Gioia Aloisi, Monica Gorini
L'albero della vita
L’albero della vita
di Gioia Aloisi, Monica Gorini
Dicembre 2014
ISBN 9786050335842
Autopubblicato con Narcissus.me
www.narcissus.me
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Versione digitale realizzata da Simplicissimus Book Farm srl
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UUID: 9786050335842
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CAPITOLO I
La madre e il fratello
Un animale era stato ucciso. Stava riverso a terra. Nel suo corpo era conficcato un pezzo di freccia. Fu un giorno pieno di lampi e di pioggia. Era una madre. Fu portata via da un umano. Da un posto vicino, sopra la montagna, dentro un nido, due orfani facevano capolino pigolando. Fecero a meno della mamma. Un altro uccello li nutrì. Rimasero in due a essere sfamati, da un uccello colorato: il padre. Aumentarono di taglia, spuntarono loro le piume, poi le penne e finalmente cominciarono a uscire. La scuola di volo era complicata, uno imparò a volare da solo, quasi subito. L’altro sembrava diverso, piccolo. A fatica apriva le ali, tentennava a buttarsi giù dal nido, continuava a fare saltelli intorno alla casa di trifoglio e cespuglio, beccando qua e là come a prendere tempo. Solo brevi voli, lo stretto necessario per recuperare qualche bacca. Furono compagni per poco, poi il più veloce, si accorse che il piccolo faceva fatica a volare, si era appoggiato a terra e non si muoveva sempre in attesa di un coraggio che non gli veniva. Era sua sorella, una femmina. Aveva pazientemente tentato di insegnarle a volare, ma lei aveva sempre un po’ di paura di troppo. La piccola stava lì nel bosco a spiumarsi, saltellando incauta fra rovi e lamponi. Qualcuno osservava dai cespugli. I pigolii del fratello furono inutili richiami di allarme. Lui, più veloce, si accorse del felino in agguato e si buttò in volo contro di lui. In un attimo, fu ferito da una zampata veloce. Le regalò la sua vita così in fretta che sentì il rumore del suo cuore sollevarsi nel petto ed ebbe solo il tempo per pensare: ”…amata!” Si alzò in volo per un breve tratto e cadde riverso sul
fogliame fitto. Il felino lo raggiunse, giocò con il suo corpo per un po’. Quando vide che la preda non si muoveva più scappò via, attirato da un rumore nel fitto della boscaglia. Lei per la prima volta volò a lungo intorno a lui e al felino, sopra le loro teste, in attesa di un’idea per salvare il fratello. Un’idea che non mise mai a fuoco. Rimasta sola capì che doveva crescere. Ora sarebbe stato più difficile. Restò lì appoggiata su di un ramo di betulla, attonita, inebetita. All’arrivo della sera si spostò dal posto, dove si era posata e senza sapere più nulla, dopo aver visto la cruda scena di morte, volò di rotta in rotta come un uccello cieco. Andò sfinita volando sino alla deriva del fiume e bevve un po’ di quell’acqua limpida; capì che lui le aveva dato molto più di un sorso per vivere. Nessun altro avrebbe potuto dire che cosa gli doveva. Era lucida, sapeva di aver avuto un grande dono d’amore. La sera nel nido faceva freddo, più freddo di sempre. Guardando il cielo, bombardato di stelle, pensò che quello che vedeva e sentiva in quel momento era ciò che avrebbe conservato di quel giorno; ognuna di quelle stelle scoppiava nel suo petto come un lampo. La sua testa andò agli occhi del fratello e il mattino seguente ritornò indietro volando, a cercare il suo piumaggio che pensava sparpagliato nei vicoli della selva. Un odore triste arrivò dal bosco, selvaggio, conosciuto. Lo trovò. Invece era rimasto lì, dove l’assassino lo aveva ucciso. Col becco portò centinaia di piccoli rami sul resto di quel corpo abbandonato e quando il suo sguardo si aprì, la luce la portò verso un roseto. Prese un petalo, poi un altro e un altro. In un vai e vieni d’alveare, i petali ricoprirono i rami e pensò che questa sarebbe stata la loro casa, il loro punto d’incontro. Pianse l’abbandono e se ne andò.
Il padre
Rimasta sola con il padre, cominciò a sfidare il vento, i rami, e si esercitò a volare a più non posso. Come un marinaio non conobbe casa e girò terre e silenziosi arcipelaghi, scoprì angoli di case colorate, sfrecciò dentro burrasche e terricci, ò le nuvole e i lampi e le pazze raffiche di pioggia. Girovagando si spinse fino ai mari del Sud. Schizzava veloce dentro le foreste ma restava attonita nel vedere il verde brillante e diverso delle chiome degli alberi così placava le sue tristezze e i ricordi cantando nel vento. Sapeva, paragonandosi agli altri uccelli che uno dei raggi del sole l’aveva dipinta sulle ali; l’arancio del tramonto racconta ancora oggi, che lei apparteneva a una specie reale: i Simurg. Era una femmina però, e quando sollevò i suoi occhi davanti al padre, lui le spiegò che tipo di vita poteva avere una come lei. Uomini e donne erano sempre in cerca di creature magiche per procurarsi vantaggi e benefici; erano capaci di uccidere e ferire. Il padre le narrò che gli uomini erano spesso desiderosi del loro piumaggio a causa di una leggenda che prometteva ai mortali l’immortalità, la guarigione dai dolori e dalle ferite e la fertilità per generare nuova progenie. Improvvisamente un sentimento d’incertezza li unì. Il destino giocava con loro già da parecchio tempo. Vide un seme cadere sull’erba. Nel pensiero della natura, lei aveva avuto in dono un costume reale, un piumaggio unico. Qualcosa che non aveva scelto. Pensò che avrebbe potuto essere un seme. Nessun pericolo, un solo luogo di nascita, un destino forse meno crudele. Scosse la testa a beccarsi il collo riflettendo che in fondo, finora non sarebbe voluto nascere in nessun altro nido. E che nel suo tempo forse, l’homo sapiens sarebbe andato altrove a creare infelicità.
I Simurg
I Simurg non combattono fra loro, decidono il loro capo dalla bellezza delle piume e dal coraggio nel volo. Lei però era una femmina e difficilmente sarebbe potuto diventare il capo di tutti gli altri uccelli dal piumaggio arancione e blu cobalto. No non avrebbe potuto. Il volo delle femmine non era particolarmente curato, non erano abituate come i maschi al rischio, al cimento, alle carambole d’aria e le loro piume restavano poco brillanti, meno lucide e preziose rispetto a quelle dei loro simili. Le Simurg si dedicavano principalmente alla cura dei piccoli, ai semi dell’albero sacro e alla loro proliferazione. Era così da sempre.
Ma lei aveva avuto un’altra storia.
Entrò, un giorno, nello stormo all’improvviso, sbucando da una nuvola ad alta quota. Fece una virata piroettando le sue ali in direzioni sconosciute a molti. Poi danzò in aria, voluttuosamente, aprendo e chiudendo le piume colorate della sua coda. Improvvisamente le chiuse; in un attimo si scaraventò giù verso terra facendo intendere che voleva sfidare in una gara di voli il re dei Simurg Assar I. Lo stormo capì subito che quelli non erano i voli rituali per cominciare la strada verso i territori più caldi. Quella femmina imprudente non aveva seguito nemmeno uno dei segnali legati alla cerimonia di partenza. Era evidente a tutti loro che volesse fornire prova di un’uguaglianza con i maschi. Si era montata la testa quella Simurg. La conoscevano sin da quando era piccola. Sapevano tutti del sacrificio del fratello, della morte di sua madre per mano dell’uomo e della sua sfida contro il mondo per alleviare il suo dolore. L’avevano lasciata fare, avevano permesso che volasse come un maschio, le
avevano dato le chiavi del cielo e la sua energia nel volo era stata la sua forza per vivere. Il suo destino l’aveva seguita fin qui. Guardò indietro. Guardò indietro ancora. Si rivide piccola, indifesa, innocente a saltellare nel trifoglio. Vide suo fratello, sentì che ora era come lui. Le mancò l’aria e non capì più nulla, agì così piena di energia perché non poteva contenere una differenza che le era stata stretta da sempre. Lei era come un Simurg maschio, ne aveva la bravura, ne aveva il coraggio, ne possedeva l’astuzia e l’eleganza. In un istante senza rendersene quasi conto si alzò nel vento e si buttò giù dai fiocchi delle nuvole. Arrivò quasi a un soffio dal terreno, e avrebbe avuto il coraggio di morire per dimostrare la sua spericolata bravura. Aveva caracollato nel grigio, dove sfumano le montagne, piroettato nell’alba di rossi le sue ali arancioni, puntellando con gli occhi le forme intorno con centellinata precisione ed era riemersa da uno spazio indistinto in una successione di acrobazie, senza fretta. Atterrò sul ciliegio e riprese il volo da un altro nido; questo era inconcepibile per le regole dei Simurg. Le femmine non partono mai da un nido che non sia loro. Solo ai maschi è concesso partire da altri nidi e riposarvi. A volte possono anche trovarvi casa provvisoriamente in attesa di costruirne uno proprio. Lei, come in una cerimonia, aveva girato intorno ad un ontano, strisciato a pelo d’acqua il petto e vibrando le quattro ali era risalita nel mattino infilandosi nelle nuvole a zig zag senza un’apparente rotta; conquistando la luce. Senza quella luce dorata che la faceva essere iridescente, non sarebbe stata visibile arrivata sin lassù!
La sfida
Shar girò la coda verso il cielo, poi la ruotò e si sparò verso l’alto, come in un miracolo, con decisione roteando su se stessa arrivò fino al punto in cui aveva dimora il trono del re. Il re la vide; meglio, la sentì arrivare come un tamburo dentro il cuore. Era il più bell’esemplare femmina di Simurg reale, ma nello stesso tempo il più pericolosamente seducente nel volo e la migliore acrobata dell’aria che avesse mai visto nei suoi cinquanta anni di regno. Inoltre aveva il petto bianco e anche questo faceva di lei una vera meraviglia. Assar I sentì le proprie ali come sommerse dentro l’acqua di un torrente, sferzò il suo busto a innalzarsi ugualmente e richiamò la propria coda dall’albero magico dei semi. “Se son qui, ancora, ”disse-“ devo essere all’altezza di mille femmine!” Sapendo della sua antica forza si sollevò nell’intento di ridare foggia a un meraviglioso, quanto lontano ato. I maschi si ammucchiarono in alto tutti insieme a far gruppo e guardavano le correnti, misurandole con le ali. Il duello aperto poteva essere solo per il loro re e questa femmina giovane. Cominciare fu difficile, ma ati quei primi minuti i due contendenti sarebbero potuto andare avanti per ore. Tutti gli sguardi si muovevano insieme con loro. Lo scontro violento non ci fu, ma il volo in cui i due si sfidarono, dichiarò con certezza chi aveva superato la prova.
