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Massimo Valentini

PRIMUS, l’uomo che sognava di vivere

Collana – Nuovi Mondi – n. 2

Direttore della collana Mary Fazi

ISBN 978-88-97801-20-7

Proprietà letteraria riservata © Lettere Animate – 2012

Prefazione

Il romanzo che state per leggere traccia un sentiero dalla meta non scontata. “Primus”, evidenzia la capacità di raggiungere differenti sensibilità, raccogliendo in modo esplicito molta dell'eredità fantascientifica anglosassone, approfondendone alcuni aspetti da una prospettiva contemporanea. Infatti, se da un lato si attesta come un romanzo squisitamente italiano, dalla prosa bella ma sempre orientata al rispetto del lettore, dall’altro tale prosa è arricchita da una ricerca profonda e sanguigna, sicuramente classica, sul significato dell’animo umano. Parole queste che avrò ora il piacere di argomentare, cercando, per quanto mi sia possibile, di accompagnarvi in un breve viaggio propedeutico al romanzo. La prima emozione suscitata da queste pagine è senza dubbio il ritorno a casa. Una casa metaforica, certo, ma pur sempre una dimora agognata che spesso ci è negato raggiungere dall’attuale produzione cartacea di Science Fiction. Sto parlando della casa della Fantascienza di qualità, quella che fu portata in Italia negli anni cinquanta. Di quella fantascienza che si considerava una forma legittima e mai scontata di letteratura, ma anche di riflessione filosofica, su ciò che lo spin off tecnologico post bellico stava causando all’anima degli esseri umani. Si tratta quindi della casa della tradizione, di cui questo romanzo non è tanto un mero successore in linea temporale, ma piuttosto un esplicito custode. "Primus" pare voler saltare a piè pari tutti gli sviluppi fantascientifici minori (spesso competitivi e contrastanti) degli ultimi due decenni, per ancorarsi alle opere di autori profondamente significativi. Sono riuscito a individuare due autori cardine della letteratura fantastica che la maggior parte di voi di certo conoscerà: Philip K. Dick e James G. Ballard. “Primus” è infatti un novello Joe Chip ma con un volto mediterraneo e postmoderno. Proprio come il protagonista del romanzo dickiano “Ubik”, Primus possiede una profonda sensibilità che se da un lato lo porta a confrontarsi in maniera critica con la realtà che lo circonda, dall'altra non gli consente una vera e propria ribellione, come ci si potrebbe aspettare da un protagonista Heroic Fantasy o Hard Sci-Fi. Primus è piuttosto un anti-eroe a cui però Valentini nega il fascino romantico e ombroso di alcuni protagonisti moderni, assegnandogli

invece una consapevolezza assolutamente realistica e contemporanea. Per la quasi totalità del testo Primus, come già il protagonista dickiano, è soggetto ivo degli avvenimenti. Accadimenti assolutamente stravolgenti, assurdi, paradossali, che lo costringono a un’angoscia privata, coerente con i fenomeni di emarginazione diffusi in tutte le aree urbanizzate ed economicamente sviluppate del nostro tempo. A differenza della gran parte dei suoi concittadini normali, il protagonista valentiniano è dotato di una superiore sensibilità, di una visione più ampia e profonda del reale, che Valentini stigmatizza con il termine Capacità Immaginifica. Una società bipartita quella descritta dal Nostro, che trova nei “Norm”, ovvero nella quasi totalità degli abitanti della Terra, il proprio cardine. Una conventio ad escludendum che è nemesi del mondo dickiano, nel quale i precognitivi e gli psionici erano acquisiti dalle multi-società a fini economici, considerati alla stregua di un nuovo stadio dell'evoluzione umana. Con grande sensibilità contemporanea e radici profonde nelle problematiche della nostra realtà, Valentini decide invece di presentarci una società in cui la prosaicità senza valore è elevata ad archetipo di “vita giusta” a scapito di coloro che, spesso per ragioni che trascendono dalla propria volontà, si trovano a voler osare. Il romanzo di Valentini non ha personaggi straordinari come Glen Runciter, Sammy Mundo o Don Denny che P. K. Dick addobbava da pagliacci per l'occasione, in possesso di super poteri osannati dai più. Al contrario, Valentini ricerca una forma di “extra-ordinarietà” raggiungibile solo attraverso un processo di catarsi, la cui percezione è del tutto esclusa alla massa. Nondimeno tanto in “Primus” quanto in “Ubik” (questo è il tratto profondamente postmoderno di entrambi, anche a livello filosofico) la realtà è sempre soggetta a interpretazione. Una realtà che cambia nei suoi significati, ma anche nei suoi significanti, a seconda di chi la osservi. Ecco allora che Celestia (la città paradiso-fittizio inventata dal Valentini) vede i propri edifici sparire, tagliarsi, sciogliersi tanto quanto il mondo della semi-vita di Dick. Su questo dato saliente, ovvero sull'incomprensione del reale, Valentini decide di allontanarsi dalla tradizione gnostica tanto cara a Dick (ma anche a Faulkner, Melville, solo per citare alcune pietre miliari del filone) per cominciare, e al contempo proporre, un viaggio all'insegna della Conoscenza. Uno studio valido, sembra suggerirci l’Autore, solo se comincia con la conoscenza di se stessi, delle proprie peculiarità. Il romanzo, per le ragioni fin qui descritte, si presenta prepotentemente come erede del filone distopico della

Sci-Fi. Nondimeno, l'attenzione che Valentini riserva ai tratti psicologici del protagonista rende “Primus” afferente anche a un’altra sensibilità dell'universo fantascientifico. Per la precisione quella dell' Inner Space di cui Ballard fu maestro. Valentini indaga in modo quasi ossessivo sulla psiche umana; ancor più sulle relazioni che quest’ultima produce paragonate ai differenti aspetti della realtà: le cose, le idee e i significati a esse connessi. Laddove Ballard, nella sua tetralogia di esordio, decideva di utilizzare gli elementi Aristotelici come guida alla sua poetica apocalittica, per il suo romanzo Valentini sceglie invece la tripartizione Popperiana del mondo come filo di Arianna per la comprensione del reale. Se Ballard, con marcato moralismo dico io, si concentrava sulle ossessioni provocate dai mass media, dalla guerra e dalla pornografia, Valentini decide di concentrarsi su manie ben più universali (quali l'amore, la malattia e la sociopatia) con tratti di vera ironia. “Primus”, infatti, raccoglie dall'eccentrico bagaglio postmoderno e avant-pop i termini con i quali descrivere le fobie del suo e del nostro mondo. “Peste-per-tutti”, “Vitamina-C-Fa-Ben” e “Dormite-bene-fratelli” sono solo alcune delle ironiche definizioni utilizzate dall’Autore per definire situazioni archetipiche di fobia. Un’ironia che però non scade mai nel ghigno stupido: tutt’altro. Intercetta le grandi manie contemporanee, dando loro il giusto risalto nell’ambiente di un contesto universale. Altri due elementi che avvicinano l’Opera valentiniana all’universo ballardiano sono la soggettività del tempo e le donne. Similmente a quanto accadeva nel racconto "Un giorno senza fine", i tempi descritti in questo romanzo sono sempre incerti e relativi unicamente a coloro che sono protagonisti di un determinato spazio. Come dire, laddove si viaggi alla ricerca della verità o della saggezza, il tempo perde di senso poiché, di fronte all’assoluto, anche lo spazio diventa una variabile priva di importanza. Di fatidica centralità è invece l’elemento femminile. Se spostassimo l’attenzione dal protagonista al contesto narrato dal romanzo ci renderemmo conto che quest’ultimo lavoro di Valentini è un inno lirico al "gentil sesso". Un canto che spesso è indice di tristezza e atrocità, ma che al contempo trova nella donna anche l’unico elemento di guida e di vera redenzione. Primus attraverserà tre differenti stadi di percezione, seguendo seduzioni e consigli di altrettante donne: Lei, Xoavia e Althaira. Nomi evocativi per differenti interpretazioni del ruolo della donna: l’amante, la madre, la compagna. Altresì le donne di Valentini possono essere raggruppate sotto la stella dell’importanza e

della centralità. Tutto il romanzo si svolge infatti sotto il segno del femminino. Non vi è azione che non sia conseguenza più o meno esplicita della volontà di una donna. Una realtà che già Ballard rendeva manifesta nei suoi racconti (uno su tutti "Prigioniero dell’abisso di corallo") dove la donna era sirena e divinità al contempo; speranza di fuga dalla quotidianità e angoscia al medesimo istante. “Primus, l’uomo che sognava di vivere” è dunque un universo complesso, che rispecchia la reale complessità della nostra contemporaneità, mantenendosi però ancorato alla migliore tradizione Sci-Fi. Ma è anche un romanzo che ha il coraggio di osare, di camminare senza falsi equilibri sui confini oscuri della mente umana; quegli stessi importanti abissi dell’animo che la letteratura contemporanea, forse per piacere dei “norm”, non ha più la volontà di trattare.

