Le Notti Buie dei Franchi
Duilio Chiarle
Prima Edizione 2014
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Illustrazione di copertina: “Warrior” ©Andrey Kiselev - www.dreamstime.com
Cartine disegnate da: Karl Guthorm
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Indice
Cartine
Le notti buie dei Franchi Prima Feria Terza Feria Quarta Feria Quinta Feria Sesta Feria Domine Dies
Bibliografia essenziale
Nota storica sui personaggi
LE NOTTI BUIE DEI FRANCHI
Nelle notti buie e senza luna, quando il vento muove le cime degli alberi, gli uomini sono chiusi nelle loro capanne per paura dei lupi e degli orsi. La notte nessuno viaggia, poiché il viaggio è insicuro. Le strade poche ed i viaggiatori timorosi, senza la scorta di un’arma, non si sentono al sicuro ed anche quei pochi che sanno portare degnamente un’arma temono che essa non serva contro l’oscurità che avvolge il mondo. La notte è fatta per i buoni frati e per le loro preghiere. La notte, il silenzio chiede la preghiera, la meditazione: i buoni frati pregano perché il mondo migliori, perché nostro Signore, nella sua infinita sapienza e bontà, perdoni l’uomo per tutti i suoi misfatti. E l’uomo, in continuo cammino da un luogo ad un altro, deve chiedere asilo per la notte. Vi sono conventi ed abbazie ad intervalli di un giorno di marcia, in ogni direzione l’uomo desideri percorrere. Poiché l’uomo percorre i sentieri tra i campi e le selve incessantemente, deve guardarsi dalle fiere, dai demoni e dai suoi simili. La notte non è fatta per il viaggio e chi è in grado di trovarsi un riparo sicuro, sotto la protezione di una croce, è un uomo prudente. Ma chi è sorpreso dalla notte in viaggio deve avere con sé la selce e l’acciarino e con l’opportuna esca deve accendere un fuoco per poter tenere lontane le fiere: e deve recitare le orazioni. Guai a chi non pratica la prudenza, a chi non ha un’arma, a chi non prega, a chi non può accendere il fuoco. Perché di notte il cammino è pericoloso e l’oscurità fitta. E per chi non sa la strada, perdere la via può costringere il viandante a are la notte in luoghi a lui ignoti, inerme. Ho incontrato uomini impazziti per il terrore dopo una notte di solitudine, dopo aver perduto la strada o per essere stati scacciati dal villaggio per punizione. Fuori della selva, i castelli e le abbazie segnalano ad intervalli regolari e l’unica luce, fuorché quella delle stelle, è quella dei fuochi delle torri di re Carlo. Così l’uomo che viaggia può orientarsi se si è perduto e, se Dio lo vuole, salvarsi dalla notte e dalle sue creature, sostare fuori le mura finché all’alba le guardie apriranno le porte ed il nuovo giorno inizierà il suo corso. E’ una severa punizione, l’essere chiusi fuori. Al tramonto, le foresterie chiudono l’uscio e chi ne è fuori vi deve restare, dato che la notte è il regno del male e di notte i buoni frati pregano poiché il giorno è fatto per il lavoro come la notte per la preghiera. A chi bussa la notte non si può aprire l’uscio in quanto le streghe e i
demoni viaggiano in quelle ore e così anche i predoni Saraceni. E se dal tempo del terzo re Thierry i Saraceni non hanno più osato spingersi tanto oltre i confini di Asturia, gli occhi delle sentinelle devono vigilare poiché, come è detto nelle Sante Scritture, non si può sapere a che ora della notte verrà il ladro: i guerrieri sono pochi ed in un villaggio, il più delle volte, ve ne è uno soltanto. La notte è il regno della paura. In questo luogo di preghiera, al tempo di re Pipino ò il Santo Padre per chiedere asilo e si narra che durante il suo viaggio verso Roma persino San Colombano in persona costruì una cappella per potervi celebrare degnamente la S.Messa. Quivi è sepolto San Martino, quivi ò Clodoveo prima di recarsi da San Remigio per il battesimo. Qui pernottò il Maggiordomo Carlo prima della grande battaglia che ha salvato la cristianità, qui fece benedire dal Priore il suo martello d’acciaio. E qui fu trovato, un mattino, il corpo dell’uomo misterioso fuori dalla porta della foresteria già partito per altra luce.
PRIMA FERIA
L’UOMO MISTERIOSO
Il monaco si segnò. Non era una buona morte, quella dell’uomo ritrovato fuori della foresteria. Senza il viatico, chissà se avrebbe potuto trovare la sua strada verso il paradiso. Una benedizione veloce e timorosa del corpo fu il primo gesto. Il frate congiunse l’anulare ed il pollice della mano destra aperta e compose il segno della croce. Fu in quel momento che giunse, a piedi, un uomo che aveva tutti i segni del comando; un grande scudo tondo, dal grande umbone metallico, alla maniera dei Longobardi, portato sulla schiena proprio sopra lo zaino. Appesa al fianco una grande scure da battaglia, alla maniera dei Franchi, ed il capo coperto da una costosa maglia di ferro ribadita a grano d’orzo la cui fattura era rara a vedersi. Non indossava l’elmo, probabilmente l’arnese si trovava nel suo grosso zaino. Nessun uomo sano di mente penserebbe di aggredire un uomo che porta simili armi. La veste, sebbene non nuova, era in ottimo stato e la sua corta tunica era di taglio inusuale, di un colore molto costoso, una sorta di verde scuro che in qualche lontano luogo probabilmente si era ottenuta con la tintura ad erba così difficile da ottenere. Le brache erano di un normalissimo color marrone ed il colorato ricamo color porpora sugli orli rivelava anch’esso l’appartenenza ad un ceto sociale superiore. Una sorta di calzare imbottito, fermato ai polpacci con lacci di cuoio morbido, dava allo straniero un aspetto temibile ed esotico al tempo stesso. Il monaco ristette pensoso ad osservare lo strano guerriero giunto a piedi e dimenticò il misterioso corpo ritrovato davanti alla foresteria. —Dio ti benedica, straniero! —Dio ti benedica, buon frate —disse il nuovo arrivato con un leggero inchino del capo ed alzando la mano destra in segno di pace. Il guerriero aveva uno strano accento. —Hai viaggiato di notte, straniero? — domando il frate socchiudendo gli occhi. —Dio mi ha protetto, ho un fuoco per tenere alla larga le fiere —rispose
— il fuoco non si è spento e la notte non mi ha travolto. Ma non si può certo dire che io mi sia riposato, buon frate: ho dovuto vegliare attentamente, indossando la mia armatura, e ti assicuro che ciò che si udiva nella notte non era incoraggiante. Non ho soltanto udito le fiere: ho udito distintamente rumori e grida. Quindi, il guerriero si avvide del corpo in terra e si rivolse nuovamente al monaco. —Buon frate, quell’uomo è morto? Il monaco si accorse di aver tralasciato il proprio compito per salutare il nuovo arrivato. —Sì —rispose— lo abbiamo appena trovato. Il guerriero scoprì il capo dalla maglia di ferro e si segnò da buon cristiano. —Come è successo? —domandò. —Non sappiamo —disse il monaco— ora dovremo ricomporlo e ordinare trenta messe di suffragio: non sappiamo chi sia e perché viaggiasse di notte. L’uomo giaceva prono, il volto a terra. Era calvo, la mano destra stretta a pugno sul nulla. Due giovani oblati, certamente di non più di tredici anni, presero il corpo dell’uomo e lo girarono. Ma, non appena voltato, lo lasciarono andare. Non erano avvezzi al tipo di spettacolo cui stavano assistendo. —Signore, aiutaci! —esclamò il frate portando le mani al volto per coprirsi gli occhi —Il demonio è ato nella nostra Abbazia! L’uomo aveva un profondo squarcio nel petto, all’altezza del cuore. Gli occhi erano sbarrati e il volto congelato in una smorfia di terrore. I giovani non avrebbero dimenticato facilmente quello sguardo. Lo straniero si avvicinò al corpo dello sconosciuto. —Buon frate, non credo che sia opera del demonio: quest’uomo è stato ucciso con un colpo di spada, molto preciso. La ferita è mortale, lascia poco tempo per chiedere perdono dei propri peccati.
—Una spada? —domandò il frate. —Sì, una spada. E per la precisione una lunga spada da cavaliere, di quelle spade che hanno un largo taglio. Quest’uomo ha veduto bene in viso colui che l’ha assassinato. —Come puoi dire che si tratti di una spada? —Ho visto molte ferite come questa. Quest’uomo era in ginocchio e colui che l’ha ucciso era in piedi. Certamente costui stava chiedendo mercede. La spada l’ha ucciso con un solo colpo. E’ sicuramente un cavaliere il suo assassino, un cavaliere con spada franca a lama larga. —Perdona i miei dubbi —disse il monaco— come puoi dire che si tratti di un cavaliere? —L’editto del re Carlo prevede che ogni cavaliere possieda un arco con frecce, uno scudo, una lancia e due spade: una corta ed una lunga. Le spade corte lasciano un altro tipo di ferita. Si tratta certamente di una spada lunga, adatta al combattimento a cavallo. Dunque è stato ucciso da un cavaliere. Da un cavaliere che era smontato dal suo animale. Il monaco era costernato dalla rivelazione. —Non abbiamo udito cavalli questa notte… —disse— e non abbiamo udito gridare. Lo straniero non rispose. Andò invece ad osservare il punto da cui era stato rimosso il corpo. —Non c’è sangue —disse. —Cosa significa? —domandò il frate. —Significa che non è morto qui. E’ stato ucciso in un altro luogo e poi trasportato fin qui. Intanto si era radunato un gruppo di monaci, di conversi e di oblati e a tutte le affermazioni dello straniero c’era un fitto mormorio.
—…è stato un cavaliere! —…una spada… una spada… —…l’hanno ucciso mentre chiedeva pietà… —…che infamia… —…che disonore… —…ma perché l’hanno portato qui? —Puoi dirci di più, straniero? —disse un altro monaco che aveva già ricevuto il sacerdozio e dunque aveva più di trenta anni. Lo straniero sollevò i lembi della tunica della vittima e osservò il torace squarciato. —Buoni frati —disse il guerriero dall’accento straniero— siate così gentili, allora da voler voltare quest’uomo su un fianco. Alcuni monaci voltarono subito su un fianco la vittima e lo straniero ripeté l’operazione. —Posso confermare che è stato ucciso altrove e poi trascinato qui. Ma non subito. Vedete queste macchie? Si formano quando un uomo è morto da molte ore. Poi è stato portato qui e gettato davanti alla vostra porta, per farvi credere che si trattasse dell’opera del demonio. Un coro di voci scandalizzate si alzò. —C’è un Balivo? —domandò lo straniero— C’è un Balivo in questa contrada? —E’ lontano —disse il sacerdote— almeno un giorno di viaggio. —Occorrerà informarlo del delitto e del sacrilegio. Qualcuno ha violato la sacralità di questo luogo e la pace che esso rappresenta. I monaci, costernati, si segnarono. —Chi può essere tanto malvagio? —disse un frate.
—I Sassoni pagani! —esclamò un altro— devono essere stati i Sassoni di Vitichindo. —I Saraceni! —esclamò un altro— i Saraceni che hanno distrutto il regno cristiano di Roderico il Visigoto! —No, buoni padri —disse il guerriero— ho avuto esperienza con i Saraceni, essi usano armi a un taglio solo e ricurve. Quanto ai Sassoni essi sono troppo distanti e, se fossero giunti fin qui, ora non vi sarebbe più nessun monaco a pregare per l’anima di questo disgraziato uomo. E’ una spada dei Franchi che ha commesso questo scempio. Ne sono sicuro. —Bisognerà informare il Vescovo Erlingo —disse il frate Priore, nel frattempo sopraggiunto. Quest’uomo d’arme ha ragione. Io ho già visto ferite simili. E’ certamente una spada. —Come potremo cantare abbastanza suffragi per questo delitto? —si domandò costernato un altro monaco. —Morendo, ha certamente guardato verso il cielo —disse il guerriero— Anche se era buio, ha cercato il cielo. —Diremo trenta messe di suffragio per l’anima di quest’uomo —affermò il Priore— Componetelo in un luogo più adatto! Molte mani lo sollevarono e lo trasportarono lontano. —Grazie, straniero —disse il Priore all’uomo d’armi— per averci sollevato dall’angoscia di un delitto che avremmo potuto pensare opera di demoni pagani. Il guerriero fissò bene negli occhi il Priore e sottovoce gli disse: —Uno l’ha ucciso, molti l’hanno portato fin qui. Era un uomo robusto e, viste le dimensioni del ventre, non sembra un contadino. Mentre i frati sollevavano il corpo qualcosa cadde a terra. Il Priore fermò i monaci, si avvicinò e lo raccolse: era un sacchettino di cuoio con alcune monete in argento da mezzo denaro ed altre brune. Il sacchettino portava il disegno di una croce cristiana, un paio di ghirigori incisi con un ferro
caldo ed era chiuso da un lungo laccio con dei segni incisi. —Chi l’ha ucciso non l’ha fatto per bramosia di preda —disse— tratterremo il sacchetto in modo che, se qualcuno cercherà il suo congiunto, potrà riconoscere i suoi oggetti. Il guerriero si avvicinò nuovamente al corpo. La mano destra era stretta a pugno. L'aprì di forza; comunque i frati avrebbero dovuto ricomporlo. Fu un’operazione molto difficile. Un brandello di pergamena si trovava nella mano dell’uomo. Nessuno salvo il Priore sembrò far caso al brandello. Ma comunque la cosa non lo interessò più di tanto. —Se non troveremo congiunti di quest’uomo —disse ad alta voce il Priore sollevando il sacchetto di cuoio— questo denaro sacrilego sarà usato per la mensa dei poveri. Il guerriero osservò attentamente il disegno sul sacchetto e mise il brandello di pergamena nel proprio. —Oggi sarai nostro ospite, straniero —disse il Priore al guerriero— la nostra foresteria è sempre aperta e un pasto caldo all’ora sesta ti ristorerà dalle fatiche del viaggio. —Sia lodato Nostro Signore —disse il guerriero. —Sia lodato Nostro Signore —rispose il Priore.
TERZA FERIA
IL BALIVO
Quando si parla di giustizia, si parla di qualcosa che non ci appartiene. Nel Vangelo di Matteo è scritto: “beati coloro che hanno fame e sete di giustizia”. Ma la giustizia, cosa non appartenente all’uomo ma soltanto a Dio, tuttavia è amministrata con severità proprio dagli uomini, sovente in modo imperfetto, poiché è l’uomo ad essere imperfetto. Dio mise l’uomo in stato di giustizia con la creazione, stato da cui l’uomo decadde con il peccato originale e da quel tempo non vi è più giustizia. Dunque, solo Dio è giustizia: suprema giustizia. Un delitto è cosa grave e richiede che si trovi un colpevole. Tra i Franchi ogni Balivo ha una sua giurisdizione. Il Balivo, appena appreso del delitto impiegò due giorni a giungere sul posto. —Il morto portava qualche tipo di insegna? —domandò al Priore, appena smontato da cavallo. —Nessuna insegna —rispose il Priore. —Dunque non sapete chi fosse quell’uomo? —Lo ignoriamo, Balivo. —E non portava su di sé nulla che potesse farlo riconoscere? Il Priore esitò. Poi disse: —Un sacchetto di cuoio con alcune monete da mezzo denaro. Sul sacchetto vi è incisa una croce e qualche decorazione. Ma nessuno stemma. Il Priore fece segno ad un monaco, il quale mostrò al funzionario l’oggetto. Il Balivo l’osservò distrattamente. —Tutto qui? —domandò. —Tutto qui — rispose il Priore.
Il Balivo restituì la sacca. —Se si trattasse di qualcuno di queste parti, certamente ora sapremmo chi è. L’unico uomo sparito di cui sono venuto a sapere è stato ucciso dai lupi e ciò che resta di lui è stato trovato ieri. Posso vedere quell’uomo? —Mi dispiace, Balivo, ma abbiamo già provveduto alla sepoltura ed ora si trova in terra consacrata. —E se non fosse stato cristiano? —domandò il Balivo. —Sulla sua sacca c’era una croce —rispose il Priore. Il Balivo, evidentemente scocciato per l’imprevisto, tagliò corto. —Se dovessi venirne a sapere il nome ve ne informerò, per le vostre preghiere. Il Priore apprezzò e chinò il capo con evidente soddisfazione. L’uomo non aveva avuto una buona morte e le preghiere in suffragio sarebbero state tante: meglio sapere per chi si prega. Il Balivo rimontò a cavallo ma, prima dei saluti di rito, il Priore lo richiamò. —Balivo, quell’uomo è stato ucciso da un cavaliere. Il Balivo si bloccò. Era il mese di maggio, tradizionalmente, quello in cui si vedeva il raduno degli armati per le spedizioni militari. —L’avete veduto? —domandò. —No —rispose il Priore. —E allora come potete dire chi sia? —disse seccato il funzionario. —Un guerriero ci ha ampiamente illuminati in merito a questa spiacevole faccenda. Il Balivo aggrottò le sopracciglia. —Un guerriero? —disse— Quale guerriero? In questa zona non vi sono guerrieri attivi in questo periodo. E io devo essere informato di tutti i movimenti degli
uomini d’arme. —Non è di queste parti —disse il Priore. —Dove posso trovarlo? —domandò. —In questi giorni è nostro ospite —rispose il Priore. Il Balivo ridiscese da cavallo. —Chiamatelo qui, subito! —ordinò. Il Priore ebbe una smorfia di disappunto. Il Balivo, sebbene funzionario regio, non aveva diritti sull’Abbazia e dunque non poteva ordinare alcunché. Il Priore si voltò di malavoglia verso uno dei conversi e gli disse sottovoce: —Fatelo venire qui, il Balivo vuole conferire. Il Balivo ò tutto il tempo in silenzio, giocherellando nervosamente con il lembo lungo della sua cintura. I due uomini che l’accompagnavano erano chiaramente annoiati dall’attesa e si occupavano del magnifico cavallo del loro Signore. Quando finalmente lo straniero fu al suo cospetto il Balivo lo scrutò con sguardo severo. Una veste raffinata, per un guerriero. Ma senza cavallo non faceva pensare ad un nobile. Inoltre l’abito aveva un taglio ed un colore inconsueti. —Perché getti il discredito sui cavalieri del re? —domandò aspro il Balivo. —L’arma che ha ucciso quell’uomo è una spada lunga dei Franchi. —rispose con sicurezza lo straniero. Quest’uomo è stato ucciso con un colpo di spada dall’alto verso il basso, di punta. Probabilmente mentre chiedeva mercede. Poi è stato trascinato in questo luogo, davanti alla foresteria ed abbandonato. Il Balivo fissò lo straniero negli occhi. Poi cominciò a ridere. —Tutto questo con la sola forza della tua immaginazione? —disse— Puoi dirci anche quanto era alto l’assassino e che abiti portava, straniero?
Il Balivo aveva marcato molto la parola “straniero”, con forza e relativo disprezzo. Lo straniero rispose senza cedere alla provocazione. —La ferita parla chiaramente: un uomo alto ne ha colpito uno in ginocchio con una sola stoccata. La ferita è stata causata da una spada lunga a lama larga come quella che usano i cavalieri Franchi, che è un’arma pesante e richiede forza e abilità. Non è una spada come la tua, la tua è corta e lascia ferite ristrette. Il Balivo si risentì per le allusioni salaci del suo interlocutore. —La mia spada potrebbe assaggiare le tue carni —disse con astio— e allora potresti confrontare le tue ferite con quelle del morto. —La mia esperienza mi insegna che i Balivi non sanno usare la spada meglio dei servi, che tuttavia sono anch’essi in grado di cavalcare e combattere, se necessario —rispose lo straniero. Il Balivo cambiò colore. —Come osi, straniero? —io ho l’autorità per giudicare. Tu stai infangando il mio onore, la mia carica e i cavalieri del re! —No, Balivo —disse con calma il suo interlocutore— io ho il massimo rispetto per la tua carica. Quanto all’uomo, è l’uomo che ho di fronte che ha recato offesa a me. La mia esperienza in fatto di armi è certamente superiore alla tua, senza offesa. Ho combattuto in Longobardia, prima e dopo il regno d’Italia. Ho combattuto Aquitani, Frisoni, Sassoni e Saraceni. Sono stato al servizio del Basileus di Costantinopoli. Ho pellegrinato a Roma per chiedere perdono dei miei peccati e veduto il Papa. So leggere e scrivere. Ho appreso bene gli effetti di ogni arma. Io ho la competenza per dirti che chi ha ucciso quello sconosciuto era un cavaliere ed usava una spada dei Franchi. Quell’uomo è stato ucciso altrove e portato qui per farlo trovare da questi santi monaci. Il Balivo restò impressionato dalle parole del suo interlocutore. —Potresti averlo ucciso tu —insinuò. Il suo interlocutore si voltò verso il Priore, alzò la mano destra e disse:
—Chiamo Dio a testimone: io non ho ucciso quell’uomo. Il Balivo si zittì. Non aveva armi contro una simile affermazione. —Dovrai comunque seguirmi al più vicino castello e le tue armi, le tue vesti, i tuoi averi, sono comunque sequestrati. Il Priore si frappose tra i due. —Balivo, tu non ne hai l’autorità —disse. —Priore, tu non puoi fermarmi! —esclamò il Balivo. Lo straniero rimase immobile, con aria imibile. —Lui no —disse una voce severa alle sue spalle— ma io sì. Il Balivo si voltò e si trovò di fronte ad un altro religioso. —Io sono Alcuino di York e ti dico su questa terra consacrata, secondo la legge dei Salii tu non hai giurisdizione. Tu non hai potere, qui. Sei stato chiamato poiché il Balivo del re deve essere informato di tutti i crimini avvenuti. Ma tu non hai giurisdizione in questo luogo. Qui vi sono dei luoghi santi e vige la pace di Dio. Qui è il Vescovo che ha giurisdizione. —…Alcuino! —esclamarono meravigliati alcuni presenti —…Alcuino di York! Il Balivo, irritato, fece un mezzo o avanti, ma Alcuino afferrò il crocifisso che portava al collo e l’alzò di fronte a sé. L’alzò come un guerriero alza un’arma, come un’arma pronta a colpire. Il Balivo si inginocchiò di fronte a lui, e anche la sua scorta fece altrettanto. —Che non accada più! —intimò Alcuino. Il Balivo si rialzò, saltò a cavallo, richiamò i propri aiutanti e se ne andò in silenzio, il più velocemente possibile. —Diligite iustitiam, qui iudicatis terram —disse Alcuino scuotendo il capo con rassegnazione— amate la giustizia, voi che governate la Terra.
Alcuino si asciugò la fronte sudata, si voltò verso lo straniero e disse: —Quando impareranno? E’ il Balivo e non ha dimestichezza con le leggi della sua Gente.
ALCUINO
I Franchi non sanno leggere. Essi non padroneggiano il potere della scrittura, lo ignorano. Soltanto i buoni monaci delle poche grandi Abbazie hanno questa capacità. Oltre ai vescovi, ai monaci, pochi altri sapienti nelle terre del nord intendono il potere della scrittura. Di questi, soltanto pochi sono in grado di leggere senza pronunciare le parole. I re stessi non sono in grado di scrivere o leggere. Questi hanno sempre qualcuno che legge e scrive per loro, ma anche così essi non sono in grado di apporre la propria firma sotto ogni decreto e così si ricorre a volte ad un sigillo per garantirne l’autenticità. Normalmente, l’unico alfabeto noto agli uomini è quello delle armi. Grande meraviglia domina gli uomini quando scoprono che qualcuno sa leggere. Soltanto York, nella terra degli Angli, si distingue per avere una “scuola”. Una grande scuola, ove si imparano cose importanti del ato e del presente, al fine di garantire il futuro. Tra questi rari sapienti c'è Alcuino, il famoso Maestro della scuola di York. —Il Balivo è troppo giovane per amministrare correttamente la giustizia.— chiosò Alcuino —Dice Platone che Il buon giudice non deve essere giovane, ma anziano, poiché uno che ha appreso tardi che cosa è l'ingiustizia, senza averla sentita come personale e insita nella sua anima, ma per averla studiata, come una qualità altrui, nelle anime altrui. —Summum ius, summa iniuria —disse allora l’uomo d’arme —il diritto a tutti i costi diventa ingiuria. Alcuino si voltò, il suo viso aveva un’espressione piena di stupore. Carezzò la sua curata barba. Studiò con interesse l’uomo che aveva appena parlato. —Tu intendi Cicerone? —domandò con stupore Alcuino. —Io so leggere —affermò l’uomo d’arme. —Non basta saper leggere —sentenziò Alcuino— Bisogna, nel leggere, capire ciò che si legge. Già sono stupito che un uomo dedito alle armi conosca quest'arte, ma provo meraviglia che egli abbia studiato Cicerone.
L’uomo d’armi fece un cenno del capo, come per ringraziare e disse: —E’ una lunga storia, sapiente Alcuino. La frase fu accolta da un silenzio profondo e imbarazzante, cui pose rimedio il Priore. —A cosa dobbiamo il tuo arrivo, Maestro Alcuino— disse —La tua fama è tanto grande che la tua sola presenza ci onora oltre ogni immaginazione. La scuola di York è un faro di luce nella notte della barbarie. Il nostro Vescovo ne sarà felice. —Sono di ritorno da Roma, ove ho conferito con il Santo Padre —disse Alcuino tra la meraviglia dei presenti. —Hai incontrato il Santo Padre? —domandò il Priore strabuzzando gli occhi — Parlaci di lui. Quale migliore occasione può avere un uomo di apprendere le notizie, se non per bocca di chi le ha udite in terre lontane? Alcuino non si fece pregare, era uomo di molte parole, dalla fluente eloquenza, di grande ascendente. —Adriano è un uomo di grande carattere —disse Alcuino —sottile, intelligente, di polso fermo. Ed è un uomo di sapere… I presenti, silenziosi, pendevano letteralmente dalle sue labbra. Nei loro volti era riflesso lo stupore, la meraviglia, l’innocenza della barbarie di fronte alle grandi cose, come un uomo che per la prima volta vede riflessa la sua immagine in uno specchio d’acqua. Uno dei monaci ripeteva con le labbra mute ogni parola del Maestro, come se si trovasse per la prima volta di fronte alla propria immagine riflessa. —…e i rapporti di Adriano con l’Imperatore, non sono buoni come un tempo… Posti di fronte ad Alcuino, i monaci di Tours, che pure sapevano leggere, si sentivano come di fronte ad un essere soprannaturale. Egli citava continuamente i grandi dotti del ato, Agostino, Cicerone, Platone, Aristotele. E parlava di cose che erano loro ignote. —…l’Imperatore sta ora combattendo i Saraceni, ma oltre non so dire… L’ospite che viene da terre lontane è il miglior modo per avere notizie dirette su
ciò che accade nel mondo. Ed è perciò un rito irrinunciabile assistere ai suoi racconti. —…e poiché mi trovavo a Roma, per la resurrezione, poi sono ato in Pavia. Ho assistito all’incoronazione di Pipino come re d’Italia. Non somiglia a suo padre Carlo. —Il vero Pipino è gobbo —disse il Priore— ed è figlio di Imiltrude. Le donne della famiglia di Imiltrude hanno uno strano sangue: generano uomini deformi e donne bellissime. Tuttavia Carlomanno… Pipino, scusatemi, ora il suo nome è Pipino… Dicevo, Pipino è il primo figlio di re Carlo, ma il re d’Italia è Carlomanno, figlio di Ildegarda, il quale è stato ribattezzato Pipino da Adriano, e perciò associato al trono. —La tradizione popolare vuole che i gobbi siano malfidi —disse un monaco al seguito di Alcuino —Non avrà vita facile né come principe né come uomo. —Non è buon auspicio, dare ad un figlio il nome di un altro a lui maggiore — considerò il monaco. —Sarà interessante approfondire la cosa —disse Alcuino— il vostro re mi ha chiesto di attenderlo qui. Un mormorio si diffuse tra i monaci. Il Priore si avvicinò ad Alcuino e l’abbracciò. —Saremo lieti di accoglierti tra noi —disse il Priore —Sei il benvenuto per tutto il tempo che vorrai fermarti.
L’OMBRA DI BISANZIO
L’ombra non ha peso, non ha forma precisa, non ha corpo. Eppure essa si proietta quando un corpo luminoso come il sole o una fiaccola o una lucerna ne illuminano un altro. E un tale corpo fisico e tangibile, ostacolando questo mistero di Dio che è la luce, produce un alone di oscurità, impalpabile, inodore, di un grigio non uniforme che copre la terra o i muri su cui si proietta. Tanto più l’ombra è più lunga vieppiù essa si staglia al termine del percorso del sole: all’ora sesta è cortissima, alla nona è più lunga e diviene lunghissima poco prima del tramonto. E se i Franchi ricevono dalla luce di Dio la loro potenza e gettano la loro ombra corta come quella dell’ora sesta sulle terre del nord, esiste un’altra ombra, grande, misteriosa, fitta come la notte ma che pare proiettata da un fantasma e che per tale ragione incute timore. La lunga ombra di Bisanzio, con la sua leggenda, copre anche la terra dei Franchi. L’ombra di Bisanzio è tremenda e misteriosa: are attraverso di essa è come essere investito dal buio dell’eclisse, quando il sole si oscura pur restando visibile, le creature di Dio tacciono per la paura e gli uomini semplici pregano in modo che Dio faccia tornare la luce. E questo alone di mistero ha un grande ascendente sugli uomini. La storia di Bisanzio è la storia di Roma e dei suoi imperatori, di Costantino e di S.Elena, di Giustiniano e Teodora, della regina dei Longobardi Teodolinda. Bisanzio delle sacre reliquie, dei santi luoghi della ione, dei dottori della Chiesa, della cultura, della scienza e della storia. Bisanzio, con la sua corte crudele. Bisanzio con i suoi sovrani iconoclasti che distruggono le raffigurazioni di Cristo e dei Santi. Bisanzio con i suoi filosofi e le sue tasse pesanti. Bisanzio custode della santità e dell’ortodossia. Bisanzio ricca e depravata ove tutto si compra e si vende, con teatri, attori e bordelli dove ogni cosa ha un prezzo. Bisanzio con le sue grandi mura, i suoi ori e la sua porpora, le sue biblioteche e i suoi archivi misteriosi, l’ultima grande città del mondo antico, dove anche le donne ed il più umile dei funzionari di palazzo sanno leggere. La Bisanzio dei veleni e delle navi potenti, con le sue macchine che sputano fiamme. La Bisanzio del fuoco greco. L’ombra lunga di Bisanzio si proietta sul mondo ed incute timore e rispetto. Già ai tempi di Pipino il breve, re dei Franchi e padre di Carlo e Carlomanno, i bizantini mandarono l’ambasceria al nuovo re ed un prezioso organo a canne dai suoni dolci e strani come dono. Per qualche misteriosa ragione, a Bisanzio tutto si sa e tutto si viene a sapere, a volte prima
che i progetti si attuino: Bisanzio è temibile e la sua lunga, lunghissima ombra ricopre tutto di mistero. E il Basileus, che detta dogmi in materia di dottrina cristiana, di tutto il mondo si interessa. Tutti temono l’ombra di Bisanzio, anche quando essa è lontana, poiché si sa che in qualunque momento essa può coprire la terra e far tacere le sue creature, poiché quell’ombra è l’ombra del potere. E l’ombra di Bisanzio giunge fino ai santi luoghi di Tours, proprio all’abbazia ove giace S.Martino, a cinquanta i dalle mura della città che, al confronto della città di Costantino, non ne rappresenta nemmeno un quartiere. Ed è in questo giorno del nuovo anno, dopo la Pentecoste, che giunse a Tours anche un lungo e ricco corteo: il corteo degli ambasciatori dei bizantini, con soldati, servi, doni e con monete d’oro per pagare i conti, poiché Bisanzio le usa proprio come a Benevento fanno ancora oggi i Longobardi del duca Arichi, l’ultimo potente e temibile baluardo di quel popolo in Italia. Il corteo luccicava e splendeva sotto il sole, con le armature lucide, gli abiti ricamati a filo d’oro e le finiture brillanti degli animali. E la gente si accalca alle mura per vedere lo spettacolo. Il Balivo della città si avvicinò al corteo, prima delle porte, indossando gli abiti migliori. La destra stringeva l’elsa della spada, gli facevano ala i suoi due aiutanti. Il Balivo teneva il mento alto, in modo da sembrare ancora più imponente della sua statura già sopra la media. Si avvicinò un personaggio dall’aria ambigua, rasato, pettinato in modo creativo e vestito con sontuosi abiti esotici dai colori inusitati. Egli si produsse in un inchino appena accennato. —Sono l’ambasciatore di Bisanzio —disse pomposamente l’uomo, con un leggero accento straniero. Doveva aver ben studiato la lingua dei Franchi e le loro usanze. —Sono il Balivo di Tours, ambasciatore —rispose il barbuto Balivo, senza ricambiare all’inchino con un altro inchino. —Cosa vi spinge nella terra dei Franchi? —Siamo venuti da Bisanzio per conferire con il vostro re —rispose l'ambasciatore. —Il re non c’è —rispose secco il Balivo— egli non è ancora ritornato dal suo viaggio in Italia: prima a Roma, ove suo figlio Pipino è stato incoronato re e quindi a Pavia, nella reggia del regno d’Italia che un tempo fu dei Longobardi.
Il Balivo aveva marcato particolarmente quel “un tempo”, per significare la forza e la potenza dei Franchi. —Lo sappiamo —rispose l’ambasciatore, il cui taglio impeccabile di capelli sembrava stato fatto con grande cura e precisione, a partire dalla frangia orizzontale sulla fronte. I capelli sembravano comporre un caschetto, tanto erano curati. —Il vostro re giungerà qui al massimo entro domani… Lo sguardo del Balivo si soffermò in particolare sui capelli. Lo colpì non solo il taglio inconsueto, ma soprattutto il fatto che l’ambasciatore indossasse vesti profumate. Tuttavia il suo sguardo divenne angosciato quando afferrò il senso di ciò che l’ambasciatore aveva appena pronunciato. —Ma non è previsto… —balbettò —non è stato predisposto nulla… Come fate a sapere… —Ne siamo certi, Balivo —disse l’ambasciatore in modo mellifluo —egli si trova ad appena un giorno di cammino dietro di noi. Farai buona impressione sul tuo re se provvederai per tempo. Lo sguardo del franco divenne vacuo. Si voltò verso uno dei suoi assistenti e disse —Odo, prendi un cavallo e vai a controllare subito! —Potete mettere il campo —disse infine all’ambasciatore —quando tornerà il mio assistente, se confermerà ciò che mi hai detto, provvederemo ad ogni vostra necessità. L’ambasciatore fece nuovamente un leggerissimo inchino. —Grazie, Balivo. Ti auguro una buona giornata —disse. Quindi si voltò verso il corteo e batté le mani tre volte. Subito uno stuolo di servi iniziò a mettersi al lavoro, con rapidità ed efficienza, quasi in silenzio. Dall’Abbazia si potevano udire i mormorii di meraviglia del popolino. Nessuno di loro aveva mai visto un bizantino ed simile un corteo di personalità con tanto di ambasciatore era cosa che avrebbero raccontato a figli e nipoti. Il Balivo era preoccupatissimo: per l’arrivo del suo re ma anche, e soprattutto, perché non sapeva come gestire un ambasciatore. Pensò che avrebbe dovuto applicare le regole di ospitalità che vigevano tra i Franchi per i viaggiatori e
mandò subito qualcuno a fare un inventario di ciò che si trovava nei magazzini. L’ambasciatore si rivolse all’eunuco che fungeva da assistente. —Sono dei barbari —disse in greco con sufficienza, sorridendo— sono dei sempliciotti: facciamo loro vedere che cosa è Bisanzio… L’eunuco fece un inchino e si voltò. Batté anch’egli tre volte con le mani. Vennero subito a lui alcuni funzionari ed un militare. —Sia eretto il campo, subito! I funzionari indietreggiarono con un leggero inchino, come da protocollo, poi si voltarono e camminarono velocemente ciascuno in direzione del settore di propria competenza. L’uomo in armi diede un colpo sul petto. Quindi si voltò verso i soldati, mise in bocca uno strumento e fischiò. Un gruppo di soldati si mise immediatamente all’opera e sotto gli occhi stupiti dei Franchi, sorse in pochissimo tempo un campo con tende ricche ed un grande padiglione centrale. Con discrezione, alcuni temibili arcieri si sistemarono agli angoli del campo. La gente di Tours ò l’intera giornata ad osservare lo spettacolo dei bizantini, quegli strani guerrieri con armature a scaglie lucide, simili alle squame dei pesci ed un curioso elmo piumato e che portavano uno stravagante gonnellino sopra le brache. Sui loro grandi scudi bianchi e tondi era dipinto in colore rosso il cristogramma. L’ambasciatore e tre persone del suo seguito, uno dei quali portava un involto in un panno color porpora, si mossero alla volta dell’Abbazia.
SAN MARTINO
La basilica di San Martino dei Franchi, a Tours, è davvero grande per quelle terre. La sua struttura incute rispetto. Essa è da secoli meta di pellegrinaggi ed i pellegrini, che giungono anche da molto lontano, vengono ospitati nella foresteria. Ma il posto non è sufficiente per tutti coloro che si recano in queste terre per pregare sulla tomba del Santo. Anche San Graziano, con la sua foresteria e la sua basilica, permette di ospitare tutti i pellegrini e così proprio a San Graziano risiede il Vescovo. Tours è così importante che vi si possono addirittura trovare alcuni mercanti ebrei dell’Iberia con stoffe, papiro e spezie rare. Il grande monastero, appena cinquanta i dalle mura, è stato fondato proprio da Martino, suo primo abate. La sua basilica, dopo quelle di Roma, è in questo tempo la più grande dell’occidente. Il Santo Vescovo Perpetuo volle che essa fosse bella e grande, quindi fu edificata di conseguenza, lunga centosessanta piedi, larga sessanta e tanto importante da non essere più costruita in legno. La sua altezza fino alla volta è di quarantacinque piedi ed i pellegrini si impressionano davvero molto entrandovi. Ha trentadue finestre dalla parte dell'altare e venti nella navata, che è ornata da ben quarantadue colonne. In tutto l'edificio vi sono ben cinquantadue finestre, centoventi colonne, otto porte, tre delle quali presso l'altare e cinque nella navata e la tomba del Santo si trova sotto un grande blocco di marmo, così i pellegrini possono vederla ma non toccarla: a volte lasciano offerte vicino all’altare o sull’altare, dove una finestrella permette di vederla dalla parte posteriore. Ma anche se le finestre sono molte la luce non è sufficiente se non nel punto più caldo dell’estate, così è necessario illuminare l’ambiente con lampade e candele. Il piccolo corteo si avvicinò all’edificio e la piccola folla di pellegrini fece ala, timorosamente. I funzionari entrarono nella basilica e si avviarono verso la tomba del Santo. Il Sottopriore si aspettava quella visita e li stava già attendendo nei pressi dell’altare.
Il corteo si fermò rispettosamente non lontano dalla tomba del santo. —Siamo venuti ad onorare il Santo delle Gallie —disse con enfasi l’ambasciatore —La nostra graziosissima Imperatrice Irene manda alcuni doni al santuario e richiede che siano officiate delle messe in suffragio del suo compianto sposo, l’Imperatore Leone, prematuramente scomparso. Il Sottopriore restò di sasso. —L’Imperatore è… Morto? —balbettò il Sottopriore. —Nella sua infinita sapienza, Nostro Signore lo ha voluto con sé —ribadì l’ambasciatore —E’ successo l’anno scorso. Ora la nostra Basilissa, Imperatrice dei Romani, regna in nome di suo figlio Costantino che è troppo giovane per un trono così impegnativo. Il Sottopriore non riuscì a trattenere un’espressione di meraviglia. Meraviglia che si diffuse con rapidità tra i pellegrini, in una grande onda di stupore che riempì tutti. —Una donna regna su Bisanzio? —domandò strabuzzando gli occhi. —E’ stato così deciso —rispose l’ambasciatore. —Perdonate la nostra meraviglia —disse il Sottopriore —Secondo la legge dei Salii, la nostra legge, ciò non sarebbe possibile nelle nostre terre. In realtà, quando morì Pipino, che ebbe un regno breve, egli lasciò due giovani a spartirsi il trono dei Franchi: Carlo e Carlomanno. Ma la grande Berta, l’altissima regina detta “Berta dai lunghi piedi” riteneva i suoi figli non all’altezza del padre e brigò per anni regnando, se non di nome, di fatto sui Franchi. Obbligò addirittura Carlo a ripudiare la moglie Imiltrude, che già gli aveva dato due figli, per fargli sposare un’infelice principessa longobarda poi rivelatasi sterile. Dopo un solo anno di matrimonio era stata ripudiata anch’essa, nonostante gli strepiti di Berta. —E’ un’eccezione anche nella nostra città —rispose pronto il bizantino —ma si è ritenuto più opportuno che fosse la Basilissa a regnare piuttosto che uno dei Megaduchi. Si è pensato che essendone essa la madre, proteggerà meglio l’Imperatore dai suoi nemici.
L’ambasciatore chiuse con ciò il discorso, si voltò verso uno dei suoi accompagnatori, il quale portava una sorta di vassoio coperto da un panno, e lo scoprì con un gesto studiato e abile. Alla luce di lampade e candele, ciò che era contenuto sul vassoio prese a splendere mandando bagliori. La gente si accalcò, strabuzzò gli occhi e un’altra ondata di meraviglia percorse la basilica. —…E’ oro! —sussurrò una voce. Un coro di voci meravigliate ripeté il sussurro centinaia di volte e molte teste si sporsero per meglio vedere i doni. Sul vassoio, che era d’argento, facevano bella mostra di sé una manciata di solidi d’oro, la moneta di Bisanzio, ed una lampada votiva in oro per la tomba del santo. L’oggetto era così bello che il Sottopriore restò sbalordito, a bocca aperta, ad osservarlo. Il baluginio del prezioso metallo, così raro tra i Franchi da non avere più nemmeno corso legale, gli illuminava il volto alla luce delle candele e delle lampade. La meraviglia dei presenti si rifletté sull’espressione dell’ambasciatore, cui sfuggì un mezzo sorriso di soddisfazione. Se i Bizantini volevano stupire i Franchi, non era difficile farlo. Se ne sarebbe parlato per un bel pezzo e non soltanto a Tours. —Siete molto generosi —disse infine il Sottopriore, riprendendosi dalla sorpresa —L’Imperatore dei Romani avrà i suoi suffragi, come richiede la vedova. Il Sottopriore si fece da parte, appoggiò il vassoio con gli oggetti sull’altare e li affidò alla custodia del confratello Elemosiniere. Fece quindi gesto al corteo di avvicinarsi alla tomba del santo. I tre si avvicinarono, si inginocchiarono dopo essersi segnati più volte, come uso dei greci, ed iniziarono a pregare, a braccia aperte. Anche il sottopriore si segnò, ma si tirò in disparte per lasciare in preghiera l’ambasciatore e il suo seguito. C’erano grandi novità nella terra dei Franchi, tutte portate dalla notte, ed altre ne sarebbero venute.
LA PAURA
La paura accompagna gli uomini da sempre. La paura domina tutto. Non è soltanto la paura di Dio, il timore della sua punizione. Non è soltanto la paura dei demoni che ne sono la nemesi. La paura è anche qualcosa di diverso. C’è, si prova, ma non si può toccare. C’è la paura della fame, il cui lungo spettro giunge insieme ad una grandinata improvvisa, una neve fuori stagione, una pioggia ininterrotta o una prolungata siccità. La paura è legata alla guerra, ai saccheggi, all’acciaio delle lame e alla crudeltà degli invasori. La paura è anonima, ma si può identificare con un volto. Sì, poiché la paura ha un volto, anzi, tanti volti: quello di un funzionario incompetente, di un uomo malvagio, di un nobile prepotente, di un religioso senza fede, di un predone saraceno, di un sassone pagano, di un bandito dei boschi, di un uomo stupido o superstizioso. E allora la paura ti percorre il corpo, un brivido attraversa dalla sommità del capo tutta la cute, scende lungo la nuca, attraversa la schiena e ti rende reattivo in un istante, sempre che tu sia ancora in tempo a reagire. Tutti quelli che portano le armi, o che le hanno portate, sanno che cos’è la paura. Ma nessuno di loro ammetterà mai di averla provata. Quando il Balivo ritornò all’abbazia, nel pomeriggio, era determinato ed era proprio il suo volto ad essere il volto della paura. Armato, era accompagnato dai suoi aiutanti ed i loro cavalli erano imponenti e neri con gli zoccoli ricoperti da un folto pelo. —Dov’è il vostro ospite? —gridò all’indirizzo dei frati, nei pressi della foresteria di San Martino. Sguainò la spada. Non quella corta, la solita spada. Era una lunga, pesante spada franca a lama larga. —Voglio quel guerriero che ospitate nel convento! —gridò —Lo voglio subito! Allo strepito, la folla dei visitatori si sparpagliò o cercò rifugio dove poteva. Le madri afferrarono i bambini più piccoli e tutti cominciarono a correre nella nuvola di polvere sollevata dai cavalli.
I frati fuggirono verso il monastero, qualcuno chiamò il Priore: l’inspiegabile prepotenza dimostrata dal funzionario doveva in qualche modo essere frenata. Il Priore era veramente un uomo di fede. Si parò dinnanzi al balivo fingendo uno sguardo sicuro e severo, le mani in conserta. —Perché? —domandò. —Priore, quell’uomo deve seguirmi laddove amministro la giustizia. Non ha dichiarato il proprio nome e non era previsto transito di guerrieri. Qui è arrivato un ambasciatore da Costantinopoli, domani arriverà re Carlo con re Pipino e tutta la corte. Sono convinto che quest’uomo rappresenti un pericolo. Il guerriero giunse inatteso. Mostrava indifferenza nello sguardo ma, dentro di sé, sentiva certamente il brivido della paura: l’accusa di tradimento mossa da un Balivo era cosa gravissima. Ed egli, effettivamente, non aveva dichiarato il proprio nome. —Mi chiamo Aucario —disse il guerriero— e sono un franco. —Perché sei armato? —domandò il Balivo— qui nessuno può girare armato se non c’è un decreto del re che chiama i suoi guerrieri per la campagna estiva! —Ho svolto il mio pellegrinaggio a Tours. Le armi fanno parte del mio bagaglio: io sono un guerriero, come ti ho già detto. Ho molto combattuto. —Tu sei sicuramente pericoloso! —Balivo! —si intromise il Priore —quest’uomo ha giurato... —Lo so —lo interruppe il Balivo —ha giurato di non aver ucciso lo sconosciuto. Ma per quale ragione è qui? Io non gli credo. Prendetelo! —disse infine ai suoi cavalieri. Il Priore tentò di frapporsi. —Balivo, egli è sotto la protezione della Chiesa! Si trova in un luogo santo per pregare sulla tomba di un Santo! —Qui non c’è niente di santo —disse il Balivo—è soltanto un uomo in un prato.
E io non gli credo! I cavalieri smontarono e sguainarono le spade. Dalle armi che portavano, pareva evidente che non si trattava di nobili ma servi a cavallo, certamente ben addestrati. Circondarono l’uomo disarmato chiamato Aucario e lo minacciarono con le loro grandi spade. Aucario li osservò, uno alla volta. Sguardi indifferenti, severi, forse cattivi. Uno rideva rumorosamente facendogli sibilare la lama a poche dita dal collo. Aucario ostentò sicurezza, ma aveva paura. Schivò due volte la lama dell’intraprendente cavaliere. Ma sapeva che lo avrebbero presto colpito. —Tu hai giurato di non aver ucciso il viaggiatore? —gridò il Balivo, restando a cavallo —Bene! Giura che non è per re Carlo che sei qui! Giura che non sei qui per l’ambasciatore! Aucario doveva stare attento alle lame e alle parole. Cinque persone lo minacciavano ed una lo interrogava: troppo, per un uomo solo. Non riusciva a rispondere. —Non si chiama Dio a testimone per delle sciocchezze! —gridò Aucario schivando ancora una lama. —Tu piuttosto, Balivo —aggiunse —giura tu di non averlo ucciso! —Come osi, straniero? — rispose irato il funzionario —Io sono il Balivo, io rappresento il re su queste terre! Mentre Aucario evitava un altro colpo di spada, due aiutanti del Balivo si gettarono su di lui e lo costrinsero a terra, un cavaliere si avvicinò a lui ridendo, lo fissò negli occhi. Impugnò la spada con entrambe le mani e la sollevò per conficcargliela nel petto. —Come osate profanare un luogo santo! —gridò un uomo, facendosi largo. Il cavaliere, sorpreso, sollevò lo sguardo, la spada ancora alta. —Come osi, tu, vile, impugnare quell’arma come se fosse una croce? —gridò con quanto fiato aveva in gola quello stesso uomo. Il guerriero si avvide che, impugnata così, la spada sembrava proprio formare
una croce. —Blasfemia! —gridò ancora l’uomo volgendosi verso il cavaliere. Il cavaliere si rese conto dell'accusa ed impallidì. La spada, impugnata in quel modo, aveva forma di una santa croce. —Balivo! —grido con furia l’uomo —Tu non hai giurisdizione a Tours! E’ la mia città! E’ la mia Diocesi! Questa basilica è un luogo di Dio e vige la pace di Dio! —Io sono il Balivo! —gridò il funzionario —Io ho giurisdizione su queste terre! —Io sono il Vescovo, qui! Io ho la giurisdizione! —gridò l’uomo —E io vi ordino: tutti in ginocchio! Gli aiutanti lasciarono Aucario e si misero in ginocchio, abbassando il capo. —In ginocchio! — gridò ancora il Vescovo al cavaliere che ancora teneva sollevata la spada. L’uomo si voltò verso il Balivo, come a domandargli “Cosa debbo fare?”. Allora il Vescovo, che aveva indosso i paramenti sacri, sollevò il pastorale e colpì la mano con la quale questi reggeva la spada. L'uomo ebbe un lamento e la spada cadde nella polvere. —In ginocchio! —gridò ancora il Vescovo. Il cavaliere fissò i propri occhi in quelli del Vescovo, ma abbassò subito lo sguardo e si genuflesse ai suoi piedi. —Per espiare questa colpa reciterete tre volte i vespri! E il vostro re sarà informato! La folla si riavvicinò piano. —Non mi fai paura, Erlingo! —gridò il Balivo con rabbia. Il Vescovo Erlingo piantò in terra la pastorale e puntò il dito verso il Balivo. —Non è di me che devi avere paura! —gridò —E’ Dio che devi temere! La gente cominciò a mormorare. Il Balivo sentì l’ostilità della folla. Gli uomini si fecero allora intorno al Vescovo, puntando minacciosamente verso il Balivo.
