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ISBN 978-88-6743-025-3

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Art director: Fulvio Chirichella

Redazione: Debora Senese

Presidente onorario: Salvatore Mignano

Le Parole Non Dette

Anna Tufariello

A mia madre Vivere senza di lei non è stato facile ma “la vita, regalandomi il bene e il male, mi ha fatto donna, ed è normale”

Questo libro è stato in “incubatrice” per tantissimi anni. Tutto era pensato nella mente ma mai scritto; non so se sono riuscita a trasferire i pensieri in parole. Devo ringraziare l’unica persona che è riuscita a scalfire la “corteccia” che mi ricopriva, per avermi fatto capire che guardare troppo indietro non fa altro che dilatare nel tempo il dolore al quale prima o poi bisogna porre fine. Devo ringraziarla per la pazienza che ha avuto nel sopportare i miei alti e bassi, soprattutto i bassi, che spesso sono presenti in questo libro, ignara del fatto che con il suo aiuto sono riuscita a trasferire in parole le emozioni che ne fanno parte. Un grazie particolare a te, lettrice/lettore, che hai scelto di leggere il libro di una sconosciuta. Buona lettura.

Silenzio. Tutte le persone intervenute al funerale erano andate via. Ora poteva riposarsi un po’. Era stata una giornata molto impegnativa. Sul porticato della casa c’era una sedia a dondolo. Si sedette ed ammirò il sole che tramontava nascondendosi oltre la linea dell’orizzonte. Era stata una giornata calda per essere a maggio. La primavera stava lasciando il posto all’estate, conservando ancora quella piacevole freschezza serale. I colori di quella serata erano stupendi, l’azzurro del giorno si confondeva con il crepuscolo misto di rosso e giallo. Le sembrava di osservare un tramonto dipinto in un quadro in cui i colori erano stati abilmente mescolati; era da tanto tempo che non ne vedeva di uguali. Il profumo del gelsomino si diffondeva nell’aria. In città era abituata a guardare il sole stagliarsi sui tetti e nascondersi dietro le case; vederlo stemperarsi pian piano oltre l’orizzonte le infondeva una sensazione di pace e stupore che non ricordava. Si sentiva stranamente rilassata, nonostante avesse trascorso una giornata davvero pesante. Trovarsi ora, dopo tanto tempo, in quella che era stata la casa dei suoi le faceva un certo effetto; al pensiero rabbrividiva. I ricordi cominciarono ad accavallarsi uno dietro l’altro, senza darle la possibilità di poter mettere ordine, senza capire quale fosse stato il primo che le era ato per la mente e quale fosse quello attuale; erano come i pezzi di un puzzle disfatto che non riusciva a mettere insieme, perché erano stati riposti in ordine sparso, ricordi che aveva nascosto nel fondo del cassetto immaginario del suo cervello. Si sforzò di cacciarli via; non era il momento, non aveva voglia di pensare, era troppo stanca per farlo. Dondolandosi, cercò di assaporare quei momenti. Durante tutta la giornata aveva dovuto sorridere e ringraziare gente che conosceva e non. Aveva dovuto

stringere mani e rispondere ad abbracci che le erano sembrati sinceri, altri sicuramente di circostanza. Aveva sepolto sua madre. Era stata avvisata quando tutto si era concluso. Sua madre aveva voluto che nessuno la informasse di quanto le stesse succedendo e si era fatta promettere che la figlia ne avrebbe avuto notizia solo dopo che fosse morta. Gliel'aveva riferito la sua vicina di casa, che spesso le aveva fatto compagnia durante il periodo della malattia. Sua madre malata. Non poteva credere che la donna forte che aveva conosciuto potesse essere malata, non riusciva ad immaginarla in quello stato. L’aveva sempre vista in gran forma, forte, capace di grandi sforzi, decisa e pronta a dare ordini. Non riusciva a disegnarla nella sua mente come sofferente, non riusciva a definire i contorni di quell’immagine che rimanevano sfocati e nello stesso tempo ingigantiti dal lungo periodo di lontananza. Una leggera brezza le mosse i capelli. Respirò a pieni polmoni. Al suo paese l’inquinamento sembrava non essere arrivato; l’aria sapeva di pulito ed il profumo dei fiori era talmente intenso che quasi la stordiva. I suoi genitori abitavano in una villetta posta ad un'estremità del paese, disposta su due piani, più il garage interrato, indipendente, con intorno un grande giardino che aveva visto sicuramente tempi migliori. Suo padre aveva voluto costruirla proprio lì perché non c’erano altre case vicino, né davanti, né intorno, così avrebbe avuto la possibilità di ammirare il sole sorgere e tramontare; voleva avere la libertà di poter contemplare il cielo in tutte le ore del giorno e della notte perché diceva: “ogni giorno la natura dipinge un quadro diverso che va ammirato, un quadro che, se osservato bene e a lungo, suscita emozioni difficili da dimenticare”. In seguito altri avevano seguito il suo esempio ed ora era venuto a crearsi un viale composto tutto da villette come la sua.

Le bastò uno sguardo veloce per rendersi conto che le rose crescevano ormai incolte e l’erba era diventata troppo alta; il giardino non aveva più le sue sembianze, ma sembrava piuttosto una piccola giungla. Era necessario ed urgente che qualcuno tagliasse l'erba; avrebbe trovato qualcuno che fe quel lavoro. Il giardino era stato diviso in due: nella parte anteriore, quella che si trovava verso l’ingresso della casa, erano stati piantati fiori e piante che appagassero soprattutto la vista con la loro bellezza; nella parte posteriore invece, erano stati piantati alberi da frutto che in primavera producevano un’esplosione di colori e creavano uno spettacolo che incantava. sca rimaneva ore ad ammirare quello spettacolo che la natura non si stancava di offrire ogni anno, le sembrava un miracolo che si ripeteva ed immaginava ci fosse la mano di qualcuno in quel disegno. Tutti gli altri fiori non c’erano più. La magnolia cresceva in maniera scomposta e senza forma, il pesco sembrava essere malato, il ciliegio aveva dato pochi frutti che ancora pendevano dai rami; tutto aveva un aspetto di decadenza. L’acero rosso stava perdendo il suo colore naturale e si stava spegnendo lentamente. Solo i gelsomini tutt'intorno al recinto continuavano a fiorire e a conservare il loro profumo, anche se le foglie non avevano più il loro colore verde scuro, ma erano quasi giallognole. Le azalee avevano perso tutto lo splendore che avevano durante la fioritura, per ridursi a miseri rami rinsecchiti da cui spuntava qualche sparuta foglia; a voler essere ottimisti, poteva essere visto come il segno di una possibile rinascita con l’aiuto di un'energica potatura e la concimazione del terreno. Le ortensie producevano ormai solo fiori piccoli ed insignificanti su lunghi steli che si piegavano per il peso. Come se stesse guardando un film al rallentatore, sca ritornò indietro con la memoria, a quando quel giardino era l’orgoglio del padre ed era ammirato da tutti per la sua bellezza. Tutti i fiori e gli alberi erano disposti in modo tale da formare una piacevole tavolozza di colori, perfettamente accostati. Le piaceva ammirare il suo giardino

e seguire la fioritura, a volte alternata ma quasi sempre contemporanea, che culminava in un’esplosione di colori e profumi. I colori del tramonto si confondevano con quelli della sera. Aveva fame. Non aveva mangiato nulla per tutto il giorno. Era arrivata molto presto, aveva preso un caffè al bar all’ingresso del paese e si era diretta verso casa. Decise che avrebbe ordinato una pizza, cercò il numero e la ordinò insieme ad una birra fresca. Si sedette sulla sedia a dondolo a godersi l’aria serale e finalmente la meritata tranquillità; anche se era tornata per una circostanza non piacevole, non le dispiaceva essersi allontanata dalla città, le sembrava quasi di essere in vacanza. Al suono del camlo sobbalzò. La pizza era già arrivata. Le era sembrato che fosse ato poco tempo, invece, senza rendersene conto, si era addormentata ed era ata quasi un’ora. Pagò, ringraziò il ragazzo che gliel'aveva portata e tornò sul porticato. Non aveva voglia di apparecchiare la tavola solo per sé, così mangiò la pizza direttamente nel cartone in cui era contenuta. Il sonno momentaneo l’aveva sollevata dall'urgenza di pensare. Pensieri che ora, mentre mangiava, ripresero a vagare per la mente, così che non si accorse nemmeno che sapore avesse il cibo. Automaticamente tagliava i pezzi e li portava alla bocca, sorseggiando ogni tanto un po’ di birra, con lo sguardo sempre fisso verso l’orizzonte, senza guardare nulla di preciso. Quando ebbe finito, restò seduta pensando a quello che avrebbe fatto il giorno dopo; si augurava che non ci fosse molto da sistemare perché voleva andare via subito, non era più tornata da quando era morto suo padre parecchi anni prima. Durante il tempo trascorso non si era mai sentita con sua madre, non aveva mai saputo come se la asse né tanto meno lei l’aveva cercata. Si era creato un distacco così profondo a cui non riusciva a dare un inizio né un motivo in apparenza sufficientemente valido. Non ricordava... forse un litigio, forse un invito preso come imposizione... proprio non lo ricordava. Episodio completamente rimosso dalla mente, come se avesse usato il tasto “delete” e dopo la comparsa della scritta: “sicura di voler cancellare in maniera definitiva il ricordo?” avesse premuto il tasto “sì”.

Giurò a se stessa che avrebbe fatto di tutto per ricordare; la mente non è un computer su cui è possibile cancellare senza possibilità di ritorno, la mente accantona provvisoriamente e poi, quando meno te l’aspetti, un gesto, una parola, anche insignificanti, riportano tutto a galla. Il sole era tramontato del tutto ed uno spicchio di luna era apparso in ciel che qui le sembrava più nero che in città – inquinamento luminoso zero - pensò. Si vedevano molto bene le stelle e le costellazioni. Nelle serate così limpide si divertiva molto a cercare di riconoscerle con suo padre; ora non sapeva più se ne sarebbe stata capace ed abbassò lo sguardo con tristezza, non le riusciva più di riprodurre la gioia di quei momenti. La stanchezza ebbe il sopravvento: aveva sonno. Salì di sopra in quella che un tempo era stata la sua camera. Il letto era disfatto e senza lenzuola. Non se ne curò, tolse il telo che ricopriva il materasso e si sdraiò. Sebbene pensasse che non si sarebbe addormentata, cadde in un sonno profondo e sognò. Sognò di trovarsi avvolta nella nebbia in cima ad una scalinata, riusciva ad intravederne l’inizio, ma non la fine. Si girava intorno ma non vedeva altro che nebbia, fitta, umida. Provò a scendere un gradino ma la scala di colpo diventava come uno scivolo turbinoso, senza fine, e cominciava a scivolare, scivolare, scivolare sempre più in fretta; man mano che scendeva la velocità aumentava e non c’era nulla a cui potersi aggrappare per rallentare la caduta. Provava a rallentare premendo con le mani sullo scivolo, ma era inutile, non facevano presa, sembrava che sotto di lei non ci fosse nulla. Continuava a scivolare via inesorabilmente, inghiottita sempre di più in un vortice senza fine. Urlava terrorizzata chiedendo aiuto, ma non c’era nessuno ad ascoltarla. Si svegliò di colpo tutta tremante. Quel sogno le era sembrato così vero che aveva il timore di trovarsi a terra e non nel suo letto. Si sbagliava. Era ancora nel suo letto e tremava, fredda di paura. Stette seduta sul letto, aspettando che le asse il terrore che aveva provato. Non voleva ricorrere ad un sonnifero, che prendeva ogni tanto quando aveva bisogno di recuperare le energie con un bel sonno salutare; perciò cercò di calmarsi e, dopo un po’ di tempo e con molta fatica, si riaddormentò. Il sogno non si ripeté. Il mattino seguente si svegliò con il sole che entrava attraverso le fessure delle

finestre: si preannunciava un’altra giornata calda. Aveva ancora addosso gli abiti del giorno prima. Udì suonare il camlo: era la signora Maria; aveva con sé le chiavi, ma sicuramente per discrezione aveva preferito suonare. “Ciao sca, sono venuta a vedere se ti occorre qualcosa e ti ho portato la colazione, spero non ti dispiaccia.” “Entri pure - disse stropicciandosi gli occhi, che cominciavano ad abituarsi a tutta quella luce - ma che ore sono?” Domandò. “Sono le 9:30 ate.” “Accidenti – pensò ad alta voce - non pensavo di aver dormito così tanto!” “Beh, ieri è stata una giornata molto dura, è abbastanza normale.” Notò che aveva addosso gli abiti stropicciati, ma non disse nulla. Si sedettero in cucina e sca consumò la colazione che la vicina le aveva portato: il caffè era bollente e la ciambella profumata e fragrante. “È esattamente come quella che facevi quando ero bambina.” Le disse. La signora Maria sorrise amorevolmente, provava piacere nello scoprire che ricordasse il sapore del suo dolce. “Che cosa intendi fare oggi? - domandò - se per l’ora di pranzo sei libera, mi farebbe piacere averti a casa mia, mi faresti un po’ di compagnia”. sca non rispose, pensava di riuscire a sistemare quello che doveva entro il primo pomeriggio e ripartire subito, ma sentiva che doveva accettare quell’invito e così fece. “D’accordo, ci vediamo a casa sua per l’ora di pranzo. Non ho ancora deciso da dove cominciare, ma non credo che mia madre avesse tante cose da sistemare. Penso di fare in fretta” - aggiunse apparentemente convinta e nonostante ciò, le si formò un nodo in gola. Era davvero quello che voleva? O piuttosto ora che non c’era più voleva trovare

qualcosa che le fe capire perché sua madre si era comportata così con lei. Sì, voleva sapere. La signora Maria dovette intuire i suoi pensieri perché senza dire altro la salutò, ricordandole che il pranzo sarebbe stato pronto verso l’una. “D’accordo – disse – a dopo.” Rimase sola. Non sapeva davvero da dove cominciare, né che cosa fare o cercare. Prima di ogni altra cosa, però, doveva tornare al cimitero a sbrigare le ultime incombenze della tumulazione. Tornò di sopra, fece una doccia, si vestì, prese la macchina e partì. La giornata era splendida e se non fosse stata in ritardo avrebbe fatto volentieri la strada a piedi. Gli addetti erano già lì ad aspettarla. Non ci volle molto tempo. Dopo mezz’ora era tutto finito. Dette le ultime indicazioni al marmista circa le incisioni da apporre e consegnò la foto che sua madre aveva lasciato perché venisse usata per la lapide. Si fermò a salutare anche suo padre. Sulla tomba c’erano fiori freschi, sicuramente li aveva portati la signora Maria. Doveva ringraziarla di questo. Poi si fermò davanti a un’altra tomba, vicina a quella di suo padre, dove spesso lo aveva visto fermarsi in rispettoso silenzio. Ancora non ne capiva il motivo né aveva mai avuto risposte alle sue domande. Apparteneva ad una donna che non conosceva. Uscì dal cimitero e tornò a casa. Non capiva perché, ma aveva una certa ansia. Quando rientrò avvertì una sensazione particolare a cui non aveva dato peso il giorno prima perché troppo impegnata per il funerale. Sembrava che qualcuno la stesse osservando. Provava soggezione nonostante fosse a casa sua. Era andata via non appena aveva potuto e non c’era stato più nessun rapporto né incontro con i suoi, se non quando era morto suo padre. Dopo aver finito gli studi di giurisprudenza e conseguito l’abilitazione per esercitare la professione di avvocato, aveva deciso che sarebbe stato meglio farlo

in un’altra città; voleva dimostrare di essere in grado di farcela senza l’aiuto di suo padre, molto noto in paese e nei dintorni. Suo padre era stato una persona speciale, avevano avuto un rapporto bellissimo. Fino a quando? - pensò. Aveva sostituito sua madre fin da quando era bambina: le aveva fatto da madre e da padre contemporaneamente. Sua madre era sempre stata assente. Non ricordava di aver mai giocato con lei o di aver mai fatto qualunque cosa con lei. Era sempre suo padre che l'accompagnava ed andava a prenderla a scuola, oppure, quando lui non poteva, arrivava il signor Luigi, marito della signora Maria, che lei affettuosamente chiamava “zio”. Con le insegnanti prima ed i professori in seguito era sempre il padre che andava ai colloqui. Se aveva qualche difficoltà con i compiti, era sempre lui che l’aiutava. Aveva cercato di capire perché sua madre si comportasse in quel modo e ne aveva sempre sofferto, non sapeva darsi alcuna risposta e nessuno le dava spiegazioni. Era suo padre che la imboccava quando era piccola, o le rimboccava le coperte dopo averle letto la solita fiaba serale. Ricordò di quanto avesse desiderato che fosse sua madre a fare quello che faceva lui, quanto avesse desiderato che sua madre le desse il bacio della buonanotte, le rimboccasse le coperte, le leggesse le fiabe o la rassicurasse quando aveva paura…. che…. Non era mai successo. I suoi compagni ne parlavano sempre; ogni azione che dicevano di aver compiuto con la propria mamma per lei era una coltellata che affondava in una ferita che diventava ogni giorno più profonda, difficile da rimarginarsi. Avvertiva ancora adesso l’invidia che provava per loro. A lei questo non era mai successo, era sempre suo padre che le faceva da madre, i suoi compagni non capivano e ponevano domande che lei sistematicamente eludeva. E si era portata dietro quella sensazione di “diversità” che l’aveva sempre contraddistinta, che l’aveva sempre resa diversa dagli altri, che le aveva modellato il carattere, che l’aveva resa una persona perennemente triste, che le aveva formato una “crosta” difficile da rimuovere, che le aveva fatto dimenticare che cosa significasse amare ed essere amati.