Giorgio Michelangelo Fabbrucci Membro fondatore degli Alieni Metropolitani

Prologo

“Io sono il romanzo.” P. K. Dick, Un oscuro scrutare “Io vivo il romanzo.” P. M. Valance, Primus

Io sono Althaira. Quando tu sei nato, io sono nata. Dono la vita ai tuoi sogni, soffio fuoco nel ghiaccio delle tue vene. Il mio nome sussurrano le genti di cui presenti le storie, ma nessuno sa come mi chiamo davvero. Esse vanno dove io desidero, vivono ciò che io vivo. Tu mi possiedi e io ti possiedo, noi siamo uno. La mia essenza aleggia sul Mare dell’Eternità, sale sulle cime dei monti, incede oltre i boschi inviolati delle nostre menti. Non chiamarmi perché non verrò da te, ma saremo insieme ogni volta che tu non lo sai. Il mio viso ha molti occhi e una sola anima. Ciò che io sono è quel che tu sei. Ciò che desideri è quel che io sono. Sono la tua donna più bella e la tua anima immortale. Dove io sono, tu sei. Con me vicina, Lei non può raggiungerti. Insieme a me visiterai posti remoti dove non arriva il rumore degli altri. Ti farò contemplare la Terra ammantata del suo vestito più bello, intessuto di stelle, splendente di sorrisi d’angelo. Cambio il mondo che ti circonda per i miei scopi che sono i tuoi. Mio è il potere di fermare il Tempo, la capacità di mantenerti remoto alle follie del mondo. Non ho sangue né fuoco, non ho ricordi per non farti provare il terrore del ato. E più a il tempo, più volano i petali che compongono la rosa del nostro destino e la nostra vita non conoscerà mai fine. E adesso guarda come il tuo nome sarà pronunciato in un attimo che avrà il sapore dell’Eternità. Perché io sono Althaira, ma noi siamo Primus…

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La Paura ti conosce bene. È nata con te e ti accompagnerà sempre, dovunque andrai. Sa dove sei, cosa fai, quali sono i tuoi pensieri. Si estende al di là della tua consapevolezza, stuzzica le tue percezioni con mani di seta, accarezza la tua mente dicendole di essere libera, ma è solo un’illusione. Lei è sempre con te, anche se non lo sai. Non lasciarle scoprire i tuoi sogni, non darle potere sulla tua vita perché non conosce rimorso, odio o speranza. La tua sola certezza è che esiste fin da quando hai aperto gli occhi per la prima volta e ti desidera. Era questo il pensiero di Primus quando si svegliava, negli ultimi tempi, sbattendo le palpebre intorpidite da un sonno lungo una notte intera. E quel giorno non fece eccezione perché sapeva che da qualche parte c’era Paura nella sua vita. Riusciva a percepirla ma non conosceva che aspetto avesse. Se fosse un ricordo del ato o un pensiero del presente. O qualcosa di cui non aveva la minima cognizione. Con lo sguardo spiritato di chi non sa cosa fare davanti all’ignoto rimase ancora un po’ nel letto reso caldo dai suoi sogni, lasciando che vagassero attraverso la mente per far battere il suo cuore. Erano i sogni che lo facevano vivere, che continuavano la sua esistenza. Si nutriva di loro al primo risveglio, assorbiva l’energia che gli instillavano allo stesso modo di una rosa i cui petali si nutrono della luce del primo sole. Erano la sua unica gioia. Quando, perso nelle proprie fantasticherie, emise un blando sospiro, quel suono si perse ai confini del mondo. Il suo. Sorrise senza un perché, poi si stiracchiò pigramente, in attesa che gli tornassero le forze per affrontare una nuova giornata di lavoro. Si guardò in giro spaziando per la sua camera da letto che trovò piacevolmente disordinata. I vestiti del giorno prima giacevano alla rinfusa equamente suddivisi tra una vecchia sedia a dondolo alla sua destra e il cassettone di mogano davanti al letto. Un paio di maglioni erano sul pavimento e delle scarpe non c’era traccia. Gli piaceva quella confusione, faceva parte di lui. Oziosamente cominciò a pensare a cosa avrebbe indossato per andare al lavoro. Anche il suo armadio ostentava lo stesso disordine ed era proprio questo il motivo per cui di solito trovava tutto quel che gli serviva alla prima occhiata. Se, al contrario, fosse vissuto in un ambiente eccessivamente ordinato non avrebbe trovato nulla.

Quando suonò la sveglia si stava giusto chiedendo se avesse il tempo per una colazione veloce, ma quel rumore lo scosse dalle sue elucubrazioni sui vestiti e sul caffè. Si alzò di scatto posando i piedi nudi sul pavimento gelido, imprecò di sorpresa e si precipitò in bagno. Si posizionò davanti allo specchio e lasciò che le sue dita afferrassero meccanicamente lo spazzolino, lo imbevessero di dentifricio e gli strofinassero i denti. Sputò l’acqua nel lavandino una decina di volte e guardò con attenzione la propria immagine riflessa. La barba era appena accennata e decise di non raderla. Non ne aveva tempo né voglia. Poi la figura di se stesso svanì e al suo posto vide qualcos’altro, una forma che presto acquisì solidità e che aveva imparato a conoscere bene. Nel vederla sorrise e la giornata gli apparve più bella. E Lei, snella e serica nella sua perfezione, accese il suo sguardo di un caldo desiderio. Sorniona e imperscrutabile, lo vezzeggiava con occhi grandi e profondi, dallo sguardo da gatta. E quando abbassava le palpebre era come se quelle sue ciglia lunghe e ondulate eseguissero una danza dalla perfetta coreografia, chiamandolo a sé. La desiderò immediatamente e la donna, morbida nei movimenti, gli faceva languidi cenni con le dita affusolate, con le sue unghie curate e smaltate, il suo sorriso provocante. Sfiorò con la mano la fredda superficie dello specchio per incontrare le dita di quella splendida visione. Sapeva che la sua voce era dolce ma in quel momento rimase silenziosa. I suoi occhi di smeraldo parlavano al suo posto. Gli stava chiedendo di restare insieme e, se avesse acconsentito, si sarebbe dischiuso per lui un mondo di emozioni sempre nuove. Primus contemplò la sua pelle levigata, le sue forme appena velate dal morbido vestito nero che indossava, quelle labbra che volentieri avrebbe assaporato con voluttà. Avvertì di nuovo il suono della sveglia provenire dalle sue spalle e questo lo scosse da quel desiderio. Si ricordò solo allora di essersi svegliato prima del previsto. Imprecando, mentre la splendida figura svaniva come nebbia davanti all’incedere del sole, si diede una sommaria ripulita e si pettinò i capelli cercando di non pensare alla dolcezza di Lei che intanto fluiva nelle sue vene nutrendosi delle sue emozioni, assaggiando i suoi ricordi. Era già sua ma ancora lui non lo sapeva. I loro incontri erano cominciati per caso, attraverso lo specchio-visore, e non sapeva molto della sua esistenza. Non era importante. Era una donna troppo speciale per perdersi in inutili considerazioni. Doveva corteggiarla, amarla e non era difficile. La sua bellezza era quanto di più seducente avesse mai visto. E Lei, consapevole di quanto fosse rapito il suo cuore, giocava con lui come solo una donna sa fare senza mai fargli capire di essere il solo uomo che voleva. Così, ancora inconsapevole di queste cose, in una mattina di un giorno come tanti

Primus uscì di casa in fretta e furia saltando al posto di guida della sua Trans Am antracite che l’aspettava. Girò la chiavetta, sfiorò il tasto di accensione e il rombo sommesso dell’otto cilindri l’avvolse con la sua musica celestiale. La giornata era bella, il cielo terso e sereno. Il tempo ideale per una corsa in auto, ma il senso del dovere lo riportò con i piedi per terra; allora ingranò la retro, uscì dal vialetto e fece manovra per evitare un furgone che proprio in quel momento stava ando davanti la sua abitazione facente parte dell’elegante quartiere di Nova’s Dream, il tranquillo complesso residenziale dove abitava da quattro anni. Costeggiò la fila di villette tutte ugualmente graziose che davano alla zona un tocco di piacevole isolamento dal caos metropolitano, ma quando raggiunse Moving Spirit Avenue si rese conto per la prima volta che l’ambiente intorno a sé era tutto un brulicare di pericoli. Si stupì per quella considerazione, ritrovandosi a guardare il mondo-mondo con occhi diversi dal solito. Da qualche tempo, non avrebbe saputo dire da quando, c’era qualcosa che non andava in quel che vedeva, forse una qualità dell’aria, una presenza strana e indefinibile che sottendeva la struttura delle villette che in quel momento stava superando a bassa velocità, che impregnava l’aria rendendola gelida e irrespirabile. Si accorse di avere freddo, anche se ormai era primavera inoltrata. Non era la prima volta che provava quelle strane sensazioni ma nell’ultimo periodo si erano fatte più frequenti. Avvertiva un enorme peso sullo stomaco, come se un elefante si fosse seduto direttamente sul suo petto, impedendogli di respirare correttamente. E insieme a quella sensazione anche il resto della città pareva cambiato, come se l’ambiente che lo circondava non fosse poi così bello. Una Paura sottile, insidiosa, s’impossessò di lui e si ritrovò a fissare la luce del sole con un vago senso di minaccia latente. Come se dietro ogni cosa, dalle sagome delle persone in movimento alle auto, dai anti agli enormi palazzi che ora avevano sostituito le graziose villette di prima, vi fosse qualcosa in attesa. Qualcosa che attendeva lui. Un’entità che lo seguiva famelica e astuta, appena al di fuori della sua portata visiva. Non poteva vederla ma sapeva che c’era e qualunque cosa fosse sapeva che era viva e cosciente. Con sensi diversi da quelli fisici percepì l’estensione di quella qualità simile al buio che gli ronzava intorno, calda e umida, a tratti piacevole come le labbra di una bella donna che percorressero il suo corpo con dolcezza. Tentò di svagarsi ascoltando un po’ di musica e immergendosi nel traffico cittadino che adesso si faceva più caotico. Con fare distratto osservò le auto intorno a sé. Auto guidate da gente di tutti i tipi che andava al lavoro, in vacanza, si preparava a un appuntamento d’affari o era in cerca di un’amante da portare a letto.

