Maria Flora Mangano, Manuale di comunicazione della ricerca scientifica Copyright © 2013 Tangram Edizioni Scientifiche Gruppo Editoriale Tangram Srl – Via Verdi, 9/A – 38122 Trento www.edizioni-tangram.it –
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Prima edizione: marzo 2008, UNI Service Seconda edizione: aprile 2013, Printed in Italy
ISBN 978-88-6458-081-4 (Print) ISBN 978-88-6458-971-8 (ePub) ISBN 978-88-6458-972-5 (mobi)
Progetto grafico di copertina: Claudio Fortugno, Agenzia Propaganda®, Viterbo (http://www.agenziapropaganda.it)
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“Perché non è, questa mia, una scienza come le altre: essa non si può in alcun modo comunicare, ma come fiamma s’accende da fuoco che balza: nasce d’improvviso nell’anima dopo un lungo periodo di discussioni sull’argomento e una vita vissuta in comune, e poi si nutre di se medesima”.
Platone, Lettera VII, (341 c-d).
A quanti hanno sperimentato la nascita improvvisa di questa fiamma nell’anima dopo un periodo di dialogo e di condivisione, l’hanno alimentata e donata ad altri. È anche grazie a queste persone che si è consolidata la didattica della comunicazione della ricerca scientifica negli anni, rendendo possibile la seconda edizione del manuale.
Prefazione alla seconda edizione
La seconda edizione di un testo di studio, di solito, è dettata da esigenze editoriali, per esempio la scadenza del contratto con la casa editrice. Implica, in genere, l’ampliamento del testo, oltre all’aggiornamento della bibliografia e degli eventuali link. È, può essere, come scrivere un libro una seconda volta, come è accaduto in questo manuale. Dalla prima edizione, del 2008, hanno preso sempre più corpo la didattica e la ricerca accademica nella comunicazione della ricerca scientifica: sono aumentate le attività dedicate a questa disciplina (seminari, corsi e scuole intensive) ed è cresciuto il numero dei partecipanti alla proposta formativa che sto portando avanti, in genere giovani ricercatori di ambito scientifico. I contenuti presentati in queste pagine sono simili rispetto alla prima edizione, perché i fondamenti teorici della disciplina sono invariati. Sono arricchiti dalla pratica: didattica, studio e dialogo con i giovani ricercatori che partecipano alle attività, con i docenti incontrati nelle facoltà scientifiche italiane e con alcuni colleghi, anche di ambito internazionale, che si occupano di comunicazione, sia nel campo tecnico-scientifico, sia in quello delle scienze sociali. I contributi di questi interlocutori trovano spazio nel testo. In questi anni, inoltre, si è consolidato uno stile, un metodo, al quale sarà dedicato il capitolo 5, assente nella prima edizione. Infine, dato che il testo presenta molte fonti consultabili online e per intero, si è pensato di rendere il manuale fruibile in formato e-book e sui i elettronici più comuni (Kindle, Smartphone, iPhone, iPad, Tablet, ecc.).
Avvertenze
Etimologia e definizione dei termini Il percorso etimologico dei vocaboli presentati in questo manuale fa riferimento al Dizionario etimologico online (http://www.etimo.it/) e le definizioni dei termini sono tratte dal Vocabolario dell’Enciclopedia Treccani online (http://www.treccani.it/).
Link Gli indirizzi dei link segnalati potrebbero essere soggetti a variazioni e rimandare a pagine diverse da quelle originariamente indicate. I link sono stati controllati fino al 15 aprile 2013. L’autore e l’editore si scusano per gli eventuali disagi dovuti a modifiche degli indirizzi dei link successive a questa data.
Norme bibliografiche Le citazioni bibliografiche di questo manuale seguono le norme curate dall’American Psychological Association (APA), che ha ideato un formato per la pubblicazione di lavori per addetti ai lavori conosciuto come APA style® (http://www.apastyle.org/). Il primo Publication Manual of the American Psychological Association risale al 1929 e prevedeva una serie di regole di poche pagine, al quale sono seguiti numerosi aggiornamenti, fino ad arrivare alla sesta edizione, del 2009. Attualmente è lo stile maggiormente utilizzato all’interno della comunità accademica internazionale.
Note
Il testo è corredato di note, in genere rare o assenti in un lavoro tecnicoscientifico. Sono, invece, prassi nella scrittura in ambito umanistico e nelle scienze sociali. L’uso delle note nel manuale è l’ulteriore tentativo di mettere in dialogo l’ambito scientifico con quello umanistico anche nella struttura del testo.
Spunti ulteriori A conclusione di ogni capitolo si è inserito un paragrafo di fonti aggiuntive, per l’approfondimento della tematica proposta, dal titolo “spunti ulteriori”.
Termini in corsivo Sono indicati in corsivo i vocaboli in lingue non italiane, esclusi alcuni, in inglese, ormai entrati nel linguaggio comune, per esempio: web, mail, blog, poster e abstract.
Capitolo 1 – Introduzione
1.1 La comunicazione della ricerca scientifica Negli ultimi anni si è assistito a una proliferazione quasi incontrollata del termine “comunicazione”, al punto da rimanere disorientati, forse. Abituati ai più comuni “mezzi di comunicazione”, o “comunicazione di massa”, ci si è trovati di fronte a espressioni nuove, che si sono imposte nel linguaggio comune, ma che spesso non risultano immediatamente chiare. Basti pensare a termini come “comunicazione d’impresa”, “comunicazione pubblica”, “comunicazione sociale” o, a livello aziendale e istituzionale, a “comunicazione interna ed esterna”. Si tratta di ambiti distinti, per comprendere i quali è necessario affiancare al termine “comunicazione” un complemento di specificazione. Che cosa si intende per comunicazione della ricerca scientifica1? La risposta non può limitarsi a una definizione esauriente, anche perché la comunicazione della ricerca scientifica non è considerata una disciplina, almeno finora, in Italia2. Si parla più in generale di “comunicazione scientifica”, spesso considerata sinonimo di “divulgazione della scienza”, che si occupa di rendere comprensibili tematiche scientifiche a un pubblico non esperto. Ci si limita, di solito, a reputare la comunicazione della ricerca scientifica una raccolta di indicazioni utili per presentare “bene” i dati della propria o altrui ricerca all’interno della comunità scientifica, in forma scritta (poster, articoli e tesi di dottorato, soprattutto) e orale durante i convegni. “Bene”, in questo contesto, è spesso associato a: “efficace”, “convincente”, oppure “in un inglese corretto”. Anche nella lingua inglese non esiste, al momento, un ambito chiamato Communication of (o Communicating) Scientific Research, a indicare quanto sia diffusa, anche a livello internazionale, l’idea che comunicare la ricerca sia una questione soprattutto tecnica, legata a come si presentano le informazioni. La comunicazione della ricerca scientifica definisce un campo di studio dedicato a chi si occupa di ricerca: in laboratorio, in campo o in ufficio, alle prese con un lavoro da scrivere, con dati da interpretare o da presentare. Prende in esame le informazioni necessarie a comunicare i risultati di una ricerca, ma anche il
metodo, gli obiettivi, le procedure e le ragioni alla base delle scelte sperimentali che hanno portato a quei dati. È indipendente dall’ambito di studio: che si tratti di chimica, di economia o di scienze naturali non fa differenza, dal momento che questa disciplina non prende in esame la ricerca, ma gli strumenti necessari a comunicarla.
1.2 A chi si rivolge questa disciplina
La comunicazione della ricerca scientifica è indirizzata in particolare a: giovani scienziati che non hanno ancora scelto la ricerca come professione (dottorandi, borsisti, post doc, in particolare) ma che dedicano, al momento, la maggior parte delle loro energie allo studio, in laboratorio o in campo; ricercatori, che hanno scelto questa professione e si trovano spesso di fronte a lavori da scrivere e da presentare, progetti di ricerca da stilare, tesi da correggere; si dedicano inoltre alla didattica, sono quindi insegnanti (o educatori), ma non necessariamente comunicatori. Non si investe a sufficienza, al momento, sulla formazione dei giovani scienziati alla comunicazione scritta e orale della loro ricerca all’interno della comunità accademica. Sono poche le facoltà scientifiche italiane, ma anche europee ed extraeuropee, che dedicano attenzione a questo aspetto. In altri Paesi europei (Gran Bretagna e Olanda, per citarne alcuni) o negli Stati Uniti3, invece, la formazione alla comunicazione della ricerca scientifica è prevista nel programma didattico del dottorato. Il proposito di questo manuale e delle attività “CRS” che propongo da qualche anno è di iniziare a colmare tale bisogno formativo, tentare almeno, puntando alla comunicazione della ricerca scientifica tra e per gli addetti ai lavori4.
1.3 Cosa aspettarsi e cosa non aspettarsi da questo manuale
Il fatto che la comunicazione della ricerca scientifica non sia ancora una disciplina nel nostro Paese comporta penuria di testi in italiano su questo argomento: è sufficiente effettuare una ricerca online per rendersene conto. Digitando su un motore di ricerca i termini “comunicazione della ricerca”, “come scrivere un articolo scientifico” (o la tesi di dottorato) o “presentazione di un poster” si raggiungono pagine eterogenee, che rimandano a siti di facoltà scientifiche con qualche sezione dedicata a questi argomenti, spesso in inglese, con scarsa bibliografia e link. Digitando i termini equivalenti in inglese how to create a poster, writing a scientific paper, invece, si è rimandati a numerose pagine, contenenti diapositive, articoli e testi spesso consultabili online per intero, link a dipartimenti di facoltà che si occupano di comunicazione scritta e orale. Le fonti più numerose e aggiornate vengono dagli Stati Uniti5. Verrebbe spontaneo, perciò, recuperare quanto più materiale disponibile sul web, sperando di trovare i rudimenti sufficienti da utilizzare all’occorrenza. Poche pagine, per giunta gratuite, per imparare quanto basta su questa materia. Non è tra gli obiettivi di questo manuale dissuadere da simili propositi. Né si può pensare di diventare comunicatori dopo aver letto, studiato anche, le seguenti pagine. Occorrono tempo, esperienza, fatica e molto impegno. Non si tratta di mettere insieme una serie di regole, di protocolli, come per gli esperimenti. La comunicazione in generale, quella della ricerca scientifica in particolare, non sono raccolte di consigli da applicare alla lettera. È opinione diffusa nella comunità scientifica considerare prioritario il tempo speso per ottenere risultati, in laboratorio o in campo, rispetto a quello impiegato a scrivere o ad allestire un poster. Stimare la scrittura o la presentazione orale
attività della stessa importanza di un esperimento potrebbe essere il primo risultato della lettura di queste pagine. Il secondo, possibilmente, sarebbe valutare simili pratiche indispensabili per continuare a svolgere bene questa professione.
1.4 Spunti ulteriori Centri di studio sulla comunicazione della ricerca scientifica – National Communication Association: nata nel 1914, è la società scientifica più grande nell’ambito delle scienze della comunicazione; riunisce studiosi di varie discipline in maggioranza statunitensi (http://www.natcom.org). – The Amsterdam School of Communication Research: sorta nel 1997, è il maggiore centro di ricerca di scienze della comunicazione d’Europa e tra i più grandi del mondo (http://ascor.uva.nl).
1 In alcune pagine del manuale si utilizzerà l’acronimo “CRS” al posto di comunicazione della ricerca scientifica, soprattutto in riferimento alle attività che svolgo in questo ambito (seminari, corsi, scuole intensive, ma anche il sito) e ai materiali utilizzati per promuoverle, come si descriverà nel capitolo 5. 2 Non solo in Italia: l’esperienza accademica e i colloqui con alcuni docenti in questi anni mi hanno confermato che anche in altri Paesi europei (Belgio, Francia, Spagna, Portogallo, Malta, per esempio) ed extraeuropei (vari Paesi del Centro e Sud America) questa disciplina non è considerata tale, ma si limita a una serie di istruzioni su come scrivere e presentare oralmente la propria e altrui ricerca. 3 Come si indicherà di seguito (capitolo 3), alcune università statunitensi hanno
centri di scrittura dedicati a formare alla scrittura gli studenti di ogni livello accademico e ambito disciplinare: dalla stesura del curriculum vitae a quella della tesi di laurea e di dottorato. 4 L’espressione “addetti ai lavori”, usata di seguito anche come sinonimo di “esperti”, si riferisce ai fruitori della comunicazione della ricerca scientifica: sono addetti ai lavori tutti gli scienziati, accomunati dallo svolgere la medesima attività, in ambiti simili, quindi colleghi di dottorato, borsisti, ricercatori e docenti. Le espressioni “addetti ai lavori” o “esperti” non riguardano la qualità delle conoscenze acquisite o la quantità dei titoli accademici. Si usano per distinguerli dai “non esperti” o “non addetti ai lavori”: per esempio, studenti universitari dei primi anni o delle scuole superiori, media generici e opinione pubblica. 5 Tra queste si segnalano i tre volumi dedicati alla comunicazione scritta e orale per chi si occupa di ricerca scientifica di Michael Alley, Pennsylvania State University (USA). Il primo testo è: Alley, M. (2000). The Craft of Editing: A Guide for Managers, Scientists, and Engineers. New York, NY: Springer-Verlag New York, Inc. Alcune sezioni sono consultabili online: (http://www.writing.engr.psu.edu/index.html). Gli altri due volumi saranno segnalati nei capitoli dedicati alla costruzione del testo scritto e orale.
Capitolo 2 – Cenni di teoria della comunicazione
La comunicazione contiene, cioè “tiene insieme”, secondo il significato etimologico6, numerose discipline, tra le quali la linguistica, la sociologia, la psicologia, la filosofia. Le contiene e le mette in relazione tra loro. È, quindi, un tramite per favorire il dialogo tra queste discipline, grazie ad altre, sorte soprattutto nel secolo scorso, come l’informatica, la tecnologia al servizio dei mezzi di informazione e lo studio dei media. Anche la comunicazione della ricerca scientifica contiene e mette in relazione alcune discipline tra loro: non solo quelle tecnico-scientifiche, ma anche i saperi a esse legati, come l’etica in rapporto alla ricerca scientifica, la filosofia, la storia e la sociologia della scienza e la divulgazione scientifica. Questi ambiti, di solito, non sono presenti nel programma di studio delle facoltà scientifiche italiane7, che si basano sulle scienze cosiddette esatte o naturali (matematica, fisica, chimica, biologia, soprattutto). Sono invece proposti nelle facoltà di tipo umanistico, che studiano le scienze cosiddette umane (in particolare storia e filosofia) e in quelle basate sulle cosiddette scienze sociali (tra le quali linguistica, sociologia, scienze della comunicazione). Il dibattito sulla classificazione delle scienze esatte, umane e sociali e sulla necessità di mantenere distinti l’ambito scientifico da quello umanistico è ancora aperto8. Si corre il rischio, però, di penalizzare la formazione universitaria e post-accademica, riducendola a una specializzazione tecnica sui contenuti: procedure, metodi e risultati. La necessità di mettere in relazione le discipline di ambito scientifico con quelle di tipo umanistico è emersa in questi anni di didattica “CRS”, che si basa sul dialogo tra i saperi, come si presenterà nel capitolo 5. Un primo o verso il dialogo tra le discipline è presentare alcuni cenni di
teoria della comunicazione, presupposto per applicare la teoria alla pratica della comunicazione della ricerca scientifica.
2.1 I verbi alla base della comunicazione
In questo paragrafo e nei prossimi si introdurrà la semiotica9, la disciplina che studia i segni10, gli elementi alla base della comunicazione. Il percorso storico della comunicazione affonda le sue radici nell’antica Grecia. Si tratteggerà brevemente, a partire dalla definizione di alcuni termini. Nella teoria della comunicazione applicata alla ricerca scientifica, in particolare, si introdurranno tre verbi: comunicare, educare e sedurre. Il verbo comunicare deriva dal latino communicare, dal significato iniziale di “condivisione di un incarico”, da communis: cum munus (“carica, ufficio”). Da communicare a communicatio, letteralmente, “l’azione di mettere in comune o partecipazione”. Munus, dalla radice indoeuropea mei, è il dono che obbliga a uno scambio e communis è l’aggettivo che indica chi ha in comune i munia, i doni da scambiare. Chi partecipa a questo scambio appartiene alla comunità. Communis richiama il termine greco koinonia, che significa comunione, partecipazione. Comunicare e comunicazione, quindi, rimandano inizialmente all’idea di condivisione e di reciprocità. E ricordano anche il senso attuale dell’aggettivo “comune”, cioè che appartiene a tutti, generale, letteralmente “unito ad altri dall’obbligo (munus) in ciascuno di qualche prestazione e col diritto di ricevere qualche beneficio: d’onde il senso di ciò a cui partecipano più persone, tutti i cittadini”. Il sostantivo “Comune”, di epoca medioevale, derivato da communis, implica l’obbligo (incarico, munus) di amministrare la comunità all’interno della quale esso è stabilito. “Municipio” ha origine ancora da munus, a indicare la residenza del Comune. Compiendo un salto nei secoli si arriva al Novecento, durante il quale il significato dei termini comunicare e comunicazione evolve verso quello di trasmissione, in relazione al aggio o allo scambio di informazioni. La nuova accezione deriva dalle scoperte, dalle invenzioni e dagli studi successivi sulla comunicazione alla base dello sviluppo tecnico-scientifico in questo settore. Le variazioni semantiche11 dei due termini sono continuate nella seconda metà
del Novecento, con l’avvento dei nuovi mezzi di comunicazione e, ancora di più, nel ventunesimo secolo. Si pensi, per esempio, solo all’ultimo decennio, che ha visto l’esplosione dei cosiddetti mezzi di comunicazione di ultima generazione (telefonici, televisivi, online) che hanno rivoluzionato l’idea di comunicazione di appena qualche decennio prima. Come si nota da questa breve panoramica, “comunicare” e “comunicazione” sono termini dal significato complesso, perché legato al cammino dell’umanità. Il dibattito sulla loro definizione è ancora in corso e non trova spazio in queste pagine. Ci si riferirà piuttosto a due accezioni12 del verbo comunicare: accanto a cum munus, che significa, come anticipato, mettere in comune, condividere; cum moenia, intendendo una condivisione riservata a pochi, letteralmente “all’interno delle mura della città”. Moenia erano le mura, i baluardi della città che permettevano di difenderla dagli attacchi dei nemici. Questo significato richiama l’idea di proteggere l’oggetto della comunicazione, di tenerlo per sé, piuttosto che parteciparlo all’altro. Quindi si può comunicare con l’idea di mettere in comune (munus) il messaggio, oppure di proteggerlo, costruendo una barriera (moenia). Non si tratta di valutare quale delle due accezioni sia corretta o se una sia migliore dell’altra: nella pratica quotidiana e nei rapporti sociali si sperimenta la nostra o altrui comunicazione come risultato delle attività (parole e atti) che rispondono a entrambi i significati. Potrebbe essere interessante provare a individuare nei comportamenti di ogni giorno le forme di comunicazione che adottiamo per condividere o difendere il nostro messaggio (idea, stato d’animo, proposta, ecc). E poi are alle forme di comunicazione nell’ambito della ricerca, per esempio: come abbiamo impostato un testo scritto o orale, l’abstract di un lavoro scientifico, una lezione, un seminario. Oppure quale tipo di comunicazione mettiamo in atto con i colleghi o con i docenti. Questo approccio potrebbe essere utilizzato anche nell’osservazione delle forme di comunicazione altrui: durante i convegni, in laboratorio o leggendo un lavoro scientifico per addetti ai lavori.
Il secondo verbo alla base della comunicazione è educare. Deriva dal latino ex
ducere, letteralmente “portare fuori da sé”. Un educatore è colui che immette informazioni nell’altro (colui che è educato) con l’intento di indurlo a esprimere, quindi a tirare fuori, queste informazioni in futuro. Educare, inoltre, rimanda anche all’idea di portare alla luce qualcosa (nozioni, ma anche ricordi, emozioni, per esempio) della persona che viene educata. Questo comporta uno sforzo sia nell’educatore, sia nell’educando, che non è detto essere presente o richiesto nella comunicazione. Consideriamo, per esempio, una comunicazione sulla fotosintesi: trasmettere i contenuti agli studenti universitari è diverso da informare i colleghi del risultato della propria o altrui ricerca su questo argomento. Nel primo caso il comunicatore è anche educatore (docente, insegnante, formatore), perché si rivolge a persone che non conoscono l’argomento e al quale renderanno conto di quanto appreso. Si adopera, dovrebbe, almeno, tentare di agire con pazienza, prediligendo la chiarezza, il linguaggio accessibile e fornendo spunti di interesse che aiutino la comprensione. Nel secondo caso il comunicatore si rivolge a esperti o addetti ai lavori, che conoscono la materia, il linguaggio, possono intervenire e contribuire al dialogo. Si tratta di due azioni diverse: si può essere un ottimo comunicatore, ma non necessariamente un educatore e si può essere un docente e un comunicatore di valore13.
Il terzo verbo chiave della comunicazione è sedurre. L’etimologia somiglia a quella di educare, cambia la preposizione: sedurre deriva da se ducere, letteralmente “portare via”, nel senso di “far cambiare direzione all’interlocutore”. Questo significato si mantiene nella moderna accezione del verbo sedurre, che richiama al termine “distrarre”, nel senso di “portare lontano”, sviare l’interlocutore. Senza rischiare di semplificare, dato che si tratta di cenni, attorno a questi verbi – comunicare, educare e sedurre – ruota l’introduzione alla teoria della comunicazione che viene proposta in questo manuale e vi si farà spesso riferimento nelle pagine seguenti. I tre verbi sono in relazione tra loro. In particolare, comunicare è il compromesso tra educare e sedurre e la
comunicazione è l’equilibrio tra l’educazione e la seduzione14. Il comunicatore opera questa mediazione: è il tramite, il mediatore, che si mette nei panni dell’altro, il ricevente o recettore del messaggio. Per quanto concise e all’apparenza lapidarie, queste definizioni si comprenderanno a partire dagli ulteriori elementi di teoria della comunicazione proposti nei prossimi paragrafi. È come un mosaico che si compone di tessere: ciascuna è distinta dalle altre, viene applicata in un ordine stabilito ed è essenziale per apprezzare il disegno completo.
2.2 Chi è e cosa fa il comunicatore
Da quanto si è indicato, il comunicatore è un tramite, un mediatore che si mette nei panni del ricevente del messaggio. Si può comprendere meglio questa definizione a partire dal seguente schema di emissione e trasmissione del messaggio15 (figura 2.1).