I ricordi degli anni trascorsi in quella casa cominciarono ad affiorare lentamente, sequenza dopo sequenza; ora iniziava a mettere alcuni pezzi del suo puzzle al loro posto, anche se con difficoltà. Era molto doloroso quello che stava rivivendo, ma non riusciva neppure a frenarli. Dicono che bisogna are attraverso il dolore per capire la gioia, ma lei la gioia non l’aveva ancora provata. Ricordò con nitidezza quella volta in cui aveva udito suo padre e sua madre litigare – è eccessivo dire litigare – disse tra sé - perché sua madre era una persona troppo controllata per farlo – diciamo pure che stavano discutendo un po’ più animatamente del solito e stavano parlando di lei. Suo padre “rimproverava” sua madre di essere troppo distaccata, le stava dicendo di sforzarsi almeno un po’, di non lasciare che lei crescesse senza conoscere il suo abbraccio. L’aveva sentita replicare che proprio non le riusciva di affezionarsi e mostrarsi affettuosa, che la cosa le dispiaceva ma era più forte di lei. E quell’abbraccio le sarebbe mancato per sempre. Per sempre avrebbe sperato che qualcuno l’abbracciasse per il solo piacere di farlo, che qualcuno le trasmettesse, attraverso un abbraccio, l'amore. Aveva sentito replicare il padre: “Ho sempre sperato che le cose cambiassero e che vedendo sca crescere ti saresti affezionata un po' a lei…” Non aveva ascoltato il resto della discussione, era corsa via piangendo disperatamente: sua madre non l’amava! E non si sarebbe più liberata di quella convinzione. Suo padre si era accorto troppo tardi della sua presenza e le era corso dietro per assicurarle che aveva distorto quello che aveva ascoltato e che il suo amore non le sarebbe mai mancato. Dopo quell’episodio per un po’ di tempo suo padre era stato sempre più presente nella sua vita, sembrava che fosse diventata il centro, il motivo principale della sua esistenza. Ora metteva a fuoco anche che, lentamente, aveva cominciato a staccarsi da lei, a legarsi sempre di più a Lorenza, sua madre.

Nei loro sguardi percepiva una complicità dalla quale lei era esclusa e questo la feriva. Aveva la sensazione che stesse perdendo suo padre. E come per crearsi un alibi, anche lei cominciò ad allontanarsi, a rinchiudersi in se stessa. Senza accorgersene, presa dai ricordi, cominciò a salire le scale che portavano al piano di sopra. Si stava dirigendo in quella che era stata la stanza dei suoi genitori. Non sapeva esattamente che cosa cercare, sentiva soltanto la necessità di salire ed entrarci. La porta cigolò un po’, era chiaro che nessuno si prendeva cura di quella casa da tempo. La stanza era completamente buia. Aprì le persiane e lasciò che il sole la illuminasse e la riscaldasse. Il letto era rifatto con lenzuola pulite, sicuramente era stata la signora Maria che aveva provveduto a prepararla, pensando che avrebbe dormito lì. Invece lei aveva preferito la sua vecchia camera, perché provava la sgradevole sensazione di profanare un luogo sacro, un luogo nel quale era entrata pochissime volte. Tutto era fresco e profumato. Si guardò intorno cercando di ricordare se ogni cosa fosse nello stesso posto in cui era anni prima. C’era ancora il quadro della Madonna con il Bambino che capeggiava sulla testiera. Apparteneva a sua nonna, la mamma di suo padre, e lui non aveva mai voluto spostarlo; a lei aveva sempre procurato una fitta al cuore perché rappresentava l’amore di una madre verso suo figlio, amore che a lei era stato negato. Sulla parete laterale c’era ancora il vecchio comò, anch’esso della nonna. Nonostante il tempo era ancora perfetto e bellissimo. Quel mobile l’aveva sempre affascinata per i suoi grossi cassettoni, che immaginava potessero contenere chissà quali segreti. Quante volte, pensò, aveva provato il desiderio di nascondersi per farsi trovare, come un gioco a nascondino! Istintivamente s'incamminò in quella direzione e cominciò ad aprire il primo dei quattro cassetti. In perfetto ordine – e come avrebbe potuto dubitare di questo – c’era la biancheria di sua madre. Fece lo stesso con gli altri tre: tutti contenevano indumenti appartenuti a sua madre. Si guardò intorno, avvertiva una forza particolare che la spingeva verso qualcosa, ma non riusciva ad indirizzarla nella direzione giusta. Con lo sguardo abbracciò tutta la stanza e alla fine ricordò il secretaire. Una volta aveva visto

dove la madre nascondeva la chiave, così la prese e l’aprì. Oltre ad oggetti di valore appartenuti a sua madre c’era un cofanetto, anch’esso chiuso, ma con la chiave incollata sotto. Aprì anche questo e con sua sorpresa trovò un pacchetto di lettere chiuse e tutte indirizzate a lei, regolarmente affrancate ma mai spedite, con su annotata la data. Sciolse il nodo del nastro che le teneva legate, le sfogliò una ad una e vide che erano conservate in ordine cronologico, dal giorno in cui la madre aveva cominciato a scriverle fino all’ultima. Il cuore prese a batterle forte e con le mani tremanti aprì la prima lettera, portava la data di sei mesi prima.

Cara sca, se stai leggendo questa lettera significa che non ci sono più e che sei riuscita a trovare il cofanetto che la conteneva. Come noterai ce ne sono altre, perché ho deciso di scriverti ogni volta che ne avrò la possibilità.

Si domandò come sua madre avesse previsto che le avrebbe trovate, evidentemente si era accorta che lei l’aveva spiata e quindi era certa che ciò sarebbe accaduto.

Comincio col chiederti perdono per tutto il male che ti ho fatto, ma soprattutto per non averti amato come avrei dovuto. Capisco solo ora che il tuo silenzio dura da troppo tempo, tempo che ho sprecato per non aver saputo amare, e per non aver avuto l’umiltà di dirti che ti volevo bene. Ho sempre pensato che tu potessi essere un intralcio alla mia carriera, volevo far vedere a tutti quanto valessi, io che mi ero costruita da sola e che avevo raggiunto il successo con le mie sole forze, proprio come hai fatto tu, che hai rifiutato il sostegno di tuo padre.

Tutto questo però ha fatto di me una donna dura, all’apparenza senza sentimenti. Tuo padre aveva capito che in fondo non ero così, che avevo un’anima, ma che avevo difficoltà a mostrare ciò che provavo. E poi sai, una volta assunta una posizione, credevo di dover continuare ad essere quella che gli altri pensavano che fossi; provavo timore nel mostrarmi diversa, significava dover ammettere le mie debolezze. E non ho avuto il coraggio di cambiare. Lo so che questa non è una scusa, ma è la verità. Ti scrivo anche per dirti che nei giorni scorsi ho scoperto di essere molto malata. Il cancro è già ad uno stadio avanzato e non so quanto tempo mi resta. La situazione è molto grave; i medici non si pronunciano, ma non mi danno molte speranze, dicono che questo tipo di tumore può portarti via in fretta o darti una chance di uno, due anni al massimo, se la terapia fa effetto. Da domani inizierò la chemioterapia; non so se sarà efficace, è un tentativo. Ma non cerco la tua pietà, non merito neanche quella. Un abbraccio, Tua madre

sca ripiegò la lettera e la ripose nella busta pensierosa, ma soprattutto basita: sua madre aveva dei sentimenti. Strano a pensarlo e soprattutto a dirsi. Nei suoi gesti e nei suoi sorrisi non aveva mai percepito il minimo affetto, si chiedeva come suo padre fosse riuscito invece a vederlo. Rimase seduta sul pavimento dov'era scivolata mentre apriva quella prima lettera. Non si era accorta che si era fatto tardi.

L’aveva letta con molta lentezza, quasi volesse assorbire ogni parola, quasi volesse cogliere in quelle poche righe qualche forma di affetto, quasi volesse provare la sensazione di amare quella donna. La infastidiva aver scoperto che sotto quell’aspetto di persona dura si nascondeva una donna che aveva un cuore; un brivido le percorse la schiena. Guardò l’orologio e si accorse che era ora di pranzo, la signora Maria l’aspettava. Si diresse verso il bagno e s'infilò di nuovo sotto la doccia con il desiderio di voler lasciare scivolare via con l’acqua anche quella brutta sensazione di stordimento che avvertiva. Tirò fuori dalla valigia un paio di jeans ed una camicia puliti, li indossò ed uscì. La signora Maria abitava poco lontano da lei. Notò che la casa non era cambiata affatto. All’esterno il giardino era ben curato e le rose in piena fioritura, mentre all’interno era pulita ed accogliente; emanava serenità proprio come la sua padrona. La tavola era apparecchiata per due. Ora che ci pensava non aveva visto il signor Luigi al funerale di sua madre, si era ripromessa di chiedere che cosa gli fosse successo. Al suo sguardo interrogativo la signora Maria aveva risposto che da quattro anni era rimasta vedova e che lei era la prima persona, oltre sua madre, con cui pranzava da un po’ di tempo a questa parte. sca le rimproverò bonariamente di non averglielo fatto sapere, sarebbe sicuramente venuta al funerale di suo marito, al quale era molto affezionata e con cui aveva trascorso interi pomeriggi a giocare quando suo padre non poteva. La signora Maria rispose che non se l’era sentita di farlo, che aveva voluto vivere il suo dolore da sola e sca capì che cosa intendeva dire, ma nello stesso tempo era rammaricata perché il signor Luigi aveva riversato su di lei l’affetto che avrebbe dato ai suoi figli, se ne avesse avuti. Essere presente al suo funerale era il minimo che potesse fare. Non indugiò oltre in quei pensieri, se la signora Maria si era comportata così aveva avuto i suoi motivi, che andavano rispettati.

Aveva preparato il suo piatto forte: lasagne. sca da piccola ne andava matta, erano le migliori che avesse mai mangiato in vita sua. Si servì una porzione abbondante, quella prelibatezza meritava di essere gustata, considerato che non ne mangiava da tantissimo tempo. Mentre pranzavano parlarono del più e del meno. La signora Maria le chiese come andava il lavoro, dove abitava e se aveva un ragazzo. sca le rispose che il lavoro andava bene, anzi, ne aveva tanto e le piaceva molto, anche se era sempre di corsa e che da due anni frequentava Giovanni, un ragazzo dolcissimo ed innamoratissimo, medico in ospedale. Le fece una descrizione fisica del fidanzato: alto, con i capelli biondo scuro, snello, non eccessivamente bello, ma carico di un fascino particolare che la attirava. Si era innamorata di lui quasi subito quando l'aveva conosciuto nel corso di una visita. Nonostante sapesse di essere innamorata, per un bel po’ di tempo aveva fatto finta d'ignorarlo, aveva cercato di non ascoltare le parole del cuore, le aveva ricacciate indietro: aveva paura di amare. Tuttora non era ancora riuscita a dirgli quanto l’amasse e lui non la forzava, aspettava con pazienza. Amavano le stesse cose, avevano gli stessi interessi, anche se esercitavano professioni diverse. La signora Maria la guardava e l’ascoltava con attenzione, era contenta di aver avuto l’opportunità di rivederla dopo tanti anni; anche lei non aveva avuto più sue notizie e ora beveva avidamente ogni sua parola. A questo punto sca formulò la domanda che desiderava rivolgere alla signora Maria, cioè com'era morto suo marito. Sapeva di riportare a galla un momento doloroso della sua vita, ma voleva sapere, quasi per perdonarsi di essere stata via troppo tempo senza chiedere nulla di nessuno, nemmeno delle persone a cui teneva molto ed il signor Luigi era una di quelle. “Ha avuto un ictus - rispose la signora Maria - non credo si sia accorto di nulla; in un momento è andato via, per sempre, perché sai sca, solo la morte è per sempre e la memoria di chi ci lascia, in chi resta. Infatti ciò che non mi

lascerà è il ricordo del suo amore, mai cambiato nel corso degli anni, la sua tenerezza mai venuta meno, le sue attenzioni e delicatezze sempre amorevoli, il suo farmi sentire la persona più importante della sua vita, sempre, ogni giorno, senza stancarsi mai.” Il viso della signora Maria si coprì di lacrime, ma i suoi occhi brillavano come se stesse ricevendo in quel momento una delle tante attenzioni che le aveva riservato ogni giorno suo marito. Quasi una favola, pensò tra sé. Quanto amore erano riusciti a darsi senza stancarsi! A lei sarebbe potuta capitare una cosa simile? Avevano smesso di parlare entrambe, rapite ognuna dai propri pensieri. Il pranzo era quasi terminato e sca, ringraziando la signora Maria per la compagnia, le disse che doveva tornare a sistemare le faccende a casa sua. Non accennò alle lettere che aveva trovato. Dopo aver gustato il caffè, che non capiva come fe ad essere così buono, andò via. Il pacchetto delle lettere le metteva curiosità, voleva continuare a leggere. Appena a casa, tornò nella camera dei suoi, prese il cofanetto, lo portò di sotto e si sedette al divano. Aprì la seconda lettera in ordine di posizione e diede una sbirciata alla ricerca di qualcosa d'interessante. Parlava dell’inizio della chemioterapia e degli effetti che le procurava. Dopo un paio di lettere sullo stesso argomento ne trovò una che diceva:

Cara sca, forse le lettere precedenti ti avranno un po’ annoiata. Sai, sto facendo uno sforzo per riuscire a trovare il modo per esprimere tutto quello che vorrei dirti e che nel

tempo trascorso non ho detto. Ho capito di aver vissuto una vita non vita, di aver cercato una felicità non felicità, di non aver saputo cogliere la bellezza dei momenti che vivevo. Mi sono lasciata sopraffare dal desiderio della carriera e del benessere piuttosto che dall’amore. A che cosa è servito tutto questo? A nulla. Magari leggendo penserai che sto facendo questo troppo tardi. Hai ragione. Magari starai pensando che è troppo tardi anche per chiedere perdono, che tutte le persone che sanno di morire chiedono a coloro cui hanno fatto del male, di perdonarle. Te lo chiedo ora perché non ho avuto mai il coraggio di farlo prima; ho sempre temuto che mi avresti chiuso la porta in faccia, che non avresti voluto ascoltarmi. Che errore ho commesso a non provare! Ho avuto paura di un tuo rifiuto. Pensa, paura di soffrire io dopo tutto il dolore che ho procurato a te! Sono stata egoista, ancora una volta. Ho ripensato a tutte le volte che avrei voluto abbracciarti ma vigliaccamente non l’ho fatto; a tutte le volte che avrei voluto accompagnarti in giro, come fanno madre e figlia; ascoltare e vivere con te le emozioni del tuo primo amore, sapere quello che provavi; insomma essere tua complice. E invece non l’ho fatto, ho sempre lasciato che fi tutto con tuo padre o da sola; che stupida sono stata! Eppure mi sono resa conto, soprattutto dopo la morte di tuo padre, di quanto ti amassi, di quanto avrei voluto tornare indietro per non rifare gli errori commessi, per poterti dare tutto l’amore di cui avevi bisogno; ma indietro purtroppo non si può più tornare, il tempo ci spinge inesorabilmente in avanti, verso la fine. Ho capito però che non è mai troppo tardi per dire quello che provi alle persone che ami.

Ho capito anche di essermi fermata sempre alle prove della recita di un monologo, anziché metterlo in scena, credendo che il teatro fosse vuoto, dimenticando di avere spettatori che chiedevano voce. La stanchezza si fa sentire, devo fermarmi. Sicuramente anche questa lettera finirà per non essere spedita come le altre. Un grosso abbraccio, Tua madre.

sca rilesse la lettera due volte. Perché non aveva provato? Perché? Forse qualcosa sarebbe cambiato. Lei aveva troppo bisogno di amore, dell’amore di una madre, ed anche se con ritardo forse avrebbe provato a perdonare e si sarebbe riavvicinata a lei, avrebbero condiviso gli ultimi anni e le loro emozioni. Forse avrebbe vinto la paura di amare. Forse… Richiuse la lettera. Aveva ragione. Quanto dolore aveva provato a causa della madre! Le sue numerose assenze le avevano sempre procurato un senso di abbandono; riviveva le sensazioni che provava al suo ritorno, rivedeva la gioia del padre, le manifestazioni d'affetto che si scambiavano. Di ritorno da ogni viaggio le portava qualcosa di particolare, ma aveva sempre avvertito in quei regali una sorta di obbligo; ogni volta si augurava che non le portasse nulla per non dover assistere a quella farsa montata a dispetto dell’amore. Aprì un’altra lettera ed un’altra ancora. Anche queste parlavano della chemioterapia, di come si svolgeva e di quali dolori le procurava; sembrava che fosse lucida a fasi alterne, o forse tra una lettera e l’altra le occorreva il tempo per metabolizzare ciò che avrebbe detto successivamente.

E infatti...