Persone come tante in tutto il mondo-mondo che vivevano cercando di arricchire la propria esistenza di nuove emozioni. Si chiese quanti di quegli sconosciuti provassero le sue stesse sensazioni. Probabilmente molto pochi perché lui, a differenza di altri, non aveva mai subìto interventi alla nascita. I norm non vedevano che qualche materializzazione, volti e forme-fantasma che aleggiavano per pochi attimi davanti ai loro occhi, ma si trattava di fenomeni isolati, prevedibili, senza colore. Le loro percezioni non erano vive, non acquisivano una sorta di coscienza personale prima di svanire e dopo pochi attimi si dissolvevano nell’aria così com’erano apparse. A volte li invidiava e desiderava essere come loro. La vita dei norm scorreva lineare, ordinata e prevedibile. La sua no, era tutto il contrario; era caotica e negli ultimi tempi si era fatta quasi difficile. C’erano stati giorni in cui una parte di sé, quella generalmente più logica, aveva rimuginato sulla possibilità di andare presso l’ennesimo centro medico per tentare di farsi sottoporre al semplice intervento che prometteva a gente come lui una svolta in poco tempo. Ma tornava a casa a mani vuote, perché tutte le volte gli specialisti gli avevano confessato l’amara verità: non era più possibile eseguire il trattamento, a meno che non volesse rischiare una bella lobotomizzata immaginifica. Avrebbe dovuto farsi operare da bambino, quando la mente è più malleabile e può crescere facendo a meno di certe strutture. Ma adesso, a quasi trentotto anni, i rischi erano troppo grandi. E non era tanto la prospettiva di impazzire a farlo desistere, ma quella assai più repellente di trasformarsi in un vegetale privo di coscienza. Prima si sarebbe adattato alla sua condizione meglio sarebbe stato perché non aveva la possibilità di scegliere una vita normale. Non poteva, che gli pie o no. All’inizio ne aveva fatto una tragedia scendendo sempre più nella perversa spirale della depressione ma poi aveva accettato lo stato delle cose con la maggior naturalezza possibile. E del resto non avrebbe potuto fare altro. Era stato un brutto colpo per la sua vita e le sue magre risorse economiche. Una Capacità Immaginifica come la sua era scomoda e considerata poco produttiva se imbrigliata nelle fredde logiche della produzione industriale. Non era possibile controllarla, limitarla o cambiarla. Bastava un minimo sussurro, il rumore di una foglia che volteggia nel vento d’autunno, la fantasia di un momento, per esperire alterazioni stabili dell’ambiente, e questo nonostante la presenza del datore di lavoro o dei colleghi. Un comportamento non proprio ideale per instaurare buoni rapporti con gli altri. Dopo anni di continui licenziamenti e derisioni ci aveva rinunciato. In seguito aveva scoperto quella rivista, il Writer’s Magazine, che aveva cominciato a pagarlo un tanto al mese

per produrre pezzi divulgativi e brevi racconti. Certo, dal punto di vista economico non era moltissimo, ma aveva trovato un ambiente più tollerante e, soprattutto, la possibilità di continuare a fare quello che più gli piaceva, scrivere. Generalmente era a casa prima delle venti e impiegava il resto del suo tempo dividendosi tra i suoi amici e i suoi romanzi e racconti. Altro lavoro non pagato, altra perdita di tempo cui però non sapeva rinunciare. Faceva parte di lui, del suo essere uomo. Non che ne parlasse in giro spesso, tranne che con i suoi amici più intimi, e così la sua vita girava intorno a pochi ma prevedibili punti fermi. Le altre persone, invece, seguivano lavori di prestigio o motivazioni fatte di carriera e ambizione. Alcuni non guadagnavano a sufficienza ma altri, i più fortunati, vivevano tra gli agi più sfrenati. Ma a Primus Valance non fregava nulla di tutto questo. A lui interessava solo controllare la sua vita, cosa che negli ultimi tempi non faceva quasi più. E non era contento. Quando arrivò alla redazione del Writer’s Magazine salutò con un cenno del capo i presenti quindi si pose davanti a Margareth, la segretaria. “Il Capo ti sta aspettando.” Gli disse con la sua vocetta vezzosa, quando lo vide. Primus reagì con un sorriso e sgattaiolò nell’ufficio del direttore. Matthew Parson era un uomo oltre la sessantina con un viso gioviale ma autoritario, occhiali di tartaruga, un completo grigio scuro e una camicia bianca su cui spiccava, simile a una macchia gigantesca, una cravatta a fiori. Un perfetto idiota Gli fece cenno di sedersi davanti la sua ampia scrivania ingombra di carte, appuntamenti e vecchi e nuovi numeri della rivista, e Primus mantenne un’espressione di composta attenzione. Una foto della moglie troneggiava alla sua sinistra, accanto allo schermo piatto del computer, proprio accanto all’immancabile pacchetto di sigarette che lei gli proibiva di fumare in casa e che invece era solito aspirare in ufficio. Alle sue spalle una finestra dalle persiane semiaperte lasciava filtrare la luce dell’esterno con discrezione come se quell’uomo fosse, in realtà, un vampiro assetato di sangue e la troppa luminosità potesse infastidirlo. Ridacchiò tra sé di quella battuta e rifletté che Parson aveva le caratteristiche giuste per un non-morto perfetto, considerata la tendenza a succhiare il sangue dei suoi dipendenti senza sganciare abbastanza grana per ricompensarli. In fondo, la leggenda secondo cui i vampiri sarebbero uomini e

donne affascinanti non lo aveva mai convinto sul serio. Piuttosto, erano vecchie cariatidi senza uno straccio di vero acume che non fosse quello necessario a portare via soldi alla gente. Un po’ come gli avvocati e gli agenti del fisco, dopotutto. “Come stai, figliolo?” Primus strinse quella mano ossuta ma ancora ferrea: “Continuo a vivere,” disse, “volevi parlarmi?” “Abbiamo ricevuto svariate lamentele da parte dei nostri lettori, ultimamente.” Primus non aprì bocca. “E la cosa non ci ha fatto piacere, come potrai ben capire da te.” “Che tipo di lamentele?” “Non starò qui a fartela lunga, ma credo dovremmo rivedere gli accordi della tua collaborazione alla nostra testata.” “E perché?” “Perché non è bene che la gente legga la tua firma sotto racconti satirici potenzialmente ambigui sulle nostre pagine, ecco perché.” La voce del Capo si era fatta alterata. “Mai scritto roba del genere.” “E che mi dici di Pensiero Razionale?” “Da quando scrivere Fantascienza equivale a fare satira sovversiva?” “Da quando te la prendi con la ‘Confraternita della Bontà’ e il suo operato riguardo a pratiche delicate come le cellule staminali.” “È Fantascienza!” Replicò lui, “non è un’accusa ai loro beneamati affari del cazzo. Solo genuina, fottutissima Fantascienza. Credevo di vivere in un Paese libero.” “La libertà non ha nulla a che fare con questo caso. Il Vicario della Contea ha

rotto le scatole tutto il santo giorno alla povera Margareth protestando per il senso… aspetta un momento!” Parson frugò tra la selva di cartacce che ingombravano il piano in vero mogano della scrivania, si aggiustò meglio gli occhiali sul naso da satiro e continuò, “leggo testualmente: ‘altamente lesivo nei confronti dell’accorata crociata della Bontà per i diritti dei bimbi mai nati.’ E questo senza contare i credenti della setta ‘Requiescat in Pace’ che hanno mantenuto gli stessi toni.” “Merda!” Imprecò il giovane e stavolta la sua calma fittizia era andata a farsi benedire: “È solo un racconto, Matthew! La Fantascienza è da sempre un veicolo per la creatività degli scrittori ed è ovvio che molti potranno leggervi un messaggio sociale, ma da qui a farne una crociera… ” “Crociata, non crociera!” Primus ghignò: “Quello che è.” Il vecchio si tolse gli occhiali di tartaruga dal naso aquilino e si massaggiò pensosamente gli occhi: “Primus,” disse in tono paterno, “da quanto lavori per noi? Tre, quattro anni?” “Fanno sei a maggio.” “Appunto. Non voglio privarmi della tua penna. Sei bravo e competente e i tuoi articoli sono sempre ben accetti dai lettori e dal ‘Comitato Degli Scrittori Per La Libertà’. Ormai sei parte del gruppo e anche i tuoi racconti, di solito, sono molto buoni.” “Sento che c’è un ma in arrivo.” “Il ma è che voglio più attenzione sui prossimi temi che tratterai altrimenti, mi dispiace tanto, dovrò evitare di pubblicare altre storie del genere sulle nostre pagine.” “Ascolta Matthew, io non posso scrivere su commissione, proprio non ce la faccio.” “Nessuno ha detto questo.” Il vecchio era distinto e composto come se quella piccola discussione non avesse luogo nel suo ufficio o non fosse mai esistita.

