Maria Beatrice Mirri
Per una storia della tutela del patrimonio culturale
© 2014 Edizioni Sette Città Via Mazzini, 87 • 01100 Viterbo www.settecitta.eu •
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ISBN: 978-88-7853-094-2 ISBNebook: 978-88-7853-540-4
ebook realizzato da Giulia Bocci. Stage del Dipartimento di Lingue, Letterature e Culture Straniere (LLCS) dell'Università degli Studi Roma Tre presso le Edizioni "Sette Città".
Indice dei contenuti
Introduzione Il patrimonio culturale nel mondo antico Il patrimonio culturale a Roma Le prime disposizioni di tutela nel Quattrocento e Cinquecento Il collezionismo e la nascita del museo La tutela nel Rinascimento Il divieto di ‘estrazione’ nel Granducato di Toscana La tutela archeologica e artistica nello Stato Pontificio La protezione archeologica nel Granducato di Toscana La tutela archeologica nel Regno di Napoli Il Settecento, il Grand Tour e i musei La conservazione nel Lombardo Veneto e nella Repubblica di Venezia Le spoliazioni napoleoniche e il chirografo di Pio VII L’editto del cardinale Pacca L’eccezione liberista sabauda L’Unità d’Italia e i fedecommessi L’espropriazione del patrimonio ecclesiastico Verso l’organizzazione amministrativa e la legge di tutela del patrimonio
artistico La protezione del paesaggio e delle bellezze naturali Il ministro Bottai e l’ ‘azione per l’arte’ L’art. 9 della Costituzione e la Ricostruzione La Commissione schini e la nascita del Ministero Il decentramento e le leggi di fine Novecento La riforma costituzionale e il codice dei beni culturali e del paesaggio Documenti
Introduzione
L’esigenza di salvaguardare il patrimonio artistico e culturale[1] è propria di tutte le civiltà: ogni cultura riconosce ad alcune sue produzioni la funzione di preservare la propria memoria storica e le considera come tracce con cui è possibile ricostruire, talvolta in senso mitico, il percorso già compiuto fino al presente.
I beni culturali sono quindi monumenti (da monere, ricordare), immagini vive della memoria che concorrono a definire e mantenere simbolicamente l’identità di un popolo nel tempo. La salvaguardia di tali produzioni umane, cui si attribuisce un valore sociale e artistico, si fonda sulla coscienza di un interesse collettivo (relativo a un popolo o un gruppo) verso quei simboli di identità e di continuità con il ato. Tale concetto è proclamato dall’art. 1 del codice dei beni culturali e del paesaggio (c.b.c.): “ In attuazione dell’art. 9 della Costituzione, la Repubblica tutela e valorizza il patrimonio culturale.. La tutela e la valorizzazione del patrimonio culturale concorrono a preservare la memoria della comunità nazionale e del suo territorio e a promuovere lo sviluppo della cultura”.
Solo la costruzione di un corpus giuridico, specifico e coerente, che protegga e tramandi le testimonianze e i caratteri di una tradizione comune, può difendere il comune patrimonio artistico e culturale dagli eventi della storia. Come ha lucidamente osservato Andrea Emiliani, “una legge di tutela può essere prima di tutto un’esperienza correttamente conoscitiva, uno strumento culturale sulla cui efficacia non si è mai riflettuto. Per quanto riguarda le normative di tutela, salvaguardia e conservazione, le leggi appaiono le sole affermazioni pubbliche, addirittura popolari, affaccendate a disegnare la nozione di un patrimonio, di una eredità, di un impegno.. che si presenta alla società come cosa diversa”[2].
Nasce così la tutela, l’insieme di norme e attività che la società predispone per garantire la difesa del suo patrimonio e il godimento pubblico dei beni che lo compongono.
Ripercorrendo la storia della tutela e conservazione del patrimonio artistico dall’antichità ad oggi si possono comprendere le ragioni della disciplina attuale, che costituisce il punto di arrivo di una lunga tradizione[3].
[1] Tradizionalmente si fa riferimento al patrimonio artistico, che fin dall’antichità è stato protetto e conservato: ma, se si riflette sull’importanza storica dei beni e sulla salvaguardia degli archivi e biblioteche, come pure sulla tutela del paesaggio negli ultimi cento anni, allora è preferibile parlare di patrimonio culturale, concetto più moderno e omnicomprensivo.
[2] A. Emiliani, I materiali e le istituzioni, in Storia dell’arte italiana, p. I, v. I, Einaudi, Torino, 1979, p. 106.
[3] Sulla tutela culturale fondamentale è il riferimento a T. Alibrandi, P. Ferri, I beni culturali e ambientali, Giuffrè, Milano, 2001.
Il patrimonio culturale nel mondo antico
Per comprendere la dimensione giuridica del patrimonio artistico occorre partire dal valore che si attribuisce a certe cose, al di là della considerazione di tipo economico o utilitaristico: ogni popolo, fin dalle civiltà primitive, ha dato a certi oggetti, luoghi, pietre, formazioni naturali o composte dall’uomo un valore speciale, collegato alla civiltà di un gruppo sociale o di una etnia (come accade per il linguaggio, l’abbigliamento, il modo di vivere, di costruire, di mangiare, di combattere etc.).
Spesso ciò era collegato ad aspetti soprannaturali, religiosi, altre volte alla vita stessa di quel gruppo o etnia: ed è questo che nel momento della lotta con altre genti veniva a rappresentare quel popolo e, se esso soccombeva, era bottino del vincitore.
Emblematico è il rituale del trionfo nell’antichità e in particolare a Roma, ove il toponimo Via Trionfale indica ancora oggi la strada che da nord entrava in città ed era percorsa dai generali vittoriosi col loro seguito di capi vinti, legati al carro trionfale, ornato dei simboli più importanti della popolazione domata e umiliata. Il corteo, al centro del quale stava il generale che aveva riportato la vittoria sul nemico, era formato da senatori, truppe, prigionieri e trofei e sfilava da Campo Marzio fino al tempio di Giove Capitolino, dove venivano offerti sacrifici. I tesori d’arte, dopo il trionfo, erano sistemati in luoghi pubblici come portici, atrii o piazze e destinati al godimento di tutti. Le prime collezioni di oggetti, cui attribuire un particolare valore, sono state legate innanzitutto alla religione e quindi anche al tesoro pubblico (che contiene anche gli archivi): i bottini di guerra e determinati prodotti erano trasmessi da una generazione all’altra e le opere d’arte, associate al potere, servivano come mezzo di scambio; allo stesso tempo, per il loro valore intrinseco, basato sul metallo prezioso o le pietre rare di cui erano composte, costituivano riserva di ricchezza pubblica e simbolo del
credito nazionale[1].
Gli arredi funerari egiziani, le raccolte dei re sumeri e caldei, le biblioteche eblaite, babilonesi e assire compongono le collezioni più ricche dell’antichità, eredità riunite poi dai re ellenistici nella biblioteca e nel museo di Alessandria, una delle sette meraviglie del mondo antico. Nella Grecia antica i tesori dei templi e santuari avevano un altro scopo, oltre a quello religioso: le città-stato li usavano come banche o depositi e luoghi di raccolta di ostaggi di guerra e dei bottini. Le raccolte d’arte greche erano di proprietà pubblica ed esposte nei templi, nelle agorà o pinacoteche e nei ginnasi.
Insieme al progresso del livello di vita e civiltà di una popolazione cresce anche l’insieme di cose cui attribuire un valore più alto, proprio perché rappresentano meglio la cultura di quel gruppo (si pensi al rapporto tra Etruschi, Greci e Romani).
[1] Per una considerazione di tipo economico e sociale cfr. F.H. Taylor, Artisti, principi e mercanti. Storia del collezionismo da Ramsete a Napoleone, a cura di L. Salerno, Einaudi, Torino, 1954, p. 17 ss.
Il patrimonio culturale a Roma
Nell’antica Roma, dopo un periodo iniziale più rude e pratico (in cui le arti erano definite con disprezzo sedentariae et illiberales)[1] si a – grazie al contatto con civiltà più evolute – ad apprezzare la cultura e le cose che maggiormente la rappresentano ed incarnano.
Vengono così emanate le prime disposizioni per tutelare gli oggetti e gli edifici che si ricollegano a funzioni religiose, di tradizioni e memorie (si ricordi che il termine monumento deriva da monere) e a valori artistici: Augusto si vanta di aver trovato una Roma di fango e di averne lasciato una di marmo[2].
È il momento della trasformazione monumentale di Roma ad opera di Augusto (e dei suoi successori), con la ristrutturazione e il rifacimento dei santuari e la regolamentazione dell’altezza degli edifici: è “l’apogeo della magnificenza degli edifici pubblici e privati per ricchezza di marmi e abbondanza di statue e di ori. ed anche la pittura, prima non creduta degna della grandezza romana, fu pregiata così che i più bei dipinti, di cui si adornavano le città soggette, furono trasportati a Roma”[3]. Si afferma allora la concezione della proprietà pubblica delle cose d’arte, riferita sia alle cose costituenti bottino di guerra sia alle statue e ai monumenti eretti in onore di personaggi illustri[4]. Narra Plinio che “avendo Agrippa fatto porre davanti alle terme, che portavano il suo nome, un capolavoro di Lisippo ed essendosi Tiberio creduto nel diritto di disporne col farlo portare nel suo palazzo, il popolo lo reclamò e l’imperatore dovette rimettere il prezioso monumento al posto di prima”[5].
A Roma nasce e si sviluppa l’idea che l’opera d’arte è un bene pubblico, di cui tutti i cittadini devono godere: tale concezione sarà di grande importanza per la
successiva evoluzione del collezionismo e della protezione del patrimonio artistico[6]. Due istituti sono importanti per la materia: la dicatio ad patriam, che si ha quando il proprietario volontariamente pone un suo bene a disposizione della collettività dei cittadini, assoggettandolo all’uso pubblico e ammettendo gli altri al suo godimento, e la deputatio ad cultum, la destinazione di un edificio a scopo religioso con la conseguente cerimonia di consacrazione o benedizione[7].
Narra Plutarco che Lucullo aveva raccolto libri in quantità e ben scritti, ma l’uso di essi era ancora più lodevole perché teneva sempre aperta a tutti la biblioteca, lasciando entrare Greci, senza chiudere la porta ad alcuno, dentro alle logge e ai luoghi ordinati per disputare che v’erano intorno, ove studiosi si ritiravano volentieri, come entrassero nel ricetto delle Muse, per trattenersi e discorrere insieme di lettere[8].
Tra le disposizioni emanate a tutela dei monumenti si può ricordare innanzitutto l’istituzione degli Aediles (che hanno l’incarico di custodire gli archivi, sovraintendere ai templi, alla manutenzione degli edifici e alla sorveglianza della città) e dei Comites nitentium rerum, che si occupano della conservazione degli edifici, pubblici e privati, e dell’ornato della città; diverse leggi secondo cui “nessuno poteva levare un tetto, né disfare una casa, né variarne la costruzione senza il consenso dei magistrati”[9]. Valentiniano, Valente e Graziano ordinano l’abbattimento degli edifici privati fatti in luoghi pubblici contro l’ornato e il decoro della città e Teodosio vieta di guastare lo splendore degli ornamenti delle città, appoggiando e costruendo edifici a contatto dei monumenti pubblici.
Vespasiano e Adriano vietano di staccare dagli edifici pubblici e privati di Roma e di ogni altra città marmi e colonne per venderli; disporne separatamente dagli edifici cui afferiscono[10]; vendere e legare (lasciare per testamento) biblioteche, statue e dipinti, anche non aderenti alle pareti, se vi siano stati destinati dal padre di famiglia ad uso perpetuo[11]. Gli imperatori Maiorano e Leone puniscono col taglio delle mani coloro che osano attentare agli antichi monumenti e Costantino fa rifare il catalogo dei monumenti cittadini, vietando altresì di trasportare ornamenti monumentali da una città all’altra o anche in una
proprietà di campagna: è stato osservato che “tali leggi non erano già imposizioni dei governanti allo spirito pubblico, ma erano il riflesso schietto dello stesso sentimento del popolo, che si muoveva persino a tumulto quando qualche statua era tolta dal suo posto” (come nel caso narrato da Plinio)[12].
Va ricordata ancora la figura di Teodorico (454-526), re degli Ostrogoti educato alla cultura classica nella corte di Costantinopoli, che arricchisce l’edilizia di Roma e Ravenna, ne promuove la conservazione e il restauro, affermando: “è nostra intenzione costruire edifici nuovi, ma ancor più conservare quelli antichi, perché conservarli è cosa che ci potrà dare non minore lode che farne di nuovi”[13].
Anche nei secoli seguenti, quando l’impero si disgrega sotto l’onda d’urto delle popolazioni barbare, la cultura viene difesa e tramandata, per quanto possibile: la tutela artistica si riduce alla manutenzione degli edifici, alla conservazione di arredi artistici e di culto e al paziente lavoro di copia e conservazione dei libri antichi.
Nel Medioevo la distruzione del patrimonio artistico arriva fino al saccheggio, come quello di Roberto d’Angiò che “trasporta seco pietre e marmi e statue per rendere più belle le fabbriche di Napoli”, mentre con i materiali del Colosseo si costruiscono molte chiese romane e “patrizi prepotenti e devastatori distruggono gli avanzi di edifici e templi per edificare i propri palazzi”[14]. Al riguardo si ricordano le lettere accorate indirizzate da Petrarca a Cola di Rienzo, per denunciare tali gravissimi fatti, e ai pontefici Benedetto XII e Urbano V per esortarli a tornare a Roma dall’esilio di Avignone. Giulio Carlo Argan e Maurizio Fagiolo chiariscono in sintesi perfetta: “La vicenda storica di Roma pagana e poi cristiana, prima splendida, poi rovinata ed infine rinata, diventa il paradigma del volgersi continuo dei cicli storici: la prova vivente che la storia è sempre storia della città e, poiché la città è fatta dall’arte, storia dell’arte”[15].
[1] Dionigi di Alicarnasso, Storia di Roma arcaica, Rusconi, Milano, 1984.
[2] Svetonio, Augusto, 8.3: Gloriatus marmoream se relinquere quam latericiam accepisset.
[3] L. Parpagliolo, Codice delle antichità e degli oggetti d’arte, Istituto poligrafico dello Stato, Roma, 1932, p. 8.
[4] B. Rotili, La tutela penale delle cose di interesse artistico e storico, Jovene, Napoli, 1978, p. 6.
[5] Plinio, Naturalis Historia, XXXIV, 19.
[6] L. Salerno, Presentazione di F.H.Taylor, Artisti, principi e mercanti, cit., p. XVIII.
[7] W. Cortese, I beni culturali e ambientali, Cedam, Padova, 1999, p. 127 ss.; A. Mansi, La tutela dei beni culturali, Cedam, Padova, 1998, p. 6 ss.
[8] G. Volpe, Manuale di legislazione dei beni culturali, Cedam, Padova, 2005, p. 3.
[9] F. Mariotti, La legislazione delle belle arti, Unione Cooperativa Editrice, Roma 1892, p. XVII
[10] R. Balzani, Per le antichità e le belle arti. La legge n. 364 del 20 giugno 1909 e l’Italia giolittiana, il Mulino, Bologna, 2003, p. 484.
[11] L. Parpagliolo, Codice delle antichità e degli oggetti d’arte, cit., p.11.
[12] G. De Montemayor, Diritto d’arte, Ricciardi, Napoli, 1909, p. 73.
[13] F. Bottari, F. Pizzicannella, L’Italia dei tesori, Zanichelli, Bologna, 2002, p. 23.
[14] L. Parpagliolo, Codice delle antichità e degli oggetti d’arte, cit., p.18.
[15] G. C. Argan e Maurizio Fagiolo, Premessa all’arte italiana, in Storia d’Italia, I, I caratteri originali, Einaudi, Torino, 1972, p. 737.
Le prime disposizioni di tutela nel Quattrocento e Cinquecento
Risalgono agli inizi del Quattrocento le prime disposizioni di tutela del patrimonio storico-artistico, emanate dai Pontefici al ritorno da Avignone (1378), per riportare Roma - devastata e depauperata, con soli 17.000 abitanti rispetto al milione e oltre del momento di massimo splendore - alla dignità di Città eterna con i suoi monumenti e capolavori.
Consolidato il proprio potere, la Chiesa di Roma ritrova unità e potenza e i pontefici pongono al centro dei loro programmi politici e riformatori progetti urbanistici e di restauro con l’obiettivo di fare di Roma cristiana una nuova città imperiale: importante a tal fine è stata anche la proclamazione nel 1300 del Giubileo, che attira ogni cinquanta (e in seguito venticinque) anni una quantità enorme di pellegrini[1].
Al primo progetto di Niccolò V di riorganizzare la città e tutelare le sue grandiose rovine seguono il mecenatismo di Sisto IV e la renovatio urbis di Giulio II: “la città per eccellenza, il luogo ideale della sintesi ‘storica’ di classicità e cristianesimo, l’immagine stessa della legge divina ed umana, è decaduta, ridotta a rovina. Ricostruire la cultura classica - che poi era anche un tornare al cristianesimo storico – significava ricostruire almeno idealmente la città di Roma”[2].
I Pontefici sono i primi, tra i governanti degli Stati preunitari, ad occuparsi della tutela e conservazione dei monumenti antichi e delle cose d’arte con vari provvedimenti (editti, bolle): Martino V, con la bolla Etsi de cunctarum del 1425,
condanna l’offesa, definita sacrilega, agli edifici pubblici, civili o religiosi; nomina i Magistri viarum, incaricati (come gli Edili romani) di sorvegliare la manutenzione degli edifici e l’ordine della città; decreta la demolizione delle costruzioni addossate alle antiche fabbriche (edifici) ed esorta i cittadini a riedificare le case e restaurare quelle in rovina. Allo stesso tempo però consente di spogliare degli ornamenti e dei marmi le antiche chiese non più officiate. Pio II (il Papa umanista Enea Silvio Piccolomini) con la bolla Cum almam nostram urbem del 1462 vieta le demolizioni e le spoliazioni di edifici antichi e di ruderi (“demolire, distruggere, ridurre, abbattere o trasformare in calce”) e l’uso di pietre antiche o di frammenti classici nelle nuove costruzioni. Sisto IV, ‘Restaurator Urbis’, ribaditi i poteri dei Magistri viarum, con la bolla Cum provida del 1474 proibisce l’alienazione (vendita) delle opere d’arte custodite nelle chiese o meglio dei marmi antichi colorati[3]. Egli nomina nel 1477 Bartolomeo Sacchi, detto Platìna, Prefetto della Biblioteca vaticana, il cui prezioso contenuto viene da allora valorizzato e protetto: è interessante notare come i principi di conservazione e di tutela del patrimonio archivistico e librario costituiscano il primo esempio delle disposizioni di salvaguardia del patrimonio artistico e monumentale.
Nel 1478 fonda l’Accademia di San Luca, per riunire gli artisti da lui scelti e protetti[4]. Nel 1574 Gregorio XIII, ponendo un vincolo anche sulle cose di proprietà privata, ne limita la dispersione ed afferma il fondamentale principio in questa materia della prevalenza dell’interesse pubblico su quello privato: “quae publicae utilia et decora esse huic almae Urbi ratio ipsa atque usus docuit, ea privatis cupiditatibus et commodis praeferenda censemus”[5].
Nel Granducato di Toscana nel 1571 viene emanata una legge “contro chi rimovesse o violasse armi, inscrittioni o memorie existenti apparentemente nelli edifitii così pubblici come privati” per cui “secondo l’uso et inveterata consuetudine della Città (della quale non è memoria alcuna in contrario), non era lecito a chi comperava o per qual si voglia modo acquistava alcuno edifitio rimuovere, estinguere o violare le Armi, Insegne, Titoli, Inscrittioni et memorie de’ construttori o fondatori d’esso”[6]. È interessante notare che tale disposizione, sopravvissuta nel tempo, è ata nelle leggi unitarie e si ritrova nell’art. 11 del codice dei beni culturali e del paesaggio[7].
[1] In seguito, ad ogni Giubileo, si restaurano o almeno ridipingono i principali monumenti, cfr. P. Marconi, Il recupero della bellezza, Skira, Milano, 2005, p. 88.
[2] G. C. Argan e Maurizio Fagiolo, Premessa all’arte italiana, cit., p. 735.
[3] Cfr. V. Curzi, Bene culturale e pubblica utilità, Minerva, Bologna, 2004, p. 38; sulla tutela preunitaria sia permesso rinviare a M.B. Mirri, Beni culturali e centri storici. Legislazione e problemi, Ecig, Genova, 1996, p. 47 ss.
[4] L’Accademia trae origine dalla antica Università dei Pittori, Miniatori e Ricamatori, cui si aggiungono nel 1577 gli scultori e gli architetti per riunire le tre arti, accomunate dal disegno, istituendo anche prestigiosi corsi di insegnamento per formare i giovani. Nel 1588 Sisto V concede all’Accademia, per svolgere la sua attività e ospitare i giovani artisti, la Chiesa dei S.S. Luca e Martina al Foro romano.
[5] P. Grossi, Appunti per un corso sulla tutela giuridica dei beni culturali, La Sapienza, Roma, 2006, p. 98.
[6] Per la legislazione preunitaria fondamentale e imprescindibile è la raccolta di A. Emiliani, Leggi, bandi e provvedimenti per la tutela dei beni artistici e culturali negli antichi stati italiani. 1571-1860, Nuova Alfa Editoriale, Bologna, 1996.
[7] Sul c.b.c. sia permesso rinviare a M.B. Mirri, Codice dei beni culturali e del
[7] Sul c.b.c. sia permesso rinviare a M.B. Mirri, Codice dei beni culturali e del paesaggio, 2° ed., Sette Città, Viterbo, 2007.
Il collezionismo e la nascita del museo
A questo periodo sono legati altri due fatti fondamentali per la salvaguardia del patrimonio artistico: il collezionismo e la nascita del museo. Il collezionismo può essere definito come un fatto istintivo, il desiderio di possesso di ogni oggetto che abbia valore d’arte o religioso o storico o di curiosità o rarità[1]; nel contempo il museo può essere interpretato come una tendenza istintiva alla tesaurizzazione, come una specifica attitudine dell’uomo alla raccolta di documenti e come necessità spirituale di espressione che si concretizza attraverso l’esposizione di oggetti significanti nella Wunderkammer o nello studiolo, configurandosi così come strumento e metodo. Col Rinascimento italiano i concetti di collezione, museo pubblico, tutela e salvaguardia del patrimonio artistico acquistano per la prima volta una compiuta struttura nonché concrete realizzazioni, come la donazione romana di Sisto IV, la Galleria degli Uffizi a Firenze e l’Antiquario Grimani a Venezia[2]. Se l’Italia può essere considerata un “museo naturale”, conservando una enorme concentrazione di dipinti e sculture, che possono essere raccolti in edifici monumentali di grande valore storico e artistico, come pure di opere antiche, corrose dal tempo e continuamente riutilizzate nel corso dei secoli, sentite e vissute come un patrimonio comune che costituisce lo scenario e l’ambiente della vita quotidiana, Roma lo è per eccellenza e le reliquie dell’antico si integrano nel presente in un flusso continuo[3].
Nel 1471 Sisto IV dona, restituendolo al popolo romano, un importante nucleo di bronzi antichi già conservati in Laterano e lo colloca nel Palazzo dei Conservatori in Campidoglio con una epigrafe commemorativa[4]. La donazione comprende opere di forte valore emblematico come la Lupa capitolina e la testa di Costantino, con un esplicito richiamo alla grandezza e alle virtù degli antichi. Il Campidoglio, già sede del potere imperiale e comunale e simbolo monumentale della gloria romana, diventa sede del museo della città: è il primo museo aperto al pubblico in cui, per volontà del Pontefice, viene recuperato il
principio, già enunciato nel diritto romano, della libera accessibilità delle raccolte, col corrispondente diritto inalienabile del popolo di godere del proprio patrimonio. Contemporaneamente si comincia a trasformare il colle Vaticano in un nuovo centro di potere cristiano, in cui inserire anche una collezione di sculture antiche, di proprietà papale, poste all’aperto insieme ad alberi d’arancio: lo statuario, ampliato dalle continue scoperte di capolavori, diviene, per la collocazione nel cortile del Belvedere, per il suggestivo allestimento (che tanta importanza avrà per la cultura europea) e in seguito anche per la sua inaccessibilità, simbolo della grandezza antica ed esempio assoluto di perfezione artistica. L’inserimento di capolavori scultorei classici nell’elemento vegetale ha anche lo scopo, sottraendoli al loro contesto originario, di privarli o almeno di attenuare la loro connotazione pagana. Le statue acquisiscono così un significato metaforico, diventando emblemi di virtù e sentimenti universali: il Belvedere non è considerato solo un museo, ma anche un “bosco sacro”, adatto sul modello classico alla meditazione filosofica[5].
[1] L. Salerno, Presentazione di F.H.Taylor, Artisti, principi e mercanti, cit., p. XVII; sui molteplici aspetti, anche psicologici, del collezionismo, cfr. F. Molfino, A. Mottola Molfino, Il possesso della bellezza, Allemandi, Torino, 1997.
[2] C. De Benedictis, Per la storia del collezionismo italiano, Ponte alle Grazie, Firenze, 1995, p. 9 ss.
[3] A. Emiliani ha definito Roma “città che cresce eternamente su se stessa e sulle proprie pietre” in Leggi, bandi e provvedimenti per la tutela dei beni artistici e culturali negli antichi stati italiani. 1571-1860, cit., p. 7.
[4] Da Pisanello alla nascita dei Musei Capitolini, De Luca, Roma, 1988, p. 200 ss.
[5] C. De Benedictis, Per la storia del collezionismo italiano, cit., p. 48.