—Fermi! —disse allora Erlingo alzando la mano —Non vi macchierete di delitti, non violerete i comandamenti di Dio e le leggi dei Franchi in questo luogo! —Dio mi è testimone! —gridò il Balivo —Io proteggo il re! Il Vescovo si voltò verso Aucario e domandò: —Anche tu hai giurato? —Sì—confermò Aucario mettendosi in ginocchio e fissando negli occhi il Vescovo. Il Vescovo studiò per un attimo lo sguardo di Aucario. Poi si voltò e disse ad alta voce: —Allora, oggi, a Tours, davanti alla Cattedrale, terremo corte di giustizia! Il Balivo lo fissò sbalordito. —Io sono il Balivo! —strillò —Io tengo le corti di giustizia! —A Tours è il Vescovo che ha giurisdizione: troppe volte ti ho già ripetuto queste cose. Tu hai giurato, Aucario ha giurato, dunque dobbiamo stabilire di chi è il torto. Perciò oggi terremo corte di giustizia, presso San Graziano — proclamò. Aucario aveva superato mille prove e mille battaglie, ma mai come in quel momento era stato vicino ad una cattiva morte ed un sudore freddo gli imperlava la fronte. —Grazie, mio Signore —disse. Il Vescovo fece cenno di alzarsi. —Oggi terremo corte di giustizia —disse —dovrai sostenere anche tu l’accusa. Se avrai torto, sarai punito. Aucario chinò la testa e baciò la mano del Vescovo in segno feudale di sottomissione al suo giudizio e sussurrò —Io ho molto peccato... Il Vescovo si voltò verso la folla. —Chiedete perdono dei vostri peccati! —disse ad alta voce. —Un giorno verrà il Giudizio!
La folla si inginocchiò e si mise a pregare. Anche il Balivo, suo malgrado, dovette smontare da cavallo e inginocchiarsi. —Barbari... —disse a bassa voce il Vescovo mentre si muoveva verso la basilica —Resteranno sempre dei barbari...
LA GIUSTIZIA
La Giustizia non è di questo mondo. Essa appartiene a Dio ed Egli soltanto, supremo Giudice, può giudicare vivi e non più vivi. A lui solo appartiene la Giustizia. Per questo ogni popolo ha usi e costumi differenti. Quello dei Longobardi o dei Saraceni è differente da quello dei Franchi: tra tutti, è quello dei Romani che si picca d’essere il più nobile e giusto e tutti gli altri costumi considera barbari e pagani. Tuttavia il costume di un popolo non è Giustizia: è uso, tradizione, consuetudine mista al diritto che i grandi del ato hanno messo per iscritto, sin dai più antichi a partire dalla legge di Roma delle dodici tavole per giungere infine ai moderni codici di Giustiniano e di Rotari, ai capitolari di Carlo. Ciò serve all’uomo per giudicare i propri simili in modo equo, se non giusto. Poiché l’insegnamento dei Santi Vangeli spinge l’uomo alla rettitudine. Ma non essendo umana la giustizia, anche colui che amministra la giustizia in nome di un popolo o di un re può essere fallace. Sbagliare è molto facile. Ecco perché gli usi e costumi di un popolo possono essere imperfetti. Tuttavia, uso e costume danno una via da percorrere cui tutti devono conformarsi: ricco e povero, nobile e servo. Grande delitto l’infanticidio, piccolo delitto una fornicazione. Se il delitto è compiuto in luogo sacro, esso è ancora più orrendo ed a buona ragione merita punizioni più severe. I grandi uomini sono come le stelle nella notte, che guidano i pellegrini verso la loro destinazione. Così è dovere degli uomini di Dio capire la debolezza dell’uomo e guidarne il fragile corpo, preda di tentazioni, verso un orizzonte più santo. Così dice Agostino, il Santo di Ippona. A questo si conformano le usanze cristiane, che a volte si trovano in contrasto con quelle dei popoli. Usi, costumi e consuetudini non sempre sono giusti, ma segnano una strada nella foresta della barbarie, una strada che il giudice deve percorrere a volte contro la propria volontà. Diversa è la giustizia degli uomini di Dio da quella degli uomini del re. A volte è necessario che una si conformi all’altra. Agostino è una stella nella notte, la legge dei Franchi un sentiero nella foresta. Ma nella notte il sentiero si può perdere. Il pomeriggio della terza feria si tenne presso Tours la corte di giustizia. Accanto alla Cattedrale Erlingo tenne giudizio, aiutato in questo dai due Priori delle due grandi Abbazie di S.Graziano e S.Martino, data l’assenza dell’Abate ancora in
viaggio verso terre lontane. Il Castaldo di Erlingo si occupò di mantenere l’ordine sul sagrato. Tutta la popolazione di Tours e molti pellegrini assistevano. Persino l’ambasciatore dei Romani volle presenziare: gli venne perciò assegnato uno speciale seggio non lontano di modo che potesse assistere. Erlingo domandò quale fosse il primo caso in trattazione. —Il caso di Dhuoda. —rispose l’Armarius, tra i cui compiti ebbe per l’occasione anche questo. —Quale è la sua colpa? —domandò il Priore di San Graziano. —E' stata accusata di aver fornicato con il figlio del suo secondo marito — rispose l’Armarius. —Un incesto —disse allora il Priore di S.Graziano. L’Armarius confermò con un cenno del capo. Il Vescovo fece un cenno impaziente. —Si facciano avanti Dhuoda e Quado! — disse ad alta voce il monaco. Si fecero avanti un uomo e una donna. Lei, molto bella, teneva il capo velato e lo sguardo basso. Lui sembrava avere la stessa età, villoso, massiccio, era molto nervoso e si guardava continuamente intorno. —Che hai da dire, Dhuoda? —domandò il Priore di S.Martino. —Sono colpevole… —ammise lei con un tono di voce flebile. —Hai fornicato con Quado, figlio di primo letto di tuo marito Hraufo? — domandò il Priore di S.Graziano. —Sì—ammise lei a testa bassa. —Contro la tua volontà o per tua volontà? —domandò ancora il Priore. —Contro —disse lei.
—Non è vero! —gridò Quado —Era nuda alla fontana e allora l’ho presa! La folla ebbe un mormorio. —L’hai forse pagata, Quado? —domandò il Priore di S.Graziano. —No! —disse forte Quado— Ma lei mi si è mostrata: perciò lo voleva! —E’ vero, Dhuoda, che ti sei mostrata nuda? —domandò il Priore di S.Martino. —Mi sono recata alla fontana come ogni mattina. Tutti vanno alla fontana a lavarsi, ogni mattina, maschi e femmine, tutti insieme, con la camicia. Mentre mi lavavo, Quado mi è saltato addosso… —Non è vero! —gridò Quado, paonazzo. Il Priore di S.Graziano si avvicinò a quello di S.Martino —Quado è una testa calda —disse —Ha già combinato un sacco di guai, la sua parola vale poco. —Chi ha veduto ciò che è accaduto? —domandò Erlingo ad alta voce —Chi ha veduto si faccia avanti! Una dozzina di persone si fecero avanti. Il Vescovo notò tra essi il proprio servitore. —Clemente, tu hai assistito al crimine? —domandò Erlingo sorpreso. —Sì, mio Signore. Dhuoda si stava lavando il viso, Quado è arrivato di corsa le ha sollevato l’abito sul capo, l’ha bloccata contro il bordo della vasca e l’ha presa. E’ stato un attimo. —Perché non l’hai impedito? —domandò Erlingo. Clemente si strinse nelle spalle. —Ci ha sorpresi —disse— lo abbiamo acchiappato in quattro, ma lui non la mollava e continuava… E’ stato difficile farlo desistere. Quando ci siamo riusciti, lei era già senza vestiti e l’hanno coperta le donne. —Dov’è Hraufo? —domandò il Vescovo
—Sono qui —disse a voce bassa l’uomo. Era un uomo alto e magro, villoso quanto il figlio ma con due mani che parevano due pale. —Perché non hai vigilato? —gli domandò a bruciapelo. —…Io… —disse l’uomo —…Io voglio il divorzio! La folla irruppe in un vocìo di sberleffi e di disapprovazione. —Basta! —gridò Erlingo —Sentiti i testimoni e imputati, condanno Quado a sette anni di penitenza a pane e acqua per essersi macchiato di violenza e di incesto. E se ci ricascherai, o se non manterrai la tua pena, sarai rimesso alla giustizia del Balivo che è molto meno indulgente. Quanto a Dhuoda, il suo peccato era involontario e dunque dovrà soltanto scontare dodici giorni di penitenza, al termine dei quali sarà considerata monda nel corpo e nello spirito. Quanto a te, Hraufo, ti terrai tua moglie ed incolperai soltanto te stesso per non aver vigilato: tu sei colpevole di questo e perciò non la punirai. Poi Erlingo si rivolse sottovoce al suo servitore Clemente —Tu hai visto bene tutto? Dhuoda era completamente nuda? —Sì, mio signore —rispose questi —L’ho vista bene, avanti e dietro... —E allora domani farai digiuno per punizione: dovevi soltanto dividerli, non dovevi guardare le nudità di Dhuoda. Il servo ebbe un gesto di rassegnazione. —Il prossimo? —disse Erlingo. —Wolfrida —disse il monaco. —Cosa ha fatto Wolfrida? E’ molto giovane… —disse il Priore di S.Martino. —Ha fornicato con un ragazzetto… —rispose il monaco. —E allora? —disse il Vescovo— Lui è sposato? —No. —Quindi se lei non è sposata e lui non è sposato, non c’è delitto —disse Erlingo
—E’ soltanto una banale fornicazione. Che motivo c’era di partecipare alla corte di giustizia? —Perdonate, mio Signore —disse il monaco —li ho visti io stesso... —Di giorno o di notte? —domandò Erlingo. Il monaco, imbarazzato, tardò a rispondere. —Di giorno o di notte? —ribadì con irritazione il Vescovo. —Di notte... —rispose esitante il monaco. —Dove li hai visti? In città? In un anfratto? In chiesa? Il monaco esitò nuovamente. —La tua esitazione odora di errore —disse a bassa voce Erlingo —rispondi! —...Al mulino... —rispose il monaco abbassando lo sguardo. Lo sguardo del Vescovo si fece aggrottato e severo. Poi distolse lo sguardo dal monaco. —Wolfrida! —disse il Vescovo —Tu ammetti ciò di cui sei accusata? Si fece avanti una ragazza poco più che in età da marito, di forme procaci e abbondanti e dal viso tondo con grandi occhi scuri. —Sì, mio signore —disse lei. —E sei pentita? —domandò il Priore di S.Martino. La ragazza nicchiò. Il Vescovo afferrò al volo la situazione. —E va bene, un giorno di penitenza a pane e acqua. —poi le si avvicinò e le domandò sottovoce —Lui chi è? —Il figlio del mugnaio… —rispose Wolfrida —L’ho preso per di sotto e poi...
—Ti prego, Wolfrida —disse paternamente Erlingo —Non narrarmi i particolari o potrei aumentare la penitenza. La ragazza tacque. —Vai, Wolfrida —aggiunse il Vescovo —e cerca di temperare la tua focosità. E’ già la terza volta in due mesi. Poi si avvicinò al Priore di S.Graziano e gli sussurrò —Pescatemi questo ragazzo e dategli la stessa pena, ma con discrezione. —Siete troppo buono, Erlingo —disse il Priore di S.Graziano. —I costumi di questa gente sono piuttosto liberi —precisò il Vescovo —Se dessi pene più severe, finirei per non essere più obbedito: un giorno è sufficiente per una sciocchezza come questa. Piuttosto, punite l’Armarius per averci fatto perdere tempo con una amenità simile. Se usassimo mettere alla corte di giustizia tutti i casi come questo, ci toccherebbe processare tutti i ragazzi di Tours almeno una volta a settimana. Inoltre, cosa faceva l'Armarius di notte al mulino? I suoi compiti prevedono che di notte resti all'interno di S.Martino. Sia punito come merita. —Sarà fatto —disse con un mezzo sorriso il Priore di S.Martino. —Il prossimo caso è lo straniero Aucario contro il Balivo —disse l’Armarius ad alta voce. —Il Balivo ha aggredito Aucario accusandolo di attentare alla vita del re o dell’ambasciatore dei Romani e ha tentato di ucciderlo. Giura di essere nella ragione. Tuttavia anche Aucario giura e questo è un problema serio. Qualcuno può testimoniare che Aucario è colpevole? Il silenzio si fece imbarazzante. —Si facciano avanti i due convocati! —gridò l’Armarius. Quando i due furono al cospetto del Vescovo, il Balivo iniziò a parlare. —Io accuso quest’uomo di attentare alla vita del re. Egli non ha dichiarato il suo nome ed è giunto a Tours armato. —Non sono venuto qui per uccidere il re —disse Aucario —Inoltre il re ha la
sua Scara che lo protegge giorno e notte. —Erlingo —disse il Balivo —Tu devi permettermi di arrestare Aucario. Io sono il Balivo e devo proteggere il re. —Silenzio! —esplose Erlingo alzandosi in piedi e puntandolo con il dito. —Io invoco la giustizia dei Franchi! —disse con rabbia il Balivo. Il Vescovo, sorpreso, lo fissò negli occhi, socchiudendoli e massaggiandosi il mento con fare pensoso. Poi, all’improvviso, parlò. —Bene, Balivo —disse Erlingo con tono conciliante —Tu ti appelli alla giustizia dei Franchi, e avrai la giustizia dei Franchi. Poiché avete ambedue giurato e non vi sono testimoni, sarete sottoposti all’ordalia, come d’uso. Io disprezzo questo metodo barbaro e la Chiesa non lo approva, tuttavia, se ambedue avete chiamato Dio a testimone e se la folla dei presenti è d’accordo, allora sarà colui che vincerà la prova ad avere ragione. La folla approvò con grida di giubilo, tanto era radicata la tradizione. —Non vorrai infliggermi la prova dell’acqua bollente, Erlingo? —disse il Balivo allarmato e minaccioso. —No, Balivo —rispose il Vescovo —e neppure quello della croce. Vi batterete a duello e colui che ha ragione vincerà. Ma se uno dei due morirà nel duello, non sarà seppellito in terra consacrata e che Dio abbia pietà di lui. La gente ebbe nuovamente grida di giubilo. Il Vescovo sorrideva per la soddisfazione di aver usato la giustizia del balivo contro di lui. “Capirà finalmente cosa vuol dire”, pensò.
ORDALIA
Non sempre esiste un colpevole, non sempre esiste un innocente. Tra due contendenti potrebbe accadere che entrambi siano vittima di un malinteso, oppure ambedue potrebbero essere spergiuri e dunque gravemente colpevoli. Quando, tra i Franchi, non si trova la spiegazione di una lite, quando non vi sono testimoni, o fatti chiari ed evidenti, la lite non può avere soluzioni. Proprio come un nodo inestricabile simile a quello di Gordio, che tutti sfidava a scioglierlo, ben sapendo come ciò fosse impossibile. Ma così come Gordio incontrò Alessandro il grande, il quale tagliò il nodo con un colpo di spada, così i Franchi hanno escogitato un metodo per stabilire da quale parte sta il torto e da quale la ragione. Il popolo, non il giudice, chiede a gran voce l’ordalia. E’ questo un metodo crudele e cruento di tagliare il nodo: si invoca l’intervento divino e poi si usa uno dei tre modi più diffusi. Il primo modo è l’acqua bollente: si lascia cadere un anello nell’acqua bollente e i due contendenti devono ripescarlo, ma a volte si perde l’uso del braccio. Il secondo metodo è il meno cruento: i contendenti aprono le braccia a croce e quello che più resiste ha ragione, ma chi più ha muscoli resistenti ottiene la vittoria. Il terzo metodo è un duello ad armi pari, il metodo più usato tra i guerrieri e più acclamato dal popolo: i due contendenti duellano tra loro. Quasi sempre, se uno dei contendenti non ha la forza, si affida ad un campione. Si trova a volte anche un campione per l’acqua bollente. Ma l’onore è più impegnato dal duello. I guerrieri più forti non temono la prova. Tuttavia la Chiesa disapprova il metodo e non lo incoraggia. Ma le usanze sono dure a morire. Così, quando un Giudice non riesce a risolvere un caso, è costretto dalla consuetudine all’ordalia, anche se non gli aggrada. I due contendenti furono armati di scudo franco e martello, niente altro che scudo e martello. —Io disapprovo pubblicamente questa usanza! —esclamò ad alta voce Erlingo —Tuttavia è consuetudine e ciò viene richiesto dai Franchi, convinti che Dio, nella sua infinita sapienza, aiuterà colui che ha ragione. La gente approvò con rumore. —Ma se uno dei contendenti, o entrambi, dovessero morire durante la prova, ciò
sarà considerato come volontà di Dio e perciò non vi sarà sepoltura in terra consacrata. Così è deciso. Poi si rivolse ai contendenti. —Accettate dunque queste regole? I due annuirono. —Volete affidarvi ad un campione? I due negarono. —E allora che Dio abbia pietà delle vostre anime e ci perdoni per ciò che non stiamo impedendo. I monaci pregheranno nelle loro abbazie per tutto il tempo e le porte delle basiliche resteranno chiuse. Il Vescovo si avvicinò, fece un segno di croce, poi tornò sui suoi i e si sedette. —Che l’ordalia abbia inizio! —disse. Il Balivo, più alto di Aucario, si lanciò subito su di lui e per poco con il primo colpo non mandò in pezzi lo scudo, tanta forza vi aveva messo. Aucario parò, facendo a fatica qualche o indietro. Il Balivo tornò alla carica e diede altri tre colpi, uno dietro l’altro, ma meno potenti. Aucario, sempre indietreggiando, parò. Ma il quinto colpo del Balivo era una finta che colpi il bordo inferiore dello scudo con tale forza ed un angolo così obliquo che riuscì a spezzarlo, con grande emozione dei presenti, che rumoreggiarono. Aucario impugnò il martello con ambedue le mani, il Balivo caricò con tutta la sua forza il braccio destro e calò il colpo dall’alto. Aucario, impugnando il martello con entrambe le mani, fece un veloce giro su se stesso. Il Balivo calò il fendente verso il capo di Aucario, il quale mirò invece il piatto del martello avversario ed i due pezzi di ferro si scontrarono in pieno con gran rumore. Ma, per quanto forte, il Balivo lo impugnava con una sola mano mentre Aucario, vuoi per la rotazione compiuta, vuoi per l’impugnatura a due mani, colpì l’arma avversaria con tanta forza che la fece volare via. Il Balivo, sbilanciato, perduto l’equilibrio sollevò lo scudo, ma un altro colpo di Aucario lo spinse nella direzione opposta. Il Balivo si accorse del pericolo, tentò di
sollevare nuovamente lo scudo ma scivolò in terra, ove un abile sgambetto di Aucario lo fece cadere malamente. Prono, si voltò appena in tempo per vedere il martello di Aucario calare con forza sul suo viso. La folla gridò. Il martello si fermò ad un dito dal suo naso. Il Balivo ansimava, lo sguardo fisso, le braccia a terra. Gli occhi di Aucario e quelli del Balivo incrociarono gli sguardi. Il Balivo era pallido. —Non lascerò i tuoi figli senza un padre —disse Aucario —Non lascerò che tu sia seppellito in terra sconsacrata. Il Vescovo si alzò in piedi. L’ambasciatore bizantino, che al momento del colpo aveva distolto lo sguardo per non assistere all’inevitabile spargersi di cervella, udì soltanto il grido della gente. —Io non ti ucciderò —disse ancora Aucario. Quindi, sollevò il martello con la destra, verso il cielo, platealmente. —Non intendo uccidere il Balivo! —gridò —Non sono venuto fin qui per uccidere! La gente emise grida di stupore. Il Vescovo, pur meravigliato per l’inattesa piega presa dalla situazione, subito recuperò terreno. —Aucario ha vinto! —acclamò indicando Aucario. Dio ha esaudito le preghiere dei monaci e fermato lo scempio parlando alla sua ragione. Aucario è il vincitore! Aucario abbassò il martello e lo consegnò al servo del Vescovo. Poi tese la mano destra al Balivo per aiutarlo ad alzarsi. Il Balivo lo fissò negli occhi. —Perché? —gli disse sottovoce, ancora stordito. —Non sono venuto a Tours per ucciderne il Balivo. —disse Aucario, ripetendo il gesto di tendergli una mano. La gente tratteneva il fiato. Il Balivo accettò il gesto
e si alzò. Ma subito si mise in ginocchio. —Ho sbagliato a giudicarti —disse genuflettendosi sul ginocchio destro e abbassando il capo —Ti sono debitore. —Alzati, Balivo —disse Aucario, nel tentativo di impedirgli l’umiliazione— devi ancora trovare gli assassini di quell’uomo della foresteria. Non intendo ledere la tua autorità. Alcuni assistenti aiutarono il Balivo, ancora frastornato, ad allontanarsi dall’agone. Aucario osservava la scena. —Su una cosa, il Balivo ha ragione —disse il Vescovo. Erlingo era rimasto poco in disparte dietro di lui. —Tu sei qui per uno scopo ben preciso —disse —Ma quale scopo? Indaghi sulla morte di un viaggiatore, arrivi appena dopo la sua morte, riesci a battere un uomo che è il doppio di te e lo aiuti a rialzarsi per non umiliarlo. Tutto questo poco dopo l’arrivo dell’ambasciatore dei Romani e poco prima che arrivi, inatteso, il nostro re Carlo. Aucario si voltò e incontrò lo sguardo del Vescovo. Occhi profondi, intelligenti, indagatori. —Ti ho visto combattere —disse Erlingo —Anche se avrei dovuto voltarmi. Ma ero convinto che, per qualche ragione, te la saresti cavata. Ho visto combattere molte volte persone di ogni tipo: contadini, barbari, guerrieri della scara del re e persino Saraceni, ma una mossa come quella non l’ho mai veduta. Il Balivo non avrebbe mai potuto batterti: tu lo sapevi! Aucario sostenne lo sguardo del Vescovo. —Capisco subito quando un uomo nasconde un segreto. Aucario non rispose. —Sapevi che non l’avrei ucciso? —domandò Aucario.
—Per un attimo, ho temuto di aver sbagliato —rispose il Vescovo— Per fortuna del Balivo, non è stato così. —Nemmeno io ne ero sicuro —disse Aucario —Forse è stato davvero nostro Signore a fermare la mia mano. Il Vescovo lo scrutò così come i monaci scrutavano i libri, alla ricerca di qualcosa di inarrivabile. —Io sono il Vescovo —disse ancora Erlingo, allungandogli la mano destra. Aucario si inginocchiò e ne baciò l’anello.
IL CAPITOLO
E’ costume dei monaci, di ogni tempo e di ogni luogo della cristianità, pregare per ogni uomo, intercedere presso Dio implorando la sua clemenza per un’anima traata, per un miracolo da compiersi, per favorire una guarigione, per il ritorno degli uomini dalla guerra, o anche solamente per chiedere pietà e remissione dei peccati commessi dalle creature di Dio in così grande quantità. E’ costume dei monaci pregare durante il giorno e soprattutto durante la notte. Per questo, le notti dei Franchi sono piene di canti corali, canoni e salmi. Gli abitanti dei villaggi ove si trovano piccole priorie con pochi monaci sono disabituati ma, nelle città come Tours, la notte è piena di canti. Ogni monaco è tenuto agli uffici notturni, anche i più anziani, i quali potranno poi riposare al mattino, mentre i più giovani iniziano la lettura di libri o il lavoro. Nelle notti buie dei Franchi, soltanto chiese e torri hanno luce: le torri per segnalare e permettere alle guardie di vigilare, le chiese per la necessaria preghiera. Necessaria, poiché dovere del monaco è pregare anche per coloro che non lo fanno. Pochi monaci sono esentati dalle funzioni diurne, nessuno è esentato la notte. La notte è fatta di sonno per i contadini, di veglia per le guardie, di preghiera per i monaci. E’ una vita intensa, quella dei monaci: preghiera, studio e copiatura dei libri. In cambio hanno un pasto abbondante ogni giorno. Poiché da Pasqua al tredicesimo giorno di settembre essi ricevono due pasti, un pasto nel resto dell’anno e digiunano soltanto nei giorni previsti. Ogni monaco ha la sua funzione: L’Abate è spesso in viaggio ed il Priore lo sostituisce. Il Sottopriore si occupa della disciplina; vi è poi il Circatore il cui compito è percorrere ogni ambito dell’abbazia per evitare che vi si commettano peccati; il Precentore dirige il coro con una verga. Il Cellerario, cui compete la cantina, vi dorme per evitare la razzia di predoni notturni. Il Sagrestano veglia sul tesoro della chiesa come sulla pupilla dei suoi occhi ma a cui competono anche la pulizia dei luoghi sacri e le candele. Il Foresterario, responsabile di accogliere i viaggiatori a cavallo e di garantire l’ospitalità, rifocilla gli ospiti ed è lui che conduce i visitatori mostrando loro il monastero e l’abbazia. L’Elemosiniere, cui compete ricevere i pellegrini a piedi e la custodia dei beni materiali, è scelto solo tra coloro che li disprezza. Il Refettoriere, cui compete il refettorio, è esentato da numerose funzioni. L’Economo, cui competono la distribuzione degli abiti, la custodia del sale, delle spezie e la tenuta dei conti. L’Infermiere, cui compete la cura fisica e spirituale
dei malati, dei feriti e dei moribondi. Infine l'Armarius, cui compete la custodia dell’armadio dei libri, la distribuzione annuale dei libri ai monaci, la custodia dei volumi proibiti ed è uno dei migliori a leggere e scrivere: solitamente è un custode severo e sospettoso, essendo i libri la cosa più preziosa dopo le reliquie dei santi e al tempo stesso pericolosi per le menti deboli. Tutti questi uomini, in ogni caso, partecipano al capitolo insieme agli altri monaci. Nel capitolo, i confratelli confessano i loro peccati pubblicamente e ricevono le punizioni. Per un monaco, tra i Franchi, qualunque peccato è cosa grave, viene punita con severità e, quando si tiene il capitolo, lo staffile è bene in vista di modo che tutti si rendano conto che non è uno scherzo. —Bardano, qual’è la tua colpa? —domandò il Priore. L’uomo, prostrato in terra, al centro della sala disse: —Mi sono addormentato durante il mattutino. —Non è grave, Bardano, sei già stato punito facendoti controllare i confratelli che pregano la notte con la lanterna... —Ma io mi sento in colpa, poiché non ho pregato —ribadì il monaco. —Bardano —disse con tono paterno il Priore —Tu sei giunto in questa Abbazia al tempo di Carlo, padre di Pipino? —Bambino, ricordo la benedizione delle sue armi prima della grande battaglia contro i pagani Saraceni —rispose subito il monaco. —Tutti ti dobbiamo rispetto —disse il Priore —poiché Nostro Signore ha voluto che fossi tu il decano e non possiamo punirti solo in virtù della debolezza causata dalle tue molte primavere. —Sono io che lo chiedo —domandò con voce supplicante il monaco. Il Priore scrutò gli occhi dei confratelli, nei quali lesse la necessità di una punizione e contemporaneamente della sua sospensione. Decise di iniziare la recita rituale. —E sia! —disse il Priore rivolto ai confratelli —com’egli chiede, riceva la frusta!
Il Sottopriore staccò dal muro lo scudiscio e teatralmente lo sollevò. —No! —dissero alcuni monaci gettandosi in ginocchio. —Non lo fate! —disse un altro monaco. —Pietà per lui! —domandò un altro. Il coro si ampliò e quasi tutti chiesero mercede per il vecchio Bardano. —Perdona! Perdona! Il Priore allora alzò la destra e fermò la mano del punitore che, per il vero, non aveva nemmeno accennato a muoversi. —Bardano: hai avuto la tua punizione, ma i confratelli non vogliono che tu sia frustato e non lo sarai. E così, l’unico punito sarà il diavolo tentatore. Alzati, Bardano, torna al tuo seggio: il tuo spirito ora è mondato. Bardano fu aiutato ad alzarsi da due confratelli giovani. Il vecchio aveva uno sguardo soddisfatto, si sentiva ancora partecipe della comunità. Ma, a quel punto, il Circatore si fece avanti e con voce ferma disse: —Si faccia avanti Ulf, l'Armarius! —Ulf —disse con severità il Circatore —Erlingo ha chiesto la tua punizione! Quale è la tua colpa? Il monaco chiamato Ulf si gettò il terra e disse: —Io non ho colpe! I monaci mormorarono. —Il Vescovo ha chiesto la tua punizione —ribadì il Circatore —spiegaci ora per quale ragione. —Poiché ho inserito nella corte di giustizia la fornicazione di Wolfrida —rispose questi. —Non è cosa grave —constatò il Sottopriore.
—E invece si —ribadì con fierezza il Circatore —il racconto pubblico della fornicazione di Wolfrida ha di interesse i già sensibili pensieri dei giovanotti di Tours e ciò è cosa sbagliata. Sarebbe stata sufficiente una penitenza. Perché hai inserito Wolfrida nella corte di giustizia? —Ho assistito alla sua fornicazione —disse con rabbia l'Armarius — e ciò ha sconvolto il mio spirito! —E meglio avresti fatto a colpirti in quel momento —disse il Priore con severità —Hai abbandonato i tuoi compiti per assistere a una fornicazione ed hai mostrato a tutta la città il volto gradevole del peccato, accendendo fantasia e curiosità morbose ed hai mancato per ben due volte accusando di questo Wolfrida, la cui unica colpa è l’atto in sé. —Wolfrida meritava una pena esemplare —disse con rabbia l'Armarius — Sembrava un scrofa in calore, e non è la prima volta... —Ulf! — disse il Priore alzandosi dal seggio, scandalizzato —Come osi controbattere il capitolo! Sarai punito come meriti! Sia! L'Armarius non tolse la cocolla, in gesto di sfida. Due confratelli, allora, si avvicinarono e cercarono di toglierla. —Non è giusto! —strillò il monaco —E’ lei che mi ha tentato! E’ lei che deve essere frustata! —Bada! —lo ammonì l’Economo —Se l’abito si lacera sotto la frusta, non te ne sarà dato un altro —lo ammonì. Allora, controvoglia, l'Armarius abbassò l’abito. Il Sottopriore non si fece dare l’ordine e prese a frustare con forza Ulf sulla schiena. Stavolta nessun monaco si alzò per intercedere. Al decimo colpo, il Priore alzò la mano e fermò la frusta. —Il Vescovo ne aveva chieste cinque, e altre cinque ti sono state date per la tua ribellione —disse il Priore Alcuni confratelli aiutarono Ulf ad alzarsi e lo condussero dall’Infermiere perché
fosse medicato.
IL CANTO DEI FRATI
La notte, la civetta vigila, attendendo una preda; a volte basta avvicinarsi ad essa, o ad un gufo, e questi volano via nel buio. Lo spavento che coglie all’improvviso lascia il sangue . La notte la guardia alle mura vigila, ogni rumore lo coglie all’improvviso e gli lascia il sangue . La notte, gli amanti furtivi fuoriescono dalle loro capanne, si incontrano per i loro convegni e sfidano il buio per rintanarsi nei fienili, poiché anche essi hanno il sangue . La notte, il Sagrestano veglia per capire quale sia il momento esatto in cui deve svegliare i confratelli. Egli attende che l’ora cada e ciò avviene quando il grosso chiodo di ferro conficcato a metà della sua candela, liberato finalmente dalla cera che lo trattiene, cade sul piatto di metallo: allora egli esce nel chiostro e controlla la posizione delle stelle, poiché non tutte le candele bruciano allo stesso modo: se la posizione delle stelle è giusta, egli suona la camla e sveglia i confratelli per l’ufficio notturno. Così, quando la guardia ode la camla, sa che è il momento del cambio. Quando suona la camla, gli amanti sanno che il tempo sta per scadere e devono rientrare prima che i padri, o le madri, le mogli o i mariti si accorgano della loro assenza; se qualcuno li interrogherà essi risponderanno che il bisogno corporale li ha costretti, e in ciò almeno non mentiranno. Ben presto, dopo la campana, i monaci si recano alla funzione e iniziano i salmi, il salterio, il lungo canto notturno e all’alba, quando sorge il sole, è il cessare del canto dei frati più che il canto del gallo a svegliare i villani. La notte è fatta di buio e di suoni. Il lugubre verso della civetta, che secondo gli stolti superstiziosi chiama un’anima, riempie il tempo in cui i frati dormono e a molti accende la paura nel sangue. Ma a volte, invece, è il canto notturno dell’usignolo a riempire melodioso il buio per la gioia degli amanti, poiché dolcissimo è il suo canto notturno. L’usignolo, secondo gli stolti superstiziosi, a differenza della civetta porta bene. Quando spunta l’alba e alle prime luci tutti escono dalle case, i monaci più anziani vanno a riposare, gli stolti superstiziosi iniziano il loro pettegolo chiacchierio e si viene a sapere tutto poiché, per quanto grande, la città è piccola e la gente sa tutto di tutti. Così, nella notte di Tours, anche se alla quarta feria non cantò la civetta ma l’usignolo, davanti alle porte
della foresteria fu ritrovato un altro corpo, così gli stolti superstiziosi non ebbero conferma alle dicerie ed anziché parlare della sensuale Wolfrida, o del suo amante notturno vero o presunto, o delle meravigliose forme di Dhuoda la sfortunata, i villici ebbero paura davvero: stavolta la vittima non era uno sconosciuto, ma un monaco a tutti noto. Il Vescovo Erlingo capì che c’era stato un delitto poiché al campo bizantino la guardia era stata raddoppiata ed un gigantesco ufficiale percorreva incessantemente, armato di tutto punto, ognuna delle tende che gli erano affidate gridando come un pazzo in una lingua che non era il greco. Per qualche misteriosa ragione, forse per abitudine all’intrigo, i bizantini sanno sempre in anticipo ciò che accade in un luogo. Funesti segni precedevano l’arrivo di re Carlo e della sua corte e non vi era casa, a Tours, in cui la gente si sentisse al sicuro. Il Kyrie eleison dei frati non aveva protetto la città.
QUARTA FERIA
IL CAPITANO
Quando in un luogo accade un delitto, tutti si sentono in pericolo. Ma quando in un luogo accadono due delitti in pochi giorni, davvero nessuno è al sicuro. Un delitto macchia con il sangue della vittima anche le mura della città che ha colpito, la coscienza e lo spirito di chi abita nello stesso luogo. E’ una macchia difficile da lavare: si nutre con il senso di colpa delle persone che si trovavano nei pressi, con la coscienza di chi ha peccato e con l’imperizia di chi, dovendo vigilare, si trovava nel sonno o in altro luogo. Un delitto lascia una ferita profonda nella comunità in cui si verifica, al punto che a volte si tenta di negarne l’evidenza. —Probabilmente è scivolato —disse il priore al Vescovo, prontamente giunto all’abbazia —Uscendo a controllare le stelle per svegliare i confratelli deve essere scivolato e ha battuto la testa... —E sarebbe scivolato indossando una pelle di lupo? —domandò Erlingo. Il Vescovo, con il viso preoccupato, si voltò verso Aucario. Aucario scosse il capo. Aveva già verificato. —Si trova sull’erba —disse Aucario— anche ammettendo che possa essere scivolato, come potrebbe un uomo battere il capo tanto violentemente da spezzarsi il collo? Il padre Infermiere, già presente, confermò. —Aucario ha ragione —confermò —ha il collo spezzato. Il Vescovo si appoggiò al bastone e scrutò negli occhi tutti coloro che gli stavano intorno. —Qualcuno sa spiegarmi perché Wortha il Sagrestano indossa soltanto una pelle di lupo?
Ci fu un lungo momento di imbarazzato silenzio. —Forse è un’usanza sassone —azzardò un converso. —Forse era posseduto da un incubo —azzardò un servitore, provocando un mormorio di dissenso tra i frati. Erlingo fece un cenno per ottenere il silenzio. —Aucario —disse— tu mi sembri pratico di questi argomenti. Aucario fece una sorta di smorfia. —Tutti gli uomini d’armi presto o tardi imparano certe cose —rispose. Il Vescovo si voltò verso i frati. —Ricomponetelo cristianamente —ordinò —E che sia predisposto subito un adeguato suffragio! I monaci prelevarono il corpo e ripresero l'attività. Il Vescovo si rivolse a voce bassa verso Aucario. —Entro domani il re sarà qui. Due delitti non sono una buona notizia da dare ad un sovrano... L’arrivo di un re, l’ambasciata di Bisanzio, Alcuino di York e due delitti sono troppo per un semplice Vescovo... Non posso chiedere l’aiuto del Balivo: io sono il Vescovo di Tours e ho giurisdizione sulla città. Erlingo fissò attentamente il suo interlocutore negli occhi. —Aucario, io ho troppi compiti da svolgere: da oggi in poi avrò bisogno di aiuto. Hai detto di aver servito il re, di essere stato a Costantinopoli e tra i Longobardi... Inoltre Alcuino dice che sai leggere e che sei pratico di cose che molti monaci ignorano. Le tue capacità ti rendono indispensabile a Tours, puoi fermarti qui per qualche tempo? Aucario annuì silenziosamente. —Allora —riprese Erlingo —Tu comanderai le guardie della città. Aucario lo fissò sorpreso. Erlingo gli fece segno di inginocchiarsi. Aucario
eseguì e congiunse le mani in segno di omaggio feudale. Erlingo gli mise una mano sul capo. —Aucario, per ciò che rappresento in questa città, io ti nomino... Il Vescovo ebbe un attimo di esitazione: quale carica affidare ad Aucario? Non certo Balivo, carica che compete al sovrano, non certo Castaldo che è poco più che un amministratore. Il Vescovo pescò negli anfratti della sua memoria i classici greci e latini una possibile carica non prevista dal protocollo dei Franchi. —Io ti nomino... Capitano di Tours. Mise ad Aucario una mano sul capo e poi gli diede la sua benedizione. —Tu sarai i miei occhi e le mie orecchie, le mani ed i piedi, lo scudo e la spada; tu proteggerai il re ed i suoi ospiti finché resteranno qui, tu sventerai i complotti, comanderai le guardie... E cercherai il colpevole di questi orrendi delitti. Porterai le armi in tutti i luoghi soggetti alla mia giurisdizione, tranne che nei luoghi di preghiera. Se vorrai interrogare i monaci, potrai farlo in ogni momento tranne che durante le funzioni o la preghiera: darò disposizione che nessuno osservi il silenzio nei tuoi confronti. Ogni sera al desinare mi dirai le novità. Aucario chinò il capo in segno di assenso. —Vai, Aucario —disse infine Erlingo. Tours aveva un “Capitano”.
IL DENARO
Il commercio di denaro è la cosa più perniciosa per l’anima, poiché la distoglie dal suo fine ultimo. Homo mercator vix aut nunquam potest Deo piacere. Il commercio è attività a rischio, poiché essendo per forza di cose vicina al denaro, apre una porta alla tentazione. Soltanto le abbazie prestano denaro, ma senza commerciarlo: verrà restituito senza interesse. Di tutte le cose spregevoli, infatti, il commercio di denaro è la cosa più abominevole, in quanto non solo apre una porta alla tentazione, ma è nella sua stessa essenza tentazione, trascina nel vortice del peccato l’uomo e la donna e li fa schiavi. Questo poiché il denaro è la quantificazione che si dà al tempo: siccome il tempo appartiene soltanto a Dio, fare commercio di denaro equivale a rubare il tempo, ovvero rubare a Dio. Non tutto il mercato è spregevole. Quello delle merci è necessario. Un tempo era molto praticato anche nelle terre dei Franchi. Ma se ancora ai tempi di Dagoberto vi era molto commercio e si dice che in ogni città vi fossero molti mercanti, oggi si trova qualche raro mercante solo nelle più grandi città. Quando i Saraceni conquistarono il regno dei Visigoti ed uccisero Roderico, bloccarono le vie del mare: le merci smisero di arrivare, i mercanti se ne andarono via. E con i mercanti, svanì l’oro; le monete d’oro sono ormai soltanto un ricordo. Oggi, soltanto Bisanzio conia monete d’oro, ma vi fu un tempo in cui i discendenti di Clodoveo lo coniavano. Ogni città ed ogni villaggio dei Franchi ha un mercato, ma è un mercato in cui villici e chierici scambiano le cose in eccesso con quelle necessarie. Uova per legumi, pastinaca per carne e vino per miele. Ognuna di queste merci ha un valore in denaro, ma il denaro circola raramente. Soltanto a Saint Denis si tiene una fiera ogni anno e per tale occasione vige una speciale tregua. Era dunque inutile continuare a valutare in oro le cose se l’oro non era presente che negli arredi delle basiliche e sulle corone dei re. Per questa ragione, re Carlo compì la grande riforma economica: le monete dei Franchi sarebbero state tutte in argento. Egli partì perciò dalla libbra. Prese una libbra romana e l’aumentò di un terzo del suo peso. Questa barra che si chiama libbra, o meglio “lira”, è stabilito che sia poi tagliata in 240 piccoli dischi d’argento i quali portano il nome di “denari” e sono incisi con l’emblema del regno. Ma una barra può essere tagliata anche in 480 dischi, che allora portano il nome di mezzi denari ovvero di oboli. E sono queste le sole monete che a volte ano tra le mani di chierici e contadini. Un soldo equivale a dodici denari, la lira vale 20
soldi e cioè 240 denari, ovvero 480 oboli. Ma il soldo non viene coniato e nemmeno la lira: essi esistono soltanto in teoria, sono semplici unità di misura e servono a far di conto. Re Carlo attuò questa riforma proprio quando fece incoronare Pipino Carlomanno come re d’Italia e Ludovico come re degli Aquitani. E ciò diede ordine all’economia di tutte le corti del regno. Il regno dei Franchi non è come l’impero di Costantinopoli e non somiglia al Califfato. Quando è proprio necessario che si confrontino tra loro monete diverse, soltanto un mercante o un rarissimo cambiavalute sanno confrontare tra loro i denari. Arichi, a quel tempo di cui narriamo, coniava monete d’oro proprio come Bisanzio, Amalfi e Venezia. E se tra le mani del mercante transita una moneta saracena o veneziana, egli sa dire quale sia il suo valore. Solo un mercante sa confrontare tra loro monete così differenti. Tuttavia, nel regno dei Franchi, tali monete sono sempre state rare, almeno quanto oggi lo sono i mercanti. Fu da questo punto che partì la ricerca di Aucario, dal sacchetto di monete appartenute al viaggiatore sconosciuto che fu trovato al mattino della prima feria sulla porta della foresteria, ucciso da un colpo di spada. —Padre —domandò Aucario all’Elemosiniere —devo chiederti di mostrarmi ciò che portava con sé l’uomo ucciso la prima feria. —Sì, capitano. Ti mostrerò il sacchetto. Aucario attese fuori del chiostro, poiché portava le armi. Il padre Elemosiniere fu veloce e Aucario, nell’attesa, non ebbe ragione di porsi molte domande. —Ecco —disse il frate deponendo il sacchetto nelle mani del Capitano di Tours. Aucario esaminò l'oggetto che già aveva osservato alcuni giorni prima. Aprì i laccioli e fece scorrere sul palmo delle mani alcune monete. —Non sono monete dei Franchi —disse con sorpresa Aucario. —Io non ne ho mai viste di simili —disse l’Elemosiniere —eppure sono in molti a portare i loro oboli e ad offrirli ai poveri.
Le misure, il peso non erano come quelli stabiliti dal re e non si trattava di vecchie monete merovinge, molto più leggere di quelle di Carlo ma che a volte ancora si potevano trovare tra vecchi ruderi abbandonati o sul campo di battaglia di Poitiers. —Credo di riconoscere alcune monete —disse Aucario —ma non sono certo di questo. Buon frate, vi è a Tours un mercante? Il monaco cambiò espressione e si segnò. —Sì —disse con qualche esitazione —in città abita un mercante sefardita di nome Salomone, ci procura dei papiri ed altre cose. Il monaco aveva un’aria costernata. —Perché sei così affranto, buon frate? —domandò Aucario, constatando il cambio di espressione. —Capitano —disse con circospezione il frate —Quell’uomo non è cristiano e anche se non è saraceno, viene dalla terra dei Saraceni... —Non preoccuparti, buon frate, non corro alcun rischio da lui. Voglio soltanto mostrargli le monete. Egli le maneggia a causa del suo mestiere ed è quindi probabile che ne sappia la provenienza. —Ma perché vuoi sapere di dove viene il denaro? —domandò il frate —Si tratta soltanto di pezzi di metallo... Aucario sorrise. —Se scopro di dove provengono queste monete, forse posso scoprire di dove venne il misterioso viaggiatore assassinato. E con l’aiuto di Dio potrei dare a lui un nome ed un volto al suo assassino. —Nella boscaglia sono sempre presenti predoni e briganti... —disse il monaco. —No —lo fermò subito Aucario —Egli aveva ancora le monete, e chi lo ha ucciso lo ha portato fin qui. I predoni depredano, lo avrebbero spogliato di tutto. —Allora, se proprio vuoi andare da quell’uomo, lo troverai presso la torre della città.
—Grazie, sant’uomo. Ti riconsegnerò le monete prima che sia sera. Il monaco chinò il capo —Come vuoi —disse. Aucario rimise le monete nel sacchetto, richiuse i laccioli e si diresse a Tours.
IL MERCANTE
Quando i contadini necessitano di piselli, o di grano, o di fave, o di fagioli dell'occhio essi nel giorno prestabilito fanno mercato. Il mercato è il luogo in cui essi si scambiano i prodotti della terra, piccoli oggetti come coppe per bere in corno di bue oppure pelli lavorate. Anche i conventi partecipano ai mercati e si procurano così piccoli oggetti di uso quotidiano in cambio di cose prodotte dalle terre in enfiteusi. Persino i nobili vi partecipano e ciò è utile all’economia della corte, che comprende non solo il Conte con la sua famiglia, ma anche i servi della gleba ed i liberi contadini che possiedono terra sotto la sua giurisdizione. Il mercato è la scintilla di vita di ogni villaggio. Ad ogni cosa viene dato un valore, ma il denaro che circola è poco, quasi sempre si scambia una dozzina di uova con il controvalore in fave o pastinaca e consimili baratti. Il mercante, colui che scambia merci e come unico mestiere, è una figura ormai leggendaria. Sin dai tempi dell’ultimo Childerico, i mercanti sono svaniti come la neve al sole. Senza merci, non c’è mercato. Dunque, il mercante è un personaggio raro, riesce a procurarsi cose introvabili, ma in quantità limitatissime. Egli viaggia tra una terra e l’altra. Dopo l’arrivo dei Saraceni, le merci iberiche cessarono di giungere. I cristiani oppressi dal Califfo erano poco più che schiavi e soltanto le terre del Califfo erano ricche di mercanti e di oro. Ma dalla terra dei Visigoti a volte giungeva nelle lontane città dei Franchi qualche isolato mercante che ancora portava rare merci alle abbazie o al re. Il papiro, ormai quasi introvabile, è stato soppiantato dalla pergamena che i frati hanno ormai imparato a fabbricare. Ma il papiro viene ancora usato per chiudere i telai delle finestre, appena oleato permette alla luce di entrare nelle grandi e rare case della città. Dalla terra dei Visigoti, qualche occasionale mercante a volte riesce a portare un carico di papiro oppure qualche scampolo di stoffa pregiata. Solo nelle città importanti si può trovare un mercante, quasi sempre sefardita. Il mercante è l’unico che maneggia davvero il denaro e avendo viaggiato molto ne riconosce molti tipi, lo sa scambiare. —Sei tu Salomone il mercante? —domandò Aucario all’uomo dalla strana veste. —Sì, mio signore —rispose l’uomo con un leggero inchino— sono io: come posso esserti utile?
L’uomo chiamato Salomone portava una lunga tunica alla maniera dei Saraceni, cui stava sovrapposta una tunica di diversa misura alla maniera dei Franchi. Aucario notò subito l’accento straniero, la strana “erre” arrotata. —Tu hai molto viaggiato, per il tuo mestiere, vero? —domandò Aucario. —Sì mio signore —rispose Salomone —A volte devo compiere lunghi viaggi in terre lontane. Lontane tra loro: io non ho terre. Ho con me del papiro e della stoffa, non molte cose, ma ho viaggiato parecchio. —Quindi avrai veduto molti e diversi tipi di monete: quelle dei Franchi, quelle dei Saraceni... —Ed anche altre, mio signore —aggiunse Salomone. Aucario trasse un sospiro di sollievo, forse Salomone avrebbe potuto aiutarlo. —Perciò se io ti mostrassi alcune monete, tu sapresti dirmi la loro provenienza? L’uomo si massaggiò la lunga e curata barba. —Modestamente è cosa di cui mi intendo, Capitano. Mostrami le monete. Ormai la novità della carica di Aucario aveva fatto il giro di tutta Tours e non c’era persona, Franco o straniero, religioso o civile, che non lo sapesse. Aucario aprì il sacchetto di cuoio e mise tra le mani di Salomone tutto il contenuto. L’uomo spostò ogni singola moneta con l’indice della mano sinistra. —Mio signore, quasi tutte sono monete di Arichi il longobardo... Tremisse di Arichi, di buon valore. Qui c’è un tremisse d’oro, anche se la moneta è tinta come usano a volte i viaggiatori più accorti. Basta grattare la superficie... Le altre sono d’argento. Una è una tremisse di re Carlo di quelle d’Italia. Poi vi sono alcuni oboli greci di poco valore... Un denario... L’uomo girò più volte le monete e le pesò. —Sì —sentenziò con sicurezza —sono monete del Duca Arichi.
Aucario ebbe una smorfia di approvazione. —Grazie Salomone —disse allargando un sorriso all’uomo —mi sei stato molto utile. Ti sono debitore di un favore. Salomone lo fissò sorpreso. Era cosa rara riconoscersi debitore di un favore nei confronti di un sefardita. Aucario lo salutò. —Grazie, Salomone. Che Dio ti protegga. Shalom. Salomone lo fissò sbalordito. —Shalom —rispose. Aucario uscì dalla porta della modesta abitazione, poi si fermò, ci ripensò, si voltò verso Salomone e disse: —Sai, anch’io ho molto viaggiato. Ho incontrato alcuni della tua gente. Essi mi hanno insegnato questo saluto. Aucario si voltò di nuovo e uscì. Il mercante sorrise. Era la prima volta, in quella terra, che qualcuno lo faceva sentire davvero a casa sua.
