sottile, si adatta, ma per quanto riguarda i suoi fumetti l’ordine è fiscale. Straripanti in strati multipli le mensole dei manga giapponesi, le immagini in movimento che si leggono a rovescio da destra verso sinistra vignette comprese, Rave, Ken il Guerriero, Berserk, Naruto, Gray-Man, Orphen lo Stregone, Vitamin e tanti altri, una gamma di super eroi fascinosi, dotati, invincibili. Un’arte sequenziale il fumetto costituita da più codici, letteratura disegnata si direbbe, altro che roba da infanti, si provi il primario di neurologia a leggere al rovescio, ingabbiato com’è dentro la sua ottusa normalità. Lo sa il primario che si appresta a diventare primo cittadino che il fumetto nato in origine per gli adulti è diventato solo dopo territorio per l’infanzia? Ebbene, l’ha mai praticato lui, l’ingegnere dei propri interessi, calcolatore sfrenato della carriera, incapace di perdersi in attività che non
comportino potere o lucro? Possiamo dire che l’origine del fumetto risalga all’epoca delle caverne, quando gli ominidi realizzarono i graffiti con scene della loro vita quotidiana, altroché! Eppure il primario, a ben guardare, presenta una non lontana somiglianza con il celeberrimo Yellow Kid, il bimbo vestito di giallo che diede avvio all’industria del fumetto statunitense. Con quella zucca glabra e opalescente, il collo lungo e scarno, quel gozzo sporgente appuntito, che vorrebbe suggerire una qualche virilità, ma in realtà indica soltanto la struttura dei rospi che ingoia. Basterebbe sostituire il camice bianco con quello giallo e scriverci qualcosa, tipo: Votatemi, plebe inetta, incapace di pensare, delegate me! Il libretto tascabile, un po’ spiegazzato allettato nel tascone del dottorino, non è Rat-Man, poco male, le atmosfere si stemperano, cala il silenzio della prateria, viaggiamo in Arizona, in Canada, in Messico e nella gelida Alaska, dove un manipolo di uomini coraggiosi protegge gli onesti cittadini, qualsiasi sia il colore della loro pelle, dagli assalti dei fuorilegge. Giacomelli si accascia, il fischio più deciso della Mariani in sottofondo, e sfoglia le pagine di Tex, immergendosi da subito nella lettura. L’eroe dai nervi d’acciaio, capace sempre di trovare una via d’uscita, è incalzato dalle alchimie di Mefisto, criminale, mago illusionista e spia al soldo di una potenza straniera, ma il successo è certo. Lo affiancano Kit Carson, alias Cappelli D’Argento, veloce con le pistole, suo figlio Kit Willer, detto Piccolo Falco, abile con i lazos, conoscitore dei trucchi indiani, e Tiger Jack, guerriero navajo, suo fratello di sangue, cercatore di tracce, insuperabile nell’uso della tomahawk, scure da combattimento. Nel mondo di carta tutto si semplifica, le relazioni seguono una dinamica ordinata e prevedibile, netta la distinzione tra buoni e cattivi. Un sole più deciso infuoca il mattino, il cielo terso preannuncia l’estate, Giacomelli sguscia nel corridoio, sul capo un cappello tipo Stetson, jeans stretti, camicia gialla, fazzoletto nero annodato al collo, un paio di stivali con annessi speroni, stretto ai fianchi il cinturone, sulle fondine due colt calibro 35, tra lui e il primario la sottile linea di linoleum del pavimento. La mani del Giacomelli sono ferme, nemmeno un tremito, ha un’ottima mira, sia con la destra sia con la sinistra, la distanza è ottimale per colpire il bersaglio. Il primario si gira di scatto, avvertito dal fruscio degli stivali dell’avversario, il duello è inevitabile, nemmeno la stella di sceriffo usurpata che brilla sul suo
giubbotto di cuoio può proteggerlo. Scorrono i minuti nel silenzio denso di tensione, si incrociano gli sguardi concentrati sino al parossismo, un ultimo pensiero per salvarsi l’anima e poi un colpo secco e rapido fende l’aria e stende il primario. Tanni spalanca la porta della stanzetta, il Giacomelli sussulta, appena in tempo per ricacciare in tasca Tex, e placare la sua coscienza. Colto di sorpresa, chiude il sipario sul regolamento di conti appena compiuto dall’irrompere delle sue pulsioni scivolate via ingannando i severi controlli dell’io razionale. “Si è ripresa?” incalza il Tanni, squadrandolo non senza un sottile divertimento. “Ha detto qualcosa? Il primario l’ha trovata fisicamente disidratata e sottopeso, ha problemi cardiaci e respiratori, i polmoni infiammati, le radiografie indicano una polmonite. È mentalmente disorientata, ha perso le coordinate spaziotemporali, potrebbe trattarsi di uno stato psicotico, nutrito da allucinazioni, una degenerazione della depressione in cui era caduta da tempo. Oppure il lento cadere nel quadro della demenza senile. Lei cosa ne pensa?” Vietato chiedere opinioni a bruciapelo al Giacomelli, l’ansia di una risposta a breve blocca la sua mente emotiva, se poi si aggiunge il fastidio verso le profetiche, quanto banali osservazioni cliniche del primario, la situazione si fa tortuosa.
Nel frattempo Faustina tossisce espettorando un muco poco salubre, spalanca un occhio e scruta la stanza mantenendo l’altro socchiuso, compie vari giri di osservazione, sul volto porta fissata un’espressione di totale smarrimento. Poco male, il brontolio sommesso della Mariani evita al dottorino il disturbo di una qualche conferma o smentita sulle verità cliniche, entrambi si avvicinano al capezzale, in religioso ascolto. La porta si riapre e giunge anche il Vedova, l’appuntato cerca di parlare ma viene zittito, così si apposta ai piedi del letto, inondando la stanza dell’aroma del caffè. Egli non può are vicino a un bar, fosse pure quello del nosocomio, senza cedere alla tentazione della caffeina, quasi sempre vi aggiunge un cornetto,
per compensare le frustrazioni della vita investigativa. Seppure poco comprensibili, i suoni emessi dalla Mariani assomigliano a parole, articola un discorso intervallato da giaculatorie, ruotando lievemente il capo a destra e a sinistra. Vedova tira su con il naso, e riceve sguardi di disappunto dai due segugi, tesi in ascolto sino allo spasimo. Ma quali verità potrà mai evocare questa donna? pensa il Vedova all’acme dello scetticismo, una creatura assurda, ed ecco che l’affastellamento delle proprie immagini mentali lo conduce a considerare la netta somiglianza della Mariani giacente, con l’effige di una santa venerata dalla nonna, l’incubo della sua giocosa e spensierata infanzia. Doveva conservarla nella tasca esterna dei pantaloni, da lì la beata avrebbe esteso la sua azione protettiva nei sui confronti, con totale opera preservativa nel corpo e nello spirito. Fu un problema liberarsene anche in età adulta, poiché, ammettiamolo, un sottofondo di superstizione tocca anche gli animi più impavidi. Fortunatamente a risolvere la questione ci pensò l’ignara moglie, quando riordinando il suo portafoglio, pensò di cestinare quel santino sgualcito e cereo. Nel frattempo la Mariani allettata inizia a proferire verbo, biascicando i temi mistici, già registrati dal personale sanitario. “Viene l’angiolo, quello bianco, non è più urgente il nero, l’anima è salva! Libera nos a malo! Libera nos a malo! L’angiolo nero batte, colpisce. Fosca è presa già! Libera nos a malo!” Frasi confuse, appena percettibili, giaculatorie dal ritmo ripetitivo, si intervallano al respiro corto e affannoso, che lentamente si placa, l’occhio socchiuso si spalanca, la Mariani scruta la scena, affonda lo sguardo interrogante sui tre uomini al suo capezzale. “Fosca sta male, è la quinta malattia, ormai è grave,” la vecchia riprende il discorso sconclusionato. “Sta per essere presa anche lei, Felicita è già stata presa. I corpi li prende a pezzetti, l’anima invece è andata via subito. Libera nos a malo, libera nos a malo!” Comunque sul fatto che sia grave la spilungona riesumata nella veranda, non vi sono dubbi, già da più di un anno aveva lasciato questo mondo, pensa Vedova restando muto, mentre la Mariani riprende il suo discorso sconclusionato, senza particolari novità.
Si ferma improvvisamente, il tono sibilante si placa e la donna rimane come sospesa, rigida con gli occhi puntati in alto che paiono fissare due diverse direzioni. Cala il silenzio nella stanza, tagliato dal fischio asmatico, lungo e acuto della vecchia, lo sguardo intenso del Vedova incarna una somma d’interrogativi insoluti, mentre si tende all’ascolto della nebulosa profezia che si dipana nel tono piatto e stridulo di Faustina Mariani. L’oracolo riprende puntando gli occhi nella stessa direzione: “L’anima viene presa prima, i corpi vanno via a pezzi. L’ora è vicina. Da me verrà di notte al buio come per Felicita. Era tutta dura già di primo mattino! Se ne è andata senza un saluto. Sanctus, Sanctus! Abbiamo vissuto sempre insieme, anche da morte dovevamo restare insieme. Sanctus, Sanctus!” La frase profetica sembra chiudere definitivamente il discorso poiché si ripetono sempre i medesimi temi, senza novità di contenuti. Non è certo connessa con il mondo esterno, non risponde a domande dirette, fissa lo sguardo sugli oggetti e le pareti, senza percepire la presenza reale delle persone. Giacomelli le tiene il polso, sottile, quasi senza spessore, un vena blu dal disegno contorto avvolge l’avambraccio, un canale tortuoso e pulsante devasta la diafana epidermide. “Il polso è basso, ma il respiro è migliorato, più regolare. Inutile insistere, non si rende conto della nostra presenza, ci vede ma è come se non ci fossimo, siamo oggetti d’arredo.” Giacomelli, tasta la fronte, è fresca, solcata da una ruga scavata che la taglia in orizzontale. “Conviene annotare quello che dice, rileggere il contenuto e ragionarci sopra; bisogna prendere quello che affiora spontaneamente e accontentarsi.” Vedova è colpito da un’illuminazione, sarà la sacralità della situazione a ispirarlo oppure l’ultimo thriller o spy storyvisionati a notte avanzata godendoseli in solitudine, comunque deve dire la sua: “Sarebbe utile mettere una musica in sottofondo, così per rilassare la vecchia, placarla, magari farle credere di essere insieme agli angeli, neri o bianchi, insomma lasciarle intendere che ha raggiunto le sorelle”. Si blocca in tempo, fulminato dal Tanni, il quale non pare apprezzare i suoi sforzi, sinora ha taciuto, raccogliendo dati, lo sguardo indica inequivocabilmente
come ormai raggiunta la stesura di un piano d’azione. “Non hai torto Vedova, tutto sommato è bene seguirla nella sua idea di essere ata a miglior vita, ritorneremo quando si sarà ripresa fisicamente, intanto il primario prenderà nota dei suoi vaneggiamenti. Lei cosa ne pensa Giacomelli?” Dopo l’inaspettato plauso, il Vedova rimane appagato, mentre il dottorino incassa, purtroppo, la sola evocazione del primario, di cui ha rimosso completamente il nome, ha il potere di scatenare in lui i peggiori istinti vendicativi. Cala il silenzio, e mentre l’erede di Aristofane cerca di connettere in maniera accettabile una qualche risposta di assenso, la vecchia riprende con voce stridula le solite giaculatorie. “Abbiamo vissuto sempre insieme, anche da morte dovevamo restare insieme! Dobbiamo pregare tutte l’angiolo bianco, verrà a prendermi di notte, bisogna aspettare e pregare. Le anime partono subito, i corpi li prende dopo. Risorgeremo tutte insieme, siamo pronte,” la vecchia blatera in preda a un attacco declamatorio, stringe il pugno e osserva fisso il Giacomelli, sempre più smarrito. “Prima di prendere Fosca, l’ha guardata... Libera nos a malo! Libera nos a malo! Noi preghiamo sempre, Felicita dice che ci sono quattro o cinque diavoli nascosti nella villa. L’angiolo buono le ha detto di seguirla. L’angioletto provava ad aiutarci ma non ci riusciva.” Si placa improvvisamente la vecchia, richiude gli occhi rivolta sempre in direzione del Giacomelli, ed egli lo vive alla stregua di una simbolica accusa verso di lui, medico condotto inesistente: dov’era quando sarebbe stata opportuna la sua vicinanza? La cattiva coscienza morde senza pietà, lui tace, sopraffatto dalla sua personale lettura dei fatti, in cui si considera invariabilmente in difetto. “Le frasi sono in tono con i discorsi apparentemente sconnessi del diario, gli ho dato una scorsa veloce l’altro giorno,” interviene Tanni. “Ho sistemato dei post-it nei i chiave, glielo farò leggere dottore, ho bisogno del suo parere. Saranno una trentina di pagine con date e orari. Le note sono inframezzate da preghiere in latino, disegni a matita carboncino, fiori secchi ed erbe appiccicate, con insetti connessi. Sugli altri fogli sparsi il sudiciume domina, non si può recuperare nulla di utile. Le immagini sacre disperse nella veranda sono di tutti i generi, si
potrebbe costruire un calendario dei Santi in piena norma, un martirologio a tutti gli effetti. A proposito, ha mai sentito parlare di una specie di setta sulla resurrezione guidata dalla nobildonna Zita Vendramini? Anche qui è difficile recuperare qualcosa, ormai la signora è avvolta nelle nebbie. Pare che le Mariani fossero adepte, insieme a gente di altri posti di cui non si conosce l’identità, un nucleo ristretto di iniziati. Forse ci aiuterebbe saperne di più. Ma mi farò vivo con lei, intanto possiamo andare, ammesso che lei non voglia restare ancora.” Lo sguardo divertito del Tanni non sfiora nemmeno il dottorino, non ne coglie l’ironia, oppresso da un tragico senso del dovere; sì forse resterà ancora un po’, e mentre i due carabinieri escono, si apre il pugno della Mariani, sul palmo tiene una medaglietta pressoché arrugginita, dall’effige irriconoscibile. Forse un altro segno disposto per lui, non c’è scampo oggi per il medico del borgo dei misteri macabri, una somma di eventi negativi affonda la sua autostima già strutturalmente precaria.
Dopo i dolori inflitti alla sua coscienza dal pesante colloquio, Giacomelli si allontana dal nosocomio, abbacchiato e furtivo. Impreca perdendosi nei corridoi, sinché inforca una provvidenziale uscita secondaria. Per l’ennesima volta, torchiato dai propri pensieri, entra in libreria con la stessa domanda, dimenticando di aver già fatto tale richiesta la settimana scorsa, o forse due giorni prima, se non ieri stesso. Repentina scatta la frenetica ricerca delle commesse per il Grande freddo, di Raymond Chandler, in realtà si tratta del Grande sonno, ma al solito equivoca il titolo. Il volume non è disponibile, Giacomelli con un gesto di stizza esprime il suo disappunto, alla richiesta delle commesse di procurarglielo, risponde con un mugugno. È uno dei titoli da leggere nei momenti bui, ma bisogna agguantarlo subito, senza attendere, altrimenti cade l’impulso predatorio del lettore. Il detective privato Philip Marlowe, avvolto dal fascino della calamitosa Vivian, si muove con destrezza tra omicidi, ambiguità, ricatti, naturalmente rischia la pelle, uscendone solitario e impavido vincitore. Giacomelli tenta di affondare la sua coscienza sporca nel noir, cos’altro può fare? Rientra forse tra i suoi compiti andare a stanare i mutuati che non si presentano
nel suo studio? Chi è lui un missionario? Uno votato a diffondere, prevenire, promuovere la salute fisica e mentale? Di questo o non gli resterebbe più spazio per i cavoli suoi. Entrare nel circuito avvinghiante dei vecchi soli, equivarrebbe a segnare la propria morte civile. Ma l’animo è inquieto, ormai il sasso è lanciato, non resta che scandagliare le verità nascoste, placando così, seppure in parte l’insinuarsi del rimorso. Mentre la coscienza del medico condotto si piaga sotto le sciabolate del senso di colpa, nel frattempo i barrioti affondano gli occhi dentro ai caratteri stampa. Non era mai accaduto che la carta grigiastra dei quotidiani piombasse così copiosa nel borgo, esterrefatti si chiedono di chi stiano parlando i cronisti, quella tratteggiata a foschi caratteri non è certo la loro comunità. Danilo appiccica l’ultimo trafiletto nel suo quaderno-documento, ormai è alla vigilia della sua audizione dai carabinieri, tra breve calerà il silenzio mediatico, e il borgo ripiomberà nell’oscuro anonimato da cui è stato inaspettatamente tratto. Intanto le pagine della notizia lasciano il dilemma aperto.
Ora si indaga per cercare di capire cosa abbia causato la morte delle due donne e perché la sorella, portata in ospedale in stato di denutrizione, non ne avrebbe segnalato la morte. Il pubblico ministero ha fornito una prima ipotesi: tutto è sicuramente collegato ad aspetti religiosi, credevano nella resurrezione. C’è anche questo aspetto da valutare ma non posso dire di più.
V
La convocazione in caserma scattò per Santi alle 9.45 precise di un lunedì, segnato da un caldo ormai deciso; un’umidità esagerata, già pregnante di primo mattino, rendeva il respiro affannoso. Nell’ufficio del maresciallo, il contadino sin d’ora non aveva mai messo piede, occasioni non ne aveva avute, manco per i cinghiali, la detestata specie protetta. Le raccomandazioni di Rosa erano iniziate già da tempo e riguardavano ogni possibile tema, dall’abbigliamento, al modo di atteggiarsi, sino a giungere immancabilmente ai contenuti da rivelare, con totale sincerità, senza reticenze, doveva svuotare la sacca, dire tutto ciò che sapeva, queste le prescrittive indicazioni impartite. Il travagliato Danilo era caduto in uno stato di tensione particolare, simile ai patimenti sperimentati alla vigilia delle rare confessioni.
Giunto in caserma cercava di familiarizzare con un ambiente estraneo, gli pareva di fiutare tra gli arredi l’alito del crimine e del malaffare, come se egli stesso ne potesse risultare in qualche modo contagiato. Entrò nell’ufficio del Tanni a capo basso, e rimase in piedi con le mani incrociate in grembo attendendo gli eventi. La sicurezza di cui sembrava abbondantemente provvisto solo il giorno prima, lo aveva abbandonato completamente, e ora le gambe solide, i piedi affondati nei pesanti scarponi, parevano fuscelli incapaci di sostenerlo, un pensiero molesto lo inquietava: il possibile rimando a una qualche sua responsabilità nella vicenda. La sua testa non ragionava poi così diversamente da quella del dottorino e i sensi di colpa erano iniziati presto, appena superato lo choc del ritrovamento, in modo del tutto spontaneo, senza che Rosa ne avesse affrettato il processo.
Odiava le vecchie Mariani sin da bambino, a eccezione della rotonda, morbida, gommosa e sfilacciosa mamma Liberata. Fissati nella sua memoria gustativa, emergevano nitidi, il sapore delle caramelle al miele, il profumo energico delle composte, la fragranza dolciastra e burrosa dei biscotti di mandorle e noci. La ione culinaria aveva reso gioiosa Liberata, la quale lievitò al pari delle sue insuperabili torte nel periodo più roseo della sua esistenza, prima che le due figlie maggiori, Felicita e Fosca, entrassero in una turbolenta adolescenza. L’ampiezza era tale da renderla sferica, poi un lento dimagrimento, accompagnato all’avanzare dell’età ridusse le sue carni a cumuli flosci e ondeggianti, distribuiti in ogni dove, parevano vibrare interpretando una musica propria, seppure stonata e bizzarra. Teneva ancora il capo basso Danilo, quando il maresciallo gli indicò di mettersi comodo, e osservandolo con una particolare attenzione, mischiata a un senso di simpatia e rispetto, diede avvio alla conversazione, divagando per stemperare la tensione. “Signor Danilo, il medico condotto parla molto bene di lei e anche il parroco, la sua è una famiglia benvoluta in paese, vi interessate dei problemi altrui senza giudicare le persone. Una qualità davvero rara!” Tanni avvia il discorso, mentre Vedova entra in sordina e si sistema alla sua scrivania, situata sul lato destro della stanza. “Ho saputo che in questi anni lei è stato l’unico a portare un qualche aiuto a questa particolare famiglia, e anche questo va a suo merito. Ecco, vede, alla luce dei fatti tragici accaduti, dobbiamo tentare di capire, ricostruire la dinamica degli eventi, valutare se la sorella superstite possa avere una qualche responsabilità. Da lei non potremo ottenere nessuna collaborazione, a parere del neurologo lo stato confusionale in cui versa è irreversibile, sintomo della demenza senile di cui è affetta. I suoi ricordi, signor Danilo, sono preziosi. Lei si chiederà a che cosa serve tutto questo indagare, pare evidente che l’unica risposta sia una deviazione delle menti. Eppure anche queste morti meritano rispetto, la nostra coscienza ci obbliga a trovare un senso agli eventi, dando il giusto riposo a queste vecchie. Avrà certo letto come si sono sbizzarriti i giornali, andando a intaccare anche l’immagine del paese, facili giudizi, a cui noi dobbiamo rispondere con l’impegno di chi cerca di avvicinarsi il più possibile alla verità.” Era loquace il Tanni, parlava con un tono avvolgente e pacato, esprimendo contenuti ragionevoli, conditi di una certa sapienza, di fatto la tensione di Danilo andava scemando, si sentiva motivato a raccontare, cedevano i freni inibitori e
sfumava quella radicata diffidenza contadina, lasciando il o all’iniziale impulso collaborativo. Alzò il capo e prese a osservare la stanza, rispondendo al maresciallo che gli chiedeva notizie sulla sua famiglia e sul lavoro. Accostò finalmente la schiena alla spalliera della poltrona e si guardò intorno. Lo studio era di aspetto gradevole, con arredi di noce chiaro dal taglio moderno, Tanni poggiava le mani sulla scrivania, ampia e stipata di documenti, cartelline di vari colori con improbabili nomi stampati, fascicoli e fogli sparsi; due codici voluminosi erano deposti accanto allo schermo del computer, il mouse di plastica trasparente, pareva un oggetto animato, una piccola luce rossa vibrava al suo interno, un cuore di materia su cui il Tanni appoggiava il palmo. Una mano dalle dita lunghe, brune, con le unghie curate, muoveva i polpastrelli con un lento moto circolare, quasi ad accarezzare il tavolo, e intanto volgeva lo sguardo al contadino cercando una qualche complicità. Danilo alzò il capo e questa volta i suoi occhi incrociarono quelli del maresciallo, per scrutarlo con più audacia. Una chioma folta e ancora scura, un casco di ricci crespi ben pettinati a coprire il capo. Sul volto spazioso dalla carnagione olivastra, colpivano gli occhi neri dalle sopracciglia folte, l’insieme era penetrante, aveva qualcosa di altri luoghi, forse messicano, portoricano, un vago sentore straniero. Pareva un ex malvivente ato all’altra sponda dopo un sofferto ma deciso cambio di rotta esistenziale, qui poteva giocarsi il suo carisma, nell’aria di uno che non giudica, consapevole dei fattori in bilico nel decidere su quale parte della barricata schierarsi. L’ombra violacea della barba e le labbra carnose gli conferivano il fascino dell’uomo d’onore, capace di agire anche contro le regole, se questo fosse stato necessario per ristabilire il primato della persona su qualsiasi altro interesse. Un sorriso penetrante e canzonatorio conquistava l’interlocutore disarmandolo; col mestiere aveva acquisito la capacità di leggere il carattere da pochi tratti, era nel suo istinto cogliere l’animo altrui. Un radar affinato, del tutto speciale sapeva captare i segnali umani, dirimendo l’autenticità dalla falsità; detestava l’ambiguità, e di fronte a questa tipologia umana anche il suo autocontrollo poteva cedere. Dietro le solide spalle del Tanni, campeggiavano i colori vivaci dei calendari, appesi di lato, trattenuti dalla amanerie rosso amaranto, una lunga fila d’immagini di ufficiali in divisa, trasportavano in tempi remoti oppure ricordavano gli eroi dei fumetti.
Danilo divagava con la mente, confrontando le immagini stereotipate dell’Arma con la sua concreta esperienza, non si contavano le facezie sui carabinieri di sua conoscenza. Lui li aveva conosciuti la prima volta da bambino, attraverso le illustrazioni di Pinocchio, e non gli erano piaciuti, quale ordine si poteva poi ristabilire arrestando fanciulli disgraziati? Ricordava l’imponenza della divisa, i pennacchi sfarzosi e le mani inguantate di bianco, pronte ad afferrare il terribile discolo. Le sue emozioni si erano congelate in quell’illustrazione, finché la visione di una biografia cinematografica del vice brigadiere Salvo D’Acquisto lo commosse fino all’osso, segnando da quel momento la sua ammirazione per l’Arma. D’Acquisto morì durante la Seconda guerra mondiale, ucciso dai tedeschi, dopo essersi autoaccusato, benché innocente, di un presunto attentato nel quale erano morti due militari germanici: in questo modo salvò ventidue persone catturate per rappresaglia. Ricordò il motto dell’Arma “Nei secoli fedele”; a quel tempo preso dall’emozione suscitata dalle immagini, trasportato dal patos della storia, avrebbe voluto cambiare mestiere, indossare anche lui una divisa, lasciare la sua terra sempre uguale, l’aria, il vento, il sole, la pioggia, smetterla di cavare frutti da un colle sassoso e duro. Ma non c’era nulla che teneva di fronte al colore verde opaco dell’olio extravergine d’oliva di sua produzione. Seguiva le olive al frantoio dopo l’abbacchiatura come fossero perle, la deposizione nelle vasche di lavaggio, la frangitura con le macine in granito, la pressatura, sino all’apparire delle gocciole di olio separate dall’acqua, verde deciso o chiaro, a seconda della qualità delle olive e del terreno di coltura. Erano i quesiti del maresciallo a generare in lui codeste divagazioni, sinché lo condusse a parlare della sua cantina, in quello stesso istante ogni riserva era caduta, Danilo gli avrebbe parlato con piena libertà come a uno di famiglia, meglio che al prete. Colore, profumo, gusto e retrogusto, Danilo, dettagliava su ogni qualità del liquido di Bacco, abilmente portato sul suo campo di competenza, si dimostrava quanto mai fiero delle proprie vigne. La viticultura era una tradizione familiare a cui egli aveva aggiunto un corso di
sommelier, solo per darsi delle arie commentava Rosa. La sposa quasi per dispetto suo era diventata astemia, aveva in odio anche i nuovi boccati che abilmente lui otteneva mescendo uve bianche e rosse, studiati apposta per accontentare i palati femminili, leggermente mossi e dolci. Tanni era diventato un patito dei rossi, vini fermi, dopo anni di permanenza nei colli li apprezzava al pari di quelli del sua terra d’origine, su tali sottigliezze disputava con il contadino, offrendo all’appuntato silente il destro per intervenire. “Ma come, un apionato di pesce come lei, preferisce i rossi?” Vedova trova finalmente l’opportunità di inserirsi su un argomento accattivante, soffre a starsene troppo quieto. “Cosa dire allora del Prosecco o del Serprino e del Tocai con quel retrogusto di mandorla amara, dal colore giallo paglierino. I bianchi, si sa sono vini più giovani, eleganti.” Eppure il maresciallo aveva cambiato gusti, senza avvisarlo, una degenerazione dovuta all’ambiente, ma non commentò la sua uscita, era sin troppo concentrato su altri temi. Quasi naturalmente il discorso giunse a sondare le stranezze dei Mariani, manifeste anche nel campo enologico, la produzione non riuscì mai a varcare i confini familiari. “Le vigne venivano su quasi selvatiche, contorte e piene di parassiti, eppure la natura si esprimeva lo stesso, quasi per comione, producendo grappoli scuri dagli acini quasi viola, un’uva mai vista!” prese a raccontare Danilo. “Il vino era denso, forte, sporcava la bocca, odorava di vecchio, di chiuso. Nemmeno per dispetto avrei prodotto una bevanda simile. Solo in famiglia lo consumavano, il grado alcolico era alto. Col vino novello padre e figlio si vedevano barcollare, cantavano arie liriche stonate col fiato mozzato, si sentivano poi gli echi di quelle risate rauche e raschianti. In paese si pensava che il vino venisse tagliato con erbe particolari, bastava mezzo bicchiere per farti tremare le gambe.” I ricordi affluivano e prendevano una loro direzione, a partire dalla selva indomita racchiusa nel terreno della villa, sino al podere di proprietà dei Mariani, il monte Priore, con l’imponente vallata dei castagni; ora finalmente anche quegli spazi sarebbero stati governati da mani esperte, sarebbero divenuti patrimonio del borgo.
“Non c’erano mai state recinzioni particolari sul monte Priore, non sarebbe stato possibile chiudere un colle, ogni tanto sbucavano dei cartelli con su scritto proprietà privata e tratti di filo spinato. Salendo potevi sbattere il muso su muriccioli sbilenchi, costruiti prima dal vecchio patriarca Filomeno, il nonno, continuati in seguito dal figlio Filiberto, padre delle Puntute,” sfuggì a Danilo, e subito si corresse, ma il Tanni per nulla toccato gli fece segno di continuare, era essenziale andare alle origini, soprattutto gli interessava approfondire il carattere del padre, a suo parere una figura chiave nella vicenda. “Non c’era comunque bisogno di steccati, bastava la diceria di colle maledetto a bloccare la gente, chi mai si sarebbe avventurato in quella boscaglia lasciata a vegetare spontaneamente nella totale indifferenza? I sentieri li conosceva solo Filiberto, fiutava la strada come un animale, e proprio lì nel suo monte, aveva scelto di chiudere definitivamente gli occhi.” “Che cosa intende, forse un tentativo di suicidio? Pare se ne sia andato dopo due giorni di agonia, urlando come un disperato, questo è quanto ho raccolto dalle testimonianze. Sono ati diversi anni, mi risulta che fu il medico di famiglia a effettuare l’autopsia: un attacco convulsivo con conseguenze irreversibili. Alla villa abbiamo trovato il biglietto funebre, dentro una scatola di latta, nella stanza di Faustina. Uno scrigno poco prezioso per contenere gli unici documenti di famiglia: foto, atti di proprietà e il testamento olografo di Filomeno Mariani, quasi illeggibile. Un atto di donazione verso il figlio, peraltro non necessario, non essendoci altri eredi. In coda c’è una postilla senza apparente soggetto, scritta in modo impersonale: Lasciare libero il territorio, le bestie non hanno dove posare il muso, le tane non devono vedere la luce, i rapaci vegliano dall’alto e scrutano. Nessuno, mi pare, si è mai curato di approfondire, tutto rientrava nella stranezza della famiglia, sinché il male è diventato abnorme, sbattuto dai giornali sotto il naso di tutti. Lei che ne pensa Danilo, di questa frase e in generale, cosa ricorda della fine di Filiberto?” “Sin da bambino quell’uomo alto, secco, con il corpo piegato e ritorto mi teorizzava, a cominciare dal suo ritratto piazzato nell’atrio della villa, non potevo guardarlo, aveva qualcosa di tetro e oscuro. Figuriamoci incontrare di persona Filiberto! Andavo alla villa con mio padre e lui usciva dalla cantina o arrivava dal monte con la faccia rossa, bagnata, sporca di fumo. Puzzava di strani odori, di erba, di umido, di carne bruciata. Discorreva con mio padre, gli dava ordini sui lavori. A volte mi fissava di traverso, mai dritto in viso, tossiva, si raschiava la gola e con una voce ruvida che pareva scavasse per uscire da un buco senza fondo, mugugnava fissandomi dalla testa ai piedi sussurrandomi circa così Se
vieni con me nel bosco ti insegno a scovare le bestie! Le staniamo per cacciarle, allora ti va? Forse hai paura di entrare nella macchia, intrufolarti tra i rovi, scoprire i rapaci, imbatterti nelle zanne dei cinghiali?Sempre la stessa domanda, per poi ridere come un matto, gustandosi il mio terrore. Non era una risata normale, ma un convulso, vibrava tutto e poi si grattava la barba ruvida con quelle dita lunghe, deformate dall’artrosi, andando via finalmente contento. Io tremavo, un giorno bagnai anche i calzoni. Mio padre mi dava pacche sulle spalle per scuotermi, ma la paura mi restava addosso a lungo, finché non uscivo dal quel maledetto cancello. A casa i conti non erano finiti, il mio vecchio imbestialito gridava, dandomi del molliccio, potevo prendermi anche un ceffone. Dovevo diventare uomo e non farmela sotto davanti a un individuo fuori di testa, era malato mi spiegava e non voleva curarsi, ma la sua malattia non era pericolosa per gli altri, in fondo era un uomo di parola, sempre preciso nei pagamenti. Ma per me quello non era un uomo, piuttosto una specie di demonio, una forza del male in forme umane, non c’era verso di convincermi diversamente. Quando morì, anche se ero ormai grande, ne fui contento, fu una giornata di liberazione, almeno finché non venne fuori la mia suggestione, tenuta su dalle chiacchiere contadine sulla presenza delle anime nel mondo dei vivi. Cominciai a credere che il Mariani potesse tormentarmi ancora anche da morto! Quando una cosa sta nella tua testa, intendo una paura, la morte non risolve il problema, devi lavorare sulla tua capoccia per eliminarla.” Il filo della memoria si dipanava, Danilo, ormai a proprio agio raccontava fatti e suggestioni, fissando lo sguardo sui quadri a olio dritti al suo campo visivo, un punto di appoggio neutro, per raschiare il barile dei ricordi. Osservava le cornici in radica, eleganti e lustre, segnate da venature rossastre, affondando lo sguardo nei dipinti che ritraevano paesaggi isolani, spiagge bianche, dai riflessi di luce abbacinanti. Chi era l’artista, forse un parente del Tanni? E le immagini riproducevano scorci della sua terra messi lì per placare i morsi della nostalgia? La firma nervosa, pressoché illeggibile, si stemperava tra la sabbia della battigia. In una tela, il mare ritratto nell’ora vicina al tramonto, pareva un manto argenteo, gli azzurri sfumati, mischiati al digradare dei verdi bottiglia, davano l’idea di un luogo senza tempo ove rifugiarsi, tagliando i legami con le abitudini quotidiane. Approdato metaforicamente su quell’insenatura, steso sul bianco arenile, sembrava più semplice aprire la mente ai ricordi, sotto lo sguardo attento e sicuro del suo interlocutore. “Quel giorno Filiberto Mariani ritornava dopo una nottata intera ata sul
monte, era sceso dalla vallata del Priore in uno stato confusionale, in tanti lo avevano sentito mandare un lamento agghiacciante, pareva il latrato di una bestia ferita.” Danilo raccoglie nella memoria tutte le informazioni sul cacciatore e inizia a seguire il filo dei ricordi, attingendo ai racconti diffusi in paese. “Intendiamoci bene era già accaduto altre volte che avesse di questi attacchi. In certi momenti, cadeva a terra bloccato da qualche angoscia senza freno, gridava frasi volgari con la bava alla bocca, si contorceva in un convulso orribile, ogni pezzo del suo corpo scheletrico si agitava. Prima di sentirsi male c’erano le avvisaglie, stava giorni interi muto, mio padre lo capiva a gesti, oppure correva lungo i sentieri del monte, finché si sfiatava. Noi ragazzi gli giravano al largo. Qualche contadino giura di averlo sentito rotolarsi a terra sul monte con una furia scatenata, le foglie secche scrocchiavano, lottava non si sa con chi, ululando e guaendo, vomitando chissà quale malessere chiuso dentro l’animo. Quando gli ava la furia, restava completamente confuso, non ricordava nulla. Una volta lo vidi dopo uno dei suoi attacchi, mi si è ficcata in mente la sua faccia, aveva uno sguardo feroce, ma pareva completamente staccato dalla realtà. La faccia gli diventava fissa, poi riprendeva vita, ma sembrava che ogni movimento andasse per conto suo, era tutto maldestro, incerto. Le parole gli venivano dopo, all’inizio male articolate, poi riusciva a farsi capire. In certi periodi, invece, camminava nel giardino della villa come se non sapesse dove fermarsi, parlava in continuazione, e poi come sempre non ricordava niente.” Gli era uscito tutto d’un fiato il discorso, e ora Danilo tirava un sospiro di sollievo, era riuscito a dirlo: per lui e tanti altri Filiberto Mariani, il cacciatore, era una specie di demonio, altro che mal caduco, altro che mal di san Valentino, quello non era umano e la malattia, se c’era, o la dannazione l’aveva ata alle figlie. Danilo si considerava un uomo razionale, semplice, ma accorto, con un certo fiuto per gli affari, non avrebbe dovuto cedere a fantasie irrazionali, eppure nel fondo dell’animo solo ora si stava pacificando, poiché della macabra famiglia Mariani era rimasta, seppure ormai persa, solo la più mite Faustina. “Un’epilessia non curata dunque, ma per lei qualcosa di più,” riprese il discorso il maresciallo, dopo aver lasciato correre una lunga pausa. “Torniamo a quel giorno in cui discese dal monte, cosa accadde dopo?” “Dicono, i vecchi testimoni della sua discesa dal monte, che si contorceva, piegato a metà, per dei dolori terribili allo stomaco, aveva la bocca bluastra e la
faccia pallida, già cadaverica. In preda a un tremore squassante non era riuscito ad aprirsi il cancello, ritrovando in maniera sorprendente l’agilità di un felino, aveva scavalcato il muro di recinzione ferendosi sui vetri di bottiglia. Sanguinante urlava in giardino, moglie e figlie non riuscirono a trattenerlo, invano cercarono di portarlo dentro, continuò sino all’imbrunire. Quando giunse il vecchio medico condotto, Soloni, quello che curava i barrioti a modo suo prima dell’arrivo di Giacomelli, Filiberto era steso a terra, rigido, con lo sguardo fisso, colpito a momenti da tremori. Furono chiamati degli uomini per trascinarlo in casa, all’inizio pareva si fosse rianimato, poi invece ricominciarono i dolori allo stomaco e le urla agghiaccianti, durate due giorni, sinché liberò per sempre se stesso dai tormenti, e il paese dalle sue grida selvagge.” “Che cosa disse il medico, diede qualche spiegazione, lei ebbe in seguito qualche occasione di parlare con le Mariani del padre?” “Il vecchio Olindo Soloni se aveva qualche segreto, bene, se lo è portato nella tomba, tre anni fa, quando ci ha lasciato, dopo aver rapinato tutte le confidenze dei barrioti. Non sapevi se voleva curarti, indagare sul tuo conto in banca o rovistare dentro i segreti della tua coscienza; lo vedevi gustarsi il potere di ricatto dopo aver lavorato per conoscere i tuoi interessi. Per fortuna io mi mantengo in buona salute, ma quando ero costretto a entrare nel suo studio, dovevo accettare di sottopormi inevitabilmente al terzo grado. Sudava come un porco in ogni stagione, traspirava come una spugna, la sua principale attività era asciugarsi con un fazzolettone decorato con le iniziali ricamate, dandosi un tono nobile, ti scrutava dagli occhialini, cercando di penetrarti, la tua salute fisica era un dettaglio. Dio sa, quanto era detestato, grasso come un barile, si muoveva a fatica, predicava contro gli effetti del fumo, buttandoti in faccia costantemente l’aroma dei suoi sigari. Non era interessato né al tuo mal di schiena, né alla febbre, o quant’altro di fisico un disgraziato potesse avere, invece indagava sul tuo lavoro, la moglie, i figli, gli affari. Le donne del paese le avevo mai frequentate? In politica come mi schieravo? Cosa mi pareva del sindaco e del prete? Ero mai stato con la Vendramini, e le Puntute, ne avevo mai approfittato durante i lavori in villa? Un no sin troppo deciso il tuo, caro Santi, commentava e da lì ava a trarre le sue degenerate conclusioni. Allora, mi piacevano gli uomini! Nulla di strano se così fosse, anche se avevo avuto dei figli, avrei potuto scoprire questa tendenza in tarda età; ebbene, più di qualcuno in paese soffriva di questa debolezza, ma certo lui non poteva fare nomi. I segreti stavano dentro le sue pieghe di grasso, tutti sapevano che lui sapeva, e tutti lo temevano, una presenza scomoda e ingombrante. Era capace di disorientarti, mettendo in
dubbio il tuo malessere fisico”. La memoria del Santi qui si fa puntuale, riportando pari, pari i discorsi del Soloni: “Lei non ha nulla, caro Danilo, si conceda qualche distrazione. Lo sa quanto sia logorante la consuetudine sessuale? Spegne l’istinto, ascolti i miei consigli e non quelli del prete. La religione governa le pulsioni, certo ci vuole, ma caro Danilo, siamo uomini evoluti dalla scimmia, genere Sapiens Sapiens, l’istinto ci guida, ci spinge in altre direzioni, che a volte è bene assecondare. Ebbene nel congedarci sono costretto ad approfittare della sua visita per farle una richiesta, cortesemente mi faccia avere una cassa di vino e anche dell’olio, le lasci pure alla mia segretaria. Naturalmente per il pagamento ci sentiamo in seguito. Dimenticavo il mal di schiena, le prescrivo riposo e questa pomata, si unga tre volte al giorno, certo è costosa, ma la toglieremo dal mio debito con lei! La saluto! Dopo i suoi discorsi, la conversazione si troncava di brutto,” continua Danilo. “L’ultima volta la visita si chiuse come vi ho detto, con l’olio e il vino mai ripagati. Non misi più piede nel suo schifoso ambulatorio! Quando lo incrociavo, afferravo nel suo sguardo la mia condanna, di sicuro avevo una brutta cera, forse si trattava di problemi di cuore, sarebbe stato opportuno valutare la situazione della circolazione, lo lasciavo pontificare, evitandolo, preferivo crepare piuttosto che cedere alla sua influenza. Se fosse vivo potrebbe raccontarne di storie, fatti, dati, dettagli, ma chissà se parlerebbe? Forse, se ci fosse da guadagnare un bel po’ di soldi o se venisse ricattato oppure costretto. Un uomo solo, senza moglie, né figli, in paese nessuno sa a chi abbia lasciato il suo patrimonio.” “Su questo aspetto ci stiamo informando, attendiamo dal notaio la copia del testamento. Già da ora posso dirle che la fornita biblioteca del Soloni è convogliata presso quella del comune. Ma le faremo sapere.” “Di certo era uomo di fiducia per i Mariani, con quella punta perversa adatta ad accordarsi alla famiglia. Comunque per i compaesani, la morte di Filiberto rimase sospetta, correva voce che si fosse avvelenato, sbagliando le dosi, doveva crepare sul monte, in mezzo ai cinghiali, invece tirò le cuoia dopo quarantotto ore di agonia. L’autopsia la fece lui, il Soloni, era un mistero come riuscisse a muoversi, dato il peso enorme, come potesse armeggiare con quelle mani gonfie, eppure le muoveva, eccome, ne sapevano qualcosa le donne! Mai visto un ambulatorio precluso al femminile come il suo. La frequenza era sicura sopra i settanta, ma poteva accadere che le pie vedove, seppure in età avanzata, venissero violate, sinché fu necessario il discreto intervento del parroco.”