Primus si chiese come riuscisse a mantenere quell’invidiabile autocontrollo. “Cerca di capirmi, Matthew!” Disse allora, accorato, “o scrivo le storie che fanno parte di me o non scrivo affatto. Non ho intenzione di preoccuparmi degli strali di un ipocrita branco di idioti.” Ma Parson fu irremovibile: “Ma noi siamo una rivista divulgativa, non satirica, e per sopravvivere dipendiamo soprattutto dai nostri lettori. Scrivi di quel che vuoi, come vuoi e quando vuoi, ma non affrontare argomenti che possano richiamare l’attenzione degli ambienti religiosi o politici. Solo questo, mi sono spiegato?” Primus sostenne il suo sguardo accusatore: “Farò più attenzione, se è questo che vuoi.” In quel momento il volto di Parson fu tutto un luccichio di denti da diecimila dollari ad arcata: “Sapevo che avresti capito, figliolo.” “Ma certo!” Fece per prendere congedo, ma Parson lo fermò. “Che hai da fare, oggi?” “Un pezzo sulla fauna della Tasmania. Sembra abbiano scoperto una nuova specie di palmipedi, laggiù.” “Datti da fare allora, e buon lavoro.” Prima di girare sui tacchi e tornare nell’altra stanza il giovane sorrise, ma il suo era un sorriso astratto, qualcosa di simile a un disegno futurista tracciato nell’aria, fatto di sogni e vento. Un qualcosa da vedere con l’illusione di essere riuscito a capirlo ma senza una reale comprensione da parte del pubblico. Non veramente. Continuò a far sorridere le proprie labbra per la manciata di secondi che rimase ancora nell’ufficio del Capo. La sua risata amichevole continuò ad echeggiare tra quelle pareti anche se nel suo intimo era già lontano, da Parson, dalle sue fottute paure e dalle sue stupide lamentele. Era il suo corpo che sorrideva, stringeva mani e manteneva un atteggiamento di cordiale giovialità, non lui. La sua mente si era fatta indistinta quanto bastava da non perdere la calma, ma nulla di più. Distaccato ma amabile sgattaiolò fuori dall’ufficio e si perse nell’ambiente assai

più ampio della redazione. Chiacchierò e scambiò sorrisi, a profusione perché non gli costavano nulla, ma continuava a non esserci. Rimaneva il quadro misterioso di prima, ricco di colori e allegre sfumature, denso di giovialità e accattivanti caratteristiche ma distante anni luce dall’ambiente che lo circondava, perso nei propri pensieri che in quel momento erano per lui troppo grandi perché l’universo potesse contemplarli tutti. Quando arrivò l’ora di pranzo mangiò un boccone scambiando quattro chiacchiere con Margareth che moriva dal ridere alle sue battute caustiche o facendo commenti sul lavoro con Jack e Richard, i suoi migliori amici, gente che conosceva da anni e con cui poteva ben dire di esserci cresciuto insieme. Ma nella sua mente e forse anche nel suo cuore rimase quella strana sensazione di latente soffocamento che aveva provato durante il tragitto verso la redazione, anche se molto meno accentuata rispetto a prima. E tuttavia la percepiva sempre lì, contorta e indefinibile, sul suo cuore affaticato, nel suo cervello stanco. Aderiva alle pareti della sua consapevolezza instillando il suo veleno goccia a goccia e Primus poteva vederlo quel veleno, quel disgustoso, orrendo liquido nerastro che sostituiva il suo sangue, che rimpiazzava i suoi globuli rossi con altri similari, ma che invece di ossigeno e vita portavano timore e morte. Sentiva che effettivamente c’era qualcosa che non andava nella sua esistenza ma non riusciva a definire quel che provava. Nel pomeriggio risolse di andare dal suo medico di famiglia, la dottoressa Gwen Florence, una zitella acida e riottosa che non stimava ma che gli serviva per farsi prescrivere antibiotici o altri farmaci per i quali non valeva la pena are ore e ore di attesa nel suo studio. Ma anche se la Florence poteva andar bene per curare un malanno di stagione non era altrettanto sicuro che fosse in grado di provvedere a un senso di malessere più indistinto. Lei era il classico medico che fa aspettare il paziente per un periodo interminabile tra il cicaleccio ipocondriaco e le paure degli altri e Primus già sapeva cosa l’aspettava quando l’avrebbe visto. Si sarebbe degnata di visitarlo come se gli fe chissà che gran favore, gli avrebbe fatto spalancare il più possibile la bocca e poi, dandogli una pacca sulle spalle e dell’imbecille col pensiero lo avrebbe rimandato a casa con un laconico “È solo un fatto psicosomatico. Sei stressato, Primus, nient’altro.” Naturalmente se fosse stato un fumatore gli avrebbe proibito di farlo incurante del fatto che, magari, anche lei fumava. Se invece avesse scorto un po’ di rossore sulla sua gola gli avrebbe raccomandato di prendere quelle nuove pastiglie omeopatiche che promettono miracoli senza effetti collaterali. Non gli avrebbero fatto alcun effetto, ma forse lei avrebbe cercato di convincerlo che si trattava di roba naturale con pochi o nessun effetto collaterale. O benefico. Cambiò idea nel

giro di pochi minuti e invece che dalla Florence impiegò il tempo libero a guidare senza meta fuori città come era solito fare quando era sovrappensiero. A sera fece un salto al Tinie’s, un ristorante alla moda nell’East End dove mangiò un boccone al suo solito tavolo, in perfetta solitudine. Era un posto che lo rilassava e non mancava di cenarci almeno una volta al mese, tipicamente il giorno in cui ritirava la sua magra busta paga, meglio se si trovava in dolce compagnia. Ma, essendo solo, quella sera non aveva alcun interesse a prolungare oltre la cena così consumò il suo pasto e poi tornò nella sua quieta villetta a due piani di Nova’s Dream, grosso modo vicino al centro politico e sociale di Celestia. La prima cosa che fece una volta lasciatosi il resto del mondo-mondo alle spalle fu di recarsi in bagno, denudarsi completamente e gettarsi ansante sotto la doccia con la sensazione di poter respirare solo a tratti. L’idea di un infarto imminente lo sfiorò ma evaporò via dai suoi pensieri non appena sentì l’acqua calda ruscellare sul suo corpo, perdendosi in rivoli sul pavimento mentre la sua mente vorticava, ripensando al suo ato i cui ricordi non sempre gli risultavano piacevoli. Uno degli eventi più terribili lo aveva segnato dopo i vent’anni con la morte di una donna che aveva amato e perso in modo tragico. Dopo, la sua esistenza aveva cominciato ad agitarsi di strane paure con la sua famiglia di origine che ci si era messa d’impegno per farlo deprimere sempre di più. In seguito era riuscito ad andar via di casa e la sua nuova condizione di uomo libero lo aveva aiutato non poco a trovare la calma necessaria. Ma non aveva fatto i conti con il suo id, il suo inconscio, che a volte tornava da lui aiutato dalla stessa qualità che gli aveva consentito, e in un certo senso gli consentiva ancora, di vivere del frutto dei suoi sogni. Non ignorava che doveva proprio alla sua elevata Capacità Immaginifica la possibilità non solo di evadere dai problemi quotidiani ma anche di vivacchiare del proprio lavoro. Ma il rovescio della medaglia consisteva nella visione di cose meno piacevoli che forse erano sepolte nel suo inconscio. Cose che spesso acquisivano una veste simbolica, come quella volta in cui si era convinto che la perdita dei capelli fosse inevitabile. Era successo quando aveva superato da pochissimo la morte di lei. A quei tempi aveva ventiquattro anni e benché sapesse bene, nel suo intimo, che i Centri Specializzati della catena ‘Trapianta & Innesta’ fossero tutte fregature li consultava nella speranza di non risultare come suo padre, che esibiva una pelata degna di un campo di patate pronte per la frittura. Per cinque anni aveva provato creme, lozioni, fialette, massaggi sul cuoio capelluto, shampoo e via

discorrendo. Due volte la settimana si recava in autobus nel suo centro tricologico di fiducia dove una gentile e provocante signorina (intercambiabile con altre due) gli spalmava una fialetta sconosciuta ma scientificamente testata sul cuoio capelluto e lo frizionava delicatamente per una ventina di minuti. Seguivano un risolino, una sbirciatina al decolté della ragazza e il consueto assegno mensile per il prodotto miracoloso, dopodiché tornava alla fermata dell’autobus che lo avrebbe riportato a casa. Il pensare e ripensare ai capelli che si staccavano da lui come figli degeneri lo aveva reso avido di informazioni ed era diventato un’autorità. Sapeva, per esempio, che il numero che ne può arrivare a perdere una persona sana si attesta sui cento ogni giorno. E così li contava fino a mezzanotte in punto, quando cioè la giornata ava, e disseminava per il bagno prodotti vari, unguenti e compresse violette dall’aria invitante come caramelle. Eppure la sua paura cresceva invece di diminuire perché ormai i capelli perduti gli avevano infestato la casa. Ne trovava ovunque, sul cuscino quando si alzava, simili a crudeli peli troppo cresciuti che godevano nel vederlo disperare, che cadevano a terra soffici e leggeri. E l’angoscia lo invadeva inesorabile quando si ava le mani sulla testa e gliene rimaneva qualcuno tra le dita. Ma poi aveva cominciato a non farci caso. Non fu un atto deliberato, non finì di angosciarsi. Si arrese invece senza condizioni a quello che gli sembrava un fato inevitabile. E constatò con stupore che nonostante non usasse più lozioni e pillole i suoi capelli erano rimasti più o meno come prima. Quando terminò la doccia uscì anche da quel pensiero e si distese completamente nudo, indifferente all’acqua che ancora gli avvolgeva il corpo, sul letto in ferro battuto della sua polverosa stanza da letto. Una camera tipicamente da single nonostante il letto matrimoniale, in disordine e non adatta a ricevere visite tranne, forse, da parte di un topo. Giacque così, col respiro tozzo, sollevando e riabbassando rumorosamente il torace. Quella strana sensazione di soffocamento lo incitava a rimanere disteso, forse inerme, per tentare di allontanare da sé l’immane pressione che gli poggiava sul petto. Devo andar via! Ma dove? E in quel momento provò la sinistra sensazione che qualcosa lo cercasse. Forse era quella la causa del freddo che gli artigliava i polmoni con dita di ghiaccio. Un’atavica, ancestrale catena di istinti si mise automaticamente in moto dicendogli che quell’entità era con lui da tempo immemorabile, magari fin da