LA FORZA
La forza è una delle qualità umane. Molti sono i tipi di forza. Vi è la forza del carattere, quella che distingue un uomo da un codardo. Vi è la forza della natura, e qui l’uomo nulla può fare, essendo solo Dio a dominare la natura: un uomo non può dominare la folgore, l’eclisse, la tempesta, il vento, il terremoto. Vi è la forza dell’intelletto, quella che distingue un uomo intelligente da uno stolto. Vi è la forza della ragione, quella che dà ad un uomo di rango inferiore la capacità di resistere ai soprusi. Vi è la forza bruta, quella che se non accompagnata dall’intelligenza fa l’uomo rozzo e barbaro. Sulla bibbia è scritto “Occhio per occhio e dente per dente”, ma vi sta anche scritto “Solo mia è la vendetta”, che perciò appartiene a Dio. E’ dunque difficile per l’uomo, misera creatura preda dei sentimenti, saper dosare la forza in tutte le sue accezioni. Se si subisce un torto, si cerca la vendetta. Se si subisce un sopruso si cerca la vendetta. Se si crede di avere ragione pur stando nel torto, si cerca la vendetta. In tutti questi casi, la vendetta usa quasi sempre la sola forza bruta, ma in ogni caso essa non appartiene all’uomo e questi se ne appropria indegnamente. Il vigliacco usa la forza bruta su chi non ha forza, l’intelligente usa la forza dell’intelletto contro lo stolto, il violento usa ogni mezzo sul mite. Anche per questa ragione Dio ha dato delle leggi all’uomo. Quando ritornò il messaggero del Balivo, Aucario stava uscendo dalle mura di Tours e perciò udì ciò che questi diceva, o meglio urlava. —Il re ha messo il campo ad una giornata da Tours per cacciare i cinghiali! — gridò ando al galoppo —Il re sarà a Tours per la quinta feria! Il Balivo zittì il suo aiutante in malo modo e si allontanò con lui per organizzare la corte. Aucario era ancora preso ad osservare la reazione del Balivo, quando la sua attenzione fu attratta dal gran rumore all’interno delle mura. —Ti ammazzo! Ti ammazzo! Un gran fuggi fuggi di oche schiamazzanti e di bambini che le pascolavano, tra
penne e polvere ed in quella nuvola spuntò una donna in corsa e dietro di lei un uomo, armato di bastone. La donna gridava. —Fermati, serva del demonio! —gridava l’uomo. La donna svicolava, tentando di evitare il bastone, ma infine questo la colpì e lei cadde urlando. L’uomo le fu addosso e la prese a calci poi alzò ancora il bastone. Le donna stava supina a terra. L’uomo le si sedette sul ventre, in modo che le braccia della donna fossero bloccate sotto di lui. —Non bastonarmi... —diceva la donna —Non bastonarmi.... Non bastonarmi, non ho fatto niente... L’uomo, che aveva già alzato il bastone con la destra, si fermò. Abbassò il bastone e si mise a ridere. —Questa volta avrai ciò che ti meriti. —disse con freddezza, ad alta voce. Con la mano sinistra le strinse la gola, sempre più forte. La donna aprì la bocca, il volto paonazzo, gli occhi gonfi, poi l’uomo alzò la destra con il bastone. L’uomo pregustava già la sua vendetta, l’espressione del volto alterata dalla rabbia e dalla foga di colpire. Ma si fermò, e lo sguardo divenne incredulo. Il freddo del metallo sotto la gola lo fece rabbrividire. —Lascia la presa! —gridò una voce dietro di lui. L'energumeno abbassò il bastone. La lama si appoggiò con più forza sotto il mento. —Lascia la presa! —e una mano gli afferrò i capelli. L’uomo lasciò la gola della donna e la mano che lo teneva per i capelli lo tirò all’indietro fino a gettarlo in terra. La donna boccheggiava. —Ma tu sei quello del processo —constatò sorpreso Aucario abbassando la lama con il quale aveva fermato l’uomo —Tu sei Hraufo! —Sì —rispose questi —Quella è mia moglie e la devo punire! —Perché la vuoi punire? —domandò Aucario.
—Perché ha costretto Quado e l’ha fatto condannare! Aucario si voltò e riconobbe Dhuoda, in terra, la gola livida. Allora il Capitano alzò nuovamente la spada e la puntò al petto di Hraufo. —Il Vescovo ha detto “Tu non la picchierai”! Hraufo si rese finalmente conto di aver disobbedito al Vescovo sia come uomo di Dio che come uomo di legge. —Ma io... —D’ora in poi —disse Aucario —Dhuoda è sotto la protezione del Vescovo. Si voltò. Si chinò verso Dhuoda —Tutto bene? —le domandò. Lei fece segno di sì con il capo. Gli occhi ancora terrorizzati, aveva perso il velo ed i suoi capelli, tagliati corti al collo come era d’uso tra le donne Franche sposate, erano di uno splendido color miele. Aucario si chinò ad osservare l’impronta sulla gola della donna e udì come un ruggito alle proprie spalle. Hraufo aveva raccolto il bastone e si era lanciato su di lui. —Lasciala! —gridò il marito con furia. Aucario si voltò subito e colpì con la spada il bastone: lo tagliò di netto. Hraufo fu colpito al volto dal pezzo tagliato e perse l’equilibrio, cadendo in terra. Sentì il sapore della polvere tra i denti, ma sentì anche la lama fredda della spada nuovamente sul suo collo. —Hai ucciso tu Wortha? —domandò Aucario con voce irata —L’hai ucciso tu? —N... No.... No! —gridò con forza Hraufo, rendendosi finalmente conto della propria posizione. —Io non ho ucciso il monaco! Aucario pensò che forse Hraufo era troppo vigliacco per affrontare un uomo guardandolo in volto. —Vedremo. Ma non potrai muoverti da Tours. Sarai sorvegliato: hai dimostrato di essere un uomo violento e pericoloso, e hai disobbedito al tuo Vescovo. Se tenterai ancora una volta un gesto violento, ti assicuro che questo ferro non esiterà a mordere le tue carni.
Intorno ad Aucario si era formato un fitto capannello di persone. Anche uno dei guardiani della città era sopraggiunto. —Tu! —disse Aucario alla guardia —Portalo alla torre. Che sia rinchiuso e sorvegliato fino a domattina: avrà modo di pensare. Domattina, all’ora terza, potrà lasciare la torre. Ma non potrà andarsene da Tours. —Sì capitano —disse la guardia, un uomo con la cuffia di cuoio. —Non puoi farmi questo! —disse Hraufo alla guardia —Siamo cresciuti insieme! —E’ solo una notte nella torre e a digiuno —disse la guardia spingendolo avanti —sopravviverai… —Ma si accoppierà con tutta la città! —esclamò irato Hraufo tra le risate dei presenti. —Cammina! —disse spazientita la guardia spingendolo via. Il capannello si disperse. Soltanto allora Aucario prestò attenzione alla presenza di Dhuoda. —Nobile Capitano —disse la donna con disperazione nella voce —Meglio avresti fatto a lasciare che mi uccidesse… Aucario si voltò e la guardò. —Domani mi bastonerà di nuovo e tu non potrai proteggermi sempre… —disse con tono rassegnato. —Ti bastona spesso? —domandò Aucario. —Ogni giorno —disse Dhuoda abbassando lo sguardo. Aucario la fissò con più attenzione. Il volto aveva dei lividi che potevano anche non essere freschi. —Perché lo fa? —le domandò. Dhuoda non rispose e continuò a fissare in terra.
—Dice che mi comporto come un’asina in calore… Dice che tutti gli uomini della città mi vogliono e che se non sta attento a tutti mi concedo. Ma non è vero. —E’ un uomo violento e geloso —disse Aucario —sei una donna sfortunata. Torna a casa, ora. Dhuoda gli si gettò ai piedi e glieli baciò. —Ti prego —disse piangendo —Non farmi tornare a casa: Quado mi aggredirà di nuovo: egli teme soltanto suo padre. Questa volta non si accontenterà di spogliarmi… Quado. Aucario aveva scordato Quado lo stupratore. “Bella famiglia” pensò. Ecco perché Dhuoda era chiamata “la sfortunata”. —Ti troverò un altro luogo in cui dormire e parlerò al Vescovo. I Franchi hanno una legge e la legge deve essere rispettata. Lei continuò a singhiozzare ai suoi piedi. —Basta ora! —disse irritato Aucario —ti sei già umiliata abbastanza. Alzati e recati alla cattedrale di Tours. Prega Nostro Signore perché ti aiuti. Io ti cercherò un posto per la notte. Dhuoda si alzò e fuggì via, con il velo ancora tra le mani.
I VISITATORI NORRENI
Quando un uomo viaggia molto, ed è cosa inusuale ai tempi di cui narriamo, questi impara usi, costumi e lingue dei luoghi in cui egli soggiorna. Chi è stato a lungo in Longobardia, specie se Franco, non tarda ad impararne la lingua che ne è in qualche modo parente. Il latino è la lingua della Chiesa e dei potenti, ma quasi tutti lo parlano o almeno lo comprendono. Il Greco è lingua difficile, di dotti e filosofi, pochissimi ne hanno padronanza. Difficile dunque comprendere un greco che parla con un compatriota. Ma tante sono le lingue quanti sono i Paesi del mondo e quando Nostro Signore, nella sua infinita sapienza, gettò la confusione delle lingue sulle genti arroganti di Babele gli uomini cessarono di comprendersi e si divisero. Ma se un uomo vive lunghi anni in un Paese straniero impara usi, costumi e lingua. Così, i bizantini avevano inviato a Tours uomini che avevano lungamente studiato usi e costumi dei Franchi e soprattutto ne comprendevano la lingua. Ma non tutti i bizantini sono Greci, così come non tutti gli italiani sono Longobardi. I Bizantini chiamano se stessi “Romani”. L’Impero è un miscuglio di razze differenti e popoli strani: alcuni sono neri di pelle, altri chiarissimi e fulvi, altri ancora sono Saraceni di religione cristiana. E così alcuni Greci non paiono Greci e anche se dai tempi di Attila gli eserciti di Bisanzio sono composti di soli bizantini, non così è per gli incarichi delicati: poiché il Basileus teme i complotti, egli chiama degli stranieri malvisti come sue guardie personali. Poiché uno straniero dipende per la sua stessa vita da quella del Basileus, è necessario che questi viva. E questi stranieri ricevono un soldo in oro che è la moneta pregiata di Bisanzio e dopo qualche anno tornano nella loro terra ed altri della loro terra fanno il viaggio inverso, così da secoli. Perciò, mentre erano i pretoriani ad uccidere gli Imperatori di Roma, quelli di Costantinopoli (che sono comunque Romani) sopravvivono ai complotti grazie ai loro barbari guardiani. Così è stato anche per la Basilissa. Tours, che ai nostri tempi è il più grande centro di pellegrinaggio dopo Roma e Gerusalemme, dai tempi di Dagoberto il merovingio non vedeva un Romano di Costantinopoli. E’ stato dunque con grande sorpresa che la gente ha accolto i nuovi arrivati. Lo strano modo di mettere il campo, la strana lingua dell’ambasciatore e gli strani soldati della sua scorta lasciavano perplessi e preoccupati gli ospitali ed ingenui Franchi. La gente era curiosa di questi personaggi, ma al tempo stesso li temeva e ne era perciò diffidente. Tutto si
diceva dei Romani di Costantinopoli: che fossero ambigui e ipocriti, che fossero ricchi e potenti oltre ogni immaginazione, che fossero spietati e crudeli, che torturassero i loro prigionieri, che praticassero il meretricio pur condannandolo a parole. Tutti i Franchi, incluse le ragazze più sensuali e focose, si tennero ben alla larga dai bizantini, pur non perdendo l’occasione di spiarli ogni volta ciò si rendesse possibile. Fu così che il nuovo Capitano di Tours si avvicinò a due ufficiali della scorta che parlavano tra loro. Essi non parlavano latino o greco, ma uno strano ignoto idioma norreno, alcune delle cui locuzioni erano comprensibili, con qualche difficoltà, anche ai Franchi e ai Longobardi. Era una lingua dura, bizzarra e sprezzante, gutturale. I due ufficiali osservavano con interesse la basilica di San Martino. Essi sembravano molto interessati, anche troppo. Aucario si avvicinò ai due ufficiali e tentò di ascoltare ciò che dicevano, fingendo grande interesse per le forme di una ragazza di aggio dai magnifici, lunghi e vaporosi capelli. Uno dei due ufficiali era gigantesco, l’altro invece era di statura normale. Il più alto portava una barba bipartita piuttosto folta, l’altro era rasato di fresco. Il gigantesco ufficiale si interruppe, si voltò, vide Aucario con lo sguardo fisso sulle belle forme della ragazza e si mise a ridacchiare, poi tornò a parlare con il compagno. Ad un certo punto i due si allontanarono verso il loro campo e Aucario restò con gli occhi puntati sulla ragazza, la quale si voltò, ne incrociò per un attimo gli occhi ed i loro sguardi duellarono per alcuni istanti come lame. —Mio Signore —disse una voce dietro ad Aucario —la tua abitazione è pronta. Aucario si voltò. Era Clemente, il servitore di Erlingo. Il Capitano scrutò con aria interrogativa. —Quale abitazione? —domandò. —Il nostro Vescovo ha dato disposizione che ti fosse preparata una abitazione degna della tua carica. Abbiamo lavorato molto ed è appena stata ultimata. Seguimi, te la mostrerò. Clemente si incamminò nuovamente verso la città. Aucario lo seguì. E domandò —Chi era quella ragazza? —Quale ragazza? —domandò Clemente —Qui è pieno di ragazze, sembra che a Tours vi siano più ragazze che uomini. Di quale ragazza vuoi sapere, mio
Signore? —Non importa —rispose ridendo Aucario —Dimmi piuttosto: quei soldati di Bisanzio vengono qui spesso? Clemente trotterellava piuttosto agile in quella sua buffa andatura ballonzolante. —Sembra che siano piuttosto curiosi —disse —hanno frequentato ogni angolo della città e delle mura, ma non sembra che siano entrati in chiesa. Nemmeno quella del Santo Martino. Clemente, nel pronunciare il nome del Santo, si segnò cristianamente. —Vieni, Aucario: ecco la tua abitazione. Il Capitano vide stupito che gli avevano preparato una casa davvero bella, con una bella finestra di papiro oleato e mantelletto per la notte, porta con catenaccio interno e un magnifico focolare. —Tutto questo è per me? —domandò incuriosito Aucario. —Erlingo dice che è un’abitazione degna del tuo rango, mio Signore. —Erlingo è troppo gentile! —rispose ridendo Aucario —Ringrazialo per me. Anzi, questa sera lo ringrazierò personalmente. E’ una magnifica abitazione, c’è anche un letto con materasso. E’ una vita che non dormo su un materasso vero. Io sono solo un guerriero consumato dalle battaglie. —Erlingo è molto generoso —disse sorridendo Clemente. Aucario mise una mano sulla spalla di Clemente, come usano fare i guerrieri tra loro. —Anch’io ho combattuto, un tempo —disse Clemente —Ero alle chiuse del San Michele... Aucario gli diede un’altra pacca sulle spalle. —Allora hai combattuto una grande battaglia! —gli disse —Quella volta, io non c’ero. Prometti che un giorno me la racconterai...
Clemente rise e fece cenno col capo. —Mia moglie non vuole più sentirla, tante volte l’ho raccontata! —disse Clemente allontanandosi. Aucario diede uno sguardo all’interno della sua abitazione. Quanto tempo era ato. Quanto tempo...
LA CENA
Le giornate, presso il popolo dei Franchi, scorrono sempre alla stessa maniera. E ciò, a Dio piacendo, è un bene. E’ un bene poiché ognuno sa sempre quale è il suo posto nel mondo. E’ un bene poiché le persone si sentono sicure, essi sanno che un Dio sta sopra di loro, che un re sta sopra di loro ma che anche lui risponde a Dio, che il Vescovo si occupa di loro e amministra la giustizia oppure lo fa un Balivo nel nome del re. Si sentono sicuri poiché i frati pregano per loro e le loro giornate scorrono sempre uguali dall’alba al tramonto e di stagione in stagione. Così la bimba sa che porterà i capelli sciolti e lunghi sino al matrimonio e che dopo il matrimonio li taglierà e li coprirà con un velo e che da vecchia nasconderà il collo grinzoso con la stoffa. Così il servo della gleba sa che il suo dovere è pascolare i porci e che soltanto il suo sovrano può richiamarlo da quell’incarico, proprio come Carlo Martello fece per sconfiggere i demoni Saraceni. Il contadino sa che il ritmo della terra segue le stagioni. Il guerriero sa che la guerra è il suo destino e a questo si prepara ogni istante della vita, poiché è compito dei contadini lavorare la terra, dei frati pregare, dei guerrieri morire in battaglia. Tutto questo si ripete sin dal tempo di Dagoberto e forse di Clodoveo. Ma il delitto sconvolge le persone, il delitto toglie loro sicurezza, rende leggero il loro sonno: chi ha violato un comandamento potrebbe riviolarlo, oppure violarne altri. L’uomo che abita nella tua città è figlio di un altro uomo che abitava nella stessa città e così per generazioni. Ogni famiglia è nota per pregi e difetti, fisici e morali. Se il padre viola il settimo comandamento e suo padre prima di lui, allora anche il nipote probabilmente lo farà. Il delitto rende insicuri i villani, i monaci, i servi della gleba. Ma, soprattutto, il delitto rende insicuri i sovrani. —Vieni, Aucario, ti attendevo! Erlingo fece un cenno ad Aucario che stava sull’uscio, tenuto aperto da uno dei servitori della Cattedrale. —Vieni e dividi con me la cena! —aggiunse mostrando il tavolo. Aucario si avvicinò, slacciò la spada, la posò in terra accanto alla panca e, scavalcando pesantemente quest’ultima, si mise a sedere di fronte al suo
Vescovo. —Serviti, Aucario. Erlingo spinse un grosso pane tondo raffermo, scavato al suo interno, contenente fagioli e lardo, al centro della tavola. Aucario afferrò un pezzo di pane raffermo e l’immerse tra i fagioli, ne cavò un boccone abbondante che mise in bocca. —Grazie, mio Vescovo, oggi ho davvero molta fame. Il Vescovo immerse a sua volta il pane tra i fagioli e ne ricavò un boccone altrettanto ghiotto. L’operazione si ripeté più volte, sino a consumare i legumi. Quindi i due presero a dividersi il pane raffermo ormai inzuppato con il sugo dei legumi, e lo divorarono. Poi Erlingo sollevò una coppa di vino e ne bevve un lungo sorso. —Quali novità mi porti, Aucario? Aucario non si fece ripetere la domanda. —Ho molte novità, mio Vescovo: vuoi prima quelle sulla città o prima quelle sui delitti? Il Vescovo posò la coppa e lo fissò negli occhi, allarmato. —Perché, cosa è accaduto in città? —Nulla di grave. Hraufo ha picchiato Dhuoda e poi ha cercato di strangolarla... —Gli avevo ordinato di non batterla! —esclamò irato Erlingo —E tu dici nulla di grave? —erà la notte nella torre, al piano basso, senza cibo e acqua. —Hai fatto bene, Aucario, forse avrà il tempo di meditare. —Temo che non sarà sufficiente. Quando ho cercato di soccorrere Dhuoda, Hraufo ha cercato di colpirmi mentre gli voltavo la schiena. Il Vescovo strabuzzò gli occhi.
—Ha cercato di colpire il mio Capitano? —Grazie al cielo io comprendo bene gli uomini ed ero attento. Mi sono ben difeso e l’ho umiliato di fronte a tutti. Ora però è convinto che Dhuoda sia la mia amante e accusa sua moglie di accoppiarsi con tutti gli uomini di Tours. Il Vescovo scosse il capo e bevve un altro sorso di vino. —Hai detto che ha tentato di strangolarla? —domandò il Vescovo. —Sì, mio Vescovo —rispose Aucario. —Allora... —disse Erlingo, pensoso —...Allora potrebbe essere stato lui, ad uccidere il Sagrestano... —Temo che Hraufo sia troppo codardo per affrontare un uomo guardandolo negli occhi come ha fatto l’assassino di Wortha —ribatté Aucario. —Dovrò prendere provvedimenti seri —disse Erlingo —Non posso permettere che la gelosia di Hraufo e la lussuria di Quado rovinino Tours... Dimmi del delitto, ora. —Ho scoperto che il misterioso viandante ucciso la prima feria, poco prima del mio arrivo, giungeva da lontano, probabilmente dalle terre del Duca Arichi... —Del Duca Arichi? —disse meravigliato il Vescovo —E perché mai sarà venuto sin qua? —Questo spero di scoprirlo presto —disse Aucario —Sono certo che venisse dal Ducato di Benevento poiché le monete che portava sono quasi tutte tremisse di Arichi e alcune erano d’oro camuffate da monete d’argento... —Chi l’ha ucciso non l’ha ucciso per depredarlo... —considerò Erlingo. —Esatto —confermò Aucario —e posso garantirti che quell’uomo non aveva le mani callose dei contadini o quelle forti dei guerrieri. Egli non portava calli e duroni, solo una parte dell’indice destro aveva una sorta di callo: un callo che viene soltanto a chi usa molto la penna. —Che mi dici, Aucario? —disse Erlingo affranto —Egli era un monaco?
—Temo che fosse qualcosa di più di un semplice monaco —disse Aucario — aveva, come ti ho detto, una sacca con monete d’oro. Un monaco non ha a sua disposizione monete d’oro. —...Un uomo di corte... —disse Erlingo stringendo gli occhi —uno scrivano, un contabile, un ministro... Un Vescovo, forse? —Forse —disse Aucario —se così è, lo scoprirò. —Lo spero —disse allarmato Erlingo —Grazie delle tue notizie, sono contento di non essermi sbagliato sul tuo conto, sono certo che riuscirai a proteggere la mia città. Aucario sorrise. —Grazie, mio Vescovo. Erlingo versò in una coppa di legno il contenuto di una brocca. —Bevi, Aucario, è vino buono. Il Capitano sollevò la coppa e la bevve a lunghi sorsi. —E’ davvero molto buono —disse pulendosi la bocca con la mano destra. Il Vescovo sorrise. —Domani il re sarà qui. E’ difficile spiegare ad un re che un assassino colpisce impunemente e uccide nella notte... Tu mi comprendi, vero? —Farò tutto ciò che sarà possibile —disse con tono sicuro Aucario, mentre si stiracchiava. —Ne sono certo —disse Erlingo —Io pregherò per te e farò pregare per te i frati di San Martino, questa notte, perché Dio ti guidi alla cattura di questo omicida. Aucario si alzò e si allacciò la spada. Sbadigliò. —Grazie, mio Vescovo —disse allontanandosi. —Aucario! —lo richiamò il Vescovo —Accanto alla porta c’è una bisaccia
preparata dal mio servo. All’interno troverai un acciarino, esca per il fuoco, due pani freschi e un otre di vino. La tua abitazione è priva di dispensa... Aucario fece un leggero inchino —Grazie anche di questo, dell’abitazione e della bisaccia —disse uscendo. Erlingo portò ancora la coppa alla bocca. Il re non sarebbe stato felice di sapere che un assassino girava per Tours indisturbato. I sovrani non amano l’imprevisto, nemmeno l’imprevedibile re Carlo.
UNA NOTTE AGITATA
La notte, nella terra dei Franchi, comincia presto. Tra le mura di Tours le persone si erano sempre sentite al sicuro, certe che i guerrieri della torre li avrebbero protetti. E il fuoco sulla cima della torre, anche d’estate, faceva in modo che tutti sapessero che qualcuno vegliava su di loro e nel contempo, nelle altre contrade e villaggi, il fuoco rivelava che la notte non era soltanto demoni e lupi. Sino al salmodiare dei frati, l’unica scintilla di vita era la luce del fuoco della torre. Ogni torre ha un fuoco. Tutte le torri, per ordine di Carlo, segnalano tra loro coprendo e scoprendo la fiamma secondo un codice prestabilito: “Il nemico è in vista”, “Tutto bene” e via dicendo. Così viaggiano le notizie tra i guerrieri ed il nemico è prontamente segnalato molto prima che giunga. Ma la città ha mille occhi e nulla o quasi sfugge alla curiosità di chi la abita. Tra le mura, la gente si sente al sicuro. Le case di legno dei contadini e dei servi della gleba sono diverse da quella di pietra del Vescovo. Egli ha questo privilegio e nella sua abitazione un arazzo con l’immagine di un Santo benedicente copre la finestra di carta oleata spessa già chiusa dall’esterno col mantelletto di legno, così da evitare gli spifferi. La dimora preparata per il Capitano era più piccola e bassa di quella del Vescovo, ma ugualmente in pietra, e mancava dell’arazzo. Ma aveva il caminetto e un robusto comodo letto. Aucario sbadigliò: era stata una lunga giornata e i fumi del vino avevano intorpidito i suoi sensi. Era accompagnato da una delle guardie, che stringeva nella sinistra una torcia. Giunsero ben presto alla porta dell’abitazione. Questi si fermò davanti alla porta, inserì il chiavistello di metallo e fece scorrere il fermo di legno all’interno, poi porse la sua torcia spenta verso quelle della guardia e la accese. —Torna pure alla torre —disse Aucario. —Grazie, mio Signore —disse la guardia —Ti auguro una buona notte. —Anche a te —rispose Aucario. L’uomo sorrise. —La tua sarà certamente migliore! —disse, sorridendo, prima di
allontanarsi. Aucario lo fissò perplesso. Poi si voltò. “Meglio entrare”, pensò. Spinse la porta ed entrò. Richiuse velocemente l’uscio e tirò il fermo di legno. Poi si voltò e lo sbadiglio gli morì sul volto. Un’ombra si trovava al fondo della stanza. Aucario sguainò la grossa spada —Chi sei? —domandò ruvido. —Perdonami mio Signore —disse una voce di donna al fondo della sala. Aucario rinfoderò la spada ma si tenne pronto all’eventuale seconda estrazione. Mosse la torcia per assicurarsi che non vi fossero altre sorprese. La donna si mise in ginocchio e abbassò il capo. —Ho preparato il focolare —disse —ma non l’ho per non farmi scoprire da tutti. Aucario alzò la torcia, per meglio vedere chi si trovasse di fronte, ma a causa del capo chino, riuscì soltanto a scorgere i lunghi capelli: era una ragazza. —Alzati —disse allora Aucario —Credevo che avrei trovato la casa vuota, non pensavo certo di trovarci te... —Non faccio parte della casa, mio Signore... —disse incerta la ragazza, senza alzare il volto. Aucario continuava a fissarla stupito. Posò la bisaccia che teneva in spalla sul corto tavolo. —Alzati —le disse conciliante —non sono mica un re! Se non sei della casa, perché ti trovi qui? —Sono qui per te, mio Signore. —disse incerta la ragazza. —Temi qualcuno? —domandò Aucario perplesso —Qualcuno vuole farti del male? Dimmi chi è e andrò io stesso a prenderlo! La ragazza si mise a ridere divertita. Aucario si risentì della cosa. —Perdonami, mio Signore —disse la ragazza alzandosi —non è per questo che sono venuta. ami la torcia, accenderò il focolare.
Aucario le ò la torcia, si sfilò la costosa maglia di ferro che gli copriva il capo, slacciò la cuffia imbottita e la levò. Poi si sedette sulla panchetta accanto al tavolo e studiò i gesti sicuri della ragazza, che accese rapidamente il fuoco ed inserì la torcia in un anello del muro. Quindi si avvicinò ad Aucario e si inginocchiò ai suoi piedi. —Permettimi di slacciare le tue scarpe —disse snodando i lunghi lacci che permettevano alle calzature di stringere la braca sino al polpaccio. I suoi gesti erano sicuri e delicati. Quando ebbe terminato, si sedette ai suoi piedi e si appoggiò alla sua gamba. —Perché stai in terra? —domandò Aucario —Siedi qui, accanto. Il Capitano le mostrò la panchetta, sufficiente per tutti e due. La ragazza si accomodò e disse —Grazie, mio Signore. —Come ti chiami, ragazza? —Mi chiamo Wolfrida, mio signore. Oggi mi hai guardata intensamente. Io ti ammiro molto perché in un solo giorno hai sconfitto il Balivo e hai difeso Dhuoda da suo marito: nessuno ha mai osato tanto. Se Dio ha deciso così, significa che sei speciale. Aucario si sentì sorpreso e orgoglioso. —Ciò che ho fatto era il mio dovere... —disse. Poi aggiunse —Wolfrida? Tu sei la Wolfrida della corte di giustizia? La ragazza si gettò nuovamente in ginocchio. —Non pensare male di me, mio Signore. Io non sono come si dice in giro, la ragazza di tutti. Io sono una serva della gleba. Il mio destino è pascolare porci, raccogliere ghiande e lavorare nell’opificio. Il figlio del mugnaio è un buon partito, è un buon modo per diventare libera e i mugnai sono gente cui non manca mai il cibo. —Non ami il figlio del mugnaio? —disse sorpreso Aucario —Le donne Franche sono piuttosto libere nei costumi, ma quanto dici mi sembra curioso: il figlio del mugnaio è un ragazzone vigoroso.
—Vigoroso e dotato —disse sorridendo Wolfrida —ma non mi piace. E’ sciocco, immaturo e poi pensa solo a se stesso... Aucario la fece rialzare e sedere sulla panca. —Così tu speri di sposare il figlio del mugnaio anche se non ti piace, solo per essere libera? —le domandò Aucario. La ragazza assentì col capo. —Quindi vorresti che io convincessi il mugnaio a fartelo sposare, vero? La ragazza rise di nuovo, in modo sincero. —No, mio Signore, anche se mi hai dato una buona idea! Aucario si spazientì. —Senti, Wolfrida: è tutto il giorno che mi chiamano “mio Signore”. Mio Signore di qua, mio Signore di là: chiamami Aucario, visto che ti trovi nella mia casa da prima che vi entrassi io. —Come vuoi mio Signore! —disse entusiasta Wolfrida. Aucario sospirò e si coprì il volto con la destra. La ragazza rise di nuovo, coprendosi la bocca, rendendosi conto della “gaffe”. Aucario scosse il capo con finta rassegnazione. —Hai mangiato, Wolfrida? —le domandò. La ragazza scosse il capo. Aucario aprì allora la bisaccia e le diede uno dei due pani bianchi. Poi prese l’otre e mise del vino nella coppa. Wolfrida intinse il pane nella coppa e ne mangiò avidamente. Infine prese la mano di Aucario e la baciò più volte. —Che fai, sconsiderata? —domandò Aucario —Io non sono il Papa e neppure il tuo re. —Per me non fa differenza, mio S... Aucario — rispose continuando a stringere la mano.
Si sciolse dalla presa e versò dell’altro vino nella coppa, quindi ne bevve egli stesso prima di porgerla ancora a Wolfrida. —Grazie mio S... Aucario —rispose Wolfrida. Indi ne bevve avidamente alcuni lunghi sorsi, restituì la coppa ad Aucario e spense la torcia. —Il vino è buonissimo —aggiunse. —E’ il vino di Erlingo —disse Aucario alzando la coppa per bere. Terminò gli ultimi sorsi senza prestare orecchio ad un fruscio —Sospetto che sia usato per il messale —disse ancora. Quando posò la coppa sul tavolo, si rese conto che la ragazza si era velocemente spogliata dei suoi abiti. —Che fai? —le domandò, sorpreso, posando la coppa sul tavolo. La ragazza esitò. Si trovava in piedi tra Aucario ed il focolare. La sua figura si trovava perciò in ombra. Aucario poteva scorgerne solamente la silhouette ed i lunghi capelli. Il baluginio della fiamma la illuminava a tratti e metteva in risalto i bellissimi fianchi di Wolfrida. —Perché fai questo? —le domandò Aucario con un tono di voce amabile. —Voglio che tu mi conosca, mio Signore. —rispose lei. —Io sono un vecchio guerriero senza proprietà —le disse Aucario —ho quasi l’età del tuo re. La ragazza si avvicinò. —Voglio che tu mi conosca —ribadì con voce sicura —Ho avuto altri uomini, è vero, poiché volevo che essi mi sposassero e mi sottraessero alla porcilaia e all’opificio. Non voglio più essere una serva della gleba. Ma con te è diverso: io non voglio che tu mi sposi. Io credo che tu sia un uomo giusto e buono e non ne ho mai incontrati prima. Voglio che tu mi conosca. —Non potrei darti una dote —le disse Aucario —E se tu dovessi avere un figlio da me, quando io me ne sarò andato come farai? Wolfrida gli mise una mano sulla bocca. Poi prese una mano di Aucario e se la
mise sul seno. Il cuore le batteva forte. Aucario sentì che tremava. La ragazza gli sfilò la camicia e si strinse a lui a lungo. Aucario la sollevò e la portò verso il giaciglio. La posò delicatamente e terminò di spogliarsi. Si fermò ad osservarla a lungo. Alla luce guizzante del focolare ne ammirò ogni parte del corpo. Lei gli fece cenno con le mani. Lui si adagiò con lei e la notte buia dei Franchi gli rivelò un altro dei suoi segreti.
QUINTA FERIA
LA FARINA DEL DIAVOLO
La notte, secondo quanto dicono i saggi, porta consiglio. Chi riposa degnamente, il giorno appresso può facilmente trovare la soluzione ai suoi crucci. Chi ha vegliato, come le guardie della torre ed i buoni frati, può riposare con la certezza di aver ben fatto il proprio dovere e ben svolto il proprio compito. Il monaco prega, la sentinella vigila, il contadino dorme: ben diversa è la giornata di ciascuno di loro. Dura è la giornata del contadino, noiosa quella del guerriero, utile quella del frate. Diverso dunque è il loro riposo così come diverse sono le loro notti. Il fabbro, il servo, il contadino, il mugnaio dormono poiché la loro giornata sarà dura. Il guerriero veglia sul loro riposo ed il monaco prega per tutti loro. Ciascuno ha il suo compito. La notte dei Franchi è un velo spesso, scuro, trapuntato di luci lontane. Le donne filano sino a che le stelle chiamate “i tre re” si sono mosse abbastanza nel cielo, gli uomini intrecciano la paglia mentre si raccontano le antiche storie piene di spettri, di demoni e di gesta militari: nessuno è in grado di distinguere dove finisca il vero e dove s’inizi la leggenda; di generazione in generazione le gesta si arricchiscono di nuovi particolari e l’unica cosa che li lega immutabile è il fuoco attorno al quale gli uomini le raccontano. Le storie, a volte, non sono così vive quanto la realtà. Gli uomini si raccontano le antiche storie per accendere la fantasia, impaurire i bambini, insegnare le tradizioni. Gli uomini esagerano sempre per far scorrere i brividi lungo la schiena, e ci riescono benissimo. La notte dovrebbe portare consiglio al Vescovo Erlingo, il quale deve spiegare al suo re di due delitti impuniti. Al Balivo, che non sa come alloggiare degnamente il suo re. All’ambasciatore di Bisanzio, che teme per la sua segreta missione. A Dhuoda, sola e piangente, raccolta in preghiera perché si risolva il suo ingiusto trattamento. Ad Aucario, che deve risolvere l’enigma di due delitti. A Hraufo, marito violento chiuso nel basso della torre che, udendo le chiacchiere delle sentinelle, maledice la moglie e il Capitano. A Quado, peccatore bramoso delle grazie della sua matrigna, il cui sonno è guastato da succubi ignude che lo torturano e lo obbligano a vegliare . Al monaco che si è fatto vincere dal sonno mentre prega per Aucario. Alla sentinella dallo sguardo distratto che si è fatta vincere dalla maldicenza mentre racconta divertito che Aucario ha una bella signora maritata nel suo letto.
Ma insufficiente è stato per tutti il consiglio in questa notte, poiché qualcuno ha colpito il figlio maggiore del mugnaio al capo ed egli non è in senno, lo sguardo suo è perduto nel vuoto. Tutto questo nel giorno in cui re Carlo deve giungere a Tours ed il sangue di un giovane ha dipinto di rosso la farina che la sua macina aveva lavorato il giorno prima: era destinata alle ostie di San Martino. Ora, essa è la farina del diavolo.
UN CASO INTRICATO
Esistono molti tipi di peccato, così come esistono molti tipi di delitto. Mentre il delitto è sempre commesso in violazione alle leggi e costumi degli uomini, e per tale ragione diversi da popolo a popolo, il peccato è commesso in violazione alle leggi che Dio ha dato all’uomo e che sono semplicemente dieci comandamenti, tutti molto chiari. Accade però che il peccato a volte sia commesso anche in violazione delle leggi dell'uomo: l’omicidio, il furto, la falsa testimonianza, il sacrilegio. E quale è il metro di giudizio per una testimonianza, il limite oltre il quale essa diviene falsa? Così una voce di paese, un pettegolezzo, una falsità diviene una verità quando sono in molti a raccontarla. L’uomo a volte si dimostra degno discendente di Caino. Cosa spinge un uomo a colpirne un altro, a parole o con i fatti, se non per invidia o bramosia di ciò che non gli appartiene? Quando Aucario giunse al mulino le porte erano già state aperte. Il ragazzo era stato trasportato su un letto ove la madre lo vegliava piangendo. —Ho visto una ragazza dirigersi verso il mulino, stanotte. La sentinella era giunta al mulino prima di Aucario. —Sei sicuro? —gli domandò il Capitano. —Sì, mio signore: alla luce del falò nella notte si riesce a scorgere qualche cosa sotto le mura. Aveva i capelli lunghi e la veste bianca: se avesse avuto una veste nera forse non l’avrei notata. Ma una veste bianca si nota. —Sapresti dire chi fosse? —domandò ancora Aucario. —Chi potrebbe essere se non Wolfrida? —rispose con sufficienza la sentinella —Questi due si frequentavano da tempo. Nell’udire quel nome la madre del ragazzo si alzò in piedi e strillò. —Quella cagna! —gridò —Le avevo detto di non farsi più vedere al mulino! E’ lei che l’ha colpito! Wolfrida maledetta!
La donna continuò a strillare e a strapparsi la sopravveste. Aucario le si avvicinò e le diede uno schiaffone. La donna si calmò. —Scoprirò chi ha colpito tuo figlio —disse con voce forte il Capitano di Tours —ma una cosa è chiara sin da ora: non è stata Wolfrida! —Perché hai colpito mia moglie? —gridò alterato il mugnaio. —Per fermare la sua follia —replicò Aucario ponendosi a meno di un braccio da lui e mettendo mano all’elsa della spada. Il mugnaio, già pallido, fissò la spada e ammutolì. Arretrò di un o. Aveva terrore delle armi, non aveva mai servito il re. —Wolfrida —disse Aucario, assicurandosi che tutti potessero udirlo —si trovava all’interno delle mura stanotte e non poteva trovarsi perciò al mulino. —Potrebbe essere fuggita alle sentinelle —disse un frate accorso per dare conforto alla famiglia —Accade sovente. —Io so che Wolfrida era all’interno delle mura e che non si è mai mossa. —Ma mio signore —disse la sentinella —Hai ato la notte con Dhuoda, come avresti potuto sapere dove si trovava Wolfrida? —Dhuoda è una brava donna, qualunque cosa dica Hraufo. Io non ho ato la notte con Dhuoda, ma con Wolfrida! Ci fu un mormorio di stupore. —Ma la donna che è entrata nella tua casa aveva il velo sul capo... —balbettò la sentinella. —Per non farsi riconoscere: ora però dovete saperlo tutti. Ho ato la notte con Wolfrida e non si è mai allontanata dalle mie braccia! —Ma allora chi è la ragazza che è ata sotto le mura? —domandò la sentinella —Aveva i capelli lunghi e non portava il velo... —Non lo so —disse Aucario —Ma certo non era Wolfrida.
—Se invece di are il tuo tempo con le serve tu cercassi l’assassino, ora mio figlio non sarebbe in queste condizioni! —gridò il mugnaio. —Bada, mugnaio: chi ha ucciso il primo uomo sapeva usare una spada da cavaliere e chi ha strangolato Wortha l’ha fatto con una mano sola. Temo che non sia una donna ad aver commesso i due delitti. Il silenzio calò sui presenti, interrotto soltanto dai singhiozzi della madre del ragazzo. Aucario allora alzò la destra e in modo solenne affermò: —Io, Aucario, Capitano di Tours, prometto solennemente che catturerò il colpevole di questo delitto e lo consegnerò alla giustizia del re o io stesso mi riterrò responsabile! Tra i presenti vi fu un altro mormorio. La gente prese molto seriamente la promessa: nessuno promette ciò che non può mantenere. Il Balivo non avrebbe avuto la mano leggera del Vescovo. Detto ciò, Aucario si avvicinò alla sentinella. —Attento —gli disse sottovoce —la falsa testimonianza è un peccato molto grave. Io ti ho appena dimostrato che gli occhi possono essere ingannati. Attento, molto attento a ciò che giuri. L’uomo impallidì. Non aveva considerato questa possibilità. —Sì, mio Signore —disse con un filo di voce —Io ero veramente convinto che tu ti fossi divertito con Dhuoda, Hraufo ne era così certo... Non ha fatto altro che maledire te e la moglie per tutta la notte. —E’ stata una imprudenza, la tua: ora Dhuoda è in grave pericolo e anche Wolfrida. Dove si trova Hraufo? —L’abbiamo liberato all’alba, appena aperte le porte, mio Signore. Come tu hai ordinato. —Corri in città —ordinò Aucario —cerca Hraufo e seguilo ovunque vada. Sii la sua ombra come il lupo segue la preda. Io vado a cercare Wolfrida: qualcosa mi
suggerisce che anche lei è in grave pericolo. Vai! —Sì, mio Signore! —l’uomo si batté un pugno sul petto e corse verso la città, chiamando a gran voce i suoi compagni d’armi. —So che tra i Bizantini c’è un medico importante —disse Aucario al frate —Tra le missioni diplomatiche di Bisanzio vi è sempre un bravo medico. Chiederò loro di permettere al medico di curare il ragazzo. Il monaco guardò stupefatto Aucario. —Come sai queste cose... —balbettò. —Mio buon frate —disse Aucario —io so molte cose che ti riempirebbero di terrore ed altre che ti riempirebbero di gioia: le prime non posso raccontartele, per le seconde non ne ho il tempo. Aucario si voltò e si mise velocemente alla ricerca di Wolfrida.
DHUODA
Cosa differenzia la cattiveria dalla follia, dove si uniscono inestricabilmente? Nella terra dei Franchi, la follia è temuta. Un uomo folle si pone al di là del bene e del male. La logica con cui egli ragiona non può essere convinta dai filosofi, non può essere costretta dalle leggi. A volte soltanto l’irrazionale la ferma. Ma ciò che appare come follia non è sempre tale. Uomini che non riescono a contenersi sembrano folli, ma non lo sono. Anche queste cose doveva valutare Erlingo, per giudicare lo sfortunato caso di Dhuoda, accusata dal marito di certo ingiustamente. Essa era rimasta nella chiesa tutta la notte, sola, a pregare. Erlingo aveva dato ordine che fossero lasciate accese più candele e chiuse le porte appositamente per proteggere Dhuoda nella casa di Dio. Erlingo si accomodò meglio sullo scranno della sua cattedra. —Hai pregato, figliola? —Sì, mio Vescovo. Tutta la notte. —Sai, ho meditato molto. Ho sbagliato a non concedere il divorzio quando Hraufo lo ha domandato. Ma se io glielo avessi concesso egli avrebbe dimostrato di essere nella ragione: ed egli invece aveva torto. Dhuoda abbassò il capo. Era molto bella. Nata serva, era stata riscattata da Hraufo con il secondo matrimonio. Egli era rimasto vedovo presto. —Cosa devo sapere, che ancora io non sappia? —domandò Erlingo —Ti batte spesso perché è geloso. Quali ragioni ha di essere geloso? Egli si comporta da marito? Adempie i suoi doveri? Dhuoda sollevò lo sguardo. —Non tutti —disse —Egli non è più in grado di consumare un matrimonio. Ciò lo rende furioso.
Il Vescovo sospirò, si appoggiò alla cattedra e incrociò le mani sul volto. Dhuoda abbassò nuovamente lo sguardo. Erlingo allungò la destra e la mise sul capo velato della donna. Ma, prima che potesse parlare, la porta si aprì di schianto. —Cagna in calore! —gridò Hraufo, schiumante di rabbia —Hai ato tutta la notte con quel servo! Hraufo entrò come un turbine di vento. Erlingo si accorse che l'uomo brandiva una grossa scure franca. —Fermati! —gridò Erlingo, alzandosi in piedi e puntando verso Hraufo il dito indice. —Anche con il Vescovo, con i frati, con le guardie, con i cani e i somari! — gridò Hraufo alzando la scure. Erlingo si mosse verso Hraufo, il quale iniziò a percorrere di corsa la navata con la scure sollevata. —Fermati in nome di Dio! —gridò Erlingo, sollevando come un’arma il suo pesante crocefisso d’oro. Hraufo, giunto ormai vicino al Vescovo, aveva la scure sollevata sopra la testa. Ma di fronte alla croce si fermò. —Togliti di mezzo! —gridò l'uomo. —Fermati! —gridò Erlingo avvicinandosi a Hraufo, il braccio destro teso in avanti impugnando la croce come una spada, sempre più vicino al suo volto, lo sguardo minaccioso e furente. Hraufo ebbe qualche istante di esitazione ed emettè come una sorta di ruggito. Fu allora che un colpo lo abbatté in terra. La scure capitombolò rumorosamente sulle pietre della chiesa. —Perdonami, mio Vescovo —disse la guardia, inginocchiandosi di fronte ad Erlingo —ho commesso un atto di violenza nella casa di Dio.
La sentinella aveva raggiunto appena in tempo Hraufo e con il manico della lancia lo aveva colpito sul capo. Hraufo, crollato in terra, si era rannicchiato, si teneva il capo con le mani e piagnucolava. Il Vescovo avvicinò la croce alla sentinella e gli mise la mano sul capo. —E’ stato un atto necessario e per questo sarai premiato. Ma è stato un atto eccessivo e dovrai compiere due giorni di penitenza. L’uomo chinò il capo ed Erlingo lo benedisse. Poi si voltò verso Hraufo. —Sarà più lunga la tua penitenza! —disse con severità —Hai macchiato la tua anima con la bramosia di uccidere Dhuoda e sei entrato armato nella casa di Dio. Solo la croce ti ha fermato! Che Dio possa perdonarti: ma ho deciso di accogliere la tua richiesta di divorzio da Dhuoda. Darò ordine che tutta Tours sia informata che il matrimonio tuo e di Dhuoda è come se non fosse mai esistito. Dhuoda si gettò ai piedi di Erlingo. —Così tornerò una serva! —disse. —Il tuo riscatto ha avuto luogo, Hraufo ha pagato ciò che è stato pattuito, perciò la tua condizione è di donna libera ed egli ha così una giusta punizione. Della sua sorte decideremo in seguito. Ora tu sei una donna libera: togli il velo e lascia ricrescere i capelli. Finché non avrai trovato un altro marito abiterai presso la famiglia del mio servo Clemente. —Ma io le ho dato una dote... —piagnucolò Hraufo. —Tutti i Franchi costituiscono una dote alla moglie quando viene in sposa. Per punizione del tuo gesto sconsiderato la dote viene incamerata. Come ti è venuta in mente questa follia? —Questa notte nella torre —disse piangendo Hraufo —le guardie mi deridevano e dicevano che Dhuoda si trovava nella casa del Capitano... —E’ vero ciò che afferma? —domandò Erlingo alla sentinella. La sentinella abbassò lo sguardo. —E’ vero, mio Vescovo —disse —Lo abbiamo deriso poiché credevamo che la donna nella casa di Aucario fosse Dhuoda.
—Dhuoda ha pregato in chiesa per tutta la notte. Le porte erano chiuse per ordine mio. Lei non è mai uscita. Questa pericolosa maldicenza vi costerà una settimana di doppio turno di guardia: veglierete in due per turno e farete ambedue l’intera guardia notturna. Sarete sorvegliati da un monaco e chi si addormenterà dovrà desinare a pane e acqua. E con ciò il fatto è cancellato. Poi il Vescovo si voltò verso Dhuoda. —La dote ti viene nuovamente concessa. —le disse parlando a bassa voce — Non è giusto che un Vescovo incameri ciò che ti spetta come risarcimento per quanto hai patito a causa mia. Ora vai. —Hraufo —disse quindi il Vescovo rivolto all’uomo —Ho deciso di non punirti come meriteresti poiché le guardie hanno provocato la tua ira. Tuttavia un mio incaricato percorrerà ogni strada, ogni sentiero di Tours proclamando il motivo per il quale il tuo matrimonio è stato annullato. E ora —aggiunse rivolto alle altre sentinelle nel frattempo sopraggiunte —portatelo fuori e sequestrate la scure fino a che non si sarà calmato. Per due settimane gli è fatto divieto di entrare in questo luogo sacro e dovrà fare ammenda del suo gesto pregando con i monaci di San Martino per tutto il tempo. Per questo gli verrà attribuita una cella nel convento, così che possa meditare sulla sua follia. —Sìmio Vescovo —assentì la sentinella. “Almeno questa faccenda si è risolta” pensò Erlingo mentre le guardie trascinavano fuori della cattedrale Hraufo.