Il re stanco si era appoggiato sull’albero dei semi. Capì che era finito il suo tempo. Lo aveva sfidato una femmina e oltretutto aveva vinto. Lei: Shar aveva avuto un dono dal destino e aveva cancellato ogni differenza fra voli maschili e femminili. Forse avrebbe cambiato la storia dei Simurg. Lui però non poteva essere
condannato a un’imperitura vergogna. Il re spiccò un ultimo volo, si gettò nella breccia della montagna e scalfì il suo petto nel picco crudo. Il petto si squarciò, si scompigliarono le piume. Cadde rotolando nell’aria in un viaggio affrettato verso terra. Disse addio alle viole e alle stelle e si chiese per chi brillasse ognuna. Cadendo virò volutamente sull’albero dei semi e ne fece cadere sulla terra una grande quantità. Sentiva “qualcosa” ogni volta che si appoggiava sopra quell’albero. Un giorno dal ciliegio un cuculo gli domandò: ”Sei felice?” e lui girandosi aveva chiesto “Perché?” egli aveva risposto che aveva poco tempo, che il tempo era sempre poco e che di posto in posto, di volo in volo e di sarò, perché, forse, ma, però… ce n’erano pochi da consumare. E così una notte all’improvviso capì che la sua vita poteva essere ormai breve. Troppi segni gli indicavano una fine vicina. Si era chiesto se c’era una via di fuga, ma non poteva restare e far fronte al disonore. Il suo cuore di RE, l’aveva spinto a cercare la morte che lo inseguiva da qualche tempo e ora, lui, l’aveva presa di petto la morte, l’aveva presa di sorpresa e obbligata a far ciò che voleva lui. Cadendo, negli occhi comparvero i suoi sogni, pensò che qualcuno sapesse che non aveva mai intrecciato corone di spine per gli innocenti, che aveva combattuto lo scherno, la violenza e che aveva tessuto voli di verità e riempito nidi di colombe con uova di Simurg senza genitori, in modo che potessero crescere. Vide la sua regina. In un attimo i suoi pensieri diventarono lacrime e credette che amore porta amore sempre. Le mandò un ultimo canto mentre scivolava ancora giù, un appuntamento in altre vite per ritrovarsi con la gioia di vedersi tra mille e riconoscersi. Rotolando scomposto lungo il dirupo, saltò da una breccia della montagna all’altra, poi atterrò sul pesco, vi ò dentro, fra i rami.
E lì si spezzarono le sue ali multicolori e cadde ai piedi dell’albero.
Sopra la sua ala sinistra si posarono i fiori dell’ultimo ramo sfiorato e nessuno ebbe il coraggio, né l’ardore di toccare il suo corpo. Il re rimase lì, sotto l’albero. Apparente ironia della sorte, sotto il pesco: l’albero dell’immortalità. Il reale dei Simurg morì lentamente. A segnare il tempo di aggio da un mondo all’altro, scese lieve la neve. Il suo corpo ne fu interamente ricoperto. “Due amanti felici non hanno morte” cantavano gli uccelli in memoria del loro re, ”nascono ancora e ancora tre volte e non hanno morte. Indossa il tuo bianco mantello di neve, con quello andrai ancora all’amore ancora e ancora di neve l’amore. Come scintille, gli occhi, che bevon di gioia l’amato, l’amata. Due amanti felici non hanno morte”. Anche Shar la femmina coraggiosa che lo aveva sfidato adesso cantava per lui. Lei non era felice e pensava che il destino avesse voluto che loro due fossero feriti in modi diversi entrambi, sfortunati come due uomini che lottano per una delle loro piume magiche. Il canto si spense lento all’arrivo del crepuscolo. E lei sentì il rumore del suo cuore e un dolore profondo alla gola. Sapeva che quella notte un’altra regina avrebbe pianto e il suo nido vuoto non avrebbe avuto che occhi neri lucidi, sgranati sull’abbandono. Sapeva bene cosa significava abbandono. Sua madre e suo fratello l’avevano abbandonata, non per loro volere, ma per colpa di un altro essere che aveva rubato loro la vita. E lei ora si sentiva in colpa. Forse aveva fatto lo stesso con il re Assar.
Il problema
Sulla montagna, dopo l’addio al re Assar, Shar aveva incontrato il favore del gruppo dei Simurg maschi. D’altra parte nessuno di loro volava come lei e le riconoscevano l’impresa di quella sfida come un atto di estremo coraggio. Però era una femmina. Non era mai stata eletta una regina a guidare l’intero popolo dei Simurg. E questo era un bel problema da risolvere. Rompere le tradizioni incoronando una regina al posto di un re, significava modificare milioni di anni di storia. Supporre che da questo momento ogni femmina potesse frequentare la scuola di volo, imparare le rotte, scoprire le correnti, allenare le ali sin da piccola. Concedere alle altre femmine la possibilità di entrare nel consiglio reale, nel gruppo dei Simurg osservatori, nei volatori esperti, nei ruoli quotidiani ricoperti sempre, tutti da maschi. Che fine avrebbero fatto i piccoli Simurg? Chi ne avrebbe curato la crescita? Chi si sarebbe occupato degli alberi del senno? Chi avrebbe avuto cura della distribuzione equa dei loro semi sulla terra? Chi avrebbe cantato con voce melodiosa i canti tradizionali dei Simurg reali? Tutto sarebbe cambiato nel regno. O forse no! Magari lei era solo un’eccezione? Una fantastica guerriera, nata così diversa e immatura, trasformata poi nel frutto attuale di un’abile volatile reale. Non dare la corona a questa straordinaria funambola dei voli significava supporre che ci fosse un altro Simurg più esperto di lei. Tuttavia tutti sapevano già che questo era impossibile. La questione era davvero seria. Per riguardo al vecchio re e per prender tempo stabilirono di attendere nel pronunciare la loro decisione. Si fece avanti il consigliere della corte reale; guardò Shar dall’albero dei semi, le fece cenno di raggiungerlo. Quando lei fu vicina, la invitò a cantare ancora per un giorno e poi guardò tutta la corte reale radunata sul picco sotto la nevicata più intensa che si fosse mai vista e annunciò la decisione finale del consiglio per il ventuno di giugno. Esattamente tre giorni da quel momento. Disse di attendere la riapertura delle nuvole e l’apparizione del sole per ritrovarsi tutti lì sotto; luogo dove avrebbero comunicato ciò che il consiglio dei Simurg avrebbe deciso. La
neve continuava a scendere improbabile a giugno, sulla montagna; magico segno di un evento memorabile.
La valle delle cascate
Nel frattempo, volarono via tutti insieme i trecento tredici Simurg che componevano il consiglio; si radunarono altrove, lontano da lì, verso la valle delle cascate, dove erano soliti ritirarsi per prendere le decisioni più importanti. La valle delle cascate era un luogo da sogno. Non esisteva nulla di simile al mondo. L’acqua qui creava un così impalpabile pulviscolo di gocce nell’aria intorno alle tredici cascate della valle che appena spuntava il sole ogni raggio, ne era riflesso in piccoli arcobaleni che si proiettavano ovunque e su qualsiasi oggetto. I verdi delle piante erano migliaia e gli alberi erano abitati da cardellini, usignoli, merli, cinciallegre e animali di ogni specie. Il paesaggio era meraviglioso. Si vedevano i verdi e i blu e i marroni dalla montagna dei Simurg, ma dopo alcune ore di volo, scendendo sempre più in basso, in primo piano appariva la valle con le sue pianure verdissime e fertili, punteggiate di alberi di tutte le varie specie immaginabili. Fiorito, al centro della valle a definire il punto d’arrivo, emergeva un grandissimo bagolaro. Dietro agli alberi, ancora prati a perdita d’occhio di verdi lussureggianti e all’orizzonte, rialzate di una trentina di metri, apparivano le tredici cascate. Scolpite nella roccia sporgente e rientrante, a tratti sinuose cadevano le acque di sogno. A onde e schizzi le acque dei boschi ricadevano fresche innaffiando selci, rose, erbe selvagge. Era verde il silenzio scolpito dal suono dello scivolare dell’acqua lungo le pietre sino alle polle ampie, aperte più in basso nella valle. Bagnate le luci, intorno. Dappertutto farfalle, nel mese di Giugno zigzagavano all’aurora, lente, chiudendo e aprendo le ali, appoggiandosi sui fiori per succhiarne il miele. Dietro s’intravedeva la montagna con i suoi migliaia di abeti secolari. Le cascate erano illuminate da luci e attraversate da uccelli in volo. L’arrivo e la partenza dei Simurg creavano nel cielo un effetto simile a quello di un gigantesco manto di colore che dipingeva il cielo di arancione con tratti di piccole pennellate blu cobalto. Era come vedere un arazzo in continuo movimento; mille fili s’intrecciavano
nell’istante stesso di un secondo e ne cambiavano il disegno continuamente seguendo il movimento degli uccelli nell’aria. Il consiglio reale atterrò in mezzo alla foresta dei grandi abeti secolari sulla cima più alta che dominava la valle. Gli alberi lasciavano filtrare la luce del sole e nel centro della radura, gli uccelli avevano costruito un gigantesco nido, dove si radunavano tutti ogni volta che qualcosa di grave accadeva. Lì attendevano che arrivasse un segno di buon auspicio, per procedere con le proposte di cambiamento o per andare a scoprire nuove terre per modificare qualcosa o per decidere dove nidificare l’anno successivo. La sera, prima che scendesse il secondo giorno, furono esaminate tutte le opinioni a favore e tutte quelle contrarie all’elezione di Shar. Alcuni dei più anziani sostenevano che non potevano dare la guida a una femmina; le Simurg erano secondo loro troppo preda delle emozioni e non sapevano fermarsi a pensare razionalmente. Agivano d’istinto e poi di solito non era data loro una sufficiente e adeguata istruzione per diventare “capi” di un popolo. Asserivano che il loro piccolo cervello, non riusciva, dato il poco allenamento nei voli a vedere oltre se stesse e la loro prole. E poi erano secoli che le femmine si prendevano cura unicamente dell’albero dei semi e perciò erano educate sempre da anni a quelle cure come le loro antenate di ottocento anni prima. Consentire a Shar la possibilità di diventare regina significava aprire ad altre femmine l’occasione per cambiare i loro sogni. E di are dai sogni alla realtà magari pretendendo di poter accedere a tutte le dimensioni dei maschi. Altri Simurg invece erano veramente ammirati dalla capacità di Shar nei voli; non potevano far a meno di continuare a vederla guizzare tra le nuvole e per loro quest’abilità era considerevole da sempre. Inoltre la sua determinazione sin da piccola li aveva colpiti non poco. Pensavano che ci sia sempre un’eccellenza tra gli individui, e questa particolare femmina non comune lo era tutti i giorni. Negarle la possibilità di vedere riconosciuta la sua eleganza e ardimento; la sua lungimiranza nei voli, e la sua meravigliosa fulminea precisione d’intenti, sarebbe stato negare l’evidenza. I Simurg erano noti per la capacità di saper vedere al di là dell’orizzonte comune. Rispetto agli altri uccelli erano stati dotati di un “Sentire” amplificato e di una totale capacità dei loro occhi di vedere e di decifrare anche da altezze improbabili ciò che accadeva sulla terra e intorno a loro. Cercarono di
concentrarsi allora, sul sentire più che sul pensare, poiché non riuscivano a trovare un’idea comune. Si fece notte e i Simurg, continuando a riflettere, guardarono tutti il cielo, in attesa di qualche evento che potesse dar loro una direzione sicura. La scelta avrebbe davvero cambiato il destino dei Simurg.