Tanni ritorna sulla questione del testamento. “Filiberto pare fosse avvezzo all’assunzione di erbe, il prete afferma che preparasse intrugli anche per gli animali, verificandone l’effetto: bocconi per topi, cinghiali, ma anche per i gatti, la fissazione della figlia maggiore. E quella frase, citata prima, cosa potrebbe significare: Lasciare libero il territorio, le bestie non hanno dove posare il muso, le tane non devono vedere la luce, i rapaci vegliano dall’alto e scrutano. Vi sono forse animali da proteggere, e altri da eliminare? A suo parere come va interpretata questa nota?” “Il vecchio Filomeno e il figlio avevano più familiarità con le bestie che con le persone, ma non c’era amore nemmeno verso gli animali. Due uomini incapaci di vivere un legame affettivo. Forse una volta Filiberto patì davvero, fu quando morì il vecchio cane da caccia, gli era affezionato come a nessun cristiano. Un fedele compagno per vagare nei boschi, si diede anche la pena di curalo, seguendo le indicazioni del veterinario, alleviò così la sua fine. Ma forse, ora che ci penso, qualche frase o discorso riportato da mio padre, faceva capire l’odio verso alcuni animali, le bestie con abitudini notturne: donnole, puzzole, faine, martore. I tassi li aveva battezzati come ingordi, con i cinghiali poi, era guerra aperta, ma questo valeva per tutti i barrioti. Una volta, stavo nel mio rifugio preferito nel giardino della villa, sotto il fico, il babbo sistemava i giuggiolari, avevo la bocca piena di frutti dolci e secchi, spostavo le foglie grinzose cercando i fichi più zuccherini, là mi sentivo protetto. D’un tratto l’ho sentito arrivare, respirava male, pareva ubriaco, mi prese per un braccio, io credevo di morire sotto il suo alito marcio, doveva farmi la stessa domanda, ma era un po’ diversa questa volta Sei pronto per cacciare i carnivori sanguinari, conosco le tane, andiamo di notte, vicino ai pietroni è lì che si nascondono. Vuoi? Liberiamo il bosco dalle bestie carnivore. Le volpi no, non le prendiamo, nemmeno le lepri! Lasciamo vivere anche i ghiri, i ricci e i moscardini, di quelli abbiamo pietà, ma tutti gli altri, li scoviamo. Hanno abitudini notturne, nel buio li fiutiamo, i rapaci ci guidano. Ho messo la calce ieri notte, per coprire i corpi, i vermi li mangiano, sono cibo per le mosche, ma tracce non ne restano il bosco ripulisce tutto! Poi dobbiamo accendere un fuoco così le fiamme purificano, ma la carne non la devi mangiare, capito? Improvvisamente mi lasciò andare. Camminava barcollando e sparì pestando il terreno con quei pesanti scarponi mai visti in giro, Dio sa dove li trovava. Ero ancora vivo grazie a Dio! Il puzzo inconfondibile lo ricordo ancora, era il tanfo della carne bruciata, lo portava addosso sempre. Ripetevo i discorsi sentiti con ogni dettaglio a mio padre, ma lui non se ne preoccupava, stranezze di cacciatore diceva, manie di un uomo che colleziona animali
imbalsamati.” “È interessante quello che mi sta raccontando, si sposa con altre osservazioni raccolte.” Tanni porta la riflessione alle derive più estreme. “Il monte Priore, proprietà dei Mariani, poteva rappresentare una sorta di santuario a cielo aperto, forse lo scenario di una particolare religiosità, costituita da riti cruenti e pseudo purificatori. Sono stato informato sul fatto che in ato si sono verificati alcuni ritrovamenti di animali. Se ben ricordo si trattava esclusivamente di fauna collinare, squartata, privata dei visceri oppure carbonizzata, questo risalente al tempo in cui Filiberto era in vita. Ma sui ritrovamenti rinvenuti qualche anno fa cosa pensare? Magari non vi è nessun collegamento oppure la consegna potrebbe essere ata a una delle figlie?” “Le figlie, secondo me, avevano tutto un altro genere di follia, ciascuna la propria, lì dentro solo la madre era normale.” Santi scandaglia l’animo delle sorelle. “L’unica fissata con gli animali era Felicita, la primogenita, una donna spaventosa, alta quasi come il padre, viveva in simbiosi con i gatti. Puzzava come loro, e sembrava averne assunto anche le abitudini, rivolgeva ogni suo interesse verso quelle creature, se li portò a schiere in casa e quei mostri miagolanti si riproducevano a ritmo infernale. Sinché il padre la buttò fuori della villa, costruendole una veranda, rincasava solo per dormire, accontentando le insistenze materne, ma gradualmente si isolò dal genere umano. Non avrei mai pensato di ritrovarne due stecchite da un anno, pazze sì, ma non fino a questo punto. L’altra, la più giovane, quella trovata viva, non è in grado di far male nemmeno a una mosca, non ha mai avuto carattere, né testa, né memoria, si lasciava trascinare, probabilmente se ne stava in cucina ad attendere che le altre due risuscitassero, come se la vita fosse una fiaba e le parole magiche potessero scacciare l’orco, i mostri, la morte. La povera Faustina viveva di fiabe, era rimasta in quell’età magica in cui si crede alle fate, alle streghe, al principe Azzurro, fissata a quei racconti ascoltati con tutta l’anima dalla quella stramba di sua madre. A volte ascoltavo anch’io le storie. Liberata conosceva a memoria alcune fiabe e noi si chiedeva sempre le stesse, e accidenti se le sapeva raccontare! La vecchia cambiava le voci, sussurrava, oppure alzava il tono, come un’attrice consumata. Io entravo raramente in casa, per via del ritratto, allora Liberata ci faceva sedere per terra sulla corte, dietro il pozzo, parlava e tirava fuori dalle tasche della traversa ogni ben di dio: caramelle, uva a, noci, pezzi di croccante appena preparati con zucchero caramellato e mandorle. Pareva di stare in un luogo quasi umano, ma non era vero, bastava che arrivasse il cacciatore con la sua puzza di bruciato, e la storia dell’orco pareva vera. Ma non
voglio perdermi in questi ricordi infantili, qua ci sono due morte quasi imbalsamate da far riposare in pace.” Il Vedova dopo l’iniziale osservazione sui vini era rimasto in silenzio, come fosse una parte dell’arredo, teso come una corda incorporava ogni dettaglio. Ma ora, sollecitato oltremodo dalle questioni di morte, si rianima sfoggiando le ultime competenze. Le recenti acquisizioni erano avvenute dopo aver distrutto il morale al Giacomelli, con continue richieste di approfondimento sui noti temi macabri, la sua ultima ione indotta dagli eventi. “Il ritrovamento dei cadaveri è stato devastante per il paese. D’altra parte, si sa, la decomposizione è vista dagli uomini come un fenomeno temuto e terribile. Uno degli istinti innati, comune anche ad altri mammiferi, è l’immediata repulsione alla vista e all’olfatto di cadaveri decomposti, provocano la nausea ed il vomito.” Qui tacque, osservando l’effetto sull’uditorio suscitato dal suo intervento. Scrutò gli sguardi, leggendovi una sorta di ammirazione per la proprietà lessicale usata. Possedeva ancora la stampa del Giacomelli sulla ricerca preparata per il figlio, e ne aveva imparato a memoria dei brani. Certo si trattava di divagazioni dal tema dell’imbalsamazione praticato nell’antico Egitto, oggetto indagine, eppure sempre roba che fa effetto. In effetti anche l’insegnate era rimasta perplessa dal cruento realismo espresso nelle informazioni. Poco male, l’ondata dei ritrovamenti in paese, aveva scatenato certi interessi ed era bene lasciare che i fanciulli vi dessero sfogo. “Una delle pratiche funebri più note è la cremazione, sottrae il cadavere alla decomposizione con l’azione della combustione.” Il Vedova riprese imperterrito, mentre Tanni lo osservava dubbioso, una pausa ci voleva, lo lascia divagare senza intervenire approfittando per riordinare i pensieri. “Un altro dei modi scoperti dall’uomo per rallentare la decomposizione è l’imbalsamazione, ma di certo le Mariani non ne conoscevano la tecnica. Gli imbalsamatori rimuovono le parti molli come l’intestino e gli altri visceri e danno maggiore attenzione alle parti del corpo più in vista, come la faccia e le mani. Le vecchie speravano magari di preservarsi integre e sono partite abbigliate di tutto punto per il loro ultimo viaggio.” Vuoto di parola, non vi sono commenti da fare, quando si dettaglia sul limite umano. Eppure la ritualità mortuaria presentata al ritrovamento delle sorelle
Mariani, mostrava uno scenario squallido, poco consono all’arte raffinata degli antichi imbalsamatori. L’orologio a muro implacabile segna le dodici, il tempo è volato correndo insieme alle memorie, bisogna concludere la conversazione e risentirci per altri dettagli o ricordi che possano emergere nella sofferta indagine retrospettiva del contadino. Il capitolo Puntute è stato solo accennato e si vede come ciascuna meriti la sua narrazione. Altri aspetti da rievocare, ma si tratta di ricordi meno connotati emotivamente, neanche paragonabili al maleficio sortito, nella testa di Danilo, dal cacciatore. Uno squillo perentorio, Tanni afferra la cornetta, è il procuratore che chiede notizie sugli ultimi sviluppi. La pausa dà modo a Vedova di dettagliare le sue ultime acquisizioni necrofore con il contadino, versando integralmente il contenuto della ricerca guadagnata dal Giacomelli. Santi si dimostra incuriosito, anche se per le Puntute preferirebbe una deroga alla risurrezione, contando di non rivederle mai più. Finalmente Tanni ripone la cornetta e si rivolge al contadino. “La ringrazio della disponibilità Santi, un aiuto davvero prezioso il suo, di cui ho ancora bisogno,” Tanni si alza e tende la mano a Danilo, allungando la sua figura alta e proporzionata. “Dovrò rileggere il diario di Faustina, ho dato solo una scorsa superficiale alle pagine, poi ne riparleremo. Per ora la lascio andare.” Si aprono le finestre e circola aria nuova nell’ufficio, le chiacchiere riportano la conversazione a temi ordinari. Santi guarda la fondina del Vedova, anche lui si è alzato, sbuca la pistola d’ordinanza, una Beretta, un particolare che nota solo ora, sufficiente per farlo ripiombare di brutto alla natura del luogo in cui si trova. Riaffiora a disturbarlo il sentore del crimine prima represso, e finalmente con un senso di liberazione sguscia fuori dalla caserma.
VI
Non si registrano segni di ripresa per la Mariani superstite, sono trascorse alcune settimane, e al ristabilimento fisico seguito all’assunzione di un’adeguata alimentazione, non si è accompagnato un recupero psichico. I discorsi della vecchia continuano a essere vacui e confusi, ricordi d’infanzia scombinati e alterati nel tempo, si mischiano a balorde concezioni sulla morte, sul trao, sulla trasmigrazione delle anime e la risurrezione dei corpi. Sentito il prete, contattato l’attuale medico condotto fiaccato dai sensi di colpa, alla fine i servizi sociali del comune decidono di sistemare Faustina in un ricovero per anziani. Dispone di un certo patrimonio, come si intuiva, seppure in linea con la filosofia implicita dei barrioti le ricchezze siano state opportunamente celate, alla stregua dell’età, altro argomento tabù in paese. Ma chi è Faustina Mariani? Tanni sfoglia nervoso il diario cercando un lume, nella sua testa lavorano i racconti raccolti dal contadino e qualche frase sfuggita al parroco, sinché si decide a tormentare nuovamente Giacomelli, in fondo si tratterebbe soltanto di un’ulteriore consulenza. Il quaderno è logoro, non particolarmente spesso, i fogli chiazzati e unti, la copertina, nera in origine, è stata rivestita con una carta a disegni floreali, tra le pagine fiori essiccati, muffe e minuscoli insetti racchiusi insieme ai vegetali. La parte più interessante si concentra nell’ultimo anno, vengono trascritte preghiere, citati santi, si accentuano le apparizioni dell’Angioletto, segnato con la lettera maiuscola, a quanto si evince, costui incarna la figura di un possibile alfiere delle sorelle, capace di rompere il maleficio. Un unico documento tenuto da Faustina nell’arco di una ventina d’anni, ma scritto in maniera sporadica, con numerosi salti di anni. La grafia è regolare, rotonda e leziosa, leggermente piegata verso sinistra, indice di una tendenza a regredire al ato direbbero gli esperti grafologi.
Saltuariamente gli appunti scritti con l’inchiostro blu, sono preceduti da una data segnata in rosso, ma la notazione temporale è incoerente, indice di confusione. Lo scritto si apre con il racconto del sogno di Felicita, la secondogenita, risalente a circa vent’anni prima, sotto la data il titolo indica: Il sogno della statua. Faustina riporta con cura il sogno della sorella, le sue parole comunicano un forte legame emotivo.
Lui (un personaggio dall’identità misteriosa) si avvicina nella stanza, Felicita sussulta e pensa: Se mi vuole dovrebbe guardarmi. Il personaggio strano si siede, ma non ha la faccia, è vuoto, dopo il collo non si vede il viso, improvvisamente diventa tutto appannato, come fosse un vetro sporco. Adesso Felicita si sta trasformando, le è rimesta una parte di carne, ma si sta indurendo. La parte di carne è capace di ingurgitare da una bocca enorme a scodella, trasformando le cose in pietra. Lentamente tutta la sua persona si sta irrigidendo non è più carne, ma sta divenendo roccia, qualcosa che è metà carne e metà roccia. Indossa una gonna svasata e svolazzante, ha addosso tutti i colori, ma sta diventando di pietra.
Una conclusione stravagante, per un sogno che al maresciallo risulta incomprensibile. Tanni ha analizzato bene il documento, vi sono ulteriori racconti di sogni, seppure meno enigmatici, alcuni temi si ripetono, riguardano un presunto tesoro nascosto ai piedi dell’albero, la malattia di Felicita e una serie di premonizioni, esse indicano che le sorelle saranno prese a breve, tutte insieme. Con ostinata insistenza rilegge le pagine della malattia di Felicita, quella che appare la ionale tra le sorelle, ritrovata giacente nel proprio letto addobbata
con accurata lingerie dai colori sgargianti. Sono frasi segnate negli ultimi due anni dal ritrovamento, la malattia è stata lunga e penosa. Non vi è traccia di cure mediche, mai richieste, nessuna delle Mariani ha mai messo piede nello studio del Giacomelli; le affezioni vengono vissute con totale fatalismo, lasciando che gli eventi seguano il loro corso. Ma nella triade delle sorelle chi aveva maggiore peso? Chi poteva influenzare anche la mente delle altre? Oppure subivano tutte l’influenza dell’amica di famiglia, la nobile e più navigata Vendramini, capace di traghettarle oltre lo spazio ristretto del loro mondo domestico? Tolta Faustina, dal carattere remissivo e introverso, considerato il legame totalizzante della maggiore con i felini, non resta che Felicita, la secondogenita, sembra lei l’unica capace d’indirizzare verso un obiettivo le sorelle. Seguendo la dinamica delle notazioni, appare la preoccupazione ansiosa di Faustina per la malattia di Felicita, ne annota i sintomi, la si coglie in continua apprensione, sullo sfondo seppure molto sfumata si percepisce la presenza dell’altra sorella, la gattara. Due anni prima del ritrovamento, vengono seganti questi appunti, portano come titolo: La malattia di Felicita.
Ai piedi dell’albero c’è un tesoro, vedo gli alberi che si intrecciano, Fosca mi dice delle condizioni di Felicita, sta male, però gli alberi crescono ancora per lei. Io intanto prego, giorno e notte. Felicita ha visto nella stanza quattro-cinque diavoli, le hanno detto di seguirla. Io prego continuamente l’Angioletto di aiutarci. La prima malattia è scoppiata di notte, i rami degli alberi si muovevano, venivano avanti quasi per prenderla. La civetta ha cantato tutta la notte, ed è arrivata la seconda malattia, c’è qualcosa di brutto dentro il suo corpo, ma non esce. Gli alberi sono brutti, i rami vengono sempre più avanti, ritorti, secchi,
pungono. Felicita ha paura, sente i diavoli, li caccia con le mani, tutte gonfie, pesanti. Quarta malattia: la gamba destra è enorme, il piede sembra pieno d’acqua, si trascina sulle scale, rimane a letto, non riesce più a spostarsi. È la quinta malattia di Felicita, adesso non può più poggiarsi sulla gamba sinistra, è gonfia, non riesce a fare più nulla, le fa molto male anche il collo. Sesta malattia. Ho sognato la malattia di Felicita. Tutti mi compativano e io ero costretta a entrare nel vicolo del corpo morto. Ho sognato anche Angioletto che provava ad aiutarci ma non ci riusciva.
E poi di seguito le condizioni della sorella si aggravano, la malattia non le lascia scampo, i dati fisici si accompagnano nelle frasi alle suggestioni di Faustina.
Felicita non riesce ad aprire l’occhio sinistro. Ha l’alito cattivo, geme per i dolori forti alle gambe. Ieri sera Felicita non riusciva a ingoiare e non si reggeva sulle gambe. Io però l’ho vista in piedi. Sta perdendo le scorze degli occhi, quando sono salita Felicita aveva il viso insanguinato.
È datata un anno fa, senza indicazione precisa del giorno, la morte della sorella, scarno il contenuto, sembra in atto un distanziamento emotivo, quasi un osservare distaccato dei fatti. Alla morte segue una visione, potrebbe dunque essere scattato un processo di negazione del reale e la sua trasformazione in una dimensione immaginaria di totale liberazione. Mia sorella sta male, respira a fatica. L’orologio è fermo dalla mattinata. Alle 22.30 Fosca non risponde più, quasi contemporaneamente la luce del corridoio si spegne. Pregherò perché l’Angioletto me la ridia!
Qualche giorno dopo.
Vedo l’Angioletto sempre più chiaramente. È meraviglioso. Da qualche giorno viene più spesso, è davanti e implora per noi. Sono seduta sul letto e l’ho veduto, era vestito di bianco candido, i suoi capelli andavano in avanti, i miei all’indietro e nel frattempo cadeva quella pioggia bianca. Mi sussurra che saremo prese insieme. Ora aspettiamo il momento di risorgere.
Le ultime righe del diario, vergate con calligrafia incerta dall’inchiostro pallido, registrano la morte delle sorelle, ma non vi sono note sulla fine di Felicita che viveva nella veranda; dunque deve essere avvenuta in modo imprevisto. Faustina era completamente presa nelle cure di Fosca, afflitta da una lunga malattia. Lo scritto, scivolando senza soluzione di continuità dal reale all’assurdo, si conclude con queste parole:
Ho pregato per due notti, di seguito, per Felicita e Fosca. L’orologio ha ripreso a funzionare. La casa è in disordine, soprattutto la cucina. I libri si possono mettere al loro posto. Aspettiamo il momento di risorgere. Il cibo sta finendo, non ne ho più per i gatti, il miele lo terrò tutto per me e per Marica. Sono le 13.20, anche Marica si è distesa per sempre. (Potrebbe trattarsi del cane ritrovato morto sotto la sedia di Faustina) La sveglia d’argento suona ancora, mi desto di colpo dopo quel suono
inconsistente, stavo sognando che squillasse il telefono. Cade quella pioggia bianca, tra poco verrò presa, devo solo aspettare.
Tanni si ferma, fissa la grafia circolare e minuta di Faustina, pare quella di una bambina. Rilegge le ultime righe dal tratto più nervoso, le vocali meno arrotondate, le consonanti sottili deposte verso sinistra, immagina la mano scarna e incerta, mentre colpita da un tremito appunta le ultime parole. Il mondo familiare intorno a lei si sgretola, nella sua mente non vi sono risorse per ricomporre un qualche ordine, ristabilire un senso. Una creatura fragile, sin da piccola, come emerge dai racconti del contadino e del prete. Tanni è toccato dalla miseria di questo mondo femminile, tutto chiuso in se stesso, tre donne irraggiungibili nella loro univoca e malata visione della realtà. Il diario emana odore di erbe medicinali, sa anche di umido, di chiuso e stantio, annusando più in profondità si coglie un sentore di lavanda, ma più deciso appare il profumo di canfora. Seguendo il ritmo ondeggiante della grafia fanciullesca di Faustina, pare delinearsi un qualche profilo dell’ultimogenita dei Mariani. Al maresciallo sembrano ora più circostanziati i racconti raccolti dal contadino, dal prete, da qualche paesano ben informato, li scorre mentalmente cercando di delineare un corso agli eventi.
Faustina, la più piccola delle sorelle Mariani, viene descritta sin dall’infanzia come fisicamente minuta, dimessa, una creatura fragile, che si teneva ai margini anche all’interno dell’assurdo nucleo familiare di appartenenza, cresciuta con la sensazione di non contare nulla. Un soggetto per cui ogni genere di conflitto risultava distruttivo; trovandosi in difficoltà, preferiva subire o cedere, Danilo Santi afferma con sicurezza:
“Faustina non avrebbe mai avviato una qualsiasi competizione, era terrorizzata dal timore di perdere, rischiava di sprofondare a picco nel vuoto, era troppo insicura. Meglio rimanersene il più possibile in disparte osservando gli altri vivere, tutto sommato assumere un atteggiamento distante dalla realtà le giovava, lasciandola al di fuori delle questioni”. Il suo luogo elettivo era un angolo della cucina, affianco al focolare in cui si rintanava rimanendo accovacciata e assorta, chiusa nel proprio mondo. Un ozio senza direzione non disturbava le sue corde, racchiudeva probabilmente l’esclusiva ambizione della sua esistenza. In base a tali tratti di personalità trovano una qualche connessione, neppure forzata, le condizioni del suo ritrovamento, la ività si delinea come un tratto costitutivo del carattere di Faustina, su cui piombò l’oscura catastrofe, che consumò le sue magre risorse di reazione. Eppure, a dar voce ai resoconti di Danilo Santi, un qualche interesse Faustina riusciva a manifestarlo: per esempio aveva acquisito competenza nel campo delle erbe, si trattava di rudimenti ereditati dalla madre. Ma anche in questo ambito, puntualizza Santi, si limitava più che altro a raccogliere le piante, essiccarle, sistemandole negli erbari. Infatti il contadino precisa: “Ogni sforzo mentale, la metteva in seria difficoltà, non doveva sforzare mai troppo la propria memoria. Preparare decotti e tisane, l’avrebbe costretta a dibattersi con numeri e proporzioni, uno scoglio per lei. I pochi liquidi medicamentosi li preparava seguendo semplici regole intuitive”. Ma un’ulteriore acerba propensione pareva appartenere a Faustina, di cui erano testimonianza il diario e i logori quadernetti: il bisogno di raccontare in forma scritta la sua visione delle cose. Faustina manifestava una certa propensione per la scrittura, rappresentava forse per lei una via di fuga, carta e penna potevano servire a districare le strampalate storie chiuse nella sua testa. Con l’avanzare degli anni anche la ione per l’annotazione risultava progressivamente perduta, non erano rimasti che pochi resti delle sue fatiche creative, negli ultimi tempi, anche le righe segnate nel diario apparivano sempre più scarne ed essenziali.
Come tutti i Mariani viveva isolata dentro una famiglia, si trattava di un nucleo particolare che sembrava costituito da individui di nazionalità, cultura e tradizioni lontane, improvvisamente riuniti sotto lo stesso tetto; l’unico collante forse era incarnato dalla figura materna, descritta come servizievole e devota alle sue creature, capace di intuirne i loro reconditi bisogni. Ma tornando ai fatti più recenti, la storia ci presenta la docile Faustina, giunta all’età di sessantasette anni, senza essere presa come attendeva. Un’esistenza concentrata nel disperato tentativo di riallacciare il legame con le sorelle: Felicita la gattara con cui aveva avuto meno contatti e Fosca la più torbida, ricomponendo così, almeno idealmente il proprio mondo familiare. Perse tra le pagine ingiallite del diario compaiono le note di una religiosità deviata, paure primordiali irrisolte: dolori corporali auto-inflitti, rinunce, fustigazioni, morti che escono dai ritratti generando angosce, oggetti appartenuti al nonno o al padre, depositari di strani poteri. La descrizione è più spesso confusa e lascia spazio a molteplici interpretazioni, alcuni i però paiono più esplicativi e consentono di delineare qualcosa sulla personalità di Faustina. Tanni si imbatte nell’estesa descrizione di un sogno, questa volta della stessa Faustina, porta il titolo: Scappo dalla villa, la data è illeggibile, la grafia fanciullesca, è l’unico sogno personale trascritto da Faustina.
La stanza ha i mobili di laccato nero, c’è silenzio dentro, è la stanza della mamma, perché il pavimento è lucido. Una luce gialla, ma anche rossastra, molto calda, entra dalle tende pesanti. Sopra il letto vedo una sveglia, ha un ticchettio continuo, e non mi piace. Sento che devo portarla via, devo scappare subito dalla stanza, fuggire dalla villa, devo correre, correre, non posso fermarmi, perché mio padre sta uscendo dal ritratto sopra l’armadio, mi chiama, mi insegue. Poi vedo il volto del nonno morto, viene fuori anche lui dal ritratto che c’è nella stanza, mi guarda così fisso, sembra vivo, vuole prendermi. Scappo, precipito giù dalla scale, apro la porta.
Fuori c’è della gente che chiacchiera, però adesso è tutto in grigio come una foto in bianco e nero, mentre dentro alla casa i colori erano forti. Mi sveglio e tremo, sto sotto le coperte finché mi a, verrà l’Angioletto a proteggermi.
Doveva averla sconvolta il sogno per prendersi la briga di scriverlo, riflette il Tanni, Faustina gli appare oppressa da due paure: da un lato gli elementi oscuri presenti dentro il nucleo familiare, dall’altro l’ansia di affrontare il mondo esterno, anch’esso inquietante. I ritratti, figurano tra gli oggetti più angoscianti, quasi portassero in sé l’elemento umano vivo, capace di materializzarsi, prendere forma, invadere la stanza. Nel diario poi, sparsi negli anni alcuni riferimenti agli abiti paterni, strani contenitori di umori umani.
La camicia sporca a quadri sta sulla sedia, c’è un pezzo di corpo dentro, sembra gonfia, bisogna toglierla dalla cucina, dove sto io. Ora devo togliermi il male dal corpo, resto in ginocchio sopra i sassi finché resisto. Oggi ho rifatto il letto dei genitori, c’era un odore brutto nella camera, un puzzo di marcio, erano i pantaloni del babbo, tutti gonfi, erano lunghi sulla sedia, stavano quasi in piedi da soli. Bisogna starci lontano, l’orlo è sporco di fango, c’è terra sotto la sedia, la cintura stringe la pancia che forse è chiusa lì dentro e rumina, mette a posto il cibo. Oggi non devo mangiare, non sono come lui gonfio di cibo sporco, devo purificare la casa, pulire, lavare, togliere lo sporco da casa.
E ancora, più avanti una nota sulle bottiglie di grappa del nonno, conservate dentro la credenza della cucina.
Il vetro è vecchio, voglio buttarle via, mi fanno paura, forse c’è del veleno dentro, non devo guardarle perché sennò lo stomaco mi brucia. Non devo mettere dentro il cibo, prima va via la fiamma meglio è. Pregherò l’Angioletto tutto il giorno e la notte.
Negli indumenti del padre, oscuro personaggio per lei quanto lo era per Danilo, pareva fermarsi il corpo stesso dell’uomo, pesante, tetro, non semplici pezzi di stoffa ma elementi pregnanti della sua presenza. Uno scritto dettaglia sugli scarponi paterni, deposti affianco del focolare.
La mamma non vuole le scarpe in casa, ma lui le ha portate dentro lo stesso. Lei insiste e lui niente, grida e le sbatte sul focolare. Sono mostruose, grandi, così enormi, luride di fango e di terra secca rossa, voglio solo scappare dalla cucina e da tutta la casa per non vederle mai più! So che dentro ci sono i piedi, tagliati sopra la caviglia, vedo l’osso segato, lo vedo solo io perché vedo le cose brutte. I piedi sono troppo deformi, pieni di peli, le unghie nere di sporco, puzzano da matti, non si può stare in casa! Ho messo la cenere sugli occhi, e mi bruciano, ho legato le mani strette, le tengo in tasca; poi posso guarire, sono rosse e gonfie, ma candide.
Sulla storia della povera Faustina i dettagli più interessanti vengono ancora da Danilo, dopo averlo riconvocato, Tanni ria ad alta voce la narrazione, cercando un confronto con l’appuntato, e già si attiva la fantasia suggestionabile del Vedova, all’erta nello scoprire le pieghe di un personaggio così enigmatico. “Sembra una banale donnetta, questa Faustina, indifesa, pallida, senza nerbo e invece,” attacca subito con le sue riflessioni Vedova, osservazioni che da tempo covava in sordina e ora deve espellere senza riserve. “Eppure chissà che fantasia malata deve avere se vede pezzi di carne dentro i vestiti. Mi pare quasi violenta,
sì, sotto, sotto, il vecchio vorrebbe farlo fuori lei, e magari tagliarlo a pezzi. Hai presente il film di…? Non ricordo il titolo, la trama era diversa però, nel film era lui a fare a pezzi la moglie, ma ora mi sfuggono i particolari.” “Noi siamo quelli che spiano dal cortile, scrutano dalla finestra?” incalza Tanni preso dalle citate immagini cinematografiche. “Beh, in fondo è così! Osserviamo i lati assurdi dell’animo umano, tentiamo di individuare le ragioni, ristabilire l’ordine, sinché ci arrendiamo all’imponderabilità.” Tanni sta cadendo nella vena filosofica, quella che di solito lo conduce a una qualche intuizione, gli apre i sentieri impervi della mente umana, e ora snocciola ad alta voce quanto ha raccolto sulla minore delle sorelle; al Vedova non resta che ascoltare, proferendo qualche osservazione sensata al momento opportuno. “Faustina, la minore delle sorelle, pare che in paese venisse soprannominata Beccaccia, per via del naso prominente e appuntito, anche le altre avevano un nomignolo, ma in generale erano classificate come le Puntute. Faustina era la più timida, se ne stava rintanata vicino al focolare; manifestava una certa propensione per la scrittura, teneva quaderni e diari, infilandoci erbe e fiori. Propensioni del tutto innocue, plausibili in chi tende a isolarsi dalla realtà.” “Sì, ma noi di quaderni ne abbiamo ritrovato tre, di cui solo soltanto uno leggibile.” “Gli altri scritti, le note e i fogli che Danilo le attribuisce, saranno finiti nel fuoco,” precisa Tanni. “Sottoposti al calore purificatorio delle fiamme. Ridotti in cenere i gravosi parti della sua mente, tesori forse condivisi con pochi uditori, le sorelle, nei momenti di complicità o più propriamente rimasti segreti.” “La scuola l’aveva frequentata dalle monache, come tutti in paese, prima che le suore lasciassero il testimone all’istruzione pubblica. Tra lei e il nostro contadino-custode alcuni anni di differenza.” Tanni riprende con la consueta verve narrativa, che un po’ infastidisce l’appuntato, per via del tono da oracolo. “Senti un po’ come la descrive il Santi: chiusa nel grembiule scuro, due trecce lunghe e stoppose con una discriminatura dritta e infossata sulla testa a spaccarla in due segmenti precisi. Arrivava prima il naso poi lei, come se le fosse stato sistemato in faccia una pezzo di cartone. Appuntato sulla casacca aveva un fiocco rosato che dava animo all’insieme, spesso arrossiva per la timidezza, in faccia aveva stampato un mesto sorriso con cui accoglieva tutti. Al contadino
colpivano gli occhi scuri, tagliati a mandorla, a suo dire l’unica parte bella di Faustina, però li teneva socchiusi e inclinati, e scrutava le persone di traverso. Aveva l’abitudine di tenere il capo pendente, accasciato da un lato.” “Certo che per essere uno che le detestava, ne ha osservati di particolari il contadino, ne viene un ritratto approfondito.” “Beh, è vero, di solito andiamo nei dettagli quando qualcuno ci colpisce. Attento, seguimi, cerchiamo di inquadrare la psicologia della nostra Maraini sopravvissuta. La Beccaccia, a dire del popolino portava rogna, i compagni stavano alla larga, i più maligni le facevano il verso fischiettando, muovevano le braccia starnazzando alle sue spalle, ma lei nemmeno percepiva il pigolio che la seguiva, stava nel suo mondo solitario. Le monache l’avevano presa sotto tutela, per così dire, considerandola adatta alla vita del convento, docile, seguiva ogni indicazione religiosa, stando inginocchiata per ore nella cappella annessa all’istituto.” “Me la vedo davanti,” sbotta il Vedova, “con le dita sottili sgranare la corona, punirsi o fustigarsi, magari stare inginocchiata sui sassi, e poi biascicare litanie continue, come fa adesso, che è mezza partita.” “Alla cura e orientamento delle anime, le suore contribuivano con proiezioni sulla vita dei santi, elargite abbondantemente a scopo didattico. Un genere, ci assicura Danilo che attraeva grandemente Faustina, tanto quanto affliggeva lui, incitandolo a una vita di rinunce detestabile. Noi dobbiamo immaginare invece che la piccola Mariani assorbisse come una spugna le biografie dei martiri, trovando quasi uno sbocco naturale per la sua esistenza. Forse attendeva la vocazione, si sentiva chiamata, era pronta ad accettare sacrifici con totale abnegazione, come hai detto tu. Secondo il contadino voleva punirsi di qualcosa, ma cosa avrebbe potuto compiere di male una creatura così inerme?” Pausa di silenzio a effetto, ormai Vedova lo conosce come le sue tasche, adesso tace, mette in bocca le solite caramelle alla liquirizia, succhia, manda giù e sublima il suo sigaro, ennesimo tentativo di smettere. Tanni forse ha chiuso con il fumo, però ha aperto con i dolci, la sua prestanza fisica subirà dei colpi, e alla fine sarà lui l’uomo attraente in ufficio, se non il più sagace. Ma mentre Vedova divaga con la mente, la sferzante logica deduttiva del maresciallo Tanni ha ripreso a esprimersi per scoccare il colpo finale.