Cara sca, ho deciso di non parlarti più della mia malattia, dei cicli di chemio che sto facendo e dello stato in cui mi riducono, perché, ripeto, non voglio la tua pietà se non sono riuscita ad avere il tuo affetto. Ti racconterò ciò che mi a per la testa. Sai, in questo periodo sto riscoprendo la poesia, mi sto accorgendo di quanto sia mancata nella mia vita; sicuramente grazie ad essa sarei stata meno dura, forse sarei riuscita ad apprezzare di più le cose belle della vita. Quando trovo una poesia o un autore che mi piace in maniera particolare, leggo e rileggo le sue poesie, le imparo quasi a memoria, come questa di Hikmet che ti riporto: La mia tavola la mia carta la mia macchina da scrivere i miei abiti sono tutti insanguinati sono insanguinati i marciapiedi delle città dove sono ato le tracce delle mie mani sui muri sono di sangue ho lacerato la camicia sul petto e il mio cuore lo stiamo divorando con una femmina scrivimi delle lettere telegrafami telefonami dimmi vengo vengo vengo

morte dammi saggezza. È così che mi sento in questo periodo, è così che è trascorsa la mia vita. Ho scoperto quest'autore per caso e me ne sono subito innamorata. È diretto, ionale, triste e soprattutto sa esprimere l’amore in maniera eccellente ed io chiedo alla morte la stessa cosa: saggezza. Naturalmente Hikmet non è il solo, ma la sua poesia mi ha colpito molto; in alcuni versi ritrovo il rammarico di non aver fatto quello che dovevo; sono stati davvero insanguinati i marciapiedi sui quali ho camminato senza pietà. Tu ami la poesia? Quanto mi piacerebbe conoscere i tuoi pensieri, sapere come affronti tutte le cose della vita, dal lavoro all’amore... insomma tutto! Lo so è troppo tardi, lo riconosco da me, ed ancora mi allontano dall’argomento di cui dovrei parlarti. È come un nodo che non riesco a sciogliere. Ti abbraccio, Tua madre

Le tornò alla mente il carattere di sua madre. Sapeva cosa intendeva per “marciapiedi insanguinati”, dando un’interpretazione molto “personale” a quella poesia. Per riuscire a raggiungere il suo obiettivo non si era mai fatta scrupolo di calpestare chiunque avesse tentato di fermarla o ostacolarla, appunto “senza pietà”. Però era sorpresa. Non conosceva l’autore di quella poesia, eppure leggeva tanto perché la poesia le piaceva molto. Con Giovanni facevano a gara a chi ne trovasse una più bella. Si ripropose di cercare il libro dal quale la madre l’aveva presa, sicuramente era in giro per casa da qualche parte. Ma ora voleva continuare a leggere, la scoperta non era ancora finita.

Cara sca, troppo spesso mi ritrovo qui da sola ad ascoltare il silenzio che diventa sempre più opprimente. Cerco d'immaginare il colore che potrei attribuirgli e lo vedo sempre più scuro, quasi nero, perché non c’è gioia qui in casa, c’è solo tristezza, com'è in fondo da quando sei andata via ed in misura maggiore da quando è morto tuo padre. Se ci fossi stata tu, sicuramente avrei attribuito un altro colore alle mie giornate. La tua sola presenza, anche silenziosa, avrebbe illuminato questa casa. Ho ripensato spesso al tempo vissuto insieme e mi sono accorta che abbiamo viaggiato sempre su binari diversi, senza possibilità d'incontro; binari che neanche all’infinito si sarebbero incontrati, anche se prospetticamente sembra che possano avere, in fondo, un punto di arrivo comune. Si sarebbe potuto trovare quel punto. Si sarebbe potuto, anzi, avrei potuto creare un punto d'incontro, anche solo inserendo al momento opportuno uno scambio che ci permettesse di prendere una strada diversa: quella del dialogo. Magari ci saremmo accorte che non avevamo nulla in comune, che non c’era possibilità di recupero, ma almeno avremmo potuto dire di averci provato; ci saremmo date una possibilità, avremmo avuto uno scambio di opinioni. Magari mi avresti urlato il tuo odio, avremmo… Quanti “se” ci portiamo dietro! Quanti “se” ai quali non riusciremo mai a dare una risposta, perché abbiamo lasciato are il tempo che non si riesce e non si riuscirà più a recuperare! Quanto rammarico per non averci provato! È proprio vero: è meglio avere un rimorso che un rimpianto. Quanta desolazione e quanta solitudine, anche interiore, ci saremmo risparmiate! Ma di tutto questo devo dare la colpa solo a me stessa. Tu ti sei trovata a subire una situazione che non avresti mai immaginato.

Non siamo riusciti ad insegnarti ad amare. Quanta tristezza provo ora! Tua madre

sca posò la lettera e ripensò a ciò che c’era scritto. Era davvero solo colpa di Lorenza? Negli anni aveva maturato un odio che non era mai riuscita a rivelare né a sfogare. Eppure, pensò, l’amore e l’odio non si nutrono dello stesso sentimento? Allora perché neghiamo, taciamo l'amore, mentre l’odio lo teniamo legato a noi lasciando che ci indurisca e che formi intorno a noi una corteccia dura da scalfire? Per le sensazioni che entrambi riescono a procurarci? Ma la gioia ed il dolore non sono forse vissuti con la stessa intensità emotiva, anche se in positivo la prima ed in negativo il secondo? Allora perché la gioia ha breve durata, la si dimentica in fretta e si cerca subito un’altra fonte di gioia? Perché il dolore produce un’eco che si amplifica e si dilata nel tempo? Perché non si riesce a dare ai due sentimenti la stessa frazione di tempo nel viverli? Perché? Perché? Che vertigini aveva! Rimase seduta a fissare il vuoto. La mente elaborava i concetti troppo velocemente, chiedeva risposte che lei non era in grado di dare. Ripiegò la lettera e la ripose nel suo ordine.

Aveva bisogno di prendere aria. Si sentiva soffocare. Uscì in giardino e lentamente lo attraversò tutto, riprovando la fitta al cuore che le procurava lo stato in cui si trovava: era identico al suo animo. Una volta aveva esternato la sua confusione interiore a Giovanni, che si era offerto di aiutarla e lei aveva rifiutato, gli aveva detto che voleva farcela da sola. “Come credi – era stata la sua risposta – l’importante è che tu stia bene con te stessa.” Ma lei lo era mai stata? Quello stato d’animo non la perseguitava da sempre? Non aveva sempre considerato inadeguato il suo posto nel mondo, la sua presenza nel cerchio della vita? Non aveva sempre pensato che forse sarebbe stato meglio non essere affatto nata? A chi e a che cosa era servita la sua nascita? Quale desiderio egoistico era all’origine della sua nascita? Era nata da un atto d’amore? Era stata veramente desiderata? Se sì, e questo non poteva saperlo, qual era il perché di tutto quello che stava succedendo? Dov’erano le risposte che cercava? Le girava la testa. Nessuno sarebbe più stato in grado di dargliene. L’aria era calda ma soffiava una leggera brezza che aveva la forza lenitiva dell’ossigeno e che in quel momento sembrava mancarle: la faceva respirare. Lentamente rientrò in casa. Andò in cucina e bevve un bicchiere d’acqua fresca. Si sentì meglio. Ritornò al divano ed estrasse un’altra lettera.

Cara sca, oggi è venuto a trovarmi il parroco del paese. È un uomo giovane, cordiale; è in paese da poco tempo ed appena i suoi impegni glielo consentono va a salutare personalmente in casa tutte le famiglie (sai che il paese, in fondo, non è grandissimo). Dice che gli piace avere questo tipo di approccio, preferisce

conoscere le persone nel loro contesto familiare e non solo in chiesa (per chi ci va e io non sono tra quelle). Sai bene che non sono mai stata molto religiosa, a volte mi sono considerata quasi agnostica, nonostante l’educazione avuta dai miei genitori. Quando gli ho detto questo, non ha espresso alcun giudizio, ha solo ascoltato ed insieme poi abbiamo intavolato una discussione. Ho provato una sensazione di leggerezza e gioia insieme, non parlavo così con qualcuno da tanto tempo. Gli ho parlato delle mie perplessità circa la reale esistenza di un Dio al di sopra di tutto, un Dio capace di amare incondizionatamente e di Suo Figlio venuto a salvarci. “In ognuno di noi c’è un Dio - mi ha risposto - ognuno di noi a volte, anche senza accorgersene, crede e vuole che esista qualcosa o qualcuno più grande di noi, al di sopra di noi, che sappia ascoltarci quando ne sentiamo la necessità, a cui possiamo rivolgerci quando vogliamo perché sappiamo essere lì, qualcuno che sappiamo aver sofferto come e più di noi, qualcuno capace di comprendere il nostro dolore. A volte facciamo l’errore di usare la ragione per capire la fede, ma la fede prescinde dalla ragione, la fede c’è o non c’è, non si può spiegare. Non la si può ricondurre ad una qualsiasi spiegazione logica, la senti e basta. Gesù – ha continuato - è realmente esistito ed è realmente morto sulla croce, Gesù è stato un grandissimo uomo.” Ho capito che la mia fede non era svanita del tutto, era rimasta lì in attesa di essere riscoperta. Se sai ascoltarla ti aiuta a prendere la decisione giusta, come ora. Ora lo so. Ho scritto tanto oggi, sono stanca. Ciao, Tua madre

I vari momenti vissuti cominciavano a tornare lentamente alla memoria come flash. Non avevano mai frequentato la chiesa. Da quando lei aveva ricevuto la Cresima non c’erano più stati e durante il periodo in cui avevano dovuto frequentarla aveva avvertito come una forzatura nei gesti e nelle parole dei genitori. Tutto ciò le aveva reso più “naturale” l’allontanamento dalla fede, se mai ne avesse avuta una, se mai avesse creduto veramente in qualcuno. Né in seguito aveva mai cercato di riavvicinarsi, o quanto meno di entrare in una chiesa anche solo per curiosità. “Com’è strana la vita! – pensò – alcune persone ritrovano la propria interiorità nel momento del bisogno, quando fa comodo.” E lei? Che cosa avrebbe fatto? Non aveva forse la necessità di ritrovare se stessa? Avrebbe potuto farlo attraverso la fede? Non sapeva rispondersi. Non ora. Forse in seguito avrebbe cercato di capire meglio anche se stessa, forse avrebbe avuto bisogno dell’aiuto di Giovanni. La lettera successiva diceva:

Cara sca, quando arrivi ad un punto come quello in cui mi trovo adesso, ti accorgi di quanto futile sia stata la tua vita, di quante sciocchezze siano state dette, a quante cose inutili e senza senso si sia dato valore, piuttosto che a ciò che realmente avrebbe riempito la vita: l’amore. Mi accorgo di quanto amore avevo da dare e non ho dato, cominciando da me stessa. Se mi fossi amata di più, sicuramente sarei stata capace di amare di più gli altri. Sì sca, non mi sono amata abbastanza; ti potrà sembrare paradossale eppure è così, non ho curato la mia interiorità, ma solo la mia esteriorità. Non ho ascoltato la coscienza che mi suggeriva di curarla.

Non ho avuto il coraggio di mettermi di fronte allo specchio e guardarmi profondamente, forse perché gli specchi nei quali avrei dovuto riflettermi erano troppi ed era troppo per me. Non ero sicura di farcela e non ho nemmeno provato. Ora ho riscoperto Gesù e Lui non mi chiede di guardarmi allo specchio, mi accetta così come sono. Non mi chiede di pagare il pedaggio per la vita vissuta e per il viaggio che mi accingo a fare. Sono io che considero questa sofferenza il giusto prezzo per ciò che non ho saputo dare e fare nella vita. Il parroco ora viene a trovarmi spesso, ha capito che c’è qualcosa che mi tormenta. Ora ti lascio. Tua madre

Si era fatto pomeriggio inoltrato ed i colori della sera cominciavano a prendere forma. Nel cielo volavano gli ultimi uccelli che disegnavano figure come in gare solitarie. Le venne in mente il gabbiano Jonathan Livingston, i suoi sforzi estremi per raggiungere la perfezione, per essere libero, per decidere da solo che cosa fare della propria vita, per raggiungere la felicità attraverso la perfezione del volo, i suoi sforzi per vivere, anziché esistere solamente. Anche lei aveva provato a fare lo stesso, ma il risultato era stato che la corteccia che aveva creato intorno a sé si era indurita ancora di più. Nessuno riusciva a scalfirla. Esternamente sembrava una ragazza piena di vita. Negli ultimi anni si era buttata a capofitto nel lavoro, senza sosta, si era privata di qualsiasi svago e divertimento. Sapeva che dietro quest'atteggiamento c’era il suo desiderio di non pensare, di non ricordare, di non amare ed essere riamata. Ora si accorgeva che in realtà era solo “esistita”, non aveva “vissuto”, aveva negato la vita.

Presa dalla lettura, sca aveva dimenticato di telefonare al suo studio per sapere se tutto andava bene. Rispose la segretaria, che le ricordò gli appuntamenti per il giorno successivo. Le disse di disdire tutto rimandando a data da destinarsi, o di delegare il suo socio a sbrigare le pratiche urgenti; ciò che aveva da fare le avrebbe portato via più tempo di quello che aveva previsto. Sul cellulare notò che c’era una chiamata senza risposta: era Giovanni. Non l’aveva sentito squillare perché aveva messo il silenzioso ed era rimasto nella borsa. Lo richiamò e la sua voce sicura la fece stare meglio. Gli raccontò a grandi linee quello che aveva fatto. Non gli parlò delle lettere, l’avrebbe fatto in seguito, dopo aver scoperto ciò che volevano dire. Chiuse la chiamata con una certa fretta, quasi avesse paura che Giovanni intuisse quello che stava succedendo e riprese a leggere.

Cara sca, continuare a scriverti mi aiuta a sopportare questo periodo tremendo, la chemio mi distrugge ed essere da soli non è facile. Forse scrivo cose senza senso, perdonami, ma il dolore, non quello fisico, mi fa perdere la lucidità. Devo ringraziare la signora Maria se non sono completamente abbandonata a me stessa e la forza di volontà che mi sostiene, perché devo riuscire ad arrivare a dirti tutta la verità. Credo che tu ormai abbia capito che c’è qualcosa che non conosci della tua vita, ma dovrai pazientare ancora un po’, devo trovare le parole ed il momento giusto per dirtelo. In tutta la vita non ho mai fatto ciò che volevo veramente. Sai sca, la vita ti viene consegnata come un copione in bianco cui dare forma e parole ed io non sono stata capace di dargli un corpo per metterlo in scena, non sono stata capace di cogliere le emozioni che può darti un bambino che pronuncia le prime parole o abbozza i primi i, non sono stata capace di apprezzare anche solo la bellezza della natura nello svolgersi delle stagioni.

Se mi guardo indietro mi rendo conto di aver perduto un treno importante, di non aver saputo gioire di quelle emozioni, in poche parole, di aver chiuso il mio cuore. Sono sicura che tutto questo abbia avuto dei risvolti negativi nella tua vita. Il fatto che non ci sentiamo da tantissimo tempo ne è la dimostrazione. Sicuramente aspettavi che fossi io a fare il primo o e non hai torto. In fondo sei tu quella ad essere in debito con la vita e con l’amore. Ciò che ora mi sento di dirti è che devi vivere intensamente ogni momento della tua vita, devi amare, vivere ed ancora vivere, prima che il sipario ti nasconda alla vista degli spettatori e l'opera finisca, così come sta per finire la mia, nel silenzio e nel vuoto più assoluto. Un bacio, Tua madre

Ecco, sca aveva ragione di pensare che ci fosse un segreto nella sua vita, ma quando si sarebbe decisa sua madre a svelarglielo? Non era forse abbastanza adulta da riuscire a sopportare qualsiasi verità potesse nascondere quel segreto? Accidenti, tutto questo la faceva stare peggio! Perché non dire tutto subito e chiuderla lì? È vero che le sarebbe bastato aprire l’ultima lettera e fare la scoperta, ma si era impegnata moralmente a leggere quelle lettere in ordine, a non avere fretta; in fondo voleva anche scoprire che tipo di persona fosse realmente sua madre. Negli anni trascorsi senza vederla si era posta quella domanda un'infinità di volte, senza mai riuscire a darsi una risposta. Si alzò ed andò in cucina a versarsi un po’ d'acqua. Guardò l’orologio. Era molto tardi e non aveva pensato a nulla per cena. Si sistemò in fretta e si diresse all’unico ristorante del paese, perché in casa non aveva nulla di commestibile. C’erano poche persone nel locale. Scelse un posto appartato in cui sedersi, voleva rimanere sola con i suoi pensieri. Ordinò un filetto di pesce con patate e del vino bianco. Prima che le fosse servita la cena Giovanni la richiamò. Le chiese se fosse tutto a posto, perché nella telefonata precedente aveva avuto la sensazione che qualcosa non andasse per il verso giusto. Voleva sapere se riteneva necessario che la raggiungesse. sca lo rassicurò. Ora aveva

bisogno di stare e fare tutto da sola, si sarebbe fatta viva lei non appena l'avesse ritenuto necessario. Giovanni accettò suo malgrado questa risposta; avrebbe voluto starle vicino, ma sapeva che doveva lasciarla libera di affrontare i suoi dolori e che doveva maturare da sola le sue decisioni. Così la salutò con l’affetto di sempre e le disse che avrebbe atteso la sua chiamata. Dopo che ebbe riagganciato sca si sentì un po’ cattiva, Giovanni non meritava quel trattamento, in fondo lui era sempre stato paziente ed affettuoso con lei, non l’aveva mai forzata a fare qualcosa che non voleva, aveva sempre rispettato i suoi tempi, aveva sempre aspettato che decidesse ciò che voleva fare o dire. Ma non le riusciva di essere diversa, di abbandonarsi a un sentimento che aveva paura di rivelare. Giovanni. Con gli occhi chiusi si lasciò andare al ricordo di come l’aveva conosciuto. Era seduta in attesa del suo turno per una visita che aveva prenotato. L'aveva visto uscire da uno degli studi del poliambulatorio ed attraversare il corridoio dov'era seduta. I loro sguardi si erano incrociati per un attimo, un tempo sufficiente a scatenarle un brivido lungo la schiena. Ignara del fatto che di lì a poco sarebbe stato il suo turno, si era alzata e senza essere vista l'aveva seguito come se una calamita l’attirasse. L'aveva visto entrare nel reparto di Pediatria. Per non farsi notare aveva aspettato che sparisse dalla sua vista e così non aveva visto in quale stanza era entrato. Aveva dovuto percorrere tutto il reparto per scoprire dov’era. Nell’ultima stanza in fondo al corridoio, adibita a sala giochi per i più piccoli, l’aveva visto seduto a terra affiancato da alcuni bambini, intenti a costruire qualcosa con i Lego.

