Prenditi Tutto Quello Che Ho 32605p

Prenditi tutto quello che ho romanzo

Alessio Biagi

Published by Giuseppe Meligrana Editore

Copyright Meligrana Editore, 2013 Copyright Alessio Biagi, 2013

Tutti i diritti riservati ISBN: 9788868150457

Copertina © foto di sca Iardella www.scaiardella.com

Meligrana Editore Via della Vittoria, 14 – 89861, Tropea (VV) Tel. (+ 39) 0963 600007 – (+ 39) 338 6157041 www.meligranaeditore.com [email protected]

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INDICE

Frontespizio

Colophon

Licenza d’uso

Alessio Biagi

Copertina

Dedica

Prologo

Prenditi tutto quello che ho

Epilogo

Ringraziamenti

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Licenza d’uso

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Alessio Biagi Alessio Biagi è nato a Massa nel 1980. Nel marzo 2009 ha pubblicato per la Meligrana Editore il romanzo d’esordio In tutti i respiri che ti ho preso (tradotto in lingua inglese), nel dicembre 2010 il romanzo Mai amato abbastanza e nel luglio 2012 il romanzo Lascia che sia io i tuoi occhi.

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A Cristina, Mayla e Noemi. Inevitabilmente.

Che posso essere se non indovina e meretrice? Io, che ho avuto per madre un folletto e per padre un frate? Il mio giocattolo è stato un crocifisso e la mia culla il fondo del mare. Che posso essere se non la figlioccia del diavolo? Edna Millay

Quale colpa amarti più di tutto. Emily Dickinson

Prologo

«Hai intenzione d’uccidermi?» «No.» risposi «Desideravo raccontarle questa storia affinché rimetta tutto al proprio posto».

1.

L’orologio segnava mezzanotte e otto minuti. La piccola lampada illuminava la vecchia scrivania di ciliegio dai cassetti bloccati. Il fumo dell’ultima sigaretta saliva ondeggiando fino al soffitto dell’appartamento di Borgo San Jacopo, mentre la città di Firenze festeggiava il capodanno del 1991. Viola riposava infagottata tra lenzuola oramai logore. Di tanto in tanto le prestavo uno sguardo preoccupato. Sospirava o a volte guaiva, quasi. Poi, d’un tratto, ondeggiò da un fianco all’altro emettendo un miagolio da gatta. Voltai lo sguardo per controllarla: i ricci spumosi le cadevano dal cuscino ed in quel momento ricordai d’amarla profondamente. Ritornai alle bollette scadute, alle angosce che procuravano. Smorzai la sigaretta nell’angolo della scrivania e stropicciai gli occhi con i palmi della mano. Viola tossì e dopo aver inspirato una grossa boccata d’aria, chiese: «Non vieni a dormire?». «Tra un momento» risposi nascondendo i conti da pagare. Rotolò sul materasso accostandosi, restando pancia sotto, schiacciando il cuscino contro la gola. Allungai la mano per carezzarle la schiena. «Vado in bagno» sospirò sconsolata un momento dopo. Il traffico del 1992 rumoreggiava identico a quello del 1991. Le persone ciondolavano imbecilli, indaffarate dai loro inutili impegni. Ululando, ridendo sguaiatamente con le loro dentature perfette ed i loro abiti firmati. Li detestavo. Spensi la lampada infilandomi sotto le lenzuola. Per un po’ fissai il soffitto scrostato e la chiazza di muffa nell’angolo che s’intravedeva in penombra. ai la lingua sul canino sbeccato, consumato dalla carie. Mi occorreva un dentista, un appartamento senza infiltrazioni magari, un lavoro, un po’ di denaro. Il mio cuore sverniciato, ammuffito e cariato si serrò dentro una puntura di spillo, dopodiché m’addormentai. Poco più tardi sobbalzai terrorizzato da un colpo di mortaio. Il cervello cuoceva mentre qualcuno per strada ridacchiava. Detonò una seconda esplosione e subito dopo una raffica. Alcuni bambini schiamazzarono. Ciondolai alla finestra

scrutando il cielo: quel primo pomeriggio dell’anno sgombro di nuvole somigliava a quell’appartamento vuoto. Con i mobili che la famiglia di Jawad ci prestò (un divano, un tavolo con le sedie, una televisione, il videoregistratore e l’aspirapolvere) già impegnati, rimanemmo con una sola seggiola, la scrivania, il letto, il telefono, la stufa, il frigorifero e alcuni pensili della cucina. Carezzai il viso iniziando un’ispezione per casa: Viola non c’era. I clacson, lo scoppiettio delle marmitte e le esalazioni di scarico che emanava l’Arno sottostante la finestra della sala da pranzo, mi comprimevano la testa. Provai a riaddormentarmi, rigirandomi più volte tra le lenzuola, rivoltandomi da un fianco all’altro. La lingua s’impastò mentre i piedi congelarono. Dopo diverse faticose manovre, ciondolai al frigorifero per dissetarsi. Col frigo praticamente vuoto, tracannai dal rubinetto dell’acqua calcarea poi bighellonai alla scrivania dove trovai qualche monetina probabilmente abbandonata da Viola. Indossai degli indumenti puliti, ficcai quegli spiccioli nei jeans ed uscii dall’appartamento. In strada fiutai subito un odoraccio di tintura e carne bruciata. Sul marciapiede davanti al portone d’ingresso difatti, scoprii una patacca di sangue rappreso. Mi piegai ad osservarla meglio e le ginocchia ancora molli, scricchiolarono sulle giunture. Si trattava proprio di sangue. Lo stomaco gorgheggiò. Grattai le guance, spettinai i capelli, infilai la camicia nei pantaloni, chiusi lo zip della giacca di pelle e camminai in direzione di Ponte Vecchio. Il primo giorno d’un nuovo anno e la vita somigliava a quel grumo polposo e stantio che s’accumula sul fondo delle bottiglie di vino. Oltreai Ponte Vecchio camminando per decine di metri senza sapere esattamente dove dirigermi. La gola pizzicava perciò contai gli spiccioli sul palmo tracannando d’un fiato un sacchetto di saliva amara, dopodiché continuai a vagabondare in giro alla ricerca d’uno straccio di lavoro. In quel mercoledì pomeriggio gremito di signorine avvenentissime, gentiluomini distinti, famiglie ebbre e disinteressate al baccano che m’impedì di riposare quietamente, gli spazzini rimasero gli unici con i volti smunti, tartassati, i capelli arruffati e le guance screpolate dal clima invernale. Uno tra loro presentava una folta barba ed un berretto ripiegato sulle grandi orecchie, ripuliva l’angolo del marciapiede col manico dello scopettone che quasi gli sfiorava il mento. M’avvicinai supplicandogli una sigaretta. Terminò di spazzare il lastricato

dopodiché rovistò nelle tasche, porgendomi un pacchetto spiegazzato di Nazionali. Prendendo la prima sottrassi furtivamente una seconda che scomparì rapida all’interno della manica. Imboccammo e con un Bic lo spazzino incendiò la sigaretta d’entrambi. Esalammo angosciosi sospiri poppando simultaneamente la primissima boccata. Trascinava per Firenze quell’espressione afflitta sotto la barbona ed una boccuccia finissima che gli segava a metà quel volto implacabile. Fumammo senza spiccicar parola ammirando Firenze e Piazza della Signoria. Nel momento in cui aspirai l’ultima boccata, lo spazzino smorzò entrambe le cicche contro la suola dello scarpone. «Grazie!» accennai salutandolo. Bighellonai a lungo prima di dirigermi di nuovo verso casa. Accelerai il o nonostante i pizzichi di fame mi costringessero a rallentare o addirittura a piegarmi in avanti.

Viola stendeva i panni ascoltando la piccola radio scassata omaggio del fustino di Dixan. Quella vocina da usignolo t’ingannava perché in realtà appariva sempre solida quanto un ciocco di legno. In bocca teneva questo banco di denti perfetti e bianchissimi che le invidiavo. Di tanto in tanto lisciandole quella chioma fluente bisbigliavo: «Sei mia!» e Viola ridacchiava ogni volta. «Dove sei stato?» s’informò voltando la testolina bruna. «Fuori!». La radio frusciava una canzone di Umberto Bindi. Viola s’appoggiò con i gomiti sul davanzale, carezzandosi la pancina deliziosa. Il sole le lampeggiava dietro mentre io in piedi nell’atrio m’incupivo per le menzogne che raccontavo, per l’animale che diventavo ogni giorno di più. «Vado a sdraiarmi» comunicai. La camera da letto somigliava ad una ghiacciaia. Spogliandomi infilai sotto le coperte già umidicce. Viola mi raggiunse subito gettandosi sul materasso. M’osservò attentamente ravvivandosi i capelli con quella sensibilità errabonda. Una ciocca brunastra le penzolò davanti al nasino. «Facciamo l’amore?» chiese con un mezzo risolino.

* * *

Le campane di San Jacopo echeggiarono vicinissime. Rovistai nella manica del maglione alla ricerca della Nazionale sottratta dal pacchetto dello spazzino di Piazza della Signoria. Viola arricciò il nasetto sgusciando subito fuori della stanza. «Scusa!» sbraitai contraccambiato da un’occhiataccia folgorante. Proteso su un fianco meditai un po’ sulla faccia riflessa nella finestra della camera da letto: occhi infossati, fronte inopportunamente spaziosa, denti inferiori storti ingialliti di fumo, barba incolta; praticamente un argine scoppiato. Poppai una lunghissima boccata sapendomi strano come un cane dalla coda rotta. L’attimo successivo trillò il telefono. «Pronto?». «Dellaria? Sono Eleonora Credentino» proruppe la padrona dell’appartamento con un forte accento fiorentino. Sbuffai sulla cornetta intanto che s’annodarono tutte le budella. «L’affitto di novembre e dicembre?» spasimò torturata dai miei debiti. «Avrò bisogno d’un briciolo di pazienza...» risposi disprezzandola. Detestavo quell’ignoranza, quel pungente disinteresse. «Viola ha problemi di salute» finsi e la Credentino morse l’esca. «Una settimana. Non un giorno di più. Gli rihordo che so l’uniha che gl’offre un tetto sulla testa a Firenze!» soggiunse perfida. «La ringrazio infinitamente». «Dehe ringraziare che l’avvohato è un amiho di famiglia. Mi porti i sordi... Arrihederci, deho andà di horsa in ospedale. Ier notte quì bischero dì mi marito s’è sbraciolaho l’indice, ì medio e ì pollice cò un petardo». «Boia!» eruppi rammentando il sangue rappreso davanti l’ingresso principale del

palazzo. «Diciassette punti di sutura quel bischero!» dichiarò «Lo mandano a casa la prossima settimana». «Saluti caldamente...». «Provveda ai sordi!» interruppe «Martedì, mercoledì prossimo!» ripeté troncando la comunicazione. Posai la cornetta rimanendo sul materasso disfatto, ragionando su quell’esistenza sgualcita. Smorzai la cicca sul castagno già bruciacchiato della scrivania piantando entrambi gli avambracci sotto il cuscino. Viola rientrò nella camera da letto. «Teresa?» interpellò così felice da ridare una volta ancora quella strana impressione d’essersi appena scartata dall’imballaggio mentre al contrario io dovevo apparirle così smantellato, sia giorno sia di notte. «Carino!» replicai e giunse a baciarmi legando la chioma in una coda, denudando quel collo che sosteneva essere deforme e striminzito ma che in realtà sembrava un capolavoro di contrappesi degno di Leonardo Da Vinci. «sca o Camilla?». «Camilla!» approvai «Mi piace!». Viola rise a fior di labbra. I rumori della città si smorzarono, il vento cominciò a sbuffare a singhiozzi. L’Arno intanto defluiva pigramente. Restammo abbracciati il più a lungo possibile. La guancia di Viola incollata sul petto così che potessi ficcare il naso sul fondo dei suoi capelli bruni e odorosi.

2.

Viola vomitava spruzzando gettate d’acquolina verdastra nel gabinetto. Cartocci di viscidume nonostante mangiassimo niente. Dall’ultima spesa non avanzò neppure cinquecento lire. Calzai le scarpe e bussai alla porta. «Amore?». «Sì?» gorgogliò. «Tutto ok?». «Si!» dissimulò, dopodiché vomitò di nuovo. Tirò lo sciacquone, deterse la bocca e riemerse dal bagno col volto marchiato da sforzo e spossatezza. «Filippa?» suggerì. Incurvai le sopracciglia dubbioso. «Magari Cristina!» incalzò. «Cristina è un bellissimo nome!». «Le chiavi sono agganciate al chiodo dell’ingresso» comunicò dopodiché, mandandomi dei baci, infilò in camera da letto. «Ti amo...» mormorai, ma dubito l’avesse udito. In strada, disposto a scazzottare con quel giovedì 2 gennaio 1992, un bagliore m’infastidì e quasi accecato fui costretto a strizzare tutta la faccia per perfezionare la vista. Il cuore non mollava un momento e provare quella sgradevole sensazione del pollo appeso per le caviglie. M’aggirai tra le viuzze di Firenze finché finalmente scovai un cartello nella vetrina d’un panificio: “Cercasi personale”. Il proprietario, incastrato nella seggiola per un didietro da bovino, braccia lanose, infarinate, biascicò col mento inquadrato e scabro, coi baffetti compatti ed il buzzo che pendeva morbidamente come un cuscino di piume. Affaticato dall’alzataccia ruminò: «Ì che tu sa fare?»

«Tutto. Imparo velocemente». Assentì col collo taurino imprigionato tra le scapole, dopodiché, d’un tratto, iniziò ad osservarmi come se mi contasse i peli sul mento. Detestavo la maniera con la quale la gente ricordava. Grattai la testa contemplando le scarpe strusciate di gomma. Quando incrociai nuovamente lo sguardo del panettiere, non ciancicava più la mollica e capii che probabilmente... «Che t’ho mai isto prima?». Corrugò la fronte flettendo le sopracciglia. Esibì degli incisivi sghembi, grigiastri, sempre ruminando quella pallina di midolla e inspirando ossigeno nel momento in cui lo consumava. Un’espressione implacabile bloccata sui miei lineamenti impacciati. «Ridimmi i tu nome» ordinò. «Filippo» borbottai ed il panettiere si concesse un ulteriore momento di riflessione ma alla fin fine si spalpebrò sostenendo: «Filippo Dellaria?». Assentii malinconicamente grattando i dorsi. L’espressione inebetita del panettiere che serrò la gola picchiò energicamente sulla mia mascella debole. Tossì nei pugni sollevando nebbioline biancastre. Percepii lo stomaco contorcersi e sanguinare. Non soddisfatto il panettiere ripeté: «Mica quel Filippo Dellaria?». “Potrebbe esisterne un altro?” rimuginai. «Allora per il lavoro?» tagliai corto ma il panettiere aspirò imbottendosi i polmoni, gonfiando il torace. «Spiacente...» disapprovò col testone. «Ho urgenza di lavorare!». «No...» confermò «Troppi problemi».

Le pupille mi dardeggiavano indignate. Il panettiere accorgendosene cavalcò subito una certa agitazione. «Esci di chi per favore...» balbettò tentando di rialzarsi. Grufolava, armeggiava sui braccioli cercando di disincagliarsi dalla seggiola che lo ingabbiava. M’avvicinai raggelandolo. Tartagliò parole sconnesse mentre gli afferravo entrambi gli avambracci rimorchiandolo via con un forte strattone. La sedia slittò indietro rimbalzando sui i di ferro. Schiaffeggiai i palmi infarinati mentre il panettiere indicò nuovamente l’uscita. Lo misurai freddamente, infine girai sui tacchi avviandomi all’uscita. «Oh!» bofonchiò d’un tratto. Voltandomi lo scoprii a riempire di focaccia un sacchetto di carta, dopodiché ondulò sulle ginocchia nodose consegnandomelo. «Buona fortuna!». Assentii prima d’uscire. La lingua di cielo sopra gli edifici di Via dei Calzaiuoli era un mantello elettrico, la temperatura glaciale, ma l’aroma che effondeva quel sacchetto di carta, mi rincuorò. Lo avvinghiai amorevolmente come una bambina. Con quel piccolo patrimonio aderente al torace, le attività commerciali da Piazza del Duomo a Palazzo della Signoria mi trasmisero soltanto squallore e derisione. Una signorina longilinea, platinata, fuoriuscì da un’oreficeria con un baccano di tacchi a spillo che ricordavano l’andatura degli zoccoli d’un cavallo. Capelli precisamente in piega che rimbalzavano con cura. Nel contemplarla incappai nelle occhiatacce d’un commerciante con un aspetto legnoso che sull’ingresso della propria maglieria, mi esaminava ombroso. Sopracciglia diradate, gozzo massiccio, espressione immobile. Sembrò mormorare tra sé “Assassino!”, soffocandolo con qualche timore. Allungai l’andatura avvertendo punture di spillo al basso ventre. Barcollai come un pugile suonato patendo la fame ma aspettando diligentemente d’aver varcato l’ingresso prima d’affondarci dentro completamente. Produssi intere sacche di saliva che stentavo a deglutire. Viola mi raggiunse scoprendomi entusiasta che sfilavo le focacce dal sacchetto ed ammonticchiavo sulla tavola della cucina.

«Lavoro?» domandò, e quell’entusiasmo si smorzò all’istante. Dissentii e quando s’informò sulla motivazione, replicai soltanto: «La solita...». Viola incurvò quella meravigliosa boccuccia, dopodiché abbrancò un ritaglio di focaccia assegnandole proprio un gran morso. Ci sfamammo e dopo c’infilammo sotto le coperte scaldandoci l’un con l’altra. La sonnolenza arrivò rapidamente per Viola mentre io rimasi ad aspettarla e quando finalmente m’accolse con sé, mi torturò con i soliti orribili incubi.

3.

Un cielo intriso d’acqua come una spugna prometteva un acquazzone mentre l’intera città sembrò esitare sotto gli ombrelli. Capodanno era oramai lontano tre giorni ma Firenze ancora risistemava il trucco. Riordinai le ansie ficcato sotto il piumone quando goccioline d’acqua iniziarono a scoppiare contro il vetro della finestra. «Ho appuntamento dal ginecologo!» annunciò Viola con tono sgonfiato. Mugugnai inabissandomi ancor più sotto al piumone. Rise a fior di labbra e quando percepii chiudersi il portone d’ingresso, stropicciai coi palmi quella mostruosa faccia scavata. Contemplai il soffitto per circa un’ora. Quella macchia di muffa nell’angolo che non voleva saperne d’asciugarsi. Durante l’anno ci applicai dozzine di prodotti, ma trascorso un tot ritornava a stendersi come inchiostro su d’un fazzoletto di carta. Rannicchiandomi in posizione fetale tentai di distrarmi avvertendo però un sonno smisurato. Durante la nottata rimuginai di continuo, girandomi e rigirandomi, numerando gli sbuffi e i sospiri di Viola, dolce come zucchero. Cucinava per me, lavava, puliva, m’amava, sussurrava parole deliziose e, in cambio, la trascinai nella profondità di quell’inferno. Terribili angosce m’attorcigliarono l’animo come fili da pesca attorno al collo d’un cigno finché, d’un tratto, ricordai ogni singolo gesto di quel pomeriggio terrificante: il rivestimento logorato dei sedili dell’Alfa Romeo di Paolo, il madore appiccicaticcio delle ascelle, Sante che grattugiava nervosamente il barbone, Cecilia troppo nervosa e poi il mutismo di Caterina che contemplava Firenze aldilà dei finestrini dell’auto. Affondando nel torpore d’un sonno improvviso, rividi la consueta carrozza trainata da una coppia di corsieri che squarciavano l’oscurità con un martellamento di zoccoli ed uno strofinio di ruote che rigavano la strada limacciosa. I corsieri si fermarono di fronte a me e dalla carrozza apparì Fabrizio col torace crivellato e colante. Spalancai le palpebre sobbalzando e piagnucolando col cuscino sulla faccia. Dopo di che, spalancando la finestra, ammirai Firenze affogare sotto un

nubifragio persistente, tutta annaffiata e ingrigita, respirando l’umidità ed il tanfo palustre sprigionato dall’Arno. Qualche minuto dopo filavo sotto l’architrave all’ingresso principale d’un palazzo di Borgo San Jacopo, schiacciandoci la schiena, tamburellando i denti per il freddo. Uscire non fu un’idea brillante, tuttavia potevo sopportare quattro gocce d’acqua ma molto meno quel mare di sfortuna che trascinò la mia goletta in tutti i porti del mondo. Un cucciolo venuto al mondo nella savana, tra fronde basse e sterpaglia, tra branchi di leoni e sciacalli veloci nell’approfittare del primissimo momento di debolezza. A chi importava che rimanessi a guerreggiare tra animali feroci? A nessuno. Non cessava un momento di diluviare e rimasi in quell’angolo di Firenze a contare gli schizzi d’acqua. Una moltitudine di persone percorreva Borgo San Jacopo correndo, totalmente concentrata sui problemi propri. “Dodici anni estraneo dal mondo e non conti niente...” riflettei. “Nemmeno gli abiti che indossi...” e per di più pativo la fame; i crampi allo stomaco divennero una dolorosa costante. Mi sfamavo con le fragranze della città e poi d’un tratto, mentre rimuginavo, un tale nascosto dall’ombrello si sbracciò chiamandomi. Una criniera giallastra, accompagnata da una risatina scimunita mentre s’avvicinava schivando le pozzanghere, sembrò familiare. «Filippo!» squittì. «Roberto?» bofonchiai sbalordito. Non incrociavo quel furfante da ben quattordici anni. Anima torbida ed ingegnoso scassinatore dalle sembianze d’un cherubino. «Oh bischero!» eruppe ed esaminandomi soggiunse: «Maremma bonina, E tu fà impressione!». Ci abbracciammo mentre diluviava sempre più crudelmente. M’infilai sotto l’ombrello appoggiandogli il braccio sulle spalle. «Offrimi un goccetto». «Certamente». eggiammo sotto quel temporale scrosciante, protetti da quel minuscolo

ombrello, premendoci uno contro l’altro come innamorati. Risalimmo Via De’ Guicciardini poi voltammo in Piazza Santa Felicità e su per Via De’ Bardi. Frenammo di fronte l’ingresso principale d’una casetta di Via San Miniato. Consegnatomi l’ombrello, Roberto frugò nelle tasche del giubbotto intanto che gli riparavo quel testone color miele permettendo ad un bicchier d’acqua d’entrarmi attraverso il collo scoperto giù per la schiena. La strada era nera color petrolio e scivolosa come l’olio. La luce lattiginosa del pomeriggio, che s’affievoliva mentre la giacca oramai completamente intrisa d’acqua, gravava sulle spalle ossute. Finalmente entrammo e con enorme meraviglia scoprii una casa parecchio ordinata. Roberto, rimuovendomi la giaccia fradicia, nemmeno smettesse una armatura, pronunciò: «Lo appendo ad asciugare» accedendo sveltamente in un’altra camera. Smaniavo per un sorso di gin, vodka, brandy, porto, solvente, carburante, detersivo per piatti fuorché della altra acqua di rubinetto. Quando Roberto ritornò collocando ciocchi di legna e fogli di giornale nel caminetto, apparve stranamente irrequieto ma appena avvampò una fiammella, dimenticai tutto prendendo posto davanti al focolare. All’esterno gocce d’acqua delle dimensioni delle noccioline americane mitragliavano le vetrate del soggiorno. «Vivi a Borgo San Jacopo?» interpellò Roberto. «Sì». «In affitto dai Credentino?». «Come lo sai?». Roberto ridacchiò con la faccia tirata, dopodiché agitò i boccoli dorati levando un pacchetto di Camel dai pantaloni, proponendomelo e schivando così la questione. Imboccai subito mentre Roberto arrotolò una pagina di giornale incendiandone l’estremità nella brace. «Pasquale Credentino s’è trucidato le dita!» raccontai ciucciando caparbiamente, sprigionando impalpabili nuvolette. «Un petardo a capodanno...».

«Celeste provvidenza!» esclamò Roberto. «Lo dimettono la prossima settimana» informai, dopodiché precipitammo entrambi nel silenzio fissando la danza ipnotica della fiamma. Le guance avvamparono, le pupille lacrimavano per la fuliggine. Roberto sospirò aspirando grandi boccate, infine m’invitò ad accomodarmi su una delle poltrone. Il capo flaccido, le cosce incendiate mentre smaniavo ancora per un sorso di liquore; non divenni un bevitore incallito fin quando Caterina m’attaccò il vizio. Mugugnai tra me e me qualche imprecazione. Roberto tossì, prendendo coraggio: «Hai ancora rapporti con...?» abbozzò Roberto senza neanche terminare la frase perché comunque capimmo entrambi l’allusione. Negai muovendo solamente i bulbi e assieme al contorcimento delle budella cominciarono a prudermi i dorsi. «Scusa...» pronunciò Roberto gettando la cicca nel caminetto e chiudendosi a chiave in bagno. Allungai le caviglie e scivolai avanti allungando i piedi in direzione del calore finché tornò a pungolarmi quell’ardente smania d’alcol. Setacciai sveltamente ogni sportello fintanto che stanai le bottiglie di liquore. Acchiappai la più vicina zampettando furtivo al portone d’ingresso sistemandola sulla soglia, con quel temporale determinato a sciacquare l’intero mondo. Osservai l’enorme torta di more e mirtilli del cielo sopra Firenze che desiderai riuscisse a nascondere agli angeli quei nostri cuori avvelenati. Riaccomodandomi in soggiorno asciugai le goccioline d’acqua che mi puntinavano il viso. Poco dopo Roberto emerse dal corridoio di nuovo nervoso. «Roberto... Hai denaro da prestarmi?» lo sorpresi. «No, sono all’asciutto...» replicò mentre adocchiai la cicca totalmente fradicia che rapidamente gettai nel caminetto. Roberto precipitò sulla poltrona come sparato al petto. «Nemmeno cinquantamila lire?» implorai umiliandomi. Roberto si rovistò nelle tasche dei pantaloni cavandone banconote accartocciate. Trentamila lire. «Non ho nient’altro!». «Grazie, li restituirò».

«Falla finita...» obiettò ramazzando l’aria con un movimento del polso. «Consideralo un regalo in memoria dei tempi andati» «Giuro!» contestai. «Ma stai con le pezze al culo! Hai forse in progetto di rapinare i Credentino?» proruppe ridacchiando, accarezzando la criniera mentre, pensieroso, maturai subito un’insensata fantasia. «Grazie di tutto...» asserii infine schiodando dalla poltrona. «Non t’ho ancora offerto nulla!» protestò Roberto. «Ho chiuso con l’alcol». Amareggiato ed esitante soggiunse: «Ti prendo la giacca». All’ingresso Roberto mi lisciò la schiena, scherzando con un ghigno di porcellana: «Ho solamente quest’ombrello, altrimenti...». «Non preoccuparti...» replicai «Meglio che non vieni fuori... Ti bagneresti». «Ah, Filippo!» fuoriuscì bloccandomi «Potrei telefonarle... Insomma, ho un numero da usare per le emergenze». «Sopravvivrò...» replicai «E in ogni modo non ho proprio intenzione di riparlarle, tantomeno chiederle aiuto». Roberto assentì. «Ti scrivo questo numero di telefono...» annunciò scribacchiando delle cifre sul block notes e strappando la pagina. «Per ogni evenienza». Accartocciai il foglietto in tasca dei pantaloni e, congedandomi, spalancai il portone d’ingresso. La giacca restò asciutta soltanto il tempo d’infilzare la bottiglia nella tasca e discendere Via di Niccolò. Le falangi divennero di ferro e battevo i denti. In Via de’ Bardi, con polpacci di legno e una smorfia furiosa, marciai in Borgo San

Jacopo col cuore dentro un uragano. Le facciate moderne si prendevano tutta quell’irragionevole collera d’acqua. Sfiancato, alla Torre dei Rossi-Cerchi, all’angolo di Borgo San Jacopo, montai i gradini della Fonte di Bacchino, ficcandomi nella cavità della parete che custodisce la scultura. Scrutai il bronzo del Bacco al Borgello impegnato nel gesto di versare il contenuto d’una coppa. Raffigurai nella mente il volto di Viola, la chioma bruna, ondulata e quelle iridi pervase di luminosità. Ciò nonostante, quell’appariscenza fu subito sopraffatta dal rumore stridente dei pneumatici, dall’ululato della sirena, da un carabiniere che smonta frettolosamente dall’auto. Impedito dall’uniforme, Fabrizio ha un’espressione austera mentre la pistola gli s’incastra nella fondina. «Spara! Spara!» mi sbraitano nelle orecchie. Spedii indietro alcune ciocche inzuppate e m’incamminai di nuovo in direzione di Via Borgo San Jacopo con la consueta angoscia a tracolla.

4.

Sgocciolai fradicio nell’atrio per un po’, dopodiché montai gli scalini fermandomi sul pianerottolo dei Credentino. Proprio Roberto m’insegnò i trucchetti necessari a sce le serrature non blindate. Al termine di quel breve apprendistato riuscivo a forzare qualsiasi portone adoperando semplicemente spille da balia, fermacapelli, spilloni, clip. “Magari potessi...” rimuginai, ma scaraventai via quell’idea montando le restanti rampe di scale. L’appartamento gelido, lugubre quanto una caverna. Precipitò una saetta talmente vicina che sembrò are dalle scale. Tolsi il tappo della bottiglia dalla plastica che lo sigillava trangugiando subito una gran sorsata col temporale che intanto crebbe d’intensità e le pareti diventarono insopportabilmente madide e ghiacciate. «Basta!» grugnii mollando la bottiglia di liquore e affrettandomi giù dalle scale. Mi fermai di fronte all’appartamento Credentino spingendo ripetutamente sul camlo. Nessuna risposta come supponevo. Rimontai le rampe di scale filando nel bagno e spulciando tra le cianfrusaglie di Viola, dopodiché ritornai indietro. Adoperando un fermacapelli ed una limetta per unghie trafficai sulla serratura che alla fine cedette scorrendo laterale. Provai una certa soddisfazione mentre scivolavo furtivamente all’interno e richiudevo il portone d’ingresso. Un acuto tanfo d’umidità e colonia dozzinale appestavano l’aria mentre abbrancati dei ciocchi di legna ritornai sveltamente al portone d’ingresso. Istintivamente frenai sulla soglia origliando i rumori del soggiorno, del tinello, del pianerottolo. Posai i ciocchi ispezionando l’ambiente e fu subito evidente dove i coniugi Credentino celassero la cassaforte: il quadro col paesaggio rupestre lievemente inclinato fu il primo indizio. Scostandolo esaminai il modello d’una comune cassaforte a parete con combinazione meccanica. «Sono forse impazzito?» farfugliai risistemando il dipinto e svignandomela. Sul pianerottolo concentrai l’attenzione nello scroscio del temporale che macchiettava sull’asfalto provando a captare il rumore d’eventuali i, colpi di tosse o lo strusciare di vestiti. Rinserrai il portone d’ingresso e tornai

all’appartamento con i ciocchi di legna sottobraccio. Di fronte al caminetto il cuore rullava ferocemente mentre sistemavo il sacchetto del fornaio al di sotto dei ciocchi. Avvampai il tutto con un cerino, creando uno splendido falò scottante sul quale cuocere il senso di colpa. I ciocchi arsero nel modo migliore e, con la fiamma che aumentò prepotente, richiamai alla memoria papà. Conservavo ancora da qualche parte una fotografia sgualcita nella quale cingeva mamma con un risolino presuntuoso sopra una corporatura smilza, capigliatura color pece e pupille brillanti che finirono trascinate via dal fango, arrotolate nel minestrone d’un allagamento imprevisto e in una maniera talmente assurda da staccarsi le unghie a morsi; ma simili disgrazie si commentano da sole.

***

«Un nì smette un attimo!» informò papà col grugno fuori dalla finestra per studiare quell’acquazzone che inondava Firenze mentre io coloravo un aeroplano sul blocco da disegno della scuola elementare al tavolo della cucina e mamma rattoppava calzini. «La parata?» richiesi. «Un lo so Filippo... E mi sembra difficile che la facciano» replicò adorabilmente. Quel pomeriggio l’idrometro dell’Arno oltreò l’altezza di otto metri. I gigli, i tricolori appesi nel centro storico sgolavano impregnati dal nubifragio incessante, ma i fiorentini s’auguravano di festeggiare quel 4 novembre nonostante da Arezzo arrivassero comunicati inquietanti. L’Arno più tardi tracimò a Montevarchi, Figline Valdarno, Incisa in Valdarno, Rignano sull’Arno, Pontassieve. Le nevicate di quei giorni sciogliendosi ingrossarono fiumi e torrenti già traboccanti e quella nottata trascorse con la cadenza incessante del nubifragio che ticchettava sulle imposte della camera da letto. Papà restò irrequieto tutta la mattinata, il pomeriggio e anche la sera successiva, piantonando quella bufera covatrice di sventura. Alla fin fine si abbandonò

nell’abbraccio di mamma e tutti e tre assieme ci raggomitolammo supplicando che quella nottataccia asse alla svelta quanto uno starnuto.

«Ì che l’è?» proruppe papà sussultando improvvisamente. Mamma si risvegliò impaurita accendendo la lampada sul comodino e torcendo la faccia insonnolita. «Una botta allucinante!» ribadì papà spalancando le persiane subito irrigato dal temporale fino all’elastico dei pantaloni del pigiama. «Maremma maiala!» sbraitò «E gl’ scoppiano i tombini!» «Gl’è un freddo... Si bubbola!» gridò mamma e papà smoccolò rinserrando le persiane e andando di corsa a telefonare. Il tono metallico del nonno sembrò sprigionarsi da un grammofono. Litigarono come d’abitudine finché papà attaccò la cornetta rinfilandosi corrucciato tra le lenzuola. Mamma smorzò la lampada carezzandogli il capo ancora umido e c’abbracciammo l’un con l’altro per l’ultima volta, mentre qualcheduno da fuori inveiva contro quel temporale inclemente.

«Icchè tu fai?» bisbigliò mamma scivolandomi armoniosamente nel sonno. Dischiusi le palpebre intontito e nelle orecchie s’accavallarono un insieme di parole ed un fruscio confuso. La lampada sul comodino rischiarava un’altra volta la stanza. «Chetati!» protestò papà concentrato, col profilo grifagno appiccicato alla radio. «Madonnina Santa!» s’irritò mamma per quell’agitazione a parer suo inutile, ignorando però che il fiume Mugnone ruppe gli argini a Parco delle Cascine e che da lì a poco ogni cantina venne sgombrata in fretta e furia. Tuttavia udendo il frastuono proveniente dall’esterno, esclamò: «Bada lì che casino!» cambiando tono d’un tratto, sorpresa, mentre papà prono sulla radio, continuò a mangiarsi le unghie come patatine. L’Arno allagò Lungarno Benvenuto Cellini, Via De’ Renai, l’Oltrarno storico, San Niccolò, San Frediano, L’isolotto e San Bartolo a Cintoia e Santo Spirito. «Porco mondo!» proruppe papà con tono rabbioso additando la radio. «Santo Spirito... Miseria ladra!».

Mamma lo inseguì mentre raggiunse di nuovo al telefono. Io le zampettai appresso coi piedini scalzi sul pavimento gelido. Il telefono del nonno squillò finché ascoltammo quel vocione arrochito pronunciare: «Chi l’è?» «Babbo! Come l’è?». «Maremma impestatha... Se tu mi lasciassi dormire dì morto meglio!» «Che dormi co ì diluvio universale fori dalla tù porta?» «Icché fò? Vò fori a levà l’acqua con ì secchio? Tu se’ duro come le pine verdi!» contestò nonno un attimo prima che saltasse la corrente elettrica troncando la comunicazione mentre papà restò con la cornetta in pugno a pigiare ossessivamente sulla tastiera. «Pronto?» sbraitò «Pronto?» infine agganciò fissando mamma nell’oscurità nella quale sprofondò l’intero quartiere. «Vò!» proruppe. «Dove? Che chiorba dura t’hai?» balbettò mamma acchiappandogli la manica del pigiama. Mi sospesi immobile mentre mamma setacciò i cassetti arrivando infine ad accendere qualche candela. Quando le fiammelle lumeggiarono il tinello, papà già infilava il soprabito. «Vò a prenderlo prima che s’allaghi d’ogni hosa» asserì calzando degli scarponi, rassicurando mamma con qualcuna di quelle occhiate amorose e sbaciucchiandola con quelle labbra ammorbidite d’amore. A me consegnò un buffetto, strizzò l’occhiolino e poi si scapicollò giù per le rampe di scale. «O aspetta a andà fori!» strillò mamma inutilmente.

Dei diciassette cadaveri rinvenuti dopo l’alluvione, papà non c’era: “Ufficialmente disperso” e al funerale, parecchie settimane dopo, ricordo che le palazzine sul Lungarno Acciaiuoli somigliavano a disegni sui libri per bambini ed il vestito di mamma profumava di nardo.

***

Mi svegliò Viola attorno alle diciannove. Un’acque-rugiola fastidiosa e cattiva aveva rimpiazzato il nubifragio. La testa era un mattone ciondolante. «Ciao...» miagolai. «Dove hai comprato la legna e questa bottiglia?» attaccò subito col volto incallito. «Il dottore? Novità?» domandai, schivando quel proiettile ma Viola, magnifica e irritata, una cascata incontaminata nella foresta amazzonica, un trampolino a strapiombo su una rupe, incalzò: «Rispondi!». «Cos’è?» chiesi indicando la pentola di terracotta sul tavolo. «Zuppa di ceci di mamma» rispose intendendo che avrei continuato imperterrito ad evitare domande sul liquore. «La riscaldo!» stabilì rassegnata. Scappai in bagno aggiustando continuamente la direzione. Oltreata la soglia d’ingresso, risalì dallo stomaco una bolla acidula che rigettai nel gabinetto con la stessa veemenza d’uno sparaneve. «Miseria!» ansimai svigorito, supino sul pavimento. Svestendomi m’infilai in doccia finché quasi sciolsi i polpastrelli. Dopo di che, scovato qualche indumento pulito, trillò il telefono. «Pronto?» rispose Viola «Pronto? Pronto?». Riagganciò intanto che ritornai in salotto. Lo stomaco rombava per appetito e bruciore di stomaco. «Chi era?». «Hanno riappeso...» confutò Viola servendo una porzione fumante. Sedetti

sorreggendo faticosamente il cucchiaio finché lo riversai in gola, inghiottendo con un ghigno ebete. Ingurgitai famelico senza concedere sosta al cucchiaio al fine di rinviare ogni eventuale conversazione e contemporaneamente rimuginai sulla cassaforte dei Credentino, sull’incontro con Roberto, sulla prigione, su mamma che non incontravo da dodici anni e su papà con lo stomaco rigonfio di melma. Viola mangiava anch’essa taciturna. Mi risalì una fitta al ventre e bloccai il cucchiaio. Viola m’osservò impensierita. Boccheggiai finché gli spasmi svanirono come pinguini che scivolano sulla pancia. Viola ricolmò i bicchieri con acqua di rubinetto. La chioma raccolta, il viso contratto in un freno d’attesa. Continuai a mangiare facendo i conti con la vita come un torero delle corna del toro. «Dal ginecologo?» chiesi mentre Viola levava i piatti e l’afferravo per i glutei baciucchiandole il pancino. «Sazio?». «Sì» risposi infilandole l’indice nell’elastico dei pantaloni. Viola disegnò un sogghigno forzato divincolandosi ancora arrabbiata.

***

Una pioggerella risciacquava Firenze e Viola già sonnecchiava. Di nuovo insonne percepivo sulla lingua il sapore della crema con la quale Viola si cospargeva il corpo. Contemplando quella maledetta macchia d’umido avvertii la schiena dolorante e indurita dall’umidità. Raggiunsi la finestra tendendo un orecchio verso l’esterno: piovigginava ancora. Riflettei sulla cassaforte e, eventualmente, su come assicurarmi di realizzare un furto come si deve. “Per entrare nessun problema. Per la cassaforte potrei domandare a Roberto, dividendo magari il malloppo... No, meglio non coinvolgerlo, tuttavia qualche trucchetto per scla potrebbe insegnarmelo. Ovviamente evitare ogni traccia perché i sospetti ricadrebbero subito su me: sull’affittuario delinquente... Non dovrei lasciare alcun indizio...” Ma cacciai rabbiosamente quelle fantasie quando Viola domandò: «Insonnia?».

Assentii origliando nel temporale, nello sciabordio dell’Arno ingrossato e figurandomi nella mente papà quando fu sopraffatto dall’alluvione: l’impotenza mentre s’agitava nell’acqua limacciosa, il corpo trascinato agevolmente dalla fiumana o quando affondò col gusto acre del fanghiglia nella gola, sulla lingua. Ricordai il volto terrorizzato di mamma nell’attesa del suo ritorno mentre dagli altri edifici del quartiere comparvero mano a mano flebili fiammelle di candela e presto San Frediano somigliò ad un camposanto. Sembrò quasi di riavere nelle orecchie il latrato inconsolabile di mamma nel momento in cui la informarono della conclusione delle ricerche e lo scoramento che provò per un corpo mai restituito, disperso, arrivato chissà dove e per un feretro vuoto, le esequie senza defunto e, come sempre, si accavallarono a quei ricordi i flashback di quel pomeriggio del 1978: il madore gelido sgolante sulla schiena, Fabrizio con l’uniforme immacolata, l’impugnatura ruvida della rivoltella, il fragore del proiettile, il tonfo d’un corpo che schianta sull’asfalto e Dio, che osservava immobile e senza far nulla.

5.

Firenze somigliava a un luccioleto e Viola teneva del pulviscolo nei capelli, arrivato lì chissà in che modo. Entrambe le mani che intiepidivano sotto le ascelle mentre cicalava tutta appallottolata. «Come?» saltai su distratto. «A chi assomiglierà?». «Alla mamma, auguriamoci». «Chissà...» sospirò «Ho sognato di partorirla morta». «Viola!» proruppi «Andrà tutto per il meglio!» la rincuorai, ma parve ugualmente preoccupata. Carezzandola mi tirai su entrando in bagno, ruotando il rubinetto d’acqua calda e restando in attesa inutilmente. «No!» sbottai. «Che c’è?» domandò Viola notandomi filare in direzione del cucinotto dove tentai d’avviare un fornello della stufa. Mollai un cazzotto al pianale che riecheggiò per l’intero appartamento. «Filippo!» ammonì Viola scioccata, raggiungendomi con sguardo micidiale. «Hanno tagliato il gas...» annunciai sgomento. Il volto di Viola cambiò: da sorpreso a inquieto a infinitamente sconsolato. Si trattenne dal piagnucolare limitandosi solo ad abbracciarmi. Mi ritrovai di nuovo al tappeto, battuto ancora come negli ultimi dodici anni, dopo ogni nuova ripresa ata a scazzottare sul ring della vita, tentando di rimanere in piedi nonostante quei ganci potenti sul grugno e dopo aver versato sangue dalle gengive, dalle sopracciglia squarciate. Implorando il suono della camla per ognuno di quei dodici interminabili round contro un avversario più massiccio, più rapido, più preciso nell’affondare i colpi, più resistente, più allenato. Io ormai con gli zigomi sempre più gonfi, lividi, ossa rotte, muscoli doloranti, gambe molli, spompato e coi polmoni in

fiamme, denti rotti, costole incrinate e una gran voglia di mollare, arrendermi finalmente, crollare al tappeto per risvegliarmi in un letto d’ospedale, augurandomi soltanto un rivale più scarso, per tentare di vincere, ogni tanto. Viola abbassò lo sguardo e me l’avvicinai sbaciucchiandola con mestizia: un lieve colpetto di lingua pieno zeppo di perdono. Restammo annichiliti finché Viola affermò speranzosa: «Troverai una soluzione...». «Non troverei una prostituta in un bordello» contestai sopraffatto e Viola abbozzò un sorriso, anche se le spiaceva, consapevole oramai di quanto velocemente precipitassimo, poi m’umettò le guance di baci. «Chiederò altro tempo alla Credentino. Tra gentildonne ci s’intenderà». «Come il ragno con la mosca...» ribattei tagliente, persuadendomi che derubarli sembrava sempre più l’alternativa migliore. Quelli come loro lo meritavano. Avvertii lo stomaco manovrare con rumori di ferraglia e rimuginai su papà e quel mignolo di fortuna che gli mancò sempre e sulla placida disperazione di mamma. L’ipotesi di svaligiare i Credentino appariva sempre più una soluzione inevitabile.