IL RE
I re non amano il disordine, l’incertezza, l’aleatorietà. Un re come quello dei Franchi deve avere il polso forte, poiché quando il polso di un re inizia a cedere, tutto lo stato si stravolge. Ai tempi di Clodoveo il polso era fortissimo, l’ultimo Childerico invece non ne aveva: non era in grado di gestire gli affari di Stato e venne infine mandato in un monastero a pregare. Il nuovo re Pipino, figlio di Carlo Martello che sconfisse i Saraceni a Poitiers, aveva un polso fortissimo. Ma Pipino visse poco e perciò fu detto “il breve”. La moglie Bertha, quando Pipino morì, era convinta che i suoi due figli Carlomanno e Carlo non fossero uomini con sufficiente forza: troppo religioso il primo, troppo cacciatore di sottane il secondo. La grande Bertha, detta Bertha dai lunghi piedi, si sbagliava. Carlomanno era un uomo giusto ed equilibrato; Carlo invece era un formidabile capo militare ma aveva un unico figlio gobbo che si chiamava anch'egli Pipino come il nonno. Come da tradizione dei Franchi, alla morte di Pipino il breve il regno fu spartito tra i due fratelli. Bertha continuò a seguire Carlo, che riteneva il più debole dei due, lo convinse a ripudiare la moglie e a sposare una infelice principessa longobarda. Ma anche in questo Bertha si sbagliava. I due fratelli vennero in conflitto per una spedizione contro gli Aquitani. Carlomanno non voleva guerre all’interno del regno, Carlo voleva schiacciare la ribellione. Carlomanno infine accettò una spedizione congiunta, ma all’ultimo momento cambiò idea poiché un esercito congiunto, guidato da Carlo, avrebbe legittimato le sue aspirazioni ad un trono unico. Carlo era troppo popolare tra i guerrieri e alla fine i due fratelli finirono per prepararsi ad una inevitabile guerra fratricida, con la costernazione della madre. Fu il destino o, come dicono i maligni, una provvidenziale fiala di veleno a togliere l’incomodo Carlomanno dal trono. I bellicosi conti, che vedevano nell’Aquitania una terra da saccheggiare, proclamarono Carlo come unico re. La vedova dovette fuggire con la corte ed i figli in Italia, nella terra dei Longobardi, e Carlo divenne davvero l'unico re. Ripudiò la nuova consorte e fece dell’Aquitania una terra senza abitanti. Infine si mosse contro Desiderio, re dei Longobardi, e conquistò Pavia. Ma dovette assediare a lungo Verona per mettere le mani sulla famiglia del fratello e poterla chiudere in convento: egli ebbe così mano libera contro chi aveva giurato fedeltà a Carlomanno. Carlo aveva conquistato più di un regno, più di due regni. Carlo ambiva al predominio sull’intero occidente. Ma non riuscì mai a catturare tutti i
suoi nemici. Bertha restò nell’ombra e Carlo fece di testa sua. E vinse i Sassoni, i Bavari, i Longobardi e i Saraceni, ma dovette andarsene dalla marca spagnola e l’unica sua sconfitta fu ad opera dei Baschi delle Asturie che sterminarono la retroguardia del suo esercito, comandato dal Duca Hruodland, figlio della sorella di Carlo: in quella battaglia persino Hruodland vi morì e divenne un eroe da leggenda. Carlo non osò più sfidare i Baschi, che nemmeno i Saraceni erano riusciti a piegare, ma continuò a combattere tutti gli altri vicini esclusi il Santo Padre, che era il suo unico alleato, ed il Duca Arichi, troppo vicino a Bisanzio. Bertha aveva sbagliato nel giudicare Carlo senza polso a causa dei troppi letti frequentati, persino di più di quelli che frequentò il fannullone Childerico. Carlo aveva più polso di chiunque altro nel regno, forse troppo polso, ma anche se impulsivo egli era un uomo intelligente. L’arrivo di Carlo in città è dunque un motivo di preoccupazione e non soltanto di orgoglio. E’ necessario infatti alloggiare la corte, i famigliari, la Scara di guerrieri che funge da guardia del corpo, reperire per tutti loro il necessario vitto e mantenere l’ordine nella città. Un’impresa difficile. Il primo ad arrivare fu Rothlario, a cavallo e con tre cavalieri di scorta. Egli era un ufficiale della Scara di Carlo e si trovava all’avanguardia. Arrivò al galoppo alle porte di Tours. Il guerriero di guardia piantò il suo grande scudo in terra e sollevò la scure minaccioso. —Chi sei tu, che giungi armato alle porte di Tours? —domandò. —Sono Rothlario, della Scara di Carlo! —disse facendo roteare la sua grande spada da cavaliere —E se non mi farai are farò alla tua inutile testa ciò che feci con quella del ribelle Aquitano! E poi mi godrò la tua famiglia come godetti quella del ribelle sul suo corpo ancora caldo! Il guardiano ebbe un attimo di esitazione, abbassò la scure. —...Rothlario... Tu sei Rorhlario? —domandò —Levati, pezzente! Certo che io sono Rothlario, chi dovrei essere? Il Califfo saraceno? Un Longobardo fifone? Io sono Rothlario! Diede un colpo di spada al grosso scudo e si precipitò al galoppo all’interno
della città, seguito dai suoi tre cavalieri. Entrò gridando e spaventando tutti al suo aggio. Al solo sentire “Rothlario” la gente aveva preso a fuggire, tanto era la sua fama di crudeltà. —Datemi una verginella! —gridò il gerriero, felice del terrore che ispirava. Impennò il pesante cavallo nero e gridò come un folle. Il Priore di San Graziano, allarmato, si fece incontro ai quattro, seguito da alcuni timorosi monaci. —Nobile Rothlario —disse in tono conciliante il Priore —questa è la buona gente di Tours e molti pellegrini vengono in questa città per pregare sulla tomba di un santo. Perché tu li fai fuggire? —Levati dalla strada, frate, vai a pregare! Ora qui comando io, io mantengo l’ordine! E voglio del vino, subito! —Getta la tua spada e avrai del vino! —gridò una voce dietro di lui —Rothlario voltò il cavallo. Chi osava sfidarlo? Restò allibito nel vedere un mezzo guerriero vestito di verde, con una grossa scure franca in mano e una spada al fianco, un grande scudo tondo nella mano sinistra. —Chi sei, pezzente? Servo della gleba! Figlio di una meretrice! Ti strapperò le budella, le riempirò delle tue carni e te le annoderò attorno al collo prima di impiccarti! —Qui tu non hai potere! —gridò l’uomo —e dovrai posare le tue armi! Posate tutti le vostre armi! Rothlario rise sguaiato. —Oh! —disse —il piccolino ci minaccia! Che paura! Poi si voltò verso i suoi uomini e gridò: —Prendetelo e squartatelo! Ma quando si rigirò si accorse che tre guardiani avevano l’arco incoccato ed il quarto li riparava con il grande scudo infisso a terra.
—Ora! —gridò l’uomo vestito di verde. I guardiani centrarono il primo cavaliere, lo ferirono e questi cadde in terra, poi incoccarono altre frecce. —Siamo la Scara di Carlo! —gridò qualcuno dei tre. —Gettate le spade! —intimò l’uomo. I cavalieri restarono interdetti. —Io sono Rothlario! —gridò il gigantesco cavaliere, lanciandosi al galoppo e roteando la sua spada. Rothlario non si diresse verso le guardie: si gettò sul loro capo, lo sfrontato che aveva osato sfidarlo. —Appenderò i tuoi resti alle mura! —gridò lanciandosi verso di lui. L’uomo attese il fendente, alzò lo scudo ma contemporaneamente agganciò la punta inferiore della sua scure sui finimenti. Il fendente colpì lo scudo un attimo prima che la scure tagliasse la cinghia della sella. In un attimo il cavallo disarcionò il suo cavaliere e Rothlario si ritrovò rovinosamente in terra, la bocca piena di polvere, stordito. E una lama fredda gli si appoggiò alla gola. Rothlario ammutolì. I suoi cavalieri gettarono le armi e scesero da cavallo. Uno aveva tre frecce conficcate nel giaco di cuoio e perdeva sangue da una spalla. —Legate questi predoni e gettateli nella torre! —gridò l’uomo vestito di verde. I guardiani non se lo fecero ripetere e legarono strettamente due dei tre cavalieri. —Il ferito sia portato all’ospedale di San Martino! —aggiunse l’uomo —Quanto a te, non ho ancora deciso se ucciderti o lasciarti vivere. Non mi piaci, non mi piace la tua fama e non mi piace il tuo nome! Spinse leggermente la lama e una goccia di sangue prese a scorrere sulla gola di Rothlario. —Sei troppo stupido, ma ti concederò il beneficio del dubbio. Tuttavia non
capisco cosa se ne faccia il re di un uomo come te: qui non ci sono vecchiette da trucidare e bambini da sgozzare. Qui non si fa commercio di schiavi! L’uomo diede come un ruggito, ma il sudore gli scendeva copioso sulla fronte. —Gettate questo inutile predone nella cella del monastero! —gridò infine l'uomo vestito di verde. —Chi sei tu che osi colpirmi, insultarmi e minacciarmi di fronte a tutti? — esclamò a quel punto Rothlario, schiumante di rabbia —Dimmelo che così potrò cercarti fino alla fine dei miei giorni! —Come vuoi —disse l’uomo —Io sono Aucario: ho combattuto i saraceni, i longobardi e molti altri popoli. Sono il capitano di Tours e tu hai violato la legge dei Franchi, offeso il Priore e messo in pericolo i pellegrini. Sarai giudicato per questo. —Avresti fatto meglio a tagliarmi la gola! —minacciò il gigantesco Rothlario mentre veniva trascinato via nella polvere legato come un malfattore —Io ti ucciderò! Io ti ucciderò! —Non sono un bambino Sassone, Rothlario: io sono Aucario di Tours e, se ci proverai, la mia scure berrà il tuo sangue! Mentre le guardie lo trascinavano via, i presenti iniziarono a lanciare sassi e sterco e qualcuno arrivò a percuoterlo con un bastone; una donna gli sputò in volto. Le guardie dovettero penare per portarlo in salvo nella cella del monastero e gli stessi monaci avevano una espressione di riprovazione. La folla acclamò Aucario e lo portò in trionfo sino alla cattedra del Vescovo, che si trovava ovviamente in San Graziano.
Il Vescovo aveva udito una grande confusione. Uscì dalla Cattedrale e per un attimo ebbe il timore che la folla di Tours volesse linciarlo. Tuttavia fu solo l’impressione di un istante. Erlingo si rese subito conto che i cittadini avevano posto su uno scudo qualcuno e lo stavano portando in trionfo. Ma quando la sua vista non più buona riuscì a distinguere Aucario gli fu quasi impossibile rivolgergli la parola. Aucario, un po’ frastornato ma sorridente, tentava di
reggersi in equilibrio su quel mare di persone. Le acclamazioni non aiutavano certo Erlingo a comprendere cosa fosse accaduto e così quando Aucario arrivò di fronte al Vescovo, questi domandò: —Scellerati, che state facendo? Qualcuno della folla rispose —Abbiamo portato il tuo Capitano in trionfo perché ha catturato Rothlario il sanguinario! Appena udito quel nome, Erlingo capì subito. —La Scara del re è già qui? —domandò stupito. Aucario, dall’alto dello scudo, tentò di rispondere al Vescovo. —Se quella è la Scara del re, allora il re non è al sicuro e nemmeno i Franchi lo sono. A quel punto, Aucario riuscì a scendere dal trionfo. —Che intendi dire? —domandò il Vescovo. —Quegli uomini si sono comportati come dei saccheggiatori: Rothlario chiedeva a gran voce una vergine e ha colpito uno dei miei uomini. Ho dovuto fermarli e uno di essi si trova all’ospedale di San Martino con tre frecce in corpo. Le loro armi sono state sequestrate. Il Vescovo scosse il capo: un’altra rogna. —Al re non piacerà questa novità. —Dovrai spiegare al tuo re —disse Aucario —che essi si sono dimostrati pericolosi, hanno minacciato la sicurezza dei pellegrini, insultato il tuo Priore e aggredito le guardie della città. Si sono comportati come dei barbari Norreni. Nell’udire il nome “Norreni”, Erlingo si segnò. Per quanto ne sapeva, Rothlario poteva benissimo essere un Norreno o un Sassone. —Il re tiene molto alla sua Scara. Non li punirà. Ma io ho nominato un Capitano proprio per proteggere la città.
—Mio Vescovo —disse Aucario— troppe cose sono successe in questi giorni. Non so se riuscirò a fare tutto ciò che mi chiedi. Due volte si è ucciso in pochi giorni. Stamani il figlio maggiore del mugnaio è stato ferito e non è in senno. Le guardie hanno dovuto arrestare il marito di Dhuoda e ho buoni motivi per credere che Wolfrida si trovi in pericolo... —Wolfrida? —disse Erlingo fingendosi sorpreso —Wolfrida effettivamente è stata sorpresa da un frate con il figlio maggiore del mugnaio. Ho punito il frate poiché ha mancato ai suoi doveri per spiarla. Quella Wolfrida? —Sì mio Vescovo —rispose Aucario —quella Wolfrida. Il Vescovo scosse il capo. —Troppe cose sono accadute in poco tempo. Fuori le mura vi è l’ambasciata di Bisanzio e presto sarà qui il re in persona con tutta la corte. Non potrai certo affrontare tutta la Scara del re. Sai che dopo ciò che hai fatto essi ti odieranno? —Sono abituato all’odio, mio Vescovo. E’ tutta la vita che mi viene data la caccia. Tuttavia mi trovo ancora su questa terra. Ciò che mi sta a cuore ora è la salvezza di Wolfrida. La folla cominciò a rumoreggiare. —Wolfrida! —Trovate Wolfrida... —Wolfrida è in pericolo... E qualcuno disse —Abbiamo visto Wolfrida all’opificio. —Mi recherò subito all’opificio —disse Aucario —Con permesso, mio Vescovo. —Vai —concesse il Vescovo. Poi si rivolse al suo servitore —Clemente, cos’è questa storia di Wolfrida? —Si dice che abbia ato la notte dal Capitano. Essa dopo il lavoro all’opificio non è uscita dalle mura, ha messo in capo un fazzoletto per camuffarsi ed è andata alla casa di Aucario. Così si dice in città. —Questo lo sapevo già, Clemente. Ma Wolfrida non è mai uscita dalle mura? —No, mio Vescovo. Lo ha ammesso lo stesso Aucario, per salvarla da una
ingiusta accusa. Una guardia ha veduto una ragazza are sotto la torre e recarsi in direzione del mulino: aveva pensato che si trattasse di Wolfrida, ma lei... —Ma lei —terminò il Vescovo —stava riscaldando il letto di Aucario. Lo sapevo già. Decisamente quella ragazza non troverà marito!
Aucario raggiunse l’opificio, ma Wolfrida non vi si trovava. —Dov’è Wolfrida? —domandò allarmato alle donne dell’opificio. —Mio Signore è uscita da tempo —rispose un’altra ragazza —Tu l’hai compromessa, mio Signore... —No, ragazza, al contrario l’ho salvata da chi l’accusava di aver bastonato il figlio del mugnaio! Ora però è in pericolo. Dov’è? —Sono qui, mio Signore... —disse la voce tremante di Wolfrida, poco distante —Mi vuoi interrogare? La ragazza teneva gli occhi bassi ed era pallida. —No. Temevo per la tua sorte. La ragazza sollevò il volto e osservò incredula Aucario. —Avvicinati —le chiese Aucario con benevolenza. La ragazza si avvicinò e abbassò di nuovo lo sguardo. —Ho dovuto rivelare il tuo segreto. Ho dovuto farlo per evitare che tu fossi consegnata al Balivo. Ti accusavano di aver bastonato il figlio del mugnaio. —Io non l’ho fatto —disse rassegnata. —Lo so —disse Aucario —tu ti trovavi con me, quando è successo. —Ora mi considerano davvero la donna di tutti —disse con voce rotta Wolfrida —Ma non mi pento di quel che ho fatto. E dopo che ti ho visto sconfiggere l’uomo più temuto del regno sono sicura che tu sia il migliore uomo che io abbia
mai incontrato. Aucario le sollevò il mento. Una piccola lacrima le solcava con discrezione il viso. Aucario comprese che Wolfrida non sarebbe mai riuscita a riscattarsi dalla sua condizione di servitù e che tutti gli uomini, da quel momento, si sarebbero sentiti in diritto di molestarla. —Rimedierò —le disse. Aucario si voltò verso la folla, che si stava nuovamente raccogliendo intorno a lui, viste le recenti gesta e il trionfo, e ad alta voce, perché tutti potessero intenderlo disse: —Ascoltate! Io intendo riscattare Wolfrida. E se essa mi vorrà io le costituirò una dote! Quindi si voltò verso la ragazza. Lo stava fissando a bocca aperta. Aveva un grande stupore disegnato sul volto. —Non preoccuparti —le disse Aucario in tono complice, avvicinandosi al suo orecchio —Guai a te se taglierai i tuoi capelli: quando sarai riscattata, ti lascerò libera di andare dove ti aggrada e di sposare colui che ti piacerà. Nessuno ora oserà farti delle proposte: nessuno, sano di mente, si metterebbe contro di me... Fece un o indietro ed un leggero ammiccamento col capo. Sorrise e si allontanò. Non vide così le lacrime che bagnavano il sorriso di Wolfrida. —Sei molto fortunata —disse una delle ragazze a Wolfrida —Io non avrò mai un uomo così —ma lei non rispose.
Aucario, giunto nei pressi delle mura, fece appena in tempo a scorgere in lontananza quella che era una lunga teoria di persone. —Tu! —disse ad una delle guardie —Corri ad avvisare Erlingo: il re sta arrivando.
L’ottima vista di Aucario, di cui egli andava così fiero, scorse che il corteo era aperto dal Balivo. L’astuto funzionario aveva fatto in modo da raggiungere il re per guidarlo verso la città. Il corteo era composto da guerrieri a cavallo, monaci a piedi e molti carri. L’avanzare dei carri rendeva lento il corteo. Erlingo ebbe così modo di arrivare e con lui il Priore di S.Graziano ed uno stuolo di frati. La voce si sparse come le fiamme di un incendio e centinaia di persone accorsero lungo la strada per vedere il re. Persino il mercante si era portato sulla strada. Aucario si accorse che da uno dei carri era disceso un personaggio ed era salito con scioltezza a cavallo. Nonostante la mole e l’età non più giovane, doveva essere ancora agile. Il cavaliere si portò alla testa del corteo e affiancò il Balivo: era re Carlo. “Com’è cambiato!” pensò il Capitano di Tours.
LA FORZA DI UN RE
La forza di un re non è soltanto nel suo esercito. Non è soltanto la forza del suo braccio destro, quello che manovra la spada. E’ anche nel suo braccio sinistro, quello che solleva lo scudo, è nei suoi occhi e nella sua mente. Un re davvero forte sa quando è il momento di mostrarsi debole. Così come deve essere inflessibile nella condanna, egli deve essere misericordioso nel perdono. Deve sapersi far rispettare e deve sapere dove e quando chinare il capo. I sovrani Longobardi non hanno mai chinato la testa di fronte al Santo Padre, i sovrani Franchi si sono inginocchiati di fronte a lui. I Longobardi sono stati sconfitti, i Franchi li hanno vinti. I popoli che fanno parte di un regno devono avere pari leggi e pari trattamento, ed un re questo deve saperlo. Un vero sovrano deve conoscere chi lo affianca, avere la capacità di leggere il cuore degli uomini per sapere se sono degni delle cariche che ricoprono. Ciò poiché chi regge una marca deve essere un buon guerriero e difendere i confini, ma chi regge un ducato deve far prosperare la terra. Guai a chi nomina un marchese inetto e un duca feroce! Quando i Longobardi sottomisero l’Italia, pensarono di usarla come loro piaceva. Chi era Longobardo non doveva mischiarsi al nativo libero né questi al servo della gleba. Così essi gettarono il seme della loro rovina: troppo pochi erano i Longobardi per sconfiggere i Franchi. E anche se essi furono buoni alleati al tempo di Carlo Martello ed insieme sconfissero i Saraceni, ciò durò poche generazioni e ben presto tornarono nemici. Così molto diversi tra loro sono i sovrani dei vari popoli. Roderico dei Visigoti morì in battaglia mentre sconfiggeva i Saraceni e così tutti i Visigoti furono sconfitti. Desiderio dei Longobardi non era adatto alla guerra ma più portato all’intrigo, non guidava le sue truppe in battaglia e perciò fu sconfitto da Carlo. Il Califfo Abd al Rahman credette che i cristiani fossero stupidi, deboli, barbari e divisi e fu inesorabilmente schiacciato a Poitiers. Alfonso il Casto delle Asturie resiste ai Saraceni e vince le sue battaglie poiché è convinto che Dio sia con lui e quando scende in guerra tutti sanno che è San Giacomo a guidare le sue truppe. Carlo il grande, re dei Franchi, combatte ma non si espone inutilmente. Soprattutto sa come trattare il suo popolo e come e quando e davanti a chi deve chinare il capo. Il corteo di Carlo giunse ben presto nei pressi di San Martino e Carlo lo apriva
accompagnato dal Balivo. Lo seguiva il gracile Carlomanno, ribattezzato Pipino e fratellastro di Pipino il gobbo, macilento e dall’inadeguata muscolatura, reso ancora più pallido dalla sopravveste azzurra e dalla sproporzionata spada. Carlo era alto e pesante, forte, i lunghi baffi curati che gli pendevano intorno alla bocca e scendevano alla mascella ed un naso leggermente schiacciato. Il re dei Franchi indossava solamente un abito di pelle di montone da un soldo che gli lasciava nude le braccia e le sue brache terminavano in un paio di comodi stivali di cuoio, quasi come l’ultimo dei porcari del regno. Portava un corno a tracolla, un elmo in capo ed una grossa spada era allacciata al suo fianco sinistro. Il suo lungo mantello di lana grezza non doveva essere diverso da quello che portava San Martino quando egli lo tagliò per dividerlo con un povero. Carlo vestiva panni di nullo pregio e ciò gli dava un insopportabile orgoglio di re. Ben diversi erano gli abiti del suo seguito. Parati a festa essi sfilavano impettiti e bardati con piume di uccelli e guarnizioni di seta, portavano colli e mantelli di montone con piume nere, che luccicavano al sole, ornati di porpora e di nastri color limone; alcuni indossavano pellicce di martora, altri ancora di ermellino. Le donne portavano eleganti abiti dai colori vistosi e specialmente azzurri, come le sue splendide e forti figlie, le quali sfoggiavano vesti con risvolti ricamati e nastri pregiati tra i capelli. Solo Pipino, il gobbo primogenito di Carlo, portava una pelle di montone come quella di Carlo, ma egli era gobbo e perciò chiudeva il corteo a bordo dell’ultimo dei carri, su cui il padre l’aveva ingiustamente relegato. Il corteo si fermò davanti a San Martino, ove la folla dei monaci, guidata dal Priore, si parava davanti al Vescovo Erlingo il quale, paludato per l’occasione con tutti i segni della sua carica, attendeva Carlo all’interno nella navata principale. Il Priore di San Martino si mosse in avanti. Egli suppliva il suo Abate, in viaggio a Roma per incontrare il Santo Padre. —Grande re —esordì il Priore —Tu sei giunto a San Martino, prima delle mura della città di Tours. Qui è custodita la tomba del Santo più importante dell’occidente dopo Pietro e Paolo. Qui vennero da pellegrini re Clodoveo e Clotilde, Santa Genoveffa di Parigi e San Colombano dall’Irlanda. Qui soggiornò Carlo tuo nonno, qui venne a prostrarsi Pipino tuo padre. Ti supplico perciò di venire a pregare nella casa di Dio.
Carlo scese agilmente da cavallo, consegnò le briglie ad un servente. Poi tolse l’elmo ed il corno, slacciò la spada e li consegnò al Balivo, il quale lo seguiva compunto nella sua funzione come soltanto un uomo fedele al suo re può esserlo. Le campane di Tours, tutte insieme, si misero a suonare. Carlo si inginocchiò, riunì le mani nel segno feudale. Il Priore gli offrì dell’Acqua Santa. Quindi Carlo si segnò cristianamente. Allora il Priore, emozionato, gli fece portare l’Evangeliario e l’incenso e Carlo li baciò. I monaci si voltarono allora in processione verso la Basilica ed il re si alzò e li seguì. Davanti al Vescovo erano stati preparati dei tappeti, proprio di fronte all’altare maggiore. Carlo si inginocchiò davanti al Vescovo e si adagiò prono a terra, le braccia a croce, senza proferire parola. Tutta la folla allora si segnò e si inginocchiò a sua volta: se il re si prostrava, come potevano dei semplici cittadini o degli umili servi restare in piedi? Erlingo disse in tono solenne —Sii tu il benvenuto, Carlo. Benvenuto a San Martino: il tuo pellegrinaggio è gradito come gradita è la visita che Tours riceve dal suo re! Tu vieni a rendere omaggio al Santo delle Gallie! Carlo si alzò e si mise in ginocchio di fronte al Vescovo, il quale lo benedisse. A voce alta il sovrano recitò le parole del canto del pellegrino: “E ultreia, e sus eia, Deus aia nos”. E oltre, e al di sopra, Dio ci aiuta. Erlingo chinò leggermente il capo e si fece da parte alla destra del re. I frati presero a cantare un salmo di giubilo e Carlo si raccolse finalmente in preghiera.
LE VIRTU’ DEI SOVRANI
Fede, Speranza e Carità sono le virtù teologali del cristiano: la Fede è fondamentale poiché senza di essa non vi è salvezza: tutto è perduto senza l’assenso della ragione e l’adesione della volontà, mossa da Dio a mezzo della Grazia, alla verità rivelata; la Speranza è necessaria o l’uomo non riuscirà ad abbandonarsi tra le braccia di Dio nella sicura attesa della beatitudine eterna e dell’assistenza della Grazia di Dio per conseguirla; la Carità è fondamentale, senza di essa non vi è amore per il prossimo né amor di Dio. Tutte virtù, queste, necessarie ad ogni uomo che si professi cristiano. Un uomo che non possieda queste tre virtù sovente cade preda della follia o della superstizione, a volte termina il suo cammino nella disperazione, spesso non ha altra remora morale che il suo personale concetto dell’onore. E così è per la maggior parte degli uomini. Fortezza, Giustizia, Prudenza e Temperanza sono invece le virtù cardinali del buon cristiano. Fortezza è uno dei sette doni dello Spirito Santo e non molti sono gli uomini che, provati dalle avversità, mantengono la propria Fede; Giustizia è uno degli attributi di Dio e davvero pochi sono gli uomini Giusti; Prudenza, che è la prima delle virtù, consente di distinguere il bene dal male e fa operare secondo retta ragione, ma pochi sono gli uomini prudenti; Temperanza è necessaria oppure gli istinti più bruti domineranno l’uomo. Non tutti gli uomini sanno frenare gli istinti, eppure pochi sono gli uomini davvero intemperanti. Un buon re (un buon re cristiano) tutte queste virtù dovrebbe avere. Un buon re dovrebbe essere soprattutto giusto, temperante, forte e prudente. Ma una cosa occorre però ai re che non è prevista dalla Santa Chiesa: Pazienza. E la pazienza è una virtù che spesso manca proprio ai sovrani. —Chi ha messo in cella la mia Scara? —tuonò re Carlo una volta messo al corrente —Dove è stato gettato Rothlario? Le volte risuonavano della sua ira. Il re era furioso. Aveva appena preso alloggio nella dimora di Erlingo e gli era giunta notizia dei quattro cavalieri della sua avanguardia.
Il Priore di S.Graziano si era lasciato sfuggire inopinatamente la notizia. Sarebbe stato più prudente far dare la nuova al re da Erlingo. Il Priore aveva avuto un eccesso di zelo, credendo che il re avrebbe approvato il gesto. —Rothlario non può essere giudicato che da suo re! Lui fa parte della mia scara! E’ uno degli uomini più forti della mia scorta! Dov’è quel cialtrone del Vescovo? Carlo si muoveva mulinando i pugni all’aria. —Dov’è Erlingo? Portatemelo! —Ma mio Signore... —abbozzò il Priore tentando di ammansirlo. —Mio Signore nel tuo cesso! —gridò irato Carlo —Portami qui subito il tuo Vescovo! —Sì, mio Signore... —disse timidamente il Priore allontanandosi. Ma non ebbe il tempo di aprire la porta che si trovò proprio di fronte al suo Vescovo, il quale portava indosso tutti i segni esteriori della sua carica ecclesiastica. Il Vescovo lo guardò negli occhi. Il Priore era pallido come un cencio e non disse una parola. Erlingo lo guardò con disapprovazione ed entrò. —Per la cloaca romana di Parisium! —esclamò Carlo quando si avvide della figura del nuovo arrivato —Come ti è venuto in mente di far arrestare la mia Scara? Il Vescovo fece qualche o avanti e si fermò bene in vista, proprio là dove la luce che entrava della finestra aperta disegnava un grande, etereo alone. Piantò bene in terra il suo pastorale e alzò il mento. L’alta Mitra gli dava un aspetto imponente e il pallio crociato luccicava alla luce del sole come se fosse stato tutto d’oro. Erlingo dava l’impressione di avere intorno un’aura soprannaturale. —Grande re —disse con tono studiato il Vescovo —tempera la tua ira. Il mio Capitano ha dovuto fermare i tuoi cavalieri a causa del loro comportamento: hanno aggredito le guardie della città, terrorizzato i pellegrini che si recano alla tomba del Santo, creato scompiglio tra la gente di Tours e Rothlario reclamava a gran voce una vergine per il suo piacere. Carlo, udito l’invito a temperarsi, si trattenne. —Se è per questo potevate dormire sonni tranquilli —disse il re —A Tours, di
vergini non se ne vede dai tempi di mio padre! Erlingo sollevò il sopracciglio destro ma abbozzò. Poi Carlo si avvide della novità che il Vescovo gli aveva annunciato. —Erlingo: da quando hai un “capitano”? —domandò stupito. —Da quando ho ritenuto necessario proteggere la città dai delitti e rendere sicura la permanenza del mio re... —Ah! —esclamò Carlo —il Vescovo di Tours vuole proteggere il suo re arrestando la sua scorta? Senti, Erlingo: chi hai ingaggiato per proteggere il tuo re, un predone saraceno? Un sassone pagano? Un norreno in cerca di bottino? —No —disse Erlingo —viene dalla Longobardia... A questa rivelazione, Carlo si mise a ridere sguaiato, come se si trovasse con i suoi amici più fidati. —Hai assoldato un Longobardo per proteggere il re dei Franchi? Ma se non è riuscito a proteggere Desiderio e Adelchi da me, come potrà mai difendere me da chiunque altro? —Mi è bastato vederlo combattere: nell’ordalia ha sconfitto il tuo Balivo, poi ha impedito un assassinio due volte, sconfitto un uomo che l’aveva attaccato da terga, disarcionato Rothlario e arrestato la tua valorosa Scara. Tutto questo in soli due giorni. Il sorriso si smorzò sul volto del re. Carlo si fece serio. —Per mille pastinache —disse Carlo —chi mai sei andato ad assoldare? Rothlario è il più forte cavaliere della mia scorta e il Balivo è un veterano. —Era in pellegrinaggio a Tours —rispose Erlingo —E’ arrivato proprio il giorno stesso in cui abbiamo ritrovato un uomo assassinato. —Che bella notizia che mi dai, Vescovo! —esclamò Carlo —E quale rapporto vi è tra le due cose?
—Egli potrebbe trovarne l’assassino. Carlo si lisciò i baffi, pensoso. —Intendi dire che conosce l’assassino? —Intendo dire che si tratta di un guerriero forte e di un uomo colto e dal grande acume. —Potrebbero essere stati dei predoni —disse Carlo —sono pagani che si nascondono nelle foreste, come i Sassoni. —E poi c’è l’omicidio del Sagrestano di S.Martino... —Cosa? —esclamò Carlo —Quale omicidio? —E’ avvenuto da poco... —disse Erlingo. —Come sarebbe a dire “è avvenuto da poco”? —sbottò Carlo —Mi hai appena detto di un delitto. Sommato a quello precedente, se non sono diventato un Bavaro, dovrebbe fare due delitti in pochi giorni! Cos’altro mi stai nascondendo, Erlingo? —Non ti nascondo nulla, grande re —disse in tono asciutto Erlingo —Ti sto spiegando per quale ragione ho assoldato un capitano... Il re mise il capo tra le mani ed emise una sorta di grugnito. —Erlingo —disse Carlo —Cos’altro dovrei sapere, che già non mi sia stato detto? —Abbiamo avuto qualche disordine a Tours, a causa di una famiglia del luogo, ma il mio capitano ha risolto tutto prima dell’arrivo dei tuoi uomini. —Non mi piace che si faccia scorrere sangue in città quando sto per farvi visita —disse Carlo. —Non è stata fatta scorrere una goccia di sangue prima dell’arrivo della tua scorta.... Carlo sollevò lo sguardo e lo piantò negli occhi del Vescovo.
—Cosa intendi dire? —disse minaccioso. —Uno dei tuoi cavalieri è stato ferito da tre frecce e ora si trova nell’ospedale di S.Martino... —Ah! Per la barba di Arichi! Come osi darmi una notizia come questa? —Tu me l’hai chiesta. —E meno male che non ha fatto scorrere sangue! —Il tuo cavaliere si rimetterà presto —disse con tono rassicurante Erlingo —E poi il mio Capitano conosce i bizantini, è stato a Roma e a Costantinopoli e con l’ambasciata dell’Imperatore in città... —Cosa? —esclamò Carlo —c’è una ambasciata di Bisanzio e non ne sono stato informato? Il re si alzò imprecando —Ma perché non sono stato subito informato? Quante volte dovrò ripetervi che il re deve sempre essere informato delle ambascerie che giungono per lui? Ah, per la tonaca del Califfo di Cordova e di tutte le sue mutande sporche! —Non ti preoccupare, mio re —disse Erlingo, domandandosi per quale misteriosa ragione il Balivo non avesse avvisato il sovrano —E’ tutto sotto controllo. Il mio Capitano vigila. Sta ora indagando sull’aggressione al figlio del mugnaio che... —Bada, Erlingo —disse Carlo puntando verso di lui il dito indice —che il re non ha così tanta pazienza. Le tue parole mi hanno messo fin troppo alla prova: se tu non portassi quel pallio ti avrei già preso a ceffoni! Cos’altro devo sapere? Cosa? —Credo che tu già sappia tutto: un uomo è stato ucciso da un cavaliere franco e trasportato sulla porta della foresteria di S.Martino, in piena notte. Poi, sempre di notte, il Sagrestano è stato assassinato ed è stato trovato il giorno fatto con indosso soltanto una pelle di lupo. Poi qualcuno ha bastonato il figlio del mugnaio, ma forse questa volta è una storia di mutande —sminuì il Vescovo. Carlo, silenziosamente, rifletteva, il mento appoggiato alla mano destra.
—Cercate di trovare questi assassini al più presto: dovranno essere puniti pubblicamente. E questo tuo “capitano”... —aggiunse Carlo —come fai a dire che è così valente? —Nei fatti l’ha dimostrato. E ha dato prova di un acume logico davvero unico. Mi è sembrato la cosa migliore per proteggere il re. Tra l’altro, sono stati i bizantini ad avvisarci del tuo arrivo, ben prima che tu decidessi di farlo. —Non era previsto che assi da qui —disse Carlo stupito —Come potevano sapere, dei bizantini, che mi sarei diretto a Tours? —Non so, mio re. Ma qui, l’unico che sia stato a Costantinopoli è il mio Capitano. Lo chiederò a lui. —E va bene —disse Carlo dopo una sorta di grugnito —Digli di tenere gli occhi ben aperti. E ora fai portare i miei uomini qui. Quelli che sono stati arrestati, intendo... La cosa suonava come un ordine. Erlingo abbozzò con soddisfazione celata: era riuscito a dare tutte le cattive notizie al re senza problemi. —Sarà subito fatto —disse Erlingo. Poi si allontanò, uscendo dalla porta. —Balivo! —gridò Carlo a gran voce —Portami la corona: subito!
LA MISERICORDIA
Esiste un sentimento che induce alla comprensione, alla pietà, al perdono del nostro prossimo: la misericordia. Essa è una virtù cristiana per eccellenza. Gli antichi non avevano misericordia e pochi sono gli esempi di essa nei libri romani di Livio e Tacito. Non vi fu misericordia per i cristiani, non ve ne fu per Nerone. Indulgenza è un comportamento misericordioso, soprattutto se è riferito ad una pena severa, al perdono circa il giudizio su azioni riprovevoli. I cristiani rimettono con essa le pene temporali che la chiesa concede ai vivi insieme all’assoluzione dei peccati, ai morti in titolo di suffragio. Clemenza è la qualità di chi giudica evitando di infierire con una punizione troppo dura nei confronti di chi ha sbagliato. “Rimetti a noi i nostri debiti” dice la preghiera “come noi li rimettiamo ai nostri debitori”. In virtù di ciò, il dilemma di un giudice diviene a maggior ragione più intricato quanto più importante è il giudicante, si fa così impervio come un sentiero di montagna. E quanto più elevato è il giudice, tanto più clemente deve essere il suo giudizio. —Vedrai che bel servizietto ti farà il re! —ringhiò Rothlario ridendo, rivolto ad Aucario. —Lo vedremo presto —disse Aucario imibile —il re vuole tutti voi al suo cospetto. —Per questo ti sei messo l’elmo! —lo derise uno dei prigionieri —per riparare il tuo cranio da ciò che l’aspetta! Aucario non rispose. Dentro il suo grosso elmo d’acciaio, sotto la maglia di ferro, il suo cuore batteva forte. Fece segno alle guardie di far uscire i prigionieri. —Povero Capitano! —disse in tono di finta comione uno dei cavalieri della Scara —Adesso ti conviene indossare le tue armi, perché per pascolare i porci nel bosco non ti serviranno più... —Io ho sentito dire che c’è una miniera d’argento ad alcune settimane di marcia. Se usa così bene il martello, forse riuscirà ad estrarne tanto...
—Meglio una cava di pietra —disse Rothlario —almeno troverà qualcosa di più duro della sua testa! Aucario non rispose ad alcuna provocazione e li scortò, con una delle guardie, ove il re aveva eletto residenza. Due fanti della scara del re, con grosse asce franche, montavano la guardia alla porta. —Fateci entrare, pedoni! —disse Rothlario ai due —Che il re deve fare i conti con questo cialtrone! I due non risposero e fecero largo. Il re stava seduto su una sedia larga e alta, di proprietà del Vescovo. Aveva fatto porre la sedia su una pedana. Posto così in alto, su quel seggio elaborato, la già massiccia figura di Carlo era imponente. Il re aveva sul capo la corona dei Franchi e stringeva tra le mani un bastone scolpito in forma di ramo di gigli. Poco discosto, un monaco immobile assisteva alla scena. Ai lati della sala altri due fanti della scara con le loro asce erano altrettanto immobili. Appena entrati nella sala, Rothlario si aprì in un grande sorriso. —Questo bifolco... —disse ammiccando ad Aucario. Ma fu subito interrotto. —Silenzio! —gridò il re trattenendo a stento l’ira. Rothlario, stupito, tentò di ribattere. —Siamo stati attaccati... —Silenzio! —gridò nuovamente Carlo. Questa volta si alzò in piedi in tutta la sua statura e puntò il bastone verso il gruppo. —Voi tre vi siete comportati come dei Frisoni in cerca di saccheggio! —urlò il re —La mia scorta personale che entra in città, aggredisce le guardie, spaventa i cittadini e peggio ancora i pellegrini che vengono da ogni dove per venerare San Martino! Ah per l’amor del cielo! Cosa mi trattiene dal farvi appendere ad un palo per i piedi? Cosa penserà oggi tutta questa gente del suo re? Che la sua scorta è formata di ladri e tagliagole! Cosa vi è saltato in mente di fare? Sono giorni che non ho vostre notizie e ho dovuto averle dal Vescovo! “Il mio capitano ha dovuto fermare i tuoi guerrieri a causa del loro comportamento”...
Vergognatevi! Qui non siamo in Sassonia e non vi sono pagani da punire: domani questa gente tornerà alle proprie case e racconterà a tutti ciò che la scorta del re ha tentato di fare! E tutto questo in presenza dell’ambasciatore di Bisanzio! Rognosi pidocchiosi squallidi selvaggi: ecco ciò che diranno di voi. Decine di battaglie vinte saranno offuscate da un cretino che reclama a gran voce una “verginella” e viene gettato nella polvere dalle guardie della città: ecco cosa ricorderanno! Rothlario, io vorrei spaccare quel tuo cranio vuoto! Cosa vi eravate messi in testa di fare? Essere la mia scara non vi mette al di sopra della legge dell’uomo o di quella di Dio. Carlo aveva alzato il volto al cielo e aperto le braccia per sottolineare il concetto. —Sarete tutti puniti! —gridò il re —Guardie! Siano gettati nella cella del convento a pane e acqua. Poi deciderò che fare di loro! E poi farò i conti anche col ferito! —Mio re —disse allora Rothlario —Ti abbiamo sempre servito bene... —Sì —disse il re —e ne terrò conto. Guardie, portateli via! —Tu no! —disse ad Aucario, il quale stava per accompagnarli. Quando i tre furono fuori, Carlo disse ad Aucario: —Non osare mai più ferire uno degli uomini della mia scara. Il Capitano non rispose. Carlo fissò gli occhi nei suoi. Quello sguardo non gli era nuovo. —Ci siamo già incontrati? —Gli domandò. —A Verona certamente. —L’ultima vittoria contro i Longobardi... —disse Carlo —Non mi ricordo di te. Ma sono sicuro che ho già incrociato il tuo sguardo. Aucario restò imibile. Carlo fece segno che poteva andare. Il Capitano si voltò e fece per uscire, ma il re lo richiamò.
—Come hai fatto a sconfiggere Rothlario? —E’ stato facile —rispose Aucario —Era troppo sicuro di vincere.
OGNI COSA HA UN SUO PREZZO
Ogni cosa ha un suo prezzo, nel regno dei Franchi, così come vuole la Lex Ribuaria. Il prezzo di uno stallone è di 12 soldi, 3 soldi una cavalla, un elmetto 6; per una lorica ne occorrono 12 e per una spada con fodero 7, mentre ne bastano 2 per una lancia e uno scudo. Ma per chi venisse dalle terre di Bisanzio, questi numeri non sarebbero familiari. E allora è necessario che si sappia che un bue vale 3 soldi e 3 ne vale una vacca ed un soldo una giacca di montone. Nell’anno di Nostro Signore 775, a Milano il prezzo di un ragazzo Franco era di 12 soldi. Una tremisse d’oro permette ad un uomo di vivere nel lusso sfrenato per un mese. Il soldo vale 12 denari d’argento, ovvero 24 oboli. Tutto si misura a dozzina, dai cavoli alle uova, dalla pastinaca alle rape. Questa, la scala dei valori. E non era infrequente che un uomo vendesse se stesso per sfamare la famiglia. Tutti i Franchi liberi sono tenuti a servire l’esercito del re, salvo gli esenti, più utili a casa. E allora è presto fatto il conto di quanto gli costino le armi: due vacche per un elmo, tre buoi per lancia, scudo e spada. Una brunia di cuoio con placche di metallo può costare quanto due stalloni. Essere chiamati alle armi ogni anno, se non si è ricchi, può essere una rovina. Solo i Conti portano la brunia e pochi fanti la spada. Non è raro che uomini vadano al raduno con la scure franca, alcuni sono così poveri che si presentano con semplici bastoni ed occorre trovare un garante per dar loro una lancia o una roncola che si trovano sui carri della scorta: essi sperano nella sorte benigna che comporta l’acquisizione delle armi del nemico. Ecco perciò che al raduno si presentano con armi di ogni tipo, dei Sassoni, dei Saraceni, dei Frisoni, degli Avari. Variopinta è diventata, con il tempo, l’enorme armata di Carlo. Anche i servi sono tenuti al raduno se ciò gli è chiesto dal Conte, ma il Conte deve fornire loro le armi e i cavalli, poiché il servo è tenuto a seguire il padrone con lo stesso mezzo e dunque va armato con elmo, arco e due spade. Questi i prezzi, fissati dal re per evitare che sia fatta speculazione in tempo di bisogno. Ma alcune cose tra i Franchi abbondano ed altre scarseggiano. Abbonda il vino, abbonda il grano, scarseggia il tessuto ed i contadini barattano al mercato le eccedenze. E’ stato un buon anno, il 781, e non vi sono state grosse guerre con i Sassoni. I contadini hanno prodotti da vendere e comprare, da barattare. Ma non vi è alcuno che porti cose nuove. Solo i signori, nella loro ricchezza, possono avere cose di lusso, se
trovano un mercante che le venda loro. Nelle terre dei Franchi, soltanto qualche ebreo di Spagna ha delle cose di valore. In Italia, veneziani e bizantini. Ma l’Italia è lontana e nessun veneziano si arrischia nelle terre dei Franchi, troppo vicine ai Saraceni. —Il vino di queste parti è davvero ottimo! Alcuino di York sottolineò con un sorriso la sua affermazione. —Com’è il vino delle vostre parti? —domandò Erlingo, nell’attesa che il suo segretario terminasse la stesura dell’atto di manomissione. —Eh! —gli rispose con rassegnazione Alcuino —Quel poco che si trova non ha corpo. Nella mia terra natale la vite non dà grande frutto. In tutto il mio viaggio sino a Roma e poi a Pavia e poi qui a Tours ho avuto modo di assaggiare ogni sorta di vino: bianco, nero, rosato... E tutti sono davvero migliori di quello che si trova nella mia terra... —Hai avuto modo di assaggiare quello greco? —domandò improvvisamente Aucario. Erlingo lanciò un’occhiata malevola al suo visdomine. —No, Capitano — gli rispose in tono stupito —non mi sono spinto tanto lontano da assaggiarne e, come sai, qui non ne giunge. Tu l’hai forse assaggiato? —Sì —rispose Aucario. —Hai dunque viaggiato sino alle terre di Arichi? —Anche oltre: mi sono spinto a Costantinopoli ed ho assaggiato i loro vini speziati. —E come sono? —domandò Alcuino curioso. —Non ti piacerebbero, questo è certo. Hanno grande corpo, troppo. Così a Bisanzio speziano i loro vini con la resina, con l’acqua di mare e con molte altre stranezze. —Acqua di mare? —disse con orrore Alcuino.
—Sì —rispose ridacchiando Aucario. —E poi dicono di noi che siamo barbari! —esclamò divertito l'uomo di York. —Uno dei loro vini, bevuto caldo e bollito con certe spezie dal sapore forte, viene addolcito con il miele e guarisce il raffreddore. —Un vino corposo farebbe la fortuna dei mercanti che avessero il coraggio di trasportarne nella mia terra... —disse sospirando Alcuino —Sto meditando di fermarmi qui. Erlingo sbuffò. L’atto di manomissione di Wolfrida richiedeva troppo tempo. —Allora? Questo documento è completo o dovremo aspettare la notte? —Eccolo, mio Signore —esclamò il segretario —occorre soltanto la tua firma... —Mio caro Aucario —disse Erlingo —Sei certo di voler sposare Wolfrida? —Così ho deciso e dichiarato di fronte alla gente di Tours. Un uomo d’onore ha una sola parola. —E sta bene —disse inarcando le sopracciglia il Vescovo Erlingo —allora il mio dono è la manomissione della serva Wolfrida. Da oggi è libera da ogni servaggio e vi aggiungo come ulteriore dono che non avrà l’obbligo di servizio nemmeno come liberta. —Grazie mio Vescovo —disse Aucario, abbassando leggermente il capo in segno di deferenza —Sarei stato in grado di pagare il suo riscatto, sei stato molto generoso. —Pensa a catturare gli assassini e mi riterrò ripagato. A proposito: intendi far valere un contratto di matrimonio o ti accontenterai della Freundlehe dei Franchi? —No, mio Vescovo, non intendo un semplice rapporto di convivenza, intendo legittimare Wolfrida a tutti gli effetti. Le costituirò una dote così com’è uso tra i Franchi. Un vero contratto di matrimonio. —Intendi donarle un terreno coltivabile? —domandò Erlingo mentre apponeva il
proprio sigillo all’atto. —No —rispose seccamente Aucario —Le costituisco una dote di due tremisse d’oro. Nella sala scese un silenzio impressionante, interrotto dal rumore causato dalla caduta del segretario dallo scranno che stava occupando. L’uditorio era travolto letteralmente dallo stupore. —Sarai tu, mio Vescovo, a prendere atto della dote, e Alcuino ne sarà testimone. Erlingo fissò stupito Aucario. —Come puoi possedere tanto denaro? —domandò. —Ho molto peregrinato, molto combattuto, e ho servito molti sovrani. —E tu vuoi ora lasciare questo tesoro a Wolfrida? —domandò stupito Alcuino. —Non sono più giovane —disse con noncuranza Aucario —e se dovessi malauguratamente “partire”, avrò lasciato a Wolfrida di che vivere per il resto dei suoi giorni. Alcuino diede una grande pacca sulla spalla di Aucario. —Quest’uomo mi piace! —disse bonario —Intelligente, coraggioso e generoso. Mia cara ragazza, non lasciartelo sfuggire! Wolfrida era rimasta a bocca aperta. —Quanto... Quanto valgono due tremisse? —domandò emozionata. —Molte, molte lire! —esclamò Erlingo —Ogni lira vale venti soldi ovvero 240 denari. Sei ricca, Wolfrida. —Io... Io non sapevo... —disse Wolfrida —Io non voglio i suoi soldi. Mi bastava un matrimonio... Le girava la testa, ebbe come un mancamento e Alcuino fu pronto ad afferrarla prima che cadesse.
—Figliola —le disse sottovoce —Hai un marito, sei libera e ricca: chiudi la tua bocca prima che Erlingo ci ripensi... Wolfrida si riprese quasi subito. —Mio Signore —disse ad Aucario —Avrai sempre la mia gratitudine: sei un uomo molto generoso. —Certo, certo —sbottò Erlingo —E adesso per favore lasciatemi in pace che ho degli affari da sbrigare. L’affabile Alcuino prese i due sottobraccio e li trascinò fuori. —Un bel sestario di vino ci vuole! —esclamò —Ci penso io agli sposi!