Figura 2.1 Schema dell’emissione e trasmissione del messaggio.
Come ogni rappresentazione grafica di un fenomeno, va interpretata, è il punto di partenza per considerazioni ulteriori. In particolare: l’emittente è il comunicatore, il messaggio è la parola orale e scritta e il ricevente (o recettore, o target) è l’interlocutore al quale si rivolge l’emittente. Emittente e ricevente elaborano un codice, che non è detto sia lo stesso per entrambi. Spesso, infatti, l’emittente conosce più del ricevente (si parla di asimmetria della comunicazione) e rischia di utilizzare un codice che il ricevente non comprende. Il risultato è che il ricevente decodifica il messaggio e lo ricodifica per farlo proprio. Applicando questo schema alla comunicazione della ricerca scientifica, l’emittente è chi si occupa di ricerca, il messaggio è il contenuto da comunicare. Quest’ultimo è scritto e orale: esempi del primo tipo sono l’articolo scientifico, il poster e la tesi di dottorato; del secondo, la lezione, il seminario, la presentazione a congresso. Il ricevente è la comunità scientifica, quindi l’insieme degli scienziati o esperti o addetti ai lavori. Ho provato ad adattare lo schema alla base dell’emissione e trasmissione del messaggio alla comunicazione della ricerca scientifica. Di seguito un modello possibile (Fig. 2.2), arricchito di alcuni elementi che derivano anche dall’esperienza didattica “CRS”16.
Figura 2.2: Un possibile adattamento dello schema della emissione-trasmissione del messaggio alla comunicazione della ricerca scientifica.
Come si osserva, lo schema è pensato come un circuito, che parte dall’emittente e a questo ritorna. Emittente e ricevente sono in relazione e, come le frecce suggeriscono, si possono invertire i ruoli, quindi l’emittente diventa il ricevente. Il trasferimento del messaggio all’interno del circuito è regolato da alcuni aspetti: , rumore di fondo e contesto. Il è la risposta con la quale il recettore comunica all’emittente che il messaggio è stato trasferito. Sarebbe limitante, però, paragonare il alla ricevuta di ritorno di una email o di una raccomandata postale, dato che la comunicazione è un’attività umana e la risposta del ricevente è complessa. Per essere assimilato e compreso, il messaggio ha bisogno di tempo, di domande, di riflessione: può essere contestato, apprezzato, modificato, migliorato, dato che si parla di comunicazione tra esperti. Come anticipato, il ruolo dell’emittente e del ricevente si può invertire, quindi, sia l’emittente, sia il ricevente inviano . È un’azione che non dipende dal messaggio, ma da chi lo emette e da chi lo riceve. Utilizza una comunicazione verbale (scritta e orale) e non verbale (sguardi, gesti, ma anche il corpo, uno o più sbadigli dalla platea, per esempio, sono eloquenti per l’emittente). Il rumore di fondo è ciò che disturba la comunicazione, come accade nelle apparecchiature elettroniche, a cui, infatti, questo termine rimanda. È l’insieme dei fattori che ostacola il trasferimento del messaggio: per esempio fisici (cattivo funzionamento degli impianti sonori, elettrici, elettronici, di riscaldamento o di raffreddamento, ma anche i rumori in sala, dovuti per esempio alle vibrazioni più o meno silenziose del cellulare); interni, cioè legati all’emittente, al ricevente e al tipo di messaggio (emotività, preoccupazioni, ma anche lo stato di salute, la stanchezza), oppure esterni ai soggetti coinvolti nella comunicazione (lavori in corso nel luogo che ospita il trasferimento del messaggio, ma anche imprevisti, o la scelta di una data o di un orario in una giornata particolare). Il rumore di fondo, quindi, dipende dall’emittente, dal ricevente e dal tipo di messaggio trasferito. Può essere un messaggio in sé, con un codice, che emittente e
ricevente elaborano. Il contesto è l’ambito nel quale si svolge la comunicazione. Ci si rivolge ad addetti ai lavori, quindi emittente e ricevente sono (dovrebbero essere) alla pari e si riduce l’asimmetria della comunicazione17. Il codice dell’emittente può essere lo stesso di quello del ricevente e, in qualche caso, identificarsi con il messaggio stesso, per questo le frecce bidirezionali tra codice e messaggio, a indicare corrispondenza, reciprocità. Per la stessa ragione ci sono frecce verso il codice anche a partire dall’emittente e dal ricevente. , rumore di fondo e contesto sono, quindi, elementi di cui tenere conto nella comunicazione tra addetti ai lavori. Si pensi, per esempio, alla presentazione orale a un congresso scientifico. Al termine della relazione i suggerimenti di qualche partecipante al relatore sono un esempio di inversione dei ruoli tra emittente e ricevente, di identificazione del messaggio con il codice, di contesto e di .
2.2.1 Qualche considerazione
La scienza è una forma di comunicazione dialettica e riflessiva, ha bisogno di ipotesi, confutazioni e verifiche. In una parola di tempo. L’informazione scientifica è un tipo di comunicazione rapida e frammentaria. In un articolo su un quotidiano o in un servizio televisivo quanto tempo può essere dedicato a illustrare l’esperimento o a spiegare le ragioni che hanno mosso il ricercatore? Per questo è spesso difficile divulgare la scienza, cioè rendere accessibili argomenti scientifici e tecnici, a persone non esperte. Se ne ha la dimostrazione, per esempio, provando a chiedere a chi non si occupa di scienza, cosa sono gli organismi geneticamente modificati o le piogge acide e tentando di spiegarlo loro. La situazione dovrebbe semplificarsi nella comunicazione della ricerca che si svolge tra addetti ai lavori, con argomenti noti e linguaggio comune. Eppure l’asimmetria della comunicazione si sperimenta anche in questo caso: basti pensare a lavori scientifici o a relazioni durante i convegni che ci hanno lasciati perplessi, perché il relatore non è stato chiaro, esauriente, accessibile. Il comunicatore è uno strumento per facilitare la comprensione: è un mezzo, non il fine. “Capiscimi”, come spesso sembra suggerirci il comunicatore (a un convegno, ma anche leggendo un articolo o guardando un poster), può significare: “capisci me” o “capisci attraverso me”. Il “mi” è irrinunciabile, ma in un caso è il fine, nell’altro il mezzo. Torna in mente quanto si è accennato a proposito del ruolo di mediatore svolto dal comunicatore: il tramite per operare l’equilibrio tra educazione e seduzione.
2.3 Gli strumenti della comunicazione
Dopo aver introdotto il significato di comunicazione e il ruolo del comunicatore, aggiungiamo tasselli al mosaico presentando gli strumenti della comunicazione: le competenze, i principi e le caratteristiche.
2.3.1 Competenze
Le competenze della comunicazione richiamano alcune branche della linguistica, la disciplina che studia il linguaggio umano, sia nel senso di capacità di articolare suoni e parole, in forma orale, scritta e non verbale, sia nel significato di idioma, cioè del sistema di comunicazione tipico di una comunità. Le competenze della comunicazione rimandano a tre aree di studio della linguistica18: la sintassi, la semantica e la pragmatica. Si tratta di ambiti distinti e di complessità crescente: ciascuno è la base per comprendere il successivo e gli strumenti seguenti, i principi e le caratteristiche.
Competenza sintattica La sintassi si riferisce al modo in cui i segni di un codice possono stare insieme. Vengono in mente gli errori di sintassi nella lingua scritta e orale, per esempio. Si può parlare di sintassi chimica nell’allestimento di un esperimento: dimenticare un reagente o utilizzarlo a una concentrazione scorretta. Nella comunicazione la competenza sintattica richiama gli errori nella trasmissione del messaggio – scritto, orale, non verbale – che si commettono per distrazione, non conoscenza o inesperienza. Consideriamo, per esempio, la sintassi d’immagine nella comunicazione visiva: annunciare un servizio al notiziario e mandarne in onda un altro. Nella comunicazione della ricerca scientifica si può pensare all’inserimento di dati errati nei risultati di un articolo o a un’esposizione orale sgrammaticata in italiano o in una lingua diversa.
Competenza semantica Si tratta, di solito, della competenza più difficile da comprendere per chi
partecipa alle attività “CRS”. Si è accennato a questa branca della linguistica nelle pagine precedenti, a proposito dell’evoluzione del significato del termine “comunicare”. La semantica studia il rapporto tra i segni e il loro significato. È un livello ulteriore, più complesso, rispetto alla concordanza tra segni alla base della sintassi. Non si tratta di errori dettati da distrazione, dai tempi stretti o da inesperienza. Non è corretto, forse, neanche definirli errori, dato che sono frutto di ragionamento, spesso, non di improvvisazione. Torniamo all’espressione di Agostino d’Ippona: “Qualcosa che sta per qualcos’altro”. Sembra un gioco di parole, ma si può comprendere il senso a partire dall’esempio della comunicazione visiva citato in precedenza: si annuncia un servizio e va in onda, ma con una colonna sonora inadeguata, per esempio la notizia riguarda un fatto drammatico e la musica di sottofondo è invece vivace e allegra. Non sono errati né il servizio, né la colonna sonora, ma il rapporto tra i due segni (tematica trattata e musica) e il loro significato non è di immediata comprensione, rischia di confondere il ricevente, costretto a elaborare un codice per comprendere il messaggio dell’emittente. Il rischio è che il messaggio venga frainteso o perso. Consideriamo ora l’esempio riferito alla comunicazione della ricerca scientifica e al lavoro scritto: citare i risultati di uno studio nella sezione dedicata all’introduzione. I risultati sono corretti, ma assumono significato diverso se anticipati in quel paragrafo. Si intende, forse, enfatizzarli, perché magari sono di valore, ma si rischia di essere ridondanti, dato che andranno comunque citati di nuovo nella sezione relativa ai risultati, e di confondere il lettore. Nella competenza semantica si comprende, forse, meglio l’equilibrio tra educazione e seduzione che il comunicatore opera e la necessità di facilitare la comprensione come strumento, non come fine.
Competenza pragmatica La terza e ultima competenza costringe a un o ulteriore per comprendere la sua definizione. Il termine “pragmatica” non ha l’accezione comunemente usata nella lingua italiana, quindi l’aggettivo che rimanda alla concretezza, letteralmente “che bada alla sostanza e all’aspetto pratico delle situazioni”.
La pragmatica è la branca della linguistica che studia l’uso sociale dei segni, cioè il loro significato secondo chi li utilizza. Indaga quale situazione (sociale, ambientale, culturale) influenza il significato delle parole. Spesso, per esempio, ci capita di dire qualcosa a qualcuno che viene interpretata in modo diverso da quanto volevamo dire. Perché? Forse abbiamo usato una lingua diversa da quella nativa che conosciamo poco, oppure ci siamo espressi male, o la situazione che viviamo (siamo nervosi, tristi, preoccupati, allegri, ma siamo anche uomini, donne, giovani, anziani, europei, per esempio) ci porta a esprimerci in un certo modo. La pragmatica studia l’uso sociale della lingua. Risponde alle domande: “Per chi sto dicendo o scrivendo qualcosa? E perché? Chi è il nostro interlocutore? Quindi: chi è l’altro per noi?” L’obiettivo di interesse principale della pragmatica è l’alterità19, che significa il valore dell’altro, di chi ci ascolta o ci legge, per esempio. Ha un valore l’altro per noi? Sembrerebbe, infatti moduliamo la comunicazione in base all’interlocutore. Per questo ogni atto20 (parola, sguardo, gesto) può essere per o contro l’altro. Lo sperimentiamo ogni giorno, anche al di fuori dell’ambito della ricerca: anche un saluto può essere detto per ferire, provocare, adulare o semplicemente essere cortesi con l’altro. Tornano in mente le due accezioni del verbo comunicare: condividere o proteggere il messaggio. Si tornerà spesso su queste tre competenze nelle pagine seguenti, soprattutto sulla competenza pragmatica. Per poter comunicare la ricerca scientifica (e non solo), infatti, occorre avere chiaro per chi e perché si intende comunicare, prima ancora di cosa e di come comunicarlo.
2.3.2 Principi e caratteristiche
Legati alle competenze sono i principi e le caratteristiche della comunicazione. Sono aspetti connessi alla struttura del messaggio e saranno presi in esame nei capitoli che riguardano la costruzione del testo scritto e orale (3 e 4). In questa panoramica introduttiva alla teoria della comunicazione, li introduciamo brevemente iniziando dai principi: – identificazione del destinatario: conoscere l’interlocutore (addetti ai lavori, nel nostro caso) è essenziale per orientare il tipo di comunicazione. Si ricevono indicazioni in questa direzione dalle regole per gli autori, per esempio, utili sia nel testo scritto, sia per una presentazione a un convegno – credibilità delle fonti: la bibliografia è il punto di partenza in qualunque tipo di comunicazione, scritta e orale. Questo principio richiama a prestare attenzione nel citare gli autori e i testi e nello scegliere il tipo di fonte a cui riferirsi – qualità del messaggio: la qualità non riguarda solo il contenuto da comunicare (cosa e come) ma perché e per chi stiamo trasferendo il messaggio. Questo principio rimanda alla competenza pragmatica, il valore dato a chi legge o ascolta.
Anche le caratteristiche della comunicazione sono legate alla struttura del messaggio, o del testo, scritto e orale: – equilibrio – competenza – completezza – obiettività.
I cenni di teoria della comunicazione applicati alla comunicazione della ricerca scientifica sono completi e si è pronti per costruire il mosaico, il testo scritto e orale. Occorre prima comprendere cosa significhi costruire un testo e cosa implichi, quindi non solo quali tessere utilizzare e come, ma anche su quale disegno e in che modo procedere, cioè quale strategia comunicativa seguire.
2.4 La costruzione del testo
Nel linguaggio comune il testo si riferisce al messaggio scritto. Il termine deriva, infatti, dal latino textum, che significa “tessuto”, “intreccio”, “trama”, a indicare l’insieme delle parole alla base di un discorso, letteralmente: “ciò che è contenuto, parola per parola, in uno scritto”. Nella teoria della comunicazione il testo è il messaggio che si intende trasferire. Richiama al significato originario di intreccio di parole, ma non necessariamente scritte: anche il testo orale e non verbale (gesti, sguardi, espressioni del viso, modo di esprimersi) comunicano. Il testo è la realizzazione concreta della comunicazione e l’uso del verbo “costruire” non è casuale: rafforza questa affermazione. Tornando all’esempio del mosaico (anch’esso non casuale) le parole sono le tessere, di vari materiali, che si applicano sul o, una accanto all’altra, a formare il disegno. Il testo si costruisce pian piano, in momenti diversi, uno distinto dall’altro, ma tra loro in continuità. Le parole (scritte, orali e non verbali) si pianificano, si scelgono con cura e si sistemano una vicino all’altra a formare la trama del disegno, il tessuto. Ci riferiremo alla costruzione del testo secondo un autore vissuto nel IV secolo a.C., Aristotele21. Può sembrare anacronistico, eppure, nonostante le revisioni successive, la Retorica aristotelica è attuale ancora oggi per imparare a organizzare un testo, anche se si tratta di un testo scientifico. Aristotele distingue tre momenti nella costruzione del testo: 1. inventio, letteralmente “trovare le cose da dire” 2. dispositio, che significa “mettere in ordine” ciò che si è trovato 3. elocutio, che vuol dire “mettere in forma”, dare uno stile a quanto si è messo in ordine.
Alla base di queste fasi, indipendentemente dal tipo di comunicazione che si sta approntando, c’è un livello preliminare, non sempre scontato: avere qualcosa da dire e sapere ciò di cui si sta parlando. Significa avere un messaggio da comunicare e conoscere ciò che si sta studiando.
1) Inventio Contrariamente a quanto il termine latino possa suggerire, “trovare” le cose da dire non significa inventarle. L’inventio è la fase sperimentale del lavoro di ricerca: in laboratorio, in campo o in uno studio bibliografico. È la raccolta dei dati, a partire dai protocolli, dai metodi e dai modelli utilizzati o messi a punto. Di solito nella ricerca scientifica l’inventio è la fase sulla quale ci si concentra di più. È opinione diffusa pensare che “i dati parlino da soli” se sono di valore, quindi si preferisce, spesso, dedicare maggiore attenzione, risorse e tempo alla parte sperimentale. Essa viene privilegiata rispetto ai due momenti successivi, di frequente ridotti a uno solo, l’elocutio: la scrittura, quando si tratta dell’articolo o della tesi di dottorato, la preparazione di una presentazione orale, se si è a ridosso del convegno o della discussione orale. In genere si ignora o si sottovaluta il secondo momento, che, è invece determinante nella comunicazione della ricerca scientifica.
2) Dispositio Dopo aver trovato cosa dire occorre disporre, cioè mettere in ordine, queste informazioni. La dispositio è il momento nel quale si concretizza perché e per chi comunicare, prima ancora che come (di cui si occupa l’ultima fase, l’elocutio). Si dice o si scrive qualcosa perché possa essere capita da chi ascolta o legge. L’ordine, quindi, ha a che fare con la comprensione di chi emette il messaggio e di chi lo riceve. E’questione di logica, non di estetica22. Per tornare all’esempio del mosaico, non si collocano le tessere in un certo ordine perché è bello, ma perché altrimenti il disegno non si può costruire. Ci sono criteri nella disposizione delle tessere, per esempio si inizia dalle più piccole e solo dopo si
aggiungono i tasselli maggiori; oppure si comincia dall’interno del mosaico e si procede poi verso l’esterno. Seguire queste regole permette la realizzazione dell’opera: essa diventa bella a conclusione di un lavoro paziente di scelta e di sistemazione dei pezzi. Un momento necessario per assicurare il risultato finale. Il livello preliminare alla base dei tre momenti della costruzione del testo secondo la Retorica aristotelica, quindi, si arricchisce: è essenziale non solo avere qualcosa da dire e conoscere l’argomento di cui si parla, ma anche averlo compreso.
3) Elocutio Dopo la fase sperimentale (inventio) e quella di sistemazione delle informazioni (dispositio), si è pronti a metterle “in forma”: scritta, se si tratta, per esempio, di un articolo scientifico o di un poster; orale, nel caso di una presentazione a un congresso o di un seminario. L’elocutio, come anticipato, è il momento dedicato a come scrivere, presentare, parlare. E ha bisogno delle prime due fasi per potersi realizzare: per rifarsi all’esempio del mosaico, le tessere sono state scelte, i i sono pronti e il disegno è tracciato. È il momento di applicarle e per questo occorre uno stile. Sia che si tratti di un testo scritto, sia che si tratti di un testo orale, lo stile che si adotta tiene conto della cosiddetta strategia comunicativa.
2.5 La strategia comunicativa
Nell’accezione comune “strategia” rimanda alla capacità di raggiungere uno o più obiettivi a partire da mezzi e attività adatti a tale scopo23. Anche la strategia comunicativa richiama questo significato: si riferisce alla valutazione che precede la messa in forma, l’elocutio, nella costruzione di un testo. La anticipa e la determina, a partire da due obiettivi: a) farsi obbedire b) farsi capire.
Cerchiamo di comprendere il significato di ciascun obiettivo, senza pensare di dover operare una scelta (che andrà effettuata, ma solo dopo aver capito il senso dei due verbi) o che uno sia più indicato dell’altro nella comunicazione della ricerca scientifica. Proviamo prima a definirli in base alla teoria della comunicazione.
a) Farsi obbedire richiama l’etimologia dei verbi educare e sedurre e ne aggiunge un altro: commuovere. Questo verbo deriva dal latino cum movere e significa “mettere in movimento, agitare” i sentimenti, l’animo, la mente. Qualcosa ci commuove quando fa leva sulla parte irrazionale di noi, che sfugge al controllo della ragione. Nella comunicazione si parla di patto comunicativo che si stabilisce in fretta tra emittente e ricevente. È un accordo che non a dalle parole, spesso, ma da ciò che non si riesce a esprimere, dal linguaggio delle emozioni. Una simile strategia non favorisce la comprensione, ma l’adesione, l’obbedienza. Si è catturati, affascinati o contrariati: basti pensare ad alcuni servizi televisivi
proposti durante il telegiornale (conflitti, catastrofi naturali, povertà nel mondo), ma anche ai film, ai libri, alle canzoni che ci commuovono. Appellarsi alla componente emotiva del ricevente comporta la rapida riduzione delle difese imposte dalla sua razionalità. Si parla di interlocutore medio-basso in questa strategia, non per la preparazione culturale o il livello intellettuale, ma per il momento in cui viene emesso il messaggio. Si pensi, per esempio, a quando seguiamo il telegiornale: la tv è accesa, ma magari si è occupati a fare altro, non si ascolta bene, oppure si è stanchi. E all’emittente del messaggio occorre catturare la nostra attenzione. Il patto comunicativo è debole e non resiste nel tempo: con la stessa velocità con la quale si aderisce a quanto visto, letto e ascoltato, ci si allontana e si resta sorpresi nel non commuoversi più. È quanto accade, spesso, qualche giorno dopo una notizia che ha scosso l’opinione pubblica. Non si rammentano più i dettagli (nomi, luoghi, date) che fino a poco prima riempivano pagine di quotidiani: viene meno l’adesione, l’obbedienza a quel patto24.
b) Il secondo obiettivo, farsi capire, rimanda all’etimologia del verbo comunicare e ne introduce un altro: convincere. Deriva dal latino cum vincere, letteralmente “indurre uno a riconoscere una cosa, ad ammettere un fatto, vincendo con prove o con buoni argomenti ogni suo dubbio o opinione contraria”. Significa, quindi, coinvolgere l’interlocutore e persuaderlo della bontà o meno di un’idea o di un’opinione. Per questo si ha bisogno di tempo, di spazio e di uditorio motivato, aspetti che spesso sono limiti, non vantaggi. Il patto comunicativo resiste nel tempo, perché è stato costruito sulla fiducia, sopporta le smentite e predilige la componente intellettiva della realtà. Intellettiva, non intellettuale: cioè fa leva sulla ragione, non sul livello culturale. Sfrutta le capacità dell’oratore o dello scrittore: franchezza, onestà, imparzialità, umiltà, non emotività. Valorizza gli aspetti positivi della tesi opposta, se valida, ma dimostra la superiorità della propria, se tale. Le opinioni che abbiamo maturato sono frutto di esperienza, di studio, di ascolto, ma anche dell’educazione ricevuta, della cultura di appartenenza, delle persone che riteniamo determinanti nella nostra formazione. Fattori alla base del nostro comportamento, che nel tempo diventano parte di noi, di quanto abbiamo maturato. Per questo, spesso, le nostre convinzioni sono difficili da modificare:
si pensi, per esempio alle opinioni politiche, culturali e religiose, oltre a quelle scientifiche.