***

Sabato mattina camminai per Borgo San Jacopo con umore disinvolto, nonostante richiamai alla mente l’immagine di Viola china sul gabinetto a vomitare l’anima. Deglutendo, la laringe mi vibrò come se pizzicasse corde di chitarra. Piovigginava, naturalmente. A Viola impartii il compito di telefonare alla Credentino mentre io tentavo di reperire un lavoro. Oltreai Ponte Vecchio, poi Via Por Santa Maria, via Roma ed entrai nel caffè di Piazza del Duomo accomodandomi nell’angolo del salone principale. Rivolsi lo sguardo al battistero di San Giovanni, plumbeo, con il bianco marmo di Carrara e il verde di Prato sbiaditi come l’intera città.

«Signore?» domandò la cameriera grassottella: avambracci enormi, guance paffute, la chioma indurita dalla lacca. «Caffè, grazie». «Nient’altro?». «No». Roteò sulle scarpette da ginnastica mentre io, accompagnandola con lo sguardo fin dietro al bancone, concentrai l’attenzione sulla camicetta che le bendava i rotoli, tirandosi sulla schiena. Mi gingillai con la zuccheriera e pettinai qualche ciuffo increspato dall’umidità mentre un gentiluomo cominciò a sorvegliarmi impiccione. Espressione incredula. Diede un’imbeccata alla moglie che si voltò anch’essa sbalordita, raggrinzendo il volto indignata. Rialzai il bavero e grattai i dorsi fingendo di non badare a loro. Mi costrinsi a rivolgere lo sguardo da un’altra parte, prediligendo una signora dal volto incavato che indossava un cappuccio di lana e larghi occhiali neri che le nascondevano metà volto. Una nebbiolina si sprigionava dalla tazza che sorreggeva qualche centimetro davanti al nasino impercettibile. Nocche deliziose, eppure non mi resi conto. Gote puntute, eppure non mi resi conto nemmeno a quel punto. Ciocche color pece, crespe come nessun’altra, eppure nemmeno a quel punto la riconobbi. Un chiarore opalescente, rimbalzando sulla vetrata, le si posizionò sopra una guancia intanto che la grassottella ritornò col caffè che ingurgitai rovente, amaro, finché d’un tratto la signora di fronte si drizzò accomodandosi esattamente di fronte. «Ciao!» esclamò e morii soltanto con quell’unica parola. Le budella s’accartocciarono come lamiere in un incidente, il cuore galoppò impetuosamente nella prateria. «Usciamo...» accennò soltanto rialzandosi e ancheggiando, pagando per entrambi e percorrendo Piazza del Duomo. “Fermati Filippo. Vattene!” mi ripetei a cantilena, eppure m’affrettavo a raggiungerla; la curiosità lavorò meglio del rancore. Una corrente fiammeggiante sferzava Firenze e piovigginava ancora. Riparata dall’ombrello, marciò speditamente rimanendomi una dozzina di i avanti. Cumuli minacciosi e stupefatti parevano pedinarci mentre cantilenavo

sommessamente: “Vattene Filippo. Vattene!” ma intanto continuavo a starle alle calcagna. Venimmo giù da Via del Proconsolo verso Piazza Santa Firenze, poi dritto al Lungarno Diaz. Sull’Arno galleggiava una bavetta cremosa simile a detersivo. A Piazza Mentana rimontammo Via Mosca. In Via delle Brache s’introdusse nell’ingresso aperto d’una palazzina ma, quando la raggiunsi, mi proibii d’entrare. «Sbrigati!» suggerì dall’interno di quell’atrio lugubre e cavernoso attraendomi a sé. Alla fin fine mi introdussi dentro. Abbandonai l’ombrello a sgocciolare in un angolo dell’atrio mentre rimuoveva gli occhiali e scarcerava la chioma corvina dal cappuccio, frustando l’aria, dopodiché mi servì quella dentatura di porcellana. «Filippo... Quanto tempo è...». «Che cazzo vuoi?» tagliai corto. La rabbia, trattenuta per quell’infinito itinerario tra le vie di Firenze e per ultima dozzina d’anni, adesso mi schiacciava quanto il crollo d’una parete di mattoni. Ignorò l’espressione strappata, avvicinandosi e abbracciandomi con il volto piacevolmente fresco; io neppure la sfiorai. «Dimagrito?». «Che cazzo c’è, Caterina?». Snodò l’abbraccio, amareggiata, sciogliendo un foulard per poi ravvivare la criniera con larghi movimenti del polso. «Perché questa ruvidità? È splendido rivederti...» mormorò ancora. Nauseato, tentai di rimettermi in strada ma Caterina mi trattenne. «Ascoltami!». «Non toccarmi!». Il trambusto del temporale mascherava il grugnire del mio cuore che lanciava lamenti asmatici, rancido e infuocato. «Mi dispiace... Mi rendo conto di quel che...». «Zitta!» tuonai al massimo della sopportazione. «Non ti rendi conto di niente!» e

mi ci scagliai contro vociando. «Lo so...» asserì sommessamente. La spintonai. «Io...» provò a spiegarsi ma la ricacciai con fauci da lupo e pupille iniettate di rabbia. «Ti s’è consumata l’anima per aver ammazzato un innocente? Hai mai considerato l’idea di toglierti la vita conficcandoti nel polso un pezzo di vetro o appendendoti ad un cappio di lenzuola?». «No...» ribatté contemplando il pavimento, con mento tremolante, col mio indice innestato a baionetta. «Non permetterti più!» avvertii mentre annuiva singhiozzando. Parve un’altra persona paragonata alla condottiera spietata, severa e sicura di tanti anni prima. Fingeva ed era bravissima, purtroppo. Affannavo, vibravo e, impazzito, fuggii sbrigativo sotto il diluvio. Per l’urgenza d’andarmene scordai persino l’ombrello ma in quel momento desideravo correre e, seppur flagellato dagli scrosci d’acqua battente, filai via furioso, schiumante, disprezzando tutto: la città, i fiumi, i ponti, le colline, i marciapiedi. Disprezzando i fiorentini e tutta quest’umanità ripugnante, arrogante, cattiva. Disprezzando me medesimo e quest’aspetto ossuto, infossato e funebre. Questa mandibola arretrata, i denti scadenti, ingialliti, cariati, sghembi, spezzati. Pancia, piedi e tutti i peli uno ad uno. Le braccia magre, le spalle strette, i pettorali sgonfi e disprezzando anche il più microscopico degli essere viventi. Più tardi ritornai a Via delle Brache ma l’ombrello non c’era più. E adesso? Che avrei raccontato a Viola?

6.

«Come sarebbe rubato?» s’agitò mentre sogghignavo imbarazzato. «L’ho mollato un secondo e dopo non c’era più!». «L’unico rimastoci!» protestò Viola. «Lo so! Oggi ne recupererò un altro». Viola continuava a sgridarmi con quegli occhioni nocciola, le braccia intrecciate al petto, la graziosa pancina come pratico appoggio. «Dov’eri?» cambiò discorso senza infierire ulteriormente. Controllai il contenuto della pentola sulla stufa, consapevole che s’aspettava una risposta. «A cercare lavoro... Cos’altro?» spiegai. «E...». «Viviamo in un mondo di canaglie» sentenziai spalancando l’unica imposta della finestrella nel cucinotto affacciandomi sull’Arno. Annusai l’aria gelida carica d’afrori sotterranei. Viola m’osservava rigida. «Che c’è?» domandai. «Hai l’aspetto più pallido... Hai visto un fantasma?». «Più o meno...» mormorai incomprensibile, col fiume rigonfio che mugugnando m’aiutò a coprire quella risposta. Viola all’improvviso mi zompò addosso, mischiandosi con me, sfiorandomi fuggevolmente con la lingua. Infine si staccò scrutandomi talmente in profondità da schiaffeggiarmi il cuore. «E questo? Per quale ragione...?». «Ho telefonato alla Credentino...» bisbigliò lisciandomi i lobi con i polpastrelli. «Quindi?».

«Ha chiesto notizie sulla gravidanza...». «E...» ammetto d’aver nutrito una minuscola speranza. «Ha confermato che la prossima settimana ritirerà l’affitto. Non può più aspettare, sostiene». Lasciai cadere il capo all’indietro e Viola mi sbaciucchiò sul mento. «Scommetto che oggi troverai lavoro. Ho buone sensazioni». «Speriamo...» sospirai senza crederci affatto.

***

Viola s’assopì poco dopo essersi distesa. La osservai per un po’ contorcersi tra le lenzuola, successivamente sciacquai le ascelle e ciondolai nel cucinotto architettando una strategia d’uscita proprio nel momento in cui il telefono squillò e dovetti scapicollarmi nella stanza da letto per rispondere. «Chi è?» protestai sottovoce. «Ho l’ombrello!» risposero e diventai subito un blocco di marmo inanimato e gelido. «Perché hai questo numero?». «Possiamo incontrarci oppure preferisci che lo consegni alla “fidanzatina”?». Le arterie mi bollirono. «Chi è?» domandò Viola con tono sgonfio senza voltarsi. «Ponte alle Grazie. Quindici minuti» ordinai riagganciando. «Ma chi è?» incalzò Viola.

«Nessuno» ribattei e ovviamente Viola s’abbuiò in volto svelando all’istante quella bugia. Gola impastata, testa sfrigolante, le comunicai: «Ho bisogno d’uscire un momento. Ritorno tra poco». Velocemente indossai il giubbotto e uscii dall’appartamento, costringendomi ad evitare l’espressione inquieta di Viola.

***

Ponte alle Grazie valicava un Arno gorgogliante dopo la pescaia di San Niccolò, legando Via dei Benci e Piazza De’ Mozzi. Pungolato dalla pioggerella marciai furioso sul Lungarno Torrigiani con l’Arno burrascoso che, paragonato all’umore del sottoscritto, sembrava un poppante che reclama la mammella. Caterina attendeva sotto un ombrello carminio e un’enorme sciarpa candida arrotolata alla gola. L’ombrello di Viola inforcato all’avambraccio. Dal momento che mi riconobbe condusse la chioma con forza tutta indietro. Il cranio mi si frantumò di pensieri e respinsi delle bolle d’odio arrampicatesi su dallo stomaco. Ci tenemmo d’occhio a distanza. Per lungo tempo la incolpai d’ogni singola disgrazia accadutami, adesso la disprezzavo soltanto obbligandomi a scordare che l’amai con tutte le forze, ostinatamente fin dal giorno in cui dello zucchero le terminò sul mento e io glielo spazzai via col pollice. «Non scordartelo più! Potrebbero...» scherzò ma la bloccai subito. «Non azzardarti a telefonare di nuovo!» sbottai togliendoglielo incarognito; io un grande ruvido, lei una linea d’ombra. Immaginai di scaraventarla nell’Arno. Caterina diventò subito triste come un marinaio in pensione nostalgico della vita in mare. «Non c’era altra maniera...» affermò Caterina accostandosi alla balaustra, sbirciando quell’Arno prepotente e lurido che trascinava via sporcizia, rami, cartacce, plastica, preservativi usati. Ponte Vecchio restava di fronte, silenzioso. Il ruggito della corrente velò lievemente la voce di Caterina.

«Ti teniamo d’occhio dal giorno della scarcerazione». Pietrificai. «Chi?» chiesi scombussolato e Caterina sogghignò sfrontata, quasi orgogliosa dello sgomento che mi scoprì in volto. Rifiutai di crederci barcollando indietro, mani sul volto. Conoscevo la risposta ma non l’accettavo. Impossibile. «Non m’importa. Ho chiuso!» balbettai soltanto «Ho pagato e non m’interessa assolutamente rientrare». «Siamo in grado d’aiutarti» mi tolse la parola, Caterina, molto risoluta. In quell’istante mi sembrò d’esser tornato al 1978. «Non c’è bisogno... Riesco a cavarmela benissimo!» risposi eggiando e provando a scaricare l’inquietudine. «Roberto m’ha riferito del problema dei soldi!». Le indirizzai un’occhiata furiosa ma ogni parola mi occluse la gola. «Bastardo!» grugnii. “Iena, spregevole, vile”. A Roberto promisi di tutto. Accartocciai le trentamila lire che portavo ancora nella tasca dei pantaloni. «Accetta il nostro aiuto» proseguì Caterina e dovetti costringermi ad ignorare quel plurale nonostante ne conoscessi perfettamente il significato. «Finiscila! Ho già pagato...» proruppi «Non è abbastanza?». «Renditi conto che vogliamo aiutarti proprio perché non abbiamo dimenticato l’aiuto al movimento...» silenzio «E per me...». «Dimentica tutto!» suggerii «Ho chiuso con voi dopo il primo giro di chiave della cella a Sollicciano. Non m’interessa. Sono diverso. Lasciatemi vivere una nuova vita». Fissandola un istante, amaramente, mi voltai tornando indietro ma Caterina m’inseguì, testarda, ticchettando sull’asfalto. «Nessuno chiude col ato, Filippo! Soprattutto con noi!».

Mi bloccai per osservarla crudelmente. «Scommettiamo?» risposi arrogante, ritrovando un po’ del coraggio svanito. Proseguii per Lungarno Torrigiani e Caterina tallonandomi mi strillò sprezzante: «Non sopravviverai e sai perché? Nessuno prende alle dipendenze ex terroristi!». Frenandomi un’altra volta con Caterina qualche metro indietro, silente, la pioggerella divenne acquazzone che scrosciava sulle macchine che transitando sollevavano sbuffate d’acqua e onde basse. Spietatamente amorevole soggiunse: «Siamo gli unici amici che ti sono rimasti».

***

Viola s’accostò sinuosamente, da gatta, prendendomi un polso e portandomi sul materasso. Al risveglio dal pisolino pomeridiano trovò trentamila lire in sacchetti di spesa che la misero di buonumore. Visitai anche l’appartamento dei Credentino per recuperare alcuni ciocchi di legno, oramai comodo per quell’appartamento. Viola m’accomodò all’angolo del materasso e ubbidii senza chiedere nulla perché ritenni preferisse così. Si sistemò in ginocchio introducendosi col busto tra le cosce, slacciandomi i pantaloni, svestendo le mutande. Mi piegai tutto all’indietro, l’acciuffai per i capelli permettendole di continuare fintanto che tuonai con un ruggito sconcio. Ricaddi indietro col formicolio ai polpastrelli ma più calmo della calma. Viola di fronte che, sogghignando, annunciò: «Ho fame!».

***

Viola spuntò nel riflesso della specchiera del bagno regalandomi un risolino che, rimbalzandoci contro, finì per investirmi il cuore, colpevole perché Caterina m’attirava quanto il canto delle sirene con Ulisse. Incontrandola commisi un grave errore e quantomeno avevo l’obbligo di raccontare la verità a Viola. Nel caminetto cuocevano delle bistecche annaffiate col vino. Ci saziammo, gioimmo, conversammo, facemmo l’amore e, se per un istante richiamai alla mente Caterina, quello successivo dimostrai a Viola che era l’unica donna importante. S’addormentò tardissimo, mentre io dopo aver tentato a lungo, restai ad occhi sbarrati scandagliando l’oscurità, decidendo di cercarmi un lavoro nella giornata successiva ed eventualmente iniziare a meditare un piano per svaligiare la cassaforte. Basta con quella vita! Al destino ostile avrei ribattuto con sfrontatezza. M’accomodai sul fianco contemplando Viola sonnecchiare, ascoltando quel respiro quieto. Distesi i nervi, asciugai le angosce e finalmente precipitai in un sogno in cui richiamai alla memoria il nostro primo incontro.

7.

Giugno 1990. Un’Italia frizzante metteva a punto gli imminenti mondiali di calcio ma i giornali malignarono soltanto della prematura scarcerazione di un ex terrorista condannato a trent’anni, ridotti a venticinque in corte d’appello e, infine, dimezzati in base all’applicazione della legge sulla dissociazione dal terrorismo. I commensali dell’avvocato celebravano quel trionfo giudiziario, io invece no. Cosa avrei dovuto festeggiare? Quella macchia sulla coscienza? Quell’aspetto stagionato che non assomigliava più a quello sbarbatello sfrontato e stolto d’una dozzina di anni prima? Il dimagrimento? Il ricordo oramai lontano di quel moccioso senza bussola precipitato nell’oblio di litri di bile, rancore, finché impugnò una pistola carica? Al termine del lauto banchetto optammo d’uscire. Viola ridacchiava sbronza, incantevole quanto l’alba che, sorgendo, temporeggiò il tempo necessario. Divenne il centro polposo della città nonché il mio riferimento, il bersaglio, l’obiettivo d’avvicinare, nonostante ritenessi impossibile che s’interessasse ad uno come me. In Via Monalda intonammo canzoni reggendoci l’un l’altro. A Palazzo Strozzi Viola gioì sguaiatamente mentre una luce lattiginosa avvampò dietro la palazzina, dopo di che, congedandosi da tutti, ticchettò via. Osservandola allontanarsi, il mio cuore perse l’accordatura. «Filippo!» chiamò l’avvocato. «Grazie!» rinvenni da quella catalessi «Della compagnia di stasera e soprattutto dell’appartamento». L’avvocato abbozzò un sorrisino agguantandomi l’avambraccio. «Sentiamoci questa settimana così m’informi su come procede». «Grazie» ridissi. «Se t’occorresse qualche cosa...».

«I familiari di Jawad mi procureranno l’occorrente: mobilia, elettrodomestici. Piuttosto se riuscisse ad occuparsi di...». «Malauguratamente e come ti ho già spiegato quella vicenda è da considerarsi conclusa...» ripeté «Probabilmente solo una buona condotta di Jawad cambierebbe la situazione. Ad ogni modo... Buonanotte» tagliò corto. «Buonanotte» risposi porgendo il saluto anche al resto della compagnia. Chinandomi osservai l’antica targa collocata all’angolo della piazza che vieta il commercio di cocomeri, frutta e ferri vecchi, assaporandomi la quiete d’una Firenze ancora tra le lenzuola. Un operaio emerse da Via Tornabuoni, blusa da lavoro insudiciata, capo chino, espressione austera, imboccando una Marlboro. Quando arrivò vicino lo chiamai: «Scusa?» facendogli il gesto del fumare. Rovistò nel taschino della blusa rimuovendone il pacchetto stropicciato. «Grazie!» mugugnai picchiando sul dorso del pacchetto per far venire fuori una di quelle sigarette ed intanto l’operaio mi studiò naso, mento e lineamenti. «Maiala!» eruppe. Contraendo la mascella, indietreggiando e balbettando qualcosa di sconclusionato, si congedò velocemente. Quella Marlboro mi rimase spenta tra le dita: nessun accendino, niente catrame, niente carcinoma ma soprattutto niente Viola.

***

Nell’appartamento c’erano abbastanza mosche e moscerini da riempire una scatola di scarpe. Le pareti imbevute d’umidità che neanche quell’estate torrida asciugò. Rintoccavano le campane di San Jacopo quando la Credentino, capitata chissà quanto per caso a trovarmi, mi consigliò un comportamento riguardoso perché si vergognava ad ospitare un delinquente; non lo sostenne esplicitamente ma s’intuiva dalla tonalità sommessa delle raccomandazioni. Mentre le garantivo moderazione, mi sembrò d’essere così patetico. Inoltre, nell’espressione della

padrona di casa riconobbi la medesima condanna di chiunque altro incontrassi. Un venticello vivace alzò nuvolette di polvere dalla cassettiera di castagno. Supino sul pavimento, cercando refrigerio, ammiravo un tappeto azzurro e sgombro da nuvole. Una risatina giunse da Ponte Santa Trinità e m’affacciai impiccione. L’Arno mansueto, arrossito dal riverbero, rispecchiava le palazzine sul Lungarno degli Acciaiuoli con un colore pastello e poi di nuovo quella risata che ricordava il grido dei gabbiani in picchiata. Il mattino successivo fu invaso di fogliame, il cielo plumbeo, poche ombre e risvegliato dagli incubi, il mio cuore in preda ad una fregola folle. Smontai dal letto rannicchiandomi sul pavimento più fresco. Strofinai il viso tentando di ricacciare un singhiozzo. Indossai degli abiti scapicollandomi per strada. Un’auto ò con rumore di cinghie e catene, tossendo al di sotto del cofano. Avanzai per Ponte Santa Trinità oltreandolo, poi Lungarno Corsini e Via Parioncino. Le cosce s’indurirono, il fiato si spezzò intanto che i polmoni s’incendiarono. Un randagio tutto malridotto mollava un festone fumante di merda in mezzo alla carreggiata. Infine, decelerai spompato, rivoltando lo stomaco e fu lì, d’un tratto, che comparve Viola che, vedendomi arrancare, s’avvicinò. «Ciao» salutò flettendo spazio e tempo. Vestita estiva, reggeva una borsetta. «Tutto bene?». «Ho sete!» sfiatai facendola sorridere sprezzantemente.

***

Piazza del Duomo presenziò al nostro secondo incontro. Grattai continuamente il capo, agitato. La galera rammollì quella mia popolare vivacità. Mi tolsi la sete con tre bicchieri d’acqua in successione mentre il barman mi studiò; probabilmente mi riconobbe e quell’espressione arcigna esprimeva la voglia di lasciarmi disidratare.

«Scappo!» annunciò Viola adocchiando l’orologio. Malgrado riuscii a dirle praticamente nulla, acconsentii stringendole la manina scheletrica che adulai senza volontà, impazzendo per quella carnagione alabastrina, quel viso armonico, quella fragranza dolciastra e quel corpo sul quale desiderai pigliare sonno. «Vorrei rivederti» annunciai e Viola spianò la fronte liberandosi dalla mia tagliola. Con Giugno quasi terminato su Firenze gravava una cappa di calura insostenibile: l’afa otturava i polmoni prosciugando le lingue. «Alla prossima volta allora...» pronunciò Viola educatamente. «Speriamo» replicai titubante e, quando ondeggiò via, ogni arteria slacciandosi permise al cuore di precipitare giù in fondo allo stomaco. Trascorsi la nottata nel tormento sforzandomi di fantasticare su Viola, ma inesorabilmente rimuginai sul pomeriggio in cui gettai la vita nell’immondizia. Trangugiai un mix di Klonopin e Xanax attendendo che lavorassero. Il mattino successivo mi svegliai frastornato, uggioso, snervandomi persino nel preparare la moka e, mentre la collocai sul fornello, trillò il telefono. «Pronto?» brontolai da cavernicolo. «Filippo?». «Chi è?». «Sono Viola...» squittì soltanto ma a sufficienza affinché un diavolo mi strangolasse. «Ho chiesto il numero di telefono all’avvocato... Spero non ti dispiaccia. Mi domandavo se avevi piacere di ved...». «Quando?» proruppi interrompendola. «Hai impegni ora?». «No!» annunciai scaricando le parole come proiettili. «A Ponte della Santa Trinità? Venti minuti?». «A tra pochissimo allora».

Riagganciai il ricevitore senza neanche salutarla, volai a sciacquarmi e cambiarmi e quando ritornai al cucinotto percepii un afrore stantio e spietato. «Maremma Bucaiola!» bestemmiai affrettandomi a spalancare i battenti. Il fetore emanato dalla plastica e dal caffè carbonizzati, mi sopraffece. Svuotai il contenuto della moka nell’acquaio, abbandonando sul davanzale quel cadavere bruciacchiato. Una creatura celeste mi attendeva e, sebbene nauseato, saltellai felice giù dalle rampe di scale ed in Borgo San Jacopo. Viola giunse a Ponte Santa Trinità in romantico ritardo, avvicinando il maggiolino al marciapiede. Smontò sontuosamente adornata da un abito candido. «Ci mettiamo in strada?» accennò subito. «Dove andiamo?». «Sorpresa!». Il maggiolino emanava aroma d’olio mentre la fragranza di Viola mi s’incuneava nel cervello e quelle caviglie spoglie e scavate non immaginereste mai come riuscivano a sconquassarti il cervello! «Quindi dove andiamo?» m’informai di nuovo poggiando il gomito sullo sportello. «Fidati...» rispose posizionando delle ciocche disordinate dalla corrente dietro all’orecchio. Avercela di fianco sembrava un miraggio. Tenni d’occhio quei lineamenti concentrati sulla guida, ogni minimo dettaglio tracciato esattamente. Capitò così che m’innamorai. Viola apparve compiaciuta e al contempo inquieta quando voltammo in Costa San Giorgio col cielo scintillante e fastidioso al di sopra del maggiolino che brontolava arrancando in salita. Protesi la testa all’esterno con l’aria che mi spampanò i capelli, avvertendo un’energica sensazione di libertà, radioso d’una felicità semplice come può dar soltanto il vento sulla faccia e una donna come compagna di viaggio. Viola intanto guidava silenziosa; chissà quali pensieri le frullavano per la testa.

«Perché?» domandai. «Perché cosa?» rispose Viola senza sottrarsi dalla guida. «Oggi... Io, te...». «Perché no!» replicò concedendomi un’occhiatina furbesca. La soppesai non capendola, spiazzato da quell’unica donna che tentò di comprendere il tormento, che considerò gli anni di prigionia una contropartita sufficiente per gli errori commessi. Viola ripescava l’uomo mentre tutti gli altri solamente il criminale. «Arrivati!» dichiarò posteggiando in uno spiazzo. Firenze distante abbastanza da sembrare una cartaccia appallottolata. «Bellissimo questo posto!» asserii. Rispetto alla città l’afa non s’avvertiva. Tirai via scarpe e calzini eggiando scalzo, calcando l’erba mentre un’emozione mi montò dal torace e ribollì in gola finché sgolò dagli occhi. I fili d’erba solleticavano le dita, la terra essiccata m’infarinava le piante dei piedi riportandomi alla bellezza tipica dell’innocenza. Rivolgendomi a Viola la invitai a raggiungermi. «Togli le scarpe...» consigliai. Viola ubbidì non convinta, camminando tra le radici d’albero, prudente per non inciampare, frusciando quei piedini deliziosi tra l’erba incolta. Mettendomi all’ombra gradevole d’un albero, Viola s’accomodò accanto a me ed entrambi ridacchiammo impacciati. «Ti piace?» domandò. «Moltissimo». Uno stormo d’uccelli transitò in formazione, in picchiata per poi risalire. D’istinto mormorai qualcosa. «Che c’è?» domandò Viola. «Osserva...» spiegai indicandole lo stormo «In carcere desideravo diventare un uccello, ma poi...». «Ma poi?».

Additai nuovamente quella frotta. «Ho capito che persino gli uccelli si mettono in coda». Viola sogghignò increspando la fronte. «Dimenticherai quella vicenda?» domandò riferendosi al ‘78. «No!» replicai ancorandomi al panorama. «Perché?». «Perché dimenticare è il primo tentativo d’assolvere la colpa». Viola raddrizzò la schiena gocciolando lievemente dalle tempie. «Sei bellissima» accennai rapido quanto uno starnuto. Una risatina squisita le guizzò dai denti e mentre m’aiutava a rialzarmi, le finii praticamente addosso. L’abbracciai sbaciucchiandole la scapola e la pelle le s’irruvidì quanto una buccia d’arancia, increspata da un palpito glaciale.

***

Il tanfo penetrante di gomma bruciacchiata lo percepimmo già all’inizio della rampa di scale. Viola s’aggirava nell’appartamento di Borgo San Jacopo mentre tentavo di riordinare. Aria contaminata da gomma bruciata e stanze nel caos: non proprio il miglior biglietto da visita possibile. Viola camminò in direzione della camera fiutando da segugio ogni fragranza. La sorvegliai in ogni manovra e movimento del corpo. Percorse tutt’intorno l’appartamento dopo di che mi si bloccò di fronte. Desideravo abbandonarmi tra quelle braccia, riposare la mente contro la sua guancia, stordirmi dell’essenza di balsamo che emanava, provare il calore d’un altro essere umano e Viola parve accorgersene. Labbra cremisi così morbide quando le appoggiò sulle mie asciutte come corteccia. «Non sarò l’uomo migliore al mondo...» bofonchiai «Ma neanche questo

demonio che tutti descrivono». Ansimammo all’unisono e poi l’annusai ingordamente, assaporando ogni delizia che quel corpo poteva offrirmi. Tempo, spazio e tutto l’amore del mondo si concentrarono contemporaneamente tra le pareti di quell’appartamento.

***

Viola indossava un’espressione riposata, le braccia dimesse lungo i fianchi e giocherellava con i peli pubici, nerastri quanto il cappello d’un fungo. Rimanemmo impigliati tra quelle lenzuola tutto quel pomeriggio, ridacchiando sgarbatamente come ragazzini vivaci. Dopodiché Viola, drizzandosi, scalzò il lenzuolo avviandosi a spalancare le persiane. Osservai quei suoi alluci grandi come olive ascolane, la carnagione abbronzata, dorata di sudore. Slacciò le persiane spingendole all’esterno ed infine, tornando indietro, utilizzò la rincorsa per spiccare un balzello. Atterrò carponi sul materasso con un ghigno ampio imbandito su quel volto pulito. Una filarmonica di denti bianchissimi, perfetti. La calura s’impossessò dell’appartamento mentre Viola mi sbuffava sul torace premendo le boccuccia a tubicino, spirando un pizzico d’aria fresca, ma ammirandole quei seni penzoloni, m’accaldavo anche di più. Finimmo per addormentarci appiccicati uno all’altra, risvegliandoci un’ora dopo madidi e col cranio molle. Corsi sotto una rigenerante doccia finché Viola avanzò felina raggiungendomi stupefacente come se l’oceano fosse incendiato da un’enorme vampata di fuoco.

8.

Lo scamlio improvviso del telefono mi forò i timpani quanto un fischio del treno. Staccai stentatamente le palpebre ancora impacciate dal sonno, catapultato nuovamente nella realtà. Viola sonnecchiava: fortunatamente non svanì assieme a quel sogno ma addirittura diciotto mesi dopo quel pomeriggio, viveva assieme a me. Ruzzolai sul materasso finché raggiunsi il ricevitore. «Pronto?». «Buondì... Che disturbo?». Un tono borioso che riconobbi all’istante. «Signora Eleonora. No, affatto» replicai borbottando tra me qualche bestemmia. «Gli voleho dire che martedì vorrei are a riscuotere gli affitti arretrati». «Sì...» farfugliai. «Mi raccomando...» precisò «erò apposta tanto resterò da i mì figliolo a San Niccolò fino a che un’hanno dimesso i mì mariho». «D’accordo». Sprofondammo entrambi in un silenzio titubante prima di salutarci. Agganciai il ricevitore mordendomi i pugni. Viola nel frattempo riposava inconsapevole. Mi ficcai in doccia, non importava che l’acqua fosse ghiacciata. Insaponai e risciacquai rapidamente dopodiché indossai qualche indumento scampato alla corrida dell’armadio. Ammirai il viso di Viola: arruffato ma quieto contornato da ciocche arricciate. Una figura sinuosa, i seni cresciuti col latte, il pancino rigonfio e operoso di vita. Mi rigettai dentro l’aroma di Viola rimuginando finché insonne m’alzai affacciandomi per ammirare l’Arno immoto, forse apatico. Non pioveva a dirotto come presupponevo, anzi, un impacciato bagliore s’affacciò dietro stringhe di nuvoloni maligni. Quello scialbo chiarore rese il pelo dell’acqua iridescente e, nonostante dall’Arno montasse un fetore di catrame, il panorama risultava splendido quanto il ritratto felice di Viola. D’un tratto uomini nerboruti vogarono

su d’una canoa biposto, spaccando l’acqua e producendo suadenti e minuscole onde. Il telefono trillò inopportunamente e mi scapicollai per rispondere. «Pronto!» silenzio «Pronto? Chi è?». Riagganciai irrequieto; Caterina sicuramente. Nel cucinotto i pensili svuotati equilibravano la mente al contrario nebulosa. Quando m’accorsi che mancava pure la corrente elettrica, mi sgonfiai col sedere sul pavimento, piegato come un amo da pesca. Udii Viola filare in bagno mentre raffiche d’aria gelida schiaffeggiarono le persiane sbattendole sulla facciata esterna, mentre le vetrate vibrarono. Sfregai guance, mento, occhi e deglutendo assaggiai l’acidità del palato tentando di frenare l’angoscia e la tentazione di abbandonarmi allo sconforto. Viola s’accomodò vicino aspettandosi una qualche reazione. L’abbracciai soltanto sussurrandole all’orecchio: «Ti amo...» ovvero l’unica certezza che riusciva ad ottenere da me e, in quell’istante d’assoluto sconforto, decisi definitivamente di svaligiare l’appartamento dei Credentino come ultima soluzione possibile. «Domani entreranno contanti» eruppi. «Davvero?» sbigottì Viola. «Sì. Certi crediti da amici» finsi, ma non conoscevo altra soluzione per riottenere energia elettrica, gas e pareggiare gli affitti arretrati e l’idea di saldare i Credentino con i loro stessi soldi, mi trasmetteva una certa soddisfazione. «Possiamo fidarci soltanto l’uno dell’altra» conclusi malinconico. «Anche lei!» protestò Viola coccolando il proprio pancino e rituffandomisi addosso. «Matilde?» proruppe. «Sì... Matilde!» confermai «Decisamente Matilde» e mentre Viola assentì miagolando compiaciuta, io ritornai ombroso ad impantanarmi dentro certi pensieri.

***

L’Arno gorgheggiava semipieno e minuscole gocce d’acqua puntellavano il vetro velato di condensa. I lampioni sul Lungarno degli Acciaiuoli s’accesero come palle di Natale su una Firenze tutta colorata d’arancio, con le automobili che strombettavano alla folla accalcata per il veglione della Befana. Viola cullava quel miracolo di Matilde: un erotto in questo mondo di rapaci, serpenti sugli alberi, cacciatori col fucile e mentre speravo ereditasse interamente dalla mamma, d’un tratto mi risultò così ignobile partorirla in questo mondo terremotato. Si domanderebbe continuamente qual è il senso della vita ed io cosa avrei potuto risponderle? La verità? “Vivere è un orrore, bambina e quando ti troverai ad annaspare nell’abiezione, nella melma, e t’assicuro che accadrà anche a te come a chiunque, sforzati di rimanere a galla. Tieni il collo rigido, il mento dritto, respira con la bocca, agita braccia e piedi in continuazione. Cerca un appiglio, un metro di corda, una radice, una liana penzolante da un ramo. Non elemosinare aiuto, sostegno o collaborazione. Non gridare, non sperperare le forze. Concentrati! Esercita l’ingegno affidandoti soltanto a te stessa. Trattieni la rabbia e trasformala in energia perché ricorda: sei un agnello paffuto in un mondo di lupi affamati, perciò, amore, occhi aperti e buona fortuna.” Schietto, esplicito e lei m’avrebbe adorato proprio per questo... Il papà migliore al mondo.

***

Lunedì 6 gennaio un impacciato bagliore s’affacciò dietro cumuli cenerognoli e greggi di nubi al pascolo regalandoci un armistizio. Con Firenze aromatizzata da quel piovasco, marciavo in direzione di Piazza Santa Maria Soprarno, ostinato e determinato. Mi occorreva solo un inevitabile aiuto e ad una cabina telefonica composi il numero di telefono annotato sul biglietto che cavai dalla tasca dei pantaloni.

«Pronto?». «Bastardo!» sbottai all’istante. «Chi è?». «Arrivo. Aspettami» annunciai troncando netta la conversazione come un coltello arroventato che affonda in un panetto di burro, dopodiché agganciai il ricevitore. Via Dei Bardi strisciava come una biscia emersa dall’Arno fino a Via San Miniato. Quando Roberto spalancò addolorato il portone d’ingresso, guizzai all’interno impedendogli delle spiegazioni. «Zitto!» eruppi e Roberto sussultò. «Insegnami a sce una cassaforte piuttosto». «Cosa?». «Fallo e basta!». Roberto titubante e disorientato da quella pretesa, ramazzò la criniera spumosa biascicando: «Quale modello?». «Classica. Combinazione meccanica». «Descrivimela...». Gli riportai ogni particolarità che rammentavo; fortunatamente alla fin fine Roberto assentì. «Seguimi». Attraversammo l’ingresso ed un bagliore giallastro derivante dalla portafinestra al termine del corridoio ci indicò la direzione verso un cortile circondato da alte mura di cinta. Nella sterpaglia riconobbi l’intelaiatura arrugginita di un motorino Ciao e il relitto d’una Lambretta, un tavolino rugginoso e accatastate delle casseforti di vario modello. Roberto additò l’ultima. «Quella?». Accostandomi la esaminai ed effettivamente somigliava fedelmente a quella dei Credentino.

«Sì...» attestai. «Classico!» proruppe Roberto «Tutti i borghesi fiorentini possiedono questo modello finché un furto li convince a comprarne una più moderna». «È complicata da sce?». «Quanto scartare un sacchetto di patatine» ribatté borioso Roberto ridacchiando. «Mostramelo, avanti!». «Filippo? Ma cosa...» provò a domandare preoccupato ma lo fulminai subito facendogli intendere: “Nessuna domanda”, pertanto mormorò: «Sistemiamola sul tavolo».

***

Viola stendeva oltre la finestra del cucinotto e quando rientrai all’appartamento, senza domandare nulla, annuì mentre le dissi: «Arrivo subito, mi lavo le mani!» ma in realtà filai a nascondere la valigetta con gli attrezzi ricevuti in prestito da Roberto. «Amore, indovina chi è ato non di più di dieci minuti fa?» gridò Viola ma per l’urgenza nemmeno ascoltai, affrettandomi in camera da letto per nascondere la valigetta sotto al materasso. La specchiera del bagno rifletté l’immagine d’un uomo senza via d’uscita, con un’espressione sconfitta incastonata da un paio di occhi rassegnati e foschi. La paura m’attanagliò le caviglie bloccandomele come se calzassi delle calosce. Tuttavia, il pensiero di Viola e la creatura che portava nel grembo, mi regalarono la determinazione necessaria per portare a termine quel piano.

9.

A mezzanotte Viola sonnecchiava con la radiolina che le ronzava vicino all’orecchio. Calzai le scarpe con circospezione e adagio levai la valigetta da sotto il materasso. Sull’uscio gettai a Viola un’ultima occhiata affettuosa dopodiché, sveltamente, balzai fuori accostando il portone d’ingresso. Discesi le rampe sino al pianerottolo dei Credentino dove operai sulla serratura solamente qualche secondo poiché il portone d’ingresso si spalancò senza alcun giro di chiave. Ero troppo nervoso per essere messo in guardia o per fermarmi a riflettere su quella stranezza, così m’introdussi all’interno senza badarci. Nell’appartamento scansai il tendaggio del soggiorno così che filtrasse un po’ del chiarore del lungarno, rischiarando l’ambiente. Rimossi il quadro rupestre e arraffai lo stetoscopio dalla valigetta. “Ci riuscirebbe anche un bambino!” garantì Roberto nel pomeriggio. Indossai dei guanti e iniziai ad auscultare come un medico con la propria paziente. Ruotai e ruotai la manopola sulla destra e sulla sinistra captando gli ingranaggi picchettare e individuando facilmente i numeri della combinazione. Fu sufficiente ruotare la maniglia, tirare lo sportello e Voilà; facile quanto “scartare un sacchetto di patatine”. Adoperai una torcia elettrica che strinsi tra i denti per illuminare il contenuto della cassaforte: mazzetti di banconote, buste sigillate, un astuccio azzurro di gioielleria e perfino una rivoltella. Abbrancai i soldi lanciandoli nella valigetta mentre l’astuccio conteneva un rilucente collier di rubini che sistemai accanto alle mazzette. Le buste neppure le valutai sicuro che contenessero documenti ma, al contrario, impugnai la rivoltella, meditando se racimolare contante extra pure da quella. Dopo dodici anni brandivo nuovamente un’arma: la rugosità del calcio, l’aroma untuoso del lubrificante per ingranaggi; c’è qualcosa di stranamente attraente nell’oblio... ... Poi, d’un tratto, inspiegabilmente, il lampadario del soggiorno s’accese. «Oh Dio!» tartagliarono alle mie spalle. Voltandomi incrociai l’espressione terrorizzata della Credentino, impallidita e

sconcertata, che nascondeva una smorfia di panico, bloccando il respiro dentro un istante di terrore estatico. Lanciò un gridolino tagliente. «Zitta!» mi slanciai rivolgendole contro la rivoltella e, azzittendosi, si schiacciò contro il caminetto. «Prenditi tutto quello che ho!» mormorò atterrita mentre richiamai alla memoria la domanda di Viola di qualche ora prima: “Amore, indovina chi è ato non di più di dieci minuti fa?” Esitante, puntavo la rivoltella contro la Credentino, con le gote annaffiate da fiotti di lacrime che sgocciolavano sul tappeto persiano. Il torace le rigonfiava ritmicamente mentre i singhiozzi quasi la strangolavano, trasformandole le pupille in acini d’uva spremuti. Ciononostante, il solo pensiero a balenarmi nel cervello fu: “Non ritornerò più in prigione, piuttosto morto!” e la Credentino, forse, notandomi assorto, commise l’errore di scaraventarmisi addosso, impetuosa, brandendo uno degli arnesi del caminetto. Allarmato, sorpreso, scioccato, d’istinto... Sparai. Una revolverata dritta in faccia. La guancia si maciullò sbrindellandole lo zigomo. Precipitò all’indietro come una mongolfiera afflosciata, imbrattando la parete con brandelli di carne e schegge di calotta cranica. Tremolando con gomiti, ginocchia, mento e caviglie il terrore s’allargò nello sguardo. Istintivamente buttai la rivoltella fumante nella valigetta dandomela a gambe su per la rampa di scale dove scoprii Viola che, messa in agitazione dallo scoppio, si risvegliò di soprassalto. Immobili, non proferimmo parola. Il cuore di entrambi stritolato dentro una rete metallica e la disperazione tutta concentrata nell’espressione incredula di Viola. «Cos’hai combinato?» quasi implorò, sospettandolo, singhiozzando e soffocando finché ebbe uno spasmo, un crampo violento e penetrante alla bocca dello stomaco. Lanciò un gridò terribile rannicchiandosi sui gradini, latrando quanto un cane sofferente. Mollai la valigetta raggiungendola preoccupato. «Amore cos’hai?» proruppi notando subito quel liquido oleoso gocciolarle

sull’interno coscia. «La bambina, la bambina!» gemeva Viola. «Chiamo un’ambulanza!» affermai correndo al telefono. Chiamai il 118 tartagliando l’urgenza e l’indirizzo, dopodiché riattaccai staccando un maglione dallo stendiabiti. Le grida di Viola in preda agli spasmi echeggiavano per tutta la palazzina. Tamponai quel liquido grumoso e sanguinolento con il maglione. «L’ambulanza arriva!» rassicurai. «Cos’hai fatto? Cos’hai fatto?» cantilenò Viola frignando. I suoi occhi gonfi di lacrime ancora increduli. Persi anche il coraggio delle lacrime abbracciandola soltanto. «Perdonami...». «Vattene via!» asserì sommessamente. «Cosa?». «Scappa! Vattene! La polizia...». «No! Non t’abbandono qui!» contestai, ma Viola ruggì disperata: «Vattene... Ti scongiuro! Vattene!». M’implorava spingendomi col gomito e, correndo il rischio di cadere, mi rialzai scendendo solo qualche gradino per recuperare l’equilibrio, finché cozzai contro la valigetta che rotolò fino al pianerottolo al termine della rampa. Istintivamente le corsi appresso agguantandone il manico. Infine, senza voltarmi sulla sciagura che mi lasciavo alle spalle, discesi anche l’ultima rampa fino all’androne, uscendo dal portone principale su Borgo San Jacopo, dopodiché camminai in direzione di Piazza Santo Spirito tentando d’arginare la disperazione. La serenata fastidiosa della sirena dell’ambulanza spezzò quella quiete irreale. L’adocchiai furtivamente mentre decelerò davanti l’ingresso della palazzina ed una squadra di soccorritori smontò scattante.