“Il Santi ricorda una storia in particolare di quelle partorite dalla mente di Faustina, la ascoltò insieme alla madre delle Puntute, erano seduti accanto alla mura della villa, davanti all’orto, territorio franco della vecchia, dove il marito non girava.” “Mi stai seguendo?” Vedova conferma la sua attenzione, è in posizione di ascolto attivo, recepisce e rielabora le informazioni, scatena le sue libere associazioni, senza eccedere troppo nel macabro. Tanni riprende proprio dalle verbalizzazioni dettagliate del contadino, quasi un diario per immagini, aggiungendo come al solito particolari ad arte per solleticare la sua tendenza narrativa. “Era una giornata offuscata da una nebbia densa di calore, neppure all’ombra si riceveva benessere, i tre finirono sotto il fico dove girava un alito d’aria.” “Che temperatura c’era, puoi dirmelo con esattezza?” Vedova sa che si tratta di verbalizzazioni studiate per infastidirlo e tirarla lunga. “Li metterò nel verbale questi particolari, naturalmente sono di sostanza. Io non darei troppo credito a quello che dice il contadino, si vede che aggiunge del suo. E poi che cosa si può ricordare uno della propria infanzia? Per me è tabula rasa! Io arrivo alle superiori nel recupero dei ricordi, il resto è nebbia!” “Questo perché hai dei problemi con la tua infanzia, e quindi i ricordi non circolano liberi dentro la coscienza, sono bloccati nell’inconscio, probabilmente repressi dalla censura.” “Ma quale censura? Si vede che non c’è niente di significativo da tirare fuori, perché è tutto normale.” Tanni riprende senza modificare il tono. “La vecchia portava con sé un bottiglione di limonata fresca, che versava in enormi bicchieri ai ragazzi.” “Vuoi vedere che se bevevano a canna dalla bottiglia era tutta diversa la storia? Certo questo cambia tutti i fatti! Come? Vuoi farmi credere che certi particolari descrivono il clima degli eventi, non ho parole! Con questo caso di cadaveri stecchiti, stiamo andando alla deriva tutti.”
All’appuntato stava salendo la bile, e il maresciallo faceva apposta, ormai bisognava lasciarlo dire senza montare la rabbia, per non dargli soddisfazione. “La storia raccontata da Faustina era insolita e stranamente cupa. Questa volta si trattava di un sogno, trascritto con cura, e non delle solite saghe con conigli, galline e gatti che la nostra creatura amava inventare e trascrivere nei suoi quadernetti.” “Se ti stai inventando tutto, dimmelo subito, perché non ho voglia di stare qui a sentirti. Possibile che Santi si ricordi anche di queste scemenze? Il padre delle vecchie che pare un orco, le figlie tutte fuori di testa, ognuna con una sua ossessione, ma è realtà o storia dell’orrore?” “Ascolta senza interrompere il sogno. Parla di una bimba che viveva rinchiusa in un palazzo; nelle stanze si trovavano altri prigionieri, ma nessuno poteva aiutare l’altro, le porte erano pesanti e sigillate. Il padrone a volte si avvicinava alla bambina parlandole sottovoce. Per salvarsi bisognava chiudersi in camera, ma lui aveva la chiave. Quando il padrone attraversava i corridoi si sentiva il suo o pesante, tutti cercavano un rifugio sicuro. Finché un giorno arrivò l’Angelo che fece un incantesimo al padrone, così gli venne una malattia orrenda, l’alito puzzava, e fu rotto in tanti pezzi. Pare che Faustina fosse particolarmente coinvolta nella lettura, alla fine era paonazza e concitata. Una storia breve, con punte oscure, cosa ne dici?” “Dico, ma ti pare serio riflettere su queste cose? Non vedi che il contadino è pieno di sensi di colpa e non sa dove andare a parare per togliersi ogni minimo sentimento di responsabilità sui fatti accaduti?” “Una cosa è certa: Danilo Santi ha una memoria molto buona, a differenza della tua. La famiglia Mariani lo ha turbato sin da piccolo, è proprio per questo che certi particolari si sono fissati nella sua mente.” “Ma ti stai rendendo conto che siamo nel campo delle fantasie? Lo fai per provocarmi? Supponiamo che il padre molestasse le figlie, cosa cambia per noi?” “Ti sto raccontando una storia con un po’ di patos, una narrazione diversa dalla serie di favolette partorite dalla nostra Faustina, è interessante valutare la discrepanza, sono questi dati che segnano un evento, un cambiamento, danno dei messaggi all’esterno.”
“Il messaggio casomai doveva raccoglierlo la madre di queste tre disgraziate! Bisogna vedere se lei ebbe qualche sospetto, notò la differenza nella storia?” “Allora, constato che mi stai seguendo, noto che il fatto colpisce anche te.” “No! Non me ne frega nulla! Abbiamo altro da fare che analizzare queste cavolate. Meglio andare ancora in giro per il paese a chiedere notizie ai vecchi, qui hanno tutti una memoria costruita a modo loro. Qualcosa di sensato questa volta magari lo caviamo!” “Attento che ora concludo il racconto. Anche Santi si era posto il problema di valutare la reazione materna al sogno della figlia.” “Non venirmi a dire che ricorda anche questo particolare, sarebbe il segno certo che sta inventando o comunque ci ricama sopra alla grande!” “La madre Liberata,” riprende Tanni gustandosi insieme alla liquirizia l’espressione stizzosa dell’appuntato, “al termine della lettura del sogno ebbe, secondo l’attenta osservazione di Danilo, un’espressione insolita. Da lì a breve però, accantonò ogni presagio negativo, tirò fuori dalle tasche un croccante di mandorle ancora caldo e lo distribuì, come niente di strano fosse accaduto.” “Un croccante di mandorle! Hai finito di dire scemenze? Piuttosto, dovresti indagare sul significato dell’espressione insolita che aveva Liberata in quell’occasione. Questa potrebbe darci notevoli spunti per il caso, non pensi? E poi ci fu altro?” Vedova si è rassegnato a stare al gioco, quando Tanni imbocca questa deriva non sai mai dove vuole andare a parare. “L’episodio non ebbe seguito,” riprende il maresciallo, “ma per Santi, quel demonio del padre avrebbe potuto spaventare chiunque, anche chi era abituato a conviverci. Dunque, la figura di Filiberto Mariani si delinea in modo sempre più detestabile, chiuso, depresso, malinconico, cacciatore solitario e anche carnefice, forse molestava le figlie coperto dall’ingenua tranquillità della sposa. Ti pare che ne abbiamo abbastanza?” Il quesito rimane nel vuoto, Vedova non raccoglie lo spunto, ma solo apparentemente perché dentro la sua testa iniziano a connettersi una serie di dati. Infatti, non è stato sinora sottolineato un ulteriore ambito d’interesse
dell’appuntato, oltre alla ione cinefila e per l’antropologia, si tratta delle fiabe. Il merito dell’induzione di tale travagliata ione, un obbligo da cui non poteva esimersi, va attribuito alla figlia minore, implacabile nell’esigere la lettura di fiabe ogni dannata sera. Fu grazie a questa consuetudine, all’espletamento di questo compito assegnato proprio a lui, che l’appuntato ebbe modo di rendersi conto della violenza insita nelle innocue storie per bambini. Non ci aveva mai riflettuto prima, e a volte sentiva affiorare una qualche pietà per il cattivo, ma la figlia godeva oltremodo della vendetta finale senza il minimo turbamento. “Quel padre cacciatore è una reincarnazione di Mangia fuoco o Barbablù! Sì dico, quel Filiberto, o come cavolo si chiamava? Con queste effe ci si confonde, sembrano tutti uguali, pazzi alla stessa maniera, si trasmettono la follia di padre in figlio,” interviene Vedova, delineando finalmente la sua teoria. “Filiberto Mariani, un uomo gigantesco, dall’aspetto di un bruto, peloso e barbuto, con i piedi enormi, dentro scarponi che schiacciano, affondando pesantemente sulla terra. Sembrava che il vecchio scendesse dal monte dopo aver operato una carneficina, e puzzava anche di carne bruciata. Un temperamento violento, una sorta di orco in forme umane, ne ha le caratteristiche, vive fuori dal genere umano, si trascina più spesso nella selva o nel chiuso della cantina, tortura animali, spaventa i cristiani e forse teneva qualcuno prigioniero.” Ora che Tanni ha portato l’appuntato sul suo terreno, si ragiona monocordi sulle assurdità umane. “Non sapremo mai quale fosse in realtà l’atteggiamento del padre con le figlie, incuteva timore soltanto, quasi cercando in modo studiato l’effetto terrore oppure le molestava? “ Il maresciallo espone la sua idea affondando nel quadro controverso della personalità del Mariani. “Io ho la sensazione che Filiberto godesse esclusivamente nell’insinuare paure e angosce nell’animo altrui, trovasse soddisfazione a terrorizzare, con un sadismo tutto particolare, ma tutto si fermava qui. La vittima inerme su cui si rivaleva gli permetteva di gustare un senso di potere. Sembra quasi che volesse staccarsi dal genere umano, mostrare una radice diversa. Un individuo a cui non interessava essere accettato nel consesso civile. Preferiva tenere lontani gli affetti. Forse il timore mascherato dell’abbandono, del tradimento, lo conduceva a torturare i
congiunti ando a loro la propria angoscia.” Un’analisi sottile, non c’è che dire, e quanto mai contorta, di quelle che piacciono al maresciallo, indisponendo invece Vedova che si perde nei meandri dei pervicaci collegamenti. “Ma bene! Mi pare che ora l’abbiamo perso definitivamente il confine tra fantasia e realtà! E non abbiamo parlato della risurrezione dei corpi. Ci manca solo l’attesa di venire presi, lasciando il corpo a marcire sopra un tavolo!” Vedova non si capacita di un tale esempio di famiglia. “Tra le frasi che la Mariani ripete nei suoi vaneggiamenti c’è il riferimento all’uscita dell’anima dal corpo, che avverrebbe dopo tre giorni. Dopo tre giorni l’anima sale e il corpo viene preso a pezzi. Hai presente questa frase?” “Vedo che ti stai apionando! D’altra parte siamo inevitabilmente portati dai fatti a confrontarci con il nostro ultimo viaggio. Questa storia l’hanno affibbiata a noi, nessuno voleva occuparsene!” Tanni aveva sinora taciuto il suo disappunto, ma la vena sarcastica in cui sforava non dava dubbi su un certo fastidio. Chissà quale verbale aveva in mente di trascrivere a chiusura del caso, per l’appuntato dattilografo designato si preannunciano già sottili patimenti, meglio cambiare discorso. “Bisognerà studiarsi il carattere di quella nobile dal cervello evaporato, la Vendramini?” Vedova mette in campo un’altra pedina. “Sarà stata lei a inculcare nelle teste delle sorelle Mariani queste idee malate? Ci mancavano solo le filosofie di ricchi perditempo in cerca di originalità, per completare il quadro familiare.” Vedova ormai risucchiato da un pensiero meditava. Oggi erano essenzialmente i pezzi di corpi a disturbarlo più di tutto, e se non fosse per il languore che già iniziava a molestargli lo stomaco si sarebbe avventurato in sottili elucubrazioni. In realtà la mente gli tornò sul testo dell’ultima fiaba letta alla figlia, fresca, fresca, la sera precedente, quasi uno scherzo del destino. Sfogliando il librone dei fratelli Grimm, la scelta era caduta su di un testo breve, dal titolo apparentemente innocuo, già dopo le prime righe si accorse della mal
parata, ma oramai la lettura era avviata insieme alle aspettative della figlia, impossibile retrocedere. I tre Cerusici, all’apparenza un tema interessante, se avesse saputo che cerusico stava per chirurgo, forse si sarebbe posto in allarme, ma lo capì in seguito. Intanto la narrazione si dipanava nelle sue stranezze.
Tre cerusici andavano per il mondo sicuri di conoscere alla perfezione la loro arte, una notte giunsero in una locanda dove decisero di pernottare. All’oste gioviale e curioso, rivelarono la loro abilità: erano capaci di riattaccare qualsiasi parte dell’organismo con un unguento speciale, e per dimostrarlo si tagliarono ciascuno un pezzo del corpo, assicurando che l’avrebbero risistemato il mattino seguente. Dunque l’oste chiuse nell’armadio, ben sistemati in un piatto: una mano, due occhi e un cuore, lasciandoli in custodia alla serva. Ma la ragazza dopo aver osservato gli organi finiti nel contenitore domestico, dimenticò di chiudere a chiave l’armadio e uscì con il fidanzato. Ci pensò il gatto a fiutare la carne, entrò quatto, quatto, e trafugò l’insolito bottino. La sciagurata al ritorno si accorse del furto e si disperò.
Giunto a questo punto il Vedova già stava sviluppando una sorta di fastidio inspiegabile che a breve si tramutò in rabbia sorda. Inveiva dentro di sé contro quella sciocca ragazza, più di tutto era preso dal suo solito impulso di sistemare le cose, certo si trattava soltanto di una fiaba, eppure, lo stesso, non poteva sopportare questa assurdità di tagliarsi gli organi. Aveva tentato di accennare il proprio stato d’animo alla figlia. Ma niente, la bimba, dando prova della più naturale tendenza sadica, non si scomponeva, che andasse avanti invece, avida, attendeva gli sviluppi. L’unico giustificabile era il gatto, al felino non si potevano imputare colpe a suo giudizio, il resto gli appariva quanto mai insensato e cruento, anche per il genere
fiaba, ma seguiamo il decorso degli eventi.
Il fidanzato della serva si incaricò di risolvere la situazione, sostituì la mano di un cerusico con quella tagliata a un ladro penzolante dalla forca dopo essersi accertato che era la destra.
Questa puntualizzazione mandò totalmente in bestia il Vedova, ma procediamo.
Successivamente catturò il gatto e gli cavò gli occhi, ora, interrompe ingenua e trasparente la voce narrante, mancava soltanto il cuore, dove trovarlo? La risoluzione non tardò, ed era abbastanza prevedibile, il lesto giovane prese il cuore del porco appena macellato, tutto pareva risolto! Al mattino seguente la servetta portò il piatto all’oste, e i tre cerusici mirabilmente si risistemarono i reciproci organi con l’unguento speciale, si congedarono e ripresero il cammino, sicuri che l’oste avrebbe fatto pubblicità alla loro eccezionale arte.
Già il Vedova soffriva intuendo le conseguenze, per non parlare della sua mente legalista che avrebbe voluto farla pagare alla serva e al suo degno compare, sbattendoli in galera. Doveva distanziarsi emotivamente, non identificarsi troppo con i personaggi, se lo era proposto come metodo, per affrontare a testa alta la lettura di quelle storielle popolari, degne antesignane del cinema horror. E il peggio non tardò a manifestarsi.
Il primo a degenerare fu il cerusico con trapiantato il cuore di porco, correva come un pazzo alla ricerca delle immondizie più grasse, e grugniva alla stregua dei suoi simili.
Il secondo si sfregava gli occhi e non riusciva a vedere, e il terzo non controllava più la mano ladresca, avida nell’appropriarsi indebitamente degli oggetti altrui. Inutile dirlo, i tre si resero conto di essere stati ingannati e ritornarono sui loro i.
E qui il Vedova attendeva l’agognata vendetta, ma così non avvenne!
La ragazza vedendo giungere i cerusici fuggì e non tornò più.
Era scritto proprio così: Fuggì e non tornò più! Ma come? Rilesse più volte per accertarsi, eppure non vi era traccia di punizione: a pagare un conto salato fu l’oste che dovette compensare i cerusici con tutti i suoi risparmi.
Morale: i tre se ne andarono e quella somma bastò loro per tutta la vita, ma avrebbero preferito riavere indietro la loro roba. Se gli avessero dato un pugno si sarebbe sentito meglio, in compenso la figlia appagata dormiva, lui fumante di rabbia, avrebbe voluto riscrivere come decenza voleva quella stramaledetta storia. Aveva sommariamente messo al corrente Tanni di questa esperienza, forse un po’ fuori dal seminato, seppure in linea con le immagini dei pezzi di corpo presenti nel diario della Mariani. “Sai cosa ti disturba di questa storia, non tanto che sia macabra, ma che non venga definito chiaramente un colpevole,” lo provoca il Tanni. “Eppure è proprio questo a renderla un’allegoria efficace dell’esistenza umana. Stiamo dentro a un gioco di relazioni sempre rischioso, dove non vi è nessuna garanzia. Ciascuno si muove secondo una propria direzione o intenzione, e nello scambio reciproco di tanti interessi, sentimenti, obiettivi, chi riesce a cavarsela o ad avere successo? Chi possiede più strumenti per leggere le situazioni? Chi è più fortunato o furbo! C’è chi si nasconde e attende al riparo un cambiamento, chi lotta cercando di
addomesticare la realtà, chi costruisce un proprio mondo, staccato da quanto lo circonda. Dobbiamo toglierci di testa l’idea di raggiungere giustizia ed equità in questo mondo, sì, qualche miglioramento lo otterremo progredendo, ma difficile rimediare definitivamente alle piccole violenze delle nostre relazioni. La tua storia lo dice chiaramente, ciascuno se la cava come può, accettando una non piena soddisfazione.” Una disamina attenta ed efficace non c’è che dire, pensava il Vedova, e pur tuttavia non era soddisfatto. “Si doveva rinchiudere la serva con il fidanzato, veramente due individui superficiali! Oppure tagliare anche a loro qualche pezzo, tassare i tre cerusici per le loro tetre dimostrazioni da esaltati. L’oste invece per me va pienamente assolto, sicuramente è il più onesto.” “Dunque, ti fai tu giudice dell’altrui destino? Esci dalla storia e sposta le tue considerazioni alla condizione umana! A questo servono le fiabe, a rappresentare i sentimenti primordiali del nostro animo, a farceli conoscere, così li digeriamo! Gli stati d’animo sono cuciti addosso ai personaggi, chi ascolta si illude o finge di non avere gli stessi sentimenti. Comunque, io non ti vedrei male nella parte del fidanzato, ometto scaltro, veloce a risolvere la situazione e pieno d’inventiva!” La faccia del Tanni ha un ghigno soddisfatto che non piace al Vedova, meglio cambiare argomento. Se solo i superiori avessero intercettato un tal genere di conversazioni, con i due preposti alle indagini nel pieno dell’analisi di una storia dei fratelli Grimm, che ne sarebbe stato dell’immagine dell’Arma? “Lo vedi cosa stiamo facendo?” attacca Tanni. “No, sai, non voglio dare la colpa a te, però non facciamo altro che divagare. Magari sono divagazioni utili, aiutano! Sta di fatto però che non riusciamo a tenere dentro questa cosa pesante, quei corpi mummificati chiusi da un anno dentro casa, ma forse non abbiamo nemmeno voglia di capire perché!” “Hai toccato il punto, non vedo l’ora di togliermi questa storia di dosso,” sbotta il Vedova, quasi come una liberazione. “Devo cancellare dalla memoria quello che ho visto, magari fingere che siano le spoglie di un santo martire, per dare un po’ di senso sacro all’insieme. Ma questa cosa della risurrezione mi disturba, mi
fa un effetto pessimo, ho nostalgia di un qualsiasi normale delinquente, vivo, vegeto, in carne e ossa, possibile?” “È un lavoro introspettivo quello che dobbiamo svolgere, il problema sta dentro le menti,” chiude il maresciallo. “È toccato a noi dirimere la questione, ce la giochiamo tra le due paure primarie nell’uomo: la morte e la follia. Un bel rospo da ingoiare.” Per i due funzionari volge al termine una giornata densa d’interrogativi, ma c’è poco da stare allegri, bisognerà affondare ancora nella dinamica dei corpi, nella scienza della decomposizione, ascoltando doverosamente circospetti il referto del medico legale.
VII
Dopo la visita a Otzi, l’uomo del Similaun, la mummia rinvenuta dai ghiacci, pressato dalle richieste del figlio, l’anatomia umana per il Vedova sembrava non serbare più segreti. Aveva seguito in uno stato catartico filmati, diapositive, ricostruzioni, analisi mediche, catturato dal fascino documentale e investigativo del museo. Non si trattava semplicemente di visionare un corpo nascosto dai ghiacci per oltre duemila anni, ma di venire letteralmente catturati dal fascino dell’inchiesta: come, dove, quando e perché, quel nostro progenitore era finito in quel luogo e cosa poteva dirci di sé e del suo tempo? E non era accaduto forse qualcosa di simile con le due Mariani? L’inchiesta continuava, quasi un segno del destino, divenendo esperienza concreta, però i cadaveri rinvenuti a Barrio non avevano lo stesso fascino dell’uomo del Similaun. L’analisi anatomopatologica dei resti non avrebbe aggiunto nulla alle conoscenze storico-antropologiche, semmai un ulteriore dato sulla bizzarria dei caratteri umani. Tanni e Vedova giunsero in anticipo all’appuntamento fissato all’istituto di Medicina legale del Policlinico, anzi il Vedova preso da una sottile inquietudine, aspettava già da mezz’ora sotto i portici dello stabilimento, fiutando quello schifoso puzzo di marcio che ormai inquinava la sua memoria sensitiva, dopo il fatidico ritrovamento. “Stai tranquillo non andiamo a visitare cadaveri, ci concentriamo sul referto delle autopsie.” Il maresciallo lo raggiunge e intuendo i suoi patimenti, mette le mani avanti. “Ci aspetta il dottor Vito Chima, l’anatomopatologo, un medico di grande esperienza, prossimo alla pensione, con pubblicazioni e libri all’attivo. È un uomo concreto che non si perde in chiacchiere, ce la caveremo in fretta.” Tanni inforca con sicurezza l’ingresso e scruta il tabellone delle direzioni,
bisogna prendere l’ascensore, salire al quarto piano. “Ma i morti non potrebbero tenerli al piano terra, o addirittura al piano interrato?” sbotta il Vedova. “Bisogna farli girare per i piani, farli salire, magari vogliono avvicinarli al paradiso, dare una mano per il purgatorio.” “Se non vuoi chiuderti in ascensore, vai a piedi, e cerca di non arrivare su con il fiato corto.” È nota al Tanni la claustrofobia dell’appuntato, certe debolezze non si possono nascondere, anche se fossero dieci, i piani da salire, per nulla al mondo il Vedova si chiuderebbe in quella gabbia. Gli basta scorgere le porte aprirsi per allontanarsi terrorizzato, paventando il baratro di quel pozzo vuoto in cui cammina l’artificiosa macchina. Una volta gli accadde forzatamente di fissare lo sguardo nell’orrida cavità, l’ascensore era fermo a metà del vano, scrutò stantuffi, griglie e tubi oleati, e manco a dirlo si vide schiantato sul fondo, ridotto a una polpetta, infilzato e sventrato, vacillò, sgusciando all’esterno, alla luce, per riempirsi i polmoni di aria. Al termine della salita, faticosa, ma sicura, Vedova ha un mancamento d’aria, il battito cardiaco è salito, ha camminato troppo in fretta, prima di entrare nel reparto si ferma e prende fiato con lunghi respiri. Luogo alquanto silenzioso, il corridoio in linoleum del reparto è di un verde rigato di bianco con qualche macchia nocciola, lucido, quasi brillate, tutte chiuse le porte distribuite ai due lati della corsia, anch’esse verdi, chiare e ampie. Non si sente anima viva! pensa l’appuntato, ed è ovvio il motivo! Da una porta a destra dell’androne esce una donna giovane e carina, tiene in mano un vassoio coperto, un cenno di saluto ed entra in un’altra stanza, poi richiude sbattendo l’anta. Non è un lavoro per donne giovani, smembrare cadaveri, pensa il Vedova, ormai rassegnato sul mondo variegato delle ambizioni femminili. Immerso nel verde metaforico dei Campi Elisi, l’appuntato indovina il giusto ingresso, dando una letta alla targhetta che identifica il nome primario.
Varca l’ingresso titubante, paventando la presenza di enormi tavoli metallici, freddi depositi di corpi da analizzare, una materia ferma, immota, che si è lasciata sfuggire la vita. Niente di tutto questo, la stanza è piccola, dietro l’enorme scrivania, una libreria a parete in legno scuro, i volumi sono sistemati con un ordine ossessivo, classificati per colore e dimensione, montagne di trattati in cui sono racchiusi i segreti della massa corporea. Chima e Tanni hanno già avviato il discorso, l’anatomopatologo siede tranquillamente alla scrivania, dentro il suo camice verde, il maresciallo è seduto di fronte, Vedova si sistema nella sedia affianco e scruta la fisicità del medico. Ammettiamolo questo tipo di medici non è il suo preferito, sembrano portarsi addosso qualche refuso della loro occupazione di sventratori di cadaveri, e il Vedova li considera una sorta di sciamani che in qualche modo entrano in contatto con le anime. Il tono del Chima è oltremodo noioso, interrompe le parole con pause di pensiero che paiono voragini da riempire. L’anatomopatologo è piuttosto basso di statura, con una corporatura sottile e il volto abbronzato, i capelli brizzolati tagliati corti, gli donano, ha un certo fascino e senza dubbio una notevole opinione di sé. Squadra Vedova effettuando una dettagliata indagine, fissando gli occhi chiari e acuti sulla sua persona; l’appuntato ha una brutta sensazione, difatti di lì a breve diventa oggetto di osservazione. “Si sente bene il suo collega?” chiede Chima rivolto a Tanni. “È molto pallido! Non ci siamo ancora presentati vero appuntato?” Vedova chiamato direttamente in causa, allunga la mano titubante, mentre il chirurgo commenta: “Bene, sento che la sua stretta di mano è salda, ma lei ha le dita sudate e fredde o sbaglio?” “Sono a posto dottore, forse è stata la fatica di salire quattro piani, e poi non ho freddo, magari una leggera cefalea, ma niente di grave.” Lo squartatore continua a fissarlo, il Vedova deglutisce e sente affiorare un leggero mancamento d’aria, aumentano le pulsazioni e tra breve avrà bisogno di più ossigeno, ma lo sciamano non demorde, forse vorrebbe sistemarlo nel suo studiolo. Si vede chiaramente che lui scoppia di salute, ed è certamente questo
benessere a suscitare l’invidia non dichiarata del dottore. Vedova si guarda intorno distogliendo gli occhi dal muso del Chima, dalla finestra di fondo entra una luce calda, le tendine a pacchetto sono linde, davanti all’imposta c’è un lettino, con un materassino verde rivestito di carta, un cestino e un lavandino lustro, niente acari, pare tutto soggetto ad accurata disinfezione. Quella che impressiona di più è la scrivania, non vi è un oggetto posato sopra, completamente vuota, manco una penna o un foglio di carta, uno spazio levigato dove il Chima muove a ritmo serrato le dita lisciando i bordi legnosi. Sul tavolino laterale è sistemato un computer, niente di strano, ma solo ora il Vedova si accorge di alcuni barattoli in vetro deposti nel ripiano basso della libreria, una scoperta tardiva quanto inquietante. Il Chima si è spostato verso il computer per stampare i referti, lasciando scoperto il ripiano, l’appuntato inchioda lo sguardo sul contenuto dei vasi quasi fosse ipnotizzato. Non finge nemmeno di non interessarsene, tale è lo sdegno accompagnato al disgusto. Il Tanni lo osserva, e attende gli sviluppi. “Senza dettagliare sui particolari fuorvianti, vi faccio una sintesi di quello che abbiamo rilevato nell’analisi delle due Mariani,” Chima riprende il discorso con in mano un foglio di carta. “Il ritrovamento delle sorelle fa seguito a un lavoro che ho appena concluso di ricognizione di un corpo di santo, o perlomeno in odore di santità, è in atto una causa di beatificazione, si tratta di un sacerdote morto quasi un secolo addietro. Da un po’ di tempo mi capitano autopsie particolari, il corpo più datato che ho esaminato era di un martire cristiano, ne ho eseguito una dettagliata ricognizione, sino a rilevare luogo di provenienza e modalità del martirio. Stranezze del mestiere!” “Dalla Mariani superstite non riusciamo a cavare nulla, tanto meno valutare se abbia una qualche responsabilità nei fatti!” lo interrompe Tanni. “Avete trovato tracce di veleno nei corpi delle sorelle?” “Ho qui il referto degli esami tossicologici, sono negativi, non vi sono tracce di veleni nell’organismo delle sorelle e neppure nei resti di animali trovati in casa e in giardino. Erano denutrite e debilitate, le ossa sono risultate fragili e porose, ma non ho riscontrato nessun segno apparente di trauma o violenza. I corpi si presentavano ormai in stato di mummificazione.” Dopo una lunga pausa di riflessione con l’unico effetto di incrementare l’attesa e
suscitare imbarazzo, il dottore finalmente riprende: “Felicita e Fosca Mariani sono morte per cause naturali, da almeno due anni”. Tutto tace, lo sciamano infila un’altra imperitura pausa di riflessione; senza il sostegno delle parole e con l’occhio fisso sui pezzi umani amabilmente conservati sotto formalina nei vasi, il Vedova versa in uno stato notevolmente ansioso, e certo l’argomento di conversazione non favorisce un alleggerimento. Finalmente l’oracolo riprende schiarendosi la voce, senza apparente motivo, bruscamente scivola con la sedia spostandosi a destra della scrivania, lasciando così volutamente scoperta la visuale sui barattoli di formalina. Il Vedova deglutisce frettolosamente il groppo di saliva affluitogli in gola e allarga le narici annaspando aria, potrebbero essere i prodromi di un attacco claustrofobico, e già gli piombano in capo terrificanti sequenze cinematografiche ben selezionate dal suo malefico cervello. Si tratta di una donna chiusa in una bara, risvegliata improvvisamente dallo stordimento, si riprende valutando la sua disperata situazione. Nella scena domina l’angoscia, ma la protagonista ritrova le risorse per salvarsi, ha solo un accendino e una pistola, unici alleati per uscire dalla trappola mortale. La mente dell’appuntato viaggia in scenari oscuri, sinché la voce monotona riprende. “Il corpo rinvenuto sul letto della camera, dovrebbe essere quello di Fosca se ben ricordo il nome, era la secondogenita delle sorelle. Presentava il femore della gamba sinistra spezzato in più parti, ricomposto in modo poco accurato, questo sta a indicare ripetute cadute; c’era una frattura più recente, malamente ricomposta. L’artrosi si accompagnava all’avanzata osteoporosi, la donna presentava altre fratture, seppure lievi al polso destro, le dita delle mani e dei piedi sono risultate notevolmente deformate. Non deambulava facilmente e nemmeno poteva articolare bene l’uso delle mani. Le vertebre sono apparse schiacciate, la schiena piegata, si è registrata una diminuzione della statura originaria di circa dieci centimetri. Una donna che si presentava molto più debilitata fisicamente rispetto ai suoi settantatré anni. Una data precisa di morte non posso stabilirla, direi qualche mese dopo la sorella Felicita, che è stata ritrovata nella veranda. Un vero e proprio luogo degli orrori, quello che avete scoperto! In un anonimo comune, tre donne vivevano completamente isolate, sole nella vita e nella morte!” Dopo tale affermazione, in odore di proclama morale, lo sciamano inserisce la
consueta pausa, piazzando sfrontatamente gli occhi addosso al Vedova, l’atmosfera è pesante, Tanni rompe il silenzio. “Dalla lettura del diario di Faustina, ritrovato nella villa, sembrerebbe che Fosca fosse deceduta, circa un anno fa, viene segnata anche l’ora, le 22.30. Certo, per quanto possano ritenersi attendibili queste pagine. La più giovane delle sorelle descrive la malattia di Fosca, ne ha seguito costantemente il decorso. I dati più concreti sono le gambe e le mani gonfie, poi c’è anche il gonfiore del collo che portano Fosca all’immobilità, finché non riesce più a deglutire o si rifiuta di mangiare, difficile a dirsi. Ma cosa potrebbe esserle accaduto?” Chima medita e scruta gli interlocutori, in particolare il Vedova, che si è fatto rossiccio in viso a forza di deglutire, annaspare aria e trattenere un impulso frenetico a schiarirsi la gola. Chissà come verrebbero letti, in chiave clinica, la sua tosse secca e il senso di soffocamento che lo opprime. “Data l’età poteva trattarsi di un linfedema,” pronuncia le parole lentamente, e poi spiega, venendo incontro all’ignoranza dei comuni mortali, impressa nei visi degli interlocutori. “Un accumulo di linfa dovuto a un’anomalia del sistema linfatico, si diffonde soprattutto negli arti, per alcune tipologie le donne sono le più colpite. L’ostruzione del linfedema, potrebbe però essere causata da altre malattie: un’adenopatia, una sindrome postflebitica, sovente si tratta di forme tumorali.” E ti pareva, un morbo tira l’altro, pensa il Vedova, e poi si finisce sempre sul cancro, anche le vecchie Mariani decimate dal male del secolo. “Hanno sofferto molto prima?” sfugge all’appuntato, che sembra essersi improvvisamente riamato. “Sì, intendo prima di lasciare questo mondo?” Aveva involontariamente abboccato all’amo, l’anatomopatologo lo attendeva al varco, uno sguardo limpido e penetrante lo colpisce, scavando dentro agli strati più profondi della sua epidermide, misurando la sua densità ossea, valutando lo stato dei visceri e... In un istante, l’appuntato sente il suo cranio aprirsi, e la molle materia densa di neuroni appena estratta finisce nel vaso, brilla di luce giallognola e grigiastra, affianco al cervello di chissà chi nel ripiano dello scaffale. È solo un attimo, ma un attimo infernale!
“Tutti soffriamo, prima di lasciare questo mondo, e nemmeno nascere è facile, come lei di certo saprà, caro appuntato.” Una pausa medio lunga, permette al Vedova di tirare fiato, distogliendo lo sguardo dai vasi. “Il dottor Otto Rank, medico viennese, collaboratore di Freud, ci ha erudito sul trauma della nascita, per lui fondamentale nel nostro sviluppo, più importante del complesso di Edipo. Io sono pienamente in accordo con lui, la rielaborazione dell’esperienza della nostra nascita è fondamentale, ma su questo campo siamo più disponibili ad accettare la sofferenza, dal momento che ci introduce alla vita! È l’altro versante, l’ultima tappa, l’evento di cui non vogliamo sapere nulla!” Approfittando dell’ennesima pausa, Vedova dà un’occhiata al maresciallo insolitamente quieto, è certo consapevole di non trovare in ambito medico le risposte al mistero delle sorelle. Comunque la storia del trauma della nascita, Vedova l’aveva già sentita, ricordava pure questo Otto, mentre l’inventore della psicoanalisi da sempre gli stava sulle scatole, così, senza un motivo particolare. “Ne ho visti fin troppi di morti, per malattia, a causa di incidenti, con gli sguardi fissi, colti da una morte violenta. Cerco di catturare il segreto dell’ultimo respiro scrutando gli occhi, la tensione dei volti, l’espressione. Ma le dirò sinceramente che per capire come uno muore bisogna osservarlo bene in faccia da vivo.” Un finale studiato, non c’è che dire, lo sciamano tace, come è ovvio, e il Vedova inizia a tossire, Tanni lo batte sulle spalle, mentre il dottore estrae dalla libreria una bottiglietta d’acqua con un bicchiere di plastica, versa il liquido incolore e lo porge gentilmente all’appuntato, scrutandolo con insistenza. Vedova beve, non può fare altrimenti, ma è veramente acqua? Cos’altro può essere? La bottiglia era tappata, ha sentito il fremito delle bollicine appena dissigillate; pochi sorsi e si sente meglio, integro, con il cervello in piena attività ancora deposto nel suo sito naturale. “Felicita Mariani ha sofferto certamente, per il dolore, per la riduzione della normale mobilità,” riprende il dottore. “È una condizione clinica lenta e progressiva, la comparsa dell’edema porta a un’infiammazione cronica, a lungo andare i tessuti tendono a fibrotizzarsi, diventando spessi e non funzionali. Ma
questi aspetti più eclatanti annotati dalla sorella, si sono certamente accompagnati ad altre affezioni. Ripeto, però, si è trattato per entrambe le sorelle di morte naturale.” Tanni scruta l’orologio e affretta la conclusione dell’incontro portando il discorso sull’altra Mariani, che anche in questo caso sembra finita in disparte, offuscata dalla diade delle sorelle minori. “Che cosa mi può dire ancora sulla più vecchia delle sorelle, Felicita, quella che è stata ritrovata sopra il tavolo della veranda adagiata su un materasso?” “Il corpo della sorella più vecchia, di settantotto anni, non presenta traumi specifici, seppure sono comunque presenti gli stessi problemi di artrosi e fragilità ossea dell’altra. Era particolarmente alta, circa un metro e ottanta. A causa della deformazione artrosica della colonna vertebrale la schiena si presenta curva, credo che la vecchia deambulasse pressoché piegata in due. Inoltre l’arto inferiore sinistro, di qualche centimetro più corto, la costringeva probabilmente ad assumere un’andatura barcollante. L’analisi della dentatura indica un’alimentazione povera di varietà, assenza di carne, prevalenza di vegetali e zuccheri. Non vi sono altri segni di rilievo, se non le lenti spesse degli occhiali a deporre per una ridotta capacità visiva. La morte è precedente a quella della sorella, più avanzata la decomposizione, potrebbe essersene andata anche un anno prima. Comunque, sono morte entrambe dopo una lunga e lenta agonia, proprio davanti agli occhi della sorella minore incapace di fornire un qualche aiuto. Voi, dalle vostre indagini cosa avete ricavato?” Il maresciallo approfitta dell’interesse del medico sull’argomento per scambiare qualche opinione, evidentemente Tanni a differenza del Vedova trova l’interlocutore interessante, ed è sua abitudine confrontarsi con persone competenti, ne ricava sempre qualcosa di produttivo. a a raccontare del diario, si ferma su alcuni punti, ma poi la conversazione si allarga sui caratteri umani, sulle stramberie di Barrio, sulle suggestioni pseudoreligiose delle sorelle. Un brainstorming sui massimi sistemi, che lascia il Vedova indifferente, ha altro da pensare e l’ambiente non favorisce di certo i parti della sua mente. In compenso ha chiaramente identificato alcuni degli organi in formalina: due cervelli, di cui uno di dimensioni più ridotte, un cuore, una massa spugnosa,
forse un fegato, e alcuni feti. Purtroppo le sue conoscenze anatomiche si fermano sul bancone del macellaio e non sono affatto precise, comunque, davvero macabra la scelta di tali barattoli come arredi. Saranno stati presi a scopo didattico, suggerisce la sua parte razionale, bisogna mettersi nei panni dello scienziato, per vincere il disgusto e analizzare freddamente la realtà. Tanni focalizza i dati investigativi, il tono di voce denota il raggiungimento di alcuni punti fermi, perciò il Vedova intuisce la prossima deriva investigativa: credenze pseudo-religiose e forse esperienze paranormali. “Il magistrato della procura ha aperto un’inchiesta con l’ipotesi di omicidio volontario a carico di persone ancora da identificare. Ma dalla lettura dei diari e dai dati dell’autopsia che ora apprendiamo, azioni a carico di estranei, e tanto meno da parte della sorella superstite, sembrano da escludere. La più giovane delle Mariani, in pratica, è rimasta sepolta viva da due anni, agendo e parlando con loro, anche se erano morte!” “Lo psichiatra che ha visitato Faustina cosa ne ha ricavato?” chiede Chima, prendendo in mano una sorta di ossobuco liscio, con righe biancastre, estratto dalla cassettiera della scrivania. “Si può evincere qualcosa, anche da soggetti in stato confusionale, con un lavoro d’interpretazione, indagando il significato simbolico delle parole, dei gesti. Certo è molto impegnativo e richiede una formazione particolare.” Una formazione come la sua, pensa Vedova chiudendo mentalmente il discorso, di certo l’anatomopatologo ha una bassa opinione degli psichiatri, lui sì invece deve ritenersi in alto nella gerarchia degli eredi d’Ippocrate. Chima giocherella con l’oggetto, tenendo occupate le mani, al Vedova pare un ossobuco di manzo, quelli con il midollo dentro, Cristo non può essere un osso umano! Una fuga mentale breve e repentina, lo riconduce a pensare senza soluzione di continuità alla figura di Hannibal Lecter, soggetto letterario e cinematografico, l’orribile assassino seriale con l’ossessione dell’antropofagia: sconosciuto il numero di omicidi da lui commessi. La ione macabro cinefila del Vedova lo opprime con le peggiori immagini, una selezione particolare compiuta dai suoi neuroni per metterlo sempre più a disagio, navigano le libere associazioni fissandosi su alcune scene. La cena offerta da Lecter al complesso della
filarmonica contenente il timo e il pancreas asportati da un flautista; o la storia del ricco magnate Mason Verger, costretto a sfregiarsi il volto dopo essere stato drogato, opera continuata dai suoi feroci cani che non lo hanno riconosciuto: il disgraziato dopo numerosi interventi chirurgici, vive attaccato a delle macchine con il volto completamente sfigurato. La conversazione riprende, mentre il Vedova cerca di attivare alcune procedure di training autogeno, si isola dal contesto e ripete dentro di sé il mantra, imitando la voce fessa del terapeuta opportunamente memorizzata dal suo inconscio: Braccio destro pesante, piacevolmente pesante, e poi piacevolmente caldo. Risoluto attende che la sensazione di peso e calore si diffonda a tutto il corpo, seguendo le fasi neurofisiologiche del training, per are alla fase successiva: Il cuore batte calmo e regolare. Ma quel disgraziato di muscolo cardiaco segna costantemente la sua rovina, quando cerca di controllarne il battito se ne va all’impazzata, decretando il fallimento di ogni onesto tentativo di auto-rilassamento. Mentre Tanni parla con tranquillità, prendendo il discorso alla larga, l’appuntato decide di are alla fase del respiro, saltando il cuore, farà finta di non averlo, come al solito, e cercherà di arieggiarsi con respiri profondi. Ha posto le mani sulle cosce, ha assunto la classica posizione del cocchiere con il capo leggermente reclinato, nessuno direbbe che sta attivando una tecnica di rilassamento, si veda la sua consumata abilità. Fu un corso tra i più proficui per la sua formazione, quello sul training autogeno di John Schultz, si sentiva forte, affinando il possesso di un’arma di auto-controllo, tenuta in riserva come parte integrante delle proprie abilità. Peccato che alcuni organi del suo corpo fossero così restii a una regola, una schizofrenia interna detestabile, non avrebbe mai raggiunto le altezze del maestro e si sarebbe lasciato ancora sopraffare dall’ansia e dall’ira. “Faustina, dopo il ricovero nel reparto di Neurologia è stata sistemata in un casa per anziani,” riprende Tanni. “Superata l’iniziale confusione, è stata visitata oltre che dal primario di Neurologia, dal professor Saverio Sini, ordinario della cattedra di Psichiatria forense dell’Università. Il professore ha riferito al magistrato di non essersi mai trovato dinanzi a un caso simile. Una donna solo apparentemente fragile.