Non riusciva a capire che cosa stessero costruendo, ma i gesti e i sorrisi che lui e i bambini si scambiavano, la incollavano a quella porta senza che avesse il coraggio di andare via. D’un tratto lui aveva sollevato lo sguardo e l’aveva vista. L’aveva invitata ad entrare e a sedersi con loro. Aveva provato a rifiutare, dicendo che doveva andare via, ma il suo sguardo le imponeva di rimanere. Entrata nella stanza si era seduta accanto a loro. Stavano costruendo un pozzo – aveva detto Giovanni – il pozzo dei desideri che doveva accogliere quelli di tutti i bambini che avrebbero trascorso un periodo in reparto ed il fatto che fosse tutto colorato avrebbe portato allegria laddove c’era solo dolore. Ogni desiderio sarebbe stato scritto su un foglietto ed arrotolato, rigorosamente anonimo, e nessuno mai avrebbe dovuto aprire un solo biglietto, altrimenti il desiderio non si sarebbe realizzato. Ci sarebbero voluti tanti mattoncini Lego per costruire quel pozzo, ma ogni bambino ed ogni visitatore avrebbero provveduto a portarne qualcuno ad ogni visita, per questo era stato affisso un invito rivolto a tutti, una richiesta di aiuto per la costruzione di quel pozzo. Tutti avevano accettato con gioia l’iniziativa ed ogni giorno ognuno portava quel che poteva. La semplicità con cui era entrata subito in sintonia con Giovanni l’aveva sorpresa. Si erano dati subito del tu, senza conoscere nemmeno i loro nomi. Anche lei era stata invitata a scrivere un desiderio e a lasciarlo nel pozzo, ma non l'aveva fatto. “Ho già realizzato il mio desiderio - aveva pensato tra sé - ho conosciuto te e sento che sarai la persona che amerò.” “Si é fatto tardi - aveva detto sca - devo andare via”.

“Scusami, ti ho dato subito del tu senza nemmeno sapere come ti chiami - le aveva detto accompagnandola alla porta - io sono Giovanni e tu?” “sca.” Aveva risposto e stringendogli la mano aveva avvertito lo stesso brivido lungo la schiena, come quando l’aveva visto. “Quando possiamo rivederci? Ti lascio il mio numero... non ritenermi sfacciato, quando vuoi chiamami.” Mentre lasciava il reparto sentiva i suoi occhi seguirla fino all’uscita. Non era mai stata così bene come in quei pochi minuti trascorsi lì con lui. L'arrivo della cena la riportò alla realtà. Il pesce era squisito ed il vino alla temperatura giusta; mangiò senza fretta, voleva concedersi il tempo di gustare tutto, come non faceva da tanto. Non voleva tornare subito a casa. Quando ebbe finito, pagò ed uscì. Era una bella serata. L’aria era tiepida e piacevole. Non c’era nessuno in giro, ma questo non le metteva paura; vagare per le strade da sola le servì a riscoprire il posto in cui era vissuta, a riprovare emozioni che credeva dimenticate. Vide una bambina in sella alla sua bicicletta girare senza sosta nella piazzetta, felice, le treccine al vento ed il sorriso spensierato sulle labbra. Le somigliava. Era lei. La memoria la riportò a quei momenti felici in compagnia di suo padre. Le aveva comprato la bici che desiderava. Era tutta rosa, ricordò, e le sfuggì un sorriso malinconico ripensando alla descrizione dettagliata che aveva fatto a suo padre di quella bicicletta che tanto desiderava; aveva dovuto girare tutta la città vicina per trovare proprio quella della pubblicità. “Quanto si è ingenui da bambini - esclamò fra sé - quanto ci si lascia condizionare dai media, che riescono a farci il lavaggio del cervello!” Nella piazzetta tutto era stato rimesso a nuovo, ma allo stesso tempo ogni cosa era rimasta uguale. Quanta cura si notava! C’erano gerani rossi in piena fioritura dappertutto, che la rendevano ancora più incantevole; i tratti antichi erano stati rispettati e conservati e tutto era piacevolmente pulito. Aveva riscontrato la stessa cosa per le strade mentre tornava a casa.

Decise che non avrebbe letto ulteriormente quel giorno. Troppi pensieri le erano ati per la mente, troppe ipotesi ed ancora tanto da scoprire. Rientrò in casa con l’animo in subbuglio. Aveva sperato che quella eggiata le desse un po’ di serenità, ma non era stato così. Aveva voglia di bere qualcosa di forte; non lo faceva mai, ma quella sera aveva bisogno di qualcosa che la stordisse un po’, credendo che fosse l’unico modo per non pensare. Cercò nell’armadio bar. Trovò del cognac di annata. Riempì il bicchiere e si portò dietro la bottiglia, lasciandosi andare sul divano. Riempì un secondo bicchiere e, dopo averlo vuotato, il risultato fu che tutto cominciò a girarle intorno. Non era abituata a bere, iniziava a vedere doppio. Con grande fatica andò di sopra e cadde pesantemente sul letto, senza forze. Non si addormentò presto come sperava e nonostante l’alcol, il turbinio dei pensieri era ancora in funzione. Le sarebbe piaciuto premere l’interruttore “off” e dormire. Aveva lasciato la finestra aperta e mentre pensava avvertì l’odore delle rose e del gelsomino provenire dal giardino. Quel profumo era lo stesso che sentiva quando da piccola rimaneva sveglia, perché per qualche motivo non riusciva ad addormentarsi. Le venne da vomitare. Fece appena in tempo a raggiungere il bagno che vomitò tutto quello che aveva mangiato e tutto l’alcol che aveva ingurgitato. Dopo essersi rinfrescata la faccia ed aver lavato i denti, tornò a letto con la speranza di addormentarsi. Stette sdraiata in attesa che il sonno s'impadronisse di lei e con la testa che continuava a girare. Alla fine si addormentò e fece lo stesso sogno della sera prima, solo che la nebbia le sembrava ancora più fitta. Il vortice in cui precipitava aveva dall’alto la forma di un imbuto nel quale sembrava andasse ad incastrarsi, ma man mano che scendeva l’imbuto si allargava e lei precipitava, si allargava e precipitava, si allargava e precipitava,

senza sosta, sempre più velocemente. Balzò sul letto sudando freddo. Ancora quel sogno. Chissà che cosa mai voleva dire! Non credeva nei sogni, ma il fatto che quello in particolare si ripetesse ancora la lasciò dubbiosa. Si riaddormentò a fatica. Il mattino seguente si svegliò con un terribile mal di testa. Preparò un caffè forte, prese un’aspirina e si buttò sul divano in attesa di sentirsi meglio. Dopo qualche ora la sua mente cominciò a tornare lucida e lei padrona dei suoi pensieri. Aprì un’altra lettera.

Cara sca, oggi il parroco è tornato a trovarmi. Non mi sta forzando a parlare, aspetta, vuole che ciò che ho dire venga fuori da solo, in modo naturale. Ritrovare la propria religiosità richiede tempo ed io ne ho poco, richiede pratica ed io non ho più forze. Sto cercando di trovare il tempo per un incontro con me stessa e quest'incontro posso averlo solo con la morte. Il suicidio, a cui penso sempre più spesso, può essere considerato una soluzione sciocca ed un’uscita vigliacca dalla vita, ma esiste un modo nobile per andarsene? Di fronte ad un dolore di entità e di durata sconosciuta quale quello che sto provando, non è meglio provarne uno più piccolo e più breve? A chi potrebbe interessare se io vivo qualche mese in più o in meno? A Dio. Il parroco ha fermato il mio discorso con questa semplice affermazione: “a Dio”. E poi non è più nobile lasciare che la vita faccia il suo corso piuttosto che procurarsi la morte con le proprie mani? E perché mai dovrebbe importargli? E che cosa c’è di nobile nella morte? Perché proprio io tra i miliardi di persone che affollano il nostro pianeta? “Secondo me - ha detto il parroco - è perché non hai portato ancora a termine il tuo compito.” “E quale sarebbe?” Gli ho chiesto.

“Non lo so. Di sicuro tu ne sei al corrente e sai quello che devi ancora fare.” Io so quello che devo fare… Io so quello che devo fare… Lo ripeto ad alta voce quasi che a sentire ci sia solo io. Non mi chiede di pregare con lui, mi posa tra le mani un rosario e mi dice che deve andare, che tornerà a trovarmi o, se preferisco, posso chiamarlo io quando voglio. Resto con il rosario tra le mani e mi accorgo di non ricordare più come si sgrana, ma non importa. Silenziosamente recito le Ave Maria una dopo l’altra fino alla fine del giro. Non lo facevo dai tempi dell’adolescenza, quando con i miei genitori e i miei nonni ogni pomeriggio dopo la merenda ci si sedeva tutti insieme a recitare il rosario. Ti sto annoiando? Ora devo lasciarti Ti abbraccio, Tua madre

Ancora non riusciva a farsi un’idea di che tipo di persona fosse realmente sua madre. Le sue esternazioni sembravano volte più a cercare una giustificazione alla sua vita che a rivelare quello che doveva dire. In alcuni momenti le sembrava di odiarla, ma poi si accorgeva che non era così. Sembrava quasi che volesse amore a tutti i costi, ma l’amore si può mendicare, comprare, incontrarlo per caso, mai lo si può pretendere. L’amore si conquista con la fiducia, con la pazienza e appunto dando amore, cosa che a sua madre non era mai riuscito di fare, o per lo meno, a giudicare da quello che stava leggendo, non l’aveva mai dimostrato. Ormai si era resa conto che avrebbe dovuto fermarsi in paese più di quello che aveva previsto, ragion per cui era necessario fare un po’ di spesa. I rumori del paese le facevano compagnia, delicatamente. Andò di sopra, fece una doccia, si vestì ed uscì. Anche quella giornata era splendida, il sole cominciava ad essere davvero caldo. La vita in paese scorreva tranquilla, non c’era il traffico caotico della città.

Raggiunse a piedi il piccolo supermercato, dove comprò il necessario per un paio di giorni. ò anche dal macellaio, che appena la vide la riconobbe e la salutò calorosamente. Le fece le condoglianze e poi le chiese come andasse. Gli rispose che stava abbastanza bene e che anche il lavoro procedeva bene. Notò che come al solito la macelleria era sempre affollata. Ricordò che ogni volta che si andava lì bisognava mettere in conto di “perdere” un bel po’ di tempo, perché mentre lavorava il macellaio chiacchierava del più e del meno con i suoi clienti; in pratica sapeva tutto di tutti e a tutti regalava la sua simpatia. Poi sca ò dal panettiere per acquistare il pane. Aveva dimenticato la fragranza ed il profumo che emanava appena sfornato e soprattutto l’antico sapore rimasto sempre uguale. In città non c’era un pane di quel tipo, la sera stessa era già bello e duro, immangiabile. Per ultimo ò dal fruttivendolo, dal quale acquistò un po’ di frutta, insalata e dei pomodori. Tornò a casa e preparò il pranzo. Che piacevole sensazione le procurava quella solitudine! In città si era trovata spesso da sola, anche se abitualmente mangiava in un ristorantino vicino allo studio. Ma mai aveva avvertito quello che stava provando ora. Le sembrava di essere su un’altalena che andava avanti e indietro, alternava momenti in cui si sentiva sollevare fino al cielo euforica a momenti in cui si fermava a pochi centimetri dal terreno. Che stordimento! Mai avrebbe immaginato tutto questo. Mai avrebbe pensato che sarebbe arrivato il momento in cui tutto sarebbe stato messo in discussione, compresa la sua vita, che anche lei si sarebbe ritrovata di fronte ad uno specchio. L’immagine che vedeva di sé era diversa, come se avesse di fronte uno specchio deformante. Tutta la parte interiore di sé era come distorta, si rendeva conto di essere vissuta come distaccata da se stessa, come se tutto ciò che aveva fatto fino a quel momento l’avesse fatto qualcun’altra, che aveva vissuto senza amore. Amore.

Ma quale tipo di amore era in grado di dare? E che cosa si aspettava dall’amore? Erano due anni che conosceva Giovanni e non era mai riuscita ad essere affettuosa più di quanto fosse necessario. Mai una volta che gli avesse detto il fatidico “ti amo”, nonostante quello che provava per lui fosse vero amore; non era capace, aveva paura di dirlo. Aveva lavato l’insalata ed affettato i pomodori. Cucinò la carne come le aveva consigliato il macellaio, perché potesse gustarla fino in fondo. Mangiò lentamente. In quei giorni stava riscoprendo il piacere di mangiare, in città era sempre di corsa, mai ferma. Assaporò la fragranza del pane e gustò la freschezza della frutta. Mise la moka sul gas ed aspettò. Versò il caffè nella tazza ed andò a sedersi sul dondolo sotto il porticato. Quanti pomeriggi aveva trascorso così, seduta a giocare, studiare, riposare! E quante volte suo padre rientrando l’aveva trovata in quella posizione e le aveva accarezzato il viso! Istintivamente piegò la testa su un lato come se stesse ricevendo in quel momento quella carezza; avrebbe voluto fermare il tempo, avrebbe voluto che quella sensazione durasse il più possibile, che il calore di quella mano rimanesse impresso sul suo viso. Nei suoi occhi la tristezza che tutto ciò non sarebbe più accaduto era evidente. Guardò ancora una volta desolata il giardino e lo stato in cui era ridotto. Suo padre dedicava molto del suo tempo libero a tenerlo in ordine, spesso insieme avevano piantato i fiori, potato le rose e il gelsomino che copriva l’intero recinto del giardino e che quando era in piena fioritura emanava un profumo inebriante. “Strano – pensò mentendo a se stessa - non avverto più l’urgenza di tornare a leggere”. Era chiaro che aveva paura della verità. Ma quale verità si nascondeva dietro quelle lettere? Aveva sempre voglia di scoprirlo? A questo punto non poteva più tirarsi indietro, doveva proseguire, anche se questo avrebbe significato maggiore sofferenza, anche se avesse dovuto ridiscutere tutto e ricominciare daccapo.

Richiamò il suo studio per conoscere gli ultimi avvenimenti e per chiedere alla segretaria se aveva spostato tutti gli appuntamenti e quando ci sarebbero state le prossime udienze. Voleva prendersi il tempo necessario per fare tutto, il suo socio avrebbe portato avanti il lavoro in sua assenza. Aveva fiducia in lui, era abbastanza abile da farcela da solo. Dopo aver dato disposizioni alla segretaria ed aver parlato con il socio, riagganciò. Quel pomeriggio aveva deciso di non leggere ulteriormente, voleva assorbire ciò di cui era venuta a conoscenza. I suoi pensieri si perdevano nel ricordo di Lorenza, di quanto aveva fatto quando era in vita. Cercava di ricordare almeno un episodio in cui aveva avvertito una qualche forma di amore nei suoi gesti, nelle sue parole. Nella mente non ne aveva alcuno. Non ce n’erano mai stati, pensò con tristezza, e nel rivivere quella desolazione, ripercorse il giardino. Ad ogni o che faceva si fermava a tirare via le erbacce che lo invadevano, ma erano troppe, non ce l’avrebbe mai fatta da sola. Però continuava a strapparle via, con rabbia, come se strape via i ricordi che le attraversavano la mente. Non riusciva più a smettere e più ne tirava, più ne vedeva, più sembrava che aumentassero. Sembrava si beffassero di lei, che con insistenza cercava di strapparle via. Quel lavoro richiese un bel po’ di tempo e non si era resa conto che cominciava a calare la sera. Era stanca e tutta sudata. Entrò in casa, andò di sopra e fece una doccia. Quando scese a piano terra si sedette sul divano e riprese in mano il pacchetto delle lettere che cominciava ad assottigliarsi, segno che stava per arrivare alla verità. Ne mancavano poche. “Come trascorrono in fretta le ore qui” – disse pensando ad alta voce mentre le riponeva nel cofanetto.