quando aveva cominciato a temere di perdere i capelli, dopo la morte della sua ex. Poteva essere quella la chiave? Era una reazione psicosomatica relativa agli eventi di parecchi anni prima o qualcosa di più complesso? Si puntellò faticosamente sui gomiti e riuscì ad alzarsi al prezzo di un notevole sforzo. Ritornò in bagno e solo allora si accorse di quanto fosse in disordine la sua casa. Di quanto fosse incasinata la sua vita. Riguardò nello specchio la propria immagine e non notò nulla di strano. Il solito se stesso. Prese il phon e l’accappatoio dalla sua nicchia alla destra del cesto dei panni sporchi e tornò indietro per lanciare un’occhiata triste al letto vecchio, sfatto e ormai umido. La finestra faceva filtrare dall’esterno la luce dei lampioni rendendo l’ambiente spiacevole alla vista. Aveva i capelli ancora bagnati e tremò. Ma non era freddo, era qualcos’altro. Doveva trattarsi di quell’essere che lo chiamava a sé, che gli diceva di non allontanarsi. “Eccoci qui!” Disse ad alta voce, come se fosse in compagnia di qualcuno e non di se stesso, ma non ottenne alcuna risposta. Sedette di nuovo sul letto e stranamente scoprì di poter respirare meglio. Sollevato, fece uno o due sospiri lunghi e decise che, in effetti, aveva probabilmente ragione la Florence. Forse era solo stressato e non riusciva a essere lucido sulle cose importanti. Mentre si asciugava i capelli si ò pigramente l’accappatoio addosso per liberarsi dai residui di umidità, socchiudendo mollemente gli occhi e beandosi del rumore prodotto dall’aria calda che gli carezzava il viso. Adorava il rumore del phon, lo rilassava. Gli ricordava il suono prodotto dall’oceano in tempesta, il vento, la sensazione di assoluta libertà che provava quando sulla spiaggia non vedeva nessuno. Era uno dei suoi modi per trovare sollievo dal tran-tran di ogni giorno. Ma quando lo spense sentì quel suono simile a un respiro vellutato, prodotto da una voce umana e indistinta, che proveniva da un punto nello spazio. E quella voce diceva il suo nome. Si allungò sul letto con un sospiro ma poi si accorse che quel sospiro non era il suo. Era stato prodotto da qualcun altro. Dita languide gli sfiorarono la testa, giocando con i suoi capelli. Primus non si scompose, non si mosse dalla sua posizione. Si limitò solo a spalancare gli occhi. Aveva capito che Lei era di nuovo lì, ma non era sicuro fosse un’immagine sufficientemente reale. “Sei davvero qui?” Come se gli leggesse i pensieri, la donna non disse una parola limitandosi a sorridergli dolcemente. E quel sorriso inebriò i suoi pensieri, fece vacillare le sue

certezze. L’aveva desiderata ed era tornata. Qualcosa nel profondo del suo essere lo sapeva. Ma non la sua coscienza. Primus la contemplò in silenzio, ammirò la curva del suo collo, i suoi seni alti e sodi che occhieggiavano maliziosi dalla scollatura del vestito. La splendida visione avanzò verso di lui continuando a sorridergli. I suoi seni tonici risaltavano lascivi dal vestito aderente, la sua pelle era morbida e lui desiderò baciarla con ione. La desiderò come un drogato vuole il prossimo buco, come un diabetico desidera un dolce alla panna, come un uomo può desiderare una meravigliosa amante. E Lei, dolce e spietata, fu ben felice di assecondarlo.

Erano circa le undici del mattino seguente quando la ragazza parcheggiò la sua Chevy del 2008 a lato del marciapiede, proprio a ridosso di Leyla’s Street e davanti alla profumeria ‘Woman’s Destiny’. Si avviò tranquilla incontro alle vetrine, buttando l’occhio qua e là alla ricerca di tutto ma non volendo niente, contenta di una giornata di sole in cui poter respirare liberamente l’odore del mondo. Camminava aggraziata, lentamente, ammirando le vetrine del negozio e facendo vagare lo sguardo tra bottiglie affascinanti come cristalli di rocca, flaconi vestiti a festa e infiocchettati, lascive modelle così perfette da sembrare uscite da un romanzo di fate & guerrieri chiamato Photoshop. E poi barattoli e vaschette, milioni di capsule di bagnoschiuma profumati, eleganti, eccitanti, seducenti. Aveva uno sguardo indeciso, come se stesse valutando l’opportunità di acquistare qualcosa o meno. Era una ragazza deliziosa, con gli occhi color nocciola e simpatiche trecce castane che svolazzavano ribelli ogni volta che piegava la testa di lato. Indossava un top azzurro e una gonna bianca che le arrivava al ginocchio. Non dimostrava più di ventotto primavere e a Primus piacque subito. Con fare disinvolto si avviò nella sua direzione notando che aveva qualcosa in mano, forse una lettera, e ignorando che poteva anche aspettare qualcuno. Ma Primus era lì, su quel marciapiede in mezzo a una marea di sconosciuti che gli camminavano intorno, e si sentiva molto meglio rispetto alla sera prima. L’oppressione al petto era ata e aveva da poco fatto una sostanziosa colazione a base di cornetti alla crema caldi e caffè all’italiana al suo bar preferito, il Cygnus, che si trovava sulla Book’s Life Avenue. Ma se fosse riuscito a invitarla da qualche parte si sentiva pronto a dare lavoro extra allo stomaco. Con fare indifferente la superò e lei gli gettò un’occhiata distratta. Con la coda dell’occhio, notò che al collo portava un pendente in cristallo che

rappresentava una rosa stilizzata. Si fermò davanti una fornitissima panetteria che esibiva pasticcini alla crema, torte di canditi, al cioccolato e alla panna come tanti pezzi unici elegantemente esposti nella vetrina di una gioielleria. Quel negozio era un miraggio reale, un paese dei balocchi per bambini troppo cresciuti. Ma in quel momento il suo interesse verso le delizie del palato era offuscato dalla sua curiosità nei confronti della sconosciuta. C’era qualcosa, in lei, che per qualche motivo lo incuriosiva. Come se tra loro esistesse un legame molto potente ma altrettanto sottile. Si domandò se potesse essere una manifestazione somatica di un desiderio ma scartò subito quell’idea. Lo specchio-visore era di norma il sistema più classico da cui si materializzavano le sue percezioni extra percettive. Sempre facendo finta di guardare la vetrina le lanciò una scorsa di soppiatto ma dalla sua posizione non riusciva a vederne il viso, così si concentrò sui piedi di lei. Primus amava i piedi delle donne. Non che fosse un feticista o roba del genere, ma gli piaceva osservare le loro caviglie quando erano sottili, i piedi inguainati in quelle scarpe col tacco a spillo che li rendevano così sexy, così desiderabili. Quelli della ragazza erano piccoli e paffuti e indossavano decolté aperte dal tacco sottile. Una borsetta dello stesso colore della gonna le pendeva sul fianco destro. Non era molto snella, ma di certo non era grassa. Morbida. Sì, era morbida. Il tipo di donna che gli ispirava simpatia. “Mi scusi!” Lo apostrofò la ragazza, dopo un po’. Primus incrociò lo sguardo di lei con l’aria più innocente del mondo. Gli occhi grandi e intelligenti della sconosciuta lo fissavano con una sorta di gaia curiosità senza mostrare alcun segno di irritazione: “Le serve qualcosa?” Primus le sorrise imbarazzato ma non poté fare a meno di provare una curiosa sensazione di déjà-vu che lo impressionò, anche se era certo di non averla mai vista prima di allora. In ogni caso era riuscita a coglierlo alla sprovvista e lui non sapeva proprio cosa dirle. Decise di giocarsi il tutto per tutto: “Ha già fatto colazione?”

“Come ha detto?” Gli occhi di lei ridevano sempre e non se ne andò. Questo era importante. “Le chiedevo se ha già fatto colazione.” “Veramente è tardi per far colazione.” Primus fece spallucce: “Beh, sì, ma volevo solo sapere il suo nome, signorina.” La ragazza rise, mostrando denti bianchi e gioviali. “In effetti è quasi mezzogiorno.” Proseguì lui, senza scomporsi, “e ieri sera non mi sono sentito affatto bene!” “Ma davvero?” Lo rintuzzò lei, e il suo sorriso non accennò a svanire. “Ho avvertito uno strano senso di oppressione al petto, mi sembrava di morire.” E stavolta era serio. “Mi dispiace.” “Anche a me.” La giovane donna gli si avvicinò: “Si sente bene, ora?” “Oggi molto meglio, grazie. Non volevo darle l’impressione di essere spiata.” “Non importa.” La ragazza cominciò a giocherellare con il suo pendente a forma di rosa, “è normale quando si è giovani. È quando diventiamo vecchie che simili cose non ci capitano più.” E ridacchiò. Primus notò che quando parlava gli occhi le brillavano di una luce strana, misurata. Avvertì la potente sensazione di avere a che fare con qualcuno che non gli era inferiore quanto a Capacità Immaginifica. Ben presto dimenticò il motivo per cui era andato alla ‘Woman’s Destiny’, assorbito dalle sensazioni di tranquilla determinazione che quella sconosciuta gli infondeva. Desiderò conoscerla meglio. Doveva conoscerla meglio. La ragazza disse: “Se ho soddisfatto la sua curiosità tornerei alla mia vita.” “Aspetti!” Scattò lui, con enfasi.