La tutela nel Rinascimento
Nel clima del Rinascimento cresce la consapevolezza del valore di questo patrimonio e della necessità di proteggerlo e conservarlo per trasmetterlo ai posteri: famosa è la lettera indirizzata nel 1519[1] a Papa Leone X da Raffaello, nominato Prefetto della Fabbrica di San Pietro, consigliato da Baldassarre Castiglione. Il recupero dell’antico, unito alla fiducia umanistica nell’armonia tra felicità terrena e vita spirituale, diviene un tema fondamentale: lo studio dell’epoca classica diventa sistematico e analitico, favorito dal clima di entusiasmo e di meraviglia che circonda gli scavi, i ritrovamenti e le scoperte del periodo. L’antichità, eletta a modello della cultura umanistica, diventa parametro di ogni attività artistica (si pensi alle decorazioni “a grottesche”, originate dalla scoperta della Domus aurea all’inizio del Cinquecento) e ricchezza da riscoprire, non da saccheggiare. L’antico non è quindi solo un modello, ma deve essere difeso e conservato dall’azione distruttiva del tempo e degli uomini. Secondo Raffaello, spetta al papato mettere fine alla continua distruzione dei monumenti classici ed intraprendere uno studio sistematico per eguagliare l’abilità costruttiva degli antichi.
Per questa ragione una competenza di carattere tecnico diviene la condizione imprescindibile per cariche pubbliche che concernano la tutela del patrimonio artistico: nel 1515 Raffaello è nominato Prefetto della fabbrica di San Pietro (con l’incarico di sovrintendere al patrimonio artistico) e quindi Ispettore generale delle Belle Arti. Egli fa propria la preoccupazione di Leone X riguardo al materiale utilizzato dagli scalpellini della fabbrica vaticana e lamenta lo scempio compiuto ai danni dei marmi antichi per la costruzione di nuovi edifici e ornamenti: “Quanti Pontefici hanno permesso le ruine e disfacimenti delli templi antichi, delle statue, delli archi e d’altri edificii, gloria delli lor fondatori! Quanti hanno comportato che solamente per pigliar terra pozzolana si siano scavati i fondamenti, onde in poco tempo poi li edificii son venuti a terra! Quanta calcina si è fatta di statue e d’altri ornamenti antichi? Che ardirei dire che tutta questa
nova Roma che or si vede, quanto grande ch’ella si sia, quanto bella, quanto ornata di palazzi, di chiese e di altri edificii, sia fabbricata di calcina fatta di marmi antichi”[2].
Nasce così il protezionismo culturale, che permette allo Stato di controllare e porre delle limitazioni ai proprietari di determinate cose, mobili e immobili, in ragione del loro particolare valore (in questo caso storico, artistico o archeologico).
Nel 1534 Paolo III nomina l’erudito Giovenale Manetti Commissario delle antichità, con il compito di vigilare sulla conservazione degli edifici antichi - che non possono essere demoliti, alienati o trasformati in cave e devono essere tenuti sgombri da vegetazione, fabbriche e muri di nuova costruzione - e di impedire l’esportazione degli oggetti antichi da Roma[3].
Nel periodo della Controriforma, il papato non si limita più a sottolineare la continuità con il ato classico e pagano, ma riporta alla luce le testimonianze della Chiesa delle origini: si inaugura così una intensa attività di intervento sui monumenti, volta alla ricostruzione della storia cristiana e agli scavi archeologici di ricerca delle origini, in particolare dal 1578 nelle catacombe (cimiteri sotterranei, di cui Roma è molto ricca, scavati nei primi secoli per seppellire i defunti e i martiri delle persecuzioni imperiali)[4].
[1] Cfr. G. Volpe, Manuale di legislazione dei beni culturali, cit., p. 27 ss.
[2] FAI, Pagine scelte da Raffaello ad Antonio Cederna, a cura di S. Dell’Orso, Milano, 2000, p. 15 ss. Purtroppo la funesta pratica di cuocere i marmi antichi nelle calcare per ricavarne calce per le nuove costruzioni è continuata fino all’inizio dell’Ottocento.
all’inizio dell’Ottocento.
[3] M. Speroni, La tutela dei beni culturali negli stati italiani preunitari, Giuffrè, Milano, 1988, p. 14.
[4] Cfr. Aurea Roma. Dalla città pagana alla città cristiana, a cura di S. Ensoli e E. La Rocca, “L’Erma” di Bretschneider, Roma, 2000, p. 301 ss. Sugli antichi cimiteri v. O. Marucchi, Le catacombe romane, La Libreria dello Stato, Roma, 1933; le catacombe sono state riconosciute di proprietà della Chiesa dal Concordato del 1929.
Il divieto di ‘estrazione’ nel Granducato di Toscana
Da allora i provvedimenti degli Stati preunitari si susseguono, ma rimangono spesso senza effetto, non avendo una effettiva incidenza sulla realtà, per cui la tutela rimane frammentaria e simbolica.
Secondo quanto emerge dalla fondamentale raccolta di Andrea Emiliani di leggi, bandi e provvedimenti[1] per la tutela del patrimonio artistico prima dell’unità d’Italia, una delle principali e costanti preoccupazioni degli Stati italiani riguarda l’“estrazione” cioè l’esportazione di oggetti d’arte fuori dei confini dello Stato, fenomeno che si cerca in tutti i modi di ostacolare con divieti e sanzioni e che si atteggia diversamente nei vari territori, a seconda del suo oggetto.
Nel Granducato di Toscana viene emanato il primo provvedimento specifico nel 1597 sul divieto di ‘estrazione’ (nel senso di esportazione) fuori dai confini dello Stato di “pietre mischie e dure” con un bando: “havendo S.A. il Gran Duca di Toscana bisogno per fabricare di notabili quantità di pietre mischie e dure, come Agate, Diaspri, Calcedoni, Ametiste et altre simili, et sentendo che in questo Stato se ne trovano più cave, per l’avvenire non ardisca alcuno di estrarre fuori delli Stati suoi pietre della qualità suddetta senza licenza della medesima S.A. in scritto sotto pena di scudi 25 per carica, della perdita delle bestie che conducessero o trainassero dette pietre”[2].
Tale disposizione si collega alla lavorazione dei mosaici o commessi (decorazioni policrome a tarsia per pavimenti, pareti, piani di tavoli, decorazioni di mobili etc.) di pietre dure, tenere e marmi, per cui la Toscana diventa in breve famosa, tanto che il Granduca Ferdinando I fonda nel 1588 l’Opificio delle pietre dure, allo scopo di raccogliere i raffinati prodotti locali di lavorazione di
tali pietre e di aprire una scuola di alta specializzazione[3].
Nel 1602 in Toscana il divieto di estrazione riguarda le opere di 18 famosi artisti ormai deceduti, toscani e no, da Raffaello e Michelangelo a Bronzino, a Parmigianino, a Leonardo, cui poco dopo si aggiunge Perugino, “per il concetto che si ha delle Pitture Buone che non vadino fuori a effetto che la Città non ne perda l’ornamento e li gentil’omini et l’universale ne conservino la reputazione, si fa proibitione generale generalissima che non se ne possa cavare alcuna dalla Città né dallo Stato, senza licentia del Luogotenente dell’Accademia del Disegno. La prohibitione non abbracci li ritratti ne li quadri di paesi ne quadretti da mettere da capo al letto. Concedasi licentia generalmente per tutte le pitture di mano de’ pittori che di presente vivono nello Stato di S.A.”[4]. Ne deriva che oggetto del divieto di estrazione senza licenza sono i capolavori degli artisti defunti più famosi (cui si potranno aggiungere altri ad avviso dell’Accademia del Disegno), mentre resta libera la circolazione delle opere ritenute di minore importanza e quelle degli artisti viventi: tale disciplina è ancora presente nella legge vigente (art. 10, comma 5, codice dei beni culturali).
[1] Le disposizioni degli Stati preunitari assumono diverse denominazioni (bolle, editti, bandi, chirografi, prammatiche) prima di arrivare al termine moderno di “legge”, che indica l’atto normativo emanato dal Parlamento nelle forme stabilite dagli artt. 70 ss. cost.
[2] A. Chastel, La cappella dei Principi in San Lorenzo, in FMR n. 163/2004, p. 61 ss.
[3] M. Speroni, La tutela dei beni culturali negli stati italiani preunitari, cit., p. 56 ss. Attualmente l’Opificio delle pietre dure è diventato museo e scuola di alta formazione di restauro insieme all’Istituto centrale per il restauro di Roma.
[4] F. Haskell, La dispersione e la conservazione del patrimonio artistico, in Storia dell’arte italiana, p. III, v. III, Einaudi, Torino, 1981, p. 8.
La tutela archeologica e artistica nello Stato Pontificio
Nello Stato della Chiesa invece il divieto di estrazione disposto dall’editto Aldobrandinidel 1624 Prohibitione sopra l’estrattione di statue di marmo o di metallo, figure, antichità e simili riguarda principalmente gli oggetti di antichità: “Ancorché per diversi editti e prohibitioni fatte da altri Cardinali Camerlenghi nostri Antecessori sia stato proibito di estrarre da questa Città di Roma e dallo Stato Ecclesiastico Figure, Statue, Antichità, Ornamenti e lavori di marmo, metalli e d’altre pietre senza licenza, ordiniamo e comandiamo che nessuna persona di qualsivoglia stato, grado, dignità, ordine et conditione si ardischi estrahere o fare estrahere da detta Città di Roma e suo territorio per li luoghi dello Stato ecclesiastico ne da qualsivoglia luogo di detto Stato, per fuori di esso Stato, per Fiume, Mare o per terra Figure, Statue, Antichità, Ornamenti o lavori si antichi come moderni, di marmo, metallo o d’altre pietre, etiam in pezzi, senza nostra licenza, sotto pena della perdita di esse e di scudi cinquecento et altre pene corporali a nostro arbitrio, secondo la qualità dei casi”. L’editto Aldobrandini prevede anche la disciplina dei ritrovamenti archeologici: “Inoltre ordiniamo e comandiamo che, cavandosi in luogo alcuno con la debita nostra licenza e trovandosi Statue o alcuna delle cose sudette o qualsivoglia altra cosa sì di qualsivoglia pietra, come di qualsivoglia metallo, debbano li patroni del luogo dove si sarà cavato, li cavatori et altri che ne haveranno notizia o almeno uno di loro, averlo denunziato in termine di 24 ore a Noi o al nostro Auditore, o ne gli atti dell’infrascritto nostro Notaro, e quelle trattenere, da farne esito, donare o vendere per quattro giorni dopo la denunzia; sotto le medesime pene e, se saranno cavatori, oltre le dette pene, di tre tratti di corda”. Compaiono così le prime disposizioni in materia archeologica sulla denuncia, la licenza di scavo, la disciplina dei ritrovamenti e il divieto di esportazione, che saranno ulteriormente perfezionate e eranno nelle leggi unitarie.
L’editto Sforza del 1646 Sopra l’estrattione e cave di statue, figure, intagli, medaglie, incrittioni di marmo, di mischio, metallo, oro, argento, gioie e cose
simili antiche e moderne,ordina e comanda “a tutte e singole persone, tanto Ecclesiastiche, quanto Secolari di qualsivoglia stato, grado, ordine e conditione che non possino per l’avvenire guastare edificij, né fabbriche antiche, muraglie di travertini, marmo, pipirini et altra materia così sopra a terra come sotto terra, né rompere o cavare statue antiche, o altri ornamenti di qualsivoglia materia, né tampoco cavare o far cavare vicino a detti edificij, mura, fabbriche, archi, ponti, cimiterij o vie pubbliche in qualsivoglia luogo esistenti, senza nostra licenza”. Ribadisce, specificandone e ampliandone ulteriormente l’oggetto, che “per l’avvenire non si possa da persona alcuna, tanto Ecclesiastica come Secolare, vendere né estrahere o fare estrahere fuora di Roma, né dello Sato Ecclesiastico fuora d’esso alcuna sorte di statue, figure, bassi rilievi, colonne, vasi, alabastri, agate, diaspri, amatisti, o altri marmi, gioie, e pietre lavorate e non lavorate, torsi, teste, fragmenti, pili, piedestalli, inscrittioni, o altri ornamenti, fregi, medaglie, camei, o intagli di qualsivoglia pietra, ovvero metallo, oro, argento, di qualsivoglia materia antica o moderna, né meno figure, o pitture antiche o altre opere in qualsivoglia cosa scolpite, dipinte, intagliate, commesse, lavorate o in altro modo fatte, o che siano state nuovamente ritrovate in cave, o siano esistenti in Roma o fuori di Roma, ovvero appresso qualsivoglia persona o in qualunque luogo senza nostra licenza e visione, a fede della qualità e quantità, venditore e compratore delle cose sudette fatta dal nostro Commissario, sotto pena della perdita della robba, che sarà ritrovata, venduta, mandata ascosta, scanzata, trafugata o incassata in Roma o fuori di Roma, e di 500 ducati d’oro.
Nelle stesse pene incorreranno li compratori e venditori de le sudette cose antiche, se le venderanno o compreranno senza nostra licenza per portare o mandare fuori di Roma come sopra”.
Si proibisce ancora “che non sia lecito ad alcun Falegname, Operario e qualsivoglia altra persona far casse, o farne fare per incassare statue et altre cose antiche overo moderne lavorate o non lavorate, ne quelle incassare ne Facchini o Portatori e Carrettieri portare, ligare, imballare, involtare, né dette cose trasportare da un luogo all’altro, né meno barcarolo o marinari possono mettere in Barche o Vascelli casse o balle o involti dove siano opere antiche o moderne senza che non siano viste dal nostro Commissario e con nostra licenza, sotto le sudette pene et altre etiam maggiori a nostro arbitrio. Che non sia lecito ad
alcuno Carrettiero, Facchino, Portatore, Mulattiero di poter caricare, portare, far portare marmi etc. da qualunque cava o edificio antico se prima non haveranno avuto la nostra licenza in scriptis come sopra e quella doveranno portare seco e mostrarla al nostro Commissario, per evitare ogni fraude che si potesse commettere, sotto pena di tre tratti di corda da darseli subito e di 25 scudi e perdita della detta robba”. In tal modo gli scavi, le ricerche e i ritrovamenti sono sottoposti al controllo penetrante e specifico del Commissario alle antichità, così come l’estrazione e il commercio di tutte queste cose, minuziosamente descritte per evitare vuoti di tutela: si è rilevato che la conferma della proibizione per l’esportazione si cumula con quella di vendere, comprare o trattenere tutti i beni elencati, senza preventivamente avvertire la competente autorità[1].
Gli editti Altieri del 1686 e Spinola del 1701 e 1717 riprendono e ribadiscono i precedenti sul divieto di estrazione mentre il secondo editto Spinola del 1704 Sopra le pitture, stucchi, mosaici, et altre antichità, che si trovano nelle cave, inscrizioni antiche, scritture e libri manoscritti, si estende anche ad oggetti non provenienti da scavi come libri manoscritti, iscrizioni antiche e scritture pubbliche e private, aggiungendo un obbligo di licenza per l’esercizio del commercio di antichità e di opere d’arte. Ciò costituisce il precedente più antico di considerazione unitaria, da un punto di vista normativo, di antichità e belle arti, codici di biblioteche e documenti d’archivio cioè di una parte rilevante dei beni culturali[2]. Una speciale tutela è prevista per le “Iscrizioni antiche, scolpite o impresse in pietra o in qualsivoglia altra materia”, la cui conservazione è essenziale “non meno per l’erudizione ecclesiastica che per la profana” per cui “nessuna persona ardisca sotto qualsivoglia pretesto di muoverle dal luogo in cui presentemente sono, o si troveranno in avvenire, e molto meno di segarle, romperle, o in altro modo guastarle per qualsivoglia uso, se prima non haverà ottenuto speciale licenza in scritto, sotto pena corporale da stendersi a pena grave afflittiva del corpo a nostro arbitrio secondo la qualità de casi, e delle persone”. Per quanto riguarda i libri, si fa riferimento a “qualsivoglia sorte di libri scritti a mano tanto Volgari e Latini, quanto Greci, Ebraici, e di qualunque altra lingua così in carta pecora, come in carta bambagina, tanto intieri quanto divisi, rotti e sciolti, come pure Instromenti, Processi, Inventarij, Lettere, Bolle, Brevi, Diplomi, e qualunque altra sorte di carte, overo pergamene manoscritte”. Si ordina a tutti i “Librari, Pizzicaroli, Battilori, Cartolari, Dipintori, Tamburari, et altri Artegiani” di notificare i libri e le scritture che si troveranno di avere nelle loro Botteghe e che “non ardischino sotto qualsivoglia pretesto di
sciogliere, dividere, rompere o guastare detti libri et scritture tanto ad effetto di venderle, o valersene per legare altri libri quanto per adoperarle ad uso delle loro Arti, senza licenza”.
In precedenza nel 1601 nel Granducato di Toscana si stabilisce, con l’intento di conservare “le memorie et publiche et private”, il recupero immediato da parte dello Stato delle scritture e libri di sua proprietà, sottratti dai pubblici archivi, e la necessità di una licenza (al fine di esercitare un controllo sulla sua provenienza) per la vendita del materiale documentario, riconoscendo così il valore di documento storico, e non soltanto probatorio, delle carte d’archivio. Ed ancora nel 1606 si proibisce a “pizzicagnoli, saponai, cartolari e bottegai di comprare scritture di ogni sorta, senza autorizzazione, per conservare, quanto sia possibile, le cose et memorie antiche, evitando il preiuditio” che viene dal continuo uso da parte di pizzicagnoli e altri bottegai che comprano manoscritti e fogli, ignorandone l’importanza e l’antichità, per destinarli ad avvolgere le loro merci[3].
Così disciplinati gli scavi, la relativa licenza e la denuncia del ritrovamento di cose antiche, nel 1726 l’editto Albani Sopra li scarpellini, segatori di marmi, cavatori ed altri, proibisce di scavare “vicino agli Edifizij e Muraglie antiche, acciò non ne restino danneggiate” e anche di “guastare qualunque Edifizio o Fabbrica o altra opera antica sopra terra, ancorche lesa dal tempo, o rovinosa, senza nostra espressa licenza e senza la precedente visita ed ispezione del Commissario”. I divieti di scavo e manomissione sono estesi alle antiche strade dall’editto Valenti Proibizione della estrazione delle statue di marmo, o metallo, pitture, antichità e simili del 1750, che punisce anche la vendita di oggetti “alterati e falsificati ai Forestieri per prezzi esorbitanti e lesivi, in danno della buona fede e col discredito del pubblico commercio”, già prevista dal precedente editto Albani del 1733[4].
È interessante la premessa culturale dell’editto del 1750, che “costituisce la summa della legislazione settecentesca sulla tutela dei beni culturali nello Stato pontificio”[5]: “Importando sommamente al pubblico decoro di quest’Alma
Città di Roma il conservarsi in essa le Opere illustri di Scoltura, e Pittura, e specialmente quelle, che si rendono più stimabili, e rare per la loro antichità, la conservazione delle quali non solo conferisce molto alla erudizione sì sacra, che profana, ma ancora porge incitamento a’ Forastieri di portarsi alla medesima Città per vederle, ed ammirarle, e dà norma sicura di studio a quelli, che applicano all’esercizio di quelle nobili Arti con grande vantaggio del pubblico e privato bene”. Per quanto riguarda l’organizzazione amministrativa, la competenza in materia di beni culturali è del cardinale camerlengo (responsabile, in caso di sede vacante, del governo della Chiesa e della convocazione del conclave), che si avvale degli uffici del suo dicastero (ministero), la Camera apostolica. Accanto a questi funzionari, c’è il Commissario sopra le cave e antichità, che ha compiti tecnici (vigila sulla conservazione, circolazione e commercio dei beni culturali; esprime parere sul valore degli oggetti di cui si chiede la licenza di estrazione; provvede ai controlli tesi ad evitare il contrabbando e sorveglia gli scavi), cui l’editto Valenti affianca tre assessori, con funzioni ausiliarie. Per i libri manoscritti e i documenti di interesse archivistico la competenza per il rilascio della licenza è dei prefetti dell’Archivio segreto vaticano e di Castel S. Angelo. Il regime di tutela si applica ai beni elencati specificamente, indipendentemente dalla loro appartenenza: anche agli stranieri (i Forastieri), che dimorino a Roma da un mese (ridotto poi a quindici giorni). Quindi destinatario delle disposizioni di tutela è qualunque soggetto si trovi in un rapporto qualificato col bene tutelato, rapporto che può essere non solo di proprietà, ma anche di possesso e detenzione, a qualunque titolo[6].
[1] P. Grossi, Appunti per un corso sulla tutela giuridica dei beni culturali, cit., p. 99.
[2] E. Lodolini, Organizzazione e legislazione archivistica italiana, Patron, Bologna,1980, p. 65.
[3] M. Speroni, La tutela dei beni culturali negli stati italiani preunitari, cit., p. 59.
59.
[4] La fonte delle disposizioni preunitarie è sempre A. Emiliani, Leggi, bandi e provvedimenti per la tutela dei beni artistici e culturali negli antichi stati italiani. 1571-1860, cit.
[5] M. Speroni, La tutela dei beni culturali negli stati italiani preunitari, cit., p. 16.
[6] La proprietà è il diritto di godere e disporre di una cosa in modo pieno ed esclusivo, mentre il possesso indica il potere di fatto sulla cosa, che si manifesta con una attività corrispondente all’esercizio del diritto di proprietà; la detenzione si traduce in un semplice rapporto di fatto temporaneo con la cosa, senza esercizio di poteri corrispondenti a quelli del titolare di un diritto reale.
La protezione archeologica nel Granducato di Toscana
Nel Granducato di Toscana la scoperta di tombe etrusche nel 1731 dà il via ad un grande fervore di scavi e al commercio di reperti fino alla creazione di falsi: si decide allora di istituire a Volterra una Deputazione perché “in avvenire non possino essere alterati gli antichi riguardevoli monumenti, dei quali è così abbondante il territorio di codesta Città” e “non sian commesse delle fraudi in pregiudizio della stima ben grande che hanno acquistato in Toscana e fuori gli studj dei Caratteri Etruschi”. Pertanto chi vuole intraprendere un’attività di ricerca archeologica deve chiedere alla Deputazione una licenza, in cui sono indicati il luogo e il tempo assegnati per compiere lo scavo e presentare un elenco dettagliato delle “antichità ritrovate, acciò volendo, possino venderle”. Il museo civico ha un diritto di prelazione (cioè di essere preferito ad altri) sugli oggetti posti in vendita, ad un prezzo fissato da due o tre periti e il termine per esercitare la prelazione è di un mese dalla presentazione della nota dei ritrovamenti. Se il museo o i cittadini di Volterra non esercitano la prelazione, il proprietario può farsi rilasciare dalla Deputazione un attestato che le cose possono vendersi liberamente. Chi viola tali prescrizioni va incontro alla confisca a favore del museo delle cose ritrovate e alla impossibilità di ottenere in futuro altre licenze di scavo, secondo il motu proprio del 1761. Sono fatte salve le disposizioni dell’editto del 1754 sul divieto di “estrazione dal Granducato di antichi Manoscritti, Iscrizioni, Medaglie, Statue, Urne, Bassorilievi, Dorsi, Teste, Frammenti, Pili, Piedistalli, Quadri e Pitture antiche ed altre opere e cose rare senza la permissione del Consiglio di Reggenza”. Il contravventore è punito con la perdita della cosa che ha estratto o solo tentato di estrarre e col “doppio giusto valore della medesima”. A ciò si aggiunge la disciplina stabilita dal rescritto imperiale del 1750, che, in caso di ritrovamento di Tesoro, Ripostiglio o altro antico monumento, prevede la denuncia all’autorità fiscale e un premio di un terzo allo scopritore. Lo scavo abusivo e la mancata denuncia dei ritrovamenti fortuiti sono puniti solo con la perdita del diritto al premio. Il museo si arricchisce delle donazioni schini e Guarnacci, che hanno raccolto le più importanti collezioni etrusche, che sono cedute “al pubblico della città di
Volterra”.
Si tratta di una normativa più semplice di quella pontificia e sicuramente meno severa nei confronti dei trasgressori: nel 1780 questa disciplina viene eliminata dalle scelte liberistiche del granduca Pietro Leopoldo, che liberalizza il commercio antiquario e la ricerca archeologica, che non è più sottoposta a licenza, ma solo all’obbligo di comunicare i ritrovamenti al direttore della Reale Galleria, perché scelga ciò che meriti di essere acquistato, al “prezzo rigoroso corrispondente alla rarità e alla bellezza dei monumenti che si acquisteranno”.
La tutela archeologica nel Regno di Napoli
Una grande attenzione è dedicata alle antichità nel Regno di Napoli, in cui Carlo di Borbone fa trasferire la collezione Farnese da Parma e Roma, volendo dare lustro alla città con lo straordinario patrimonio artistico raccolto dalla famiglia materna[1], ma soprattutto dal 1738 promuove con ione gli scavi di Ercolano, Pompei e Stabia[2].