***

Ripresi a camminare congelando sotto una coltre di nubi cenerognole che restituirono a quella serata la cupezza caratteristica degli ultimi giorni. Immaginai che quei cirri, quei lembi, quei cumuli volessero nascondere all’Altissimo l’ennesimo peccato consumato. Qualche gocciolina cominciò a picchiettare sull’asfalto nel tempo in cui continuai a marciare trainato da una fune invisibile, in direzione dell’unico luogo a Firenze dove potermi nascondere. Dalla strada gettai un’occhiata alla finestra illuminata della camera matrimoniale, ricordando vagamente i lineamenti di quel volto sempre spossato, quell’espressione che udendo il giudice emettere la condanna divenne vetrosa. In seguito ricordai di nuovo l’immagine di Viola rannicchiata sui gradini e il cervello roteò nel cranio come una mosca moribonda. Boccheggiavo disperato mente m’introducevo nello androne e, giunto davanti al portone di castagno, picchiai delicatamente percependo un ciabattare avvicinarsi. «O chi l’è?» domandò sommessamente dall’interno. «Mamma...» mi bastò pronunciare e senza indugio schiavacciò sulla serratura comparendo invecchiata: capigliatura argentea, volto solcato da rughe profonde e labbra rattrappite dentro una specie di cerniera di carne. Anch’essa però esaminandomi incerta sembrò domandarsi: “Questo carcassa umana è mio figlio?”. «Che si pole?» domandai in dialetto e scansandosi acconsentì che entrassi. «Mi sdraio un po’ su ì divano». «C’è la camera». «E un nì importa. E rimango poho!». Appoggiai la valigetta sprofondando nel divano ancora avvolto nella plastica. Mamma scomparve per riapparire con cuscino e plaid. «Buonanotte» accennò ancora stordita da quell’improvvisata ma fortunatamente non domandò nulla, limitandosi ad adocchiare la valigetta. Che gran

conversazione dopo tutto quel tempo! Ma aveva bisogno di rifiatare e scelsi di rinviare le formalità all’indomani. «Grazie mamma, buonanotte» risposi e quando serrò la porta della camera matrimoniale, trovai sotto l’acquaio un fiasco di Chianti. Predisposi il caminetto controllando la fiammella che gradualmente disegnò ombre malefiche sul soffitto mentre il cervello adesso sorvolava l’ospedale dove sicuramente venne ricoverata Viola. Non m’appisolai finché non s’estinse anche l’ultimo calore della brace, provando ad arrivare sul fondo della bottiglia con la punta della lingua. Diluita rabbia e frustrazione, precipitai in un letargo profondo risvegliandomi solamente in tarda mattinata quando sobbalzai spaesato, avendo bisogno di alcuni secondi per riallineare le idee. Stropicciai il volto, allungai la schiena che crepitò come carta da imballaggio, e controllandomi attorno, scoprii la valigetta aperta sul tavolino. Smoccolai nonostante non mancasse nulla: banconote, collier, attrezzi e rivoltella c’erano ma di mamma nessuna traccia. Richiusi con un cazzottone perché quella vergognosa faccenda non richiedeva altri inutili commenti.

***

Una pellicola di nuvole avvolgeva Firenze e siccome indossavo solamente un maglione, l’aria gelida m’arrivò dritta nelle ossa. Confuso dai ragionamenti finii praticamente addosso a quel titolo di giornale senza neppure accorgermene: “Uccisa durante un tentativo di rapina”. Gelido, immediato, implacabile. Rovistai nelle tasche pescando solamente cinquecento lire. Togliendomi dalla portata di sguardi estranei, prelevai qualche banconota da una mazzetta mentre la rivoltella puntava inclemente contro di me. Rinserrai la valigetta chiedendo all’edicolante una copia de La Nazione. Mi ò il giornale con un’espressione incerta.

Lessi d’un fiato. La fotografia in primo piano della Credentino, col collo rugoso e imperlato, mi regalò un formicolio sulla lingua con in sottofondo una pattuglia della polizia che sopraggiungeva a sirene spiegate. Automaticamente portai in alto il giornale nascondendo il volto e l’auto transitò filando per Via Dei Serragli. Richiusi La Nazione ficcandola in valigetta mentre l’edicolante s’affacciò dal proprio gabbiotto per studiarmi sospettoso. Rimontai Via Mazzetta e occupai un posto isolato sul marciapiede di Piazza dei Pitti aprendo la valigetta ed escogitando un programma: ficcai qualche banconota in tasca dei pantaloni accorgendomi dell’esigenza di diventare mimetico, razionale, gelido, finché la situazione non si rabboniva. Così riconoscibile e infelicemente popolare a Firenze, comprai nel primo negozio d’abbigliamento un giaccone, una sciarpa e un cappello, dopodiché scelsi di sostituire la valigetta con un pratico zainetto e raggiunta Piazza Santa Maria Soprarno, dopo la gradinata che s’arrampica alla Costa San Giorgio, scaricai il contenuto della valigetta nello zainetto, tranne la rivoltella che sistemai nei pantaloni. Per concludere, mi sbarazzai della valigetta gettandola nel primo contenitore dell’immondizia. La canna della pistola cozzava contro il ventre mentre l’impugnatura grattava sul fianco. Raggiunto l’indirizzo di Via San Miniato suonai il camlo ma non rispose nessuno e neanche percepii un movimento, perciò dalle tasche estrassi forcella e lima per unghie operando sulla serratura fintanto che saltò di lato. Posai lo zainetto sulla poltrona del soggiorno e rovistai nell’armadietto dei liquori. In seguito, contai l’avanzo di banconote dopo i recenti acquisti, ingollando dalla bottiglia. Tre milioni, trecento ventimila lire che frazionai in mucchietti di diverso taglio organizzandoli nei taschini interni del giaccone. Ripulii accuratamente la rivoltella, lo stetoscopio, la torcia elettrica finché percepii la chiave inserirsi nella toppa. Nel momento in cui Roberto mi scoprì nel soggiorno, s’impaurì al punto da mollare le buste di spesa ed il giornale sottobraccio. «Maremma Boia!» proruppe mentre delle mele rotolarono sul pavimento.

«Come hai...». «L’elenco del telefono!» comandai bloccandolo subito «Sbrigati...». «Perché?». «Non ho tempo... L’elenco del telefono!». Roberto osservò la mia mascella indurita di rabbia tenendo d’occhio anche la rivoltella che s’intravedeva sulla poltrona. Dalla cassettiera all’ingresso tirò fuori l’elenco telefonico di Firenze. «La segreteria dell’ospedale. Domanda notizie di Viola Casale. Se occorre spacciati per un parente». Obbedì disciplinatamente componendo il numero di telefono, ramazzando la chioma dorata, stringendo tremolante il ricevitore. «Buongiorno. Desideravo informazioni sulla paziente Viola Casale» intanto sorvegliava quell’espressione tagliente come vetro tritato che disegnai sul volto. «Immagino, certo, ovviamente... Ma nemmeno al fratello? Sì, sono io. Grazie» annuì «Stanza? Mille grazie, arrivederci». «Dov’è?». «È rischioso... I carabinieri sicuramente piantonano...». «Dov’è?» ringhiai costringendolo a indietreggiare. «Camera quindici, secondo piano» balbettò Roberto. «Da adesso in poi stappati perbene le orecchie...» asserii e Roberto ingoiò nervoso allacciando le braccia sul torace. «Hai già il quadro della situazione suppongo...» dissi, additando la copia de La Nazione sul pavimento «Non c’è bisogno che t’informi di nulla. In quell’astuccio troverai un collier da far valutare. Trattieni la metà del ricavato per te. La pistola...» Roberto avanzo per impugnarla ed esaminarla. «È tua?» domandò.

«Sì...» lo ingannai «Custodiscimela fino a quando non tornerò a prenderla». Infine sfilai del denaro dal taschino del giaccone che abbandonai sul tavolino del soggiorno. «Cos’è?» domandò. «Per la scocciatura...» replicai e proprio in quell’istante trillò il telefono. Roberto appoggiò la rivoltella alzando il ricevitore. «Pronto?». I bulbi oculari gli fuoriuscirono dalle orbite mentre bisbigliava dei flebilissimi «Sì... Sì...» dopodiché porgendomi la cornetta disse: «È per te...». Strinsi con forza la cornetta, perplesso, finché riconobbi quell’inconfondibile accento fiorentino domandarmi: «Ora accetterai il nostro aiuto?».

10.

«Filippo...» pronunciò altrettanto affettuosamente quel mercoledì di marzo del 1978, quando bagliori elettrici lacerarono quella patina impenetrabilmente scura oltre la finestra del salotto. Saltò la corrente elettrica per tutta Via Dell’Ulivo ma proseguimmo a conversare, gioendo e fregandocene persino del comunicato delle Brigate Rosse che rivendicavano il rapimento dell’onorevole Aldo Moro durante l’agguato in Via Fani a Roma. «Non dovresti trovarti qui» ripeté Caterina per l’ennesima volta. «Eppure...» ribattei audace, malgrado le gocciole d’acqua piovana che martellavano sui vetri m’imbrogliassero l’ascolto. Di frequente piombavamo dentro un mutismo sciocco, concedendo alla foga del temporale le parole più appropriate per esprimere lo stato d’animo d’entrambi. «Se gli riferissero che siamo qui...» suggerì Caterina, scordando che poco prima mi supplicò di raggiungerla. «Vado via?» domandai e arrivò un «No!» di risposta energico quanto una delle saette precipitate in quelle ore. «Col temporale... A questo punto...» azzardò un recupero con la criniera bruna che sfolgorava dopo l’ennesimo bagliore, finché due lampi consecutivi rischiararono il salotto e potei scorgerla mentre attorcinava una ciocca attorno all’anulare. Il susseguente fragore del tuono, che detonò poderoso, spaventò entrambi. Caterina lanciò perfino uno strillo. Le carezzai il polso rassicurandola intanto che un bollore mi avvampava dallo stomaco. La fragranza che sprigionava dal corpo e dai vestiti m’intimorì più dell’acquazzone che si riversava sulla città. Coraggiosamente la trascinai e mi s’appigliò energica agli avambracci, affannando. Le serrai il volto, fresco sulle guance, bollente sui lobi delle orecchie e quando le sfiorai le labbra, mi rispose timidamente. Il lieve colpetto della lingua m’offrì quella veemenza necessaria per bloccarmela addosso affondando entrambi nel desiderio e nell’angoscia. Caterina mi s’addormentò praticamente addosso e vigilai su quel riposo al chiarore d’una lampada da comodino rimasta accesa. I bulbi le mulinavano

vorticosamente, agitati da qualche incubo, ed ogni volta che una ciocca le precipitava sul viso, la ricollocavo nella giusta posizione di quell’architettura perfetta. Un grande letto matrimoniale al centro e una cassettiera contro la parete. Cappotti e abiti penzolanti su grucce agganciate alle mensole e un’unica finestra angusta; una striscia di nemmeno sessanta centimetri di larghezza. Il soffitto turchese che s’imbarcava. Esaminavo tutto in quella camera da letto con un insulso ghigno stampato. Nel tepore di quelle lenzuola sniffavo soddisfatto l’aroma dolciastro del latte di Caterina, tenendo d’occhio una cimice sgambettante aggrappata al davanzale che tentava di resistere alle folate che arrivavano a singhiozzi. Aria imbevuta di catrame. Finalmente fu in grado di inerpicarsi sul telaio, pronta a scavalcarlo guadagnando l’agognata libertà, ma Caterina irruppe di corsa chiudendo l’imposta sulle speranze e il corpicino del minuscolo scarafaggio. «Si gela!» proruppe adagiando delle ciocche sulle orecchie, fissandomi con un’espressione così crudele da permettermi di interpretarla: “Perché quello sguardo, quell’attenzione o soddisfazione non è dell’uomo che desidero.” sembrò rimuginare “Perché il corpo tra le lenzuola non è quello di Gianni?” «È tardi...» avvertì smaniosa d’uscire, finendo di prepararsi. Attesi che un riflesso biancastro ungesse i vetri, che le coperte freddassero e Caterina fuggisse esortandomi a non rimanere a lungo. Spalancai un’altra volta l’imposta osservando il carcame verdastro rimasto spappolato tra gli elementi del telaio, io, che amavo Caterina nella misura in cui lei amava un altro e tuttavia perseveravo, ostinato, nonostante la consapevolezza di quanta tristezza procuri l’amore.

***

Non telefonò per settimane ma col rapimento di Aldo Moro tutto divenne convulso e il gruppo terroristico di Liberazione Proletaria al quale aderiva Caterina sorvegliava la faccenda con attenzione e premura. Caterina scomparve

disinteressandosi che continuassi ad ardere ancora d’amore.

***

Mamma corrugò la fronte, dopodiché appoggiò il ricevitore sul mobiletto pensile ritornando nel cucinotto. «E voglian te...» «Chi è?» domandai ma ritornò a sbicchierare nel lavandino senza rispondere, così raggiunsi il telefono. Non simpatizzando affatto per l’inflessione rauca di Caterina, dissentiva con quella chiusura ogni volta che telefonava, perciò probabilmente... «Pronto?». «Filippo...». «Caterina...» accennai e l’istante successivo iniziò a gemere ed io squagliai allarmato «Hai bisogno d’aiuto?». «Sì...» farfugliò. «Arrivo!» annunciai attaccando il ricevitore, scappando senza spiegazioni, inforcando la bicicletta e mulinando coi pedali che calcai energicamente; un dardo di fuoco, un razzo raggomitolato su un telaio con ruote ronzanti come calabroni. «Ho pedalato fin quanto riuscivo!» annaspai oltreando la soglia, ma Caterina non frignava più; ora severa, granitica. «Caterina...» invocai, ma dopo qualche o rabbioso mi zompò addosso infliggendomi baci infuocati e adoperando la lingua come una lama che mi conficcò nella trachea. Le dita battagliarono smaniose con la cintola e la cerniera dei pantaloni finché non li srotolò alle caviglie e poté abbrancare il manico del pugnale col quale pretendeva che la trafiggessi.

«Scopami!» grugnì e l’accontentai tra il pavimento gelido e il tappeto spelato e mentre ci azzannavamo, ferivamo. Caterina singhiozzò di nuovo, maledicendo l’uomo che la obbligava a tradirlo, che le frantumava il cuore in minuscoli pezzettini. Quell’acquazzone, che sembrava avere l’energia necessaria per prolungarsi tutta la settimana, al contrario, resistette fino al crepuscolo. Il mio desiderio per Caterina, invece, non si sarebbe estinto nemmeno col trillo di telefono. «Lascialo suonare...» supplicai «Rimani qui...». «Magari è importante» obiettò avviandosi incurante all’apparecchio. «Pronto?» mormorò nella penombra. Asciugai le guance inumidite di saliva crollando all’indietro, sul guanciale. Quel soffitto turchese diventò un rifugio confortevole dove riflettevo su Caterina che, ancora tiepida di letto, già spasimava al telefono con quell’altro. Proseguimmo a lungo con quel tira e molla d’accoglienza e abbandono fino al momento in cui, a casa davanti all’appello tv di Papa Paolo VI che supplicava le Brigate Rosse di restituire Aldo Moro alla famiglia, squillò di nuovo il telefono e anticipai mamma alla cornetta: Caterina. Strimpellai eccitato sul camlo dell’appartamento ma con enorme sorpresa m’aprì Gianni: il rivoluzionario, il ricercato, il fondatore dell’organizzazione che battezzò: Liberazione Proletaria. Barbetta ispida, iridi ghiacciate. Farfugliai parole incomprensibili intanto che un ciuffo gli oscillò sulla fronte, praticamente un cappio. «Riparti dal principio...» ordinò, rastrellando la chioma. La seconda volta provai a non balbettare nonostante avessi addosso quelle pupille prive di lucentezza, con quell’unica stilla d’inchiostro su una pagina altrimenti celeste; una stella cattiva in un firmamento d’un bianco immacolato. «Filippo!» apostrofò Caterina raggiungendoci. Benedissi ogni o. «È dei nostri...» precisò a Gianni «È sempre alle riunioni e ai convegni anche se si mimetizza un po’». Gianni mi esaminò da capo a piedi. «Giovane...» sentenziò, poi parve distendere i muscoli della mascella «Caffè,

Filippo?». «Grazie, ma avo soltanto...» annunciai sommariamente. «D’accordo... All’erta, mi raccomando» pronunciò stringato accarezzando Caterina, informandola che voleva riposare. Esitammo finché scomparve nella camera matrimoniale, poi Caterina, accostando il portone d’ingresso, spiegò: «Ha rinviato la partenza all’ultimo momento». «Quando riparte?». «Col rapimento di Moro c’è agitazione e controlli ovunque. Spostarsi è pericoloso, soprattutto per Gianni. Scusa... Ora dovrei...». Provò a serrare il portone d’ingresso che fermai col palmo e Caterina mi squadrò meravigliata e contrariata. «Filippo!» bisbigliò ammonendomi. «Ti amo!» brusii, poi silenzio... Oblio. «Perdonami...» replicò chiudendo fuori quell’amore superfluo con il tonfo greve del portone.

11.

«Ascoltami...» avvertì Caterina mentre iniziò a diluviare e quell’acquazzone accompagnò l’allontanarsi di Roberto, ancora tutto scombussolato e in disordine. «Un bel casino. Proprio un gran bel casino!» gracchiò arrabbiata «Filippo, ho i mezzi per aiutarti a scomparire. Non impiegheranno molto a rintracciarti, interrogarti e ributtarti in galera... Questa volta per sempre!». Appoggiai il gomito alla parete, rallentando i battiti con un vuoto smisurato che si propagava dal centro del torace. «Abbiamo la possibilità di nasconderti...» proseguì Caterina «In un luogo fidato finché la situazione sarà sicura». «Ci rifletterò, grazie». «Prendi una decisione rapida altrimenti...». Riagganciai interrompendo ruvidamente la conversazione. Girovagai nel soggiorno in un’orgia d’emozioni differenti. Supplicai una sigaretta a Roberto imboccandola nervoso, indeciso. Incappai incidentalmente nel riflesso di quel balordo dal cuore mangiato e dall’espressione sfatta come alghe trascinate dalla mareggiata. Girai e rigirai provando a stancare una sfilza di ansie ritornate come parenti ingordi. Alla fin fine uscii nel cortile interno. Il temporale d’improvviso s’interruppe ma nuovi nuvoloni malefici s’accostavano a Firenze, borbottando maledizioni e bestemmie. «Filippo!» apostrofò Roberto nel tentativo di pungolarmi. Poppai ingordamente dal filtro asciugando le guance, dopodiché soffiai foschia e angoscia. Non c’era nessun’altra soluzione ed in prigione non ritornavo! Rientrai senza pronunciare parola con Roberto che mi accompagnava da bestiola fedele. «Telefona a Caterina e riferiscile che accetto l’offerta» annunciai alla fine dirigendomi al portone d’ingresso. «Tu dove vai?» domandò.

«Prima d’andarmene ho bisogno di rivederla...» mormorai sottraendo l’ombrello all’ingresso e lanciandomi disarmato contro il destino.

***

eggiando in Via San Miniato una flotta di ricordi mi volteggiò nel cervello ed un nodo s’allacciò nella budella nel momento in cui richiamai alla mente Viola: fiorita e soffice con quella bellezza né futile, né puramente decorativa ma viva! L’amavo, intensamente. Guidata nel mondo finché incontrandomi conobbe tutta l’umiliazione e la bassezza. Firenze nuovamente sciacquata da un temporale e una brezza polare che mi refrigerò la mano che tratteneva l’ombrello. Non m’infastidì camminare: ebbi tempo per riordinare i pensieri che mi riempivano la mente. L’afrore tipico dell’ospedale non l’ho mai sopportato! Spiai tutto il piano fino a quando, voltato l’angolo, scoprii un carabiniere piantonato davanti alla stanza da letto al termine del corridoio. Ora come comportarmi? “Devo accertarmi ad ogni costo!” rimuginai. Indossai il cappello per camuffarmi e avanzai con andatura rapida, sciolta. Il carabiniere mi concesse un’occhiataccia e ad ogni o parve montare una certa smania. “E se tentasse di fermarmi? Lo ammazzo lì dov’è!”. Avvertii una forza inumana formicolarmi addosso. Per alcuni metri continuò a osservarmi restando però seduto sulla seggiola di metallo. “Non bloccarmi! Non bloccarmi!” mugugnai “Ho già ammazzato e lo rifaccio se necessario!”. Il carabiniere alla fin fine si drizzò ficcando i pollici nel cinturone. Tenni d’occhio i numeri delle stanze, gli porsi un saluto che ricambiò e istintivamente m’introdussi nella stanza precedente. Un fetore lancinante giungeva da una moribonda dal volto grinzoso e naso grifagno. Tappai il naso nel tempo in cui un’infermiera irruppe mormorando svogliatamente: «Ancora?» e solo a quel punto mi scoprì. «Parente?» «Nipote» mentii.

«Che tu pòi uscire?». Assentii ma, fermandomi all’ingresso, le chiesi in tono sommesso: «Perché il carabiniere?» e l’infermiera s’accostò pettegola che quasi parve compiaciuta per la domanda: «Una paziente testimone d’un delitto. La rapina in Borgo San Jacopo. Hanno ammazzaho un’anziana. Quella de giornali... Un tu l’hai visto il telegiornale?». Dissentii e un po’ sorpresa compresse i lineamenti del volto. «E c’ho davanti l’unico a Firenze che un né a ì corrente di esta faccenda!» sbottò «Comunque e si dice che la paziente la sia la fidanzaha d’un periholoso brigatista e quando la si ristabilirà la interrogheranno sull’omicidio». Il cuore mi schiantò come un pomodoro nella morsa del pugno. L’infermiera diminuì ulteriormente il tono, bisbigliando: «L’hanno operaha d’urgenza, l’ha rischiaho di rimetterci le penne... L’hanno salvaha pe miraholo, ma purtroppo l’ha perso ì bambino!». Percepii all’istante un circuito d’emozioni correre, sbandare, tamponarsi, scivolare sbattendo contro i guardrail della cassa toracica. Matilde! Quella minuscola creatura che avrebbe frantumato il mondo in tanti piccoli pezzi di cocomero per poi rimetterlo insieme, rendendolo un luogo migliore dove vivere. Matilde, che avrebbe raggiunto qualsiasi obiettivo desiderasse: Matilde scienziata, Matilde chirurgo, Matilde decoratrice, Matilde sassofonista, Matilde cosmonauta. «Oh! Ma icchè t’hai?» domandò l’infermiera avvertendo quella disperazione. Ignorandola, uscii in corridoio adocchiando in direzione della stanza attigua, socchiusa, tuttavia, riuscii ugualmente a intravederla, coricata con un’espressione vigile ma smorta, mentre contemplava Firenze plumbea e piovigginosa. «Perdoni...» accennò il carabiniere «S’allontani, grazie». Viola udì voltandosi. Ci dedicammo un’occhiata di pochi secondi, la durata necessaria per guardarla trasalire, dopodiché il carabiniere piazzandomisi davanti m’ostruì la visuale. «Non è permesso...» affermò e, retrocedendo, gli guardai la pistola d’ordinanza nella fondina. Insistette nello scacciarmi mentre continuai ad occhieggiare all’interno della stanza finché serrò l’uscio una volta per tutte.

***

Caterina aspettava sul divano di Roberto, aspirando l’ordinaria Marlboro che le sottrassi spippettandogliela davanti come ultimo gesto di ribellione ma anche di consegna delle armi. Roberto sussultò sconvolto per quell’oltraggio alla divinità. «È sopravvissuta?» domandò riferendosi a Viola. «Fottiti!». Caterina sogghignò sollevando le sopracciglia e ravvivando la chioma con ampie zampate feline. «Hai organizzato proprio un bel disastro!». «Riferiscimi il programma e risparmiati i commenti». «Che impeto ma soprattutto quale gratitudine!». «È quel che a il convento!» rinviai e Caterina, inspiegabilmente, incassò con disinvoltura. «Abbiamo un alloggio fidato a Genova, riparato, sicuro. Potresti nasconderti lì finché la faccenda si sistema. Lascia che la Procura insegua fantasmi per qualche mese, poi quando l’indagine verrà archiviata, sarai libero di far ciò che credi. Inutile ricordarti il peso specifico del tuo ato in questa situazione... Ma noi potremmo cambiare direzione all’indagine». «In che modo?». «Godiamo d’una certa influenza. Hai dimestichezza con i nostri metodi e non hai bisogno di preoccuparti di nient’altro». Smorzai la Marlboro nel posacenere mentre Roberto servì un superalcolico per entrambi. «In cambio?».

Caterina ridacchiò accostando il bicchiere alle labbra. «Nulla! Consideralo un risarcimento per la condanna che hai già scontato a causa nostra». “Bugiarda! Straordinariamente credibile e in ugual modo falsa!” Non sospettai nulla in quel momento, neanche un piccolo dubbio su ciò che in verità le frullava nel cervello. «Esatto!» approvai scioccamente. «Hai bisogno di qualche vestito, oggetto in particolare?». «Quello che ho addosso è sufficiente» replicai indicando lo zainetto. Caterina ingollò quel centimetro alcolico e, indossando il soprabito, mi consigliò di non muovervi da lì. Fece un cenno col capo e s’accomiatò. A parer mio restava la donna più pericolosa del Pianeta e la più grande sciagura fu che l’amai veramente alla follia.

***

Roberto diminuì l’audio della televisione affrettandosi ad aprire. Caterina si presentò un’ora dopo scortata da un figuro nerboruto con mascella riquadrata che reggeva una borsa da consegnarmi. «Il minimo indispensabile alla sopravvivenza...» scherzò «Pronto?». «Sì!» risposi. «Guiderà Sauro!». Indossai il giaccone spendendo tempo così da poter rimanere da solo con Roberto. «Rivendi il collier e la metà cerca di consegnarla a Viola» gli sussurrai. «Ci proverò» replicò Roberto chinando lo sguardo incerto.

«Non fregarmi Roberto. Non immagini nemmeno dove arriverei per vendicarmi!». Infine raggiunsi Caterina che attendeva nell’automobile e subito dopo partimmo in direzione di Genova. L’autostrada filava a pieno ritmo sotto i pneumatici. Caterina sembrava contasse i lampioni che soravamo. Sauro guidava concentrato, robotizzato senza nemmeno uno scoppio di tosse. Posai la fronte sul finestrino fissando quell’autostrada malinconica che aggiungeva chilometri e chilometri tra me, Firenze e Viola. Sbirciai Caterina che puntellò la tempia sul minuscolo pugnetto e annusai un po’ di quella fragranza che raggiungeva ogni angolo remoto dell’abitacolo. Nei dintorni di Pisa la pioggia cessò di martellare il parabrezza. «Non preoccuparti!» pronunciò d’un tratto Caterina infrangendo il silenzio «Fidati...». «Fidarmi di te è l’ultima cosa che farò» risposi ricordando il volto acquoso di mamma, la prima a non fidarsi di Caterina, che ventiquattrore prima con quel tono spossato m’augurava “Buonanotte”. Tentai di raccogliere ogni energia residua per rallentare il battito cardiaco, interromperlo, affranto dalla vita, stanco di scappare e del tormento che mi s’agitava dentro. Nauseato d’essere la pedina d’un destino malvagio, la cavia per una società meschina. Soffocai quel rospo in gola finché non m’assopii.

***

In quell’appartamento di Via del Campo a Genova Caterina mise letteralmente in moto il riscaldamento trattenendosi finché i termosifoni s’intiepidirono. Sauro restò ad aspettarla in auto. «Spartana ma tranquilla...» commentò Caterina «Il telefono è funzionante ma eviterei d’usarlo».

Assentii ispezionando l’ambiente; il nascondiglio, la nuova casa. «È la scelta più sensata...» assicurò Caterina «Tutto si metterà a posto». Adagiai la sacca dei ricambi sulla tavola davanti all’angolo cottura. «Ti telefono domani. Soltanto io ho questo numero. Un’ultima raccomandazione...» puntualizzò sull’uscio «Diventa un fantasma: chiunque conoscerai diventerà un bersaglio. Ricorda che tu non esisti».

***

La sonnolenza giunse soltanto all’alba e riposai fin quasi al tramonto quando ancora stordito m’avventurai alla scoperta della straniera città di Genova. Girovagai tempestoso finché m’addentrai in un’osteria richiamato dal conciliante caminetto del salone principale. Sprofondai davanti al comprensivo tepore della legna che bruciacchiava con un umore marinaresco, nella consapevolezza d’aver davanti un’altra levata d’ancora e di dover navigare su rotte rischiose. Senza equipaggio fidandomi delle mappe di pirati e frangendo la chiglia della mia nave a babordo, a tribordo, zigzagando, disegnando nuovi solchi nell’oceano. «L’ordinazione» enunciò il cameriere chinandosi col drink sul portavivande. L’agguantai con la lingua di fuoco del caminetto che gli baluginava nelle pupille azzurre, intanto che il cuore m’urlava dentro quanto un torturato a morte. Ingollai d’un fiato metà liquore allungandomi verso il focolare. Decisi di ubriacarmi; d’altronde avevo le tasche gonfie di banconote e l’anima svaligiata d’amore.

12.

Tre settimane più tardi…

Il porto di Genova punzonato da luci colorate, le viuzze, i “carruggi” al contrario tetri e luttuosi. Scoprii la piacevole abitudine di muovermi in giro per la città dopo la mezzanotte, alla maniera d’un vero e proprio “fantasma”. Imparai i ritmi e le scorciatoie dell’angiporto perlustrando mano a mano tutte le strade ed i luoghi fin quasi all’alba, attendendo l’apertura degli ambulanti rionali per rifornirmi di cibo, dopodiché rincasavo a Via del Campo consumando un frugale pranzo e riposando fino all’ora di cena quando riprendevo le ricognizioni. Il mare d’inverno era un’instancabile tempesta, la fragranza del porto irrompeva nelle narici, mentre la brezza salmastrosa mi toglieva la polvere dalla faccia. L’inesauribile spostamento d’onde, navi e merci, andava d’accordo col perenne turbinio della mia anima; quella nave senza attracchi. In questo modo il porto di Genova divenne il territorio prediletto dove trascorrere i momenti migliori di quelle insignificanti giornate d’attesa. Nella solita osteria pagai per qualche centimetro di distrazione con ghiaccio, ammirando il carnevale umano, tentando d’impegnare il cuore continuamente altrove. Sgranocchiai un cubetto di ghiaccio, gelido sul palato, mentre attorno uomini e donne conversavano amabilmente stringendosi, accalorandosi, creando un mite focolare di sbirciate, chiacchiere, pacche affettuose. Ad un tavolino in fondo, una platinata, finemente bendata da un abito argenteo, calzava delle scarpette dal rialzo vertiginoso che sicuramente le affaticavano i piedini. Cicalava con una castana prosperosa, riccioluta, sguardo compresso tra fessure impenetrabili che mi adocchiò un momento ma come considererebbe una pietra per strada e padulata da un corpetto che le rialzava come un argano tutta la mercanzia. Terminai il drink preferendo un carruggio malinconico e sudicio al traffico di quel locale notturno. eggiai rimuginando su Matilde, annegata in quella

grumosa pozza sui gradini appiccicosi d’una palazzina di Firenze, domandandomi cosa guadagnassi nel nascondermi? Sopravvivendo come un randagio che mangiucchia gli avanzi dall’immondizia dei ristoranti di second’ordine, inutilmente affezionato ad una vita moribonda, trascinandosi tra pulci e rabbia. Rimontai all’appartamento confezionandomi un’ultima sigaretta con rimasugli di tabacco e la penultima cartina. Osservando il melodramma di quelle stanze spoglie, preferii smorzare il lampadario così da non costringermi ad ignorare quella sciatteria. Scostai il tendaggio, dischiusi la finestra ed uno spiffero ghiacciato mi appannò la vista mentre, puntellandomi coi gomiti al davanzale, osservai Via del Campo spopolata come un tunnel inevitabilmente silenzioso. D’un tratto, nella palazzina davanti scoppiò un riquadro cangiante ed una figura di donna attraversò i vari ambienti. Rinculai annegando nell’oscurità dello appartamento intanto che, un secondo faro, rischiarò un’altra stanza: la camera da letto. Quella fanciulla ricomparve levando delle ciocche dalla spalla con zampate leonine introducendosi nell’ultimo locale in fondo e rimanendoci a lungo. Acchiappai la poltroncina ed occupai un posto vicino al davanzale, nascondendomi dietro la tenda, con una piccola lampada su d’un tavolinetto rotondo a schiarire fiaccamente quell’angolo d’appartamento. In lontananza percepì un rumore di tamburi ed il cielo, chiudendosi a chiave con nuvolacce compatte, ruggì disperatamente. La brezza smise di sferzare i vicoli e quel clima cupo sembrò lo scenario ideale per qualche complotto segreto. La ragazza riemerse dal bagno vestendo una canottiera, dei calzoncini corti e la criniera riunita in una matassa puntellata da un matitone di legno. Galoppò al frigorifero sgambettando su piedini scattanti, tornando con il cannello della bottiglia d’acqua incollato alle labbra. Un rivoletto le sgocciolò sulla mandibola. Sistemò la bottiglia sul comodino sparecchiando le lenzuola e ammucchiando i cuscini; mi rannicchiai il più possibile. Levò il matitone dal canestro di capelli come una dardo dalla faretra, scarcerando quella giungla selvaggia e impervia. Smorzando l’interruttore cambiò incessantemente programma sul televisore. Il chiarore azzurrognolo dello schermo le lambì i contorni. Guardai le immagini mute sul televisore della dirimpettaia finché accusai un po’ di stanchezza e, senza accorgermene, m’appisolai. Quando rabbrividii attraversato da un tremito glaciale, scoprii l’appartamento davanti rinserrato e oscuro così ciondolai a sdraiarmi.

Il mattino successivo trovai un cielo plumbeo e pioggia a scrosci che, precipitando sull’asfalto con degli spruzzi da cascata, riempì velocemente tutte le insenature tra i piastroni. Mi infagottai nella coperta con un’espressione umida dal torpore e, scansando il tendaggio per controllare la dirimpettaia, grattugiai le guance sciupate e cementate da piccole crosticine. Eccola; indosso un maglioncino accollato. Ciucciai latte dall’ultimo contenitore in frigorifero mentre la dirimpettaia entrò nel bagno dove si fermò fin quando riuscì truccata, bellissima, consegnando all’appartamento un’ultima sbirciata per accertarsi di non dimenticare nulla prima d’uscire. In strada, rintanata sotto un ombrello, tacchettò via veloce in precario equilibrio sul lastricato scivoloso che, tuttavia, non la scoraggiò nemmeno un poco. Controllai l’orario: circa le quattordici e in quell’istante trillò il telefono. «Ciao campione, come andiamo quest’oggi?» s’informò sarcastica Caterina. «Come al solito». «Hai bisogno di qualcosa? Vestiti, soldi...?». «No!». «Ok... Ti telefonerò tra qualche giorno...». «Aspetta!» proruppi «Notizie di Viola?». «Abita dalla madre adesso. Non c’è altro». «Potresti recapitarle un messaggio?». «Meglio aspettare. Non è ancora sicuro al momento» suggerì salutandomi. Poggiai il ricevitore andando ad abbattermi sul materasso con la canzone “Il bombarolo” di Fabrizio De André che spareggiò l’aria ed il mio stomaco che gorgheggiava.

***

A pochi metri da Via del Campo infilai Via delle Fontane in direzione del Lungomare Gramsci, rimuginando su quell’amore imputridito, aggrappandomi al ricordo di Viola. Le acque agitate quanto l’umore del sottoscritto riflettevano dei nuvoloni gonfi spazzati da una corrente elettrica. D’un tratto smise di piovigginare, come se qualcuno avesse chiuso i rubinetti. Gironzolai fino a Via della Maddalena, scavato da rigagnoli di acquetta sudicia, e una prostituta datata domandò se cercassi compagnia. «No, grazie...» rifiutai. «T’ae ciû coae de una sigaretta, foestê?» domandò offrendomi il filtro pasticciato di rossetto della Camel che spippettava spremendo la boccuccia in un tubicino grinzoso. «Grazie...» acconsentii risucchiando con voluttà. La sapidità del rossetto mi terminò sulla lingua. «Me ciammû Ester...» asserì presentandosi e recuperando la Camel «Ma chi n’han nominoû a “Raminga”» «Quant’è che... Insomma... Lavori...?». «Mi fàsso ô mestê?» proruppe «Ah! Mi son nasciùa bagascia!». Ridacchiai intanto che riprese a pioviscolare ed Ester ciucciò un’altra lunghissima boccata mostrando dei dorsi striati, raggrinziti. «Piove ancora...» mugugnai irritato dalla molestia d’un temporale che parve starmi addosso da Firenze. «A mi ne piaxian i tenpurâli...» asserì la Raminga soffiando da locomotrice «Fan pari e patta, bagnan tutti a maexima mainëa». Concordai con la riflessione della Raminga mentre un omino malandato s’accostò ed Ester lo allettò domandandogli: «Voèiva scappâ da ö tenpurâle, inzeiné?». Bastò questo affinché l’omino lievemente ingobbito ricollocò la montatura sul nasino camuso e s’intrufolasse

dentro l’appartamento della Raminga come un sorcio in una mensa. «Tòrna a truvàme foestê» asserì Ester ammiccando e chiudendo i cancelli di quel giardino di delizie dove lavorò di polso e frasi vergognose per insolidire il flaccido attrezzo del inzeiné o ingegnere. Girovagai tra i carruggi di Genova con qualche inquietudine che ritornò ad urlarmi nelle orecchie come mucche al mattatoio. Alla fin fine non restò che ritornarmene al covo dove dall’androne percepii il telefono strimpellare a quell’insolito orario. «Pronto?». «Dov’eri? T’ho telefonato tutto il pomeriggio!» proruppe Caterina e il cuore mi precipitò nelle budella schiacciandomi sul pavimento il resto del corpo. «Cos’è successo? Viola?». «No Romeo...» ribatté «Giulietta è sana e salva. Interrogata dalla polizia ha dichiarato d’aver litigato per questione di soldi, bollette scadute e arrabbiato sei fuggito via». «Ah...» balbettai. «Non prendertela!» incalzò Caterina «È un’ottima intuizione anche perché così le indagini rimangono inconcludenti... Comunque ho anche telefonato perché c’è un po’ di...». Tentennò. «Di cosa?». «Nostalgia... Malinconia probabilmente...» bisbigliò con quella sua speciale tonalità zuccherata ma prevedibile quanto una tazzina di caffè al risveglio. «Filippo? Pronto?». Interruppi la conversazione riattaccando con il cuore dentro un’incessante tempesta. Spalancai le finestre permettendo alla musica di districare quella nullità. Di nuovo Fabrizio che dagli altoparlanti della vicina piazzetta canticchiava Jamina. Colmai un bicchiere d’acqua di rubinetto e, ingollandola d’un fiato, m’accostai

al davanzale trovandola sull’angolo del materasso indaffarata ad applicare uno smalto scarlatto alle unghie dei piedini. La “Sconosciuta” (così iniziai a soprannominarla) dalle caviglie esili si piegò perdendo dall’acconciatura dei ciuffetti che riallacciò all’istante dietro le orecchie. Tinteggiò tutte le unghiette ributtandosi indietro con una danza di gambe che aggiungevano pepe. Squagliandomi come burro in padella rievocai Viola e l’universo scolorì dal dolore. Rinserrai le imposte per buttarmi sul letto, desolatamente, come un atterraggio nel deserto, nel flaccido fallimento di un’ombra nella nebbia che ha attorno nient’altro che donne melliflue, paesaggi stucchevoli, cosce polverose, indolenza, sofferenza e un’anima cigolante come le tane dei topi.

13.

Raggi di sole trafiggevano le nuvole come tanti aghi su un portaspilli, illuminando il porto di Genova fin dentro i carruggi dell’angiporto e un’affollata Via del Campo. Gironzolai nelle vicinanze di quell’abitazione di Via della Maddalena cercando un coraggio che non avevo, finché per nulla convinto, picchiai sull’uscio. Ester la Raminga sgualcì il volto di meraviglia. Indossava una blusa attillata e in testa pinze e fermagli. «Cose ti fae chi?» sbottò «Sun serâ!» incalzò, poi un silenzio imbarazzato, dopodiché ridacchiò spalancando il portone d’ingresso «Ti te piggiö pè ö cü foestê. Vegnî che te Fasso ö caffè!». Oltre la soglia, dirimpetto all’ingresso, un altro uscio che dopo le venti di sera diventava off-limits per chiunque. A destra un ambiente adornato, completo di divano, televisione, un confortevole giaciglio e sull’angolo, l’accesso per un bagno certamente abusivo. «Mettite comodo, vegnô fîto». Ester tagliò la corda frusciando coi pantaloni della blusa. Esplorai l’ambiente e quelle pareti deformate negli anni dalle fragranze di migliaia di maschi dalle ascelle piccanti e sperma acido, chiedendomi se Ester riuscisse a dolcificare tutto quello squallore. «Ö l’è prönto!» annunciò riemergendo dal corridoio e accomodandoci sul sofà ricoperto da cuscini e trapunte. «Ö me caffé ö l’è ‘na lecàia!» assicurò accorgendosi che di quest’ultima frase non compresi che una parola. «Ti me capisci se te pàrlo in zeneize». «Intuisco, più spesso...» replicai ingoiando con sbigottimento il miglior caffè mai assaggiato. «Eccezionale!» miagolai.

«Câdo e dôce cumme a mussa!» affermò risoluta Ester afferrandosi la patta per farmi capire cos’è la mussa per i genovesi. Per poco strozzai. Misi giù sbrigativamente la tazzina, tossendo, intanto che Ester mi informò sulle ragioni di quell’aroma straordinario: «A piànta l’è òriginâia de l’Etiopia e u sô numme, quello vêo arabo, l’é “qahwa” e tutti a ciamman “coffea arabica”. Int’a semenza a gh’è menu caffeina ke in te âtre speze. Mi ghe metto u mé tòcco: ‘na stissa de cacaváo amâo e ‘na lägrima de rappin». Distillai ogni goccia, rateizzando le sorsate, assaporando quella Coffea Arabica con poca caffeina, cacao e grappa secondo la ricetta appena spiegata da Ester. «Perché Raminga?» domandai. «Mae moae l’aveiva perso a testa pè un mainà belishimo, kun u chêu in ta… “con il cuore in scialuppa”» tradusse «Fisico da boxeur, äto, pelle brûxia. Ä nave donde ö se guâgnava ö pan, a fava in sciû in zu pè i paixi da Spagna, Italia e Argentina. Ä sêa innamoà in te n’ momento credendo d’ese a sula pasiön dö mainä». Ester indicò una fotografia messa in cornice e fissata ad un chiodo. «Kuéla li a l’è a mamà» disse compiaciuta della mamma in effetti molto attraente: una criniera di boccoli che rotolava sulle spalle, iridi mandorlate, corporatura procace. «‘Na matta d’amû e quande a l’è restâ ingraiâ (incinta) che a nu l’aiva mâncu vintanni. Mae pòe (mio padre) u s’è imbraegô cuntentu. E dòppo che l’ean è sëte giórni l’aiva piggiöu u mâ e u l’ea partîo pè l’Argentina e nisciun u vidde ciû turnà a Zena. A moae (mamma) u l’ha aspettoü tutta a vitta sufrindu un dulû che l’àiva faeta vegnî matta» Ester ruotò l’indice di fianco la tempia, aiutandomi a comprendere la sorte toccata alla propria mamma «L’amû l’aveiva denuâ de tutte e cose. Ho imparoü fîto a destregame pè me cònto atruvando doì treì dinae pè vive. Röbando, limoxinando pè nö muî de famme… Vivendo da raminga». Assentii mentre Ester incrociò le gambe ancora energiche mentre il volto le sfioriva da un giorno all’altro, da un’ora all’altra. «Donde ne vegnî, foestê?» chiese perché arrivò il turno di Ester per investigare.