CHIEDERE LA MANO
La famiglia, presso i Franchi, non è soltanto formata dai discendenti di uno stesso padre. La famiglia è formata dai discendenti di una stessa madre, dai parenti acquisiti mediante matrimonio, da cognati, nipoti e figli più o meno legittimi, ovvero nati da una Freundlehe o da un regolare contratto di matrimonio. Sposare una donna o un uomo significa formare una unica famiglia con la sua parentela. Una famiglia molto allargata. Ciò spiega per quale ragione i nobili tentino di imparentarsi con la famiglia del re. Persino i servi del demanio reale hanno uno status superiore a quello dei liberi che lavorano la terra per proprio conto, e ne vanno fieri. Sposare un servo del demanio è considerato più onorevole che sposare un libero povero. Tuttavia una donna serva, che sposi un libero, può diventare libera essa stessa se il suo sposo ha facoltà di pagarne il riscatto oppure se il padrone, così come incoraggia la Chiesa, la affranca come dono di nozze. L’uso dei Franchi è che il marito fornisca una dote alla futura moglie, in modo che la sua eventuale morte non la lasci senza dignitosi mezzi per vivere. Ma chiedere la mano di una principessa è cosa che nemmeno i nobili di più alto rango osano fare con disinvoltura. E così neppure i sovrani Inglesi e dell’Hibernia osano tanto. Il popolo si è domandato spesso quale destino attendesse le figlie di Carlo, ben sapendo che Carlo ne è sempre stato molto geloso al punto di volerle sempre con sé quando non si trovasse in guerra. Ma da una terra ben più lontana che quella di Alcuino, ben più lontana dell’Hibernia di San Colombano, era appena giunta a Tours una ambasceria di tutto rispetto, ed il re si stava preparando ad incontrarne l’ambasciatore. Re Carlo sedeva su un trono di legno, posto su un apposito palco e stringeva nella mano destra una grande mazza nodosa di legno di melo scolpito a gigli, col pomo d’oro e d’argento, che era il suo scettro. —Grande e nobile Carlo, re dei Franchi, dei Longobardi, dei Sassoni e degli Aquitani —disse l’ambasciatore in buon latino, inchinandosi in modo disinvolto — ricorderai che quando tuo padre Pipino ebbe giustamente la sua corona di re, il nostro Serenissimo Imperatore mandò un’ambasceria d’amicizia per il popolo dei Franchi. —Sì, ambasciatore —rispose Carlo in perfetto latino, appena velato da una
leggera inflessione —ricordo anche il dono che gli portaste: un elaborato strumento musicale dal suono misterioso e che fu possibile usare soltanto grazie all’abilità del musicista che l’accompagnava. —Purtroppo Pipino ebbe un regno troppo breve —proseguì l’ambasciatore — così come troppo presto è venuto a mancare il nostro Imperatore. L’Impero è ora tenuto dalla nobilissima Basilissa Irene in nome di suo figlio Costantino VI che sarà presto Imperatore. Ma anche il regno che ora è retto dalle tue forti spalle è un regno potente che confina con l’Impero ed ha gli stessi nemici dell’Impero: gli Avari e i Saraceni. —Ciò che mi stai dicendo è pura verità —disse Carlo, impaziente di conoscere la ragione dell’ambasceria —siamo nemici degli stessi pagani. —Ebbene —proseguì con affettazione il diplomatico —Se il Cristianissimo re dei Franchi e la Cristianissima, graziosissima Basilissa, sovrani dei più potenti stati cristiani hanno gli stessi nemici, la cosa più opportuna per i due popoli, ovvero quello dei Romani e quello dei Franchi, è una unione che protegga i cristiani, recuperi i luoghi santi di Gerusalemme e prevenga conflitti tra i due popoli. Carlo appoggiò il mento alla sua mano sinistra ed il lungo scettro di legno scolpito che teneva con la destra lo appoggiò in grembo. La cosa si stava facendo interessante. —Mi stai proponendo un trattato, ambasciatore? —No, grande re dei Franchi —disse l’ambasciatore— sarebbe troppo poca cosa per l’Imperatrice dei cristiani e per il Cristianissimo re dei Franchi: la nostra Imperatrice, a nome e per conto di suo figlio Costantino VI, che sarà un giorno Imperatore dei cristiani, chiede la mano di tua figlia Rotruda e, se tu accetterai, essa sarà un giorno Basilissa come ora lo è la graziosissima Irene. L’affermazione causò un mormorio di sorpresa, un rumore meravigliato di tante bocche e molti commentarono con stupore la proposta di Bisanzio. Carlo, sorpreso, si tirò indietro e rizzò lo scettro di legno come fosse la sua magnifica spada ingioiellata. —Se tu accetterai —proseguì dopo qualche istante— i nostri comuni nemici non
avranno scampo. —La tua Imperatrice sa quanto mi stiano a cuore gli interessi della cristianità. Mio nonno Carlo fermò i Saraceni poco lontano da qui: le ossa degli invasori, sparse per molte leghe, sono ancora oggi un monito contro i barbari. Io stesso mi sono spinto in quelle che furono le terre di re Roderico, ne ho liberata una parte ed ho accolto nelle terre dei Franchi quei Visigoti che hanno voluto fuggire dal giogo del Califfo. Quanto agli Avari, essi molestano da troppo tempo l’Italia e sto meditando sinceramente di cancellarli per sempre dalla Storia. La tua offerta è interessante. Tuttavia tu sai che Rotruda è ancora una bambina e non è uso dei Franchi maritare una bambina come fanno i Saraceni. —Lo so grande re —disse l’ambasciatore, inchinandosi ancora una volta— anche Costantino è un bambino. Se tu accetterai, essi saranno uniti in matrimonio quando ne avranno l’età. —Grazie, ambasciatore. E’ un onore, quello che la tua sovrana propone. Ma è uso dei Franchi chiedere il parere degli interessati per non unirli in matrimonio contro la loro volontà. E se il mio potrebbe essere favorevole, occorre che lo siano anche i promessi sposi. —Conosciamo gli usi e la legge dei Franchi —disse pomposamente l’ambasciatore— e posso garantire che il nostro Serenissimo Costantino è favorevole. —Ottimo —commentò Carlo senza convinzione —devo domandare a Rotruda. A proposito: perché avete scelto tra le mie figlie proprio lei? —Grande re —disse con semplicità— la bellezza e la robustezza delle tue figlie sono a dir poco leggendarie. Rotruda è stata scelta poiché ha l’età più adatta a quella del nostro sovrano. Se Rotruda accetterà, il sangue dei Franchi scorrerà nelle vene degli Imperatori di Roma! L’ambasciatore accompagnò l’ultima esclamazione con un grande gesto del suo braccio, come a sottolineare l’unicità dell’importanza storica. —Ringrazia la tua sovrana! —esclamò Carlo alzandosi in piedi pomposamente —se Rotruda accetterà, Franchi e Romani saranno una unica famiglia! L’ambasciatore si inchinò ancora.
—Grande re, ti rechiamo doni degni della tua maestà —e fece cenno al suo seguito di trasportare ai piedi del trono i doni che vi potevano essere depositati —questo e molto di più per il grande re dei Franchi! Tutti i presenti applaudirono e inneggiarono all’avvenimento. L’ambasciatore ne approfittò per dare degli ordini al suo segretario. —Presto, comunica subito alla Basilissa che Carlo è favorevole. E’ solo questione di dettagli, come prevedevo. Inviate subito un messaggio.
IL CONSIGLIO
Un sovrano, anche potente ed energico come Carlo, non può amministrare da solo il proprio regno. Vi sono quindi tantissimi funzionari: Missi Dominici, Centenari, Balivi, Gastaldi, Sculdasci, Locopositi, Conti e persino qualche Duca Longobardo di Desiderio che ha deciso di seguire le insegne de nuovo re. Ma un re deve sempre essere attento e capire di chi può fidarsi e di chi no. A corte, i consiglieri più fidati di Carlo hanno incarichi ufficialmente insignificanti, in realtà proteggono la sua famiglia in modo discreto. Il Camerario che custodisce i beni del sovrano, il Connestabile che è il grande scudiero di corte e all’occasione comanda le armate, lo Stalliere che si occupa dei cavalli, il Siniscalco che si occupa della mensa del re ed il Coppiere che si occupa del vino, Il Conte Palatino che si occupa della sicurezza del sovrano a Corte. Di tante antiche figure, l’unica abolita già dai tempi di Pipino è quella del Maggiordomo poiché Pipino, padre di Carlo, era Maggiordomo e gli fu semplice prendere il regno all’inutile re Childerico III, un uomo che non aveva più altro rapporto con il regno che la corona, che giungeva su un carro a presiedere al raduno degli eserciti senza farne più nemmeno parte e che infine il Santo Padre autorizzò Pipino a deporre. Così, in casi rari e mai di fronte alla corte, Carlo chiedeva l’opinione dei più fedeli tra i suoi servitori. Il Camerario Adalgiso, il Connestabile Geilone, il Conte Teodorico, che aveva legami stretti di sangue con il re, il Conte di Palazzo Teodaldo, il Conte Wibodo, l’Arcicappellano Fulrado, Abate di St.Denis, ed Iterio, Abate di S.Martino di Tours, che proprio il giorno di cui parliamo era appena rientrato dal suo viaggio. Infine, il Signore del luogo, convocato per le occorrenze più importanti. —I Romani hanno portato doni molto ricchi —disse Adalgiso— dovremo in qualche modo ricambiarli. —Io non mi fido dei Romani —disse il gigantesco Wibodo con la sua roboante voce —Sono infidi, bugiardi, effeminati e ano troppo tempo a scribacchiare cose che spediscono chissà dove! —Sono molto efficienti, Wibodo —disse il Conte Palatino— vorrei avere
persone così abili al mio servizio! —Non credo che avresti vita facile —disse Teodorico— dovresti sempre far assaggiare il tuo cibo e dormire con la scara... —Dormo già con la scara —rispose il Conte Palatino. —Intendo dire che ti occorrerebbe una scara personale per tutelarti da quella del re. —Il problema —disse Carlo— non è stabilire se ci si può fidare dei Romani, ma se dobbiamo accettare l’alleanza di sangue con loro e se dietro la loro proposta si nasconde un inganno. —Io non credo che si tratti di un inganno —disse Iterio— anche a Roma non ci si può fidare di nessuno, neppure dei monaci. I Romani sono vocati all’intrigo, ma sarebbe un ben strano inganno chiedere in sposa la figlia del re Cristianissimo con lo scopo di inimicarselo. —Effettivamente —disse Geilone— abbiamo gli stessi nemici: Avari e Saraceni: un’alleanza non è una cattiva idea... —E ci permetterebbe di risolvere il problema dei Sassoni con le spalle coperte —disse Teodorico. —Io sono contrario —disse Fulrado— distruggono le immagini sacre, bruciano i monasteri, si comportano come i Saraceni che combattono. —Tu cosa pensi, Erlingo? —domandò Carlo. —Credo che non si mandi un ambasciatore tanto lontano per sfidare le ire di un grande re —rispose Erlingo— Ma se c’è una persona che può dirci qualcosa di loro è il mio nuovo Visdomine Aucario. E’ stato a Costantinopoli e conosce la Corte. Il gruppo guardò il silenzioso Aucario. —Sei stato in quei luoghi? —domandò il re. —Sono stato in quei luoghi e conosco le loro abitudini —rispose Aucario— Se
l’Imperatrice cerca un alleato è perché ne ha bisogno. La Corte di Bisanzio è infidissima, come avete giustamente affermato. I Megaduchi, fratelli e zii del defunto Imperatore, preferirebbero sostituirsi alla Basilissa come tutori del piccolo Costantino. L’esercito dei Romani è composto soltanto da sudditi dell’impero, ma le guardie del palazzo sono tutte straniere ed è per questo che gli Imperatori sopravvivono. Longobardi, Bavari, Vareghi ma soprattutto Norreni formano la guardia del corpo dei sovrani: la loro vita stessa dipende da quella del sovrano e perciò sono molto attenti e non hanno pietà dei cortigiani se li scoprono a complottare. Credo la loro sia una proposta seria ma non saprei dire altro. —Credo che tu ci abbia illuminato abbastanza —disse sorridendo Erlingo. —Vi ringrazio —disse Carlo —ora potete uscire tutti, e fate entrare qui Alcuino di York, voglio conferire con lui. —...A me i Romani non piacciono... —brontolò Wibodo uscendo. Il gruppo uscì dalla sala e Aucario incrociò lo sguardo bonario e intelligente di Alcuino. Il Capitano, già oltre la porta, si sentiva osservato. Si voltò: incrociò di nuovo lo sguardo di Alcuino che lo scrutava ed aveva assunto una espressione perplessa. Infine, usciti tutti dalla sala, Alcuino entrò. —Mio caro e grande Sovrano Carlo —esordì il saggio di York— come posso esserti utile? —Mi serve il tuo parere. Senza offendere i miei fedeli consiglieri, mi occorre una voce differente. Come devo comportarmi? Io adoro mia figlia e la semplice idea di spedirla in moglie a un bizantino mi riempie di rabbia. —E’ una proposta che non si può rifiutare —disse Alcuino. —Infatti —rispose Carlo— in un colpo solo si risolve il problema del confine italiano e dei Sassoni. Saremo liberi di cancellare per sempre gli Avari senza timore di aggressioni alle spalle. La flotta Veneta ha dimostrato di essere molto efficiente con i Saraceni e vorrei evitare altri problemi con la gente delle lagune. Un solo nemico alla volta non può tener testa neppure a metà dell’esercito dei
Franchi —disse Alcuino— ma tutti i nemici assieme, Avari, Bizantini, Saraceni, Longobardi e magari con una insurrezione sassone potrebbero rendere difficile il controllo del territorio, che è molto vasto. —Parli bene —disse Alcuino —in modo saggio: in che modo posso esserti utile? —Rotruda —disse Carlo con un sospiro— come ti ho detto posso impegnare la mia parola. Probabilmente l’idea di sposare un Imperatore potrebbe anche piacere a mia figlia, è un po’ come le antiche storie degli antenati che hanno tanto fascino sui bambini. Ma sto per separarmi dai miei figli maschi, Pipino Carlomanno re in Italia anche se ha solo quattro anni, Ludovico in Aquitania e anche lui è un piccolo re. Non sopporto l’idea di perdere Rotruda. —Amico mio —disse Alcuino— Costantino VI è un bambino al pari dei tuoi, forse un po’ più adulto. Occorreranno anni prima che Rotruda sia pronta per il matrimonio, almeno sei o sette. E in sei o sette anni possono accadere tante cose. I bizantini sanno leggere e scrivere quasi tutti, almeno i nobili. Sono fanatici religiosi, dato che l’Imperatore si pronuncia in materia di dogma e soprattutto sono i custodi dell’ortodossia, e ciò non si può ignorare: più di mille anni di storia esce dalle loro narici ogni volta che emettono un respiro e questo tutti, compresi i Saraceni, lo sanno. Per questo Costantinopoli è il loro obiettivo principale. —Dopo Poitiers non oseranno mai più attaccare i Franchi —disse Carlo— questo è certo. —Tuttavia non si può dire per lo stesso per Bisanzio... —insinuò Alcuino. —Intendi dire che l’alleanza è più utile a loro che a noi? —domandò Carlo. Alcuino scosse il capo leggermente. —Non è detto —rispose dopo aver riflettuto un istante— pensa alla possibilità di liberare i luoghi santi, o la Sardegna... —Le mie navi hanno già sconfitto più volte i Saraceni —disse Carlo— ma ogni volta tornano a farsi avanti. Via terra non ci proveranno più, ma dal mare... Sono veloci, sbarcano e razziano i monasteri, crocifiggono i monaci dopo averli sodomizzati, portano via le ragazze. I Franchi non sono un popolo di navigatori e ogni nave che affonda è una perdita che non si riesce a rimpiazzare.
—Costantinopoli è invincibile sul mare —disse Alcuino— quando i Saraceni avranno notizia dell’alleanza cominceranno a temere per le loro navi. Quanto al tuo esercito, esso non ha pari nelle terre conosciute. Carlo sospirò. —Dovrò rassegnarmi a perdere la mia Rotruda... —disse con tristezza, appoggiandosi al davanzale in pietra della finestra. —Le cose possono anche cambiare... —suggerì Alcuino— trattieni Rotruda con la scusa della legge dei Franchi e falla istruire al mestiere di sovrana. Trovale un istitutore che le insegni il latino e il greco, le lettere e l’aritmetica. Domanda un eunuco di Costantinopoli per la sua istruzione bizantina, protocollo, riti, usi e costumi della corte... Occorreranno anni e potrai portarla sempre con te. Potrai sempre decidere di rompere il patto se Bisanzio dovesse dimostrarsi infida... —Grazie, Alcuino! —disse il re sollevato dall’idea —Sapevo che mi avresti ben consigliato. Hai qualche idea per il precettore di Rotruda? —Sì, grande re —rispose Alcuino— ricordi quel diacono longobardo di nome Paolo che ti hanno presentato a Pavia? Credo che non potresti trovare un precettore migliore per tua figlia Rotruda. E per la grammatica ci sarebbe Pietro da Pisa, anche lui Longobardo. Potrai sempre dire che i precettori di tua figlia sono stati… Pietro e Paolo! —terminò furbescamente Alcuino. Il re sorrise all’idea. —L’idea mi piace: darò ordine che sia chiamato a corte. Ma il Conte Palatino mi ha riferito che Paolo è un nostalgico. E’ troppo poco tempo che sono stato tradito dal Duca del Friuli. —C’è però un lato positivo: Paolo e Pietro daranno a Rotruda un’idea differente di cosa sono i Longobardi —disse Alcuino— Rotruda non può crescere credendo che tutti siano malfidi tranne i Franchi... —Già —rispose Carlo— i Franchi sanno tradire meglio di chiunque altro, se ci si mettono. Ogni volta che penso a Hruodland rifletto su questo fatto e mi domando “Quando agiranno allo scoperto contro di me?”. Ma un giorno scoprirò chi è che ha tradito il Conte di Bretagna sui Pirenei.
—Proprio per questa ragione un’alleanza di sangue è utile. Se i Franchi si imparentassero con la dinastia che regna su Costantinopoli, i Longobardi dimenticheranno la regina Teodolinda. —Cosa intendi dire? —I Longobardi, a suo tempo, si imparentarono con la dinastia dei Bavari. Uno dei loro re, Autari, ne sposò una principessa. E’ stata una grande regina e alla morte del re si risposò con Agilulfo, Duca di Torino. I Longobardi la venerano come santa. I Franchi non possono essere da meno dei Longobardi, è una questione di prestigio, e quale maggior prestigio di un titolo imperiale? —La tua idea mi piace, anche se mi fa sanguinare il cuore. Farò come suggerisci. Tra sei o sette anni vedremo il da farsi. Alcuino sorrise soddisfatto. —Se non hai altro da domandarmi... —disse. —No, Alcuino. Sei stato davvero prezioso. Alcuino si inchinò leggermente e si incamminò verso la porta. Poi si fermò, si voltò verso il re e disse: —Quell’Aucario, il Visdomine, il Capitano di Erlingo... —Ebbene? Alcuino scosse il capo, come a fugare un dubbio. —Niente, non è importante, è soltanto un’impressione. Ti auguro una buona giornata.
LO STRANIERO
Lo straniero, tra i Franchi, si individua subito. Non soltanto per il modo di vestire: ogni popolo ha i suoi abiti, anche se i popoli germanici hanno abbigliamenti simili. Gli abiti dei contadini, in particolare, si somigliano dovunque si vada in Europa. Una braca robusta chiusa al fondo da lacci che riveste una prima braca di tela. Il piede è avvolto in un calzare di feltro con la suola cucita, anche se sulle montagne, specialmente quelle della Longobardia, si usa una spessa suola di legno, e sulla pelle una camicia di lino su cui si infila una tunica corta chiusa in vita da una cintura. I colori sono poveri, tinta naturale oppure colori economici come il marrone e il nero. Nella stagione fredda un mantello pesante ripara dal freddo. Per lavorare nei campi sono sufficienti la braca e la camicia, mentre le contadine portano una stola drappeggiata sulle spalle, una camicia simile a quella dei loro uomini ed una veste che le copre sino ai polpacci; le sposate coprono i capelli con un velo mentre le nubili hanno i capelli sciolti: le donne Franche tagliano i capelli corti dopo il matrimonio, mentre gli uomini Franchi li tengono corti e non portano solitamente la barba, soltanto folti baffoni, proprio come il loro re. I Longobardi portano invece lunghe barbe curate e lunghi capelli. Per i funzionari e i nobili, quale che sia il popolo, il discorso è differente: essi indossano solitamente pellicce pregiate, mantelli decorati con nastri e piume. I più agiati riescono a fornirsi delle stoffe veneziane che arrivano da Bisanzio ed i colori sono bizzosi: azzurri, soprattutto rossi, ed a volte un costoso verde. Qualche volta portano stoffe intessute in modo prezioso con disegni e trame geometriche. Le donne Visigote raccolgono i capelli a crocchia, le Franche li coprono con un velo. Uomini e donne del popolo, specialmente tra i Longobardi, portano cuffie. I contadini a volte tessono dei cappelli con le stoppie per ripararsi dal sole in estate. I bizantini hanno ben altri costumi. Le donne usano abbigliarsi con copricapi di feltro, vesti di lana a “T”, lunghe stole di lana con motivi geometrici e acconciano i capelli in modo elaborato; gli uomini portano tuniche al ginocchio, lunghi calzari che coprono calze aderenti e portano mantelli arrotondati, mediamente più variopinti di quelli di Franchi e Longobardi. I bizantini si rasano barba e baffi, come è la moda del momento. I nobili ed i ricchi usano vesti preziose, intessute anche con fili d’oro e d’argento, o con bordi ricamati e colorati. Ma le guardie norrene, anche se costrette ad abbigliarsi come d’uso a corte, portano barbe e baffi a volte incolti, o barbe partite in due corni, sovente capelli lunghi e fluenti a volte raccolti in
trecce. Questo dà loro un aspetto temibile e selvaggio. Il paese dei norreni è una terra povera e, si dice, inospitale. Essi commerciano pelli o vendendo poveri prodotti oppure migrano prestando servizio tra le guardie di Bisanzio e dopo qualche anno, se sopravvivono, tornano in patria ricchi e temuti. Ma in ogni popolo, i più poveri vestono pelli di pecora come quella che re Carlo usa nelle cacce. —Tu fai parte della scara di Carlo —disse Aucario— ma non sei un Franco. —Come lo hai capito? —domandò il giovane, dalla brandina. —Capelli lunghi e chiari, volto rasato. Sei Visigoto? —Sì —rispose meravigliato il giovane. —Non stupirti —disse Aucario— ho molto viaggiato. —Appartengo alle genti dei Goti —disse— la nostra gente è stata accolta tra i Franchi quando il Califfo ha ucciso Roderico. Anche tu porti i capelli lunghi, sei Goto? —No —rispose Aucario— io non appartengo ad alcuna gente. Non più, almeno. Ho molto viaggiato e perciò ho assunto usi e abitudini differenti. A volte ho portato la barba partita in corni, come i norreni. Ora l’ho tagliata come i bizantini. I capelli sono lunghi in segno di lutto, come i Romani. —Mi dispiace —disse il Goto— anch’io so cosa è il dolore: i Saraceni hanno portato via tutto alla mia gente. C’è soltanto un piccolo regno sulle Asturie che resiste... Il re dice che gli è apparso in sogno San Giacomo e gli ha detto di resistere, che presto tutto sarebbe cambiato... Se Carlo non avesse dato asilo alla mia gente, ora non resterebbe nessuno. —Sei fedele a Carlo, allora? —Carlo è tutto, per me: il faro che indica la via nella notte. —Tu faresti qualsiasi cosa, per il tuo re? —Tutto, mio signore.
—Eri agli ordini di Rothlario. Il re ha detto che erano giorni che non aveva vostre notizie. Cosa avete fatto? —Mio Signore —disse il ragazzo— sono vincolato da un giuramento. Non ti posso dire quale era la mia missione. —Tutti i guerrieri che si trovavano con Rothlario erano in missione? —Sì, mio Signore. In missione, non chiedermi di parlare, non posso farlo senza mancare al giuramento. —Bene —disse con ammirazione Aucario— Anch’io, tanti anni fa ho prestato giuramento al mio re. Un giuramento cui presto fedeltà anche oggi. Dimmi soltanto ciò che puoi dirmi senza mancare al tuo. —Non posso dirti molto, Mio Signore. Siamo in questa zona da alcuni giorni ed abbiano esplorato la strada in attesa del re. Ma non posso parlarti della mia missione. —Da quanti giorni? —domandò Aucario. —Da Domine dies —rispose il ragazzo. —Avete incontrato qualcuno? —Non posso dirtelo, Mio Signore. —Avete combattuto? Cercato stranieri? —Non posso dirtelo, Mio Signore. Aucario sorrise. —Bene— disse al giovane— credo che il tuo re sarà magnanimo con te. —Non sopravviverò —disse mestamente il giovane, osservando la propria ferita. —Sopravviverai —disse Aucario con convinzione— la freccia non ha spezzato ossa, sopravviverai. Chiederò ai bizantini che mandino il loro medico anche per te. —Anche? —domandò il giovane.
—Certo —rispose Aucario— c’è un giovane come te che ha subito un colpo al capo da una donna, così dicono i miei uomini. Sembra sveglio ma non lo è, ha perduto la coscienza di sé. —Quindi il medico di Bisanzio andrà al mulino? —Sì —disse Aucario— e poi verrà qui da te. Tuttavia devo chiederti se ti sei comunicato. —Lo farò —disse con tristezza il giovane— ho paura di morire. Aucario sorrise —Non temere, combatterai ancora i Saraceni —disse— Ma se hai peccati da farti perdonare, parlane con uno dei frati di S.Martino. Il giovane divenne triste e il suo sguardo si perse nel vuoto. Aucario uscì chiudendosi la porta dell’ospedale dietro le spalle. Il monaco addetto alla struttura entrò con del brodo caldo per il ferito. —E’ grave? —domandò al monaco. —Non so, se non gli verranno le febbri si salverà —rispose il monaco. —Preghiamo per lui —disse Aucario. —Sarà fatto — rispose il monaco. Aucario uscì e si diresse verso il campo dei Romani.
LA MEDICINA
Quando un uomo si ammala, deve ricorrere alle cure di un ospedale, e questo si trova soltanto nei conventi più grandi. I conventi più piccoli ospitano un frate erborista e le medicine ricavate dalle piante sono tante ed efficaci. Ma le cose che si leggono sui libri antichi sono andate perdute. Un tempo, prima delle guerre gotiche, si sa che i medici sapevano curare e soprattutto operare. Operavano i calcoli, la vescica, l’ernia e alcuni tipi di tumore. Nessuno sa come fero. Si dice che alcuni saraceni sappiano ancora operare. Così la gente è costretta a curarsi con le medicine delle Masche, donne che devono le loro conoscenze alla tradizione pagana che i religiosi mal vedono e tollerano con difficoltà. I religiosi, per i loro pazienti, usano i farmaci tratti dalle erbe e molte preghiere. Per disinfettare si usa l’aceto e la muffa per rimarginare le ferite. La follia è curata con esorcismi. Ci si appella a S.Agapito per il mal di denti e le coliche, a San Cornelio per le convulsioni, a Sant’Anna per superare il travaglio del parto, a Santa Lucia per gli occhi, a San Biagio di Cesarea per il mal di gola. Molti bambini non divengono adulti, anche tra i membri della corte, e lo stesso Carlo ha perduto figli giovani. Ma i Romani di Bisanzio, sono i migliori medici del mondo: si dice che sappiano ancora operare e che abbiano medicine migliori. E dove si spostano i bizantini, là c’è sempre un medico, e si dice che a Salerno vi sia una scuola di buoni medici. Aucario si avvicinò al campo bizantino. Gli si parò dinnanzi un gigantesco ufficiale. Armi romane, ma aspetto che romano non era: alto almeno sei piedi, spalle grandi, torace forte e ventre ampio. Dall’elmo spuntava una lunga barba bipartita e capelli con treccine che gli davano nell’insieme un aspetto diabolico. —Dove vai, barbarasata? —domandò l’ufficiale. —Vorrei parlare all’ambasciatore, barbaforcuta. —rispose Aucario. —Sai bene che non posso farti are —disse il gigante mettendo la sinistra sull’elsa della spada. —Ho necessità di conferire con il vostro medico.
—Il medico non è l’ambasciatore —disse il gigante— non è proibito avvicinare il medico. Poi aggiunse sogghignante: —Barbarasata, hai forse bisogno di intrugli per rinvigorire la tua virilità? —Non più di quanto ne abbia bisogno tu, barbaforcuta. —Il medico è Basilio, lo troverai nella tenda laggiù. —Basilio panacea? —domandò sorpreso Aucario. —Proprio lui —confermò il gigante— lo conosci? —Dicono sia il migliore di Costantinopoli —disse Aucario. —Se sia il migliore, non so. Ma certo è bravo. —Devo domandargli di curare due uomini. —Devono esserti molto cari, per rivolgerti a Basilio. —No —disse Aucario— Ma tutti e due sono molto giovani e uno è un guerriero della scara di re Carlo. L’ufficiale si voltò verso la tenda del medico. —Eccolo, sta uscendo. I due si avviarono verso il medico. L’uomo chiamato Basilio, nel vedersi avvicinare dai due, ed in particolare dal gigantesco ufficiale, ebbe uno sguardo timoroso. —Cosa... Cosa posso fare per voi? —domandò. —Ho bisogno del tuo aiuto, Basilio —disse Aucario— Vorrei che tu dessi un’occhiata ad un uomo che è fuori di coscienza a causa di una bastonata e che curassi una guardia del corpo di re Carlo, che giace ferito a causa di una freccia. —Va bene —disse Basilio— poiché la missione dell’ambasciatore è verso il re Carlo, curerò la guardia di re Carlo. Ma curerò quell’altro soltanto dietro regolare compenso.
—E’ un medico molto costoso —disse ridacchiando il gigante. —Vedi —disse Aucario— forse il ragazzo è l’unico testimone di un delitto. Se si risvegliasse potremmo catturare il colpevole, e la sicurezza di tutti sarebbe garantita. —Lo visiterò —disse Basilio— ma, se potrò curarlo, dovrai pagarmi tre bisanti. —E’ una cifra enorme —disse Aucario— prima visita il ragazzo. Si trova presso l’ospedale del convento di S.Martino.
Basilio panacea si lavò le mani con uno strano composto odoroso. Si avvicinò al ragazzo. Accese una lanterna e la ò davanti ai suoi occhi, poi la oscurò. Quindi la ò di nuovo, poi la oscurò ed osservò i suoi occhi. Infine ne ascoltò il respiro e con fare distaccato mise due dita sul polso. —Non posso fare molto —disse in latino— se entro tre giorni tornerà in sé, vivrà. Altrimenti è condannato a morire. L’unica cosa che si può provare è il contrasto: fategli un bagno caldo e quindi uno freddo e poi nuovamente caldo, ma l’ambiente deve essere riscaldato e senza correnti d’aria. A volte il contrasto risveglia in questi pazienti la coscienza. La madre del ragazzo gli si buttò ai piedi e gli baciò le mani. L’uomo scivolò via dalla porta mentre alcuni monaci iniziavano a discutere con il frate erborista su come praticare questi bagni e su quali erbe mettere nell’acqua dei bagni. —Hai risparmiato tre bisanti —disse Basilio ad Aucario, poi riprese — Allora, dov’è il temibile guerriero? —Nella stanza dell’ospedale, insieme ai malati —disse Aucario facendogli strada. Basilio sollevò le sopracciglia. Si guardò intorno con aria di disgusto. Quindi seguì Aucario sino alla stanza dov'era ricoverato il visigoto ferito. —Questo luogo è troppo promiscuo e non abbastanza pulito. Qui la gente non
pratica più i bagni di vapore? —No —disse Aucario— tuttavia a Tours vi sono ottime acque e per questa ragione re Carlo a volte vi torna. —Acque curative? —Sì. —Allora è meno peggio di quel che pensavo —commentò Basilio sospirando. —Ecco il ferito —disse Aucario indicando un lettino. —Oh! Ecco il grande guerriero della scorta di Carlo! —esclamò il medico sorridendo. Scrutò bene il suo viso, quindi si mise una mano sotto l’ascella per qualche momento e poi la pose sulla fronte del giovane per confrontare la sua temperatura corporea con la propria. Ebbe una smorfia indecifrabile. Quindi si fece versare sulle mani del liquido profumato, poi sollevò la benda. —Qui non va affatto bene —disse. Il medico lavò la ferita con lo stesso liquido. Il ragazzo gemette per il dolore. —Buono, buono! Non può certo farti più male di una freccia! Quindi aprì la sua borsa e ne cavò un composto. Basilio applicò alla ferita una sorta di muffa e poi vi mise una stoffa pulita sopra. —Non toccate la ferita fino a domani —disse— poi bendate la ferita con altra stoffa pulita. I monaci, perplessi, ascoltavano il medico. —Se dovesse avere delle febbri —disse Basilio mostrando ai presenti un sacchettino che teneva tra le dita— dategli questa polvere con acqua fredda. Dovrà berla tutta in un fiato. Il frate erborista, nel frattempo sopraggiunto, prese il sacchettino dalle mani del medico. —Cosa contiene? —domandò incuriosito.
—Semplice polvere di corteccia di salice —rispose con noncuranza Basilio. I monaci si interrogarono l’un l’altro. —Tornerò a visitarlo domani —aggiunse Basilio. —Cosa gli hai dato, Romano? —domandò incuriosito l'erborista. —Soltanto un’erba —rispose con sufficienza il medico. —Quali consigli puoi darmi per il mio ospedale? —domandò il monaco Infermiere incuriosito. —Tenetelo pulito —disse con disarmante indifferenza Basilio. Poi afferrò la sua borsa e con aria di grande sufficienza si allontanò dalla struttura. —Barbari... —brontolò in greco a bassa voce, uscendo.
LA CENA
Il desinare serale, nella corte del re dei Franchi, segue un preciso protocollo. Prima cenano il sovrano e la sua famiglia, poi i membri più autorevoli della corte, quindi quelli meno autorevoli, via via sino ai servi i quali cenano per ultimi. Per questa ragione, la famiglia reale mangia prestissimo: in modo che i servi possano mangiare prima che sia notte fonda. Solo in rare occasioni il re ammette a tavola con la sua famiglia qualche vassallo o qualche membro della corte. Normalmente, essi assistono alla cena del re prima di iniziare la propria. Carlo non ama il silenzio. Tuttavia, mentre mangia, non sopporta le chiacchiere inutili. Per evitare che le chiacchiere della corte o dei commensali diventino troppo rumorose, egli ha al suo servizio un gruppo di chierici che leggono a turno libri e poesie classici ed accade sovente che qualche grande intellettuale di aggio legga le proprie composizioni. Carlo detesta chi legge le cose in cantilena e non sopporta coloro che si distraggono; egli soprattutto si infuria con chi perde il segno nella lettura. Re Carlo ama i buoni libri e le buone poesie ed essendo egli molto impegnato, non vuole sprecare il tempo del pasto in lazzi e buffonate. Anzi, le letture che predilige spaziano dalla storia di Roma a Lucrezio, da Agostino di Ippona a Virgilio, sacro e profano, a seconda del momento, ma ama profondamente la lettura delle “Confessioni” di Agostino. Naturalmente la corte è costretta ad ascoltare questa lezione scolastica anche controvoglia: non tutti amano i poeti antichi. Tuttavia il re non è uno stolto: dopo la lettura dei classici, viene sempre il momento dei giochi, degli indovinelli e dei motti di spirito. La cena, per la corte di Carlo, è molto di più che un pasto, è molto di più che un atto di protocollo deferente nei confronti del re: è un momento di intenso cerimoniale. Ma, soprattutto, la cena della corte di Carlo è un momento di istruzione collettiva, di cultura e di fratellanza tra genti diverse di uno stesso regno. Il pasto di re Carlo non dura molto. Egli è parco nel mangiare, non richiede mai più di quattro portate e predilige la selvaggina arrostita. Non beve mai più di tre volte, perciò tre coppe di vino sono il massimo che si concede. —Ma mio Signore... —disse Wolfrida ad Aucario— ...Io non posso...
—Tu verrai con me —disse Aucario— non puoi mancare. Io devo presenziare, tu devi presenziare con me. Devo assistere Erlingo: noi mangeremo alla sua tavola, nella sala dove pranzerà la corte, non lontano dal re. —Ma mio Signore, io sono una serva... Aucario la fermò. —Wolfrida —le disse— tu eri una serva. Ora sei libera e non solo: ora hai un rango superiore a quello dei liberi e superiore a quello dei servi del demanio, che sono superiori ai liberi comuni. Wolfrida sorrise in modo imbarazzato. —Mio Signore, non so come comportarmi... —Il nostro turno verrà dopo quello della famiglia reale. Dovrai stare zitta finché il re non avrà terminato la sua cena. Dopo la cena del re, le letture colte termineranno e vedrai che tutto ti diverrà più famigliare. E poi piantala di chiamarmi “mio Signore”, mi metterai in imbarazzo. —Sì, mio Signore... Aucario sospirò e scosse il capo. Wolfrida tremava per l’emozione. La strinse per un attimo e poi le fece cenno di seguirlo. I due si avvicinarono alla porta di ingresso. Due imponenti guardie della scara di Carlo, poste ai lati della porta ed armate di tutto punto con scudo e spada franca, si frapposero tra i due e la porta. —E’ tutto a posto —disse Teodaldo, il Conte Palatino, alle guardie— si tratta del Visdomine Aucario, Capitano di Tours, e sua moglie Wolfrida: cercate di ricordare i loro volti e i loro nomi. Le due sentinelle abbassarono la guardia e si fecero da parte. Il Conte Palatino fece ai due un distratto cenno di saluto. Aucario e Wolfrida entrarono nel salone. Le tavole erano apparecchiate. Un chierico stava leggendo ad alta voce da un corposo codice. Occorse qualche momento perché Aucario trovasse i due posti vuoti, uno accanto al Vescovo ed uno di fronte. Proprio di fronte al Vescovo, si trovava Alcuino di York. Aucario
pensò con sollievo che si trattava di una vera fortuna, avrebbe alleggerito con il suo spirito qualsiasi discorso greve.
...E’ bello seguire da terra, quando il vento solleva grandi ondate sul mare la lotta di chi le contrasta: non perché piace vedere gente che corre pericoli ma solo per trarre conforto dal non soffrirne l’affanno...
Aucario indicò in silenzio a Wolfrida il proprio posto ed i due si avvicinarono ad Erlingo che li rimproverò del ritardo con un’occhiata severa.
...E’ bello anche osservare su una pianura lontana uno scontro tra armati, senza subirne alcun rischio...
Aucario prese posto sulla panca a fianco di Erlingo ed indicò a Wolfrida quello accanto ad Alcuino. Il re puntò l’indice della mano destra verso un altro chierico. —Tu, Fardulfo! — disse ad alta voce. Il chierico prese subito il posto del primo e seguitò a leggere.
...Si gareggia in scaltrezza, si vantano grandi natali, si cerca di giorno e di notte, in un continuo travaglio, di diventare più ricchi e accrescere il proprio potere: misere menti mortali, poveri cuori accecati!
—Alla buonora —disse sottovoce Erlingo— dove vi eravate cacciati? —Perdona, mio Vescovo —rispose Aucario— ma è stato necessario rassettarsi. Alcuino fece loro segno di ascoltare in silenzio. Aucario sorrise e mise una mano sul cuore nel segno del mea culpa. Il momento della lettura colta era proprio il momento giusto per studiare i presenti. Aucario si guardò bene intorno. Erlingo giocherellava annoiato con un cucchiaio, Alcuino ascoltava assorto e ripeteva con le labbra mute i versi di Lucrezio che il chierico stava leggendo, Wolfrida osservava ogni cosa con meraviglia, a bocca aperta come una bambina che vedesse il mare o la luna per la prima volta. Il gigantesco fedelissimo Wibodo, appoggiato al muro, dormiva a bocca spalancata e Aucario si aspettava da un momento all’altro di sentirlo russare. L’accorto Conte Teodorico, invece, stava appoggiato al gomito sulla tavola, ogni tanto gli cascava il capo e si risvegliava di colpo. L’ambasciatore di Bisanzio, al tavolo con il re, ascoltava con interesse la lettura dei versi di Lucrezio: oh, quante volte doveva aver ascoltato le interpretazioni dei grandi classici, greci e latini il nobile ambasciatore! Aucario valutò che, dopo la serata, forse avrebbe ritenuto meno barbaro re Carlo... Anche se gli attori di Costantinopoli erano certamente di un’altra levatura nell’interpretare i versi che non i chierici di Carlo. Adalgiso, il Camerario, vagava con lo sguardo alla ricerca dei deretani delle donne presenti in sala e si soffermava su ciascuno con lo sguardo a ponderarne forma e consistenza. Geilone il Connestabile manipolava un coltello e tentava inutilmente, alla luce delle torce, di specchiarsi sulla lama lucida. L’Arcicappellano Fulrado scambiava furtive chiacchiere con un altro religioso, un coltissimo Visigoto chiamato Teodulfo noto per le sue idee ardite e per la lingua tagliente. Fulrado tratteneva a stento il riso e sembrava dover esplodere da un momento all’altro in una fragorosa risata: Teodulfo aveva infatti anch’egli notato gli sguardi di Adalgiso. Si diceva che questo Teodulfo fosse nelle grazie di re Carlo e che egli ne volesse fare un Vescovo. Infine, Iterio di Tour (Abate che solo pochi anni prima era Cancelliere del re), affascinato dalla lettura e con lo sguardo perso nel vuoto ad osservare con l’immaginazione la scena descritta dal poeta.
...Da ciò che riusciamo a vedere noi potremo intuire come ogni cosa si muova nel grande spazio infinito e questo piccolo esempio ci lascia capire in che modo si svolgano i fatti importanti che reggono il mondo.
Carlo era molto attento alla recita, mentre i reali figlioli erano poco attratti dai versi e soprattutto dalla zuppa di verdura. Le giovani figlie del re, sedute accanto al padre, data la statura dimostravano qualche anno più della loro giovanissima età. La regina Ildegarda, ancora bella nonostante le tante gravidanze, ascoltava distrattamente la lettura, tuttavia sulle sue forme lo sguardo di Adalgiso ò leggero e impercettibile. Ma l’occhio di Aucario si soffermò su due persone in particolare: i due figli di Imiltrude, la donna che Carlo ripudiò per sposare Desiderata, la figlia del re dei Longobardi. Pipino detto il gobbo e Amaudru si trovavano infatti alla tavola con il padre, poiché Carlo non voleva mai separarsi dai propri figli. Questi due in particolare gli davano grandi grattacapi, in quanto essendo figli di Imiltrude (che Carlo aveva sposato con la freundlehe), erano gli unici adulti. Pipino era di bel viso, evidentemente ereditato dalla bellissima madre, tuttavia piegato da una gobba anche troppo vistosa: pur essendo il primogenito, non avebbe mai regnato e si diceva che Carlo pensasse di farne un Vescovo. Amaudru era invece alta e di forme bellissime, ma aveva già superato l’età da marito da un pezzo. Amaudru aveva lo sguardo perduto nella poesia di Lucrezio, Pipino invece indagava ogni presente allo stesso modo di Aucario e ovviamente i loro sguardi si incontrarono. Lo sguardo di Pipino era intelligente, profondo, inquietante; si intuiva che il corpo e la mente di Pipino appartenevano a mondi diversi: tanto goffo il corpo quanto elastica e veloce la mente. Fu Aucario che dovette spostare il suo sguardo, anche se Pipino continuò a fissarlo. C’era qualcosa, in quello sguardo, che riuscì persino ad inquietare l’imperturbabile Aucario, avvezzo ai complotti bizantini.
...Vedi lo sforzo che occorre per mantenere sul fondo una trave nell’acqua? Maggiore è la forza che occorre
per costringerla in basso, più forte è la nostra pressione, più aumenta la spinta che preme per farla salire e la spinge dal basso affinché possa emergere.
Aucario spostò nuovamente lo sguardo sui capelli color miele della bellissima Amaudru. La studiò, pur sentendo su di sé gli occhi del gobbo. Era una sensazione sgradevole, come quella del guerriero che sente di essere nel mirino di un arciere. Quando Pipino distolse finalmente lo sguardo, Aucario ebbe un sospiro di sollievo e notò che Amaudru aveva un naso molto simile a quello del padre, leggermente schiacciato e all’insù. In quel momento si avvide con sorpresa della presenza di Hardrado, il Conte di Turingia: a causa del are degli anni non lo aveva subito riconosciuto. Hardrado si voltò distrattamente verso Aucario e questi distolse subito lo sguardo sperando di non essere identificato.
...Se ciascun movimento è sempre connesso ad un altro e un nuovo moto conduce con inflessibile ordine a un altro che prima esisteva, e se tali scarti non aprono strade a sequenze diverse che mutino troppo le leggi...
Aucario si avvide che Teodaldo era entrato anch’egli all’interno del salone. In virtù della sua funzione era armato. Teodaldo osservava il chierico lettore con occhi penetranti e stringeva l’elsa della spada franca come se avesse dovuto estrarla da un momento all’altro. Fardulfo continuava la lettura di Lucrezio intonando ed interpretando al meglio l’opera, ma l’entrata di Teodaldo faceva supporre che la cena della famiglia reale fosse giunta al termine. Infatti Carlo si ò una mano sulla bocca, poi si asciugò la mano in una pezzuola di stoffa. Quindi alzò la destra e disse. —Basta,
Fardulfo. Per questa sera possiamo riporre Lucrezio nel suo scrigno prezioso. Wibodo si riscosse subito e i servi presero immediatamente a consegnare le vivande alla corte. —Molto interessante —disse l’ambasciatore —Perdona il mio ardire: Lucrezio è la tua lettura preferita, grande re? —Certo —rispose subito Carlo —ma amo profondamente le “confessioni” di Agostino d’Ippona, ed apprezzo anche i commentari di Cesare, la storia di Roma di Livio e gli Annali di Tacito... Detto tra noi, gli annali di Tacito li trovo piuttosto divertenti specialmente quando narrano dell’Imperatore Nerone. —Ami letture che ti fanno onore —disse ammirato il bizantino, allargando un sorriso. —Ma non sono così amate da tutta la corte —disse con sufficienza Carlo. Il re si voltò ad osservare il colossale Wibodo che con grande energia stava addentando della cacciagione arrostita. —Alcuni dei tuoi cortigiani amano di più i buoni pasti. E’ così anche a Costantinopoli ma l’etichetta di corte, sia detto tra noi, ci impone di mostrare un certo “distacco” dal cibo e, quando terminiamo una cena ufficiale, ci ritiriamo nelle nostre stanze ad ultimare il pasto... —Dimmi, ambasciatore, com’è la tua imperatrice? —Bella —disse subito il bizantino— bella e austera, a causa della precoce vedovanza... Il dialogo tra Carlo e l’ambasciatore fu bruscamente interrotto dalla forte voce di Alcuino, il quale si era alzato da tavola e si era portato ove prima stavano i chierici lettori. —Miei cari amici, nobili Franchi, grande re, ascoltate: voglio sottoporvi un quesito di logica che pongo ai miei studenti a York quando chiedono di essere ammessi alla mia scuola... —Un indovinello? —domandò ad alta voce Teodulfo.
—No, caro commensale: un quesito di logica. La logica è quell’arte che allena la nostra mente alle scelte più difficili. —A cosa serve, Diacono Alcuino? —domandò ad alta voce Teodorico. —Ad essere più brillanti in ogni situazione. Ad esempio a trovare la soluzione migliore tra tante per risolvere un problema, un caso disperato, un caso giudiziario, o persino una battaglia... —In che modo? —domandò incuriosito re Carlo. —Valuterai tu stesso, grande re, la portata della logica. —Ponici dunque questo quesito! —esclamò Teodorico. —Va bene: chi di voi troverà la soluzione più logica, avrà un premio! Alcuino aveva catturato l’attenzione di tutta la corte. Quindi prese a camminare tra le lunghe tavole guardando ora questo, ora quello con buffe espressioni del volto. La sala era quasi silenziosa, se si escludeva il rumore delle mascelle. —Un uomo —disse Alcuino —doveva trasportare aldilà di un fiume un lupo, una capra e un cavolo e non potè trovare altra barca se non una che era in grado di portare soltanto due di essi. Gli era stato ordinato però di trasportare tutte queste cose di là senza danno alcuno. Chi è in grado dica in che modo potè trasferirli indenni. —Semplice —esclamò Wibodo —il cretino fa mangiare il cavolo alla capra, poi la capra dal lupo, porta di là il lupo e ci si fa una bella pelliccia... La corte si mise a ridere fragorosamente. —Il Conte Wibodo ha capito proprio tutto! —esclamò con sarcasmo Teodulfo ricevendo in cambio un grugnito del gigantesco commensale. —La tua risposta non risolve il problema, nobile Wibodo! —disse Alcuino— Se il re ha ordinato all’uomo di portare senza danno alcuno le tre cose sull’altra riva, egli deve eseguire correttamente l’ordine del re... Wibodo posò il grosso pezzo di carne che teneva tra le mani.
—Il re ha ordinato una cosa così strana? —domandò —E a chi l’ha ordinato? Perché occorre trasportare un lupo oltre il fiume? Teodulfo si colpì la faccia con ambedue le mani soffocando un riso che invece Pipino il gobbo non riuscì a trattenere e che esplose fragoroso contagiando l’intera sala, re incluso. —Che c’è da ridere? —domandò Wibodo alzandosi in piedi brandendo una coscia di cinghiale come fosse una scure —Che c’è da ridere? —Lascia perdere, Wibodo! —esclamò Carlo —continua il tuo pasto, ti prego... —Ma mio re —rispose Wibodo scandalizzato— come posso mangiare con calma mentre un uomo corre il rischio di essere aggredito da un lupo? —E’ soltanto un’ipotesi —disse Alcuino a Wibodo— supponiamo che re Carlo abbia dato questa incombenza al Conte Teodorico... —Ah, beh... —disse Wibodo rimettendosi a mangiare— se l’ha ordinato a Teodorico... La corte esplose di nuovo in una fragorosa risata contagiando anche il re, il quale non riusciva più a respirare dal gran ridere, divenendo paonazzo e tossendo fragorosamente. —Teodorico! —disse ad alta voce Teodaldo— Spiega a Wibodo come farai a trasportare sull’altra riva lupo, capra e cavolo! —Hmmmm —esclamò Teodorico —potrei mettere capra e cavolo sulla barca e il lupo indosso! —Ma mio caro Teodorico —disse Wibodo— come puoi indossare un lupo vivo? La corte esplose in un’altra risata. E su tutte spiccò la voce di Wolfrida che continuò a ridere anche dopo che gli altri avevano smesso, e si trattava di una risata così ridicola che tutti ripresero a sghignazzare. —Non si può portare a spalle il lupo: la barca non reggerebbe il peso di tutti e quattro. E poi la capra si mangerebbe il cavolo mentre l’uomo rema. Occorre un’altra soluzione.
—Leghiamo la bocca della capra! —esclamò la regina Ildegarda. —Mia regina —disse Alcuino —che cosa crudele! —Allora leghiamo il lupo —disse un’altra donna non identificata. —Diciamo che l’uomo non ha corde! —esclamò Alcuino. —Ma devono per forza essere tutti sani, sull’altra riva? —domandò Hardrado di Turingia. —Tutti sani e salvi prima, durante e dopo —rispose Alcuino. —Ci vuole una barca più grande —esclamò il Balivo tra le risate— ma se invece di Teodorico ci salisse Wibodo, una barca tanto piccola affonderebbe anche soltanto per il peso del cavolo! —Se la barca la portassi tu ci sarebbe già sopra il caprone! —grugnì Wibodo tra l’ilarità generale. —Ho trovato! —esclamò Adalgiso— Porto capra e cavolo sull’altra riva e li affido al Gastaldo! —No, Camerario — rispose Alcuino— non puoi far conto su alcuna altra persona, su nessuna altra imbarcazione ed inoltre non puoi lasciare capra e cavolo insieme: pensa se il Gastaldo si addormentasse... La sala risuonò di un’altra serie di risate. —...fallo frustare, Adalgiso! —esclamò Wibodo alimentando le risate. —Porto la capra e il lupo, poi poso la capra e riporto indietro il lupo... — esclamò Geilone. —No, Connestabile: non puoi portare la capra e il lupo —rispose Alcuino— mentre stai remando il lupo si mangia la capra... E poi vi ho detto che il barcaiolo può portare solo un oggetto o un solo animale alla volta. —Allora piscio sul cavolo, così la capra si schifa e poi porto il lupo e al secondo giro porto anche il cavolo— ribatté Geilone.