La scoperta di questo enorme e fondamentale patrimonio archeologico porta alla necessità di studi attenti e approfonditi e alla pubblicazione dei reperti, per cui viene istituita nel 1755 la Reale Accademia Ercolanese. Gli scavi sono condotti in modo sempre più organico e scientifico sotto il diretto controllo del re, ma contemporaneamente ne vengono avviati altri da privati (non esistendo una legislazione protettiva come nello Stato della Chiesa) e molti reperti sono venduti ed esportati: interviene lo scultore Joseph Canart - responsabile dei restauri delle sculture in marmo e supervisore per il distacco e restauro dei mosaici e degli affreschi nel Reale Museo Ercolanese - che nel 1751 suggerisce al Re di adottare una legislazione sugli scavi e il divieto di esportazione di reperti archeologici. Carlo di Borbone il 24 luglio 1755 trasmette un circostanziato dispaccio alla Regia Camera della Sommaria: “Le Provincie, onde questo Regno di Napoli è composto, essendo ne’ tempi antichi abitate da’ Greci e da’ Romani, hanno in ogni tempo somministrato in grandissima copia de’ rari monumenti d’antichità agli uomini di quella studiosi, di statue, di tavole, di medaglie, di vasi e d’istrumenti o per sacrifici o per sepolcri o per altri usi della vita, o di marmi o di terra o di metalli. Ma perché niuna cura e diligenza è stata per l’addietro usata per raccoglierli e custodirli, tutto ciò che di più pregevole è stato dissotterrato si è dal Regno estratto, onde il medesimo ne è ora assai povero, ove altri stranieri de’ lontani paesi se ne sono arricchiti e ne fanno i loro maggiori ornamenti, grandissimi profitti traendone, e per l’intelligenza dell’antichità, e per rischiaramento dell’Istoria e della Cronologia, e per perfezione di molte arti”. In questa premessa, la salvaguardia dell’identità storica
e patrimoniale del Regno assume la dimensione di idea nazionale e il carattere di assoluta preminenza per cui il Re ordina che “nessuna persona, di qualunque stato, grado o condizione che sia, ardisca d’ora in avanti estrarre o fare estrarre, o per mare o per terra, dalle Provincie del Regno per Paesi esteri qualunque monumento antico, cioè di statue, o grandi o picciole che siano, di tavole, i cui caratteri sieno incisi, di medaglie, di vasi, d’istrumenti, ed ogni altra cosa antica, o sia di terra, o di marmo, o d’oro, o d’argento, o di bronzo, o d’ogni altro metallo, senza che preceda l’espressa licenza di S.M., e ciò sotto la pena della perdita della robba che s’estrae e di tre anni di galea per gl’Ignobili e d’anni tre di relegazione per li Nobili, e sotto la medesima proibizione d’estrazione, e pene, siano comprese le pitture antiche, o in tele, o in tavole, o di legno, o di rame, o d’argento, tagliate dai muri”. Il rilascio delle licenze è subordinato al parere di tre periti: per i dipinti il “Pittore di camera del re” Giuseppe Bonito, per le sculture, i marmi e le pietre lavorate Giuseppe Canart, “Ingegnere e Statuario di Sua Maestà” e per tutte le altre antichità l’erudito Alessio Simmaco Mazzocchi, “Canonico della Cattedrale”. Vengono emanate così due leggi (le Prammatiche LVII e LVIII del 25 settembre 1755) per la tutela del patrimonio storico-artistico: le pene sono più severe (e differenti a seconda della condizione sociale del reo) di quelle pontificie ed è punito anche il solo tentativo di estrazione, mentre la sorveglianza sugli scavi e le maestranze è rigidissima fino ad arrivare al divieto ai visitatori di copiare le antichità ritrovate[3].
Una novità è costituita dall’attenzione agli “istrumenti” (gli utensili della vita quotidiana, ritrovati perfettamente conservati e in grandissima quantità nelle città vesuviane sepolte nella lava e nella cenere dall’eruzione del 79 d.C.) e alle “pitture tagliate dai muri”, riferite alla pratica di staccare gli affreschi antichi dalle pareti e trasportarli nella Villa Reale di Portici, esponendoli come quadri, nel museo che si sta formando per volontà dei sovrani.
Nel 1759 Carlo di Borbone lascia Napoli per il trono di Spagna, ma non porta con sé i tesori ritrovati, scoperti o trasferiti a Napoli, neanche l’anello da lui rinvenuto negli scavi di Pompei, ritenendolo “proprietà dello Stato”[4].
[1] Il museo di Capodimonte, sede della pinacoteca farnesiana, viene inaugurato nel 1759.
[2] Sulla tutela a Napoli cfr. P. D’Alconzo, L’anello del re. Tutela del patrimonio storico-artistico nel regno di Napoli (1734-1824), Edifir, Firenze, 1999.
[3] F. Haskell, La dispersione e la conservazione del patrimonio artistico, cit., p. 20; M. Speroni, La tutela dei beni culturali negli stati italiani preunitari, cit., p. 108.
[4] P. D’Alconzo, L’anello del re. Tutela del patrimonio storico-artistico nel regno di Napoli (1734-1824), cit., p. 32.
Il Settecento, il Grand Tour e i musei
Alla metà del Settecento è mutato il clima culturale, trionfa il Neoclassicismo con la riscoperta dell’antichità, di Ercolano e Pompei, dello stile classico (fondato sull’armonia e l’equilibrio in contrapposizione agli eccessi e alle stravaganze del barocco) e l’Italia diviene meta privilegiata del Grand Tour, il viaggio che tutti i giovani di buona famiglia compiono in Europa per completare la propria educazione. Johann Wolfgang Goethe viaggia in Italia tra il 1786 e il 1788 e, a proposito di Roma, scrive: “È Roma la grande scuola di tutto il mondo: anch’io sono stato illuminato e provato”. Qui soggiorna a lungo Johann Joachim Winckelmann, che pubblica nel 1764 la Storia dell’arte dell’antichità e ottiene la nomina di Prefetto alle antichità.
Tuttavia, anche in conseguenza dell’aumento dei viaggiatori stranieri particolarmente interessati alle cose d’arte - in ato, tranne alcuni artisti ed eruditi, erano soprattutto i pellegrini a recarsi a Roma - il commercio non autorizzato di opere d’arte e di antichità vendute agli stranieri ed esportate clandestinamente all’estero conosce un incremento vertiginoso per cui Charles Montesquieu afferma: “Gli inglesi portano via tutto dall’Italia: quadri, statue, ritratti.. La nuova Roma vende a pezzo a pezzo l’antica”, mentre Goethe si indigna: “Gli antichi lavoravano per l’eternità e tutto avevano preveduto tranne la demenza dei devastatori”[1]. L’aggravarsi della crisi economica, il declino del collezionismo privato e anche pubblico, la crisi finanziaria delle famiglie nobili che le spinge a vendere le collezioni di antichità e di arte, per cui ricevono dall’estero (anche da sovrani e aristocratici) continue e irresistibili pressioni e sollecitazioni, l’ampliarsi della domanda della classe emergente borghese sono gli elementi che compongono il quadro: i pontefici reagiscono allora a difesa dell’eredità del ato con l’acquisto di opere importanti o intere collezioni, trasferite nei musei pubblici Capitolino e Pio-Clementino in Vaticano e nella biblioteca vaticana. Confluiscono in Campidoglio antichità cristiane e orientali, monete e iscrizioni, come pure le importanti collezioni del cardinale Albani; nel
1748 Benedetto XIV acquista la magnifica collezione costituita nel Seicento dalla famiglia Sacchetti per il Museo capitolino, accrescendone ulteriormente il patrimonio.
L’istituzione di questi musei comporta che le opere che li compongono sono inalienabili e non possono quindi essere vendute. Creando dei musei, il cui scopo specifico è impedire la dispersione delle opere antiche, soprattutto sculture, i papi fanno capire agli stranieri che i pezzi più importanti devono rimanere a Roma.
Contemporaneamente, imponendo per i nuovi scavi archeologici che un terzo delle cose ritrovate siano assegnate allo Stato e riservandosi il diritto di impedire l’esportazione di opere ritenute di grande importanza, si riesce a mantenere una dotazione cospicua di capolavori.
Ai problemi finanziari che affliggono lo Stato pontificio cerca di porre rimedio Clemente XII, autorizzando nel 1731 il gioco del lotto (abolito nel 1727 per motivi moralistici) che rappresenta, per chi lo gestisce, una fonte continua e sicura di guadagno, che può essere destinato ad attività di beneficenza o opere pubbliche.
Il ricavato del gioco del lotto viene destinato dal Papa alla creazione di beni culturali[2], grandiose fabbriche legate al suo pontificato: la fontana di Trevi, il palazzo della Consulta (attualmente sede della Corte costituzionale), le facciate di San Giovanni in Laterano e San Giovanni dei Fiorentini e i Musei Capitolini[3].
Allo stesso tempo in Toscana l’ultima erede di casa Medici, Anna Maria Ludovica[4] nel 1743 lascia “allo Stato di Toscana per sempre, nella persona del nuovo Granduca e dei suoi successori” tutte le collezioni dei Medici, site non
solo a Firenze, ma anche a Roma e nelle ville e palazzi di famiglia, a condizione però che nessuna di queste collezioni sia mai rimossa da Firenze e che esse rimangano a beneficio del pubblico di tutte le nazioni: “a S.A.R. per lui e suoi successori granduchi tutti i mobili, effetti e rarità, come gallerie, quadri, statue, biblioteche, gioie ed altre cose preziose, siccome le sante reliquie, i reliquiarii e loro ornamenti della cappella del palazzo reale, che S.A.R. s’impegna di conservare, a condizione espressa che di quello è per ornamento dello Stato, per utilità del pubblico, e per attirare la curiosità dei forestieri non ne sarà nulla trasportato e levato fuori della capitale e dello Stato del granducato”[5].
[1] In merito cfr. F. Haskell, La dispersione e la conservazione del patrimonio artistico, cit., p. 9 ss.; M. Speroni, La tutela dei beni culturali negli stati italiani preunitari, cit., p. 36 ss.
[2] Recentemente in Italia è stata introdotta una seconda giocata settimanale, destinata al recupero e al restauro di beni culturali, con la legge n. 662 del 1996.
[3] P. Lotti, Il lotto, i beni culturali e Giuseppe Gioachino Belli, in Alma Roma, 1999, p. 39 ss.
[4] Probabilmente consigliata da Neri Corsini, nipote di Papa Clemente XII.
[5] F.H.Taylor, Artisti, principi e mercanti, cit., p. 129 riporta l’elenco dettagliato dei beni lasciati da Anna Maria Ludovica.
La conservazione nel Lombardo Veneto e nella Repubblica di Venezia
A Milano e nel Lombardo Veneto nel 1745 un decreto di Maria Teresa d’Austria sulle professioni attinenti all’arte vieta a “qualsivoglia pittore, scultore, architetto e ad altri professori o non professori, tanto accademici quanto non accademici, che non ardiscano disfare o ritocare pitture e sculture antiche e moderne pubbliche, senza prima di essere dall’Accademia visitate, sotto pena di scudi venticinque”. Il divieto è esteso a “scalpellini, scavatori, calcinari o siano mastri di muro, imbiancatori”.
Si stabilisce che “il pittore forestiere che non sia di grido” non possa eseguire opere pubbliche in Milano se non dopo essere stato riconosciuto e approvato dall’Accademia per virtuoso e si rende necessaria una espressa licenza in iscritto dalla stessa Accademia per poter fare negozio di quadri in pubblico e in privato. Ed ancora il divieto di “tenere per terra, esposte all’ingiurie del fango e de’ cani” le immagini sacre e dei principi e di fare “pubblica mercanzia nelle piazze e strade della città di quadri, come fosse cosa vile e meccanica”.
Nel Ducato di Parma dal 1760 nessuna opera insigne di pittura e scultura può essere esportata senza il consenso dell’Accademia di belle arti.
A Venezia, che mantiene nel Sei e Settecento il ruolo di fornitrice principale di quadri per i collezionisti stranieri[1], la situazione diviene preoccupante in quanto è “importante e necessario il togliere quella scandalosa facilità con cui furono arbitrariamente asportati e venduti anche a stranieri compratori delli migliori e più insigni quadri esistenti nelle Chiese, Scole e Monasteri della
Dominante e dell’isole circonvicine”. Lo storico dell’arte Anton Maria Zanetti il Giovane scrive al Consiglio dei Dieci: “Conviene soffrire con pace che il tempo ne sminuisca l’intera bellezza, è questa la legge delle umane cose. Ma non è da tollerarsi che si lascino pitture interamente perire: e quello che è più detestabile che vengano asportate, alienate e vendute a forestieri come seguì in questi ultimi tempi. Sarebbe da desiderarsi e da comandarsi che fosse fatto un esatto Catalogo o Inventario di tutte le pitture esistenti nei sopradetti luoghi degne singolarmente della pubblica tutela a norma del quale restasse impedito ogni esporto, o vendita arbitraria e per i restauri necessari che potessero occorrere si dovesse impetrare le licenze, previa l’inspezione e la relazione di approvato conoscitore”. Nel 1773 la Repubblica, dopo aver incaricato Zanetti di compilare un catalogo di tutti quei quadri che sono opera di celebri e rinomati autori, lo nomina (“per la probità sua, e per la perizia e cognizione che possiede nel disegno, di cui ha dato prove anche nel libro da lui composto della Veneziana Pittura”) Ispettore generale affinché rediga una “nota d’ogni singola opera, ne faccia consegna alli rispettivi Superiori, Parrochi, Direttori e Guardiani delle Chiese, Scole e Monasterj, con debito tanto agli attuali che alli successori di custodirli, conservarli e di rendersi risponsabili di qualunque asporto o mancanza succedesse, dovendo essi rilasciare all’Ispettore corrispondente ricevuta. Doverà esso semprecchè occorresse o di accomodare alcun quadro o di ristaurare il luogo ove è collocato, rilevarne il bisogno e riferirlo al Tribunale per averne il permesso, dietro il quale sarà cura sua che ciò sia fatto nel miglior modo soprintendendo all’operazione e avvertendo che questa sia appoggiata a persona capace di ben eseguirla”[2].
La scelta della Repubblica veneziana (giunta ormai quasi alla fine della sua storia gloriosa) di incaricare l’Ispettore, che sovrintenda alla conservazione delle opere di proprietà ecclesiastica, ne curi la catalogazione e ne controlli il restauro, contiene in nuce il moderno concetto di tutela.
[1] F. Haskell, La dispersione e la conservazione del patrimonio artistico, cit., p. 18.
[2] Cfr. più ampiamente M. Speroni, La tutela dei beni culturali negli stati
[2] Cfr. più ampiamente M. Speroni, La tutela dei beni culturali negli stati italiani preunitari, cit., p. 135 ss.
Le spoliazioni napoleoniche e il chirografo di Pio VII
All’inizio dell’Ottocento Papa Pio VII emana il chirografo[1] del 1° ottobre 1802 (promulgato dall’editto Doria Pamphilj del 2 ottobre), in cui richiama tutte le disposizioni emanate dai suoi predecessori fin dal Quattrocento per il controllo e la protezione del patrimonio storico-artistico, ponendo le basi su cui nel 1820 si fonda l’editto del cardinale Pacca, che costituisce lo strumento più evoluto cui si ispirano gli altri governanti degli Stati preunitari ad eccezione del Regno sabaudo, che si richiama invece al principio illuministico dell’inviolabilità della proprietà privata con la conseguenza di non poter sottoporre a controllo, neanche a fini culturali, le proprietà dei privati.
Pochi anni prima, nel 1796 Napoleone ha intrapreso la campagna d’Italia e nel 1798 ha occupato Roma. Con i trattati di pace di Tolentino e Campoformio (1797) Bonaparte, apionato estimatore d’arte, comincia ad avanzare la pretesa di una grande quantità di opere d’arte dai paesi sconfitti, come trofei che risarciscano i danni di guerra: i beni artistici italiani, specialmente dello Stato pontificio, subiscono grandi perdite, poi solo in parte recuperate. Egli fonda a Parigi il Musée Central des Arts, che deve raccogliere i capolavori dell’arte mondiale, perfezionando l’idea della Rivoluzione del diritto di tutti di visitare i musei, dopo aver nazionalizzato le raccolte reali, che vengono aperte al pubblico nel Musée Révolutionnaire o Français.
Napoleone fa così confluire nel Louvre le opere confiscate in Italia, in Belgio e in Egitto e nel 1801 le collezioni di marmi antichi sottratte ai Musei capitolini.
Le collezioni provenienti da Roma arrivano a Parigi nel luglio del 1798 e viene celebrata una grande festa, con un corteo trionfale che attraversa la città con carri
decorati con fogliame e nastri per celebrare i capolavori, scortati da truppe e distinti personaggi[2].
Il chirografo viene emanato per reagire alle spoliazioni napoleoniche, ma non solo, perché è stato definito come “primo strumento moderno contro la sfrenatezza di abusi e di vendite di bassa macelleria (altro che le sempre lamentate razzie napoleoniche!)”[3]. “La seconda metà del ‘700 completa ampiamente il vano ormai sconfinato del “conservabile”, che è l’equivalente del documentabile e dello storico. E se il chirografo davvero eccezionale di Pio VII imposta in modo definitivo, nel 1802, lo scibile intero della testimonianza storica e artistica, si può essere certi che egli vi giunge avendo alle spalle oltre alla grande stagione dell’école de réformation, l’opera data da Ennio Quirino Visconti alla formazione del Museo Pio-Clementino, giusto in quell’anno conclusasi; e la cultura profonda di Antonio Canova. E, dietro ancora, la fondazione di una storia dell’arte che, per l’archeologia, porta il nome di Winckelmann (1764) e per la storia della pittura italiana quello davvero non meno luminoso dell’abate Luigi Lanzi. Nonché infine l’intelligenza sapiente di Carlo Fea”[4].
L’abate archeologo e giurista Carlo Fea, per 35 anni Commissario alle antichità e agli scavi, è l’ispiratore del documento insieme a Canova e allo storico dell’arte e saggista Antoine Chrysostome Quatremère de Quincy, autore delle celebri Lettres à Miranda[5]. Diverse sono le ragioni, sia di ordine estetico e culturale che pratico ed economico, che hanno indotto Pio VII ad occuparsi della conservazione dei monumenti. Le opere degli antichi, infatti, non solo accrescono il decoro e la celebrità di Roma, distinguendola da tutte le altre città d’Europa, ma vi richiamano gli stranieri e contribuiscono alla formazione degli artisti, alimentando la produzione e il commercio di nuove opere d’arte[6]. “Questi preziosi avanzi della culta Antichità forniscono alla Città di Roma un ornamento, che la distingue tra tutte le altre più insigni Città dell’Europa; somministrano i Soggetti li più importanti alle meditazioni degli Eruditi, ed i modelli, e gli esemplari i più pregiati agli Artisti, per sollevare li loro ingegni alle idee del bello, e del sublime; chiamano a questa Città il concorso dei Forestieri, attratti dal piacere di osservare queste singolari Rarità; alimentano una grande quantità d’Individui impiegati nell’esercizio delle Belle Arti; e finalmente
nelle nuove produzioni, che sortono dalle loro mani, animano un ramo di commercio, e d’industria più d’ogni altro utile al Pubblico, ed allo Stato, perché interamente attivo, e di semplice produzione, come quello che tutto è dovuto alla mano, ed all’ingegno dell’Uomo. Nel vortice delle ate vicende, immensi sono stati li danni, che questa Nostra dilettissima Città ha sofferto nella perdita dei più rari monumenti, e delle più illustri Opere dell’Antichità”.
Con la volontà dichiarata di seguire l’esempio di papa Leone X, che aveva incaricato Raffaello di occuparsi delle antichità di Roma, Pio VII nomina “l’incomparabile Scultore Canova, emolo dei Fidia, e dei Prassiteli, come quello lo fu degli Apelli e dei Zeusi, Ispettore generale di tutte le Belle Arti”. Rinnovando e specificando le disposizioni dei predecessori, la tutela è estesa a tutto il patrimonio mobile, asportabile ed esportabile, sia pubblico che privato. Nessuna antichità di alcun tipo può essere estratta dallo Stato pontificio e a nessuna persona “di qualunque privilegio fornita e di qualunque dignità decorata, compresi anche li R.mi Cardinali benché Titolari, Protettori di Chiese, ed altri privilegiatissimi” è permesso concedere licenze di estrazione. Si procede ad un elenco dettagliato di tutti i generi di opere che non possono essere asportate e alienate (vendute), a partire da quelle conservate nelle Chiese. Nessun quadro di chiesa può essere asportato o alienato, “ma ne anche farsi ristaurare o sul luogo, o fuori, e neppure levarsi per copiarli senza la intelligenza, e consenso dell’Ispettore delle Belle Arti, e del Commissario delle Antichità, che ne dovranno fare relazione”. Agli stranieri residenti a Roma sono imposte le stesse limitazioni degli abitanti ed è proibita la vendita di opere d’arte, se non all’interno della città. La vendita è invece libera, come l’esportazione, “per animare maggiormente le Arti, e i loro Cultori”, per le opere di autori viventi, salva sempre la licenza.
Una somma annuale viene devoluta per gli acquisti dei musei pontifici, mentre si varano le misure più rigorose per impedire la distruzione o il danneggiamento dei monumenti antichi[7].
Si instaura un criterio di protezione preventiva, fondato sulla compilazione di
elenchi (introdotto in precedenza nella Repubblica di Venezia, per la sua antica tradizione di collezionismo privato): si intima a “tutti i Privati, che hanno Gallerie di Statue, e di Pitture, Musei di Antichità Sacre o Profane o semplici raccolte ed anche quelli che, senza avere o Gallerie, o Musei, o Raccolte, hanno attualmente presso di loro uno, o più oggetti antichi, o in altro modo pregievoli di Arte, particolarmente in genere di Scultura o di Pittura in Roma, e in tutto lo Stato, di dare un’esatta assegna, distinguendo ciascun pezzo”, con un controllo annuale sulla conservazione.
Per chi viola le disposizioni sono previste, oltre alla perdita degli oggetti, severe pene pecuniarie e corporali. Il chirografo è stato definito “uno spartiacque tra il vecchio e il nuovo modo di concepire l’intervento dello Stato sui beni artistici”[8]: allargando la nozione di patrimonio, nell’elenco dettagliato delle cose da preservare, si affronta il problema del controllo sui beni artistici di proprietà privata, insieme all’esigenza di una struttura amministrativa funzionale, garante non solo di una sorveglianza efficace, ma anche di una competenza riconosciuta a servizio e vantaggio del patrimonio pubblico. L’Ispettore delle Belle Arti e il Commissario delle Antichità devono indirizzare e controllare i restauri, vigilare sulle esportazioni e gli acquisti di opere d’arte per i Musei Vaticani e Capitolini, che diventano così frequenti e numerosi da rendere necessaria l’apertura di un nuovo museo, intitolato a Pio VII Chiaramonti, nel 1807. Nel periodo della nuova occupazione se di Roma da parte delle truppe napoleoniche alla fine del 1807 si assiste ad una accelerazione degli interventi di recupero e restauro dei monumenti antichi, con lo stanziamento di somme ingenti per l’abbellimento della città. Quando nel 1814 il cardinale Bartolomeo Pacca assume la carica di Camerlengo e pro-segretario di Stato (mantenuta fino al 1824), prosegue l’attività di recupero e restauro monumentale (Colosseo, Arco di Tito, Colonna Antonina e diversi obelischi) iniziata dai si, in quanto, scrive Carlo Fea, “tutta Roma è e deve essere una Galleria”, testimoniando il rapporto col contesto, il territorio disseminato di testimonianze artistiche che formano “l’unico bello al mondo e il vero incantesimo della città”[9]. Per il restauro dei dipinti istituisce la carica di Ispettore delle Pitture, assegnata a Vincenzo Camuccini col compito di “visitar spesso locali, ove conservansi monumenti così preziosi, d’invigilare perché sian questi ben custuditi, e di occorrere al pronto ristauro di quelli che per incuria avessero nelle ate vicende sofferto del danno”.
Segue una campagna intensa di interventi di restauro soprattutto di dipinti murali nelle chiese romane e nel 1819 viene emanata una circolare che vieta qualsiasi intervento di restauro di opere pittoriche in edifici pubblici, senza la direzione personale dell’Ispettore e il permesso del Camerlengo[10].
[1] Letteralmente, documento scritto a mano dal Pontefice, pubblicato mediante l’editto del cardinale Camerlengo.
[2] Le origini e le vicende del Louvre sono narrate da F.H.Taylor, Artisti, principi e mercanti, cit., p. 365-373; 560-586.
[3] A. Emiliani, L’innovazione conservativa, Nuova Alfa Editoriale, Bologna, 1990, p. IX.
[4] A. Emiliani, Leggi, bandi e provvedimenti per la tutela dei beni artistici e culturali negli antichi stati italiani. 1571-1860, cit., p.13.
[5] A. Pinelli, Storia dell’arte e cultura della tutela. Le “Lettres à Miranda” di Quatremère de Quincy, in Ricerche di storia dell’arte, n. 8, 1978-9, p. 43 ss.; O. Rossi Pinelli, Carlo Fea e il chirografo del 1802: cronaca, giudiziaria e non, delle prime battaglie per la tutela delle “Belle Arti”, ivi, p. 27 ss.
[6] A. Pinelli, L’indotto del Grand Tour settecentesco: l’industria dell’antico e del souvenir, in Ricerche di Storia dell’arte, n° 72, 2000, p. 85 ss.
[7] F. Haskell, La dispersione e la conservazione del patrimonio artistico, cit., p. 27.
[8] O. Rossi Pinelli, Carlo Fea e il chirografo del 1802: cronaca, giudiziaria e non, delle prime battaglie per la tutela delle “Belle Arti”, in Ricerche di Storia dell’arte, n. 8, 1978-79, p.29.
[9] V. Curzi, Per la tutela e la conservazione delle Belle Arti: l’amministrazione del Cardinale Bartolomeo Pacca, in Bartolomeo Pacca (1756-1844). Ruolo pubblico e privato di un Cardinale di Santa Romana Chiesa, Blitri, Velletri, 2001, p. 49 ss.
[10] V. Curzi, Per la tutela e la conservazione delle Belle Arti: l’amministrazione del Cardinale Bartolomeo Pacca, cit., p. 49 ss.
L’editto del cardinale Pacca
Alla caduta di Napoleone, le opere da lui trafugate devono essere restituite e ogni nazione invia i propri delegati in Francia: il delicato compito di recupero viene affidato ad Antonio Canova (data la sua carica di Ispettore generale e la indiscussa autorità nel campo della protezione dell’arte) che riesce a far tornare in Italia la maggior parte delle opere depredate[1]. Molti beni artistici, requisiti dai si nelle chiese e poi restituiti “con l’espressa condizione che servano a pubblica e generale utilità”, come riferisce lo scultore da Parigi nel corso delle trattative, entrano a far parte della Pinacoteca Vaticana.