Come anticipato all’inizio del paragrafo, non si tratta di valutare se un obiettivo della strategia comunicativa sia migliore o più corretto dell’altro. Nella quotidianità ci può capitare di attuare entrambe le strategie al variare dell’interlocutore, dei fini che perseguiamo o del contesto nel quale operiamo. Quale strategia comunicativa dovrebbe seguire lo scienziato? Come abbiamo notato in queste pagine, non si tratta di proporre una risposta unica ed esauriente, ma di suggerire considerazioni che possono aiutare una progressiva presa di coscienza in questo ambito. Nella comunicazione della ricerca scientifica si può commuovere e convincere nello stesso testo, anche se si tratta di lavori tecnico-scientifici. È una forma di commozione diversa rispetto a quella provocata da un film o da una poesia, ma si pensi, per esempio alle immagini degli ecosistemi, degli elementi cellulari o del cosmo, oppure agli studi sulla disuguaglianza sociale o sulle patologie infantili. Inoltre le regole degli autori (di una rivista o di un comitato che valuta un poster, per esempio) sono dettagliate e rigide e dovrebbero costringere a una strategia comunicativa tesa a convincere, cioè a farsi capire. Ma l’offerta aumenta sempre più: la quantità di lavori presenti sul web o in formato cartaceo è enorme e il tempo a disposizione per il reperimento degli articoli e per la lettura diminuisce sempre di più. Quindi accade sempre più spesso che il titolo e l’abstract di un testo puntino a una strategia comunicativa tesa a commuovere, all’adesione, a sedurre. Attirare l’attenzione del lettore e, al tempo stesso, puntare a un testo chiaro e convincente potrebbe essere la strategia comunicativa per la preparazione di un testo scientifico, il compromesso che la comunicazione della ricerca dovrebbe operare tra la seduzione e l’educazione. Conoscere il significato delle parole a partire dalla loro etimologia è un o necessario per comprenderne il senso e per operare delle scelte. Dire qualcosa è fare qualcosa, secondo alcuni filosofi del linguaggio25, per questo il testo è la concretizzazione della comunicazione. Ogni atto di parola (ora sappiamo che si intende scritta, orale e non verbale) è un atto etico, cioè che ha a che fare con il
comportamento (ethos) di chi emette il messaggio e di chi lo riceve. Anche nella comunicazione della ricerca scientifica ogni atto di parola è un atto etico, è un appello alla responsabilità26 del comunicatore.
2.6 Spunti ulteriori Trasmissione del messaggio: modelli ulteriori Jakobson, R. (1961). Linguistics and Theory of Communication. In: Proceedings of Symposia in Applied Mathematics, 12. Structure of Language and its Mathematical Aspects. Providence, RI: American Mathematics Society. trad. it. Luigi Heilmann & Letizia Grassi (1966). Saggi di linguistica generale. Milano. Italia: Feltrinelli.
Introduzione alla semiotica Chomsky, N. (1965). Aspects of the Theory of Syntax. Cambridge, MA: MIT Press. trad. it. A. Woolf De Benedetti (1970). Aspetti della teoria della sintassi. In: Saggi linguistici (2, 41-258). Torino, Italia: Boringhieri. De Mauro, T. (1971). Introduzione alla semantica. 2^ ed. Bari, Italia: Laterza. Eco, U. (1975). Trattato di semiotica generale. Milano, Italia: Bompiani.
Morris, C. (1938). Foundations of the Theory of Signs. Chicago, IL: University of Chicago Press. Petrosino, S. (2008). L’esperienza della parola. Testo, moralità e scrittura. 2^ ed. Milano, Italia: Vita e Pensiero. Watzlawick, P., Beavin, J. H. &, Jackson, D. D. (1971). trad. it Massimo Ferretti (1971). Pragmatica della comunicazione umana. Studio dei modelli interattivi, delle patologie e dei paradossi. Roma, Italia: Astrolabio.
Costruzione del testo: autori classici e progetti contemporanei Agostino, De doctrina Christiana. In: L. Alici (Ed.) (1989), Milano, Italia: Ed. Paoline. Cicerone, Opere retoriche. In: G. Norcio (Ed.) (1976), Torino, Italia: Utet. Platone, Gorgia a cura di A. Festi. In: E. V. Maltese (Ed.) (2009). Tutte le opere, Roma, Italia: Newton Compton. Marco Fabio Quintiliano, Institutio oratoria, trad. it.
Rino Faranda & Piero Pecchiura (1979), Torino, Italia: Utet.
Communication in Physics Project è uno studio interdisciplinare a cura dell’Università di Amsterdam (Van der Waals-Zeeman Laboratory della Facoltà di Scienze e Department of Discourse and Argumentation Studies della Facoltà di Lettere e Filosofia) sulla natura e la struttura degli articoli scientifici di ambito fisico dal punto di vista scientifico e umanistico (http://www.science.uva.nl/projects/commphys/home.htm). In particolare: Harmsze, F. (2000). A modular structure for scientific articles in an electronic environment, tesi di dottorato interamente consultabile online che contiene una nutrita bibliografia sulla teoria della comunicazione: (http://www.science.uva.nl/projects/commphys/papers/thesisfh/ch
6 La maggioranza dei termini della lingua italiana deriva dal latino e dal greco. Contenere, in particolare, ha origine dal latino cum tenere, letteralmente “tenere insieme”, “legare”, “mettere in relazione”. L’esperienza comune, diffusa in ambito scientifico, è che, di solito, le parole che definiscono una disciplina abbiano un solo significato, che si è mantenuto simile a quello originario. È il caso di “biologia” e di “ecologia”, per esempio, ma anche di “economia” e di “filosofia”. Non è così, però, per il termine “comunicazione”, come si vedrà di seguito. Da qui la necessità di prestare attenzione all’etimologia, che caratterizzerà le pagine seguenti. 7 Ci sono corsi di storia della medicina o di storia della fisica nelle rispettive facoltà, ma essi non spaziano sulla più generale storia della scienza, né si
correlano, anche solo per cenni, alle discipline menzionate nel testo. 8 Questo dibattito è forse alimentato dal pregiudizio, almeno in ambito scientifico, dovuto alla scarsa conoscenza dei fondamenti del sapere o epistemologia. È una branca della filosofia che studia le condizioni alla base della conoscenza scientifica, assimilabile alla filosofia della scienza, che, come anticipato, non si studia nelle facoltà scientifiche, almeno in Italia. 9 I cenni di teoria della comunicazione prendono spunto dalle lezioni di Silvano Petrosino, docente di semiotica all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Ho seguito le sue lezioni durante un corso di comunicazione scientifica promosso dalla Facoltà di Farmacia dell’Università Statale di Milano nell’anno accademico 2000-2001. 10 La definizione di “segno”, in latino signum, in greco semeion, da cui semiotica, è complessa, perché rimanda a termini forse nuovi per la maggioranza dei lettori. Segno è “qualcosa che sta per qualcos’altro”, secondo la definizione di Agostino d’Ippona, tra i più antichi studiosi di semiotica, vissuto tra il IV e il V secolo d.C. “Qualcosa”, cioè, che rimanda a un significato: parola, gesto, sguardo, ma anche simbolo e testo. Alcuni filosofi del linguaggio approfondiscono questa prima definizione tra il XIX secolo e i primi del Novecento, in particolare Ferdinand de Saussure e Charles Sanders Peirce. Senza addentrarsi nel loro contributo alla linguistica, può essere interessante menzionare, per quanto si è accennato sul dialogo tra le discipline, che entrambi avevano una formazione scientifica: de Saussure rinunciò agli studi di chimica e di fisica per dedicarsi interamente alla linguistica, mentre Peirce era un matematico, studioso di logica (branca della filosofia, non solo della matematica), oltre che di semiotica. Fu tra gli ideatori del pragmatismo (corrente filosofica contemporanea nata negli Stati Uniti). Ci si è riferiti a: Enciclopedia filosofica online dell’Università di Stanford (USA): (http://plato.stanford.edu/). 11 Come verrà definito nel paragrafo 2.3, la semantica è una branca della semiotica che studia il rapporto tra i segni e il loro significato. Variazione semantica di un termine vuol dire, quindi, evoluzione del senso che esso assume nel tempo. 12 Questa scelta è proposta dallo psicoanalista Franco Fornari, secondo il quale le due accezioni del termine comunicare – cum munus e cum moenia – coesistono. È un esempio del controverso valore semantico di un termine.
Fornari, F. (1977). Il Minotauro: psicanalisi dell’ideologia. Milano, Italia: Rizzoli. 13 Occorre contemplare anche la terza possibilità, non essere validi né come educatori, né come comunicatori: chissà che queste pagine non possano fornire qualche suggerimento anche in tale direzione. 14 Il seguente articolo è incentrato soprattutto sulla definizione di educazione, ma può fornire spunti a proposito dell’equilibrio tra educazione e seduzione: Cacciari, M., & Petrosino, S. (2009, gennaio-febbraio). Educare nella modernità: dialogo con Massimo Cacciari e Silvano Petrosino. Didascalie 1-2, 18-32. Il testo è consultabile online e per intero (http://www.vivoscuola.it/c/document_library/get_file?uuid=df453b18-8d164504-a123-fc4ecbfc8e99&groupId=10137). 15 Ho preso spunto dallo schema del “sistema generale di comunicazione” proposto dai matematici statunitensi Claude Elwood Shannon e Warren Weaver nel 1949 sulla base della loro teoria matematica della comunicazione. Lo studio era finalizzato a migliorare la velocità di trasmissione dei messaggi. Wolf, M. (1985). Teorie delle comunicazioni di massa. Milano, Italia: Bompiani, p. 113. Lo studio originale è: Shannon, C. E., & Weaver, W. (1949). The Mathematical Theory of Communications. Urbana, IL: University of Illinois Press. trad. it. Paolo Cappelli (1971). La teoria matematica delle comunicazioni. Milano, Italy: Etas Kom. Ho semplificato questo modello provando ad adattarlo ai cenni di teoria della comunicazione presentati in queste pagine. Oltre al modello di Shannon e Weaver ne sono stati proposti altri nel secolo scorso e ciascuno ha contribuito alla migliore definizione della comunicazione come trasmissione del messaggio. Non sono trattati in questa sede, per un approfondimento ulteriore si rimanda agli spunti utili al termine del capitolo. 16 Lo schema della Fig. 2.2., di solito, è commentato dai giovani ricercatori che partecipano alle attività “CRS” alla luce della propria esperienza. Nel testo sono proposte le osservazioni più rilevanti, come possibile spunto per i lettori. 17 L’asimmetria della comunicazione, tuttavia, non scompare, anche se si tratta di una comunicazione tra esperti, soprattutto se il contesto è ampio, come nei convegni promossi da più società scientifiche o quando si invia il lavoro a una rivista specializzata che si rivolge a studiosi di varie discipline.
18 I cenni di linguistica prendono spunto da: Akmajian, A., Demers, R. A., & Harnish, R. M. (1982). Linguistica – Introduzione al linguaggio e alla comunicazione. Bologna, Italia: Società editrice il Mulino. 19 Il termine alterità è spesso sconosciuto in ambito tecnico-scientifico. Ma anche in quello umanistico: si dedica attenzione allo studio dell’altro in questa direzione solo a partire dalla seconda metà del Novecento, con la nascita di una corrente filosofica nota come filosofia del dialogo o dell’incontro o dell’altro. Il rapporto tra alterità e comunicazione, in particolare il dialogo (tra le discipline e tra le culture) come spazio da abitare a partire dall’altro, è il mio ambito di studio, come si accennerà nel capitolo 5 (nota n. 60). Di solito nelle attività “CRS” propongo solo cenni sull’alterità. Per i lettori interessati, un primo riferimento è Kapuściński, R. (2007). L’altro. Milano, Italia: Feltrinelli. 20 Oltre alla filosofia del dialogo, anche la filosofia del linguaggio tratta temi legati all’alterità e al valore della parola (scritta, orale, non verbale) come atto nei confronti dell’altro. Tra i filosofi del linguaggio che si sono occupati di questi aspetti, in particolare, John Roger Searle, autore statunitense contemporaneo, e l’inglese John Langshaw Austin. Searle, J. R. (1965). What is a speech act? In: M. Black (Ed), Philosophy in America (p 221-39). London, UK: Allen & Unwin,. trad. it Pier Paolo Giglioli (1973). Che cos’è un atto linguistico? In: Linguaggio e società. Bologna, Italia: Il Mulino. 21 Il riferimento è a: Aristotele. Retorica e Poetica. In: M. Zanatta (Ed.), (2006). Torino, Italia: Utet. Si può trarre ispirazione da altri autori oltre che da Aristotele: del periodo classico, per esempio Platone (greco) e Cicerone (latino), di epoca successiva, come Agostino d’Ippona, del Medioevo e del Cinquecento (soprattutto la retorica se e tedesca). Anche con lo sviluppo dei mezzi di comunicazione nel Novecento, comunque, la riflessione su questo ambito continua a riferirsi alle origini greche, soprattutto ad Aristotele, e conserva un approccio umanistico più che scientifico. 22 Cerchiamo di comprendere questa frase all’apparenza criptica, alla quale si farà riferimento nelle pagine dedicate alla costruzione del testo scritto e orale. Nel linguaggio corrente i termini logica ed estetica sono di solito usati come aggettivi, a indicare, rispettivamente, qualcosa che attiene alla razionalità e alla bellezza. Sembrano parole che si escludono a vicenda, in antitesi tra loro.
Partiamo dall’etimologia per comprenderne il significato: logica deriva dal greco logiké, originato da logos, che vuol dire “discorso, ragione”. La logica indicava, nell’antica Grecia, “l’arte di ben ragionare”, che “insegna a dirigere la ragione in cerca della verità”. Ha mantenuto questo senso ancora oggi come disciplina filosofica ed è legata ad altri ambiti, come la grammatica, la retorica, ma anche la matematica e l’informatica. Estetica deriva dal greco aistêtikòs, che significa “sensibile, capace di sentire a partire dai sensi”, originato da aisthêsis, che vuol dire “sensazione, sentimento”. Dal XVIII secolo in poi questo termine viene utilizzato per definire la disciplina filosofica che studia il bello, nel senso di bellezza e di conoscenza sensibile, secondo il significato etimologico. Non si tratta, quindi, solo di aggettivi qualificativi, ma ambiti filosofici (legati anche ad altre discipline) che studiano campi diversi, non necessariamente in contrapposizione tra loro. 23 Strategia deriva dal greco stratègia, originato da stratêgòs, termine composto da stratòs (“l’esercito, l’accampamento”) ed êgos, dal verbo ago (“conduco, guido”), che significa “condottiero”, colui che guida un esercito. Il termine richiama alle decisioni riferite alle operazioni militari e mantiene il senso di “ragionamento lungimirante in vista del raggiungimento di un obiettivo” anche quando si usa in contesti diversi. 24 Sul modo in cui le immagini influenzano la percezione di quanto accade, formano le opinioni, inducono a contrastare le situazioni o a sostenerle si è interrogata Susan Sontag, scrittrice statunitense, a partire dall’analisi di alcune immagini dei conflitti più recenti: Sontag, S. (2006). Davanti al dolore degli altri. Milano, Italia: Mondadori. 25 Si sono già menzionati i filosofi del linguaggio John Langshaw Austin e John Roger Searle (nota n. 20). In questo caso ci si riferisce, in particolare a: Austin, J. L. (1975). How to do things with words. J. O. Urmson & M. Sbisà (Eds) 2nd ed., Cambridge, MA: Harvard University Press. trad. it Margherita Gentile & Marina Sbisà (1974), Quando dire è fare. Torino, Italia: Marietti. 26 Si farà riferimento alla responsabilità anche nei prossimi capitoli, vale quindi la pena definirne il significato etimologico. Il termine deriva dal latino respòndere (“rispondere”) e bilem, (che “accenna alla facoltà di operare”). La responsabilità è, quindi, la risposta di chi “è garante di qualcosa o per qualche persona”. Implica una promessa (spondère in latino significa “promettere”), cioè impegnarsi, sentire il peso di ciò a cui si è chiamati a rispondere, con
professionalità, umiltà e competenza.
Capitolo 3 – Costruzione del testo nella comunicazione scritta
3.1 Inventio Indipendentemente dall’ambito di studio, la fase sperimentale è dedicata a ottenere informazioni sul fenomeno osservato, capaci di dimostrare, avvalorare o confutare l’ipotesi iniziale. Sono i aggi del metodo scientifico, proposti da Galileo Galilei nella prima metà del XVII secolo27, che caratterizzano ancora oggi una ricerca sperimentale. Nell’inventio si “trovano” le cose da dire in base: – all’interlocutore – al tempo – allo spazio – alla chiarezza.
Soprattutto per chi si appresta a scrivere per la prima volta o ha intrapreso da poco la strada della ricerca scientifica, sarebbe utile pianificare il lavoro (l’esperimento, in laboratorio o in campo, lo studio delle fonti bibliografiche) con uno schema di testo in mente, come se dovesse già scrivere. Sarebbe inoltre opportuno progettare lo studio pensando anche alle possibili figure da inserire: grafici, tabelle e immagini.
3.2 Dispositio
Per mettere in ordine ciò che si è trovato si possono seguire due strade: a) ordine naturale b) ordine artificiale.
a) Come suggerisce il nome, questo ordine rispetta la cronologia della fase sperimentale: la scoperta segue all’osservazione del fenomeno. Per esempio Isaac Newton deduce l’esistenza della forza di gravità dopo aver visto cadere la mela. È un metodo descrittivo, che facilita la comprensione del lettore. La semplicità e la chiarezza della comunicazione sono vantaggi, ma si può correre il rischio di suscitare poco interesse in chi legge.
b) Il termine “artificiale” si riferisce al fatto che si sovvertono le regole rispetto al primo metodo e non si segue la cronologia: per tornare all’esempio precedente, si parte dalla forza di gravità, per arrivare a Newton e alla mela che cade. È un ordine interpretativo più che descrittivo, non noioso, ma, per questo, forse di non immediata comprensione. Quale ordine dovrebbe seguire lo scienziato? Difficile rispondere se l’ordine naturale sia più indicato di quello artificiale. Più spesso si ricorre a entrambi, al variare del tipo di comunicazione e di interlocutori a cui ci si rivolge. Il primo è più adatto per chi sta imparando e per assicurare una comunicazione chiara. Il secondo permette di personalizzare il proprio stile, ma occorre avere esperienza nella scrittura.
3.2.1 I quattro momenti della dispositio
Come anticipato nel capitolo precedente, la dispositio è la fase che richiede maggiore attenzione nella costruzione del testo. La analizzeremo nel dettaglio, rifacendoci alla Retorica aristotelica. Mettere in ordine il testo, nella comunicazione scritta, comporta quattro momenti: 1. esordio (anche noto come incipit, attacco o lead, in inglese) 2. narratio (letteralmente “descrivo ciò che dico”) 3. confirmatio (“dimostro” quanto ho descritto, trovato, osservato) 4. epilogo (conclusioni).
Si possono comprendere meglio questi quattro momenti a partire dalla costruzione del testo in una notizia su un quotidiano e poi cercando di confrontarli con quanto avviene nella comunicazione della ricerca scientifica. Nella notizia divulgativa l’esordio dovrebbe contenere le informazioni essenziali per comprendere quanto è accaduto. In termini giornalistici si dice che nell’attacco si trovano le risposte alle cosiddette “5 w” della notizia: cosa, chi, dove, quando e perché (in inglese: what, who, where, when, why). Quindi dovrebbe essere sufficiente leggere le prime righe del testo per apprendere ciò che è successo. Anche in un lavoro per addetti ai lavori la dispositio segue i quattro momenti, ma, a differenza dell’informazione – rapida e frammentaria – la ricerca scientifica è una forma di comunicazione dialettica e riflessiva e ha bisogno di più spazio e tempo per essere compresa. La notizia è breve, un lavoro scientifico non può esserlo. Confrontiamo ora le quattro fasi nella notizia divulgativa e in un lavoro
scientifico.
Esordio Nella notizia l’attacco, oltre a contenere le risposte alle “5 w”, è accattivante, per invogliare il lettore (generico, quindi non esperto) e incoraggiarlo ad arrivare in fondo. In un lavoro scientifico (poster, articolo, tesi) l’attacco potrebbe corrispondere all’abstract e all’introduzione.
Abstract: soprattutto in un articolo scientifico, dovrebbe seguire le stesse regole della notizia: breve, chiaro e accattivante. È la parte che si legge per prima e sulla base di questa, spesso, si decide se proseguire nella lettura.
Introduzione: oltre all’abstract, anche l’introduzione fa parte dell’esordio del testo. Offre una panoramica generale dell’argomento che si intende trattare ed è necessaria per fornire al lettore (esperto, quindi competente) le basi da cui partire. Anche se quasi mai si inizia a leggere un lavoro scientifico dall’introduzione, sarebbe consigliabile che fosse originale, oltre che chiara e dettagliata. Il lettore, infatti, dovrebbe essere motivato alla lettura, ma, dal momento che il numero di articoli da consultare è grande e il tempo è poco, è preferibile favorire il più possibile l’interlocutore. Da tenere presente, inoltre, che nell’introduzione si presenta lo scopo del lavoro: cosa si è studiato e perché (what, why, per continuare l’analogia con la notizia e le “5 w”).
Narratio Se in una notizia lo spazio è ristretto, narratio e confirmatio possono anche stare insieme: descrivo ciò che ho visto, ascoltato, trovato e lo spiego.
Non è così nel lavoro scientifico: la narratio è distinta dalla confirmatio e potrebbe corrispondere28 ai materiali e metodi e ai risultati.
Materiali e metodi: quali strumenti ho utilizzato, come funzionano e perché li ho scelti (what, when, where).
Risultati: dati ottenuti a partire dai materiali e dai metodi utilizzati (who e what).
Confirmatio Nel lavoro scientifico la confirmatio equivale all’analisi dei risultati, la discussione (why, who, what).