I pensieri di Shar
Occorreva mettere in riga la sua vita-pensava Lei nello stesso momento- doveva fare molto più di quello che sapeva fare per governare un intero stormo di milletrecento tredici Simurg. Fino a quel momento la mente le aveva fatto fare atti di cui Lei stessa non si era resa conto fino in fondo. E ora non sapeva se considerare tutto quello che stava accadendo un sogno o un incubo. Cantava ancora. Intonare una qualsiasi melodia la faceva sentire più leggera, ma si sentiva come se un’ombra le si fosse attaccata addosso. Aveva nonostante tutto un’energia sottile, ma il suicidio del re l’aveva costretta a farsi mille domande. Poteva riuscire a rispondersi che non era colpa sua, lui poteva scegliere la via dell’esilio, o quella dell’accettazione della sconfitta o un’altra. Shar era voluta arrivare sin lì per cambiare le carte in tavola, inconsapevole di ciò che sarebbe potuto accadere. La reazione di Assar però non se l’aspettava proprio. Ora lui viveva in un altro mondo. Provò a immaginare, dove fosse, cosa stesse pensando? Si chiedeva com’era vivere in altri mondi. Non aveva paura di nulla, però lo splendore dei suoi occhi denunciava un dispiacere. “Sto sognando? Se sto sognando, basta che provi a toccare un ramo dell’albero magico e mi sveglierò”. Toccò il ramo, si svegliò. Capì che si trovava in quel limbo di nulla dove l’attesa diventa ricordo o sogno. Stava dormendo ma il suo cervello continuava a pensare e i suoi sogni erano reali più del vero. L’avevano ingannata. Ma in fin dei conti che importanza aveva essere sveglia ora o dormire. Era meglio avere una mente sveglia e dormire che avere una mente addormentata come quei Simurg che si erano arresi, avevano perso le forze e la ione del volo e con queste avevano lasciato andare anche le loro convinzioni. Ciascuno guarda il mondo dal proprio punto di vista; ogni civiltà sa che visione dare al mondo. I Simurg avevano un modo di vedere speciale che consentiva loro di andare oltre gli orizzonti di un comune guardare. E allora
sapevano che la realtà avrebbe potuto anche essere solo un’illusione, qualcosa che appartiene a chi sta compiendo l’azione di vedere ora, in questo momento, come un sogno della loro mente. Shar pensò che fosse andata troppo veloce, troppo di corsa e non era riuscita a cogliere alcuni messaggi che le arrivavano dall’universo. Nel rumore della quotidianità, nella sua disperazione forse, non le era stato possibile ascoltarsi. Così non aveva colto la sacralità della vita, ma aveva compreso il suo desiderio e aveva fatto di tutto per provare a realizzarlo. Ora si chiedeva qual era veramente il suo desiderio? Voleva ancora essere a capo del popolo dei Simurg o aveva solo agito d’impulso? Desiderava davvero cambiare le regole e dare un segno tangibile che anche una femmina poteva avere le stesse capacità di un maschio? Oppure stava combattendo per regalare al fratello un segno della sua gratitudine per il dono che le aveva fatto? Non lo sapeva. Sicuramente le tornavano in mente le parole di suo padre, quando insieme riflettevano sulla vita volando. Lui pensava che i Simurg avessero un destino già scritto e che ognuno di loro imparasse a vedere e a volare secondo ciò che il Sarmurghj, il grande spirito del volo aveva già deciso. Si nasce con un segno inciso nel cuore e poi sta a noi seguirne le tracce. Lei invece pensava di essere l’unica artefice del suo destino. E pensava che il Sarmurghj, come un vero dio la aiutasse nel realizzarlo. Tuttavia adesso ogni credo le veniva meno. Cominciava a pensare che suo padre avesse ragione e che tutto fosse già scritto per lei. I sogni, il volo, la sfida con il re…Tutto era già stato previsto per lei. E chissà, forse anche la decisione del consiglio reale lo sarebbe stata? Suo padre pensava che ogni Simurg nascesse accompagnato da una stella e che quella lo guidasse nella vita verso la realizzazione piena della sua missione. La stella di Shar I le era stata mostrata, si chiamava Rosanj ed era collocata nel firmamento vicino alle pleiadi. Quella stella aveva il significato simbolico di aprire le strade del cielo e di scoprire nuovi mondi; di solito era dedicata ai grandi Simurg. Il padre le aveva insegnato a comprendere il linguaggio delle stelle, quanto possano guidare il volo e far capire le direzioni da seguire ai viaggiatori come lei. Aveva anche cominciato a raccontarle il loro modo di comunicare con gli
uccelli e come poteva comprenderne i simboli e i disegni. Shar era affascinata dalle stelle, spesso di notte ava intere ore a guardarle. Ora avrebbe avuto bisogno di capire di più sul suo destino, sul da farsi. Era confusa, non sapeva più qual era la sua strada. Guardò istintivamente il cielo. Era quasi notte, continuava a nevicare, le stelle ancora non erano così luminose da vedersi bene. La sua piccola stella però lei sapeva bene, dove si trovava. Provò a guardare in quella direzione, la vide fioca, annebbiata, poco visibile, eppure guardandola, sentì nel cuore un chiaro senso di pace. Sentì che doveva esprimere un desiderio, così avrebbe trovato il senso di tutto ciò che le era accaduto. Chiese di comprendere con chiarezza qual era la sua strada. Desiderava serenità, pace, calma nel sentire, velocità nel mettere a fuoco i problemi e chiarezza negli intenti. Capì che voleva essere la regina dei Simurg. Come amministrare il popolo ancora, non lo sapeva; le sembrava, infatti, un’impresa impossibile, tuttavia sentiva di essere lei il Simurg reale adatto a dare alla propria specie una forza in più; la sensazione era fortissima. Nel momento in cui ebbe messo a fuoco questo pensiero, la stella brillò di grande luce per tre volte, poi tornò annebbiata. Prese quell’effetto di luce come un segno del cielo e stanca chiuse gli occhi e si addormentò, finalmente più serena. Sognò. Sognò proprio suo fratello che volava su ventuno alberi di quercia e poi intorno a sei rose. Le sorrideva con gli occhi e le comunicava di stare attenta quando si svegliava a ricordarsi di questo sogno. Quel volo le ricordava il ventuno di giugno e le sembrava che il riferimento fosse legato ad un prossimo evento futuro. Probabilmente suo fratello le stava annunciando in maniera misteriosa che ogni cosa sarebbe avvenuta secondo i suoi desideri. La mattina del giorno dopo smise di nevicare, le nuvole si riaprirono e il sole fece ritorno sulla montagna dei Simurg. Shar aprì gli occhi su un mondo totalmente bianco, ma il sole cominciava già a sciogliere il ghiaccio e il freddo ad attenuarsi. Capì guardando il cielo che erano ati i tre giorni e che tra poco avrebbe visto tornare i trecento tredici Simurg del consiglio. Era il ventuno di giugno allora! Si ricordò del sogno e capì che era lo stesso giorno in cui le avrebbero comunicato se sarebbe stata eletta regina o no. Nel medesimo istante comprese che il
ventuno di giugno è il giorno in cui le Pleiadi diventano visibili nel suo emisfero. E sono composte di sei stelle. Sei! Lo stesso numero delle rose a cui volava intorno suo fratello nel sogno. Lei era nata sotto una stella che si trovava proprio nelle Pleiadi! Una stella a volte visibile e a volte no. La settima stella. Se avesse creduto a questo sogno, doveva essere certa che proprio in quel giorno lei sarebbe nata nuovamente e sarebbe stata visibile in una veste più luminosa. Alludeva forse, alla sua incoronazione come regina? Era sconcertante. Si scosse la neve da dosso e fece qualche volo intorno all’albero dei semi, tutto era in ordine. Il suo pensiero ora andava al fratello, al suo sogno. Poteva esserci dunque una comunicazione fra i due mondi; quello del vivere e quello del morire? Poteva un amore grande riaprire segni e messaggi così palesi da poter essere visti e compresi? E lei sempre così di fretta e arrabbiata con tutto il mondo poteva finalmente credere che nulla finisce per sempre, che ogni cosa ha un senso e che la morte non porta via nessuno di coloro che si sono amati veramente? Avrebbe potuto credere a tutto questo solo per un sogno e una coincidenza legata a una data? Non lo capiva. Non poteva crederci. Questa idea avrebbe veramente rivoluzionato il suo mondo e il suo modo di pensare. No! Era una follia? Se fosse stato così, sicuramente aveva già la risposta sarebbe stata lei la regina dei Simurg. E avrebbe smesso di soffrire così per i suoi cari e sicuramente sarebbe stata più attenta ai segni che il mondo e il cielo le mandavano. Si sentiva stordita, meravigliata, anche un po’ felice, ma non voleva adesso lasciare che quei pensieri s’impadronissero di lei, della sua razionalità. Sarebbe dunque divenuta regina? Oppure no?