Nel 1819 viene emanato un editto del cardinale Pacca (su sollecitazione di Carlo Fea) per la salvaguardia di carte, scritture e libri manoscritti: si stabilisce un controllo sugli archivi pubblici e privati, impedendone la vendita o la dispersione senza il controllo del Prefetto degli Archivi Segreti Vaticani e garantendo allo Stato un diritto di prelazione sull’acquisto di “tutte le carte rilevanti, o per materie di Stato, o per le pubbliche Biblioteche, o per l’interesse delle Famiglie private”. L’esigenza di un effettivo controllo su un patrimonio spesso soggetto ad usi impropri impone a “Mercanti, Regattieri, Libraj, Pizzicaroli, Salumari, Orzaroli, Stracciaroli, Tabaccari” l’obbligo della consegna di un inventario del materiale cartaceo in loro possesso.
Nel 1820 viene emanato il famoso e “ineguagliabile” editto Pacca (completato dal regolamento dell’anno successivo) sopra le antichità e gli scavi che, modellato sul chirografo chiaramontiano, “è destinato a restare come una pietra miliare nella breve ma intensa vicenda della proposta conservativa”[2]. Esso rappresenta il più completo, organico e moderno testo normativo sulla protezione del patrimonio storico-artistico (“Gli antichi Monumenti hanno reso e renderanno sempre illustre, ammirabile, ed unica quest’alma Città di Roma”) e costituisce un prezioso modello di riferimento per le legislazioni degli altri Stati
preunitari e successive.
La disciplina di tutela, criticata dal cardinale Segretario di Stato Consalvi e dal Commissario Fea, viene apprezzata invece da Canova, che esprime un parere positivo: si delinea innanzitutto, ispirandosi all’esempio se, una struttura amministrativa decentrata con competenza su tutto il territorio dello Stato pontificio, istituendo, accanto alla Commissione romana di Belle Arti (organo consultivo del Camerlengo), delle Commissioni ausiliarie nelle legazioni e delegazioni attraverso cui il Legato Apostolico è investito della responsabilità della salvaguardia dei beni artistici, archeologici e monumentali. Nel regolamento del 1821 il cardinale Pacca, dando prova di saggezza e sensibilità, raccomanda ai membri delle Commissioni ausiliarie provinciali il rispetto delle “popolari tradizioni, ancorché alle volte fallaci. Poiché distruggendo quelle memorie, si può bene spesso incorrere nella taccia di aver distrutto un monumento interessante, e che pur, se tale non era, richiamava alla mente qualche punto di storia patria: ed in ciò si abbia riguardo specialmente, se il monumento è stato pubblicato con le stampe”[3].
La catalogazione, con l’obbligo della consegna da parte dei responsabili di chiese, oratori, conventi e ogni altro stabilimento religioso di “una esattissima e distinta Nota”, diventa lo strumento principale per la ricognizione, la conoscenza e la tutela di tutti quei beni, dichiarati dal regolamento “di diritto pubblico”.
Le Commissioni devono “visitare generalmente presso qualunque Proprietario e Possessore gli Oggetti di Antichità” al fine di apporre vincoli a quanto risulti “di singolare e famoso pregio per l’Arte e l’Erudizione”: i beni vincolati sono sottoposti a un rigido controllo (analogo a quanto previsto dall’attuale legge), con l’obbligo di “non poter disporre di tali Oggetti, che nell’interno dello Stato, e con Nostra Licenza, anche per averne ragione di acquisto per conto del Governo, e rimanendo inoltre sempre obbligati, nel caso di alienazione, tanto il Venditore, che il Compratore, a denunciare l’atto dell’alienazione stessa, sotto pena della perdita degli oggetti per qualunque mancanza”.
Si ripropone, ribadendo e ampliando, tutta la disciplina già contenuta nel chirografo relativa all’estrazione, agli scavi, alla demolizione, manomissione, modificazione o rimozione di edifici antichi o parti di essi, che non possono essere destinati “ad usi vili ed indegni” (gli ‘usi incompatibili’ della legge vigente); si rendono i proprietari dei terreni su cui insiste un monumento antico responsabili del suo degrado; si prevede una zona di rispetto (come il ‘vincolo indiretto’) intorno ai monumenti antichi; si introduce una tassa doganale del 20%, al fine di scoraggiare l’esportazione di opere d’arte, senza però riuscire ad evitare l’uscita della collezione raccolta dal cardinale Fesch (zio di Napoleone) nel 1845, dal pittore Camuccini nel 1856 e dal marchese Campana nel 1857[4].
Le pene previste in precedenza sono mitigate, con maggiore realismo e attenzione a tutto il sistema complessivo di tutela.
Come già accennato, l’editto Pacca ha esercitato una influenza importante sulla legislazione in materia di Belle Arti degli altri Stati preunitari: una normativa di analogo tenore viene emanata nel Regno di Napoli da Ferdinando I nel 1822 e nel Granducato di Toscana da Leopoldo II nel 1854, mentre a Modena nel 1857 la Tariffa daziaria degli Stati estensi prevede un divieto di estrazione di tutti gli “oggetti, appartenenti alle belle arti e alla letteratura, la perdita dei quali si conosca difficilmente riparabile”, con la confisca degli oggetti in caso di tentata esportazione o, se già verificatasi, con una pena pecuniaria (multa).
[1] F. Haskell, La dispersione e la conservazione del patrimonio artistico, cit., 23.
[2] A. Emiliani, Leggi, bandi e provvedimenti per la tutela dei beni artistici e culturali negli antichi stati italiani. 1571-1860, cit., p. 8.
[3] M. Chiarini, Arte,2/I,in Enciclopedia Feltrinelli Fischer, Feltrinelli, Milano,
[3] M. Chiarini, Arte,2/I,in Enciclopedia Feltrinelli Fischer, Feltrinelli, Milano, 1971, p. 26 ha notato “l’intelligente apertura e la profonda cultura di quest’uomo: egli, con la legge suddetta, rivolse la sua attenzione anche ad altri aspetti dell’arte, in genere detti minori, ma altrettanto importanti come testimonianza di civiltà e di storia”.
[4] F. Haskell, La dispersione e la conservazione del patrimonio artistico, cit., 28-29.
L’eccezione liberista sabauda
Mentre nella prima metà dell’Ottocento negli Stati italiani si è ormai affermata l’idea di un patrimonio culturale da conoscere, conservare, catalogare e proteggere con un atteggiamento protezionistico dello Stato, il Regno di Sardegna, in omaggio alle idee illuministiche e liberiste, non ammette ingerenze statali nella sfera della proprietà privata (l’art. 29 dello Statuto Albertino proclama: “Tutte le proprietà, senza eccezioni, sono inviolabili”) e quindi le collezioni d’arte dei privati non possono essere soggette a limitazioni o controlli. Solo nel 1832 un Regio Brevetto di Carlo Alberto istituisce una Giunta di antichità e belle arti con l’incarico di proporre, sotto la direzione della Segreteria di Stato per gli Affari dell’Interno, i “provvedimenti che, senza ledere il diritto di proprietà, ravviserà proprii a promuovere la ricerca, e ad assicurare la conservazione di quegli oggetti che, per l’antichità, o pel loro pregio saranno riconosciuti importanti per gli studi di antichità, e di belle arti”.
L’Unità d’Italia e i fedecommessi
Con l’Unità d’Italia, sotto l’egida dello Stato sabaudo, si unificano le legislazioni degli Stati preunitari e si emanano nuovi codici e leggi, informati alla concezione liberista dominante nel Regno di Sardegna. Il codice civile unitario del 1865 abolisce il “fedecommesso”, istituto che riguarda il diritto testamentario, nato originariamente nel diritto romano come raccomandazione o preghiera rivolta dal testatore al suo erede e trasformato in seguito in un comando di conservare determinati beni per poi trasmetterli intatti al successivo erede. Limitato nel tempo da Giustiniano alla quarta generazione, nel diritto medievale assume dimensioni temporali maggiori e si trasforma in un vincolo perpetuo di inalienabilità (impossibilità di vendere o trasferire ad altri), imposto dal testatore ai suoi eredi ad infinitum: ne deriva che il successore, acquistando i beni ereditari vincolati da fedecommesso, non può disporne liberamente, ma è obbligato a conservarli per trasmetterli intatti al successivo erede, di generazione in generazione, senza limiti di tempo[1]. Il fedecommesso è quindi uno strumento efficace per evitare la dispersione dei patrimoni prima e poi delle raccolte di arte e di antichità, essendo basato sulla previsione di un ordine successivo di eredi predefinito dal testatore e su un parallelo obbligo di conservazione del patrimonio ereditario e restituzione dello stesso al successivo erede[2]. Molto diffuso negli atti di ultime volontà delle famiglie nobili in Spagna[3] e soprattutto nella Roma barocca, tale clausola testamentaria determina un sostanziale blocco dei beni ereditari, allo scopo di mantenere integro, attraverso le generazioni, un patrimonio avito, che spesso comprende preziose raccolte d’arte[4]. Nel 1631 Urbano VIII dispone la registrazione dei fedecommessi nell’Archivio urbano, anche per escludere le rivendicazioni dei creditori sui beni (descritti in un dettagliato inventario) che risultano così vincolati.
Il primo fedecommesso artistico a Roma è disposto dal cardinale sco Barberini, il quale nel testamento del 6 aprile 1678 stabilisce l’inalienabilità e
l’indivisibilità della collezione d’arte e della biblioteca da lui iniziata ed accresciuta con le donazioni del papa Urbano VIII: dalle descrizioni dei contemporanei si tratta di una “copiosa, singolarissima libreria nella quale, oltre il numero di circa sessantamila libri stampati, si conservano molte migliaia di manoscritti stimabilissimi. Unito alla libreria è un gabinetto pieno di camei, intagli, metalli e pietre preziose, con un gran numero di medaglie di bronzo, argento e oro”[5].
L’istituto è stato criticato dagli illuministi, in base alle idee fondamentali di libertà e rispetto del diritto di proprietà, in quanto si traduce in una intollerabile limitazione della libera circolazione dei beni e in una grave discriminazione all’interno della famiglia per violazione del principio di uguaglianza di trattamento dei figli e della libertà di disporre dei propri beni. Abolito dalle leggi rivoluzionarie e napoleoniche, con la Restaurazione il fedecommesso riacquista validità nello Stato Pontificio col motu proprio di Pio VII del 1816, limitatamente a taluni immobili e alle “raccolte di statue, di pitture e di altri oggetti d’arte e di antichità”, previa approvazione del cardinale Camerlengo. Le raccolte possono essere assoggettate all’obbligo della conservazione e restituzione (al successivo erede) se il Camerlengo, in base alla valutazione operata da una commissione di esperti sul “pregio artistico e la rarità”, concede l’‘assegna’, ossia l’apposizione del vincolo.
La breve e intensa stagione della Repubblica romana vede, dopo apionate discussioni, l’abolizione del fedecommesso, considerato simbolo del conservatorismo peggiore, ma al tempo stesso attribuisce un nuovo significato al problema della tutela delle collezioni artistiche romane, conservate dalle famiglie proprio in virtù della clausola testamentaria, ma sempre aperte agli studiosi, agli artisti e ai visitatori[6]. L’ dibattito nelle assemblee repubblicane testimonia una nuova sensibilità verso la protezione del patrimonio artistico, ritenuto eredità culturale di una nazione, come terreno di scontro tra il principio inviolabile di libertà della proprietà privata e l’intangibile diritto di uso pubblico sulle raccolte artistiche[7].
Il dibattito si riaccende al momento dell’annessione di Roma al Regno d’Italia, in quanto, essendo stato abolito il fedecommesso dall’art. 899 del codice civile unitario del 1865, si prospetta la possibilità (non proprio remota) che le collezioni fedecommissarie siano smembrate e disperse. Viene subito emanato il regio decreto 27 novembre 1870, n. 6030, che, estendendo alla Provincia romana la legislazione unitaria, sospende provvisoriamente l’abolizione dei fedecommessi; la successiva legge 28 giugno 1871, n. 286, li abolisce, ad eccezione delle “gallerie, biblioteche ed altre collezioni d’arte e di antichità che rimarranno indivisibili e inalienabili, finchè non sia per legge speciale altrimenti provveduto” (art. 4). La legge è accompagnata da polemiche infuocate[8] che continuano fino alla fine del secolo, mentre è ribadito dall’art. 5 il pieno vigore delle norme preunitarie di tutela del patrimonio artistico[9].
Solo la travagliata vicenda della vendita del palazzo e della donazione della pinacoteca e biblioteca allo Stato italiano da parte del principe Tommaso Corsini porta all’emanazione della legge 8 luglio 1883, n. 1461, che dispone l’alienabilità delle collezioni artistiche fedecommissarie “allo Stato, alle provincie, ai comuni, a istituti od altri enti morali laici, fondati o da fondarsi, i quali dovranno conservare o destinare in perpetuo ad uso pubblico le gallerie, biblioteche o collezioni”, ferma restando l’indivisibilità. Altre due leggi completano il quadro di fine secolo, il regio decreto 23 novembre 1891, n. 653, che dispone un censimento con ispezioni sulle raccolte ex-fidecommissarie, e la legge 7 febbraio 1892, n. 31, che punisce con le pene stabilite per i custodi di cose pignorate o sequestrate chiunque “sottrae, sopprime o distrugge” opere d’arte di tali collezioni, scatenando l’ira dei proprietari, considerati “meri custodi giudiziari”![10]
Da allora, mentre si susseguono le vendite di capolavori e la dispersione di importanti raccolte (anche diverse da quelle ex-fidecommissarie)[11], lo Stato acquisisce le collezioni, più o meno integre, ad eccezione delle gallerie Colonna, Doria Pamphilj e Torlonia, rimaste finora private[12].
[1] F. Lemme, La situazione giuridica della collezione Colonna, in Catalogo
[1] F. Lemme, La situazione giuridica della collezione Colonna, in Catalogo sommario della Galleria Colonna in Roma, a cura di E. A. Safarik, Bramante, Busto Arsizio, 1981, p.10.
[2] Sull’istituto sia permesso rinviare a M. B. Mirri, Le vicende del fedecommesso Borghese: profili giuridici, in Villa Borghese. Storia e gestione, a cura di A. Campitelli, Skira, Milano, 2005, p. 203 ss.
[3] M. Piccialuti, L’immortalità dei beni. Fedecommessi e primogeniture a Roma nei secoli XVII e XVIII, Viella, Roma, 1999, p. 5 ss.; M. Fagiolo dell’Arco, R. Pantanella, Museo Baciccio, Pettini, Roma, 1996, p. 97 ss.
[4] Nel 1511 Marco Antonio Altieri vincola la collezione di antichità, stabilendo che, nel caso in cui non venga rispettato il fedecommesso dagli eredi, la collezione i al Campidoglio per essere esposta al pubblico, cfr. V. Curzi, Beni culturale e publica utilità, cit., p. 41.
[5] Il fedecommesso Barberini costituisce il nucleo del museo di arte antica di Roma nel Palazzo omonimo mentre la biblioteca è entrata a far parte della Biblioteca vaticana, conservando anche le librerie ornate degli stemmi della casa con le famose api.
[6] G. De Montemayor, Diritto d’arte, cit., p. 78-83.
[7] Da ricordare la relazione del Commissario alle Antichità Pietro Ercole Visconti con la proposta al governo di “assumere, a richiesta, la collocazione e la custodia delle raccolte”, a vantaggio del loro pubblico godimento: cfr. E. Fusar Poli, Le collezioni ex-fidecommissarie (art. 14 T. U.). Storia di un difficile compromesso giuridico, in Beni e attività culturali, n.1/2002, p. 14.
compromesso giuridico, in Beni e attività culturali, n.1/2002, p. 14.
[8] Cfr. C. Maes, Il diritto popolare sulle gallerie private aperte al pubblico, Roma, 1891, p. 727 ss. (opuscolo speciale di Cracas, n. 211); L. Vicchi, Villa Borghese nella storia e nella tradizione del popolo romano, Forzani, Roma, 1885, p. 244-263;
[9] E. Mattaliano, Il movimento legislativo per la tutela delle cose di interesse artistico e storico dal 1861 al 1939, in Ricerca sui beni culturali, (Camera dei Deputati, Segretariato generale), I, Roma, 1975,p. 7, ritiene questa legge significativa perché segna l’inizio del movimento legislativo in materia.
[10] G. Azzurri, Le gallerie fedecommissarie romane e le relative leggi italiane, Befani, Roma, 1896, p. 15; Per la libertà delle Belle Arti in Italia, Mareggiani, Bologna, 1897.
[11] Sulle vicende relative cfr. F. Haskell, La dispersione e la conservazione del patrimonio artistico, cit., p. 28-32.
[12] Sulle complesse vicende relative alla cessione della Galleria e del parco di Villa Borghese sia permesso rinviare a M. B. Mirri, Le vicende del fedecommesso Borghese: profili giuridici, cit., p. 206-209.
L’espropriazione del patrimonio ecclesiastico
Dopo l’Unità d’Italia (proclamata con la legge 17 marzo 1861, n. 4761) il nuovo Regno non solo amplia progressivamente i suoi confini, ma deve far fronte ad una grave situazione di miseria e analfabetismo mentre lo scontro con la Chiesa si inasprisce sempre più dopo l’emanazione, nel 1855, della legge 29 maggio, n. 878 (proposta da Siccardi e Rattazzi) di limitazione dei privilegi ecclesiastici e di soppressione delle comunità religiose “che non attendono alla predicazione, all’educazione o all’assistenza degli infermi” e relativa confisca dei beni, affidati alla Cassa ecclesiastica (in seguito al Demanio e poi al Fondo per il culto). Con le annessioni la legge viene estesa progressivamente in Umbria, nelle Marche e nelle province napoletane e i relativi decreti rappresentano i primi provvedimenti del nuovo Stato relativi al patrimonio artistico e alla sua gestione[1].
Nell’aprile del 1861 il ministro della pubblica istruzione sco De Sanctis incarica Giovanni Morelli e Giovan Battista Cavalcaselle di redigere un inventario (strumento di assoluta priorità per una efficace conservazione del patrimonio) degli “oggetti d’arte qualunque siano (anche intagli in legno, libri corali esistenti nelle chiese e case e lavori di terracotta, cesellature e simili)” in Umbria e nelle Marche. Nei sessantotto giorni di viaggio i commissari catalogano soprattutto dipinti con precise note di descrizione, collocazione, stato di conservazione e valore, appongono il sigillo che sancisce la nuova proprietà e ribadiscono, collegando l’inventario all’impossibilità di vendere, l’inalienabilità assoluta delle opere. L’inventario però, per quanto prezioso, è solo una prima misura, che ha bisogno di un contesto legislativo organico e di efficaci misure di controllo e anche della individuazione dei destinatari del patrimonio artistico ex religioso: nel 1862 un regio decreto stabilisce che libri e oggetti d’arte diventano proprietà dei municipi in cui si trovano gli ex conventi, purchè si impegnino “con locali adatti e con assegnamenti annuali alla conservazione e utilizzazione a pubblico beneficio”.
Nel 1866 il regio decreto 7 luglio, n. 3036 sopprime nell’intero territorio nazionale ordini, corporazioni e congregazioni religiose, regolari e secolari, ne devolve i beni al demanio e crea il Fondo per il culto. La liquidazione dell’asse ecclesiastico viene disciplinata dalla successiva legge 15 agosto 1867, n. 3848, che dispone la devoluzione dei patrimoni degli enti ecclesiastici soppressi al demanio e l’amministrazione e alienazione dei beni acquisiti in forza dei provvedimenti soppressivi[2].
Si riconosce ai Comuni e alle Direzioni generali dei ministeri il diritto di prelazione nel richiedere ex conventi e monasteri per adibirli a scuole, uffici, tribunali e caserme mentre nel 1865 la legge 25 giugno, n. 2359 sull’espropriazione per pubblica utilità ha già previsto la possibilità per lo Stato di espropriare i “monumenti storici o di antichità nazionale” nel caso in cui la conservazione dell’immobile non sia garantita dal proprietario (“la cui conservazione pericolasse continuando ad essere posseduto da qualche corpo morale o da un privato cittadino”)[3].
La vicenda dell’espropriazione dei beni ecclesiastici - definita da Andrea Emiliani “evento fondamentale della storia italiana”[4] - è esemplare per la protezione del patrimonio culturale nazionale in quanto il patrimonio delle corporazioni religiose costituiva in quel momento, per committenza, storia, valore e diffusione, parte notevole della ricchezza artistica italiana [5].
Il regime di proprietà e di gestione dei beni ecclesiastici che ne risulta è questo: gli edifici destinati al culto, con i relativi quadri, statue, mobili e arredi sacri sono eccettuati dalla devoluzione al demanio e sono conservati all’uso delle chiese dove si trovano; i libri, i manoscritti, i documenti scientifici, gli archivi, i monumenti, oggetti d’arte, mobili inservienti al culto, quadri, statue, arredi sacri che si trovano negli edifici appartenenti alle corporazioni religiose soppresse sono devoluti a pubbliche biblioteche o a musei nelle rispettive province.
Sono eccettuati dalla devoluzione (e il Governo provvede alla conservazione degli edifici con adiacenze, biblioteche, archivi, oggetti d’arte, strumenti scientifici e simili) le Badie di Montecassino, Cava dei Tirreni, San Martino alla Scala presso Palermo, Monreale, la Certosa di Pavia e simili stabilimenti ecclesiastici distinti “per la monumentale importanza e pel complesso dei tesori artistici e letterari”: si opera così una distinzione tra una enorme massa di oggetti che confluiscono, arricchendoli, nei musei comunali, cui provvede l’amministrazione locale, e i grandi complessi (i primi “monumenti nazionali”) il cui superiore ed eccezionale interesse storico-artistico diventa simbolo dell’identità ed unità della nazione, cui provvede il potere statale.
Cominciano in gran fretta e in un clima molto teso le “prese di possesso” delle case religiose, cioè i riconoscimenti degli enti e dei loro beni, di cui viene stilato un preciso inventario: esse costituiscono la prima ricognizione a livello nazionale del patrimonio artistico e culturale appartenuto al clero, censito al momento del aggio forzato all’autorità civile[6]. Al di là del riconoscimento del requisito della “monumentalità” (che garantisce la conservazione degli edifici conventuali e la piena tutela dei relativi patrimoni artistici, archivistici e librari) il resto dell’immenso patrimonio immobiliare delle corporazioni religiose viene devoluto al demanio e riusato per far fronte alle gravi necessità finanziarie, militari e burocratiche dello Stato[7].
[1] Il tema è stato studiato a fondo da A. Gioli, Monumenti e oggetti d’arte nel Regno d’Italia. Il patrimonio artistico degli enti religiosi soppressi tra riuso, tutela e dispersione, Ministero per i beni culturali e ambientali, Roma, 1997.
[2] Le leggi sono estese a Roma nel 1873.
[3] Il Consiglio di Stato nel 1875 ritiene che l’espressione “monumento storico o di antichità nazionale” debba essere intesa in senso lato, comprensiva anche degli immobili in cui il valore artistico prevalga sull’importanza storica e
degli immobili in cui il valore artistico prevalga sull’importanza storica e sull’antichità.
[4] A. Emiliani, Premessa a A. Gioli, Monumenti e oggetti d’arte nel Regno d’Italia, cit., p. 5.
[5] A. Gioli, Monumenti e oggetti d’arte nel Regno d’Italia, cit., p. 7.
[6] A. Gioli, Monumenti e oggetti d’arte nel Regno d’Italia, cit., p. 67-8 traccia un bilancio dettagliato delle operazioni di presa di possesso dei beni religiosi nel 1866-67.
[7] Sulle vicende di Firenze capitale sia permesso rinviare a M.B. Mirri, Beni culturali e centri storici. Legislazione e problemi, cit., p. 41 ss.
Verso l’organizzazione amministrativa e la legge di tutela del patrimonio artistico
L’Unità di Italia vede, come già accennato, il campo del patrimonio storicoartistico diviso tra i sostenitori della concezione protezionista e liberista e si discute accanitamente fino all’inizio del Novecento per emanare una legge unitaria di tutela che sostituisca quelle preunitarie ancora prorogate dalla legge n. 286 del 1871.
Nel primo periodo di progressivo assestamento del nuovo Stato (che ha scelto una struttura amministrativa accentrata), dopo la presentazione del primo disegno di legge “sulla conservazione dei monumenti e degli oggetti d’arte e d’archeologia” ad opera del ministro della Pubblica Istruzione Cesare Correnti (competente per la tutela delle cose d’arte, mentre il ministero degli Interni si occupa degli archivi e del restauro dei monumenti), nel 1875 il ministro Ruggero Bonghi[1] istituisce la Direzione generale degli Scavi e dei Musei (la prima organizzazione specifica di tutela del settore nelle sue strutture centrali e periferiche), la Biblioteca Nazionale Centrale Vittorio Emanuele II e il Museo Etnografico Pigorini.
Denominata nel 1881 Direzione generale delle Antichità e Belle Arti, l’organizzazione subisce vari cambiamenti legati ai ministri che si susseguono fino all’inizio del Novecento quando, dopo “nove progetti di legge inutilmente presentati alle Camere in trenta anni per la tutela del patrimonio estetico nazionale”[2], viene finalmente approvata la legge Nasi (dal nome del ministro proponente) 12 giugno 1902, n. 185, “Per la conservazione dei monumenti e degli oggetti d’antichità e d’arte”, che però non risulta soddisfacente, essendo frutto di compromesso tra le diverse concezioni e particolarmente carente riguardo all’esportazione[3], che la successiva legge 27 giugno 1903, n. 242
vieta per gli oggetti dichiarati “di sommo pregio” e già inseriti nel catalogo, per quelli sottoposti a notifica e per tutti gli oggetti di antichità provenienti da scavi. Il regolamento di esecuzione delle due leggi (approvato con regio decreto 17 luglio 1904, n. 31) configura le nuove strutture amministrative, le Soprintendenze, disciplinate dalla legge Rava del 27 giugno 1907, n. 386, sul Consiglio superiore, gli Uffici e il personale delle Antichità e Belle Arti.