“Non glielo do il mio numero di cellulare.” “Volevo solo sapere il suo nome. Io mi chiamo Primus. Primus Valance.” “Sul serio vuole conoscere il mio nome?” Lui annuì: “Certo, se per lei non è un disturbo. Vede, è complicato da spiegare e probabilmente non mi crederà ma io possiedo, voglio dire…” Si sentì un idiota. Come le avrebbe spiegato le sensazioni che lei gli infondeva? Probabilmente stava già pensando al suo approccio come al classico tentativo di abbordarla. E se anche gli avesse creduto cosa sarebbe cambiato? In giro c’era gente che non vedeva di buon occhio le persone con elevati livelli di Capacità Immaginifica e quella donna poteva farne parte. Quindi non finì la frase. A questo punto era inutile. “Lei sembra un po’ stanco, signor Valance.” Esclamò la ragazza, “forse dovrebbe riposare invece di chiedere nomi alle sconosciute.” “La prego, per me è importante conoscere il suo nome.” Ribatté lui, “mi creda, volevo solo parlarle un po’, tutto qui.” Gli sembrò che la donna si allontanasse ma senza camminare. Un’altra delle sue percezioni? Quando lei gli rispose la sua voce sembrava arrivargli da abissi oltre i bastioni dell’eternità. “Lei è strano, sa?” La donna si voltò da un’altra parte e Primus avvertì la sensazione di freddo che aveva cominciato a conoscere piuttosto bene. Si chiese se non fosse il caso di preoccuparsi davvero, se non fosse qualcosa di serio. “Vorrei davvero conoscere il suo nome!” Boccheggiò infine. A quelle parole la ragazza girò sui tacchi tornando a piccoli i verso di lui. La guardò con gratitudine e la sensazione gelida sembrò attenuarsi un poco. Solo un poco. Un piccolo cristallo di ghiaccio in meno e una sorsata di ossigeno in più. Un attimo solo. “Ecco.” Fece lei, e gli porse il biglietto che teneva in mano, “io mi chiamo Veronica.”

“Veronica!” Annuì lui, con un certo sforzo della gola che sentiva improvvisamente secca. Lei fece per andarsene ma prima gli disse: “Forse c’incontreremo un’altra volta, uno di questi giorni.” “Mi farebbe piacere.” Lei si strinse nelle morbide spalle: “Chi lo sa? Il mondo-mondo è così vasto!” Ciò detto si perse tra la folla, fagocitata dai anti che le lanciavano curiose occhiate d’indifferenza. Primus avrebbe voluto parlarle ancora, spiegarle la sua sensazione, ma non era più possibile. “Veronica.” Mormorò a bassa voce. Era il nome che avrebbe voluto dare a una figlia semmai ne avesse avuta una. Era un bel nome. Doveva essere italiana, o almeno figlia d’italiani, ed era carina. Per fortuna non aveva chiamato un poliziotto. Se ne restò per qualche minuto davanti la panetteria, chiedendosi per quale motivo avesse abbordato una sconosciuta per strada così, senza alcuna ragione. Non lo aveva mai fatto, prima. La sensazione di freddo si attenuò fino a scomparire. Allora aprì il foglietto che lei gli aveva dato pensando che vi trovasse sopra il suo nome e, forse, proprio il numero del telefonino. Invece vi lesse queste parole:

Gli argentei non sono ciò che sembrano. Lei ti vuole.

Rilesse la frase senza capirne il senso e si guardò un’altra volta in giro. A o spedito fece il giro dell’isolato ma ormai la sconosciuta si era persa tra la folla. Andò nella profumeria ‘Woman’s Destiny’ e chiese a Melody, una delle commesse del negozio (colei che avrebbe voluto invitare a pranzo quel giorno) se avesse notato quella donna mentre chiacchierava con lui ma Veronica, se pure questo era il suo vero nome, non era stata vista da nessuno e Melody aveva un altro impegno. Inghiottì il rospo e uscì dal negozio con un diffuso senso di apatia. Mezzogiorno era ato da un pezzo e considerò l’idea di acquistare della pizza rustica nella panetteria, ma poi ci ripensò. Non aveva molta fame.

L’appetito era stato dissolto dalla curiosità verso lo strano biglietto che ancora aveva in mano. Che razza di scherzo era? Probabilmente quella donna si era voluta prendere gioco di lui e forse ne aveva anche il diritto. Ma poi si rese conto che quell’ipotesi era assurda. Aveva visto la ragazza con quel foglio già in mano e non gli era sembrato che ci scrivesse sopra qualcosa. Questo significava che il curioso messaggio era già stato scritto quando lui l’aveva avvicinata. E tuttavia non aveva alcun senso. Per qualche oscura ragione non gettò via il foglietto e lo ripiegò accuratamente, riponendolo nel portafogli con fare meccanico. Con aria pensierosa vagò tra la folla evitando di concentrare la propria attenzione sulle piccole forme-fantasma che gli apparivano e svanivano davanti, evocate dalle persone che incrociava. Non era educato fissare quelle manifestazioni e chiunque lo fe era giudicato di conseguenza. Mentre avanzava a o incerto verso la sua auto qualcuno lo avvicinò e gli chiese qualcosa. Era un vecchio che faceva jogging bardato come se dovesse andare sulla luna. Ginocchiere, calzini di spugna, scarpe sportive, cappellino dei Pink Panthers per proteggersi dal troppo sole. Aveva anche le protezioni per i gomiti. “Ci fai l’astronauta con quella roba?” Esclamò indispettito da quella presenza. L’uomo lo guardò in modo strano: “Ti ho chiesto soltanto l’ora, ragazzo!” Forse stava pensando che lui era un dannatissimo tossico, ma in quel momento si sentiva troppo confuso per essere anche gioviale. Il suo sorriso esterno, quello composto di aria e zucchero che esibiva in redazione e col resto del mondo in quel momento si era preso una pausa. E non gliene importava assolutamente niente. “Sono quasi le due.” Il vecchio lo ringraziò e proseguì per la sua strada. Primus lo guardò per un po’. Ecco, bravo, togliti dalle palle! Sempre ignorando le forme evanescenti evocate dai anti si avviò per la sua strada, ripensando a quella ragazza e alla sua voce cristallina. Si chiese chi fosse e se avesse qualche speranza di rivederla. Le possibilità erano prossime allo zero, ma in quel momento gli piacque pensare che quell’incontro

potesse ripetersi. E allora, con uno strano sorriso in volto, tornò alla sua auto che lo aspettava.

2

Al mondo esistono segreti che non sempre sono disposti a farsi rivelare. Il più delle volte muoiono insieme a chi li custodisce gelosamente, alla fine di una vita trascorsa all’ombra della Paura, ed evaporano via con uno sguardo di pietà indicibile. Sono pochi coloro che affrontano le proprie più intime avversità a muso duro ed è esiguo il numero degli individui che si battono contro l’autodistruzione. Di un destino del genere Primus non era consapevole che a tratti, ma nei momentanei sprazzi di ragione che sperimentava nel corso della vita quei pochi attimi erano sufficienti per fargli provare un terrore mortale. Quel pomeriggio non tornò subito a casa, ma girovagò senza meta per le strade chiedendosi se il giorno prima avesse fatto la cosa giusta ad affrontare Parson o se invece quella decisione fosse stata l’ennesima stronzata. Non trovando risposta andò a mangiare un boccone in una friggitoria all’angolo tra la Four Sky Blue Shadows e la Beyond The Timeline Square, vicino a un vecchio teatro in disuso e una lavanderia a gettoni. Nel locale e ovunque intorno a lui la gente gridava, chiacchierava, sciamava sui marciapiedi, nelle macchine, tra i tavoli affollati e per le strade della metropoli indifferente al suo silenzio imbronciato, al suo cupo esistere nella campana di vetro che aveva costruito per proteggere se stesso dalle aggressioni del mondo-mondo. Quando rincasò erano quasi le venti e la sua villetta lo aspettava come un animale addormentato con le luci della veranda, dimenticate accese dalla sera prima, che inondavano il piccolo giardino di un chiarore spettrale. Girò la chiave e aprì la porta che cigolò con un suono inquietante, quindi avanzò con la cautela di un ladro che si appresti a svaligiare la banca più ricca del mondo. I mobili e gli altri oggetti della casa lo guardarono con familiarità, come vecchi amici, felici di rivederlo un’altra volta. Si sentiva solo. Andò in cucina e si preparò uno spuntino, prese una lattina di birra dal frigo e si lasciò cadere sul divanetto azzurro a due posti, accendendo nel contempo la tv. Le immagini di un vecchio film di fantascienza scorsero davanti a lui. Era Il pianeta proibito, della Disney, uno dei film che tanto aveva amato da bambino. Rivederlo lo rilassava e, anche se rideva dell’ingenuità degli effetti speciali, non poteva negare che su di lui esercitasse un certo fascino. Ma non quella sera e non in quel momento.