Il ritorno e la decisione
Mentre Shar volava intorno al trono del vecchio re, alzò gli occhi verso la direzione del ritorno dei Simurg a Nord-Est e li vide tornare; erano molto lontani ancora. Giunsero dopo diverse ore di volo. Ognuno di loro, portava nel becco tanti ramoscelli colorati di rosso, erano quelli che si usavano per le sepolture reali. Il sole aveva sciolto la neve e il corpo del re era stato completamente ricoperto da migliaia di ramoscelli rossi, segno tangibile della sua importanza. Dopo quest’omaggio al vecchio re, si radunarono tutti intorno alla pianta reale e fischiarono sin quando non fu presente tutto il popolo. Fu uno spettacolo anche l’arrivo di tutti i Simurg. Migliaia di uccelli colorati arrivavano da ovunque e tracciavano segni nei cieli. Guardarli era viaggiare con la mente verso dimensioni difficili da poter contenere nel corpo; la meraviglia lasciava l’immaginazione per abitare la realtà! Uno spettacolo di colori e di guizzi nei voli d’inesprimibile magnificenza. Shar sentiva dentro di se una pozza di emozione che la faceva appena respirare. I voli della sua stirpe andavano a chiudere i suoi dubbi e facevano esplodere palpitando i turchesi piumaggi appena sotto la forma bianco argenteo delle nuvole. Immensi nel cielo i leoni del volo arrivavano senza fermarsi sino al territorio delle incoronazioni. Il loro arrivo provocava negli occhi e nei pensieri di tutti i presenti lo stupore dei fuochi d’artificio o dei fulmini nella notte. Alla presenza di tutti i Simurg, il Consigliere capo, pronunciò la decisione presa all’unanimità nei giorni ati nella valle delle cascate. Chiamò Shar, la fece salire sul ramo più alto dell’albero, a quel punto disse: ” Shar tu sei stata coraggiosa, ma anche affrettata nelle tue scelte, avresti potuto mettere in serio pericolo la vita di tutti noi e la tua. Hai però anche l’energia straordinaria di un vero re e la forza nel volo di mille Simurg, perciò il Consiglio reale decide che tu sarai la nostra Regina. Dovrai però essere affiancata per diversi anni da un consigliere che ti aiuterà a comprendere meglio la tua strada e
i tuoi segni. A te la scelta di chi ti affiancherà nel cammino verso la regalità.”. Ci fu un grande imbarazzante silenzio, poi Shar guardò il popolo e tutti i consiglieri. Non sapeva davvero a chi affidarsi. Guardò suo padre e pensò che potesse giustamente lasciarsi guidare dai suoi consigli. Shar dichiarò che avrebbe scelto come gran consigliere suo padre. Unchar non credeva ancora che gli fosse attribuito un così grande onore; in fin dei conti lui era stato sempre poco incline al potere. Era un Simurg calmo, dedito agli studi del cielo e alla crescita di sua figlia, il resto non lo aveva mai interessato più di tanto. Il Consiglio reale però apprezzò la scelta. In molti stimavano suo padre come un ottimo astronomo e come un volatile molto ligio alle tradizioni. Così il gran consigliere Tadar incoronò Shar come regina dei Simurg, posandole sul capo alcuni petali di rosa intrecciati per l’occasione a forma di corona. Da quel momento migliaia di uccelli colorati portarono doni di tutti i tipi alla regina e a suo padre. Tutti intonarono i canti reali delle grandi occasioni; fu cucito addosso alla regina un mantello di gocce di rugiada e giunsero le lucciole da ogni luogo, pronte per dar spettacolo la sera.
L’evento straordinario
Non si videro nient’altro che luci quella notte sulla montagna. Dal basso gli uomini pensarono a un evento particolare. Parlarono del troppo freddo, della neve caduta sulla montagna negli ultimi giorni, del solstizio d’estate, della fine del mondo. Qualcuno dei saggi invece capì che si trattava dei Simurg della montagna. Lassù sul picco delle aquile si sapeva che qualcosa stava accadendo. Gli sciamani intuivano che tutte quelle strane modificazioni meteorologiche terminate con l’accensione di milioni di luci erano il segno di un cambiamento. Infatti, era finito un mondo e ne stava per cominciare un altro. Una Regina sarebbe stata a capo di uno stormo reale e questo non era mai accaduto. Una regina nata sotto una stella particolare, la settima delle pleiadi, misteriosa da sempre, visibile solo in certe occasioni. Gli umani pensano ancora che non sia certa la sua esistenza. I Simurg invece, avevano compreso che si trattava di un segno particolare per indicare un essere con capacità straordinarie di visioni e di sensibilità. Infatti, la notte delle decisioni, all’improvviso, mentre tutti stavano guardando il cielo, furono sopraffatti dall’artistica bellezza delle forze astrali. Tutta la Via Lattea era visibile chiaramente e all’improvviso sembrò a tutti che si muovesse come un gigantesco anello di luce. Le stelle delle Pleiadi ancora invisibili, piano piano cominciarono ad apparire, una dopo l’altra come luci sincrone. L’avvenimento era un piacere per gli occhi: l’esuberante varietà di colori del cielo e dei milioni di stelle in vibrazione luminosa avrebbe catturato l’attenzione di ogni affabulatore o critico o dispensatore di morali consigli o retrivo benpensante. In quel preciso momento tutti i Simurg tacquero. La magnificenza dello scintillio esteso delle stelle cadenti aprì un varco leggibile in una parte di cielo dentro l’anello della Via Lattea e comparvero altri milioni di stelle, più luminose ancora rispetto a quelle che avevano visto sino ad allora. Il cielo annunciò il cambiamento. La vista lasciò il posto all’onniveggenza di quel popolo e questo li rese più giusti, meno trattenuti davanti a un nuovo fenomeno. Apparve allora la settima stella delle Pleiadi che emise una luce aranciata e poi uno sfrigolio di luce blu cobalto.
Sentirono il disegno del cielo e ciò che le anime dei saggi volevano. Si sentirono sollevare verso quello spazio infinito, sbigottiti da tutto ciò che vedevano rivelato loro per la prima volta e ne compresero il segno. Le luci intorno alla settima stella Rosanj descrivevano chiaramente il disegno di una corona di luce. Il mattino i Simurg si guardarono, il consigliere capo Tadar tracciò per terra il nome di Shar e fece vedere che nella lingua degli uomini antichi, questa parola a seconda di come viene scritta significa cose diverse. Una per tutti loro, veramente importante era “stella” e l’altra “vola”. Uno dei Simurg anziani, grattò con le zampe dei vecchi calligrammi ebraici sul terreno e fece capire che la parola Shar poteva significare anche Stargate. Cancello per le stelle. Shar per loro significava dunque la possibilità di entrare in un’altra dimensione. Avrebbero visto nuovi mondi e scoperto ancora nuove realtà con questa regina. Il cambiamento era rischioso, le femmine avrebbero sicuramente avuto un’evoluzione nei loro ruoli, e anche i maschi avrebbero dovuto cambiare molti dei loro punti di vista ma davanti a questi eventi nessuno ebbe da dire. La decisione fu presa facilmente fra lo stupore di quei Simurg che ancora non riuscivano nemmeno a comprendere che cosa fosse accaduto.
CAPITOLO II
La regina Shar I Simurg
La regina Simurg quel pomeriggio di Gennaio si svegliò incredula. Da molto non vedeva così tanta neve. Era come quell’anno in cui aveva sfidato e vinto il re Assar primo. I suoi figli, cresciuti nella tiepida dimora, non erano stati allevati al duello. Aveva abolito ogni sfida e vietato gare di volo. Era stato troppo per lei vedere ciò che aveva causato. Promulgò un editto in cui rendeva possibile alle femmine di praticare la scuola di volo se lo desideravano. L’unica condizione fu di essere affiancate però da un padre o un fratello. Così visse lunghi anni di pace. Solo l’umano restava straniero nel bosco e sulla montagna. Gli uomini uccidevano ancora i Simurg, creature magiche dotate della possibilità, secondo le leggende dei padri, di portare medicine per alleviare i dolori di tutti e di trovare il senno là dove non c’era. Gli uomini uccidevano il suo popolo variopinto e sempre più raro. I cacciatori si caricavano gli uccelli uccisi sulle spalle e li portavano nelle loro case. Non mangiavano sempre le loro carni; li uccidevano solo per abbellire le loro dimore con le piume colorate e le code iridescenti o per usare come medicina le piume delle ali che ate sui malati, si diceva risanassero le ferite. Così era finita sua madre, infilzata da una freccia, ferita a morte per risanare qualche ferita, per garantire una prole o per far tornare il senno a qualcuno. Portata via dal cacciatore che l’aveva ferita.
Eppure anche lei, la regina Shar, un giorno aveva ucciso.
Un animale tentava di mangiare un piccolo appena uscito dall’uovo. Lei aveva visto il felino da lontano che sorprendeva l’uovo dentro il nido, lo spingeva a zampate fuori con delicatezza, quasi per giocare lo faceva rotolare. Il leopardo si era distratto per un rumore inatteso causato dalla caduta dei semi dell’albero antico che proprio lei aveva provocato.
Il piccolo era uscito dall’uovo e si stava liberando dall’appiccichio dell’involucro, stava stendendo le piccole ali, quando il felino girò nuovamente la testa e lo vide, fece un balzo in avanti e stava per azzannarlo. Shar allora pensò di mirare agli occhi. Con il becco ne traforò uno e poi l’altro rapida; una volta accecato lo sospinse, facendosi ferire un’ala, verso un crepaccio. Il ghepardo cadde oramai cieco per diversi metri nel burrone. La regina in quel momento, sentì di aver vendicato una vecchia offesa. Nello stesso momento il felino cadendo si era spaccato il corpo e le sue interiora erano cadute ovunque giù per la montagna. Lo stormo era calato a beccarne i pezzi. Accadeva solo in caso di disprezzo per la vittima. Immediatamente sull’ala della regina, cominciò a scendere la neve, una neve leggera, impalpabile, portata in volo da tutti i Simurg. Si alternò un volo silenzioso a raggiera intorno a lei per ore a depositare a turni di tre uccelli, neve e sostanze per nutrirla. Al calar della sera, vicino a lei, si strinsero a cerchio decine e decine di lucciole e vi rimasero tutta la notte, e la notte seguente e la notte successiva e tutte le altre per sempre. E’ noto che straordinariamente, migliaia di lucciole, appaiano anche nei mesi più freddi quando un Simurg reale è ferito o soffre o quando avviene un evento straordinario. Luci per allontanare la paura, per aiutare l’anima a farsi coraggio e a produrre le sostanze benefiche che aiutano il corpo a rigenerarsi. Luci per far rinascere le speranze o per cambiare il destino di qualcuno. La regina sorrise e si addormentò. Qualche giorno dopo si alzò dal suo giaciglio, cominciò a stendere le ali e a stiracchiarle, ad aprirle e dopo un mese spiccò il suo nuovo volo.
Zampilli nel cuore
La regina Shar non dormiva vicino agli altri uccelli, neppure in estate quando si concedeva una sola volta al più valoroso degli uccelli per procreare altri Simurg reali. Un dovere cui non poteva sottrarsi. Aveva un’isola per lei. Un nido in diversi luoghi, uno sotto le frange erbose di un crepaccio vicino al mare cristallino, odoroso di sale e di salvia selvatica, uno in alto sull’albero del seme, al caldo di paglie morbide, uno in mezzo alla laguna dove fragranti erbe spettinate le lasciavano il sonno tranquillo, vegliato in lontananza dai figli imperiali. Gli arbusti si piegavano al suo volo di rapida abbagliante bellezza. Il suo muoversi era sempre veloce e i colori delle piume nel volo, assumevano le sembianze di un arcobaleno in movimento. L’albero del senno era un luogo dove spesso stava appollaiata a guardare il suo popolo prima delle decisioni importanti. Splendeva nel suo trono. A volte si alzava presto il mattino e scompariva per giorni. Nessuno sapeva, dove se ne andasse. Non dava a nessuno il potere di saperlo. Né il permesso di seguirla. Qualcuno conosceva una leggenda per cui chi muore può tornare e si diceva che Lei ogni giorno andasse a vedere il luogo dove giaceva il fratello e lì avesse scoperto un Simurg che le corrispondeva in bellezza e coraggio. Le femmine dello stormo giuravano di averla vista volare al di là dal loro mondo, felice con accanto un gemello. L’incedere nel volo era lo stesso, difficile sbagliarsi. Era lenta la regina nel volo di notte, guardava dietro di sé e spargeva sulla sua scia, tra le nebulose, lucciole: semi per farsi riconoscere. Aveva cambiato vestito di piume. Volava quasi danzando, armoniosamente. Le ridevano gli occhi e l’ala ferita si era vestita, guarendo, di cerchiolini verdi e blu cobalto da pavone. Per quelli di loro che assaporavano la vita, più avidamente, di notte, era possibile sentire il suono del suo aggio, fiutare il velluto del suo odore, capire l’area viva del suo volo d’amore fra le stelle. Qualcuno vide lo sfarfallare delle sue ali
eleganti, fiorite e sentì la presenza di un altro Simurg reale vicino a lei, quasi invisibile al buio, illuminato solo da pagliuzze dorate sul corpo. Nella notte si consumò il loro volo, nella pancia del cielo si avvertivano a tratti i loro respiri infranti di fili d’oro. Al suo ritorno, le femmine le andarono incontro e sentirono il suo cuore che avanzava in punta di piedi prima di lei. Il vestito di piume arancioni si era appena dorato e sui cerchiolini verdi, intorno alle ultime piume delle ali, si era posata una leggera polvere d’oro. I giovani maschi fiutarono la nuova fragranza di Shar e si prostrarono, scendendo a gruppi dal cielo formando una freccia che indicava il nido del nuovo erede.