Vengono emanati due regi decreti del 1902 e del 1911 sul regolamento generale per gli Archivi di Stato e sostituiscono il primo del 1875, che aveva dettato i principi fondamentali dell’archivistica, basati sul rispetto dei fondi e sul principio di provenienza[4].
La legge Nasi è presto sostituita dalla legge Rosadi (l’apionato parlamentare toscano, strenuo difensore del patrimonio artistico e delle bellezze naturali[5]) del 20 giugno 1909, n. 364[6] (che costituisce l’immediato precedente della legge Bottai n. 1089 del 1939, considerata la legge fondamentale di tutela), sottoponendo a protezione “le cose, mobili o immobili, di interesse storico, archeologico o artistico”, escluse quelle realizzate da autori viventi o da meno di cinquanta anni.
[1] Definito da F. Sisinni, Alla festa di Olimpia, Le Monnier, Firenze, 2001, p. 105, “uomo di cultura, ministro per la cultura”.
[2] G. De Montemayor, Diritto d’arte, cit., p. 85, ricorda come nello stesso periodo sia stata imponente la dispersione di capolavori e collezioni emigrate all’estero.
[3] Fino a quel momento l’alternativa si pone per lo Stato, sempre afflitto da problemi finanziari, tra acquistare o fare esportare i beni.
problemi finanziari, tra acquistare o fare esportare i beni.
[4] E. Lodolini, Storia dell’archivistica italiana, Franco Angeli, Milano, 2006, p. 193.
[5] G. Volpe, La parabola della tutela artistica italiana da Carlo Fea a Giovanni Rosadi, in A. Emiliani, Leggi, bandi e provvedimenti per la tutela dei beni artistici e culturali negli antichi stati italiani, cit., p. 271ss. ne ricostruisce la figura e l’opera; cfr. anche le raccolte di scritti Nel vario arringo, Bemporad, Firenze, 1924 e Quel che disse Giovanni Rosadi, Casa Editrice “Etrusca”, Roma, 1930.
[6] Alla legge è dedicato lo studio di R. Balzani, Per le antichità e le belle arti. La legge n. 364 del 20 giugno 1909 e l’Italia giolittiana, cit.
La protezione del paesaggio e delle bellezze naturali
All’inizio del Novecento risale anche la prima legge di tutela del paesaggio (modificato e sottoposto a gravi pericoli dalla rivoluzione industriale e dall’espansione impetuosa delle città): con la legge 16 luglio 1905, n. 411, “Per la conservazione della Pineta di Ravenna”(voluta dal ministro Luigi Rava e dal sottosegretario Giovanni Rosadi) viene vincolata (dichiarandola intangibile e inalienabile) e salvata dalla distruzione la pineta di Classe alle porte di Ravenna, difesa da Sisto V nel 1587 quale “decoro della città”[1], celebrata da artisti e letterati e teatro della morte di Anita Garibaldi, eroina dell’epopea risorgimentale, in quel periodo così importante per la costruzione di un sentimento nazionale.
È il primo riconoscimento normativo dell’importanza “monumentale” di un paesaggio storico, estendendo il “culto delle civili ricordanze” dalle “solenni opere consacrate nel marmo e nel bronzo” a tutte “quelle parti del patrio suolo, che lunghe tradizioni associarono agli atteggiamenti morali e alle vicende politiche di un grande paese”[2], come afferma Rava nella relazione del disegno di legge.
Ecco una nuova categoria di monumenti di una nazione, quella dei monumenti naturali: non sono infatti tali “soltanto le mura e gli archi e le colonne e i simulacri, ma anche i paesaggi e le foreste e le acque e tutti quei luoghi che per lunghe tradizioni ricordano gli atteggiamenti morali e le fortune storiche di un popolo”. Nello stesso tempo, ricorda Rosadi, negli Stati Uniti d’America i distretti, dove sono le maggiori bellezze naturali, sono dichiarati “parchi nazionali” e le stesse Montagne Rocciose non possono essere trasformate, mentre la Francia nel 1906 ha approvato una legge di “vincolo perpetuo” su tutti i paesaggi artistici che siano illustrati da ricordi storici o da degne prove d’arte e di letteratura.
Si costituisce l’Associazione nazionale per i paesaggi e i monumenti pittoreschi d’Italia, che organizza convegni e si batte per sensibilizzare l’opinione pubblica sulla falsariga del movimento di intellettuali si insorto per la difesa della foresta di Fontainebleau. Nel disegno di legge sulla tutela delle antichità e belle arti Rosadi avrebbe voluto inserire tra le cose immobili anche “i giardini, le foreste, i paesaggi, le acque e tutti quei luoghi e oggetti naturali che abbiano l’interesse sopraccennato”, ma l’Ufficio centrale del Senato critica tale inclusione, prospettando pericoli per l’interpretazione futura, mentre invita il Governo a “presentare un disegno di legge per la tutela e la conservazione delle ville, dei giardini e delle altre proprietà fondiarie che si connettono alla storia o alla letteratura o che importano una ragione di pubblico interesse a causa della loro singolare bellezza naturale”[3].
Approvata la legge Rosadi, presto si profila un grave pericolo per la sopravvivenza delle grandi ville (sono già state sacrificate dalla speculazione edilizia Villa Peretti Montalto e Villa Ludovisi a Roma) in particolare per la salvaguardia di Villa Aldobrandini a Frascati, minacciata da forti pressioni: viene approvata la legge 23 giugno 1912, n. 688, che include “le ville, i parchi e i giardini di interesse artistico o storico” tra le cose tutelate dalla legge n. 364/1909. In breve tempo, oltre a Villa Aldobrandini, vengono vincolate circa cinquecento ville in tutta Italia.
Finita la prima guerra mondiale che mette a dura prova il patrimonio nazionale[4], Benedetto Croce è nominato ministro della Pubblica Istruzione e Giovanni Rosadi sottosegretario: nel 1920 gli viene rivolto un appello da Edwin Cerio, sindaco di Capri e “Regio Ispettore dei monumenti e oggetti d’arte di Capri e Anacapri”, per salvaguardare le condizioni estetiche del patrimonio isolano, invocando l’applicazione della legge sulla protezione del paesaggio. Nel 1921 Rosadi visita Capri impostando “il problema dell’avvenire dell’isola sul primo fattore della sua vita materiale e spirituale: la bellezza del suo paesaggio” dove “la bellezza naturale fa da sfondo ad un quadro sul quale la Storia, l’Arte, la Letteratura e la Scienza hanno proiettato alcune tra le più interessanti figure umane”[5]. La Direzione generale delle Antichità e Belle Arti diffonde in
migliaia di copie una “Scheda indicativa delle bellezze naturali”, cui Cerio risponde immediatamente, corredandola di “maggiori notizie storiche, di riferimenti artistici, di osservazioni scientifiche, così che ne è venuto fuori il presente volumetto, breve ma interessante monografia degli aspetti singolari di Capri, delle sue bellezze panoramiche, dei siti pittoreschi che hanno riferimenti storici e letterari, delle specialità geologiche, della flora, della fauna, dei costumi, dei riti”. Ma ciò non è sufficiente se non è sostenuto da una legge specifica, che “non permette l’ingerenza protettrice del Governo se non su quegl’immobili i cui proprietari han ricevuto l’avvertimento ufficiale del notevole interesse pubblico di essi a causa della loro bellezza naturale e della loro relazione con la storia civile e letteraria”[6]: nel 1922 viene emanata la legge Croce 11 giugno 1922, n. 778 “per la tutela delle bellezze naturali e dei luoghi di particolare interesse storico”, sostituita dalla legge Bottai n. 1497 del 1939.
Mentre vengono istituiti i primi parchi nazionali del Gran Paradiso (1922) e d’Abruzzo (1923), a Firenze nel 1931 si allestisce la “Mostra del giardino italiano”, che rappresenta un o decisivo per la sensibilizzazione verso questo patrimonio[7].
[1] A. Emiliani, I materiali e le istituzioni, cit., p. 125.
[2] R. Balzani, Per le antichità e le belle arti, cit., p. 21.
[3] G. Rosadi, Relazione sul disegno di legge Per le antichità e le belle arti, in R. Balzani, Per le antichità e le belle arti. La legge n. 364 del 20 giugno 1909 e l’Italia giolittiana, cit., p. 492.
[4] Soprattutto i bombardamenti nel Veneto, a Venezia, Ancona, Ravenna,
[4] Soprattutto i bombardamenti nel Veneto, a Venezia, Ancona, Ravenna, Aquileia: cfr. U. Ojetti, I monumenti italiani e la guerra, Alfieri&Lacroix, Milano, 1917.
[5] Comune di Capri, Il paesaggio di Capri e la sua tutela legislativa, Gaspare Casella Editore, Napoli, 1922: Edwin Cerio ricostruisce la vicenda e compila l’elenco dettagliato, corredato da fotografie, delle bellezze naturali dell’isola mentre Luigi Parpagliolo, “alto funzionario dell’Amministrazione delle belle arti e strenuo difensore del paesaggio italiano”, sottolinea l’importanza di stilare un catalogo nazionale delle bellezze naturali, composto dalle schede inviate in migliaia di copie ai “volenterosi amanti del nostro invidiato patrimonio artistico”.
[6] L. Parpagliolo, Prefazione a Il paesaggio di Capri e la sua tutela legislativa, cit., p. 8.
[7] M. A. Giusti, Restauro dei giardini, teorie e storia, Alinea, Firenze, 2004, p. 198; sia permesso rinviare a M.B. Mirri, Profili giuridici di tutela dei giardini, in Giardini, contesto, paesaggio (a cura di L.S. Pelissetti, L. Scazzosi), Leo S. Olschki Editore, Firenze, 2005, p. 211 ss.
Il ministro Bottai e l’ ‘azione per l’arte’
Negli anni Trenta del Novecento, nell’ambito della generale riorganizzazione dello Stato secondo l’ideologia totalitaria fascista (in una ottica di ulteriore accentramento amministrativo e di autosufficienza economica - autarchia - con la campagna della “bonifica integrale” e la “battaglia del grano”), notevole attenzione è dedicata al settore delle belle arti e delle bellezze naturali, soprattutto da parte del ministro (dal 1936 al 1943) dell’educazione nazionale Giuseppe Bottai, intellettuale “fascista critico”[1]. Con un programma di ampio respiro per l’istruzione e per l’arte, promuove la catalogazione e la creazione dell’Istituto per la patologia del libro, riorganizza le Soprintendenze, istituisce il Consiglio nazionale dell’educazione, della scienza e delle arti e la Soprintendenza speciale per l’arte moderna e contemporanea, inaugura l’Istituto centrale per il restauro e l’Ufficio per l’arte contemporanea, promuove e fa rapidamente approvare le due leggi fondamentali e il nuovo ordinamento degli Archivi di Stato (legge 22 dicembre 1939, n. 2006)[2].
Le due leggi Bottai n. 1089 del 1° giugno e n. 1497 del 29 giugno, emanate in meno di un mese, pur essendo state elaborate da Commissioni diverse, risentono dello stesso impianto e clima e tecnicamente sono fatte così bene da resistere oltre sessanta anni: elaborate da insigni giuristi (Santi Romano e Leonardo Severi), giovani studiosi (Giulio Carlo Argan e Cesare Brandi), artisti (Orazio Amato) e architetti (Gustavo Giovannoni) sottopongono a vincolo le cose di interesse storico-artistico e le bellezze naturali, individuali e d’insieme, disciplinano la loro conservazione e circolazione, prevedono sanzioni in caso di violazione delle disposizioni, insieme a quelle del codice penale del 1930. A completamento delle leggi sono importanti anche le previsioni del codice civile del 1942 sulle cose di interesse storico e artistico appartenenti allo Stato e agli enti pubblici e della legge urbanistica n. 1150 del 1942.
Un’altra legge importante voluta da Bottai è quella relativa all’arte negli edifici pubblici (c.d. del 2%), che nasce dall’apionata attività del ministro in favore dell’arte contemporanea e degli artisti (organizzati nel Sindacato Belle Arti e poi nella Corporazione delle Professioni e delle Arti) perché “lo Stato si preoccupa di far sì che l’operare artistico sia serio, concreto, produttivo e vuole che le condizioni di vita degli artisti siano tali da consentire loro l’indispensabile serenità di lavoro”.
Nata da una prassi risalente alla seconda metà degli anni Venti e richiamata da circolari degli anni Trenta del Ministero dei Lavori pubblici, la destinazione del 2% dell’importo delle spese per la costruzione di opere pubbliche (scuole, stazioni, tribunali, ospedali) all’abbellimento delle stesse mediante opere d’arte promossa da Orazio Amato (artista, parlamentare e segretario del Sindacato Belle Arti) si traduce infine nella “legge per l’arte negli edifici pubblici” 11 maggio 1942, n. 839[3].
[1] G. Bottai, Politica fascista delle arti, Angelo Signorelli, Roma, 1940; G. Bottai, Vent’anni e un giorno, Garzanti, Milano, 1949; G. Bottai, La politica delle arti, scritti 1918-1943, a cura di A. Masi, Editalia, Roma, 1992; G.B. Guerri, Giuseppe Bottai, un fascista critico, Feltrinelli, Milano, 1976.
[2] Istituzioni e politiche culturali in Italia negli anni Trenta, a cura di V. Cazzato, introduzione di S. Cassese, IPZS, Roma, 2001.
[3] Sia permesso rinviare a M.B. Mirri, Orazio Amato e la legge 2%,in Orazio Amato, un pittore tra le due guerre, a cura di C. Tempesta, R. Barbiellini Amidei, F. Matitti, De Luca, Roma, 2003, p. 47 ss; cfr. anche F. Ferrigno, La legge del 2% da Bottai a Veltroni in Terzo Occhio, n. 1/2007, p. 6 ss.
L’art. 9 della Costituzione e la Ricostruzione
Dopo la fine della seconda guerra mondiale, il cambiamento politico e istituzionale e l’emanazione della Costituzione, le leggi del 1939 cominciano ad essere applicate effettivamente mentre, a livello internazionale, nella Convenzione dell’Aja del 1954 per la protezione dei beni culturali in caso di conflitto armato, si comincia a parlare di “patrimonio culturale” per indicare il complesso delle cose di interesse storico, artistico, archeologico e le bellezze paesaggistiche.
Il 1° gennaio 1948 entra in vigore la Costituzione della Repubblica italiana, che rappresenta la legge fondamentale dello Stato e - in un sistema che in diritto viene definito di “gerarchia delle fonti” - costituisce la fonte primaria ossia la legge sovraordinata gerarchicamente a tutte le altre. La Costituzione dedica ai problemi della cultura, del paesaggio e del patrimonio storico-artistico l’art. 9, che proclama: “la Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”[1].
Esso deve essere coordinato con l’art. 33 che dispone: “l’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento”, per cui la funzione di promozione della cultura non impone necessariamente una politica culturale dello Stato tale da condizionare la libertà dell’arte, ma al contrario una azione dei pubblici poteri per fornire i presupposti per uno sviluppo libero della cultura, tramite incentivazioni finanziarie o di altra natura[2]. L’art. 9 conferisce così alla Repubblica il carattere di “Stato di cultura”, assegnandole la promozione della cultura, della ricerca e la tutela dei beni che costituiscono il patrimonio culturale e paesaggistico nazionale. Essendo inserito tra i primi articoli della Costituzione, l’art. 9 rientra tra i “Principi fondamentali” e ha un valore programmatico di grande importanza, che vale a “giustificare il richiamo, che ha speciale valore
per l’Italia, ad uno stato di cultura e di tutela dell’eredità di storia e bellezza del nostro Paese”[3].
Inoltre, dall’art. 9 si deduce che i beni storici, artistici e paesistici hanno una valenza unitaria, data dal loro interesse culturale, cioè l’attitudine a soddisfare esigenze di civiltà: si supera la visione statica della tutela del patrimonio culturale, fondata sulla conservazione, in favore di una concezione dinamica, propulsiva della cultura, e dell’accrescimento della personalità dell’individuo. Collegando il primo e il secondo comma dell’art. 9 si richiede non una semplice promozione della cultura (creazione dei presupposti perché un fenomeno si realizzi), ma un’azione diretta per conseguire il risultato dello sviluppo culturale del paese. La Repubblica, in quanto “Stato di cultura”, persegue l’obiettivo di promuovere ed elevare la cultura, la spiritualità e la personalità dei cittadini in armonia con l’art. 3 cost. (principio di uguaglianza). I beni e le cose che compongono il patrimonio culturale devono esprimere l’interesse culturale e devono essere testimonianza della civiltà di un popolo, ma la cultura di un gruppo non coincide solo con il suo patrimonio storico-artistico, bensì riguarda anche la formazione intellettuale dell’individuo, attraverso un processo educativo[4].
L’Italia esce dal periodo bellico sconfitta, prostrata e distrutta: un quinto del patrimonio economico nazionale è perso, i maggiori centri urbani hanno subìto gravissimi danni, le infrastrutture (strade, ponti, ferrovie, porti e aeroporti) sono danneggiate e inservibili, c’è il problema degli sfollati e dei profughi, il patrimonio storico-artistico, nonostante le misure di protezione poste in atto, ha subìto gravi danni e perdite[5]. Il grido di dolore del giovane storico dell’arte Giuliano Briganti: “Cinque anni di guerra hanno ridotto l’Italia un campo di rovine. Né sono finite ancora. Nella riacquistata libertà di parola, gli italiani, premuti dall’urgenza dei provvedimenti di una necessità primaria e improcrastinabile, sembrano aver quasi timore di occuparsi della sorte del patrimonio artistico. La storia si trasforma in altra storia, ma l’arte resta, testimonianza inappellabile. L’arte resta. E questo compito per gli Italiani non deve essere posposto, rinviato a tempi migliori. I monumenti crollano, dalle volte squarciate, dai muri lesionati ogni giorno cade qualche pietra, ogni giorno il restauro si fa più difficile e costoso”[6]. Gli fa eco Roberto Longhi: “Mentre i
monumenti rantolano a capo scoperchiato, l’unico scopo comune è salvare le opere d’arte in pericolo di morte, per quella loro fragilissima condizione storica dell’esemplare unico e, se perduto, irriproducibile. E qui ingrossa la questione dei mezzi, da computarsi fin d’ora a centinaia di milioni. Dopo i primi soccorsi degli Alleati che hanno consentito di provvedere nel Sud ai casi più disperatamente urgenti, pare che, con il ritorno graduale all’amministrazione italiana, si noti un certo ristagno da parte della finanza. C’è una scadenza fatale: un’Italia dove, per criteri d’economia all’osso, si lasciassero consumare affatto le cose d’arte danneggiate dalla guerra, sarebbe in breve un’Italia indicibilmente più povera, materialmente e spiritualmente trascurabile e, quel ch’è peggio senza possibilità di recupero, perché inaridita o di molto ridotta la fonte perenne del turismo”[7].
Nel 1948 l’Italia aderisce al Piano Marshall per la ricostruzione europea, beneficiando così degli aiuti finanziari americani, con cui viene avviata la ripresa economica; nel 1950 viene istituita la Cassa per il Mezzogiorno per finanziare opere pubbliche nelle regioni meridionali più svantaggiate. La ripresa economica e lo sviluppo industriale portano con sé i fenomeni dell’emigrazione dalle campagne, dell’urbanesimo, della penuria di alloggi e dell’espansione della città: l’attività edilizia (guidata dall’Ina-Casa, istituita dalla legge Fanfani del 28 febbraio 1949, n. 43) si concentra soprattutto nelle zone esterne delle città mentre il centro storico, spesso danneggiato dalla guerra, viene trascurato e si degrada. Data la situazione drammatica, non si può applicare la legge urbanistica emanata durante il periodo bellico e si fa ricorso ai piani di ricostruzione (attuati mediante la concessione di finanziamenti) che, mirando a riedificare quello che la guerra ha danneggiato o distrutto, seguono procedure più snelle e veloci, ma spesso arrivano ad eludere il controllo urbanistico. Il ricorso ai piani di ricostruzione (prorogati dal 1945 fino al 1958) dà vita ad una attività edilizia intensissima, al di fuori dei necessari controlli, con gravi conseguenze su tutto il territorio italiano.
La nuova edilizia periferica sconvolge il paesaggio e tende a stringere d’assedio la parte antica della città, dove continuano gli interventi di “bonifica”, attuati mediante gli sventramenti e l’allontanamento dei residenti (si pensi alla demolizione della Spina di Borgo e all’apertura di Via della Conciliazione a
Roma per il Giubileo del 1950). Nel 1955 la protesta contro il modo di condurre la ricostruzione trova un punto di aggregazione nella fondazione della “Associazione Italia Nostra” per la tutela del patrimonio artistico e ambientale e nel 1960 il Convegno di Gubbio sulla “salvaguardia e il risanamento dei centri storico-artistici” dà vita all’ “Associazione nazionale per i centri storicoartistici”. La città antica deve essere considerata come un monumento nella sua globalità (e non un insieme di monumenti isolati): come metodo di intervento si individua il “risanamento conservativo” mediante opere di consolidamento e restauro, col rispetto degli spazi liberi destinati a orti e giardini, e con la necessaria considerazione delle esigenze della popolazione che vi abita e lavora[8].
[1] Sul tema cfr. per tutti F. Merusi, Art. 9, in Commentario alla Costituzione, a cura di G. Branca, Zanichelli, Bologna-Roma, 1975, p. 434 ss.
[2] E. Spagna Musso, Lo Stato di cultura nella costituzione italiana, Morano, Napoli, 1961; M. Ainis, Cultura e politica. Il modello costituzionale, Cedam, Padova, 1991.
[3] Così il Presidente Ruini nella seduta dell’Assemblea costituente del 22 dicembre 1947.
[4] Importante la sentenza della Corte costituzionale, 30 luglio 1992, n. 388, in Giur. cost., 1992, 3109, che ha affermato: “Gli interessi (urbanistici, storici, monumentali, artistici, igienico-sanitari) che si tutelano nei centri storici trovano fondamento nell’art. 9 cost., che impegna la Repubblica ad assicurare, tra l’altro, la tutela del patrimonio culturale nazionale e la tutela dell’ambiente, ad assecondare la formazione culturale dei cittadini e ad arricchire quella esistente, a realizzare il progresso spirituale e ad acuire la sensibilità dei cittadini come persone”.
[5] E. Lavagnino, Cinquanta monumenti italiani danneggiati dalla guerra, con prefazioni di B. Croce, C.R. Morey, R. Bianchi Bandinelli, Roma, 1947; La ricostruzione del patrimonio artistico italiano, La Libreria dello Stato, Roma, 1950.
[6] G. Briganti, articolo apparso su Cosmopolìta, 21 ottobre 1944, in FAI, Pagine scelte da Raffaello ad Antonio Cederna, cit., p. 45 ss.
[7] R. Longhi, articolo apparso su Cosmopolìta, 30 dicembre 1944, ivi, p. 48 ss.
[8] Sia permesso rinviare a M.B. Mirri, Beni culturali e centri storici. Legislazione e problemi, cit., p. 102.
La Commissione schini e la nascita del Ministero
Nella rimeditazione della terminologia usata dalle leggi del 1939 si comincia a fare riferimento al “bene culturale”, usato dalla fine della guerra dalla Commissione interalleata a Berlino nel 1945 e dalla Convenzione Unesco dell’Aja del 1954 sulla protezione, in caso di conflitto armato, di monumenti, musei, collezioni, biblioteche, libri rari e archivi storici meritevoli di tutela. Il termine viene esteso al patrimonio e alle attività culturali dalla Convenzione europea dell’Unesco, adottata a Parigi nel 1954 “per lo studio della lingua, della storia e della civiltà dei Paesi aderenti”.
Il termine però incontra notevoli resistenze in Italia e stenta ad entrare nel linguaggio comune, prima che giuridico, anche dopo l’istituzione della Commissione di indagine, presieduta da sco schini, “per la tutela e valorizzazione del patrimonio storico, artistico, archeologico e del paesaggio”, che si richiama ai valori presenti nella Costituzione e svolge i suoi lavori dal 1964 al 1966[1]. La Commissione ha il compito di indagare “sulle condizioni attuali e sulle esigenze in ordine alla tutela e alla valorizzazione delle cose di interesse storico, archeologico, artistico e del paesaggio” nonché di “formulare proposte concrete per la revisione delle leggi di tutela, delle strutture e degli ordinamenti amministrativi e contabili”: essa elabora una definizione sintetica di bene culturale (come “testimonianza materiale avente valore di civiltà”) e di bene ambientale (che non ha avuto uguale fortuna) e propone l’istituzione di un’amministrazione autonoma, affidata ad una Agenzia con due referenti, il ministro della Pubblica istruzione e un Consiglio nazionale.
Dal lavoro approfondito della Commissione schini emerge un quadro allarmante della situazione italiana a metà degli anni Sessanta, riassunta in 84
dichiarazioni e 9 raccomandazioni, che però non trovano attuazione; vengono istituite altre due Commissioni presiedute da Antonino Papaldo nel 1968 e 1971, che elaborano un disegno di legge di riforma e prevedono l’istituzione di un ministero autonomo che si occupi della “funzione educativa dei beni culturali per lo sviluppo civile della collettività e per la più completa valorizzazione dell’individuo”.
Il lavoro delle Commissioni, benché serio ed impegnato, non dà frutti immediati, ma alimenta la consapevolezza della necessità e dell’urgenza di provvedere alla riforma del settore: alla fine del 1974 il decreto legge 14 dicembre n. 657 (convertito in legge 29 gennaio 1975, n. 5[2]) istituisce il Ministero per i beni culturali e ambientali, voluto e organizzato da Giovanni Spadolini[3], che sceglie come sede il palazzo del Collegio Romano, centro della cultura della controriforma e dei Gesuiti prima e, dopo le espropriazioni del patrimonio ecclesiastico, sede della Biblioteca Nazionale Vittorio Emanuele II.