Si era resa conto che ogni volta che smetteva di leggere, mettendo un segno all’ultima lettera, le rimetteva tutte rigorosamente in ordine, con lo strano timore di essere rimproverata per non aver lasciato tutto a posto. Ricordò come da bambina le fosse stato inculcato il senso dell’ordine quasi in maniera maniacale perché, le dicevano, “chi non ha ordine nelle proprie cose non ce l’ha nemmeno nella propria mente”. E nella sua mente ora, tutto c’era, tranne l’ordine. Il turbinio di pensieri non smetteva mai, li paragonò alle onde che s'infrangono sugli scogli senza stancarsi, si ritraggono e si riformano più imponenti. Aveva letto solo una lettera quel pomeriggio. Andò in cucina e cominciò a preparare la cena. Optò per delle bruschette con pomodori e rucola e una birra fresca. Le piaceva il pensiero di mangiare del cibo tradizionale, fresco e naturale. Quando ebbe finito si sedette sulla sedia a dondolo. Aveva voglia di fumare. Aveva smesso da molto tempo. Cercò il pacchetto che aveva nascosto l’ultima volta che aveva fumato, quando aveva deciso di smettere. Era ancora al suo posto. Prese una sigaretta, cercò un fiammifero e la accese. Il fumo acre le attraversò la gola e sentì quasi dolore quando arrivò ai polmoni. Tossì violentemente, le girava anche la testa. Respirò profondamente. Riportò la sigaretta alla bocca ed aspirò una boccata, che questa volta le fece meno male. Dopo diverse boccate il suo corpo si riabituò al fumo. Ora provava piacere. Gustò la sigaretta fino in fondo. Ripensò a Giovanni. Aveva voglia di sentire le sue mani accarezzarle delicatamente il viso, desiderava la sua presenza. Prese il cellulare e lo chiamò. Rispose la segreteria telefonica. Non lasciò alcun messaggio. Non le era mai piaciuto affidare le proprie parole ed emozioni ad una voce metallica, preferiva parlare di persona. Infatti ogni volta che chiamava qualcuno e rispondeva la segreteria telefonica riagganciava, a meno che non fosse strettamente necessario e solo per lavoro. Rimase seduta ad osservare il tramonto che colorava di rosso il cielo e capì perché suo padre aveva voluto costruire la casa proprio in quel posto. La posizione era unica. Da mattina a sera si potevano ammirare le varie fasi del giorno trasformarsi in colori e, perché no, in emozioni intense. Sì, perché ogni

tramonto non le sembrava mai uguale a quello visto il giorno prima e anche quando pioveva, lo scenario non era mai lo stesso. sca ricordò quando nei giorni di pioggia rimaneva dietro i vetri della finestra della sua camera ad osservare le gocce che, a volte violentemente a volte più lentamente, bagnavano i vetri seguendo il loro percorso con le dita sui vetri appannati. Ogni volta attribuiva loro un sentimento diverso. Quando scendevano lente e rade, immaginava che fossero le lacrime di una bambina che faceva un capriccio di poco conto; quando erano più intense, quelle di una bambina in preda alla paura e presto consolata; quando cadevano a dirotto, quelle di una bambina che aveva subito un torto o un rimprovero ingiustificato, inconsolabile. Ora il cielo era sereno e se avesse dovuto seguire il suo disegno, l’avrebbe associato ad un animo sereno, tranquillo; ma lei era tutt’altro che serena e tranquilla, anche se apparentemente era quello che lasciava intendere. Squillò il cellulare. Era Giovanni. La consuetudine delle domande quasi le dette fastidio, nonostante fosse stata lei a chiamarlo. Avrebbe voluto che andasse a scovare che cosa si nascondeva nel suo animo, che cosa la turbava. Ma come poteva se lei non gliene dava l’occasione? Conscia di questo, ricacciò indietro il pensiero cattivo che aveva fatto. Giovanni non lo meritava. Ancora una volta le chiese se voleva che la raggiungesse, ancora una volta lei rispose che non era il momento. Sorrise tra sé pensando che per troppe cose non era ancora il momento. E quando sarebbe arrivato quello giusto? Non sapeva spiegarselo nemmeno lei. Sapeva solo che doveva ancora aspettare, lui come lei. Sorseggiò un po’ di cognac ed accese un’altra sigaretta. Con il fumo disegnava nell’aria cerchi ed altre figure che aveva imparato a fare tempo addietro. Si era fatto tardi. Non voleva andare a dormire. La paura inconscia di rifare lo stesso sogno delle notti precedenti le metteva una certa angoscia, ma era stanca perché

nell’estirpare le erbacce ci aveva messo tanta forza e rabbia. Si fece coraggio ed andò di sopra. Lavò i denti, indossò il pigiama e s'infilò nel letto. Si addormentò quasi subito. La scalinata dei sogni precedenti riapparve, ma questa volta era più chiara, ben definita, riusciva a vederne la fine. Questa volta i gradini rimanevano tali, sca non scivolava e la nebbia cominciava a diradarsi. Scendeva lentamente e si faceva sempre più buio; una volta arrivata in fondo, si trovò di fronte ad una porta chiusa che si distingueva appena solo dopo aver abituato gli occhi all’oscurità. Provò ad aprirla ma non ci riuscì. Si voltò e vide che la scala era sparita. Cominciò a battere pugni sulla porta fino a farsi male, le nocche e le dita iniziavano ad insanguinarsi, la porta stessa si macchiava di sangue. Non ci faceva caso. Continuava a picchiare ma non si apriva. Si accasciò ai piedi della porta con le lacrime agli occhi, copiose; si sentiva prigioniera senza possibilità di uscita. Presa dal panico cominciò a tastare il muro vicino alla porta su cui rimanevano le impronte delle sue mani macchiate di sangue, nella speranza di trovare una via d'uscita, ma non c’era. Doveva necessariamente trovare la chiave che apriva quella porta, doveva farlo, a tutti i costi, se voleva essere libera. Le mani le facevano male e gli occhi le bruciavano. Quasi sentisse un dolore reale si svegliò, guardò le mani e si accorse che non aveva ferite, che era stato tutto un sogno, un terribile sogno che ricorreva ormai da tre notti e si convinse che un qualche significato doveva pur averlo. Al contrario delle mani, aveva gli occhi realmente pieni di lacrime, le bruciavano davvero. Li asciugò, si sedette al bordo del letto ed aspettò di calmarsi. Respirò profondamente e tornò a dormire, senza più sognare. Il mattino successivo si svegliò con più energia del giorno prima e decise che avrebbe fatto un po’ di corsa. Indossò una tuta che nonostante fosse rimasta chiusa nell’armadio per tanto tempo le andava ancora bene, un paio di scarpe da

ginnastica ed uscì. Non aveva che l’imbarazzo della scelta. I luoghi dove poter correre erano tanti, il verde non mancava e si diresse al parco poco distante da casa sua. Durante la corsa tenne volutamente lontani i pensieri che l’angosciavano e per farlo si concentrò su quanto vedeva nel parco, cercando di indovinare i tipi di alberi presenti e i nomi dei fiori che incontrava lungo il percorso. Sicuramente quel posto era stato progettato da un esperto perché i fiori e gli alberi che erano accostati avevano in comune almeno una caratteristica, fosse anche solo lo stesso tipo di terra necessario ad entrambi. Era stato progettato per consentire una fioritura progressiva dei vari settori, in modo che in ogni stagione avesse i suoi fiori ed i suoi colori. Fece diverse volte il giro intorno al parco. Infine si fermò per fare qualche esercizio di stretching ed un po’ di ginnastica da ferma. Quando si sentì soddisfatta e stanca riprese la via di casa. Entrò nella doccia, si lavò e tornò di sotto per fare colazione. Fumò una sigaretta. Non aveva un programma preciso per quella giornata. Doveva finire di leggere. Doveva ancora scoprire tutto. Si sedette sul divano, prese il cofanetto ed estrasse il pacchetto delle lettere. Tirò fuori quella che aveva segnato. Le tremavano le mani mentre l'apriva. Anche questa, come le altre, era regolarmente affrancata e sigillata. La lettera diceva:

Cara sca, dalla finestra ho osservato un violento temporale scatenarsi sul nostro paese. Non ne vedevo di simili da tanto tempo. Sembra quasi che qualcuno abbia voluto scaricare la sua rabbia sul pianeta. La violenza è stata incredibile, anche se di breve intensità ed ora osservo l’arcobaleno che si è formato nel cielo tornato sereno. Ho pensato alla nostra vita. Mi sarebbe piaciuto che ci fosse stato un temporale violento come quello cui ho assistito, purché alla fine ci fosse stato un arcobaleno che avesse riportato la

serenità; perché dopo ogni temporale torna sempre il sereno. Lo so, continuo a voltarmi indietro. Ma che cosa mi resta ormai? Non ho più il tempo per guardare avanti. In fondo c’è solo ed inesorabilmente la morte, che per quanto desideri arrivi presto, allo stesso tempo rifuggo e spero ritardi, nella remota possibilità di rivederti ancora una volta. Non ho altra alternativa se non quella di ripercorrere e riflettere su quanto avvenuto in ato e lasciare che tutti i nodi vengano al pettine. Ora capisco di essere sempre e solo esistita, di non aver vissuto. Ho creduto che vivere significasse fare tante cose: viaggiare, vedere gente nuova, fare carriera… Invece era solo esistere. Non è importante quante cose fai o in quanti posti vai, è importante “come” fai quelle cose, anche se poche, quello che “vedi” nei posti in cui vai e “come” lo vedi. Mi rendo anche conto di quanto sia sempre stata distaccata da tutto ciò che ho fatto, di aver guardato sempre e solo all’esteriorità di ciò che mi capitava. Che tristezza! Le lacrime che scorrono ora sulle mie guance altro non sono che la consapevolezza di tutta la tristezza della mia vita ed il modo in cui sta per finire è ancora più triste. Ti abbraccio, Tua madre

sca ripiegò la lettera. Aveva la sensazione di rivivere tutta quella tristezza Se ci fosse stata una discussione “violenta” come il temporale di cui aveva parlato la madre, si sarebbero davvero chiarite? Ci sarebbe stato l’arcobaleno a sancire il ritorno del sereno? Chissà!

Purtroppo anche lei era costretta a guardarsi continuamente indietro per capire tutto quello che era successo e perché era successo. Aprì un’altra lettera.

Cara sca, dalla finestra osservo, distaccata da me, come se non fossi nel mio corpo, come se tutto ciò non accadesse a me, il fallimento della mia vita, anzi, sarebbe più corretto dire della mia esistenza. Osservo la mia figura, mescolata a quella delle persone intorno e ai loro rumori, vagare senza meta, alla ricerca di qualcosa che non può più tornare, consapevole di aver sprecato l’unica cosa per cui non mi sarà concessa un’altra possibilità: la vita. Infine osservo lo scorrere di queste giornate senza gioia, verso ciò da cui non ci sarà ritorno. Vedo la mia sagoma che si confonde nelle cose e negli altri, inespressiva, nascosta, e provo ad immaginare le espressioni del viso e gli sguardi, le gioie e i dolori, cercando di capire se qualche volta possono aver avuto dei momenti felici, felicità che io non ho provato e non provo. Vivo quest'esistenza nell’attesa, forse liberatoria, della morte. È breve questa lettera perché troppo profondo è il dolore che provo nel rivivere queste sensazioni e troppo vero tutto ciò che ho scritto. Ciao, Mamma

Perplessa, sca ripiegò la lettera e la rimise al suo posto. Il fallimento della propria esistenza, pensò, già... forse anche la sua finora era stata solo un fallimento. Ne aprì un’altra.

Cara sca, ormai sono quasi alla fine, faccio sempre più fatica a scrivere così come a salire le scale, credo che adatterò lo studio del piano terra a camera da letto. Mi mancano le forze. La chemioterapia non sta dando i risultati sperati, d’altronde è stato solo un tentativo di ritardare l’inevitabile, nella speranza di avere qualche mese di vita in più. Questo purtroppo non avverrà. Nella mia vita non ho rincorso alcun sogno “vero” se non quello futile, di diventare qualcuno. Invece bisogna trovare il proprio sogno e cercare di realizzarlo, perché la strada da percorrere diventi più semplice. Ma ogni sogno, una volta avveratosi, lascia il posto ad un altro altrettanto importante; nulla è perpetuo, tutto si ripete. Non lasciare che i tuoi sogni restino nel cassetto! Inseguili, realizzali, falli diventare la meta della tua vita, perché ognuno di noi ha un obiettivo da raggiungere, da vivere, prima che sia troppo tardi. Non permettere mai a nessuno d'intralciare i tuoi sogni! Non devi avere rimpianti, non devi mai rimproverarti di non aver provato a realizzarli. Io purtroppo non sono riuscita a far avverare il sogno a cui tenevo di più: amare. So che te lo sto ripetendo all’infinito, ma la vita senz'amore non ha senso, non ha emozioni, è sterile, vuota e non appaga. Proprio per questo penso che tutto quello che mi sta capitando sia la giusta espiazione per non aver saputo amare. Il dolore che sto provando ora è nulla di fronte a quello che provo quando mi guardo indietro e rivedo gli errori che ho commesso. È come se una tenaglia mi stringesse il cuore perché venga fuori amore. È proprio vero, tutto ruota intorno all’amore, la vita stessa è amore. L’origine della vita è un atto d’amore. La nascita è un atto d’amore. La crescita è un atto d’amore.

Tutto è amore. Amore… amore… amore. Mi stanco sempre più facilmente ora. Tua madre.

Amore. Ancora amore. Ma non sapeva parlare d’altro? La stava stordendo con questa storia dell’amore. Dove voleva arrivare? A che cosa la voleva preparare? sca era sicura, ancora un po’ e l’avrebbe scoperto. Aprì l’ultima lettera. Ora avrebbe conosciuto la verità. Tremava al solo pensiero. Quale segreto si celava tra quelle righe? L’avrebbe sconvolta più di quanto non lo fosse già? Si fece coraggio ed iniziò a leggere.

Cara sca, spero che tutte le lettere che hai letto finora, e ti ringrazio della pazienza che hai avuto nel leggermi, ti abbiano in qualche modo fatto capire il tipo di persona che sono diventata. La lontananza da te è stata più dura della sofferenza che sto provando e, dopo la morte di tuo padre, quasi impossibile da sopportare. Ho guardato continuamente la foto che vedi in primo piano sulla libreria, ogni giorno, quasi in adorazione. Non so come tu sia adesso, è trascorso troppo tempo, ma mi piace pensarti uguale a quella foto. Non so nulla della tua vita. So che sei diventata un bravo avvocato come tuo padre, ma non so se nella tua vita c’è qualcuno. Sì, mi piacerebbe sapere se ami qualcuno, se sei innamorata. Mi rendo conto che riuscire ad amare per te deve essere difficilissimo; anche per me lo è stato. Quando ho conosciuto tuo padre me ne sono innamorata subito, anche se gliel’ho nascosto per un po’ di tempo. Ho sempre dovuto dividere il suo amore con te. Provava per te un amore indicibile. Sembrava che io non riuscissi mai a competere con te. Quando l’ho conosciuto tu avevi pochissimi anni. La tua vera mamma è morta mettendoti al mondo. Una terribile emorragia, impossibile da arrestare, l’ha portata via nel giorno più bello della sua vita. Ha appena fatto in tempo a vederti e a darti l’unico bacio, così mi è stato riferito. Ecco, questa è la verità. Non sono io la tua vera madre. Purtroppo per me non sono riuscita ad

amarti e ad affezionarmi a te come tuo padre aveva sempre sperato.

sca lasciò cadere la lettera sgomenta. La testa le girava in un modo pazzesco. Non riusciva a mettere ordine nei suoi pensieri. Tutto le sembrava così assurdo... non poteva essere vero! Accese una sigaretta. Riprese a leggere col viso rigato di lacrime, il fumo le faceva bruciare gli occhi.

Ricordi quella volta che ci hai sentito discutere? Hai ascoltato solo una parte di quello che stavamo dicendo e hai pensato che io non fossi in grado di amarti; e io non ho fatto nulla per farti credere il contrario. Tuo padre ha sempre sofferto di questo. Ha sempre cercato di fare in modo che tra noi nascesse, se non proprio amore, almeno simpatia; ma entrambe avevamo un carattere molto duro, entrambe rimanevamo sulla nostra posizione, troppo orgogliose, nessuna delle due pensava di dover fare il primo o. Tuo padre è morto con questo grande dolore, ma soprattutto con il terribile senso di colpa per non averti detto tutto quando era il momento. Ora vorresti sapere chi è la tua vera madre e mi sembra giusto. Devi ridarle il posto che merita nel tuo cuore e mi rendo conto che siamo stati imperdonabili per non averti permesso di amarla anche se non c’era più. Ricordi quella tomba presso la quale tuo padre si fermava ogni volta che andavate al cimitero? Sì, è proprio lei. Elisa era il suo nome. Spero tu riesca a perdonarmi. Davvero. La lettera che segue questa è stata scritta da tuo padre, che mi ha pregato di fartela avere quando non ci sarebbe stato più. Ora il momento è arrivato. Come potrai notare è sigillata, non ne conosco il contenuto. Ho rispettato il suo desiderio. Ti voglio bene,

Mamma

P.S.: nel sottofondo di questo cofanetto c’è un’altra lettera. Apparteneva a tua madre, l’ha scritta aspettandoti. L’ho trovata dopo la morte di tuo padre, la conservava gelosamente. Ora è il momento che tu abbia anche questa. Ripongo questo cofanetto e non troverai altre lettere. Non ho più la forza di salire le scale. Mi restano pochi giorni, forse poche ore. Perdona me e tuo padre. Spero tu riesca a farlo.