Quel giorno di maggio la regina scoprì una stanchezza crescente, vide le sue piume quasi inaridite e secche. Il suo petto sentiva affievolirsi i battiti del cuore e le ali non si piegavano al vento come al solito. Le ali del Simurg reale non si afflosciano, né si ripiegano. Le loro ali affrontano intere praterie e deserti senza stanchezza alcuna. Virate a non finire, stirate, spezzettate e carambolate capriole in aria disinvolte e velocissime erano comuni a lei più che a chiunque altro. Le ali della regina e dei Simurg reali di colpo in colpo, arrivano, dove gli altri uccelli non possono arrivare, sono attimi di luce le velocità cui giungono stirandole e aprendole al massimo. Zampilli nel cuore vederli are dentro la foresta, i Simurg schizzando vicinissimi all’erba, poi si alzano su, sempre attenti sbrecciano i rami e si profumano di fiori strusciando le loro ali sui loti profumati d’aroma fragrante. I loro voli sono un colpo di ciglia mattutino, un chiacchiericcio sonoro, un colpo di candore, un’esplosione di fuochi d’artificio. Lo stupore negli occhi degli uomini a vederli rende unico il loro aggio e desiderabile la loro veste
piumata, magica.
La caccia era cominciata
La regina candeggiò le ali nell’acqua del lago tiepido vicino alla zona, dove allora cantavano la sera, i freschi mandorli in fiore. Annusò l’aria, cercò di capire con la testa, dove dirigersi per non farsi trovare. Sapeva che l’uomo era vicino, ne avvertiva l’odore di selvatico e il rumore antico delle armi che portava con sé. Era tranquilla per il suo popolo, ma lei, era appesantita, doveva deporre l’uovo reale, e le energie di ora in ora le venivano meno. Sapeva che cercavano lei, il suo piumaggio unico la rendeva assolutamente la più corteggiata, le sue penne multicolori sarebbero state doni di vanità per altre regine. Si chiedeva quante guarigioni cercava quest’uomo? Qual era la storia che lo portava sino a qui? Sicuramente un grande desiderio lo aveva spinto a salire così in alto dove non era mai arrivato nessuno. Quassù al picco dell’aquila non avevano mai visto un uomo, solo stambecchi, aquile o Simurg. Uomini mai.
Si era riparata sull’albero del senno, più in alto vicino alla cima della montagna. Lì sperava di poter dare alla luce il suo piccolo.
L’uomo
L’uomo da sempre inseguiva il sogno di catturare un Simurg re o regina, nessuno degli altri Simurg aveva un vestito dorato, tutti erano desiderabili arcobaleni piumati in vasi su tavole imbandite o nei capelli di giovani ragazze vergini in attesa di marito. Gli sciamani poi avevano bisogno delle loro piume per incantesimi e riti. Nessuno da molti secoli aveva più catturato un Simurg Reale.
Un altro re, il re umano, quel giorno era certo di tornare a casa con i semi dell’albero magico, e per questo era necessario trovare un Simurg reale. Doveva trovarlo, per la sua progenie, sterile. La leggenda era nota a tutto il popolo; quell’uccello, se scuote l’albero del seme, fa cadere sulla terra semi che aiutano l’uomo a procreare e tolgono i dolori alla sua specie. No! Non era per abbellire tavole o stanze, né per mangiarne le carni, non era un’usanza praticata dal suo popolo. Si era consultato con gli aruspici nei giorni indietro e con chiarezza le viscere degli uccelli avevano dato la loro profezia contro la loro stessa specie. Il re avrebbe dovuto catturare un Simurg reale e riuscire a far sì che battesse le ali sull’albero del senno, in modo che cadessero semi per far nascere la sua discendenza.
Ne aveva uccise di prede, e di uccelli a migliaia e ne aveva fatti uccidere dai suoi, altrettanti. Il Simurg invece non doveva ucciderlo, semplicemente sospingerlo verso l’albero del seme.
Lei, la Regina umana, attendeva impaziente l’arrivo di un erede. Senza questo bambino avrebbe dovuto cedere il trono a un’altra donna. Erat non poteva
lasciare il suo re. Lo amava davvero, davvero tanto. Non era di stirpe nobile, era giunta nella città portata da suo zio che aveva saputo dell’editto del giovane re per trovare una moglie adeguata ai suoi desideri. Si erano guardati tra mille alla scelta della sposa, lei aveva alzato lo sguardo per vederlo negli occhi il suo uomo. Avrebbe rischiato la morte se lui non l’avesse ricambiata nell’immediato di un’occhiata che per sempre li avrebbe uniti. Era vietato a chiunque di guardare il re negli occhi. Invece entrambi erano stati complici sin da subito di una trasgressione al rigido cliché imperiale. Il re la guardò e ancora la guarda con gli stessi occhi di allora.
In cammino per il figlio
Il Re sapeva che l’albero del senno era in cima alla montagna e si era incamminato di primo mattino da solo, come voleva la profezia. Si era cosparso di fango e di erbe aromatiche per ingannare le altre bestie, per non far sentire la sua presenza. Era giovane il re, saliva agile il crinale aspro. Gli animali scappavano rapidi sapendo che l’uomo risaliva la montagna solo per cercar prede. Il re cacciava sempre in compagnia, mai da solo, questa era un’eccezione alla regola. Durante la sua cerimonia d’iniziazione aveva dovuto uccidere una tigre da solo. Aveva ato la prima gioventù con altri a imparare le tecniche nuove di combattimento pelle a pelle, dandosi regole diverse da tutti. Aveva inventato e sperimentato nuove tecniche di battaglia con il suo Henai stratega di corte. Con il guerriero maestro di Samurai, aveva scoperto l’attesa, la pazienza, il suo nome era Merse. Non si era mai visto nessuno tanto accanito a imparare ogni spostamento d’aria con la spada e ogni mossa indietro e in avanti per sbilanciare l’avversario. Mai un altro era stato veloce nella caccia quanto lui e rapido nel cambiare tutto d’improvviso, tanto da girare prima del lancio della sua stessa freccia, l’arco al rovescio e far centro comunque. Si era nascosto per giorni sulla stessa montagna per cacciare l’incacciabile. Aveva abitato alberi, caverne, case spezzate e si era vestito di zolle erbose per entrare invisibile guerriero in tane d’animali. Era andato lassù mille volte, con i suoi sudditi, aveva battuto ogni luogo ed era tornato sempre con ogni tipo di preda per far onore a sé, al suo coraggio, per nutrire di certezze il popolo che avrebbe avuto più piacere nell’inchinarsi alla forza del guerriero oltre che alla furbizia e all’eleganza di una discendenza saggia. Cavalcava a pelo qualsiasi cavallo, ma il suo, poteva sostenerlo e guidarlo anche in piedi, bendato. Saltava in sella sul suo destriero bianco cremisi maculato,
anche correndo. Cacciava dall’alto le orme dei mufloni o dei cervi. Anche un segno di pelo nelle cortecce era una traccia per trovare la strada, un sasso spostato, il silenzio improvviso nel bosco, il rotolare di pietre senza motivo giù dalla montagna erano segni di prede vicine. E si prendeva la vita delle aquile, per farne cacciatori per lui, dei falconi da riporto, addestrati giorno dopo giorno dal suo maestro di voli. Non aveva in mente nient’altro che il Simurg, quel giorno, ma aveva imparato che a volte ciò che stai cercando ti apre strade ad altro e l’abilità nel cacciare non sta nel vincere la preda, ma nel trovare un modo per estendere a piacere il posto per l’anima a scoprire prospettive più ampie. Occorreva non pensare a quella cattura, provare ad aprire la mente a qualcos’altro. Non era una cattura. Doveva spiegare una strada, piegare la volontà dell’uccello alla sua, farlo volare e posare con le ali sui rami carichi di semi e farne cadere un po’ nelle sue mani.
Intanto quella sera, non mancavano segni in cielo e sulla terra, segni di buon auspicio. Il cammino era stato impegnativo ma un sole primaverile lo aveva accompagnato; il paesaggio dall’alto era diventato musica nella sua testa. La notte, dopo un frugale pasto, sopraggiunse veloce e il Re si adagiò vicino a un fuoco coperto da foglie e paglia di grano tenero. Un sogno si aprì nel fumo della legna acerba: vide sfuocata una piuma incastrata nella carta, poi distintamente una pergamena da cui era uscito un colombo bianco. Un sacerdote calvo con un incensiere in mano, vestito di verde con ricami preziosi sull’apertura della lunga veste vicino al collo, aveva proferito alcune parole in aramaico dicendo “arriverà chi hai lungamente atteso” e ancora “qualcuno sa che stai arrivando e ti aspetta!” poi “ dovrai pagare il saldo tutto insieme”. Si era visto là dentro, in sogno, circondato dal fumo, in ginocchio, con qualcuno vicino con delle gambette svelte: suo figlio. Si aprì il paesaggio, vide uno strano Simurg volare dentro un canale, aveva uno strappo sotto la pancia, “è la vita” sentiva dire “è per tutti così, siamo destinati alla stessa fine!” Si svegliò e pensò che dopo un tale sogno, potesse avere la certezza che ciò che stava cercando, stava per arrivare e che per averlo, avrebbe dovuto pagare molto
di più di ciò che aveva sinora messo in conto. Scacciò quel pensiero immediatamente. Ora era certo che il Simurg lo aspettava, sapeva di lui, come lui sapeva che da qualche parte lo avrebbe trovato. Si alzò, cominciò ad ascoltare i segni del tempo, e vide una scheggia di paesaggio; si era aperta dalla notte l’alba e un albero conficcato nella terra, gli indicò la via. Raccolse alcune piccole piume arancioni. Annusò un filo d’erba piegato, calpestato da incompressibili animali. Non era compito suo di solito odorare la terra, toccare le orme, annusare l’aria. Lui era il re Merse. C’era sempre stato un servitore, o una guida, o un guerriero che lo aveva fatto al suo posto. Era uno nato sotto una buona stella sino a oggi. La gente normale, invece, si destava e pensava a che cosa avrebbe dovuto fare per mangiare, per vestirsi, per vivere. Lui no, aveva sempre avuto altre persone della corte reale a farlo al suo posto. Lui doveva pensare alle decisioni e dare ordini, al resto pensavano gli altri secondo le sue intenzioni. All’improvviso per un momento pensò e se fossi nato in un’altra stirpe, in una tribù sbagliata e se avessi avuto strade, precluse?”. Ora era giunto alla fine del sentiero e doveva cominciare ad arrampicarsi su per le rocce aguzze crude, di mano in mano. Cancellò il dubbio e si rafforzò, sorrise, perché lui sapeva bene cosa significava cominciare ad arrampicarsi.