Dopo aver sottolineato l’inscindibilità tra bene culturale e ambientale (come cornice naturale, territorio in cui i primi si innestano), tra loro intimamente connessi[4], Spadolini precisa che anche fra tutela e valorizzazione esiste un legame strettissimo[5] perché “non si può promuovere se non si conserva quello che sta andando a pezzi in tante parti d’Italia”: la conservazione deve essere attiva, dinamica, creare le premesse per una fruizione più larga dei beni culturali e promuovere le attività che valorizzano i beni.
Nella legge di conversione gli Archivi (da cento anni di competenza del Ministero dell’Interno per ragioni istituzionali di accentramento) sono attratti nell’ambito del nuovo Ministero come “riparazione storica” allo “scippo” del 1874-75, come pure vi rientrano la Discoteca di Stato e la Divisione editoria (dalla Presidenza del Consiglio dei ministri).
Strana nascita di un Ministero istituito in situazione di emergenza con decreto legge (previsto solo per i casi straordinari di necessità e di urgenza) e destinato a
rimanere la Cenerentola dello Stato per lo scarso peso politico e l’esiguità di risorse finanziarie.
[1] Per la salvezza dei beni culturali in Italia, Colombo, Roma, 1967; sull’importanza della Commissione schini v. T. Alibrandi, P. Ferri, I beni culturali e ambientali, cit., p. 10 ss.
[2] Il decreto legge è un “atto avente forza di legge” previsto dall’art. 77 cost., secondo cui il Governo, in casi straordinari di necessità e di urgenza, adotta provvedimenti provvisori con forza di legge, che devono essere portati immediatamente all’esame delle Camere, che li converte in legge entro sessanta giorni, altrimenti perdono efficacia fin dall’inizio.
[3] M. Serio, Istituzioni e politiche per i beni culturali. Materiali per una storia, Bononia University Press, Bologna, 2005, p. 127 ss.; R. Tamiozzo, La legislazione dei beni culturali e ambientali, Giuffrè, Milano, 2004, p. 387 ss.
[4] cfr. di recente S. Settis, Italia S.p.A. L’assalto al patrimonio culturale, Einaudi, Torino, 2002, p. 9 ss.
[5] S. Settis, Italia S.p.A. L’assalto al patrimonio culturale, cit., p. 106 ss.
Il decentramento e le leggi di fine Novecento
Nello stesso tempo un altro elemento di fondamentale importanza per l’evoluzione della materia contribuisce a modificare la situazione: le Regioni, previste dalla Costituzione tra gli enti locali, in precedenza hanno avuto attuazione solo se a statuto speciale (Friuli Venezia Giulia, Sardegna, Sicilia, Trentino-Alto Adige e Valle d’Aosta), mentre le altre a statuto ordinario cominciano a funzionare solo negli anni ’70 e a ricevere le competenze attribuite dall’art. 117 cost., tra cui l’urbanistica, i musei e le biblioteche di enti locali[1]. Inizia così effettivamente il processo di “decentramento”, cioè di aggio di funzioni e competenze dallo Stato agli enti territoriali più vicini ai cittadini.
Anche se non si registrano interventi normativi di rilievo (ad eccezione della legge Pieraccini n. 1062 del 1971 sulla falsificazione di opere d’arte, della legge n. 512 del 1982 sulle agevolazioni fiscali ai beni culturali e della legge Galasso n. 431 del 1985 sulla tutela ambientale), gli anni Settanta e Ottanta sono utili per la elaborazione e sistemazione dei problemi e degli istituti giuridici ad opera della dottrina e soprattutto della giurisprudenza, per esempio con l’emergere del problema delle attività culturali, su cui si è aperto un dibattito con interventi decisivi della Corte costituzionale.
Importanti anche la lenta, ma continua modificazione della sensibilità collettiva nei confronti del patrimonio culturale e del paesaggio e la crescente attenzione ai problemi dell’ecologia e dell’ambiente.
Nell’ultimo decennio del Novecento si assiste ad un fervore normativo che interessa profondamente anche il settore culturale e ambientale: il processo di decentramento è sempre più netto, vengono emanate la legge n. 142 del 1990
sull’ordinamento delle autonomie locali e n. 241 del 1990 sul procedimento amministrativo, mentre la legge n. 394 del 1991 sulle aree naturali protette affida alle Regioni la gestione dei parchi nazionali e locali, vecchi e nuovi, in cui si incontrano e si armonizzano le esigenze culturali, ambientali, economiche, sociali, gli equilibri ecologici e idrogeologici e l’eterna dialettica fra tradizione e sviluppo.
La legislazione dei beni culturali (anche grazie alla diffusione dovuta alla creazione delle Facoltà di beni culturali e all’insegnamento obbligatorio delle materie giuridiche specifiche) conosce una stagione di grande cambiamento e rinnovamento: la legge Veltroni n. 352 del 1997 contiene importanti disposizioni, a cominciare dalla delega contenuta nell’art. 1 al Governo per la raccolta delle leggi in materia in un Testo Unico, come pure la costituzione di una società per azioni (SIBEC) con lo scopo di promuovere investimenti nel settore.
Fa decollare l’esperimento pilota dell’autonomia anche amministrativa della Soprintendenza di Pompei e prevede importanti disposizioni che inaspriscono la tutela penale dei beni culturali nei confronti di chi li depreda ovvero li danneggia o imbratta, in particolare con i manifesti abusivi o le famigerate bombolette spray[2].
Nel 1998 viene emanata la legge n. 88 del 1998 sulla circolazione dei beni culturali, in armonia con le direttive dell’Unione europea, ridisegnando il sistema delle importazioni ed esportazioni comunitarie ed extracomunitarie. Ed infine, nello stesso periodo, le leggi Bassanini attuano l’ulteriore decentramento di competenze dallo Stato agli enti locali territoriali, dalla legge delega[3] n. 59 del 1997 sul riordinamento dell’amministrazione statale ai decreti legislativi n. 112 e 368 del 1998 che hanno precisato l’ambito delle competenze statali e regionali e ridisegnato l’organizzazione del Ministero, che assume la denominazione “per i beni e le attività culturali”.
Il decreto legislativo n. 112 del 1998 riserva allo Stato la funzione di tutela dei beni culturali, specificandone l’ambito, mentre affida alle Regioni la gestione e la valorizzazione, da attuare mediante forme di cooperazione strutturale e funzionale tra Stato ed enti territoriali. Alla fine del 1999 viene emanato il Testo Unico n. 490, che riunisce e coordina tutte le disposizioni legislative in materia di beni culturali e ambientali, apportando solo le modifiche necessarie per il loro coordinamento formale e sostanziale nonché per assicurare il riordino e la semplificazione dei procedimenti, alla luce della legge n. 241 del 1990.
[1] T. Alibrandi, P. Ferri, I beni culturali e ambientali, cit., p. 141 ss.
[2] Sia permesso rinviare a M.B. Mirri, La cultura del bello ~ le ragioni della tutela, Bulzoni, Roma, 2000, p. 81 ss.; attualmente il costo del vandalismo grafico è stato stimato in 60 milioni di euro all’anno: Graffiti, 60 milioni di danni, in Il Sole-24 Ore, 2/9/2007, p. 8.
[3] L’art. 76 cost. prevede che “l’esercizio della funzione legislativa non può essere delegato al Governo se non con determinazione di principi e criteri direttivi e soltanto per tempo limitato e per oggetti definiti”: sulla base di una legge delega del Parlamento, che fissa la materia e i principi e criteri direttivi, il Governo è delegato ad emanare un decreto legislativo e, dopo l’abuso che era stato fatto in precedenza dei decreti legge, in questi anni tale meccanismo è stato scelto per intervenire su materie importanti e complesse.
La riforma costituzionale e il codice dei beni culturali e del paesaggio
Entrato in vigore nel 2000, il Testo Unico ha avuto breve vita, in quanto è intervenuta la riforma del Titolo V della Costituzione con la legge costituzionale n. 3 del 2001, che ha ridisegnato il sistema degli enti territoriali e definito ulteriormente le competenze statali e regionali, assegnando alla legislazione esclusiva dello Stato la tutela dei beni culturali e alla legislazione concorrente delle Regioni la valorizzazione[1], spezzando e separando quel binomio che la tradizione italiana aveva da sempre posto alla base del settore.
Questo mutato quadro normativo ha portato alla emanazione di una nuova legge delega (dall’oggetto molto ampio e aperto) n. 137 del 2002, che ha conferito al Governo il potere di emanare un decreto legislativo per ridefinire globalmente la disciplina legislativa delle materie confluite nel Ministero con il decreto legislativo n. 368 del 1998 (beni culturali e ambientali; cinematografia, teatro, musica, danza e spettacolo dal vivo; proprietà letteraria e diritto d’autore) e adeguarsi alla riforma costituzionale e alle normative internazionali.
È stato così emanato il decreto legislativo n. 42 del 2004 “Codice dei beni culturali e del paesaggio”, aggiornato e modificato nel 2006 dai decreti legislativi correttivi e integrativi n. 156 (in relazione ai beni culturali) e n. 157 (in relazione ai beni paesaggistici), che segnano l’ulteriore tappa del processo di sedimentazione e riassetto normativo del settore culturale[2].
Da questo quadro sintetico dell’evoluzione del sistema giuridico del settore culturale si può seguire il aggio da disposizioni specifiche e particolari a
strumenti normativi sempre più complessi e il cambiamento terminologico dalla nozione casistica, basata sullo specifico interesse, di “cosa di interesse storico o artistico” a quella più moderna e sintetica di “bene culturale” e da “bellezza naturale” (influenzata dall’estetica crociana) al “bene ambientale e paesaggistico”.
Il codice dei beni culturali compie ancora un o in avanti: oggetto della tutela e valorizzazione non è più la singola cosa o bene, ma il “patrimonio culturale”, complesso dei beni culturali e paesaggistici della Nazione (art.1), che contribuiscono a preservare la memoria della comunità nazionale e del suo territorio, costituendo il criterio identificativo della comunità, l’elemento costitutivo e rappresentativo dell’identità nazionale.
E, mentre si profila un nuovo intervento di riforma del codice dei beni culturali e del paesaggio ad opera della Commissione Settis[3], la vicenda della tutela del patrimonio culturale continua.
[1] Sulla valorizzazione v. A. Crosetti – D. Vaiano, Beni culturali e paesaggistici, Giappichelli, Torino, 2005, p. 112 ss.
[2] sia permesso rinviare a M.B. Mirri, Codice dei beni culturali e del paesaggio, 2° ed., cit.
[3] M. Romana, Tutti al lavoro sul Codice, in Il giornale dell’Arte, n. 269/2007, p. 1-6.
Documenti
1
Baldesar Castiglione e Raffaello a Papa Leone X, Roma 1519
Sono molti, Padre beatissimo, che misurando col loro debile giudizio le grandissime cose che delli Romani circa l’arme, e della città di Roma circa ’l mirabile artificio, ricchezze, ornamenti e grandezza delli edificii si scrivono, più presto estimano quelle fabulose che vere. Ma altramente a me sòle avenire et aviene; perché, considerando dalle reliquie che ancor si veggono per le ruine di Roma la divinitate di quelli animi antichi, non estimo for di ragione credere che molte cose di quelle che a noi paiono impossibile, che ad essi erano facilissime. Onde, essendo io stato assai studioso di queste tale antiquitati, et avendo posto non piccola cura in cercarle minutamente et in misurarle con diligenzia, e leggendo di continuo di buoni auctori e conferendo l’opere con le loro scripture, penso aver conseguito qualche notizia di quell’antiqua architectura. Il che in un punto mi dà grandissimo piacere per la cognizione di tanto excelente cosa, e grandissimo dolore vedendo quasi el cadavero di quest’alma nobile cittate, che è stata regina del mondo, così miseramente lacerata. Onde, se ad ognuno è debita la pietade verso li parenti e la patria, mi tengo obligato di exponere tutte le mie piccole forze, acioché più che si può resti viva qualche poco de inmagine e quasi un’ombra di questa, che in vero è patria universale di tutti li cristiani e per un tempo è stata tanta nobile e potente, che già cominciavano gli omini a credere che essa sola sotto il cielo fosse sopra la fortuna e, contra ’l corso naturale, exempta dalla morte e per durare perpetuamente. Onde parve che ’l tempo, come invidioso della gloria delli mortali, non confidatosi pienamente delle sue forze sole, se accordasse con la fortuna e con li profani e scielerati barbari, li quali alla edace lima e velenoso morso di quello aggionsero l’empio furrore del ferro e del fuoco; onde quelle famose opere che oggidì più che mai sarebbon florente e
belle, fuorno dalla scielerata rabbia e crudel impeto di malvagi uomini, anzi fère, arse e distrutte, ma non però tanto che vi restasse quasi la macchina del tutto, ma senza ornamenti, e, per dir così, l’ossa del corpo senza carne.
Ma perché ci doleremo noi de’ Gotti, de’ Vandalli e d’altri tali perfidi inimici del nome latino, se quelli che come padri e tuttori devevano diffendere queste povere reliquie di Roma, essi medesimi hanno atteso con ogni studio lungamente a distrugerle et a spegnerle? Quanti pontifici, Padre santo, quali avevano el medesimo officio che ha Vostra Santità, ma non già el medesimo sapere né ’l medesimo valore e grandezza di animo, quanti, dico, pontifici hanno permesso le ruine e disfacimenti delli templi antichi, delle statue, delli archi e d’altri edificii, gloria delli lor fondatori! Quanti hanno comportato che solamente per pigliare terra pozzolana si siano scavati i fondamenti, onde in poco tempo poi li edificii sono venuti a terra! Quanta calcina si è fatta di statue e d’altri ornamenti antichi! che ardirei dire che tutta questa nova Roma che or si vede, quanto grande ch’ella si sia, quanto bella, quanto ornata di pallazzi, di chiese e de altri edificii, sia fabricata di calcina fatta di marmi antichi.
Né senza molta comione posso io ricordarmi che, poi ch’io sono in Roma, che ancora non sono dodici anni, son state ruinate molte cose belle, come la meta ch’era nella via Alexandrina, l’arco che era alla entrata delle therme Diocleziane et el tempio di Cerere nella via Sacra, una parte del Foro transitorio, che pochi di sono fu arsa e distructa e de li marmi fattone calcina, ruinata la magior parte della basilica del Foro... oltra di questo tante colonne rotte e fesse pel mezzo, tanti architravi, tanti belli fregi spezzati, che è stato pur una infamia de questi tempi l’averlo sostenuto e che si potria dire veramente ch’Annibale non che altri fariano pio. Non debbe adunche, Padre santo, essere tra gli ultimi pensieri di Vostra Santità lo aver cura che quello poco che resta di questa antica matre della gloria e nome italiano, per testimonio di quelli animi divini che pur talor con la memoria loro excitano e destano alle virtù li spiriti che oggidì sono tra noi, non sia extirpato in tutto e guasto dalli maligni et ignoranti, che purtroppo si sono insino a qui facte ingiurie a quelli animi, che col sangue loro parturirono tanta gloria al mondo et a questa patria et a noi; ma più presto cerchi Vostra Santità, lassando vivo el paragono de li antichi, aguagliarli e superarli, come ben fa, con magni edificii, col nutrire e favorire le virtuti e risvegliare gl’ingegni, dar premio
alle virtuose fatiche, spargendo el santissimo seme della pace tra li prìncipi cristiani. Perché come dalla calamitate della guerra nascie la distruzione e mina di tutte le discipline et arti, così dalla pace e concordia nascie la felicitate a’ popoli et il laudabile ocio per il quale ad esse si può dar opera et aggionger al colmo della excellenzia, come pur per el divino consiglio et auctorità di Vostra Santità sperano tutti che s’abbia a pervenire al secol nostro; e questo è lo esser veramente pastore clementissimo, anzi padre optimo di tutto el mondo. [...]
2
All’illmi Signori Di Balia
7 Luglio 1597.
Havendo S. Altezza Nostro Signore bisogno di notabili quantità di pietre miste, come Agate, Diaspri, Carcedoni et altre simili dure per far una cappella che vuol fabricare, et sentendo che in questo Stato se ne trovano più cave, vuole e così comanda che per publico bando si proibisca a ciascuno l’estrarre fuori delli Stati suoi senza licenzia della medesima in scritto, sotto pena di scudi 25 per carica e della perdita delle bestie che conducessero o trainassero dette pietre. Aggiungendo ancora che a chi troverà nuove cave di pietre di qualità come sopra, denunziandole, se riusciranno a proposito si darà da S.A. buona ricognizione e mancia secondo la qualità di quelle ritrovarà. Così dunque le SS. VV. ne faranno distendere e publicare bando nella Città e per lo Stato. Dio le prosperi.
Alli piaceri delle SS. VV. Illme.
Tommaso Malaspina Governatore
3
Deliberazione di Ferdinando I , Firenze 1602
Per il Concetto che si ha delle Pitture Buone che non vadino fuori a effetto che la Città non ne perda l’ornamento et li gentil’omini et l’universale ne conservino la reputazione, si considera che il trattare solo delle Buone, o di quelle de’ Pittori defunti in generale per la varietà de’ Pareri, per le Inventioni et Capricci de’ gavillanti et perché molto più per la poca Cognitione del Bene può essere ne’ Ministri di Dogana, in quelli delle Porte della Città et ne eggieri, potrebbe seguirne diverse confusioni e disturbi. Però si rappresenta a proposito farne prohibitione generale generalissima che per qualsivoglia etc. non se ne possa cavare alcuna della Città, né dello Stato respettivamente, sotto pena etc. senza licenza del Luog.te dell’Accademia del Disegno, il quale ne harà facultà con la regola et advertenza conveniente.
Questa prohibitione piacendo, pare che basti farla per via della Dogana, comandando espressamente, che senza la licenza non se ne sgabelli di alcuna sorte, ne si permetta in alcun modo che se ne cavi di Firenze né dello Stato, con ordinare alle Porte et alli eggieri che senza licenza come sopra non ne lascino are nessuna sotto pena etc. non lasciando però li modi soliti della Dogana.
Doverrà farsi l’Ord.ne al Luog.te dell’Accademia che la licenza si faccia senza spesa, sottoscritta da lui et da uno de’ principali della professione a sua eletione et sigillata del segno dell’Accademia con il quale si sigilli ancora la pittura licentiata etc.
Concedasi generalmente per tutte le pitture di mano de’ pittori che di presente vivono nello Stato di S.A. indifferentemente.
Et ancora si possa concedere per Pitture di Pittori defunti ma con questa limitatione cioè, che per le opere di mano dell’infrascritti nominati non se ne faccia licentia in modo alcuno.
Dichiarando che in caso di morte di alcuno de’ pittori che di presente vivono in questi Stati, si conceda facultà alla medesima Accademia di potere secondo li suoi Ord.ni dichiarare, se quel tale doverrà o nò essere esso et descritto nel numero de famosi di già ati et che appresso saranno nominati.
Dovendosi registrare nei libri dell’Accademia insieme con l’ord.ne che ne sarà dato.
1. Michelangelo Buonarroti
2. Raffaello da Urbino
3. Andrea del Sarto
4. Mecherino
5. Il Rosso fiorentino
6. Leonardo da Vinci
7. Il Francia bigio
8. Perino del Vaga
9. Jacopo da Puntormo
10. Titiano
11. sco Salviati
12. Agnolo Bronzino
13. Daniello da Volterra
14. Fra. Bart.o di S. Marco
15. Fra. Bast.o del Piombo
16. Filippo di fra Filippo
17. Antonio Correggio
18. Il Parmigianino
Da levare et aggiugnere a giuditio delli intendenti et volontà etc. etc. La prohibitione non abbracci li ritratti ne li quadri di paesi ne quadretti da mettere da capo al letto tanto che si fanno in Firenze quanto che fuori etc. non conceda manco il Luogotenente licenzia che possino portarsi pur in villa. Non s’impedischino l’opere dei Pittori viventi come sopra.
4
Antoine Chrysostome Quatremère de Quincy, 1796
Mille cause riunite hanno concorso a fare dell’Italia una specie di museo generale, un deposito completo di tutti gli oggetti che servono allo studio delle arti. Il vero museo di Roma si compone, è vero, di statue, di colossi, di templi, di obelischi, di colonne trionfali, di terme, di circhi, di anfiteatri, di archi di trionfo, di stucchi, di tombe, di affreschi, di bassorilievi, di iscrizioni, di frammenti ornamentali, di materiali di costruzione, di arredi, di utensili.. ma si compone altresì di luoghi, di paesaggi, di montagne, di strade, di vie antiche, di posizioni rispettive delle città dissepolte, di rapporti geografici, di reciproche relazioni tra tutti i reperti, di memorie, di tradizioni locali, di usanze ancora in vita, di paragoni e raffronti che non possono farsi che sul posto
5
Editto
Giuseppe del Titolo di S. Cecilia Prete Cardinal Doria Pamphilj della S. R. C. Pro-Camerlengo.
Mentre la Santità di Nostro Signore Papa Pio VII. estende le sue Paterne cure a tutti gli oggetti delle Arti produttrici, e di manifattura, per aumentare con i loro prodotti la opulenza, e la prosperità dei suoi amatissimi Sudditi, non perde di vista un altro ramo d’industria, che quasi proprio, e particolare di questa Popolazione, e di questo suolo non che concorre, e gareggia con quelli, ma ne supera l’attività e la influenza non meno nel promuovere i vantaggi, che nel l’accrescere il decoro, e la celebrità di questa Metropoli, ed anche dello Stato. Riconoscendo la Santità Sua nelle produzioni delle Belle Arti, che nate nella Grecia hanno da tanti secoli trasportato, e fissato il loro proprio, e quasi unico domicilio in Roma, uno dei pregi più singolari, che distingue da tutte le altre questa Città, ed insieme una delle più utili, e più interessanti occupazioni dei suoi Sudditi, e di tutti quelli, che vi concorrono, ha rivolti efficacemente i suoi pensieri a procurare, che i Monumenti, e le belle opere dell’Antichità, che servono di alimento alle Arti stesse, e di esemplare, di guida, e di eccitamento a quelli, che le professano, si conservino quasi i veri Prototipi, ed esemplari del Bello, religiosamente per ornamento, e per istruzione publica, e si aumentino ancora con il discuoprimento di altre rarità, che in qualche parte compensino la perdita di quelle, che le vicende dei tempi ci hanno involate. A questo oggetto della conservazione dei Monumenti, che esistono, e del discuoprimento dei nuovi; ed all’altro egualmente d’incoraggire, ed animare le Arti del Disegno, e quei, che si dedicano alle medesime, ha stabiliti i più energici, ed opportuni provedimenti con ispecial Chirografo segnato il primo Ottobre, a noi diretto per l’esecuzione, del tenore seguente, cioè:
Rmo Card. Giuseppe Doria Pamphilj Pro-Camerlengo.
La conservazione dei Monumenti, e delle produzioni delle Belle Arti, che ad onta dell’edacità del tempo sono a noi pervenute, è stata sempre considerata dai Nostri Predecessori per uno degli oggetti i più interessanti, ed i più meritevoli delle loro impegnate providenze. Questi preziosi avanzi della culta Antichità forniscono alla Città di Roma un ornamento, che la distingue tra tutte le altre più insigni Città dell’Europa; somministrano i Soggetti li più importanti alle meditazioni degli Eruditi, ed i modelli, e gli esemplari i più pregiati agli Artisti, per sollevare li loro ingegni alle idee del bello, e del sublime; chiamano a questa Città il concorso dei Forastieri, attratti dal piacere di osservare queste singolari Rarità; alimentano una grande quantità d’Individui impiegati nell’esercizio delle Belle Arti; e finalmente nelle nuove produzioni, che sortono dalle loro mani, animano un ramo di commercio, e d’industria più d’ogni altro utile al Pubblico, ed allo Stato, perchè interamente attivo, e di semplice produzione, come quello che tutto è dovuto alla mano, ed all’ingegno dell’Uomo. Nel vortice delle ate vicende, immensi sono stati li danni, che questa Nostra dilettissima Città ha sofferti nella perdita dei più rari monumenti, e delle più illustri Opere dell’Antichità. Lungi però dall’illanguidirsi per questo, si è anzi maggiormente impegnata la Paterna Nostra sollecitudine a procurare tutti i mezzi, sia per impedire che alle perdite sofferte nuove se ne aggiungano, sia per riparare con. il discuoprimento di nuovi Monumenti alla mancanza di quelli, che sonosi perduti. Sono state queste le riflessioni, che dappresso all’illustre esempio, che la S.M. di Leone X, diede nella persona del gran Raffaello d’Urbino, ci hanno recentemente determinati ad eleggere l’incomparabile Scultore Canova, emolo dei Fidia, e dei Prassiteli, come quello lo fù degli Apelli, e dei Zeusi, in Ispettore generale di tutte le Belle Arti, e di tutto ciò, che alle medesime appartiene; ed a Lui durante la sua vita abbiamo conferite, colla sola dipendenza da Voi, le più estese, e superiori facoltà per invigilare sopra tutto quello, che può influire al mantenimento, ed alla felice propagazione delle Arti del Disegno, e di quelli, che le professano. Queste stesse riflessioni, facendoci sempre più conoscere di quanto interesse sia per i vantaggi dei Nostri amatissimi Sudditi, per il pubblico bene, unico scopo delle incessanti Nostre sollecitudini, e per il decoro, e per la celebrità di questa Nostra Metropoli il procurare tutti i mezzi onde conservare, ed accrescere a comune istruzione, i Monumenti dell’Antichità, ed i bei modelli delle Arti, ed animare insieme i benemeriti cultori delle medesime, hanno richiamata la Nostra attenzione a rinnovare le antiche, ed aggiungere nuove
energiche, ed efficaci previdenze dirette a questi interessantissimi oggetti. Inerendo quindi alle Costituzioni dei Nostri Predecessori, e segnatamente all’Editto del Cardinal Silvo Valenti, Vostro Predecessore nella dignità di Camerlengo dei 5 Gennajo 1750, pubblicato di ordine della Santa Memoria di Benedetto XIV, di Nostro Moto proprio, certa scienza, e pienezza della Nostra Sovrana, ed Apostolica Potestà, ordiniamo, e prescriviamo ciò, che siegue.