Faustina ha recuperato in breve lo stato di debilitazione fisica, manifestando con convinzione la propria visione deformata della realtà, si potrebbe definire una persona prigioniera di una lucida follia, pervasa da uno sfrenato misticismo. Sia lei, sia le sue sorelle credevano nella resurrezione dello spirito e anche del corpo, e di questo erano fermamente convinte.” Cosa c’è poi di strano in questo credo, pensa l’appuntato, lui è cattolico ed attende la resurrezione dei morti, sì certo alla fine dei tempi, anche se a dirla tutta non si sa bene come risorgeranno questi benedetti corpi. A questo proposito, ammettiamolo ci fu un periodo in cui si arrovellò non poco su tale questione. I preti a cui aveva chiesto lumi non gli dettero risposte sufficienti a placare i propri dubbi: ad esempio a quale età risorge il corpo? Perché se la scelta fosse lasciata libera, lui non saprebbe come orientarsi. È chi è morto giovane o addirittura da bambino, può scegliere di avanzare d’età? Per non parlare di quelli a cui la propria faccia non piace e nemmeno il corpo, dando ovviamente per scontato che vengano superate tutte le malattie e deformità. Un vero casino! Una complicazione quasi irrisolvibile per il suo razionale discernimento, la districa sin troppo efficacemente il profeta Ezechiele, con la macabra risurrezione di mucchi d’ossa inaridite deposti a distesa in quella fantomatica vallata degli orrori. Non era Ezechiele, il suo profeta biblico preferito, bensì Giona, con cui nutriva una totale affinità, ma quella scena delle ossa aride sparpagliate sulla pianura, lo aveva travolto per la sua materiale violenza, lo colpiva ogni volta che gli capitava di ascoltare quelle parole. Vedova scandaglia mentalmente la narrazione, così per sommi capi, secondo i dati fissati nella sua memoria.
Il Signore ordina a Ezechiele di profetizzare su quel mucchio informe perché entri in loro lo Spirito e rivivano. Ezechiele profetizza e vede il movimento delle ossa che si accostano l’uno all’altra, assiste al ricomporsi dei nervi, al ricrescere della carne, sinché la pelle ricopre le membra. Da ultimo egli profetizza allo Spirito, repentinamente un esercito grande e sterminato di uomini ritornano in vita.
Un gioco di libere associazioni sin troppo scontato conduceva il Vedova a
entrare nel circuito di tali pensieri, il ritrovamento in casa Mariani, inesorabilmente imponeva il confronto con il termine ultimo della propria esistenza, scavando il terreno anche sulla questione dell’anima. Più volte gli era stato suggerito, per ovviare al malessere dello spirito, di affidarsi serenamente alla Volontà di Dio, non perdendosi in questi ragionamenti improduttivi. Ma lui al pari di San Tommaso, o meglio impersonificando il fanciullo descritto da Sant’Agostino, non aveva rinunciato a travasare tutta l’acqua del mare nel suo piccolo secchio. Il maresciallo continua a conversare, Chima pare avere finalmente distorto gli occhi dal suo muso, e fissa Tanni ruotando tra le dita il fatidico osso, di dubbia appartenenza, probabilmente bovina. Il contenuto della conversazione devia dai corpi materiali, scivolando inesorabilmente sulle convinzioni pseudo-religiose. “Fino a qualche anno fa, nella villa si riuniva un gruppo di preghiera per pochi eletti, secondo un’accurata scelta dei partecipanti, probabilmente era guidato da una nobile del posto, Zita Vendramini, ora affetta da demenza senile.” Tanni affonda nel mistero. “Pare ci fosse anche un ex prete, o forse un apionato di teologia, una figura ambigua. È stato visto in paese anni addietro ma non abbiamo per il momento altre informazioni. Potrebbe essere proprio lui la guida spirituale seguita dal gruppo e dalle sorelle. All’interno dell’abitazione c’erano arredi sacri, ceri, candele votive, vicino ai cadaveri delle donne e degli animali abbiamo trovato immagini di santi.” “Però dalla Vendramini non potete ricavare nulla!” puntualizza Chima. “E chissà se riuscite a scoprire se esisteva veramente un santone che guidava la setta. Forse non bisogna leggere questa storia come la manifestazione di un degrado, sembra piuttosto il frutto di alterate concezioni religiose, presenti anche in persone di cultura.” “Sul santone abbiamo addirittura tracciato una sorta d’identikit raccogliendo le creative testimonianze di qualche mente fervida in paese, pare avesse un’inflessione spagnola. Dall’aspetto slanciato e solido, vestiva di nero con una sciarpa viola al collo, l’incarnato scuro, una barba folta, brizzolata, e qualche altra osservazione dal sapore cinematografico. come lo sguardo magnetico
capace di leggerti dentro, ad esempio. Comunque negli ultimi anni le sorelle hanno scelto di isolarsi dal mondo, fino a qualche mese fa solo un contadino portava loro da mangiare, poi più nulla. La casa era ridotta a una sorta di discarica, e la sola sorella superstite, come sappiamo, attendeva di essere presa seguendo la sorte delle maggiori. I contadini e i vicini di casa hanno raccontato che non le vedevano più da quasi due anni, già anni prima comunque il santone aveva fatto perdere le proprie tracce e la Vendramini si stava lentamente fumando il cervello. Le luci della villa erano sempre spente, in paese si credeva che fossero ritirate in una casa di riposo in città, finché si è consumato il colpo di scena! Abbiamo scovato la villetta degli orrori dopo la segnalazione del contadino, insospettito dall’assenza di Faustina, la più giovane delle sorelle. Mi chiedo se sia solo l’isolamento dal mondo esterno, pressoché totale, a condurre alla follia, sia pure lucida, come afferma lo psichiatra.” Tanni sta chiudendo la conversazione, ha ricomposto i pezzi del mosaico a voce alta, la sua mente inquisitoria si sta preparando ad affondare il bisturi là dove si originano le emozioni, nelle circonvoluzioni del sistema limbico o in altre regioni cerebrali, dove la materia diventa sentimento. “Ma le pare che la follia possa essere lucida?” sbotta Chima. “Avvolgimenti mentali da psichiatri, frasi che non dicono nulla, si annaspa nel vuoto, ammettiamolo!” E già! pensa Vedova, squadrando lo sciamano con maggiore tranquillità ora che si profila il congedo, la testa lui vorrebbe aprirgliela a quella disgraziata di Faustina, constatare se la follia è lucida od opaca, e in tal caso lucidarla manualmente. Non si chiamavano forse centri d’igiene mentale i luoghi deputati al riequilibrio psichico? Certo un’igiene che si pratica con il farmaco, accompagnato dal potere taumaturgico della parola. All’anatomopatologo però non dispiacerebbe un intervento più deciso. Si staccano gli ultimi convenevoli, sguardi pacati e di circostanza, strette di mano tenaci e robuste. Finalmente i segugi abbandonano i tavoli del mattatoio scientifico. E quindi escono a riveder le stelle.
VIII
Sino alla laurea non si era occupato di donne, un dettaglio lasciato a margine, gettandosi a capofitto su manuali, atlanti, trattati, nemmeno lo studio della fisiologia riproduttiva aveva scosso il ferreo proposito: pensare alle questioni femminili solo dopo l’agognato traguardo. Negli anni della specializzazione iniziò a guardarsi intorno con maggiore intenzione, la sua compagna doveva essere gradevole e non troppo complicata intellettualmente, le era concesso chiacchierare a vuoto, ma più spesso tacere, lasciandolo libero di seguire i propri interessi, e da ultimo, ma non meno importante, non detestare i cani. La cinofilia costituiva un particolare di rilievo, considerato il rapporto morboso instaurato dal dottorino con Mallory, un vecchio meticcio, nato dall’improbabile incrocio tra una bassotta e un labrador. Una sorta di miracolo della natura, cresciuto con un carattere vivace e incontenibile, una bestia ingorda, iperattiva, ineducabile. Ma il destino decise in modo diverso, Alba, la sua attuale metà, non brillava certo per avvenenza, egli stesso dovette, perlomeno inizialmente, esercitare uno sforzo notevole per guardarla. Pareva amorfa, pallida, quasi diafana, con un paio di occhialini da miope piuttosto spessi, abbastanza in carne, seppure non grassa, solida e molto pigra. Al bancone dell’ospedale, svolgeva il suo lavoro impiegatizio senza particolare sentimento. Incredibile a dirsi, possedeva una certa disposizione sessuale, nell’intimo manifestava un notevole calore, scialba all’esterno, prendeva confidenza con l’amato, diventando morbida e avvolgente, una sorta di tiepido ventre materno, tutto carezze e tonici massaggi. Tenerezze prodigate a piene mani all’interno dell’alcova, ma impensabili a uno sguardo esterno. Era riuscita a domare il maledetto cane, avido al pari del Giacomelli di affetto e
coccole. Soltanto da un paio di mesi abitavano sotto lo stesso tetto, si trattava di un esperimento temporaneo, era stata scelta la sua bifamiliare, per l’ampiezza e perché il Giacomelli sarebbe finito soffocato dentro un appartamento al quarto piano, e poi c’era la bestia, che già gli aveva dato non pochi problemi con i vicini. All’abbaiare continuo e ossessionante di Mallory erano seguite varie strategie, dal metodo psicologico fondato sul dialogo, alle misurate percosse, dalle secchiate d’acqua, alla chiusura in garage, sino alle iniezioni di leggeri tranquillanti. Sentito l’amico veterinario, per la verità con maggiore esperienza nell’ambito dei bovini, gli fu proposta l’eliminazione. Superato lo sconvolgimento per tale spietata soluzione, seguì una baruffa furiosa che alterò il loro rapporto, dal tono: “Come può uno scegliere questo mestiere avendo nell’animo lo spirito del carnefice?” Fortunatamente Alba risolse il problema sottoponendo Mallory a una terapia di tipo cognitivista, spostando senza soluzione di continuità le tecniche apprese per gli esseri umani al livello inferiore della sfera animale. Fu un bene, poiché fallito questo tentativo sarebbe rimasta soltanto la lobectomia; bastarono alcuni mesi di trattamento per controllare ogni ringhio improprio, miracolosamente sedando la bestia malefica. Una donna la sua, scipita all’apparenza, ma capace di risolvere le situazioni più difficili: una rarità incomparabile! Già da giorni la rarità, doveva sorbire i lamenti del dottorino, fiaccato dai macabri ritrovamenti. “Capisci? Non le avevo mai incontrate e due me le ritrovo cadaveri! Orribilmente stecchite e da anni poi! E io che facevo tutto il giorno? Perso a dar retta a vecchi più sani di me, ossessionati dalla glicemia, dal diabete, dalla pressione arteriosa. Capisci c’era ben altro da fare in questo paese di squilibrati! Non me ne sono mai interessato, un’indifferenza colpevole. E quel pomposo, arrivista del primario, senza un briciolo di umanità, l’acchiappa neuroni, quello che ingenera uno stato psicotico solo a vederlo, nutre depressioni e demenze solo per vendere farmaci. Ora pare un oracolo, profetizza con la sua faccia da deficiente davanti al microfono dei giornalisti.” La ragionata e puntuale scalata alla carriera del neurologo non aveva nulla a che
spartire con i supplizi indotti dalla professione nel Giacomelli. Un senso del dovere brutale, martellante, persecutorio, opprimeva il povero Giacomelli: il lavoro, con le sue responsabilità, lo attanagliavano, e quasi come un condannato a morte assaporava le ore di libertà avidamente, seppure sempre turbate dal pensiero del loro termine. Quanti anni avrebbe dovuto vivere ancora schiavo, detenuto in semilibertà per assaporare con il raggiunto congedo sine die la totale liberazione dal dio lavoro, emancipandosi dall’ambulatorio, dalle ore controllate, dalla mano oscura e insinuante dello stato, solo apparentemente nascosta ma in realtà subdolamente presente? Ma esisteva nell’Olimpo, o magari nei riadattamenti delle divinità ellenistiche operate dall’impero romano, una qualche raffigurazione dell’operosità a fini retributivi? Una sorta di demiurgo a cui offrire sacrifici simbolici, affondando di nascosto nel dionisiaco, gustando integralmente i piaceri della vita. Poteva trattarsi di Demetra, dea operosa delle messi e della fertilità oppure era opportuno votarsi al lavoro più duro di Efesto, dio dei fabbri; ma se a un dio ci si doveva votare, almeno che fosse celebrata la natura, lasciando all’uomo un tempo disteso per contemplare l’orizzonte. Si poteva pensare quindi a Fauno, dio dei pastori. Alla fine decise di scegliere una donna, la divinità maschile lo aveva sufficientemente esasperato. La sua attenzione cadde su Cerere, dea della crescita, e qui si trattava di votarsi a colei che supervisiona un lavoro metaforico: quello che consente di diventare uomini. Il Giacomelli uscì veramente soddisfatto dal suo giro di pensieri, così il discorso divinità si placò. Comunque convenne che sarebbe stato più opportuno seguire la via suggeritagli dalla voce roca del medico-patriarca Olindo Soloni, suo predecessore a Barrio, sempre prodigo di consigli non richiesti. Costantemente afflitto da una tosse secca, incurante usava barattare gli ultimi sorsi d’ossigeno rimastogli con grossi sigari: “Non è posto per te questo, abbandona finché sei in tempo. La scienza medica la puoi più dilettevolmente praticare sulle navi da crociera. Pensa che goduria, viaggiare senza impegni particolari, senza fissarti in memoria le facce incancrenite degli stessi pazienti”. Come sempre, erano allettanti le proposte del vecchio Olindo, trasudante di esperienza e solide verità non confutabili.
In fondo, partì proprio da quel suggerimento l’interesse del Giacomelli per la vita del mare, o forse più probabilmente gli dette voce, il vecchio aveva scavato dentro di lui, facendo vibrare una corda nascosta nel profondo del suo animo. Quel fatidico pomeriggio, dopo aver accompagnato al camposanto il medico Soloni, trasportato a braccia da sei uomini, Giacomelli per la prima volta si sentì finalmente libero nell’esercitare la propria professione, senza il patriarca che di sottecchi disfaceva le sue terapie, minando la sua già vacillante immagine di sé. Avvenne così che sopraffatto dal consueto impulso di assumere voracemente libri, divorando verità stampate per placare un’indomabile sete di conoscenza, questa volta cercasse in libreria qualcosa d’insolito per lui, onorando magari la memoria del vecchio medico. L’attrazione per il mare riemerse repentina, in fondo egli stesso si sentiva sballottato dai marosi, colpito da ondate di pensieri, scavato dai tifoni, impersonati dai suoi tormentosi e insoluti sensi di colpa. Già affrontate in adolescenza letture avvolgenti di pirati e tesori, dovette dirottare su opere più corpose, ove il mare costituiva soltanto lo sfondo metaforico entro cui rappresentare l’animo umano. Sbatté il muso su un volume dai toni azzurri, un’unica copia ben composta nello scaffale. La trasse fuori e scrutò la figura imponente della balena bianca, mentre lungo l’orizzonte sfiatava solitaria. Chiamatemi Ismaele. Un esordio che lo folgorò, già dalle prime righe Giacomelli aveva stabilito un’intesa. Come di consueto si assestò dietro una scansia del negozio, riparato dagli alti scaffali, e lesse una decina di pagine. Da giovane, ai tempi in cui sapeva resistere ore in piedi, mutando posizione per non insospettire il personale, era in grado di consumare la lettura di un libro intero, si trattava in quel caso di grandi librerie, ambienti ampi, in cui il lettore poteva agire indisturbato. Agguantata la sua preda si accinse a raggiungere la cassa, chiedendo come sempre dei titoli introvabili solo per infastidire i commessi, cosa che gli dava una soddisfazione difficile da spiegare. Si pentì subito di avere sottovaluto il libro, in fondo Moby Dick poteva apparire una storia da ragazzi, invece ben presto dovette are la lettura con un dizionario, rispolverando i suoi rudimenti di conoscenze bibliche. Seppure provato, affondò inevitabilmente nell’enigma del bene e del male, entrando
anch’egli a far parte dell’equipaggio del Pequod. Sin dalle prime pennellate descrittive, egli capì che il suo animo era quello di Starbuck, un quacchero, arruolato come primo ufficiale della baleniera, secondo all’enigmatico capitano Acab, la grande figura che domina la baleniera. Starbuck delineava la sua personalità di uomo sobrio, ma al medesimo tempo coraggioso e forte, intelligente e superstizioso. “Non voglio nella lancia nessuno che non abbia paura della balena.” Già tale frase ne condensava i caratteri. Per Starbuck, un uomo privo di paura rappresentava un compagno molto più pericoloso di un vigliacco: il vero coraggio nasceva dal saper dare il giusto apprezzamento al pericolo da affrontare. Eppure la narrazione non doveva finire così, giunto all’ultima pagina il Giacomelli non se ne dava pace! Dopo quasi seicento fogli, si attendeva un finale diverso, non quella catastrofe! Sebbene il tragico epilogo fosse stato preannunciato sin dall’inizio, Giacomelli, come al solito, non riusciva ad accettarlo. Gli accadeva così anche nella vita reale. Quante informazioni di cetologia aveva ricavato su capodogli, balene franche, megattere, orche, focene e quant’altro; avrebbe saputo scuoiarne una senza problemi, raccogliere lo spermaceti, segare le ossa, lasciando il residuo del leviatano in pasto ai pesci, sopportando l’orrido masticamento dei pescecani. L’anima cruenta della caccia al mostro gigantesco, astuto e vendicativo, personificazione del male, gli aveva dato la misura della lotta impari e visionaria del capitano Acab. Percepiva il rumore dei sui i in coperta, ascoltava lo scalpiccio della sua gamba d’avorio, rigida ed eburnea, battere nervosa sulle assi di legno, evocando chissà quale malessere stanato dalle profondità dell’inconscio. Uno squillo deciso e continuo, squassa i pensieri già tetri e confusi del Giacomelli, che rimane però inerte senza muovere un o verso il telefono. Detesta i cellulari, seppure abbia dovuto cedere alla necessità di essere reperibile acquistando uno di quei banali aggeggi. Ma dove si trova ora? In quale borsone, cassetto o tasca? Poco male, lo squillo regolato sull’aria trionfale delle Valchirie, proviene dal fisso, e chiede urgente una risposta, Alba è uscita, deve assolutamente staccare il
sedere dalla sedia, interrompere il flusso dei pensieri e riconnettersi al reale. Incespicando sul tappetto, scatta verso la fonte del suono, agguanta la cornetta, nel maldestro movimento cadono i volumi assiepati a ridosso del ricevitore, l’involucro rigido dei Buddenbrook, colpisce implacabile il suo alluce, soffoca un gemito e si dispone all’ascolto. “Come vanno i sensi di colpa dottore? Le interessano gli sviluppi delle indagini sulle sue pazienti?” Domanda retorica, il Tanni vuole provocarlo, godendo del suo disagio. “Abbiamo deciso di andare a fondo sulla questione della setta religiosa, la aspettiamo domani dalla Vendramini, da lei non caveremo nulla, ma qualcosa d’interessante in loco troveremo; che ne dice?” Giacomelli annuisce in qualche modo, ha la bocca impastata di saliva, disturbato da una sete impellente, risolve rapidamente la conversazione e si precipita verso il frigo. Scaraventa a lato la porta e si perde nell’ordine ossessivo degli alimenti, deposti per tipologia e colore, e come al solito non riesce a trovare nulla. Ma a che serve oramai rimpiangere il suo stile confusionario, il sacro casino da cui un tempo, prima della convivenza con Alba, riusciva a trovare tutto? Tempo perso, ora domina la rassegnazione! La testa gli duole, urge qualcosa di fresco, un liquido corroborante che plachi le sue viscere. Dallo sportello laterale sbucano delle bottiglie di birra, sistemate accanto a scatole di tono verdastro, vetro marrone ed etichetta color muschio, sono quattro, avvinghiate dentro un cartone: birra cinese, meglio di niente! Ora si tratta di reperire l’apribottiglie, cosa pressoché impossibile, ci prova forzando il collo della bottiglia sul bordo del tavolo, sinché risolve la situazione impossessandosi di una provvidenziale forchetta, grazie a Dio fuori posto! Dopo la prima birra percepisce un lieve benessere, le altre se le scola allungandole col ghiaccio, risolvendosi a usare un bicchiere, ma non è propriamente un bicchiere, bensì una sorta di vaso in porcellana con un manico, sta comodo sopra il ripiano della cucina, rammenta di averlo visto utilizzare come porta fiori. Ma chi se ne frega!
Sta sudando, ancora un’ora di relax e poi dovrà rinchiudersi nello studio. Purtroppo, oggi proprio non ne ha voglia, ano i minuti implacabili, Giacomelli percepisce i prodromi infausti che segnano la sua trasformazione nell’homo faber, l’irrimediabile avvicinarsi della schiavitù del pubblico impiego. Il principio d’ordine lentamente si appropria della sua mente rovinosamente predisposta a inutili vagheggiamenti, persa in pensieri oziosi. Nemmeno il fascino della dea Cerere può mitigare la morsa implacabile del super-io, che fulmineo lo obbliga al rigore. Meglio pensare ad altro, al giallo delle Puntute, per esempio, un vero colpo basso alla routine del suo ambulatorio di paese. Il giorno seguente avrebbe chiuso l’ambulatorio, deposto un laconico cartello, su cui i pazienti avrebbero sputato o imprecato, lui indifferente, si sarebbe recato all’appuntamento con il maresciallo. Aveva deciso di accompagnare la scienza medica alle strategie investigative, contribuendo a illuminare con la flebile lanterna della ragione l’irrazionale corso degli eventi. L’ambulatorio del dottor Giacomelli, si trovava poco discosto dalla chiesa, si imboccava una viuzza laterale a seicento metri dal sagrato, sulla destra, un vicolo stretto da abitazioni di pietra a più piani, con le finestre anguste stracariche di gerani e piante grasse, turgide e rigogliose. Una piccola salita chiusa da un cancello introduceva all’interno di un cortile in terra battuta con qualche erbaccia infestante, sparse qua e là sbucavano delle aiuole fiorite dai contorni bordati in pietra, orgoglio e atempo della proprietaria del palazzo. Padrona Apollonia, la proprietaria del suo studio, non era né vecchia, né giovane, di un’età indefinibile, come quelle suore che rimangono sempre uguali e paiono le sovrane custodi del tempo. Vedova da tempo imprecisato, Apollonia viveva dell’affitto pagato dal dottorino, indispensabile per incrementare la sua magra pensione. L’ambulatorio era situato al primo piano, vi si accedeva percorrendo una scala esterna rivestita di lastre di porfido dal taglio irregolare, la ringhiera, traboccante
di gerani dai vasi di cotto decorati, ben disponeva l’animo afflitto dei pazienti. E poi comunque ci pensava donna Apollonia a intrattenere la gente, non erano necessarie riviste, saliva lei in sala d’attesa a prodigarsi, non certo in pettegolezzi, seppure sapesse tutto di tutti. Tanto valeva assumerla come segretaria e darle l’incarico di stampare impegnative e ricette, un pensiero che più volte aveva sfiorato il Giacomelli. E solo ora, la sua mente a volte stranamente distratta, coglieva il nesso inequivocabile con il dio Apollo fissato nel toponimo della padrona. Prima gli era parso soltanto ridicolo, ma ora la sua preferenza verso un’esistenza segnata dal dionisiaco lo faceva riflettere su questo ennesimo, beffardo e incomprensibile segno del destino. Ma era già in ritardo sull’orario di apertura dello studio e non poteva attardarsi su tali inezie. Sterzò bruscamente alzando un polverone, poi depose l’auto nel solito angolo, all’ombra del castagno, e lì avrebbe voluto arrestarsi, sdraiato sull’erba a godersi la frescura. Apollonia, oramai designata come l’incarnazione del dovere, lo attendeva in cortile, l’abito nero a fiori bianchi e il grembiule da giardinaggio, lo osservò con disappunto, non era propriamente in ordine, e come al solito non si era pettinato. “Beh! Vorrei vederla sistemata un po’ meglio quando l’ambulatorio è di pomeriggio, ha avuto la mattina intera per svegliarsi. E non mi dica che tanto si mette il camice! Vada a vedere come ho lustrato lo studio, ho messo un vaso di fiori sul tavolo. Dovrebbe considerarlo che tutto aiuta ad alleggerire le magagne della gente! Bisogna pensarci a queste cose.” “Come al solito sono in debito, ma vede oggi ho alcuni pensieri in testa che mi disturbano e finché non ne vengo a capo, non mi metto in pace.” “Ma quando mai lei sarà in pace! Bisogna prendere le cose nel giusto peso! Non starà pensando ancora alle tre vecchie? Ce ne sono di matti in questo paese, ma quelle hanno superato tutti! Se le è prese il demonio, isolate e fanatiche, ignoranti ben indottrinate da quella testa malata della Vendramini. Ma vada, vada, ha già tre persone in attesa, compreso Santi.” A testa bassa Giacomelli inforca le scale, appena varcata la porta d’ingresso un profumo intenso gli riempie le narici, dal vaso in cristallo si slanciano i giacinti, inebriano; scuote il capo e saluta i pazienti, poi si infila nello studio.
Due vecchie e il Santi, spera d’iniziare da lui, poi si disporrà con pazienza alle chiacchiere, perché di questo sostanzialmente si tratta, tutta una medicina dell’ascolto, solo così i farmaci, l’alchimia della chimica, funziona. Lo studio è il suo guscio di tartaruga, e si sente a proprio agio: la scrivania in castagno dalle forme barocche, le poltrone di pellame scuro, la libreria a parete stipata di volumi, chiusi da un vetro intarsiato, il pavimento in cotto, coperto da un tappeto amaranto, e le pareti nocciola scuro che avvolgono il visitatore. Ma la perla è il soffitto, ridondante di stucchi, affrescato ai lati con una florida vegetazione di tralci marroni e verdastri, una sorta di pittura sullo stile trompe l’oeil, teso a rigettare in spazi naturali. Tocchi d’arredo d’altri tempi, mobilio del palazzo che al Giacomelli non dispiace, a costo di pagare l’affitto maggiorato; unico intruso il lettino che spicca sulla parete di fondo, l’ha cercato rivestito di un grigio scuro per integrarlo all’ambiente. Un contesto particolare, capace di alimentare la sua fervida immaginazione, consentendogli di associarsi alla romantica figura del dottor Andrew Manson. L’uno esercitava la professione in una perduta cittadina del Galles a contatto con la gente di miniera, mentre lui è perso in oscuro borgo di provincia, entrambi accomunati da sincera dedizione filantropica: sinché gli eventi non intervengano a corromperla. Il camice sta sull’appendino, come al solito impeccabile, Giacomelli si bagna le mani per sistemarsi i capelli, accende il computer, respira profondamente. Senza più tergiversare si alza, si affaccia con sguardo indagatore nella saletta d’attesa: avanti il primo! Le due donnette ciarliere non si muovono, bene, tocca al Santi. Una sbirciata allo specchio d’ingresso gli rimanda un’immagine accettabile, certo i cappelli sulla nuca sono irti e cespugliosi, dovrà rassegnarsi alla brillantina, roba d’altri tempi, che però avrebbe il vantaggio di avvicinarlo agli usi del dottor Manson. Ecco il primo minatore, la faccia nera di fuliggine, la camicia unta e il respiro corto, rotto da una tosse tubercolotica.
La stretta di mano decisa e prolungata di Danilo Santi, depone decisamente a favore della sua salute. La conversazione si avvia e dopo i convenevoli, inaspettatamente il contadino gli chiede qualcosa per dormire, non bastano i bicchieri di rosso a intontirlo; deve togliersi dalla capoccia le Puntute che lo tormentano, seppure non sia per nulla avvezzo all’uso di pastiglie per addormentare i pensieri . “Niente di forte, non voglio diventare dipendente o drogato, ma me le vedo sempre davanti, stecchite insieme alle carcasse dei gatti. Oppure mi dia qualcosa per far cambiare pensieri a mia moglie, è come un maglio che batte sempre sugli stessi argomenti! Che cosa può capirne lei di gente con problemi di mente. Neanche nei campi mi ano i pensieri. Comunque io non ho nessuna responsabilità su questi fatti, anzi sono stato l’unico ad aiutarle per tanto tempo facendo la spesa. Chi poteva immaginare una follia del genere!” “Sulla questione mi rodo anch’io, e sono certo più responsabile di lei. Se ripenso al fetore insopportabile della villa faccio fatica a toccare cibo. Ci vorrà tempo per liberare la mente da certe immagini! A proposito, il maresciallo l’ha più sentito?” “Ogni tanto mi chiama, per un dubbio, un chiarimento. Quello che sapevo delle Puntute e del Mariani l’ho raccontato, ma la storia non è mai finita, ci sono particolari, fatti che mi vengono in mente così di colpo, il cervello lavora sempre lì. C’è poi la questione del santone, l’amico della Vendramini, pare che nessuno l’abbia realmente visto in giro, forse il Capitano, lui le strade le bazzica giorno e notte, ma non sarà facile interrogarlo.” “La storia del santone l’ho sentita da Apollonia, che a sua volta l’ha origliata in giro, non so da quante bocche sia ata, però ha il suo fascino, e potrebbe avere qualche aggancio reale.” “Un prete spretato, si dice,” Santi incalza sul tema, “una sorta di demonio in carne e ossa piovuto a Barrio sotto mentite spoglie, così ci ricamano le zitelle. Guai se si fanno questi discorsi a don Fortunato, lui di demonio parla raramente. Tempo sprecato fare certi discorsi lasciandoli in balia delle menti suggestionabili di paese, meglio usare la ragione, guardare i fatti, rimboccarsi le maniche, essere concreti. Non è un prete troppo spirituale e per me va bene così.” “Questo santone viene descritto come un uomo di fascino, alto, vestito di scuro,
con l’immancabile barba e i cappelli lunghi ricadenti sulle spalle. Qualcuno parla anche di una sciarpa, viola, come segno distintivo; ha sentito?” “Discorsi insulsi che girano,” chiarisce con sicurezza Santi, “qui le menti fervide hanno riprodotto pari pari il Cristo della Sindone, con tanto di sciarpa quaresimale. È il nocciolo duro delle pettegole, perché perdersi a guardare le soap opera in TV, quando se ne può costruire una sotto casa?” Il discorso prende una piega gustosa, medico e contadino non del tutto scevri dalla ione d’indagare nel torbido, affondano nell’argomento, ma l’orologio macina i minuti e il dovere chiama. Le vecchie in sala d’attesa tossiscono con insistenza, segnale inequivocabile che è ora di congedare il contadino, certo hanno fretta, non si sa perché poi, ma bisogna pure affrontarle!
IX
Scatta il fatidico pomeriggio, il Giacomelli si dirige alla villa con molto anticipo, estenuato dalle salite tortuose del borgo, ha il fiatone, ma l’ha voluto lui! Quasi per punirsi aveva deciso di percorrere il tragitto a piedi, il clima è arroventato, si muove ansimando, riparato solo dal provvidenziale cappello con frontino, una soluzione rispolverata da poco per nascondere la sua zazzera anarchica. Sotto braccio un quotidiano di qualche settimana fa, dove un cronista più sagace aveva annotato:
Tutto è sicuramente collegato ad aspetti religiosi, le tre sorelle credevano nella resurrezione. C’è anche questo aspetto da valutare, ma per ora gli inquirenti non possono dire di più. Nella casa, infatti, sono stati trovati moltissimi oggetti e immagini sacre.
Non si presentava di certo impreparato, da giorni oramai le sue ricerche si erano orientate sulle sette religiose, prima ancora della chiamata del Tanni, già il tema lo intrigava non poco, un universo da indagare, uno scaffale della sua libreria da riempire con volumi inediti. L’indagine si concentrava sulla resurrezione dei corpi, né inumati, né cremati, dovevano giacere esposti, sino al aggio alla nuova vita. Certo il tema degli angeli, seppure presente nel diario di Faustina, lo apionava meno, lo valutava fuorviante. Dopo essersi impegnato in febbrili ricerche d’archivio, focalizzò decisamente l’attenzione sulla comunità degli Esseni, a questa deriva era approdato seguendo le filosofie incentrate sulla risurrezione dei corpi.
Le notizie sulla comunità religiosa degli Esseni le aveva ricavate dai resoconti degli storici antichi Filone Alessandrino, Plinio il Vecchio e Giuseppe Flavio, che fu egli stesso discepolo esseno. Ma navigando ancora più indietro nel tempo andò a cozzare pure con la filosofia zoroastrista, un vuoto enorme di conoscenza da colmare e chissà dove l’avrebbe condotto questa sua nuova avvolgente ione. Una pulsione incontrollabile lo investiva, sedotto dal fascino della comunità degli Esseni: uomini dalla vita appartata e solitaria, che a partire dal secondo secolo avanti Cristo si ritirarono in comunità isolate di tipo monastico e cenobitico. Al tempo di Gesù se ne contavano quattromila, dispersi nel territorio della Palestina. Ma di certo lui, potendo viaggiare nel tempo, sarebbe appartenuto al gruppo dei centocinquanta di Qumran. Già si vedeva con lunghi cappelli e la tunica bianca, vivere fuori dal consesso sociale, rigorosamente vegetariano, consumare pane, radici selvatiche e frutta, nel ruolo di medico e guaritore, in una condizione di rigido celibato in compagnia del fedele cane, ma si sarebbe rassegnato anche a sostituirlo con una pecora. Una sorta di Giovanni Battista, barbuto e fascinoso, ma senza l’obbligo di convertire nessuno. E che pensare poi della mirabile biblioteca costituita da questi eccentrici monaci, nascosta nelle grotte per salvarla dall’impeto distruttivo dei Romani? Là, lungo le rive del mar Morto, Giacomelli, ormai esseno per volontà e simpatia, celava i manoscritti comunitari negli antri riparati, e certo non sarebbe finito a combattere con gli Zeloti, fedele sino alla fine alla filosofia che aveva sposato, avrebbe accettato il martirio pur di non impugnare la spada. Si pensi che gli Esseni, convinti pacifisti, non usavano violenza nemmeno verso i cibi, li assumevano crudi, la cottura era quasi una brutalità che avrebbe potuto alterarli! Ma certo quest’interpretazione un tantino forzata va ascritta all’animo sin troppo romantico del nostro Giacomelli. Uno sputo violento e abilmente lungo si ferma poco discosto da lui, sull’erba secca, colpendo il ciglio della strada, un lancio studiato, né troppo vicino, né troppo discosto; il Capitano lo fulmina con lo sguardo, catapultandolo nel giusto ambito spazio-temporale. Ha appena imboccato la salita della villa e già si intravede la sagoma della costruzione, ma che ci fa il Capitano proprio lì? Pare sia dotato di un senso
affinato nel fiutare i punti cruciali, è una figura che lo disturba, uno che sa troppo e tace, ma prima o poi potrebbe vomitare fuori tutto senza pietà. Giacomelli abbozza un cenno di saluto, ricambiato da un sonoro rutto, Tarcisio Corsini, ha la faccia di un rosso , può trattarsi della fatica, del caldo o della componente alcolica, lo sguardo è torvo, quasi aggressivo, forse ce l’ha proprio col Giacomelli, ma perché poi? Il Capitano si ferma, blocca la sua imponente figura e lo squadra per qualche interminabile secondo, il Giacomelli coglie un possibile messaggio del tipo: “Vai a fondo e dai un senso a questa storia” oppure “Lascia le cose come stanno, ogni sforzo di cercare la verità è vano”. Comunicazioni contraddittorie, ma d’altra parte chi può tradurre i pensieri del Corsini. Finalmente se ne va, lasciando un certo nervosismo nel dottorino, repentinamente deviato dalle sue auliche fantasie. Il sole picchia inclemente sulla sua nuova identità di Giacomelli, monacoesseno, cioè il puro, il bagnato, il silenzioso, o forse il pio, di fatto non c’è accordo tra gli studiosi sull’etimologia del nome.