Epilogo In genere si termina la notizia riprendendo i contenuti e lo stile dell’attacco. Le conclusioni, quindi, dovrebbero essere accattivanti come l’esordio. Anche nel lavoro scientifico si riprende l’introduzione, in particolare gli scopi del lavoro, sostanziati dai risultati e dalla discussione, per prospettare applicazioni e ricerche future. L’epilogo nel lavoro scientifico corrisponde alle conclusioni e ai ringraziamenti. Se la dispositio funziona, al termine della lettura di un lavoro scientifico, personale o altrui, si dovrebbe essere in grado di rispondere a queste domande: – perché gli autori hanno realizzato questa ricerca? (introduzione e ringraziamenti) – cosa hanno fatto? (materiali e metodi) – cosa hanno trovato? (risultati e discussione)
– cosa comporta questo studio? (discussione e conclusioni).
3.3 Elocutio
Scrivere un lavoro scientifico non è come scrivere un articolo divulgativo: ci si rivolge a esperti, quindi è noto il recettore del messaggio e, non ci sono, in generale, stretti limiti di tempo e di spazio. Per gli articoli e per i poster vengono inoltre fornite regole per gli autori dettagliate. Occorrono molto studio, pratica e talento per poter scrivere bene, sia in italiano, sia in inglese, la lingua ufficiale dei lavori scientifici. Un primo o è prestare massima attenzione alle regole grammaticali, indispensabili da conoscere. Gli errori sintattici sono gravi come quelli concettuali e sperimentali (competenza sintattica). Di seguito sono riportati alcuni suggerimenti per la stesura dei lavori scientifici nella lingua italiana29 e in quella inglese30.
3.3.1 Suggerimenti per la scrittura in lingua italiana: cenni – Verbi e nomi comunicano più degli aggettivi e degli avverbi, che sarebbe consigliabile minimizzare – prediligere frasi brevi, evitare periodi contorti e, se possibile, le subordinate relative che appesantiscono il discorso. Cercare di spezzare le frasi in modo che siano composte da soggetto, predicato e complemento oggetto – evitare, inoltre, espressioni superflue (per esempio: in parole povere, in qualche modo, tutto ciò) ed evitare di ripetere concetti già espressi in altre sezioni – utilizzare esempi per spiegare un concetto difficile – preferire lessico e sintassi semplice – contrariamente alla lingua inglese, l’uso della prima persona plurale è sconsigliato: appesantisce ed enfatizza il testo. Sarebbe preferibile la forma impersonale – evitare la doppia negazione – evitare, se possibile, la forma iva – se indispensabile ricorrere ai termini inglesi (es: follow-up, drop-out), usarli al singolare – evitare acronimi non spiegati. La prima volta che si cita un termine da abbreviare, scriverlo prima per esteso seguito dall’acronimo tra parentesi. Ricorrere agli acronimi solo se necessario (quando il termine riportato molte volte o è di uso generale), altrimenti scrivere le parole per esteso. Inoltre, molte abbreviazioni sono maiuscole: ATP, non Atp; USA, non Usa; HIV, non Hiv, DNA non Dna. Ma non tutte: pH, non PH; p53, non P53, per esempio.
3.3.2 Suggerimenti per la scrittura in lingua inglese: cenni
Un suggerimento dettato da anni di didattica a giovani ricercatori italiani riguarda la necessità di conoscere molto bene la lingua inglese scritta e parlata. Non si può pensare di occuparsi di ricerca scientifica senza padroneggiare questa lingua, né di impararla da autodidatti. Occorre liberarsi dall’opinione diffusa che sottovaluta la complessità dell’inglese tecnico-scientifico, assimilandolo a un insieme di vocaboli che si acquisiscono a partire dallo studio della bibliografia legata al proprio ambito di ricerca. La professionalità in questo campo a anche dalla perfetta conoscenza della grammatica e della pronuncia inglese. – Come per l’italiano, evitare l’uso di verbi in forma iva che appesantiscono il testo – utilizzare la prima persona plurale piuttosto della forma impersonale ed evitare la prima persona singolare – evitare, se possibile, l’espressione and/or; è preferibile ricorrere a due frasi separate, prestando attenzione a non appesantire il periodo – il plurale dei termini di origine latina che sono stati inglesizzati resta in inglese (per es: formulas invece di formulae) – le riviste scientifiche utilizzano lo spelling statunitense o inglese (britannico o internazionale) (Tab.3.1).
Tabella 3.1: Differenze ortografiche principali tra lo spelling statunitense e quello inglese.
Statunitense center favor catalog fertilizer program labeled occured gauge acknowledgment plow chair human
Inglese centre favour catalogue fertiliser programme labelled occurred gage acknowledgement plough chairman man
Le frasi snelle portano a un testo scorrevole, che facilita la comprensione e può invogliare alla lettura (Tab. 3.2).
Tabella 3.2: Alcuni esempi di espressioni inglesi che facilitano la lettura di un testo.
Invece di.. appears to be in the absence of higher in comparison to was found to be in the event that small number of was variable additional approximately at the present time establish operate prior to identify
usare seems without more than was if few varied added, more, other about now set up, prove, show run, work before find, name, show
3.4 Esempi di costruzione del testo scritto
L’elocutio è caratterizzata da due momenti: ideazione e realizzazione del testo. Sono fasi distinte, che analizzeremo separatamente a partire da alcuni esempi di testo scritto pensati per i maggiori fruitori di questo manuale, giovani ricercatori alle prese con le prime prove di scrittura. Si sono scelti esempi coi quali si misurano o si dovranno misurare presto: il poster, l’abstract, la tesi di dottorato e il quaderno di laboratorio. I primi tre sono presentati insieme, perché caratterizzati da regole comuni; al quaderno di laboratorio è dedicato un paragrafo separato.
3.4.1 Poster, abstract e tesi di dottorato
Che si tratti di un poster, di un abstract o della tesi di dottorato non fa differenza, sono lavori scientifici che perseguono obiettivi simili: – suscitare interesse – far conoscere alla comunità scientifica gli autori della ricerca – favorire il confronto, stimolare domande, in una parola: attirare l’attenzione.
Prima di iniziare a scrivere, quindi, sarebbe utile porsi le seguenti domande: “Per chi e perché si sta comunicando? Si ha veramente qualcosa da dire?” (competenza pragmatica).
3.4.1.1 Ideazione del testo: la griglia
La fase di ideazione consiste nel progettare la struttura del testo, come si è accennato nel capitolo precedente, a proposito degli strumenti della comunicazione. Si tratta, in particolare, di ideare una scaletta per individuare le sezioni, o capitoli. Come forse ci è stato insegnato fin dalle scuole elementari, gli elementi che compongono il testo si possono paragonare alle parti del corpo umano, tutte necessarie e proporzionate tra loro: testa (introduzione), torace e gambe (corpo del testo) e piedi (conclusioni). Un altro esempio per aiutare a immaginare questa fase potrebbe essere la planimetria dell’appartamento che si sta per costruire: si decidono il numero e la posizione delle stanze, ma anche la collocazione delle porte, delle finestre e delle prese elettriche, per esempio. La scaletta richiede tempo e non si improvvisa. Si costruisce disegnando una griglia con righe e colonne, se possibile a mano e a matita, in modo da poter correggere fino ad arrivare al maggior dettaglio possibile. Nelle colonne si indicano i capitoli e nelle righe i paragrafi di ogni capitolo. Si compilano righe e colonne in contemporanea, muovendosi lungo la griglia all’interno degli spazi derivati dall’incrocio tra righe e colonne. Per ciascun capitolo si individuano: paragrafi (prima riga), sottoparagrafi (seconda riga) e livelli ulteriori e si indicano i possibili titoli, anche se subiranno modifiche durante la stesura. La gerarchia dei titoli aiuta a organizzare l’indice in modo sistematico: il titolo del capitolo avrà un corpo maggiore di quello dei paragrafi, che, a loro volta, avranno titoli di dimensioni maggiori di quelli dei sottoparagrafi e infine del testo, generalmente, di corpo 12. Oltre ai titoli è utile indicare anche i possibili schemi, grafici, tabelle e prevedere le eventuali immagini che accompagneranno ogni capitolo e gli eventuali paragrafi. E aver pensato già durante l’inventio alle figure da inserire, come si accennava nelle prime pagine del capitolo, potrà tornare utile in questa fase. Il risultato, a griglia conclusa, è l’indice del testo, che si costruisce all’inizio, non
alla fine della stesura. La griglia può essere di utilità anche per bilanciare i capitoli tra loro, in modo da evitare sezioni con numerosi paragrafi e altre scarne, oppure un testo eccessivamente frammentato o pagine troppo lunghe. Il lavoro scientifico non è un’opera letteraria, predilige la sintesi, con frasi concise e chiare.
3.4.1.2 Ideazione del testo: le sezioni
Nel poster, come nella tesi, le sezioni sono spesso standard, ma le combinazioni variano in base allo spazio e all’ambito di studio31 (Tab. 3.3).
Tabella 3.3: Tre esempi di sezioni di un testo: a), b) e c). a) standard:
Author Title Affiliation Objectives Methods Results Conclusions Funding Source
b) Un lavoro scientifico di tipo clinico che ha coinvolto pazienti:
Context Objective Design Settings Participants Subjects, Intervention Main Outcome Measures Results Discussion Conclusions Funding Source
c) Un lavoro di progettazione, nel quale si ipotizza di effettuare uno studio:
Author Title Affiliation Objective Data Sources Study Setting Design Settings Data Collection Principal Findings Conclusions Funding Source
Dopo aver individuato le sezioni da inserire nel testo, occorre stabilire lo spazio da dedicare a ognuna di esse e cosa scrivere in ciascuna. Per rifarsi all’esempio della planimetria dell’appartamento, in questa fase si definiscono i dettagli di ogni stanza: quali e quanti mobili inserire, ma anche i colori delle pareti, il numero dei punti luce, il tipo di gli infissi, per esempio.
Titolo, autori e affiliazione Si tratta degli elementi principali del poster32, collocati generalmente in alto e ben visibili. Il titolo dovrà essere esplicito, chiaro e, se possibile, accattivante, ma non a discapito della comprensione. Il primo autore, nell’abstract e nel poster, di solito, è la persona che ha contribuito di più alla ricerca e alla stesura del lavoro e si occupa di ciò che è legato al testo: revisione delle bozze, contatti con la rivista o con il comitato organizzativo del convegno. Gli altri autori sono, in genere, posti in ordine alfabetico. L’affiliazione può anche essere riportata in basso in un poster, se lo spazio in alto è limitato.
Abstract È una breve descrizione degli aspetti salienti della ricerca. Spesso l’abstract è superfluo per il poster, ma è necessario sottoporlo alla commissione per l’approvazione, secondo le modalità e nei tempi dettati dagli organizzatori del convegno, che ne specificano anche i requisiti. L’abstract, infatti, e non il poster, sarà incluso negli atti del convegno, quindi dovrà contenere le informazioni essenziali che si desidera rimangano agli atti.
Scopo del lavoro (in inglese: aims, purpose, hypothesis, research question/s, objective/s) Esprime in modo chiaro e conciso la ragione che ha portato a condurre lo studio.
Spesso è incluso nell’abstract e nell’introduzione della tesi.
Introduzione (in inglese: background, context, introduction) È una panoramica generale dell’argomento che si intende trattare, necessaria per fornire al lettore le basi da cui partire. Si tratta di una sezione descrittiva e dettagliata, ma solo se utile a rendere più chiaro lo studio.
Materiali e metodi (in inglese: methods, descriptive issues) Sezione dedicata ai dettagli strumentali, tecnici, tecnologici e analitici della ricerca: quali apparecchiature ho utilizzato, come funzionano e perché le ho scelte. Ma anche quali protocolli, reagenti, campioni. Dovrebbe fornire le seguenti informazioni: – dettagli sui dati raccolti (data collection) – analisi statistiche e strumenti utilizzati per determinarle (data analysis) – come è stato disegnato e organizzato lo studio (design e study design) – informazioni relative alle misure (measures) – indicazioni relative ai partecipanti allo studio (participants/subjects) – dove è stata condotta la ricerca (settings o study sites).
Risultati (in inglese: results, findings, main outcome/s, principal findings)33. Riporta i dati ottenuti dallo studio in oggetto sui parametri descritti nei “Materiali e metodi”, senza entrare nel merito dell’analisi di tali risultati34.
Discussione (in inglese: discussion, analysis of results)
È la sezione chiave del lavoro scientifico. L’analisi dei risultati dovrà tendere, se possibile, a sottolineare la novità e la bontà – nonché i limiti – della ricerca condotta, in modo dettagliato e chiaro. Nella discussione si sottolineano le evidenze principali che hanno reso utile questa ricerca e ne giustificano la diffusione attraverso il lavoro che si intende pubblicare. Quindi cosa si è trovato di nuovo rispetto al ato. Se presenti, inoltre, si evidenziano le implicazioni e la rilevanza dei risultati in ambito scientifico. Nel poster può accadere che per ragioni di spazio i risultati e la discussione siano accorpati, utilizzando figure (immagini, grafici e tabelle) per indicare i risultati e il testo e le didascalie per la loro analisi. L’importante è che sia chiara la logica alla base di questa distinzione per essere sicuri di quanto si indicherà in ciascuna sezione.
Conclusioni (può includere la sezione future research questions) Si riprendono gli scopi del lavoro, sostanziati dai risultati e dalla discussione, per prospettare ulteriori applicazioni e ricerche future35.
Ringraziamenti (in inglese: funding organization, agency, source) La sezione dei ringraziamenti è in genere posta in basso a destra nel poster. Riporta i nomi degli enti che hanno ato lo studio e che è consigliabile menzionare. In questa sezione è opportuno citare anche persone che hanno collaborato nella ricerca: aiuti in laboratorio, prestiti di letteratura o di attrezzatura, assistenza nella preparazione di tabelle e di immagini, revisione critica del testo.
3.4.1.3 Realizzazione del lavoro scientifico
Dopo la fase di ideazione, si è pronti per iniziare a scrivere36. Da quale sezione? Non c’è una regola fissa: che si tratti di una tesi o di un poster si può iniziare dai materiali e metodi, per ricostruire dettagliatamente cosa si è fatto, proseguire con i risultati e la discussione e, solo al termine, affrontare l’introduzione e le conclusioni. Soprattutto nella tesi, invece, è preferibile cominciare dall’introduzione e dallo scopo del lavoro per poi trattare le sezioni successive: materiali, risultati, discussione e conclusione. La pagina bianca sgomenta, spesso, e si è tentati di rimandare e lasciare che arrivi l’ispirazione. La scrittura è un’attività faticosa, che richiede disciplina e volontà, come lo studio. È questione di pratica e di tecnica, più che d’ispirazione. Potrebbe essere utile darsi dei tempi, scadenze che costringono a concentrarsi e a lavorare. Di seguito vengono proposti i contenuti e le caratteristiche delle principali sezioni: abstract, introduzione, materiali e metodi, risultati, conclusioni e bibliografia.
Titolo Chiaro, sintetico e accattivante, per descrivere esattamente il contenuto del lavoro. Evitare espressioni generiche e confondenti (per esempio: “effetti del…”, “influenza del… rispetto a…”, “studio di…”). Evitare, se non necessari, i titoli con i due punti, che possono appesantire lo stile e, se possibile, acronimi e abbreviazioni. La lunghezza massima, in genere, è di 1-2 righe, quindi non più di 10 parole.
Abstract Dovrebbe contenere le informazioni di cui l’utente ha bisogno senza che legga il lavoro scientifico. Evidenziare perché lo studio è importante; descrivere gli obiettivi, cercando di rispondere alla domanda: “Cosa aggiunge questa ricerca a ciò che già c’è”; citare brevemente i metodi utilizzati, accertandosi che non sia ridondante e, quindi, inutile; trattare in modo conciso ma chiaro i risultati, le conclusioni e le prospettive future. Dovrebbero essere sufficienti queste informazioni per interessare il lettore, attirarlo o dissuaderlo. È opportuno evitare espressioni generiche come: “Si descriveranno…, si prenderanno in esame…”. L’abstract può includere anche le parole chiave, un elenco in ordine alfabetico di 5-10 termini relativi al contenuto del lavoro scientifico. Sono utilizzate per classificare il lavoro nei database bibliografici e facilitare la consultazione online sui motori di ricerca italiani e internazionali. Per questo le parole chiave saranno in inglese, anche se il lavoro è scritto in italiano. Se non è indicato nelle regole per gli autori, di solito, la lunghezza massima dell’abstract dovrebbe essere di 100 parole nel poster, di 200 in un abstract in un articolo.
Introduzione Focalizzare l’attenzione sullo studio: cosa è stato fatto finora e cosa si sta per proporre; vanno quindi evidenziati lo scopo del lavoro e gli obiettivi. È opportuno trattare solo ciò che attiene allo studio descritto, enfatizzando le novità della ricerca e dei dati trovati, se presenti. Sarebbe utile non mescolare le informazioni con le opinioni personali o le considerazioni speculative ed evitare di citare tutti i lavori riportati nella bibliografia per avvalorare le affermazioni: è sufficiente menzionare quelli più importanti (per esempio, nel poster 5-6 al massimo). Occorre descrivere un fenomeno una volta sola ed evitare le ripetizioni: non è necessario ribadire quanto si è detto nell’abstract e riportare parte dell’introduzione nella discussione. Il poster, ma anche la tesi, si prestano a inserire una o due immagini a colori; se
possibile, quindi, utilizzarle. Riportare le informazioni dettagliate nelle didascalie delle immagini e delle tabelle, dato che spesso il lettore consulta le didascalie prima di controllare il testo. La lunghezza massima dell’introduzione nel poster è di circa 200 parole. A meno di regole definite dall’ateneo, non ci sono limiti di lunghezza per questo capitolo e per i successivi della tesi. Ma la capacità di sintesi è sempre apprezzata.
Materiali e metodi Descrivere i metodi, le procedure e la strumentazione, indicando tra parentesi il nome e l’indirizzo del fabbricante, se possibile. Fornire indicazioni dettagliate, che possano permettere di riprodurre gli stessi esperimenti: riferimenti bibliografici dei metodi noti, brevi descrizioni delle nuove procedure o di quelle modificate, indicando i limiti e i motivi dell’utilizzazione, informazioni dei farmaci e delle sostanze chimiche impiegate, compresi i principi attivi, le dosi e le vie di somministrazione. Vanno inoltre descritti con cura i metodi statistici utilizzati, in modo che possano essere riprodotti. Se nello studio si sono impiegati microrganismi, vanno caratterizzati e va specificato come sono stati ottenuti. Nel caso di ricerche su piante e animali, va indicato chi li ha identificati; per lavori che si riferiscono a vertebrati, va certificato che siano state soddisfatte le norme vigenti e che siano stati ottenuti i relativi permessi. Se necessario, soprattutto nel poster, utilizzare schemi e immagini che aiutino la comprensione del lettore. In questa sezione, in genere, si utilizza il ato: “Si è misurato, impiegato, ecc.”. La lunghezza massima è di circa 200 parole nel poster.
Risultati
È preferibile citare subito il dato che dimostra l’efficacia della ricerca (se gli esperimenti hanno funzionato o no), poi descrivere gli aspetti qualitativi e quantitativi dei risultati ottenuti (cosa è accaduto e in che modo). In genere si riportano solo le medie delle ripetizioni di un esperimento e i dati statisticamente significativi. Se necessario, però, i risultati delle ripetizioni possono essere presentati in un’appendice alla fine del lavoro scientifico. Per le unità di peso e di misura si utilizza il Sistema Internazionale. La sezione dei risultati nel poster è in genere la più lunga che supera le 200 parole, escluse le didascalie delle figure.
Come presentare graficamente i dati: le figure Le figure includono le tabelle, i grafici, le immagini, gli schemi ricapitolativi. In un lavoro tecnico-scientifico è preferibile utilizzarle per avvalorare i dati, ma con equilibrio: troppe immagini e didascalie potrebbero annoiare il lettore. In genere si usano: il testo per presentare dati poco numerosi, le tabelle per quelli precisi e ripetitivi, le figure per i risultati che mostrano tendenze o rappresentano modelli di interesse. Assicurarsi che tutte le figure siano citate nel testo. Le tabelle si numerano consecutivamente nell’ordine in cui appaiono nel testo e a ognuna si assegna un titolo breve. In ogni colonna appare una breve intestazione o un’abbreviazione. Le spiegazioni necessarie devono essere incluse in note in calce alla tabella stessa e non nelle intestazioni. Nelle note, inoltre, si inserisce la definizione delle abbreviazioni. Indicare le misure statistiche (come la deviazione standard). Inoltre: – evitare di lasciare spazi in bianco nel corpo della tabella, potrebbe significare che non ci sono i dati o che non sono disponibili. Riempire gli spazi con i simboli: nd (dati non disponibili), + (presente), – (assente) – non ripetere le unità di misura nel corpo della tabella
– se la somma delle percentuali è 100, assicurarsi che questo valore sia realmente raggiunto – utilizzare lo stesso grado di precisione per tutti i dati – i numeri decimali vanno indicati con lo zero che precede la virgola (o il punto nel testo in lingua inglese).
Le immagini sono necessarie per presentare aggi, meccanismi, strumenti che sarebbe difficile descrivere a parole. Ognuna va accompagnata dalla legenda, che riporta e spiega i simboli, i numeri e le lettere rappresentati. Va inoltre specificata la scala utilizzata in ogni illustrazione.
Conclusioni Spesso il lettore consulta questa sezione prima dell’introduzione, aspettandosi di trovare lo scopo del lavoro suffragato dai risultati ottenuti. Saranno questi, se possibile, a convincerlo della bontà della ricerca, della novità dello studio e della rilevanza per la comunità scientifica. Prospettare studi futuri, quindi, diventa più credibile, come aver discusso criticamente i risultati ed evidenziato gli eventuali limiti. Può essere utile un grafico o una tabella ricapitolativi dei risultati ottenuti.