Nooooooooo! L’urlo le uscì senza che lo volesse e finì di urlare quando l’eco dell’ultima “o” non si spense nella gola fino a lasciarla senza voce. Le lacrime le scorrevano lungo il viso e non c’era modo di frenarle. Sentiva il loro sapore salato sulle labbra. Non piangeva così da tanto tempo. Ora doveva aspettare che si esaurissero prima di ricomporsi. Doveva sfogare tutta la sua rabbia. Senza rendersene conto cominciò a buttare all’aria tutto ciò che trovava davanti, non importava di cosa si trattasse, tenendo sempre ben stretta in una mano la lettera. Era come se stesse buttando via il suo dolore. Continui flash le avano per la mente, velocissimi. Pezzi di vita che si ricomponevano nel puzzle che ancora non riusciva a finire. Non era quello il modo in cui avrebbe voluto sapere la verità. Avrebbe voluto poter avere la possibilità di guardare in faccia la persona che glielo diceva e poter urlare, avrebbe voluto avere la possibilità di capire, di chiedere spiegazioni. Tutto questo ora le era negato, doveva soltanto far propria la notizia. Sì, poteva piangere, urlare, ma nessuno l’avrebbe sentita, nessuno l’avrebbe consolata dopo un lungo pianto. Si sentiva impotente. Cadde seduta sul pavimento, guardando il muro senza vedere nulla, lo sguardo fisso perso nel vuoto. Dalla finestra arrivavano i rumori della giornata. Erano rumori “non rumori”,

piacevoli da ascoltare come sottofondo in condizioni di normalità, ma in quel momento le procuravano un fastidio enorme; avrebbe voluto che in giro non ci fosse nessuno perché lei potesse gridare quanto voleva, invece il paese riprendeva il suo ritmo, e la calma con cui lo faceva la irritava ancora di più. Rumori di gente abituata a lavorare senza fare chiasso, gente che si fermava a scambiare due chiacchiere con chi ava e s'informava sullo stato di salute dei familiari; le donne che andavano a fare la spesa e si soffermavano a parlare con il panettiere o il fruttivendolo con una sorta di complicità domestica dovuta alla quotidianità degli incontri, quell’informarsi senza comunque essere invadenti... La testa continuava a girare. sca gettò la lettera sul pavimento e muovendosi come un automa, si alzò ed uscì di casa piangendo, senza rendersi conto di dove andava. La signora Maria dalla finestra della sua cucina vide e capì che cosa era successo. Aveva sempre pregato l’avvocato Eduardo di raccontare a sca la verità, di non lasciarla all’oscuro, ma lui le aveva sempre risposto che desiderava che sua moglie e sua figlia si amassero; aveva avuto la presunzione di pensarlo fino alla fine. Ricordava perfettamente il giorno in cui era nata sca. Dopo una gravidanza serena e senza intoppi, nulla avrebbe fatto pensare ad una fine così tragica. La signora Elisa era sempre stata bene, anzi, la gravidanza le aveva donato una bellezza particolare e lei ne era orgogliosa. Suo marito era felice dell’arrivo di un bambino, ne avrebbero voluti degli altri. Tutto fino a quel giorno, quando all’improvviso cominciò ad accusare i dolori delle doglie; il travaglio era iniziato, ma le cose non sembravano andare bene. Tutto era precipitato, non avevano fatto in tempo ad avvisare l’ambulanza per il trasporto in ospedale: Elisa aveva partorito prima che arrivasse. Non si capì mai che cosa fosse successo; sca era nata sana e bellissima, ma Elisa aveva avuto un'emorragia spaventosa, inarrestabile, aveva fatto appena in tempo a dare un bacio alla figlia. All’arrivo in ospedale ai dottori non era rimasto altro da fare che constatarne il decesso. A dispetto di tanto dolore la giornata era bellissima ed un sole caldo splendeva nel cielo di un azzurro intenso, che metteva in risalto tutti i colori della primavera. Era maggio e nel giardino dell’avvocato Eduardo le rose di ogni tipo

e colore formavano un quadro bellissimo. Lui le aveva piantate e curate proprio per sua moglie, per ricordarle che l’avrebbe sempre considerata la rosa più bella del suo giardino, che quelle rose avevano il compito di rammentarglielo ogni giorno, ogni anno. Ma così non era stato. La sua rosa più bella era morta proprio nel giorno più importante per entrambi. sca raggiunse il cimitero. C’era stata il giorno prima, ma ora era diverso. Vedeva le cose come avrebbe dovuto vederle tanto tempo prima. Avrebbe voluto avere la possibilità di andare sulla tomba di sua madre, piangere e magari raccontarle quello che le succedeva, in un vago tentativo che qualcuno l’ascoltasse. Ora era lì, quasi incapace di pensare e di fare, non sapeva verso chi volgere il suo sguardo e a chi prestare le prime attenzioni. Per la prima volta fece caso a ciò che era scritto sulla tomba di sua madre, i caratteri e lo stile usato nel riportare il suo nome, il marmo che ricopriva tutto, la croce su di essa e soprattutto la foto. Doveva essere stata molto bella, sicuramente quell'immagine non le rendeva giustizia. Accarezzò quella foto e per la prima volta la chiamò “mamma”. Mamma. Mamma. Continuava a chiamarla nel vano tentativo di recuperare il tempo perduto, nella remota possibilità di essere ascoltata. Mamma. Mamma. Le piaceva il suono che produceva nel chiamarla. Si figurava che le stesse parlando, che le stesse raccontando quello che le stava succedendo e intanto continuava a fissare la foto come per annotare nella sua mente tutti i particolari di quel viso che avrebbe voluto amare, ma che le era stato impedito di farlo e

così risentiva solo la sua voce che parlava a se stessa. “Perdonami mamma! Sei andata via per mettere al mondo me” – le diceva ed intanto le si formava un groppo in gola. Si sentiva colpevole, avrebbe preferito non essere nata affatto; avrebbe preferito che sua madre avesse continuato a vivere. “Perdonami” – continuava ancora tra le lacrime – è stato giusto tutto ciò? E a che cosa è servito?” All’improvviso avvertì un leggero soffio sulla guancia, come se qualcuno la stesse accarezzando delicatamente. L’aria intorno era ferma, non un alito di vento. Attraverso le lacrime notò quello che c’era scritto sulla lapide: “Grazie per ciò che mi hai lasciato” Tuo marito. Non aveva mai esattamente capito il riferimento di quella frase: ora lo sapeva. Dopo un tempo che le era sembrato interminabile rivolse le sue attenzioni alla foto di suo padre appena di lato. Un moto di rabbia la investì. Era stato lui a chiedere di essere sepolto lì: ora capiva il perché. Alla sua sinistra c’era Lorenza, la sua seconda moglie: era al centro dei suoi amori. E lei? Quale amore aveva? Quali ricordi doveva serbare? E soprattutto, che cosa doveva farne di quei ricordi? Le tre tombe erano in perfetto ordine, segno che qualcuno provvedeva a pulirle e a mettere dei fiori freschi. Con una tristezza che non aveva mai provato prima uscì dal cimitero. Le era sembrato di essere stata lì per un tempo lunghissimo. “Per fortuna - pensò - il cimitero in questo periodo dell’anno chiude solo di sera”. Aveva sempre avuto una paura terribile di rimanere chiusa dentro e che nessuno riuscisse a sentire le sue grida di aiuto. Non era un posto che amava molto, anche se si rendeva conto che solo lì riusciva ad essere se stessa e a non provare odio per nessuno.

Si ripeteva che non aveva senso portare rancore oltre la morte; chi resta solo se ha la capacità di dimenticare e perdonare i torti subiti, riesce a vivere sereno. Facile a dirsi, più difficile a farsi. Lei era viva, ma doveva ancora assorbire quella terribile verità di cui era venuta a conoscenza; non aveva ancora spazio per il perdono, aveva bisogno di tempo e con il tempo forse ci sarebbe riuscita. Ma l’aspettava ancora un’altra prova: doveva leggere la lettera di suo padre. Doveva capire perché l’aveva fatto. Non voleva odiarlo prima di aver saputo, anche se ora come ora le riusciva difficile perdonarlo. E poi c'era l’unica lettera di sua madre. L’avrebbe letta per ultima, con la speranza che quelle righe avrebbero riscattato tutto il dolore che stava provando, tutto il periodo che aveva trascorso senza di lei. Sperava che le sue parole le avrebbero restituito l’amore che non aveva avuto, anche se sapeva benissimo che ciò non sarebbe più stato possibile. Invece di prendere la via di casa si diresse verso la piccola chiesa del paese, che come aveva immaginato, trovò vuota, piacevolmente vuota, e aperta. “Per fortuna – pensò - per venire qui non occorre invito, puoi presentarti quando vuoi senza essere considerata un’ospite scomoda ed inopportuna.” La chiesa era piccola ma accogliente e il fatto che non ci fosse nessuno le restituiva quell’atmosfera di religiosità propria di un luogo sacro. Pensava che avrebbe provato timore, invece si sentiva a suo agio. Volgendo lo sguardo verso il crocifisso posto sull’altare gli chiese quasi urlando: “Perché? Perché hai potuto permettere tutto questo? Se è vero che esisti, perché non sei intervenuto? Perché mi hai privato di un sacrosanto diritto? Perché mi hai privato dell’amore di mia madre e hai permesso a mio padre di tenermi nascosta tutta la verità? Perché? Perché? Perché? Perché?” Ripeteva tenendosi la testa tra le mani. Qual era stato il suo ruolo in tutto questo? Quello di semplice spettatrice, costretta ad assistere ad una rappresentazione non gradita, inchiodata dal destino su una poltrona molto scomoda.

“Perché Giovanni ha così tanta fede in Te? Perché lui ha la serenità che io non ho? Perché?” Cominciò a singhiozzare senza riuscire a fermarsi, quando ad un tratto sentì una mano appoggiarsi delicatamente sulle sue spalle. Era il parroco. “Ciao sca.” Le disse con voce molto calma, invitandola a sedersi su un banco. “Spesso facciamo l’errore di attribuire a Lui la responsabilità delle nostre scelte, perché, scusa la durezza dell’espressione, ci fa comodo farlo. Non può risponderci e noi riusciamo a sfogarci, è questo che ci fa stare meglio, dopo. Non ho avuto molto tempo per conoscere Lorenza, ma le poche volte in cui ci siamo incontrati ho visto una donna profondamente ferita, una donna che avrebbe scambiato tutta la sua vita per poter tornare indietro e poterti restituire la gioia dell’infanzia che ti era stata tolta, anzi, per dirla con le sue parole, che ti aveva tolto. Era tristemente consapevole di tutto questo e credo che l'abbia anche scritto in qualcuna delle lettere che ti ha lasciato.” sca si voltò di scatto asciugandosi con le mani le lacrime, che ancora scendevano sulle guance. Come faceva a sapere delle lettere? Il parroco sembrò leggerle nel pensiero. “Me l'ha detto Lorenza. Inizialmente voleva che fossi io a spedirtele, perché lei non riusciva più ad uscire di casa; poi invece ha deciso di lasciarle lì dove le hai trovate, perché non voleva costringerti a tornare, non voleva la tua pietà. Ho cercato di dissuaderla, di convincerla che invece avrebbe dovuto spedirtele, che avrebbe dovuto fare almeno un tentativo di riavvicinamento con te. Ero sicuro che qualcosa sarebbe successo e che lei non se ne sarebbe andata senza vederti un’ultima volta, proprio come tuo padre.” “Se non l’ha vista il padre – mi rispose quella volta – non merito di vederla nemmeno io. Sarà la mia punizione per tutto quanto.” “Ma Dio non punisce, perdona. Tutto. Tutti. Per avere la conferma che esiste devi cercare dentro di te la fede. Non puoi trovarla per strada come un oggetto abbandonato. La fede c’è o non c’è, e se non c’è si può tentare di coltivarla. Hai mai provato a bussare, sca? Prova, bussa! Bussa ogni giorno più forte, non aver paura. Quella porta è pronta per aprirsi. Devi solo bussare.

Anche Lorenza ci ha provato e la porta si è aperta; non è mai troppo tardi per bussare. Pensaci!” sca si alzò ed uscì. Non aveva voglia di parlare; doveva prima sapere tutto, poi avrebbe deciso che cosa fare. La rabbia cominciava a scemare. Lentamente tornò a casa. Il tempo era bellissimo, in barba al suo dolore. Avrebbe voluto che fosse buio e grigio come il suo stato d’animo, voleva sentirsi tutt’uno anche con le condizioni atmosferiche. Percorrendo il vialetto del giardino che era nella più completa desolazione pensò: “ecco una cosa che è pari al mio stato d’animo.” Entrò in casa realizzando che nell’uscire aveva lasciato la porta spalancata. Il cofanetto delle lettere era ancora a terra dove l’aveva lasciato. Raccolse l’ultima lettera che aveva letto, la ripiegò e la ripose nella sua busta. Tutto con molta lentezza, voleva prepararsi alla lettura di ciò che le aveva scritto suo padre. Voleva provare a trovare qualche attenuante prima ancora di cominciare, dargli un vantaggio sul suo dolore.

Mia adorata sca, so che questa lettera ti farà male, ma devo riparare a quanto non ho fatto mentre ero in vita. Pur amandoti, ti ho taciuto la cosa più importante. Avresti sicuramente dato un senso diverso alle cose e alle situazioni e non saresti “scappata” da me, anzi, da noi. Lorenza ti avrà già detto la verità. Ora tocca a me spiegarti perché non l’ho fatto. Ho amato tua madre come nessuno, dal giorno in cui l’ho conosciuta al giorno in cui ci ha lasciati; era tutto per me. Il tempo trascorso con lei è stato il più bello della mia vita. Se sono diventato quello che sono stato lo devo a lei. Con lei la vita assumeva un significato, un senso. Amarla era la cosa più naturale di questo mondo, era impossibile non farlo; in ogni suo gesto, in ogni sua parola c’erano dolcezza ed amore, che non chiedevano necessariamente qualcosa in

cambio: era così e basta. Mentre ti aspettava tua madre era di una bellezza incredibile. Sembrava che tu le dessi linfa piuttosto che prenderne. Era affascinante con il suo pancione portato con disinvoltura ed orgoglio. Ti desiderava tantissimo. Voleva che tu fossi femmina e così è stato. Purtroppo non ha potuto gioire di averti messo al mondo. Non ha potuto amarti come avrebbe voluto, come aveva desiderato. La vita, sca, è come un regalo inaspettato, ben incartato, con un bel fiocco e pieno di sorprese di cui non conosci il contenuto e proprio per questo, anche se hai paura di aprirlo, devi farlo. E se all’interno trovi qualcosa che non ti piace, lasci che gli eventi scorrano e la vita scivoli via senza essere veramente protagonista; perché essere protagonisti significa accettare il contenuto di quel pacco, guardare fino in fondo ad esso. Dopo la morte di tua madre ho avuto ancora più paura di farlo, mi sono fermato al momento della tua nascita. Tu sei stata il regalo più grande che potessi ricevere, che tua madre potesse farmi, ma nello stesso tempo un regalo pieno di incognite e di responsabilità. Nessuno ci insegna ad essere genitori. Per quanto possa essere considerata una magnifica avventura, per quanti libri si possano scrivere e si possano leggere, nessuna situazione è riconducibile ad un qualsiasi esempio riportato in questi perché ognuna è diversa dall'altra. Ogni bambino ha carattere e temperamento diversi da quelli degli altri. La vita stessa di ognuno è diversa da quella degli altri. Per i primi tempi mi sono dedicato solo ed esclusivamente a te e al mio lavoro. Non mi sono concesso altro se non i tuoi sorrisi ed i tuoi progressi, il tuo amore; però qualcosa mancava nella mia vita di uomo: una donna. Ho conosciuto Lorenza ad una festa organizzata da amici comuni. Non è stato un colpo di fulmine. L’amore per lei è nato un poco alla volta e forse, più che amore, è stato un bene molto forte quello che ci ha legati. Lorenza ha dovuto combattere con la mia mancanza di voglia di amare, di volermi legare a qualcuno e con l’amore superbo che avevo per te e che provavo ancora per tua madre. Non è stato facile per lei starmi vicino ed accettare la situazione senza riserve. Ci ha provato e purtroppo non ci è riuscita completamente, o meglio, non ha dimostrato mai quello che realmente pensava o provava; sono sicuro che in cuor suo ti amava molto. Anche lei desiderava un figlio, ma non siamo riusciti ad averne insieme. Forse tutto sarebbe stato diverso... La presenza di un altro bambino avrebbe cambiato le cose, le avrebbe permesso di amare.