Alcuino non prese neppure in considerazione quella che voleva essere una battuta di spirito volgare. —Su, forza —disse Alcuino— non è difficile! —Mangio la capra, uso il cavolo come contorno e poi trasporto il lupo! — esclamò Teodulfo. —Non vale! —disse Alcuino ridendo— devono attraversare sì il fiume, ma sani e salvi! —Uno alla volta? —domandò Erlingo. —Uno alla volta —rispose Alcuino. —Allora porto la capra, poi al secondo giro porto il lupo... —disse Erlingo. —No mio caro Vescovo —disse Alcuino— mentre tu torni a prendere il cavolo, il lupo si mangia la capra... —Ma non si può fare in alcun modo! —esclamò la bellissima Amaudru— Se porto il cavolo, il lupo si mangia la capra, se porto la capra, quando torno devo prendere o il lupo o il cavolo e chiunque io depositi sull’altra riva mangerà o sarà mangiato... —Un momento! —esclamò Pipino il gobbo— Ma posso anche portare uno di loro mentre torno indietro? —Certo! —esclamò Alcuino. —Allora porto prima la capra —disse Pipino— così il lupo... —...non assaggerà più la carne! —esclamò Teodorico rinfocolando le risate. —Un lupo quaresimale! —esclamò l’Abate Iterio piegandosi in due dalle risate. La giovane Rotruda, vedendo l’Abate piegarsi su se stesso, sollevò velocemente la manica mostrando un braccio nudo, lo accostò alla bocca e soffiò con quanto fiato aveva in corpo, facendo risuonare nella sala un rumore fragoroso molto simile ad un peto.
Iterio si rialzò di colpo, risentito dello scherzo, tra le risate generali. Pipino si stizzì e si imbronciò. —E lasciatelo parlare! —esclamò Teodaldo— Ha più sale in zucca di tutti voi! Qualcuno fece una pernacchia. —Allora, Pipino —disse Alcuino con una luce negli occhi— credo che tu abbia capito: spiegaci il meccanismo! Cosa fai dopo aver portato la capra? Pipino fissò bene negli occhi Alcuino e poi riprese a parlare. —Torno indietro, prendo il lupo; porto il lupo sull’altra riva e riporto indietro la capra; sbarco la capra e prendo il cavolo, porto il cavolo al lupo sull’altra riva... —Il quale ringrazia per il magnifico regalo! —esclamò Teodorico tra le risate dei commensali. —Silenzio! —disse Alcuino— Prosegui, Pipino! —...lascio il cavolo con il lupo e torno indietro a prendere la capra e la porto sull’altra riva. —Bravo Pipino! —esclamò Alcuino. Poi si pose al centro della sala in modo che tutti potessero vederlo e sentirlo e disse —Ora avete capito che cos’è la logica? —E va bene — brontolò Wibodo— ma non ho Capito cosa ci guadagna il re a dare un ordine così strambo... Il salone risuonò di un’altra risata. Il Conte Teodorico mise una mano sulla spalla del gigantesco commensale e disse: —Mangia, Wibodo, te lo spiego più tardi... Alcuino scosse il capo e si coprì gli occhi con la destra. Poi fece una faccia buffa e sospirò e i commensali tornarono a ridere fragorosamente. —Magnifico, Alcuino! —esclamò il re— Era da tempo che non ci divertivamo così tanto. Hai altri quesiti come questo? —Ne ho molti, grande re —rispose Alcuino— fa parte del mio metodo di
insegnamento: insegnare divertendo, aprire la mente e il sorriso...
Wolfrida stava ancora ridendo, al punto da non riuscire a mettere in bocca un boccone, Alcuino stava tenendo un brillante discorso sull’importanza dell’educazione delle giovani menti. —Figliola, non ti ho mai visto ridere così tanto! —disse Erlingo strappando un pezzo di carne arrostita dall’osso che teneva tra le mani. Wolfrida continuava a ridacchiare. Aucario scuoteva il capo sorridendo. Stava lentamente scoprendo le qualità di Wolfrida dopo averla frettolosamente sposata. —Almeno potrai dire che è stata una serata divertente. —disse Aucario posando un osso. —Non mi sono mai divertita così tanto! —esclamò Wolfrida— E la frase più divertente è stata “Ma mio caro Teodorico, come fai ad indossare un lupo vivo”! Ad Aucario il sorriso si smorzò sulle labbra. —Già! —disse— Non si può indossare un lupo vivo... Erlingo si voltò. Osservò Aucario con espressione interrogativa. —Cosa intendi dire? —domandò Erlingo tralasciando un ghiotto boccone. —Niente, mio Vescovo —rispose Aucario— ma se sono stato un buon cacciatore, catturerò presto la mia prima preda... —I buoni cacciatori usano buoni cani da caccia —disse Erlingo riprendendo a mangiare. —Si può dire che io abbia i migliori... —disse Aucario sollevando una coscia di fagiano come se fosse una bacchetta magica —Mio caro Erlingo, avrai presto tra le mani uno dei colpevoli. —Perché non l’hai detto prima? —disse Erlingo in tono poco amichevole. —Se Dio mi assiste, ti porterò la dimostrazione entro la prima feria —aggiunse
con sicurezza Aucario socchiudendo gli occhi fino a farli sembrare due fessure. Erlingo, stupefatto, osservò a lungo il suo Capitano mentre spolpava la coscia dell’animale: non erano i grossi bocconi di Wibodo, che lasciavano attaccato all’osso pezzetti di carne: Aucario curava lentamente l’osso portandone via ogni brandello. Poi si infilò l’osso tra l’indice e l’anulare, andolo sopra il medio e con un gesto impercettibile lo spezzò, quindi mise in bocca uno dei pezzi e lo succhiò soprapensiero.
I LIBRI
La notte dei Franchi è piena di preghiere, le preghiere dei buoni frati. Buoni frati che di giorno provvedono alla conservazione dei libri ed alla loro riscrittura, alla copiatura lenta e minuziosa. A volte un libro è tanto raro che altri conventi inviano un monaco a copiarlo e la sua copiatura è operazione lunga, faticosa. Pochi, oggi, sono coloro che sanno leggere, meno ancora coloro che sanno scrivere. I discendenti di re Meroveo, sino all’ultimo fannullone, avevano grande scioltezza nello scrivere e nel leggere ed alcuni di loro furono valenti poeti. La burocrazia, in quel tempo perduto, consumava ingenti carichi di papiro ogni anno ed a scrivere non erano i religiosi ma i funzionari di palazzo che a tale scopo erano stipendiati così come stipendiati erano tutti i funzionari regi. Pipino il breve era del tutto analfabeta, tuttavia non volle che i suoi figli dovessero dipendere da altri per la lettura e li fece istruire. Re Carlo sa leggere bene e con scioltezza ma la sua mano è tanto indurita dalle armi che per lui la scrittura è penosa e persino apporre la firma ai documenti gli è d’impaccio. Però il re Carlo ama le buone letture: Lucrezio, Agostino, Livio. L’ora del desinare è l’occasione per lui di ascoltare poesie, opere dei dottori della Chiesa, e lui stesso invita i sapienti a recitare le loro composizioni. Nei momenti invernali, quando la corte tiene quartiere, lui stesso con i suoi amici più fidati ed i suoi figli discute di poesia e filosofia. Il papiro giunge ormai di rado nella terra dei Franchi, dopo un lungo percorso dalle terre italiane. I Saraceni hanno bloccato ogni commercio con i Franchi nel tentativo di strangolarne l’economia. Oggi i funzionari non ricevono più paghe ma benefici e, se sono fidati e onesti, ricevono l’amministrazione di una contea, una marca o un ducato, mentre i Vescovi amministrano ormai di fatto le città. I grandi porti, che ancora al tempo di Thierry erano ricchi e fiorenti, sono tutti morti a causa dei pirati saraceni. Rari mercanti ebrei, con grande rischio, a volte fanno giungere merci rare. Il papiro è stato sostituito dalla pergamena, la cui lavorazione tuttavia è lunga e costosa, e perciò il valore di un libro è davvero grande. Un tempo, poche generazioni sono ate, i ricchi senatori avevano grandi collezioni di libri e a volte avano le notti in lettura alla luce delle lucerne a olio. Oggi persino l’olio è quasi sparito e la luce è fornita quasi tutta da candele. Nessuno, oggi, a più le notti a leggere. Pochissimi, d’altro canto, sono in grado di farlo. Un libro è dono degno di un re, dato il suo valore. Ma i Franchi non misurano più in denaro il valore delle cose poiché il denaro circola poco. Le spezie, l’incenso, l’olio, il papiro,
sono cose rare e preziose e le guardie si sono ormai disabituate a riscuotere il teloneo sulle mercanzie di aggio, poiché di mercanzie non ne ano quasi più. Un re che sa leggere è quasi un miracolo ma esiste ancora un luogo in cui molti sanno ancora farlo a nord delle terre dei Franchi: la Mercia. Il regno di Mercia si trova oltre il mare in quella che un tempo si chiamava Britannia, il suo Cristianissimo re Offa si è circondato dei migliori intelletti della sua terra ed è in buoni rapporti col potente vicino Carlo. I due sovrani non si sono mai incontrati, tuttavia si scrivono lettere, scambiano notizie e doni come buoni vecchi amici. E in quelle terre britanniche, la città di York vanta una importante scuola. —Grande re —disse Alcuino— ora che hai riposato e gestito le urgenze, potrai dare ascolto alla mia umile persona. Alcuino, il Maestro della scuola di York, si era recato da Carlo dopo aver chiesto udienza. Si era fatto scortare da un compatriota ed Aucario li aveva accompagnati all’udienza. —Dimmi Alcuino, per quale ragione hai domandato udienza. Carlo era assiso sul seggio rialzato e portava i simboli del suo potere. —L’uomo che mi accompagna, ti reca una lettera di re Offa. Carlo si illuminò con un gran sorriso. —Il mio buon amico Offa! —esclamò— Presto, dammi la sua lettera. L’uomo si avvicinò al re e gli porse la missiva reale. Carlo, impaziente, ruppe i sigilli e prese a leggere con avidità. —Sono lieto che il mio buon amico si trovi in buona salute e così il suo popolo —disse Carlo con soddisfazione. —Re Offa ti ha inviato un dono per ricambiarti del tuo —disse Alcuino. —Un dono? —disse sorpreso Carlo —E di grazia, quale dono mi ha inviato il mio amico Offa? Carlo non stava nella pelle, come un ragazzetto.
L’inviato gli porse un codice, grosso e pesante che un aiutante stava reggendo. —Grande re —disse con soddisfazione Alcuino— re Offa ha fatto comporre apposta per te questa opera. Gli occhi di Carlo si accesero di interesse. Afferrò il libro e lo aprì subito. —”Liber monstruorum”? —esclamò il re —Di cosa parla? —E’ una raccolta che descrive animali lontani e mostri —disse Alcuino— la loro descrizione è tratta dalle opere degli antichi come Plinio, Aristotele, Erodoto e tanti altri, oppure redatta sotto l’indicazione di persone che hanno veduto con i loro occhi, o che hanno udito il racconto da chi ha visto di persona. Il re aprì a caso una pagina. —”De elephantis. Seppure temano i leoni, sono tuttavia gli animali più grandi di tutti quelli conosciuti. Si dice che nascano tra i fiumi Gange e Indo e tra il Nilo ed il Brixontem.” Qui dice che Pirro ne portò venti come strumento di guerra poiché capaci di trasportare in groppa torri cariche di arceri. —Un animale davvero imponente —apprezzò Alcuino. —Mi piacerebbe vederne uno... —disse re Carlo e poi aprì a caso un’altra pagina. I presenti ascoltavano in silenzio. —Hyglaco re dei Geati? —esclamò ridendo Carlo— Mio padre mi raccontò questa leggenda: era così grande che il suo cavallo lo reggeva a stento. E’ stato ucciso in battaglia da un mio antenato. Le sue ossa sono custodite su un’isola del fiume Reno e sono tanto grosse che vengono mostrate ai viaggiatori... Mi piace davvero, questo dono, Alcuino! Poi Carlo si rivolse al messaggero. —Ringrazierai il mio buon amico Offa del suo magnifico dono. Ora comporrò un lettera che potrai portargli domani stesso, dopo esserti riposato e rifocillato. Il re si voltò verso il monaco che fungeva in quel momento da segretario.
—Prepara un foglio —disse.
“Carlo, per grazia di Dio re dei Franchi e dei Longobardi e Patrizio dei Romani, al suo venerabile e carissimo fratello Offa, re dei Merci, salute, onore e dilezione...”
Carlo, nel dettare la lettera, sembrava pieno di entusiasmo.
“...è giusto che i re potenti e illustri siano tra loro legati da un patto d’amicizia e si congratulino vicendevolmente...”
Il re era sceso dallo scanno e eggiava mentre dettava il testo.
“...affinché Cristo in tutti e da tutti sia glorificato nel vincolo della Carità e perciò ci è piaciuto indirizzare come dono a vostra Serenità la presente lettera...”
Nel dettare, Carlo gesticolava, si ava una mano sui folti baffi, poneva la mano sul mento, alzava l’indice al cielo, ma non cambiava mai una parola tanto era chiaro ciò che aveva in mente di dire. Parlò della conquista dell’Italia, della temporanea sottomissione dei Sassoni, delle numerose conversioni al cristianesimo tra le popolazioni pagane assoggettate, il tutto con grande soddisfazione.
“...e desidero con la presente lieta lettera, rallegrare voi, Offa, il più potente tra i re cristiani d’Occidente ed abbracciarvi sinceramente con speciale affetto.”
Il monaco ebbe a stento il tempo di asciugare l’inchiostro, poiché il re si era già sfilato dal collo la mascherina in forma di croce che conteneva il suo monogramma. Intinse la penna e seguì con attenzione tutti i tratti, componendo il monogramma a forma di croce che si poteva leggere “Karolvs”. Mentre il monaco apponeva i sigilli, Carlo espresse ad alta voce un pensiero. Speriamo che Vitichindo e il duca Arichi non mi facciano cattiva sorpresa. —Il “principe” Arichi... —disse una voce. Re Carlo si voltò sorpreso. —Chi ha parlato? —domandò voltandosi improvvisamente verso i presenti. —Io —disse Aucario— Poiché Desiderio non è più re, Arichi è divenuto Principe. —Tu sei il Visdomine di Erlingo: come sai questa cosa? —domandò Carlo tra il sorpreso e l’irato. —Grande re —rispose Aucario— sono ato da quelle terre quando egli è stato proclamato Principe dai suoi Vescovi. Si è fatto costruire una reggia, una grande fortezza inespugnabile a Salerno ed una grande basilica a Benevento. Egli è di fatto Principe e di una terra ricca. C’è molto oro a Benevento e a Salerno giungono ancora merci che qui da noi non si vedono da anni. L’uomo che è stato ucciso prima del tuo arrivo proveniva da quella terra. Il re, sorpreso, fissò bene negli occhi il suo interlocutore. —Perché nessuno mi ha avvisato? —disse Carlo. Alcuino si voltò verso Aucario e lo fissò con stupore misto a preoccupazione. —Lo sto facendo, grande re. Presto consegnerò ad Erlingo l’assassino. —Chi è questo viaggiatore che è stato ucciso? —domandò il re. —Ancora non mi è chiaro —disse Aucario —temo che scoprirò l’assassino prima del nome dell’assassinato.
Re Carlo fissò gli occhi in quelli di Aucario. —Spoleto e Benevento sono come spine in un calzare: non c’è intrigo in cui non venga fuori uno di questi due. Forse il viaggiatore portava un documento con sé e tu non sai leggere. Aucario si avvicinò al libro donato al re da Offa, ne aprì una pagina a caso e, con grande scioltezza e tono appropriato, lesse:
“Nel fiume Nilo, invece, dicono che ci siano i coccodrilli, belve di statura notevole, che si sdraiano lungo la spiaggia al calore del sole e si avventano sugli uomini se, una volta destatisi dal sonno, si accorgono che qualcuno si avvicina”.
Re Carlo si avvicinò e diede uno sguardo alla pagina. Era scritto proprio così. —E’ insolito —disse Carlo— tu leggi meglio di un monaco. —E’ una lunga storia —rispose Aucario. Ma questa volta non funzionò. —Ho il tempo di ascoltarla —disse Carlo. Aucario, allora, riassunse brevemente. —Appartenevo, un tempo, ad una famiglia senatoria. Vi erano molti libri, ora patrimonio di monasteri. —Tutto qui? —domandò il re. —Tutto qui. —La tua storia non era poi così lunga. Credevo che Erlingo esagerasse, quando mi ha magnificato le tue capacità. Ma mi rendo conto di come, forse, ti abbia invece sottovalutato. —Aucario ci ha riservato davvero molte sorprese —si intromise Alcuino— Mio Signore, credo che quell’assassino abbia i giorni contati.
Il re non rispose ma ebbe un cenno silenzioso di assenso. —Va bene, va bene, Alcuino. Andate pure. E tu, messaggero, non dimenticarti di ringraziare il mio buon amico Offa del suo dono. Come hai visto, è molto apprezzato anche dai miei guerrieri. Alcuino ed i Merci ebbero un leggero inchino. Aucario fece invece un leggero cenno col capo e tutti uscirono dalla sala. Re Carlo fece un segno al Connestabile Geilone, il quale si avvicinò. —Ho già incrociato quello sguardo —disse Carlo— ma non ricordo dove. Chi è questo Aucario? Dove ha combattuto? —Non so, mio Signore —disse Geilone— Il suo sguardo non ha mai incrociato il mio. Si dice che abbia combattuto in molte terre. Prenderò informazioni. Carlo ebbe un cenno di assenso. Quindi afferrò il regalo di Offa alla pagina aperta da Aucario ove si parlava dei coccodrilli e lesse “Vivono di solito in acqua o sulla sabbia delle sponde”. E commentò: —Un animale davvero pericoloso.
SESTA FERIA
LE NOTTI DEI RE
E’ comune opinione che le notti dei re siano allegre, spensierate. Un re, può tutto. I re merovingi avano le notti in bagordi e orge. Certo non tutte, ma la compagnia delle prostitute era per loro cosa normale. Eppure erano uomini colti, dotti, sebbene quasi sempre inutili. Al popolo, questo, un tempo non importava. Il popolo vedeva circolare molte monete d’oro, il commercio fioriva, i Franchi erano un popolo che incuteva rispetto ai vicini, Costantinopoli onorava i suoi re con titoli nobiliari bizantini ed essi ne erano fieri, poiché se di fatto Bisanzio non regnava, moralmente i Franchi si sentivano parte di un impero. Al tempo dei re merovingi, come i Dagoberto, i Childerico, i Thierry, il commercio fioriva e le flotte solcavano i mari sicure. Il re era quasi sempre inutile, forse superfluo, ma la gente amava l’idea di un re che blandamente li lasciava ai loro vizi, alle loro ioni e che applicava la legge dei Salii con tolleranza: una mano lava l’altra e tutte e due lavano il viso. I Senatori, nelle loro ville di campagna, conducevano lunghi dibattiti sulla grammatica, sulla poesia, sulla filosofia, mentre i loro servi lavoravano le terre ma anch’essi blandamente, che l’essere tolleranti con le proprie genti era per i Franchi cosa ovvia. Da quando re Clodoveo si era convertito, i Franchi erano l’unico popolo davvero cattolico e circondato da eretici ariani: combatterli era un punto d’onore e di principio così, nonostante tutto, Ostrogoti, Burgundi e Visigoti provarono la potenza dei Franchi, dovettero cedere loro cospicue terre ed infine si convertirono anch’essi. I Maggiordomi di palazzo si occupavano di tutto, dalla burocrazia alla guerra, ed il re era soltanto un simbolo, il cordone ombelicale che collegava gli antenati Salii con un impero che a volte li chiamava in loro aiuto. Ed essi, in memoria del o dato loro da Ezio ai campi catalaunici, quando l’antenato di Meroveo divenne re, volentieri intervenivano con barbarico zelo. Infine i vicini si convertirono anch’essi e le genti ariane divennero cattoliche. Fu a quel tempo che la grande sciagura si abbatté sui mari e sull’impero: i Saraceni fanatici, dopo una interminabile guerra, strapparono molte province a Bisanzio, già stremata dalle guerre gotiche, massacrarono i Berberi, quindi arono nel regno visigoto e i mari divennero impraticabili, il commerciò languì. Ben presto i nuovi venuti, che avevano conquistato quasi tutta l’Iberia salvo le Asturie, decisero che i Franchi erano l’unico ostacolo alla conquista del mondo e prepararono una grande spedizione. Un mare di uomini si riversò sulle terre narbonesi, in Aquitania, tutto prese a saccheggiare e la febbre dell’oro li spinse a nord lentamente mentre una
moltitudine di nuovi schiavi già si preparava a prendere la via dei mercati dell’oriente. Fu in quel frangente che Carlo detto “il martello”, il Maggiordono del terzo Thierry, cucì un’alleanza coi vicini nel comune interesse e marciò verso Tours, pronto a difendere il regno davanti al santuario di Martino. Carlo li attese non troppo lontano da Tours, infine li affrontò. Nel vedere quelli che essi ritenevano stupidi barbari, appiedati, i Saraceni lanciarono le loro cavallerie e i cammelli all’attacco. Ma i Franchi ressero l’attacco più e più volte. Inutilmente i cavalieri nemici si lanciarono contro il muro di scudi dei Franchi. Infine, dopo molte ore di battaglia, i cavalieri Franchi ed Aquitani uscirono dalla foresta con i loro giganteschi destrieri e gettarono nel terrore il nemico che, finalmente, tentò di fuggire ma che incontrò nella fuga i Longobardi. Il sangue continuò a scorrere fino a notte e molte migliaia di saraceni non videro più il sorgere del sole. Si liberarono gli schiavi, si recuperò tutto il bottino, si uccisero tutti coloro che non parlavano la lingua latina o i dialetti germani, non si fecero prigionieri. L’emiro cadde a Poitiers e gli alleati si spartirono il bottino. I Saraceni non tornarono mai più, ma chio ogni commercio con quei popoli nel tentativo di strangolare lentamente i Franchi. Già al tempo di Pipino, figlio di Carlo Martello e Maggiordomo anch’esso, la terra dei Franchi non aveva più ricchezze e commerci. E il popolo, che aveva sempre tollerato l’indolenza del loro re in cambio della sua tolleranza dei vizi del popolo, cambiò quasi di colpo la propria natura. Il re era sbeffeggiato persino dall’ultimo dei popolani, il quale raccontava con disprezzo barzellette sul suo conto. L’ultimo Childerico non usciva quasi mai dalla sua villa. Pipino decise che vi era un’unica soluzione e chiese al Papa il permesso e questi rispose che il regno era tenuto da chi governava di fatto. Pipino rinchiuse Childerico in un convento e cinse la corona che suo fratello Carlomanno rifiutò, ma fu un regno breve. I suoi figli Carlo e Carlomanno ebbero metà regno a testa, secondo l’uso dei Franchi. Infine restò soltanto Carlo ed i Franchi del tempo di Carlo sono oggi così diversi dai loro nonni da non sembrare nemmeno loro discendenti. Molto diverso era re Carlo dagli ultimi merovingi. Molto diverse le sue notti. Al tempo di Carlo non vi è più commercio, non vi sono più prostitute, non vi è più moneta d’oro, le biblioteche dei senatori sono ormai ate ai conventi, gli impiegati di palazzo sono spariti insieme al papiro che usavano a carri. Moltissimi non sanno nemmeno leggere e scrivere mentre la spocchia di Bisanzio incomincia a infastidire i Conti. Esiste una sola fiera, a St.Denis, una volta l’anno. Molto diverse sono le notti di re Carlo da quelle di Dagoberto, Childerico, Thierry. Il Papa aveva dato la corona a Pipino e la sua famiglia sente ora l’esigenza di mantenere forte il legame con Dio. Carlo si alza perciò a notte
fonda per assistere al mattutino con i frati, prima ancora di vestirsi, cingendosi soltanto con un grande e pesante mantello di lana. Egli assiste a tutte le funzioni come fosse un monaco e tuttavia a il resto del giorno a fare il re e conduce anche lunghe campagne di guerra. Le notti di un re non sono uguali a quelle di un altro re. Pipino non ebbe maggiordomo, Carlo non ha maggiordomo: un re deve fare il re, deve governare. Si governa con la spada e con la mente, con i mezzi della forza e della clemenza ed occorre avere buoni informatori nelle terre che confinano con quelle dei Franchi senza che essi si facciano sorprendere. Carlo tutto vuole sapere dello Stato, di tutto si occupa e, ad esclusione della caccia e della letteratura, pur non disdegnando la compagnia delle donne, egli non perde tempo in cose insulse. E quando tutti credono che egli perda tempo, in realtà egli si occupa dei segreti di Stato. Aucario si levò che non era ancora l’alba e si udiva la camla del servizio mattutino. Wolfrida lo abbracciò e lui docilmente si sottrasse alle sue braccia assonnate. —Dove vai, mio signore? —domandò Wolfrida assonnata. —Estingui il tuo sonno —rispose Aucario— devo adempiere ai miei doveri verso Erlingo e verso Tours. E poi ti ho già detto di non chiamarmi “mio signore”. Alla luce fioca del focolare, Wolfrida si ò una mano tra i magnifici capelli disordinati e vaporosi e, con voce assonnata, rispose: —Sì, mio Signore... Aucario scosse la testa e sospirò. Ora Wolfrida dalle belle forme non era più una serva, ma manteneva deferenza nei suoi confronti, quasi come una forma di gratitudine. Il Capitano si soffermò a guardarla. Si era rannicchiata nel letto vuoto. La sera precedente si era molto divertita a corte e mai avrebbe pensato in vita sua che avrebbe mangiato alla mensa del suo re, in presenza di un ambasciatore di Bisanzio. In soli due giorni la vita di Wolfrida era cambiata radicalmente. Aucario sorrise: anche per lui era stata una sorpresa e lasciare le braccia morbide di quella ragazza per avventurarsi nella notte cittadina era cosa che gli pesava. Ravvivò il fuoco, gettò due ciocchi, infilò la torcia nel focolare e l’accese, ma
prima di allontanarsi lanciò un altro sguardo a Wolfrida, che si era riaddormentata su quello che era un vero letto da gran signore. Aucario ne indovinò le morbide e generose forme sotto la coperta. Uscì a malincuore richiudendo il catenaccio, dirigendosi alla volta della non lontana chiesa di S.Graziano. Giunse alle porte della cattedrale appena in tempo per vedervi giungere la guardia di turno. L’uomo si fermò e salutò Aucario battendosi sul cuore con il pugno destro. —Ho percorso le strade di Tours: tutto va bene e non ho incontrato altri che te. —Non sarebbe cattiva cosa che tutti sapessero del aggio della guardia. —La gente dorme, mio Capitano. —Sì, ma il fatto che siano avvenuti due omicidi e un’aggressione rende insicuri gli abitanti. Se tu o uno dei tuoi camerati aste dicendo, ad esempio, “E’ l’ora sesta e tutto va bene!” oppure “E’ il mattutino e tutto va bene!” si darebbe fiducia agli abitanti, i quali saprebbero che i i nella strada sono quelli della guardia. Al contempo, i malintenzionati si allontaneranno per non assaggiare il ferro della tua arma. —Sì, mio Capitano —disse l’uomo— da domani faremo in questo modo. Ancora le parole non si erano spente che un piccolo corteo di torce spuntò da una delle strade. Erano uomini silenziosi: due gruppi di guerrieri facevano ala ad una figura centrale. Si udiva distintamente il rumore del o ed il tintinnare delle loro armi. —Chi sono? —domandò la guardia, allarmata. —Il re con la sua scara —rispose Aucario appoggiandosi alla scure con entrambe le mani in una posizione studiatamente marziale. —A quest’ora della notte? —domandò incredulo il suo interlocutore appoggiandosi alla lancia. —Il re si alza con i monaci —disse Aucario. Poniti all’altro lato del portale e
salutalo quando erà. Il corteo si avvicinò di buon o fino al portale. Il re, disarmato e avvolto in un lunghissimo mantello di lana, si fermò e la sua scorta si bloccò. La guardia cittadina salutò Carlo battendosi sul cuore col pugno destro. —Bene! —disse Carlo vedendo i due armati ai lati della chiesa —In questa città la guardia è attenta. Poi il re entrò in San Graziano e gli uomini della scara si misero ai lati della porta come a dire “Ora ci pensiamo noi”. —Vai —disse Aucario al guardiano —prosegui il tuo turno e poi torna alla torre. —Sì, mio Capitano! — disse l’uomo salutando in modo marziale, per farsi notare dagli uomini della scara. Dalla chiesa si alzò un salmodiare di monaci. La funzione si apprestava ad iniziare. La guardia fece per allontanarsi. —Aspetta —disse Aucario— vengo anch’io con te. Voglio ispezionare la torre. —Sì, mio Capitano — disse il guardiano —non è lontana. Alla luce fioca delle torce, la strada era quasi invisibile. Ogni o risuonava sordo nella notte, tra una casa e l’altra. La fiamma danzava e guizzava e ad ogni refolo di vento sembrava contorcersi come un’anima in pena. arono sul retro della grande porta di ingresso. Il portone ben sprangato e di legno massiccio sembrava un buon deterrente contro l’entrata di malintenzionati. Sopra la porta, la struttura era aperta sul retro e chiusa dalla parte anteriore. Le guardie, durante il giorno, potevano agevolmente osservare il terreno da una feritoia sicura. Il piano del ballatoio poggiava sopra una poderosa torre romana in mattoni. Ecco ciò che tutti chiamavano “la torre” e che in realtà era un complesso a difesa del portone principale della città. Alla base vi era ancora una nicchia nella quale un tempo stava il funzionario che riscuoteva il teloneo sulle merci di aggio. Il muro di cinta era interrotto con regolarità da torri e poggiava per un bel tratto su un antico edificio circolare che in parte era stato smantellato ma che misurava almeno trecento piedi di diametro e del cui uso non si sapeva molto: era l’unico
tratto curvo e si trovava al centro del lato più lungo delle mura, sul lato opposto al tratto largo del fiume. Il palazzo del Vescovo, che era ben fortificato, si trovava invece all’angolo verso il fiume ed aveva alte e snelle torri. Il muro di cinta era alto più di 12 piedi. Le guardie erano autorizzate ad uccidere chiunque fosse sorpreso a scavalcare l’alto muro ma ciò, a memoria recente, non sembrava essere mai accaduto sebbene tutti sapessero che, a volte, i ragazzi scendevano le mura con corde per incontrarsi al di fuori della città. Le poche guardie non erano sufficienti a pattugliare sia le mura che la città e così, a turno, gli abitanti che avevano servito il re e scelti tra i più anziani, percorrevano il muro armati nella notte per evitare che qualche predone potesse sorprendere la città e spalancarne le porte. Ogni notte, una guardia armata percorreva le strade per sorvegliarle. A volte gli anziani sugli spalti chiudevano un occhio sulle scappatelle dei loro nipoti. —Da quando sono avvenuti i delitti —disse la guardia— più nessun ragazzo ha osato sfidare le mura. C’è chi dice che è qualche spirito malvagio, ma i più temono che vi sia qualche uomo in agguato: le ragazze si nascondono, i ragazzi restano entro le mura e chi abita fuori è abituato a barricarsi in casa durante la notte. Aucario pensava che la città prendesse il nome dalle sue molte e poderose torri che gli ultimi sovrani merovingi avevano fatto restaurare senza badare a spese, ma c’era chi giurava che invece il nome fosse a causa di un antico popolo con un nome simile. I due armati si fermarono. Aucario studiò il complesso del corpo di guardia con interesse e occhio esperto e valutò il grado di pericolo cui erano esposte le guardie durante i loro turni. Il silenzio era in realtà riempito dai suoni della notte che giungevano dall’esterno e dal poderoso russare dell’abitante di una delle case lì intorno. Il salmodiare dei monaci si alzò nell’oscurità e riempì tutti gli spazi lasciati vuoti dagli altri rumori: il mattutino si canta a notte fonda, quando l’alba è ancora lontana. Sul muro, un uomo con la torcia percorreva lentamente il camminamento tra gli spalti. La notte è sempre molto lunga per chi deve vigilare sui pericoli. —Accompagnami nella torre —ordinò Aucario. Il guardiano picchiò la postierla chiusa sul retro.
—Chi è? —domandò una voce. —Apri, sciocco, sono io con il Capitano! Un catenacciò cigolò e la porta si aprì. I due entrarono e il terzo uomo richiuse la postierla sferragliando. Percorsero una lunga scala. In uno dei piani dormivano alcune guardie e c’era un certo odore di vino che sembrava provenire da loro. I due continuarono a salire fino a che giunsero sulla sommità e Aucario vide il fuoco di segnalazione ben , nel quale un monaco aveva appena gettato un ciocco di legno. Aucario fu sorpreso di vedere un monaco sulla torre. —Che ci fa un monaco tra le guardie? Non sarebbe più adatto il tuo posto nel coro che canta il mattutino? —No, mio Signore —disse il monaco— io sono stato inviato da Erlingo per vegliare che essi rispettino la punizione per aver aizzato il padre di Quado e messo in pericolo Dhuoda. Resterò sino all’alba. Aucario riconobbe la voce come quella di un monaco a lui noto. —Tu sei quello che mi ha mostrato la sacca del denaro dell’uomo assassinato? —domandò. —Sì, mio Signore. —Hanno rispettato gli ordini del mio Vescovo? —Sì, mio Signore. Anche se la notte è lunga e doppio turno vuol dire nervi tesi. —Stanotte veglierò con voi —disse Aucario alle guardie —L’alba è ancora lontana: è appena iniziato il mattutino. Aucario si affacciò dalla torre. Da un lato si vedevano le torce del campo bizantino. La notte era cupa e fitta. I fuochi abbagliavano e non era possibile riadattare gli occhi facilmente. La parte antistante la porta era illuminata debolmente da fuochi e torce. Aucario si sforzò di distinguere il maggior numero di particolari possibile.
—Sei tu che hai visto una ragazza are qua sotto? —domandò Aucario al suo accompagnatore. —Sì, mio Capitano —rispose questi— Ho ancora un ottima vista ma, come potrai facilmente intuire, nonostante l’abitudine, riconoscere qualcuno da qui non è facile... Aucario aguzzò la sua vista ancora eccellente. Il campo bizantino non era lontano. La luce illuminava fiocamente la parte antistante le porte. Valutò che una figura vestita di bianco si sarebbe veduta chiaramente, ma non sarebbe stato possibile identificarla. —Quindi sei sicuro che si trattasse di una ragazza? L’uomo fece spallucce. —Chi altro poteva essere? Una veste bianca e capelli lunghi sciolti. Le donne sposate li tagliano, alcune li raccolgono in una treccia sotto il velo. —Vi sono anche uomini con i capelli lunghi —disse Aucario voltandosi verso il suo interlocutore. L’uomo ebbe un’espressione di stupore. —Ma mio Capitano, i Franchi non portano i capelli lunghi. —I Franchi no —ribatté Aucario— ma i pellegrini che giungono a Tours per pregare sulla tomba del santo non sono tutti Franchi... —Io non so, mio Capitano —disse l’uomo, chiaramente disorientato —quale uomo qui porta i capelli lunghi? Aucario proseguì la sua osservazione da tutti i lati della sommità della torre. —I Longobardi —disse —portano capelli lunghi. I Visigoti, portano i capelli lunghi. I Sassoni portano i capelli lunghi... —E’ vero —si intromise il monaco —a S.Martino giungono uomini così. Ma i longobardi hanno anche lunghe barbe.
L’uomo era sempre più perplesso. —Anche i Norreni? —domandò. —A volte —rispose distrattamente Aucario —e a volte li raccolgono in trecce. —Di solito gli uomini sono più robusti, le ragazze sono più esili —si giustificò il testimone. —Esistono anche uomini esili —disse Aucario. L’uomo lasciò cadere un silenzio imbarazzante, sollevato soltanto dal lontano salmodiare dei monaci. —Sono confuso —disse poi. —Non preoccuparti —disse Aucario —è irrilevante. Non avresti mai potuto riconoscere la persona che è ata qui sotto. Solo un uomo attento avrebbe potuto veder are una donna o un uomo alla luce delle torce. Tu evidentemente non sonnecchi quando è il tuo turno. Alcuni si lasciano vincere dal sonno e anche se eggiano sulle mura sono intenti ai loro pensieri o forse pensano a un giaciglio di cui sentono la mancanza. La guardia rise di gusto, in questo seguito anche dagli altri presenti. —Dovete essere più attenti —disse Aucario in tono poco conciliante —se mentre eggiate siete intenti a pensare alle fattezze delle serve dell’opificio, un buon arciere potrebbe porre fine ai vostri sogni. E poi è ora di finirla con questo salire e scendere dalle mura durante la notte: servono ad evitare i delitti e le incursioni e, come avete visto, fuori delle mura i delitti sono avvenuti. Il vostro compito è quello di vegliare in armi. Per la vostra sicurezza, io vi consiglio di essere più attenti ai rumori della notte. —Cosa intendi dire? —domandò un’altra guardia. —La notte è piena di rumori: lupi, gufi, civette, usignoli, grilli, cicale, rane... —Monaci... —aggiunse ridacchiando il testimone dell’avvistamento, provocando la risata di tutti e ricevendo sul copricapo uno scappellotto del monaco. —Quando qualcuno è in agguato gli animali tacciono —disse Aucario.
—Monaci esclusi —aggiunse ancora il testimone, ricevendo un altro scappellotto dal monaco. —Qualcuno a volte si lascia vincere dai lacci del sonno che restano avvinghiati a lui come i lacci di una borsa al fianco del viandante —disse il monaco —ma qui adesso ci penso io a tenerli svegli. Aucario si ritrovò a pensare alle guardie legate come un sacchetto di monete e sorrise. Ma il sorriso gli si spense quando si ricordò dei lacci della borsa del misterioso viandante e gli strani segni che portavano incisi. —...I lacci della borsa... —disse tra sé Aucario e poi —Mio buon frate, all’alba dovrai mostrarmi di nuovo la borsa del viandante misterioso. —Come vuoi —disse leggermente disorientato il monaco —ma non vedo cosa potrai ancora ricavarne. —Ho una teoria —disse Aucario. —Che cos’è una “teoria”? —domandò una delle guardie —Non sarà una di quelle malattie che fanno grattare? —In un certo senso sì —disse Aucario —è una cosa che dà dei grattacapi, ma non è una malattia.
LE COSE NASCOSTE
Esistono molti modi di nascondere le cose: nascondere è come far scendere la notte, gettare un velo di oscurità, coprire con la tenebra. Nella notte le cose hanno profili incerti, paiono senza bordi, non li si riesce a vedere. E vi sono molti modi per gettare la tenebra: ad esempio l’eclisse, forma di natura per cui la Luna oscura il Sole e gli stolti e gli animali si terrorizzano. Ma l’eclisse, abbiamo detto, è cosa di natura, come il ritmo di notte e giorno e non si può controllare. Nascondere un oggetto è come gettarlo tra le tenebre: ad esempio quando i nemici sono alle porte e chi possiede qualcosa di prezioso lo nasconde sotto terra, nei campi, lo camuffa, e se per caso il proprietario muore, nessuno più recupera i tesori se non per caso molte generazioni dopo. Molte cose che vengono nascoste sono notizie, avvenimenti, e quando si invia un Ambasciatore in un luogo lontano, questi apre bene gli occhi e le orecchie per poi riferire ciò che ha visto e sentito, ma è costretto a farlo con circospezione per non essere scoperto. Narrano le antiche storie che uno spartano in esilio in Persia scoprì che il gran re dei Persiani voleva invadere la terra dei greci. Lo spartano, sebbene in esilio, non aveva rancore verso la sua terra e si era convinto di dover avvisare la sua gente. Così prese una tavoletta, sciolse la cera, scrisse il messaggio sul legno, rimise la cera e spedì a Sparta la tavoletta. Nel ricevere quel messaggio senza parole, Sparta chiamò gli uomini più scaltri a risolvere l’enigma del messaggio senza parole, ma fino a quando qualcuno pensò di togliere la cera, nessuno potè leggere il messaggio: Sparta ebbe così per prima la notizia di ciò che il gran re dei Persiani stava tramando. Un altro fece rasare il capo ad un servo, scrisse un messaggio ed attese che i capelli ricrescessero, poi inviò il servo e, quando egli fu rasato, riapparve il messaggio così che a nulla era servito il perquisirlo. Molti sono dunque i modi per gettare le tenebre sulle cose. Anche i Franchi si ingegnano nel gettare il buio sulle cose esattamente come fanno tutti i popoli. Quando fu l’alba, il buon frate terminò il proprio compito ed un altro frate lo sostituì sulla torre. Questi tornò al monastero ed Aucario lo accompagnò, fuori le mura. Davvero imponente, il monastero poteva accogliere fino a novecento persone tra monaci e servi ed era protetto esso stesso da torri. Il monaco sparì tra le mura e ricomparve con la borsa dell’uomo sconosciuto che
era stato ucciso davanti la foresteria di San Martino. —Tieni, nobile Capitano —disse porgendo ad Aucario il sacchetto di cuoio. Aucario lo soppesò, lo osservò con occhi nuovi, tentò di scoprire un senso nel disegno sulla sacca, guardò nuovamente all’interno, quindi esaminò i lunghi lacci di cuoio. Vi erano incise molte lettere, ma non parevano essere disposte in senso compiuto. —Cosa stai cercando, nobile Capitano? —domandò il monaco. Aucario continuò ad esaminare le lettere sui lacci, inutilmente. —Cerco un lume nell’oscurità —rispose distrattamente. Il monaco ammutolì. Aucario, terminato di esaminare i lunghi lacci, sollevò lo sguardo ed incontrò gli occhi stanchi del monaco. —Tieni la borsa come il più ricco dei tesori, come la più sacra delle reliquie, come se la sacca ti fosse stata affidata direttamente dal tuo re —disse Aucario — che nessuno la prenda, che nessuno la distrugga, che nessuno oltre me vi metta mano. L’uomo, stupito, prese la sacca con ambedue le mani. —Sì, nobile Capitano. Ma per quale ragione? —A suo tempo saprai — disse Aucario sorridendo —quando anch’io saprò. Ma ricorda: non potrai parlare di questo con nessuno, nemmeno con l’Abate, fino a che io stesso non ti autorizzerò a farlo, o ti toccherà evangelizzare i Sassoni. Il monaco, nel sentire ciò, si segnò col segno della croce. Evangelizzare i Sassoni equivaleva una condanna a morte, tanto essi perseguitavano i cristiani. —Nessuno saprà, nobile Capitano, il segreto resterà inviolato. —Allora Dio ti è testimone —disse Aucario— ora vai e riposa, che hai molto vegliato. Il monaco sospirò e sorrise. —Grazie, nobile Capitano —disse. E si allontanò
con la sacca stretta forte tra le mani.
IL NULLA E LA NOTTE
Vi è un argomento, tra quelli prediletti dai sapienti, che obbliga a lunghe diatribe e discussioni infinite. Per lunghi secoli i filosofi hanno disquisito sul nulla. Esiste il nulla? Quale è la sua natura? Agostino, Boezio, Donato, Prisciano, hanno affrontato il tema. Molto si sono apionati i sapienti e lo stesso Alcuino diffusamente ne ha parlato agli allievi di York. La tenebra copre le cose, ma quale è il suo rapporto con il nulla? Molti uomini non capiscono la ragione di tanto contendere e percepiscono come una follia il discuterne tanto accanitamente. E quindi lasciano volentieri che siano i religiosi ad occuparsi di queste faccende. Per tutti, il nulla non si percepisce, la notte invece è evidente. La notte che era tanto lontana dagli uomini e che in pochi anni è tornata ad oscurare il loro cuore. E perché la notte non scenda per sempre, vi sono uomini che lavorano ogni giorno. Lavorano perché la notte non scenda sulla conoscenza. Come abbiamo già detto, vi fu un tempo, non lontano da quello di re Carlo, in cui sovrani pigri e superflui avano le loro giornate nei giochi d’alcova, oppure a comporre poesie mentre i Maggiordomi di palazzo si occupavano di governare lo Stato: il popolo ben tollerava le loro intemperanze, poiché i Franchi erano un popolo potente alleato di Bisanzio; Bisanzio li rispettava e l’ordine delle cose era quello stabilito da secoli. Molti mercanti portavano merci rare e specialmente frutti e spezie di terre lontane e persino il popolo poteva permetterseli con moderazione. Non era un'epoca di pace e il regno era diviso tra più monarchi, tutti consanguinei, che a volte guerreggiavano tra loro. E' a quel tempo che circolavano le monete d’oro, molte monete d’oro. Intere colonie di mercanti stranieri e di ricchi possidenti erano stanziate tra i Franchi: qualcuno dei loro re aveva addirittura stretto alleanze di sangue con essi. Le famiglie senatorie avevano ancora un peso e una funzione nello Stato. I Senatori possedevano grandi biblioteche e discutevano di filosofia e di grammatica, di teologia e di retorica, di letteratura. I sovrani accumulavano grandi quantità di papiro con il quale funzionava la burocrazia, grazie all’opera incessante di uno stuolo di efficienti laici. Poi venne il crepuscolo, annunciato dalla fine di Roderico. Come abbiamo già detto, fu a quel tempo che il commercio con l’Iberia si interruppe, le navi non arrivarono più a Marsiglia, i mercanti rimasero senza merci e se ne andarono o acquistarono terre da coltivare. I pirati attaccarono ogni nave e Bisanzio, costretta a lottare per la
sua stessa sopravvivenza, lasciò a se stesso l’occidente. Tra i Franchi, l’oro sparì, rimanendo soltanto sugli altari delle Chiese. Il papiro finì e, senza papiro, finirono i burocrati: in sole due generazioni, soltanto monaci e Vescovi sapevano leggere e scrivere. Dove prima erano mille scrivani, ne restava uno soltanto. Gli eserciti assorbirono ogni forza al fine di fermare i Saraceni. La notte cominciò a scendere sull’Europa. Ma prima che scendesse definitivamente, pochi uomini armati di lume come Diogene si misero alla ricerca incessante dei migliori talenti. Ciò per evitare che la notte scendesse davvero su ogni cosa e l’ignoranza e la superstizione spegnessero ogni lume trasformando la notte nel nulla. Uno di questi uomini era Alcuino che, protetto dai re di Britannia, aveva dato a York una importante scuola: l’unica rimasta in tutto l’occidente. E da allora, Alcuino lasciò la Britannia e cominciò a girare le terre cristiane alla ricerca di giovani menti brillanti per istruirle e preparare l’Europa ad una nuova alba, salvando dalla notte i poeti, i filosofi, i Padri della Chiesa, gli annalisti. —Allora! —disse Alcuino ad alta voce, di modo che tutti i ragazzini presenti potessero intenderlo —Vi ho fatti radunare qui per fare con voi un gioco! I ragazzini ridacchiarono: non si aspettavano certo che un monaco li fe giocare. Con i ragazzini, i monaci erano piuttosto severi, non lasciavano molto posto al divertimento. —Giocheremo agli indovinelli —disse Alcuino— vi porrò un difficile indovinello e chi di voi saprà risolverlo, avrà un premio. I ragazzini accolsero la frase di Alcuino con un grido di gioia. Un grido tanto prolungato che Aucario dovette acquietarli: a lui erano stati affidati e lui doveva disciplinarli. —Allora —disse Alcuino non appena Aucario riuscì a riportare ordine tra di loro —ecco l’indovinello: chi cammina con quattro gambe all’alba, con due gambe a mezzogiorno e con tre alla sera? —La driade! —esclamò un ragazzino entusiasta. —Figliolo —disse subito Alcuino— quante driadi hai veduto fino ad ora? —Nessuna —ammise il ragazzino. —Perché le driadi non esistono —ribatté Alcuino— ma anche se esistessero, non
avendone mai vista una, non puoi sapere con quante gambe camminano. —La lumaca! —esclamò un bambinetto ben vestito, tra le risate degli altri. —La lumaca ha tante gambe quante la tua lingua! —esclamò un altro ragazzino ricevendo subito una manata dal compagno. —Ma esiste davvero? —domandò un altro, non riferendosi alla lumaca. —Certo —rispose Alcuino— ne esistono tantissimi e tu stesso ne hai veduti. —Il cervo zoppo! —disse un altro— Prima corre con quattro zampe, poi si alza sulle zampe dietro e quando si fa male a una zampa corre con tre! —Interessante ipotesi —disse divertito Alcuino— ma non è la risposta esatta. —Il frate Sagrestano! —esclamò un altro ragazzino attirando l’attenzione di Aucario. —Quello chiamato Wortha? —domandò allarmato. —Sì, Capitano! —disse il bambino. —E perché proprio Wortha il Sagrestano, che Dio l’abbia in gloria? —Beh —disse il ragazzino— un mattino l’ho visto con addosso una pelle di lupo e correva a quattro zampe: correva verso di me, sembrava proprio un lupo e mi ha fatto prendere uno spavento! Alcuino, piuttosto perplesso dall’inattesa piega, domandò spiegazioni. —Per le quattro zampe, ha già risposto, e poi? —Beh, di gambe ne aveva due... —E la terza gamba? —domandò Alcuino— Aveva due gambe anche alla sera. Come giustifichi la terza gamba? —La usava per pisciare! —esclamò burlescamente un altro facendo ridere tutti i più grandicelli e persino Aucario.
—No! —esclamò Alcuino divertito— Non è una risposta accettabile! Con quella “gamba” lì non ci si cammina! Avanti c’è qualcuno che sa darmi una risposta? —Io! —esclamò un bambino dall’aria sveglia alzando una mano per farsi notare. —Allora dimmi: chi cammina al mattino con quattro gambe, a mezzogiorno con due e la sera con tre? —Io ho due gambe, il figlio di Gerperga cammina con quattro ed è così veloce che sua madre deve sempre rincorrerlo! —La tua risposta mi interessa —disse Alcuino— ma come spieghi le tre gambe? —Bardano cammina col bastone! —esclamò il ragazzino. —Chi è Bardano? —domandò divertito Alcuino. —Il monaco vecchio di San Martino. E’ così vecchio che ha parlato persino con Carlo Martello! —disse un ragazzetto che aveva l’aria di essere ormai adolescente. —La risposta si può accettare —disse Alcuino— ma devi spiegarmi prima perché il mattino a quattro zampe, a mezzogiorno con due e la sera con tre... Il ragazzino ci pensò su un attimo e poi: —Quando uno è piccolo va a quattro zampe, poi impara a camminare con due... —E le tre gambe? —Da vecchio uno si aiuta col bastone! Alcuino ebbe un moto di evidente soddisfazione. —Bravo! —esclamò Alcuino— Come ti chiami? —Fredegiso! —esclamò il ragazzino. —Hai vinto il tuo premio! —esclamò Alcuino tra il disappunto degli altri ragazzetti— Un bel pane dolce col miele!