Eppure nonostante si sforzasse di orientare il diario di Faustina sulle filosofie esseniche, doveva ammetterlo, molti dati non quadravano, ci rifletteva macinando a brevi i l’irto percorso. Certo si poteva arguire che le Puntute con la Vendramini, l’oscuro santone e i pochi altri adepti sconosciuti, avessero oltremodo deformato il pensiero dei monaci, tirandolo dalla loro parte, ma nemmeno a pensarla così, l’associazione risultava sensata. Eppure la loro teologia includeva il credo nell’immortalità dell’anima: gli uomini avrebbero ricevuto indietro le loro anime, ma comunque il problema dei corpi non quadrava. Le Puntute aspettavano lì, in loco, la risurrezione, pronte, adagiate nei modi che ritenevano più consoni, attendevano di essere prese. Pazienza, avrebbe dovuto rassegnarsi a dare attenzione al persiano Zoroastro, catapultandosi settecento anni prima di Cristo, è già dal nome gli appariva poco simpatico, una parola disarmonica, aggrovigliata da pronunciare. Ma attuando un’analisi comparata delle due filosofie, seppure soltanto in modo abbozzato, aveva scoperto delle interconnessioni: pensiamo alla tematica della guerra incombente con i Figli del Buio, combattuta dagli Esseni in quanto Figli della
Luce, ciò testimoniava a suo parere quasi certamente un’influenza dello Zoroastrismo sul pensiero esseno. Dunque, il contatto era per lui assodato, si trattava soltanto di approfondire la questione. Che il Giacomelli fosse predisposto allo studio della filosofia era un dato innegabile, a suo tempo l’indecisione sugli studi da prendere lo condusse a un sofferto discernimento tra filosofia e medicina. La distanza tra le due opzioni era evidente per tutti, ma non per lui, che alla fine lanciò la monetina lasciando che il destino segnasse la sua sorte. Ma i vecchi amori non si abbandonano mai, e il medico-filosofo non aveva perso l’abitudine per le elucubrazioni mentali. Il profumo inebriante delle ginestre, un’essenza che cattura anche gli animi più distratti, indica che la meta è prossima, una nuvola gialla illumina i dorsali bassi dei colli: palazzo Vendramini si intravede dietro la macchia madreperlata degli ulivi. L’edificio, allo stesso tempo solido ed elegante, sapientemente integrato nel paesaggio, provocava una certa invidia al visitatore, una rabbia malcelata verso quei posti ameni che molti debbono osservare soltanto dall’esterno. Dal palazzo la veduta sui colli catturava in modo speciale, era forse questo il pregio maggiore del palazzo, incastonato su un lieve pendio, una cornice che lo rendeva incomparabile e senza prezzo. Proseguendo la strada sul lato destro della villa, si entra gradualmente nella macchia, la pavimentazione in porfido si estingue conducendo ad uno slargo arricchito da una fontana: la Fontana della Ghiandaia. Affiancato al getto d’acqua si erge uno scalone dai gradini semi divelti in trachite, percorso il quale, si imbocca finalmente il sentiero del monte Pizzuto. La fontana è quanto di meglio si possa sperare dopo l’irta salita, ne scaturisce un’acqua gelida, scavata dalle profondità del monte; scolpita sulla pietra scura, una ghiandaia, col becco corto e robusto, alza le ali chiazzate di blu, sistemando le ghiande come scorta per l’inverno. Giacomelli affianca la villa, davanti al cancello non c’è anima viva, è arrivato con venti minuti di anticipo, decide di salire sino allo slargo e bere l’acqua di
monte. Finalmente si toglie il cappello, getta il capo sotto la fonte e assapora il refrigerio, appena in tempo, in basso si sente lo stridio dei freni, l’auto del maresciallo è arrivata, Giacomelli si avvia a ridiscendere. Divaga con i pensieri considerando di buon auspicio dedicare la fontana alla ghiandaia: la sentinella del bosco che in caso di pericolo getta un grido di allarme mettendo in guarda gli altri animali. Qualche conoscenza ornitologica l’aveva maturata proprio in occasione della sua condotta nel borgo. Appena giunto a Barrio, si era proposto di addentrarsi nella macchia dei colli, deciso a conoscere la natura incontaminata, tutto serviva a penetrare l’animo sprangato dei barrioti, si sa quanto il contesto influisca nel forgiare i caratteri. Aveva assunto notizie sulla morfologia, l’origine, l’orografia e l’idrografia dei colli, nonché su flora e fauna locali, riuscendo ormai a discernere almeno una decina di specie arboree. Procedeva nella discesa cercando di frenarsi piantando bene i talloni, alle spalle fiutava il sentore dolce e malinconico della robinia, una pianta estranea alla flora europea, importata agli inizi del Seicento come specie ornamentale, che si era però sin troppo diffusa a scapito del castagneto e del querceto. Un ultimo rio mentale agli alberi identificabili con le sue attuali conoscenze: pioppo, carpino, nocciolo, castagno, rovere, gelso e spino di Giuda, compresi arbusti e cespugli: biancospino, cisto, caprifoglio, ginepro, viburno, un allenamento utile a fargli superare quel fastidioso senso di mediocrità che a tratti lo opprime. Frena la corsa appena in tempo per non sbattere il muso sul cancello, Tanni e Vedova sono già entrati, scruta attraverso bifore e trifore, ma non si vede nulla, dovrà suonare e affrontare l’alter ego della Vendramini; non gli resta altro da fare. Preme con forza l’indice sul camlo, deciso a essere affermativo, dopo un lungo istante, scatta la serratura, percorre il viale d’ingresso, appena all’interno del portone lo attende l’alter-ego, ferma come una statua di marmo. Non si
riteneva certo un uomo basso, sfiorava il metro e ottanta, eppure la guardia del corpo della Vendramini, lo sovrastava di almeno dieci centimetri. Il resto del fisico non era da meno, due spalle impressionanti, braccia solide appoggiate sui fianchi, almeno un quarantadue di scarpe faceva da appoggio a un paio di arti inferiori forgiati con una muscolatura salda, viso ampio, zigomi alti, occhi tagliati a mandorla, chiari dal lampo fulmineo. Occhi da kirghisa, pensa il Giacomelli, colpito da reminiscenze letterarie, utili a mitigare l’insieme del donnone, cogliendone un qualche fascino nascosto. Zina, abbreviativo di Zinaide, con un cenno del capo lo invita a entrare e senza preamboli lo conduce in sala. Il corridoio è una distesa di tappeti, manco un angolo libero, le pareti tappezzate di quadri, oli su tela, stampe antiche, incisioni, bacheche con raccolte di monete e porcellane d’autore, un insieme ridondante che il medico scruta di sfuggita, seguendo l’andatura decisa del donnone. L’energumena lo squadra e inizia a parlare, ma cosa dice? Il medico annaspa, aguzza gli orecchi e cerca di decifrare la lingua, cruda ed essenziale della donna. Si tratta in sostanza di decise ammonizioni, proferitegli proprio sull’uscio del salone: non deve stancare la padrona, la Vendramini ha perso l’uso della parola, ma... chissà, forse capisce! Poi il Giacomelli percepisce frasi sibilline intervallate dalla netta affermazione: “Io comprendo tutte sue necessità,” più volte ripetuta. Altroché, se la comprende, pare che vivano in simbiosi, l’una il giusto compendio dell’altra. Cosa c’entra poi l’affermazione, che la padrona è molto bene curata dal primario. L’ha forse messo in dubbio lui? Assalito da una rabbia montante, il dottorino procede a larghi i con il volto in fiamme, masticando la frase: “Non fare visita medica alla signora”. Forse, gli è solo parso di sentirla, di certo ha capito che Zinaide alzerà la padrona e la porterà vicino al terrazzo perché ammiri il panorama. Tutte prescrizioni salutiste dell’insigne primario.
Giacomelli non sente nemmeno il nome del neurologo, futuro sindaco, un filtro cerebrale lo elimina istantaneamente, non altrettanto efficace pare il controllo del sistema limbico e già cova vendetta. Memorizzate le indicazioni sferzanti e decise, entra nel salone e fissa l’insieme che gli si presenta: Tanni è in piedi, di spalle, rivolto verso la libreria, Vedova deposto sul divano succhia un confetto, attingendo da un coppa in cristallo alla sua destra, poggiata su un tavolino in radica intarsiato. Si intuiva dallo sguardo febbrile e ondivago dell’appuntato come fosse sedotto dall’ambiente: affreschi, stucchi, ricercatezza di vasi, porcellane, cristalli, lo lasciavano evidentemente turbato, avvinto dal fascino calamitoso del lusso. Il Tanni era riuscito a sconfiggere il malanimo del cane da guardia, senza particolari mandati, e ora i tre avrebbero potuto osservare da vicino la nobiltà svagata della Vendramini. Una stretta di mano energica e un moto di condivisione pervade la triade che repentina commemora il giorno del ritrovamento, con il fetore annesso. “L’ho vista salire oltre la villa, poco fa,” esordisce Tanni, “certo il clima invita a stare all’aperto, ma il dovere ci chiama altrimenti.” Lo sguardo del Tanni si posa sulla guardiana, statuaria, non accenna a muoversi, né proferisce favella. “La signora Vendramini possiamo vederla dopo, se è in grado di alzarsi?” Non riceve risposta, per cui riprende: “Intanto diamo un’occhiata alla biblioteca e ai documenti, se non le dispiace, eventualmente chiediamo qualcosa a lei”. “Inutile domandare a me, non ho risposte da dare!” Decifrando il tono tagliente si riesce a sapere che tra un’ora la Vendramini si alza, dopo colazione, comparirà in salone per guardare dal balcone. Poi scatta l’ora di pranzo e quindi prima delle tredici precise, è necessario togliere il disturbo. Madame Zina Chauchat, con andatura per nulla sinuosa, manco aggraziata, si sistema sulla sedia damascata accanto alla porta d’ingresso della sala, e tacita controlla la scena. A suo tempo l’autentica Claudia Chauchat aveva scatenato le fantasie sessuali
del Giacomelli adolescente, avvinto nella lettura de La Montagna Incantata, pur di starle accanto avrebbe accettato anche la tubercolosi, ma, in questo frangente, non era il caso di divagare. “Chi decide per la Vendramini?” chiede Giacomelli. “Non sarà il primario ad avere la procura sui beni?” “Tutta la gestione del patrimonio è affidata all’avvocato Cuomo, erede di una famiglia notarile che si tramanda la cura delle proprietà Vendramini. Ci sono terreni sul monte Pizzuto, a Collechiaro, Montefiorito e Collelungo.” Tanni parla liberamente, senza farsi scrupolo della guardiana. “Nessuna coltivazione, solo macchia e zone boschive, dopo la morte dei genitori, Zita ha chiuso con la produzione di viti e olivi, lasciando i terreni liberi di vegetare spontaneamente; della serie, non poniamo freni alla natura! Ma il vero patrimonio è racchiuso nella villa, tele preziose, mobilio d’epoca, vasi, maioliche, porcellane, collezioni di monete, gioielli, e soprattutto volumi pregiati nella biblioteca che vedete in questa stanza. Contiene circa novemila volumi, vi sono opere originali, un incunabulo, cinquecentine e seicentine, manoscritti accuratamente miniati, incisioni realizzate con maestria e molto altro che ora non ricordo. L’avvocato Cuomo mi ha consegnato un inventario dettagliato.” Giacomelli freme e si avvicina alla libreria in noce massiccio, gli scaffali raggiungono il soffitto, copre quasi un’intera parete della sala, rischiarata dalla luce diretta delle finestre: quattro ampi infissi, coperti da tendaggi di un caldo avorio. Si tratta di una tela lieve e frusciante composta da sete e pizzi pregiati, sormontata in alto da una sopra tenda in velluto con rilievi damascati, ai lati un cordone turchese la fissa, terminando con un nodo piumato. L’imponente biblioteca è tutta un gioco d’intarsi, le venature del legno si diramano nell’intreccio scandito dai chiaro scuri; i libri, protetti da una vetrina opalescente, gettano il dottore in uno stato di repentino smarrimento. Giacomelli si riprende, apre un’anta a caso e sfiora con due dita i dorsali spessi dalle copertine di cuoio: nere, marroni, amaranto, scruta i caratteri dorati, smania di incorporare in breve titoli ed autori. Ormai è catturato, si muove come in trance, teso a individuare i criteri di catalogazione di quella straordinaria raccolta di sapere. Il confronto con la propria collezione di libri è inevitabile, reprime una punta
d’invidia per non possedere origini nobiliari, di certo avrebbe poi detestato il fatto di essere un privilegiato, immerso dentro una massa d’ignoranti miserabili. Ma intanto incolla la faccia su un enorme librone aperto, sostenuto da un leggio: giganteschi fogli di pelle d’agnello, vergati a caratteri d’inchiostro scuro, con miniature mozzafiato. “Questo volume può pesare trenta chili, è un corale, ci sono le note per guidare i canti, i monaci li appoggiavano in leggii imponenti.” Come di consueto, Giacomelli parla tra sé, piombando nell’atmosfera di un convento, mentre nel freddo refettorio canta le lodi prima della frugale colazione. L’appuntato Vedova, seppure seguendo altri orizzonti non è da meno, stanco di succhiare confetti, ritemprato dagli zuccheri appena assunti, prende forza e a a esplorare la sala. Vaga scrutando le pareti, l’eccesso di stimoli spiazza la sua curiosità, non sa dove iniziare: quadri, mobilio, lampadari, tende, tappeti, soprammobili. Si inchioda, chissà perché, davanti a un assurdo tavolino addossato al muro con specchio annesso. “È una consolle,” lo rassicura Tanni, che lascia ai due il tempo di adattarsi all’ambiente. “Qui dentro domina lo stile Rococò, roba di gusto se, raffinato e arzigogolato, l’epoca è a cavallo tra Sette e Ottocento.” Si dà arie perché ha sottomano l’inventario del Cuomo, pensa Vedova, il maresciallo continua a dar voce a presunte conoscenze. “Quello tra le due finestre è un trumeau, il legno è abbellito con avorio e squame di tartaruga, in basso ci sono i cassetti e a metà una ribalta sormontata da un’alzata.” Perché, non lo vede anche lui come è fatto, occorre sottolinearlo? Solo per darsi un tono con il dottore, che comunque ha uno sguardo allucinato, prende e rimette libri dagli scaffali, sembra un invasato. Indeciso tra ottomane e sofà, tavolinetti tondi e angoliere, l’appuntato fissa la consolle con frenetica curiosità. Le gambe arcuate, terminano con quattro piedini girati all’insù, una mezza luna arzigogolata d’intarsi, intagli e decori floreali le unisce, salendo in un gioco di
decorazioni con foglie e rami lussureggianti, sino al piano in marmo bianco. Al centro del tavolo, sulla cui utilità Vedova si arrovella, in quanto privo di qualsiasi praticità, è collocato un vaso nero dai bordi dorati, all’interno vi è sistemato un fascio di rose scarlatte con gli steli ritti e composti, i fiori si riflettono sulla specchiera che riprende i fregi del mobile. Tanni studia alcune cartelle di documenti appoggiato a uno scrittoio, osserva le cartoline ingiallite, poi a alle foto di famiglia, con gli avi della Vendramini, lei però non c’è, a eccezione di uno scatto in cui sta in braccio alla madre. Neppure di epistole si vede traccia. Tutte bruciate dalla Vendramini, prima che Cuomo potesse intervenire, il falò delle missive e di altri documenti segnò l’intervento più deciso dell’avvocato, con l’accompagnamento forzato della nobile Zita all’integerrima badante Zinaide, rivelatisi persona adeguata al compito. “Tra le manie della nobildonna c’era quella di non farsi ritrarre! Stramba e iconoclasta,” rompe il silenzio il maresciallo e si rivolge alla guardiana. “Ha per caso trovato da qualche parte delle foto della signorina? Potrebbero essere sfuggite al falò, magari ripresa con gli amici, quelli che frequentavano la casa?” “Niente foto nella villa.” Dopo l’essenziale risposta a Tanni insiste: “Alla signorina non piace foto, tutte bruciate”. Tanni non si perde d’animo facendo notare al donnone che quelle dei genitori si sono salvate. “L’ho fermata in tempo, quando deciso di distruggere anche quelle.” Che tempismo, la Vendramini svanita avrebbe potuto appiccare fuoco alla sua preziosa libreria, Tanni avrebbe voluto approfondire il tema, ma improvvisamente la guardiana si alza ed esce dalla stanza, senza proferire verbo; sarà tempo di alzare la vecchia. “Conti e contratti ormai scaduti, nulla di interessante da queste carte, niente immagini, né testimonianze significative da quanti siamo riusciti a contattare.” Tanni pensa ad alta voce, come di consueto, aspettando che qualcuno intervenga nel suo ragionamento portando un contributo.
“In base a quanto abbiamo raccolto possiamo definire due fasi nella vita della Vendramini; l’attuale condizione di malattia dall’evoluzione infausta, la mettiamo al terzo posto. La prima fase è segnata probabilmente da spensieratezza, caratterizzata dalla ricerca di relazioni, gli intrattenimenti con personalità della cultura e dell’arte, riproducendo una nobiltà d’altri tempi, ottocentesca. Poi d’improvviso cessano gli interessi sociali, la nobile non compare più in paese, il prete parla di un’irreversibile chiusura, accompagnata dall’interruzione dei contatti con la parrocchia, rinnegato ogni legame con la chiesa. Si intensifica parimenti il rapporto con le Mariani e con altre figure di cui non sappiamo, tutto è definito dalla necessità di occultare. In compenso il Cuomo registra significative uscite di danaro, si moltiplicano gli assegni intestati a nomi fittizi, tanto da determinare un suo intervento deciso con la Vendramini.” Nessuno dei due interloquisce, pertanto Tanni procede con la sua ricostruzione. “La Vendramini, non fornisce spiegazioni esaurienti al notaio; le somme, sostiene, vanno a persone responsabili di enti di beneficenza. Il Cuomo blocca gli argini giusto in tempo, a poco valgono le proteste della signorina, che vista la mal parata, inizia a vendere oggetti e arredi, sinché l’annebbiamento mentale frena ulteriori erosioni.” “Si sarà portata in casa qualcuno capace di giocarsi bene le sue carte: sedotta la nobile svampita, ha sapientemente fiutato l’affare. Che ci vuole poi a infinocchiare una donna sola?” interviene Vedova, che ormai ha familiarizzato con l’ambiente, superando quel fastidioso senso d’inferiorità indotto dalla manifestazione del lusso. “Se poi si era accompagnata alle tre bellezze stecchite, il terreno era ancora più malleabile.” “Ti ricordo che una è viva, seppure non presente alla realtà.” “Ecco, appunto, se non è presente è come se non ci fosse... Ma questo presunto santone quanto si sarebbe messo in tasca?” “Parecchio, secondo l’avvocato, tanto da vivere tranquillo, senza necessità di mettere in scena un’altra truffa. Ma con un identikit poco attendibile, non possiamo fare molta strada.” All’interno di un’angoliera, l’appuntato, sempre in moto lungo la sala, scopre alcuni animali imbalsamati, o forse li fiuta, avendo ormai fissato in memoria quel sentore di bosco, umido e pungente in cui si infiltra una punta di tannino.
Tutti uccelli rapaci, che a parere del Vedova portano male; urge esorcizzare l’influsso nefasto. Per fortuna manca la civetta, il cui canto, secondo un detto popolare spesso ripreso da sua madre, preannuncia una morte imminente. Nel ripiano più in alto è collocato uno sparviero, sul secondo scaffale una poiana affianco a un gheppio, sul terzo un allocco e un gufo. A parte l’allocco, gli sembrano tutti piuttosto simili, nella targhetta, oltre al nome di ciascuno, compaiono alcune notizie, del tipo: testa piccola, becco adunco, apertura d’ali, predatore, abitudini di vita. Lo sparviero lo fissa, le iridi scure e la sclera gialla, ma cosa vuole da lui, spaventarlo? Abbassa lo sguardo e osserva il piumaggio cinerino scuro, con striature rosso-ruggine in basso e le zampe che paiono vive. “Guarda qui, deve essere l’angolo dei Mariani, li avrà cacciati il padre Filomeno o Filiberto o Filippo, mi perdo nei nomi,” sbotta Vedova. “Avrà rappresentato simbolicamente i componenti di famiglia, un dono alla Vendramini, amante della natura.” “Il padre delle tre vecchie è Filiberto Mariani, ricordati il ritratto nell’ingresso della villa, per memorizzare devi attaccarti a un particolare, il nonno anch’egli cacciatore era Filomeno Mariani; fu lui, secondo quanto mi disse Santi, a insediarsi a Barrio, dando avvio alla ben nota dinastia. Visto il tuo interesse per la selvaggina, mi chiedo se non vorresti anche tu un uccello imbalsamato da sistemare in casa? Credo che tuo figlio ci proverebbe gusto.” Prima di staccare il muso dalla vetrina, Vedova fissa la poiana, tozza, con il capo incassato fra le spalle, e legge le informazioni: predatore che di solito caccia in territori aperti, si nutre di piccoli mammiferi e di carogne di animali. Bene, notizie edificanti, si a poi al gufo, uccello del malaugurio, l’unico che si salva è l’allocco, ha un’aria decisamente buffa, le piume fulve, macchiettate e striate, pare innocuo, con il capo tondo e l’espressione ingenua, da grullo. “Il credo religioso che univa le Mariani con la Vendramini aveva a che fare con gli animali?” Tanni avvia la riflessione ad alta voce, dal carattere autoreferenziale, poiché ognuno pare invischiato nei propri pensieri. “A mio parere è probabile, infatti nel diario della minore, compaiono riferimenti alla civetta, insieme a visioni di alberi antropomorfi, rami che si intrecciano, avvinghiano e avanzano. Dunque c’è sicuramente una personificazione della
natura, una visione animistica. Lei può darci un qualche aiuto dottore?” Tanni si rivolge a Giacomelli per riconnetterlo al reale: “Ha trovato qualche volume interessante?” Il dottorino sta in piedi, addossato alla parete della libreria in stato catartico, poggiato agli arti superiori, un libro dal dorso consunto, le pagine ambrate e maculate, gli occhiali paiono vibrare di una tensione spasmodica, il medicoalchimista sicuramente viaggiava nel tempo. Ma esattamente in quale epoca si trova? Sta ascoltando il clavicembalo inframezzando la musica con leziose conversazioni in un salotto letterario? Oppure arringa gli invitati recuperando antichi insegnamenti d’Ippocrate? Tanni si avvicina scuotendolo, Giacomelli gli a il volume che tiene in mano, si tratta di una traduzione dell’Avesta, il prezioso libro sacro che raccoglie il pensiero di Zoroastro. “Ebbene, chi è costui, e in che modo il suo pensiero riguarda le nostre indagini?” Tanni, spazientito, cerca un indizio utile e non sterili elucubrazioni da patito dei libri. “Ma il legame è sin troppo evidente, pensi all’importanza di aver scoperto questo volume nella biblioteca della Vendramini, significa che tra i suoi interessi possiamo annoverare le filosofie orientali. Questo ripiano raccoglie libri di filosofia e religione, guardi lì le monografie del Buddhismo Mahāyāna e del Buddhismo Vajrayāna, più in basso il Canone tibetano.” “Senta mi sto perdendo. Giunga al punto!” “È incredibile! Ma vi rendete conto, qui è raccolta buona parte della sapienza orientale e occidentale!” Le dita frementi del dottorino sfiorano i dorsali dei volumi e ne evocano i titoli in una sorta di giaculatoria sacrale: i detti delle madri del deserto, i Rotoli del mar Morto, inedite concezioni religiose fenicie e puniche, approfondimenti sull’Islam e Sure coraniche, i sermoni di Meister Eckhart. Segue un vuoto di silenzio, dopo di che Giacomelli si rimpossessa fremente della traduzione dell’Avesta, cercando alcuni i, improvvisamente si ricorda del
quesito essenziale del Tanni e si prodiga in spiegazioni. Anche Vedova si avvicina, avido di sapere, questo assurdo caso sta alzando le sue quotazioni presso il figlio, ora avrà altro materiale di conversazione. “A proposito, lo zoroastrismo è una delle più antiche religioni dell’Iran antico, ha dominato per secoli in quasi tutta l’Asia centrale, il fondatore Zoroastro visse in Persia tra il Settimo e il Sesto secolo avanti Cristo. Mi ero già interessato alla questione da qualche giorno, seguendo lo spunto della risurrezione dei corpi, e ora la conferma! Credo di aver visto giusto, potrebbero essere proprio queste credenze a offrire riferimento alla Vendramini per i riti religiosi celebrati insieme alle Mariani.” “E secondo lei è sufficiente che ci sia un libro in casa perché venga letto? Lo sappiamo bene come funziona, si accumulano libri per una smania di possesso, per collezionarli, per fare bella mostra, ma poi non si degnano più di attenzione!” “Guardi, il testo è pieno di note a matita, ci sono anche sottolineature con colori diversi, segnalibri sparsi sui i di rilievo. Di certo è un libro usato, vissuto! Sono sicuro che è stato studiato con cura.” “Dunque cosa sarebbe questa Avesta. Un altro libro sacro, come la Bibbia per i Cristiani, il Corano per i Musulmani, ho capito bene?” “È il prezioso libro sacro che raccoglie il pensiero di Zoroastro, certamente.” È il momento di dettagliare le sue ricerche, il Giacomelli fa mente locale, bisogna sintetizzare, l’appuntato Vedova si assesta sul divanetto accostato alla libreria e prende appunti su un notes da caserma, il Tanni appare preoccupato. “Il nodo centrale di questa religione è la lotta tra bene e male. Agli inizi il dio supremo, infinito, onnisciente e buono, crea due principi contrapposti: lo spirito benefico, della luce, contrapposto a quello malvagio delle tenebre, che porta violenza e morte. Il conflitto è cosmico, agli uomini non resta che scegliere quali delle due vie seguire. Alla fine dei giorni il male sarà definitivamente sconfitto, il cosmo verrà purificato in un bagno di metallo fuso e le anime dei peccatori saranno riscattate dall’inferno, per vivere in eterno, entro corpi incorruttibili.” E qui L’appuntato non può tacere, già l’adesione alla religione cattolica lo prova
duramente sulla questione del male, e ora spara. “Ma? Voglio dire, per che cavolo di motivo un dio sommamente buono deve creare il male? Possibile che siamo sempre in queste condizioni con tutte le religioni? E le vecchie cosa speravano di ottenere con questi riti strani, o magari celebrando messe nere?” “Perché non li lasci a tuo figlio questi problemi da adolescenti? Carabiniere claustrofobico e anche filosofo, una rarità mai vista!” Giacomelli riprende il discorso non curandosi degli interlocutori, ha troppo da dire, le informazioni premono, martellano la mente e scalpitano per fuoriuscire. “Le notizie principali ci vengono dallo storico Erodoto, che ricostruisce i tratti chiave di questo culto, prima che molti testi sacri vengano persi con la conquista di Alessandro Magno. Nel Quarto secolo, grazie agli scambi commerciali, tale culto si diffonde, ma poi con l’avvento della religione musulmana lentamente perde la sua influenza. Secondo i principi di questa religione uomini e donne hanno uguali diritti all’interno della società, si condanna l’oppressione tra esseri umani! Devo ammettere però che alcuni datinon concordano con il quadro emergente dalle Mariani, ad esempio la crudeltà verso gli animali e il sacrificio a cui vengono condannati. Nel pensiero di Zoroastro c’è un positivo rapporto con la natura, rapporto che appare invece deformato nella pratica di vita dei Mariani.” “Hanno aggiunto di loro, è ovvio,” interviene l’appuntato, che segna impegnandosi alcuni appunti. “La Vendramini si è fatta un credo a suo uso e consumo, gente abituata a comprarsi tutto, anche la religione, salvo andare via di testa a causa delle stesse idee che ha a partorito.” “Ha già risolto il caso lui, ma invece veniamo ai corpi lasciati senza sepoltura. Dicono nulla queste filosofie in merito?” “Ma certo, Erodoto parla proprio dell’esposizione dei morti! Tutto il rito si concentra sull’anima della persona e non sul corpo, considerato impuro. Alla morte, l’anima lascia il corpo dopo tre giorni.” Giacomelli si inoltra nella descrizione, grattandosi la fronte, il ciuffo ribelle irto e spesso, si concentra sulla parte destra del capo, spaccato dalla restante chioma, a siglare la presenza di un’ambivalenza sotterranea in cui si trova
inesorabilmente diviso. “Il cadavere veniva esposto in luoghi aperti e sopraelevati, chiamati torri del Silenzio, dove l’avrebbero mangiato gli avvoltoi,” continua il medico. “Le vecchie le hanno mangiate i vermi!” sbotta Vedova. Il maresciallo lo gela con lo sguardo, l’appuntato tace, continuando a costruire mentalmente le inevitabili connessioni emergenti, a suo parere, tra i fatti, segnandole testardamente nell’agendina degli appuntamenti, destinata in via straordinaria allo scopo. Giacomelli riprende ormai infervorato. “Anche gli imperatori persiani Dario, Ciro, Serse erano zoroastriani, e sono stati spolpati dagli avvoltoi prima di essere sepolti nei rispettivi sepolcri, esporre i cadaveri era parte della loro tradizione. Si pensava che dopo la morte l’anima asse sopra un ponte sottile quanto un capello, se era innocente lo attraversava senza problemi ed entrava in paradiso, se invece era appesantita dai peccati cadeva nel fuoco dell’inferno che ardeva sotto il ponte. Qui c’è materia per viaggiare con la fantasia e modificare a modo proprio il culto. La Vendramini e il santone possono averci intinto il pennello per disegnare una personale interpretazione. È plausibile che sacrifici di animali vi fossero inclusi. Ma forse questa deriva poteva far parte della controversa personalità del padre delle Puntute: Filiberto Mariani.” L’appuntato tace appagato, la bocca semi dischiusa, misto di curiosità e pacificazione cognitiva, il maresciallo Tanni resta fisso in un silenzio interlocutorio. Giacomelli si era preparato sulla filosofia zoroastrista, interessando la rete bibliotecaria di zona per maneggiare varie traduzioni di Erodoto, ma non gli era riuscito di recuperare una qualche riproduzione dell’Avesta, il libro sacro. Ora assaporava il contatto fisico insostituibile con il volume ricercato. Era per lui un piacere sottile, quasi una sensazione magica toccare finalmente la pagina agognata. Benessere che seguiva a stretto giro la smania di possedere il libro, intraprendendo un’estenuante ricerca, rovistando le bancarelle dei più dispersi mercatini. Poi finalmente l’incontro!
Aveva già assaporato altre volte questo momento, dopo scrupolose indagini, subentrava un piacere raro, quanto indescrivibile: manipolare l’oggetto desiderato e renderlo proprio, considerare gli strappi e le chiazzature delle pagine quasi un’affezione acquisita in anni di traversie, un morbo che lui avrebbe potuto alleviare se non addirittura curare. Non era un qualsiasi pezzo di carta, bensì un messaggero del ato, un reperto transitato sulle mani di altri testimoni, ed ora finalmente deposto nelle sue. Soddisfatto di sé, riprende a dispensare informazioni, anche Vedova dimostra un certo interesse per l’argomento. “Un altro aspetto interessante è la festa del fuoco, elemento sacro fondamentale che rappresenta l’energia del creatore, i devoti di solito pregano alla presenza delle fiamme o comunque di fonti di luce. Durante i festeggiamenti si salta sopra il fuoco sacro, bruciando simbolicamente i peccati, il male e le malattie. Pare sia presente, tuttora, in India un antico tempio dove i fedeli si recano per meditare davanti all’eterno fuoco sacro che esce dalla terra.” Vedova è alquanto perplesso sull’esistenza di queste forme religiose ancora oggi, deve interrogare Giacomelli per togliersi un dubbio: “Ma zoroastristi se ne vedono in giro, a parte queste vecchie di Barrio, originali nelle scelte religiose?” Tutto sommato l’appuntato si era adeguato alla religione praticata in famiglia, senza rompersi la testa in affannose ricerche, la pratica si limitava alle feste principali, d’altra parte non percepiva nessun fervore o interesse. A suo tempo, magari in prossimità della vecchiaia si sarebbe occupato con maggiore intensità del problema. Comunque, oltremodo sollecitato da queste originali informazioni insiste sul punto interrogando il medico. “Le risulta che ne esistano ancora di Zoroastristi? Ma comunque come avranno fatto queste vecchie ad andare a parare su questa sponda, poi? Non potevano contentarsi del prete di paese, perché rompersi il cranio in cerca di altre religioni?” “Attualmente ci sono delle comunità zoroastriane, soprattutto in India, Pakistan e Iran, piccole comunità esistono anche in grandi città degli Stati Uniti, Canada, Gran Bretagna, Australia e anche nel nostro paese.” Puntuale Giacomelli sciorina dati, non senza godere nell’ostentazione della sua memoria infallibile. “Sono circa duecentocinquantamila i fedeli e il numero forse sale qui a Barrio, la
statistica si eleva! Chi l’avrebbe mai detto!”
Zinaide spalanca la porta, la vecchia compare in sala deposta sulla sedia a rotelle, la guardiana supera i tappeti guidando con maestria la seggiola, sposta la tenda e sistema la Vendramini dinnanzi alla finestra, lei si apposta con le gambe ben salde dietro la padrona, le mani appoggiate sulle manopole della sedia. Entrambe guardano all’esterno o meglio il capo della Vendramini è orientato verso il balcone, ma lo sguardo è perso nel vuoto. La luce intensa ne illumina il volto tondo, dai tratti distesi. La carnagione rosata è velata di cipria, sul mento riluce una peluria chiara appena percettibile. La nobiltà si distingue sempre, pensa l’appuntato Vedova, si nota la tranquillità, l’abitudine a non faticare, il confronto con il volto di sua madre è inevitabile, altro colorito, dentro un intarsio di rughe. La Vendramini, indossa un abito rosso con disegni scuri, sulle spalle uno scialle sostenuto da una spilla. Una coperta a chiazze variopinte sulle ginocchia. Tiene il capo reclinato di lato e lo oscilla con lieve insistenza. Muove la bocca e pare borbotti qualcosa, ma si tratta solo di riflessi incontrollati. Sulle labbra sottili un rossetto carico, lievemente sbavato per lo sfregamento, un filo di saliva cola di lato, pronta la mano ferma di Zinaide l’asciuga con un fazzolettone scozzese. Si può solo osservarla, soddisfando la propria curiosità, non c’è altra possibilità, l’appuntato Vedova sembra concentrarsi sulla chioma, alta e cotonata, tonalità di un biondo cenere, così ferma e composta da impressionarlo. Il dottorino si avvicina con circospezione e scruta con occhio clinico l’insieme, nota il tremito delle mani e il movimento del capo. La nobile Vendramini oscilla sul lato destro del corpo e bisogna costantemente riporla in asse per non farla scendere a picco. Anche lui scuote la testa e si defila, mugugna internamente, tanto a che serve, la vecchia si faccia pure curare da chi preferisce. Il maresciallo scambia qualche parola sottovoce con la guardiana e con gesto amorevole sistema la coperta della nobildonna, un animo sensibile il suo, e questo Vedova lo aveva colto sin dall’inizio, sotto la crosta del militare c’era del tenero. Cala un silenzio imbarazzato nel salone, ognuno pensa ai fatti suoi, un sole
corposo e invadente getta i suoi bagliori dai tendaggi, auspicabile presagio di luminose intuizioni. Sul ripiano di uno tavolinetto in ebano, con intarsi d’avorio, alcune scatole di farmaci inchiodano l’interesse del medico, bruscamente rinvigorito, prende a borbottare da solo, nel linguaggio clinico incomprensibile ai comuni mortali. “Sarebbe stato più opportuno ostacolare il processo degenerativo che distrugge le cellule cerebrali, provando a ripristinare i livelli fisiologici dell’acetilcolina, stimolando gli inibitori della colinesterasi, o sbaglio? Che ne dite, anche un profano condotto opportunamente sul tema può arrivarci?” Al Vedova gira la capoccia, eppure aveva evinto da qualche lettura l’esistenza di una barriera emato-encefalica da superare o meno, questo non lo ricordava, nonostante la voragine d’ignoranza che lo affligge, riesce a ribattere con un quesito sensato, visto che riceve risposta dal dottorino, seppure non quella che gli interessava. “Sì certo, attualmente l’interesse farmacologico si concentra sugli inibitori reversibili della acetilcolinesterasi: la Rivastigmina e la Galantamina, e non la Tacrina o il Donepezil che, come vede, il noto primario ha scelto di somministrare alla Vendramini. Perché secondo lei? Domanda retorica. Glielo spiego subito il motivo, Come mai somministrare queste compresse cariche di effetti collaterali, insonnia, aritmie, bradicardia, nausea, diarrea? Ma certo! L’intento è foraggiare determinate case farmaceutiche, quelle disponibili a oliarlo, tramite compiacenti informatori medici. L’insigne neurologo non perde tempo ad aggiornarsi cercando di sperimentare nuovi farmaci più efficaci ed economici. Anzi se ben ricordo è lui stesso che si occupa di formazione!” Mentre la mente del dottorino brucia di rabbia, un irritante orologio a cuccù batte le tredici, il gendarme, congeda freddamente i tre ospiti precedendoli all’uscita del palazzo. Il portone d’ingresso emana un infausto cigolio, avvolti da una nuvola di ulivi assaporano le luci abbacinanti, la natura calamitosa che circonda la villa blocca le menti della triade, risucchiando nel suo incanto i loro pensieri martellanti.
X
In un’ala della casa avevano attrezzato una chiesetta: c’erano alcune sedie, un tavolo che fungeva probabilmente da altare e una sorta di cassa in legno simile a un tabernacolo. Il prete-santone, di cui alcuni paesani parlano, poteva custodirvi le ostie.