Non preparato al sottrarmi alle domande, risposi: «Firenze». «Cose ghe fae a Zena?». «Lavoro...» replicai fuggevole, sfregando i dorsi. Ester smascherò subito quella menzogna lampante. Impacciato provai a cambiare discorso. «Grazioso l’arredamento...» sostenni ed Ester, che comprendeva tutto all’istante, non insistette con altre domande. «Ora vado!» dichiarai schivando così ulteriore imbarazzo. Mi congedai dalla Raminga dalle rughe svestite ringraziandola ed Ester salutò nella medesima maniera. «Tòrna a truvàme, foestê». «Ester, un’ultima domanda...» invocai «Oramai ricordo poco di papà... Il volto soprattutto è sempre più sfocato». Ester assentì. «Tu, il tuo, come lo immagini?». «A ballare con i gitani!» replicò svelta in italiano fluente, affatto impreparata alla domanda.

***

Da bambino mamma mi stampava giganteschi baci mentre tra le braccia scarnite, ma inspiegabilmente energiche, mi cullava ore ed ore. Durante il periodo processuale non cambiò mai di posto nell’aula del tribunale e quelle braccia, oggi stremate, restarono conserte, sempre aggrappate alla borsetta. Al momento della sentenza quell’espressione, comunque amorevole, s’incupì trattenendo forzatamente un gemito, l’ultimo rimastole dopo la scomparsa di papà. Qualcuno dei presenti applaudì, altri schiamazzarono o inveirono: «Assassino!» e «Devi marcirci in galera!». «Muoviti!» ordinò il carabiniere serrandomi le manette sui polsi.

«Mamma!» strillai nel trambusto generale. «Mamma!». Intrepida in un completo carbone, asciugò dei rigagnoli di pianto squadrandomi arcigna. Allacciò la borsetta alla spalla per sgattaiolare velocemente via dalla aula, piccina tra la folla strepitante. «Bastardo!». «Assassino!». «Cammina!» intimò bruscamente il carabiniere afferrandomi ai gomiti e lì, nel completo marasma, la intravidi: indossava grandi occhiali opachi, ma trascinato, condotto a forza, la confusi subito nella massa, tuttavia Caterina parve realmente mortificata prima d’uscire in fretta dall’aula del tribunale.

***

All’appartamento di Via del Campo sistemai la spesa nel frigorifero e sballando il pacchetto nuovo di Marlboro, sbirciai la Sconosciuta che rintuzzava un pennello dentro della tintura. La criniera raccolta a paniere e qualche ciocca che oscillava come un’altalena. Avvertii le pupille avvampare come mozziconi; forse eccitazione, forse malattia, nel frattempo vibrò intempestivamente il telefono. «Pronto?» risposi scocciato. «Ho cattive notizie...» esordì Caterina senza riverenze o preamboli. «Roberto è il principale indiziato come responsabile della rapina e dell’omicidio della Credentino!». Palpitai imprecando. «Cosa? Lui... Io...» tartagliai «Ma...». «Esaminati i precedenti penali di Roberto...» spiegò Caterina «La polizia ha eseguito una perquisizione in Via San Miniato trovando la rivoltella e il collier sottratto dalla cassaforte». Picchiai la parete pelandomi subito le nocche. «Ritorno a Firenze!» proruppi «È

innocente! Io ho...». «È irrilevante a questo punto!» incalzò Caterina «Le prove a carico sono evidenti: addirittura sull’arma del delitto ci sono le impronte di Roberto...». Ricordai d’aver accuratamente ripulito l’arma dalle mie senza premurarmi d’avvertire Roberto quando la maneggiò. «Questa però potrebbe essere un’ottima occasione per noi...» insistette Caterina. «Un’ottima occasione? Scherzi? Non permetterò...». «Ascoltami!» strepitò Caterina togliendomi la parola «Roberto è già al sicuro, lo proteggiamo noi e non lo troveranno mai. È tutto risolto, fidati e non preoccuparti di...». Agganciai il ricevitore infuriato e con dei brontolii da scarico di lavandino che derivarono dalla pancia. Poi conati, infine vomito e, finito quello, piagnucolai follemente. Il telefono squillò di nuovo e continuò senza tregua ogni quarto d’ora. Per non ascoltare quel trillo insopportabile, scappai dall’appartamento. L’energia delle stelle punzonava il cielo bruno sopra il porto antico di Genova. Onde elettromagnetiche, particelle elementari e vento stellare sgombravano la volta celeste. Gli trasmisi tutta quell’inconsolabile tristezza ma infruttuosamente; il dolore che lasciai avventurare nell’ombra non raggiunse neppure la Lanterna del porto. M’appiattii per terra, sul molo gelato. Il mare sbuffava scalciando la banchina. Le onde si nebulizzarono nell’aria in lunghi sputi d’acqua salata sulle mie guance. Le ossa vibrarono sconvolte dalla cappa di ghiaccio che mi schiacciava il petto, comprimendolo in un torchio. Infine serrai le palpebre già arrugginite di pianto. Vidi Viola che sbaciucchiava in bocca una bambina avvolta in fasce di seta carminea. Viola scalza, guance arrossate e fronte accaldata. La bimba non geme, riposa placidamente. Viola la protegge avvolgendola dentro il mondo sacro dell’abbraccio d’una madre amorevole. «Ti amo» bisbiglio per non intromettermi in quella pace. Viola sogghigna cullando la creatura e ballando al ritmo d’una danza di prilli e balzelli; è lo spettacolo più bello del mondo, una

visione pulcrissima: madre e figlia innamorate una dell’altra, per sempre. Dischiusi le palpebre intorpidite. Avevo soltanto sognato. La laringe mi pizzicava quando deglutivo, la faccia legnosa e l’umore cattivo. Del tutto infreddolito eggiai tra i carruggi dell’angiporto, oltreando portici e vicoli ostili: Vico Chiuso della Rana, Vico Cicala, Vico degli Stropperi e Vico delle Pietre Preziose, incrociando solamente miei consimili: bacherozzi e randagi. Sterzai in Vico dell’Amore Perfetto e fra lusco e brusco avvertii un guaito: «Oh!». Bloccandomi scandagliai nell’oscurità d’un annoso ingresso di tufo mentre un fetore di zolfo mi s’inerpicò nelle narici. «Chi è?» interrogai le tenebre senza notare nulla, dopodiché comparve una gamba. «Òmmo t’ei in ta bratta?» «Come?». «Sei nei guai?» pronunciò la figura attaccata allo stinco sudicio e allo scarpone magagnato che comparvero dall’oscurità. «No, niente guai». «Belìn, sbaglia finn-a o præve into dî messa!» grugnì traducendo in un secondo tempo. «Sbaglia anche il prete a dire la messa». Avanzai tentando di riguadagnare la strada ma l’ombra insistette: «Tei miscio? Senza soldi?». «No». «Compra una bottiglia nell’osteria all’angolo così la condividiamo». Ignorai quel barbone avviandomi in fondo al carruggio. Oltreato l’angolo incappai nell’insegna rachitica al neon dell’osteria.

Comperai una birra e intanto che la degustavo, l’oste mi esaminò con antipatia e degli occhietti piccini come cacate di mosche. Osservai gli uomini presenti, tutti con facce squamose, marchiate dal libeccio, ustionate dal salmastro. Benvoluto quanto una elefante in cristalleria, tagliai la corda e rivolsi l’attenzione alle tenebre di Vico Dell’Amore Perfetto. «T’ei tornòu!» ansimò quell’ombra emergendo dall’oscurità soltanto col braccio. «Damme a bottiggia!» Tentennai. «Fatti vedere...» ordinai guardingo e l’ombra, grufolando, occupò molto tempo prima di mostrarsi: spossato, intirizzito, anchilosato dal freddo di febbraio inoltrato. Impietosito mi proposi d’aiutarlo. «A mëgio mëxinn-a a l’è o decotto de cantinn-a» ribatté palesandosi nella penombra del carruggio. Canuto, maleodorante, reclamava la propria ricompensa per quel sacrificio colossale. Trangugiò irrorando quel gargarozzo rinsecchito e infine, dissetato, pronunciò di nuovo: «A mëgio mëxinn-a a l’è o decotto de cantinn-a significa che “La migliore medicina è il decotto della cantina”». Sogghignando nascosto dal cespuglio grumoso della barba lorda e soggiungendo: «Da quale città provieni, lêvre?». «Lêvre?». «Significa lepre» asserì sorseggiando. Quel fiato ammorbava l’aria e quando trangugiò l’ultima stilla di birra, col pretesto d’illuminarlo meglio con l’accendino, gli offrii il pacchetto di Marlboro. Gongolò felice. La fronte oliata e lercia, l’intero volto stropicciato di rughe come lamiere in un incidente ma uno sguardo incantevole in qualche maniera anche grazie alle iridi color smeraldo. Inspirò agganciando il filtro tra i polpastrelli di pollice e indice. «Ti chiami?» chiesi. «Purtòu». «Insolito...» valutai ad alta voce. «Significa portatore».

«Portatore di cosa?». «Sfurtünna surviatûtto. Odiü e desprexio a pó. Ö pègiu do pègiu». Imboccai una Marlboro anch’io. «Ti cose t ‘hae faeto?» domandò. «Io? Un po’ tutto». Osservandomi con quell’espressione magica proclamò: «I sbagli di gondoin l’asconde a tæra, quelli di ricchi i dinæ». Corrugai le sopracciglia e Purtòu percependo l’incomprensione tradusse: «Gli errori degli stupidi li nasconde la terra, quelli dei ricchi il denaro». «Già...» annuii. «Donde ne vegnî?» «Firenze». «T’hae faeto feua qualchedun a Firenze, lêvre?» interrogò roco, serafico. Tergiversai colto sul fatto. «Ucciso qualcuno...? Io...? Perché...?». «Oeggi!» spiegò inspirando dal filtro. «Gli occhi!». Ci esaminammo ma lo sguardo di Purtòu s’insinuava parecchio più in profondità. «Non hai paura di un assassino?». «Dio m’avverde dai beghin e da chi va in gëxa tutte e mattin. “Dio mi guardi dai bigotti e da chi va in chiesa tutte le mattine”» asserì Purtòu placido, ghignando, e dopo l’ultima boccata si accomodò di nuovo nel proprio giaciglio, goffo, come se guadasse un tratto fangoso. «Ora vado» annunciai. Quell’eccentrico clochard mi aveva stregato, forse perché finalmente scovai un’altra anima torbida. «T’hae bezéugno de quarche cosa?» domandò Purtòu proponendomi le cianfrusaglie che possedeva.

«No, grazie» risposi. «Nu sta a fá di complimenti amigo mae. Piggite tutto kuélo che g’ho… L’é u mae u l’é u tó». «Non ho bisogno di nulla». «Allöa tornâ a trovame fîto» concluse mostrandomi lo spazio libero tra gli incisivi mancanti. Acconsentii inoltrandomi nella nebbiolina pungente che rivestiva i carruggi di Genova d’una patina umidiccia per nulla immaginando che in Via del Campo m’attendesse una sorpresa. Tornando indietro tergiversai un po’ per i carruggi dell’angiporto, comprando altro alcool e fissando il mare imbestialito per colpa di forti folate che mandavano ogni onda un metro più all’interno. Le imbarcazioni ormeggiate oscillavano nervose. L’aria irrespirabile, satura delle fragranze dei bassi fondali, mi gonfiava i polmoni saturandoli di sale. Il gorgheggio del mare nel frattempo mi richiamò come il canto delle sirene. Dopo grandi e lunghe sorsate d’aria e liquore, ubriaco di rum e salsedine, rientrai all’appartamento di Via del Campo... ...Ed eccola lì, sulla soglia del bagno, avviluppata nell’accappatoio, sguardo da biscia che mi serpeggiò attraverso le narici fin dentro al cervello. Quasi si meravigliò nel vedermi rientrare, nemmeno fossi io l’estraneo, il visitatore inaspettato. «Ciao» sibilò. Bloccato, ubriaco, l’ammirai liberare la chioma dall’asciugamano e ammucchiarla in ciocche per poi spremerle nei pugni sgrovigliandole nuovamente. «Che ci fai qui?» chiesi con un’espressione che la inseguì ovunque come una specie di raggio malefico. Flessuosa s’aggirò nel soggiorno come una micia dall’indole bizzarra. Così divina e profumata, fui subito dominato da un influsso magnetico, mentre nell’espressione di Caterina germogliò un sordido gioco di rivincite. Un demone cominciò a danzarmi in cerchio e Caterina, repentina, lasciò cadere l’accappatoio. Quei seni maturi m’esplosero nelle orbite. La peluria recintata in quel triangolo di corruzione e Caterina che mi sogghignava

compiaciuta dell’erezione penosa che m’affiorava dai pantaloni. Il cielo di Genova era un’orgia di nuvole, le luminarie di Via del Campo ammiccavano dalla vetrata, mentre la nebbiolina tiepida sprigionata dal corpo di Caterina mi cominciò ad avvolgere finché impazzii: la strattonai per gli avambracci scaraventandola sul materasso. La mia testa più grande d’alcune taglie e Caterina che adesso gioiva soddisfatta. Le rifilai un manrovescio poi le serrai la gola. «Coraggio!» grugnì «Lo so che muori dalla voglia... Avanti, prendimi! Scopami!». Lo liberai dai calzoni accoltellandola con quel pugnale infuocato dentro un portafoglio di labbra umide, conficcandole nella carne delle unghie sudice. La morsicai aggrappandomi alla sua nuca ancora gocciolante di doccia e infliggendole grandi stoccate di lingua come se spaccassi della legna. Caterina ridacchiava, spasimava, strillava, sanguinando e godendo felice; una smorfiosetta circondata da tutte le bambole preferite mentre la bestia le agonizzava tra le cosce, urlando arrabbiata, prigioniera dell’incantesimo di quella sacerdotessa malvagia, finché morii schizzandole dentro tutto il veleno accumulato sul deposito lurido della mia coscienza.

14.

Risvegliandomi con la vescica gonfia, lavorai per indirizzarla nel water spruzzando quanto una pompa antincendio. Stramazzai avanti rimettendo anche l’anima appoggiato sul copricerchio spruzzato d’urina. Nel momento in cui ritornai indietro, vuoto di stomaco e cuore, Caterina giaceva ancora là, con quelle ampie ciocche che si protraevano sul guanciale come rotaie in uscita dalla stazione dei treni. Attraverso le persiane filtravano tentacoli luminosi e di fronte a quello scenario, quel mio cuore di neve si squagliò nell’infelicità. Uno spasmo d’amarezza rimontò in gola facendomi singhiozzare ma non più di quello. Ero stato trascinato nell’empio della ione, smanioso di un corpo che desideravo piuttosto sbranare. Caterina dormicchiava con ritratto in faccia un ghigno appagato. Non le resistetti proprio come una dozzina d’anni prima e adesso, sfamata e felice, si godeva il riposo dei soddisfatti. Preferii evadere da quell’appartamento il più velocemente possibile. Vagabondai finché, spompato, dovetti concedermi pace, in trappola: il mondo un carcere, la mente una cella, la vita un inferno mediocre. Persino l’angoscia può diventare noiosa e il tormento incendiarsi rapidamente quanto un pagliericcio imbevuto di benzina. Liberai la mente, senza però ricordare un unico momento spensierato: nel 1978 sfilavo in corteo dimenando il pugno, dando forma agli slogan; un randagio col cuore in carrozza che gironzola in un minuscolo giardino, per giunta innamorato d’una regina malvagia. Un ricettacolo di delinquenti come compagni ed un desiderio di libertà legato alla catena. Nel 1979, imbranato, desideravo Caterina e le sussurravo all’orecchio dei “Ti amo” imbarazzanti dopo qualche pomeriggio trascorso tra le lenzuola a subirla, pignorandomi ogni spillo d’energia per amare una cavalla selvaggia, indomabile come la furia d’un terremoto. Nel 1982 calcolavo i minuti che trascorrevano lentamente osservando oltre la feritoia della prigione alle Murate le stagioni di Firenze, sgombre oppure rivestite da nuvole rarefatte, annoiate o che si rincorrevano come in una corsa campestre. Soltanto

un gracchiare di corvi proveniente dai ricoveri per uccelli nelle grondaie. Nel 1991 con quell’amore acerbo per Viola che m’amava nonostante quel poco che le offrivo. Io molliccio, grinzoso, in corteo assieme a tutti gli altri sconfitti. Ammirai l’orizzonte e captai il richiamo del mare. Genova raggomitolata sotto una coperta di nubi in riottosa ritirata. Soltanto qualche ora di bel tempo e sembrò già stufa. Per Via del Campo risuonavano le note della canzone Un blasfemo di Fabrizio De André. Non desiderando ritornare da Caterina, oltreai Via Antonio Gramsci ridirigendomi al porto, mentre il cielo sembrò un enorme barile al quale era scoppiato il fondo. Una brezza mosse le fronde degli alberi, increspò il pelo dell’acqua. Del vapore, sollevandosi dall’asfalto, si dissolse nell’aria e figurai nella mente Viola e quello sguardo tiepido che calmava i bruciori di pancia o mi scioglieva il broncio. Difendendomi dal temporale tra i piloni della sopraelevata Aldo Moro, lo stomaco proseguì il proprio giro sulle montagne russe e mi costrinse a ricacciare indietro diversi conati. Le foglie distese a tappeto sul molo, sganciate dal tifone che stava inghiottendo Genova, divennero mollicce e vischiose proprio come me: fluttuante nell’aria gelida che manovra dissennatamente il destino d’ogni essere umano. Lo scrosciare del temporale coprì il rombo dei motori delle macchine, il fragore della risacca e il mio cuore che tuonava di malinconia consapevole che avrebbe dovuto rinunciare a Viola per sempre e che, per quanto in profondità rotolassi, avrei comunque escogitato un modo per precipitare più in fondo, perché neanche l’inferno sembrava abbastanza per me. Infine ritornai all’appartamento, fradicio. Caterina risucchiava bramosamente dal filtro l’ennesima Lucky Strike. Il posacenere traboccante di nuove cicche. Squadrò comionevole quel pulcino infelice dal cuore di pigna marcescente. «Esco a fare spesa» asserì subito pigiando il mozzicone nel posacenere. Indossò un soprabito sgusciandomi affianco. Traslocai alla finestra disegnando rigagnoli d’acqua sul pavimento. Il vetro rifletté una barba a filo spinato e sotto gli occhi delle fogne lugubri; uno spettro anziché un uomo.

Caterina comparve in strada riparata dall’ombrello e l’animale che mi abitava nell’anima le scagliò addosso lapilli incandescenti. Colmai la vasca da bagno che emanava odore di formica, e prima d’immergermi nel bollente ammollo, incendiai una Marlboro. Nel momento in cui la vasca si raffreddò, riemersi infilandomi l’accappatoio e selezionando abiti puliti dal solito borsone. Indossai giaccone e cappello scapicollandomi in Via del Campo desiderando la vana libertà di girovagare per Genova senza meta. La tramontana soffiava con aggressività dall’imbocco delle valli, intrufolandosi tra i carruggi dell’angiporto come una vipera tra le insenature della roccia. La temperatura, abbassatasi ulteriormente, toccò presto zero gradi, ma perlomeno il temporale finì. Purtòu raggomitolato in quell’angolo di Vico Dell’Amor Perfetto, imbottito di pagine di giornale sotto gli abiti, spartiva il giaciglio con un randagio coricatogli tra le gambe. «Purtòu?» invocai e lui, adocchiandomi soltanto, sogghignò con quella maschera rubiconda. «Bentornòu» esclamò «Mia, t’hae purtòu da béive?». «Ci andavo adesso». «Bravo zuenòttu...» pronunciò con il randagio che frignò dischiudendo appena le palpebre grumose. Nella taverna all’angolo pagai per due bottiglie di Val Polcevera tra le solite occhiatacce incandescenti. «Prego, favorisca» scherzai porgendogliela e Purtòu ciucciò come un pupo dalla mammella mentre il randagio, fiutando nell’aria, esibì delle iridi grigie, morte, oltre a puzzare quanto il fiato del diavolo. Purtòu si staccò finalmente dalla bottiglia bestemmiando empiamente. «Homo sine pecunia imago mortis» proclamò poggiando il fiasco su delle cassette di frutta. «Cosa vuol dire?» domandai.

«Un uomo senza denaro è immagine della morte. N’ommo sensa vin u pá na personna morta!» Risi rallegrato e bevendo d’un fiato. Un tremito mi attraversò la schiena. «Si gela stanotte!». «A morte a l’é u sêunno di bönni, a puïa de chi g’ha e palanche, l’uspisiu di misci, a cunsulasiòn de chi tribolla» asserì Purtòu che poi tradusse: «La morte è il sonno dei buoni, il terrore dei ricchi, il ricovero dei poveri e la consolazione dei tribolati». Conosceva una risposta per tutto. «Hai paura della morte?» domandai. «A morte nu se dêve dexiderâ e mancu temme. A vêgne a pareggià i conti co-e partiie» ribatté sollevando il fiasco e recitando un po’ impastato: «Immortale è chi accetta l’istante. Chi non conosce più un domani». «Salute!» chiosai ingollando assieme l’ennesimo sorso. In quell’istante un tuono brontolò e venne giù un acquazzone per diversi minuti che, in seguito, divenne un ordinario piovasco. Mi salì nelle narici l’umidità del carruggio, dell’urina e dell’immondizia. Riparai sotto l’architrave dell’ingresso principale dietro l’accampamento di Purtòu che srotolò un telo di plastica con due bastoni agli angoli che introdusse in appositi alloggiamenti sul lastricato. Il randagio s’assopì con lo scoppiettio delle gocce contro il telo di plastica. Consegnai una Marlboro a Purtòu che mi ricambiò un’espressione fissata. «Lêvre…» pronunciò «Chi t’hae faeto feua?». Guidai la schiena fiaccamente indietro posandomi sull’ingresso chiuso da una catena, depresso per l’immagine del cadavere della Credentino che riportai subito alla mente. Purtòu tossì e il torace gli tremò come la membrana d’un tamburo. Lusingò il pelo fulvo del randagio enunciando: «Italo Svevo ö dîva: “Si arriva all’assassinio per amore o per odio”». «Per quanto riguarda me...» asserii «Troppo dell’uno e dell’altro».

Chinai il capo fiutando l’aria carica d’esalazioni guaste col randagio che ringhiò costretto da un sogno arrabbiato. «T’ê staetu in galëa?». «Dodici anni» replicai e Purtòu abbassò gli occhi setacciando la pelliccia pulciosa della bestiola intanto che l’acquazzone riprese energico, inclemente. Nella successiva sorsata ricercai ciò che il carcere mi lasciò nella memoria. Ricordi distanti all’apparenza e tuttavia così recenti...

***

La prima settimana alle Murate la trascorsi insonne. Serate brucianti, sgombre da nubi di quelle che incoraggiano riflessioni verbose. Da quel piccolo pertugio di finestra guardavo il pallone lunare fatto di un’iridescenza che forava un cielo luttuoso e le stelle: minuscole biglie rilucenti nel firmamento sopra Firenze. Quel nido di mattoni diventò in poco tempo la proiezione claustrofobica del mio nuovo universo dai confini invalicabili. Vegliavo Firenze e riposavo tutto il pomeriggio. I primi mesi, infatti, apparivo sempre frastornato, la mente annebbiata, l’unico appagamento era scrutare il cielo a volte funesto, altre punzonato da piccole lanterne o pascolato da greggi di nubi argentee. Preferivo i temporali: tuoni, fulmini d’un colore alabastrino che fendevano il panorama tenebroso, accendendo dei cumuli inferociti. Ciò nonostante le giornate iniziarono a somigliarsi tutte, la dimensione del tempo curvò rigirandosi all’indietro, sembrando quasi retrocedere invece che avanzare, e quella cella divenne il sepolcro dove tumulai l’anima ad un eterno riposo.

15.

Spalancai l’ingresso dell’appartamento di Via del Campo quasi dimenticandomi di Caterina, divorata a morsi, strangolata dai miei tentacoli e con la capigliatura raccolta come una ninfea sulla superficie d’un laghetto. Soffriggeva, rosolava ai fornelli d’una cucina mai così produttiva. Con tono slombato domandai: «Che combini?». «La cena!» rispose «Tra poco mangiamo». Calcai sui bulbi coi polpastrelli, tristemente. L’aroma invitante delle padelle mi placò un po’ l’ira; ficcandomi nel bagno, davanti ad uno specchio inclemente e, fissando quel gran naso adunco che spartiva due occhietti vacui, pensai: “Se dovessi restaurarmi... Non saprei da dove cominciare”. «Si mangia!» starnazzò Caterina. Di fronte a due piatti stracarichi di pasta e pomodoro Caterina mi mostrò il giornale. Quel titolo dominava il frontespizio de La Nazione di Firenze. Al di sotto una fotografia di Roberto con occhietti allucinati e un’espressione contrita in una smorfia amareggiata.

Il cuore già spuntato compì un rimbalzo. Impallidii quanto un tozzo di sapone, la pelle mi s’allungò come non bastasse a coprirmi tutto, d’un tratto insufficiente. Caterina mi sradicò il giornale di mano fermandoci l’uno nello sguardo dell’altra, in agguato come leoni asserì: «È finita, capisci? Finita!» ma le pupille mi dardeggiavano di rabbia mentre il cuore mi diventò minuscolo quanto una cagata di mosca. Le abbrancai il collo, istintivamente, serrandolo con vigore. Caterina provò a liberarsi, l’espressione sgranata e dopo qualche istante, la spinsi indietro. «Bastardo!» sbraitò tenendosi il collo arrossito. Inspirò grandi sorsate d’aria. «Dovresti soltanto ringraziarmi! Grazie a me...». Non terminò quella frase, bloccandosi con uno sguardo collerico che nascondeva i piani segreti di quel suo cuore gelido. Fuggii scapicollandomi giù per le scalinate. «Filippo!» sbraitò Caterina. Grugnivo pestando i piedi sugli scalini desiderando spaccarli e sul palato mi parve d’avere una manciata di gesso. «Filippo!» chiamò Caterina ma l’ingresso principale della palazzina si serrò chiudendo all’interno quell’urlo disumano. Rimontai Via della Maddalena a perdifiato ritrovandomi in Piazza Corvetto senza nemmeno accorgermene. La furia mi trasmise un’energia senza logica. Appigliandomi alla cancellata Parco Pubblico della Villetta di Negro m’arrampicai scavalcandolo, evadendo dal mondo e salendo al belvedere. Rifiatai sfiancato su una panchina, trattenendo enormi sorsate d’aria e correndo il pericolo di perdere conoscenza quando i polmoni svaporarono e il cuore s’incrinò. Il meraviglioso panorama di Genova rallentò quella agitazione. Il mare una tavolata immobile apparecchiata di navi. Il faro che s’ergeva lontano sembrava un pugnale conficcato nell’acqua. Genova rifulgeva in un cartoccio inesplicabile di tetti e carruggi. Genova usata, Genova scarabocchiata e tra il reflusso distante

del mare mi parve di riconoscere lo sbraitare ossessivo di mamma che alzava la voce tutte le volte che le disubbidivo. Si spolmonava inutilmente considerato quel suo timbro da batuffolo di cotone. Inspirai l’aroma dolciastro che emanavano le siepi fradice di quel recente acquazzone simile all’aroma nella conca di carne tra una sua falange e l’altra. Il disco lunare rifletté bianco il volto di Viola ed il mio cuore issò l’ancora spiegando le vele sulla rotta dell’orizzonte dove viveva Matilde: una crisalide indifesa che una folata di vento strappò dal grembo della vita prima che diventasse una farfalla, una Venere delle cosce stupende e una gonnella talmente corta che ogni starnuto le scopriva il culo. Macchine volanti al posto dei seni. Valanghe di rocce sulla lingua. Un corpo che sarebbe stato una festa di compleanno e un temporale disordinato nei capelli. «Scusi?» reclamò qualcheduno nascosto da un raggio luminoso si inaspettato alle mie spalle. Coprii la vista con l’avambraccio. «È vietato entrare!» pronunciò dimenando la torcia elettrica. «Favorisca un documento». «Non ho documenti». «Allora nome e cognome». Le caviglie mi cedevano e cercai di scusarmi e congedarmi. «Zuenòttu!» berciò iracondo l’uomo. Mi indispettii. «Mi chiamo Vai di nome e Inculo di cognome» risposi. «Ti fae u gradasso? Ôa te fasso â a coae!» Tentai di sopravanzarlo, fuggendomene, ma l’uomo m’afferrò il polso. Irrigidendomi lo incenerii con uno sguardo terrificante. Indietreggiò carezzando il manganello. «T’ae coae de piggiâ dòi lerfoìn?» Silenzio. Levò il manganello dimenandolo mentre con la torcia elettrica mi confondeva la vista. Cambiai di posto desiderando solo farmi strada ma una

bastonata mi finì sull’avambraccio. La successiva invece s’impresse violentemente sulla mandibola con un crocchiare di ossa. Crollai al suolo, le gengive sanguinanti. «Ti n’oe áncoa?» D’un tratto però il fascio luminoso della torcia elettrica balbettò finché si estinse del tutto. Quando fummo nell’oscurità, l’uomo ebbe soltanto il tempo di bestemmiare, scuotere la torcia elettrica tentando di riaccenderla prima che dalle tenebre il lupo gli s’avventasse addosso.

***

Nocche arrossate, unghie luride, il mare ingrossato che urtava sul molo disegnando arabeschi d’acqua e schiuma. Un fetore che mi circolò sotto le narici sembrando provenire proprio da me; non sudore, piuttosto caglio o rancido. Valutai l’ipotesi di marcire dall’interno finché la linea perfetta dell’orizzonte schiarì in un bianco vivido. Un taglio dal quale fuoriuscirono zampilli di luce che dissanguarono il mare e impiastricciarono il cielo. Due camalli, i lavoratori del porto, transitarono a breve distanza ma senza curarsi di me, non più di quanto farebbero due pugili con l’arbitro durante un match importante. «Scusate!» chiamai e interruppero la loro chiacchierata. «Avete una sigaretta?». Mi esaminarono curiosi dopodiché quello brevilineo frugò nella tasca del piumino consegnandomi una Nazionale. «Ti stae ben?» domandò amichevole rammentandomi papà quando scolpiva certe durezze dell’aspetto con attenzioni d’infinita dolcezza. Assentii poppando avidamente dal filtro. «Grazie» accennai e accomiatandosi s’allontanò assieme al collega. Continuai a inspirare con ingordigia, avvertendo una gradevole sensazione di calore nella trachea. Nuvole plumbee avanzavano sottovoce in direzione di Genova, soldati che si trascinavano sui gomiti. Terminai quella muscolosa Nazionale proiettando immagini sullo schermo multicolore di quell’alba straordinaria finché i morsi

della fame mi costrinsero ad alzarmi. Acquistai un trancio di Fügassa co e oive (focaccia con le olive) con quei quattrini maledetti che oramai disprezzavo, divorandola a morsi furibondi mentre camminavo in direzione opposta a Via del Campo. In Piazza Fossatello affondai le zanne nella crosta croccante, ciancicando un’oliva e immaginandola uno dei bulbi crudeli di Caterina, finché d’un tratto la Sconosciuta arrivò da quella direzione. Espressione concentrata, capigliatura sciolta in grappoli d’uva, carnagione brunastra; una principessa del deserto su tacchi a spillo che procedeva con grandi falcate. La osservai finché proseguì oltre senza nemmeno considerarmi. “Quant’è bella” rimuginai e, mentre la smarrivo nella confusione, tentai di trafiggerla, pugnalarla con uno sguardo cercando un po’ d’attenzione.

***

Ester “a Raminga” spalancò la porta d’ingresso sfoggiando radiosa una dentatura apita. La ciccia le si avvoltolava sulle costole sagomando morbide terrazze laddove le mammelle precipitavano avanti come goccioloni di melassa traboccanti dall’orlo del barattolo. Cosce però snelle e robuste. «Ciao foestê». Scrutavo il soffitto tutto reclinato sul sofà, spossato ed a lottare tenacemente per non crollare addormentato. «Stu chi te tiâ sciû» garantì Ester irrompendo con uno stovigliare di tazzine e piattini. Stropicciai la faccia inaridita dal salmastro ed il gusto energico della qahwa m’avvinse in un tiepido abbraccio. «Cöse t’hae faetu in te man?» domandò Ester additando le mie nocche sanguinolente, rapprese, raschiate. «Ti t’ê taggioù?». «Tagliato? No, non è sangue mio...» chiarii sinceramente perché tanta premura

non meritava altre menzogne. «Ho picchiato un uomo ieri notte». Ester imparò dal mestiere a riconoscere il demone che albergava nelle persone e rimase assorta nelle proprie intuizioni finché ruppi quel silenzio. «Come procedono gli affari?» cambiai argomento. «Mancu goaei...» spasimò «Nu gh’o ciù tanti clienti oramai, ma pè fortûnn-a ho missû da parte doì dinae pè na pension tranquilla. Gh’è un mûggio de rivalitae e da quande l’e’ arriâ kuèla “libanese” a l’è staeta ‘na rouinn-a... Una rovina!» ribadì in italiano ingurgitando un sorso di caffè «Kuèla lì a l’ha l’imbarasso da scelta, a scöre finn-a i ommi, li caccia via, surviatûtto se sun italiani» dopodiché accostandosi mi bisbigliò: «Ho sentîu che a travaggia solo con i foestêi. Nu l’è strano pè na bagascia?». «Molto strano!» confermai «Libanese hai detto?» riproposi ed Ester assentì. «Un tôcco de donna. Bellîscima. Na statua de marmo. I ommi stan in sciá pòrta pè amiála cö a scciûmma a böcca... La schiuma alla bocca». Ester modificò il tono rendendolo acuto e misterioso. «Gh’è chi gh’a ôfriòu cinque vòtte u prexo ordenäio ma u l’êa italiano e lê a gh’a dîtu de no...» chiosando «E donne!». Assentii porgendole la tazzina vuota. «Posso averne dell’altro?». «De segûo urettu!» ribatté Ester riempiendo poco meno dell’orlo.

***

Svoltando controvoglia da Via delle Fontane nostalgiche folate di vento ripulirono Via del Campo. Rimontai le scalinate calibrando ogni scalino. Caterina mordeva il freno poggiata al parapetto. Nell’espressione le balenava un brillio folle mentre un gelo polare s’era depositato sulla mobilia e su quel suo cuore inanimato. La tavola ancora apparecchiata dalla sera precedente, la pasta

oramai raggrumata. Non pronunciò parola pigiando il mozzicone sul davanzale. ò di fianco, vestì il soprabito e abbrancò la valigia già preparata all’ingresso. «Ti telefono». «Chiamerò Viola e ritornerò a Firenze» avvertii mentre accostava la porta d’ingresso. Rivenne indietro per fissarmi arcigna. «L’indagine è conclusa. Il caso chiuso. È finita, lo hai detto tu stessa, quindi, come da accordi, tornerò a Firenze». Caterina non ribatté nulla, fuggì soltanto abbandonando nell’aria una fragranza di malva. Ciondolai finché affondai nel materasso spegnendomi dentro un letargo abissale credendola folle di gelosia perché le preferivo Viola. Stupido! Neanche potevo immaginare cosa stesse nascondendo.

***

Nell’appartamento gremito da membri di Liberazione Proletaria, visitai stanza dopo stanza trovandola così, meditabonda, perché la polizia in un blitz le aveva arrestato l’amore e Caterina sembrò sprofondata in un lutto assoluto. Nel momento in cui s’accorse di me, andò fuori del salotto, transitando dalla cucina senza proferire parola, nonostante con gli occhi mi pregasse di seguirla. Subito dopo aver richiuso la camera da letto, Caterina saltò ad abbracciarmi, gemendo per un’angoscia impossibile da sopportare. «Dobbiamo tirarlo fuori!» farfugliò. «Non preoccuparti... Si risolverà». «Devi aiutarmi, Filippo! Non sopravviverà in prigione» esortò disperata «Mi aiuterai?». Tentennai perché col leader oramai ingabbiato, nessun’altro avrebbe potuto prendere il suo posto. L’ideologia era stata spiantata dal terreno, il giocattolo frantumato ma Caterina,

eroica, non s’arrendeva a differenza di molti altri già fuggiti o autodichiaratisi fuori dal movimento. «Ti prego» supplicò sbaciucchiandomi «Per me! Aiutami... In troppi hanno abbandonato. Ho bisogno di te. Che desideri in cambio? Prenditi tutto quello che ho!». A quell’espressione dolce, apparentemente sincera, e soprattutto a quell’offerta potei soltanto rispondere: «Sì, t’aiuterò». Ipotizzai scioccamente di guadagnare da lei più affetto, attenzione o magari amore. Caterina sogghignò soddisfatta. Slacciò all’istante quell’abbraccio tagliando la corda; la commedia era terminata. Progettò scrupolosamente l’evasione, eseguì per conto proprio i sopralluoghi valutando ogni via di fuga, studiando la viabilità, gli orari del Maresciallo degli Agenti di Custodia. Io, d’altra parte, pur sorprendendomi per questo, ipotizzai che quelle capacità le derivassero alla lunga vicinanza al leader, senza mai dubitare alcunché.

16.

Viola non pronunciò parola, nemmeno respirava, sembrava non trovarsi nemmeno al telefono. L’avvertivo singhiozzare sommessamente, distante, come scostata dal ricevitore. Quella viva voce pronunciò solamente: «Pronto?». Poi le dissi: «Amore, sono Filippo» e precipitò nel silenzio, nella tristezza. «Viola!» chiamai continuamente senza risposta. Tuttavia non riattaccava. Tutto quel tempo separati e l’orrore vissuto diventarono il ricovero dove la rinchiusi. «Rispondimi...». Raschiò la laringe, inspirò riacquistando coraggio ed energie. «Dimenticami, Filippo». «Ti amo!» ribattei. Viola singhiozzava. «Mi ami?» tartagliò «Allora dimenticami. Filippo... Lasciami andare!». «Viola... Io...». «Addio» annunciò riagganciando, abbandonandomi al silenzio e alla desolazione incolmabile d’una squallida esistenza. Riagganciai il ricevitore studiando quella prigione attorno non certo migliore di quella del carcere alle Murate o Sollicciano. Poi d’un tratto avvertii incolmabile la mancanza di Jawad, l’unico amico in tutta una vita, l’unico che desiderai vicino in quel momento di profondo sconforto.

***

Nella settimana dell’arrivo di Jawad, un’estate torrida tormentava l’interno della cella di Sollicciano dove mi trasferirono. Mosche ronzavano in un moto perpetuo; una squadriglia disorganizzata, senza criterio. Cavalcioni sulla branda, incidevo un piccolo specchio con un chiodo arrugginito e, nonostante indossassi soltanto mutande, sudavo copiosamente. L’estate rese quell’inferno ancor più insopportabile. Trattenni un respiro, spannai la fronte. Una volta scalfito, aggomitolai lo specchio poggiandoci sopra il cuscino per poi colpirlo ripetutamente. Quando avvertii lo specchio rompersi, rialzai il cuscino e sgrovigliai lo specchio riflettendomi attraverso quel mosaico in frantumi. Barba incolta, pupille svanite, frangia appiccicaticcia incollata alla fronte. Agguantai il più grande frammento di specchio, poggiai l’avambraccio sulla coscia reclinando il polso ed avvicinai l’estremità appuntita del frammento di specchio infilandola nella carne. Percepii una puntura di spillo e una lacrima sanguigna fuoriuscì dalla ferita sgocciolando sul pavimento. Tentennai e finì tutto. Esaminai quell’espressione vinta riflessa nel frammento di specchio, umiliata dalla codardia, affezionata a quella vita quanto una moglie al marito fedifrago, schiava delle paure, della cieca obbedienza mentre gli scongiura di rimanere aggrappata ai pantaloni. Permisi alla ferita di sgolare finché si coagulò. Risciacquai e rinfrescai la faccia, ritornai a sdraiarmi rannicchiandomi consapevole che non sarebbe avvenuto mai niente di buono ed invece... ...Jawad entrò a settembre 1988 premendo contro il torace un sacco di nylon con pochi vestiti. Un signore dignitoso, inadeguato, dallo sguardo distratto. Non proferì parola raggomitolandosi sulla branda e riposando fino all’alba successiva. Risvegliandosi si spaventò nel trovarmi concentrato ad ammirare un’alba che ungeva l’oscurità. Rise sotto i baffi con una rinnovata serenità nei lineamenti che lo restituì completamente diverso; come se quel letargo l’avesse placato. «Ti ho messo da parte del cibo» annunciai indicandogli un vassoio. Jawad lo poggiò subito sulle cosce mangiucchiando affamato. Gli regalai una specie d’intimità ritornandomene a studiare il cielo. «Già sveglio?» domandò mordendo del pane con la tipica intonazione

mediorientale. «Mi piacciono le stelle» risposi e, scoprendomi estasiato, Jawad posò il vassoio per concedersi anch’egli un’occhiata all’esterno. Sgranchì la schiena osservando l’orizzonte. Fu istantaneamente catturato da qualcosa che lo fece sussultare di stupore e ghignare beffardo. «Shaitan…» asserì, dopodiché stropicciò i bulbi aggiungendo «T’intendi d’astronomia?». Dissentii e Jawad m’indicò l’orizzonte. «Insolito che s’osservi così perfettamente...». «Che?» domandai. «Laggiù... Venere». Scrutai l’orizzonte tracciando una linea immaginaria con l’origine dall’indice di Jawad. Trascorso qualche istante avvistai quella minuscola sfumatura grigia. «La stella del mattino portatore di luce» asserì Jawad, dopodiché aggiunse: «Lucifero!». «Lucifero?» rimbeccai. «Esattamente. Lucifero dal latino lucifer ovvero lux, luce, e ferre, portare. Portatore di luce» confermò Jawad riaccomodandosi sulla branda e riprendendo a consumare quel gelido pasto. Aspettai deglutisse il boccone e continuasse la spiegazione. «E ci fu una battaglia nel cielo…» declamò Jawad «Michele e i suoi angeli combatterono il dragone e vinsero, dopo per lui non ci fu più posto nel Cielo. Il gran dragone, il serpente antico, chiamato Diavolo o Satana, il seduttore di tutto il mondo, fu gettato giù sulla Terra e con lui i suoi angeli». Jawad ripose il vassoio razziato, frugando nella sacca di nylon e dichiarando: «È una citazione dal libro dell’Apocalisse». Dispose con ordine sulla branda vestiti, asciugamano, custodia per occhiali, spazzolino da denti e libri, tra cui il Corano. L’osservai curioso mentre Jawad baciò la copertina poggiandolo con accuratezza sulla scrivania tra le rispettive brande.