Il ragazzetto fece letteralmente salti di gioia ed andò a ricevere il premio. —Nooooo! —esclamarono gli altri. —C’è qualcosa anche per voi! —esclamò Aucario mostrando loro un sacco — Noci e nocciole per tutti! I ragazzini proruppero in un grido insopportabile e si fiondarono su Aucario che penò non poco per distribuire a ciascuno la propria razione. —Figliolo —disse Alcuino al giovane Fredegiso, che aveva la faccia ormai abbondantemente spalmata di miele —Conducimi da tuo padre, devo parlargli di te... —Perché? —domandò il ragazzino. —Perché un giorno mi aiuterai a sconfiggere le tenebre —rispose sorridendo Alcuino. —Piano, ragazzi! —esclamò Aucario, quasi sopraffatto dalla calca. Ce n’è per tutti. Terminato il contenuto della sacca, i ragazzetti sciamarono via soddisfatti. —Darai istruzione a questo ragazzo? —domandò Aucario ad Alcuino. —Questo è lo scopo del gioco —rispose Alcuino— si tratta di un vecchio indovinello. Questi ragazzi sono ingenui e chi riesce a rispondere dimostra logica. Io cerco ragazzi che abbiano il dono della logica. Piuttosto, questo Wortha... —Wortha il sassone —disse Aucario— il Sagrestano assassinato che indossava la pelle di lupo. —Perché mai amava correre travestito da lupo? Hai udito i bambini: lo faceva anche di giorno e li spaventava. —I Sassoni hanno strane usanze —disse Aucario. —Io stesso discendo da Sassoni —disse Alcuino— ma nella mia terra non ho
mai udito di simili usi. —Era un sassone della foresta nera. Anche i cristiani, a volte, si trascinano appresso usi pagani difficili da estirpare. I Sassoni della foresta nera sono quasi tutti pagani. —Dici il vero, amico mio —disse Alcuino— ma perché l’avranno ucciso? —Non ne sono ancora del tutto convinto —disse Aucario— ma ti assicuro che avrò presto una risposta. Un uomo che corre di notte come un lupo, può essere scambiato per un lupo, tuttavia un uomo armato non è un ragazzino inerme, è certamente in grado di distinguere un lupo vero da un uomo travestito da lupo, magari non proprio subito... La notte... —Hai detto che ti aiuterò a vincere la notte? —domando ad Alcuino il piccolo Fredegiso. —Certo! —esclamò Alcuino carezzandogli il capo con la destra— Sconfiggerai il nulla e le tenebre! L’ignoranza e l’analfabetismo! —Tu, piuttosto —disse improvvisamente rivolto ad Aucario, in perfetto latino classico per non farsi intendere dal giovane Fredegiso —Tu hai sicuramente una ferita nel cuore. Tu hai un segreto. Lo sguardo di Aucario ebbe come un lampo. —Tutti gli uomini che hanno combattuto a lungo, come me, hanno ferite che non si rimarginano... Alcuino annuì. —Se hai molto viaggiato e combattuto, significa che il tuo fardello è molto pesante. Tanto maggiore il peregrinare, tanto più grande la pena. Non voglio conoscere il tuo segreto —disse— ogni uomo nasconde un segreto, ma voglio darti un consiglio: liberati di questo peso che ti costringe a viaggiare e sarai libero tu stesso. Aucario sorrise. —Grazie del consiglio —rispose.
—Ora hai una moglie. —disse Alcuino— Potresti avere dei figli. Rifletti: potrebbe essere giunto il momento, per te, di mettere radici. E Tours è davvero un buon posto per metterle. Ti sei guadagnato rispetto e onore, fiducia e amicizia. E oltre al mio buon re Offa e al grande re Carlo, che io sappia sei l’unico guerriero che abbia una simile conoscenza dei classici. Probabilmente ne sai più di loro due messi insieme. Sei prezioso due volte. Non farti uccidere. Alcuino gli batté una mano sulla spalla, come ad un vecchio amico. —Andiamo, Fredegiso! —disse al ragazzino —Conducimi da tuo padre. Stenterà a riconoscerti, sotto quello strato di miele!
I SEGRETI
I segreti sono come la notte, per gli uomini. Più lunga è l’ombra che essi proiettano, tanto più impenetrabile è il loro mistero. I segreti sono pesanti. Essi sono tanto grevi da costringere gli uomini a piegarsi sotto il loro fardello, pur di mantenerli. Ma un segreto, per quanto nascosto, presto o tardi si viene a sapere: perché il peso diviene eccessivo, perché chi lo porta commette un errore, perché altri già lo conoscono. I migliori conoscitori di segreti sono coloro i quali riescono a mantenerli più a lungo, ma il loro peso a volte li strema. Alcuni divengono iracondi, altri remissivi e timorosi, altri ancora annegano il segreto nel vino e questo segreto, proprio a causa del vino finisce per venirne fuori. Proprio coloro che gettano nel vino i loro segreti più reconditi sono la maggioranza. Forse è per questo che gli uomini amano tanto il vino. “In vino, veritas” dice un antico motto. Ma non in tutti i luoghi il vino giunge e laddove la vite non mette radici, si usano molte altre bevande fermentate: il sidro, la birra, il latte di cavalla. Così, l’uomo può annegare i propri segreti anche senza vino. Tuttavia, dove vi è il vino, questo è preferito a tutti gli altri. —Mio signore —disse Wolfrida ad Aucario —Ho maturato negli ultimi giorni un’idea. Aucario fissò negli occhi la moglie. —Dunque —riprese Wolfrida con un certo imbarazzo —Tu mi hai dato molti denari come dote. E, da quando mi hai liberata, non ho più l’obbligo dell’opificio. Ma io, quando non sono tra le tue braccia... Aucario si incuriosì allo strano discorso di Wolfrida. —Prosegui —disse— cosa intendi dire? —E’ bello essere libera, preparare il tuo focolare e i pasti, rassettare le tue cose. Ma quando il re chiama gli uomini validi, e Dio sa quanto tu sei valido, essi stanno lontani per mesi. Mi sono domandata “Cosa farò se il mio signore sarà chiamato dal re?” —Non credo che il tuo re mi chiamerà —disse ridendo Aucario —Comunque
prosegui il tuo discorso. Wolfrida arrossì e abbassò lo sguardo. —Dimmi —insistè Aucario —cosa vorresti fare. —Non posso tornare all’opificio —disse Wolfrida guardandolo negli occhi — getterei vergogna sul tuo casato. Vorrei parlare con il mercante Salomone. Wolfrida abbassò nuovamente lo sguardo. —Vuoi acquistare degli oggetti? —domandò stupito Aucario —Hai tutto ciò che ti serve... —Non voglio acquistare cose inutili —disse Wolfrida. Aucario sospirò. Wolfrida stava dilungandosi così tanto da spazientirlo. —...Io... Maestro Alcuino ha detto che nella Mercia il vino è scarso. E qui ne abbiamo così tanto... Aucario la guardò stupito. —Vuoi fare mercanzia? —le domandò sbalordito. —Sì... No... —rispose lei — un giorno all’opificio ho visto un panno di Mercia, le nostre lane non sono così belle e calde. I panni di Mercia sono degni di un signore. Vorrei scambiare vino con panni di Mercia. Comprerò il vino novello, lo manderò in Mercia, mi farò mandare i loro panni. Così potrò frequentare l’opificio senza disonore. Lavorare all’opificio è tutto ciò che so fare. Aucario sorrise. Era profondamente incantato dalla chioma di Wolfrida. Le ò una mano tra i magnifici capelli mossi. Lei inclinò leggermente il capo, così che la mano di Aucario le sfiorasse la guancia. —Non so se Salomone vorrà fare affari con te. —disse Aucario— Andiamo subito a parlargli, dato che siamo nei pressi della sua abitazione. Non fu nemmeno necessario bussare, dato che il mercante stava discutendo animatamente con un altro uomo in una lingua sconosciuta. Riconosciuto
Aucario, gli si avvicinò e, con un leggero inchino, gli domandò —Che posso fare per te, Capitano? —La donna che tu vedi è Wolfrida, con la quale ho contratto matrimonio. Essa vorrebbe inviare vino in Mercia in cambio dei loro panni. L’uomo si massaggiò la barba e sorrise. —E’ chiaro che si intende di panni —disse subito —i panni di Mercia sono eccellenti. Si può fare. Al prossimo vino faremo lo scambio. —Farai questo per lei? —domandò Aucario. —Certo! —disse con soddisfazione Salomone —Naturalmente tratterrò per me una parte del vino... —Naturalmente... —confermò Aucario. Wolfrida sorrise soddisfatta. Aucario strinse la mano del mercante vigorosamente, come d’uso. —Devo dirti una cosa, Capitano. —disse a voce bassa Salomone, per non farsi intendere da Wolfrida, l’espressione del volto ritornata seria. —Riguardo il vino? —domandò Aucario. —Non proprio, Capitano, riguardo alla tua vita. Ho inteso i discorsi di alcune guardie del re Carlo: nessuno presta attenzione ad un mercante ebreo, specialmente quando il vino rende alto il tono delle loro voci. Vogliono ucciderti. Aucario ristette un attimo, stupito. —Allora —disse ad alta voce Salomone inchinando il capo —il prossimo vino! Ma gli occhi intelligenti del sefardita dicevano “guardati dalla scara”. —Il prossimo vino sarà tuo! —rispose ad alta voce Aucario.
COME CERCARE UNA BELVA NELLA NOTTE
Cercare colui che si è macchiato di un delitto è come accendere una torcia nella notte e percorrere le strade buie di una città con il solo ausilio di una spada sguainata alla ricerca di una belva. Il pericolo è nell’ombra. Il cercatore porta il lume, ma la sua preda è pericolosa e forte, insidiosa. La belva si nasconde negli anfratti e non si mostra. Il cercatore deve sentire il suo odore, udire il più piccolo rumore; aguzzare la vista non gli basta poiché la luce del lume non giunge che pochi i intorno. Tuttavia il cercatore sa che la belva si aggira attorno a lui. La belva è pronta a ghermirlo al primo o falso. Il cercatore non può permettersi un errore poiché la belva assaggerebbe il suo sangue. E’ la notte che permette alla belva di nascondersi. Potrebbe trovarsi su un tetto, dietro un angolo oscuro, nell’ombra di un albero. Ma la belva deve essere stanata o ucciderà ancora. Durante il giorno la belva non si mostra, di notte colpisce. E la notte, nella terra dei Franchi, è davvero buia. —Mio Capitano! —esclamò il capo delle guardie della torre —Il figlio del mugnaio si è risvegliato! Aucario si voltò di scatto con una luce negli occhi che bloccò il milite. I movimenti imperiosi di Aucario, a volte, facevano pensare a un alto personaggio. Colto di sorpresa, Aucario incuteva timore, ben diversamente da quando si trovava in conviviale discorso. —Ha parlato con qualcuno? —domandò subito Aucario. —Col monaco Infermiere, con la madre, col padre… —rispose pronto il milite, riprendendosi dall’imbarazzo —anche con me… —Cosa ha detto del suo agguato? Il milite inarcò le sopracciglia. —Non ricorda nulla. I suoi ricordi si fermano al lavoro della giornata, i sacchi di farina, il pasto dei muli… —Nessuno deve più parlare col ragazzo fino a domani! —ordinò subito Aucario.
—Ma la madre… —obiettò il milite. —Ascolta attentamente ciò che ti dico —disse Aucario fissandolo bene negli occhi —Ora tu dovrai dire al monaco Infermiere che il suo Vescovo gli ordina il silenzio sino a domani sera. La madre deve recarsi in chiesa a San Martino e pregare sulla tomba del santo per ringraziarlo dell’intercessione, il padre dovrà restare al suo mulino e metterai una guardia affinché nessuno gli rivolga la parola. Poi tu stesso sbarrerai la porta dell’infermeria e soltanto tu potrai parlare col ragazzo. Non permetterai ad alcuno di rivolgergli la parola. —Nessuno? —domandò stupito il milite. —Nessuno. E non permetterai a qualunque armato di varcare la soglia. Chiunque tenti di entrare dovrà essere fermato con la forza. —Con la forza? —domandò costernato l’uomo. —Con la forza, chiunque sia. Non ti farai intimorire nemmeno dalla scara del re. —La scara? —domandò stupito —Perché? Ma il ferito… —Nessuno dovrà entrare. Dovrai vigilare anche sul ferito della scara e nessuno dovrà più parlare con lui sino a domani sera! —ordinò Aucario —Prendi una scure franca e il tuo scudo e barricati nell’infermeria. Aucario mise la destra sulla spalla della guardia e con tono amichevole gli disse —La sicurezza di questa città, oggi, dipende soltanto da te. Al momento opportuno saprai tutto. Ora devo recarmi da Erlingo. —Sì, mio Capitano! —disse con orgoglio l’uomo battendosi la destra sul petto. Poi si allontanò di corsa chiamando un commilitone a gran voce.
IL COMPITO DI UN VESCOVO
Vi fu un tempo, lontano solo poche generazioni, in cui un Vescovo era nominato per pura piaggeria. Un cortigiano, un uomo da ricompensare, un intrigante della corte. Egli non veniva più eletto dall’assemblea dei fedeli per la sua devozione e la sua santità. Al tempo dei re fannulloni, il Vescovo veniva nominato dal re a suo puro capriccio. Vi erano così anche vescovi molto peccatori, i quali portavano con sé sulla cattedra anche tutti i loro vizi precedenti. E il Vescovo, a quel tempo, riceveva uno stipendio dall’erario. Poiché lo Stato manteneva uno stuolo di funzionari laici e di vescovi, ciò pareva normale a tutti. Poi vennero i santi uomini a ripredicare i vangeli: San Colombano dall’Irlanda, San Benedetto dall’Italia, e molti altri che diedero rigore morale agli uomini di Chiesa. Ma fu quando i saraceni invasero le terre governate dai sovrani Visigoti che tutto cambiò. L’erario sparì e con esso l’oro che aveva sempre mantenuto i re dei Franchi, la loro corte dispendiosa, i loro vizi, i loro funzionari e scribi, i vescovi. La carica di vescovo divenne meno appetibile: meglio essere Conte o Abate. Quindi i vescovadi vennero nuovamente affidati a persone capaci, almeno in grado di leggere e scrivere in latino, dato che era loro compito insegnare le scritture e che, allo scendere della notte, essi apparivano come una piccola lanterna a rischiarare il buio del mondo. Dal tempo in cui l’ultimo re fannullone fu rinchiuso da Pipino il breve in convento, i Vescovi divennero sempre meno ricchi ma più pastori di anime e più giusti. In poche generazioni, i vescovi si assunsero il compito di amministrare le città in cui trovava sede la loro cattedra. Ed essi presero ad amministrare anche la giustizia, a dirigere il lavoro dei servi ed a mettersi a volte in contrasto con il Conte. E così, al tempo di Carlo, il vescovo cura le anime e la sicurezza della città e pasce il suo gregge. Il vescovo combatte la superstizione e l’oscurantismo. Il vescovo fa istruire i preti. E così, nel pieno del suo regno, Carlo cominciò a distribuire cattedre a uomini di Chiesa di cui apprezzava la cultura e l’ingegno. Carlo si attende dai suoi vescovi la stessa fedeltà di un conte ma anche il rigore morale della santità mitigato dal perdono cristiano. Ed i vescovi di Carlo sono ben coscienti della loro nuova funzione. Carlo è il re Cristianissimo, il custode della Santa Chiesa, il protettore del Santo Padre e l’invalicabile barriera contro i suoi nemici. Il Vescovo veglia sul suo sovrano e prega per lui. —Mio Vescovo —disse Aucario —Devo renderti conto della mia indagine.
Erlingo, stupito, fissò negli occhi il suo interlocutore. —Hai scoperto chi ha ucciso l'uomo misterioso della foresteria? —Ho capito chi è l'uomo misterioso, perché si trovava qui e credo di sapere chi ha ucciso il sagrestano, mio Vescovo. —Dimmi, dunque: chi? Aucario nicchiò. —Allora? Chi era quell'uomo? Chi l'ha ucciso? Perché? Erlingo aveva alzato il tono della voce. L'impazienza era evidente. —Mio Vescovo —disse Aucario —Non posso dirti quanto ho scoperto, dato che sono in gioco la città, il regno, molte vite, molte cose. —Cosa intendi dire? —esclamò Erlingo — Non puoi rivelarne i nomi? —Potrò farlo soltanto davanti al tuo re —disse Aucario —ed egli potrebbe non credermi. Non posso sostenere ordalie con tutta la scara del re. —È dunque una cosa tanto grave? —disse Erlingo tradendo grande preoccupazione. —Non immagini quanto, mio Vescovo. Erlingo scosse il capo preoccupato. —Tu non hai mai una buona notizia… —disse con gravità appoggiando sconsolato la mano destra sulla sua fronte rugosa. —No, mio Vescovo, una ce l’ho. Erlingo sollevò di colpo il capo, come rinvigorito. —Il figlio del mugnaio si salverà —disse ad alta voce per farsi ben udire dal servo del Vescovo —Egli ha rivelato ciò che ricorda della sua aggressione ed il suo aggressore sarà presto sottoposto alla corte di giustizia!
Il servo Clemente lasciò cadere in terra un oggetto. Aucario restò imibile, con quell’aria imperiosa che sfoggiava nei momenti difficili. —Che fai? —domandò il Vescovo al suo servitore —Fortuna che è di legno quella coppa! —Perdona, mio Vescovo —disse il servitore sorridendo ed inchinandosi. Erlingo ebbe un gesto come a dire “Lasciamo perdere”. —Cosa devi fare? —domandò quindi Erlingo ad Aucario. —Domani dovrò incontrare il re. Dovrai chiedergli udienza a corte per mio conto. —Vorrà saperne la ragione… —disse il Vescovo. —Puoi dirgli che è questione capitale —disse Aucario —Domani, al suo cospetto, rivelerò il nome di chi ha seminato il terrore a Tours! Erlingo sorrise soddisfatto. —Non puoi anticiparmi qualche notizia? —domandò con aria complice. —No, mio Vescovo, ne va della tua sicurezza. Erlingo sobbalzò sul suo seggio. —Chi oserebbe toccare un Vescovo? —disse con indignazione. —Domani, quando sarò di fronte al re, lo saprai. Il servo sgattaiolò via dalla stanza. —Grazie, Aucario —disse il Vescovo —Chiederò udienza per te. Ma ti avverto, sarà complicato: oggi l’Ambasciatore di Bisanzio si trova alloggiato a corte con tutti gli onori. Le sue guardie sono ovunque. —Non temo le guardie di Bisanzio —disse con sufficienza Aucario. —Sono dei barbari… —disse Erlingo.
—Non li temo —ribadì Aucario. —Sta bene —confermò Erlingo con soddisfazione —Sono ansioso di conoscere la verità. Era un congedo. Aucario fece un leggero inchino e si voltò. Erlingo non ebbe modo così di vedere l’ampio sorriso disegnato sul volto del suo Visdomine. Presto, tutta Tours avrebbe saputo la notizia.
LE OMBRE DELLA NOTTE
Quando le ombre si fanno lunghe, quando la sera scende e si fa notte, gli uomini sprangano le porte della città. Le guardie accendono i fuochi sulle torri e nelle loro vigiliæ percorrono a turno le mura alla luce delle torce. Un uomo armato percorre le strade a vigilare sui buoni cittadini e sulle loro famiglie. Le notti dei Franchi sono buie e gli uomini si chiudono nelle loro capanne: e sanno che qualcuno veglia su di loro. Ma il pericolo, la notte, è sempre vivo. La guardia che attraversa le strade ha con sé una spada franca; serve come monito: nessuno può sfuggire alla giustizia. E così gli uomini chiudono i loro usci: le belve sono lasciate fuori, i malfattori non hanno buon gioco. Gli uomini sono sicuri che soltanto i demoni possano ancora far loro del male e perciò prima di dormire molti pregano: essi sono ben custoditi, anima e corpo. Tuttavia, una sentinella è solo un uomo e basterebbe attendere che egli si trovi altrove. La guardia aguzza i suoi sensi, fiuta, ascolta, scruta nella notte e ogni rumore gli dà un brivido lungo la schiena. I rumori della notte, i fruscii, i tintinnii, fanno venire la pelle d’oca. Chi non ha mai provato a vegliare armato nella notte, in attesa di un nemico acquattato nel buio? La notte è amica del peccato, della violenza, dell’agguato, del complotto. E così gli uomini si affidano a San Michele Arcangelo e alla sua spada di fuoco. Anche se a volte non è sufficiente. Le ombre della notte sono lunghe. Chi ha vegliato nella notte con le armi pronte, sa di cosa parlo. Aucario chiuse l’uscio dell’abitazione. Il fuoco era ben vivo nel focolare e una torcia illuminava l’interno della casa. —Mio Signore —disse con allegria Wolfrida— sei tornato presto, ma il desinare è già pronto! Wolfrida mise subito sul tavolo un grosso pane scavato e sollevò una pesante pentola dal camino. Con destrezza, usando un attrezzo, empì il pane con un impasto di fagioli e lardo. Quindi posò la marmitta e mise una coppa sul tavolo. Aucario sospirò, si slacciò il fodero e appese la sua spada ad un gancio. Sollevò la scure franca dal gancio e la posò accanto al letto. —Wolfrida —disse sorridendo —ti ho detto più volte che non devi più
chiamarmi “mio Signore”. Devi chiamarmi semplicemente “Aucario”. —Sì, mio Signore! —rispose Wolfrida. Aucario sospirò e scosse la testa. —Il figlio del mugnaio si è ristabilito —le disse Aucario. Lei tacque imbarazzata. —Non ricorda nulla —aggiunse lui —nemmeno si ricorda di te. Lei parve sollevata. —Sono felice che si sia ripreso —rispose lei— Ma se non ricorda nulla è meglio così. Sarebbe stato imbarazzante. —Non dovrai dirlo a nessuno —le disse ancora lui —solo io, tu e il capo delle guardie sappiamo la verità. Nessuno deve saperlo o l’uomo che l’ha colpito non sarà catturato. —Sì, mio Signore —disse lei. Aucario si sedette di fronte al pane fumante. Quindi attese. —Non è di tuo gusto, mio signore? La voce preoccupata di Wolfrida obbligò Aucario a voltarsi alla sua ricerca. Wolfrida era accucciata accanto al tavolo. —Che fai accanto al tavolo, Wolfrida? —le domandò. —Attendo che tu mangi, mio signore. —Wolfrida —disse in tono meno conciliante Aucario —non sei più una serva. Ora devi sederti accanto a me e mangiare il mio stesso pane. La ragazza si alzò e si sedette accanto a lui. —Perdonami —gli disse.
—Non devi umiliarti. Cristo è venuto a mondo perché tutti fossero uguali di fronte a Dio. Wolfrida sorrise e non disse più nulla. I due presero a mangiare dallo stesso pane. Infine divisero ciò che restava del pane, inzuppato dei sapori dei fagioli e del lardo. Aucario mise del vino nella coppa, ne bevve un lungo sorso e poi la ò a Wolfrida, che ne bevve avidamente, quindi ò di nuovo la coppa al marito. Aucario bevve ancora, poi la posò. Sentì il capo di Wolfrida posarsi sulla sua spalla e se ne sorprese. Si voltò a guardarla e ne vide gli occhi riflettere la luce della torcia. —Ti sarò grata per sempre di ciò che hai fatto per me. Nessuno avrebbe fatto tutto questo. Aucario non rispose e le carezzò una guancia. Lei gli si appoggiò morbidamente. Aucario non potè fare a meno di carezzarle la magnifica chioma. —Non devi mai tagliare i tuoi capelli. E’ l’unico comando che ti do. —L’uso delle donne sposate… —ribatté timidamente Wolfrida. —Non se ne parla nemmeno — la interruppe Aucario parlando in tono severo — tu non taglierai la tua chioma. E con un gesto sigillò il discorso. Wolfrida si alzò dalla panca, spense la torcia. Poi con un rapido movimento, si sfilò le vesti e restò immobile in piedi alla luce del focolare. Aucario si soffermò ad osservare il guizzare della luce sulla sua pelle. Non erano necessarie parole. Aucario si alzò, le si avvicinò e lei gli si abbandonò come non era mai accaduto prima. Come se le fiamme non fossero nel camino, come se il calore del vino e del fuoco insieme avessero sprigionato tutto il loro potere nella loro mente, a lungo. E Aucario la strinse come fosse stata la prima e
ultima volta. Quindi, Wolfrida appoggiò il capo sull’esausto Aucario. In quel momento, all’esterno si sentì “E’ mattutino e tutto va bene!”. Wolfrida si alzò a sedere di scatto. —Durante le vigiliæ, d’ora in poi la guardia avviserà del suo aggio, e così tutti sapranno l’ora. —disse Aucario. Wolfrida si rassicurò e si strinse a lui. Lui la carezzò. Aucario spostò delicatamente e silenziosamente Wolfrida da sé. Attese qualche momento, poi si rialzò e si rivestì in silenzio. La notte aveva assunto la sua normale fisionomia e l’usuale salmodiare dei frati era tornato a riempire lo spazio rubandolo ad usignoli e civette. Aucario annotò mentalmente quale dei dodici salmi potesse essere. Poi un rumore strano e improvviso attivò i suoi sensi. Un rumore ben noto, sordo, metallico, catturò la sua attenzione. Mise istintivamente mano alla scure. Un fragore di legno infranto spezzò il silenzio della notte. Wolfrida gridò terrorizzata. —Ammazza! Ammazza! —gridò una voce. Aucario si sollevò impugnando la scure. —Sei finito, Capitano! —ruggì una voce all’interno della casa. Aucario vorticò su se stesso e colpì con la scure. L’uomo accanto alla porta emise un rantolo sordo, ma altre figure erano già entrate. Aucario non riuscì ad estrarre la scure dal corpo dell’uomo e si lanciò verso la spada a sguainarla, ma quando l’aveva quasi raggiunta un netto colpo scagliò la sua arma lontano. Una risata echeggiò sinistra nel buio. Aucario gridò in una lingua oscura. Si udirono due colpi sordi. E i due uomini davanti a lui caddero inerti davanti ad Aucario. Per qualche istante, l’unico rumore fu l’ansimare di Aucario e di Wolfrida che, terrorizzata, si era rannicchiata sotto la coperta nel tentativo di nascondersi.
—Sei fortunato, barbarasata —disse una voce nella notte. —Ti devo la vita, barbaforcuta —rispose ansante Aucario. —Io ti sono ancora debitore —ribadì l’ombra gigantesca nella notte mentre Aucario accendeva una torcia —erano soltanto due. L’ombra gigantesca dell’uomo, alla luce della torcia, rivelò essere il capo delle guardie dell’ambasciatore bizantino. Il norreno rise grassamente, alzando i pugni al cielo, come per ringraziare una misteriosa divinità di avergli permesso di combattere. —Capitano! —gridò una voce dall’esterno —cosa è successo? L’uomo entrò e vide il gigantesco norreno con la scure insanguinata e si intimorì. —Quest’uomo ci ha aiutati contro quei predoni che ora giacciono nella casa. — disse Aucario. Poi si voltò e andò a rasserenare la povera Wolfrida, ancora terrorizzata. —Nessuno oserà mai più —le disse con certezza Aucario —Nessuno oserà mai più. Il gigantesco norreno diede una pacca sulla spalla della guardia notturna e quasi la face cadere a terra. —Chi sono questi uomini? —domandò. —Uomini della scara del re —rispose Aucario asciutto. La guardia alzò la lampada ed illuminò meglio la scena. Un uomo giaceva in terra con la scure di Aucario conficcata profondamente nel petto. Ben presto due guardie della torre giunsero trafelate. Erano armate di tutto punto. —Voi! —disse la guardia con la lampada —custodite questa porta e che non entri nessuno. Specialmente la scara del re. —Perché la scara? —domandò uno dei due.
—La scara del re ha cercato di uccidere il Capitano! —La scara? Il termine scara cominciò a circolare. Aucario si rese conto che all’esterno della casa si era radunata una piccola folla di uomini armati alla meglio e che alla notizia ebbe un attimo di smarrimento. —Che succede? —gridò la voce del Conte Palatino. Il Conte era accompagnato da alcuni uomini della scara. Alla loro vista, le guardie alzarono gli scudi, sbarrando l’accesso alla porta. —Sono il Conte Palatino! —esclamò con rabbia l’uomo —Fate largo! Per tutta risposta, gli uomini alzarono le lance, minacciosi. Il Conte capì che la piccola folla che si era radunata stava schiumando rabbia e si faceva minacciosa, Qualcuno gridava insulti. —La scara del re dovrebbe proteggerci, non ucciderci! —Siete peggio dei Sassoni! —I lupi sono meno pericolosi! —Andatevene da Tours! Qui avete portato solo odio e sangue! —Predoni! Saraceni! Pagani! —Creature del diavolo! Il Conte si rese conto della precarietà della situazione e tentò di arretrare, ma la voce di Aucario calmò gli animi. —Lasciate are il Conte, lui soltanto. Il Conte entrò nella casa e si arrestò davanti ai corpi. Li osservò. —Chi ha ucciso i miei uomini?— disse furente. —Io, li ho uccisi —disse il gigante norreno.
Il Conte si ritrasse istintivamente alla vista del colossale guerriero. —Io rispondo della sicurezza del re! —disse ad alta voce. —E io di quella dell’Ambasciatore! —gridò il norreno —I tuoi uomini sono pericolosi e non obbediscono, oppure sei tu che come comandante non sai farti obbedire? —Obbediscono solo a me! —gridò il Conte. —E allora cosa ci fanno nella mia casa di notte come dei predoni? —disse Aucario. —La tua casa? —domandò il Conte, stupito. —Hanno sfondato la porta. Sono entrati gridando “Ammazza! Ammazza!”, è forse stato per tuo ordine? Se non fosse per la guardia dell’Ambasciatore ora io e mia moglie saremmo al posto di questi tre sciagurati. Il Conte osservò la scena e non disse più nulla. Si avvicinò ed identificò i tre. Stupito. Scrutò in volto tutti i presenti. Poi uscì dalla casa e rivolto ai suoi uomini disse —Che nessuno esca più dal palazzo! Chiunque trasgredirà finirà nella fortezza tra i Sassoni! Dovete tutti rendermi conto subito: chi sa, parli ora o sarà punito! Il re non sarà affatto contento di questa fellonia! Poi si allontanò con i suoi uomini. Mentre la gente commentava l’accaduto. Aucario riconobbe tra la gente Clemente, il servo del Vescovo. —Vai e riferisci ad Erlingo l’accaduto! —gli disse —Presto! Il servo corse verso San Graziano. Il Vescovo si sarebbe molto irritato. Aucario si voltò verso il gigantesco norreno. —Non credevo che avrebbero osato tanto: pensavo ad un agguato lungo la strada, durante la vigilia. —disse. —Per fortuna ti stavo attendendo —rispose il norreno, sottovoce. Poi si mise a ridere. —E’ stata una bella battaglia, peccato che sia durata così poco!
Poi il norreno uscì e Aucario tornò da Wolfrida, ancora terrorizzata.
DOMINE DIES
UN UOMO HA SOLO IL SUO ONORE
Vige, tra i Franchi, la legge dell’onore. L’onore di un uomo deve sempre sopravvivergli e la sua fama deve oltreare i secoli. Quando ciò accade, non ha prezzo. La notte avvolge il ricordo degli uomini ed è raro che ci si rammenti di uomini che non sono stati re, santi o papi. Tutti i popoli del nord hanno sempre vissuto secondo la legge dell’onore. Tuttavia, tra i Franchi, per un lungo periodo ciò non è più stato d’uso. E questo rende tanto più stupefacente il comportamento di coloro i quali fanno dell’onore la propria misura di vita: mantengono la parola a qualsiasi costo, sono onesti e retti, sono Giusti, temono Dio e non gli uomini, disprezzano l’avidità: ecco cos’è l’onore. La notte ingoia chi non è come quegli uomini. Essi diventano leggenda: il buio non scende su di loro e persino chi commette dei soprusi, teme il ritorno di ciascuno di essi quanto temono la mano di Dio. Le loro gesta divengono immortali e, inevitabilmente, qualcuno in buona fede vi aggiunge del suo. Il servo di Erlingo giunse da Aucario quando ormai era giorno fatto e Wolfrida si era ormai tranquillizzata. —Mio Capitano —disse il servo— Erlingo dice che dovrai andare a corte. Il re vuole sapere perché questa notte a Tours è corso molto sangue. —Ne ero certo, vecchio mio! —disse Aucario sorridendo al servitore e mettendogli una mano sulla spalla come ad un vecchio compagno d’armi. Quindi si voltò verso Wolfrida. —Qualunque cosa accada —le disse— ricorda che tu sei libera. Tu non taglierai i tuoi capelli. Tu potrai fare ciò che ti aggrada e non mi devi nulla. Nessuno oserà mai farti del male e presto saprai il perché. Qualunque cosa ti diranno di me, qualunque cosa mi accada, rammenta che tu sei libera, ora. —Mio Signore… — disse Wolfrida.
—Non sono il tuo signore, Wolfrida. Sono semplicemente “Aucario”. Il Capitano abbracciò la ragazza in modo paterno, le carezzo i magnifici capelli e Wolfrida capì. —Non lasciarmi, mio Signore. Non lasciarmi. Wolfrida gli appoggiò morbidamente il capo sul petto. Aucario sollevò lo sguardo per non intristirsi troppo. —Sei una donna capace, Wolfrida. Capace, intelligente, forte, attraente, giovane. Non fidarti mai dei sentimenti, non fidarti mai degli uomini. Prendi ad esempio la sfortunata Dhuoda: ecco ciò che accade quando ci si fida troppo di qualcuno. Ora sei libera e potresti vivere senza lavorare. Non fidarti di nessuno, troppo fa gola quest’arte del demonio che si chiama denaro. Io ho molto viaggiato e posso dirti che tutto fa la gente per esso: ruba, uccide, mente, tradisce, corrompe, spergiura, si converte, adora il demonio… Il denaro non si presta: è come prestare il tempo, che appartiene soltanto a Dio. Il denaro non si butta: il lusso è un insulto a chi non ha di che mangiare. Il denaro non si venera: ricorda le scritture e la vicenda del vitello d’oro. Il denaro è soltanto un mezzo di scambio, nulla di più deve essere che questo e tu saprai bene usarlo, certamente. Wolfrida gli si strinse forte. Lo abbracciò senza guardarlo negli occhi, come una donna che ha il timore di perdere il marito in guerra. —Che farò senza di te? —gli disse. Aucario continuò ad accarezzarle i capelli e non rispose. Lei continuò: —Perché la felicità dura così poco? Wolfrida sollevò lo sguardo e lo fissò negli occhi. Le guance erano appena bagnate da due timide lacrime. —Non piangermi —disse lui— non è detto che mi uccideranno! Lei tentò di colpirlo con la mano destra. Lui le fermò la mano. Wolfrida cominciò a singhiozzare.
—Non posso impedirti di piangere, Wolfrida —disse— è giusto che sia così. Non tutte le lacrime sono sbagliate e io conserverò le tue per sempre nel mio cuore, qualunque cosa accada. Wolfrida smise di piangere. Lo fissò intensamente negli occhi, ne studiò ogni particolare. —Perché mi guardi così? —le domandò. —Voglio tenere con me il tuo sguardo —gli rispose— non potranno mai portarti via da me. Io ti seguirò ovunque. —Tu sei libera —le disse Aucario— potrai fare ciò che ti aggrada, ma non dovrai mai tagliarti i capelli come le donne sposate. —Mio Capitano… La voce del servo di Erlingo li sollevò da quel doloroso abbraccio. —Mio Capitano, la corte ti attende… —Arrivo subito —disse lui— devo salutare mia moglie. Il servo aveva prestato servizio in guerra e capì subito ciò che Aucario intendeva dire. Si inchinò leggermente ed uscì. —Io sono molto più anziano di te —le disse lui— in ogni caso dovrai rassegnarti alla sorte. —Io sono Wolfrida —disse lei con sicurezza, lo sguardo fiero, tenendo alto il mento con orgoglio— io ti aspetterò. Era la frase che le mogli dicevano ai mariti in partenza per la guerra. Aucario le diede un bacio sulla fronte e la sua benedizione. Quindi la abbracciò e si allontanò in fretta, per non commuoversi a sua volta. La voce di Wolfrida, alta, forte, sicura, lo raggiunse: —Io sono Wolfrida! Io ti aspetterò! Aucario sentì qualcosa spezzarsi dentro di sé come se, improvvisamente
ridiventato bambino, la notte fosse tornata a fargli paura ed egli avesse avuto bisogno della carezza di una madre ad infondergli sicurezza. —Io sono Wolfrida, Aucario! —disse lei a voce molto alta per farsi ben udire da tutti —Io ti aspetterò!
IL DELITTO E’ OSCURO
Oscuro è il delitto. Oscura è la materia di cui esso è fatto. Trae la propria linfa vitale dal profondo del cuore dell’uomo, nell’unico luogo in cui la luce del sole non giunge, ove sola arriva la luce di Dio cui nulla può essere nascosto. Oscuro è il cuore dell’uomo se la luce di Dio non lo illumina. Freddo è l’uomo se la luce di Dio non lo riscalda con la sua infinita sapienza. Quale ragione spinge l’uomo al delitto? Nonostante il prodigarsi su questo argomento, Teodulfo d’Orleans non è riuscito a darci una risposta completa. Chissà se un giorno qualcuno riuscirà in questa impresa. Aucario si presentò al re dei Franchi con il migliore dei suoi abiti e con tutti i segni del suo rango. Indossò la preziosa tunica verde, indossò la costosa maglia di ferro, portò con se la spada al fianco e la grande scure dei Franchi. Fissò negli occhi, con grande determinazione, il re dei Franchi e lo salutò battendo la mano destra serrata a pugno sul proprio petto. —Saluto il grande re dei Franchi! —disse con enfasi, la voce ferma e sicura —E la sua splendida famiglia! Si voltò e scrutò molti occhi. La corte era riunita. —Saluto Erlingo, il mio Vescovo —e nel dirlo fece un lieve cenno di inchino col capo— Saluto l’Assemblea dei Franchi ed i nobili abati di San Martino e San Graziano. Saluto il Balivo. Saluto il nobile Ambasciatore di Bisanzio che oggi vedrà qualcosa degno di essere raccontato alla sua graziosa Sovrana Irene. Saluto la corte di re Carlo, e tutti voi: il brillante Teodulfo, il sapiente Alcuino, l’astuto Teodorico, il fedelissimo e fortissimo Wibodo. Saluto il Conte Palatino Teodaldo, il Camerario Adalgiso, l’Arcicappellano Fulrado, il Connestabile Geilone… Infine pose gli occhi fermi in quelli di uno dei presenti. —…E saluto il nobile Hardrado di Turingia —l’uomo sostenne lo sguardo e diede un lieve cenno col capo, come d’intesa. Aucario proseguì perciò il discorso, certo che Hardrado non l’avrebbe tradito.
Aucario trasse un lungo respiro e proseguì. Erano presenti le figlie di Carlo, la regina, Pipino il gobbo, molti curiosi e persino il Gastaldo di Erlingo con alcuni servi del Demanio. Anche alcuni mercanti ebrei del seguito di Carlo si trovavano in disparte insieme a Salomone di Tours. —In questi giorni, Tours ha purtroppo dovuto assistere a tanti fatti spiacevoli e ad alcuni delitti: un uomo misterioso è stato assassinato nei pressi del Santo luogo di San Martino, uno nei pressi delle mura, è avvenuto un tentativo di stupro ed il figlio del mugnaio è stato ferito gravemente, mentre io stesso ho dovuto difendermi dall’aggressione di alcuni guerrieri della Scara del re… A questa affermazione, la folla presente prese a vociare. —Silenzio! —intimò con forza il Conte Palatino, imponendosi sul mormorio. —Tu hai la soluzione? —domandò Erlingo —il mio servo dice che tu sai chi sia il colpevole. E’ vero? —Io ho compreso tutto. Alcuni avvenimenti sono slegati da altri, ma tutti hanno una comune matrice come il conio delle monete d’argento del re dei Franchi. —E allora spiegaci come tutto ciò ha potuto accadere proprio a Tours, nei pressi del luogo più sacro delle Gallie, proprio mentre giungeva l’ambasciata di Bisanzio —disse ancora Teodaldo, il Conte Palatino. —Vi posso spiegare ogni cosa. In questo chiamo Dio a testimone su ciò che dirò. La folla riprese a mormorare. Questa volta nessuno richiamò all’ordine ma ben presto il mormorio cessò ugualmente. Pochi giorni or sono, giunsi a Tours, proprio quando un santo frate osservava con sconcerto un uomo già partito per altra luce davanti alla porta della foresteria di San Martino. L’uomo appariva una persona non avvezza al lavoro dei campi o a quello della spada, non aveva che due calli tra le dita e dunque non poteva essere che uomo di penna, un religioso. Esaminandolo, ho scoperto che non era morto in quel luogo. In terra non vi era sangue e le macchie che egli portava sul corpo testimoniavano che era morto in ben altra posizione che quella in cui era stato ritrovato. E la ferita mortale gli era stata inferta dall’alto al basso con una spada lunga dei Franchi…
—Come puoi dire questo? —disse il Conte Palatino. —Conosco bene le ferite che provoca una spada come quella. Io stesso ne ho usate in battaglia. Chiunque combatta con la spada conosce le ferite della spada. —Chi può garantire questo? —domandò Teodorico. —Io —disse il Balivo— Il Capitano di Tours mi ha sconfitto nel duello giudiziario: Dio ha dato ragione alle sue affermazioni. —Il mio Capitano è molto competente in queste faccende —disse Erlingo, che portava tutti i segni della sua carica di Vescovo. —Egli ha dato prova di grande acume —intervenne Alcuino. —Prosegui, Aucario —disse re Carlo —sono impaziente di sapere chi mi abbia recato tale offesa e per quale ragione l’ha fatto. —Sì, grande re. —disse Aucario— Ma prima di darti la soluzione di questo delitto, devo darti conto degli altri che sono accaduti poco dopo. E’ avvenuto che Quado, figlio di Hraufo, ha tentato di prendere con la violenza la moglie di suo padre, la bella e sfortunata Dhuoda. E Hraufo ha tentato di uccidere la moglie credendola colpevole di ciò. —Siano chiamati Dhuoda, Hraufo e Quado! —gridò il Conte Palatino. Due guardie di palazzo spinsero malamente i tre all’interno della sala. I due uomini avevano mani e testa imprigionati in ceppi di legno. Dhuoda tremava per la paura, Hraufo piagnucolava indecorosamente come tutti i vili, Quado schiumava rabbia e non staccava gli occhi feroci da Dhuoda. —E’ accaduto —riprese Aucario— che mentre Dhuoda era al lavatoio con altri cittadini e cittadine di Tours, Quado l’ha spogliata e ha tentato di prenderla con la forza. —Lei mi ha provocato! Lei lo voleva!—gridò Quado iroso alzando il pugno verso Dhuoda. —Quella cagna in calore ha fornicato con tutta Tours! —piagnucolò Hraufo.
—Silenzio o vi faccio bastonare! —gridò il Conte Palatino —Siete al cospetto del re Carlo! I due zittirono. Quado fissava Dhuoda con uno sguardo indecifrabile: lascivo, rabbioso, feroce, certamente cattivo. Hraufo continuò a piagnucolare tenendo lo sguardo basso. —Ebbene essi sono già stati condannati dalla Corte di Giustizia che io stesso ho presieduto —disse Erlingo —Andiamo oltre. —Sì, mio Vescovo —disse Aucario— Quado brama ancora Dhuoda —e in questo sollevò il lembo anteriore della veste di Quado mostrando a tutti la virilità eccitata del giovane, il quale emise una sorta di ruggito e tentò di aggredire la donna tremante. La folla commentò con scandalo il tentativo di incesto. —L’ho detto che è una cagna in calore… —piagnucolò Hraufo. —Hraufo! —esclamò Erlingo alzandosi in piedi e brandendo la pastorale come un’arma —Tu mi hai aggredito nella chiesa di San Graziano mentre confessavo tua moglie e mi hai accusato di esserne l’amante. Poi, non contento, hai tentato di ucciderla nel mezzo di Tours e soltanto l’intervento di Aucario ti ha impedito questo gesto scellerato… —…E’ una cagna in calore… —piagnucolò Hraufo— si è concessa anche a lui… Aucario afferrò Hraufo per il bavero della tunica e lo sollevò da terra. —Tu sei un vile e come tutti i vili sai picchiare le donne e colpire alla schiena gli uomini. Quindi, Aucario lo lasciò e si rivolse alla corte. —Egli non ha più virilità e dunque crede che sua moglie si conceda a tutti, compreso suo figlio. Quado è un violento e uno stupratore e nessuna donna è al sicuro se resta a Tours. Hraufo non ha mai servito il suo re e sa colpire soltanto alle spalle. Soltanto la mia esperienza mi ha salvato dalla sua ira. Tuttavia egli credeva ciò che gli dicevano le guardie di Tours, che lo hanno sbeffeggiato facendogli credere che mentre stava nella torre a meditare, sua moglie ava con me una felice notte…
La corte prese a ridere sguaiatamente. Allora Aucario sollevò nuovamente la veste di Quado. —Questo Priapo pagano ha tentato un incesto e suo padre l’impotente ha cercato di ucciderne la vittima. Una bella famiglia! —Il matrimonio è sciolto! —disse Erlingo alzandosi in piedi —Dhuoda non deve più alcuna obbedienza al marito. E’ libera di concedersi a chi crede. Risuonò ancora la risata della corte. —Tuttavia non era con me la sfortunata Dhuoda, poiché mi trovavo in compagnia di Wolfrida, che è ora mia moglie —disse Aucario— Hraufo è pericoloso in quanto vile. Ha tentato di colpirmi mentre soccorrevo Dhuoda ed ha osato alzare una scure sacrilega nella chiesa di San Graziano contro il Vescovo Erlingo. La folla rumoreggiò. —Quella stessa notte —riprese Aucario— il figlio del mugnaio fu bastonato a morte. La folla fece un altro verso di stupore. —Tuttavia —riprese Aucario— non sono stati Quado o Hraufo a commettere il delitto. E lo stesso ragazzo vi potrebbe dire chi è il colpevole. Oggi si è ripreso ed è tornato in senno: è salvo! La folla esultò come se fosse stato merito di Aucario. —Perciò vi dirò presto chi è l’autore della bastonatura, e poiché tutti hanno creduto che fosse Wolfrida ciò mi tocca da vicino dato che si tratta della stessa notte che ho ato con lei: dunque Wolfrida non poteva commettere questo gesto scellerato. —E allora chi è stato? —domandò il mugnaio arrabbiato —Dimmi chi è stato e lo colpirò io stesso! —Non credo che ti sarebbe possibile —disse con tono di sufficienza Aucario — tu non hai dimestichezza con le armi quanto il colpevole. Sarà il re a punirlo.
—Dicci allora chi è stato! —esclamò impaziente re Carlo. —Ancora un attimo di pazienza, grande re —disse Aucario— devo ancora parlarvi di un altro delitto, quello del monaco Wortha, il Sagrestano. —Parlaci dunque di questo delitto —disse Alcuino di York —la logica delle tue deduzioni mi interessa molto. —Wortha è stato assassinato dalla stessa mano che ha ucciso l’uomo della foresteria. —affermò seccamente Aucario. Il pubblico rumoreggiò. —Hai detto che l’uomo della foresteria è stato ucciso con una spada lunga franca —disse Teodulfo pacatamente —quindi, correggimi se sbaglio, dato che se Wortha è stato assassinato dalla stessa mano, è un uomo di re Carlo ad aver ucciso entrambi… Il pubblico ebbe un grande moto di stupore. —Come puoi accusare gli uomini del re! —esclamò il Conte Palatino —Quali prove hai per queste gravissime accuse? Aucario si voltò verso il pubblico ed aprì le braccia. Ma prima che potesse parlare intervenne il Balivo. —Io ho mosso le stesse obiezioni —disse —ed ho perduto il duello giudiziario. Dio stesso, in questo, è intervenuto. Dal pubblico vi furono molte voci “E’ vero! E’ vero!” e anche “Ha ragione, ho visto” e “Tutta Tours ha assistito”. Aucario, rinfrancato dall’inatteso intervento del Balivo, riprese. —Ma tu accusi la Scara del re! —disse l’Arcicappellano. —Ne sono stato aggredito, di notte, nella mia abitazione. Se non fosse stato per l’intervento della scorta dell’Ambasciatore, ora probabilmente avreste un altro delitto di cui ricercare il colpevole…
Il pubblico rumoreggiò. —Voglio capire perché la mia Scara ti ha aggredito. —disse seccamente il re zittendo tutti i presenti. —Sì, grande re. Dobbiamo ora ritornare al giorno in cui tu sei giunto in città con la tua scorta, poco dopo l’arrivo del nobile Ambasciatore dei Romani di Costantinopoli. —Il giorno in cui Hraufo ha tentato di colpirmi con la scure? —domandò Erlingo. —Sì, mio Vescovo —rispose Aucario— quel giorno. —Ricordo che la gente di Tours ti portò da me in trionfo su un scudo. —In trionfo? —affermò stupito il Connestabile Geilone. —In trionfo! —esclamò stizzito il gigantesco Wibodo —Se ha detto in trionfo vuole dire che lo hanno portato in trionfo! Geilone ammutolì. Non gli era mai accaduto di veder portare in trionfo uno dei suoi guerrieri. —Prosegui —disse asciutto il Conte Teodorico —sono curioso di sapere dove porta questa via… —Sì, nobile Teodorico. Dunque, quel giorno giunse in città Rothlario con tre guerrieri della Scara del re. Rothlario travolse le guardie della porta e terrorizzò i pellegrini reclamando a gran forza qualche vergine e del vino… —Vergini a Tours? —rise divertito l’Abate Iterio, provocando l’ilarità di tutti i presenti. —Beh, però il vino si poteva anche trovare! —esclamò Wibodo destando ancora maggiore ilarità. —Purtroppo —proseguì Aucario— la mia offerta di vino non destò in Rothlario una buona risposta: rifiutò di mostrarsi pacifico e fui costretto a difendermi.