Danilo Santi legge e mugugna sull’ennesima cronaca locale, ma dove le avrà tirate fuori quel millantatore le notizie? Se ci fosse stata una chiesetta, il maresciallo glielo avrebbe detto certamente, poteva essere magari nella veranda, dove i gatti avevano distrutto tutto, forse si trovava proprio lì? La sorella designata come custode della chiesa poteva essere Felicita, quella che in paese era stata soprannominata Civetta, secondo lui era di certo la più fuori di tutte, viveva in simbiosi con i felini, dimostrando più affinità con gli animali che con gli esseri umani. Nella sua dependance si potevano anche celebrare delle messe, nulla di strano. Ma il punto rimaneva: dove andavano a scavare le notizie i cronisti, qualche spione si trovava in giro, ma forse la fonte migliore rimanevano le vecchie petulanti e inquiete, cariche di aggressività mascherata, scaricata attraverso la loro lingua malefica. E il solito ben informato continua, giusto mettendo in campo anche lui, senza averlo manco contattato, ma comunque Santi non avrebbe proferito verbo con nessuno.
Le donne in casa avevano luce e telefono, pagavano le bollette con una RID bancaria. A portare loro da mangiare era un contadino della zona. La magistratura dovrà stabilire come mai nessuno si sia accorto di cosa stava accadendo.
Alla data del ritrovamento della più giovane delle Mariani, Faustina, in stato di denutrizione, nel frigorifero c’erano un vasetto di alici, del miele e niente altro di commestibile. La povera donna annotava nelle ultime pagine del suo diario: “Il mangiare sta finendo, non ne ho più per i cani. Il miele lo terrò tutto per me”.
Santi, sbatte il giornale, adesso si cade nel patetico, la povera donna, altroché, lo sa bene lui quanto fosse impossibile raddrizzare quelle teste! Ma poi c’è la frase che lo manda in bestia: Come sia possibile che nessuno si sia accorto di nulla? Facile scrivere, giudicare, commentare, anche a lui sembra tutto assurdo adesso, eppure cosa si sarebbe dovuto fare? Gli montava così la bile, già di primo mattino che neanche i campi lo avrebbero calmato. Le odiava quelle Mariani, avevano infamato anche il borgo; bisognava solo pazientare, gli diceva il prete, lasciar sbollire il clamore mediatico e tutto si sarebbe placato. Eppure a memoria d’uomo, si rammentava che tempo addietro il borgo era finito ancora agli onori della cronaca, poca cosa, nessun polverone, ma ora tutto riemergeva, sottoposto a quella strana attitudine del cervello umano tesa a collegare dati per trovare un senso agli eventi. Si trattava di strani ritrovamenti di animali, risalenti a decenni addietro, quando il padre delle Puntute, Filiberto Mariani, era ancora al mondo, e vagava, insieme da altri strambi, per le sue battute di caccia. Nei colli vennero rinvenuti resti di selvaggina squartata, abbandonata e lasciata a decomporre, nulla comunque al confronto di quanto sarebbe emerso poi, in quella che venne subito battezzata “la villa degli orrori”. Santi smaniava guidato da un pensiero fisso, ritrovare i ritagli di quotidiani che trattavano del caso, la fissa di documentare e raccogliere carte in fondo l’aveva presa dal padre. Contava di raccogliere materiale per il maresciallo Tanni, così da poter essere più esaustivo, offrire qualche dato più preciso oltre ai riferimenti alla propria memoria, tutto poteva servire a fare luce su questa inquietante vicenda. Uscì sul portico, si diresse verso la cantina, le carte del padre le teneva in una
credenza vicino alle botti, un luogo libero dalla direzione femminile, dove faceva quel cavolo che voleva. Poteva mettere via il bicchiere di vino senza lavarlo, asciugandolo sulla camicia, ingombrare la tavola di cianfrusaglie godendosi l’odore intenso del tannino. Suo padre aveva l’abitudine di raccogliere foto, fogli parrocchiali, riviste, cartoline, qualche lettera, quaderni decrepiti, il tutto in vecchie scatole di cartone e latta, ex contenitori adibiti in origine ad altri usi. Già la moglie gli aveva intimato di bruciare quella robaccia unta e inutile, ma lui era stato irremovibile. Le chiazze marroni si impadronivano ormai delle parole, senza però cancellare la strana magia provocata da quelle pagine, umili messaggere del ato. Atmosfere particolari evocate dai primi settimanali, riviste patinate che testimoniano usi e costumi desueti. Santi smanetta con cura i fogli, ripone, sistema, inforca gli occhiali e muove con un certa maestria le solide mani abituate a districarsi in altri campi. L’aria è secca e si bagna la bocca attingendo al bottiglione messo in fresca, intanto scova una serie di cartoncini, chiazzati di grasso, un libercolo artigianale che raccoglie le poesie in dialetto della madre, poetessa contadina che godeva di un certo riconoscimento in ambito parentale. Si tratta di rime scritte dove capita e ormai quasi illeggibili, segnavano gli eventi cruciali della vita familiare: battesimi e santi sacramenti, matrimoni e feste rituali, alcune lo riguardavano, e lui, anche adesso che va su con gli anni, gode sempre a rileggerle. Ma se le carte non si trovano, qualche dato pare riaffiorare nella mente del contadino accomodato sulla vecchia sedia impagliata, nella quiete inviolata della cantina. Qualcosa sui ritrovamenti di selvaggina di sicuro lo ricordava anche il prete, di recente aveva toccato l’argomento con don Fortunato. L’attuale parroco stava a Barrio da oltre vent’anni, lo aveva preceduto don Teodoro, un santo, secondo la tradizione, ma troppo conciliante e di poco polso. Ci aveva pensato don Fortunato a mettere i paletti su alcune cose, a sedare gli animi troppo caldi, gelando protagonismi e sedimentate rivalità tra la gente di chiesa e anche di fuori. Lui andava avanti per la sua strada senza farsi condizionare dai consensi. Anzi con l’andar del tempo, e questo mandava Danilo Santi fuori dai gangheri, aveva sviluppato una certa tendenza caustica, un’ironia pungente con cui colpiva chi di dovere a tempo debito. Appariva meno mordace con i semplici, bisogna ammetterlo, ma era implacabile con certi individui dalle sicurezze bene assestate. Ci pensava lui a muovere le acque, generando ora sconcerto, ora
scandalo, ora irritazione; alla fine la gente decise che ormai era vecchio e stanco, bisognava compatirlo, di sicuro sragionava. Di certo il prete faticava a stare dentro le convenzioni, era stanco di dire ciò che conviene, e questo Danilo lo apprezzava quasi sempre, finché non toccava a lui sentirsele cantare. Recentemente avevano parlato di Filiberto Mariani, don Fortunato sapeva delle paure giovanili del contadino verso quell’essere originale, e aveva le sue teorie a riguardo. Il padre delle Mariani a suo dire era una sorta di catalizzatore, l’incarnazione dell’antico capro espiatorio su cui le menti chiuse del borgo riversavano ogni negatività; in realtà il demonio, così era considerato da molti Filiberto Mariani, si presenta con tratti più ingannevoli e attraenti. “Comunque non si scomoda il prete quando è necessario uno psichiatra!” Santi rammentava le parole della pelata più lustra del borgo, e ora ci rifletteva. Dentro quella testa si forgiavano idee estranee alla massa, invidiava con una punta di rabbia la sua libertà di pensiero, ma tutto sommato a chi doveva rendere conto lui, al vescovo forse? Don Fortunato sapeva tenere le gerarchie a debita distanza, sotto certi aspetti pareva decisamente anarchico, non sopportava controlli, detestava le congreghe dei preti e l’unica collaborazione che apprezzava era quella con se stesso. Certo c’era il Padrone Assoluto, a Lui si doveva pur rispondere, ma ciò riguardava esclusivamente la propria coscienza. La libertà di pensiero del prete finiva per infastidire il contadino e roderlo, così Santi mugugnando tra sé cadeva in un circuito vizioso di pensieri. Di certo il prete non lavorava sodo come lui, dunque aveva molto più tempo per leggere, studiare, formarsi, e poi ascoltava i fatti nascosti di tutti e poteva così costruirsi un quadro infallibile dell’umanità dolente e contraddittoria, condizioni che ben dosate offrono un sottile potere nelle relazioni e consentono di affinare giudizio e capacità critica.
Mentre Santi rimestava vecchi fogli e rimuginava pensieri tra nostalgia e sconforto, Tanni varcava la soglia della sacrestia cercando di cavare qualche altra notizia dal riottoso parroco.
In fondo la sollecitazione gliel’aveva data proprio lo scrupoloso contadino, dettagliando col maresciallo sulla controversa psicologia del prete di Barrio: sapeva, ma bisognava motivarlo a ricordare. Il maresciallo si presenta da solo all’appuntamento, ha lasciato il Vedova libero di seguire il saggio scolastico della figlia, entra in chiesa compiacendosi oltremodo del suo buon cuore. La porta d’ingresso della pieve è socchiusa, Tanni attraversa l’aula liturgica diretto verso una porticina laterale da dove sbuca la figura tozza del prete. Appena un attimo d’indecisione sul da farsi, magari una genuflessione, forse un segno di croce, ha perso familiarità con gli usi religiosi, poco male, ormai ha raggiunto don Fortunato e dopo una vigorosa stretta di mano lo segue entro uno stretto corridoio. La scaletta a chiocciola in muratura discende angusta verso un corridoio cieco disimpegnante una serie di porte, tutte aperte, la sacrestia è situata più in basso rispetto alla chiesa, si discende entro i meandri dell’anima, pensa il Tanni e per fortuna che non c’è l’appuntato claustrofobico a complicare la situazione. Don Fortunato lo accoglie in una stanza rivestita di librerie in noce a parete, una grande finestra illumina i volumi chiusi all’interno delle vetrine intarsiate, anche il pavimento è in legno scuro, lo stesso ceppo del grande tavolo centrale; si accomodano in silenzio, avvolti da un odore deciso di crema per mobili. Il prete pare poco disponibile a parlare, in compenso scruta il maresciallo con quel sorrisetto che da solo basterebbe a far inviperire il Santi per una giornata intera. Tace anche il maresciallo, avviando poi il discorso su temi laterali, la chiesa, il tempo, i parrocchiani, la fatica di fare il prete ai tempi odierni, per non parlare del lavoro complesso a volte infame delle forze dell’ordine. Si taglia l’aria, sinché il prete decide di aver studiato abbastanza l’interlocutore tanto da ritenerlo degno di valida attenzione. Mentre il discorso finalmente si avvia sui temi in questione, sbuca da un antro, in un silenzio ovattato, la perpetua, porta un vassoio con tazze e caffè, lo appoggia sul tavolo e silenziosa si defila. Appena un cenno di saluto del maresciallo e il prete la liquida con: “Grazie Casilda, puoi andare”. Dunque Perpetua non era il nome ufficiale di tutte le donne di servizio dei preti, come ingenuamente riteneva il maresciallo? Perpetua è più una funzione, un tipo
di impiego o servizio che sembra delineare una categoria singolare di donne, di cui il Tanni si era costituito un’immagine stereotipata, ora pienamente confermata dalla Casilda di turno. “Non deve essere facile governare i fedeli di questo borgo, me ne rendo conto, un territorio chiuso, non solo poco accessibile ma anche pieno di gente diffidente. Ho alcune questioni da porle, certo ne abbiamo già parlato ma voglio ritornarci ancora, dopo le novità sulle sette religiose che abbiamo approfondito con il medico condotto. Pensi che siamo arrivati dalla figura ispiratrice di Zoroastro, al libro sacro dell’Avesta, ando per gli Esseni, che poi Giacomelli ha deciso di eliminare.Crede che la Vendramini e il suo gruppo di riferimento, Mariani comprese, potrebbero avere attinto da queste o altre filosofie?” “Lei è fortunato ad aver trovato il medico giovane, dal vecchio Olindo Soloni, che lo ha preceduto, non avrebbe ricavato nulla,” finalmente il parroco avvia il discorso. “Era un uomo insondabile, uno che non si metteva mai in discussione, le diagnosi le faceva e disfaceva a comodo suo. Qui era abitudine pagarlo dopo ogni visita, non gli bastava la paga statale, accumulava generi di ogni tipo, da quelli alimentari, uova, formaggi, salumi, pollame, olio e vino, a ogni sorta di lavoro manuale, tanto che le vecchie devote tenevano più a ingraziarsi il medico che a preparare ricami per l’altare. Sulla morte del padre delle Mariani girò di tutto, e non escludo che fosse il Soloni stesso a suggerire storie, questo era un altro aspetto del suo animo contorto, fomentare dubbi, sospetti, dietrologie; operare per attivare invidie e malessere. Forse le sembra che stia deviando dalla sua domanda? Ma solo in apparenza, perché credo che il Soloni non fosse estraneo alle attività della presunta setta. La sua medicina aveva poco di razionale, e per quanto riguarda le filosofie dell’antico Oriente, di sicuro lo apionavano, come tutto ciò che fosse stravagante, fuori dell’ordinario. Tutto ciò che contribuisse a staccarsi o elevarsi dalla quotidianità.” “Che intende dire?” “Vede, ci sono alcuni esseri umani che pensano di appartenere a una dimensione superiore, detestano la mediocrità, la temono, in realtà fuggono il proprio limite, la propria finitezza. Tocca a tutti scontrarsi con debolezze e fallimenti, e anche se la vita riservasse successi e potere, poi tutto a.” “E questo inevitabile andamento degli eventi, gli appartenenti alla setta della Vendramini non lo accettavano?”
“Credo che sia proprio il malessere di fondo che trova sfogo nella creazione di un gruppo di eletti, la necessità di elevarsi al di sopra dei propri simili, ricercando la salvezza solo per pochi prescelti.” “E i riferimenti pseudo-religiosi?” “Mah. Forse Giacomelli ha visto giusto, probabilmente qualche spunto si può ricavare anche dagli insegnamenti del profeta Zarathustra, pare che sia meglio chiamarlo così, anziché Zoroastro, il fondatore, si pensa, della più antica delle religioni ancora esistenti. Deviare poi dai contenuti, secondo i propri interessi, è la prassi, lo fanno costantemente anche i cattolici più devoti. Il pensiero zoroastriano bisogna però tirarlo per deformarlo a proprio comodo, in fondo ha spunti umanitari: condanna l’oppressione tra esseri umani e la crudeltà verso gli animali, la natura poi vi assume un ruolo importante.” “Qualche connessione con i nostri ritrovamenti di corpi lasciati ad attendere la risurrezione possiamo ritrovarle? Oppure facciamo riferimento alle carcasse di animali, i ceri e le immagini sacre sparse nella veranda? Se non sbaglio, la luce e il fuoco sono elementi importanti nelle religioni, di alto valore simbolico.” Tanni continua sul tema. “È vero,” conferma don Fortunato. “Pare che i devoti del culto zoroastriano solitamente pregassero alla presenza del fuoco o davanti a fonti di luce, ma il fuoco, comunque, non era oggetto di venerazione, rappresentava la liberazione dai peccati, dal male e dalle malattie che venivano simbolicamente lasciate bruciare nelle fiamme sacre. Il caso delle Mariani non fa eccezione nelle cronache del genere, siamo di fronte al tipico corredo dei riti religiosi, dove i simboli vengono confusi e accostati in una commistione strumentale, servendosi di modalità che sanno toccare gli animi suggestionabili o predisposti.” “Ma restiamo sui cadaveri, la scena macabra che ci siamo trovati davanti? Che senso possiamo dare ai fatti?” riprende il maresciallo. “Pensi alle antiche Torri del Silenzio,” il parroco si ricollega ai dati esposti dal medico condotto, “il cadavere veniva esposto in luoghi aperti e sopraelevati, dove gli avvoltoi l’avrebbero mangiato. Gli imperatori persiani Dario, Ciro e Serse, devoti a tale culto, sono stati lasciati spolpare dagli avvoltoi prima di essere sepolti nei rispettivi sepolcri; si riteneva che l’anima lasciasse il corpo dopo tre giorni. Tuttavia, se ben ricordo, nel diario di Faustina troviamo l’idea
che il corpo dovesse venire preso, quindi anch’esso trasportato materialmente in altra dimensione. Le Mariani credevano che si conservasse integro nel aggio, senza corruzione. Temi troppo sofisticati per trovare origine nelle loro teste.” “Dunque, in base a quanto ha detto va da sé configurare come teorici della setta il medico Soloni, la Vendramini e il presunto santone? A Soloni onestamente non avevo pensato, con lei che rapporti aveva? Immagino non dei migliori.” “Non mi scelgo i parrocchiani,” sbotta don Fortunato, “come lei non si sceglie i colleghi di lavoro, anche i familiari ci toccano in sorte e ce li teniamo; il vecchio Soloni era un anticlericale, perlomeno non faceva finta di essere religioso o devoto frequentando la chiesa per proprio comodo.” “Dunque, lei non sa dirmi nulla di particolare sugli incontri o i riti del gruppo. Forse qualcosa sulla morte del padre delle Mariani, ha avuto modo di saperne di più dal Soloni?” Una pausa di silenzio sin troppo lunga lascia spazio al reciproco circuito di pensieri, in sottofondo si sente il o ovattato di Casilda sfiorare il pavimento senza traumi, munita di un piumino di antiche fatture elimina ogni traccia di acari. Tutto è lindo, lustro, un’atmosfera quasi irreale per i comuni mortali. “Quando sono arrivato qui, e ora conosco anche le pietre di questo posto,” il prete riprende il discorso, fissando il Tanni di traverso, “il padre delle Mariani era già sepolto da cinque anni. La storia della sua dipartita me la raccontò la moglie Liberata, che lo seguì alcuni anni dopo. Ma ormai la donna non era completamente lucida, ammesso che in ato lo fosse stata. In chiesa veniva raramente, sostenuta dalla figlia minore Faustina, quella che avete ritrovato a vegliare i cadaveri nella villa. Le gambe, le erano diventate enormi, alla fine non riuscì più a spostarsi, viveva in casa, accudita dalle figlie, in particolare Faustina. Le altre due sorelle non frequentavano la parrocchia. Finché rimase in vita la madre, potevo entrare in villa e saltuariamente la visitavo; una volta sepolta, le figlie mi fecero sapere che non volevano nemmeno la benedizione annuale.” “E lei, come vedeva questa situazione?” “Avrei dovuto impormi forse? Insistere o intromettermi? La chiesa è aperta a tutti, chi ha bisogno mi cerca, non è nel mio stile affannarmi a convertire persone; le scelte individuali vanno rispettate.”
“E del Mariani, allora, cosa le disse Liberata? Anche se si tratta di dati poco attendibili, sono utili, delineano il quadro, ci danno qualche spunto per andare a fondo su questa storia.” “In paese si parlò di un incidente di caccia! Riuscii a cavare fuori dal Soloni la conferma sui problemi di epilessia di Filiberto, non so come, forse tenendogli testa in una discussione su Dio, natura, creazione e altro. Sulle sue crisi a Barrio si ricamava alla grande, considerandolo una sorta di demonio. Liberata, nella sua mente fragile e bambinesca, non riusciva a considerare una lettura scientifica dei fatti, aveva eliminato dal proprio orizzonte non solo la scienza ma anche ogni sorta di malignità e cattiveria. Anche le spiegazioni dei problemi del marito avevano un carattere animistico. Filiberto soffriva di dolori acuti allo stomaco, ogni tanto una specie di fuoco gli scoppiava dentro. Poteva vomitare, dimenarsi, durante le crisi sentiva un male atroce, ma questo gli permetteva di buttare fuori tutto. Anzi, per Liberata, la crisi stessa capitava dopo periodi in cui il marito era tetro, rimaneva chiuso in sé o vagava in cerca di pace. Dopo la scarica parossistica, le urla e la contorsione, egli si pacificava, perché il male usciva fuori.” “Olindo Soloni come lo curava?” “Il termine cura è improprio per le terapie del Soloni, indotte da una serie di fattori collaterali, come il tono di voce, la mimica facciale, da una sorta di taumaturgico potere di suggestione racchiuso nella sua persona. Un ricercatore avrebbe potuto efficacemente analizzare i poteri dell’effetto placebo. Per non parlare della sua debolezza verso le donne, di cui certo avrà sentito parlare.” Il suono ripetuto delle campane mette in allarme il Tanni, non sa bene se si tratti di una messa o di una qualche altra forma di liturgia. Don Fortunato si alza, un parrocchiano è ato a miglior vita e tra poco bisognerà dargli sepoltura. “I funerali hanno sorato i battesimi! Nuovi costumi sociali, i figli costano fatica economica, ma soprattutto educativa!” Il prete devia dall’argomento caldo. “Corre voce che le mie omelie nelle esequie siano fuori luogo, di cosa dovrei parlare secondo lei? Eppure, forse è vero, il funerale mi ispira, mi lascio prendere la mano. Chissà! Forse vado fuori dal seminato, ma mi diletto a prendere la parte del morto, pensare che almeno in quest’ultima occasione possa tirare fuori ciò che pensa. Un’occasione unica che mi solletica. E non è così difficile identificarsi con il de cuius, lasciando a chi resta un qualche impegno
morale, qualche consiglio disinteressato.” “Le due Mariani hanno fatto salire ulteriormente la statistica sul conto dei morti, un colpo inaspettato, non le pare don Fortunato?” “A breve i problemi eranno al mio sostituto, lavorerà lui sulle coscienze, un piccolo appagamento dei vecchi, lasciare il campo libero a energie giovani, acerbe, non ancora colpite dalla disillusione come gli attempati.” Prima del congedo il Tanni vuole un’ultima informazione su un tema caldo, il prete si è già alzato e sta entrando nella parte, lo sguardo è distratto e concentrato in altri pensieri, l’incipit della prossima omelia ormai è pronto, e il resto sgorgherà da sé. “Un ultimo cenno, le chiedo, sulla figura del santone che pare accompagnasse i riti delle Mariani, per ora resta soltanto un parto della fantasia. Le descrizioni conducono a un identikit da ascrivere ai fotogrammi dell’ultima soap opera. Si parla di un ex prete che ha rinnegato i voti, lei che idea si è fatto?” “Su questo tema meglio essere prudenti, ma qualcosa sotto potrebbe esserci. L’individuo in questione, purtroppo, non si è mai materializzato davanti ai miei occhi. Però, ragionando sui fatti emersi, è plausibile che per catalizzare gli animi delle Mariani e fascinare la nobile Zita, una figura di carisma, totalmente estranea al borgo, poteva anche starci; né la vedrei in competizione con il Soloni, il quale se conosceva i riti della setta e li approvava, di certo non li frequentava. Il suo potere stava nel sapere tutto di tutti, bastava uno sguardo, un cenno, per intimorire, così nutriva il suo spirito arrogante e subdolo, con la sensazione di tenere le persone in pugno. Come avrà certo osservato esisteva una netta dissonanza di formazione, interessi e personalità tra la Vendramini e le tre sorelle Mariani: dove stava dunque il punto d’unione? Ma non ci si deve stupire più di tanto, a volte caratteri apparentemente contrastanti possono unirsi seguendo insolite logiche d’interesse. La Vendramini appartiene a quei soggetti in cui la noia può generare ogni sorta di compensazione. Una donna con un concetto elevato di sé, da ritenersi al di sopra della banalità comune, non considerava nemmeno i propri concittadini, lei si collocava in un’altra dimensione. Trarsi fuori dal senso comune, ricercare a ogni costo un mondo esclusivo, retaggio di pochi, l’ha condotta a perdere la dimensione della realtà. Aveva legato più di tutte con Fosca Mariani, l’anima più contorta della famiglia, quella in cui covava probabilmente una strana sete di protagonismo.”
Con queste parole il prete prende la strada della sacrestia, lasciando il maresciallo nelle mani di Casilda. Sorvolando il pavimento di un nitore inverosimile, il maresciallo segue la donna, quasi vergognandosi del peso materiale delle proprie estremità; si esce dall’ingresso ufficiale, domina una fragranza speziata che alleggerisce gli animi e invita a banchettare. Un lieve tocco alla mano smunta e gelida della perpetua, e repentina, la natura di fuori si materializza nelle fronde esuberanti degli ulivi. Un respiro profondo riporta il maresciallo Tanni nella dimensione materiale, il legno avvolgente dello studio sacerdotale gli aveva fatto sfiorare l’idea dell’ultima dimora, senza dubbio suggestioni ereditate dalle manie persecutorie dell’appuntato. Il senso di liberazione lascia spazio a un moto di stizza, poiché rammenta quanto si era proposto di chiedere e in realtà gli è sfuggito. Poteva farsi tracciare un quadro sui caratteri delle tre sorelle, in particolare su Fosca, la più legata alla Vendramini. Ma a che servirebbe poi, solo a compensare la sua curiosità sulla controversa natura umana, gli sarebbe utile per venire a capo della questione? Di fatto Tanni ha sempre considerato la verità come un bisogno radicato dell’anima, una necessità profonda, forgiato da tale convinzione ha finito per scegliersi questo mestiere. Fin da piccolo non sopportava la menzogna, e poi, nel corso degli anni, l’odio per il talento mistificatorio di alcuni colleghi gli aveva procurato non poche difficoltà in ambito professionale. Entra in ufficio accompagnato da uno strano sentimento di solitudine, due chiacchiere col Vedova non sarebbero state fuori luogo; prende il notes e segna qualche appunto, la scrivania è stipata di codici, una piccola muraglia ben assiepata dai dorsali spessi con i caratteri argentati e le pagine sottili. Una montagna di dati che poco aiutano, ciò che conta è l’intuizione, la mente umana che connette e dà senso ai fatti, magari seguendo inconsueti percorsi. Potrebbe sentire il Giacomelli e chiarirsi un po’ le idee conversando con lui, un soggetto sufficientemente fuori dagli schemi, capace di offrire una visione inedita. Digita il numero dell’ambulatorio, il telefono squilla a lungo, dopo un tempo che farebbe spazientire chiunque, Giacomelli risponde; ha terminato una visita e ora può parlare. Lascia il maresciallo in attesa, esce in sala d’aspetto e avvisa le solite vecchie di
attendere perché è al telefono. Dal ricevitore Tanni coglie un trambusto di porte che sbattono. “Ora sono tranquillo, due pazienti se ne sono andate scocciate, ma rieranno, parliamo pure con calma ho poche persone in studio, una selezione di gente ragionevole. Allora come è andata con il parroco? Ho saputo da Santi che oggi aveva un appuntamento?” “Soggetto interessante il prete, diretto nell’esprimere opinioni e bene informato. Ne è emerso un bel quadro del suo predecessore, Olindo Soloni, peccato non poterlo interrogare, pare incarnasse il ruolo di depositario delle piaghe corporali e psichiche dei barrioti.” “Di certo è lontano anni luce dal mio modo di intendere la medicina, pensi che tuttora mi scontro con i risultati del suo operato, la gente ha richieste e aspettative irrazionali, magiche. Credo preparasse intrugli con erbe mediche, che più di qualcuno si ostina a domandarmi. All’inizio avevo pensato di preparare bottigliette di acqua e glucosio per accattivarmi la stima dei più fedeli al mio predecessore, poi non ce l’ho fatta! La mistificazione non mi appartiene! Ma ho capito però che con qualcuno è inutile lavorare sul ragionamento, meglio lasciargli le sue idee bacate! Ma a proposito di stranezze, lei è riuscito a sapere qualcosa sulla figura del santone? E sulla morte del padre della Puntute?” “Il parroco non ha mai visto di persona santoni, eppure non sembra considerare questa storia del tutto frutto della fantasia, potrebbe essere una figura che è stata presente. Per quanto riguarda Filiberto Mariani, conferma che fosse affetto da epilessia, ne avevamo già parlato lei e io. Sulla morte del vecchio, Soloni non si sbottonò mai, fu un accesso di grande male oppure Filiberto aveva assunto una dose massiccia di erbe velenose o entrambe le cose combinate insieme? Nei sopralluoghi alla villa che hanno seguito la nostra prima ricognizione è stata individuata una cantina, un magazzino lasciato al grezzo, costruito come prolungamento della cucina ai piedi del monte Prione, non visibile all’esterno. All’interno abbiamo trovato botti, resti di vetri spaccati e pezzi di barattoli frantumati e anneriti, probabilmente contenevano erbe, sicuramente c’era dell’altro che è stato bruciato, sepolto, fatto sparire. Ma supponiamo che il vecchio Filiberto si fosse apionato agli studi di erboristeria, con una propensione ai veleni, che tipo di sostanze tossiche poteva avere a portata di mano, andando a perlustrare i colli?”
“Guardi che le tossine naturali sono diffuse più di quanto pensiamo, a parte gli esempi ovvi dei funghi, contengono tossine più o meno pericolose per l’uomo le bacche, come il vischio, l’agrifoglio, il ginepro. Non occorre addentrarci in labirintiche foreste equatoriali o sterminati deserti per lasciarci le penne! Pensi alla macchia mediterranea: belladonna, stramonio, ricino. Ecco ad esempio, il principio attivo della ricina è circa diecimila volte più tossico del cianuro di potassio. Ma anche le piante d’appartamento, come la Dieffembachia, una pianta di origine tropicale piuttosto diffusa nelle abitazioni, quella con le foglie verde scuro chiazzate da disegni irregolari a lisca di pesce bianco-giallastri, contiene un lattice irritante e caustico. Piante che vegetano parecchio, amate dalla padrona del mio studio, non c’è verso di convincerla a cambiare gusti! È la dose che fa la differenza, basta seguire la regola della giusta misura nelle cose.” “Con questo esercizio di buon senso temo che lei non riceva molte simpatie a Barrio, qui si cerca la stranezza, il risvolto magico, meno razionale è una spiegazione e più funziona. Anche il parroco la pensa così: si è più disposti a credere a strane entità, seguendo ambigue figure, che confidare in Dio. E non ha torto in fondo, si tratta soltanto di decidere su chi scommettere.” “A proposito di confidare in qualcosa, è buona regola non fidarsi ciecamente e in toto della natura, nonostante spesso il termine naturale venga usato come sinonimo di non pericoloso per l’uomo. Qui in paese sono stati tutti catechizzati in senso contrario dal mio predecessore. Anche gli alimenti di uso quotidiano, possono rivelarsi se consumati in dosi eccessive pericolosi, per esempio la noce moscata, può diventare un pericoloso narcotico, contiene in piccole dosi un’anfetamina allucinogena, per questo veniva utilizzata nell’antichità come droga a basso costo. Basta macinare almeno due noci moscate, usarle in infusione e attendere che gli effetti si manifestino.” Giacomelli ormai ha preso il largo, ora si tratta soltanto di riportarlo al tema. “Oppure le melanzane,” riprende imperterrito, “se consumate crude possono causare dolori addominali, diarrea, salivazione anomala, problemi gastrici.” Tanni lo blocca, già la sapeva questa notizia, ma meglio evitare ogni disturbo che possa alterare il piacere di gustarsi la parmigiana, uno dei sui piatti preferiti. Giacomelli stava citando il rallentamento del battito cardiaco, la concentrazione di alcaloidi e poi la solanina, l’atropina, per concludere che la maggior parte delle sostanze irritanti è contenuta nella buccia. Tanni ascolta con attenzione
diffusa, troppi termini tecnici, e comunque di certo lui non mangia melanzane crude. “Chiudo con i semi di mela, i noccioli di prugne e pesche,” Giacomelli deve mettere la ciliegina, “pensi che se vengono schiacciati sotto i denti, causano il rilascio di acido cianidrico.” Deciso a dargli soddisfazione, il maresciallo tira fuori qualche spolverata di medicina alimentare, raccolta chissà come e parte del suo bagaglio di conoscenze. “Questa solanina mi pare ci sia anche nelle mandorle amare, nei pomodori o nelle patate verdi? E il basilico, di cui ho sentito dire che contiene una sostanza cancerogena?” Nell’ultima osservazione sul basilico, Tanni coglie la sua spudoratezza, il finto distacco del naturista, parla e già affonda la forchetta nelle lasagne al pesto. “Eh sì! Ne sanno qualcosa i nostri progenitori, e l’appuntato Vedova, così apionato di antropologia, ora potrebbe interloquire. Non ingerire mai nulla di cui non siamo assolutamente sicuri! Una bacca ricca di alcaloidi più o meno tossici potrebbe essere scambiata per un mirtillo o un lampone. La cicuta si può confondere con il prezzemolo. Ma col tempo l’uomo ha imparato a districarsi con queste sostanze, tanto da sfruttare le caratteristiche di alcune per crearne degli utilissimi farmaci.” “Il veleno più pericoloso in cui ci si può imbattere credo sia il curaro, se ben ricordo. È in grado di uccidere in pochi minuti.” Il maresciallo sta prendendo gusto all’argomento, nella sua mente compaiono refusi dell’esame di tossicologia, gli piace divagare, celando il fatto che il suo rapporto con la chimica organica non era dei migliori. “La tossina botulinica, prodotta dal batterio clostridium botulinum, è una delle sostanze più tossiche che si conoscano.” Giacomelli coglie repentino lo spunto. “Tutti possiamo averci a che fare nel caso di ingestione di cibo avariato, vedi le conserve fai da te. Ma vallo a dire alle vecchie di qua di sterilizzare bene le composte o meglio di acquistare quelle industriali più sicure, non c’è verso! L’avvelenamento da parte di questa neurotossina provoca la paralisi e la morte per insufficienza respiratoria. Comunque gli effetti di un principio attivo dipendono in grandissima parte da come viene assunto. Nel sedicesimo secolo
Paracelsus coniò una frase che è valida tuttora nel campo della tossicologia, ma anche nella vita di tutti i giorni. È solo la dose che fa di una sostanza un veleno.” “Dunque il nostro Filiberto Mariani aveva di che sbizzarrirsi in tema di erbe e veleni! Ma su questo punto non abbiamo conferme, solo supposizioni.” Giacomelli ha un altro tarlo che gli rode, su cui in via del tutto riservata stava orientando le proprie ricerche, perché l’argomento, come dire, lo ispirava, vale la pena di interrogare il maresciallo. “Ha saputo qualcosa di più chiaro riguardo a quegli episodi di violenza sugli animali, mi riferisco alla selvaggina trovata nei colli?” “Si tratta di dati piuttosto intriganti, concordo con lei, si sono verificati ritrovamenti periodici di selvaggina squartata in alcune zone, tra cui il territorio proprietà dei Mariani. A suo tempo venne interessato il Corpo Forestale, ne seguirono delle ricerche e la vigilanza durò qualche mese. Ma data l’assenza di ulteriori ritrovamenti, il problema è scemato.” Un silenzio fin troppo lungo blocca la conversazione, Giacomelli sta ruminando qualcosa o semplicemente soffre per non essere sufficientemente informato sul tema messe nere, riti satanici e altri dettagli sulle torture animali. Lo smarrimento si placa quando mette a fuoco un volumetto sinora dimenticato sullo scaffale. Improvvisamente ora riesce a focalizzarlo, giace infilato sulla vetrina dello studio tra cartelline e quaderni sgualciti, posti in orizzontale per guadagnare spazio. “Credo di aver letto qualcosa sull’argomento, sì, proprio sui rituali di smembramento degli animali. Ma qui bisogna fare riferimento ai dati storici, alle culture sacrificali delle antiche civiltà. Dev’essere un testo sulla cultura etrusca.” Il Giacomelli continua il discorso interiore ad alta voce, come sempre supponendo che l’altro riesca a seguire il filo dei suoi pensieri. All’altro capo della cornetta giungono strani rumori: sibili di porte che sbattono, un trambusto in ambulatorio, a cui Giacomelli non fa caso. “Tutto bene da lei? La sto disturbando, sento segni d’inquietudine?” “Non si preoccupi, nessun disturbo, i pazienti non li perdo certamente, chi è
stanco di aspettare poi ritorna, sempre le stesse facce, potrei curare a distanza Non solo conosco dettagliatamente la situazione clinica di ciascuno, come è ovvio, ma da vero Aruspice, per stare in linea con i sacerdoti-vati etruschi, posso prevedere l’evoluzione negli anni di ciascun quadro sanitario, con buona probabilità potrei dirle di che cosa moriranno i miei mutuati.” Altra pausa di riflessione e trambusto, Tanni si sta divertendo nonostante le tematiche macabre da scandagliare. Finalmente Giacomelli agguanta il volumetto dalla libreria e prende a sfogliarlo nella frenetica ricerca di chissà che, prestando in contemporanea attenzione al discorso del maresciallo. “Dalla lettura delle relazioni,” riprende Tanni, “risulta che gli animali squartati vennero rinvenuti tra la boscaglia di alcuni colli, Lupanaro e Fusara, ma più di tutto sul monte Prione, proprietà dei Mariani. Le vittime si presentavano con il corpo tagliato in pezzi.” “Sono i colli meno frequentati, con sentieri erti e poco ripuliti dalla Forestale, interviene Giacomelli. “Li ho percorsi a fatica anch’io, la vegetazione è intricata, il sole filtra a fatica, ti senti al chiuso, ti danno un senso di soffocamento! Io preferisco i percorsi esposti e panoramici.” “Ho sottomano un ritaglio di cronaca, un reperto trasmessomi dal portinaio del quotidiano locale. Nel caso serva assume anche funzioni di segugio avventurandosi nell’archivio della redazione. Miracoli della conservazione! È riferito però ai più recenti ritrovamenti, glielo leggo.” Tanni, inizia senza attendere conferma.
L’ombra delle messe nere e dei riti satanici pare allungarsi anche sul piccolo borgo di Barrio. Ieri mattina infatti nella zona del colle Fusara situato a tramontana, sono state trovate le carcasse di alcuni animali tagliati a metà e macchie di sangue ovunque, sull’erba e sugli alberi. La scoperta è stata fatta da due cacciatori con regolare licenza. I due hanno subito chiamato le forze dell’Ordine. Ora le indagini sono affidate agli uomini della Forestale, che hanno messo tutto sotto sequestro scattando le foto dell’area interessata. Anche la polizia locale ha presidiato la zona con una pattuglia, tenendo lontani eventuali curiosi. Qualche tempo fa simili ritrovamenti si erano verificati nei colli Lupanaro e
Prione.
“Fatti accaduti una decina d’anni addietro,” commenta il maresciallo al termine della lettura. “In questo caso il risvolto sull’esistenza di sette è stato evocato, ma appare più chiaro in questo altro pezzo.” Giacomelli tace e mugugna, ha scovato un o interessante nel libercolo sugli Etruschi, evocato da un segnalibro di fortuna, un’abbassa lingua di antiche fogge. Tanni riprende, lasciando il medico a costruire improbabili interconnessioni tra eventi. “In questo articolo il cronista mette in campo altri particolari, mi segua.”