Devo sfuggire ai miei problemi. Ma non sapeva esattamente in cosa consistessero quei problemi, a parte quelli economici, naturalmente. Aveva vissuto in relativa tranquillità per diverso tempo ma da alcuni mesi avvertiva la sinistra sensazione che le cose non fossero come le vedeva, che qualcosa nella sua vita non andasse per il verso giusto. E la sensazione di soffocamento, quella gelida, arcana impressione che il suo cuore cessasse di funzionare, ne doveva essere un segnale evidente. Nessun medico aveva saputo dargli una risposta, nessuno specialista cui si era rivolto lo aveva in fondo mai preso sul serio. Annoiato, spense la tv e andò nel bagno, quello del piano di sopra, dove aprì il rubinetto dell’acqua calda e lasciò cadere con noncuranza sul pavimento i pantaloni e la maglietta che aveva indossato per tutto il giorno. Si guardò nello specchio trovandosi troppo magro, con i peli dell’ispida barba che spuntavano sul viso falsamente adolescenziale, gli occhi arrossati per le notti insonni che ava davanti al computer per lavorare o semplice cazzeggio nella Rete. Si ò le mani tra i capelli evidenziando le sue modeste stempiature, lasciando che alcuni capelli si staccassero, bastardi, per ricadere sulle spalle e giù, fino al pavimento. Da bambino odiava i capelli che cadendo giacevano tra la sua schiena e la maglia interna, quella della ‘salute’ come dicono tutti, perché gli davano fastidio. In un certo senso quell’avversione gli era rimasta, visto che da allora non aveva più indossato maglie interne. Afferrò il rasoio e la schiuma da barba, ma poi ci ripensò. Non era ancora così lunga e lui si preferiva con un po’ di barba invece che con il viso completamente liscio. La visione della ragazza che aveva incontrato quella mattina gli tornò in mente. Soffice e radiosa giovane donna che cinguettava ribattendo gaia a ogni sua allusione, ogni sua frase a doppio senso. Ma rivide anche il biglietto che aveva in mano, su cui erano scritte poche, misteriose parole. Chi era? Una svitata che andava in giro a chiacchierare con gli sconosciuti consegnando loro biglietti senza senso o qualcuno che lo conosceva bene, che lo spiava, che lo controllava seguendolo in ogni sua mossa? A volte aveva davvero l’impressione di essere spiato. Come se nella sua vita di tutti giorni, noiosa, piatta esistenza, esistesse una telecamera in ogni stanza della casa impegnata a riprendere dal vero in ogni sua azione. Una minuscola, perfida telecamera annegata nel cemento delle pareti, nelle piastrelle dei pavimenti o camuffata da saponetta nella vasca da bagno che seguiva la sua esistenza e poi la catalogava per fini sconosciuti. Ed era una sensazione così violenta che provava il desiderio

di urlare a squarciagola per far accorrere un vicino, uno sbirro, uno stronzo qualunque che lo aiutasse a capire che era solo la sua immaginazione di scrittore frustrato, di povero imbecille che non vuole accettare il mondo in cui vive. Con questi e altri cupi pensieri s’immerse nella vasca e il contatto con l’acqua calda ma non bollente lo fece rilassare. Il getto continuava a scorrere attraverso il bocchettone della doccia, regalando al bagno volute di vapore e umidità, sciogliendo la sporcizia che aveva accumulato per tutto il giorno, trasformandola in un effluvio turbinante che saliva leggiadro fino al soffitto. Chiuse gli occhi e si perse tra pensieri che turbinavano lievi come il vapore. Avrebbe voluto dormire così; immerso nell’acqua calda fino al collo, lontano da tutti, con il mondo in silenzio, la folla assente, la sua mente addormentata e perciò incapace di nuocergli. Nessuna fantasia indesiderata che si materializzasse nella sua vita, nessuna donna, nessun amico, niente di niente. Lui e se stesso in un mondo senza confini o pareti, un mondo dove vivere e non sopravvivere. Dove contemplare il confuso affaccendarsi degli altri con distacco. Una sensazione che in parte riusciva ad assaporare solo nei sogni o nelle ore notturne. Oppure quando si crogiolava nella vasca d’acqua calda, con la mente che esalava pensieri dolci e piacevoli, come in quel momento. Se immergeva le orecchie sotto il pelo dell’acqua e ascoltava bene poteva ascoltare rumori indistinti che si propagavano attraverso i tubi di rame dell’impianto idraulico, suoni che sapeva ricomporre e che gli portavano suoni e immagini provenienti da altre vite simili alla sua. Non serviva una spiccata Capacità Immaginifica per rilassarsi quando avvertiva quei rumori. Serviva solo ascoltare. E anche quella sera in cui tutto era in ombra e dormiva, o almeno sembrava, i rumori più disparati gli arrivavano da chissà dove e la cosa gli faceva piacere. Da sempre considerava le ore notturne come un suo rifugio, un momento che dava in un posto noto a lui solo, che lo proteggeva, che lo rendeva per un po’ irraggiungibile da Parson, dal lavoro, dalle lamentele dei lettori e da tutto il fottuto resto del mondo. Spesso capitava che i suoi pensieri ondeggiassero pigramente tra il nulla e l’inutile, avanti e indietro, avanti e indietro, aleatori, ma in un certo senso indispensabili al suo equilibrio mentale. Se ne stava sdraiato nella vasca con il volto quasi del tutto sotto il pelo dell’acqua da cui affiorava solo con gli occhi e le labbra, giusto il necessario per respirare e vedere. Guardare il soffitto dove il suo sguardo aleggiava su tutto senza vedere niente. E allora si sentiva un tossico senza esserlo, un drogato perso in qualcosa che non aveva forma, nome o scopo. Ma quando usciva da quella vasca e il freddo dell’ambiente, per quanto riscaldato, lo invadeva di nuovo le

cose cambiavano e quella tranquilla solitudine lasciava il posto allo scorrere inesorabile del Tempo. E le ore avano senza tornare indietro, facendo refluire la vita dalle sue vene nel vuoto, divorata dalla Solitudine. A volte, la cosa non gli dava eccessivo pensiero. Sapeva che stava giocando a rimpiattino con la morte, l’inutile morte per un’inutile inedia, ma non gli interessava. Altre volte, però, il suo cervello si ridestava da un sogno senza sonno e strane immagini che aveva cominciato a formulare fin da bambino gli affollavano la mente. Immagini di stelle, pianeti, dirupi e caverne sconosciute. Esistenti o inventate. Paesaggi terrificanti o meravigliosi, arcani o agresti, che recavano in sé la grandiosa mano di un dio. Quelle immagini varcavano i confini del suo cervello senza che fe alcuno sforzo per chiamarle. Si presentavano come persone invitate a una festa e Primus era il portiere del locale. Lui apriva solo la porta e quelle si facevano vive. Era la sua Capacità Immaginifica che gliele forniva, era il suo dono. A volte le sognava e quando ciò avveniva erano molto più lucide di quelle prodotte dai normali sogni. Più realistiche, più vere. Altre volte anche la musica che ascoltava le invitava per lui e gli saliva addosso il desiderio di non farle andar via. Come se fossero vecchie amiche (e in un certo senso lo erano davvero) persone in grado di strapparlo dalla sua abbietta esistenza fatta di sudore e grida, fatica e scopate con donne di cui alla fine non gli importava un granché. La sola cosa importante era che lo facevano sentire bene per pochi minuti o un’ora soltanto, ma in quel lasso di tempo si sentiva finalmente in pace. Poi, se era abbastanza ispirato, poteva anche utilizzarle come fonti delle storie che pubblicava sulla rivista e in un certo senso era la loro consacrazione. Continuavano a esistere, sebbene solo su carta, e così pezzi della sua vita, frammenti delle sue sensazioni che acquisivano uno status reale nella vita del mondo. Mentre così pensava gli parve di udire un rumore strano, come di un gatto che grattasse dietro la porta. Ma non aveva un gatto né un altro animale da quando Fox, il collie che aveva avuto da bambino, era ato nel regno dei più. Giacque così, con le orecchie tese, le dita delle mani contratte sotto il pelo dell’acqua che minacciava ogni istante di straripare dalla vasca, la mente fremente come i suoi pensieri. Ormai la parvenza di calma che il bagno caldo gli aveva fatto raggiungere era svanita insieme al vapore e quindi si alzò, inondando il pavimento di acqua e bolle di sapone. Si rivestì in fretta e furia, accese il phon e si asciugò i capelli bagnati, lanciando sguardi da allucinato al suo doppio riflesso

nello specchio, dove erano rivolti i suoi pensieri tormentati, che brulicavano e lo prendevano in giro. Mentre si pettinava si grattava il cuoio capelluto, si arruffava i capelli fino a quando non fu asciutto. Quando finì andò in camera da letto sgattaiolando rapido per il corridoio sui piedi nudi e scomparendo nella stanza da letto, al riparo. Fu come vagare in un mondo di tenebra, una sala di marmo freddo e funereo, dalle finestre inondate dalla luce della luna, a sua volta sospesa nel Tempo. Ed eccolo di nuovo quel rauco raspare, un sospiro quasi, come se non fosse solo. Non sono felice, non sono felice! Si ripeté quelle parole più e più volte, come una regola da imparare a memoria, una pillola da mandare giù con un po’ d’acqua e molta incoscienza. Però era vero: non era affatto felice. La gente poteva scambiare i suoi radi momenti di sorrisi, il suo essere allegro e alla mano per felicità o spensieratezza, ma quella era una maschera fatta di cera e illusioni. E proprio come la cera si dissolveva ogni volta che tornava a casa, quando inveiva contro il Destino, quando stava solo. Non c’era stata notte, da una decina di anni almeno, che la Paura non arrivasse da lui e lo portasse via sulle sue onde di tenebra, e lui vi galleggiava sopra ad occhi aperti, verso la spiaggia del mattino. Si accorse di sudare, anche se nella stanza faceva fresco; un senso di oppressione al petto, lo stesso che aveva cominciato a sperimentare già da diverso tempo, che gli rendeva difficoltoso anche il semplice atto di respirare. Andò alla porta-finestra, l’aprì e lanciò un’occhiata spaurita al cielo notturno e senza stelle, sostituite dalle luci di posizione degli aerei. Faceva freddo e rabbrividì in silenzio, ma almeno si sentiva vivere. Fissò la massa nebbiosa dello smog che s’involava al di sopra della città, simile a una nube beffarda e velenosa. E poiché era notte, la nebbia fatta di smog e follia umana lo spaventò allo stesso modo dell’altra nebbia, quella che aveva nel cervello, nella mente, nel cuore, forse. La nebbia della solitudine. L’ombra della notte si riverberava dal cielo pesante come piombo fuso o forse polverizzato, e affondava fino al fondo del cemento della città addormentata. Portava con sé l’oscurità e le tenebre sul mondo-mondo. La sua fantasia si eccitò a quella visione e gli piacque immaginare che quei colori e quelle forme non fossero altro che il suono della sua anima di cui riproducevano alla perfezione gli umori, la felicità e la tristezza. E le tenebre caddero, l’oceano della sua mente tacque e il vento disparve. Rimase rigido