Bibliografia Come anticipato nel capitolo precedente, la credibilità e l’appropriatezza delle fonti bibliografiche sono principi della comunicazione, è necessario, perciò, che l’attenzione per completare questa sezione sia massima. Citare solo la bibliografia che si conosce, quindi quella che si è letta a fondo: contrariamente a quanto si creda, infatti, non è necessario privilegiare la quantità delle fonti. Nel poster, per esempio, 10 citazioni potrebbero essere sufficienti. Le voci bibliografiche si numerano consecutivamente nell’ordine in cui appaiono nel testo. Sarebbe utile inserirle già durante la stesura, mano a mano, piuttosto che alla fine del lavoro. Controllare scrupolosamente date, titoli, nomi degli
autori e abbreviazioni secondo quanto riportato nelle regole suggerite per gli autori. Inoltre: – evitare l’uso di abstract e di comunicazioni personali come fonti – i riferimenti a lavori in corso di pubblicazione vanno indicati con la dicitura: “in stampa o in corso di pubblicazione” e gli autori dovranno richiedere l’autorizzazione per citare questi lavori – nel caso in cui sia necessario citare siti, indicare con esattezza l’indirizzo del sito e la data dell’ultimo aggiornamento, dal momento che spesso essi subiscono variazioni e quella pagina potrebbe non essere più attiva nel tempo – alcuni articoli presentano un codice DOI (Digital Object Identifier). Significa che è possibile identificare il testo in formato elettronico a partire da questa serie di numeri e lettere. Il codice DOI è riportato nella prima pagina del lavoro scientifico, cartaceo e online, accanto alle indicazioni sui diritti d’autore. È sempre più diffuso tra le pubblicazioni che seguono l’APA style®37.
Ringraziamenti Non occorre dilungarsi eccessivamente nei ringraziamenti. In un poster la lunghezza massima è di circa 40 parole. Nella tesi, inoltre, si possono inserire anche dediche e manifestazioni di amicizia e di incoraggiamento ricevuti durante la stesura del lavoro.
Altre informazioni Questa sezione appare in genere nel poster, che ha limiti di spazio. Si utilizza per fornire, in modo conciso, ulteriori informazioni per contattare gli autori: – indirizzo e-mail o contatto Skype degli autori o generici del gruppo di ricerca; – eventuale indirizzo del sito web o del social network (di laboratorio o di
dipartimento), se presente; – eventuale indirizzo del sito al quale collegarsi per scaricare la versione pdf del poster.
La lunghezza massima è di circa 20 parole.
3.4.1.4 Suggerimenti per la scrittura
Inizialmente prevedere un file per ogni capitolo, anche per la bibliografia, e al termine della stesura accorpare il testo in un unico file. Conservare copia del materiale su altri i oltre al proprio hardware (pendrive, cd, dvd). I sistemi di archiviazione del materiale sono vari e validi, purché non siano gli unici utilizzati: si può inviare il materiale come allegato al proprio indirizzo e-mail, preferibilmente webmail, in modo che possa essere consultabile anche all’esterno del luogo di lavoro. Anche il software Dropbox è un ulteriore sistema di archiviazione, che permette di sincronizzare i file in modo automatico tramite il web. Conservare i file originali dei capitoli, con le note, gli appunti e i commenti e lavorare su una versione unica che si modifica di volta in volta. Non conservare le versioni successive che rischiano di avere lo stesso nome, con numerazioni progressive che confondono. Inoltre: – stesso carattere e stessa dimensione in tutto il testo – non eccedere nell’uso di grassetto, corsivo e sottolineato – lasciare uno spazio dopo il segno di punteggiatura, non prima, e prevedere una rilettura a fine stesura per eliminare doppi e tripli spazi – numerare le pagine – attivare il correttore grammaticale, ma prevedere a fine stesura la rilettura per accertarsi che non ci siano errori di sintassi e di battitura – prima di sottoporre il testo al docente e ai colleghi, rileggerlo più volte: una sola e generale non basta. Sarebbe utile, in particolare, dedicare tempo e attenzione a rivedere il testo a vari livelli: 1. il contenuto: esattezza delle informazioni riportate, chiarezza espositiva,
aggi logici tra un periodo e il successivo 2. sintassi e punteggiatura: errori grammaticali, spazi, parentesi, simboli, numerazione pagine 3. bibliografia: corrispondenza tra le citazioni nel testo e gli articoli rirportati, esattezza nella stesura della bibliografia seguendo le regole per gli autori.
3.4.1.5 Suggerimenti per la grafica del poster
Le misure del poster sono spesso standard (70cm x 100cm) e vengono indicate sulle regole per gli autori. La dimensione del carattere per titoli, sottotitoli e testo dovrebbe consentire la lettura da circa 1,5-2 metri e anche la dimensione dei grafici e delle figure dovrebbe permettere la lettura a questa distanza; 20cm x 15cm potrebbe essere una misura corretta. Le dimensioni del titolo potrebbero essere 90-100; dei sottotitoli 38-40; del testo 26-30. È preferibile che i grafici siano bidimensionali; quelli in tre dimensioni risultano spesso poco chiari e leggibili. Nel titolo, come nei titoletti interni al testo, sarebbe meglio usare come stili Helvetica o Arial (in termine tecnico font non graziate); nel testo, Palatino o Times New Roman (font graziate). Evitare, se possibile, titoli tutti in maiuscolo o solo la prima lettera di ogni parola maiuscola. Il grassetto, poi, è sufficiente per differenziare ed enfatizzare titoli e parole; evitare, se possibile, lo stile sottolineato, al suo posto, se necessario per differenziare ulteriormente, utilizzare il corsivo. Usare colori definiti e contrastanti, ma con equilibrio (vedere paragrafo 4.3.3.2 per l’uso dei colori e il contrasto cromatico tra testo e sfondo).
3.4.2 Il quaderno di laboratorio
La compilazione del quaderno di laboratorio è un esempio di costruzione del testo scritto diverso da quelli esposti in queste pagine. È un diario di bordo che si aggiorna quotidianamente, si scrive a più mani, contiene informazioni dettagliate, concise e chiare per consentire di ricostruire ogni aggio di un esperimento e favorirne, quindi, la riproducibilità anche a distanza di tempo. Dovrebbe permettere di comprendere la logica e le motivazioni che hanno portato a intraprendere quella ricerca. Come i testi analizzati finora, si rivolge ad addetti ai lavori e risponde alle “5w”. Dovrebbe, quindi, essere un modello di comunicazione tesa a farsi capire e a condividere i aggi alla base dello studio. Sul web ci sono vari siti – soprattutto statunitensi38 – dedicati alla corretta gestione del quaderno di laboratorio. Prendendo spunto da queste informazioni possono essere utili alcune considerazioni: il quaderno di laboratorio costituisce la parte cartacea di una grande quantità di dati memorizzati in formato elettronico sui software delle apparecchiature che regolano la strumentazione di laboratorio. Sempre più spesso, infatti, gli esperimenti richiedono strumenti che svolgono un ruolo essenziale nell’acquisizione, nell’archiviazione e nel trattamento dei dati. Il quaderno, quindi, diventa lo strumento per mettere in ordine39 (nel senso di collocare, dispositio) i dati raccolti. Contiene gli obiettivi, la strategia, i mezzi, i metodi che hanno portato a eseguire un esperimento e a effettuare la ricerca. Rimanda ai dati presenti in altri formati e su software diversi, ma è il punto di partenza, di raccolta e di arrivo delle informazioni. Non si può pensare di farne a meno, di compilarlo a fine esperimento o a fine settimana. Né di affidarsi alla memoria per risalire ai aggi seguiti. Va tenuto presente, poi, che non è il diario personale di chi frequenta il laboratorio, con opinioni, speculazioni e grafica propria; è uno strumento a disposizione di chi intenda utilizzare quella procedura nei giorni o nei mesi seguenti per descriverla in un lavoro scientifico o per replicarla.
Di seguito alcune informazioni sulla compilazione del quaderno di laboratorio: – sarebbe utile un quaderno tradizionale, a quadretti, possibilmente a fogli uniti, più resistenti di quelli con i buchi, di formato A4 (nel caso in cui serva di fotocopiarne alcune parti) – scrivere in modo leggibile per tutti, i destinatari del quaderno non siamo noi – indicare nome, cognome di chi lo compila e numerarlo, per facilitarne il riconoscimento – numerare, poi, le pagine – all’inizio del quaderno prevedere l’indice, per facilitarne la consultazione, pagine di legenda per le abbreviazioni, i reagenti, i riferimenti a procedure standard e per i termini speciali – quando si comincia un esperimento riportare data, ora, nome di chi lo esegue, titolo e descrivere brevemente gli obiettivi, le motivazioni e la strategia che si intende seguire. Utilizzare frasi concise ed elenchi puntati, se necessari – se richiesto per il tipo di ricerca effettuata, tracciare uno schizzo a mano di cosa si sta studiando e in che modo si intende procedere – indicare data e ora di ogni annotazione – appuntare i materiali che si utilizzano: il numero di matricola degli strumenti, la marca e le caratteristiche dei reagenti (specialmente dei reagenti tossici), per poter risalire ai singoli aggi che possono aver determinato un malfunzionamento o un errore – non sottovalutare i dettagli, anche quelli che sembrano inutili: per esempio, il tipo di rotore della centrifuga, la temperatura alla quale si è effettuato l’esperimento, il tipo di acqua impiegata nella preparazione dei reagenti (deionizzata, sterile, distillata, ecc.) – indicare i cambiamenti apportati al protocollo sperimentale seguito e le ragioni – riportare le misure a penna, non a matita. Evitare penne cancellabili, usare
quelle a inchiostro, se possibile di colore nero, più leggibile del blu, evitando altri colori – evitare l’uso del bianchetto, non sovrascrivere in caso di errore, cancellare in modo che sia ancora leggibile, perché anche una misura errata può fornire indicazioni utili – evitare di prendere appunti su foglietti che vanno poi ricopiati sul quaderno: è un aggio che richiede tempo e aumenta la probabilità di commettere errori di trascrizione. È preferibile annotare tutte le misure direttamente sul quaderno, senza eliminare quelle che sembrano inutili o errate. I valori delle misure vanno riportati direttamente, senza elaborazioni (cambiamenti di scala, sottrazioni di tara, ecc.) durante l’esperimento, avendo cura di controllare la corrispondenza tra il valore riportato sullo strumento e quello scritto – incollare sul quaderno i dati stampati da altre apparecchiature, i grafici (con le unità di misura), le immagini, con sufficiente spazio per inserire la didascalia – se necessaria una tabella ricapitolativa, inserire colonne aggiuntive per le note o eventuali dati ulteriori – compilare il quaderno in ordine cronologico, anche se l’esperimento non è concluso e si sovrappongono altri lavori nello stesso giorno. Evitare di lasciare spazi e fogli bianchi tra una pagina e l’altra – al termine della stesura, rileggere, correggendo eventuali errori sintattici e di contenuto – prendere nota dei possibili suggerimenti dei colleghi emersi durante i lab meeting – a esperimento concluso e quando la ricerca è terminata, salvare e archiviare tutti i dati, cercando di conservare solo le informazioni essenziali, se possibile su cd, per alleggerire lo spazio di archiviazione nel software – il quaderno di laboratorio resta in laboratorio, non si compila a casa, né si porta con sé a mensa o in aula. Andrebbe conservato al termine della ricerca e anche dopo l’eventuale pubblicazione dei dati che contiene per almeno 5 anni.
3.4.3 L’articolo scientifico
Le informazioni proposte per l’abstract, il poster e la tesi di dottorato sono il punto di partenza anche per la stesura dell’articolo scientifico, che, in genere, viene affidata a ricercatori con qualche anno di esperienza di scrittura. Può forse essere utile, a questo punto, accennare all’importanza del lavoro scientifico, a partire dall’impact factor e dal percorso editoriale che segue per essere pubblicato. Per importanza di un lavoro scientifico (poster, abstract, tesi di dottorato, ma anche tesi di laurea, articolo, comunicazione, lettera a una rivista) si intende la necessità di valutare la produzione di un gruppo di ricerca dal punto di vista qualitativo e quantitativo. In genere chi ha concretamente condotto gli esperimenti non è la stessa persona che li ha analizzati e interpretati e che in seguito li ha elaborati e documentati per poi pubblicarli. È un gioco di squadra che coinvolge vari attori, accomunati, di solito, dagli stessi obiettivi: rendere noto lo studio all’interno della comunità scientifica e garantire le condizioni (economiche, soprattutto) per continuare l’attività di ricerca.
Impact factor Lo strumento di valutazione della produzione scientifica più utilizzato da chi si occupa di ricerca è l’impact factor 40, un indicatore quantitativo che individua il numero medio di volte in cui un articolo è citato da un altro, sulla stessa rivista scientifica o su un’altra. Nato negli anni Sessanta per opera dello statunitense Institute for Scientific Information, più tardi diventato Thomson Scientific, questo criterio di valutazione determina letteralmente “l’indice dell’impatto” della rivista all’interno della comunità scientifica. Sebbene si tratti di un parametro quantitativo, l’uso che se ne fa tra gli scienziati è spesso riferito a determinare anche la qualità di un lavoro, partendo dal presupposto che il numero di citazioni
di un articolo è proporzionale alla sua diffusione tra gli addetti ai lavori. Il dibattito sull’uso e sull’abuso dell’impact factor è ancora vivace e aperto: si parla di manipolazione dell’ impact factor, utilizzato anche per valutare la produttività di un gruppo di ricerca. Non ci si addentrerà nella questione, può essere utile piuttosto riferirsi all’impact factor per la sua originaria funzione: un parametro quantitativo, in grado di fornire ulteriori indicazioni sulla rivista sulla quale si intende pubblicare.
Il percorso editoriale di un lavoro scientifico Dopo aver scritto un lavoro, attenendosi alle indicazioni fornite dalla rivista sulla quale si intende pubblicare, l’articolo viene sottoposto all’editore, che ne verificherà la forma e il contenuto, sia dal punto di vista della validità scientifica, sia da quello della pertinenza con la rivista. L’editore si avvale di un gruppo di esperti, i revisori, ai quali affida queste valutazioni. Si tratta di scienziati, di solito, con provata esperienza e competenza in vari ambiti, che si occupano o si sono occupati di tematiche simili. Il revisore può approvare o respingere l’articolo. In genere richiede modifiche, indica suggerimenti o chiarimenti, dopo aver effettuato i quali, si può di nuovo sottomettere il testo a lui. Se lo approva, l’articolo viene pubblicato nei formati cartaceo e online e diventa disponibile per la comunità scientifica. Può accadere che vengano richiesti ulteriori interventi, o che il lavoro sia sottoposto a più revisori prima di essere approvato. Non di rado capita che l’articolo venga respinto anche dopo vari tentativi. In questo ultimo caso si può cambiare rivista e iniziare di nuovo l’iter di revisione. È un percorso lungo, che può durare mesi e richiede molte energie, tempo e risorse, anche perché si può sottoporre l’articolo a una sola rivista scientifica per volta. Spesso è su queste lungaggini burocratiche che si gioca la paternità e quindi il successo di una conquista scientifica, a volte la posta è alta, il tempo poco e la competitività massima.
3.5 Spunti ulteriori Come scrivere un lavoro scientifico – Alley, M. (1996). The Craft of Scientific Writing. 3rd ed. New York, NY: Springer-Verlag New York, Inc. Il testo presenta alcune sezioni consultabili online: (http://www.writing.engr.psu.edu/other/contents.html) – Manuscript editor online: sito dedicato alla scrittura, presentazione e pubblicazione dei lavori scientifici con una ampia bibliografia cartacea e online (http://www.mseditoronline.com/scientific_editing_resources.html) – Training & education è il sito dei National Institutes of Health di Bethesda (USA) dedicato alla formazione nella comunicazione scritta e orale, per studenti di livello universitario, post-universitario e professionisti della ricerca: (https://www.training.nih.gov/). In particolare, è consultabile online per intero Career advice for Life Scientists (2002), a cura dell’American Society for Cell Biology, I & II, 151 (sezione sulla scrittura): (http://publications.nigms.nih.gov/training/career-advice-for-life-scientists.pdf) – In alcune università statunitensi ci sono centri di scrittura dedicati alla formazione degli studenti di ogni livello accademico e ambito disciplinare: dalla stesura del curriculum vitae, a quella tecnica e scientifica. Tra queste41: Writing Center della University of Wisconsin, (http://writing.wisc.edu/index.html); Center for writing of the University of Minnesota (http://writing.umn.edu/).
Suggerimenti per la scrittura in italiano e in inglese Bruni, F., Alfieri, G., Fornasiero, S., & Tamiozzo Goldmann, S. (2006). Manuale di scrittura e comunicazione. Per la cultura personale, per la scuola, per l’università. 2^ ed. Bologna, Italia: Zanichelli.
Il poster: ideazione e realizzazione – Design and Layout of School of Pubblic HealthPowerPoint Poster: tecniche di ideazione e realizzazione di un poster scientifico in PowerPoint, University of Washington, School of Pubblic Health and Community Medicine, USA: (http://sph.washington.edu/practicum/forms/PosterDesignGuidelines.pdf) – Science Draw Graphic nasce dall’idea di una partecipante alla Scuola “CRS”, che nel 2012 ha deciso di mettere a disposizione le sue competenze nella ricerca scientifica e nella grafica per la realizzazione di poster, presentazioni, immagini e animazioni di contenuti di ambito scientifico (http://www.sciencedrawgraphic.it).
Quaderno di laboratorio Kanare, H M. (1985). Writing the Laboratory Notebook. Washington, DC: American Chemical Society.
27 Come anticipato, nella maggioranza delle facoltà scientifiche italiane non si studiano né la storia né la filosofia della scienza. Tranne qualche cenno fornito nei corsi di filosofia della scuola superiore, quindi, la conoscenza di questa disciplina è lasciata all’iniziativa personale. Per un primo contatto con questo argomento si può fare riferimento a testi utilizzati nelle scuole superiori, per esempio: Bergamaschini, M. E., Marazzini P., Mazzoni L. (2002). L’indagine del mondo fisico. Metodo e linguaggio della fisica. Per le Scuole superiori. Milano, Italia: Carlo Signorelli Editore. Per un ulteriore approfondimento si suggerisce la fonte originale di Galileo: Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo. In: L. Sosio (1970), Torino, Italia: Einaudi. Il testo è consultabile online e per intero: (http://www.letteraturaitaliana.net/pdf/Volume_6/t333.pdf). 28 L’uso del condizionale dipende dal fatto che si tratta di adattare un modello (le “5w” della notizia) a un testo descrittivo, frutto di elaborazione intellettuale, quindi complesso. L’adattamento, perciò, è suscettibile di modifiche, commenti, suggerimenti. Questa parte, infatti, di solito provoca un dialogo vivace tra i giovani ricercatori che partecipano alle attività “CRS”.
29 I suggerimenti seguenti derivano dall’esperienza di studio e di lavoro acquisita in anni di attività in una redazione scientifica di un’agenzia di comunicazione specializzata nell’ambito medico e farmaceutico. Oltre alle regole degli autori delle riviste specializzate, in lingua italiana e inglese, con le quali i lettori di questo manuale si misurano comunemente, uno spunto per la scrittura tecnico-scientifica in lingua italiana è: Epicentro, Centro Nazionale di Epidemiologia, Sorveglianza e Promozione della Salute, a cura dell’Istituto Superiore di Sanità: (http://www.epicentro.iss.it/biblio/come_scrivere.asp). 30 Per la scrittura tecnico-scientifica in lingua inglese ho fatto riferimento ai seguenti testi: Commitee on Form and Style of the Conference of Biological Editors (1964). Style Manual for Biological Journals. 2nd ed. Washington, D. C.: American Institute of Biological Sciences. Strunk, W. (1918). Elements of style Ithaca, NY: W. P. Humphrey. La versione online di questo testo è consultabile per intero: New York, NY: Bartleby.com (1999) (http://www.bartleby.com/141/). L’American Psychological Association (APA), come anticipato nelle avvertenze all’inizio del manuale, ha messo a punto un formato per la pubblicazione di lavori per addetti ai lavori conosciuto come APA style® (http://www.apastyle.org/). Attualmente è tra gli stili maggiormente utilizzati all’interno della comunità accademica internazionale. Il sito contiene numerose informazioni su ogni sezione del lavoro scientifico con esempi, quesiti e suggerimenti. 31 Ho preso spunto da: Creating Effective Poster Presentations, sezione del sito della North Carolina State University (USA) dedicata alla preparazione di poster di ambito medico (http://www.ncsu.edu/project/posters/). 32 Come anticipato, le indicazioni di questo paragrafo si riferiscono al poster, ma i contenuti di ogni sezione valgono anche per la tesi di dottorato e per l’articolo scientifico. 33 Si è accennato nell’introduzione che questo manuale prende in esame gli strumenti necessari a comunicare la ricerca scientifica, indipendentemente dall’ambito disciplinare. Nella sezione dedicata a come scrivere i risultati e la discussione, però, occorre distinguere tra l’ambito tecnico-scientifico e quello legato alle scienze sociali (oltre a quelle già citate nel capitolo 2: antropologia, geografia, psicologia, ma anche economia e scienze politiche). Nelle discipline tecnico-scientifiche si
svolge una ricerca quantitativa, che esamina un fenomeno, in laboratorio o in campo, con strumenti o modelli che producono, di solito, dati numerici. I termini results, findings e outcomes sono, quindi, sinonimi. Nell’ambito delle scienze sociali, invece, la ricerca è qualitativa, spesso non riconducibile a numeri. Si studiano comportamenti e individui umani, più che specie animali o vegetali, o altri organismi viventi o non viventi, con strumenti e modalità peculiari. Tra questi: interviste, dialoghi, ma anche forme di comunicazione non verbale, ricordi ed emozioni. Non si parla di risultati, quindi, come insieme di dati, ma di findings e di outcomes, che indicano informazioni distinte e non sono sinonimi. Findings si riferisce a quanto si è “trovato”, come il termine inglese suggerisce, ed è assimilabile a results dell’ambito tecnico-scientifico. Ma non solo, come si vedrà nella nota successiva. Outcomes riguarda, invece, le informazioni successive (letteralmente che “vengono fuori”), che emergono da un comportamento, da un fenomeno, dalla situazione analizzata. Vengono, di solito, presentati nelle conclusioni (si veda la nota n. 35), perché conseguenti alla fase di studio o nati a partire da essa. 34 Anche a proposito della separazione tra risultati e discussione va precisata la differenza indicata nella nota precedente. Nella ricerca quantitativa le due sezioni sono distinte e andrebbero mantenute tali, come le due fasi centrali della dispositio descritte nel capitolo 2: narratio e confirmatio. Nella ricerca qualitativa, invece, i risultati si presentano insieme alla loro analisi, in un’unica sezione, di solito indicata come findings. In questo tipo di ricerca, infatti, non si può descrivere il fenomeno osservato senza spiegarlo. 35 Come anticipato nella nota n. 33, nella ricerca qualitativa più che parlare di applicazioni future si usa il termine outcomes o follow up, letteralmente “ciò che segue” a un fenomeno, comportamento, osservazione. Follow up in questo contesto non ha l’accezione che si usa in ambito clinico, con il significato di controllo, monitoraggio e verifica dopo un trattamento. Nelle scienze sociali outcomes e follow up si riferiscono alle conseguenze dello studio, a ciò che nasce grazie e attraverso lo studio. Si può manifestare anche dopo la fase di osservazione e aprire strade nuove nella ricerca: per esempio gli effetti di un colloquio o di una modificazione di comportamento sono spesso accompagnati da ulteriori aspetti che possono giustificare la necessità di uno studio ulteriore (future research questions). 36 Si è fatto riferimento alle seguenti fonti: International Committee of Medical Journal Editors. Uniform Requirements for Manuscripts Submitted to
Biomedical Journals: Writing and Editing for Biomedical Publication (http://www.icmje.org/); Koopman, P. (1997). How to write an abstract. Pittsburgh, PA: Carnegie Mellon University. Il testo è consultabile online e per intero: (http://www.ece.cmu.edu/~koopman/essays/abstract.html); Wolfe, J. (1996). How to write a PhD Thesis. Sydney, Australia: The University of New South Wales, School of Physics. La versione in italiano di questo articolo contiene numerosi errori sintattici. Si consiglia di consultare solo la versione in lingua inglese: (http://www.phys.unsw.edu.au/~jw/thesis.html). 37 Sul sito dedicato a questo stile ci sono indicazioni sul codice DOI e su come citarlo nella bibliografia (http://www.apastyle.org/learn/faqs/what-is-doi.aspx). 38 In particolare: Keeping a lab notebook (2001), a cura dell’Harvey Mudd Physics Department, Claremont, CA: (http://www.physics.hmc.edu/howto/labnotebook.html). 39 Il quaderno di laboratorio permette di comprendere meglio cosa si intendeva nel capitolo precedente a proposito di ordine come questione di logica più che di estetica. Un ordine che riguarda la comprensione, di chi emette il messaggio (in questo caso di chi compila il quaderno) e di chi lo riceve (lo consulta). 40 Si è scelto di accennare solo all’impact factor come indicatore cosiddetto bibliometrico, che analizza, cioè, i modelli di distribuzione delle pubblicazioni e il loro impatto all’interno della comunità scientifica. L’impact factor è il più diffuso, ma non è l’unico: per un’introduzione alla bibliometria e ai vari parametri attualmente in uso ci si può riferire alle pagine del sistema bibliotecario di ateneo dell’Università degli Studi di Padova: (http://www.cab.unipd.it/servizi/impact-factor-ed-altri-indicatori/Indicatoribibliometrici). Si è fatto riferimento, in particolare, a: The Institute for Scientific Information Current contents (1994): (http://scientific.thomson.com/free/essays/journalcitationreports/impactfactor/). 41 Mi riferisco ai centri di scrittura di due università che conosco direttamente, avendo colleghi docenti di comunicazione che ci hanno lavorato. In particolare il Centro di scrittura dell’Università del Minnesota afferisce al Department of Writing Studies: (http://writingstudies.umn.edu/).