La minaccia
Il nido della Regina Shar era comodo, ma troppo esposto, lei sentiva l’avvicinarsi di una bufera. Aveva imparato a riconoscerne gli odori sulla pelle, il freddo cambiava la direzione del piccolo piumaggio. Lei aveva capito che doveva spostarsi da lì. Senza stupore sentì che c’era l’uomo nella terra della montagna. Nel fiorame, nel fogliame, nel frassino, nel tiglio, nel mandorlo ne coglieva l’odore, c’era traccia d’uomo nel vento portato dalla felce. Sguscia la morte e compare e scompare da sotto il tiglio del bosco, tra le rocce dei pensieri taglienti di paura. Il suo uovo era uscito a metà e la meta non c’era. Lei sapeva che quello era il figlio, l’unico figlio dell’amore, della notte di lucciole stelle. Aveva ricamato costellazioni quella notte con il gemello vestito d’oro. Respiri sbrecciati di nulla, voli di premura e di cura insieme, l’amore era accaduto all’ improvviso e aveva disegnato tempi velocissimi. Avevano bevuto la Via Lattea quella notte. Erano cadute le stelle nel suo manto e le polveri scese sulle sue piume ne cambiarono le ali. Lei regina, preda dell’amore? Un miracolo comune, all’ordine del giorno, per gli altri. Accade continuamente. Per lei, questo volare seducente nell’inimmaginabile dentro e fuori dal cielo era un’estasi di splendidi inattesi bagliori emotivi nella notte profonda e scura. Era amore e amore di quello che non sai dove finisci e dove comincia l’altro, e quando i tuoi occhi si chiudono, non sai se sono quelli dell’altro a chiudersi o i tuoi.
E quel piccolo ora non poteva non nascere.
Si puntò, la guerriera, con un artiglio all’albero del seme, provò a spostarsi, ma il piccolo uovo scese ancora e lei rischiò di cadere nel vuoto. Allora decise di star ferma, immobile, impagliata dentro quel nido ad attendere l’arrivo del mostro. l’Homo sapiens sapiens uccide le madri .
La regina Shar ricordava l’inizio della sua vita. L’immagine di una sera tersa dopo tanti lampi non finiva mai di stupirla, nei racconti del padre. Riaffiorava nella mente la freccia nel corpo di sua madre. E si chiedeva: “Perché ora ?Che ci sto a fare qui? Perchè quassu’ da sola? Che prezzo? Un istante, un minuto, che cosa può farne di me l’umana creatura? In nessun luogo esiste l’amore felice?E il piccolo in un secondo avrà la stessa sorte mia o ci sveglieremo prima di morire e tutto sarà stato un sogno? Possibile due volte si ripeta la stessa tragedia? Il mio uovo poi non avrebbe nemmeno il padre a sostenerne la crescita. E allora ci siamo, sento che sta per arrivare, sento il bosco qui sotto silenzioso e il mio corpo comincia a vibrare. Perché il mio popolo non mi raggiunge?” Non poteva lanciare urli, il cacciatore l’avrebbe sentita. Nè poteva muoversi, l’uovo sarebbe caduto o rimasto incustodito. Nient’altro che attendere e star ferma, due cose che lei non aveva saputo più fare dal tempo dei cespugli, dei trifogli e dei lamponi. Ora toccava a lei rimanere in attesa di qualcuno che giungeva al suo trono per sfidarla. La vita ti mette davanti i tuoi errori e attraverso un solo minuto si spalanca un mondo. E il cuore fa così, apre un’esperienza di meraviglia nell’attimo preciso in cui capisce.
La lotta
Cominciò a piovere. Il re era arrivato. Vedeva in lontananza l’albero del seme e sopra sul ramo più interno, protetto dal fogliame, un Simurg era adagiato in un nido. Immobile, non aveva dato cenno di sorpresa, eppure l’aveva visto! Non si muoveva il Simurg, lo sfidava già con lo sguardo come se fosse lui ad allineare l’arco per colpirlo. Certo avrebbe voluto ucciderlo con quello sguardo! Ora l’uomo sentiva vicino l’alito di quel suo figlio tanto desiderato. Lo sentiva sul collo, lo sentiva nelle braccia, appeso al suo collo mentre saliva ancora, le ultime rocce.
“Colui che vuole ferirmi ti ucciderà con me, prima di nascere figlio!”
Pensava lui e pensava lei:Shar.
Si guardavano; i loro pensieri erano allineati senza consapevolezza. Il re Merse pensò a come poteva far volare via dall’albero quell’uccello iridescente, a come fargli battere il becco o le ali fra i rami per far cadere i semi. Si accorse che in tutti i giorni lucidi trascorsi a risalire la montagna, non aveva mai preparato un piano per far questo e adesso era ora! Col peso di tutto il tempo ato. Un errore troppo stupido. Aveva dato per scontato che sarebbe stato più facile trovare un modo per far alzare in volo il pennuto reale e costringerlo in qualche modo a are tra i rami dell’albero del senno e quindi, pensava fosse semplice, farne poi cadere i semi. Ora però si accorgeva che non sarebbe stato così facile far capire alla bestiola
che non era lì per ucciderla, ma per un altro intento. Inoltre quest’animale era veramente il più bello che avesse mai visto. Non poteva fare a meno di guardarlo. Ogni altro Simurg visto prima, non assomigliava a questo. Le sue ali brillavano sotto la pioggia, rilucevano come se fossero state tanti cristalli riflettenti. I colori dell’arcobaleno disegnavano una parte delle ali, ma sul finire la piuma si apriva con occhi blu cobalto circondati di pagliuzze dorate. Il collo era cerchiato a giri di blu e verde smeraldo e terminava con una testa arancione sulla cui sommità spuntavano alcune piume a stelo di fiore, quasi a disegnare una corona come quella dell’uccello del paradiso. Non aveva nemmeno ancora capito che si trattava di una madre regina. Merse III il re non guardava, non ascoltava, non sentiva più profumi, era accecato solo dal suo fare, dal suo desiderio.
Shar covava il suo uovo, guardava l’uomo, ascoltava il silenzio, sentiva che il tempo stava per regalargli un figlio d’amore ma la morte era lì, portata dalle braccia di un sapiente. Si concentrava col pensiero la regina, emetteva ora piccoli gridi sordi d’aiuto muovendo le penne al ritmo del cuore. Da lontano vide un esercito arancione segnare il cielo, e sentì il piccolo incrinare l’uovo. Occorreva prendere tempo. Si concentrò ancora e comprese che quest’uomo non poteva essere arrivato sin lì solo per le sue piume, da mettere in qualche vaso come amuleto. Quest’uomo diverso dagli altri, aveva fierezza nell’incedere, coraggio nelle mosse.Negli occhi portava la tristezza di chi aveva bisogno di qualcosa per coronare un sogno. Intorno alla testa per fermare i capelli, aveva un laccio di cuoio spesso, con incastonato al centro, in un arabesco di filigrana d’oro, un rubino. Portava un amuleto dei sacerdoti reali al collo: doveva essere un re! E’ la fantasia che mette vicini due reali per ridare realtà alla loro vita? Un duello già visto!Non doveva finire nello stesso modo. Ora le parti erano invertite. Era lui,
un re, che sfidava la regina. Una regina sola. Abbandonata dopo l’unica notte d’amore della sua vita.Perchè?
Il re era quasi arrivato all’albero, ancora uno, due i e avrebbe toccato la corteccia. Fra i due sguardi ò un’ombra. Il re si fermò.Un minuto, si inginocchiò a pregare per avere chiara una visione che lo inseguiva da notti intere, forse l’ultima, o forse la stessa lo cercava per dargli la possibilità di trasformarsi in realtà. Chiuse gli occhi e un bimbo mingherlino gli si avvicinò, rimase nascosto dietro la siepe a pochi i da lui, lo spiava. Un bimbo con gambe magre, occhi intensi neri di chi non ce la fa a star fermo. Chiese di concedergli la possibilità di raggiungerlo, di credere in lui. Un bimbo che lo aveva scelto già come padre. Gli sorrise, il piccolo si pulì la bocca con il dorso della mano, spalancò gli occhi. Aveva le ginocchia sbucciate, i piedi nudi e sporchi di chi ha corso tanto per arrivare sin lì. Era affannato nel respiro e la sua pelle non riusciva a star ferma. Gli assomigliava negli scatti e negli occhi. Il sangue gli batteva nelle tempie strette dal laccio di cuoio; sentiva che stava per esplodere, voleva toccarlo un momento, accarezzargli la testa, ma aveva paura di vederlo correre via. Pensava a sua moglie Erat; per un attimo la vide danzare nel suo abito leggero di seta e ridere e correre fra l’erba a nascondersi per farsi trovare vicino al fiume caldo che conduce alla fonte segreta dove facevano il bagno nudi prima di fare l’amore. Era tutta un ridere la sua donna di gaia freschezza di neve. E dentro gli occhi la brace del mistero, la seduzione dell’amore nel cuore e l’antica tristezza di un popolo in fuga.