—E quindi è così che le guardie di Tours hanno sopraffatto Rothlario — considerò il Camerario Adalgiso. —No, nobile Adalgiso: io solo a piedi, mi sono difeso dall’assalto di Rothlario. Io solo l’ho sconfitto e disarmato. La folla dei popolani, a quelle parole, osannò Aucario. La corte del re, invece, ebbe un moto di profondo stupore. —Tu solo hai disarmato Rothlario? —domandò Geilone. —Certo. Le guardie di Tours hanno dovuto pensare ai tre membri della scara del re che, obbedendo agli ordini di Rothlario, erano corsi in suo soccorso. La corte ebbe un altro moto di stupore. —Era corsa voce, tra i membri della scara, che tu avessi colpito Rothlario alla schiena mentre era disarmato... —disse con grande imbarazzo il Conte Teodaldo. —Non ho mai colpito alla schiena nessuno —affermò con grande orgoglio Aucario —colpire alla schiena è cosa da codardi. —Siano fatti entrare Rothlario e i tre membri della scara che erano rinchiusi nelle celle del monastero di San Martino! —ordinò allora Teodaldo con un tono di voce irritato. Altri uomini condussero all’interno i quattro della scara. A tutti era stata restituita la spada. —Avrò la tua pelle, Aucario! —ruggì Rothlario non appena entrato —La ò per pulire le mie scarpe! Ci piscerò sopra! Aucario non si voltò nemmeno a guardarlo. —Silenzio! —ordinò Teodaldo —Vi trovate di fronte al vostro re! Rothlario si trattenne dal pronunciare altre minacce. —Per quale ragione, Aucario, tu hai arrestato la scara del re? —la voce di Teodulfo era ferma e severa.
—Era mio incarico mantenere l’ordine e la sicurezza all’interno delle mura di Tours, così come è incarico del Balivo mantenere l’ordine e la sicurezza sulle terre che gli stanno intorno! —esclamò Aucario —Chiedo che Rothlario mostri al suo re tutto ciò che porta nel suo sacco! La folla mormorò stupita. —Perché dovrei fare questo? —domandò furente Rothlario. —Temi forse di essere punito dal tuo re? —affermò con tono sibillino Aucario. —Certamente no! —esclamò Rothlario —Io ho ben servito il mio sovrano! Nel dire questo, Rothlario si avvicinò al re e rovesciò il contenuto della sua sacca sul pavimento. Quindi si allontanò mettendo le braccia in conserta, con un sorriso soddisfatto sul volto. —Ora vedrete! —disse rivolto ai suoi tre uomini. Aucario si avvicinò e, con l’ausilio di un esile bastone, spostò gli oggetti che erano ammonticchiati uno sull’altro: un sacchetto di monete, una pergamena arrotolata, un pettine d’osso, alcuni dadi da gioco, un pezzo di veste femminile imbrattata di sangue, uno scalpo, un piffero fatto con una tibia umana. L’Ambasciatore di Bisanzio distolse lo sguardo dagli oggetti, dissimulando il raccapriccio. —Vedo che sei un uomo di pace... —disse ironicamente Aucario. —Sono i miei trofei, conquistati nelle guerre che ho combattuto per il mio sovrano. E la pergamena è la prova che smaschera un tradimento! —esclamò Rothlario. —Dunque tu sai leggere? —domandò stupito Aucario. —No! —esclamò Rothlario— Io so smascherare i complotti! E su quella pergamena ce n’è uno! Ora rideremo! —Di quale complotto stai parlando? —domandò allarmato re Carlo. —Di un complotto ai tuoi danni! —rispose il guerriero.
Il re si rivolse ad Aucario con tono quasi irato —Che significa tutto questo? —Avrai presto la risposta, grande re! —rispose il Capitano di Tours, prendendo da terra la pergamena non sigillata. —Rothlario, come hai avuto questa pergamena? —disse mostrandogliela. —Non è affare tuo. Io posso solo dirti che quella pergamena dimostra un complotto! —Come puoi dirlo, se non sai leggere? Forse qualcuno dei tuoi tre guerrieri sa leggere? I tre scossero il capo in segno di diniego. —Bene, se quella pergamena è la prova di un complotto, allora il tuo re dovrà sapere ciò che contiene! Ciò detto, Aucario srotolò la pergamena e si mise a leggere ad alta voce. —”L’uomo che porta questa pergamena è Ambrogio Autperto, Abate di San Vincenzo. Egli è autorizzato ad attraversare l’intero regno dei Franchi, fermarsi ove gli aggradi come ospite della comunità, e come tale dovrà essergli fornito aiuto qualora ne fe richiesta. Dovrà essere accompagnato al cospetto del re, senza alcun indugio qualora egli lo richiedesse. Anno Domine 781. Firmato Karolus Rex.” I presenti trattenevano il respiro, soltanto i membri della corte emisero un intenso mormorio di stupore. Il re era impallidito ed era rimasto a bocca aperta: un fenomeno che accadeva con estrema rarità e di cui pochi erano stati testimoni. Aucario approfittò dello stupore generale ed alzando la pergamena srotolata la mostrò. —Ecco, vedete? A questa pergamena manca un lembo. Tutti fecero a gara ad allungare il collo per meglio vedere il documento. Allora Aucario prese da una piccola sacca un frammento di pergamena e lo sollevo,
facendolo combaciare con la pergamena. —Questo è il frammento mancante. Si trovava nel pugno serrato dell’uomo trovato morto davanti alla foresteria! —aggiunse con tono di voce altissimo. —Non credetegli! —ruggì Rorhlario —Quella carta denuncia un complotto! —Mostrami dunque quella carta —domandò pacatamente Teodulfo. Aucario gliela porse. Teodulfo lesse la carta. Poi sospirò. —E’ così, mio re —disse— Ambrogio Autperto portava questa carta. —Cosa significa? —domandò quindi il re. —Significa che l’uomo assassinato davanti alla foresteria è Ambrogio —disse Teodulfo. —Rothlario, come facevi tu ad avere quella pergamena? —domandò il Conte Palatino. —Posso dirvelo io —rispose Aucario —Rothlario e la sua avanguardia si sono spinti molto avanti nella foresta, a notte. Hanno incontrato l’Abate. Ambrogio aveva un’aria flaccida e molliccia, l’aspetto sudaticcio e florido, la voce sottile e quasi femminea, insomma tutto ciò che Rothlario ritiene sia un attributo di un uomo infido. Riesco a vedere Rothlario scendere da cavallo e chiedere all’Abate (che non è vestito da Abate) perché viaggi di notte come i ladri e gli assassini. L’Abate risponde domandando al cavaliere chi egli sia. Rothlario risponde “La Scara del re Carlo”. Allora l’Abate gli chiede di essere subito accompagnato dal re perché un complotto dovrà essere portato a termine. Allora Rothlario, furente, scende da cavallo ed estrae la spada, la lunga spada, e la punta al petto dell’Abate. L’Abate, spaventato, estrae la pergamena e le svolge davanti a lui dicendo “C’è un complotto”. Ma Rothlario non sa leggere, nessuno dei suoi guerrieri sa leggere e, nel buio della notte, non vede neppure la firma del suo re che forse potrebbe riconoscere dato che è a forma di croce alla cui braccia stanno le lettere K, R, L, S. Ambrogio confida nel lasciaare, Rothlario crede che la pergamena contenga i nomi dei complici del complotto. Gli strappa di mano la pergamena, un angolo si spezza e resta tra le mani di Ambrogio, nel pugno serrato fortissimo. Quindi Rothlario obbliga l’abate ad inginocchiarsi. L’Abate obbedisce però lo minaccia: “Pagherai molto caro questo affronto!”. Ma
Rothlario non è uomo che si possa minacciare impunemente e, maledicendolo, lo trafigge al cuore. E’ così che hai ucciso Ambrogio Autperto, Rothlario? Un imbarazzatissimo silenzio scese nella sala. —Rothlario! —esclamò il re alzandosi in piedi sulla pedana, gigantesco nella sua enorme statura —Hai ucciso tu Ambrogio? Al silenzio dello spiazzato soldato ribadì —Rispondi! —Sì, mio re. Credevo che su quella carta fossero i nomi dei congiurati, credevo che lui stesso fosse un congiurato. —Grande re —disse Aucario —Il tuo ignorante servo mal capisce e mal parla il latino. E’ evidente che ha capito male le parole dell’Abate. Ma le minacce le ha capite benissimo ed è stato allora che l’ha ucciso. Poi, dopo averne parlato con i suoi tre fidati cavalieri, dopo qualche ora ha deciso di trascinare il corpo davanti le mura di San Martino, confidando nel fatto che i frati avrebbero creduto ad un’opera del demonio o dei Sassoni pagani. —E’ così, Rothlario? —domandò il Conte Palatino. —Si— rispose a bassa voce, ma seccamente, Rothlario. —Ma non è tutto —proseguì Aucario —Mentre trascinavano il corpo dell’Abate, dal mulino uscì una ragazza di corsa, seguita da un ragazzone completamente nudo “Torna domani! Torna!”. Il ragazzone vede i tre uomini, la ragazza si è dileguata nella notte. Il ragazzo torna dentro e chiude la porta. Di notte sono in molti a girovagare di nascosto: di notte si incontrano i giovani, coloro che intendono fare scherzi ai vicini, gli amanti. E la notte è soprattutto frequentata da coloro che amano guardare e spiare gli amanti. Il ragazzone non si è stupito: è stato visto nudo più volte, forse ha persino mostrato loro il suo fallo in segno di spregio, come a volte gli accade di fare quando a spiare gli amanti è un monaco dell’Abbazia... L'Armarius! A questa affermazione la folla rumoreggiò. Allora Aucario si avvicinò al Visigoto ferito appartenente alla scara del re, l’uomo che aveva interrogato a lungo nell’ospedale dell’Abbazia. —E’ stato facile: aspettare l’ora giusta, scandita dal salmodiare dei frati. Hai
levato i vestiti, tenendo soltanto la veste chiara, poi hai attraversato il tratto sotto le mura e ti sei recato al mulino: le sentinelle, alla fioca luce dei falò, vedendo i lunghi capelli di un visigoto vestito di una veste semplice, hanno pensato fosse una ragazza e quale ragazza poteva recarsi al mulino di notte? —Wolfrida —disse freddamente Erlingo. —Già —confermò Aucario —Tuttavia quella notte come le successive, Wolfrida si trovava nel mio letto e tra le mie braccia e non ha mai pensato di allontanarvisi. Il pubblico rumoreggiò. Aucario puntò l’indice verso il visigoto che ancora portava evidenti le ferite delle frecce. —Tu ti sei avvicinato al mulino, ove già il figlio del mugnaio aspettava con ansia una Wolfrida che non sarebbe più arrivata ed accolse a braccia aperte te: e mentre apriva le braccia tu estraevi un grosso bastone di quercia e lo colpivi sulla testa più volte. Il pubblico rumoreggiò molto. Il visigoto abbassò lo sguardo. —E’ così? —domandò con vigore Aucario. Il visigoto ferito annuì in silenzio. —D'altra parte —riprese Aucario —lui stesso l'ha ammesso involontariamente quando l'ho interrogato all'infermeria: gli ho detto che nella notte qualcuno ha aggredito un ragazzo, che avrei mandato sia a lui che al ragazzo il medico bizantino e lui ha testualmente domandato “Il medico di Bisanzio andrà al mulino?”. Solo il colpevole poteva saperlo! La folla emise un forte mormorio di stupore. —Ma questo non è tutto! —esclamò ancora Aucario —Come ho già detto, la notte è popolata non soltanto di ladri, demoni e spiriti, ma soprattutto di amanti. E vi sono persone che traggono particolare piacere nel vedere gli amanti che si congiungono. Così, un uomo si era appostato nella notte per spiare gli amanti. Quest’uomo era Wortha, il Sagrestano di San Martino! Il pubblico rumoreggiò ancora, a lungo. Tutti conoscevano il Sagrestano e
l’Armarius e probabilmente più di un popolano impallidì comprendendo quanto poco segreto può essere il segreto di due amanti. —Wortha era sassone. E come molti sassoni, era convinto di potersi trasformare in un lupo. Se sia soltanto un rito pagano, se Wortha fosse pazzo e dunque convinto di essere un lupo di notte o se usasse soltanto la pelle di un lupo per camuffarsi e guardare gli amanti che si congiungono, non lo sapremo mai. Ma ai soldati della scara, la presenza di Wortha non ò inosservata. Wortha amava guardare le generose forme di Wolfrida, al punto da avvicinarsi troppo. O forse, e questo è anche più probabile, Wortha, proprio come Ulf l’Armarius, amava le robuste forme del ragazzo. In ogni caso Ulf ha ammesso lui stesso di guardare. E lo stesso Ulf è stato per questo addirittura punito dal Vescovo Erlingo. E così, Wortha vide la figura coi lunghi capelli abbattere a bastonate il figlio del mugnaio. Ma non poteva denunciare il fatto: nella sua visione distorta della realtà credeva che il Vescovo avrebbe scoperto che si trasformava in lupo, che dunque era pagano e temeva che ciò gli sarebbe stato fatale. Così tenne per sé il segreto. Almeno così lui credeva. Invece era stato visto, nudo e vestito soltanto di una pelle di lupo, agitarsi infoiato nei pressi del mulino. Lascio il resto alla vostra immaginazione. Uccidere Wortha è stato anche più facile che uccidere l’Abate Ambrogio. E, colpo di genio, lasciarlo davanti a San Martino con il collo spezzato e con ancora indosso la pelle di lupo è stato un depistaggio abile ma infruttuoso. Come è stato detto alla grande cena in onore dell’Ambasciatore dei Romani, non si può indossare un lupo vivo. Wortha è stato ucciso dagli stessi uomini che hanno ucciso Ambrogio e che hanno tentato di uccidere il figlio del mugnaio! —Non puoi dimostrarlo! —gridò Rothlario. Ma i soldati della scara si erano già inginocchiati davanti al re, chiedendo la sua misericordia. Aucario si voltò verso il re con gesto studiatamente plateale, di profondo disprezzo per Rothlario e i suoi uomini. —Ad uccidere non è stato Rothlario, non sono stati i suoi uomini! —esclamò lasciando tutti interdetti —Ad uccidere è stata la loro ignoranza. Essi non sapendo leggere hanno ucciso Ambrogio, tutto il resto deriva comunque da questo gesto. Essi sono analfabeti! Ignoranti di ogni cosa: legge, poesia, storia, aritmetica, logica. Solo sanno usare la spada. E la usano a sproposito!
Un rumore simile a un ruggito riempì la sala, seguita da un tonfo sordo. Aucario, percorso da un brivido, si voltò. Rothlario boccheggiava a terra e, fra lui e il robusto guerriero, Aucario vide la spada del Balivo. —Vivrà —disse freddamente il Balivo —ho colpito di piatto il suo petto. Il re si alzò nuovamente dal trono. Svettava su tutti per la grande statura e per la pedana che usava far mettere sotto al trono. —Teodulfo mi ha sovente infastidito con le sue idee sulla misericordia e sulla proporzionalità tra delitto e castigo. Ma sono convinto che abbia in qualche modo ragione. E poiché in ato mi avete ben servito, io vi faccio grazia della vita. I quattro si inchinarono al re, riconoscenti. Tuttavia il re rifiutò loro il bacio della mano. Impugnò la sua splendida spada ingioiellata come fosse una croce e la puntò verso di loro. —Andrete tra i Sassoni, nella foresta a nord, e proteggerete i monaci delle mie missioni. Lo stesso sarà del vile Hrulfo, che non ha mai servito: ora servirà con questi quattro sciagurati, che perderanno ogni privilegio e grado. Quanto a Quado, non so come punirlo ma dovrete tenerlo lontano da Dhuoda anche se ella non è più la sposa di suo padre e dunque non vi può più essere incesto. La gente di Tours non può vivere tranquilla con un simile pericolo e perciò lo avverto: se accadrà ancora, gli faro tagliare dal Balivo quegli attributi che lo spingono alla foia. Dhuoda dovrà però decidersi a risposarsi, in modo che tra lei e Quado non vi siano soltanto i miei capitolari, ma anche la scure di un franco. Così è deciso. —Grande re —disse l’Ambasciatore dei Romani— sei stato davvero magnanimo. —E’ la legge dei Franchi —disse con orgogliosa maestà re Carlo. —Sia tolta la corte! —disse a quel punto il Conte Palatino. —Resti soltanto Aucario di Tours! —esclamò il re. —Ho fatto bene a fidarmi di te, Visdomine —disse Erlingo, sfoderando un grande sorriso, mentre ava accanto ad Aucario.
—Una eccellente dimostrazione di logica! —si complimentò Alcuino. —Splendido! —disse Teodulfo. —Bravo! —disse Wibodo —Quel Rothlario mi è sempre stato indigesto! Tutte quelle arie da gran guerriero che si dava… —Perdona la mia scara —disse in tono sommesso il Conte Palatino —essi non riuscivano ad immaginare che un normale uomo potesse abbattere Rothlario. —Infatti io non sono un uomo normale —disse Aucario con un sorriso amaro. Il conte uscì portando sul volto lo stupore per l’ultima affermazione del Capitano di Tours.
LE DINASTIE HANNO UN PREZZO
In natura il giorno si alterna alla notte. Così come il giorno si alterna alla notte, una dinastia si alterna all'altra. A volte le genealogie sono oscure, come oscure sono le trame che portano al potere un uomo e lo fanno re. Un tempo i Franchi erano soltanto un popolo federato a Roma e, quando due pretendenti Franchi ambirono allo stesso trono, uno di essi chiamò in soccorso Attila, il perfido re degli Unni: fu in quel momento che il generale Ezio appoggiò l'altro pretendente e si alleò con i Visigoti d'Iberia. Nell’anno del Signore 451, ai Campi Catalaunici Ezio affrontò gli Unni, li sconfisse ed il pretendente appoggiato dagli Unni morí. Non tutti ricordano, sanno, tramandano la storia. Un re deve conoscere le genealogie, ma gli altri? Qualche raro scrivano, abituato ai vecchi archivi in cui sono conservati gli antichi documenti che nel regno dei Franchi, fino a che potè giungervi il papiro, furono compilati in grande quantità, fatti su cui i sapienti sono sovente in disaccordo tra loro. Poi venne il tempo della pergamena ed i documenti divennero rari quanto gli scrivani. La notte scende lentamente sui Franchi e sulla memoria delle gesta degli antenati e l'oblio è favorito dall'ignoranza. Re Carlo si ostina a cercare la memoria degli antenati, ma è come percorrere un bosco con un lume, la luce fioca può spegnersi e la memoria può perdersi. Tuttavia le dinastie hanno un prezzo. I sovrani merovingi sovente si assassinavano tra loro, poiché è sempre stato uso dei Franchi lasciare il regno a tutti gli eredi maschi ed a volte essi bramano conquistare l’intero regno degli avi. A volte il regno ha un prezzo davvero amaro: quando uno degli eredi muore, tutti credono che sia stato un fratello ad asslo. Quando Pipino ottenne il regno, egli inizialmente lo condivise col fratello Carlomanno, ma Carlomanno aveva altra vocazione e lasciò il trono e la corona per entrare in monastero, nella terra dei Longobardi. Pipino divenne perciò unico re dei Franchi e, nonostante le molte vicissitudini, regnò. Tuttavia la salute lo abbandonò ed egli morì mentre i suoi figli Carlo e Carlomanno erano poco più che ragazzi: essi ereditarono entrambi il regno, all’uso dei Franchi. E’ per questo motivo che Pipino fu chiamato “il breve”. Quando Pipino morì, il fratello Carlomanno cambiò idea e tornò tra i Franchi, ma fu arrestato e rimandato al monastero. E poiché i re merovingi si uccidevano tra fratelli, tutti i Franchi credono che la cosa valga per
ogni casa regnante. E’ difficile essere il re dei Franchi, tutti credono sempre che si regni soltanto dopo un complotto. D’altro canto, i complotti sono sempre esistiti. —Devo consegnarti due messaggi, grande re —disse Aucario quando tutti furono usciti dalla sala e i due si trovavano faccia a faccia, o meglio Aucario si trovava a guardare dal basso il re. —Infatti stavo attendendo un messaggio da Ambrogio. Un messaggio preziosissimo. Aucario ebbe una smorfia di condivisione. —Io ho ritrovato il messaggio che ti era destinato —disse Aucario. —Dov’è? —domandò con impazienza re Carlo, sgranando gli occhi ed appoggiando la mano destra, che impugnava la spada, sul bracciolo dal seggio. Aucario si voltò a frugare nella sacca che aveva prudentemente lasciato in un angolo e che risuonava come contenente oggetti metallici anche pesanti. Ne cavò fuori un sacchetto di cuoio. Il re posò in terra accanto al trono la sua spada, appoggiandola tra la pedana e il pavimento, mentre continuò a stringere con la sinistra lo scettro di legno scolpito, simbolo del suo potere. Aucario diede una veloce occhiata al sacchetto e lo lanciò al re, il quale l’afferrò al volo con la destra. Il sacchetto risuonò del contenuto delle monete, ma il re si disinteressò completamente al contenuto: sfilò il lungo lacciolo di cuoio e lasciò cadere il sacchetto sul pavimento; le monete si sparsero con un certo sordo rumore di metallo. Il re si disinteressò completamente di Aucario, prese il lacciolo e lo arrotolò sul manico del suo scettro; per un attimo lo scettro gli si impigliò della mascherina a forma di croce che il re portava appesa al collo e che gli permetteva di apporre la propria firma ai documenti. Re Carlo liberò con malcelato fastidio il manico, fissò il lacciolo e prese a leggere con grande interesse. Si trattava di un antico sistema di codifica dei messaggi chiamato “scitale”. —Avrai un premio per questo servizio! —esclamò sorridendo mentre ancora teneva gli occhi fissi sul messaggio. Aucario non rispose.
—Qual è l’altro messaggio? —domandò allora il re sollevando gli occhi dallo scettro, ancora avvolto dal laccio. Aucario stava in piedi davanti a lui, stringendo tra le mani il manico di un lungo, antico martello da guerra. —Lo riconosci, grande re? —disse Aucario mostrando la parte del martello in metallo al re. Re Carlo osservò sbalordito l’oggetto tra le mani di Aucario, riconobbe subito il simbolo che vi era inciso lateralmente. —Il martello degli antenati! —disse con stupore —Quello di mio nonno Carlo... —Quello che Carlo impugnava a Poitiers, che poi diede a tuo padre Pipino... Carlo osservava sbalordito il martello appartenuto ai maggiordomi di palazzo. —Come hai ritrovato questo oggetto? —domandò re Carlo —E’ il martello dei maggiordomi di palazzo, come puoi averlo tu? —Mi è stato dato da tuo fratello: re Carlomanno. —disse freddamente Aucario —e il messaggio che ti reco è il suo… —Mio fratello è morto da tempo. —disse re Carlo aggrottando le sopracciglia. —Il messaggio dice: “Non fidarti mai di chi credi amico”. —Che significa? —domandò perplesso Carlo. —E non è tutto... —disse Aucario. Poi, in un soffio, sollevò il martello e lo calò con forza. Carlo chiuse gli occhi. Il rumore di metallo riempì l’ambiente con il suo fragore impressionante. Il re restò un attimo impietrito. Freddamente riaprì gli occhi e vide la sua spada piegata in una forma innaturale ed il martello era abbandonato in terra. —L’ultimo ordine del mio re è stato “Piega la spada di mio fratello!” —disse Aucario —Ecco, ho adempiuto a tutti i miei doveri verso il mio re. Il martello ti appartiene.
Il re, ancora scosso dall’avvenimento, restò qualche istante a fissare la spada. —Aucario... —disse allibito —Tu sei quell’Aucario? —Sono l’Aucario che guidava l’esercito di Carlomanno. Sono l’Aucario che ha protetto la famiglia di tuo fratello. Sono l’Aucario che ha portato i suoi congiunti a Pavia da Desiderio. Sono l’Aucario che è sfuggito all’assedio di Pavia portando i tuoi congiunti in un’altra città longobarda e solo il tradimento dei Longobardi di Verona ha permesso la loro cattura. Senza tradimento, non li avresti mai presi! —Aucario l’imprendibile… —disse Carlo fissando con un misto di rancore e di rispetto il suo interlocutore —Il tuo nome è divenuto leggendario. Credevo che i Longobardi ti avessero assassinato... —Non bastano due sicari per uccidere un Aucario! —disse con malcelato orgoglio quest’ultimo —Li ho uccisi entrambi. Uccidere due vigliacchi non è una grande impresa: è stato facile. Poi ho preso le armi di uno dei due e messo a lui le mie. E così tu non mi hai più cercato. Ho viaggiato e combattuto per lunghi anni e veduto più terre e genti di quelle che tu puoi immaginare. Ma come vedi sono tornato. Sono tornato per ricordarti i tuoi peccati e per eseguire l’ultimo ordine del mio re: avevo promesso. Ora sono completamente libero e il mio onore è salvo. —Perché non mi hai ucciso? — domandò Carlo. —E perché? Per lasciare i Franchi senza un re, in preda alla guerra tra loro? Per aiutare i Saraceni a conquistare l’Europa? No. Non voglio la rovina dei Franchi e non voglio la rovina della cristianità. Ho piegato la tua spada e tanto mi basta. Ti ho consegnato i due messaggi. Il mio compito qui è terminato. —Io ho bisogno di uomini come te —disse re Carlo chinandosi per sollevare il martello —Mettiti al mio servizio. Ma da Aucario non venne più alcuna risposta. Carlo sollevò il martello e lo impugnò. Ripeté la domanda. —Mettiti al mio servizio e ti accorderò il perdono. —disse mentre guardava con attenzione il martello. Ma Aucario non rispose. Carlo si voltò, ma non lo vide.
Girò intorno al trono, il suo sguardo perlustrò invano la sala. Aucario era sparito in silenzio. —Guardie! —chiamò re Carlo —Guardie! Dalla porta entrarono due armati. —Dove è andato Aucario? —domandò loro. I due si guardarono perplessi. —Mio re —disse uno dei due —da qui non è ato nessuno! Carlo si mise a ridere. Aucario aveva nuovamente beffato tutti. I due soldati, stupiti, restarono a guardare il loro re ridere sguaiatamente, sempre più forte, fino a riempire le sale con la sua poderosa voce. —Mio re —disse Teodaldo, il Conte Palatino, entrando nella sala e vedendo il re stringere tra le mani un’arma antica —Cosa è successo? Quindi il suo sguardo corse al pavimento, ove giaceva la spada del re, piegata come se vi fosse transitato sopra un pesante carro. —Ho avuto un saggio della potenza delle armi dei miei antenati —disse Carlo ridacchiando. Chiamate subito Alcuino di York! Dopo qualche istante, Alcuino entrò nella sala. —Dimmi mio re! —esclamò. —I miei nobili sono troppo ignoranti. Ma è troppo tardi per loro: per i loro figli, invece, siamo ancora in tempo. —In tempo per cosa, mio re? —domandò stupito Alcuino. —Cento dei miei nobili non valgono un solo Aucario —disse —Tutti, nobili e non nobili, dovranno imparare a leggere e scrivere e i migliori serviranno a palazzo! —esclamò Carlo —Quella tua idea di “scuola”, Alcuino... Sia fatto! E’ un mio ordine, per tutto il regno. Il sapere è potenza e i Franchi domineranno l’Europa. Avrai tutto ciò che chiedi.
Alcuino ristette per qualche istante, esterrefatto. Poi la bocca gli si allargò in un grande sorriso. Annuì. —Sarà fatto, mio re!
L’ONORE DI UN GUERRIERO
Vi sono momenti della storia, in cui l’onore non ha alcun conto: si tratta di momenti in cui tutto è rovescio, i ladri comandano, gli onesti vengono puniti. Vi sono momenti della storia in cui l’onore conta molto, ma mantenere fede a un giuramento ha sempre avuto un prezzo alto, anche altissimo. Presso i Franchi, così come presso tutti i popoli, l’onore ha avuto un valore differente a seconda del periodo: non ebbe alcun valore sotto i re fannulloni, di molto maggior valore ai tempi di Carlo, soltanto due generazioni dopo. Tuttavia l’onore è stata sempre merce rara. Nelle lunghe notti buie dei Franchi, un guerriero che rispetta il giuramento è davvero un Uomo. Eppure sempre, in ogni tempo, la notte è rischiarata da uomini che tengono fede alla parola data. Così l’onore è di grande valore presso i Franchi, ma di grandissimo ed inestimabile valore presso i Romani di Bisanzio, luogo in cui all’epoca di re Carlo questo materiale prezioso non ha corso legale. —E’ un grande sollievo rivederti in servizio, Chiliarca! —esclamò l’Ambasciatore dei Romani —Temevo che dopo aver mostrato la tua incredibile faccia tosta saresti stato decapitato! A Bisanzio non vi sono attori tanto bravi. Avrei voluto applaudirti. Il Chiliarca inchinò il capo come in segno di apprezzamento e non rispose. —Rivederti al mio campo mi è di grande sollievo —ribadì l’Ambasciatore. —Soltanto sino ad Aquisgrana —rispose il Chiliarca, ed aggiunse —Ho per te un messaggio. —Un messaggio? —domandò stupito l’Ambasciatore —E di chi? —Il messaggio che l’Abate Ambrogio Autperto doveva consegnare a re Carlo. —Tu hai decodificato il suo messaggio? —disse stupito l’Ambasciatore. —Certo —rispose il Chiliarca —non è stato difficile, hanno usato uno scitale, un vecchio metodo di nascondere un testo: si avvolge una lunga striscia di cuoio intorno ad un bastone, si incidono le lettere a fuoco sul cuoio, quindi si svolge il
laccio; soltanto chi ha un bastone uguale a quello usato può decifrare lo scritto. Ambrogio è stato Cancelliere di re Carlo molto tempo prima di diventare Abate, non è stato difficile capire quale metodo avesse usato. Il Chiliarca porse un papiro bizantino all’Ambasciatore. Il quale lo srotolò e lo lesse avidamente. —Splendido! —esclamò l’Ambasciatore con una espressione di sorpresa — Quindi uno dei due figli del Duca di Benevento è favorevole a re Carlo? Che notizia! Almeno siamo certi che l’altro figlio si metterà certamente sotto la nostra protezione! L’Ambasciatore, soddisfatto, riarrotolò la pergamena. —Ci hai ben serviti, Chiliarca! —Anche re Carlo ha lo stesso messaggio —sottolineò il Chiliarca. —Non importa —disse l’Ambasciatore —il tuo è stato davvero un gran servigio. Avrai un premio degno della sua utilità. Ciò detto l’Ambasciatore si allontanò. —Amico mio —disse il gigantesco Norreno —Il tuo è stato un bel colpo! L’Ambasciatore sarà molto generoso. —Sarà generoso anche con te —disse il Chiliarca —Poiché divideremo il suo premio. Il Norreno rise sonoramente. —Un altro premio così e posso tornare dalla mia gente temuto e rispettato! —esclamò —Ma tu, perché hai deciso di nasconderti dalla tua gente? Perché non resti a Tours? Ora sei ricco e stimato, questa gente ti adora. —Nessuno deve sapere che mi trovo al campo di Bisanzio. Devo ancora portare a termine il mio compito. Re Carlo ha avuto il mio messaggio, Erlingo ha avuto i miei servigi, una volta giunto ad Acquisgrana avrò ultimato il mio compito con l’Ambasciatore. Ma in fondo, cosa torno a fare a Tours? —aggiunse con amarezza —Sarà difficile presentarsi al Vescovo dopo ciò che ho inscenato davanti al suo re...
—Tu hai servito il tuo ben oltre la sua morte… —disse il Norreno con ammirazione. Il gigantesco Norreno mise la destra sulla spalla del Chiliarca, come per incoraggiarlo e non disse più nulla. —Voglio parlare con lui... —disse una voce di donna alle loro spalle. Il Norreno si voltò sorpreso. Nel parlare, i due non si erano accorti del sopraggiungere di Wolfrida. Il Chiliarca non si voltò. —Che vuoi dal Chiliarca, donna? —disse in tono roboante il Norreno, frapponendosi. —Niente —disse timidamente Wolfrida —voglio soltanto lasciargli un messaggio per mio marito... —Dev’essere proprio il giorno dei messaggi, questo! —esclamò il Norreno ridendo fragorosamente ed infine mettendosi da una parte con le braccia in conserta come a dire “Vediamo come se la cava questa volta!”. Il Chiliarca si voltò. La sua armatura bizantina a scaglie di ferro luccicanti, l’elmo imponente su cui stavano le insegne del suo grado ed in cui si intravedevano a stento gli occhi, l’abito prezioso, il grande mantello: era davvero impressionante. Wolfrida nel vederlo voltarsi ebbe come un fremito. Il Chiliarca vide che Wolfrida aveva raccolto i suoi magnifici capelli in una lunga treccia. —Io so che tu vedrai mio marito Aucario —gli disse lei — è un uomo giusto e vorrei che tu gli dessi un mio messaggio. Il Chiliarca fece cenno di sì con l’imponente cimiero pennato ed appoggiò le mani con i pollici nella cintura di cuoio che reggeva la spada. Allora, Wolfrida cavò fuori un affilato coltello da una piega della veste, e con un rapido gesto diede un deciso colpo. Il Norreno, colto di sorpresa, impallidì. Il Chiliarca non si mosse. Wolfrida tranciò di netto la sua treccia e gliela porse, con mano tremante.
—Dai questa a mio marito —gli disse. —Gliela darò —disse con tono incerto la voce di Aucario da dentro l’armatura bizantina. Wolfrida gli mise tra le mani la treccia, trattenendole per un lungo istante. Poi mosse qualche o indietro, senza staccare gli occhi dal Chiliarca. —Io lo aspetterò —disse ancora Wolfrida mettendosi un velo sui capelli alla maniera delle donne sposate e fermandolo con un cerchio di stoffa —diglielo. Poi si allontanò ancora, indietreggiando, persino incespicando e rischiando di cadere di schiena su un sasso, e ripeté ad alta voce: —Io lo aspetterò! Diglielo! Lo aspetterò! Il Chiliarca osservò la ragazza che si allontanava voltandosi ogni tanto a guardarlo e che poi corse via verso la città. Restò a guardare Wolfrida che si allontanava di corsa, tenendo sollevati i lembi della veste con le mani. Il Norreno gli diede un’altra pacca sulla spalla, poi si allontanò lasciando il Chiliarca con i propri pensieri. E il Chiliarca osservò la ragazza fino a che gli fu possibile. Infine, quando lei era ormai troppo lontana, alzò la mano ed osservò la lunga treccia. Avvicinò i capelli al volto e ne respirò il profumo dei fiori con i quali Wolfrida li aveva intrecciati per lui.
FINE
Bibliografia utilizzata
per il libro
Alcuni libri (come ad esempio quelli di Pirenne e di Barbero) sono stati fondamentali per la costruzione del romanzo, altri sono stati utili in modo più modesto. Essenziale, il contributo degli scritti coevi, ovvero dei contemporanei di Carlo Magno: Teodulfo, Eginardo, Alcuino, Fredegiso, lo stesso Carlo Magno con le sue lettere, il capitolare carolingio. La poesia carolingia è straordinaria e completamente sconosciuta ai non specialisti: consiglio a tutti di approfondire l'argomento. Infine, ho dovuto frequentare le opere predilette dall'Imperatore e quindi S.Agostino e Lucrezio in particolare. Da tutta questa frequentazione viene fuori il carattere volitivo del re Carlo, i meccanismi che muovevano la sua corte, il modo di vestire (sono stato costretto a sfogliare libri di storia del costume). Alcuni volumi mi hanno fornito spunti per una sola frase, altri per un intero capitolo, ma tutti sono stati più che utili. Infine una nota sull'alimentazione: tutti credono che i fagioli siano arrivati dalle americhe, ma un tipo di fagioli (oggi difficilmente reperibile, i “fagioli dell'occhio”) era invece molto comune nell'Europa dell'alto medioevo. Gli aneddoti sul re sono veri e presi da fonti contemporanee. La cartina di Tours contiene certi elementi di fantasia ma, in gran parte, si è cercato di fare una ricostruzione credibile dell’abitato, per quanto possibile. La carta dei territori dei Franchi: la Marca di Spagna non era ancora stata ufficialmente istituita (lo sarà nel 795) ma era sotto influenza franca dal 778.
Henry Pirenne “Maometto e Carlomagno” ed.Laterza; Henry Pirenne “Le città del medioevo” ed.Laterza; Henry Pirenne “Storia economica e sociale del medioevo” ed.Newton; Henry Pirenne “Storia d'Europa dalle invasioni al XVI secolo” ed.Newton;
Alessandro Barbero “Carlo Magno” ed.Laterza; Massimo Montanari “L'alimentazione contadina nell'alto medioevo” Liguori Editore; Gianni Granzotto “Carlo Magno”; Alcuino di York “Giochi matematici alla corte di Carlomagno — Problemi per rendere acuta la mente dei giovani” Edizioni ETS; Eginardo “Vita di Carlo Magno” Salerno Editrice; Carlo Magno “Le lettere” ed.Città Nuova; Fredegiso di Tours “Il nulla e le tenebre” ed. Il melangolo; Anonimo “Liber monstruorum (secolo IX)” Liguori editore; Domenico Vitaliani “Cenni storici di letteratura medioevale” ed.Raffaello Giusti; Germana Gandino “Contemplare l'ordine — Intellettuali e potenti dell'alto medioevo” Liguori editore; Manlio Simonetti “Romani e barbari — Le lettere latine alle origini dell'Europa (secoli V — VIII)” Carocci editore; sco Stella “La poesia carolingia” Casa Editrice Le Lettere; Gian Piero Brogiolo — Alexandra Chavarrìa Arnau “Aristocrazie e campagne nell'Occidente da Costantino a Carlo Magno” ed.All'Insegno del Giglio; Joan Gómez Urgellés “Matematici, spie e pirati informatici — Decodifica e crittografia” ed.Mondo Matematico; Agostino di Ippona “Le confessioni” ed.Newton; Lucrezio “La natura delle cose” (”De rerum natura”) ed.Newton; Joseph Gelmi “I papi”; sco Stella “Poesia e teologia — L'occidente latino tra IV e VIII secolo”
Jaca Book; Luigi Andrea Berto “Testi storici e poetici dell'Italia carolingia” ed.C.L.E.U.P.; Sauro Gelichi — Cristina La Rocca “Tesori — Forme di accumulazione della ricchezza nell'alto medioevo (secoli V — XI)” ed.Viella; Michel Rouche “Le radici dell'Europa — Le società dell'alto medioevo (568 — 888)” Salerno Editrice; Horst Furhmann “Guida al medioevo”; Raymond Oursell “Pellegrini del medioevo”; A.Darril — E.Palazzo “La vita dei monaci”; Gregorio Penco “La Chiesa nell'Europa medioevale”; Ludovico Gatto “Il medioevo giorno per giorno”; Robert Delort “La vita quotidiana nel medioevo”; Hans Conrad Peyer “Viaggiare nel medioevo. Dall'ospitalità alla locanda”; Edith Ennen “Le donne nel medioevo”; Georges Duby “Medioevo maschio. Amore e matrimonio”; Enzo Marigliano “Il Capitulare de Villis” ed.Gaspari; Molti numeri della rivista mensile “Medioevo” sistema editoriale PAST; John Peacock “Storia illustrata del costume” Mondadori; Jean Claude Schmitt “Medioevo superstizioso”.
NOTE IN MERITO AD ALCUNI PERSONAGGI IMPLICATI NELLA VICENDA NARRATA
Ambrogio Autperto. Nacque in Provenza da una famiglia nobile ed entrò alla corte di Pipino il breve (padre di Carlomanno e Carlomagno) e fece da precettore al futuro re Carlo. Quando Carlo divenne re, Ambrogio divenne il suo Cancelliere. Scese in Italia al seguito di Papa Stefano II e fu durante una visita all’Abbazia benedettina di S.Vincenzo al Volturno (proprio sul confine del ducato longobardo di Benevento) che maturò la vocazione religiosa. Nel 740 si fece monaco e nel 761 fu ordinato sacerdote. Il 4 ottobre 777 divenne Abate. Scrisse un commento all’Apocalisse di S.Giovanni tra il 777 ed il 778. Nel frattempo il monastero era divenuto centro di contesa tra Franchi e Longobardi, che all’interno della struttura avevano ciascuno una fazione di monaci in perenne lotta tra loro. Come sappiamo, Ambrogio morì in modo misterioso nel 781. Gli succedette come Abate il Longobardo Potone che fu poi deposto per aver lasciato il coro durante una Laude cantata a Carlomagno (fu reintegrato solo dopo aver giurato fedeltà al re).
Aucario La sua vita è un enigma. Una via di mezzo tra James Bond e Scipione l’africano, una “primula rossa” ante litteram, fu sempre una spina nel fianco di re Carlo. Di lui sappiamo con certezza che fu un alto dignitario di re Carlomanno d’Aquitania, fratello di Carlomagno. Come sappiamo, Carlomanno morì in modo misterioso poco prima di una battaglia contro il fratello e i suoi dignitari arono quasi tutti al servizio di Carlo. Tranne Aucario: riuscì a far fuggire in Italia la famiglia di Carlomanno, la sistemò alla corte longobarda di re Desiderio a Pavia. Quando i Franchi assediarono la capitale longobarda, Aucario riuscì ad attraversare le linee franche e la mise in salvo a Verona, con gran scorno di Carlo
che, andato su tutte le furie, li fece cercare ovunque dal suo enorme esercito. Durante l’assedio di Verona, furono i longobardi a consegnare la famiglia reale a Carlomagno prima che il fedelissimo Aucario riuscisse a metterla in salvo ancora una volta. Ma con nuovo grande scorno di Carlomagno, Aucario si volatilizzò e non ci fu mai verso di catturarlo. Probabilmente finì a Bisanzio insieme al principe longobardo Adelchi, sfuggito anch’egli alla cattura in modo rocambolesco.
Fredegiso di Tours Fu un personaggio importantissimo della cultura palatina. Nato nella seconda metà del VIII secolo entrò nella famosa “scuola palatina” se, in cui sicuramente si trova nell’anno 796, ove fu discepolo di Alcuino di York. Diacono, divenne poi Abate di Tours e scrisse un’opera importantissima: “Il nulla e le tenebre” (“De nihilo et tenebris”), presentato a corte nel marzo dell’anno 800, opera che mise in grandissima difficoltà Carlomagno e l’intera corte al punto da destare sospetti di eresia: dobbiamo a Fredegiso il concetto moderno di “nulla” che ha inquietato tutti i pensatori sino al XX secolo. Nell’anno 819 divenne Cancelliere di Lodovico il pio, figlio di Carlomagno. Divenne quindi contemporaneamente anche Abate di St.Omer e St.Bertin sino all’anno della sua morte, nel 834.
Alcuino di York Alcuino è uno dei più straordinari personaggi del medioevo, certamente il più illustre del suo tempo. Nacque nel Regno di Northumbria (in Inghilterra), probabilmente nei pressi di York, da una famiglia nobile nel 735. Anche se nei testi latini è chiamato “Albinus” o “Flaccus”, si chiamava in realtà Alhwin (o Alchoin). Diacono, poeta, filosofo e teologo, fu il principale artefice del “rinascimento carolingio”, la straordinaria ed irripetibile finestra storica che anticipa di mille anni temi oggi considerati illuministi. Divenne direttore della famosa scuola di York nel 767 ove insegnò soprattutto le arti liberali e la grammatica. Conobbe Carlomagno nell’anno 781 ed il futuro imperatore fu molto colpito dalle sue moderne idee. Il re franco gli diede incarico di fondare la celebre scuola palatina i cui risultati furono straordinari e che culminò nel
capitolare dell’anno 802 che istituiva per legge l’istruzione obbligatoria per tutti. Alcuino fu un modernissimo insegnante, molto in anticipo sui tempi, che impostava l’insegnamento sul metodo dialettico. Grande pedagogo, scrisse tra gli altri anche un celebre trattato ricco di giochi matematici per “aprire la mente dei giovani”. La cultura inglese, tuttavia, iniziò proprio allora il suo periodo di declino a causa delle continue guerre, perciò Alcuino tentò di realizzare nel continente ciò che avrebbe voluto realizzare in patria. Tornò in patria soltanto due volte, nel 786 e nel 790 per delicate missioni diplomatiche. Divenne Abate di Tours nel 796. Nei suoi ultimi anni fu probabilmente ordinato sacerdote, tuttavia non lo sapremo mai con certezza. Morì il 19 maggio 804. Fu beatificato dalla chiesa cattolica, ma gli anglicani lo venerano come santo.
Teodulfo d’Orleans Nato in Spagna intorno al 760 da una famiglia nobile visigota, probebilmente nei dintorni di Saragozza, si trovava già tra i Franchi quando l’emiro di Cordova Abd al-Rahman ordinò lo sterminio dei suoi concittadini provocando una forte migrazione di Visigoti oltre i Pirenei che divennero perciò formidabili e fedelissimi sostenitori di Carlomagno. Fu sicuramente alla corte di Carlomagno nel 790, ma con ogni probabilità la frequentò già in precedenza data la concordanza di alcune sue opinioni con quelle di Alcuino. Insigne teologo, uomo ironico, pungente ed intelligente, Teodulfo compose anche scritti satirici tra i quali anche il carme “Contra Iudices” di ben 956 versi, che offre l'esempio migliore di questo approccio: si tratta di un'opera di satira politica e di costume, basata sulle sue stesse esperienze come ispettore imperiale, in cui il poeta si scaglia contro l'applicazione troppo letterale delle leggi e contro la corruzione di chi deve applicarle. Teodulfo fu anche un notevole fustigatore della corruzione ecclesiastica. Per Teodulfo, la poesia è un modo per far riflettere sulla realtà e migliorarla. La sua grande intuizione, unita alle sue personali opinioni in fatto di giustizia, fanno di lui un incredibile precursore di Cesare Beccaria.
Grande poeta, raffinato ed elegante intellettuale, fu dopo Alcuino la più importante mente del suo tempo. Fu così abile poeta da firmarsi con lo pseudonimo di “Pindaro”. Carlomagno lo nominò Abate di Fleury e di molti altri monasteri e divenne Vescovo di Orléans nel 798. Fu Ispettore del re a Narbona e in Provenza come “missus dominico”. Operò moltissimo per l’istituzione delle scuole parrocchiali e l’alfabetizzazione obbligatoria del clero. Fu determinante nel reinsediamento papale di Leone III e divenne Arcivescovo nell’anno 800 e questo fu il suo apice. Ma il successore di Carlomagno non amava l’ironia: misogino, sospettoso, bigotto e introverso, Lodovico lo accusò nel 817 di aver sostenuto la ribellione di uno dei nipoti (Bernardo d’Italia, figlio di Pipino Carlomanno che era morto prima dell’Imperatore Carlomagno). Proprio Teodulfo, sostenitore della necessità di processi giusti, fu deposto dalla carica senza processo. Esiliato ad Angers, morì nell’anno 821. Con la sua morte inizia il declino inarrestabile del rinascimento carolingio ed iniziano davvero i secoli bui. Teodulfo, tuttavia, impegnò i suoi anni dell’esilio in pungenti componimenti satirici a sfondo sociale.
Erlingo Di lui sappiamo poco. Fu Vescovo di Tours dal 771 al 792.
Offa di Mercia Fu un uomo di grande acume e notevole intelligenza politica. Rivestì i titoli di “re di Mercia” e di “re degli Angli”. E’ il più potente tra i re inglesi del periodo. Non sappiamo quando nacque, ma regnò dal 757 alla fine di luglio del 796. Riuscì a sottomettere o a controllare quasi tutti gli altri regni inglesi, Galles escluso, e concluse un’alleanza matrimoniale con la Northumbria (patria di Alcuino). Kent e Wessex furono da lui controllati di fatto anche se nominalmente indipendenti. Tale era la forza del suo regno che riuscì a coniare persino monete d’oro simili in tutto a quelle del Califfo abbaside allo scopo di commerciare con gli Arabi di Spagna e di inviare ricchi doni al Papa; coniò il primo “penny” d’argento sul quale fece effigiare la regina Cynethryth. Offa di Mercia fu quasi sempre un buon amico ed alleato dei Franchi ed intrattenne una fitta
corrispondenza epistolare con Carlomagno che ci è in parte giunta. Ebbero però un periodo di tensione a causa di un mancato matrimonio tra i figli di Offa e quelli di Carlo (Carlo voleva far sposare uno dei suoi maschi con una figlia di Offa, Offa proponeva quello di uno dei suoi maschi con una delle figlie di Carlo ma Carlo si offese poiché non intendeva allontanare da sé le figlie ed Offa lo sapeva), per cui i porti franchi nel 789 restarono temporaneamente chiusi ai commerci inglesi. L’offesa lasciò uno strascico politico postumo: dopo la morte di Offa, nel 802 Carlo riuscì ad imporre l’esiliato Egberto sul trono del Wessex, che iniziò così la sua parabola ascendente mentre la Mercia iniziò il suo inesorabile declino.
NOTA Nessuna delle figlie di Carlomagno risulta essersi sposata, tutte furono istruite ed alcune di loro ebbero figli naturali, Amaudru entrò in convento. Fu per precisa volontà dello stesso Carlomagno (che tuttavia chiudeva gli occhi sugli eccessi sentimentali delle figlie) che nessuna di esse si sposò: finchè Carlo visse, le figlie restarono sempre a corte: ne amava moltissimo la compagnia e discorreva con esse di filosofia e poesia. Pipino il gobbo tentò un colpo di Stato imprigionando la regina Fastrada: uomo dal carattere forte, non si sottomise mai alla volontà paterna e rifiutò sempre di prendere i voti (il padre lo voleva Vescovo e forse avrebbe brigato per la nomina papale); Carlomagno non riuscì mai a provare la colpevolezza di uno dei congiurati principali. Di tutti i maschi, soltanto Lodovico sopravvisse al padre e il suo primo atto da imperatore fu la cacciata le sorelle dalla corte (“allontanate quel branco di galline!”). Quanto all’alleanza con Bisanzio, ad un certo punto Carlo persò di sposare l’imperatrice di Bisanzio e riunire così i due imperi, ma non se ne fece mai nulla. Franchi e Bizantini entrarono in conflitto per il Ducato di Benevento ed i bizantini, che non vollero dar retta al pincipe Adelchi, subirono una disastrosa sconfitta. Carlo riuscì anche a sconfiggere gli Arabi in una grande battaglia navale riprendendo il controllo della Corsica; ciò non gli impedì in seguito di intrattenere buoni rapporti con gli Arabi.