«Cosa significa Shaitan?» domandai. «In arabo si riferisce agli esseri malvagi simili al Diavolo che chiamiamo Iblis. Secondo il Corano, Dio creò Iblis da fuoco senza fumo ed egli non ha altro potere se non quello di gettare suggestioni malvagie nel cuore degli uomini nel tentativo di corromperli». Poi Jawad ironizzò: «Con noi c’è riuscito». Catturò gli occhiali dalla custodia infilandoli. «Mussulmano?» insinuai. Dopo quest’insensata domanda, Jawad sembrò incupirsi mentre l’alba al contrario infiammò la cella. «In teoria...» rispose «In realtà un mussulmano non dovrebbe trovarsi qui, ma suppongo che questo valga anche per i cristiani» sostenne additandomi e inarcando le sopracciglia. «In teoria» contestai e Jawad sogghignò senza che riuscissi a distinguergli le labbra nascoste dalla folta barba. «A proposito... Piacere, Jawad». «Filippo» risposi salutandoci. Il palmo di Jawad enorme e bollente. «È la prima volta?». «Cosa?». «Venere... L’hai visto oggi per la prima volta?». «No, cioè non ricordo...» borbottai ritornando ad osservare quella biglia distante oramai impercettibile al chiarore dell’alba. «In base alla teologia mussulmana...» spiegò Jawad «Il diavolo, Iblis, venne espulso dalla grazia di Dio quando gli disobbedì, scegliendo di non rendere omaggio ad Adamo, il padre dell’umanità, in quanto si riteneva superiore. Scelse di disobbedire a Dio e quest’oltraggio lo portò alla cacciata dal Paradiso. Iblis accusò l’umanità intera e da quel momento ha la missione di ingannare gli uomini scoraggiandoli nell’obbedire a Dio, facendo loro abbracciare le

tentazioni, illudendoli, così che non siano ricompensati col Jannath ul firdaus, cioè il Paradiso». «In pratica siamo fregati!» suggerii e Jawad fuoriuscì con una risata. «Dipende...» affermò «Alcune correnti gnostiche interpretano la figura di Lucifero come una chiave liberatrice per l’uomo dalla tirannia di Dio. Dio avrebbe voluto mantenere l’uomo schiavo, mentre Lucifero punterebbe all’elevazione dell’uomo attraverso la conoscenza. Portatore di luce appunto e quindi salvatore dell’uomo». «Possibile?» domandai e Jawad brandì l’asciugamano sulla branda accomodandoselo sulla spalla. «Allah Akbar cioè Dio è il più grande. Non esiste nient’altro». Consumato il pranzo, restammo supini ognuno sulla propria branda chiacchierando amabilmente. Fu interessante averlo come compagno di cella perché da quando fui trasferito a Sollicciano, dopo un periodo trascorso in isolamento, iniziai a condividere la cella con altri detenuti, ma prima di Jawad non strinsi rapporti d’amicizia. Con Jawad fummo sfortunati naufraghi approdati sulla medesima isola deserta. Lui era entusiasta, istruito, cordiale, discreto, perdonava interminabili silenzi attendendo che lo Shaitan mi liberasse. «Jawad?» gli chiesi una sera. «Sì...» bofonchiò. «Sei prete?». «No...» ridacchiò «L’Islam non riconosce né ammette un clero, perché crede che non possa esistere alcun intermediario fra Dio e le sue creature, però ero Imam di una moschea». «L’Imam è una specie di prete?». «Non come intendi...» rispose Jawad, premuroso «L’Imam è un mussulmano con buone conoscenze liturgiche incaricato dalla maggioranza dei fedeli di condurre

in moschea la Salãt ovvero la preghiera canonica che i musulmani compiono obbligatoriamente in cinque specifici momenti della giornata». Compresa la spiegazione, ritornammo in silenzio finché gli domandai: «Se è obbligatoria perché non preghi?». Jawad non rispose, al contrario, trascorse tempo a sufficienza che presunsi dormisse. Rialzandomi sui gomiti però gli notai le tempie inumidite da rigagnoli umidi. «Jawad?». Sollevandosi afferrò il Corano sfogliandolo finché si fermò su d’una pagina particolare, indossò gli occhiali e tradusse esitante: «Guidaci per la retta via, la via di coloro sui quali hai effuso la Tua grazia, la via di coloro con i quali non sei adirato, la via di quelli che non vagolano nell’errore» infine rimuovendo gli occhiali, aggiunse: «Per essere un Uomo dell’Islam bisogna esercitare il bene e la pietà...». Respirò a lungo per poi continuare commosso «La parola Islam e Salam, cioè Pace, hanno la stessa radice, sono fuse una nell’altra ed un mussulmano ha il dovere di assolvere la Jihãd, l’impegno sulla Strada di Dio, nella speranza di vedere un giorno il volto sacro di Allah». Quasi soffocato Jawad coprì il volto chinandosi. «Cos’hai combinato, Jawad?» domandai poiché non mi capacitavo che un uomo così amorevole, saggio, stesse rinchiuso a Sollicciano. Jawad rialzandosi s’affacciò alla finestrucola della cella. «Ti racconterò Imad... Prima o poi. Ti racconterò come Iblis ha agito impedendomi l’accesso al Jannath ul firdaus». Nel tentativo insulso di rincuorarlo asserii: «Se ritornassi a pregare potresti ottenere il perdono». Jawad però dissentì. «Allah Akbar…» ribadì «Allah è il più grande e infinita è la sua misericordia, ma non voglio essere sciolto dalle colpe. Nel mio cuore Iblis ha eretto una

fortezza e non merito il perdono perché in me non riconosco peccato. Rifarei ciò che ho fatto altre mille volte».

***

La figlia minore, Zahra, provvedeva a procurare i libri che Jawad leggeva sempre dopo pranzo, sprofondando in silenzi impensabili. Quel pomeriggio Jawad ripose il libro rimuovendo gli occhiali. «Su che rifletti Imad?». «Mamma...». Jawad ripiegò un braccio sotto al cuscino. «Tuo padre?». «Morto» risposi e Jawad si corrucciò dispiaciuto. «Nato a Firenze?». «Sì. Tu?». «Damasco, Siria, il paradiso in terra». «Solamente?» ironizzai e Jawad provò a persuadermi. «Damasco è attraversata da molti corsi d’acqua. L’estate è calda ma il clima rimane secco, l’inverno fresco, addirittura freddo qualche volta e tutta attorno è circondata da deliziose colline verdeggianti». «Perché ti sei trasferito in Italia?» incalzai. «Ho studiato all’università di Roma laureandomi in Teologia con punteggi eccellenti. Ritornato a Damasco mi sono sposato e nel 1974 il consiglio comunale di Roma diede la delibera per la donazione di un terreno sotto il Monti

Parioli per la costruzione di una moschea. La comunità musulmana romana mi chiese di trasferirmi ma purtroppo i lavori per la moschea non partirono fino al 1984 e, quando posarono la prima pietra, avevo già accettato un’offerta dall’università di Teologia qui a Firenze. Così mi trasferii con moglie e figlie. La comunità musulmana fiorentina...». «Scusami Jawad...» interruppi «Figlie? Credevo che Zahra fosse figlia unica...». Il volto butirroso di Jawad si contrasse. Imbarazzato da quell’ignorante curiosità, mi scusai avvertendo lo stomaco zeppo di pietre. «Non preoccuparti Imad...» tranquillizzò Jawad inspirando «Zahra è la secondogenita. La primogenita si chiamava Ambar». Jawad dovette interrompersi, mulinando le pupille, soggiungendo nell’istante seguente: «Ricordo che quando nacque aspettavo nel giardino della nostra casa a Damasco con parenti e amici, tutti in trepidante attesa del lieto evento. Nervoso, occupai un posto tranquillo per recitare le preghiere e l’Onnipotente Allah iniettò nell’aria un penetrante profumo d’ambra. In quel preciso istante avvertii il vagito della primogenita che chiamai Ambar, profumo d’ambra». Jawad proiettò sul soffitto il viso della figlia. Non mi contenni e domandai: «Perché parli al ato?». Jawad ottenebrò il tono. «Ambar fu promessa sposa di Jaffar, la cui famiglia si trasferì a Firenze appositamente per favorire il matrimonio tra i nostri figli. Un pomeriggio, un uomo di nome Walid, ossessionato segretamente dalla bellezza matura di Ambar, nonostante i diciassette anni, l’avvicinò e con un pretesto la trascinò dentro casa violentandola per ore finché la moglie Huda non lo sorprese ad abusarne. Walid si giustificò sostenendo che fu Ambar a provocarlo. Umiliata, stuprata come una capra nel deserto siriano, non le servì a nulla disperarsi nel tentativo di difendersi dalle accuse. Jaffar, subito informato dell’accaduto dal cugino Talib, si presentò a casa e accecato di gelosia insultò Ambar; troppa l’umiliazione e l’oltraggio secondo Jaffar che non volle credere all’innocenza di Ambar. La trascinò in corridoio aiutato da Talib che picchiò mia moglie perché “osava” difendere la figlia. Jaffar e Talib massacrarono Ambar di pugni e calci fino ad ucciderla». A quel punto Jawad si bloccò per inghiottire amaramente.

Non m’azzardai nemmeno a fiatare. «Quando rientrai a casa con Zahra, aprendo la porta d’ingresso, intravidi una striscia rossastra spandersi sul pavimento del salotto. Richiusi bruscamente l’uscio. “Che c’è papà?” domandò Zahra. La strinsi con forza correndo a casa del vicino Hisham e della moglie Nura alla quale affidai Zahra e con Hisham tornai indietro. Ambar stava riversa sul pavimento immersa in una pozza di sangue: il cranio sfondato, i lunghi e bellissimi ricci tutti appiccicati. M’inginocchiai e singhiozzai stringendomela addosso. Hisham perlustrò la casa trovando mia moglie svenuta. La soccorse e quando si riprese ci raccontò tutto: dallo stupro di Walid alla furia di Jaffar e Talib. “Me l’hanno ammazzata quei maiali...” strillava. L’affidai alle cure di Hisham e senza aggiungere nient’altro andai fuori. “Jawad...” chiamò Hisham “Dove stai andando, Jawad?”. Non risposi. Il primo fu Walid: sua moglie Huda m’aprì alla porta e la spinsi vigorosamente indietro. Quel cane di Walid stava davanti alla televisione come niente fosse. Huda strillò e Walid fece in tempo solo ad alzarsi. Lo colpii con un pugno in faccia facendolo cadere sul televisore. Sfilai la cinta dai pantaloni salendogli sopra e attorcigliandola al collo. Più pesante, più forte e accecato dalla rabbia. Huda tentò d’aiutare il marito picchiandomi sulla schiena con dei pugnetti magri. Walid si dibatté quasi un minuto finché la luce dell’anima negli occhi fu spenta. Jaffar e Talib invece li scovai ubriachi fuori da un bar nei pressi di Piazza Lorenzo Ghiberti. Avvicinandomi a loro impugnai una bottiglia di birra abbandonata su d’un tavolo che ruppi sulla testa di Jaffar che cadde avanti frastornato. Talib mi fissò terrorizzato ma non ebbe il tempo di parlare che gli conficcai nel petto quel che restò della bottiglia. Talib spalancò la bocca poi precipitò a terra, morendo nel giro d’un minuto. Le persone presenti nel bar urlarono e scapparono via. Raccolsi Jaffar trascinandolo fuori per i capelli e sbattendogli la faccia sull’asfalto finché non gliela fracassai. Quando lo mollai era irriconoscibile: tumefatto e ricoperto di sangue. Sedetti accanto al cadavere attendendo l’arrivo della polizia». Senza fiato cercai lo sguardo di Jawad smarrito nel nulla. Lasciai trascorrere qualche minuto dopodiché gli domandai: «La condanna?». «Tre ergastoli».

«Mi dispiace» fu l’unica banalità che riuscii a pronunciare. «Non dispiacerti per ciò che ho fatto Imad. C’è un altro inferno, ben più terribile, che m’attende». A quel punto avrei desiderato raccontargli la mia storia, ma abbandonai l’idea quando Jawad si girò sulla schiena. «Dormo un po’» annunciò. «Buon riposo». «Grazie Imad». «Jawad... Perché continui a chiamarmi Imad? Che significa?». Jawad si rannicchiò e senza voltarsi chiarì: «Imad in arabo significa Conforto. Tu mi dai conforto, amico mio». Indossai un silenzio commosso finché Jawad s’inabissò dentro un torpore pesante. Sdraiandomi anch’io pensai ad Ambar ed a come operasse il destino regalandomi un amico, un fratello, un padre proprio in carcere. Perdemmo entrambi l’accesso al paradiso, ma mi confortò l’idea di poter condividere l’inferno assieme.

17.

Jawad ispezionava l’oscurità alla ricerca d’un corvo che gracchiava, ma col piumaggio bruno era un’impresa praticamente impossibile, nonostante il chiarore elettrico dei faretti sul muro di cinta. Né io né Jawad avevamo troppa voglia di riposare. M’allungai sulla branda con Jawad di vedetta. Incupito, osservai il soffitto e Jawad, pur notando quel mio stato d’animo, improvvisamente mutato, non osò ugualmente forzarmi a parlare. Il corvo gracchiò altre volte e, crudelmente, senza che Jawad mi domandasse niente, gli raccontai tutto quanto: «Era il 1978...» sospirai «Quel pomeriggio minacciava temporale. Caterina suonò il camlo dell’alloggio di servizio adiacente al carcere delle Murate e l’abitazione del Maresciallo degli Agenti di Custodia, responsabile della vigilanza. Con uno stratagemma si fece aprire la porta dalla moglie del maresciallo, dopodiché, col volto coperto, ovviamente, la minacciò con la pistola. Gli altri entrarono cominciando a segare le sbarre della finestra che affacciava sul cortile interno del carcere. Nel frattempo Gianni portava a termine un identico lavoro con le sbarre alla finestra della cella. Il piano consisteva nell’aprirgli una via di fuga attraverso l’appartamento del maresciallo. Fatalità volle che in quel frangente transitò una pattuglia della polizia, notando quelli di sentinella: il primo imbracciava un mitra, il sottoscritto una rivoltella. Quando i poliziotti uscirono dall’auto intimandoci di abbassare le armi, il ragazzo col mitra aprì il fuoco. Caterina, avvertendo la raffica, raggiunse la porta d’ingresso dell’alloggio di servizio esattamente quando l’agente di polizia, Fabrizio Maggiorelli, scartò di lato puntandomi la pistola. Caterina gridò di sparargli e premetti automaticamente il grilletto: una, due, tre volte. Un proiettile gli spappolò il cuore, come spremere un pomodoro maturo, il secondo gli perforò un polmone, il terzo lo stomaco. Morì all’istante mentre l’altro fu ferito alle gambe dalla raffica di mitra. L’evasione a quel punto era fallita e fummo costretti a fuggire». Jawad ascoltò rimanendo in piedi tutto il tempo. Il contorno della testa rischiarato dall’arancio nervoso dell’illuminazione interna del carcere di Sollicciano. «Nient’altro...» terminai e Jawad dopo una breve pausa, soggiunse:

«Quando mi comunicarono che avrei condiviso la cella con Filippo Dellaria, restai atterrito. Entrai in cella obbligandomi a dormire per vincere l’ansia iniziale. Cancellai quello che lessi sui giornali mettendo alla prova l’uomo; del resto il mio crimine è altrettanto terribile. Al risveglio mi dicesti d’aver conservato del cibo per me e quel gesto lo giudicai ben augurante». Jawad rivenne a sedersi sulla branda, poggiando i gomiti sulle ginocchia. «Imad... Quello che hai raccontato adesso l’ho letto sui giornali o ascoltato nei telegiornali. Desidererei che mi raccontassi cos’è accaduto prima di quel pomeriggio». «Adesso no...» risposi rattristato. «Come preferisci Imad...» dichiarò Jawad che afferrò subito un libro e inforcò gli occhiali poggiando la schiena sul muro. Fissai l’oscurità libera, aldilà delle sbarre. Jawad lesse indisturbato per mezz’ora senza mai staccare lo sguardo dalle pagine. Quel silenzio m’innervosiva e conclusi che avrebbe pesato meno vomitare tutto quanto. «Quando Liberazione Proletaria fece il primo morto stavo nel gruppo da pochissimo tempo e svolgevo più che altro lavori di volantinaggio e segreteria...» raccontai greve e Jawad abbassò il libro chiudendoselo tra le cosce. Tolse gli occhiali ascoltandomi in totale silenzio. Proseguii. «Ammazzarono un consigliere provinciale di Democrazia Cristiana davanti casa. Gli spararono in faccia come ad un animale. Lo stesso anno piazzarono una bomba fuori dalla sede del medesimo partito e quello successivo ammazzarono due agenti di polizia, incendiarono magazzini, centri commerciali, negozi, minacciarono sindaci, deputati e consiglieri comunali. Assaltarono armerie e fallirono due attentati alle ferrovie e alla rete elettrica. Esistevano cellule in Piemonte, Puglia, Lombardia, Lazio e ovviamente in Toscana. Il leader era Gianni Crivello: barba folta, capelli lunghi e pupille d’un azzurro pallido, quasi bianco». Jawad annuì compunto mentre avvertivo la testa pesante, come riempita di ghiaia, ma proseguii ugualmente. «Nell’ottobre del 1977 la neonata Liberazione Proletaria tenne una conferenza istitutiva nei pressi di Firenze. Non ricordo nemmeno perché andai: curiosità presumo o l’opportunità di ascoltare questo anticonformista dal fascino criminale. Fu lì che vidi la prima volta Caterina. La notai sotto il palco dal quale s’inveiva con animosità. Splendida dentro un soprabito cenerognolo. Cambiava di posto ai capelli in continuazione ed ogni movimento gettò sale sulla ferita. Cominciai a partecipare ai comizi soltanto per rivederla e per il medesimo motivo entrai nel movimento». Sogghignai

malinconico sparecchiando la fronte. Jawad ascoltava soltanto. «C’era un motto che iniziò a circolare tra i gruppi che si autoproclamavano “i nuovi partigiani”: are dalla forza della ragione alla ragione della forza. Il modo di dimostrare la presenza dei movimenti mutò, eppure io esistevo soltanto in quel sogno lucido nel quale desideravo Caterina, la compagna del leader di Liberazione Proletaria». Jawad seguì il racconto concentrato e raramente riuscii a ricambiargli lo sguardo. Deglutii. «Dunque arrivò quel pomeriggio... Il cielo azzurro sopra Via Gioberti dove si svolgeva la solita noiosissima assemblea. Fumacchiavo assorto nei miei pensieri quando inaspettatamente una voce femminile mi pregò una sigaretta. Caterina, sorridente con un bel cappello bianco e tornita alla gola da una sciarpa di lana. Aspirò squadrandomi dai lacci delle scarpe alla punta dei capelli. Ciucciai un po’ di catrame e ramazzai la chioma nervoso. La desideravo con una tale foga che baciandola le avrei staccato la lingua. Restammo in silenzio finché con stupida ignoranza le dissi: “Devo confessarti una cosa...” m’osservò perplessa “Sono innamorato di te!”». Jawad scoppiò in una risata fragorosa. «Le hai detto così?». «Sì» risposi vergognandomi. «E...». «Caterina scoppiò in una risata simile, Jawad. Scappai via umiliato. Avrei certamente pianto se non m’avesse rincorso domandandomi se parlassi seriamente. Quegli occhi sciolti da un’onda come un castello di sabbia risposero al posto mio. “Ma sai con chi sto?” accennò Caterina. Scossi le spalle disinteressato. “Tu sei matto!” ridacchiò». Pettinai i capelli con le dita sistemandoli dietro alle orecchie. «Inizialmente dovetti farle una gran tenerezza ma col tempo, sentendosi trascurata da Gianni, cominciò a concedermi una lieve speranza. Nessuno osava nemmeno avvicinarla tranne il sottoscritto». «E cosa accadde poi?» domandò Jawad. «Chi la dura la vince!» proruppi «Un pomeriggio Caterina m’invitò nell’appartamento in Via dell’Ulivo e appena entrai mi saltò al collo scassinandomi i denti con la lingua e una serie di baci disperati. Gianni non trovava tempo per amarla e così Caterina fu un incendio e quella stanza l’inferno dove precipitai. Desiderava attenzione e la ottenne dall’unico dissennato disposto a rischiare la pelle pur di dargliela».

«T’amava?». «No, amava Gianni. Diventai una vendetta, una ripicca. Mi usò per prendersi un po’ di calore e in seguito approfittò dei miei sentimenti per farlo evadere di galera». «Quindi ha approfittato di te?». «Quando arrestarono Gianni speravo in una telefonata da settimane... Arrivò soltanto grazie al blitz della polizia che prelevò Gianni per trasportarlo alle Murate in attesa del processo per direttissima». «Perché partecipasti all’evasione?». «Dopo il fuggi-fuggi generale, restammo contati: Caterina, Sante Valeri, Cecilia Giulianelli e Paolo Gori, l’anziano del gruppo che non era d’accordo che partecii, ma Caterina insistette perché le occorreva un quinto uomo e c’era poco tempo prima che trasferissero Gianni. Alla fine convinse anche Paolo... Il resto lo conosci». Jawad annuì dopodiché aggiunse qualche domanda: «Perché non sei scappato via?». «Dopo la fallita evasione il commando si disperse e fu il panico. Rintracciai al telefono Roberto Boschi, un affiliato, che mi riferì l’ordine in caso di cattura: non lasciar uscire il nome di Caterina per nessun motivo». «Caterina quindi l’ha fatta franca?». «Al processo la moglie del Maresciallo degli Agenti di Custodia testimoniò che nell’alloggio di servizio entrò una donna, soltanto in seguito un uomo e un’altra donna ma non ci fu riscontro. Le indagini proseguirono finché dedussero che nella concitazione la moglie del Maresciallo fu ingannata da Sante Valeri che portava i capelli molto lunghi sotto il amontagna. Con la condanna del sottoscritto, in pratica, terminò il processo». Jawad attese qualche momento cercando di ricordare. «Quando vidi le immagini alla televisione...» disse «Restai impressionato da

quant’eri giovane e la rabbia della gente in quell’aula di tribunale sembrò atroce. Rimasi molto turbato soprattutto quando urlasti “Mamma!” mentre ti trascinavano via». «Già» borbottai. Il corvo gracchiò e Jawad sbirciò fuori asserendo d’averlo intravisto. A quel punto mi spostai sul fianco, faccia contro al muro. «Sai che...» accennò Jawad ma si bloccò trovandomi rannicchiato. Tornò a leggere lasciandomi a rimuginare su quel tormento.

***

Jawad leggeva La Nazione mentre ammiravo la mattinata grigiastra di quel gennaio 1989. «Accidenti!» commentò Jawad. «Che c’è?» domandai. «Hanno sparato al vice direttore del carcere di Rebibbia, Egidio De Luca». «Morto?». «No, lo hanno ferito alle gambe. È rimasta illesa una guardia carceraria che pare abbia sparato a sua volta ferendo uno degli aggressori. De Luca ha dichiarato che volevano rapirlo e che si sono dichiarati appartenenti alle BR». Scossi il capo poggiando la schiena contro il muro. Jawad abbassò il giornale guardandomi teneramente. «Imad cos’avevi in comune con questa follia?». «Nulla» scherzai «La mia rivoluzione fu d’amore. Mi ritrovai in prima linea improvvisamente. Ero nell’organizzazione ma non vuol dire che sapessi i piani d’azione o gli obiettivi. La maggior parte li scoprii anch’io dai giornali o dalla televisione. Liberazione Proletaria, come altri movimenti esistenti in quel

periodo, era strutturata in gruppi di fuoco inquadrati in cellule, a loro volta raggruppate in colonne sotto una direzione strategica di Gianni Crivello. Poi c’erano i fiancheggiatori, i simpatizzanti e gli affiliati a vari livelli. Fino all’arresto di Gianni, mi consideravano un reietto con un impegno limitato a piccoli commessi». Jawad piegò il giornale mettendolo da parte. «Perdonami l’insistenza Imad, ma gli attentati, gli omicidi rivendicati da Liberazione Proletaria non ti misero in guardia? Non capivi d’essere affiliato a dei terroristi?». «Mi convinsero d’essere nel giusto e tutto il resto rimbalzava contro la mia ignoranza ed ingenuità. Nella tragicità dell’accaduto, quei colpi di pistola che sparai a Fabrizio Maggiorelli, dipanarono la foschia della mente, frantumando il vetro d’illusione che mi sistemarono di fronte». Jawad non domandò nient’altro. La fiacchezza che pesava sulle spalle mi serrò anche le gambe. Appena mi sdraiai sulla branda, piombai in un letargo pesante.

***

1990. L’ingresso della cella s’aprì e Jawad abbassò il libro che stava leggendo. Rientrai da un colloquio con l’avvocato. «Brutte notizie Imad?» domandò mentre la porta si richiuse con un tonfo sordo. «Esco» ribattei. Jawad strabuzzò gli occhi incredulo avanzando sul bordo della branda. «Sul serio?». Annuii. «L’avvocato ha ottenuto una ulteriore sconto di pena. I dodici anni che ho scontato sono sufficienti».

«È una grande notizia! Perché non sei felice?». Ciondolai verso la branda, sconfitto. «Mi domando cosa farò fuori? Non ho amici, né persone disposte ad aiutarmi. Mia madre in dodici anni non è venuta a trovarmi nemmeno una volta. A questo punto è meglio la galera». Jawad mi poggiò una mano sul ginocchio. «Non preoccuparti Imad... Andrà bene!».

***

Tutte le mie cianfrusaglie dentro una valigia regalatami dalla moglie di Jawad nell’attesa che firmassero le ultime scartoffie. Jawad mi ò un foglietto. «Questo è il numero di telefono e l’indirizzo di casa mia e di Hisham. Di qualsiasi cosa tu abbia bisogno, chiama». Lo trattenni come un assegno. «Sei troppo gentile...». Jawad rise. «Caro Imad, tu sei mio figlio e io tuo padre: come non potrei occuparmi di te. Abbiamo condiviso così tanto e tu sei stato così di conforto che adesso tocca a me restituirti qualcosa. In arabo Jawad significa Colui che dà a piene mani perciò se lo ritenessi necessario, vai nella mia casa e prenditi tutto quello che ho». Scoppiai in un piagnisteo infantile, singhiozzando con una foga incontrollabile. Jawad mi sollevò dalla branda tirandomi per i polsi, legandomi dentro quelle braccia forti fin quando la cella s’aprì e un secondino m’ordinò di seguirlo. Jawad mi consegnò un fazzoletto suggerendomi di asciugare le guance. «Grazie Jawad».

«Mi raccomando Imad: adopera quei numeri di telefono». «Dellaria!» eruppe il secondino infastidito dall’attesa. «Arrivederci Jawad! Verrò presto a trovarti» «Arrivederci Imad. Ti aspetta una vita migliore» asserì con una gioia confortante. Lo fissai finché la cella fu richiusa con il solito tonfo sordo che sembrò echeggiare ben oltre il corridoio del carcere di Sollicciano.

18.

Sobbalzai risvegliandomi sul pavimento freddo dell’appartamento di Via del Campo, la cornetta bloccata nel pugno. Ricordai subito di Viola e di quell’addio che non era un incubo ma la cruda realtà e sentendomi soffocare tra quelle quattro mura, indossai il giaccone tagliando velocemente la corda. Il porto di Genova era insolitamente silenzioso tranne per il ricordo delle ultime parole di Viola che ancora mi echeggiavano nel cervello. Il fruscio morbido delle onde crosciava come sottofondo al trambusto della Sopraelevata Aldo Moro distante un centinaio di metri. Il Bacino delle Grazie rimaneva fermo come una pozza di fango, mentre la città, al di là dei casermoni della Calata Boccardo, dormiva un riposo annoiato. La Lanterna dominava il porto adombrato dalla serata azzurra come un gigante indifferente, finché d’un tratto una tristezza incontenibile sembrò abbracciare l’intero porto di Genova cominciando dal Molo Guardiano all’Arena del Mare, al Terminal dei traghetti fino al Porto Antico alle mie spalle, correndo su quella sopraelevata luccicante e sinuosa che brusiva poco lontana. Imboccai l’ennesima Marlboro e, una volta accesa, rinfilai le mani nelle tasche del giubbotto, adoperando soltanto le labbra per aspirare fumo e ricacciarlo fuori. La brezza gelida mi arrossì le pellicine attorno alle narici e d’un tratto uno strano picchiettio sembrò avvicinarsi. Voltandomi, scandagliai l’oscurità. Un grosso cane s’avvicinò affannando con una lingua smisurata che gli penzolava delle fauci. Sproporzionato da un enorme capo su una corporatura asciutta, sfiatava pesantemente come una locomotiva. Ciondolò facendosi vicino ma sembrò ignorarmi. Si trattenne un attimo ad annusare l’aria dopodiché proseguì tronfiamente. Pochi istanti dopo percepii dei i avvicinarsi dalla stessa direzione. Un uomo vagabondava e ci fissammo qualche istante finché con coraggio s’avvicinò. «Hai una sigaretta?». Sfilai il pacchetto di Marlboro dalle tasche e si sedette accanto ringraziandomi. I barlumi arancio e giallognoli della cala gli schiarivano quel viso puntuto. Vestito

totalmente di scuro, portava capelli argentati legati in una coda dietro la nuca. Piccoli occhietti neri, viso oblungo, una bocca strettissima anche quando sorrideva. Accese la bionda col proprio accendino restituendomi il pacchetto. «Mi chiamo Marco...» disse protendendomi la mano gelata che strinsi mollemente. Staccai la sigaretta dalle labbra inumidendole con una spennellata di lingua. «Filippo» risposi, dopodiché tornammo a contemplare il mare. «È un bella serata... Solitamente è deserto da queste parti, mi piace per questo» commentò credendo conversasse con la luna e non con me. Marco sembrò avere un’inflessione familiare; non mi convinse fin dal primo momento. «Una gran bella serata...» ripeté «Fredda e buona». Smorzai la cicca sull’asfalto carezzando faccia e capelli. «Abito in Piazza di Sarzano...» proseguì in quel dialogo senza repliche «La sera porto il cane a fare due i». «A quale civico?» domandai. «Cosa?». Restò sorpreso poi ragionò qualche secondo storcendo la faccia. «Il centosette, perché?». «È tuo il cane che ho visto?» cambiai appositamente discorso. «Sì» «Non hai paura che s’allontani?». Scosse le spalle. «No, è abituato» dopodiché succhiò avidamente dal filtro domandandomi: «Non sei di Genova, giusto?». L’accento toscano mi tradì malgrado tentassi in ogni modo di camuffarlo. «Firenze». «I miei genitori hanno casa ad Impruneta. Ci trascorrevo l’estate da bambino».

Marco terminò la Marlboro dopo una lunga aspirata e schiacciò il mozzicone sotto la punta del piede. «Che lavoro fai?» domandò sistemando il bavero della giacca attorno al collo. «Sono in vacanza» ribattei. «In vacanza da cosa?». «Dalla vita...». Marco sogghignò con un modo scomodo di guardarmi come fossimo vecchi amici che condividono un segreto. Tossii nel pugno domandandogli: «Tu?». «Lavoro sulle navi da crociera, sono cuoco». Assentii sbadigliando e rialzandomi per sgranchirmi. «Vai via?» s’informò. «Sì». «Buonanotte, piacere di averti conosciuto» dichiarò Marco e, prima d’allontanarsi, sistemò pollice e medio agli estremi della bocca producendo un sibilo penetrante e rapido come una zip che si chiude. Mi salutò nuovamente con un cenno del mento per poi sparire inghiottito dall’oscurità. Chiusi il giaccone sospirando. Introdussi le mani nelle saccocce avvertendo un calpestio che fendé quel silenzio immoto. Il cane di Marco galoppava affaticato. La mole non gli permetteva agilità o velocità, ma solo un lento incedere che lo sfiniva subito. ò oltre scomparendo come in un incubo. Controllai l’ora: troppo tardi per telefonare a Viola così continuai a eggiare per i carruggi gelati dell’angiporto. Salii su per le Mura delle Grazie fino in Piazza Sarzano, attraversando quel dedalo di vicoli intrecciati come in una casbah. A Piazza De Ferrari sedetti a riposare. Un gruppetto di extracomunitari scolava lattine di birra sotto i portici di Via XX Settembre. Attraversai la piazza verso San Matteo. Gironzolai scegliendo le parole adatte per informare Viola dell’imminente ritorno a Firenze. Sulla scalinata della chiesa di San Matteo dei

clochard russavano avvolti in coperte, cartoni e fogli di giornale. Sacchi umani, fagotti maleodoranti. Disperati e disillusi. Ammirai la facciata di San Matteo, le strisce bianche di marmo e quelle nere di ardesia mi ricordarono l’eterno contrasto tra bene e male, il giusto e l’ingiusto. Ritornai a casa speranzoso che sarebbe capitato qualcosa di positivo, ed invece...

***

Quel mattino noioso, scendendo verso Piazza Soziglia voltai a sinistra in Vico della Neve, ritrovandomi di fronte all’ingresso del bugigattolo che menzionò Ester dove la Libanese distribuiva acconti di paradiso per cinquantamila lire. Restai fermo sotto una pioggerella sciocca, fissando i gradini e la riga giallognola che s’intravedeva sotto al portone serrato. Mi scoprii subito incuriosito da questa dea intollerante. Curioso d’assegnare un volto alla cortigiana più desiderata di Genova, alla mignotta che si concede soltanto a clienti algerini, marocchini, nigeriani, svedesi, inglesi, spagnoli, argentini, cileni, portoghesi. Una stranezza troppo allettante per un ficcanaso infelice come me. Continuai ad interrogarmi sulle ragioni di quest’insolita decisione quando inaspettata si spalancò la porta d’ingresso e balzai fuori da quella catalessi morbida. Un africano maestoso si piazzò di fronte mentre la Libanese, la intravidi soltanto, nascosta dietro quella parete mora di cemento armato, mi squadrò indifferente, con narici larghe come monete da cento lire e labbra carnose e rosacee. «Alora ciao bela signora...» salutò voltandosi, baciandola sulla fronte, sempre nascosta da quella sagoma ingombrante. Distinsi solo una mano olivigna poggiarsi sul bicipite enorme dell’africano e una ciocca di capelli ricci corvini. Quando l’energumeno liberò la visuale, sobbalzai sbalordito: la Libanese non era altro che la bellissima Sconosciuta che occupava l’appartamento di fronte in Via del Campo. Tentennai come stordito da un’ubriachezza improvvisa. Indossava una sottoveste e una vestaglia color avorio e m’osservava curiosa. «Sei italiano?» domandò. La voce scurissima, quasi tiepida. «Sì» balbettai.

«Non lavoro con gli italiani...» confermò «Trovatene un’altra» e sbatté l’uscio, forse arrabbiata. Turbato dalla “scoperta”, riparai dal piovasco più avanti, sotto l’architrave d’una vecchia palazzina. L’ultima Marlboro d’un pacchetto appena comprato e già vuoto m’uccise definitivamente. Quando aspirai la terza boccata, un marocchino dalla corporatura esile, capelli crespi e un righello sottile di baffi sotto il nasino adunco, bussò alla porta della Libanese. Aprì accompagnandosi con un battaglione di denti cangianti a sandwich tra le labbra carnose. Il marocchino fu accolto gentilmente mentre al sottoscritto lanciò un’occhiataccia severissima. Mezz’ora dopo il marocchino uscì accontentato e, mentre lo salutava carezzandogli teneramente una guancia, s’accertò della mia presenza, poi s’abbassò all’orecchio del marocchino bisbigliandogli qualcosa e l’omino diligente attraversò Vicolo della Neve. La Libanese intanto, immobile sulla soglia, sogghignava perfida. «Cosa fai?» mi domandò quell’omino scheletrico. «Mi riparo dalla pioggia». Parlai ad alta voce così che la Libanese ascoltasse. «Non puoi stare qui! Vattene via». Risi osservandola poggiata allo stipite, cosce nude irruvidite dal freddo pungente. Meravigliosa in attesa davanti ai cancelli di quel paradiso o inferno, secondo come s’intendeva. «Di dove sei?» chiesi all’omino che restò sorpreso. «Marocco» rispose. Aspirai una boccata piegandomi sulle ginocchia, nascondendo il viso alla Libanese. Sottovoce accennai con sguardo di fuoco. «Med rejleik ‘ala qad el hafak (Allunga il o secondo la grandezza del tuo tappeto)». Il marocchino, colto di sorpresa, indietreggiò qualche o. «Vattene via o ti strappo il cuore a morsi» aggiunsi tratteggiando nei lineamenti tutta la rabbia repressa. L’omino prima adocchiò la Libanese, dopodiché fuggì goffo. Stranita e delusa,

rientrò sbattendo l’uscio. Meravigliosa anche nella sconfitta. Intravidi l’insegna al neon d’un bar. Sfilai una banconota dalla tasca interna del giaccone. Gettai la cicca e eggiai sotto quella pioggerella che nel frattempo aumentò d’intensità. Convertii il denaro in birra, poi stancamente ritornai all’appartamento.

***

Lasciai trascorrere qualche giorno prima di ritrovare coraggio e ritelefonare all’appartamento della madre di Viola che continuò a squillare a vuoto. Riagganciai la cornetta per l’ennesima volta scrutando l’appartamento della Libanese. Levai le mazzette rimaste nelle tasche del giaccone poggiandole sulla tavola, dimezzate dall’arrivo a Genova. Prelevai alcune banconote piegandole nella tasca dei pantaloni, indossai di nuovo il giubbotto ritrovandomi per Via del Campo, brulicante di massaie con le buste della spesa allacciate agli avambracci. Sull’ingresso imboccai una Marlboro e inaspettatamente sentii ruggire: «Brutto maiale schifoso!». Sollevai lo sguardo intravedendo qualche cosa arrivarmi addosso, talmente rapido che restai sbalordito. Una leonessa all’attacco d’una sorpresa gazzella. Mi spintonò facendomi cadere la cicca. «Non sono chiara?» sbraitava agguerrita, la fronte corrugata e le fauci esposte da lupa selvatica. «Mi segui adesso?». Alcuni anti si volsero per ammirare lo spettacolo della preda tra le grinfie della cacciatrice. Abbrancai la Libanese per i polsi ordinandole di tacere, ma cominciò ugualmente a divincolarsi rabbiosa. Un’aquila che provava a beccarmi con gli artigli conficcati nel petto, eppure mentre spalancava il becco, mi abbandonai al seducente aroma di malva e cocco. «Maiale!» insisteva furibonda, pertanto la trascinai dentro l’androne continuando a ordinarle di zittirsi, tuttavia insisteva, con quella criniera che sbandava nell’aria. «Lasciami! Lasciami!». «Abito qui!» urlai ammansendola d’un tratto. Le mollai i polsi e indietreggiò sui

tacchi, scompigliata. «Non ti seguo! Abito qui, pazza scatenata!» dichiarai. Affannata si risistemò fulminandomi con sguardi glaciali e, prima di andarsene, asserì: «Italiano di merda!» sputandomi sulle scarpe.

19.

Ubriaco a Genova. Depresso, vuoto: Viola non rispondeva al telefono nonostante tentassi alle più disparate ore del giorno e della notte. Perché non sollevava quella cornetta? Perché sembravo così insignificante e codardo? Perché non montavo sul primo treno per Firenze? Poppai dalla bottiglia come da una mammella, barcollando nel salotto gelato. L’appartamento della Libanese completamente buio e Caterina che non telefonò più. Mamma non ebbe più notizie di me da quando scappai di soppiatto e Viola probabilmente si era trasferita in un’altra città dopo quell’ultima telefonata. Per questi motivi m’ubriacai, affranto dalla vita che mi cadde addosso con la pesantezza d’un elefante su una formica. Faticosamente sgusciai sul pianerottolo e giù dalle scale dove cascai col sedere sui gradini. La mente infettata da immagini agghiaccianti: il cadavere della Credentino e quella coda di fumo che le usciva dal cranio. Lo sguardo vitreo di Fabrizio riverso sull’asfalto dentro uno stagno sanguinolento. Il volto pallido di Viola pietrificata sui gradini dell’appartamento in Borgo San Jacopo. In strada fui investito da una corrente balorda, satura di fragranze forti e Via del Campo lucida di brina che la velava, immersa in una quiete sonnacchiosa che m’entrò nei timpani, lacerandoli. In quel mortorio di carruggio, lo scialacquare del liquore sul fondo della bottiglia risuonava centuplicato. Desiderai ascoltare della musica ma siccome nessuno la suonava, cantai una canzone: «Quando la luna perde la lana e il ero la strada… Quando ogni angelo è alla catena ed ogni cane abbaia… Prendi la tua tristezza in mano e soffiala nel fiume… Vesti di foglie il tuo dolore e coprilo di piume…» Urlavo sguaiatamente e già sulla seconda strofa, s’accesero svariate finestre. «Dove fiorisce il rosmarino c’è una fontana scura… Dove cammina il mio destino c’è un filo di paura… Qual è la direzione nessuno me lo imparò… Qual è il mio vero nome ancora non lo so…» Una persona s’affacciò inveendo in genovese una serie interminabile d’ingiurie accompagnate dalla parola “Polizia”.

«Ti te levi dai pê belinon!». Ingollai l’ultimo sorso fracassando la bottiglia per terra, rotolandole dietro e, all’improvviso, dalla penombra, una figura tenebrosa s’avvicinò correndo. Uno spettro scortato da un destriero al galoppo. «Filippo...» pronunciò afferrandomi sottobraccio, tentando di rialzarmi. Ammirai quella chioma striata d’argento mentre il destriero m’alitava sulla faccia un alito bollente. «Lasciami cantare!» ordinai. «Domani... Domani cantiamo...» replicò avvinghiandomi alle ascelle. «Canterai domani...» ripeté trascinandomi nell’androne e scusandosi con la persona alla finestra. Chiuse il portone principale sorreggendomi mentre rimontavamo le rampe. Trattenni un conato dietro l’altro mentre lo spettro pigiò sulla porta d’ingresso rimasta aperta, facendomi infine precipitare sul materasso. La vista mi s’appannò all’improvviso. «Sono morto?» sussurrai spegnendomi, desiderando riposare soltanto qualche istante ma verosimilmente m’appisolai diversi minuti e quando ripresi i sensi, intravidi lo spettro parlottare al telefono. Considerato il tono incattivito immaginai che reclamasse a Dio quell’anima che aveva raccolto per strada. Dallo stomaco sottosopra rimontò improvvisa una marea acida e rotolai sul materasso tentando d’arrivare al bordo ma avvertii rasente al viso il fiato robusto di quel destriero. Trasalii sconvolto da quel delirio alcolico. Caddi sul pavimento e lo spettro mormorò al telefono: «È sveglio...» sbattendo la cornetta. Un bernoccolo cominciò a pulsarmi sulla nuca e sprofondai di nuovo dentro un torpore profondo.

***

Cammina scalza su un pavimento di grès bianco una figura alta, circondata da un bagliore intenso che mi confonde la vista. Il viso austero, lo sguardo impenetrabile. Lunghi capelli, spostati dalla corrente leggera, le restano indietro,

rincorrendo, a danzare come aquiloni. Indossa una vestaglia di seta legata in vita. I seni saltellano dolcemente mentre i muscoli delle cosce si contraggono ad ogni o. La pelle lucida ed io impietrito, immobile e in traiettoria, mentre quello sguardo glaciale mi punta come i fari d’una macchina che procede a tutta velocità. Una manica della vestaglia scivola dalla spalla scoprendole un seno. Ho un fremito. Lo fisso: turgido mentre i piccoli balzelli che compie mi provocano lo stomaco con punture di spillo. Il capezzolo le affiora dall’aureola come il cannello di una caraffa dove dissetarsi, come una cannuccia da stringere tra i denti. Continua ad avanzare, è quasi vicina e aspetto immobile in quel luogo d’iridescenza. Manda indietro la nuca sferzando i capelli. Nuovi muscoli le affiorano dalle cosce polpose. Prima la gamba destra, poi la sinistra: un metronomo silenzioso che scandisce il tempo del mio batticuore. I polpacci tesi si alzano e si abbassano come ascensori affacciati dalle caviglie. Non è distante oramai. Porta in alto le braccia sottili come paratie di una diga. Le mani sono uncini, le dita rastrelli quando li infila tra i capelli. Le ginocchia mi continuano a tremolare fin quando è finalmente di fronte. Non so che dirle: nella testa le parole si rincorrono, girano in cerchio quanto macchine su un circuito e neppure una che voglia imboccare l’uscita così che possa dirle “Ciao” mentre quell’angelo aspetta. Il profumo m’è familiare. Respiro profondamente facendomi coraggio e riuscendo a domandarle: «Come ti chiami?». Non risponde, continua a sogghignare guardandomi, divertita da qualcosa che ho detto. «Non mi riconosci?» chiede. La voce calda, la bocca tenebrosa di pozzo. Rispondo di «No!», incurvando l’espressione, raggrinzando le sopracciglia. «Mi ricorderei d’una così!» rassicuro mentre cerco altro coraggio sul fondo del barattolo. Copre il seno scoperto sistemando la vestaglia dopodiché mi carezza una guancia. La mano è rovente e sembra poter riscaldare ogni cantuccio di quel luogo disadorno. S’avvicina col mento, appoggia le labbra sulle mie. Scopro di svenire mentre la stringo sui fianchi e domanda zuccherosa: «Non mi hai riconosciuto davvero?». «No...» ribadisco eccitato e sbalordito. Ride a fior di labbra baciandomi di nuovo affondato in gola con la lingua affilata, poi bisbiglia candidamente:

«Sono Matilde papà... La tua bambina!».