La regina Shar, vide uscire il suo erede dall’uovo, mentre teneva d’occhio il re. Quel piccolo era un Simurg nero e arancio, con pagliuzze dorate, l’unico della
nuova specie a cui avevano dato vita lei e il Simurg misterioso incontrato quella notte. Possedeva una luce diversa dagli altri quel gemello incontrato vicino alla tomba del fratello. Era arrivato da un altro mondo, lontano nel tempo da lì mille migliaia di chilometri. Un paese dove i Simurg erano liberi di volare ovunque e di accoppiarsi solo per amore. Un mondo invertito rispetto al suo. Senza regole quadrate, senza riti, senza gare, senza dover dimostrare la propria bravura e abilità per non morire. Le aveva cantato d’amore e volato intorno a lungo, aveva raccolto petali caduti con le ali e l’aveva inonandata di una pioggia colorata dall’alto, mentre lei volava via commossa e pensosa dal solito giro intorno al mucchio di legni che aveva messo tanti anni prima per seppellire suo fratello. Le aveva volato accanto per ore senza cantare, senza nemmeno voltarsi indietro un momento. Lei sentiva la sua presenza, totale, densa. Non l’aveva mai visto. Lui giocava ad entrare ed uscire dalle nuvole in alto, per qualche minuto sembrava perso, scomparso, poi rispuntava, fu in uno di quei precisi momenti, quando sparì, che si accorse di essere stata colpita da quel Simurg. Arrivò la notte e lui ricomparve e la guidò lontano dentro le praterie celesti a vedere stelle più luminose che mai e cinture stellate e piccole luci accendersi e spegnersi nell’arco di un attimo. Le disse che quelle luci erano i bambini e i piccoli che andavano e venivano per scegliersi i genitori. Le raccontò poesie di voli e le raccolse rugiada che sparse in delicate carezze sulle sue ali. La regina Shar comprese che quella spinta di gioia che la buttava in aria veloce a testa alta le aveva un fuoco nella testa, si sentiva come sull’orlo di un precipizio, sentiva le sue zampe tremare e battere. Saliva con lui in un’ armonia di piume, trilli e canti: era una notte perfetta per abbandonarsi all’amore. La costellazione del leone, vicina, quella notte, li proteggeva accoccolata in guardia dei due amanti. Shar capì che l’amore è libertà, che l’amore rigenera. Non fa male. Purifica, fa gioire. L’amore è caldo, tenero, sorprendente. L’amore è protezione; lo sapeva da sempre ma lo intuiva solo ora che quelle ali la facevano sentire al sicuro. Cosi’ trasgredì ad ogni regola, uscì da ogni cornice e amò totalmente quell’ essere piumato di nero e oro con le stelle sulle ali.
Il re con uno scatto cercò di far alzare la regina dal nido e lì si accorse che era
una madre che stava dando alla luce il suo piccolo. Rimase in piedi pietrificato.
Volò giù in picchiata dalle praterie di costellazioni Gal il Simurg nero e oro. La coda colpì l’umano con decisione, al punto di farlo rotolare a terra in ginocchio davanti alle radici. Rapido Merse si rialzò e cominciò a cercare di salire sull’albero per toccare la regina e farla volare. A quel punto dopo diversi tentativi Gal entrò nella chioma dell’albero e minaccioso iniziò un canto sbattendo le ali. Il re non voleva uccidere Shar prima, ora poi non l’avrebbe uccisa mai! Ma lei non lo sapeva, e nemmeno Gal. La bestia nera gli si scagliò addosso, Merse per la prima volta ebbe paura. Gridò: “Non voglio uccidervi, ho bisogno solo dei semi dell’albero del senno. Sono per mio figlio. Non può nascere altrimenti ed io dovrò lasciare mia moglie”. Chiuse gli occhi.Vide sua moglie, ritrovò il suo viso appoggiato sulla spalla a bagnarla di lacrime per non farsi vedere. Ritrovò la calma. Aprì gli occhi, vide un colombo bianco sul ramo dell’albero magico. Ecco il presagio del sogno. Allora si fece forte. Un guerriero non deve mai perdere la strada, non deve provare emozioni, non può distrarsi. Un guerriero deve agire. Un re non può tornare senza aver raggiunto l’obiettivo. Capì che doveva lottare contro un padre che come lui, difendeva il suo piccolo.
CAPITOLO III
La vita corre su fili inimmaginabili
Lui, un re, ora doveva uccidere un padre per avere suo figlio. Un padre come lui. Il suo grido disperato sembrava non fosse stato compreso. Che sciocco! Pensò che gli uccelli avrebbero capito la sua lingua. In fin dei conti erano solo due uccelli variopinti. Un Simurg diverso da tutti era quello contro cui doveva combattere. Non aveva mai visto un uccello così elegante e minaccioso: nero, con pagliuzze dorate ovunque e delle specie di stelle sulle ali. Cercava la spada nella sua cintura, annaspando come un soldato inesperto e indietreggiando con le mani, la trovò. Cercò di far volar via Gal, di respingerlo senza ferirlo, ma niente da fare. Tornava indietro più ostile di prima e lo colpiva con le ali, con la coda, tentava di beccarlo ovunque. Alla fine non c’era un senso in questo? Oppure c’era? Cercò mentre si difendeva con la spada , il senso originario di quello che stava facendo. Lo trovò pensando a suo figlio, lo vide ancora per un attimo vicino al cespuglio, lo salutava con la mano e faceva cenno con la testa di lasciar perdere. Il re, non poteva non recuperare l’aggancio con la vita, voleva portare i semi all’amata per darle a tutti i costi quel bambino, seme del suo albero, frutto della sua stirpe. Gal lo sovrastava, lo spinse contro l’albero, ma l’uomo con un guizzo rapido delle mani lo afferrò per il petto e lo strinse con il suo corpo come in un abbraccio, si buttò contro l’albero della vita e i semi caddero. La regina tenne fermo il piccolo, lo agguantò con le zampe, lo spostò a terra delicatamente e si posò accanto a lui a proteggerlo. Il re prese i semi, con una mano li strinse, ma dovette lasciare in parte la preda che si divincolò e lo colpì col becco alla spalla, poi alla gamba. Stava per colpirlo alla testa, quando prese dalla cintura un coltello e gli ferì il ventre. Solo gli dei sapevano quanto gli costò fare questo. Ferire Gal fu come ferire se stesso,
ma non aveva scelta. Gal si attaccò con i suoi artigli alla veste del re e con un ultimo colpo d’ali lo portò lontano dall’albero, verso il canale. Lo alzò in volo con sé per alcuni metri, quel tanto che bastò a raggiungere un’altezza paurosa per un umano. Lo sforzo atroce indebolì Gal che roteò in aria lasciando andare il re al suo destino e lui cadde per centinaia di metri, finendo dentro il canale. Shar vedendo la scena ricordò il re di cui aveva preso il posto. Adesso capiva che da una sfida non poteva nascere mai qualcosa di buono. Vedeva il suo amato cadere nel vuoto, sperimentava ancora il dolore che seguiva la morte di qualcuno che amava. Capì che continuava a girare in cerchio, accadevano sempre le stesse cose. Il dolore si rivestiva ancora di sacrificio, di rinuncia; Gal, il suo amore stava morendo rinunciando così ai suoi sogni per permettere a lei di vivere e di far nascere suo figlio. Così si aprì la sua anima. Ora poteva guardare nel profondo di se stessa come a un essere che era stato protetto. Il dolore, aveva generato il suo cambiamento, da leziosa e distratta femmina in regina dei voli e poi del suo popolo. Ma questo aveva ucciso qualcuno. Suo fratello era morto per proteggerla dalla sua paura. La sua ambizione aveva portato un altro re al sacrificio per non umiliarsi. Il re Merse cadde nel vuoto lungo la montagna, il suo volo fu lunghissimo e capì “che stava pagando il prezzo tutto in un colpo”. Aprì le braccia e mentre vedeva sua moglie piangere, la vide anche urlare e sorridere e piangere di felicità nel mettere al mondo suo figlio che all’insaputa di tutti era già dentro di lei. Un miracolo del destino che paga strani tributi per chi si arrampica ben oltre il visibile. Pensò che se avesse avuto un’altra vita gli sarebbe piaciuto incontrarla ancora la sua regina e ancora e ancora per sempre. Precipitando pensò che in fondo era bello poter volare e che se fosse stato un uccello avrebbe fatto come Gal. Lo perdonò, perdonò se stesso per la sua progenie a venire. Chiuse gli occhi e si sentì dentro un tunnel nero, pieno di risa e di bambini che facevano il girotondo. Avvertì un cambiamento: si sentì subito dopo straordinariamente leggero.
La fine
Shar volò lungo il canale, discese proprio dove era caduto Gal. Nè lei né Gal avevano creduto alle parole dell’umano. Avevano insegnato ai Simurg che gli umani erano bestie, assassini, individui senza scrupoli.Tutti i Simurg raccontavano degli uomini ogni tipo di scelleratezza e soprattutto i padri e i saggi avevano messo in guardia ogni piccolo da sempre contro di loro. “Gli uomini parlano un linguaggio che i Simurg comprendono, ma spesso lo usano per convincere, per catturare noi Simurg e poi ucciderci a tradimento per prendersi le nostre piume”. Gli aveva raccontato suo padre quando la metteva in guardia sui pericoli della vita. “Non ascoltarli mai, anche se ti appaiono molto convincenti, anche se ti sembra che possano dire la verità!”. E lei quando il re Merse aveva gridato che non voleva ucciderla, non gli aveva creduto. Quando aveva parlato di suo figlio, sentiva la verità nelle sue parole, ma non aveva ceduto.Temeva troppo per il suo piccolo. Gal invece era troppo preoccupato per le loro vite per ascoltare anche solo una parola del re Merse. E adesso vedeva entrambi i corpi dei maschi morti a terra senza vita. Uno dei due però era il suo amore grande, l’unico che le avesse realmente insegnato il valore delle parole fare l’amore. Significava per lei, dare corpo alle azioni che fanno RE. E Gal per Shar era il più re dei re. Sentiva scorrere l’acqua nel canale e dentro il suo cuore. Amore e onore chiedeva per non essere sola come una pietra bruciata. Guardava il corpo di Gal e sentiva una ferita nel ventre. “Per tanto amore solo con te- pensava- la mia vita si è tinta di bianco. Tutti i colori in uno mi hai portato, nelle tenebre ho sentito i tuoi voli stellati. Ritorna amore!Tutte le mie paure torneranno ad abitarmi, in mezzo al mio sonno rivedrò questa scena milioni di volte. Nessun onore, nessun regno mi appartiene adesso, nessun volo mai più. Non sarà più mia l’aria libera, le stelle non riusciranno a guidare il mio viaggio. Senza l’essenza del tuo canto silenzioso, prezioso, il mio andare è sterile. La tua danza è terminata. Quante volte ti amai senza vederti, ma ora d’improvviso ti
vedo dentro un’ombra. Voglio strappare quest’ombra da te, dal tuo corpo e non posso!Io sono una regina magica, dispensatrice di doni. Per gli umani, guaritrice di ferite, essenza per la specie. E per i Simurg? Nulla posso? Per il mio amore nulla?” Si girò verso l’uomo a terra caduto qualche metro più in là. D’improvviso provò una grande pena per questo altro Re. E pensò che tutta questa morte era stata generata dal suo odio nei confronti degli umani. Tutta la rabbia che aveva serbato per anni, per la morte di sua madre, ora non aveva più senso. Sentì che quest’uomo era davvero venuto in pace, comprese di aver commesso un altro sbaglio. Allora si strappò tutte le piume della coda e le portò sulle ferite dell’uomo. Perdonò se stessa per non averlo ascoltato. Perdonò chi aveva ucciso sua madre, Perdonò il felino che aveva ucciso suo fratello, perdonò quest’uomo che aveva ucciso Gal. Sapeva che ora non avrebbe più potuto volare e questo per una come lei era davvero inconcepibile. Aveva compiuto un atto d’amore immenso. Sacrificato ciò che faceva di lei un essere eccezionale, per ridare vita ad un uomo, considerato dal suo popolo un nemico. In quel momento, però per Shar, l’uomo era solo un padre. Non tutti gli uomini erano malvagi, e questo sicuramente aveva dimostrato di non esserlo. Ripensando a come erano andate le cose, capì che questo Re, se avesse voluto l’avrebbe potuta uccidere in pochi secondi e invece non l’aveva fatto. Almeno uno dei due padri uccisi a causa di un pregiudizio, esteso a tutto il genere umano, doveva tornare da suo figlio.