Man mano che crescevi mi ricordava sempre che era un tuo diritto conoscere la verità, che avresti dovuto scegliere tu se amarla o meno e in che modo. Io ho avuto la presunzione di pensare che sareste riuscite ad amarvi nonostante tutto. Tu invece sei scappata via. Dopo l’università non hai voluto più vivere con noi, ma da sola. Per un verso ho ammirato il tuo coraggio, per un altro sono rimasto molto dispiaciuto. Mi sarebbe piaciuto seguirti nella professione, ma mi hai dimostrato di non averne bisogno. Naturalmente sono molto fiero di te, avrei solo voluto dividere con te l’amore che provavo, mi sarebbe piaciuto coltivare l’idea che fossimo una famiglia. Ora che il mio tempo sta finendo mi accorgo di quanta presunzione io abbia avuto nei tuoi confronti. Ho pensato di poter modellare la tua vita, non ho realizzato che avevi una mente con cui pensare. Ho perso l’opportunità di ricevere il tuo amore. Credevo che nulla l'avrebbe scalfito, invece mi sono reso conto che la mancanza di sincerità è stata fatale. A volte avevo l’impressione che tu intuissi che c’era qualcosa che non andava, che tu non conoscevi, che io ti nascondessi qualcosa.

sca staccò gli occhi dalla lettera. Immaginava suo padre mentre la scriveva. Anche lui aveva scelto quel modo insolito di dirle la verità, un modo un po’ vigliacco in fondo, perché così aveva evitato di guardarla negli occhi, evitato la durezza del suo sguardo, durezza che sentiva di avere in quel momento. Quasi lo odiava, aveva la sensazione di non amarlo più. Era stato troppo crudele quello che le aveva fatto, troppo per dimenticare in fretta e soprattutto perdonare in fretta. Aveva bisogno di tempo e si augurava di averne. Riprese a leggere.

Da quando sei andata via c’è solo un grande vuoto qui in casa. A volte mi sembra di rivederti bambina, di risentire il calore che si trasmetteva con una semplice carezza, l’abbraccio entusiasta di quando mi saltavi al collo. Quanto mi manca tutto questo! E da quanto tempo non lo fai più! Lo so che sei grande adesso, ma credo che questi slanci non abbiano età, che l’amore che lega padre e figlio sia unico ed indissolubile nel tempo. Ma è davvero così? O finisce anche quello? È tanto che non ricevo tue notizie. sicuramente il lavoro assorbe molto

del tuo tempo, ne sono consapevole, ma vorrei che tu pensassi anche un po’ a vivere, ad amare. Ricorda che la vita non è solo lavoro. Concediti la libertà di fare quello che ti piace. Potrai anche vincere tutte le cause che discuterai in Tribunale, ma la soddisfazione che proverai sarà sempre effimera, non sarai mai completamente appagata. Abbiamo una sola possibilità di vita, non sprecarla, non rinunciare a vedere un bel film pensando che potresti farlo il giorno dopo: l'occasione potrebbe non ripresentarsi. Goditi una eggiata o una chiacchierata in un luogo che ami con la persona che ami. Non rinunciare a una bella vacanza con la scusa di non avere tempo: trovalo. Evita la solitudine: incupisce i pensieri e dilata la sofferenza; intristisce la vita. Cerca nelle persone il loro lato più bello perché ognuno di noi ne ha uno! Non fermati mai all'apparenza: guarda nell'intimo. Va ad ammirare il mare. Allunga lo sguardo verso l'orizzonte e capirai quanto è meravigliosa questa terra che abbiamo la fortuna di abitare. Quanto mi piacerebbe fare una eggiata con te, riascoltare la tua voce, rivedere la profondità del tuo sguardo, la bellezza dei tuoi occhi. Abbracciarti. Sento che questo non succederà…. Lorenza si rende conto di quanto dolore mi procura questa situazione e, brava com’è, non mi dice mai “te l’avevo detto”. Entrambi ci portiamo dentro il rammarico per non aver avuto il coraggio di scoprire fino in fondo ciò che conteneva il pacco della vita. Ci siamo fermati per paura di essere incapaci di vivere, gioire, soffrire fino in fondo. Ho pianto poche volte nella mia vita, quando è morta tua madre ed ora. Ma a che cosa serviranno queste lacrime, le sofferenze che ho taciuto, le rinunce fatte?

sca notò che effettivamente quelle righe erano sbiadite e la carta leggermente stropicciata perché bagnata dalle lacrime. Non rimarrà nulla di noi se non la memoria in chi ci ha conosciuto, e per quanto difficile sia da accettare e ancora più difficile da perdonare, spero che il mio ricordo resti indelebile dentro di te, che resti soprattutto la memoria dei momenti belli trascorsi insieme, le risate spensierate anche di pochi attimi, che ti hanno permesso di crescere ed essere la donna fantastica che sicuramente sei. I capricci che ultimamente fa il mio cuore sono tanti, ma il dolore è nulla in confronto a quello di non riuscire a vederti prima che sia tardi, perché lo sento, ci “rivedremo” con questa lunghissima lettera.

Ora sca stava piangendo, perché quello che aveva scritto suo padre era vero: si erano “rivisti” con la lettera che aveva in mano e inoltre perché cominciava a capire quali erano stati gli errori che anche lei aveva commesso. Soprattutto aveva permesso al suo cuore d'indurirsi, si era imposta atteggiamenti così rigidi di cui ora cominciava a pentirsi. Aveva ascoltato sempre e solo la ragione, mai il suo cuore, che la spingeva a riconciliarsi con suo padre prima che fosse troppo tardi. Non aveva mai ceduto. Ma quanti segreti nella sua vita! Possibile che dovesse scoprire tutto così? Si augurava che non ce ne fossero altri. Era troppo frastornata da quello che aveva scoperto in quei giorni e per il momento si disse che bastava. Ancora qualcosa e sarebbe esplosa. Le venne in mente Giovanni. La sua disarmante sincerità, il suo amore incondizionato, la sua tenerezza, la sua impressionante capacità di stupirsi ancora, di saper “sentire” che cosa c’era di buono nelle persone, proprio come diceva suo padre, la sua capacità di vedere sempre e solo il lato positivo di ogni cosa. Ora più che mai ne aveva bisogno, ma prima doveva risolvere i suoi problemi. Voleva tornare da lui con l’animo sereno. Voleva amarlo come meritava. La lettera continuava:

Dopo la morte di tua madre ho trovato una lettera. L’aveva scritta mentre ti aspettava. Sapevo quanto ti desiderasse nonostante le paure che aveva dovuto vincere, ma non potevo immaginare quanto amore già provasse per te. L’ho conservata per tutti questi anni. Leggila e conservala come un tesoro, come ho fatto io. La mia “mezzanotte” sta per scoccare. Se ti riesce perdonami. Sappi però che insieme a tua madre, siete state le persone che ho amato più di ogni cosa al mondo. Un grosso abbraccio, l’ultimo Ti voglio bene, Papà.

Si sentiva strana, ora non piangeva più, emozioni diverse si erano alternate durante la lettura di quelle ultime righe, come se quello che aveva appena letto non l'avesse scritto suo padre, ma un’altra persona. Ora l’aspettava un’altra lettera, la più importante: quella di sua madre. Non doveva avere fretta, anche se l’emozione era tanta. Era ora di pranzo. Andò in cucina e preparò qualcosa con ciò che le era rimasto della spesa fatta nei giorni precedenti. Il cibo non copriva l’amaro che aveva in bocca, le sembrava di mangiare qualcosa che non aveva sapore, insipido, era come mangiare nulla. Mise la moka sul gas, accese una sigaretta ed aspettò. In quei giorni aveva ripreso a fumare come se non avesse mai smesso, il pacchetto era quasi vuoto, ma era l’unica consolazione in quella marea di emozioni negative che aveva provato fino a quel momento. L’odore del caffè la riportò alla realtà. Riempì una tazza ed andò a sedersi sotto il portico. Sembrava che la sigaretta ed il caffè insieme coprissero parzialmente l’amaro. Si dondolò ancora un po’ in cerca della condizione giusta per leggere la lettera di sua madre. Tremava tutta. Sarebbe stato il primo ed unico “contatto” che avrebbe avuto con lei. Si sentiva

come chi deve andare ad un primo incontro con qualcuno che non conosce e deve andarci essendo a posto, perché non sa che tipo di interlocutore avrà di fronte. Spense la sigaretta nel posacenere con una lentezza che non credeva di avere, come per dilatare il tempo, allungare lo spazio che la separava dalla lettura di quella lettera. Voleva avere la mente libera da tutto perché potesse cogliere ogni sfumatura di quell’incontro. Ritornò al divano. Prese delicatamente la busta che la conteneva, quasi avesse paura che si rovinasse o andasse in frantumi, considerato il tempo che era trascorso, e l’accarezzò come se stesse accarezzando la mano di sua madre; voleva avere la sensazione di sentire quella mano muoversi delicatamente sulla carta, la penna scorrere nelle parole che avrebbe letto. Portò la lettera all’altezza del naso. Sperava di sentire l’odore di sua madre, ma sentì soltanto l’odore di chiuso di tutti quegli anni. Le mani le tremavano. Posò la lettera ed andò a bere un po’ d’acqua. Anche se non aveva detto una parola aveva la gola secca e non riusciva a deglutire. Ne gustò la freschezza. Le piacque sentire l’acqua scorrere giù per la gola, ne seguì il percorso attraverso l’esofago fino allo stomaco e provò una sensazione di liberazione e di benessere. Era ansiosa di sapere che cosa aveva scritto sua madre ma continuava a tremare; quel contatto “fisico” la emozionava, ritardava l'apertura. Finalmente si decise ad aprirla.

A mia figlia (perché sento che sarà femmina), per il nostro viaggio insieme. Quella sera in cui abbracciai tuo padre già sapevo che ci saresti stata, che quello era l’inizio della tua vita e della nostra avventura insieme. Ho cercato d'immaginare più volte che cosa avrei provato il giorno in cui avrei scoperto che c’eri. All’inizio è stata una sensazione di sgomento e stordimento insieme, incredulità e smarrimento, che mi hanno fatto vivere i primi tempi come se tutto ciò

avvenisse a un’altra persona; contemporaneamente ero come avvolta in un’estasi senza confini. Mai avrei immaginato che desiderare di mettere al mondo un figlio fosse così importante per me e che il desiderio di maternità fosse così forte. Eppure avevo paura, una paura così radicata da non riuscire ad immaginarmi madre, senza madre. Avevo elaborato una teoria assurda. Aver perso mia madre quando ero molto piccola mi faceva supporre che sarebbe stata la stessa cosa per me, che la storia si sarebbe ripetuta e che non avrei potuto dare ai miei figli ciò che io non avevo avuto. Mi era anche chiaro, però, che avrei dovuto vincere quella paura da sola, che niente e nessuno mi avrebbe fatto cambiare idea se non io stessa; che il figlio che avrei messo al mondo avrebbe dovuto essere il mio desiderio più grande. Ed ora eccoti qui, desiderata come nulla nella mia vita. Tuo padre ti voleva da tempo, ma ha rispettato il mio desiderio di attesa più matura, consapevole delle mie paure. Però ora che ci sei mi ricorda spesso di quanto ho dovuto farlo attendere prima di dargli una gioia così grande. E fantastica. Cerca in ogni modo di darti un volto, un nome che, anche se sa già quale sarà, non può in ogni caso darti, perché ancora non sappiamo se sarai maschio o femmina. Io spero che tu sia una femmina. Sono convinta che sarà così, lo sento. Ma quanto ho dovuto lottare per vincere l’angoscia che mi ha perseguitato per anni! Né posso assicurarti di averla vinta definitivamente. Non ho ancora superato la paura di lasciarti prima ancora di averti dato la possibilità di essere in grado di costruirti una vita, di essere capace di far fronte alle sue insidie. Non voglio evitarti sofferenze, né sostituirmi a te nelle decisioni da prendere; hai diritto a costruirti una vita tua, a darle il senso che preferisci, che mi auguro sia quello giusto. Ma sai, ogni mamma pensa di essere una specie di nido in cui i figli possano rifugiarsi quando ne sentono la necessità, o quando hanno bisogno di un posto sicuro dover poter essere se stessi; lo sarò, ma comunque camminerai da sola, perché la vita, regalandoti il bene ed il male, ti farà donna, ed è normale. Mi piacerebbe infonderti il senso del giusto, perché tu possa sempre sapere che quello che stai facendo può nuocere a te stessa prima che agli altri. Vorrei tanto

che il rispetto della persona altrui fosse per te il primo grande impegno della vita. Naturalmente io cercherò di avere rispetto della tua perché tu possa, con l’esempio, capire quello che intendo dirti. Sono convinta che, anche se la storia dovesse ripetersi, sarai in grado di affrontare tutto anche senza di me. Avrai dentro di te la forza necessaria per andare avanti, anche sbagliando. Non so che cosa abbia pensato o provato mia madre quando mi aspettava, spero qualcosa di piacevole. So che cosa provo e penso io. Sono trascorsi tre mesi. L’altro giorno siamo andati a vedere come cresci, a “spiarti”. È stata un’emozione fortissima sentire il cuore, più grande di te, battere ad un ritmo costante, vedere l’abbozzo delle tue manine e dei tuoi piedini che scalciavano già. Chissà cosa combinerai quando sarai cresciuta un po’ di più! Chissà cosa sentirò! Ma non importa, ogni tuo movimento sarà motivo di gioia, perché saprò che stai bene. Il tempo scorre. È inverno. Oggi nevica e mentre la neve si deposita dappertutto, ti racconto come il paesaggio s'imbianca, le emozioni che provo, le forme che sembrano prendere tutte le cose ricoperte dalla neve. La notte scorsa ti ho sentito per la prima volta. Come un volo di farfalla, un battere d’ali, bellissimo ed indescrivibile, un'emozione unica. L’ho raccontato a tuo padre, che in ogni modo ha cercato di sentirti. Sei ancora troppo piccola perché i tuoi movimenti possano essere percepiti all’esterno. La delusione si leggeva nei suoi occhi, ma allo stesso tempo manifestava la sua gioia. M'immagino a raccontarti le favole e vedo te che mi chiedi di leggere ancora, di darti il bacio della buonanotte e lasciarti dormire serena. Quante cose immagino! Quante cose faremo insieme!

Mi piace pensare di vederti crescere, festeggiare i tuoi compleanni con le candeline che aumentano sulla torta ogni anno.... È meglio fermare l’immaginazione. Sarai un bellissimo regalo da scoprire piano piano, giorno dopo giorno, un fiore che sboccerà e diventerà bellissimo, perché sarà curato ed amato dal primo istante. I segni della primavera cominciano ad avvertirsi, le primule coprono i prati ed è uno spettacolo bellissimo da osservare. Ancora un po’ e saremo insieme. Tu stai crescendo dentro di me sana, senza problemi. Il mio pancione aumenta nella stessa proporzione. Tuo padre ti accarezza e cerca di indovinare dove sono i tuoi piedini, che ogni tanto si fanno sentire all’altezza dello sterno e premono. Non so se senti l’amore che proviamo, che provo, per te. Sono sicura di sì. Siamo a maggio. Le rose nel giardino cominciano a fiorire. Siamo quasi al traguardo. La tua nascita si avvicina e, devo ammetterlo, ho un po’ paura. Tuo padre dice che siamo e saremo sempre le sue rose più belle. Mi piace sentirglielo dire, non mi stanco mai. Questa è stata la mia attesa più bella. Mamma

Le lacrime ripresero a bagnarle il viso. Non aveva mai pianto tanto come in quei giorni. Si accorse che tutto ciò che credeva certo, di fatto non lo era. Solo ora aveva conosciuto la certezza e non le piaceva. Sua madre aveva ragione

quando diceva: “se la storia dovesse ripetersi”… infatti si era ripetuta. Non aveva mai saputo di essere orfana, suo padre non gliene aveva mai parlato. E come avrebbe potuto d’altronde se non le aveva mai detto nemmeno di lei? In realtà, rifletteva, era stata due volte orfana; con la differenza che se sua madre ci fosse stata le avrebbe dato tutto l’amore possibile. Lorenza, al contrario, ne aveva avuto la possibilità e non era stata capace di sfruttarla. Che macabro scherzo le aveva riservato il destino! Ora più che mai voleva conoscere fino in fondo tutta la verità, ma non sapeva a chi rivolgersi. Non riusciva a pensare a qualcuno che potesse raccontarle com’era, che cosa pensava, che cosa faceva. Ma le sarebbe servito? O piuttosto avrebbe aperto una ferita ancora più profonda nel suo cuore? Quanto le faceva male tutto questo! Le sembrava di volteggiare in un limbo senza possibilità di uscirne. Non era meglio affidarsi alle parole che aveva scritto sua madre, conservarle gelosamente e non andare oltre? Anche se avesse saputo di più, mai in ogni caso sarebbe riuscita a dare concretezza a ciò che le sarebbe stato detto. Le piaceva l’idea di immaginare quello che aveva fatto sua madre quando era in vita, l’amore che le avrebbe dato se non l’avesse lasciata così in fretta; tutto ciò che avrebbero fatto insieme. Ma ora non doveva continuare a voltarsi indietro, così facendo rischiava di perdere quanto di bello c’era nel suo presente e il suo presente si chiamava Giovanni. Cominciò a camminare per casa, facendo attenzione a non farsi male con tutto ciò che aveva fracassato in quell’attimo d'ira furibonda che aveva avuto. Si guardò intorno e si rese conto che aveva combinato davvero un disastro. Ora doveva rimettere tutto in ordine, raccogliere i cocci degli oggetti distrutti. Come un automa cominciò a raccogliere i pezzi più grossi e nel farlo si accorse che in effetti stava raccogliendo i cocci della propria vita, andata in frantumi in quei giorni. Posandoli delicatamente sul tavolo provò ad avvicinare quelli che all’apparenza

combaciavano, nel possibile tentativo di rimetterli insieme. L'impresa non le riuscì. Mancava sempre un pezzo, per quanto piccolo potesse essere, che non li faceva stare insieme. Capì che come avrebbe buttato via quei cocci perché ormai inservibili, avrebbe dovuto mettersi alle spalle tutto il ato e provare a ricominciare. Non poteva recuperare ciò che ormai era perso per sempre, ma poteva sicuramente provare a ricostruire la sua vita da quel momento in poi. Si era fatto tardi e non aveva ancora chiamato Giovanni come gli aveva promesso. Prese il cellulare e lo chiamò. Il tono della sua voce le piacque. Gli disse che forse l’indomani gli avrebbe chiesto di raggiungerla. Giovanni le rispose che avrebbe aspettato la sua chiamata con impazienza e che sarebbe corso subito da lei. Quante emozioni! Che terribile verità le era stata svelata in quei giorni! Aveva bisogno di tempo per metabolizzare tutto. Non sapeva quanto gliene sarebbe servito per riuscire a perdonare. Si rese anche conto degli errori che lei stessa aveva commesso e continuava a commettere, di come aveva vissuto in tutti quegli anni, lontana dalle persone che avrebbe dovuto amare e che invece aveva scelto di non vedere più. Quanto rammarico provava ora! In fondo era suo padre. Non avrebbe dovuto amarlo lo stesso, anche solo per quanto aveva ricevuto finché era rimasta a casa? Perché dopo che era andata via si era allontanata senza fare più ritorno? Perché aveva smesso di amarlo? Non riusciva a darsi alcuna risposta. Riusciva soltanto a scuotere la testa incredula. O forse evitava di ricordare? Ora doveva essere onesta con se stessa, doveva ammettere che il sentimento che nutriva nei confronti di suo padre altro non era che gelosia, che provava dal giorno in cui l'aveva visto stringersi affettuosamente a Lorenza e baciarla apionatamente. Anche se non conosceva la verità che aveva scoperto ora, avvertiva qualcosa di strano in tutto quello che le accadeva intorno. Scoprire che suo padre amasse Lorenza non le aveva fatto piacere, non accettava l’idea di dividerlo con qualcun altro.