***

Mi risvegliai di soprassalto col cuore in frantumi. L’appartamento un tunnel di fosforescenze. Spiccicai faticosamente le palpebre difendendole col braccio. Stordito mi sollevai, specchiandomi nel riflesso del vetro e intravedendo un animale orrendo. Tentai di richiudere le persiane sganciandole dal perno arrugginito che le bloccava contro la facciata. Non riuscendoci m’arresi, lasciandomi cadere sul davanzale come un tappeto da battere. Infine sollevai lo sguardo ed eccola lì, la Libanese, immobile a fissarmi. La testa iniziò a turbinare. Scivolai dentro casa, sgonfiandomi sul pavimento.

***

Attorno alla banchina circolava un nauseante tanfo di nafta. Marzo terminava ma l’inverno non aveva ancora voglia d’andarsene. Bighellonai avanti e indietro rimuginando. Diventò subito buio e sulla Calata Zingari c’erano sparuti gruppetti di marinai, braccianti del mare, tutti imbarcati su d’una nave da crociera ormeggiata a Ponte Doria. Un mostro d’arroganza. L’equipaggio sbarcato a terra per rilassarsi un po’, chiacchierava lamentandosi della vita in crociera. Vestivano tutti completi eleganti e occhiaie stanche, curvi di ossa rotte. La stronza, come da loro soprannominata, sarebbe restata attraccata qualche ora, il tempo necessario per consentire ai eggeri di portarsi via un pezzetto di Genova prima di ripartire. Esattamente ciò che mi conquistò di quell’antica città: il disincanto, il baratto con un pubblico occasionale e nessun altro fronzolo inutile, cortesie o falsità. L’attracco d’una nave preparata a ripartire come una macchina in moto durante una rapina. Genova non rimpiange nessuno e resta lì: svogliata, apatica, morente sulla costa. Una cagna divorata dalle zecche. Proseguii camminando tra i carruggi dell’angiporto senza una meta, finché improvvisamente desiderai chiacchierare con un amico.

Purtòu, gettato come un fantoccio senza arti, tutt’uno con il suo carruggio, come una radice che gonfia da sotto l’asfalto, mi sbirciò un momento e richiuse subito le palpebre. «T’hae purtòu da béive?». «Vado ora...». «Che o Segnó t’âvarde, belin! Che Dio ti benedica!» borbottò reclinando la testa su un cuscino di vestiti maleodoranti. Continuai in direzione dell’osteria con l’insegna al neon e pagai due bottiglie nell’indifferenza generale. Purtòu s’issò dalla tomba dov’era seppellito tracannando d’un fiato e riconquistando quell’abituale colorito rosato. «Voeggiu cantà!» esclamò felice e abbeverato. Adesso tutt’altra persona: faccia tonda e dentatura rada, schiarì la voce e attaccò: «Io dedico questa canzone ad ogni donna pensata con amore in un attimo di libertà a quella conosciuta appena non c’era tempo e valeva la pena di perderci un secolo in più…» Purtòu s’interruppe biascicando come se masticasse un chewing-gum; qualcosa lo disturbava. Sobbalzò con le spalle e continuò a stonare: «Alla compagna di viaggio i suoi occhi il più bel paesaggio fan sembrare più corto il cammino e magari sei l’unico a capirla e la fai scendere senza seguirla senza averle sfiorato la mano...». Lo ascoltai divertito annegando la tristezza, mentre Purtòu sembrò cantare per tutti, guardandosi attorno alla ricerca d’un pubblico che non c’era finché compì una manovra goffa avvicinandosi al mio orecchio. Il tono gli diventò improvvisamente cupo. «Quarchedûn te spionèzza… Ti sorvegliano, Lèvre...» bisbigliò Purtòu «Kuel’òmmo te vêgne appreuvo cumme ná corbetta cü padron. Sempre a quarche metro da ti, sénsa pèrdite de vista». Immaginai scherzasse ma l’intonazione fu seria, e quello che aggiunse mi congelò il sangue. «Un violento de segûo, maigro cumme na grigoa, lucertola, a faccia spietà. U l’e’ sempre in gïo cü can che ghe va appreuvo cumme n’ombra. Ôa u l’e’ in t’en canto che o l’aspëta». Controllai attorno origliando nel silenzio di Vicolo dell’Amor Perfetto ma Purtòu mi strattonò. «Sei sicuro?» domandai «Una persona con un cane? Il tizio che aspetto ha?».

«Doì oeggi piccin catranè. No porta ninte de bon, kuélo diao da cavellea grixia». Capelli grigi! Non ebbi più alcun dubbio. Gli regalai anche l’altra bottiglia salutandolo e raccomandandomi: «Stai attento» consigliò. Mi carezzò con un’espressione pacifica, per niente preoccupata e, rialzandomi, mi diressi veloce all’angolo indicatomi da Purtòu con meno rumore possibile. D’improvviso, nella mente, mi si chiarirono diverse domande e nessuna risposta fu rassicurante. Dai carruggi attigui tutto taceva. Giunto all’incrocio tra Vicolo dell’Amor Perfetto e Via degli Orefici, m’appiattii contro il muro preparandomi all’agguato. Rallentai il respiro, cercai di trattenerlo concentrandomi al di là dall’angolo. Percepii un ticchettio d’unghie ed una sagoma allungarsi sul lastricato coperto di brina. Richiamai tutto il coraggio, tutto il rancore, l’odio che trattenevo nel cuore sentendo l’adrenalina inondarmi il corpo. L’insegna al neon del bar lampeggiava ronzando come branchi di zanzare e fu lì che persi l’attimo, cercando un coraggio che non possedevo. Quando con un balzo finalmente scartai di lato, trovai Via degli Orefici deserta, leggermente rischiarata dall’illuminazione lattiginosa tipica dei carruggi genovesi. Nessuno, nonostante avvertissi la spiacevole sensazione che comunque fosse qualcuno ad osservare nell’oscurità. Fiutai nell’aria un tanfo d’urina notando un rigagnolo che macchiava il muro, allungandosi sul lastricato. Elaborai rapidamente un piano d’azione sistemando le mani nelle tasche e proseguendo in direzione di Via San Lorenzo, arzigogolando tra vicoli bui e muovendomi con un buon o. Fondamentale era far perdere le tracce e Genova con le salite, le discese, i vicoli, gli androni fu l’ideale campo da gioco. Cambiai direzione diverse volte, uscendo e rientrando in Via San Lorenzo, per voltare infine in Piazza Delle Erbe, attraversandola correndo e nascondendomi all’angolo con Via di Ravecca. Recuperai fiato, spiando la piazza per accertarmi d’averlo seminato dopodiché a Piazza Sarzano controllai tutti i numeri civici e concluso un rapido giro, ebbi la conferma di ciò che presumevo: nessun numero centosette. Inspirai l’aria gelida proveniente dal mare ed un ghigno sadico mi s’allargò involontariamente sulla faccia. Ogni frammento andò d’un tratto al proprio posto e presto avrei ricomposto l’intero puzzle, ma prima era necessario che Viola stesse bene nonostante un terribile presentimento mi s’insinuò nella mente. Discesi dalle Mura delle Grazie e risalendo Via Filippo Turati mi tornò nella

memoria lo sguardo glaciale di Caterina mentre le annunciavo del prossimo rientro a Firenze. Quel volto contratto in una rigidità inclemente, quell’espressione serrata in una smorfia di vendetta, mi procurarono un fremito che m’attraversò la schiena fino alle caviglie. Nessuna la pareggiava in perfidia e così cominciai a pormi domande: perché Caterina s’era impegnata tanto per darmi una mano? Perché aiutare un ricercato rischiando di smascherare la ricostituzione del movimento? Perché rendere corresponsabile Roberto soltanto per tutelarmi ma, soprattutto, perché Viola sembrò scomparsa dopo aver comunicato a Caterina la decisione di ritornare a Firenze? Ebbi l’impressione lucida che complottasse qualcosa e che avesse tessuto la tela nell’attesa che l’ingenua mosca c’incape sopra. In quel momento un rimescolamento delle viscere mi spinse a correre furiosamente verso Via del Campo e al telefono.

20.

Dopo l’ottavo trillo senza risposta riagganciai. Dov’era Viola? Perché non rispondeva? Pensai d’informare la polizia ma cambiai immediatamente idea, piuttosto potevo chiedere aiuto ad un amico... Ma chi? L’unico possibile era penzolato da una corda come un prosciutto. Abbandonai l’idea di contattare l’avvocato per l’amicizia con i Credentino. Ponderai persino l’idea di chiamare mamma finché fui folgorato da un’illuminazione. Frugai nelle tasche del giaccone alla ricerca di quel foglietto spiegazzato, trasformatosi in un rettangolo minuscolo che s’era incastrato nell’angolo del portafoglio. Lo dischiusi delicatamente. I numeri di telefono decolorati ma fortunatamente ancora leggibili. Rialzai la cornetta componendo il numero di telefono. «Pronto?». «Hisham?» domandai fiocamente «Sono Filippo. Ti ricordi?». La vergogna mi corrose il fegato ma dovetti lo stesso infondermi coraggio. La famiglia di Hisham come quella di Jawad, i loro amici, gli amici dei loro amici, avevano comionevolmente partecipato a rimpinguare lo scarno arredamento dell’appartamento dei Credentino prestandomi elettrodomestici, mobili, stoviglie, lenzuola ed io rivendetti tutto. «Certo che ricordo...» rispose aspramente. Percepii nel suo silenzio un evidente disappunto. «Hisham ho bisogno di chiederti un favore... È molto importante». «Mi dispiace, non posso aiutarti!» rispose senza nemmeno voler sapere nulla. «Non voglio cacciarmi in nessuna faccenda che ti riguarda. Sono successi episodi spiacevoli a causa tua: la polizia è venuta ad interrogarmi, hanno perquisito tutto immaginando ti nascondessi qui. Aiutarti mi procura soltanto problemi». «Mi dispiace Hisham. Non ti chiederei nulla ma sono disperato. Ho bisogno che

tu mi faccia un semplice favore». La voce si spezzò grattando sul fondo della trachea. «Addio. Ti prego di non richiamare più». «Hisham per favore, devi soltanto andare da Viola e accertarti che stia bene e richiamarmi a questo numero...» glielo scandii leggendolo dalla targhetta sulla tastiera. «Ti supplico, Hisham! L’hai conosciuta, ti prego, fallo almeno per Viola» insistetti. La mia disperazione era oramai evidente e non mi preoccupai d’arginarla o d’avere un minimo di decoro, tuttavia Hisham non ebbe pietà: fu irremovibile e, nonostante si dispiacque per Viola, riagganciò. Il martellare incessante del telefono col classico “Tu-tu-tu-tu!” fu come una raffica di mitra. Singhiozzai di rabbia, di sconforto, d’isolamento, di consapevolezza, d’amarezza, d’amore, d’odio, di rancore, vendetta, nostalgia e rimpianto, lasciandomi stramazzare sul pavimento per ore, disperatamente, fino a quando, svuotato come un barattolo di biscotti, m’assopii.

***

Restai nell’appartamento di Via del Campo per giorni, sospeso dentro un torpore lucido, con allucinazioni di Viola sulla porta d’ingresso o affacciata al davanzale, coricata tra le lenzuola o carponi a gattonare sinuosamente sul tappeto spelacchiato. Continuai a telefonare dalla madre fin quando mi persuasi dell’inutilità di continuare ad insistere. Non mangiai restandomene in un angolo umido, sulla poltroncina di velluto verdognola o aggrovigliato tra le lenzuola. Con la terza giornata di digiuno i crampi diventarono insopportabili. Decisi controvoglia di comprarmi da mangiare ma puzzavo di rancido. L’afrore acido delle ascelle m’entrò in gola. Riempii la vasca da bagno e mi c’immersi come entrando in un’enorme acquasantiera. Sprofondai al di sotto del livello dell’acqua rimanendo in apnea, ascoltando il suono ovattato delle tubature che stridevano a causa delle incrostazioni, lo sfrigolare d’una padella e il brusio d’un televisore al piano sottostante. Tornai in superficie tracannando grandi boccate d’aria in un silenzio innaturale. Tutto

taceva a differenza del mondo sonoro percepibile sul fondo della vasca da bagno. Inspirai un altro sacchetto d’aria e tornai in immersione. La televisione era sintonizzata su una telenovela e la padella rosolava ancora. Esaurii nuovamente il fiato e risalii per riprendere aria. Finalmente saltai fuori rivestendomi degli ultimi abiti puliti che possedevo. I morsi della fame tornarono a pungolarmi lo stomaco come se il torpore dell’acqua li avesse momentaneamente ingannati. Indossai il giubbotto intascando il penultimo mazzetto di banconote. Fuori dal portone principale Fabrizio De André cantava dagli altoparlanti della piazzetta di Via del Campo: “Digli che il potere io l’ho scagliato dalle mani/ dove l’amore non era adulto e ti lasciavo graffi sui seni…”. La giornata era fresca e imboccai una Marlboro assaporando lungamente l’aroma del filtro nel tempo in cui una massaia, andomi di fronte, m’esaminò trucemente per colpa d’un aspetto orribile. Grattai le guance rivestite di peluria, spazzolai i capelli aspirando catrame e poi, d’un tratto, il portone di fronte s’aprì cigolando su ganci rugginosi. Apparve spumosa, inebriante, altera, fissandomi senza sorpresa. Indossava un cappotto aperto e una sciarpa di cotone coordinata agli stivali. Un diavolo a dispetto del paludamento. Ci studiammo assestandoci sguardi flemmatici ognuno dalla propria trincea, in guerra. Intrecciò le braccia poggiandosi sulla cornice di granito, accavallando le gambe una sull’altra, piegando la testa così che delle ciocche le coprissero la guancia. Inserii una mano nella tasca del giaccone rallentando ogni movimento, poggiandomi sulla cornice di cemento. «Hai fame?» domandò con tono sbrigativo, senza muovere un muscolo più del necessario. Lo stomaco rantolò così forte che temetti potesse averlo percepito. Annuii e comandò: «Andiamo!». Risalì Via del Campo in direzione di Piazza Fossatello e la tallonai assecondando l’istinto che ordinava di seguirla. Una falcata impareggiabile che per starle al o dovetti praticamente correre; appena rallentavo infatti rischiavo di perderla. La Libanese non si preoccupò se riuscissi a starle alle calcagna o meno: marciava spedita come un treno su delle rotaie invisibili. Quando voltò per San Matteo immaginai si dirigesse a Piazza De Ferrari e invece sterzò in Vico Falamonica continuando a galoppare sciolta, nonostante

indossasse tacchi pericolosi. In lontananza adocchiai un’improbabile insegna al neon che indicava un ristorante arabo. In nessun’altra occasione prima d’allora transitai da Vico Falamonica e, incuriosito, sostai di fronte alla vetrina d’una bottega che vendeva oggetti di legno lavorato e conchiglie in bronzo. La libanese entrò nel ristorante poco più avanti accompagnata da uno scamlio. Nel momento in cui entrai fui pervaso da un intenso profumo d’aromi e spezie che mi stimolarono l’appetito. La Libanese confabulò in arabo con uno sbarbatello che le indicò un tavolo dove potemmo accomodarci. Rimosse il soprabito, sfasciò il collo dalla sciarpa sistemando entrambi sulla spalliera della seggiola. Sfilai il giubbotto sedendole di fronte e sniffando quell’adorabile fragranza di gelsomino che la impregnava, avvertendo girare un po’ la testa. «Mai assaggiato la cucina libanese?» domandò muovendo quelle labbra polpose. «Mai». «Ti piacciono i fagioli?». «Sì». Alzò un braccio e senza far avvicinare il cameriere, ordinò del cibo spiluccando dal menù, dopodiché organizzò i capelli rimuovendoli dalla fronte e trasferendo una lunga ciocca da una spalla all’altra. Collocò i gomiti sulla tavola intrecciando le dita sotto il mento, ritornando a fissarmi con la consueta sfrontatezza. Quell’atteggiamento audace mi schiacciò indietro, sullo schienale. «Perché siamo qui?» domandai e rise aprendo un palcoscenico di denti lattescenti. «Per mangiare...» ribatté. «Non giocare... Hai capito che intendo...». Deglutì prendendo il tovagliolo dalla tavola e spiegandoselo sulle cosce. «Devo scusarmi per quella scenata». «Non è indispensabile invitarmi a pranzo». La Libanese trasferì la chioma sull’altra spalla, dopodiché affermò:

«Puoi andartene... Io devo comunque mangiare quindi puoi restare o andare via perché non fa alcuna differenza». Mi rialzai irritato e mentre sfilavo rabbioso il giaccone dalla spalliera la Libanese guardò avanti mormorando qualcosa che non capii, accompagnandosi con un ghigno malizioso. «Cos’hai detto?» domandai. «Niente, non preoccuparti. Vattene pure...» biascicò abbassando lo sguardo sul tovagliolo e cacciandomi con un movimento del polso. «Ripeti!» insistetti calcando sull’intonazione cosicché tornasse a considerarmi, crudelmente. Tornammo a combattere la nostra guerra con qualche sventagliata di mitragliatrice per cominciare e la rabbia di entrambi ad alimentare lo scontro. Attesi una risposta che mi diede soltanto qualche istante dopo. «Ho detto: Tipico... Tipico degli italiani». «Cosa?». «Scappare...». Restai perplesso e continuai a fissarla finché lo sguardo le s’addolcì improvvisamente, ando dalla rabbia all’indifferenza. Lo sbarbatello s’avvicinò al tavolo. «Tutto ok Lamia?» domandò. Lamia, il nome della Libanese. Nonostante la rabbia, lo reputai incantevole e soave indipendentemente da chi lo pronunciasse. Annuì al poppante accorso in aiuto con un’espressione astiosa. Lo fulminai e mugugnò sommessamente una parola in arabo familiare e Lamia assentì divertita. «Che ha detto?» domandai comunque mentre lo sbarbatello ritornò mestamente dietro al bancone. «Siediti...» accennò. «Cosa cazzo ha detto?» eruppi incollerito ma Lamia, improvvisamente addolcita,

disse: «Se ti siedi e ti calmi, te lo dico». Strinsi i pugni e sedetti capriccioso, incrociando le braccia con un gran broncio e lo sguardo truce. Lamia insistette nel giocare con i capelli, dribblando gli sguardi di fuoco che lanciavo. «Allora?» proruppi. «Rilassati! Ha detto che sembri posseduto da uno Shaitan. Shaitan in arabo significa...». «Diavolo!» la interruppi e subito restò sorpresa che conoscessi quella parola. Jawad in due anni di convivenza inevitabilmente m’insegnò qualche frase, proverbio, parola. L’espressione buffa sul viso di Lamia rallentò il veleno che mi scorreva nelle vene. Lo sbarbatello tornò con un piatto di Mezzeh con fagioli, servito con uno yogurt naturale e un antipasto di puree di legumi. Emanavano entrambi un ottimo profumo. Il cibo mi rabbonì definitivamente e lo stomaco rantolò come il motore del maggiolino fumé di Viola. Lamia scoppiò a ridere. «Hai parecchia fame a quanto pare». «Cos’è?» domandai esaminando quelle polpette affogate nello yogurt. «Provale. Sono fagioli ati con mandorle, cipolline, aglio e un pizzico di pangrattato. Sale, pepe, zafferano, paprika, coriandolo e foglie di menta tritate. Tutto amalgamato in palline fritte nell’olio». Assaggiai scettico ma dovetti prontamente ricredermi. Lamia m’osservò curiosa e quando annuì soddisfatto distese i tratti del viso togliendo definitivamente quel velo astioso che indossava di solito. Inforchettò anche lei una pallina di Mezzeh che intinse nello yogurt e introdusse sinuosamente in bocca. Una piccola quantità di yogurt le finì sul mento che raccolse con l’indice che poi succhiò avidamente. «Parli arabo?» domandò. «No, solo qualche parola».

«Dove l’hai imparato?». «T’avverto che ho una storia breve e triste». «Io lunga e triste...» replicò Lamia e mentre assaggiai un’altra pallina di Mezzet, accompagnandola con un assaggio di quel delicatissimo puree di legumi, le raccontai di Liberazione Proletaria finché arrivò un piatto di Dajaj mahshi: pollo ripieno. Vergognandomi nel raccontarle la verità, evitai l’argomento omicidi, limitandomi ad un coinvolgimento in faccende pericolose. Raccontai di Jawad e ciò che m’insegnò in lingua araba. Non menzionai Viola perché comunque rimaneva una perfetta estranea e soprattutto presumendo da Lamia un’altrettanta sequela di omissioni. Quando servirono porzioni abbondanti di Kibbeh, il piatto nazionale libanese e le Awwamaat, frittelle libanesi intinte nello sciroppo, attaccò Lamia. «Dove comincio...» bofonchiò masticando. Deglutì, si ripulì col tovagliolo ed esordì raccontando: «Sono di Beirut, Libano. Una città nata su una piccola penisola leggermente collinare che si estende nel mare. Vivevo con il resto della famiglia in un’abitazione misera, spoglia ma così vicina alla spiaggia da ricordarla come un enorme castello». «Pare un bel posto...» la interruppi assaggiando un po’ di Kiddeh. «In Libano gli inverni sono corti e frequentemente piovosi, ma le estati sono lunghe e secche. Da bambina ad ogni risveglio correvo fuori finché mi tuffavo in mare. L’acqua era sempre fresca!». Risi. «Ho trascorso un’infanzia felice fino all’aprile del 1975, quando scoppiò la guerra civile. Nel gennaio successivo le cose peggiorarono perché la baraccopoli mussulmana di Karantina fu invasa dai cristiani e morirono tra le mille e millecinquecento persone. Due giorni dopo avvenne il massacro di Domour: una città cristiana sulla strada verso Beirut. Morirono all’incirca cinquecento persone. Vivemmo da reclusi o col costante terrore di finire in mezzo a qualche attentato o sparatoria. Tuttavia, il desiderio di libertà di quegli anni vinse sulla paura di restare uccisa. Di tanto in tanto sgattaiolavo fuori e, quando rincasavo,

prendevo un sacco di botte. Continuò così fino al 1981, quando c’eravamo oramai abituati allo scroscio delle mitragliatrici o alle granate. In quegli anni continuai ad sgattaiolare furtivamente e durante una di queste fughe conobbi Hani. Hani era un combattente dell’OLP, la guerriglia palestinese. M’innamorai e da quel momento il numero delle fughe aumentò assieme alle frustate. Hani individuò in una palazzina in rovina il nascondiglio d’amore perfetto dove incontrarci. Quando sistemava una grossa pietra accanto alla porta d’ingresso, ci incontravamo al rifugio segreto. Ci amammo tra le rovine di Beirut con molta paura ed un desiderio incontenibile. Continuammo a vederci fino al 1982, quando gli israeliani invasero il sud del Libano assediando Beirut e costringendo i combattenti dello OLP e i loro alleati a rifugiarsi all’interno della città. Tra questi ovviamente c’era Hani...». Ascoltai le parole di Lamia con attenzione. Non toccava cibo e soltanto raramente incrociavamo lo sguardo. Il ristorante pressoché deserto, le sedie rovesciate sui tavoli, alcuni inservienti che spazzavano. «A giugno ci fu un assedio costante della città e temetti seriamente per la vita di entrambi. A luglio un mediatore americano ottenne la promessa dal primo ministro israeliano di poter scortare i guerriglieri rifugiati a Beirut nei campi profughi alla periferia della città ed effettivamente il mese successivo i soldati statunitensi, si e italiani, condussero i primi combattenti palestinesi nei campi di Sabra e Shatila». Quei nomi rievocarono tremendi articoli di giornali. Lamia raccontava speditamente. «L’evacuazione terminò il primo settembre...» continuò «Hani riuscii a vederlo per l’ultima volta il 25 agosto. Quella del 1982 fu un’estate incredibilmente umida e mentre rimanemmo distesi su d’un tavolo consunto, i nostri corpi s’incollarono. Ricordo d’aver osservato il fucile di Hani poggiato contro la parete e ironia... Quello è l’ultimo ricordo che ho di lui». Terminai di mangiare ipnotizzato da Lamia che disquisiva di guerra e amore con identica inflessione; come se non esistesse differenza tra carezze e pallottole. A quel punto il viso le si velò d’una patina malinconica e abbassò lo sguardo nel tentativo d’arginare la tristezza. «Il 3 settembre gli americani abbandonarono Beirut, subito seguiti dai contingenti si e italiani. Una settimana dopo anche gli ultimi soldati rimasti. Undici giorni prima rispetto a quanto concordato. A quel punto il governo israeliano contestò la presenza dei guerriglieri palestinesi sul territorio e convocò il presidente libanese Gemayel, ordinandogli di dare la caccia ai combattenti dell’OLP. Gemayel si rifiutò. Ventiquattro ore dopo restò ucciso in un attentato e la responsabilità fu addossata ai palestinesi. Le truppe israeliane invasero Beirut ovest e il giorno seguente le

milizie cristiano-falangiste in cerca di vendetta per l’assassinio di Gemayel, entrarono nei campi profughi di Sabra e Shatila col bene placido dell’esercito israeliano che si limitò ad assistere...». «Assistere?» domandai e dall’occhio sinistro di Lamia sgorgò una lacrima che riuscì a sfuggire alla perseveranza. Mi bloccai in silenzio con le Awwamaat che galleggiavano nello sciroppo, permettendo a Lamia di decidere se proseguire oppure interrompersi. Continuò ma con la voce spezzata da involontari spasmi di dolore: «Per tre giorni consecutivi le milizie cristiano-falangiste entrarono nei campi di Sabra e Shatila al mattino uscendone stanchi e sanguinolenti al tramonto. Sterminarono tutti: uomini, donne, bambini mentre gli israeliani che presidiavano la zona a cento metri di distanza, non mossero un dito nemmeno alla vista dei camion carichi di corpi che uscivano dai campi profughi». Avvertii un raccapriccio glaciale che si spalmò sulla schiena. Lamia imperterrita e con una fiera durezza, continuò a descrivermi le scene in modo scrupoloso. «Soltanto sabato 18 settembre fu possibile entrare nei campi che, quattro giorni prima brulicavano di persone e quel mattino erano sprofondati in un silenzio mortifero. Chi vi entrò raccontò che l’odore della morte stava dappertutto: donne, bambini, vecchi e giovani marcivano sotto il sole cocente. Un incubo». «E Hani?» domandai istintivamente, frenando subito quella lingua impicciona troppo tardi. Lamia dovette recuperare energie prima di rispondere. «Hani fu condotto al campo profughi di Shatila. Settimane più tardi, un sopravvissuto palestinese di nome Ziad, conoscente di Hani, mi raccontò alcune delle scene raccapriccianti alle quali assistette: donne ammazzate, bambini decapitati, ragazze di dieci anni che giacevano in mezzo alla strada con la testa forata e senza gambe. Ogni viuzza, casa o corte interna raccontava una piccola cronaca dell’orrore. Dozzine di uomini fucilati e ammassati uno sull’altro in posizioni contorte e grottesche. Cadaveri dappertutto». A quel punto reputai preferisse che immaginassi la sorte capitata ad Hani. Imboccai una Marlboro offrendole il pacchetto, dopodiché aggiunse: «Hani lo hanno prima giustiziato poi decapitato» veloce quanto una scarica elettrica «La testa presa a calci e fatta rotolare a diversi metri dal resto del corpo». Liquidò con quest’immagine terribile l’intera faccenda. Lamia guardò fissamente quell’espressione sbigottita che dipinsi in volto. Inspirò ed evidentemente addestrata a cacciare quel ricordo, proseguì. «Nel 1985 col resto della famiglia mi trasferii in Arabia Saudita,

successivamente in Francia. Papà trovò lavoro stabilendo la famiglia a Marsiglia. Dopo un anno di litigi, scappai a Bézier, in seguito a Perpignan ed infine a Ceret, al confine con la Spagna. Restai tre mesi dopodiché attraversai il confine fino a Gerona poi Tarragona, una città simile a Beirut, situata su un’altura rocciosa affacciata sul mare, un clima mediterraneo simile a quello libanese. Vi trascorsi due anni dopodiché m’imbarcai da Barcellona per Genova ed eccomi qui...». Aspirai trattenendo la curiosità che ad ogni modo Lamia scoprì. «Non ho sempre fatto questo mestiere!». «Non riflettevo su...». «Bugiardo!» sbottò Lamia con un ghigno ilare «Non preoccuparti...» dopodiché aggiunse «In Francia ed in Spagna ho lavorato come cameriera, fattorina o domestica. Successivamente, mentre lavoravo in una taverna di Tarragona, chiamata Caudillo, conobbi Gustavo, un facoltoso possidente di cavalli, assiduo frequentatore della taverna. Prima della chiusura, Gustavo s’avvicina bisbigliandomi all’orecchio che pretendeva di accompagnarmi, dopodiché si rovistò nelle tasche dei pantaloni offrendomi duecento pesetas per assicurarsi che arrivassi incolume. Compresi subito le intenzioni di Gustavo ma, nonostante mi disgustasse l’idea, accettai allettata dal denaro». Lamia sembrò concentrare i ricordi per descrivere al meglio. «L’alito puzzava del liquore della taverna Caudillo, le braccia sudaticce mi strinsero energicamente. Trattenni la nausea concedendogli ciò che desiderava. Quando terminò si pulì alle lenzuola rivestendosi e congedandosi. Restai immobile sul materasso dove Gustavo m’abbandonò immaginando Hani. Infine mi rivestì, consapevole di poter guadagnare soldi adoperando qualcosa che, senza Hani, avrei impiegato come un qualsiasi attrezzo del mestiere. Fissai un’unica regola: mai israeliani, americani, si e italiani, ovvero coloro che contribuirono alla morte di Hani». Schiacciai il mozzicone nel portacenere sconfitto dalla sincerità di Lamia che, dopo un’ultima boccata, ordinò il conto.

21.

In Via Falamonica Lamia mi guardò con un’espressione soddisfatta mentre ravvivava la chioma. «È proprio un bel nome, Lamia» dichiarai. «Non proprio adatto ad una prostituta» scherzò. «Non intendevo quello...» balbettai, ma Lamia m’interruppe ridacchiando, poi chinò il capo timidamente sulle punte degli stivali, delicata quanto il Rus Halib: il budino di riso che mangiammo come dessert. «Lamia in arabo significa: “dalle labbra colorate”» precisò arrossendo e coprendo il viso. «Perché te l’ho detto?». Ridacchiammo ed infine aggiunse: «Grazie della chiacchierata». Ricambiai e Lamia salutò discendendo Via Falamonica in direzione di Piazza Matteotti. eggiai con un’insolita leggerezza che mi scortò fino all’appartamento di Via del Campo dove contemplai le finestre di Lamia “dalle labbra colorate”, e la malinconia rivenne gradualmente come la sensibilità dopo un’anestesia. L’inaspettato trillò del telefono mi sorprese. «Pronto?». «Sono Hisham». Mi tremolarono le caviglie. «Hisham... Viola?». «Il motivo della telefonata è un altro...» sospirò «Jawad. Gli ho raccontato della telefonata e del favore che hai chiesto. Mi ha convinto ad accettare». Le parole si ruppero mentre risposi: «Grazie Hisham». «Non devi ringraziarmi. Accetto esclusivamente per l’amico Jawad» specificò ed il mio cuore raggiunse il carcere di Sollicciano a Firenze.

«Cosa devo fare?» domandò. Gli ai l’indirizzo della madre di Viola pregandogli d’informarsi. «Qualsiasi notizia sarebbe utile!» precisai. «Ti richiamo». «Grazie» ripetei e Hisham agganciò il ricevitore. Abbassai la cornetta col viso di Jawad impresso nel cervello ed una lacrima vinse la reticenza tuffandosi coraggiosamente dallo zigomo, schiantando infine sul pavimento. Tentai di riposare frenando il cuore ma, quando finalmente m’assopii, rividi nella mia mente la Caterina del 1978 che dentro un abbraccio inesperto, con la nuca poggiata su d’un petto glabro, fissava un punto a caso sulla parete dell’appartamento in Via dell’Ulivo a Firenze. «Ti confido un segreto...» annunciò «Da anni faccio lo stesso sogno...». La baciai in fronte domandandole di quale sogno parlasse. «Sono in carcere, dietro le sbarre, i capelli sporchi, arruffati, smagrita, con grandi rughe e occhiaie. Non c’è nessuno tranne un secondino. Gli domando perché sto lì ma non risponde, allora cerco aiuto ma non c’è nessuno che ascolta». La rassicurai che non sarebbe accaduto. «Sempre lo stesso...» balbettò e infine aggiunse «Non andrò in galera! Piuttosto morirei». «Non succederà!» rassicurai. «Non lo permetterò!» ribatté e, alzandosi, accese il televisore sul telegiornale che trasmetteva l’ultima lettera che il Presidente della Democrazia Cristiana Aldo Moro scrisse alla moglie dalla prigione: Mia dolcissima Noretta, dopo un momento di esilissimo ottimismo, dovuto forse ad un mio equivoco circa quel che mi si veniva dicendo, siamo ormai, credo, al momento conclusivo. Sul volto di Caterina s’allargò un ghigno compiaciuto. «Lo fanno fuori!» annunciò, difatti poco dopo il cadavere di Aldo Moro fu ritrovato in una Renault 4 in Via Caetani a Roma. Balzai fuori da quel ricordo cambiando lato, tentando di scacciarlo con ancor più tristezza nel cuore, ma rimuginai sulla telefonata con Hisham e l’umore peggiorò. Riposai durante tutto

il mattino seguente riappisolandomi dopo pranzo finché mi risvegliò il trillo del telefono e, proteggendo la vista dal chiarore abbagliante che giungeva dall’esterno, barcollai al ricevitore. «Pronto?». Hisham scolorò la voce con diversi colpi di tosse. «Non ho buone notizie, purtroppo...» sintetizzò fiatando nella cornetta e ricercando una fermezza nel timbro. Hisham esalò lunghi sospiri, di quelli che provano ad allontanare la sofferenza dal cuore. «Cos’è successo?» incalzai. «Sono stato a quell’indirizzo...» soggiunse «Ho suonato al camlo ma niente, perciò ho chiesto informazioni ed ho scoperto che qualche giorno fa un vicino di casa ha chiamato la polizia perché dall’appartamento affianco pervenivano strani odori. Carabinieri e vigili del fuoco hanno sfondato l’ingresso rinvenendo il cadavere di una donna accoltellata alla gola». «Viola?» balbettai terrorizzato. «La madre» puntualizzò Hisham «Viola è scomparsa e la sospettano per l’omicidio. Questo è tutto ciò che ho scoperto» «L’hanno presa!» tartagliai subito dopo. «Chi?» domandò Hisham. «L’hanno presa!» ribadii e Hisham continuò a domandarmi «Chi?» per il tempo in cui riattaccai il ricevitore. Gironzolai nel salotto con l’espressione terrorizzata dall’angoscia, finché la disperazione divenne collera e cacciai un urlo animale. Picchiai il pugno sulla parete attutito dalla carta da parati fintanto che la sofferenza fisica superò quella del cuore. Crollai sul davanzale con un’espressione tumefatta di rabbia e accidentalmente lo notai poggiato con la schiena contro il muro. Trattenni l’odio che m’incoraggiava a raggiungerlo e ucciderlo all’istante ma, rannicchiandomi, ordinai i pensieri decidendo sveltamente come agire. Sciacquai le escoriazioni fasciandole grossolanamente, discesi le rampe di scale e in Via del Campo

adocchiai in quella direzione notandolo incamminarsi finché voltò un angolo. Risalii Via del Campo e, quando transitai davanti al carruggio dove svoltò, ebbi il presentimento che m’osservasse nella penombra. Proseguii per Via San Luca ed in Piazza Campetto ebbi l’istinto di controllare se quella figura ossuta fosse alle calcagna. Lo intravidi attraverso il riflesso d’una vetrina distante una ventina di metri. Cercai d’orientarmi e d’un tratto ebbi un’idea. Camminai in fretta in direzione di Vico della Neve e voltato l’angolo cominciai a correre assennato bussando freneticamente al portone di Lamia che dapprima lo spalancò contrariata poi, però, trovandomi, cambiò espressione. La sospinsi all’interno richiudendo velocemente. Lamia mi rimproverò. «Che succede?». «Aiutami!» supplicai. Marco gironzolò disorientato per Vico della Neve ringhiando furibondo. Il cane fiutava l’aria attorno, lingua a bracaloni, respiro catarroso. Lamia spalancò l’uscio indossando una vestaglia di seta color avorio annodata in vita e lasciando la capigliatura libera al naturale sbandieramento. «Cerchi compagnia?» domandò e Marco un po’ sorpreso le domandò d’un individuo smilzo, folta barba, capelli incolti. «Sì...» replicò Lamia «L’ho visto». «Dov’è?». «Hai davanti una femmina così e cerchi ancora quell’uomo?». «Da quale parte?» grugnì Marco indifferente alla statuaria bellezza di Lamia. «Tranquillizzati!» l’ammorbidì. «Cerchi Filippo?». «Lo conosci?» domandò stupefatto Marco. «Sì...» rispose Lamia con tono flautato «Entra... Ti spiego dove trovarlo». Lamia s’appiattì sulla porta d’ingresso, spalancandola e Marco ragionò un istante per poi convincersi ad entrare. Quando ò oltre l’ingresso, Lamia si

rinchiuse all’esterno come le ordinai mentre nascosto dietro l’uscio e brandendo un vassoio d’argento, colpii fortemente Marco sulla testa che precipitò svenuto. Riaprii a Lamia che grugnì sconvolta intimandomi di spiegarle tutto mentre il cane, rimasto fuori, cominciò a guaire raschiando sul portone d’ingresso. «Prendimi qualcosa per legarlo?» ordinai a Lamia agitata, perché quando le supplicai aiuto non accennai affatto all’aggressione di quell’uomo. «No!» protestò. «Lamia quest’uomo è molto pericoloso. Prima lo immobilizzo e poi parliamo». Lamia brontolò in arabo mentre sistemai Marco sul letto matrimoniale avvolgendogli polsi e caviglie col nastro isolante che Lamia recuperò da un cassetto. Voltandolo prono scoprii una rivoltella infilata tra schiena e pantaloni che sistemai di fianco. Scorgendola Lamia impallidì. «Chi è?» sbottò tutta sgranata «Perché ha una pistola? È un poliziotto?». «No, non è un poliziotto...» replicai assicurandomi che il nastro adesivo resistesse. «È un affiliato di Liberazione Proletaria mandato a Genova per sorvegliarmi...». «Perché ti sorvegliano?». Rivoltai Marco nastrandogli anche la bocca, dopodiché agguantai la rivoltella occupando la poltroncina nell’angolo con Lamia che aspettava risposte che preferii non darle. «Non fare domande Lamia. Non ho intenzione di coinvolgerti...». «Non hai intenzione di coinvolgermi?» sbraitò «E quest’uomo svenuto e imbavagliato qui da me?». «Mi dispiace...» riuscii solamente a rispondere. Lamia contenne l’irritazione dopodiché, costatata l’irremovibile decisione di non spiegarle nulla, s’avviò al telefono annunciandomi che avrebbe affidato alla polizia il resto delle domande. La supplicai di non telefonare ma filò spedita al ricevitore componendo il

numero. Udii distintamente la voce dall’altro capo pronunciare: «Pronto? Pronto?». Ma Lamia non proferì parola sentendo la rivoltella appoggiata sulla nuca. «Pronto?» sollecitarono nuovamente. Lamia riagganciò. «Speravo non fosse necessario...» dissi «Ma non ho alternative». Lamia si girò glaciale, la rivoltella le restò all’altezza del nasino cosparso di lentiggini come monete buttate su un tappeto. «Fa ciò che vuoi...» dichiarò glaciale «Però non ho intenzione d’essere tua complice: Legami!» affermò esibendo i polsi, tradita, amareggiata. Le ordinai di accomodarsi e restò pacifica e silenziosa ma con un’espressione malvagia mentre le avvolgevo il nastro isolante attorno a polsi e caviglie. Terminata quell’operazione e nell’attesa che Marco riprendesse conoscenza, cominciai a valutare le successive mosse preoccupandomi per Viola e domandandomi: “Perché ammazzarle la madre? Perché sorvegliarmi? Quale utilità potevano ricavarne? Da chi riceve gli ordini Caterina con Gianni rinchiuso in carcere?” Marco mugugnò dischiudendo gradualmente le palpebre. Lo collocai al centro del materasso strappandogli il nastro isolante dalla bocca. «Dov’è Viola?». Marco frastornato rispose: «Chi è Viola?». «Non mentire!» intimai provando a rimanere calmo ma in realtà già palpitavo «Hanno sequestrato Viola, giusto? Quali ordini hai ricevuto?». Marco osservò Lamia mendicandole aiuto mentre gli ordinavo di rispondere. «Non so di che parli...» bofonchiò. Lamia rimase con un’espressione spaesata tutto il tempo; inerme spettatrice di quel momento al quale assisteva forzatamente.

«Rispondimi!» insistetti rabbioso. Percepii una vampa incendiaria effondermi in tutto il corpo. «Liberami!» ordinò Marco divincolandosi. «Quando risponderai alle domande!». «Pazzo squilibrato!» ribatté Marco scarmigliato. «Per l’ultima volta: hanno sequestrato Viola?». Marco finì d’agitarsi e, abbandonandosi sul cuscino e con un ghigno irriverente, reclinò la nuca, poi scolorì la voce, umettò le labbra e scandì: «Vaf-fan-cu-lo!». Lo fulminai mentre ridacchiava senza preoccuparsi del mio grugno disumano. Valutata quella reticenza ritornai da Lamia pregandola di non muoversi mentre strappai un ulteriore lembo di nastro e glielo appiccicai sulla bocca supplicandole perdono. Con un’espressione sfigurata dal terrore e, inumidita dai lucciconi, mugugnò: «No... Ti supplico...». «Che intenzioni hai? Che vuoi farle?» interrogò Marco con crescente preoccupazione mentre sfoderai la pistola. «È la mia pistola?» balbettò. Gli presentai una maschera di follia e atterrito contrasse i lineamenti del volto «Dov’è Viola?» ripetei. Marco sembrò considerare un istante se rispondermi o meno, dopo di che rispose accanitamente: «Ho già detto di non conoscere nessuna Viola!». «D’accordo...» sospirai e facendogli aderire il lembo di nastro isolante alla bocca. Collocai dei cuscini sopra un ginocchio e Marco bofonchiò parole incomprensibili. Osservai freddamente l’angoscia salirgli in gola miagolando

pietà intanto che poggiai la rivoltella sui cuscini e senza esitazioni feci partire un colpo che detonò ovattato. Alcune piume piroettarono nell’aria che si permeò d’un odoraccio di bruciatura. Dall’esterno percepii un malinconico latrare. Lamia serrò le palpebre inorridite e roride, arrossate dalla paura che le serrava il cuore. Marco strillò vincolato dal nastro isolante mentre una chiazza sanguinolenta impregnò il candore del copriletto. Afferrai quel volto dolorante strattonandolo. «Dov’è Viola?» ridomandai a Marco con quel nido cespuglioso adesso completamente scompaginato. Avvicinandolo ringhiai: «Guardami! Hanno sequestrato Viola?». Non rispose troppo concentrato sul dolore lancinante causatogli dal ginocchio maciullato. Piagnucolava, così gli sferrai un cazzotto e cambiai di posto ai cuscini collocandoli sopra l’altro ginocchio mentre quello colpito somigliava ad una melassa granulosa. Marco mugolò con sbocchi di muco dalle narici. «L’hanno uccisa?» ripetei e Marco dissentì senza convinzione. «Se preferisci così...» dichiarai collocando la rivoltella sui cuscini. Lamia lanciò un mugolio frenetico. «Potevi restare soltanto zoppo e invece...» aggiunsi premendo la rivoltella e Marco s’agitò avanti e indietro tentando d’attirare l’attenzione. «Hai deciso di parlare?». Assentì e, offrendo una sbirciata a Lamia, col cuore che pompava disprezzo, infagottai il ginocchio lacerato nel lenzuolo, frenandogli l’emorragia. «Ora strappo l’adesivo...» avvisai «Rimarrai tranquillo?». Marco annuì. Lo liberai il necessario per consentirgli di parlare e Marco risucchiò il muco che gli colava in bocca. «Perché l’hanno sequestrata?». «Viola è la garanzia...» mugugnò. «Garanzia?». «Pianificano un attentato. L’ordine fu di sorvegliarti intanto che ultimavano i dettagli». «Dov’è Viola?».