1. In primo luogo vogliamo, che sia affatto proibita da Roma, e dallo Stato l’estrazione di qualunque Statua, Bassorilievo, o altro simile lavoro rappresentante figure Umane, o di Animali, in Marmo, in Avorio, ed in qualunque altra materia, ed altresì di Pitture antiche, Greche, e Romane, o segate, o levate dai muri, Mosaici, Vasi detti Etruschi, Vetri, ed altre opere colorite, ed anche di qualunque opera d’intaglio, Vasi antichi, Gemme e Pietre incise, Camei, Medaglie, Piombi, Bronzi, e generalmente di tutti quelli lavori, o di grande, o di piccolo Modello, che sono conosciuti sotto il nome di antichità, pubbliche, o private, Sacre, o Profane, niuna eccettuata, ancorché si trattasse di semplici frammenti, da’ quali ancora grandi lumi ricevono le Arti, e gli Artisti; ed eziandio di qualunque antico Monumento, cioè di Lapidi, o Iscrizioni, Cippi, Urne, Candelabri, Lampadi, Sarcofagi, Olle Cinerarie, ed altre cose antiche di simil genere, e di qualunque materia siano composte, comprese anche le semplici Figuline. Questa proibizione vogliamo, che si estenda ancora alle opere asportabili di Architettura, cioè Colonne, Capitelli, Basi, Architravi, Fregi, Cornici, intagliate, ed altri ornamenti qualsivogliano di antiche Fabriche, ed anche alle Pietre dure, Plasme, Lapislazuli, Verdi, Rossi, Gialli antichi, Alabastri Orientali, ancorché grezzi, e non lavorati, Porfidi, Graniti, Basalti, Serpentini, ed altri simili, fuori del semplice Marmo bianco.
2. La stessa generale proibizione di estrarre, vogliamo che si estenda anche alle Pitture in Tavola, o in Tela, le quali sieno opere di Autori Classici, che hanno fiorito dopo il risorgimento delle Arti, o interessino le Arti stesse, le Scuole, la erudizione, o in fine per altre ragioni siansi rese celebri; incaricando sotto la loro più stretta responsabilità le persone destinate a presiedere alle Belle Arti, a non permettere, che si confondano queste opere, di cui non sarà mai permessa l’estrazione, con le altre, che con le cautele, e licenze da riferirsi in appresso, potranno estrarsi.
3. Ad oggetto poi, che questa proibizione assoluta di estrazione riguardo agli oggetti descritti abbia la sua piena, ed inviolabile esecuzione in ogni tempo, e restino radicalmente estirpati gli abusi, che nei tempi ati hanno deluse le più accurate previdenze dei Nostri Antecessori; proibiamo a chiunque, ed anche a Voi, di concedere in avvenire qualunque licenza di estrarre gli oggetti suddetti; assoggettiamo a questa proibizione le persone tutte, di qualunque privilegio fornite, e di qualunque Dignità decorate, compresi anche li Rmi Cardinali benché Titolari, Protettori di Chiese, ed altri privilegiatissimi, ancorché richiedessero per essere compresi specifica, ed individuale menzione, ed ancorché fossero rivestiti di qualsivoglia carattere, quanto più si possa concepire eminente; vogliamo che anche i Possessori Esteri degli enunciati oggetti esistenti in Roma, sieno alla stessa proibizione sottoposti; come ancora, che la medesima comprenda per tutti gli effetti anche li Forastieri, che non abbiano fissato domicilio alcuno in Roma.
4. Quelli poi, che estrarranno da Roma, o dallo Stato, o per la via di Mare, o per quella di Terra gli oggetti anzidetti, come ancora quelli, che scientemente gli avranno a loro venduti, ed i Sensali, e complici della vendita, oltre la perdita degli oggetti stessi, saranno ciascuno singolarmente soggetti alla multa pecuniaria di Cinquecento Ducati d’Oro di Camera, e cumulativamente ad altre Pene afflittive del corpo a Vostro arbitrio, da estendersi fino alla Galera per cinque Anni, secondo la qualità delle persone, la importanza dell’oggetto, e la malizia, che avrà accompagnata la fraudolenta estrazione. Anche quelli, che avranno prestato mano alla estrazione, cioè i Facchini, Falegnami, ed altri Artefici, da cui siansi scientemente formate le Casse, Imperiali, ed ogni simile continente, atto a rinchiudere il Contrabando, o che avranno fatto l’Incassatura, o l’Imballaggio, i Carrettieri, Mulattieri, Barcaroli, ed altri Condottieri, che avranno dato mano al trasporto, si considereranno tutti per complici dell’estrazione; bastando in loro ad indurre la mala fede l’atto stesso della estrazione vietata, e la mancanza della non mai concedibile licenza e come tali, oltre alla perdita dei respettivi Ordegni Animali, ed Istromenti, Carri, Barche inservienti al trasporto, ed alla estrazione, incorreranno anche la pena di Ducati dieci in quanto agli Artieri, e Facchini; e di Ducati cento rispetto ai Condottieri, oltre le pene Corporali, che riserviamo al Vostro arbitrio.
5. Sarà però permessa la Vendita, ed il commercio di tutti gli accennati Monumenti, ed oggetti di Arti liberamente, se seguirà dentro Roma, e con la Vostra licenza nel caso di trasportarli ad altro Luogo dello Stato, la quale licenza concederete premessa sempre la visita dell’Ispettore delle Belle Arti, e del Commissario delle Antichità, e in luogo di quest’ultimo dei suoi Assessori, e con obligare l’Asportante a dare idonea Cauzione di riportare dentro un termine, che gli farete prescrivere, il documento in forma provante, di avere recato, e collocato l’oggetto asportato nel luogo della sua destinazione dentro lo Stato; e mancando, sarà tenuto non solo alla Convenzionale, ma ben anche ad altre pene corporali a Vostro arbitrio.
6. Provveduto così alla conservazione delle Opere, che devono rimanere perennemente ad ornamento insieme della Città, e per servire allo Studio, ed alla Istruzione degli Artisti, e degli Eruditi, per animare maggiormente le Arti, ed i loro Cultori, vogliamo, che tutte le Produzioni di Autori viventi, sia in Scultura sia in Pittura, o in altri oggetti di Belle Arti, possino vendersi, ed estrarsi anche fuori di Stato, e che ugualmente estrarre si possano le pitture di Autori morti, purché non siano del pregio, e della Classe descritta di sopra, premessa però sempre la licenza da darsi in iscritto da Voi, e dai Vostri Successori, alla quale dovrà immancabilmente precedere la visita, e la relazione dell’Ispettore, e del Commissario sudetto, e di uno de’ suoi Assessori, il tutto da darsi gratis, e senza alcun pagamento. E ad effetto che i sudetti Assessori, sempre con la totale dipendenza, e subordinazione all’Ispettore, e Commissario delle Antichità, esercitino il loro Ufficio con maggior puntualità, ed esattezza, abbiamo ordinato, che sia dato loro un Onorario fisso di Scudi Venti per Mese; proibendo però ad essi di ricevere qualunque cosa, anche a titolo di ricognizione, e di gratificazione volontaria; ed abolendo qualunque esazione si fe da loro a titolo di Stima, di Regalia, di Propina, o per qualunque altro motivo. Li avvertirete poi, che qualunque negligenza nell’esercizio del loro importante Officio, sarà irremissibilmente punita con la perdita dell’impiego; e qualunque contravenzione sarà oltre questa castigata ancora con pene corporali anche gravi, e gravissime a Vostro arbitrio; e ciò senza togliere le pene, che potessero meritare per loro stessi i delitti, i quali venissero a cumularsi, e congiungersi con la contravenzione, e la delinquenza in Officio.
7. Collimando sempre allo stesso oggetto della conservazione delle preziose memorie dell’Antichità, proibiamo a chiunque di mutilare, spezzare, o in altra guisa alterare, e guastare le Statue, Bassirilievi, Cippi, Lapidi, o altri antichi Monumenti, e molto più lo squagliare li Metalli antichi figurati, o anche di semplice ornato, le Medaglie di ogni sorte, le Iscrizioni in Metalli, e qualunque altra cosa di simil genere, ancorché tali Monumenti non fossero che frammenti dando a Voi facoltà di punire li Contraventori, o con pene pecuniarie, o anche con pene afflittive del Corpo, da estendersi fino all’Opera per un Anno, secondo il Vostro prudente arbitrio. Sarà poi cura speciale dell’Ispettore delle belle Arti, e del Commissario l’invigilare acciò non seguino tali abusi; acquistando anche quando occorra gli oggetti per i publici Musei: e nel solo caso, in cui eglino crederanno, che questi non siano di alcun momento, e che si possino senza danno convertire in altri usi, loro unitamente, e non divisamente sarà permesso di dare le opportune licenze per isquagliarli, o adoperarli in altra guisa.
8. Rinnovando la Costituzione della San. Mem. di Pio II. Cum Almam Nostram Urbem del 1462, proibiamo sotto le stesse pene a chiunque di demolire o in tutto, o in parte, qualunque avanzo di antichi Edificj o dentro, o fuori di Roma, ancorché esistenti nei Predj o Urbani, o Rustici, di privata sua, o altrui proprietà; riservando a Voi per via di visita dell’Ispettore, e del Commissario la facoltà di accordare la licenza per ruinare quelli Ruderi, la conservazione delli quali si conoscesse non essere di alcuna importanza né per le Arti, né per la Erudizione. Inculcherete poi seriamente in Nostro nome tanto ai Conservatori del Nostro Popolo Romano, quanto all’Ispettore, e Commissario sudetto delle Antichità d’invigilare tanto per la osservanza di questa Nostra prescrizione, quanto perchè siano le antiche Fabriche ristaurate, ripulite nelle occorrenze, e conservate colla maggiore esattezza.
9. Richiamando del pari al suo pieno vigore l’altra Costituzione della S.M. di Sisto IV. Nostro Predecessore, che comincia Quam provida, dell’Anno 1474, sotto le stesse pene nella medesima contenute, e sotto altre o Pecuniarie, o Corporali a Vostro arbitrio, proibiamo di togliere dalle Chiese pubbliche, e Fabriche annesse, compresi anche i semplici Oratorj, Marmi antichi scolpiti, o
lisci di qualunque sorte, Iscrizioni, Mosaici, Urne, Terre cotte, ed altri ornamenti, o Monumenti di qualunque specie, esposti alla publica vista, o ascosi, e sepolti; sottoponendo alle stesse pene i Venditori, i Compratori, ed i Cooperatori. Ed acciò abbia questa proibizione il suo pieno effetto, togliamo ai Rettori, o Amministratori di dette Chiese, di qualunque grado, e dignità, e di qualunque Privilegio muniti, compresi anche i Rmi Cardinali Titolari, e Protettori, e i Patroni o Laici, o Ecclesiastici, le Congregazioni de’ Vescovi, e Regolari, del Concilio, della Disciplina Regolare, ed altre, e lo stesso nostro Rmo Card. Vicario, la facoltà di accordare sotto qualunque pretesto alcuna licenza di levare dal loro luogo, e molto più di distrarre i detti ornamenti delle Chiese, e Fabriche annesse, la quale facoltà riserviamo a Voi solo; previo però sempre l’esame, e la relazione dell’Ispettore delle Belle Arti, e del Commissario delle Antichità.
10. La stessa proibizione vogliamo, che abbia luogo per i Quadri delle Chiese, i quali non solo non potranno togliersi dal luogo in cui sono collocati, o alienarsi; ma ne anche farsi ristaurare o sul luogo, o fuori, e neppure levarsi, per copiarli senza la intelligenza, e consenso dell’Ispettore delle Belle Arti, e del Commissario delle Antichità, che ne dovranno a Voi fare la relazione.
11. Acciò poi le Nostre previdenze non restino deluse, o defraudate, ordiniamo, che tutti i Privati, che hanno Gallerie di Statue, e di Pitture, Musei di Antichità Sacre, o Profane, o semplici raccolte dell’uno. e dell’altro genere, ed anche quelli, che senza avere o Gallerie, o Musei, o Raccolte, hanno attualmente presso di loro uno, o più oggetti antichi, o in altro modo pregievoli di Arte, particolarmente in genere di Scultura, o di Pittura in Roma, e in tutto lo Stato, debbano dare un’esatta assegna, distinguendo ciascun pezzo, dentro il termine di un Mese in Roma negli Atti di uno de’ Segretarj della Nostra Camera, che Voi destinerete, e nello Stato presso il Cancelliere della Comunità dentro il termine di due Mesi da computarsi dalla data dell’Editto, che Voi publicherete. In seguito si farà ogni anno, e anche più sovente, credendolo Voi opportuno, in Roma la visita dall’Ispettore delle Belle Arti, e dal Commissario delle Antichità, ovvero dagli Assessori, previa però sempre la intelligenza dell’Ispettore medesimo; e nello Stato, dalle persone, che da Voi si destineranno per riconoscere se si conservano gli oggetti assegnati presso i Possessori; e respettivamente nel caso, che ne abbiano disposto, per sapere quale disposizione abbiano data ai
medesimi. Chiunque o non darà nel termine prefìsso l’assegna, o la darà mancante, perderà gli oggetti non assegnati, se saranno di libera sua proprietà, o ne pagherà il loro valore se saranno fideicommissarj, e gli oggetti in questo caso rimarranno sempre nella stessa maniera vincolati. Chi poi nelle visite ricà di dare preciso sfogo alle disposizioni prese degli oggetti mancanti, o dandolo non si verificherà, ovvero lo darà vago, e tale, che non ammetta verificazione, si considererà per Contraventore alle Leggi della proibita estrazione, e come tale sarà punito.
12. Niuno, che accomoderà Strade publiche, o vicinanze sia in Città, sia in Campagna, ardirà sotto le pene comminate ai Devastatori dei publici Monumenti, di demolire gli Edifìzj antichi vicini per toglierne i Materiali: e siccome avviene, che lavorando nelle Strade per allargarle, o mutar loro direzione, spesso gli Operaj trovano Sepolcri, ed antiche Fabriche, che devastano, oppure oggetti di Belle Arti, che distruggono, o si appropriano, o alienano a loro vantaggio contro ogni ragione, essendo queste cose riservate al Principe; perciò vogliamo, che chiunque caderà in questi delitti, sia punito con le stesse pene comminate contro i Devastatori dei publici Monumenti; e le Antichità ricuperate dalle loro mani, o da chi con qualunque titolo le riterrà, vogliamo che siano applicate ai publici Musei.
13. Chiunque, sia Padrone, sia Lavorante, che nel cavare i fondamenti delle Case, o fare scassati, o altri lavori nelli Terreni troverà cose antiche asportabili, sarà tenuto darne subito la denuncia in Roma presso il Segretario di Camera, che sarà da Voi deputato; e nelle Provincie negli Atti della Cancelleria Locale; e non dandola dentro dieci giorni dalla seguita ripetizione, sarà punito con la perdita della roba trovata, e con altre pene a Vostro arbitrio, da aumentarsi maggiormente quando all’omessa denuncia si unisse la fraudolenta alienazione. Sarà poi in libertà Vostra, e dell’Ispettore delle Belle Arti, e del Commissario delle Antichità di fare per i publici Musei acquisto dell’oggetto denunciato, a prezzi ragionevoli; per la qual causa dovrà dopo la denuncia are il termine di un Mese, prima che il possessore possa disporne. La stessa denuncia dovrà darsi, se si troveranno, cavando come sopra, avanzi di Case antiche, o altre Fabriche Romane, ancorché non vi si trovino oggetti di Antichità.
14. Niuno potrà neppure nei suoi privati fondi fare Scavi per ritrovare Antichità, e Tesori nascosti, senza Vostra particolar licenza, in cui si preserveranno sempre i soliti diritti Fiscali sulla porzione degli oggetti ritrovati; ottenuta la licenza, si dovrà avvertire dallo Scavatore, e dal Deputato assistente, l’Ispettore delle Belle Arti, ed il Commissario delle Antichità del giorno preciso, in cui si comincia lo Scavo. Sarà poi in loro libertà o per se medesimo, o per mezzo dell’Assessore della Scultura, o trattandosi di Scavi lontani da Roma, di altre Persone, che da Voi saranno destinate, di assistere allo Scavo medesimo, quando a Voi parerà: su di che v’incarichiamo di usare la maggiore vigilanza. Si dovrà dare dallo Scavatore una esatta denuncia degli oggetti ritrovati, presso il Segretario di Camera da Voi destinato in Roma, e nelle Provincie presso il Cancelliere della Comunità; e trovandosi quella mancante, sarà l’uno, e l’altro punito a misura della commessa infedeltà. Chiunque intraprenderà Scavi senza la Vostra licenza, o non eseguirà la succennata prescrizione, oltre la perdita della roba in caso, che l‘abbia trovata, caderà nella pena di Cinquecento Ducati d‘oro, ancorchè nulla avesse rinvenuto.
15. Vogliamo, che per la esecuzione di queste ordinazioni, e di altre, che sopra questa materia sono state promulgate dai Nostri Predecessori, 1e quali intendiamo, che seguitino ad avere il loro vigore in tutte le parti, nelle quali non si oppongono al presente Nostro Chirografo, Voi, ed i Vostri Successori abbiate una piena, e privativa giurisdizione esclusivamente da qualunque altro Tribunale ancorchè Camerale; con il che per altro non intendiamo d’impedire, anzi vogliamo animare i Capi di qualunque Tribunale, ed azienda, ed i loro Ministri, ed Esecutori, a cooperare, ed a dare ogni ajuto per lo scuoprimento ed arresto dei Contrabandi, e per l’apprensione dei Contravventori; tutto riferendo in appresso al Vostro Tribunale. Ed acciò che in tutto quello, che riguarda le Belle Arti si usi la massima vigilanza, vogliamo che Voi, in figura di supremo, ed indipendente Magistrato, abbiate una assoluta giurisdizione, vigilanza, e presidenza sopra le Antichità Sacre o Profane, sopra le Belle Arti, e quei, che le professano, sopra gli oggetti delle medesime, non solo in Roma, ma anche nello Stato Ecclesiastico, e sopra le Chiese, Accademie non addette a Nazioni estere, ed altre Società relative alle Arti medesime, niente affatto eccettuato, e con piena indipendenza da qualunque persona ornata di qualunque Dignità anche Cardinalizia, e fornita di qualunque giurisdizione, e privilegio, cosicchè neppure si eccettuino i Rmi
Cardinali, Vescovi, Abbati, Titolari, e Protettori delle Chiese; con darvi anche facolta di rinnovare Editti, di promulgarne dei nuovi, e di prendere tutte quelle previdenze, che di tempo in tempo crederete opportune, perchè le Belle Arti prosperino maggiormente, e gli Amatori siano più animati a coltivarle.
16. Comandiamo che contro quelli, che contraverranno alle presenti, o ad altre antiche prescrizioni, si possa da Voi per mezzo dei vostri Ministri procedere sommariamente, e con le facoltà Economiche, ed anche per inquisizione, e per Officio, ancorché gli oggetti, su i quali cade la Inquisizione, più non esistessero; nel qual caso vogliamo che oltre le pene comminate nei rispettivi casi, se ne debba dai Contraventori pagare il prezzo alla stima, anche di credulità, e di affezione, che ne farà l’Ispettore delle Belle Arti, ed il Commissario delle Antichità: con accordarvi la facoltà di procedere alla condanna con il detto anche di un sol Testimonio, unito a quello del Denunciante, o ad altri amminicoli; tolto di mezzo ogni ricorso, inibizione, ed appellazione, che non fosse stragiudizialmente segnata di Nostro propria mano.
17. Mentre poi Noi raccomandiamo con il maggior fervore del Nostro spirito alla Vostra vigilanza l’adempimento di queste Nostre disposizioni, non lasciamo di occuparci seriamente, per quanto le circostanze dei tempi, e le forze del Nostro Erario lo permettono, a rinvenire tutti i mezzi onde riparare coll’acquisto di nuovi oggetti preziosi, alle perdite sofferte nei publici Musei, ai quali perciò applichiamo per la porzione spettante al nostro Erario, tutti i Monumenti, che si devolveranno al medesimo, e tutte le pene, eccettuata la porzione dovuta secondo le vigenti Leggi al Denunciante, ed agli Esecutori. Nello stesso tempo, e per la stessa causa proporzionando l’importanza dell’oggetto alle scarse forze del Nostro Erario, abbiamo destinata la somma annua di Piastre diecimila per l’acquisto delle cose interessanti in aumento dei Nostri Musei; sicuri che la spesa diretta al fine di promuovere le Belle Arti, è largamente compensata dagl’Immensi vantaggi, che ne ritraggono i Sudditi, e lo Stato la di cui causa non può essere da quella dell’Erario disgiunta; ed animati ancora dalla giusta considerazione di aprire un esito ai Possessori, ed ai Raccoglitori di cose antiche, delle quali la Estrazione è affatto proibita. Maggiore poi è anche il Nostro impegno, d’incoraggire quei che professano le Belle Arti con premj, e con onori proporzionati al loro merito, e di agevolare loro tutte le strade per giungere alla
perfezione nell’esercizio della loro nobile professione, la quale nell’unire l’utile al dilettevole, forma l’ornamento della Nostra Città, l’ammirazione di quei, che vi concorrono, ed il vantaggio di moltissimi Nostri Sudditi, che vi si occupano. Sarà dunque Vostra cura, che questa Pagina della Nostra volontà abbia il suo pieno effetto.
Volendo, e decretando, che al presente Nostro Chirogafo, benché non esibito, ne registrato in Camera, e ne’ suoi Libri, non possa mai darsi, né opporsi di surrezione o orrezione, né di alcun altro vizio, o difetto della Nostra volontà, ed intenzione, né che mai sotto tali, o altri pretesti, quantunque validi, e validissimi, e giuridici anche di Jus quesito, o pregiudizio del terzo, possa essere impugnata, revocata, o moderata, ridotta ad viam juris, e concedersi contro di essa l’Aperitione oris o altro qualunque rimedio; e che così, e non altrimenti debba sempre, ed in perpetuo giudicarsi, definirsi, ed interpretarsi da qualsivoglia Giudice, o Tribunale, benché Collegiale, Congregazione, anche di Rmi Cardinali, Legati a Latere, Vice Legati, Camerlengo di S. Chiesa, Tesoriere, Rota, Camera, e qualsivoglia altro; togliendo loro ogni facoltà, e giurisdizione di definire, ed interpretare in contrario. Dichiarando Noi fin d’adesso preventivamente nullo, irrito, ed invalido tutto ciò, che da ciascuno di essi con qualsivoglia autorità, scientemente, o ignorantemente fosse in qualunque tempo giudicato, o si tentasse di giudicare contro la forma, e disposizioni del presente Nostro Chirografo, quale vogliamo che vaglia, e debba avere sempre, ed in perpetuo il suo pieno effetto, esecuzione, e vigore, colla semplice Nostra sottoscrizione, benché non ci siano state chiamate, sentite, o citate qual si siano Persone ancorché Privilegiate, Privilegiatissime, Ecclesiastiche, e Luoghi Pii, che avessero, e pretendessero avervi interesse, e per comprenderle fosse bisogno di special menzione. Non ostante la Bolla di Pio IV. de Registrandis, la regola della Nostra Cancelleria de Jure quaesito non tollendo, e non ostante ancora tutti, e qualsisiano Chirografi, Brevi, Ordinazioni, e Costituzioni Apostoliche Nostre, e dei Nostri Predecessori, Bandi, Editti, in virtù di essi, ed in qualunque modo emanati, affissi, e pubblicati, Leggi, Statuti, Riforme, Stili, e Consuetudini, e qualunque altra cosa, che fe, o potesse fare in contrario. Alle quali tutte, e singole, avendone il tenore qui per espresso, e di parola in parola inserto, e registrato, e supplendo colla pienezza della Nostra Potestà Pontificia ad ogni vizio, o difetto qualunque sostanziale, e formale, che vi potesse intervenire per questa sola volta; e per la piena, e totale Esecuzione di quanto sì contiene nel presente Nostro Chirografo, ampiamente, ed in ogni più valida forma
Deroghiamo.
Dato dal Nostro Palazzo Apostolico Quirinale questo di primo Ottobre 1802.
Pius Pp. Vii.
Acciò dunque le benefiche previdenze ordinate da Sua Beatitudine con il surriferito Chirografo abbiano la loro piena esecuzione, e produchino quegli utili effetti, che la Santità Sua si è proposti della conservazione, ed accrescimento dei Monumenti, e delle Opere antiche; e dell’incoraggimento, e propagazione delle Belle Arti, dopo avere analogamente alle facoltà nel medesimo accordateci destinato l’Officio del Segretario di Camera sco Gregorj in Roma, e nelle Provincie le rispettive Cancellerie dei Governatori Legali, per ricevere le assegne, ed eseguire tutti quegli Atti, che trovansi nel sudetto Chirografo prescritti, vogliamo, ed ordiniamo, acciò niuno possa allegare ignoranza delle Sovrane disposizioni, che le medesime si deducano a notizia del Publico con il presente Nostro Editto, il quale affisso, e publicato nei Luoghi soliti di questa Dominante, e delle Provincie sudette obligherà ciascuno nella Città medesima, e nello Stato come se fosse stato a tutti personalmente intimato. Ed affinchè in avvenire possa egualmente essere a notizia di tutti, né possa mai in tempo alcuno allegarsene ignoranza; ordiniamo, che lo stesso Editto si tenga, e conservi perpetuamente affisso presso il sudetto Segretario di Camera in Roma, e nello Stato presso le dette Cancellerie: rendendone responsabile non solo i Cancellieri, ma anche i respettivi Governatori delle Città, e Paesi. Avverta pertanto ognuno di uniformarsi esattamente alle prescrizioni ordinate nel preinserto Chirografo, e publicate con il presente Nostro Editto; giacché contro quelli, che contraverranno, si procederà irrimissibilmente alla esecuzione delle pene nel medesimo contenute. Dato in Camera Apostolica questo dì 2 Ottobre 1802.