Dal giorno in cui aveva ascoltato quella discussione aveva immaginato che suo padre amasse solo lei, che lei soltanto fosse la ragione della sua vita. Quanto si sbagliava! Non aveva capito che si trattava di due forme di amore diverse, che quello per lei non sarebbe cambiato e finito mai. Pensava di essere una donna matura, ma in realtà scopriva che per certi versi era rimasta ancora una ragazzina ferita. Aveva messo suo padre sul banco degli imputati, l’aveva processato, condannato, e aveva eseguito la condanna senza concedergli il beneficio del dubbio; eppure nessuno meglio di lei poteva saperlo: tutti sono innocenti fino a prova contraria. Non era riuscita a sciogliere quello strato di ghiaccio che ricopriva il suo cuore, aveva preferito ignorare, non ascoltare quella voce dentro di sé che la spingeva a tornare qualche volta a casa. In questo modo non aveva potuto vedere un’ultima volta suo padre vivo. Si era privata della possibilità di avere un ricordo che l’avrebbe accompagnata quando avrebbe parlato di lui, quando avrebbe raccontato un qualsiasi aneddoto sulla sua vita. La sua memoria si fermava al giorno in cui si era laureata. Provò un’infinita tristezza. Per se stessa. La sua stessa vita era stata solo tristezza fino al giorno in cui aveva conosciuto Giovanni, ma anche così si rifiutava di ammettere di amarlo, si rifiutava di amare. Con Giovanni stava commettendo gli stessi errori che aveva commesso con suo padre e con Lorenza; la differenza era che i suoi genitori sarebbero rimasti tali per sempre, Giovanni, anche amandola moltissimo, avrebbe potuto stancarsi di lottare contro i mulini a vento. Non voleva continuare a sbagliare, voleva imparare ad amare con libertà, voleva imparare a dimostrare il suo amore evitando di nasconderlo, perché si era resa conto che l’amore, oltre a provarlo, va dato, va fatto sentire, va dimostrato, va ricevuto, va detto. Ecco dov’era il nocciolo. Le parole non dette, l’amore non confessato, non dichiarato, a che cosa avevano

portato? Ad incomprensioni, illusioni, quasi all’odio. Era stato davvero necessario tutto quello che aveva scoperto? Era servito al fine per il quale era stato pensato? Non aveva prodotto piuttosto l’opposto? E non si erano privati tutti di un amore che avrebbe potuto essere vissuto in piena armonia? Rivelare la verità, pensò, è sicuramente meno doloroso che dover ammettere alla fine di aver sbagliato e dover vivere di rimpianti che diventano scomodi compagni di viaggio. Qualunque verità, anche la più cruda, è sicuramente più facile da accettare che una vita di menzogne. Non era religiosa, ma in quel momento le ava per la mente una sola parola: perdono. Doveva imparare a perdonare e a perdonarsi, e che cosa avrebbe potuto aiutarla perché arrivasse a farlo in maniera incondizionata e potesse tornare ad essere serena? Andò nello studio e cercò il libro da cui Lorenza aveva tratto la poesia. Scorse titoli che conosceva bene ed altri che si erano aggiunti in sua assenza. C’era un ripiano, neanche a dirlo in ordine, riservato ai libri di poesie di autori vari, tra cui quello che cercava. Lo prese e lo sfogliò. Rilesse quella che Lorenza le aveva trascritto e lesse le altre. Tra le prime trovò una i cui versi le piacquero molto: “…il più bello dei mari è quello che non navigammo… I più belli dei nostri giorni non li abbiamo ancora vissuti, e quello che vorrei dirti di più bello non te l’ho ancora detto”. Quanto erano veri i versi di quella poesia! Sembrava scritta per lei. La rilesse più volte ripensando a se stessa e a quanto ancora non era riuscita a dire a Giovanni. Cominciò a camminare per casa senza meta, si guardò intorno e vide la sua casa con occhi diversi. Tutto ciò che prima le appariva come lontano, distaccato, non suo, ora lo vedeva con una luce nuova. Prese tra le mani la sua foto sulla libreria e vide il volto di una ragazza allegra, apparentemente spensierata. Quella foto emanava amore, come se avesse assorbito, in tutti quegli anni di assenza, quello di Lorenza e di suo padre. Si rese conto che tutto era circondato da un alone di calore, le trasmetteva una forza nuova ed un desiderio che non provava da tanto tempo. In quel momento capì. Doveva tornare a vivere in quella casa, doveva riuscire a scacciare tutti i fantasmi che giravano indisturbati tra quelle mura e

lasciarli fuori dalla porta. Doveva porre fine al suo dolore, o almeno lasciare che si assopisse, per far spazio all’amore e a quello che le sarebbe capitato nella vita. Aveva dilatato nel tempo il suo dolore senza avere il coraggio di chiedersi il perché di quella sofferenza, che ora considerava inutile; non aveva avuto il coraggio di porre le domande a fatti e cose che sapeva potessero avere una risposta. Non aveva avuto il coraggio di amare, o forse non aveva voluto amare, quasi a voler punire le persone da cui non aveva ricevuto amore, dimenticando che invece ne aveva ricevuto e che se riusciva a vederne le sfumature era perché qualcuno gliele aveva mostrate. Qualunque cosa fosse successa, ora era arrivato il momento di porvi fine. Era il momento di abbandonare tutte le maschere che aveva indossato nel tempo che era trascorso. Quante sca era stata? Ogni persona che aveva conosciuto aveva visto una sca diversa. Ognuna di esse aveva un ricordo diverso, provava nei suoi confronti un sentimento diverso. Qual era la vera sca? Quella capace di avere un solo volto, il suo, in ogni situazione? E quale quella che aveva mostrato a Giovanni? Era arrivato il momento di scoprirlo. Era arrivato il momento di ricominciare a vivere. Sì, questo avrebbe dovuto fare. Ne avrebbe parlato a Giovanni, avrebbe chiesto il suo aiuto. Questa volta non avrebbe detto: “faccio da sola”. Avrebbe ascoltato quello che lui le suggeriva, avrebbe “ascoltato” fino in fondo il suo amore. Era anche convinta che lui non avrebbe rifiutato e che quella casa gli sarebbe piaciuta. Il resto si sarebbe potuto accomodare, in fondo la strada da percorrere per andare in città non era poi tanta e nella peggiore delle ipotesi avrebbe potuto esercitare la sua professione in paese e prendere quello che un tempo era stato il posto di suo padre, proprio come un ricordo che si perpetua in chi rimane. Il sole stava tramontando. Non aveva mangiato nulla per tutta la giornata. Andò in cucina e preparò qualcosa. Erano rimaste le mozzarelle, che accostò ai pomodori, poi prese un po’ di pane, appoggiò tutto su un vassoio e si diresse sul

porticato, dove si sedette a mangiare. Lo sguardo ricadeva sistematicamente sul giardino e sullo stato in cui era ridotto. Avrebbe, anzi avrebbero, sistemato tutto ed avrebbero vissuto lì. Più ripensava a quella soluzione e più era contenta, cominciava finalmente a sentirsi serena. Certo non aveva ancora perdonato, ma era sicura che ci sarebbe riuscita. Accettare e ricambiare l’amore di Giovanni l’avrebbe aiutata, ne era convinta. Nella sua mente fece capolino anche l’idea di un bambino. Sorrise tra sé pensando a quanto lo desiderasse, a quanto desiderasse provare l’emozione di sentirlo muoversi per la prima volta, di sentire quel “battito d’ali” di cui parlava sua madre, di sentirlo crescere dentro di sé. Voleva provare le stesse emozioni di sua madre. Non l’aveva conosciuta, era vero, ma le aveva lasciato un regalo bellissimo: con quella lettera le aveva trasmesso tutto l’amore di cui era capace. Quanto desiderava dare origine ad una nuova vita! Ma nello stesso tempo aveva paura: e se la storia si fosse ripetuta? Non era forse un’evenienza possibile? Ricacciando indietro quel pensiero si disse che no, non si sarebbe ripetuta, in qualche modo si sarebbe dovuta fermare, la storia non può ripetersi in eterno sempre nella stessa maniera, deve necessariamente cambiare. Si accorse che stava sorridendo, fiduciosa. Rimase a guardare il tramonto lasciare il posto al buio e le prime stelle cominciare a brillare nel cielo; la mezzaluna bianchissima dominava la notte. Sul tavolino accanto al divano c’era ancora la bottiglia di cognac con il bicchiere sporco della sera prima. Prese uno pulito e se ne versò un po’. Questa volta era diverso, non aveva bisogno di stordirsi, voleva soltanto assaporare il gusto a cui le sere precedenti non aveva badato, voleva sorseggiarlo, gustarlo, proprio come avrebbe fatto d’ora in poi con tutto ciò che le sarebbe capitato nella vita. Doveva rinascere, quello sarebbe stato il suo “Natale”, doveva ricominciare daccapo, partire nuda ed arrivare alla meta vestita. Fece un elenco mentale dei lavori che sarebbero stati necessari per il giardino e per la casa. Non erano pochi, ma ne valeva la pena. La sua casa sarebbe tornata più bella di prima e lei sarebbe tornata a vivere.

Ripensò al sogno che aveva fatto nelle notti precedenti. Era stato davvero un sogno premonitore. In cima a quella scala c’era stata davvero, da quella scala era precipitata davvero. Di quella porta, che nel sogno era chiusa, aveva finalmente trovato la chiave. La stava aprendo con circospezione, lentamente, ma presto l’avrebbe spalancata, l’avrebbe attraversata completamente e si sarebbe trovata dall’altra parte. Era esattamente quello che era successo alla sua vita in quei giorni. “Ho dovuto attraversare l’inferno – pensò – per capire che le persone più infelici sono quelle che hanno paura di osare.” Promise a se stessa che mai, in nessun caso, le parole non dette e i gesti non compiuti, avrebbero generato incomprensione, odio, che l’amore taciuto potesse essere frainteso, non corrisposto. Non avrebbe avuto più paura di rivelare i suoi sentimenti, non avrebbe più rifiutato l’amore che le veniva offerto, detto. Tirò un sospiro di sollievo. Certo le sarebbe servito tempo, ma ce l’avrebbe fatta. Ora sapeva di essere nata da un atto d’amore, di essere stata desiderata. Poteva smettere di sentirsi in colpa per quello che era successo. Ora finalmente poteva smettere di leggere soltanto le righe scritte dagli altri. Ora poteva essere lei la scrittrice, la scrittrice della propria vita; poteva cominciare a riempire quel copione in bianco ricevuto alla nascita. Avrebbe scritto lei la sceneggiatura, adeguandola alle situazioni che le si sarebbero presentate nella vita; le avrebbe “vissute”, non evitate, avrebbe aperto completamente quel pacco ricevuto alla nascita. Attraverso la sofferenza più profonda aveva conosciuto realmente se stessa. Lo specchio di fronte al quale si trovava ora non distorceva più la sua figura, ma le restituiva l’immagine di una donna dallo sguardo sereno e luminoso, una donna con una forza nuova dentro di sé, una donna capace di ammettere di dover imparare ad amare, una donna desiderosa di amare. Aveva toccato il fondo, ma ora cominciava la risalita. Si era fatto tardi. Con una sensazione che non sapeva definire nel cuore, ma che la faceva sentire

leggera, andò a dormire. L’indomani avrebbe chiamato Giovanni e gli avrebbe parlato del suo progetto. Il profumo dei gelsomini invadeva la sua camera. Quanto le piaceva! Quella notte fece un sogno diverso. Sognò di trovarsi su un barcone insieme a persone sconosciute con indosso un salvagente, tutte tranne lei, e si dirigevano verso il mare. L’acqua che attraversavano si articolava in un fiume nero e burrascoso, sembrava che da un momento all’altro la barca dovesse ribaltarsi. Nell’istante in cui il barcone s'impennò per l’arrivo di un’onda gigantesca lei gridò: “aiuto mamma!” E mentre aveva la sensazione di affondare, una mano l’afferrò e la trasse in salvo con tutta la barca. Tutte le persone erano scomparse, era rimasta sola; poi, come se qualcuno avesse ordinato alle acque di calmarsi, si ritrovò in mare aperto, sempre su quella barca, ma con l’acqua liscia come l’olio ed azzurra come il cielo. Tutto era ato. Il mare era calmo. La sensazione della presenza di una forza protettrice l'avvolse e la calmò. Era salva. Era riuscita, anche se solo in sogno, a chiedere aiuto, e l’aveva ricevuto. Il mattino seguente si svegliò di buon umore. Il sogno che all’inizio le era sembrato terribile si rivelò veritiero. La burrasca era davvero ata. Ora non le rimaneva che tornare a vivere. Avvertiva dentro di sé una forza nuova. Indossò la tuta ed andò a correre. Questa volta non aveva necessità di occupare la mente, i suoi pensieri erano piacevolmente rivolti a sua madre e a Giovanni. “Appena a casa lo chiamo”, pensò. Respirava l’aria a pieni polmoni. Si sentiva in armonia con la bellezza della natura tutt'intorno. Finalmente riusciva ad associare il sole che splendeva ai suoi sentimenti. Stette fuori meno tempo di quanto aveva previsto. Voleva tornare per chiamare Giovanni. Appena a casa fece la doccia, preparò un caffè e mentre aspettava che uscisse lo chiamò. Senza girare intorno al problema gli chiese se poteva raggiungerla, se non subito, appena gli era possibile. Giovanni le rispose che sarebbe arrivato in mattinata, perché prevedendo la sua chiamata si era lasciato la giornata libera, giusto il tempo di percorrere la strada che li separava. Dalla sua voce capì quanto

fosse felice e per la prima volta si sentì così anche lei. Guardò i cocci a terra. Doveva metterli via in fretta. Anzi no! Non le importava che Giovanni vedesse quello che era successo. Quando gli avrebbe spiegato, avrebbe capito e l’avrebbe aiutata a buttare via tutto, anche le sue paure. Dopo circa un’ora Giovanni arrivò. sca gli andò incontro ed aspettò che scendesse dall’auto. Appena sulla soglia si fermò, l’abbracciò e lo baciò come mai aveva fatto prima. “Ti amo.” Gli disse, mentre le lacrime le bagnavano il viso. Era la prima volta che glielo diceva. Giovanni rispose abbracciandola con tutto l’amore che poteva. Aveva capito che qualcosa era successo, ma non sapeva cosa; di qualunque cosa si trattasse doveva solo ringraziare: gli era stata restituita la sca che aveva tanto aspettato. Aveva vissuto la loro storia d'amore nella speranza che quel momento arrivasse ed ora era arrivato. Era arrivato il momento per tutto. Capì che sca stava cominciando finalmente a liberare i suoi sentimenti e a liberarsi di tutta l’angoscia che l’aveva perseguitata per tanto tempo. “Ti amo amore mio - le disse - sapessi quanto ho aspettato questo momento!” E l’abbracciò ancora più forte. sca aprì la porta di casa ed invitò Giovanni ad entrare. “Prima tu principessa.” Le disse. sca si girò a guardarlo sorpresa, con un sorriso ed uno sguardo complice come non l’aveva mai guardato. Le rose incolte ma in fiore osservavano silenziose. Sarebbero tornate ad essere bellissime. Tutto sarebbe tornato a vivere.

“Benvenuto nella nostra nuova casa.” Gli disse. Prendendole la mano Giovanni entrò con lei. Entrambi erano pronti per la nuova vita che li aspettava.