«Non lo so...» mentì perciò gli calcai violentemente sul ginocchio maciullato tappandogli la bocca per impedirgli d’urlare. «Dov’è?» incalzai rabbioso. «Va Uli...» bofonchiò. Gli afferrai la mascella in una tenaglia virulenta. «Via dell’Ulivo...» biascicò. «L’appartamento di Caterina?». Marco assentì sopraffatto dalle punture lancinanti cagionate dal ginocchio. Il volto gli sbiancò d’improvviso e i bulbi gli si gonfiarono oltre misura. «Qual è il piano?». «Non lo so. Ho soltanto l’ordine di sorvegliarti finché non è terminata l’organizzazione dell’attentato. Hai scombussolato tutto decidendo di ritornare a Firenze, così l’hanno sequestrata. La ragazza è la garanzia...» tartagliò Marco roteando i bulbi arrossiti. «Perché?». «Ordini del capo...». Marco perdeva le forze costringendomi a stringere i tempi. «Chi comanda Liberazione Proletaria?». «Non è cambiato nulla» tartagliò. «Gianni? Gianni Crivello?» proposi sbalordito. Riusciva a dirigere il movimento dalla prigione? Troppo complicato. Marco cadde indietro, svenuto. Lo schiaffeggiai, bestemmiando, sfogandogli sulle guance tutta la collera finché d’un tratto farfugliò: «Caterina...». L’osservai col cuore in tumulto. «Che significa?» chiesi incredulo. «Caterina ordina, noi eseguiamo...» dopodiché soggiunse prima di svenire definitivamente. «Comanda tutti... Ora come allora...».

Il cuore mi si frantumò in miliardi di pezzi, incredulo, inebetito fino al momento in cui incontrai lo sguardo di Lamia. M’avvicinai staccandole con delicatezza l’adesivo ma Lamia non proferì parola. Provai a giustificarmi, spiegarle: «È un terrorista. Appartiene a quell’organizzazione. Hanno complottato per coinvolgermi in un attentato, non so di che tipo... Per ricattarmi hanno sequestrato una persona a me cara». Lamia ascoltava scrutandomi con delusione, il volto corrugato. «Mi dispiace» ripetei. «Crepa!» ribatté feroce e colpevole abbassai lo sguardo. Osservai intorno notando degli occhiali scuri che mi sarebbero serviti. «Prenderò quegli occhiali». «Prenditi tutto quello che ho... Bastardo! Non m’interessa» contestò furente. Fui costretto a tapparle nuovamente la bocca col nastro adesivo informandola che avrei avvertivo un’ambulanza ma in quel momento a Lamia importava soltanto che scomparissi. Spalancai l’uscio e subito il cane schizzò all’interno, saltando sul letto, guaendo e leccando la faccia illividita del padrone. Guardai Lamia un’ultima volta con afflizione dopodiché tagliai la corda.

22.

Raggiunsi Via del Campo spompato e nell’appartamento imbottii la borsa coi pochi indumenti che possedevo, della rivoltella sottratta a Marco e le tasche del giubbotto col rimanente dei soldi, dopodiché svignai lasciando la porta d’ingresso spalancata. Alla Porta di Vacca oltreai Via delle Fontane, poi Via di Prè e raggiunta Piazza della Commenda dovetti necessariamente rifiatare. Ricercando le ultime stille d’energia, montai a Piazza Acquaverde raggiungendo l’ingresso della Stazione Principe. Controllai la partenza d’un treno per Firenze. L’Intercity delle 16 e 52 che giungeva a Pisa alle 18 e 57, successivamente la coincidenza del Regionale che arrivava alla stazione di Santa Maria Novella di Firenze alle 20 e 33. Verificai l’orario: 16 e 37. Acquistai un biglietto dopodiché m’incamminai alle cabine telefoniche. «Pubblico soccorso...». «Ho avvertito strani scoppi provenienti da un’abitazione di Vico della Neve». «Civico?». «Quarantaquattro... Ci vive una straniera» risposi tappando la cornetta per mascherare il sottofondo della stazione ferroviaria. «Cos’ha udito precisamente?». «Urla, spari... Sbrigatevi». «Trasmetteremo la segnalazione ad una pattuglia. Nome?». Riagganciai ricordando l’espressione crudele di Lamia ma, l’istante successivo, informarono all’altoparlante dell’Intercity per Pisa in partenza al binario quattro. Montai in carrozza posizionandomi sul un sedile dal lato finestrino e poco dopo gli sportelli si chio. L’automotrice diede uno strattone trascinando le carrozze all’esterno della

Stazione Principe. Il cuore cominciò ad accelerare all’unisono coi convogli che aumentarono di velocità. Centoquarantatre giorni da quella gelida, piovigginosa prima serata di gennaio a Genova ed ora rincasavo col cuore riarmato e pronto alla vendetta. L’ultima occasione per ammirare il mare fu attraverso il vetro appannato della carrozza. Tempestoso, con onde grigiastre che spumavano sulle spiagge sassose e le scogliere del litorale ligure. L’orizzonte dai colori smunti sembrò scolorire ogni secondo. Lo stomaco brontolò e controllai che nessuno avesse avvertito quel tremendo gorgoglio. Una signorina sul sedile apposto studiava apatica la persona sul sedile di fronte. Gli occhiali da vista le cascavano sulla punta del nasino adunco mentre le palpebre pian piano le si sigillarono. Il bagliore opalescente del tramonto costretto dietro uno strato di nuvole, mi regalò un’improvvisa sonnolenza. Appoggiai il capo seguendo lo sferragliare delle rotaie che mi dondolarono in una ninna nanna meccanica. Senza accorgermene sprofondai in un torpore profondo... ...Mamma ha occhi belli e mi difende perché non ho nemmeno quattro anni. Mi parla all’orecchio ma non capisco. Papà sta cambiando la ruota della macchina: abbiamo forato. Piegato sulle ginocchia tenta di far funzionare il cric arrugginito e mamma ridacchia domandandomi se cambierò mai una ruota ma non le rispondo perché concentrato ad ammirare papà: il migliore del mondo. Si occupa lui di queste faccende, risolve papà tutti i problemi perché ha le braccia muscolose e ride continuamente. Mamma è felice, la campagna fiorentina è felice, il mondo è felice eppure senza preavviso comincia a diluviare. Mamma si rovinerà la messa in piega, papà sporcherà i pantaloni nuovi. Io e mamma rientriamo velocemente in auto mentre diluvia. Un tifone aggressivo che non ci permette di vedere più in là del parabrezza. Papà rientra in auto e stranamente ride: non ha perduto il buonumore nonostante la ruota forata e quell’acquazzone. Mamma sistema l’acconciatura cercando un asciugamano nella borsa sui sedili dietro. Vorrei andarmici a sedere, starei più comodo ma mamma mi ha acciuffato e non mi molla per nessuna ragione. Non possiamo ripartire, siamo senza ruota e comunque sarebbe pericoloso guidare. «Cos’è successo?» sbottò d’un tratto papà voltando la testa. «Cosa?» ribatté mamma.

«Quel rumore». «Quale rumore?». Papà ha la fronte corrugata e rimane concentrato sugli strani rumori nel crepitio dell’acquazzone sulla carrozzeria dell’auto. «Cosa succede?» domanda mamma spaventata. «Schhh!» la zittisce papà. L’argine della strada brontola, squaglia e papà, intuendo il pericolo, ordina a mamma di scendere con tono risoluto. «Scherzi?» risponde perplessa. «Scendi!» insiste «Scendi da questa parte!». Papà spalanca lo sportello uscendo dall’auto e dopo pochi istanti è già fradicio. Mamma lo osserva sconvolta, per nulla intenzionata a rovinarsi la messa in piega. «Ti muovi?» domanda papà scocciato, offrendole un aiuto. «Ma piove!». «Esci dalla macchina!» erompe furioso, capelli incollati alla fronte e un’espressione da pazzo eppure mamma non si muove, e allora papà rinfilandosi in macchina tenta di portarmi via. «Dammi Filippo!». «Smettila!» risponde mamma schiaffeggiandogli i dorsi. «L’argine sta franando! Vuoi venir fuori?» grida papà. Mamma a quel punto sgrana quegli occhioni da cerbiatta guardandosi attorno preoccupata. Decide in fretta: esce. «Meno male!» asserisce papà soddisfatto d’averla avuta vinta mentre mamma mi slega da quell’abbraccio ordinandomi di raggiungere papà ma quando cambio di posto, la macchina sprofonda dalla parte di mamma, scivolando indietro. Papà aggancia la portiera tentando di trattenere l’auto che però precipita inesorabilmente.

Rotolo indietro finendo addosso a mamma che urla disperata perforandomi i timpani e fisso il volto impietrito di papà dalla mascella contratta. La macchina precipita inesorabilmente indietro fino a cadere nel vuoto e tenendo lo sguardo fisso su papà, il cuore di mamma le esplode in petto. Precipitiamo allontanandoci dal margine della scarpata e nel terrore estatico di quel momento, riesco a distinguere perfettamente la figura di papà: un’ombra sul ciglio dell’abisso che grida ma non capisco, sembra stia urlando: «Biglietto!». Sono confuso ma ripete di nuovo: «Biglietto!». La voce si chiarì man mano con un tamburellare sulla spalla mi trascinò fuori da quell’incubo. «Signore, biglietto prego!» ripeté il controllore nell’uniforme delle Ferrovie dello Stato. Rovistai nelle tasche consegnandoglielo ancora frastornato. Lo obliterò con la pinzatrice. «Grazie» asserì restituendolo. «Quanto manca a Pisa?». Adocchiò l’orologio: «Quindici minuti circa». Somigliava a papà o all’immagine scolorita che ricordavo: identico sguardo gentile mentre controllava il biglietto degli altri eggeri. Al posto della signora una coppia di studenti che disquisivano sugli esami da sostenere all’università. Il buio avvolse completamente il panorama mentre l’illuminazione rifletteva sui finestrini l’interno della carrozza. Oltreata la stazione ferroviaria di Pisa San Rossore il convoglio rallentò in prossimità del ponte sull’Arno mentre punture di spillo mi pizzicarono il cuore. La luminaria del Lungarno si specchiava sulla superficie del fiume che somigliava ad una striscia d’asfalto curvata in direzione di Ponte di Mezzo e lì m’accorsi d’amarlo, nonostante mi avesse strappato dagli abbracci di papà o ristagnasse sotto le finestre di Borgo San Jacopo. Restai imprigionato dentro un ghigno imbecille finché fermammo alla Stazione Centrale di Pisa. Appurai l’orario di partenza del Regionale 3148. Acquistai una bevanda e dei panini consumandoli sulla panchetta del binario e, addentato il primo panino, informarono il sopraggiungere del Regionale 3148. M’accomodai in carrozza augurandomi un po’ di solitudine ed invece nel sedile

davanti una signorina, dalla capigliatura bruna e lucida come l’Arno poco prima, s’accomodò mostrandomi timidamente con un corollario di denti cangianti. Il Regionale 3148 ripartì mentre sgranocchiavo l’ultimo boccone, lasciando la Stazione Ferroviaria di Pisa attorno alle 19. Firenze, lo scenario di tutti i miei fallimenti, s’avvicinava. La signorina sembrò studiarmi curiosa, perciò le ricambia lo sguardo e arrossì con gentilezza chiudendosi a chiave dietro quei filari lattescenti. «Ciao» pronunciai. «Ciao» replicò e l’angolo della guancia le vibrò nervoso. Mi distrassi contemplando il panorama della periferia pisana protetta da un mantello bruno senza stelle, radicata nel terreno e lontana dal mare per il quale avvertii subito una profonda malinconia. In quattro mesi a Genova fu il miglior compagno, il confidente silenzioso col quale trascorsi le serate più piacevoli. Le onde divennero una culla e se concentravo i pensieri, potevo ancora captare il primitivo lamento dei suoi fondali. Richiamai alla memoria Purtòu, la Raminga ma soprattutto Lamia. Cos’era accaduto all’arrivo della pattuglia? Lamia legata ad una sedia e Marco svenuto che dissanguava sul letto... Scacciai subito quell’immagine figurandomi nella mente il volto di Viola, mentre l’impalpabile riga chiara che lambiva l’orizzonte, svanì con un battito di ciglia e da quel momento cominciai ad immagazzinare l’odio necessario ad annientare chiunque si frapponesse tra noi. Dopo non tanto, il Regionale 3148 decelerò con uno stridore penetrante di freni. Nervoso ed emozionato smontai assieme alla signorina che si confuse tra la ressa della Stazione di Santa Maria Novella, quasi svaporando in un fumetto tiepido che risalì rapido alle stelle. M’incamminai all’uscita per poi immobilizzarmi all’ingresso, bloccandomi proprio nel mezzo della confusione e intralciando i pendolari. Apparì tutto come nuovo: la pensilina per il capolinea dell’autobus, il retro di Santa Maria Novella o il campanile che dominavano sulla piazza. Avvertii un’insana felicità pervadermi il corpo. Non distante abitava mamma e rievocarlo m’annodò lo stomaco. Mi servì un istante prima di ritrovare la determinazione necessaria per ritornare sull’obiettivo prefissato. Avvicinai un taxi informando l’autista sull’indirizzo da raggiungere.

«Via dell’Ulivo, grazie». Il taxi partì voltando in Via Valfonda, poi in Viale Filippo Strozzi e di nuovo a destra in Viale Matteotti. Il tassista, di tanto in tanto, mi studiava dallo specchietto retrovisore e quando svoltò in Via Vittorio Alfieri, chiese: «Che l’é di Firenze?». «Genovese» ribattei camuffando la pronuncia. Percorremmo Via Giuseppe Giusti ed a Borgo Pinti tirai giù il finestrino osservando Firenze come nuova: marciapiedi, strade, viali, palazzi. In Via dei Pilastri il tassista confermò di conoscermi ma di non riuscire a ricordarne il motivo. Evitai di rispondergli. «Un mi dimentiho mai d’un viso...» proseguì «L’é deformazione professionale» assicurò imboccando Via dei Pepi che incrocia con Via dell’Ulivo. Ordinai di parcheggiare e controllando il tassametro gli allungai una banconota smontando rapidamente dal taxi. Raggiunsi il palazzo sull’angolo di Via dell’Ulivo e Via Michelangelo Buonarroti; l’idea di incontrare Viola m’innervosì. La quieta irreale di Via dell’Ulivo regalava all’ambiente un aspetto ancor più maligno. Volli aspettare il momento opportuno per operare con discrezione, sfruttando il fattore sorpresa per non rischiare di rovinare tutto. Rintanato dietro un automobile parcheggiata, sottrassi la pistola e alcuni strumenti utili dalla borsa aspettando poi l’occasione propizia. Dopo svariati minuti quella quiete fu interrotta dal cigolio stridente del portone d’ingresso. Un figuro s’allontanò e affrettandomi sgusciai all’interno del palazzo. Richiamato un po’ di coraggio, rimontai quelle rampe che conoscevo a menadito. Levai dalle tasche dei jeans il fermacapelli, la lima da unghie e, raggiunto il pianerottolo del terzo piano, origliai all’interno dell’appartamento da dove però non provenne alcun movimento, pertanto operai sulla serratura che scivolò lateralmente. M’introdussi all’interno impugnando la pistola di Marco e controllando l’ambiente. Nessuno. In salotto c’era ancora quel divano dove con Caterina vivemmo indimenticabili pomeriggi d’amore. Abbandonai la borsa all’ingresso e proseguii in direzione della camera da letto dove immaginai di trovare Viola.

L’ingresso semiaperto, l’ambiente illuminato da un bagliore mieloso proveniente dalle abat-jour accese sui comodini. Sul letto matrimoniale un corpo sdraiato di spalle. La capigliatura corvina sparpagliata sul cuscino e la colonna vertebrale che s’intravedeva sotto la maglietta aderente alla schiena. Gambe tornite fasciate da dei pantaloni attillati annodate una nell’altra. Schiusi delicatamente l’uscio col cuore che batteva forte e, per un istante, aiutata dalla penombra, quella figura mi sembrò quella di Viola, ma più mi avvicinavo più capii di sbagliare e quando fui abbastanza vicino da appoggiarle la pistola sulla nuca, senza sorpresa, Caterina disse: «Sei arrivato finalmente».

23.

Caterina si voltò assonnata, scusandosi d’essersi appisolata. Lo sguardo dolce nonostante le puntassi la pistola sulla faccia. Roteò i polsi stirando la schiena. «Dov’è Viola?» domandai al culmine dell’irritazione. Sogghignò. «Non è qui, ovviamente». «Dimmi dov’è, altrimenti...». «Altrimenti cosa? Spari?» interrogò e rise nuovamente occupando una posizione comoda. «Tutta questa strada, questo macello per poi rovinare tutto?». L’autocontrollo che mostrava mi levò ogni energia; ritornò ad essere la spietata sacerdotessa che rammentavo. Io immobile, imprigionato nella trappola che pazientemente mi costruì attorno. Appiccicato alla trama dell’ingordo ragno che poté finalmente consumare il lauto pasto. «Che intenzione hai?» domandai col groppo in gola. «Dipende...» asserì con indifferenza, spostando la chioma di lato «Abbassa quell’arma per favore e accomodati così ti spiego». Malvagiamente seducente mentre s’allungava al cassetto del comodino. Le ordinai di fermarsi puntandole la rivoltella. «Rilassati pistolero... Voglio soltanto fumare» annunciò prendendo un pacchetto di Lucky Strike. Imboccandone una, lanciò il pacchetto sul materasso, avvicinandomelo. Inspirò sbuffando in direzione del soffitto, accennando di mollare la pistola che non era affatto necessaria. Abbrancai il pacchetto di Lucky Strike lasciando la pistola sul comò e lasciandomi sprofondare sulla poltroncina all’angolo. Caterina assentì compiaciuta mentre espirò tronfia dalle narici e con un’intonazione disinvolta cominciò il racconto di quell’ultimo anno: «Iniziamo dal principio. Terminato il processo, al momento della condanna, gli scarsi membri di Liberazione Proletaria non rimasti coinvolti nelle indagini,

indagati o latitanti, si sparpagliarono dando l’impressione che ci eravamo autosmantellati. Coloro che furono catturati e condannati, come ricordi, ricevettero l’ordine di rafforzare quest’ipotesi confermando l’arresto d’ogni membro importante e vigilando sulla tutela di quelli in quel momento ancora in libertà. Particolare attenzione fu riservata al più giovane con una condanna rilevante: tu. Così inesperto potevi spifferare quel poco che conoscevi: nomi, luoghi, nascondigli, tuttavia mantenesti un comportamento eccellente, collaborando soltanto il necessario per beneficiare degli sconti di pena. Ho letto i fascicoli: hai rivelato informazioni già note agli inquirenti, niente d’importante». Caterina lusingò le cosce, risistemò qualche ciocca dietro le orecchie prima di continuare. «Questo è ciò che conosci. Parliamo di ciò che non conosci. In questi ultimi anni Liberazione Proletaria non s’è mai definitivamente smembrata, al contrario s’è ricostituita e con successi maggiori rispetto al 1978. Non c’è l’organizzazione dozzinale di quei tempi, adesso possediamo metodologia e abbiamo ricomposto minuziosamente la struttura armata, più efficiente e preparata, inoltre utilizziamo tecnologia avanzata grazie a finanziamenti chiamiamoli “privati”...» Caterina aspirò un’altra volta, prima d’aggiungere. «E qui scendi in campo tu...». Sogghignò compiaciuta sbatacchiando il mozzicone. Sembrò che ogni aspirata le offrisse l’entusiasmo necessario per continuare il racconto col fantasma che sedeva di fronte ad ascoltarla senza più energie. «Il collegamento tra Liberazione Proletaria del 1978 e le cosiddette “nuove” leve diventerà Filippo Dellaria; colui che più del leader stesso è rimasto impresso nella memoria degli italiani. L’intuizione è arrivata in quest’ultimo periodo, pedinandoti e notando il trambusto derivato dalla scarcerazione. Mi adoperai subito cominciando un controllo accurato dei tuoi spostamenti, amicizie, comportamenti e parallelamente identificando l’obiettivo politico adatto da sacrificare al nostro progetto, difficile ma fattibile, considerato che nell’ultimo decennio ho allacciato relazioni che nemmeno immagini. Poiché la situazione evolveva positivamente, ho tentato un graduale riavvicinamento ordinando a Roberto d’intercettarti per “saggiare il terreno”. Presumo ricorderai quell’incontro chiamiamolo “casuale”?» Ricordavo eccome; l’odio aumentò ma, pestato il mozzicone sul pavimento, restai comunque imperturbabile ad ascoltare. «Consapevole delle difficoltà economiche nelle quali versavi, scelsi di incontrarti personalmente

promettendoti aiuto, ma purtroppo hai reagito malamente e prima d’avere un’altra occasione per ritentare, hai commesso quella stupidaggine di rapinare i Credentino con le conseguenze che conosciamo. Quando ho saputo cosa combinasti restai sgomenta: l’organizzazione era ad un ottimo punto ma se t’accusavano dell’omicidio della Credentino, rischiavamo di buttare via tutto. Per tutelarci non rimaneva che convincerti a trascorrere un periodo in clandestinità. L’intenzione fu quella di tenerti nascosto fino alla definizione dei dettagli. Nel periodo susseguente l’omicidio della Credentino, sorvegliammo anche Viola perché sospettavamo spifferasse tutto e invece s’è comportata egregiamente ed ammetto che quella condotta le ha salvato la vita...». Fremetti e Caterina continuò pur riconoscendomi agitato. «Le indagini procedettero e tu fosti subito indagato come presunto colpevole, anche considerata quell’improvvisa irreperibilità. Fui tentata di confessartelo rafforzandoti così la convinzione che la nostra protezione ti era fondamentale, ma la fortuna improvvisamente girò dalla nostra quando Roberto mi mostrò il collier che rubasti e addirittura la pistola. Quello arrivò come un dono della provvidenza» Caterina giocherellava col pacchetto di Lucky Strike e più sciorinava fatti, più s’elettrizzava. «Tentai di convincere Roberto che avrei sistemato la situazione, ma non si fidò cominciando ad agire per conto proprio e diventando ingestibile. Pedinandolo scoprimmo che raramente ritornava a casa, forse temendo un blitz della polizia, e che di tanto in tanto si rifugiava dalla sorella...» Caterina s’interruppe sogghignando «Perciò organizzammo l’appartamento di Roberto in modo che durante una perquisizione trovassero gli elementi per accusarlo della rapina e dell’omicidio di Eleonora Credentino. Successivamente facemmo una spiata e durante il blitz in Via San Miniato, la polizia rinvenne sia l’arma del delitto, sia il collier oltre ad una cassaforte identica a quella dei Credentino con la quale ipotizzarono che Roberto si esercitasse. Tuttavia la seccatura maggiore fu quando comprese che fummo noi ad incastrarlo e minacciò di raccontare tutta la verità...» Caterina imboccò per l’ennesima boccata «Mi trovai costretta a prendere quella spiacevole decisione ma capisci che rischiava di saltare l’intera operazione». Pronunciando quella frase Caterina mi trasmise un brivido: la voce priva d’incrinature, sussulti o sbavature. M’informò d’aver inscenato il suicidio di Roberto come se compilasse l’elenco della spesa. «Quel suicidio simulato, comunque sia, non ci garantiva nulla ma le inconfutabili prove a carico, incastravano Roberto in maniera inequivocabile; pertanto questione risolta e archiviata. Non piacque a nessuno ammazzarlo, credimi, ma aggiustata la situazione potei finalmente dedicarmi all’ultima fase del progetto che tu hai continuato a sabotare con stupidaggini come quell’aggressione al Belvedere di Genova...». Sussultai stupefatto. Conoscevano tutto e mi sorvegliavano da

settimane senza che sospettassi niente. «Immagini il tempo sprecato ad occuparci della faccenda? Dopo quell’episodio diventò indispensabile affidarti a qualcuno che prevenisse altri problemi...». «Marco» rimuginai sottovoce. «Infine venni a Genova per tentare di convincerti a rientrare nell’organizzazione e la maniera con la quale mi prendesti... Bé, mi indusse a credere nella possibilità di...» Caterina si bloccò osservandomi serrare i pugni, stanco dell’ennesima menzogna. «Che c’è?» domandò. «Bugiarda!» proruppi. «Perché? È la verità!». Ridacchiai isterico. «Tu cerchi un capo espiatorio. Ti occorre una facciata per manovrare in segreto... Insospettabile... So tutto Caterina...» rifiatai «Tu sei il leader di Liberazione Proletaria... Gianni ti copriva, fungeva da maschera ma in realtà la mente, il burattinaio sei sempre rimasta tu e ora, come allora, hai bisogno d’un leader credibile da sacrificare nel caso in cui fallissi... Ho ragione?». Caterina cambiò espressione, meravigliata. Riordinò la capigliatura e poggiò sinuosamente la nuca alla spalliera, applaudendo. «Bravo!» pronunciò ironica «Il pivellino che si fidava di tutto quello che gli raccontavo è scomparso». «È morto!» ribattei e aggiunsi «Perché coinvolgere Viola? Non c’entra nulla». Caterina smorzò l’ennesimo mozzicone e si spostò a spalancare le imposte lasciando circolare un po’ d’aria, permettendo un’uscita alla foschia che imbottiva la stanza. «Ricordi Genova? L’intenzione di tornare a Firenze?» riprese respirando il frescume della serata fiorentina. «Quell’improvvisa decisione ci creava parecchi problemi e non potevo permetterti di mandare tutto all’aria. Quelle telefonate

con l’arabo poi, mi persuasero che il sequestro di Viola diventava inevitabile». Irrigidii la mandibola dentro una morsa furente. Caterina s’accorse dell’odio che cresceva e sembrò leggermi nei pensieri. «Non arrabbiarti! Ti stupisce che il telefono in Via del Campo fosse controllato? Hai intenzione di prendertela con qualcuno? Ragiona su chi ha coinvolto realmente Viola? Perché ricercarla dopo l’assassinio della Credentino e la fuga a Genova? Perché telefonarle? Perché ritornare dopo quel rifiuto? Al contrario non l’avrei coinvolta, tantomeno sequestrata!». Caterina spianò quel volto burroso nel quale naufragai nonostante la odiassi profondamente. Le ordinai di continuare e issò quella cascata bruna per poi proseguire. «Ho mandato i nostri da Viola. Doveva andare in maniera pulita: con la mamma a lavoro, Viola veniva prelevata senza che nessuno sapesse nulla; sparita, volatilizzata ma, da quanto mi hanno riferito, la mamma di Viola, quella mattina, rientrò prima del previsto e l’hanno ammazzata...» Caterina indurì il tono. «Non voglio morti sulla coscienza ma siamo continuamente costretti... Unicamente a causa tua! E non bastava Roberto, né tantomeno la mamma di Viola...». «Che intendi?» sussultai. Caterina sospirò domandandomi: «Che hai combinato oggi prima di fuggire da Genova?». «Come lo...» balbettai e Caterina rise con leggerezza. «Come lo so? Marco non ti sorvegliava da solo, c’erano altri uomini...» dopodiché borbottò «In ogni modo non è stata una perdita rilevante...». Trasalii. «Perché una perdita? È morto?». Caterina assentì senza cordoglio, con gelido distacco o un briciolo d’umanità, e capii d’essere io il responsabile; quel dissanguamento forse provocato da un’arteria lacerata. Potevo telefonare prima, magari salvargli la vita. Un’altra esistenza spezzata a causa mia eppure, mentre mi colpevolizzavo, Caterina soggiunse: «Non riusciva a camminare e in quelle condizioni c’era per forza bisogno di un ospedale ovvero domande e problemi che non possiamo permetterci. L’unica

soluzione plausibile: ammazzarlo». Rialzai lo sguardo con un gesto di totale smarrimento. «L’avete ammazzato voi?» bisbigliai senza forze. «Troppo pericoloso, conosceva il progetto. Mi hanno chiamato col telefono della prostituta chiedendomi su come procedere... Ma, considerata la situazione, c’erano poche possibilità per entrambi». “Lamia!” mugugnai sobbalzando agitato, furioso, incredulo ma Caterina, nonostante la follia nel mio sguardo, non mosse un muscolo. «A cuccia, Filippo...» pronunciò arrogante. «Troppe persone sono morte ammazzate... Non vorremmo mica aggiungere Viola alla lista, giusto?». «Cosa vuoi, Caterina?» sbottai furente. Caterina tossì. «Esistono due diverse maniere per concludere questa faccenda, Filippo. In quella facile tu esegui esattamente i compiti che t’ordineremo e Viola vivrà. In quella complicata fai resistenza e ordinerò di pestarla finché non ti convincerai ad aiutarci e, se t’ostinassi ancora, ammazzerò entrambi. Facile». Caterina issò di nuovo la chioma asciugando il collo inumidito, dopodiché liberò quella massa lasciandoli precipitare e concludendo la conversazione concedendomi qualche minuto per riflettere. Transitando di fianco al comò, prima d’uscire, portò via la pistola. Ogni incastro adesso combaciava e quell’incontrollabile rabbia tramutò in arrendevolezza e disperazione per aver contribuito all’uccisione di Lamia e con la consapevolezza che quando accettai l’aiuto di Caterina, trasferendomi a Genova, trascinai Viola dentro un altro inferno. Sporgendomi dal davanzale, fiutai la cremosità della serata che sembrò intiepidirmi ma, più probabilmente, ero io che bruciavo dall’interno. L’uscio si riaprì e Caterina rientrò cautamente. «Hai deciso di aiutarci?». La considerai glacialmente, offrendole il disprezzo che provavo.

«Non ho altre alternative...» dichiarai e Caterina annuì impercettibilmente, ordinandomi di seguirla. Percorremmo il corridoio in penombra, schiarito dal chiarore derivante dal salotto e dal quale perveniva anche un lieve mormorio. Caterina entrò mentre io frenai sulla soglia. Uomini e donne affollavano l’ambiente: di fronte al tavolo, seduti, in piedi, e quando comparii s’ammutolirono tutti. Il tavolo predisposto con una cartina stradale, non di Firenze, scribacchiata con linee, segnali, piccoli cerchietti colorati e Caterina esattamente nel mezzo che con tono encomiastico riferì: «Ragazzi ho l’onore di presentarvi Filippo Dellaria». Alcuni salutarono, altri rimasero muti. La maggior parte giovani (al massimo trent’anni d’età). Caterina afferrò dal tavolo una fotografia premendola sul torace. «Qual è l’obiettivo?» domandai. «Riscrivere la storia!» rispose Caterina con un ghigno disegnato. «Colpiremo dritti al cuore dello stato ricordandogli chi ha realmente il controllo». «Come agirete?». «Noi? Tu!» chiarì Caterina mostrandomi la fotografia. La esaminai e subito avvertii tutti gli organi precipitarmi nelle caviglie. Studiai l’espressione dell’uomo raffigurato sforzandomi di non crollare svenuto. Caterina m’osservò compiaciuta. «Ammazzandolo...» chiosò «Riscriveremo la storia». Ogni commento mi s’incastrò nella trachea e deglutendo lo respinsi indietro. Faticai a respirare e cominciando a tremare fui costretto a staccarmi da quella fotografia che Caterina si riprese invitandomi ad avvicinarmi al tavolo per spiegarmi come avrei assassinato il politico più potente d’Italia.

24.

Caterina cominciò snocciolando quantità sconcertanti d’informazioni raccolte dentro un opulento fascicolo chiamato Belzebù, uno dei soprannomi dello obiettivo. Interviste tratte dai giornali ma anche informazioni riservate, movimenti pubblici e privati e soprattutto le planimetrie di un hotel nella periferia di Roma. «Com’è possibile che possediate queste informazioni?» domandai sorpreso dalla quantità di notizie che avevano accumulato. «Abbiamo una talpa nell’ufficio ministeriale». Caterina si compiacque della meraviglia che mi comparì sul viso. Scartabellai alcune pagine raccogliendo ogni riflessione in un’unica fondamentale domanda: «Insomma com’è possibile avvicinarlo? Immagino sia protetto, scortato... Accidenti stiamo parlando di...». «Sette uomini!» intervenne uno sbarbatello «Tre vetture blindate per i trasferimenti diplomatici. Due per quelli privati». Ci adocchiammo e subito aggiunse: «Ma il problema non si pone». «Il problema non si pone?» sbottai sarcasticamente. «No!» assicurò Caterina «Il giorno stabilito per l’assassinio, Molok sarà solo! Niente scorta». Esaminai ogni persona presente: ognuna di loro aveva impressa sul volto un’espressione consapevole. Identiche curvature dei lineamenti, sguardi che riferivano di un infaticabile lavoro e una minuziosa attività di spionaggio e quindi la certezza dell’esito positivo del progetto perché perfettamente fu concepito. «Pazzi!» eruppi d’un tratto «Questa è pura pazzia!». «Al contrario...» replicò Caterina rivolgendosi ad una signorina dal caschetto

castano. Accarezzandole il mento la invitò ad informarmi degli ultimi dettagli. «Da San Vittore Mario Chiesa ha cominciato a spifferare i nomi dei politici della DC e del PSI coinvolti in un’inchiesta rinominata “Mani Pulite”. Con le elezioni vicine tutti hanno il terrore d’essere coinvolti. Il nostro Presidente esige l’assicurazione di non essere coinvolto nelle indagini...» proseguì Caterina «Giovedì si recherà in gran segreto col proprio autista in un hotel alla periferia di Roma a bordo d’una Fiat Panda bianca targata RO 250875 di proprietà della moglie dell’autista per incontrare alcuni esponenti della Magistratura». «Anche La sfinge se la fa nelle mutande!» s’intromise un altro appoggiato al davanzale. Seguì qualche risatina. Parvero tutti impavidi, strafottenti, verosimilmente stupidi come noi nel 1978. Caterina riprese il discorso. «Giungerà all’hotel attorno alle 23 di giovedì. Entrerà con l’autista e da solo salirà al quarto piano, camera 35, dove troverà una sorpresa ad aspettarlo» affermò additandomi. «E le persone che dovrebbe incontrare?» chiesi. «Di quelli ci occuperemo noi...» garantì un giovanotto, soggiungendo: «Li rallenteremo o magari manco arriveranno all’appuntamento». Dissentii dubbioso anche se ad ogni nuova perplessità ottenevo un’altrettanta impeccabile risposta. «Come entro in quella camera d’albergo?». Caterina avvicinò le planimetrie dell’hotel. «Generalmente un’impiegata della segreteria personale del Presidente raggiunge l’hotel per prima. La camera è prenotata a suo nome. Sale attendendo l’arrivo del Presidente, lasciandogli subito la camera e riscendendo nella hall dell’albergo finché l’incontro è terminato. Dopodiché, usciti tutti gli ospiti dall’hotel, risale ricevendo le chiavi direttamente dal Presidente che tornerà dal proprio autista. Tutto ovviamente avviene in totale segretezza». Apparì complicato, inattuabile ma ovviamente Caterina ebbe la soluzione dell’enigma. «Tu arriverai all’hotel attorno alle 10 e 30. Presenterai un documento d’identità fasullo per una camera già prenotata. Salirai al quarto piano nascondendoti nella toilette della 35 dove attenderai l’arrivo del Presidente e nel momento in cui l’impiegata gli lascerà la

stanza...». «Frena!» entrai in mezzo. «Perché l’impiegata dovrebbe permettermi d’entrare?». Caterina sogghignò. «Perché è un’affiliata della cellula di Roma». Congelai. Caterina non mentì sostenendo d’aver ricomposto Liberazione Proletaria con migliori risultati del ‘78, ma in nessun caso immaginai che fosse arrivata persino alla segreteria di stato. «Quest’omicidio ci permetterà d’influenzare elementi importanti della politica italiana ottenendo un’importanza che neanche le Brigate Rosse hanno mai raggiunto. Diventerai un simbolo...». «L’assassino d’un innocente, piuttosto» mormorai ed alcuni dei presenti contestarono quell’affermazione con delle risate. «Molok non è innocente! Chiedilo a Salvo Lima!» sostenne qualcheduno dei presenti. «Ritienila una cortesia al popolo italiano!» soggiunse qualcun altro. «Martedì partiremo per Roma» concluse Caterina «Prepareremo gli ultimi dettagli dopodiché entreremo in azione». Mi bloccai dentro un mutismo indifferente, reclinando il capo, poggiando entrambi i palmi sopra la cartina di Roma mentre attorno irruppe un silenzio irreale. Caterina domandò: «Ripensamenti?». «Hai idea di quello che chiedi?». «Perfettamente!» rispose indifferente e immaginai d’aver di fronte il Presidente del Consiglio o Molok o La Sfinge o Belzebù e di puntargli una pistola, sparargli, ucciderlo. Caterina mi ricordò preventivamente le conseguenze d’un rifiuto.

«Non potresti ammazzarlo usando qualcuno di loro?». «È sempre il capo che colpisce gli obiettivi importanti. Inoltre assieme al cadavere verrà ritrovato un volantino a firma Nuova Liberazione Proletaria e l’arma del delitto con le impronte di Filippo Dellaria, il nuovo leader, ricomparso sulla scena di un crimine che offuscherà persino il sequestro Moro». Caterina rise compiaciuta e disapprovai poco convinto di quelle menzogne. Potevano imprimere le impronte sulla pistola e abbandonarla sulla scena del delitto, ammazzarmi ed evitare altri problemi ma fu proprio grazie a quelle riflessioni che d’un tratto tutto mi apparve chiaro. Restai folgorato da quell’illuminazione comprendendo finalmente l’unica ragione di tutto domandai a Caterina: «Ti tormentano ancora quegli incubi?». Caterina deformò l’espressione del viso sgualcendo le sopracciglia mentre io, beffardo, mi convinsi d’avere una sola e ultima possibilità di salvezza per Viola. «D’accordo, lo faccio!» annunciai ma congelai all’istante l’entusiasmo di Caterina quando aggiunsi: «Ad una condizione però!». Caterina ritornò subito ad incupirsi. «Non ti trovi nella posizione di stabilire condizioni, Filippo». «Pretendo di incontrare Viola». Caterina restò perplessa. «Perché?». «Per assicurarmi che sia viva». «Lo è» proruppe Caterina. «Dovrebbe bastarmi?» protestai «E ad ogni modo ho intenzione di convincerla a costituirsi per l’omicidio della madre» Caterina trasalì titubante non comprendendo quella richiesta; più le apparivo incomprensibile più la mente poté delineare un’idea. «Hai ancora paura della prigione?» domandai sussurrandolo ma facendo in modo che ascoltassero tutti. Caterina afferrò immediatamente quel che intendevo e s’irrigidì. La signorina dal caschetto

castano le dedicò uno sguardo smarrito. «Lasciateci» ordinò senza distogliere l’attenzione da l’espressione di sfida che le lanciai. «Ci rivediamo domani, stesso orario» assicurò e tutti uscirono ordinatamente dall’appartamento. Caterina si posizionò sul davanzale prospiciente a Via dell’Ulivo imboccando un’altra Lucky Strike e trascorsi alcuni secondi di silenzio le domandai: «Non hai rivelato a nessuna di queste persone del terrore che hai d’essere rinchiusa in prigione, giusto? “Meglio morta!” mi confessasti, ricordi? Mi sono appena reso conto che l’unico motivo per il quale hai bisogno di me, è la garanzia che mi prenderò io tutta la colpa. Ho ragione, Caterina?». Evitò di rivolgermi lo sguardo. Messa alle corde, incastrata dalla verità, riportai a galla pezzo dopo pezzo tutti gli elementi nascosti di quel piano. «Scommetto che hai già predisposto le prove che mi coinvolgono nella rifondazione di Liberazione Proletaria. In questo modo, nell’eventualità che l’attentato fallisse, facendole ritrovare, ogni responsabilità ricadrebbe sul sottoscritto. Affiliare giovani leve ha un inconveniente: nessuno di loro ha il curriculum necessario per rifondare Liberazione Proletaria e la magistratura ricercherebbe un leader plausibile, la mente, il burattinaio ma col sottoscritto in squadra, la rifondazione e l’organizzazione dell’attentato mi sarebbero subito attribuite mentre tu la faresti franca un’altra volta» Caterina finalmente m’offrì un’occhiata fuggevole. «Ah, scordavo... Il sequestro di Viola lo premeditasti fin dal principio, ho ragione? Dovevi assicurarti che partecii all’attentato ma pure che mi assumessi ogni responsabilità per coprirti le spalle!» ripresi fiato dopodiché concludendo beffardo «A conti fatti presumo di potermi permettere una piccola condizione». Caterina raggiunse il divano dove s’accomodò per domandarmi: «Chi m’assicura che Viola non spiffererà tutto alla polizia?». Ricercai sicurezza nell’intonazione: «La convincerò che una condanna è l’opzione migliore e che rifiutando uccidereste entrambi». M’affacciai permettendo a Caterina qualche momento per ragionare e pregando

che quel piano sbilenco, funzionasse. Dal palazzo di fronte arrivò l’applauso d’una trasmissione televisiva ed ebbi l’ennesima intuizione. «Mandiamo giù qualche cosa?» domandai e Caterina, drizzandosi, raggiunse il cucinotto. Attesi che scomparisse per sgraffignare una matita colorata che ficcai nella tasca dei pantaloni, dopodiché studiai gli appunti sul tavolo memorizzando il nome dell’hotel, l’indirizzo, chi partecipava all’attentato e dove si nascondesse la cellula romana. M’allontanai quando Caterina tornò in salotto con bicchieri e bottiglia. «D’accordo» affermò versando liquore ad entrambi «Terminata l’operazione la incontrerai e sarà libera di costituirsi». «No!» replicai e Caterina poggiò la bottiglia spazientita. «Domani mi accompagnerai da Viola e la scorteremo subito in questura. La notizia terminerà sui quotidiani entro martedì» sottrassi la bottiglia a Caterina proseguendo nel versare «Prima di partire per Roma, io otterrò la sicurezza che è al sicuro e tu che ha confessato ed è fuori dai giochi. In cambio, rientrerò nell’organizzazione assicurandoti che nella malaugurata eventualità che l’attentato fallisse, mi assumerò io tutte le responsabilità e tu rimarrai impunita come desideri». «Perché non chiedi semplicemente di liberarla?». «Perché voglio evitare che ti ritornino dubbi o ripensamenti e sia ammazzata ad operazione conclusa...» chiarii «La preferisco al sicuro in prigione». Caterina accostò il bicchiere sorseggiando, scrutandomi sospettosa e per un istante sembrò aver intuito qualcosa. In effetti elaboravo i pensieri così rapidamente che poteva prendermi in contropiede in qualsiasi momento; scongiurai di riuscire a persuaderla. Infine, afferrò il fascicolo Belzebù consegnandomelo. «Qui troverai tutte le informazioni necessarie...» accennò poi sorseggiando il liquore. All’interno ritrovai la fotografia che mi mostrò poco prima. Osservai di nuovo quei lineamenti affabili, aldilà degli occhiali da vista stancamente poggiati sul nasetto adunco e, indagando dentro quelle pupille adombrate, immaginai d’averlo di fronte con l’espressione contratta in una smorfia di terrore ed il cranio spaccato dopo avergli sparato a bruciapelo. Richiusi il fascicolo e, leggendo un’altra volta la scritta Belzebù, le domandai:

«Perché non lo chiamate mai col vero nome?». Caterina ridacchiò. «Per renderlo impersonale...» disse «Come una specie di cartone animato. Per di più preferiamo Molok o Belzebù al più banale Presidente del Consiglio Giulio Andreotti» concluse svuotando il bicchiere in un’unica sorsata. Sparecchiò completamente il tavolo dagli stampati, cartine, annotazioni, penne e matite per non offrirmi troppe informazioni. «Buonanotte». «Caterina, cos’hai deciso?» domandai e frenò voltandosi. «Domani t’accompagnerò da Viola ma dubito che riuscirai a convincerla a costituirsi» dopodiché s’allontanò sentendola chiudersi a chiave in camera da letto. Sprofondai nel divano scartabellando il fascicolo contenente i resoconti dettagliati di appostamenti, intercettazioni telefoniche, fotografie private dell’onorevole Giulio Andreotti ed il volantino di rivendicazione già preparato a firma Nuova Liberazione Proletaria. Concentrai l’attenzione sulla quiete del corridoio e, adoperando la matita rubata, scrissi sul retro di un foglio una lettera da consegnare a Viola. Impiegai circa mezz’ora dopodiché la rilessi ripiegandola più volte e infilandola in tasca. Smorzai il lampadario del salotto e, sdraiandomi in contemplazione del soffitto, supplicai qualche divinità affinché s’adoperasse per far funzionare quel piano sgangherato e chiedendogli una volta tanto di giocare nella stessa squadra.