Capitolo 4 – Costruzione del testo nella comunicazione orale
Dei tre momenti della Retorica aristotelica nella costruzione del testo orale l’elocutio gioca un ruolo chiave: il testo va messo in forma, cioè occorre individuare uno stile per presentarlo, capace di rispondere alla domanda: “Come si parla?”
4.1 Lo stile nel linguaggio orale
Come anticipato, come parlare è legato a per chi (competenza pragmatica) e perché comunicare: è una condivisione o una difesa? Occorre inoltre ricordare la strategia comunicativa e i suoi due obiettivi: commuovere o convincere, perciò farsi obbedire o farsi capire. Conoscere l’interlocutore può facilitare la scelta dello stile, che sarà: – standard42, nel senso di tradizionale, più indicato per chi sta imparando e per assicurare una comunicazione chiara – proprio, personalizzato, più adatto per scienziati con maggiore esperienza nell’esposizione orale, ma occorre privilegiare in ogni caso la chiarezza.
Lo stile nella comunicazione orale, standard o proprio, è determinato da tre aspetti: a) linguaggio ed esempi; b) modalità di presentazione dei dati; c) look.
4.2 Linguaggio ed esempi
Il linguaggio orale è diverso da quello scritto. Si può essere ottimi comunicatori e scrittori, ma avere grandi difficoltà nell’esposizione orale; si può avere scritto un lavoro scientifico molto bene, ma non essere in grado di presentarlo in pubblico, o non comunicarlo in modo efficace ai colleghi. La pratica e l’esperienza sono buone alleate, ma non sono sufficienti; essere spigliati aiuta, ma non basta. La chiarezza di un testo orale è legata a: – organizzazione delle informazioni, mediante scalette e schemi, che aiutino a memorizzare ciò che si intende dire e i aggi da una fase all’altra – scelta di un lessico e di sintassi semplice per la presentazione, mediante esempi per spiegare termini difficili – appunti scritti a mano o preparati al computer, purché ben chiari a chi comunica – soprattutto se si espone per la prima volta, poi, (seminari, progetto di tesi, lab meeting) può essere utile prepararsi l’intervento scritto, che non andrà letto, né imparato a memoria, ma servirà a fissare i concetti e a minimizzare gli effetti dell’emotività.
4.3 Modalità di presentazione dei dati
Oltre al lessico, la presentazione dei dati gioca un ruolo essenziale nella comunicazione orale. In questa sede si tratteranno le seguenti modalità: – lavagna luminosa – lavagna e gessetti o altre personalizzazioni – videoproiezione.
4.3.1 Lavagna luminosa e lucidi
È ormai in disuso nell’ambito scientifico, ma forse potrà capitare di dover preparare lucidi. Occorre tenere presenti alcune accortezze: – accertarsi che i lucidi siano visibili e leggibili anche in ultima fila – scriverli a mano solo se sicuri di avere una calligrafia chiara, altrimenti prepararli al computer – usare pennarelli che scrivano e di colore deciso – blu, nero, rosso – i colori chiari non si leggono – prestare attenzione a orientare i lucidi in modo corretto: effettuare qualche prova prima, se possibile – accertarsi che la lavagna funzioni e che sia a fuoco: si suggerisce di provarla prima – è necessario il puntatore, in alternativa una penna; evitare chiavi, la vecchia antenna radio dell’auto e il dito per indicare sul lucido o sullo schermo – tenere qualche lucido pulito di scorta nel caso in cui serva fornire dettagli.
4.3.2 Lavagna con gessi o altre personalizzazioni
Poco diffusi in ambito scientifico, i gessi bianchi o colorati possono risultare d’effetto perché riportano indietro nel tempo. Il risultato può essere affascinante e originale, ma occorre essere bravi. Più indicati con una platea poco numerosa e in un’aula piccola, come durante i lab meeting o nei colloqui con il relatore. In questi casi si usa anche la lavagna a fogli mobili e i pennarelli. Sia con i gessi, sia con i pennarelli valgono le accortezze richieste per la preparazione dei lucidi.
4.3.3 Videoproiezione
La videoproiezione è la modalità di presentazione più diffusa attualmente e i programmi disponibili sui sistemi operativi più comuni offrono molte possibilità. Sul web, inoltre, si trovano numerose indicazioni su come preparare una presentazione e non è difficile orientarsi. Ma preparare una presentazione implica costruire un testo scritto, diverso dal lavoro scientifico al quale ci riferiamo: è un testo nuovo. Valgono, perciò, le stesse regole della comunicazione scritta descritte nel capitolo precedente. Il web ci può suggerire indicazioni tecniche, ma ai contenuti dobbiamo pensare noi.
4.3.3.1 Come costruire la presentazione scientifica: il testo
Il contenuto è e resta la parte più importante della presentazione. Contrariamente a quanto si creda, infatti, preparare una presentazione non significa eseguire un “copia e incolla” del lavoro scientifico che si intende discutere, quindi, per intendersi, dal programma di scrittura a quello grafico, aggiungendo tabelle e immagini, magari colorate, e qualche effetto sonoro. Il linguaggio utilizzato nel lavoro scientifico è diverso da quello della presentazione: si tratta di due forme di comunicazione scritta differenti. Il testo di partenza va rielaborato, riscritto, se necessario, per poter essere presentato. Occorre, perciò, riprendere i dati del lavoro e cercare di rispondere alle “5w”. Prima di lavorare con il programma grafico, quindi, è necessario dedicarsi al testo. È la fase di ideazione, descritta nel capitolo precedente a proposito dell’elocutio. Si costruisce l’elenco delle diapositive come l’indice del testo scritto, indicando in un file separato cosa mettere in ogni diapositiva, inclusi il titolo, il numero e il tipo di figure (grafico, tabella, immagine). In particolare occorre: individuare cosa è necessario presentare; organizzare il testo in modo che tutti i aggi risultino chiari; evitare salti logici e non dare per scontata un’informazione, soprattutto se si tratta di un dato scientifico. Chiedersi, poi, prima di assemblare il testo, se ogni diapositiva ha senso anche autonomamente, se tutti i punti chiave sono stati espressi, se i termini e i aggi sono chiari. Solo a questo punto si può are alla parte grafica della presentazione.
4.3.3.2 Come costruire la presentazione scientifica: la grafica Uniformità nello stile e contenuti concisi Usare, preferibilmente, un unico modello suggerito dal programma e assicurarsi che la presentazione sia uniforme nei caratteri del testo utilizzati, nei colori e nello sfondo. Indicare, se possibile, massimo 6 punti per ogni diapositiva e 6 parole per ogni punto (gli anglosassoni la chiamano “regola del 6”). Infine, limitare le informazioni all’essenziale, inserire solo quelle necessarie ed evitare frasi lunghe.
I caratteri La dimensione dei caratteri è variabile (18-48 punti): accertarsi che le diapositive siano leggibili in ultima fila. Assicurarsi che i caratteri utilizzati siano visibili, chiari e che assicurino la leggibilità: in gergo si parla di font classiche, graziate (Times New Roman) e non graziate (come Arial, Helvetica, Verdana, per esempio). Caratteri più accattivanti potrebbero non essere leggibili. Inoltre le parole tutte in maiuscolo sono di difficile lettura e, se si fatica a leggere il testo, l’uditorio si concentrerà su quello, perdendo la spiegazione.
Effetti grafici, sonori e immagini Minimizzare o evitare le animazioni, gli effetti sonori e le transizioni; anche se a volte efficaci, infatti, spesso distraggono l’uditorio e non facilitano la comprensione. Selezionare con cura le immagini (foto, clipart, grafici): le immagini dovrebbero bilanciare il testo, non abbondare. Sono sufficienti due grafici per diapositiva. Prestare attenzione alla dimensione dell’immagine: troppo piccole sono inutili.
Colori e accortezze per la presentazione Selezionare i colori per lo sfondo e per il testo con cura: oltre ai disturbi visivi, più frequenti di quanto si immagini, come si indicherà di seguito, infatti, alcuni contrasti cromatici sono messi a fuoco dalla retina con difficoltà43.
a)
b)
Figura 4.144: (a) La ruota dei colori schematizza i principali colori dello spettro del visibile. (b) Esempi di alcuni accostamenti cromatici percepiti con difficoltà dalla retina e che sarebbe utile evitare nella scelta dei colori per il testo e per lo sfondo.
Quindi, per facilitare la lettura e la messa a fuoco contemporanea, sarebbe utile evitare le scritte a due colori su fondo nero o le coppie di colori riportate nella Figura 4.1. Non sempre, poi, il contrasto che si vede sul nostro monitor è lo stesso che appare nello schermo; sarebbe consigliabile effettuare qualche prova prima. Se possibile, inoltre, non collegarsi online in diretta: spesso la connessione non è veloce e si perde l’attenzione della platea. Evitare, inoltre, i seguenti segni di punteggiatura: punti esclamativi, singoli o ripetuti, punti esclamativi e interrogativi insieme, puntini di sospensione e gli emoticons. Come pure gli acronimi e le abbreviazioni non spiegate. Tenere presente, infine, che a ogni nuova diapositiva la platea si concentrerà su ciò che vede sullo schermo e, leggendo il testo, perderà le parole del relatore. Si può ovviare aspettando alcuni istanti prima di esporre, dando tempo all’uditorio di prendere visione e nota dei contenuti, richiamando i termini e gli esempi indicati nella diapositiva e leggendo il testo a voce alta, se necessario, per valorizzare gli aspetti importanti.
Tempi per la presentazione Usare al massimo tre diapositive al minuto, ricordando che troppe diapositive annoiano e stancano la platea. Se si desidera che l’uditorio prenda appunti, lasciare tempo per vedere la diapositiva e per scrivere. Osservare il tempo a disposizione è doveroso e professionale. È soprattutto un segno di rispetto dell’uditorio, quindi, è preferibile terminare un minuto prima che uno dopo.
Prima della comunicazione orale È opportuno rivedere la presentazione prima di proporla in pubblico, sia dal punto di vista dei contenuti, sia della grafica e, se possibile, proiettarla dove si terrà la presentazione. Verificare, inoltre, che il file sia letto dal programma del computer che si utilizza, se diverso da quello impiegato per preparare la presentazione. Può accadere, infatti, che le versioni del programma siano diverse. Conviene portare con sé più copie della presentazione (su cd e pen-drive, per esempio) e conservare una copia del file anche spedendolo come allegato a un indirizzo webmail, preferibilmente, o utilizzando Dropbox. Accertarsi, poi, che il microfono funzioni bene, effettuando qualche prova, se possibile. Ricontrollare la leggibilità della presentazione, l’uniformità nello stile e nei colori e provarla davanti a poche persone, che possano seriamente ascoltare e fare domande. Informarsi sull’uditorio e prevedere eventuali osservazioni da parte della platea. Infine, se necessario, preparare fotocopie della presentazione da distribuire, se possibile, al termine della comunicazione. Quando si riceve materiale, infatti, si è curiosi di sfogliarlo subito e l’attenzione e l’ascolto vengono meno.
4.3.3.3. Accessibilità della comunicazione nella videoproiezione
Si parla di accessibilità soprattutto riguardo ai siti web45: si riferisce alla possibilità di rendere i contenuti online fruibili a utenti con disabilità fisica, quindi visiva, uditiva e motoria46. Considerando di dover presentare i dati in vari ambiti e a interlocutori diversi, può quindi essere utile dedicare una sezione di questo capitolo all’accessibilità della comunicazione nella videoproiezione, soffermandosi in particolare sull’accessibilità visiva e uditiva. Si forniranno cenni su aspetti di cui tener conto quando si prepara una presentazione per facilitarne l’accesso a chi soffre di alcuni disturbi visivi e uditivi diffusi, spesso, anche tra le persone al di sotto della cosiddetta terza età.
Accessibilità visiva Per le persone ipovedenti e non vedenti sono necessari strumenti e tecnologie apposite, come quelle utilizzate nei siti web accessibili, che prevedono browser vocali, tastiere braille, trattamento delle immagini e test di accessibilità. In questa sede vengono presi in esame alcuni disturbi visivi comuni, come il daltonismo e la cataratta, che potrebbero pregiudicare la visione della videoproiezione. Il daltonismo è un disturbo nella percezione del colore, di origine genetica, dovuto a difetti di pigmentazione dei coni della retina. Il risultato è l’incapacità di distinguere alcuni colori, nei casi più diffusi quelli compresi tra i 540 e 700 nm, corrispondenti alla regione dal verde al rosso. È un disturbo più comune tra gli uomini, ne soffre l’8% e lo 0,4% delle donne47. Nella scelta dei colori dello sfondo e del testo, quindi, sarebbe opportuno escludere l’accoppiamento verde e rosso, per tenere conto delle difficoltà di questi possibili interlocutori. Un altro disturbo visivo comune è la cataratta, provocata dall’opacizzazione del
cristallino e dovuta all’invecchiamento48. Questo disturbo porta a una visione offuscata o doppia, alla percezione dei colori meno vivida, a ipersensibilità alla luce e abbagliamento. Uno sfondo bianco con scritte di colore nero, per esempio, potrebbe risultare illeggibile e fastidioso per una persona affetta da cataratta, è preferibile, quindi, evitare il contrasto bianco/nero e ricorrere a colori chiari, ma meno abbaglianti del bianco, contrastanti con i caratteri scuri del testo.
Accessibilità uditiva Il deficit uditivo che compromette anche l’uso della parola (persone sordomute) va distinto da quello che affligge solo l’apparato acustico: si parla, in questo caso, di persone con disturbi uditivi o di audiolesi49. Si tratta di un disagio non visibile, non riconoscibile e, per questo, forse, spesso ignorato: le difficoltà di un audioleso sfuggono ai relatori, ma anche all’uditorio. Chi ne soffre, però, non fatica solo a sentire, ma anche a parlare e a relazionarsi. È più facile intuire gli ostacoli incontrati da un non vedente o da un disabile motore, mentre le difficoltà di comunicazione degli audiolesi sono spesso sottovalutate. Nel caso di una presentazione orale, per esempio, va tenuto conto che la loro attenzione si concentra sulle labbra di chi parla, con difficoltà nel prendere appunti, perché quando si distoglie lo sguardo dal relatore o dallo schermo, si perdono le parole. Sarebbe utile, se possibile, lasciare alle persone audiolese i posti in prima fila e consegnare loro il materiale in anticipo, per facilitarne il coinvolgimento. Se si tratta di seminari a studenti, si potrebbe affiancare loro un altro studente che prenda appunti per evitare che perdano parti dell’esposizione. Nelle presentazioni a congressi non è possibile conoscere l’uditorio ed è raro prevedere possibilità di sottotitoli alle relazioni. Valgono in ogni caso accortezze generali, indicate per l’esposizione orale: parlare lentamente, con qualche pausa, vicino al microfono, senza nascondere le labbra e il viso, guardando in direzione della platea, non verso lo schermo o in basso. L’utilizzo dei sottotitoli50 resta la soluzione migliore per la comprensione di lunghe e articolate esposizioni, come lezioni e seminari, fondamentali non soltanto per le persone audiolese, ma anche per quelle di lingua nativa diversa da quella utilizzata, come si accennerà nel paragrafo seguente.
Accessibilità linguistica Spesso ci si sente a disagio a parlare o a comprendere una lingua diversa da quella nativa: basti pensare alla fatica di molti italiani nel seguire un seminario, nello scrivere, nell’esprimersi in inglese e nel dialogare con colleghi di Paesi diversi dal proprio. Si possono avere la vista e l’udito perfetti, ma sentirsi ugualmente portatori di handicap, in questo caso linguistico. Si sperimenta la stessa cosa quando in laboratorio si ospitano studenti non italiani e per i quali sembra inaccessibile qualunque forma di comunicazione. Informarsi prima sulla composizione dell’uditorio aiuta: a prevedere testi in inglese per la presentazione orale o a fornire materiale aggiuntivo di approfondimento, se necessario. Può essere utile riprendere alcuni termini durante l’esposizione, ricordare quanto detto, riepilogare i punti principali, prima di introdurre un nuovo aggio, in modo da facilitare la comprensione. Se possibile, aiutarsi con la lavagna (a gessi o a fogli, luminosa, se necessario) indicando (in modo leggibile) le parole chiave. Concludere, poi, rendendosi disponibile a chiarire i termini più ostici in inglese o a restare in aula al termine della presentazione per fornire maggiori dettagli.
4.4 Look
Va forse sfatato il mito dello scienziato troppo preso dalla ricerca per curare il proprio aspetto: il camice logoro, le scarpe da ginnastica sotto la cravatta li lasciamo, magari, agli stereotipi televisivi. Oltre alla comunicazione parlata e scritta, infatti, è fondamentale la comunicazione del corpo, caratterizzata dai segni alla base del proprio modo di vestire, di camminare, di gesticolare, in una parola: il nostro modo di essere. Esso comunica quanto i contenuti da esporre, anzi, sempre più spesso, comunica di più. È preferibile, quindi, prestare attenzione alla gestualità, alla postura, ma anche all’abbigliamento, all’acconciatura e agli accessori. Con equilibrio: non è una cena di gala, non si è invitati a un matrimonio, con semplicità e gusto personali. Evitare atteggiamenti apparentemente informali e spesso diffusi: mani in tasca, gomma da masticare e cellulare . L’aspetto aiuta, ma non è tutto (ancora).
4.5 Esempi di costruzione del testo orale
Di seguito sono proposti alcuni esempi di comunicazione orale, rivolti soprattutto a chi si appresta a intraprendere la strada della ricerca scientifica: il lab meeting51, il journal club52, la presentazione di un poster53 e della tesi di dottorato54. Valgono le considerazioni evidenziate nei paragrafi precedenti, ma si è pensato di proporre questi esempi perché caratterizzano momenti diversi dell’attività di ricerca e si rivolgono a interlocutori vari.