Il colle Fusara è poco frequentato, posto a tramontana e infestato da cinghiali, i sentieri sono impervi e poco battuti dalla forestale. Si raggiunge più facilmente imboccando la salita del colle Lupanaro, attraversando la sella. È una buona zona di caccia, poco battuta dalla gente del luogo. Quella delle messe nere, comunque, è solo una delle ipotesi, avanzate dalle forze dell’ordine, in relazione ai ripetuti ritrovamenti. A terra sono stati rinvenuti due conigli e un gallo, che non erano semplicemente stati uccisi, ma divisi a metà, sgozzati e dissanguati. In precedenza sul Priore erano stati ritrovate quattro volpi massacrate, intorno tutti i segni di una carneficina, animali arrampicati sugli alberi, rotoloni di pelo svolazzanti, i corpi col torace squartato. Le bestie sono state eviscerate e divise a metà, vicino alla spianata del massacro è stata accesa una pira e su di essa sono stati bruciati degli organi.
Giacomelli non risponde, tossisce a scatti manifestando una sorta di tic nervoso, la sua mente viaggia frenetica, finché recupera in memoria scene che ricordano i supplizi e le torture medievali. Aveva letto qualcosa sull’argomento, forse in uno dei romanzi storici divorati nel periodo del fervore documentale, certo non scevri da costruzioni un po’ azzardate, ma comunque apionanti. Il suppliziato, veniva completamente eviscerato, pezzi e organi, iniziando dai
genitali, venivano bruciati. Il carnefice lo liberava dalle atroci sofferenze del supplizio, tagliandogli la testa, poi procedeva allo squartamento del corpo. Con un’ascia lo divideva in quattro parti, prima tagliandolo verticalmente dal centro dell’inguine, tra le due cosce fino al collo, separando due metà. Poi lo divideva orizzontalmente, all’altezza del ventre, in altre due metà. I quattro pezzi del suo corpo in ognuno dei quali era presente una delle quattro membra, gambe o braccia, venivano esposti, in diversi punti della città, scelti dal Re. Riporta i dati alla rinfusa al maresciallo, sottigliando sul significato cabalistico del numero delle parti, mica si tagliano a caso, la simbologia è fondamentale. Il numero sette, il quattro, la metà. Il dottore è un fiume in piena e per fermarlo bisogna ricondurlo non su temi reali, ma stare sulle sue ioni. Il Tanni lo segue, mentre il discorso si orienta ora sull’argomento etruschi, già emerso in precedenza, egli conta alla fine di poter ricavare un serie di spunti dalle divagazioni messe in campo. Dal ricevitore la verbalizzazione esce fluente e ionale. “Gli Aruspici, come si evince dal nome, praticavano l’Aruspicina,” qui Giacomelli stacca una pausa inaspettata, poi riprende. “Una branca della loro arte divinatoria consisteva nell’esaminare le viscere di animali sacrificati, studiavano soprattutto il fegato e gli intestini, da questa analisi riuscivano a comprendere la volontà degli dei. Guardi, leggo sul libretto che ho sottomano che l’aruspice personale di Giulio Cesare, l’etrusco Spurinna, avrebbe predetto al dittatore romano la tragica morte alle idi di marzo”. Impossibile per i posteri non apionarsi al giallo dell’assassinio di Cesare, giudicando ignobile la parte del figlio adottivo. Ma mentre Tanni evoca le malvage coltellate, il Giacomelli sciorina la dottrina dei santoni etruschi. “Per l’Aruspicina, e gliela faccio in sintesi la questione, lo spazio sacro rifletteva la divisione della volta celeste, che si credeva attraversata da due rette perpendicolari: cardo e decumano. Ovviamente da una parte risiedevano gli dei benevoli la pars familiaris, mentre verso ovest, nella pars hostilis, soggiornavano gli dei dell’oltretomba. L’intersezione di queste due rette ripartiva la volta celeste in quattro quadranti, ognuno dei quali era ulteriormente suddiviso in quattro parti, il che ci porta a totalizzare ben sedici pezzi. Mi sta seguendo?”
Tanni annuisce, Giacomelli ormai è partito per la tangente, forse sta leggendo, ma comunque rielabora dati, dà spazio al suo animo oratorio, alla ione mai sopita di ammaestrare l’umile volgo ignorante. “Ognuno di questi settori costituiva la sede di una divinità diversa. Ma qui viene il punto! La ripartizione della volta celeste si rifletteva su ogni elemento, vivente e non vivente. Così, per corrispondenza, anche le viscere degli animali presentavano la stessa suddivisione. L’organo più studiato era il fegato, specie quello delle pecore, veniva confrontato con un modello in bronzo che portava indicate tutte le ripartizioni con i nomi degli dei. Si valutavano eventuali cicatrici, macchie, deformazioni, diversità di colore nell’organo estratto, si verificava quindi a quale settore del cielo corrispondeva, riuscendo così a capire quale divinità avesse mandato quel segno, e se fosse di buon auspicio o meno.” “Mi pare che rimanesse il problema, non da poco, di capirne il significato. Ma venendo alla nostra questione, la suddivisione degli animali ritrovati sui colli troverebbe a quanto pare teorie di riferimento? Dunque possiamo tracciare un che di razionale in ciò che all’apparenza sembra solo la manifestazione di una violenza distruttiva fine a se stessa. Dopo i ritrovamenti accennati tutto però è cessato, lei cosa ne pensa di questa storia?” “Al tempo di questi ritrovamenti il padre delle Mariani era già ato a miglior vita!” Giacomelli elucubra possibili sviluppi, ragionando a voce alta. “Lei pensa che potrebbero essere attribuiti alle figlie? Qualcuna in particolare? Escludendo, la minore, Faustina, per la fragilità emotiva e anche Felicita, data l’esclusiva affezione verso gli animali, non resta che Fosca, la più tenebrosa, che ne pensa? Quasi me li figuro questi invasati, riuniti sulla spianata del monte Priore: la nobile Vendramini con pochi altri devoti, guidati dal santone!” “Qualcuno in famiglia doveva pur ereditare la smania paterna verso la caccia!” Lo segue nel ragionamento Tanni. “Eppure la scena cruenta rilevata mi pare poco consona alla psicologia femminile. Nessuno ci vieta però di credere che il padre delle Mariani fosse il responsabile degli episodi accaduti prima di quelli descritti, di cui abbiamo memoria attraverso le dicerie popolari. Dai dati biografici che abbiamo raccolto ovvero il girovagare solitario nei colli, la ione della caccia, l’arte alchemica che pare ipotizzabile, non è da escludere che professasse qualche strana religione leggendo il fato dentro le viscere animali.”
Uno spaccato dai contorni medievali sembra disegnare lo stile di vita dei Mariani, vite catapultate in un altro secolo, cozzanti con la modernità, estraniate dal senso comune si chiudono in un mondo proprio senza più contatti con la realtà. Sbatte con un certa violenza il portone d’ingresso dell’ambulatorio, anche l’ultimo paziente leva le tende, Giacomelli è costretto a congedarsi dal maresciallo Tanni, poggia il ricevitore ed esce dallo studio, sospettando la presenza di qualche danno in sala d’aspetto. Tutto a posto per fortuna! Mancano le riviste come al solito, e sul tavolinetto c’è un biglietto di autore anonimo. Un’ora al telefono! Parli con la sua amante da casa piuttosto. Noi non abbiamo tempo da perdere! Non ci sono più i medici di una volta! Si tratta di una serie di sagge considerazioni dal carattere inappellabile. Giacomelli ha già focalizzato l’autore, o meglio l’autrice, nostalgica del Soloni, quello sì che l’avrebbe visitata per bene!
XI
Ma quale narrazione aveva costruito il popolino sulle vicissitudini della bizzarra famiglia Mariani? Seppure sommariamente è il caso di farne menzione, anche allontanandoci dalla verità dei fatti, a cui, date le circostanze, risulta difficile attingere. Sulle tre Puntute il borgo aveva ricamato storie stravaganti, a partire dai soprannomi: Beccaccia, Succiacapre e Civetta, tutti ispirati dal naso prominente che orientò la malignità paesana a definire le somiglianze in ambito ornitologico. Beccaccia, ossia Faustina, la più giovane, era stata associata a un uccello dal volo elegante e silenzioso, occhi scuri, becco sottile e lunghissimo, la regina del bosco. La mezzana, invece, si era guadagnata l’epiteto di Succiacapre, perché poi? Si tratta di un uccello dalle abitudini notturne, con ali lunghe e una bocca larghissima, adatta a catturare insetti, frequenta la macchia bassa e la boscaglia, si muove di notte in genere presso i corsi d’acqua. E pare proprio che Fosca, già buia nel nome, avesse abitudini notturne. Per la più vecchia delle Mariani, la fantasia popolare non si dette particolare pena nella ricerca, si posò sulla ben nota civetta. Felicita non aveva niente a che spartire con l’elegante livrea del rapace, piuttosto la somiglianza andava cercata nelle abitudini dell’uccello che vive appollaiato sugli alberi di solido fusto, con lo sguardo fisso, apparentemente imperturbabile. Un rapace dalle abitudini particolari ben conosciuto dai contadini, si vede generalmente dopo una tempesta o all’avvicinarsi di essa, per i barrioti la presenza della povera Felicita era infatti associata a presagi infausti. Inoltre la civetta era utile nei granai per spaventare i topi, ed ecco un ulteriore malevolo riferimento alla scarsa avvenenza della primogenita dei Mariani. Esemplari della citata fauna si potevano naturalmente rinvenire tra i trofei di caccia del padre, imbalsamati e affissi sulle pareti del salone d’ingresso, a creare quella strana atmosfera che le giovani respirarono sin da quando erano in fasce.
Sulla più giovane abbiamo già disquisito, e pare che la sua immagine fosse la più tollerata in paese, tratteggiata come soggetto dall’animo fanciullesco, dedita alla scrittura e agli erbari. Meno innocua appariva la sorella mezzana, Fosca, amica della Vendramini, in famiglia era di certo la più intelligente, ma di un’intelligenza deviata come quella paterna. Aveva studiato in città; a suo tempo prendeva la vecchia corriera scalcinata che fermava poco discosta dalla piazza due volte al giorno apposta per raccogliere studenti, impiegati e quanti uscivano dal borgo per cercare lavoro. Ai tempi in cui Fosca studiava, erano davvero in pochi a seguirla oltre alla Vendramini, sua coetanea, che ne aveva le possibilità economiche. Fu allora che maturò l’amicizia tra le due. Ma quello che più colpisce nei racconti popolari sono le presunte fughe notturne di Fosca. Qualcuno addirittura affermava di averla intravista o comunque le attribuiva l’abitudine di girovagare tra i sentieri del monte Prione, di proprietà della famiglia, a ridosso del quale era stata costruita la villa. Casa Mariani a tramontana confinava con la mura di contenimento del monte; proprio a nord oltre la recinzione di pietre sormontate da vetri di bottiglia, si imboccava il sentiero scosceso per arrivare in cima. L’accesso era opportunamente celato a occhi indiscreti, poiché facevano muro gli alberi di ligustro altissimi, intersecati agli ontani altrettanto folti, una selva anarchica che aveva messo radici entro il giardino della villa. Ma per quale motivo Fosca avrebbe dovuto avventurarsi nella boscaglia di notte? Un quesito lecito, ma che non turbava minimamente le fantasie popolari, anzi pareva offrire un gustoso tema su cui sbizzarrirsi. In quella famiglia Fosca non era l’unica a trovare sfogo nel vagare silvestre, e anche in questo tratto pareva seguire le attribuzioni paterne. Fioccavano gli elementi per tracciare senza sforzo un quadro a tinte cupe, le tenebre erano ideali per offrire complicità all’azione, rappresentavano uno sfondo metaforico ideale: il buio, il silenzio della boscaglia, gli incontri clandestini, sino a tratteggiare la deriva dell’appartenenza a una qualche setta religiosa. Qui le chiacchiere potevano aprirsi con un carattere esponenziale, intingendo a piene mani nel torbido. Ma accanto ai più infamanti resoconti, comparivano dati forieri di una qualche umanità a cui erano affezionate alcune vecchie popolane. Era la parte del paese caratterizzata da una certa pietas, potremo dire, quella a cui certamente apparteneva la moglie di Danilo Santi, il contadino che costituì l’ultimo contatto
delle tre donne con il mondo reale. Si pensi ad esempio all’evocazione del rito del bacio che ogni sera pare compisse la madre Liberata prima di coricarsi, visitando per un attimo le stanze della sua variegata progenie. In tali narrazioni, la tendenza a romanzare i fatti del popolino sembrava aver recuperato una pur necessaria forma di affettività, cercando di dare ai Mariani una parvenza familiare. Dunque Liberata non aveva mai perduto, nemmeno avanti con gli anni, l’abitudine di stampare sulla fronte delle figlie il bacio della buona notte. Possiamo immaginarla mentre strascicava i pedi sfregando i pesanti arti sul pavimento, saliva i gradini dell’imperiale scalone d’ingresso, avvinghiando le mani sudate e gonfie lungo il corrimano, la gonna frusciava lievemente sfregando la balaustra. Camminava ansando, mandando un flebile fischio, poteva trattarsi di asma incipiente o era soltanto l’effetto generato dallo spostamento di un corpo ingombrante? Negli spazi della casa si spandeva il suo odore inconfondibile frammisto a un che di umidiccio e dolciastro; Liberata sapeva di arrosti e sughi con punte speziate di salvia e rosmarino, appena capaci di mascherare il sapore deciso dell’aglio. Fissata nelle memorie del borgo, la si vedeva indossare l’immancabile traversa di cotone spesso, dal fondo scuro, decorata con piccoli fiori stampati, imbiancata di farina, chiazzata da macchie oleose, ruvida e graffiante al tatto. Si sottiglia anche sulle sue abitudini, la traversa se la toglieva in camera, per trovarla pronta da subito al mattino. All’interno dei tasconi vi era stipato tutto il suo mondo: la corona, gli unti fazzolettoni, spaghi, forbici da giardino, rametti di lavanda e rosmarino, spicchi d’aglio secco, ingiallito, caramelle e grani di uva a per compensare i repentini vuoti di stomaco, insieme a tozzi di pane indurito, e sul fondo, perso tra una folla di briciole un pettine d’osso sdentato. E l’ombroso consorte? Raramente il marito già dormiva, probabilmente sino a notte fonda restava in cantina, una sorta di magazzino lasciato al grezzo, che affiancava la cucina. Un prolungamento costruito in seguito, spaccando muri e accumulando pietre frammiste a mattoni, sfruttando il fresco della parte a settentrione ai piedi del monte Prione. A suo tempo nonno Filomeno e il figlio Filiberto avevano tirato su muri
perimetrali spessi, lasciando qualche fessura in alto per la luce, un antro buio e gelido, poco visibile dall’esterno, infestato da spessi strati di edera rampicante, un guscio blindato e precluso alle donne di famiglia. Pare contenesse botti di rovere, cumuli di bottiglioni e bottiglie, casse di vetri spaccati, un laboratorio enologico ma non solo, poiché Filiberto con il tempo si apionò nello studio delle erbe. In quel luogo, in cui le forze dell’ordine ritrovarono solo mucchi di cenere, si dice che il Mariani si rintanasse ore e ore, quando le gambe gli dolevano, così non avrebbe dovuto vincere la malinconia in camminate estenuanti sui colli; delle figlie, ma in genere della famiglia, non si era mai occupato. Le tracce più pregnanti del suo carattere ombroso finirono su Fosca, ella poteva aver lottato per superare la malinconia, ma senza ottenere risultati. Era la secondogenita e doveva possedere fin dalla nascita un aspetto ombroso, perché la madre, dopo averla studiata con cura, trovò ispirazione per il nome da assegnarle. Sin da bambina Fosca manifestò una stravagante ambivalenza di costumi: da una parte la ricerca leziosa di abiti e monili, dall’altra la totale incuria personale. I più informati descrivono l’andazzo altalenante della sua figura, a periodi secca e nervosa in alternanza con un insolito gonfiarsi del corpo. Poteva lasciarsi andare per mesi senza curarsi, inghiottendo ogni tipo di cibo, isolata dal mondo e confinata in camera. A questo seguiva la fase di reintegro, la dieta, la cura, la pulizia, ma poi ancora il disordine, una schizofrenia di stili e abitudini, che la rendevano completamente imprevedibile. Si rianimava di notte, staccandosi dal consesso umano per assaporare chissà quali libertà. Impressa nella memoria del borgo è rimasta una notte particolare di cui Fosca fu protagonista, superfluo chiedersi se i fatti accaddero realmente come vennero descritti oppure fossero il frutto di una qualche infallibile deduzione, poiché la famiglia Mariani, era la fonte inesauribile che incrementava le dicerie del borgo. Ma seguiamo la narrazione popolare. Era una notte calda, l’aria imbottiva come feltro ardente i polmoni e il cranio, a casa Mariani tutto taceva, il padre se ne stava in cantina, vi sarebbe rimasto sino a tardi, la madre e la sorella minore dormivano già da tempo, silenzio nella veranda, neanche un miagolio. Fosca, aspettò che il buio calasse denso, poi sgusciò di casa, verso la mura a tramontana. Un tonfo smorzato ed era già oltre il confine, ansante ma risoluta nel cammino, per raggiungere lo slargo del monte Priore, quella vallata imponente, che toglie il fiato. All’imboccatura, il sentiero
del colle si dipanava in un viluppo di boscaglia e di rovi, e poi si saliva facendosi largo con un bastone per districare la selva. Quasi in vetta al monte Priore si apriva, dopo l’erto sentiero pietroso, uno scenario naturale, allo stesso tempo avvolgente e inquietante. Le sagome dei secolari castagni parevano giganti figure antropomorfe di pregnante fisicità. Più in alto appariva uno spiazzo circolare recintato dai fusti sagomati dei castagni, un teatro mirabile disegnato dalla natura. Il tappeto erboso raccoglieva con l’alternarsi delle stagioni un variegato fogliame secco, frammisto a ricci e castagne, gli scarponi scricchiolanti affondavano sino alla caviglia. Dunque erano proprio i pluricentenari castagni a custodire i segreti del vagare notturno dei Mariani e forse anche i misteriosi rituali della setta Vendramini? Di certo non potevano parlare, testimoni silenti delle stranezze umane. Filiberto Mariani e la figlia Fosca, due creature accomunate dal vagare notturno, potenziali adepti di messe nere? Questa era la spiegazione consona agli animi più macabri, ma quel vagare, poteva essere lo sfogo di una malinconia disperata, la ricerca di uno cruento abbraccio con la natura. E non mancava chi considerava i Mariani creature condannate da una maledizione a trasformarsi in bestie feroci a ogni plenilunio, una sorta di licantropi, che conservavano ancora però la possibilità di parlare e ragionare come normali esseri umani. Una famiglia di tal fatta aveva in sé le potenzialità di tenere occupato un intero borgo, senza preoccuparsi troppo di smentite. Quella notte, scolpita nella tradizione come teatro del lugubre guaito, segnò un punto di non ritorno sulla necessità, da tutti condivisa, fuorché dai familiari, di internare la mezzana delle Mariani. Ma torniamo alla furiosa risalita del colle, Fosca si fermò a tirare il fiato, per un attimo, forse incrociò gli occhi infiammati del padre che non la riconobbe o decise di non curarsene, ma proseguì la sua folle corsa vincendo le ombre della notte. Salì affannata sino allo spiazzo, gli occhi ormai assuefatti al buio. Il corpo dalle fattezze irregolari, appariva agile, seppure chiuso in abiti inadeguati per l’erto percorso. Qua e là si strappavano le sete fruscianti, i rami cresciuti senza regola si incastravano sui volant svolazzanti, ma la Mariani proseguiva, senza far caso ai pezzi d’organza sfilacciati, alla sciarpa di chiffon caduta sul sentiero. Un respiro affannato cadenzava la corsa, con un fischio ritmato, massi pesanti impacciavano il cammino. Spesso si fermava per prendere fiato, la gola era
secca, intorno un vociare di uccelli notturni. Improvvisamente un tonfo sordo, seguito da un urlo lungo, un guaito che pareva non finire mai, intenso e lugubre, simile per potenza al virtuosismo di un tenore che stacca la sua nota finale, ma carico di un timbro cupo e macabro. Lo sentirono in molti al paese, sembrava che il vento lo avesse riportato in modo nitido eliminando l’effetto distanza. Era dal Priore che proveniva, dal monte maledetto dei Mariani, nel cuore della notte. Il pensiero correva e la gente si chiedeva se la violenza a stento trattenuta da quell’assurdo nucleo di conviventi, avesse trovato il suo naturale sfogo e qualcuno fosse stato eliminato, ma chi? I paesani, destati violentemente dal tremendo guaito, continuarono a rigirarsi nel letto evitando di cercare risposta ai loro quesiti. In realtà pochi amano affondare veramente nell’irrazionale, i più ne rifuggono spaventati, contentandosi di spiegazioni magiche. Quella notte Fosca cadde in una trappola, una buca profonda un paio di metri coperta di stecchi e fogliame, predisposta per i cinghiali. Quelle da cui negli altri colli a cattura avvenuta si propagava l’orrendo latrato della bestia in trappola, ma lì sul Priore non era mai successo, poiché il monte non era territorio consueto per quei mammiferi. Dopo il prolungato gemito, la Succiacapre si era accasciata sul fondo della fossa, inerte! Affondava le mani sul terriccio umido, colpita da un sentimento di totale annichilimento. Come aveva potuto la natura ferirla, ingannarla, bloccando la sua corsa? Rimase lì per un tempo indefinito, venne giorno, la luce filtrava dal fogliame che copriva il foro, ma lei rimaneva immota. Verso l’imbrunire, uno scroscio violento, un impetuoso acquazzone scosse il bosco. Fosca riuscì a muoversi, riconnettendosi con il reale, valutando la sua situazione: sino al polpaccio era immersa nell’acqua melmosa, il corpo pieno di escoriazioni, una caviglia aveva assunto dimensioni esagerate e le doleva in modo insopportabile. Dalla bocca, dopo quel grido pareva non uscirle più un suono. La sete l’aveva placata con l’acqua piovana, ma lo stomaco dava segni di sofferenza, crampi e rumori perentori segnavano un intorbidarsi delle budella. Provò a scalare la fossa, ricadendo più volte sul fondo, sinché una mano scura, pelosa e solida l’afferrò, trascinandola fuori. Il padre aveva sentito il suo grido ed era ritornato sui suoi i per soccorrerla? Oppure fu solo un’impressione, in realtà se la cavò da sola? Intervenne qualcun altro, come indicò la fantasia popolare ricamando sullo strano incidente della
Mariani? Di certo Fosca sopravvisse alla notte del grido, per chiudere la sua esistenza in modo meno avventuroso, deposta sul proprio letto, in attesa di venire presa da qualche enigmatica entità soprannaturale. Ma è il caso di sostare un attimo sulla questione licantropo, rimettendo in scena l’oscuro padre delle tre sorelle. La teoria dell’uomo-licantropo, come si intuisce, non poteva mancare sulla scena delle dicerie dei barrioti, essa trovava la sua origine nelle libere interpretazioni di donna Apollonia, la proprietaria dello studio del medico condotto. Tale suggestione, per quanto assurda, aveva però incontrato il tacito consenso di non pochi compaesani, si intende in modo mai netto o manifesto, ci si ragionava di sottovia per non essere scambiati per pazzi. Secondo la signora Appollonia, un dato essenziale per il riconoscimento dell’uomo-licantropo era l’osservazione delle impronte lasciate sul terreno a trasformazione avvenuta: se si trattava di un segno con cinque unghie, allora non vi esistevano dubbi! La sua erudizione in ambito licantropico proveniva da un sunto di dati raccolti nelle conversazioni, opportunamente mediati dalla lettura consigliatole, non si capisce a quale scopo, dal bibliotecario comunale. Non è il caso ora di soffermarci troppo su questa figura alquanto particolare, basti dire soltanto che il bibliotecario era ato senza soluzione di continuità dal compito di sacrestano a quello di dipendente comunale, un cambiamento irreversibile, avvenuto senza motivo apparentemente, solo a tarda età. Improvvisamene Saverio Carmine divenne anticlericale, ateo convinto, rinnegando ogni precedente legame con la chiesa. Dopo lunghe conversazioni con don Fortunato, in cui il prete non venne a capo della sua repentina trasformazione, il Carmine si chiuse in un prudente silenzio, dedicando tutti i suoi interessi alla cura del patrimonio librario del borgo, votandosi alla difesa della conoscenza. Se sino ad allora era vissuto assecondando uno spirito scano, che lo conduceva ad ammirare la natura circostante senza porsi domande o problemi sulla sua origine, dopo la crisi, mutò radicalmente il proprio atteggiamento. Si era decisamente votato alla ricerca, deviando dalla scienza al paranormale e chissà dove aveva intenzione di dirigersi. Ai lettori offriva strani consigli, segnalando autori ignoti, racconti dal contenuto sin troppo enigmatico, poco in sintonia con l’animo dei barrioti, sinché nessuno più gli chiese indicazioni.
Eppure le sue originali proposte avevano fatto in tempo a suggestionare la mente predisposta di Apollonia, la quale scoprì un filone apionate su cui poggiarsi. Anche Giacomelli ne venne erudito, dovette affrontare alcune spiacevoli conversazioni proprio sui licantropi, inutile sottolineare come la sua mente positivista detestasse tali ragionamenti, ma che fare? Sopportò più che poté, e solo in ragione della devozione dovuta alla proprietaria del suo studio, tali scemenze. Nell’occasione seppe che la trasformazione in licantropo poteva avvenire in vari modi, inoltre alcuni di questi uomini-bestia conservavano la possibilità di parlare e ragionare come normali esseri umani, ecco perché la natura di Filiberto rimaneva celata ai più; altri invece perdevano completamente la possibilità di rientrare nel consesso umano. Altro tratto distintivo era costituito dallo smisurato gusto del licantropo per la carne fresca, questo spiegava, secondo Apollonia, la pulsione per la caccia di Filiberto Mariani. Ma le spiegazioni non finivano qui, la caccia infatti consentiva al Mariani di procurarsi un elemento essenziale: la pelle di lupo. Ma perché poi doveva essere essenziale la pelle del lupo? si chiedeva Giacomelli, per poi restare annichilito dalla motivazione elaborata da Appollonia. La pelle era indispensabile per la trasformazione in licantropo, bastava confezionare un mantello, avendo cura che la testa fosse intatta con il cranio ben inserito, così da fornire un o solido alla dentatura. Su tali dati Appollonia, dopo la lettura del volumetto del Carmine, esibiva una competenza minuziosa, che il Giacomelli faticava a contrastare. La pelle, non poteva essere quella di un comune lupo, ma costituiva una sorta di veste maledetta, consegnata dal diavolo, che volentieri la forniva a persone esecrabili, oppure, secondo consolidata tradizione, in cambio dell’anima. Simili chiacchiere prendevano piede in paese più di un ragionamento oggettivo, spaccando i barrioti in fazioni contrapposte. A chi osservava la difficoltà a reperire lupi nella zona, si rispondeva sciorinando le possibili alternative alla trasformazione, perseguibili tramite la preparazione di unguenti. Pare che il bibliotecario avesse erudito la portinaia sugli ingredienti necessari per la preparazione del filtro suddetto, sommariamente esposti dalla vecchia a Giacomelli in un impeto di rabbia, dopo essere stata liquidata sin troppo frettolosamente. Appollonia aveva tratto di tasca un foglietto su cui era annotata la balorda
ricetta: cicuta, semi di papavero, oppio, zafferano, assafetida, solano, prezzemolo e giusquiamo, e naturalmente grasso di lupo, il tutto in parte spalmato sul corpo e in parte bevuto. Per il Giacomelli fu inutile sottolineare che nel caso una persona assumesse tale intruglio e sopravvivesse, si comporterebbe come un animale invasato. Sarebbe stato tempo perso mettere in campo la psichiatria, per illuminare strani fenomeni comportamentali, la magia era molto meglio. Appollonia non si mosse dalle sue teorie, aggiungendo che un ulteriore sistema per trasformarsi, consisteva nel bere acqua licantropica, raccolta cioè dalle impronte lasciate da un uomo-lupo. Per il Giacomelli fu davvero troppo, e quel giorno, più di altri, detestò la scelta di aver accettato una condotta in quel paese tribale e primitivo. Dunque, una serie di leggende si intrecciavano, trovando nel monte Priore lo spazio ideale per esprimersi, un luogo che incuteva timore, mostrando una natura capace di mettere l’uomo in soggezione. Il colle maledetto apparteneva al tormentato Filiberto in una sorta di naturale simbiosi; il monte impervio, che dopo un’ardua salita mostrava uno scenario mozzafiato, disegnato dai fusti contorti e scavati dei castagni, rappresentava uno spazio oltre i confini del tempo, fissato nei sentieri dell’animo. Pareva dare voce alle paure più nascoste, e allo stesso tempo poteva contenerle neutralizzandole; una terra oscura e accogliente, un letto di humus coperto di foglie ambrate, su cui affondare, ritrovando le proprie radici. Ma un’altra ombra intorbidava la figura già molesta del Mariani, solitario cacciatore, esperto di erbe, metà uomo e metà demonio: era l’attrazione per il fuoco. Poteva trattarsi soltanto di una concomitanza di fatti, o di coincidenze, ma nella memoria popolare le sue fughe reiterate per i colli si legavano a resti di legna e carni bruciate. Come in un circolo vizioso i dati popolari riconducano sempre all’ombroso padre delle Puntute, la sua pesante rappresentazione incupisce l’atrio della villa immagine e domina come un macigno sulla sua progenie. Nella nostra trattazione rimane ancora in ombra la primogenita delle sorelle, ma anche su di lei è possibile ricavare qualche dato, entrando nell’animo di una personalità all’apparenza meno inquietante della sorella Fosca.
Felicita, a differenza del padre e di Fosca, non amava gli spostamenti, pare se ne restasse confinata negli angusti spazi del giardino della villa. La capostipite delle Mariani, in onore al suo soprannome di Civetta, viveva appollaiata nella veranda concentrandosi esclusivamente sui felini, muta guardiana della villa. Ecco come si delinea il suo identikit a siglare il quadro conclusivo della famiglia. Felicita ormai aveva assunto l’odore dei gatti, impregnandosene senza possibilità di purificazione. Era alta, con il corpo nodoso, lievemente ingobbita, sostenuta da piedi enormi. Delle tre sorelle Mariani era la meno conosciuta, isolata nella famiglia e tanto più in paese. Poche le apparizioni pubbliche, da far risalire all’infanzia, poi più nulla, a parte i funerali della madre, anche la scuola l’aveva lasciata presto, i barrioti si erano praticamente dimenticati della sua esistenza. Nelle memorie dei più attempati emergevano in modo speciale i riferimenti alla sua bruttezza: un insieme di tratti somatici composti in modo inclemente nello stesso soggetto. Il capo pressoché rasato, dava l’idea di totale trascuratezza, i capelli residui, radi e stopposi, venivano nascosti da un fazzoletto. Il resto del volto era coperto da occhiali cerchiati, la presenza degli occhi, piccoli e socchiusi, bisognava intuirla: minuscole fessure con uno sguardo senza precisa direzione. Dopo aver infestato la casa di felini, si era progressivamente ritirata in veranda insieme ai gatti, con cui viveva in una sorta di simbiosi: mangiava, dormiva, parlava, era una conversazione a senso unico, in cui occupava il suo tempo, senza rimpianti per l’assenza di esseri umani. Santi ricorda con un particolare fastidio il suo timbro di voce, parlava emettendo un suono garrulo, quasi gracchiante, che rendeva impercettibili i contenuti, l’interlocutore registrava soltanto un brusio biascicato e indistinto. Strani discorsi uscivano comunque da quella bocca, una specie di crepa sottile e rettilinea, colpita da un tic nervoso e condannata a un costante movimento. La Mariani impastava saliva, rimestandola, e dal foro uscivano suoni accompagnati da schiuma biancastra, che si depositava agli angoli della fessura labiale. I denti forse li teneva rigorosamente serrati all’interno, erano coperti dalle labbra, quasi ripiegate su se stesse, afflitte da uno strano moto. Molte le descrizioni del naso, la parte anatomica distintiva del nucleo familiare, sottilissimo, terminava disegnando un angolo acuto. Sembrava un pezzo di cartapesta fissato in faccia, per sostenere gli occhiali dalle lenti ampie, bordate di tartaruga. Se il volto lasciava inchiodati, non da meno era l’impressione suscitata dalla statura, la notevole elevazione era però mediata dall’andatura ingobbita. Gli indumenti frammisti a peluria felina, la ascrivevano a quella parte del regno animale di cui aveva assunto anche i miasmi. Primogenita dei Mariani, la lettera F, si coniò per lei in Felicita, e in fondo, seppure a modo suo, unica delle sorelle, poteva aver
trovato una dimensione personale e soddisfacente di esistenza. Ma in quali condizioni aveva vissuto Felicita? A sentire la gente di Barrio divideva la veranda con almeno una quarantina di gatti, in una situazione igienica che si presume improponibile: ciottole sparse sul pavimento, cibo per gatti da tutte le parti, escrementi degli animali dovunque. La gattara, seppure i barrioti fatichino ad ammetterlo, aveva a suo tempo svolto una funzione sociale, infatti bastava gettare i felini randagi o quelli di cui si voleva sbarazzarsi dentro la mura della villa e Felicita gli offriva asilo. Poi la ruota degli Esposti aveva chiuso i battenti, erano bastate poche parole del padre a frenare le adozioni, ma nel frattempo la famiglia era cresciuta e si riproduceva. Si dice che il gattile della Civetta fosse improvvisamente calato a causa di un impeto incendiario paterno. E questa fu l’ennesima attribuzione all’enigmatico Filiberto, il fuoco ben si sposava con la sua immagine demoniaca. I Barrioti, più o meno apertamente, avevano attribuito a lui le carneficine di animali, periodicamente rinvenute nei colli, sino a quando si verificarono altri episodi dopo la sua morte, gettando gli animi predisposti del borgo dentro a un rebus insolvibile. L’epurazione dei felini, attribuita al demoniaco Filiberto, avvenne in un’annata gelida, l’aria tagliente riportò un puzzo di peli bruciati, che all’inizio non venne ben identificato, ma il fumo proveniva proprio dal giardino della villa. Un rogo premonitore di altri compì la strage. Qualcuno disse che i gemiti biascicati della primogenita, reclusa nella veranda, attraversarono i muri, vagando tra i viottoli del borgo come i lamenti disperati di un condannato a morte. Ma chi poteva interferire con le stravaganze dei Mariani? Unico il vecchio medico-patriarca, Olindo Soloni, che se ne guardava bene. Felicita superò comunque l’affronto, riprendendo in seguito a dare asilo ai randagi, la sua attività di soccorso ebbe finalmente libero sfogo dopo la dipartita del padre.
XII
Fiamme questa notte nella villa degli orrori a Barrio. Un incendio probabilmente doloso ha distrutto quella misteriosa dimora, dove lo scorso aprile fu trovata Faustina Mariani che da oltre un anno viveva con i cadaveri delle sue sorelle. Già tra sabato e domenica ignoti si erano introdotti nella villa, violando i sigilli disposti dal Sostituto Procuratore della Repubblica, e avevano portato via alcuni mobili antichi. Poi, le fiamme che hanno distrutto tutto. Vano è stato l’intervento dei vigili del fuoco. Al loro arrivo infatti la villa era già stata divorata dalle fiamme. Gli inquirenti avevano disposto per oggi la disinfestazione dell’abitazione, ancora alla ricerca di prove, di indizi che avrebbero potuto spiegare i tanti perché di questa storia sempre più inquietante.
Tanni legge ad alta voce, partendo dalle cronache locali, ma il fatto è riportato anche in quotidiani di tiratura nazionale, compare un trafiletto con la solita foto che gira. Si vede il cancello d’ingresso della villa seminascosta dal fogliame e poi un cumulo di ruderi dall’interno annerito con dei travi bruciati e divelti, un quadro sufficiente a trasmettere l’idea di totale desolazione. Come sempre le immagini dicono più delle parole, seppure il pezzo, anche a un’ulteriore rilettura, si presenti sobrio e vada al cuore dei fatti. Risaliva solo a qualche giorno prima, il trafugamento di oggetti e mobilio, poi, ieri notte le fiamme, una sorta di fuoco catartico, per chiudere ogni ulteriore congettura sugli eventi. Il maresciallo Tanni poggia la schiena sulla sedia, è approdato in ufficio di primo mattino e apre con la quotidiana lettura la sua finestra sul mondo, mastica una gomma al mentolo, sulla scrivania una scelta di caramelle antifumo, predilige la liquirizia, ma deve starci attento perché la pressione sale. Via un vizio per ereditarne un altro, ma proprio non riesce a farcela, deve succhiare qualcosa.