L’altro mondo
Lo spirito del re Merse,volava leggero proprio sopra il canale, strappato dalla morte al suo corpo umano. Vedeva dall’alto la regina Shar, ma non aveva più memoria di ciò che era accaduto nell’altra vita. Capì che doveva essere accaduto qualcosa di tragico, ma non riusciva a comprendere bene. Si rese conto di essere stordito, quasi come se fosse stato ferito. Tuttavia stava benissimo in quella dimensione. Si sentiva in pace. Improvvisamente però si sentì strappare via dall’alto del cielo. Fu come se un vortice lo ingoiasse. Scivolava dentro una specie di tunnel ancora, questa volta però non era nero, ma grigio e lucente in fondo. Si lasciò andare. Dopo qualche energico tentativo per tornare indietro. Voleva aiutare la sua Regina Erat a tutti i costi. Lei aveva bisogno di lui, dei semi dell’albero della vita, lo sentiva e si ribellava a quell’ingoiamento precoce. Svenne. Gal, invece si era sentito strappare via la vita mentre cadeva verso il canale. Era entrato anche lui in una specie di tunnel nero e aveva rivisto la sua vita intera. Scivolando nel tunnel capì di essere circondato dai suoi amici della galassia,vide la sua nascita nell’arcipelago di Orione, il suo uovo nero schiudersi e sua madre che lo aiutava a liberarsi dal guscio. Aveva visto suo padre che gli insegnava ad entrare nelle diverse sfere delle galassie e gli indicava come are da un mondo all’altro. Si era rivisto attraversare la Via lattea ed incontrare Shar. In quell’istante gli si aprì il cuore in mille frammenti di cristallo e gli apparve una girandola di voli, amici, paesaggi stellari, terreni, laghi, terre e canti. Vide la regina Shar, ma non aveva più memoria di ciò che era accaduto nell’altra
vita con lei. Capì che doveva essere accaduto qualcosa di tragico, ma non riusciva a comprendere bene. Non capiva che era morto. Si sentiva stordito, quasi come se fosse stato ferito. Nei suoi pensieri l’immagine di Shar si sovrappose con quella di una donna umana: anche lei era una regina. In quel momento si sentì strappare da quel luogo indefinito. Fu come se improvvisamente un vortice lo ingoiasse, stava benissimo in quella dimensione. Svenne
Lo scambio di vite
Il Re Merse riaprì gli occhi : era a terra ferito ed era diventato Gal , un Simurg, e vedeva non lontano da lui la regina Shar che si strappava le piume della coda e le deponeva sul suo antico corpo di uomo senza vita a terra.La regina Shar si voltò, stava per andarsene ma vide Gal muovere lentamente le sue grandi ali, incredula capì che il suo dono aveva ridato vita al suo amore e pianse di gioia. Mersecapì in quel frammento di secondo in cui entrava nel corpo del Simurg che lui e Gal erano la stessa sostanza che aveva assunto due forme diverse. Erano lo stesso spirito. Ricordò uno strano canto antico che gli cantavano quando era molto piccolo: “Se la forma scompare la sua sostanza resta eterna. Racamantà,mulè finchè la luce non si spegne, il vortice gira e gira e gira e ridà le penne. Grancalè rimulantè. Il tunnel nero in realtà non c’è! E’ il tuo pensiero che fa da sé. Racamantà mulè perké!Rinasci sempre una forma l’avrai anche due o tre se lo vorrai!Racamtò mulè mulai. Solo se ci credi ti trasformerai e un’altra vita aver potrai. Racamantà mulè tuka’!” In quel momento Merse perse ogni visione e ogni ricordo precedente e abitò completamente quella forma di Simurg dimenticando la sua vita da Re umano.
L’uomo uccello Re
Gal entrò invece nel corpo del Re umano, riaprì gli occhi e si sentì diverso. Vide per prima cosa i suoi piedi; non erano più zampe. Sentì arrivare la forza delle ali nelle sue mani, come se un liquido fluido lo riabitasse e per qualche secondo prima di essere completamente umano, seppe che lui e quel Simurg che si trovava lì accanto avevano fatto cambio di vita. Seppe di essere Gal, seppe di avere avuto un figlio, capì che Shar quella Regina era la sua amata. Comprese che si può essere di tante essenze e sostanze ma solo di alcune forme. Fu stordito dall’insieme di tutte quelle scoperte. E svenne. Quando Gal si sentì totalmente nel corpo di quel Re, umano:Merse III, riaprì gli occhi. Era ricoperto dalle piume colorate che la regina si era strappata dalla coda e capì subito cos’era accaduto. Era stata lei, Shar a salvarlo. E così con lui aveva salvato anche Gal. Incredibile! Perché lo aveva fatto? Lei non poteva sapere che i due esseri in realtà erano la stessa sostanza. E allora perché lo aveva salvato? Rinunciando alla sua coda, perdendo per sempre la possibilità di volare. Seppe che forse era solo per un atto di grande amore o di pietà. Capì che gli animali avevano più anima di alcuni umani. In un secondo mise insieme le parole ANIMA-Li’ e comprese. “Dentro le parole c’è la sostanza di cui sono fatte” pensò :“Gli animali hanno un’anima sensibile, forse più degli umani”. Erano tante le cose che gli umani non capivano. Non ascoltavano la natura, non sentivano nemmeno il loro corpo che li avvertiva di tanto in tanto dei pericoli. Credevano che gli animali fossero stupidi o che appartenessero ad una specie inferiore, incapace di avere sentimenti ed emozioni come loro. Improvvisamente dopo quel pensiero, dimenticò tutto ciò che aveva compreso
nell’altro mondo e si alzò in piedi.
La regina vide il miracolo e con lei tutto il popolo dei Simurg comprese ciò che era accaduto. Adesso i due padri erano salvi, per merito suo due piccoli avrebbero avuto entrambi i loro genitori e il periodo della rabbia era terminato. Il re Merse si prostrò alla regina Shar e fece solenne giuramento che mai più uno del suo popolo avrebbe ucciso un Simurg reale. La ringraziò per avergli donato nuovamente la vita e si incamminò per la via del ritorno portando con se i semi dell’albero della vita.
L’amore dell’altro universo
Gal si alzò da terra, guardò la regina Shar. Così senza coda sembrava una povera colombella, tuttavia lui la vedeva sempre bellissima. Non capiva perché lasciasse andare il re umano, né perché fosse vivo, intuiva col sentire dei Simurg che era stato protagonista di qualcosa di straordinario. Dove fosse il confine tra il suo corpo e quello della regina non lo poteva più comprendere. Lei aveva volato dentro i suoi occhi e gli aveva riportato il giorno. I suoi occhi che credeva persi per sempre lo guardavano neri di pece, vivi zampilli di gioia. Vergognosa lei della sua apparenza, privata ormai delle sue piume gioiello, fece per sfuggirgli, ma lui l’alzò, prendendola tra le sue ali piene di stelle. Aveva capito il dono d’amore che lei gli aveva fatto! Si alzò in volo con lei e la mostrò al popolo che esultò. Il popolo testimone del miracolo accaduto fischiava la canzone antica della sostanza. Le portarono vicino suo figlio che si accoccolò accanto a lei e subito dove il piccolo si appoggiò iniziò a ricrescerle una piuma della coda magica, e poi un’altra e un’altra ancora. L’amore incondizionato non ha confini… ma questa è una storia antica.
Nello stesso momento il re Merse giunse a casa, il popolo lo sollevò e lo portò in trionfo, fu portato di braccia in braccia fino al castello e lì cominciarono a battere i tamburi delle guardie reali, poi i tamburi delle guardie esterne, poi quelli del popolo.Si affacciò la regina Erat e lo vide. Scese le scale di corsa con in braccio suo figlio. Lo raggiunse nella sala del trono, aveva un abito di seta arancio e blu cobalto, il petto dell’abito era bianco. Suo figlio invece aveva un vestito nero ricamato a stelle e oro.
In quel momento ricordò per un attimo di essere qui e là. Due in uno o uno in due. Questo pensiero lo stupì. Scosse la testa. Prese suo figlio in braccio, sorrise, abbracciò sua moglie e capì che stava di nuovo volando.
LA SCOPERTA
Il Simurg era un uccello che secondo le leggende persiane, viveva sull’albero dei semi, da cui erano generati i semi di tutte le piante selvatiche. Secondo la tradizione del popolo persiano, quest’albero si trovava accanto all’albero dell’immortalità. Il Simurg volava in genere nelle zone dell’altopiano caucasico. Alcuni sostengono che sia realmente esistito con nomi diversi a seconda dei popoli che ne raccontano le proprietà e l’apparenza. Il suo nome deriva dall'avestico Saena Meregha (Saena=Aquila Meregha=Uccello). Quando abbiamo scritto questo libro non sapevamo né di questa leggenda, né della sua esistenza. Un giorno per caso ci è nato il dubbio che questa storia potesse in qualche modo appartenere ad una memoria antica, cellulare, esistente dentro di noi. Siamo andate a fare una ricerca ed abbiamo scoperto che l’uccello che avevamo descritto era proprio il Simurg. Magica scoperta che sottolinea qualcosa di particolare: ”Se la forma scompare la sua sostanza resta eterna”. Inoltre siamo andate a cercare l’autore di questa frase anonima che ricordavamo e che abbiamo inserito nel libro. L’abbiamo trovata, potete leggerla appena riscritta qui sotto in modo leggermente diverso in una poesia. Appartiene ad un poeta persiano! Coincidenze meravigliose per raccontarci che nulla e nessuno scompare per sempre. Ogni forma che vedi ha il suo Tipo supremo nell’Oltrespazio: se la forma scompare, non temere: la sua radice è eterna. Ogni immagine che vedi, ogni discorso che ascolti Non penarti quando scompare, ché questo non è vero. Poiché eterna è la fonte, i suoi rami scorrono sempre, e poi che ambedue mai cessano, inutile è il lamento RUMI poeta persiano
Indice
CAPITOLO I La madre e il fratello Il padre I Simurg La sfida Il problema La valle delle cascate I pensieri di Shar Il ritorno e la decisione L’evento straordinario CAPITOLO II La regina Shar I Simurg Zampilli nel cuore La caccia era cominciata L’uomo In cammino per il figlio La minaccia La lotta
CAPITOLO III La vita corre su fili inimmaginabili La fine L’altro mondo Lo scambio di vite L’uomo uccello Re L’amore dell’altro universo LA SCOPERTA