4.5.1. Lab meeting
È una pratica assai diffusa nei laboratori del nord Europa e nord America: una volta a settimana, in genere nell’intervallo del pranzo, i membri di un gruppo di ricerca si danno appuntamento per un paio d’ore per presentare a turno i risultati del proprio lavoro, discuterli non solo con il docente, ma anche con chi segue progetti diversi. Il lab meeting spesso si estende anche a gruppi che svolgono ricerche simili, dello stesso dipartimento o di altri. In alcuni casi, poi, può diventare un appuntamento fisso per tutto l’istituto o il dipartimento: l’incontro diventa un seminario di solito informale e dedicato a presentare e a discutere le linee di ricerca portate avanti. Può forse essere già capitato durante la tesi di laurea di svolgere un lab meeting; in molti laboratori, infatti, si cerca di coinvolgere dall’inizio i nuovi arrivati, per farli sentire subito parte del gruppo di ricerca. Con l’aumentare dell’esperienza in laboratorio, cresce anche l’aspettativa nei confronti di chi espone. Il gruppo si consolida, ci si conosce meglio e si diventa più attenti a seguire la presentazione orale. Lo scopo principale del lab meeting è, infatti, favorire il dialogo e l’analisi critica dei dati, suggerire idee e nuove vie nel caso in cui la strada intrapresa non porti ai risultati sperati. Si dovrebbe imparare progressivamente a correggersi a vicenda, in modo professionale, per diventare il più possibile autonomi e seri, critici con il proprio e altrui lavoro. Fare domande è uno degli ostacoli più duri da superare, spesso: si assiste a lunghi silenzi carichi di imbarazzo al termine dell’esposizione. Sta al relatore, quindi al comunicatore, cercare di incuriosire e di interessare la platea. Non si tratta di trucchi per risultare brillanti in pubblico, ma di esercizio costante per imparare a condividere i risultati del proprio lavoro con i colleghi. Alcune osservazioni: curare nel dettaglio la preparazione della presentazione implica varie attività, tra le quali anche prenotare l’aula dove si terrà il lab meeting, ricordare ai colleghi l’appuntamento, se necessario via mail e con locandine, quando l’incontro coinvolge altri gruppi. Anche se la frequenza è
obbligatoria e gran parte dell’uditorio partecipa per accumulare crediti, il lab meeting offre l’occasione per allenarsi a presentare in pubblico la propria ricerca. È un esercizio indispensabile per poter tenere poi seminari e lezioni, anche in una lingua diversa da quella nativa. Stimolare la platea cercando di motivare i partecipanti con un’esposizione vivace, breve, chiara e rispettosa dei tempi per la relazione e per il dialogo. Arrivare in anticipo, sistemare prima l’aula, il microfono, se occorre, e il videoproiettore. Concludere un minuto prima, evitando di annoiare la platea o di saltare diapositive per accelerare e arrivare alla fine. Non temere le domande: si può anche non essere in grado di rispondere, prendendo tempo e impegnandosi a documentarsi (sul serio) e a fornire in un secondo tempo le informazioni. Cercare di non perdere il controllo durante il dialogo, evitando di lasciare che il docente risponda e salvi la situazione. Nel caso di prime esperienze di lab meeting in lingua sarebbe utile prepararsi un testo scritto, inizialmente da leggere, in futuro, se possibile, solo da consultare. È un esercizio più complesso, che comporta maggiore sforzo e crea disagio. Ma occorre evitare che le difficoltà linguistiche (pronuncia, incomprensione delle domande, incapacità di trovare il termine giusto durante l’esposizione) pregiudichino la presentazione. È questione di maggiore pratica, anche se, in genere, nei contesti internazionali si ha più pazienza e comprensione.
4.5.2 Journal club
Anche questa attività è pratica diffusa nei Paesi nordeuropei e anglosassoni. Il journal club nasce proprio in Inghilterra nella seconda metà dell’80055, per iniziativa del medico londinese James Paget, che, insieme ad altri colleghi, si ritrova periodicamente per leggere la letteratura scientifica e commentarla. Dall’Inghilterra al Canada, pochi anni dopo, viene fondato ufficialmente a Montreal il primo journal club da William Osler, per sostenere le spese di acquisto di riviste scientifiche che in altro modo non sarebbe stato possibile consultare. In genere sono appuntamenti settimanali, anche più di una volta a settimana, spesso durante l’ora di pranzo, che si svolgono all’interno del gruppo di ricerca o estesi ad altri gruppi della stessa disciplina. Una o più persone, a turno, presentano e animano la discussione di articoli di letteratura scientifica. Il journal club è un metodo utile per imparare a leggere la bibliografia scientifica in modo critico e uno strumento efficace per allenarsi a comunicare tra addetti ai lavori. Si tratta di presentare dati altrui, cosa che forse alleggerisce la tensione di chi espone, che non si sente giudicato. Ma è a partire dalla discussione della letteratura che possono nascere idee e spunti per la propria ricerca, quindi più efficace sarà la comunicazione, più utile risulterà il journal club. In genere si presenta la letteratura scientifica in due modi: 1. comparando più lavori sullo stesso argomento, analizzati brevemente, per fornire una panoramica dei più recenti risultati in quel campo 2. esaminando un solo articolo, in dettaglio, per discutere i vari aggi in profondità.
Alcune osservazioni: indipendentemente dal tipo di journal club che si svolge,
sarebbe utile evitare di presentare estratti dell’articolo fotocopiati. Distraggono e confondono l’uditorio, che si fida del relatore non ha bisogno di verificare l’esattezza dei dati esposti: la credibilità delle fonti è uno dei principi della comunicazione (capitolo 2). Occorre ricordare che per presentare un articolo è necessario innanzitutto averlo compreso, non imparato a memoria. Solo dopo essere certi di questo aggio si può procedere alla preparazione della presentazione. Indipendentemente dal numero di articoli che si analizzano, la presentazione evidenzierà subito le caratteristiche principali, i risultati, i punti di forza e quelli deboli della ricerca, provando a individuare, se possibile, in che modo il proprio progetto potrebbe giovarne; poi è si presentano gli aspetti più importanti: metodi, protocolli, strumentazione, ma anche fattori quali la riproducibilità e i parametri statistici. Spendere qualche minuto, al termine, anche sull’analisi del testo: struttura dell’articolo, chiarezza nelle didascalie e tabelle, impact factor della rivista, chi sono gli autori e perché è stato scelto questo lavoro. Concludere, poi, con una previsione di come potrebbe procedere quella ricerca secondo quanto si è compreso. Valgono le stesse osservazioni esposte nel paragrafo precedente riguardo a come comunicare: rispetto dei tempi, motivazione dell’uditorio, stimolare le domande e favorire il dialogo.
4.5.3 Poster
Occorre considerare che i poster vengono consultati, in genere, durante gli intervalli del congresso, coffee break o pranzo, momenti durante i quali l’attenzione diminuisce e si ha desiderio di socializzare e di interagire con chi presenta il poster o con i colleghi. Assicurare la presenza nella sala poster secondo le modalità e il rispetto dei tempi minimi stabiliti dagli organizzatori; se ci si assenta momentaneamente senza sostituti, lasciare un avviso di reperibilità o di eventuale ora di ritorno. Conoscere l’uditorio aiuta a impostare lo stile della comunicazione orale: rivolgersi direttamente all’interlocutore, cercando di catturare la sua attenzione mentre si espone. Guidarlo mostrando le varie fasi della ricerca e illustrando, con cura e senza correre, le figure e gli schemi, evitando, se possibile, espressioni generiche come: “La figura mostra i principali risultati…”.. Se sopraggiungono altri visitatori durante la presentazione, terminare e poi coinvolgerli. Tenere a portata di mano penne e carta per eventuali segnalazioni da appuntare (nomi, e-mail, link utili) e prevedere, se necessario, biglietti da visita da distribuire a chi fosse interessato a contattarvi. Avere con sé qualche copia dell’articolo da cui trae origine il poster, se possibile, e preparare alcune copie del poster in formato A4, da consegnare a chi fosse interessato. Al termine ringraziare chi viene a visitare il poster.
4.5.4 Tesi di dottorato
La presentazione della tesi di dottorato segue le stesse regole della costruzione del testo orale esaminate finora, ma è un esempio diverso dai precedenti. È l’ultimo tassello di un mosaico costruito per tre, quattro anni, potrebbe essere anche l’ultima occasione di esporre in ambito accademico, se si decide di cambiare strada. È un lavoro che si è svolto in gruppo, forse, ma quasi interamente scritto e preparato da soli e, per questo, il coinvolgimento è grande. Infine, è un evento irripetibile, rispetto a quelli esaminati in precedenza: in genere la tesi di dottorato si discute una sola volta e, di solito, si consegue un solo dottorato nel percorso accademico. È forse questa unicità che assolutizza lo sforzo per la tesi e costringe, magari, a fare i conti con l’ansia e l’emotività. Valgono le stesse osservazioni esposte in precedenza, in più, merita forse attenzione la parte della discussione, in inglese defence, perché, soprattutto all’estero, è una reale “difesa” del proprio lavoro. Nel nostro Paese la parte che segue all’esposizione del dottorando prevede, in genere, domande da parte dei membri della commissione, che hanno letto la tesi e desiderano commentarla. Generalmente la commissione esaminatrice mira a mettere in risalto la ricerca effettuata, nei dettagli, offrendo a chi discute la possibilità di valorizzare il proprio lavoro, che ha richiesto tempo, energie e fatica. Lo scopo è, infatti, rilevare il metodo, la logica e la strada seguite dal dottorando, che sta per entrare a pieno titolo nella comunità accademica, piuttosto che evidenziare i punti deboli. Molte domande, quindi, sono reali richieste di chiarimenti, perché chi ha lavorato alla tesi dovrebbe conoscere l’argomento meglio di chiunque altro. Prendere tempo, quindi, se necessario, per rispondere in modo il più possibile esauriente, dimostrando l’ipotesi da cui si è partiti attraverso i dati. Evitare atteggiamenti di chiusura, se possibile, dato che non è un attacco al lavoro svolto, spesso, ma una richiesta di informazioni sull’argomento. Nel caso di domande insidiose che tendono, invece, a colpire eventuali punti deboli, non perdere il controllo. Cercare di spiegare le ragioni alla base delle scelte effettuate, accettando, se reale, la possibilità che si tratti di scelte errate o
poco convincenti. Potrebbe essere utile il suggerimento di un docente, spesso la ricerca è fatta di correzioni reciproche. Questo non esclude domande e osservazioni volutamente crudeli, dalle quali può diventare arduo difendersi. Occorre essere sicuri di quanto si è pensato, sperimentato, raccolto e analizzato. Ma potrebbe non essere sufficiente in questi casi. Nervi saldi e una buone dose di ottimismo, quindi, per essere lucidi e poter individuare il modo meno pericoloso per uscirne, possibilmente, indenni.
4.6 Spunti ulteriori Presentazione orale del lavoro scientifico56 Davis, M. (2005). Scientific papers and presentations. 2nd ed. San Diego, CA: Academic Press. Alley, M. (2003). The Craft of Scientific Presentations. New York, NY: Springer-Verlag New York, Inc. Il testo presenta alcune sezioni consultabili online: (http://www.writing.eng.vt.edu/csp.html) Tutto slide è un blog57 sulla comunicazione visiva in ambito scientifico che contiene indicazioni su come presentare i dati, sia nel testo scritto, sia nelle presentazioni orali (http://www.tuttoslide.com/). 42 Come indicato anche a proposito della costruzione del testo scritto, riguardo all’ordine “naturale” o “artificiale”, i termini “standard” e “proprio” dello stile del linguaggio orale sono indicativi e servono a fornire informazioni su queste modalità: se li avessimo definiti “tradizionale” o “personalizzato” non sarebbe cambiato nulla. 43 L’affaticamento della retina è il risultato della diffrazione della luce sul cristallino che provoca la presenza contemporanea di colori che occupano posizioni opposte o vicine nella cosiddetta ruota dei colori o ruota cromatica (Figura 4.1a).
44 Le immagini prendono spunto dal materiale didattico sulla percezione del colore a cura di Roberto Polillo, Dipartimento di Informatica, Sistemistica e Comunicazione dell’Università degli Studi di Milano Bicocca (Corso di interazione uomo-macchina): (http://www.rpolillo.it/materiale/IUM/slide200708/2.2_COLORE.pdf). 45 Il riferimento è alle linee guida sull’accessibilità dei siti web, messe a punto dal Web Accessibility Initiative, gruppo di lavoro del World Wide Web Consortium (W3C). In particolare il W3C ha adottato il documento Web Content Accessibility Guidelines 1.0, a partire dal 1999, ampliato e aggiornato nel 2008 nella seconda versione: (http://www.w3.org/TR/2008/REC-WCAG2020081211/). Anche l’Italia è coinvolta nel gruppo di lavoro del W3C e nella stesura delle linee guida sull’accessibilità (http://webaccessibile.org/). 46 I dati relativi alla disabilità fisica nel mondo sono complessi da stabilire e difficili da reperire. Ci sono, infatti, diversi parametri di cui tenere conto, spesso non disponibili per tutti i Paesi, soprattutto per quelli cosiddetti del Sud del mondo. Si comprende, quindi, perché il documento aggiornato al 2011, dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) sia corposo, 350 pagine: World report on disability (2011), a cura del World Health Organization & The World Bank, pp. 26-37. Secondo una prima stima dell’OMS, degli anni ’70, almeno il 10% della popolazione mondiale è affetta da disabilità, valore che supera il 15% nel rapporto del 2011. Non si distingue, però, tra disabilità fisica e mentale, ma solo tra disabilità grave e moderata. Il rapporto è consultabile per intero e online in più lingue: (http://www.who.int/disabilities/world_report/2011/en/index.html). In Italia i disabili sono 2 milioni e 600.000, pari a quasi il 5% della popolazione, secondo l’Istituto Nazionale di Statistica (Istat), Indagine multiscopo “Condizioni di salute e ricorso ai servizi sanitari – Anni 2004-2005, contenuta nel documento: La disabilità in Italia, il quadro della statistica ufficiale (2009), a cura dell’Istat, p. 17. Il corposo rapporto è consultabile online e per intero: (http://www3.istat.it/dati/catalogo/20100513_00/arg_09_37_la_disabilita_in_Italia.pdf). 47 I dati sono aggiornati al 2012 e sono consultabili sul sito dell’Agenzia internazionale per la prevenzione della cecità, sezione italiana: (http://www.iapb.it/news2.php?ozim=49&id=177). Sul sito La ruota dei colori accessibili è possibile individuare il contrasto cromatico tra lo sfondo e il testo utilizzando i parametri consigliati dalle linee guida sull’accessibilità (nota n. 45). Il sito segnala anche come viene percepito tale contrasto nelle forme più comuni
di daltonismo: (http://gmazzocato.altervista.org/colorwheel/wheel.php). 48 Secondo l’OMS il 2,5% della popolazione del mondo è affetta da cataratta curabile con un intervento chirurgico. Ogni anno i nuovi casi che richiedono questo intervento sono pari allo 0,5%: Vision 2020, the right to sight – A Manual for Vision 2020 workshops, p. 17. Questo programma è consultabile online e per intero: (http://www.who.int/ncd/vision2020_actionplan/documents/V2020coursemanual.PDF). Secondo l’Istat la cataratta colpisce in Italia l’8,5% della popolazione tra i 70 e i 74 anni, stima che raddoppia tra le persone ultraottantenni. I dati sono aggiornati al 2012 e sono consultabili sul sito dell’Agenzia internazionale per la prevenzione della cecità, sezione italiana: (http://www.iapb.it/news2.php? id=151). 49 I disturbi uditivi caratterizzano il 5% della popolazione mondiale, 360 milioni di persone, secondo l’OMS (dati aggiornati a febbraio 2013). In Italia la percentuale degli audiolesi è di poco inferiore al 2%. Indagine multiscopo “Condizioni di salute e ricorso ai servizi sanitari – Anni 2004-2005 a cura dell’Istat: (http://www.disabilitaincifre.it/prehome/tipologie_disabilita.asp). 50 Oltre ai sottotitoli un altro strumento utile in questo caso è la stenotipia, un tipo di stenografia che permette di trascrivere rapidamente il contenuto di una conversazione o di una esposizione orale, come si usa, per esempio, in tribunale. 51 I riferimenti al lab meeting si ispirano a: Career advice for Life Scientists (2002), a cura dell’American Society for Cell Biology, I & II, 43 (lab meeting) e 215 (presentazione orale). Il testo è consultabile online e per intero: (http://publications.nigms.nih.gov/training/career-advice-for-life-scientists.pdf). 52 Ho preso spunto da un articolo che esamina soprattutto di journal club di ambito medico, ma i contenuti sono applicabili anche ad altre discipline: Milbrandt, E. B., & Vincent, JL. (2004). Evidence-based medicine journal club Crit Care. 8 (6), 401-402. Questo articolo ha un codice DOI (Digital Object Identifier) pari a: 10.1186/cc3005 (capitolo 3, citazioni bibliografiche). Il testo è consultabile online e per intero: (http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC1065082/). 53 Le pagine seguenti, già citate per la costruzione del testo scritto, presentano riferimenti anche alla presentazione orale dei poster: Creating Effective Poster
Presentations, North Carolina State University (USA): (http://www.ncsu.edu/project/posters/). 54 Ho preso spunto da: Wolfe, J. (1996). How to survive a thesis defence, Sydney, Australia: University of New South Wales, School of Physics. (http://www.phys.unsw.edu.au/~jw/viva.html). La versione italiana di questo articolo contiene numerosi errori sintattici. Si consiglia di consultare la versione in lingua inglese. 55 Linzer, M. (1987). The journal club and medical education: over one hundred years of unrecorded history. Postgrad Med J. 63 (740):475-478. L’articolo è consultabile online per intero: (http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC2428317/). 56 Valgono anche per la presentazione orale gli spunti ulteriori suggeriti a conclusione del capitolo 3: molte fonti, infatti, indicano come costruire un testo scientifico scritto e come esporlo, poi, oralmente tra gli addetti ai lavori. 57 Di solito i blog non vengono annoverati tra le fonti bibliografiche. Ho conosciuto l’ideatrice di Tutto slide, Cristina Rigutto, docente di analisi e presentazione dei dati al Master in Comunicazione delle Scienze dell’Università degli Studi di Padova. Per questo mi permetto di segnalare il suo blog tra gli spunti ulteriori, dato che contiene informazioni utili in questo ambito e che viene aggiornato con frequenza.
Capitolo 5 – Il metodo “CRS”
5.1 Perché questo capitolo La prima edizione del manuale non ospitava un capitolo dedicato al metodo alla base delle attività “CRS”. L’esperienza didattica e di ricerca in questo ambito, infatti, è maturata soprattutto a partire dal 2008, quando ho deciso di investire a tempo pieno nella formazione “CRS” come libera professionista, quindi senza una struttura accademica o aziendale di appoggio. Nel 2008 nascono il marchio “CRS”58 e il sito dedicato a questa disciplina, viene pubblicato il manuale, prima in italiano, poi in spagnolo (2009). Decidere di investire nella didattica e ricerca “CRS” a tempo pieno come professione è stato un aggio graduale, dettato da una progressiva presa di coscienza. Dal 2008 a oggi si è consolidato uno stile “CRS”, che di seguito sarà descritto come “metodo CRS”, presentato alla comunità accademica internazionale59, sono aumentati i corsi e i seminari, sono nate le scuole intensive e si è ampliato progressivamente il bacino d’utenza dei partecipanti. Sono oltre 300 in quasi cinque anni, soprattutto giovani ricercatori. A questo numero va aggiunto quello degli interessati, oltre 200, inclusi i docenti e i coordinatori di dottorato, oltre ai giovani scienziati che mi hanno contattato o che ho incontrato. Le stime, come sempre, vanno valutate tenendo conto del contesto: la formazione “CRS” è post-universitaria, quindi si rivolge a persone adulte, impegnate nella ricerca, nel lavoro e nella costruzione del loro futuro, non solo professionale. Chi sceglie di approfondire questo ambito, spesso, decide in proprio e se ne assume la responsabilità, prendendo le ferie per partecipare alle attività “CRS” e sostenendo, a volte, i costi di iscrizione e di permanenza in modo autonomo. Inoltre sono stati e sono anni critici, faticosi, di nuovo assetto accademico, soprattutto in Italia, che ha comportato tagli alla ricerca, spesso a partire dalle risorse per i giovani ricercatori, insieme alla chiusura di aziende di ambito tecnico-scientifico. Osservare, quindi, un incremento delle attività “CRS” in un periodo simile mi incoraggia a pensare che questa proposta formativa sia apprezzata. Da qui l’idea di dedicare le pagine conclusive della seconda edizione del manuale a ripercorrere le tappe principali di tale scelta professionale e a presentare il
metodo alla base delle attività che svolgo.
5.2 “CRS”, un po’ di storia
La nascita e lo sviluppo di questa disciplina procedono di pari o con il mio percorso di studio e di lavoro. Inizia dalla presa di coscienza di un vuoto formativo che ho avvertito durante il dottorato (Milano 1997-1999). Matura grazie a un corso di divulgazione scientifica post-universitario (Milano 1999-2000). Si concretizza a partire da esperienze professionali nella comunicazione medico-scientifica (Milano, 20002006) e in quella sociale in ambito internazionale (Roma, 2006-2008). Diventa metodo grazie all’insegnamento e alla ricerca in una facoltà di filosofia e teologia (Viterbo, dal 2008 a oggi). I primi i “CRS” sono del 2003: seminari, di un paio d’ore, dedicati ai fondamenti della comunicazione scritta e orale e rivolti a giovani ricercatori di alcune facoltà scientifiche italiane. Tra queste: Brescia, Milano, Monza, Padova e Viterbo. Il primo corso “CRS” è del 2006: venti ore in quattro lezioni, un appuntamento annuale fino al 2010, su invito del coordinatore di un dottorato della Facoltà di Scienze Agrarie dell’Università degli Studi della Tuscia. A partire da questa esperienza si consolida uno stile “CRS”, che i giovani ricercatori sembrano apprezzare: alcuni di loro seguono i corsi “CRS” più di una volta durante il dottorato e offrono il loro contributo nelle lezioni dedicate alla parte pratica della comunicazione della ricerca scientifica; altri ricevono riconoscimenti per poster o presentazioni orali preparati dopo aver seguito tali corsi. È sulla base dei colloqui di questo periodo con i giovani ricercatori e i docenti che prende corpo l’idea di investire a tempo pieno nella formazione “CRS”, come si è accennato nel paragrafo precedente. Nel 2009 nasce la scuola “CRS”, inizialmente proposta nel periodo estivo e in lingua italiana: una settimana interamente dedicata a questa disciplina e rivolta ai giovani ricercatori di vari ambiti di studio e atenei, che conoscono bene questa lingua scritta e parlata. Diventa un appuntamento annuale e, a partire dal 2012, aumentano le edizioni:
non soltanto in estate, ma anche a ridosso delle vacanze natalizie, in primavera e in autunno, in varie regioni italiane, alle quali alcuni giovani ricercatori partecipano più di una volta. Dal 2012, inoltre, sono invitata a tenere seminari “CRS” in alcune scuole di dottorato e, dal 2013, la proposta si estende anche ai corsi “CRS”, ospitati in centri di ricerca o all’esterno del contesto accademico e svolti anche in lingua inglese.