Vedova stranamente tace, si è ripreso da una brutta influenza intestinale, quei morbi che riceve in sorte dai figli in età scolare; è pallido e ne ha abbastanza di cadaveri, sette religiose, e altro. “Sembra che si sia manifestato una sorta di fuoco divino, almeno così viene da pensare.” Vedova interpreta repentinamente i fatti. “Chiunque abbia agito forse aveva l’intento di purificare, per chiudere definitivamente con questa macabra storia.” “Hai una concezione animistica dei fatti, oltre che egocentrica! Tutta la realtà ruota intorno ai tuoi stati d’animo!” “Sarebbe! Parla più semplice.” “Beh, avere un’idea animistica dei fatti significa pensare che le cose accadano seguendo uno scopo, in particolare quello dei nostri pensieri, del nostro giudizio. Il fuoco, nel caso specifico, incarna una condanna che brucia il male, lasciandoci soddisfatti perché è avvenuta una sorta di giustizia involontaria.” “Diciamo che mi trovo d’accordo con gli incendiari.” “Adesso chiedimi chi dobbiamo salvare in tutta questa storia, così completiamo il solito album di buoni e cattivi che ti mette in pace con la tua manichea idea della realtà.” “Ci stavo giusto pensando, salverei il medico della mutua, Giacomelli, però ha un che di nevrotico. Nessuna delle tre vecchie merita crediti, nemmeno quella sopravvissuta, fa la vittima, ma non so quanto lo sia davvero. Però, forse la triade delle Mariani potrebbe riscattarsi se avesse in qualche modo contribuito alla dipartita del padre. Filiberto va messo decisamente all’ultimo posto nelle preferenze, un individuo tra il demoniaco e lo psicotico. Potremmo salvare la madre delle tre sorelle, ma pensandoci bene, mi pare piuttosto insulsa.” “L’anima del giustiziere non te la togli di dosso. Lavori sempre mettendo in campo un pensiero semplificato.” “Volevi dire animistico?” Bussano alla porta, è Danilo Santi, convocato da Tanni ad assistere alla sua
ricostruzione, gli piace che qualcuno addentro alla questione sia testimone della narrazione, offrendo conferme o smentite. Vedova si prepara per stendere il verbale, la sua schiena non ama per nulla la dattilografia e non l’ama nemmeno il suo fondo schiena, ma bisogna farsene una ragione. Contrariamente a quanto potrebbe apparire, osservando la sua figura piuttosto tozza, il ritmo di battitura è veloce, anche se la rapidità si accompagna a qualche défaillance in ambito ortografico e sintattico, ma in fondo non era tenuto a possedere una laurea in lettere per l’accesso all’Arma. Il contadino entra in ufficio, sempre mantenendo un che d’impacciato, i luoghi deputati all’analisi del crimine notoriamente lo inquietano. Si accomoda indossando un’espressione di finta desolazione, in realtà si evince come si possa moralmente ascriverlo al partito degli incendiari. “Stamattina mia moglie dava di matto perché hanno bruciato la villa, l’ho mandata dal prete a sfogarsi, non voglio sorbirmi le sue congetture sulle vecchie! Che Dio le abbia in gloria!” “Ha qualche idea su chi possa essere stato?” “Mah, tutti, nessuno, cioè tutto il paese per scrollarsi di dosso questa storia. Nel senso che a molti poteva interessare allontanare definitivamente l’attenzione da Barrio. Vede qui le intrusioni di stranieri non sono viste di buon occhio, anche i turisti, terminata la loro visita, è meglio che se ne vadano.” “Pare che nei dintorni della villa girasse quel vagabondo, come si chiama?” “Ah! Si riferisce al capitano, Tarcisio Corsini? Guardi, io lo escluderei, anche se è vero che girovaga sempre nei punti caldi. Diciamo che ci sono buone probabilità che sappia molte cose, e non solo sull’argomento Mariani ma su tutti qui a Barrio. Però è impossibile farlo parlare.” “Dove vive, ha un tetto, come se la cava?” “Qualcuno gli dà da mangiare, compreso il prete, intendo che frequenta qualche famiglia in particolare, però dove dorma non lo sa nessuno, e nemmeno cosa si porti appresso in quella valigia assurda. Non è escluso che bivacchi all’aperto vagando sui sentieri dei colli, qualche vecchia baracca o riparo si può trovare, seminascosti dalla vegetazione. Di certo non dà parola a tutti, per quanto mi
riguarda, a parte un saluto tipo mugugno e qualche scambio di opinioni sul tempo, io non ho mai fatto particolari ragionamenti con lui. Ti squadra dall’alto al basso, e pare che la sappia lunga, ma in fondo, secondo me, è innocuo!” “Come mai si è ridotto a fare una vita da vagabondo?” interviene il Vedova, che sinora era rimasto tranquillo, seppure in tensione già pronto a digitare i tasti del computer. Queste scelte di vita fuori dell’ordinario, così radicali, lo colpiscono perché fatica a giustificarle. “A Barrio gira da una decina d’anni, forse di più, ti capita appresso quando meno te lo aspetti; di sicuro il prete sa da dove viene e perché fa questa vita, con lui è in buoni rapporti, c’è un’intesa tra di loro.” “O capitano! Mio capitano! Il nostro viaggio tremendo è finito.” Al maresciallo Tanni si apre uno squarcio di reminiscenze liceali, una spontanea associazione di pensieri che lo riporta alla vena romantica di una poesia che lo aveva colpito per la sua forza evocativa, si distrae un attimo e ria mentalmente quanto ricorda. “La nave ha superato ogni tempesta, l’ambito premio è vinto.” E poi ancorale parole più cariche di patos: “Ma o cuore! Cuore! Cuore! O rosse gocce sanguinanti sul ponte, dove è disteso il mio Capitano, Caduto morto, freddato”. Poi, il vuoto, qui la memoria si ferma, dalla figura del vagabondo-capitano partono i versi evocanti atti di eroismo, ma la quotidianità ha ben altri temi da proporre, meglio abbandonare la poesia e stare appresso alla meno evocativa vicenda delle Mariani. “L’ho chiamata per ragionare l’ultima volta con lei di questa storia, vorrei che mi seguisse con attenzione nella ricostruzione È libero di fermarmi quando crede per sottolineare quanto le sembra che i dati non quadrino. Lei ha conosciuto la famiglia e può valutare se il discorso fila. A proposito, ieri ho chiamato la casa di cura che ospita Faustina, non vi sono segni di ripresa nella donna, anzi, l’involuzione e la perdita dei ricordi procede inesorabile aggravando la sua situazione, si conferma la presenza della demenza senile.” Mentre succhia l’ennesima liquirizia, il maresciallo trae fuori dal cassetto una serie di fogli pinzati, appunti segnati con una grafia regolare, lettere strette e lievemente inclinate a destra, scritte con la stilografica a inchiostro nero. Si appresta a leggere il contenuto, senza particolare intonazione.
“Il giorno del sopralluogo a villa Mariani sono stati rinvenuti due cadaveri in stato di decomposizione, si trattava dei corpi delle due sorelle maggiori di Faustina. La più giovane, Faustina di sessantasette anni, giaceva in stato di confusione mentale nella cucina di casa, accanto a lei abbiamo trovato la carcassa di un cane, residui alimentari ed escrementi sparsi sul pavimento coperti da carte di fortuna; sotto la sedia c’era un vaso di urina. Dal giorno del ritrovamento, Faustina non si è più ripresa. In compenso è stato ritrovato il suo diario, che ha permesso di definire alcuni aspetti controversi della vicenda, portandoci in un mondo illusorio di demoni, forze oscure e benigne. Altri quaderni erano pressoché illeggibili.” “Ti riferisci all’angioletto, alle malattie delle sorelle o alle entità soprannaturali che dovevano venire a prenderle?” Vedova deve intervenire perché il diario di Faustina non lo ha mai digerito. Tanni non fa caso ai commenti e riprende a parlare, andando a memoria, con qualche breve scorsa ai fogli. “Ma veniamo alle altre due Mariani defunte. Il primo cadavere ritrovato stava sulla veranda, quasi mummificato, apparteneva a Felicita, la sorella maggiore di settantotto anni. Il corpo era deposto sul tavolo, sopra una tovaglia a quadri, indossava abiti e scarpe, portava degli occhiali e un fazzolettone a fioroni scuri sul capo, un rosario sul petto, delle immagini sacre sopra i vestiti. Dai rilievi autoptici pare fosse morta da circa un anno. La sorella mezzana, Fosca, di anni settantatré, è stata ritrovata invece nella sua camera da letto, indossava biancheria da notte, sul cranio portava una cuffietta da cui si intravedeva qualche ciocca di capelli ingialliti e stopposi, sulle falangi degli anelli; la sua morte è avvenuta a qualche mese di distanza dalla sorella.” Un resoconto dettagliato, non c’è che dire! Facile blaterare, quando lui batte i tasti come un forsennato. Nemmeno il contadino pare consapevole dei suoi sforzi, il villico se ne sta muto e fermo ad ascoltare Tanni come fosse un oracolo. Vedova vorrebbe uscire a prendere aria, altro che digitare parole, cerca di consolarsi fantasticando di collaborare alla stesura di un copione da film dell’orrore. “A giudicare dalla biancheria che aveva in camera, Fosca è quella delle tre che probabilmente doveva credersi attraente!” Vedova non riesce a tacere, indisponendo il maresciallo che non ama interruzioni, riceve uno sguardo
inequivocabile, e ritorna al suo ruolo di registratore ivo. “Parlare di bellezza in questa famiglia è fuori posto! Qui troviamo tutto fuorché la bellezza, non ho mai visto un condensato simile di gente senza grazia, stramba, isolata, fuori dal comune buon senso!” Santi rincara la dose. Ma subito dopo coglie una punta di rimorso verso le sue affermazioni: anziché percepire un senso di pietà, un sentimento cristiano dovuto in una tale situazione, prova invece disgusto, quelle vecchie gli fanno schifo, suscitandogli nell’intimo una sorta di rabbia. E così parte tutta una serie di stati d’animo che disturbano la sua coscienza, si vergogna di provarli e alla fine di tutto, detesta ancora di più chi in modo incolpevole dà avvio al suo sistema di pensieri. Tanni tace, è stato interrotto senza motivo, riprende senza fare caso alle osservazioni emerse. “Quale fu il ruolo di Faustina dopo la morte delle sorelle? Da quanto emerso nel diario, la sappiamo in attesa di essere presa, come Felicita e Fosca, ipotizziamo che abbia vegliato i loro corpi. Ma a un certo punto deve essersi resa conto, pur avendo un concetto alterato del tempo, che l’attesa per raggiungere le sorelle diventava sin troppo lunga. Gli ultimi tempi, giorni, settimane, forse mesi, prima del nostro ritrovamento, le ha trascorse ferma in cucina.” “Io da mesi, come le ho già detto, non ricevevo risposta al portone d’ingresso della villa. Pensavo si arrangiassero da sole, e in paese dicevano che forse erano partite,” si giustifica il contadino. “Non voglio certo accusarla Santi, lei non aveva nessun obbligo verso la famiglia, comunque chi poteva immaginare gli sviluppi che poi sono emersi?” Tanni prosegue, dopo aver sedato i sensi di colpa del contadino. “Tornando ai fatti, dobbiamo ritenere che Faustina abbia scoperto il corpo della sorella maggiore morta nella veranda molto tempo dopo; poteva essere morta da alcune settimane oppure da mesi, difficile stabilire quando la più giovane si sia resa conto della situazione. Ipotizziamo che Faustina fosse tutta presa ad accudire Fosca, la sorella malata, una donna resa ancora più esigente dalla convinzione di essere stata invasa dai demoni, entrati a gonfiarle il corpo. Su queste tematiche abbiamo degli spunti nel diario della più giovane, tra le due doveva esserci un relazione più stretta, una sorta di dipendenza emotiva. La malattia di Felicita ha un decorso lento, per cui gradualmente diminuiscono i contatti con Fosca, ma
forse i rapporti si erano già diradati in precedenza, dal momento che Felicita si era ritirata a vivere nella veranda in compagnia dei felini. Probabilmente Felicita non sta meglio in salute della sorella, ma vivendo isolata le sue condizioni non sono note. Possiamo supporre che le sia accaduto un malore improvviso, acuto, tanto da impedirle di chiedere aiuto, si trascina sistemandosi sul tavolo, incapace di deambulare e di richiedere soccorso. E qui appare perlomeno una stranezza, perché il corpo è sopra un tavolo? Era lì che si sistemava per dormire? Un dato improbabile, anche se nella veranda non ci sono divani, abbiamo ritrovato soltanto un materasso, che è stato trascinato sopra il suo corpo.” “Mi permetta, la interrompo,” interviene Santi, “per dirle che in quella famiglia non c’è stranezza che tenga, Felicita poteva benissimo dormire in un materasso buttato a terra. Sopra il tavolo deve avercela spostata qualcuno, forse Faustina, a fatica certo, ma avrebbe potuto farcela, del tempo ne aveva da are, e anche tanto. Metti che provando e riprovando a trascinare la sorella ata a miglior vita, alla fine ci sia riuscita! Poteva essere una posizione buona quella per una specie di sepoltura, messa là in alto, appunto in attesa che il corpo venisse preso. Ma chi dovrebbe prendersele poi! Meglio che taccia! Vada pure avanti.” “Faustina non è in grado di cogliere il putiferio forsennato dei gatti prigionieri della stanza. I felini nel giro di qualche giorno accompagnano Fosca all’altro mondo, una fine cruenta. Disperati nella ricerca di qualcosa di commestibile, spargono il terriccio, si avventano sulle credenze, gli artigli devastano il legno, viene sparsa ogni cosa, divelti vasi, il lamento resta soffocato dentro lo squallido stanzone, gli animali non trovano via di scampo. La veranda diviene il regno dei vermi. In base alle analisi del medico legale sappiamo che qualche mese dopo la dipartita di Felicita, la stessa sorte tocca a Fosca. Due anni prima del nostro ritrovamento, Faustina segna negli appunti l’aggravarsi delle condizioni di Fosca. Nel testo si parla di alberi che si intrecciano e avanzano per prendere la sorella, di diavoli che girano per la stanza, sul corpo c’è qualcosa di brutto. I dati emersi nel diario testimoniano la presenza di un pensiero infantile, ancora legato ad aspetti animistici. Dalle perizie anatomopatologiche ipotizziamo l’aumento dell’edema negli arti, la presenza di forti dolori e l’incapacità di deambulare. La morte di Fosca è datata un anno fa, senza indicazione precisa del giorno, il contenuto è scarno. Da parte di Faustina sembra in atto un distanziamento emotivo, quasi un osservare distaccato dei fatti. Leggo i i del diario.”
Mia sorella sta male, respira a fatica. L’orologio è fermo dalla mattinata. Alle 22.30 Felicita non risponde più, quasi contemporaneamente la luce del corridoio si spegne. Pregherò perché l’Angioletto che me la ridia!
“Verso la fine del diario troviamo una nota.”
Saremo prese insieme; ora aspettiamo il momento di risorgere.
“Viene registrata la morte di Fosca, dunque, ma non vi sono note sulla fine di Felicita, che, come è intuibile, deve essere avvenuta in modo imprevisto.” Tanni si ferma per bere, Vedova invece ha la gola secca e le mani intorpidite, sta per scattare il crampo dello scrivano, un morbo professionale che di certo lo colpirà. “L’unico diavolo che girava in casa era il loro padre,” sbotta Santi. “Delle figlie non si è mai curato e nemmeno di sua moglie, poteva permettersi di dedicarsi alla caccia, raccogliere trofei, imbalsamare fauna dei colli, affettivamente era un uomo primitivo. Uno a cui non interessava far parte del genere umano. Certo che non me la vedo proprio quella disgraziata di Faustina girare in mezzo ai cadaveri aspettando di risorgere! Mah! Se tardavate di qualche giorno l’ingresso alla villa ci lasciava le penne pure lei.” Vedova tace perché si è fissato sul pensiero animistico, ora Tanni l’ha affibbiato a Faustina, ma a parte le battute, questa storia dell’animistico inizia a stargli sulle scatole per davvero. Tanni evidentemente crede di essere l’unico privo di questo benedetto tipo di pensiero, un illuminato che ragiona sempre da adulto. L’appuntato tace e inchioda le lettere sui tasti, prima o poi andrà a fondo sulle questione pensiero e sarà pronto a controbattere. Tanni riprende leggendo le parole di chiusura del diario.
Il cibo sta finendo, non ne ho più per i gatti, il miele lo terrò tutto per me e per Marica. Sono le 13.20, anche Marica si è distesa per sempre. La sveglia d’argento suona ancora, mi desto di colpo dopo quel suono, stavo sognando che squillasse il telefono. Cade quella pioggia bianca, tra poco verrò presa, devo solo aspettare.
“Marica è la sua cagna, e anche quella ha fatto una brutta fine! Lo dicevo io, e il discorso l’ho ripetuto anche a mia moglie, da quelle non si salva nessuno, anche le bestie fanno secche! Altro che pioggia bianca e sveglia d’argento, là è bruciato tutto!” Santi fatica a controllare quella sorta di malore interno che sappiamo turba la sua coscienza non poco, ma quelle tre avevano già un triste destino segnato secondo lui, inutile starci tanto sopra a discutere. Tanni segue il proprio discorso e non si lascia deviare, riprendendo da dove era rimasto. “Faustina è bloccata, annichilita, ritrovando un barlume di ragione deve aver cercato il conforto della sorella maggiore che non vede da mesi. Seppure nella sua mente il tempo non venga percepito con le categorie normali, segue il ritmo di presenze e assenze, di sentimenti e suggestioni. Supponiamo che abbia vegliato la sorella mezzana con totale dedizione, dimenticando tutto il resto. Dopo, qualcosa la costringe a interrompere la veglia, riesce a trovare la forza per uscire a cercare Felicita nella veranda. Ma il teatro del ritrovamento è macabro, le carcasse dei felini subito all’ingresso, apre la porta della veranda e si decide a entrare. Nella soffocante e maleolente stanzona scopre il corpo di Felicita, fugge via all’aperto. Cade in una disperazione totale, i diavoli hanno preso anche la sorella maggiore. Cosa le rimane da fare? Forse lascia are dei giorni, o forse no, sente la necessità di ritornare, di bonificare quello spazio infestato dal male, recupera le immagini sacre e le sparge per terra, giunge dinnanzi al corpo della sorella, già in parte alterato, forse lo trascina sopra il tavolo o forse si trova già lì. Forse era abitudine di Felicita dormire dove capitava, gettando un vecchio materasso sul pavimento, deposta in compagnia dei felini, gli unici esseri con cui condivideva la propria relazione. La dependance emana un fetore insopportabile, Faustina scappa fuori ancora, non può sostenere lo sguardo sulla sorella. Alla vista del cadavere seguono forse altri sogni, altre visioni e premonizioni. Qualcuno verrà a prendere anche lei, si tratta solo di attendere. Ritorna ancora nella veranda, purificando la scena con immagini sacre e spargendo anche ceri
votivi. Accostato al muro c’è un vecchio materasso, lo prende, lo trascina a fatica, con quella forza nervosa dettata dalla necessità di attuare un gesto urgente, lo getta sopra il corpo, per coprirne la vista. E ora cosa le resta da fare? Sono per lei da tempo alterati i canali di lettura razionale del reale, le resta soltanto un pensiero deformato, univoco, non rimane che attendere la propria fine: Verranno a prendere anche lei! Chiude ogni contatto con il mondo, non può ricevere nessun aiuto dall’esterno, si stabilisce in cucina, il luogo più familiare, non si sposterà, non avrebbe comunque scampo. Consuma il cibo rimasto, ma lentamente cala ogni esigenza, si perde lo stimolo di assumere cibo, rimane solo l’impulso di rispondere ai bisogni fisiologici. Sola nella semioscurità, attende il trao con la resurrezione dei corpi. Anche la cagna viene presa, il respiro si fa pesante, tutto crolla, non c’è più nulla da annotare sul diario, il tempo si dilata in una drammatica e inevitabile attesa della fine.” Meglio non contare le parole impresse sui tasti, Vedova freme, schiacciato dalla ridondanza lessicale della ricostruzione, ma già assapora come in futuro rifilerà il compito di stenografo a un suo sottoposto. “Un bel finale, non c’è che dire!” Santi interviene appagato. “Guardi, potrebbe essere andata proprio così! Quei discorsi su angeli e demoni che trova nel diario vengono dalla mente della sorella mezzana, Fosca, che a sua volta se la intendeva con la Vendramini. Faustina aveva pochi pensieri propri e quei pochi, secondo me, erano anche confusi. Mi è sempre parsa una di quelle creature nate solo per stare in casa a servire i genitori o chi ha bisogno, incapace di orientarsi fuori dalle mura domestiche. Tutte quelle preghiere insulse poi, quelle visioni strambe del diario, mi creda, sono un’eredità di quella spostata della nobile Vendramini. Se fosse andata a lavorare nella sua vita, almeno un’ora, non avrebbe avuto tempo per vedere né santi, né demoni. E adesso anche quella è sistemata per bene!” Poiché la moglie non può sentirlo, Santi si apre sino in fondo, e poi Rosa stessa gli aveva detto di dire tutto al maresciallo, di essere sincero sino in fondo. “Come spiegare le carcasse di felini che abbiamo trovato fuori dalla veranda, pochi resti di animale certo, ma perché stavano all’esterno?” Il maresciallo si attacca a un ulteriore quesito aperto, tra i molti suscitati dal caso in oggetto. “Li avrà buttati fuori Faustina, cercando di ripulire la stanza.” Santi abbozza qualche spiegazione. “Oppure saranno crepati dal dispiacere, seguendo la sorte della padrona. Ma il gatto non è come il cane, non si sacrifica seguendo lo stesso
destino dell’uomo.” “Non è stato possibile accertare presenza di avvelenamento in questi corpi,” spiega il maresciallo, “a meno che non ipotizziamo l’intervento di altre persone dentro questo desolante scenario.” Pausa di silenzio nessuno raccoglie lo spunto del maresciallo, inutile ogni ulteriore sforzo esplicativo. In compenso, di sottecchi, Vedova cova un certo fastidio per motivi di tutt’altro genere, ha notato che da un po’ di tempo il maresciallo si dà arie da letterato, e giù con gli aggettivi nella descrizione, giù con i commenti e le interpretazioni, ma i resoconti oggettivi, strettamente aderenti ai fatti, dove vanno a finire? Quei verbali da carabinieri, sofferti e stringati, tipici di una tradizione schematica dove sono? Proprio a lui doveva capitare l’abbinamento con l’unico maresciallo con velleità narrative? Roba da non credere, bisognerebbe attenersi ai fatti, è un discorso che sanno anche i muri, eppure con questi verbali letterari, il Tanni fa bella figura in alto. Già precedenti relazioni sono state apprezzate non poco, e invece per lui, esecutore materiale, umile digitatore di parole, manco un cenno, il mondo va così! Per non parlare della correzione, perché Tanni rilegge ossessivo ogni riga e poi gli errori che evidenzia sono sempre una marea. Tutto da rivedere per il Vedova e, alla fine, non si trascrive un semplice verbale, ma un’opera tesa a certificare le superiori qualità introspettive del maresciallo. L’uomo dal pensiero superiore tace, dopo i fatti accertati, rimangono solo ipotesi, supposizioni, più volte rivisitate. “Non si sa come tirare le somme in queste situazioni!” Santi si sente in dovere di dire qualcosa di equilibrato, senza farsi trasportare dall’emotività, per far questo deve immaginare di stare di fronte a quell’ostinata di sua moglie, che non gli lascia scampo. “I misteri di questa vicenda, non dico che sono andati bruciati con la villa, un po’ sì però! Comunque, secondo me, qui abbiamo due soggetti che sanno e non parlano, almeno qualcosa in più si potrebbe ricavare.” “A chi si riferisce?” “Penso al prete, se tace significa che ha ragionevolmente valutato che per il bene della comunità e del paese sia meglio così. L’altro è il Capitano, un tipo davvero particolare, con un’etica tutta per conto suo, che a ben guardare non deve essere tanto diversa da quella del prete.”
“Lo abbiamo cercato ma non si è presentato, poi ho lasciato perdere.” “È la scelta migliore,” lo interrompe Santi. “Solo il prete riuscirebbe a cavare qualcosa da quell’individuo.” Vedova manda in stampa le verbalizzazioni del capo e si appresta a rileggere, è solo una prima stesura, a cui poi seguiranno le revisioni, finché anche l’ultimo anello per la futura promozione sarà pronto. Le vie della progressione di carriera hanno assunto nel caso in questione risvolti grotteschi. A breve l’immersione nel mondo del macabro resterà solo un lontano ricordo, insieme a quel puzzo fissato in modo incancellabile nei loro centri olfattivi. Squilla il telefono, è il Giacomelli ancora in preda a frenetiche ricerche sugli Aruspici, ultima ione maturata in seno al caso delle Mariani. Tanni prende il ricevitore e lo lascia parlare, appena il flusso si placa interviene. “La ringrazio dottore delle indicazioni bibliografiche sugli Etruschi, ma vede il caso è chiuso, oramai non possiamo aggiungere più nulla a quello che sappiamo.” Dall’altro capo Giacomelli insiste, segnalando un libro esplicativo sui riti sacrificali, un’opera ben documentata che ne traccia un excursus nel corso dei secoli, per giungere all’attualità. Tanni si appresta a catturare la stilo blu dal cassetto per segnare qualche appunto. “Detti pure il titolo, sto prendendo appunti, se è così interessante credo che lo leggerò comunque per cultura personale.” La conversazione si chiude piuttosto bruscamente, dal trambusto Tanni arguisce che c’è fermento nello studio medico, i pazienti non sopporterebbero un’altra telefonata interminabile. Il maresciallo ripone la cornetta e agguanta una caramella al mentolo; un profumo pungente con un che di medicinale si spande, aria salubre utile alla disinfestazione d’ambienti. Tanni ruota la sedia, succhia la mentina bagnandosi le labbra, rivolgendosi ironico all’appuntato.
“Il medico mi ha dettato un titolo anche per te, anzi è un’indicazione diretta ad approfondire gli studi di storia di tuo figlio, offre una sintesi sul meglio della civiltà etrusca.” “Mio figlio è già ato ai Romani, ho altri problemi adesso!” taglia corto Vedova, che sino a domani non scriverà più una parola, ha deciso di mettere a riposo i muscoli della mano. Santi poggia sopra la scrivania la bottiglia che aveva con sé, giusto nella sacca sistemata ai suoi piedi, ci sono anche i dolci di Rosa, attenzioni della cultura contadina, che tirano su il morale. Si porta il discorso sulle vigne e l’annata dell’olio, inevitabile concentrarsi su qualcosa di vivo, saporito e solido. Sarà la contraddizione di essere uomini, la necessità di non sostare troppo nell’afflizione, imparando a districarsi tra tragedia e normalità, ma chissà perché, sensi di colpa a parte, si tira un sospiro di sollievo!
XIII
Nel contesto territoriale di Barrio le radici della famiglia Mariani rimanevano incerte, si poteva scavare nella memoria senza affondare troppo negli snodi dell’albero genealogico, fondandosi molto su chiacchiere e dicerie infarcite dalla suggestione popolare. Filomeno Mariani, il nonno delle Puntute, veniva da fuori paese, un posto lontano e imprecisato che non si era mai saputo. Si dice che il padre fosse un colonnello dell’esercito, in tarda età generò tre maschi, e alla sua morte ciascuno abbandonò la casa cercando una strada propria. Come nella fiaba del vecchio mugnaio, la preferita dal contadino Danilo Santi, si divisero l’eredità, e nessuno seppe più nulla dell’altro. Ancora più vaghe risultavano le notizie sulla madre, tali da costituire un quadro romanzato degno della miglior inventiva del volgo. Alcuni affermavano che venne colpita da un’inesorabile perdita della memoria, finendo i suoi giorni rinchiusa in un ospizio, abbandonata da tutti; per altri dopo la fuga dai doveri familiari si ritirò in un convento a espiare le sue malefatte, servendo le monache nei lavori più umili e lì rimase sino alla fine. Di fatto sparì dalla circolazione, poco dopo aver messo al mondo le tre creature. Voci più malevole la descrivono come sfrontata e aggressiva, una donna irrequieta, difficilmente inquadrabile. Compensava la scarsa avvenenza con una voluttuosa disponibilità, giaceva con chiunque, per una sorta di desiderio malato in cui la risposta maschile ai suoi richiami sembrava confermarle il proprio potere. Donna smaniosa, Perpetua, non dimostrò sentimenti materni, ma questo il colonnello Fernando Mariani, il bisnonno delle Puntute, non poteva saperlo prima. Ne era affascinato, tanto egli era fermo e quadrato, tanto lei lo avvolgeva dentro un’inquietudine esaltante, la mera illusione di un vecchio deciso a coltivare gli ultimi anni con un qualche affetto. La natura febbrile della donna emerse poco dopo il matrimonio, dapprima Fernando cercò di giustificare, capire, poi dovette coprire le maldicenze, alla fine
gli fu risparmiato il colmo del disonore, poiché Perpetua sparì senza lasciare traccia, dando adito alle più stravaganti interpretazioni. Il colonnello Ferdinando visse a lungo, più di quanto gli sarebbe interessato, così ebbe la soddisfazione di veder diventare uomini i propri figli; forti, robusti, ma freddi e isolati. L’assenza educativa della tenerezza materna si leggeva nei caratteri chiusi e ruvidi dei tre eredi. Dei fratelli maggiori si persero le tracce, ogni legame venne reciso. Filomeno, il più giovane, era anche il più sensibile dei rampolli, si portò dentro il vuoto lasciato dalla madre sviluppando una malinconia profonda; uomo dal fascino oscuro, cupo ed enigmatico, vagò per molto tempo prima di giungere, chissà come, alle porte di Barrio. Praticò diversi lavori, ma mai il contadino, non ancora deciso a stabilirsi, era un nomade in cerca di punti fermi. Appena vide il borgo qualcosa dentro di lui si scosse, capì che era giunto il momento di fermarsi. Case di pietra, solide, innestate in una natura ridente, gli toccarono l’animo, credette che fosse giunto anche per lui un tempo di pace. Diede il meglio di sé in eleganza e portamento, frequentava le messe, e facendo violenza alle proprie inclinazioni solitarie, conversava di affari sul sagrato con gli uomini del posto. Vinse la propria ritrosia sapendo di dover sfruttare la sua occasione. Un occhio attento avrebbe colto la lotta interiore di Filomeno ogni volta che apriva bocca, ma a uno sguardo superficiale poteva apparire soltanto riservato, preso nel nobile sforzo di ponderare prima di affermare alcunché. Frequentò per un certo tempo la vita del borgo, bazzicando per ritrovi e locande, finché l’occasione lo condusse in casa dei Marangoni, famiglia stimata in paese, benestante e generosa, raccoglieva il favore comune; conobbe così Giselda, l’unica figlia, giusto in età da marito. D’indole semplice e fiduciosa, Giselda non manifestava particolari ambizioni, legatissima ai genitori si affidava completamente a loro e non si sarebbe curata di cercare marito, se il padre non glielo avesse condotto in casa. Sarebbe rimasta volentieri zitella, coltivando i propri interessi per le piante medicinali, gli erbari, gli intrugli, le tisane e i decotti miracolosi frutto della sua suggestione. Giselda era lievemente pingue, di statura media, i suoi occhi minuti e distanti, dalle pupille chiare, sembravano non fissare niente di definito, oscillava il capo a destra e sinistra, cercando di allargare il campo visivo focalizzando oggetti e persone. Svettava al centro del viso un naso corto e appuntito, accompagnato da
zigomi alti, sporgenti e stondati, una sorta di triangolo chiuso in basso dalla bocca; qualcosa il lei ricordava atmosfere orientali o genti slave. Un volto che raccontava storie, evocava atmosfere lontane, chissà quale alchimia genetica aveva contribuito a forgiarlo, rendendolo per certi versi interessante. Filomeno fiutò l’affare e giocò le sue carte, riuscì a irretire la giovane, guadagnandosi la stima dei genitori, ritrovandosi in breve ricco proprietario terriero. Quelli del fidanzamento furono i suoi anni migliori, in cui tentò d’infliggersi un severo controllo emotivo, giocandosi disperatamente la possibilità di una vita normale. Sperava di placare nella famiglia i suoi dolori, quell’angoscia di vivere che a volte lo catturava, restituendogli un sentimento di disperazione e di vuoto tagliente e profondo. I suoceri arono in breve a miglior vita, lasciandogli l’onere di amministrare i beni di famiglia. Delegò ai fattori più esperti il governo delle colture, ma imparò molto e fece ben fruttare il capitale. Seppure di ampie forme, florida e dal bacino abbondante, la tranquilla Giselda non manifestò particolare disposizione riproduttiva. L’aria buona, la vita tranquilla, avrebbero dovuto dotarla di particolare fertilità, invece l’agognato figlio non si decideva a comparire, né il maschio, come si aspettava Filomeno, ma neppure una femmina, che sarebbe stata accolta in caso di disperazione, almeno per aprire la serie, rompere in qualche modo il ghiaccio, e invece nulla per molto tempo. Quando ormai si erano perse le speranze, il ventre tondo e molliccio di Giselda ospitò finalmente una vita. L’attesa divenne da subito parossistica, il povero erede avrebbe dovuto raccogliere in sé tutte le aspettative paterne, portandone il pesante fardello. Furono inevitabili i cedimenti in ambito educativo, le concessioni sin troppo accondiscendenti, di conseguenza Filiberto godette sin dai primi vagiti di una posizione privilegiata. Crescendo, il suo carattere si forgiò: individuo solitario, restio a confrontarsi con gli altri, coltivò un’immagine alterata di sé e delle proprie capacità. Univa nel suo animo, faticando a mitigarne il contrasto, l’angoscia e la cupezza paterna, insieme alla frugalità materna, tutta dedita a occupazioni inconsistenti. Anche lui venne presto segnato dal dolore, poiché mamma Giselda lo lasciò nella prima infanzia, solo, a fronteggiare gli umori paterni sempre più tetri e serrati. Se soltanto la madre fosse vissuta più a lungo, la sua impronta benevola avrebbe prevalso, modificando in un senso il suo carattere, ma anche questa volta la sorte decise in modo diverso in un’ingabbiante catena di eventi sfortunati.
Il vecchio Filomeno chiuse gli occhi, una sera d’estate, seduto al tavolo della cucina, abbassò il capo per riposare dopo il pasto, ma non lo rialzò più. Una folla complessa di caratteri ereditari, di strani progenitori, parenti, nonni, zii, sembrava essere penetrata sin nei meandri più reconditi dell’animo di Filiberto e non tardò a manifestarsi. Non si decideva a maritarsi, impegnato a curare i propri affari, sfogava le malinconie in lunghi percorsi solitari, e più spesso in battute di caccia, ripercorrendo gli insegnamenti paterni sulle abitudini della preda, i territori, la tecnica dell’agguato. Lui e l’animale braccato, una sfida che lo animava, doveva riuscire nell’impresa, uccidere e portare a casa il trofeo, aumentando la sua nomea di cacciatore infallibile, quanto implacabile. Sinora con le donne non c’era stato nulla di serio, avventure di poco conto, solo per svagarsi e cercare di capire cos’era l’amore. Superati i quarant’anni fu preso dal terrore di scomparire senza lasciare traccia, generare dei figli maschi divenne la sua fissazione. Iniziò a guardarsi intorno con più cura, adesso era deciso, ma in paese nessuna godeva della sue preferenze, avrebbe dovuto andare a cercarsela fuori, chiese, si informò, e cominciò a vagare, lasciandosi guidare dall’istinto. Stava cadendo nello scoraggiamento, quando i suoi affari lo indirizzarono in una lontana città di pianura, vi era giunto per i suoi commerci di animali imbalsamati, in quel luogo dimorava un nobile dalle ioni originali. Il conte Dosso dei Castoldi, divenne il suo migliore acquirente, non era tanto un cacciatore quanto più un apionato ornitologo, la teste di animale esposte nel salone venivano esaminate, didatticamente illustrate agli ospiti, costituivano oggetto di studio. A questa collezione si aggiungevano le raccolte d’insetti e coleotteri, e in ambito vegetale i funghi essiccati e raccolti in vaso. Alcune stanze della villa erano deputate a contenere le sue collezioni, veri e propri gabinetti scientifici con bacheche in vetro e cartellini esplicativi. Nella stanza predisposta per i saprofiti, si intravedevano all’interno del vetro centinaia di esemplari di specie fungine, accompagnati dai bastoni da eggio intagliati, dai frutti di bosco frammisti alla raccolta di zucche dalle forme più svariate; ma l’ultima mania del conte erano gli uccelli. Filiberto li cacciava ormai su richiesta, esauriti i più comuni fagiani, galli cedroni, pernici, barbagianni, gufi e allocchi, si sottigliava sui volatili di piccole
dimensioni, picchi, ghiandaie, storni, calandre, scriccioli, cardellini, l’elegante upupa, le crudeli averle, che si nutrono d’insetti infilzati su uno spino e lasciati a frollare. Il Mariani era divenuto un esperto, e questa attività assorbiva integralmente la sua indole solitaria. Il vegliardo conte diventava sempre più esigente nelle varietà, sollecitando un gioco sempre più raffinato tra esemplare e cacciatore. La morte improvvisa del conte segnò il termine delle estenuanti ricerche e dei faticosi appostamenti di Filiberto. Questo avvenne però in seguito, chiudendo definitivamente le peregrinazioni del Mariani. La lunga frequentazione del nobiluomo aveva però lasciato a Filiberto il tempo sufficiente per posare lo sguardo sulla famiglia del custode di villa Dosso dei Castoldi, Casimiro Piantoni, un contadino sano e laborioso, con moglie e figlie altrettanto in salute. Filiberto decise di orientarsi su una delle cinque figlie; dal momento della sua risoluzione verso il matrimonio erano trascorsi diversi anni, viaggiava oramai alla soglia dei cinquanta. Scelse la ragazza più giovane, e non si curò di guardare dote e ricchezze, non era certo quello il suo obiettivo. Secondo una consolidata tradizione familiare, si orientò su una donna dall’aspetto morbido e tondo quasi per compensare il suo corpo lungo, secco, spigoloso, con la schiena quasi piegata nel sostenere tanta elevazione. Liberata, l’ultimogenita dei Piantoni, di certo morbida lo era, e solo quello sarebbe bastato a compensare gli aculei, fisici e morali, attirando il carattere spinoso di Filiberto. A ben guardare non aveva nulla di particolarmente attraente, anzi gli occhi grandissimi e sporgenti sconcertavano, bisogna prenderli, abituarsi, ma poi la sua allegria smaliziata diventava contagiosa. La carnagione liscia e rosata era ravvivata dalle gote accese, la sua poteva dirsi una pelle che respirava, abituata all’aria aperta, Liberata manteneva un inconsueto biancore, senza venire mai scottata dal sole. In seguito, con la vita coniugale, Liberata lievitò sempre di più, aggiungendo strati e strati alla sua ossatura, ormai sommersa, la donna cercava nel cibo le uniche soddisfazioni di un matrimonio difficile. Fu breve il fidanzamento, Filiberto quasi avvertiva la possibilità di un brusco cambiamento negli eventi, il suo obiettivo era portare con sé la ragazza, la fertile contadina, tagliando definitivamente i ponti con il ato. A breve infatti, venne completamente reciso ogni legame con la famiglia; Liberata dovette accettare la separazione dai suoi, un taglio deciso scattò appena dopo il
matrimonio, una sofferenza lancinante che la povera donna superò in seguito, riversando ogni affetto sulle figlie. Con il trascorrere degli anni si affievolirono i già flebili ricordi, Liberata evocava il clima familiare riversandosi in cucina, sommersa da pignatte, sughi, composte di ogni tipo, affogando nei profumi e nei gusti dei cibi le piaghe dell’animo. E poi c’era la terra e l’aria aperta, la schiena china sull’orto, le mani affondate sul suolo, a smussare i dolori; sradicava erbe, ripuliva, godendo dei prodotti ricavati, vissuti come un’amorosa risposta della natura alle sue fatiche. Vibrava in casa l’attesa del figlio maschio tanto ambito, sembrava quasi una garanzia ottenerlo da una giovane così sana e in carne, ma la sorte decise diversamente, confondendo i disegni del Mariani. Quando vide la luce la terza femmina, i progetti di Filiberto vennero devastati, aveva più di sessant’anni e una rabbia sorda, mista a rassegnazione, segnò il tono emotivo dell’ultimo tratto della sua esistenza. Alle figlie si trasmise il germe oscuro della sua anima dolente.
L'Autrice
Alessandra Fasson è nata nel 1962 a Monselice, cittadina ricca di storia, in provincia di Padova. Laureata in psicologia, specializzazione universitaria in Tutor dell’apprendimento. È insegnante nella scuola primaria da oltre vent’anni. Ha collaborato con un settimanale dal 2005 al 2013 e ottenuto l'iscrizione all’albo dei giornalisti pubblicisti nel 2008. È sposata e ha due figli. Apionata di lettura, cinema e trekking.