G. Card. Doria Pamphilj Pro-Cam.
P. Ferrari Udii. - G. Pecci Comm. Gen. della R.C.A.
6
Notificazione
Giuseppe del Titolo di S. Cecilia Prete Card. Doria Pamphilj della S. R. C. ProCamerlengo,
Quantunque con altri Editti de Nostri Antecessori siansi sempre vietati gli scavi di qualunque materia presso le Mura di questa Dominante, affine di preservarle da ogni pregiudizio, nulla di meno essendoci giunto a notizia, che ad onta di si provvide Leggi ardisca taluno di cavare Arena, Terra, o Creta in vicinanza delle Mura stesse non senza pregiudizio di arrecargli li temuti danni; Quindi è, che a rimovere affatto un si grave disordine, richiamando alla piena, e puntuale osservanza gli Editti succennati, e specialmente quelli emanati li 8 Aprile 1717. li 2 Ottobre 1726, li 10 Settembre 1733, e li 5 Gennaro 1750.
Proibiamo espressamente a qualunque persona di qualunque grado, e condizione il cavare, o far cavare sotto qualsivoglia pretesto, o quesito colore nelle vicinanze delle Mura circondarie di Roma Arena, Terra, Creta, o qualunque altra materia sotto pena della formale carcerazione, di 500 Ducati di oro di Camera, ed altre eziandio Corporali ad arbitrio nostro, e dei nostri Successori, secondo la qualità del fatto, e delle persone in via sommaria, anche per inquisizione con ogni rigore di giustizia.
Vogliamo in oltre, che li Custodi, e Rincontri delle Porte invigilino alla esatta osservanza di somigliante divieto, ed altrettanto faccia il Revisore, o sia Ispettore
delle mure, a di cui carico rimarrà di minutamente osservare, se avvenga ogni più tenue trasgressione: Anzi sorprendendo qualche Refrattario nell’atto di essa, dovrà egli andare alla Porta più vicina, prender la Forza, che in questo caso non gli sarà negata, farlo arrestare, e tradurre al nostro Tribunale, onde sia giudicato nella forma di sopra espressa. E qualora trovi eseguita la mal’opera senza il Contraventore, dovrà usare tutte le possibili ricerche per venirne in cognizione, con dedurlo a nostra notizia, e così procedere nella maniera stabilita.
Ognuno pertanto conosca subito trasfuso in se il debito di uniformarsi inviolabilmente al prescritto fin’ora, poiché la presente affissa, e publicata che sia nei Luoghi soliti, e alle Porte di questa Capitale obbligherà tutti, come se fosse stata loro personalmente intimata.
Data in Camera questo dì 7 Gennaro 1803.
G. Card. Doria Pamphilj Pro-Cam.
P. Ferrari Udit. - G. Pecci Comm. Gen. della R.C.A.
7
Legge 20 Giugno 1909, n. 364
Per le antichità e le belle arti
Art. 1 - Sono soggette alle disposizioni della presente legge le cose immobili e mobili che abbiano interesse storico, archeologico, paletnologico o artistico.
Ne sono esclusi gli edifici e gli oggetti d’arte di autori viventi o la cui esecuzione non risalga ad oltre cinquant’anni.
Tra le cose mobili sono pure compresi i codici, gli antichi manoscritti, gl’incunabuli, le stampe e incisioni rare e di pregio e le cose d’interesse numismatico.
Art. 2. - Le cose di cui all’articolo precedente sono inalienabili quando appartengono allo Stato, a comuni, a provincie, a fabbricerie, a confraternite, a enti morali ecclesiastici di qualsiasi natura e ad ogni ente morale riconosciuto.
Il Ministero della pubblica istruzione, su le conformi conclusioni del Consiglio superiore per le antichità e belle arti, istituito con la legge 27 giugno 1907, n. 386, potrà permettere la vendita e la permuta di tali cose da uno a un altro degli enti sopra nominati quando non derivi danno alla loro conservazione e non ne sia menomato il pubblico godimento.
Art. 3. - I sindaci, i presidenti delle Deputazioni provinciali, i fabbriceri, i parroci, i rettori di chiese, ed in generale tutti gli amministratori di enti morali presenteranno al Ministero della pubblica istruzione, secondo le norme che saranno sancite nel regolamento, l’elenco descrittivo delle cose di cui all’articolo 1, di spettanza dell’ente morale da loro amministrato.
Art. 4. - Il Ministero della pubblica istruzione, sentito il parere della Giunta del Consiglio superiore per le antichità e le belle arti, ha facoltà di provvedere, ove
occorra, all’integrità e alla sicurezza delle cose previste nell’articolo 2, facendole trasportare e custodire temporaneamente in pubblici Istituti.
In caso di urgenza il Ministero potrà procedere ai provvedimenti conservativi di cui sopra, anche senza parere della Giunta suddetta, ma gl’interessati potranno richiamarsi al Consiglio superiore.
Sentito il parere della Giunta del Consiglio superiore il Ministero ha anche la facoltà di far restaurare, ove occorra, le predette cose e di adottare tutte le provvidenze idonee ad impedirne il deterioramento. Le spese saranno a carico dell’ente proprietario, se ed in quanto l’ente medesimo sia in grado di sostenerle.
Contro il giudizio sulla necessità della spesa e la possibilità dell’ente a sostenerla è dato ricorso alla V sezione del Consiglio di Stato.
Art. 5. -Colui che come proprietario o per semplice titolo di possesso detenga una delle cose di cui all’articolo 1, della quale l’autorità gli abbia notificato, nelle forme che saranno stabilite dal regolamento, l’importante interesse, non può trasmetterne la proprietà o dimetterne il possesso senza farne denuncia al Ministero della pubblica istruzione.
Art. 6.- 11 Governo avrà il diritto di acquistare la cosa al medesimo prezzo stabilito nel contratto di alienazione.
Questo diritto dovrà essere esercitato entro due mesi dalla data della denuncia; il termine potrà essere prorogato fino a quattro mesi quando per la simultanea offerta di più cose il Governo non abbia in pronto le somme necessarie agli acquisti.
Durante questo tempo il contratto rimane sottoposto alla condizione risolutiva dell’esercizio del diritto di prelazione e l’alienante non potrà effettuare la tradizione della cosa.
Art. 7. - Le cose di che all’articolo 5, siano mobili o immobili, qualora deteriorino o presentino pericolo di deterioramento e il proprietario non provveda ai necessari restauri in un termine assegnatogli dal Ministero dell’istruzione pubblica, potranno essere espropriate.
Il diritto di tale espropriazione spetterà oltre che allo Stato, alle Provincie ed ai Comuni, anche agli enti che abbiano personalità giuridica e si propongono la conservazione di tutte le cose in Italia, ai fini della cultura e del godimento pubblico.
Art. 8. - È vietata l’esportazione dal Regno delle cose che abbiano interesse storico, archeologico o artistico tale che la loro esportazione costituisca un danno grave per la storia, l’archeologia o l’arte ancorché per tali cose non sia stata fatta la diffida di cui all’articolo 5.
Il proprietario o possessore delle cose di che all’articolo 1, il quale intende esportarle, dovrà farne denunzia all’Ufficio di esportazione, il quale giudicherà, in numero di tre funzionari a ciò preposti, sotto la loro personale responsabilità, se sono della natura di quelle di cui è vietata l’esportazione come sopra.
Nel caso di dubbio da parte dell’Ufficio o di contestazione da parte di chi chiede l’esportazione, intorno alla natura delle cose presentate all’esame dell’Ufficio, la risoluzione del dubbio o della contestazione sarà deferita al Consiglio superiore.
Art. 9. - Entro il termine di due mesi che può essere prorogato a quattro per la ragione di cui all’articolo 6, il Governo potrà acquistare la cosa denunciata per l’esportazione. L’acquisto seguirà al prezzo dichiarato dall’esportatore, e la cosa, durante il termine anzidetto, sarà custodita a cura del Governo.
Se però si riscontrino nella cosa le qualità per cui a norma del precedente articolo, è vietata l’esportazione e il Governo intenda addivenirne all’acquisto avrà facoltà, quando l’offerta non venga accettata e ove l’esportatore vi consenta, di provocare il giudizio di una Commissione peritale, la quale determinerà il prezzo ponendo a base della stima il valore della cosa all’interno del Regno. Quando il prezzo determinato dalla Commissione peritale non sia accettato dalle parti, ovvero quando l’esportatore non acconsenta di addivenire al giudizio dei periti o comunque il Governo non acquisti la cosa, essa verrà restituita al proprietario col vincolo di non esportarla e di mantenerla secondo le norme stabilite dalla presente legge e dal relativo regolamento.
La Commissione peritale di cui sopra sarà nominata per metà dall’esportatore e per metà dal Ministero della istruzione. Quando si abbia parità di voti deciderà un arbitro scelto di comune accordo, e ove tale accordo manchi, l’arbitro sarà nominato dal primo presidente della Corte d’appello.
Art. 10. - Indipendentemente da quanto è stabilito nelle leggi doganali, l’esportazione di qualunque cosa di cui all’articolo 1, è soggetta ad una tassa progressiva applicabile sul valore della cosa, secondo la tabella annessa alla presente legge.
Il valore è stabilito in base alla dichiarazione dell’esportatore riscontrata con la stima degli uffici di esportazione.
In caso di dissenso il prezzo è determinato da una Commissione nominata come è detto sopra. La stima sarà fatta coi criteri di che all’articolo precedente; ma il giudizio dei periti sarà definitivo e non soggetto a richiamo, così da parte dell’esportatore come del Governo.
Art. 11. - La tassa di esportazione non è applicabile alle cose importate da paesi stranieri, qualora ciò risulti da certificato autentico, secondo le norme da prescriversi dal regolamento, purché la riesportazione non avvenga oltre il termine di cinque anni, e salvi i diritti acquisiti avanti alla promulgazione della presente legge.
Questo termine sarà prorogato di cinque in cinque anni, alla sua scadenza, su richiesta degli interessati.
Art 12. - Le cose previste nell’articolo 2 non potranno essere demolite, rimosse, modificate, né restaurate senza la autorizzazione del Ministero della pubblica istruzione.
Contro il rifiuto dell’autorizzazione è dato ricorso alla autorità giudiziaria.
Art. 13. - La stessa disposizione è applicabile alle cose di cui all’articolo 5, immobili per natura o reputate tali per destinazione a norma dell’articolo 414 del Codice civile, quando sono di proprietà privata.
Contro il rifiuto del Ministero è dato ricorso all’autorità giudiziaria.
Art. 14. - Nei comuni, nei quali si trovano cose immobili soggette alle disposizioni della legge, possono essere prescritte, nei casi di nuove costruzioni, ricostruzioni, piani regolatori, le distanze, le misure e le altre norme necessarie allo scopo che le nuove opere non danneggino la prospettiva o la luce richiesta dai monumenti stessi.
Art. 15. - Il Governo può eseguire scavi per intenti archeologici in qualunque punto del territorio dello Stato, quando con decreti del Ministero della pubblica istruzione ne sia dichiarata la convenienza.
Il proprietario del fondo, ove si eseguiscono gli scavi, avrà diritto a compenso per il lucro mancato o per il danno che gli fosse derivato. Ove il detto compito non possa fissarsi amichevolmente, esso sarà determinato con le norme stabilite dagli articoli 65 e seguenti della legge 25 giugno 1865, n. 2359, in quanto siano applicabili.
Le cose scoperte appartengono allo Stato. Di esse sarà rilasciata al proprietario del fondo una quarta parte, oppure il prezzo equivalente, a scelta del Ministero della pubblica istruzione. Il valore delle cose verrà stabilito come all’articolo 9; ma il giudizio dei periti sarà definitivo, salvo il richiamo al Consiglio superiore.
Invece del compenso di cui al secondo comma, il Governo potrà rilasciare al proprietario del fondo, che ne faccia richiesta, una maggior quota delle cose scoperte, o anche la loro totalità, quando esse non siano giudicate necessarie per le collezioni dello Stato.
Art. 16 - Ove il Governo lo creda opportuno, potrà espropriare i terreni in cui dovranno eseguirsi gli scavi.
La stessa facoltà gli compete quando occorra provvedere così alla conservazione di ruderi e di monumenti, venuti in luce casualmente o in seguito a scavi, come alla delimitazione della zona di rispetto e alla costruzione di strade di accesso.
La dichiarazione di pubblica utilità di tale espropriazione, previo parere del Consiglio superiore per le antichità e belle arti, è fatta con decreto reale su proposta del ministro della pubblica istruzione, nel modo indicato all’articolo 12 della legge 25 giugno 1865, n. 2359, e il prezzo dello stabile da espropriarsi sarà determinato con le norme del capo IV (titolo I), di detta legge.
Nella stima del fondo non sarà però tenuto conto del presunto valore delle cose di interesse archeologico, che si ritenga potervisi rinvenire.
Art. 17. - Potrà il Ministero della pubblica istruzione concedere a enti ed a privati licenza di eseguire ricerche archeologiche, purché essi si sottopongano alla vigilanza degli ufficiali dell’Amministrazione e osservino tutte le norme che da questa saranno imposte nell’interesse della scienza.
Delle cose scoperte sarà rilasciata agli enti o ai privati la metà oppure il prezzo equivalente alla metà, a scelta del Ministero della pubblica istruzione. Il valore delle cose sarà stimato come all’articolo 15.
La licenza sarà immediatamente ritirata ove non si osservino le prescrizioni di cui nella prima parte di questo articolo.
Il Governo potrà pure revocare la licenza, quando voglia sostituirsi ai detti enti o ai privati nella iniziativa o nella prosecuzione dello scavo. In tale caso però dovrà concedersi ad essi il rimborso delle spese per gli scavi già eseguiti, senza
pregiudizio della eventuale partecipazione loro, nella misura sopraindicata, alle cose che fossero già state scoperte al momento della revoca della licenza.
Potrà il ministro, sul conforme parere del Consiglio superiore delle antichità e belle arti, consentire che tutte le cose scavate rimangano in proprietà di Provincie o di Comuni che siano proprietari di un museo.
Art. 18. - Tanto il fortuito scopritore di oggetti di scavo o di resti monumentali, quanto il detentore di essi debbono farne immediata denuncia all’autorità competente e provvedere alla loro conservazione temporanea lasciandoli intatti fino a quando non siano visitati dalla predetta autorità.
Trattandosi di oggetti di cui non si possa altrimenti provvedere alla custodia potrà lo scopritore rimuoverli per meglio guarentirne la sicurezza e la conservazione fino alla visita di cui sopra.
Il Ministero della pubblica istruzione li farà visitare entro trenta giorni dalla denuncia.
Delle cose scoperte fortuitamente sarà rilasciata la metà o il prezzo equivalente, a scelta del Ministero della pubblica istruzione, al proprietario del fondo, fermi stando i diritti riconosciuti al ritrovatore dal Codice civile verso il detto proprietario.
Art. 19. - Le stesse facoltà spetteranno al Governo allorché si tratti di cose scoperte in seguito a scavi di cui fosse stata concessa licenza a istituti o cittadini stranieri o che da loro fossero state fortuitamente scoperte; e qualora il Governo ritenga di poter rilasciare a detti istituti o cittadini stranieri parte delle cose
scoperte a norma dei due precedenti articoli, esse non potranno venire esportate dal territorio dello Stato, ma dovranno essere mantenute in condizioni da giovare alla pubblica cultura in Italia, qualora siano di quelle di che al primo comma dell’articolo 8.
Art. 20. - Per le licenze di scavo concedute anteriormente alla promulgazione della presente legge e per le ricerche archeologiche comunque intraprese a tale epoca dallo Stato, da enti o da privati varranno le norme della legge 12 giugno 1902, n. 185.
Art. 21. - La riproduzione delle cose di cui all’articolo 1 che siano di proprietà dello Stato, quando sia di volta in volta permessa, andrà soggetta alle norme e alle condizioni da stabilirsi nel regolamento. Il permesso di fotografare le cose di cui all’articolo 1, di proprietà dello Stato, s’intenderà sempre vincolato alla condizione che il fotografo non possa pretendere il pagamento di alcun diritto per la riproduzione che da altri si faccia con mezzi foto-meccanici da tali fotografie, quando la riproduzione, indicando il nome del fotografo, sia fatta ad illustrazione del testo in pubblicazioni edite in Italia e utili alla pubblica cultura.
Art. 22. - L’introito della tassa d’ingresso alle gallerie ed ai musei del Regno è destinato interamente a beneficio dei singoli Istituti da cui proviene. Gli Istituti, il cui introito superi ventimila lire, non avranno più alcun assegno a titolo di dotazione, e il fondo relativo si devolverà ad esclusivo vantaggio degli Istituti che hanno proventi minori.
Le somme rimaste disponibili alla chiusura dell’esercizio finanziario sul capitolo “Musei, gallerie, scavi di antichità e monumenti - Spese da sostenersi con la tassa di entrata” saranno conservate fra i residui anche se non impegnate; e sul fondo complessivo delle assegnazioni di competenza e dei residui potranno imputarsi tanto le spese di competenza propria dell’esercizio quanto le spese residue, senza distinzione dell’esercizio cui le spese stesse si riferiscono, purché pertinenti ai fini della presente legge e di quella del 27 maggio 1875.
Art. 23. - Alla denominazione del capitolo inscritto nel bilancio del Ministero della pubblica istruzione, agli effetti dell’articolo 3 della legge 27 giugno 1903, n. 242, con lo stanziamento di L. 300.000, è sostituita la seguente: “Somme da versarsi al conto corrente istituito presso la Cassa depositi e prestiti per l’acquisto eventuale di cose d’arte e di antichità”.
In aumento a tale capitolo verranno altresì portate, mediante decreto del ministro del tesoro, le somme corrispondenti ai proventi ottenuti dalla vendita di pubblicazioni ufficiali, fotografie ed altre riproduzioni di cose di antichità e d’arte, dall’applicazione delle tasse, delle pene pecuniarie e delle indennità stabilite dalla presente legge.
Art. 24. - Presso la Cassa depositi e prestiti è aperto un conto corrente fruttifero intestato al Ministero della pubblica istruzione, al quale dovranno affluire:
a) la somma di L. 1.000.000, già versata in conto corrente fruttifero presso la Cassa depositi e prestiti in virtù dell’art. 3 della legge 14 luglio 1907, n. 500;
b) gli interessi di rendita consolidata di L 4.000.000 regolarmente versati alla Cassa stessa, a norma della legge summentovata. Detti interessi verranno riscossi alle scadenze semestrali a cura della Cassa dei depositi e prestiti;
c) lesomme stanziate e da stanziarsi in bilancio come all’articolo 23;
d) gli interessi da liquidarsi annualmente sul credito del conto corrente;
e) le somme che da enti morali o da privati vengano destinate ad accrescere il fondo di che al comma c.
Art. 25. - Il Ministero della pubblica istruzione ha facoltà di disporre degli interessi di cui al comma b dell’articolo precedente e degl’interessi delle somme di cui al comma e, al fine di contrarre mutui e costituire rendite vitalizie destinate agli acquisti di cui alla legge 14 luglio 1907, n. 500.
Gli interessi su detti mutui e l’ammontare delle rendite vitalizie non potrà mai superare complessivamente le somme disponibili secondo il comma precedente.
Art. 26. - Col regolamento si determinano le norme con le quali, sentito il Consiglio superiore delle antichità e belle arti, si può procedere a detti acquisti con mutui o costituzione di rendite vitalizie.
Art. 27. - Il Ministero della pubblica istruzione potrà valersi del credito risultante dal conto corrente istituito presso la Cassa dei depositi e prestiti per gli eventuali acquisti di cui alla presente legge e a quella del 14 luglio 1907, n. 500, prelevando da esso, mediante appositi decreti, le somme all’uopo occorrenti.
Però dalla somma di L. 1.000.000 versata al conto corrente suddetto, potrà il Ministero della pubblica istruzione prelevare non oltre L. 700.000 nell’esercizio finanziario 1909-910 e L. 300.000 nel 1910-911, con facoltà di valersi negli esercizi successivi delle somme non prelevate precedentemente.
Art. 28. - Le somme prelevate dal conto corrente a norma del precedente articolo
verranno versate in tesoreria con imputazione ad uno speciale capitolo del bilancio dell’entrata con la denominazione: “ Somme prelevate dal conto corrente con la Cassa dei depositi e prestiti costituito dalle assegnazioni destinate all’acquisto di cose di arte e di antichità”, e inscritte, mediante decreto del ministro del tesoro, ad apposito capitolo del bilancio della pubblica istruzione con la denominazione: “Acquisto di cose d’arte e di antichità”
A carico del detto capitolo verrà altresì imputato pel residuo debito il pagamento dell’annua somma di L. 100.000, di cui all’articolo 2, comma terzo, della legge 9 giugno 1901, n. 203,concernente l’acquisto del museo Boncompagni-Ludovisi.
Art. 29. - Le alienazioni, fatte contro i divieti contenuti nella presente legge, sono nulle di pieno diritto.
Art. 30. - Gli amministratori e gli impiegati degli enti morali, che abbiano trasgredito alle disposizioni dell’articolo 2 sono puniti con multa da 200 a 10.000 lire.
Art. 31. - L’omissione della denuncia di cui all’articolo 5o la violazione delle disposizioni di cui al secondo comma dell’articolo 6 sono punite con multa da 500 a 10.000 lire.
Art. 32. - Senza pregiudizio di quanto si dispone per i casi di cui al successivo articolo, se per effetto della violazione degli articoli 2, 5 e 6 la cosa non si può più rintracciare o è stata esportata dal Regno, il trasgressore dovrà pagare un’indennità equivalente al valore della cosa. L’indennità, nel caso di violazione dell’art. 2, potrà essere devoluta all’ente danneggiato.
Art. 33 - Sarà considerato contrabbando e come tale punito a norma degli articoli 97 a 107, 109 e 110 del testo unico della legge doganale, approvato con regio decreto 26 gennaio 1896, n. 20, l’esportazione consumata o tentata delle cose di cui nella presente legge:
a) quando la cosa non sia presentata alla dogana;
b) quando la cosa sia presentata, ma con falsa dichiarazione o nascosta, o frammista ad oggetti di altro genere, in modo da far presumere il proposito di sottrarla alla licenza di esportazione e al pagamento della tassa relativa.
La cosa sarà inoltre confiscata a favore dello Stato, o, qualora concorra il caso di violazione all’articolo 2 della presente legge, dell’ente direttamente danneggiato. Ove non sia più possibile d’impossessarsene, saranno applicabili le disposizioni di cui all’articolo precedente.
La ripartizione delle multe sarà fatta nel modo che verrà stabilito dal regolamento per l’esecuzione della presente legge.
Art. 34. -Alle violazioni degli articoli 12 e 13 è applicabile la multa indicata nell’articolo 31. Se il danno è in tutto o in parte irreparabile il trasgressore dovrà pagare un’indennità equivalente al valore della cosa perduta od alla diminuzione del suo valore.
Art. 35. - Le violazioni degli articoli 17 e 18 sono punite con la multa da 1000 a 2000 lire e in caso di danni in tutto o in parte irreparabili si applicherà la disposizione del capoverso dell’articolo precedente.
Le cose rinvenute sono confiscate.
Art. 36. - L’amministratore dell’ente morale che entro il termine di tre mesi, prorogabile a nove, dall’invito direttogli dal Ministero della pubblica istruzione non presenterà l’elenco delle cose di che all’art. 3 o presenterà una denuncia dolosamente inesatta, sarà punito nel primo caso con la multa da 200 a 10.000 lire e nel secondo con la multa da 1000 a 10.000 lire.
Art. 37. - Alle pene di cui agli articoli 30 e 31 soggiace altresì il compratore quando sia a conoscenza dei divieti quivi menzionati.
Se il fatto è imputabile a più persone, queste sono tenute in solido al pagamento dell’indennità.
Qualora per lo stesso fatto si incorra anche in sanzioni penali stabilite da altre leggi, si applicano le disposizioni di cui all’articolo 77 del Codice penale.
Art. 38. - Quando nella presente legge si fa richiamo al Consiglio superiore si intende designata quella sezione che è competente a conoscere per ragione di materia.
Art. 39. - Con regolamento da approvarsi con decreto Reale, sentito il parere del Consiglio di Stato, saranno determinate le norme per l’esecuzione della presente legge.
Fino a quando detto regolamento non avrà vigore varranno agli effetti degli articoli 5, 6, 7 e 13 della presente legge, le notificazioni di pregio fatte a norma della legge 12 giugno 1902 n. 185,e del relativo regolamento.
Art. 40. - Sono abrogate le leggi 12 giugno 1902, n. 185, 27 giugno 1903, n. 242, e 2 luglio 1908, n. 396, e tutte le altre disposizioni in materia, salvo quanto è stabilito con l’articolo 4 della legge 28 giugno 1871, n. 286, con gli articoli 2 e 3 della legge 14 luglio 1907, n. 500, e nelle leggi 8 luglio 1883, n. 1461, e 7 febbraio 1892, n. 31.
Art. 41. - Le tasse di esportazione sono applicate secondo la seguente tabella:
Sulle prime L. 5.000 il 5 per cento
Sulle seconde L. 5.000 il 7 per cento
Sulle terze L. 5.000 il 9 per cento
Sulle quarte L. 5.000 l’11 per cento e così di seguito fino a raggiungere con l’intera tassa il 20 per cento del valore della cosa esportata.
Art. 42. - È data facoltà al Governo del Re di coordinare in testo unico questa legge e le altre sulla medesima materia.
Ordiniamo che la presente, munita del sigillo dello Stato, sia inserta nella
Raccolta ufficiale delle leggi e dei decreti del Regno d’Italia, mandando a chiunque spetti di osservarla e di farla osservare come legge dello Stato.
Data a Roma, addì 20 giugno 1909.
Vittorio Emanuele, Rava - Carcano - Orlando.
Visto, Il guardasigilli; Orlando.