5.3 Il metodo “CRS”
È di alcuni partecipanti a un’edizione della scuola “CRS” l’uso del termine “metodo” per definire lo stile di questa iniziativa, osservata, nella loro intenzione, sulla base del metodo scientifico. Per comprendere una definizione simile occorre prima riferirsi all’etimologia del termine. Metodo deriva dal latino mèthodus che vuol dire: “ricerca, indagine, investigazione” e anche “il modo della ricerca”. L’origine è greca, dal termine methòdos, composto da metà, che significa “dopo” e hòdos, che significa “via”. Metodo, letteralmente, quindi indica: “l’andar dietro, la via per giungere a un determinato luogo o scopo”. Il senso etimologico si conserva nel significato attuale: “il modo, la via, il procedimento utilizzato nel perseguire uno scopo, nello svolgere una qualsiasi attività, secondo un ordine e un piano prestabiliti in vista del fine che s’intende raggiungere”. Il metodo scientifico è definito come: “l’insieme di norme, direttive e convenzioni seguite nell’impostazione e nella conduzione della ricerca, in base a criteri generali di razionalità e obiettività che garantiscano non solo la significatività e la comunicabilità dei processi di acquisizione teorica, ma anche la riproducibilità e la verificabilità delle osservazioni su cui tali processi si basano”. I giovani ricercatori che hanno definito lo stile “CRS” un metodo svolgono ricerca quantitativa, che, come accennato, è basata su dati numerici riferiti a osservazioni sperimentali. Sono, quindi, abituati ad accertare la significatività e la comunicabilità di una teoria e la riproducibilità e la verificabilità dei dati ottenuti. Avendo a che fare con le persone, però, la scuola e le altre attività “CRS” diventano, forse, poco adattabili a fenomeni da osservare con modelli e previsioni. È una proposta, inoltre, non l’unica e può essere accolta o meno. Non c’è un risultato atteso: ogni persona risponde in modo autonomo, maturo e libero. Per questo, trattandosi di ricerca qualitativa, sarebbe magari preferibile
utilizzare la definizione comune di metodo e provare a descrivere il metodo “CRS” a partire da essa.
5.3.1 Il dialogo tra, attraverso e al di là delle discipline
Nell’accezione comune, come si è anticipato, il metodo è il modo per perseguire uno scopo e per svolgere qualsiasi attività secondo un ordine e un piano prestabiliti. Lo scopo del metodo “CRS”, in particolare, è costruire uno spazio di dialogo tra, attraverso e al di là delle discipline. Indipendentemente da quali e quante siano. Sono i presupposti del metodo transdisciplinare o transdisciplinarità, sulla quale si basa il metodo “CRS”. È una prospettiva recente, nata in Francia negli anni Settanta e sviluppata nella decade successiva grazie al contributo di Basarab Nicolescu, fisico rumeno, studioso di meccanica quantistica e di filosofia. Senza addentrarsi nei fondamenti60 del metodo transdisciplinare, si accennerà al suo significato, a partire della preposizione latina trans, che vuol dire “tra, attraverso e al di là”. La prospettiva transdisciplinare, quindi, si differenzia da quella interdisciplinare (da inter, che significa “tra e attraverso”) e multidisciplinare (da mùltus, letteralmente “aumentato, accumulato”, da cui molto). Non si tratta soltanto di mettere insieme (multi) o a confronto (inter, tra) più discipline, ma di metterle in dialogo, in modo che ciascuna integri, cioè “renda intera”, completi, l’altra. Non è solo inter-azione, ma complementarietà. Il dialogo tra, attraverso e al di là delle discipline, secondo questa prospettiva, permette di valorizzare ciascun sapere, non di mescolarlo, di confonderlo, di perderlo o di sminuirlo. È opinione diffusa tra chi si occupa di ricerca che specializzarsi in un solo settore (tecnico-scientifico o umanistico) sia garanzia di professionalità e di competenza. Anzi, più ci si concentra nel proprio campo di studio, meglio è, dato che la conoscenza è sempre limitata e richiede tempo. La tendenza alla specializzazione e alla frammentazione del sapere ha caratterizzato la ricerca universitaria e post-accademica, in ambito pubblico e privato, a livello nazionale e internazionale dei decenni scorsi. Non si contano più le discipline, scientifiche e umanistiche: alla fine degli anni ’80, per esempio, si stimavano oltre 8500 ambiti di studio61. Il linguaggio dei saperi diventa
sempre più specialistico e tecnico. Si assiste a una progressiva “disumanizzazione” della scienza, di una conoscenza, cioè, che è tale solo se si può dimostrare scientificamente. Si parla di imbarbarimento e di crisi della civiltà, soprattutto europea, dovuti anche alla parcellizzazione dei saperi. È questo disagio a interpellare Nicolescu62. È interessante che sia uno scienziato, specializzato in una branca della fisica (quindi delle scienze cosiddette esatte) che studia gli elementi più piccoli della materia a interrogarsi. Negli anni, però, Nicolescu si avvicina allo studio della filosofia, una scienza cosiddetta umana. Il primo terreno di dialogo tra, attraverso e al di là delle discipline, quindi, lo costruisce dentro di sé. È la proposta che rivolgo ai partecipanti alle varie attività “CRS”, soprattutto a chi segue le scuole intensive: costruire un terreno di dialogo tra, attraverso e al di là dei saperi di ognuno. Per favorire questa possibilità, di solito, invito relatori di vari ambiti disciplinari e professionali, del mondo della ricerca accademica, istituzionale e aziendale, alcuni dei quali hanno competenze in campo scientifico e umanistico. Propongono tematiche che, in genere, non si affrontano nel percorso di studi delle facoltà scientifiche. Tra queste: filosofia della scienza ed etica in relazione alla ricerca scientifica, cenni di marketing scientifico e grafica applicata alla scienza. Definiamo insieme ai relatori il contenuto degli interventi, che si affiancano alle lezioni dedicate alla comunicazione della ricerca scientifica, in modo che anche tra i relatori si sperimenti il dialogo tra, attraverso e al di là delle nostre discipline. I partecipanti, spesso, sono stimolati a fare lo stesso, anche senza conoscersi, o essendosi scambiati solo qualche mail prima di iniziare la scuola. Costruire uno spazio di dialogo tra i partecipanti e insieme ai relatori implica scegliere di abitare questo spazio per tutta la durata della scuola: provarci, almeno.
5.3.2 Studio e vita insieme
Il dialogo tra, attraverso e al di là delle discipline ha bisogno di tempo per essere compreso e attuato. Spesso nella quotidianità questo non è possibile. Da qui l’idea delle scuole intensive “CRS”: giornate dedicate a tale disciplina e non solo, come si è appena accennato, ospitate in strutture non accademiche e al di fuori del luogo di lavoro. Propongo ai partecipanti di stare insieme il più possibile, non solo a lezione, ma anche durante i pasti, gli intervalli e dopo cena. Inoltre, se possibile, di cucinare, di fare la spesa e di sistemare gli spazi comuni insieme: sono attività, spesso, lontane da quanto si è soliti vivere durante i convegni, corsi e le scuole che si seguono nel percorso di studio dottorale. A volte questa proposta non è immediatamente compresa, soprattutto dai giovani ricercatori che risiedono vicino alla struttura ospitante: non si è abituati a considerare il dialogo parte integrante di una proposta formativa, ci si limita, in genere, solo a seguire le lezioni. Il metodo “CRS” prevede che, soprattutto nelle scuole “CRS”, lo studio si affianchi alla vita63: si presentano i contenuti e si prova ad attuarli subito, tra partecipanti e docenti. La pratica, basata sul dialogo e sulla condivisione dell’intera giornata, è il fondamento per comprendere la teoria. E, viceversa, la teoria permette di intuire come applicare quanto esposto durante le lezioni e il tempo libero. Aderire a una proposta del genere implica mettersi alla prova spesso completamente. Chi partecipa alle scuole “CRS” sceglie di allontanarsi per alcuni giorni dalla propria quotidianità, in un contesto a volte lontano dalla città, che richiede spirito di adattamento, disponibilità e apertura all’altro. Il programma è consultabile sul sito “CRS” con anticipo, ma solo vivendo questa esperienza si comprende tale proposta in profondità e si sceglie di aderirvi o meno64. La scuola “CRS” è un’attività peculiare rispetto ai corsi, che vengono svolti in più lezioni (di solito una a settimana) o in più giorni di seguito. I corsi “CRS” sono ospitati in una struttura accademica e i partecipanti spesso si conoscono, svolgono attività di ricerca nella stessa sede e su tematiche simili.
5.3.3 Un gioco di squadra e di dialogo con, tra e per
Come si è accennato nei paragrafi precedenti, il dialogo è alla base del metodo “CRS” e caratterizza ogni fase delle attività che propongo, dalla loro ideazione, alla conclusione. Che si tratti di corsi, scuole o seminari, non fa differenza: le iniziative “CRS” sono frutto di un gioco di squadra con, tra e per le persone che sono coinvolte. Abbiamo accennato al dialogo tra, attraverso e al di là delle discipline, reso possibile, soprattutto nelle scuole “CRS”, da quello con e tra i relatori e con, tra e per i partecipanti. Senza studenti queste attività non si potrebbero svolgere, quindi la loro presenza è essenziale. È spesso il aparola ad ampliare il bacino di utenza: quello dei giovani ricercatori che partecipano alle attività o che mi contattano avendo ricevuto le informazioni dai loro docenti o avendole lette sul sito “CRS”; quello dei docenti, informati dai loro studenti o dai colleghi. Il gioco di squadra e di dialogo riguarda, poi, anche la parte logistica, cruciale in ogni fase delle attività “CRS”, soprattutto delle scuole. Di solito chi si occupa di ricerca in ambito accademico o aziendale ha una struttura di appoggio per la parte logistica: ci sono la segreteria amministrativa (per riscuotere le quote di iscrizione, cercare eventuali sponsor, pagare i fornitori e i relatori) e quella organizzativa (per preparare i materiali didattici e promozionali); le aule, spesso, attrezzate di videoproiettore e microfono per le lezioni; un albergo o un’altra struttura ospitante vicino alla sede dove si svolge l’attività. Nella libera professione, invece, ogni aggio va pensato e realizzato in modo autonomo: non potrei svolgerlo da sola, sia perché non si può essere competenti e responsabili di ogni aspetto, sia perché è a partire dal dialogo tra le parti che si costruisce l’attività, qualunque essa sia. Per questo, soprattutto nelle scuole “CRS” l’organizzazione richiede mesi: per cercare le strutture ospitanti con il rapporto qualità, prezzo, cordialità, bellezza del posto più vantaggioso possibile; per cercare gli sponsor65, senza i quali le scuole non avrebbero il costo che propongo; per ideare i materiali didattici e promozionali, che seguono uno stile
nella grafica66 e nella realizzazione67 ormai consolidato. Il gioco di squadra e di dialogo caratterizza anche le iniziative “CRS” nate grazie ai partecipanti o ai docenti che mi hanno invitato a svolgere corsi, scuole e seminari nelle loro sedi. La maggior parte delle attività “CRS” del 2012 e del 2013, per esempio, è il risultato di questo gioco di squadra. Di solito pensiamo insieme al programma, tentando di modularlo in base alle esigenze dei partecipanti, cerchiamo eventuali strutture di appoggio, sponsor e relatori, se si tratta di scuole, e proviamo ad adattare lo stile dei materiali grafici e didattici “CRS” al loro. Mi piace pensare che anche i lettori di questo manuale possano entrare a far parte di un gioco di squadra simile e di dialogo, attivando, chissà, il aparola tra i loro colleghi per lo svolgimento e la partecipazione a qualcuna delle attività “CRS”.
58 Contrariamente all’accezione comune, “marchio”, “marca” e “logo” non sono sinonimi. Trattandosi di un manuale di comunicazione, si è pensato di fornire qualche cenno su questi termini. La marca (parola di origine germanica, marcha, con il significato iniziale di “limite, confine”, che evolve verso “segno, contrassegno”, da cui deriva anche marchio) è definita dall’American Marketing Association: “Un nome, un termine, un segno, un simbolo, un progetto o una combinazione di questi elementi che ha lo scopo di identificare i beni o i servizi di un venditore o di un gruppo di venditori per differenziarli da quelli dei concorrenti”. Per esempio: Lacoste® (incluso il disegno del coccodrillo), Fendi® (considerando anche la combinazione delle due lettere “F”), Microsoft® (compresa l’immagine della finestra con i riquadri colorati). Il marchio è un segno grafico capace di evocare una relazione tra il prodotto o il servizio fornito. Serve a distinguere il prodotto di un’impresa e a identificare la fonte dalla quale proviene. Il marchio è di solito composto da quattro elementi: il nome, il logotipo (o logo), i colori e il simbolo. A questi può essere associato uno slogan (o pay-off). Per tornare agli esempi precedenti: il disegno del coccodrillo è il marchio Lacoste®, la combinazione delle due “F” è il marchio Fendi® e l’immagine della finestra è il marchio Microsoft®. Le immagini (disegni e lettere) sono anche i simboli dei marchi, che utilizzano colori fissi. Se si tratta di marchi famosi, questi elementi sono sufficienti a identificare la marca, che diventa uno stile, modo di vestire o di lavorare al computer, negli esempi citati.
L’uso di “®” indica che si tratta di marchi registrati (in Italia, per esempio, all’Ufficio Italiano dei Brevetti e Marchi), una forma di tutela di chi lo ha ideato, che ne dispone in modo esclusivo. Il logo, o logotipo, è l’elemento testuale del marchio, la parte che si può pronunciare o leggere (dal greco logos, “parola”). Dei tre esempi citati solo “Windows XP” è il logo che identifica la marca, gli altri (coccodrillo e combinazione di lettere “F”) sono marchi, come anticipato. Quando il logo è privo della componente grafica prende il nome di logotipo: per esempio la scritta “Google” dell’omonima marca, con uno stile definito dal tipo di carattere scelto (lettering in inglese) e dalla successione dei colori. Il logotipo “CRS”, in forma di acronimo e per esteso “comunicazione ricerca scientifica”, e i due colori (bianco e bordeaux) costituiscono il marchio “CRS” e sono visibili nella copertina di questo manuale e su tutti i materiali “CRS”. 59 Longo, B. & Mangano, M. F. (2010). Using Interdisciplinary and Intercultural Communication to Accommodate Social Dynamics in Technology Development, relazione presentata nel 2010 a EASST 10 Conference (The European Association for the Study of Science and Technology), Trento, Italia. Mangano, M. F. (2013). Dialogue, a space between, across and beyond cultures and disciplines – A case study of lectures in transcultural and transdisciplinary communication. In N. Haydari & P. Holmes (Eds.), Intercultural case studies. Dubuque, IA: Kendall Hunt Publishing Co. (in corso di stampa). 60 Per un primo contatto con il metodo transdisciplinare si può consultare il sito del Centro Internazionale di Ricerca Transdisciplinare, fondato da Nicolescu nel 1987 a Parigi. Contiene, in particolare, la Carta della transdisciplinarità, disponibile in più lingue, e il Progetto morale, documenti che descrivono i presupposti e le implicazioni di questa prospettiva: (http://basarab.nicolescu.perso.sfr.fr/ciret/indexen.html). La transdisciplinarità è alla base dei corsi di dialogo tra le culture che svolgo al biennio di Filosofia dell’Istituto Filosofico-Teologico “S. Pietro” di Viterbo dal 2008. Essi si fondano sull’ipotesi che il dialogo tra, attraverso e al di là delle discipline abbia bisogno del dialogo tra, attraverso e al di là delle culture e viceversa. Questi due ambiti non si possono pensare separatamente, si alimentano a vicenda a partire da una base filosofica, antropologica, risultato di questi anni di didattica e di studio a livello umanistico e scientifico. Per i lettori interessati a conoscere meglio tale tematica: Mangano, M. F. (2011). i verso la scoperta dell’altro: esperimenti di dialogo transculturale. In: A. Bissoni & L. Di Sciullo (Eds.) Identità e accoglienza. Tra limite e desiderio (pp. 87-99). Torino, Italia: Elledici. Mangano, M. F. (2012). When dialogue between cultures is the basis of dialogue between
disciplines: experiments of transcultural dialogue in a faculty of PhilosophyTheology in Italy. In: Z. Karahan Uslu & C. Bilgili, (Eds.), Media Critiques 2011-Broken Grounds 2: Intercultural Communication, Multiculturalism (pp. 4975). Sofia, Bulgaria: Marin Drinov Academic Publishing House. 61 Crane, D. & Small, H. (1992). American Sociology since the Seventies: The Emerging Crisis in the Discipline. In: Halliday, T. C. & M. Janowitz, M. (Eds.), Sociology and its Publics: The Forms and Fates of Disciplinary Organization (p. 197). Chicago, IL: University of Chicago Press. 62 Per un approfondimento sulla genesi e sui fondamenti del metodo transdisciplinare: Nicolescu, B. (2001). Meaning through Transdisciplinary Knowledge. L’articolo è consultabile online e per intero: (http://www.metanexus.net/magazine/tabid/68/id/4228/Default.aspx). Sulle motivazioni alla base del metodo transdisciplinare (i fondamenti epistemologici): Thompson Klein, J. (1994). Notes Toward a Social Epistemology of Transdisciplinarity. Il testo è consultabile per intero e online: (http://cirettransdisciplinarity.org/bulletin/b12c2.php). 63 La proposta di affiancare lo studio alla vita non è nuova: già nel V secolo a.C., ad Atene, Socrate insegnava ai suoi allievi in questo modo. Platone (IV secolo a. C.), discepolo di Socrate, fa riferimento al risultato del dialogo e della condivisione tra studiosi alla base di una disciplina diversa dalle altre, presumibilmente la filosofia: “Perché non è, questa mia, una scienza come le altre: essa non si può in alcun modo comunicare, ma come fiamma s’accende da fuoco che balza: nasce d’improvviso nell’anima dopo un lungo periodo di discussioni sull’argomento e una vita vissuta in comune, e poi si nutre di se medesima”. Platone, Lettera VII, (341 c-d). In: Giannantoni, G. (Ed.) (2004). Platone, Opere Complete vol.8 – Lettere, definizioni, dialoghi spuri. Bari, Italia: Editori Laterza. La Lettera VII si può consultare per intero e online: (http://www.operediplatone.virtuale.org/Testi/Lettera%207.pdf). Anche le prime università sorte in Europa e in Italia nel XIII secolo si basavano sul binomio vita e studio. Esso, tuttavia, non va inteso nell’accezione attuale, come il modello del campus o cittadella universitaria. Non si tratta solo di alloggiare nella sede dove si conducono gli studi e di condividere le lezioni e il tempo libero tra gli studenti. Le università di epoca medievale concepivano lo studio come risultato del dialogo e della vita in comune, tra studenti e docenti, come nell’antica Grecia. Erano aspetti legati, inscindibili, che portavano docenti e studenti a preparare anche i testi di studio insieme, arricchendoli dal dialogo e dalla
condivisione tra loro. Moulin, L. La vita degli studenti nel medioevo trad. it. Antonio Tombolini (1992), Milano, Italia: Jaca Book. Una realtà accademica che coniuga vita e pensiero sulla base del metodo transdisciplinare è l’Istituto Universitario Sophia, nato nel 2008 vicino Firenze. Il contesto è internazionale e l’offerta formativa prevede la laurea magistrale, il dottorato e il post-dottorato in discipline di ambito umanistico (filosofia, teologia), scientifico (filosofia della natura e logica) e legato alle scienze sociali (studi politici ed economici) (http://www.iu-sophia.org/). 64 In questi anni di didattica “CRS”, mi sono imbattuta in giovani ricercatori spesso motivati, seri, disponibili a imparare e a mettersi in gioco. Chi partecipa alle scuole, in particolare, non decide solo in base ai contenuti offerti, ma anche a partire dallo stile della proposta: la sede, il periodo, la modalità di svolgimento, oltre al programma. Dico spesso ai partecipanti che sono loro a trovare la scuola “CRS”, non io a cercarli. Molti, infatti, scelgono di partecipare perché si stanno guardando intorno, al termine del dottorato o, più spesso, perché incerti sul futuro o insoddisfatti del presente, indipendentemente dal percorso formativo e professionale che stanno svolgendo. Sono alla ricerca, mi dicono spesso, di alternative accademiche o professionali, ma anche, a volte, di chiarezza interiore. La scuola, spesso, è l’occasione per ritagliarsi tempo per sé, per dialogare, pensare, conoscere altre persone con percorsi simili o diversi. Offre a molti l’opportunità di confrontarsi e di superare inibizioni, pregiudizi, dubbi. Alcuni considerano decisiva questa esperienza, grazie alla quale, spesso, riescono a comprendere un po’ di più cosa può soddisfarli e come. 65 In questi anni si sono stabiliti rapporti di fiducia reciproca con alcuni sponsor. Tra questi: Tangram Edizioni Scientifiche Trento, editore di entrambe le versioni del manuale, che ha curato la stampa dei materiali didattici e promozionali insieme alla parte amministrativa delle scuole “CRS” a titolo gratuito: (http://www.edizioni-tangram.it/); Nobil Bio Ricerche della provincia di Asti, azienda di biotecnologie che, finora, ha sponsorizzato la partecipazione di oltre dieci partecipanti alle scuole “CRS” (http://www.nobilbio.it/). Va inoltre menzionato il Centro Studi Alpino dell’Università degli Studi della Tuscia di Pieve Tesino (Trento) che ospita a condizioni vantaggiose la scuola estiva “CRS” dalla sua prima edizione (http://www.centrostudialpino.unitus.it/). 66 L’immagine coordinata delle attività “CRS” (marchio, sito, materiali promozionali) è stata ideata e realizzata da: Claudio Fortugno di Agenzia Propaganda®, Viterbo (http://www.agenziapropaganda.it/index.html), che ha
curato anche la copertina di questo manuale. 67 Dato che si tratta di scuole di comunicazione, anche la presentazione dei materiali didattici e promozionali diventa argomento di dialogo a lezione: si cerca di curare ogni dettaglio, in modo originale e con l’attenzione alla sostenibilità ambientale. Per questo i materiali didattici delle scuole “CRS” sono realizzati a mano, utilizzando i riciclati, diversi per ogni edizione della scuola.
Capitolo 6 – Non-conclusioni
Come descritto nelle pagine precedenti, ogni testo ha bisogno di una chiusura, nella quale si riprendono gli scopi del lavoro suffragati dai risultati e si prospettano scenari futuri. Essere arrivati in fondo alla lettura di queste pagine, possibilmente senza saltare i capitoli precedenti, è un buon inizio. Ma la strada verso la comunicazione della propria e altrui ricerca inizia ora, se possibile. Per questo si è pensato di intitolare questo capitolo “non-conclusioni”. Si tratta di andare avanti nella pratica – scrittura e comunicazione orale – e nella teoria, provando a non accontentarsi di queste pagine e delle fonti suggerite. Tentare di approfondire questa disciplina in modo autonomo può essere un ottimo esercizio per continuare a camminare sulla strada della comunicazione della ricerca scientifica.
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