25.

Non riuscii ad addormentarmi nonostante la stanchezza del viaggio, perché immaginare il prossimo incontro con Viola mi perseguitò levandomi completamente la tranquillità. Al primo chiarore del mattino già osservavo Firenze e ascoltavo il cinguettio degli uccelli permettendo che un’aria effervescente congelasse le brutte sensazioni che mi tennero sveglio. Riaprii per l’ennesima volta il fascicolo studiando il profilo politico di Molok, alias Giulio Andreotti: per la settima volta Presidente del Consiglio, otto volte Ministro della Difesa, cinque Ministro degli Esteri, due Ministro delle Finanza e dell’industria nonché Ministro del Tesoro e dell’Interno. Sottosegretario della Presidenza del Consiglio nel quarto governo De Gasperi a soli ventotto anni. Durante il sequestro Moro fece parte del partito della fermezza, infatti lo stesso Moro nei memoriali rinvenuti nell’ottobre del 1978 e del settembre 1990 accusò Andreotti di volerlo sacrificare sull’altare della ragion di stato. Il giornalista Mino Pecorelli in proposito avanzò l’ipotesi inquietante che avrebbe voluto il Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa al corrente dell’ubicazione esatta di dove le BR tenevano prigioniero Moro, ma Andreotti avrebbe deciso di non intervenire. Mino Pecorelli venne ucciso da killer ignoti nel 1979. Rialzai lo sguardo sulla città inspirando aria pulita riflettendo sulla famosa invettiva di Aldo Moro che in una lettera scrisse: Il mio sangue ricadrà su di loro…, non immaginando di poter diventare io l’esecutore delle sue ultime volontà. Proseguii con la lettura dei pedinamenti che cominciavano con il presidente Andreotti alla prima messa nella chiesa del Gesù e terminavano col rientro nell’abitazione al centro di Roma assieme alla scorta. In seguito, con le trascrizioni delle telefonate tra il Presidente e la moglie Livia, i quattro figli e persino con i nipotini. «Buongiorno!» pronunciò Caterina entrando d’improvviso nel salotto. «Buongiorno». «Dormito?». «Come un sasso!» risposi.

«Caffè?». «Una caraffa... Grazie». La raggiunsi nel cucinotto aspettando che la moka gorgheggiasse, nebulizzando nell’aria aroma di caffè. Caterina nell’attesa s’informò della mia permanenza a Genova noncurante della ragazza morta ammazzata e di Marco. Desiderai spremerle quella testa vuota, ma la situazione obbligava autocontrollo e, col caffè zuccherato, ingoiai anche quell’amarezza. Batterono sull’uscio e Caterina aprì a due energumeni che, accedendo al cucinotto, salutarono col mento. Caterina si congedò chiudendosi nel bagno e nessuno proferì parola, finché tornò profumata di pineta. «Muoviamoci» comandò e, rialzandoci all’unisono, la seguimmo fino in Via Michelangelo Buonarroti dove gli energumeni lasciarono parcheggiata una Escort beige. Voltando in Via Ghibellina e dopo in Viale della Giovine Italia, risalimmo dalla rotonda sul lungarno in Via Giovanni Amendola e un centinaio di metri avanti girammo in Via Arnolfo parcheggiando davanti ad una palazzina su due piani con le persiane verdi ed un grande portone d’ingresso marrone. Smontammo, l’energumeno biondastro strimpellò sul camlo ed il portone d’ingresso rumoreggiò sulla serratura. Sul pianerottolo, al piano secondo, indugiava una giovanetta spampanata col volto assonnato. Sbaciucchiò Caterina sulle guance, salutò gli energumeni mentre al sottoscritto elargì soltanto un’occhiataccia circospetta. L’appartamento sgombro, con pochi mobili d’arredo. Caterina ordinò di aspettarla lì percorrendo il lungo corridoio, mentre il cuore mi martellava all’impazzata e lo stomaco cominciò a sfrigolare. Comparve un giovinetto in canottiera dall’aspetto sonnacchioso che salutò gli energumeni e riconoscendomi avanzò arcigno. Temetti il peggio. «Filippo...» belò «È un onore conoscerti!». Ricambiai il saluto mentre Caterina rinvenne intimandomi di seguirla. Giunse finalmente il momento di rivederla: Viola. Diretti nella stanza da letto al termine del corridoio, Caterina si bloccò impugnando la maniglia.

«Cerca d’essere persuasivo!» suggerì «Conviene ad entrambi» dopodiché aprì concedendomi d’entrare. Viola contemplava quella domenica oltre la finestrata. Una chioma lunghissima le cadeva fino a metà schiena. Si volse gradualmente ricercando una severità che non riuscì a conservare a lungo. Le pupille le luccicarono come cristalli, mentre l’intero volto le si contrasse dentro una smorfia di dispiacere profondo. Il respiro divenne affannoso e quei singhiozzi che tentò disperatamente di trattenere, le scossero quel gracile corpicino. Rimasi pietrificato, lottando tra il desiderio smisurato d’abbracciarla ed il terrore d’un legittimo rifiuto, ma quando Viola, all’estremo delle forze, cedette ad un risucchio, ruppi ogni indugio correndo a stringermela. Fu in quel momento che il nostro dolore condiviso frantumò ogni argine travolgendo tutto sotto il proprio peso. Viola schiacciò quel lamento contro il mio petto in subbuglio. «Calma...» mormorai ma Viola continuò a singhiozzare mentre Caterina avanzò per ordinarmi di farla smettere. «Viola... Viola ascolta... Non preoccuparti...». «Mamma...» biascicò «La mamma... Hanno ammazzato mamma!». «Lo so ma adesso ho bisogno che ti tranquillizzi... Ascolta... Non abbiamo tempo!». «Non abbandonarmi qui... Ti prego, portami via!». Caterina sbuffò. «Ascolta...» ripetei afferrandole le guance roride «Ho bisogno che vai alla polizia a costituirti...». Viola s’ammutolì esterrefatta, precipitando sul fondo del pozzo. «Assumiti la responsabilità dell’omicidio così...» indietreggiò, sfuggendo con un’espressione incredula. Tentai di convincerla a costituirsi ma Viola rifiutò categoricamente e Caterina parve spazientirsi velocemente. «Non puoi chiedermelo!» sbottò disgustata dall’idea «Ti sei già preso tutto quello che ho, ora questo?» strillò voltandosi e rivolgendo lo sguardo all’esterno. Spazzolai la barba incolta osservando l’inesorabile Caterina. Non m’avrebbe concesso altro tempo; lo capii da quell’espressione malvagia, perciò serrai la lettera piegata e ripiegata nel pugno e accostandomi a Viola gliela infilai nella tasca anteriore dei pantaloni cingendola.

«Cos...». «Zitta!» le sussurrai all’orecchio «Leggila. Fidati, ti supplico!». «Filippo!» gridò Caterina guardinga. Rialzai il tono della voce. «Ti prego!» supplicai così Caterina si bloccò «Vuoi almeno rifletterci?» le abbrancai un fianco suggerendole quel “sì” che pronunciò flebilmente dopodiché implorai Caterina di concederle qualche istante. Approvò controvoglia e nel momento in cui fummo in corridoio domandò sospettosa: «Che le hai sussurrato all’orecchio?». «Che se rifiutava ci ammazzavate entrambi». Caterina mi ricercò nello sguardo una verità che rimpiattai lestamente ed infine, persuasa, m’invitò a raggiungere gli altri. Imboccò una Lucky Strike controllando frequentemente l’orario ed infine, terminata, smorzò il mozzicone nel posacenere asserendo spietatamente: «Ora scopriremo quanto le interessa vivere». Viola apparve inebetita, trasognata quando Caterina le domandò: «Allora?». Restò un momento taciturna mentre confidai che scovasse nel cuore la forza di fidarsi un’ultima volta del sottoscritto. Sollevò flebilmente lo sguardo rivolgendosi a Caterina. «Prometti di non ucciderlo?» esigé e Caterina sbalordita assentì impercettibilmente. «Dopo sarà finita?». «Se eseguirai esattamente ciò che ti chiederemo» ribatté Caterina e Viola acconsentì, dopodiché voltò lo sguardo su di me inumidendo le pupille già roventi di lacrime calde. Inspirò domandandomi con un pizzico di voce: «Tu invece prometti di sparire per sempre?».

***

Viola accanto a me sui sedili posteriori d’una Fiat Tipo amaranto con Caterina di fronte ed uno degli energumeni alla guida dell’automobile diretta alla Questura di Firenze in Via Zara. Nessuno, per differenti ragioni, osò pronunciare parola. Adocchiai Viola, felice nell’averla finalmente accanto, malgrado tutto, desiderando baciarla, abbracciarla stretta abbastanza da confonderci, ciononostante restai immobile, imbranato quanto lo scolaretto alla prima cotta. Nel momento in cui la Fiat Tipo giunse a Piazza Beccaria proseguendo in Viale Gramsci, Viola mi sfiorò il mignolo. Supposi senza intenzione perciò controllai le nostre dita adiacenti come gattini dentro una cesta e Viola, mantenendo lo sguardo altrove, cambiò di nuovo posto al mignolo sfregandomelo contro. Accertai che Caterina non controllasse dopodiché lo intrecciai con quello di Viola dentro una specie d’abbraccio surrogato. D’un tratto Caterina si rivoltò ricordando a Viola i compiti che doveva svolgere. Sciogliendoci rapidamente, assentì con cenni del mento. «D’accordo...» terminò Caterina rimettendosi composta. Voltammo in Via San Gallo e Viola servendosi dell’indice, iniziò a mimare delle lettere: una “T” per cominciare, seguita dalla “I” e poi “A” obbligandomi a contenere gli spasmi d’un dolore insopportabile che m’attanagliò il cuore. Terminò con “M” e “O”. Viola riuscì a leggere la lettera e fidandosi recitasse a dovere il proprio ruolo fino alla fine. Imboccammo Via Duca D’Aosta oltreando l’incrocio con Via Zara parcheggiando senza spegnere il motore dell’auto. Caterina rammentò nuovamente a Viola le conseguenze d’un ripensamento. «Hai capito tutto?» richiese in conclusione. «Sì». «Ok, scendi dall’auto». Viola fuggì rapida senza permettermi di guardarla un’ultima volta. Attraversò Via Duca D’Aosta in direzione di Via Zara e quando sparì all’interno della

questura, Caterina ordinò all’energumeno di ripartire.

***

Caterina non nascose una certa soddisfazione nel leggere l’articolo su La Nazione di Firenze del successivo lunedì. Il possibile incomodo conseguente quell’omicidio fu eliminato e dal tavolo del salotto, sogghignava. «Soddisfatta?» domandai. «Quasi...» ribatté «Forse lo sarò a piano concluso» aggiungendo «Domani partiamo per Roma». Le sottrassi il quotidiano rileggendo nuovamente l’articolo e concentrando l’attenzione su ogni possibile indizio. Nessuno fortunatamente: Viola eseguì perfettamente i compiti assegnatale e, per quanto potei presumere, fu creduta dalle forze dell’ordine. Imboccai speranzoso una Marlboro da un pacchetto abbandonato. Con Viola al sicuro mi s’infondeva una rinnovata energia e finalmente potei abbandonarmi alla piacevole consapevolezza di Viola in un futuro non lontano mamma magari di due, tre, quattro marmocchi. Scaldai il viso al tepore di quel lunedì, fiducioso che sarebbe finita come preventivato.

26.

Partimmo in direzione di Roma martedì 14 aprile con due automobili. Nella Fiat Tipo amaranto, oltre al sottoscritto, c’era ovviamente Caterina, l’energumeno che guidò anche quando ci recammo a Via Arnolfo da Viola e, accanto a me, sui sedili posteriori, la ragazza dal caschetto castano che ad un’ora dalla partenza già sonnecchiava. Nella Fiat Uno bianca che seguiva riconobbi un paio degli sbarbatelli e una ragazza tra quelli già presenti nel salotto di Caterina. Ogni tanto controllavo che quei fari stessero ancora dietro. Il cerchio lunare bucava una nottata altrimenti buia come in rari altri momenti. Una sfera perfettamente circolare al centro dell’oscurità; uno sparo contro il mantello delle tenebre che permetteva ad una flebile luce di penetrare attraverso quel foro e schiarire la campagna toscana. Spostandomi al centro dei sedili posteriori, controllai l’autostrada sgombra, notando involontariamente l’energumeno alla guida che carezzava la coscia di Caterina sprofondata in un torpore pesante. Incontrammo lo sguardo tramite lo specchietto retrovisore e l’energumeno riagganciò subito il pomello del cambio. Posai la nuca sul poggiatesta rivolgendo lo sguardo alla ragazza dal caschetto castano, immobile dentro quel sopore pacifico e rendendomi conto d’una stranezza: qualunque profilo, anche quello più dissomigliante, mi ricordava in qualche modo Viola. L’imperfezione dell’osso nasale della ragazza, per esempio, che s’ingobbiva esattamente sul centro, sembrava quello invece perfetto di Viola. Le sopracciglia pareggiate ed anonime mi richiamavano alla mente quelle affilate e ricurve di Viola e persino quell’impercettibile labbro superiore, praticamente inesistente, poteva somigliare a quello polposo della donna che amavo più d’ogni altra creatura al mondo. Sveglio da quarantaquattro ore consecutive, cullato dal brusio del motore dell’auto, serrai le palpebre e fermai la mente.

***

Mi risvegliai prima di giungere a Roma. Dal raccordo anulare la città sembrò nient’altro che un agglomerato caotico di palazzi scoloriti dal bagliore dei lampioni, provando la sensazione oramai familiare dello straniero in una città estranea ma, soprattutto, così incredibilmente distante da Viola. Caterina si risvegliò indolenzita chiedendo all’energumeno dove ci trovassimo. «Praticamente arrivati» replicò mentre la ragazza dal caschetto castano riposava imperturbabile, tutta rannicchiata nell’angolo del sedile posteriore. Tra le strade spopolate di Roma ammo inosservati come un’infezione, pronti a nuocere. Dieci minuti più tardi giungemmo a destinazione: una palazzina anonima nei sobborghi di Roma. Alloggiammo nell’appartamento al terzo piano composto da tre grandi umidi ambienti ed un bagno austero. Nessuna comodità. Caterina m’indicò una camera da letto con un guardaroba vuoto dalle ante cigolanti ed un materasso senza rete dove mi suggerì di stendermi nell’attesa di mangiare qualcosa. Sistemai la solita borsa con i soliti vestiti affacciandomi all’unica finestra e all’istante i pensieri si compattarono come frotte d’uccelli che vorticano in grandi stormi, raggiungendo Firenze e Viola, probabilmente dentro una cella che contemplava la medesima alba, sperando entrambi nella rapida conclusione di quest’orrenda faccenda. Nel pomeriggio ci riunimmo tutti in salotto e Caterina riò dettagliatamente ogni singolo punto del piano d’azione che prevedeva nell’ordine: il sabotaggio delle automobili degli altri partecipanti alla riunione. La sorveglianza della Panda con a bordo il presidente Andreotti fino all’hotel prefissato per l’appuntamento. Il sottoscritto che, accompagnato da Caterina, raggiungevo l’hotel in anticipo. Infine, la consegna del documento fasullo alla reception. «Dovrai aspettare che Molok resti solo, dopodiché uscirai dalla toilette. Puoi anche ammazzarlo subito ma ti ricordo d’attendere perlomeno mezz’ora prima d’andartene dall’hotel per consentirci di preparare la fuga e affinché ciascuno di noi raggiunga in sicurezza le posizioni prestabilite!» aggiunse Caterina «Sistema il cadavere ed il volantino, abbandona l’arma e raggiungi la stanza prenotata scappando dalla finestra prospiciente il retro dell’hotel. Domande?». «No» risposi. Tutto organizzato alla perfezione e niente poté dissuaderli o preoccuparli, tranne il piano che organizzai a loro insaputa. Consumammo la cena tutti assieme, ognuno sprofondato nei propri pensieri e,

terminatala, abbandonai la comitiva trasferendomi in camera da letto dove imboccai una delle Lucky Strike di Caterina accomodandomi sul davanzale. Una corrente di scirocco spazzò l’aria carezzandomi le guance e rimuginai su Viola, che non abitava unicamente nella ione, nella frenesia dell’amore ma piuttosto nella certezza, del conforto di corpi levigati l’uno dall’altro col tempo, acqua corrente e roccia. Noi, infine, figure ed anime che riuscirono ad incastrarsi perfettamente come pezzi d’un puzzle. Sconsolato e depresso, caddi sul materasso avvertendo la stanchezza pizzicarmi le ginocchia. Nel dormiveglia, il primo pensiero fu per mamma e per quell’ultimo indispensabile, infinito dolore che m’apprestavo a darle e che le avrebbe strappato le carni e succhiato via la vita dalle ossa. La figurai davanti al televisore nel salottino impolverato, con l’anima ingrigita quanto quella cipolla di capelli annodata sulla nuca, le lenti degli occhiali da vista inspessite e la montatura più pesante su quel piccolo nasino perfetto. Le falangi ossute, gli avambracci venosi d’un color perlaceo, unghie come roncigli e ginocchia puntute mentre i telegiornali la informano di quell’ultima porcheria, e potendomi intromettere le confesserei: “Sì, Mamma: un assassino! Ma ho compreso e sono sinceramente pentito e non guardarmi con quell’espressione diffidente, è la verità. Domandalo alle pareti umide della mia cella a Sollicciano, vai a parlarci, fatti raccontare, ascolta quel che hanno da dire. Chiedi alla polvere o ai calcinacci dei pavimenti delle Murate, domanda al soffitto scrostato in Borgo San Jacopo o alla chiazza di muffa nell’angolo. Chiedi loro quanto desiderassi diventare un uomo migliore. Chiedilo alla penombra ghiacciata nelle stanze di Via del Campo a Genova, chiedilo ai vetri salati dal libeccio se non ho accettato tutti questi errori e stessi cercando di rimediarvi. Parlaci e, se ti convincono, impugna forte il rosario tra quei veli di carne che hai appiccicato ai polpastrelli. Ho bisogno d’aiuto perché domani, mamma, sarò finalmente l’uomo che desideravi diventassi quando mi cullavi. Diventerò quell’uomo... Domani... Però ora concedimi di ritornare un cucciolo infreddolito e traballante che si rannicchia al calore tiepido d’un abbraccio, per respirare un’ultima volta l’aroma dolciastro e irripetibile della propria mamma.” Sobbalzai per il ruggito d’un tuono che si moltiplicò in tanti neonati rantolii pian piano più distanti. Quel giovedì mattina Roma affogava sotto un temporale incessante, sferzata da un vento gelido proveniente da nord, tutto il contrario del tiepido pomeriggio precedente. M’avvolsi nel piumone ed andai alla finestra

dalla quale perveniva un chiarore fiacco, plumbeo. La via sottostante era solcata da rigagnoli d’acqua e nelle zone di sconnessione dell’asfalto, riempita da pozze profonde alcuni centimetri. Le macchine transitando solcavano quell’acquitrino come prue di navi, creando onde che s’infrangevano sui marciapiedi. Sparuti raggi di sole, infine, squarciavano quel fondale nuvoloso fastidiosamente compatto e uggioso. Rituffandomi sul materasso, voglioso di trattenere quel giorno come il cuscino, la mente tornò a Viola: la tramontana che soffia fredda da nord spirando con violenza anche col cielo sereno. Il libeccio portatore di pioggia oppure lo scirocco che asciuga l’aria, sollevando polvere dalle coste desertiche del nord Africa e provocando tempeste sul Mediterraneo, t’agita anche il cuore. Soltanto al tardo pomeriggio mi convinsi a mettermi in moto, concedendomi un bagno bollente ed in seguito, con delle forbici, tagliando ciuffetti di barba come se strapi lembi di carne. La schiuma da barba acquistata da Caterina e abbandonata sul lavandino vicino ad una lametta somigliava ad un suggerimento. Quel primo tappeto di peluria lo tagliai con delicatezza, senza affondare la lama, dopodiché mi schiumai nuovamente riandoci sopra finché ripulii completamente le guance scavate, le gote sporgenti che prima affioravano da sotto quel cappotto di pelo e adesso rimarcavano lo scarso grado di conservazione d’un viso nuovo, pulito. Il pallore della pelle guarniva la bocca rosata e labbra più sottili senza quella folta pelliccia a nasconderle. Strofinai il volto e mi pettinai tentando di sistemarmi decentemente. Caterina batté sulla porta del bagno per chiedermi di raggiungerla in salotto e, aprendola, ebbe un sobbalzo di meraviglia: le ciglia quasi si spampanarono come petali con la calura, mentre le labbra le si allargarono in una moina compiaciuta. «Eccoti!» esclamò provando a carezzarmi. Io indietreggiai col collo, lei ritirò il braccio e, amareggiata, mi informò della cena già in tavola. «Più tardi dobbiamo fotografarti per il documento falso». Annuii inflessibilmente, dopodiché terminai di sistemarmi e raggiunsi gli altri consumando controvoglia l’ultimo pasto e posando per la fotografia. Un’ora più tardi con Caterina e il medesimo autista ci dirigemmo all’hotel nella periferia di Roma a bordo della Fiat Tipo color amaranto. Su quel mantello oscuro furono cucite disordinatamente centinaia di stelle come

briciole sparpagliate sul pavimento. L’aria intiepidita, il cuore infuocato. Caterina si voltò accomodandomi una borsa sulle cosce. «Sotto gli effetti personali troverai la pistola, il silenziatore, il caricatore e il volantino che potresti collocare sul cadavere del Presidente» poi s’interruppe «Filippo, ascolti?». «Sì...» sospirai tenendo... lo sguardo ancorato al panorama. Caterina si ricompose ricambiando all’energumeno alla guida un’occhiata impensierita. «Andrà tutto bene!» garantii «Sarà facile quanto rubare le caramelle ad un bambino!» Caterina mi rivolse nuovamente lo sguardo così sforzai un risolino beffardo. Non potevo permettermi errori in quel momento. «Eccoci arrivati!» informò e avvinghiai la borsa come un neonato mentre voltammo nella direzione indicata da un’insegna al neon che dipingeva la serata d’un rosso elettrico. La ragazza dal caschetto castano attendeva nel parcheggio antistante l’hotel. Accostandoci Caterina abbassò il finestrino. «Tutto pronto...» annunciò e Caterina assentì comandando all’energumeno di parcheggiare. Le ruote arrancarono sulla ghiaia mentre l’auto procedeva a velocità limitata. «Dopo averlo ammazzato, spegni e riaccendi le luci della camera come segnale. Mi raccomando aspetta una mezz’ora abbondante, dopodiché scendi nella camera prenotata e salta fuori dalla finestra sul retro. Ti recupereremo lì». «Ok». «Il documento. Ora vai» pronunciò Caterina abbozzando un risolino amorevole e maligno allo stesso tempo.

27.

Il crepitio della ghiaia sotto le suole accompagnò ogni o, scricchiolando come ossa frantumate mentre raggiunsi l’ingresso dell’hotel. L’insegna al neon campeggiava verticalmente sulla facciata prospiciente la tangenziale. Il giardino attorno all’hotel curato, appena annaffiato. La hall essenziale ma raffinata mi distrasse un istante infine, dirigendomi alla reception, sfilai il documento controllando la nuova identità. Un gentiluomo incanutito dietro al bancone apparecchiò un saluto gentile. «Buonasera e benvenuto» asserì. «Ho prenotato». «Certamente. Nome?». «Zampieron». Controllò la prenotazione confermando: «sco Zampieron... Eccolo. Ho bisogno di un documento, gentilmente» e glielo consegnai. Lo esaminò velocemente senza sospettare nulla, in seguito stirò nuovamente il volto consegnandomi la chiave: «Numero 17 come richiesto signor Zampieron. Grazie e buonanotte». Trattenne il documento con l’identità falsa e con quella fotografia scattata velocemente soltanto poche ore prima. Attraversai la hall raggiungendo gli ascensori e premetti il numero quattro anziché l’uno. L’ascensore ripartì serrando gli sportelli dove nell’acciaio specchiante si riflesse un’immagine malinconica. Non un uomo ma piuttosto la tristezza abbigliata con abiti anonimi ed un volto spolpato, guance scavate e glabre, segnato da lunghe pieghe su quella fronte sempre corrugata. Ogni singolo capello sistemato con cura sulla nuca e un’infinita malinconia in quel paio d’occhi comunque determinati a compiere il proprio dovere fino alla fine. L’ascensore s’arrestò con un sobbalzo e gli sportelli si riaprirono accompagnati da un tintinnio. Percorsi il corridoio affondando le suole nella moquette ed

esaminai la numerazione sulle porte: 31, 32, 33 e in fondo la 35. Serrai i manici della borsa trasmettendomi coraggio e picchiai lievemente sull’uscio. Un martellamento di tacchi anticipò la porta che si spalancò su una signorina dai grandi occhi color castagna che con un segno d’intesa m’invitò ad entrare richiudendo velocemente. «Siamo in ritardo!» asserì accigliata mentre contemplai la camera dove si sarebbe compiuto il nostro destino. Le rivolsi un’occhiata disinteressata e intimorita agganciò i fianchi sofficemente stretti nella sottana d’un coordinato scuro. «Arriverà a momenti...» affermò «Meglio prepararci». Poggiai la borsa e allargai la cerniera estraendo la pistola che sistemai sul copriletto assieme al silenziatore, il caricatore e al volantino. Richiusi la cerniera e impugnai la pistola, introdussi il caricatore, reclinai il carrello collocando un proiettile in canna, infine avvitai il silenziatore. La signorina osservò le varie operazioni con circospezione. La osservai trovandola attraente; delle ciocche le coprivano parte della fronte, incorniciandole il volto come un sipario spalancato sul palcoscenico di guance vermiglie ai lati d’un viso perfettamente curvato da orecchio a orecchio, più pericoloso della pistola che trattenevo nervosamente nel pugno. «Ti chiami?» domandai. «Anita». «Hai una penna, Anita?». «Sì» rispose sommessamente frugando nella propria borsetta. Alcune ciocche le caddero avanti e subito le allacciò dietro l’orecchio. «Eccola...» annunciò porgendomela e subito la collocai in tasca. «Che devi farci?» domandò curiosa. «Nella malaugurata ipotesi che s’otturasse il silenziatore» mentii con la prima stupidaggine che formulai, afferrando la borsa e nascondendola nella toilette. Anita esaminò l’orologio dopodiché risistemò agitata l’acconciatura. Verificai la toilette dopodiché attraversai la stanza osservando la tangenziale, sempre cingendo la pistola, così, per prenderci confidenza. Il bagliore rossastro del neon

colorì le pareti interne mentre Anita sbuffava irrequieta con i piedini scomodi nelle scarpette che picchiavano ritmicamente sulla moquette. La osservai attraverso il riflesso del vetro accomodarsi sul bordo del materasso, accavallare le cosce meravigliosamente fasciate da calze di nylon, mentre torceva la boccuccia in un tubicino e le mordeva adoperando gli incisivi. L’aria impregnata d’un profumo fruttato. Dopo alcuni minuti in silenzio, mi rivolse un’occhiata irrequieta chiedendomi: «Come riesci a restare tranquillo?». Sogghignai e Anita corrugò la fronte, perplessa perché non risposi. In realtà desiderai chiederle perché buttasse così la propria vita, aggregandosi ad una combriccola di visionari, ma bussarono prima che trovassi tempo e coraggio per pronunciare una singola parola. Anita mi consegnò il volantino nascondendomi nella toilette, dopodiché la ascoltai aprire. «Buonasera presidente!» asserì «Ben arrivato». «Buonasera Anita». Seguirono dei i ovattati ed in seguito il medesimo squittio domandò: «Non è arrivato nessuno?». «È il primo. Ha qualche richiesta?». «No Anita, grazie». «Ho provveduto a riempire il frigobar. Se non ha bisogno d’altro...». «Può andare». «A dopo» concluse Anita, dopodiché avvertii l’ingresso chiudersi con un tonfo greve. Serrai l’impugnatura della pistola, il volantino nella sinistra e inspirai uscendo allo scoperto con il Presidente del Consiglio Giulio Andreotti che si contrasse allibito e terrorizzato. Gli puntai contro l’arma. «Dio Santissimo!» balbettò sollevando istintivamente le braccia. «S’accomodi» ordinai.

«Che intenzioni ha?» pronunciò concedendomi un confidenziale “tu”. «S’accomodi per cortesia». «È una rapina?» soggiunse sfilando il portafoglio dall’interno della giacca «Prendilo! Prenditi tutto quello che ho!» insistette offrendomi alcune banconote. «Non ho intenzione di rapinarla, Presidente. S’accomodi, non lo ripeterò di nuovo». Andreotti si collocò nervosamente sul bordo del materasso e subito gli consegnai il volantino di Liberazione Proletaria. Non appena terminò di leggere il primo rigo, l’espressione sul volto gli tramutò in una maschera di paura.

Il presidente Giulio Andreotti sollevò lo sguardo, il volto contratto in una smorfia di sconcerto mentre la montatura degli occhiali scivolò avanti, sulla punta adunca del piccolo naso, ad una manciata di centimetri dalla foro del silenziatore. Deglutì domandando con un ultimo slancio d’ardimento: «Cosa aspetti?». «Usi questa biro per scrivere ciò che detterò sul retro del volantino...» replicai offrendo a quell’espressione già sconvolta, un’altra imprevista sorpresa. «Veloce... Abbiamo soltanto mezz’ora». Il Presidente impugnò la biro e rovesciò il volantino, sempre più perplesso, soprattutto quando spensi e riaccesi il lampadario principale. Elencai scrupolosamente luoghi, nomi, descrissi l’aspetto delle persone che incontrai a Firenze e ogni minima informazione su Nuova Liberazione Proletaria e Andreotti trascrisse tutto diligentemente. Compilata la lista delle priorità, aggiunsi oralmente i fatti accaduti negli ultimi mesi cominciando quel resoconto dal capodanno scorso, le difficoltà economiche e l’incontro con Roberto (che scagionai per l’omicidio Credentino), il trasferimento a Genova, l’assassinio di Lamia e Marco, l’omicidio della mamma di Viola e il rapimento annesso, spiegando i punti più rilevanti di quel complesso schema che si concludeva in quell’hotel alla periferia di Roma. Dettai al presidente Andreotti, sprofondato in un totale stato d’incoscienza, il nome e le motivazioni del leader di Liberazione Proletaria, ovvero Caterina e, infine, mi accertai che fosse tutto chiaro nonostante la frenesia di quell’ultima mezz’ora. Timorosamente Andreotti mi restituì il foglio che abbandonai sul comodino. «Hai intenzione d’uccidermi?» domandò. «No...» risposi «Desideravo raccontarle questa storia affinché rimetta tutto al proprio posto, rendendo giustizia a coloro che ho nominato e che s’adoperi con tutte le forze per smantellare definitivamente l’organizzazione». Quell’espressione finalmente rilassata tamponò il mento contratto del presidente Giulio Andreotti che continuò a balenare le pupille. «Il compito non è finito...» aggiunsi e Andreotti indietreggiò come spintonato da quell’affermazione, muovendo gli occhiali alla pendice di quel becco adunco.

«Sì...» balbettò. «Deve promettermi che si adopererà in prima persona affinché Viola sia protetta e che le garantirà un futuro senza preoccupazioni?». «Sì» inspirò Andreotti. «Il telefono» comandai suggerendolo con la pistola. Il presidente lo considerò interdetto, titubante sul da farsi. «Telefoni alla polizia. Chiarisca l’intera faccenda e innanzitutto s’assicuri che siano parecchi e ben armati».

***

Impiegarono diverse decine di minuti che per il presidente Giulio Andreotti ed il sottoscritto somigliarono ad alcuni secoli. Il tamburellare irrequieto di suole sulla moquette fu all’improvviso sovrastato dallo stridore delle sirene della polizia provenienti dal parcheggio dell’hotel. Il presidente Andreotti rivolse l’attenzione in quella direzione atterrito e preoccupato da quel baccanale. «È arrivata la cavalleria!» garantii «È libero d’andarsene». Andreotti parve dubbioso, diffidente mentre gli indicai l’uscita. «Presidente!» lo richiamai mentre s’affrettava all’uscita. Sobbalzò impallidito, presumibilmente al culmine della sopportazione nervosa. «Non dimentichi l’impegno che s’è assunto!». Assentì rapido prima di tagliare la corda. Chiusi a chiave consapevole che il Presidente del Consiglio avrebbe sfruttato la propria autorità per insabbiare l’intera faccenda; giornalisti, telegiornali, massmedia completamente all’oscuro di quanto accaduto in un hotel alla periferia di Roma.

M’affacciai scorgendo Anita condotta dentro una pattuglia della polizia coi polsi ammanettati. Mi dispiacque perché in fondo mi piacquero quei lineamenti melodiosi, la curvatura delle sopracciglia, quella pettinatura che le incorniciava il semicerchio del volto. Mi piacque quando rise nervosa con quella galleria nivea e le gote che le si sollevarono come tirati da carrucole. Le sirene, gli schiamazzi, le grida richiamarono decine di curiosi affacciati come il sottoscritto dalle finestre dell’hotel e... ...La individuai, illuminata dai lampeggianti intermittenti d’una pattuglia. La chioma fulgida si sparpagliava nell’aria come fruste, l’espressione rigida celava una disperazione profonda. Indirizzò un’occhiataccia alla finestra attraverso la quale presenziavo all’epilogo di Caterina e di Liberazione Proletaria. Mi rammaricai soltanto d’essere talmente lontano che presumibilmente non colse il ghigno soddisfatto che disegnai sul volto. La spintonarono all’interno d’una pattuglia della polizia che ripartì sdrucciolando sulla ghiaia e immettendosi in tangenziale al suono straziante delle sirene. Serrai il manico della pistola dopodiché sprofondai sul materasso finché avvertii un incedere frettoloso di scarponi giungere dal corridoio.

Epilogo

Oggi, 16 Aprile 1992

...Qualcuno grida «Polizia!» scalciando sull’uscio chiuso a chiave. Svito il silenziatore gettandolo sul materasso e accostando la pistola alla tempia, soddisfatto d’essere riuscito a raccontare interamente tutta questa brutta faccenda. Felice d’aver regalato un senso a quest’uomo scassato e senza svincoli. Adesso, sopraffatto, impotente, marcito come gli angoli d’una soffitta, rendendomi conto che il mondo può anche far senza, fiducioso che presto tutto verrà dimenticato mentre io starò ballando tra i gitani, felicemente sbronzo alla fine della festa, perché nessuno ascolterà più pronunciare il mio nome... Mai più. Brandisco la pistola come il riflesso d’ogni male, d’ogni angoscia, d’ogni solitudine, d’ogni fallimento guadagnato in quest’esistenza, e ritenendola l’unica responsabile come l’unica in grado di porre la parola “Fine” all’intera faccenda, le bisbiglio: «Coraggio! Concludi il lavoro... Prenditi tutto quello che ho!».

Quando la polizia abbatte l’ingresso, io premo il grilletto.

* * *

Caterina. Le indagini della Procura della Repubblica del 1993 l’hanno riconosciuta come il leader del movimento terroristico Liberazione Proletaria, operativo dal 1978 fino al momento della cattura avvenuta a Roma nel 1992. Attualmente è detenuta in isolamento presso un carcere femminile di massima sicurezza. Ha ripetutamente tentato il suicidio fallendo ogni singola volta.

Jawad sconta le tre condanne d’ergastolo presso il carcere di Sollicciano a

Firenze. Nonostante l’ottima condotta e l’attuazione di concorsi di scrittura, incontri di lettura e formazione per i detenuti all’interno del carcere, qualsiasi richiesta presentata per una commutazione della pena è rimasta inascoltata o bocciata. Ha comunque ottenuto un permesso speciale per presenziare al funerale dell’amico Filippo Dellaria svoltosi mercoledì 22 aprile 1992 a Firenze.

Ester, la Raminga, non esercita più la professione di prostituta nell’appartamento in Via della Maddalena a Genova, ma riscuote gli affitti dei numerosi appartamenti di proprietà, godendosi un’opulenta pensione. S’è trovata di frequente a domandarsi che fine abbia fatto quel gentile e malinconico fuesté.

Lamia. Il cadavere fu restituito alla famiglia residente a Marsiglia dov’è tutt’oggi seppellita. Marco invece riposa al cimitero comunale di Firenze sotto un’anonima croce vicina a quella altrettanto anonima di Roberto Boschi. Niente da spartire con la lapide del carabiniere medaglia al valor civile Fabrizio Maggiorelli che riporta l’epitaffio solenne: “Proditoriamente fatto segno a colpi d’arma da fuoco, immolava la sua giovane esistenza ai più nobili ideali di giustizia ed assoluta dedizione al dovere”. Entrambe distanti dal mausoleo della famiglia Credentino dov’è tumulata la signora Eleonora.

Purtòu è deceduto per un malore nell’estate del 1994, la più torrida del decennio. Il cadavere è rimasto ignorato per un’intera settimana prima che qualcuno s’accorgesse della morte dell’uomo. Nel pugno stringeva una bottiglia vuota con all’interno un foglietto di carta con la scritta in dialetto genovese: Ti sae, sentu a morte vixìnna ma nu l’e’ che mi agge coae de saluta’ quarchedun. (Lo sai, sento la morte vicina, ma non m’importa di salutar qualcuno).

Giulio Andreotti. Per lungo tempo al centro della scena politica italiana, è deceduto il 6 maggio 2013, all’invidiabile età di 94 anni. Il 28 giugno 1992, terminato il mandato da Presidente del Consiglio, fu tra i papabili candidati come Presidente della Repubblica, poi ritrattato e sopravanzato da Pier Luigi Scalfaro. Le indagini di Tangentopoli del 1993 lo sfiorarono soltanto, in seguito

fu indagato come mandante dell’omicidio Pecorelli, infine assolto. Sul fallito assassinio del movimento terroristico di Liberazione Proletaria non fu avviata alcuna indagine ufficiale, né redatto un documento o rapporto di polizia sui fatti avvenuti quel 16 aprile 1992. Fonti non ufficiali sostengono che l’unico documento esistente (il volantino di Liberazione Proletaria con sul retro la confessione di Filippo redatta dallo stesso Andreotti) sia conservato tra i 3500 faldoni del rinomato archivio cartaceo personale del Senatore, depositato nel caveau blindato dell’Istituto Don Sturzo in Via delle Coppelle a Roma.

Viola. Grazie all’intervento (mai confermato) dell’allora Presidente del Consiglio, Giulio Andreotti, godette dell’aiuto delle Istituzioni e attualmente vive con una falsa identità in una località della Versilia assieme al marito, conosciuto nel 1998 e sposato nel 2001, e con i loro tre figli. Non ha mai dimenticato Filippo.

Filippo. Nelle cronache dell’epoca risulta che l’operazione di polizia a Roma e la mancata cattura per il suicidio del latitante Filippo Dellaria, sia il risultato di un’indagine della Procura di Firenze concernente l’omicidio Credentino. La madre di Filippo è l’unica estranea ai fatti ad aver ottenuto informazioni riservate sugli avvenimenti del 16 aprile 1992 e quindi sulla fondamentale cooperazione del figlio con le forze dell’ordine per il definitivo smantellamento del movimento terroristico di Liberazione Proletaria nonché l’arresto di tutti i membri affiliati. Filippo Dellaria fu cremato come da espressa volontà e la madre, contravvenendo alle legislazioni riguardanti le ceneri funerarie (art. 411 del Codice Penale), ha disperso i resti mortali nel fiume Arno, rischiando una condanna tra i due e i sette anni di reclusione però mai emessa. Attualmente non esiste urna, tumulo o lapide che riporti il nome Filippo Dellaria.

Ringraziamenti

Ai miei genitori e alle famiglie Biagi e Alberti. A Giovanna “Suzy Lee” Di Nuzzo perché “Tra i rumori della folla ce ne stiamo noi due felici di essere insieme, parlando poco, forse nemmeno una parola”. Alla Confraternita dell’Uva: Jonathan Lazzini, Arianna e Alessandro Ghironi, Elisa Ferrari, Giulia e Martina Panesi, Margherita Badiali, Gianni De Luise e Andrea Damiani. Alla “döçe” Ale Corazzino, per il formidabile aiuto con il “zenéize”. A Marta Pacini per il o giornalistico oltre a molto, molto altro. A Giulia Maggiorelli per i dialoghi in dialetto fiorentino. Ad Ilaria Borghini perché “Una promessa è un debito”. A Caterina Antola, per l’“incentivo”. A compagni di viaggio come Aurora Lo Sciuto, Elisa Zinanni, Serena Pierini, Roberto e Luca Ceccarelli, Melissa Gatti, Andrea Costa, sca Simi, sca Balloni. A Elpenice e Roberto Panesi per il o logistico, Nicola Freni (lo splendido Filippo di copertina) ed a sca Iardella per l’impegno e l’affezione dimostrati nel produrre quella meravigliosa istantanea di copertina. Ai giovanissimi scrittori della Scuola Elementare “Marcello Garosi” di Forno a Massa. Alla ASD Marina Bike: un gruppo eccezionale di fedeli compagni d’imprese calcistiche. All’avvocato e cantautore Massimiliano Paolicchi. Allo staff del Centro Fisioterapico Apuano che “raddrizza” il ferrovecchio. A “Maria Capoluongo”: così inevitabilmente distante tuttavia così incredibilmente vicina.

A Mayla e Noemi che dal primissimo vagito si sono “prese tutto quello che ho” saccheggiandomi d’ogni singola stilla d’amore. Alla ragazza affacciata alla finestra. A “Cukor”: “Una che ti guarda e non ti lascia, che ti viene a salvare nel fondo dove ti sei impigliato”, e fortemente a Cristina, supplicandola d’indicarmi, in qualche maniera, la direzione giusta. Sempre e comunque, insieme.

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