come una statua, al buio, guardando gli immobili palazzi davanti a sé, giganteschi alveari dove gli insetti erano le persone e le persone erano gli insetti. Il respiro gli sfuggiva dalle labbra in rivoli setosi, esalando verso il cielo gli attimi della sua vita che offriva al Niente. Lanciò una scorsa al suo giardino, sotto di lui, e lo vide simile a un piccolo campo immerso nell’oscurità, con le fronde delle due palme che stormivano nella fredda brezza notturna. La luna occhieggiava in quel cielo nero e senza scopo, privo di significato e umanità. Tornò in casa e si diresse verso il letto, sedendosi. Fu in quell’attimo che la vide ma non ne fu sorpreso né provò sgomento. Al contrario, era felice che fosse tornata. Per quanto la riguardava Lei appariva a suo piacimento a volte rispondendo ai suoi taciti richiami, a volte no. Usciva dalle tenebre per incontrarlo, per condividere i suoi pensieri. Sollevò lo sguardo sulla donna trovandola come sempre serica e morbida, adagiata su una sponda del letto e simile a un dolcissimo fiore che crescesse sull’orlo di un baratro inimmaginabile. Il silenzio avvolgeva tutto, ora, il silenzio era il dio della sua vita. Avvertì il cuore sussultargli nel petto, impotente, il sudore refluire dalla sua fronte, bagnargli il collo, scivolargli sulla pelle. E immediatamente percepì di nuovo quella sensazione di gelida paura che lo avvolgeva come un inimmaginabile sudario facendolo tremare. Si sentì stanco all’improvviso e quasi vacillò sulle gambe. Perché? Stese le mani verso di Lei e la splendida visione fece altrettanto. “Mi sento stanco.” Disse in un sussurro, quasi temesse di fare troppo rumore, per non vederla svanire troppo presto, “ma sono felice che tu sia arrivata.” Silenzio. Solo un sorriso di assenso. Le loro dita s’incontrarono intrecciandosi insieme in un languido abbraccio e Primus sorrise alla notte e a Lei, sorrise alla vita che refluiva fuori dal suo petto senza saperne il motivo. “Perché sei qui?” “Non me ne sono mai andata.” La suadente voce di Lei era fatta di velluto e dolcezza, ma era una dolcezza crudele che non ignorava. I suoi capelli profumavano di campi lontani, odori sensuali e provocanti che lo inebriavano e avvolgevano, ma non scacciavano quella sensazione di freddo che continuava a farlo tremare. Lei doveva essersene accorta ma non parlava. Non cercava di

confortarlo, di riscaldarlo. Da lei proveniva solo il silenzio assordante della sua mente. “Mi spiace davvero, ma penso di dover dormire, ora.” Le disse in un soffio rauco, “torna domani.” Lei fece un aggraziato movimento con la testa lasciando che i suoi capelli le ricadessero in onde di seta sulle spalle deliziosamente morbide: “Non posso. La mia esistenza è stare accanto a te.” Primus fissò le pieghe di quelle labbra, i piccoli avvallamenti della sua pelle delicata, il suo sorriso fatto di tenebre e luce e allora il suo cuore affaticato prese nuova vita da Lei, se ne nutrì come quella donna si nutriva di lui, in un’eterna simbiosi fatta di solitudine e vita che si mescolavano insieme fino a diventare irriconoscibili l’una all’altra. Avevano fatto l’amore tante volte ma sapeva poco sul suo conto, anche se non era così sprovveduto dal pensare che Lei gli si concedesse senza un motivo valido. “Tu sei pericolosa.” Le disse come se fosse in una sorta di trance, quasi stupendosi di poterle dire qualcosa del genere. “Come tutti gli amori che si rispettino.” La donna sorrise scoprendo i denti in un sorriso d’avorio, bordi aguzzi di innumerevoli scogli sommersi fatti di odio e paura. Anche Primus sorrise, facendo un respiro profondo. Ascoltava i battiti del suo cuore, cercava di liberare la propria mente, sgombrarla dalla stanchezza e dal gelo. Guardò la meravigliosa testa di Lei, contemplò i suoi capelli color nocciola che amava accarezzare quando era nuda sul letto, intrisi dei loro odori dopo aver fatto sesso. A quel pensiero fu scosso da un impercettibile brivido ma era diverso da quelli dovuti alla sensazione di freddo. Era un brivido di desiderio. Lei emanava un fascino irresistibile che lo irrideva, ma nello stesso tempo lo vezzeggiava. Giocava con le sue emozioni più profonde, ascoltava i battiti del suo cuore facendosene una musica, accarezzava la sua esistenza con mano leggera. Era ovunque e in nessun luogo, era una nube tenebrosa ma dolce che permeava la sua vita in modo inafferrabile ed etereo. “Perché non parli?” Gli chiese Lei. Primus si sentiva di nuovo il fiato corto, un nodo incandescente in gola, il senso

d’oppressione al petto che ben conosceva e aveva la sensazione che la stessa aria che respirava fosse troppo pesante per lui. Tentò di rispondere, ma dalle sue labbra uscirono suoni che erano solo pallide imitazioni delle vere parole. Nonostante il desiderio quasi fisico di possederla sentiva che doveva riposare. “Ricorda ciò che ti dico, Primus.” Fece allora la donna, sciogliendolo dal suo languido abbraccio, “io ti amo anche quando non te ne accorgi, sono tra il tuo cuscino e la tua guancia nella notte, ti carezzo come il vento carezza le onde del mare. Di questo e molto altro ti parlo e ti parlerò e, se vorrai ascoltare, sarai per sempre parte di me.” Detto questo la figura disparve perdendosi tra le pieghe del tempo, il suo, ma continuò ad avvertirla in se stesso perché in realtà non era mai andata via. Ma poi percepì un’altra sensazione, come sei il suo corpo fosse polverizzato, la mente disgregata, il cervello distrutto, in poltiglia, e il suo cuore che si agitava, si agitava, si agitava senza posa, al buio. E la casa tremò fino alle fondamenta, la luna svanì e sentì la sua mano che stringeva spasmodica le lenzuola. Si raggomitolò in posizione fetale e pianse amare lacrime che rotolarono via, lontane e vicine, sul cuscino, sulle lenzuola che lo avviluppavano come uno strano vestito fatto di caldo sudore, per poi raggiungere il pavimento. Perché senza di Lei rimaneva solo con la propria solitudine e questo non gli piaceva. In ato aveva provato a farne a meno, invano. Non poteva vivere senza averla accanto, anche se intuiva quanto fosse pericolosa. Giacque sul letto ansimante, come se avessero appena fatto l’amore, come se avesse sentito di nuovo il suo alito caldo carezzare le sue labbra, il suo corpo morbido contro il suo. Nonostante la stanchezza si alzò come un pazzo e accese la luce della stanza, vide i mobili ammantati di un’aura malvagia, che lo fissavano. Senza di Lei tutto era diverso, morto, finito, amorfo. Solo la solitudine continuava a fargli compagnia, la solitudine e nient’altro. Perché le ho detto di andar via, perché? Non avrebbe dormito, non lo avrebbe fatto neanche quella notte; sarebbe rimasto con le labbra semiaperte, tremante di buio e solitudine, tra le tenebre della propria vita e il giorno dopo sarebbe andato in redazione con il sorriso sulle labbra e la morte nel sangue. Fu scosso da una serie di brividi, come se stesse per venirgli la febbre e la Paura tornò a impossessarsi di lui perché non se ne era mai andata.

“Oh no!” Disse al Vuoto in ascolto, “No, no, no, no!” Che si fosse beccato la Peste-per-Tutti? Ma no, aveva fatto il vaccino, aveva preso la Vitamina C, Fa-Ben, quella a rilascio autenticato. Vitamina C, Fa-Ben… Vitamina C, Fa-Ben… Vitamina C, Fa-Ben, a rilascio autenticato Vitamina… Già sentiva le sue narici inumidirsi, palpitare. Tirò su con il naso e fu certo di essersi preso la Peste-per-Tutti. Ora non sarebbe più potuto uscire perché la Peste-per-Tutti lo rendeva furioso, isterico. Non avrebbe potuto lavorare in quelle condizioni. Si lanciò verso il comodino aprendone i cassetti con febbrile determinazione. Ed ecco la sua droga, la sua eroina travestita da compresse, pillole, blister e scatole nuove e semivuote di pasticche. Vitamina C, Fa-Ben, antibiotici, antinfiammatori, spray nasali e molto altro. La sua farmacia personale. Ingollò una compressa di antibiotico ad ampio spettro. Attese un quarto d’ora poi ne inghiottì una antinfiammatoria e infine inalò lo Spray-AntiPeste-per-Tutti, Soddisfatti o Rimborsati. Questo non può fallire. Questo l’ho pagato 10 dollari, è fatto proprio contro la Peste-per-Tutti! Inghiottì la saliva e si ricordò che era stato in terrazza, al freddo della notte, senza alcuna protezione. E i veicoli di contagio della Peste-per-Tutti, gli Argentei, amano il freddo. Ci sguazzano. Dagli un po’ di freddo e loro ti daranno in cambio un bel po’ di Peste-per-Tutti. Tirò su con il naso trovandolo pericolosamente umido. Inghiottì ancora e stavolta la saliva finì. Stavolta era solo Paura. Il suo naso continuava a essere umido e lui molto nervoso. Evitò di toccarsi naso, occhi e bocca. Erano le porte di accesso per gli argentei. Era da lì che gli invadevano il corpo, che proliferavano nel suo cervello. Le cellule del suo naso cominciarono a secernere muco, infiammarono le mucose e lui starnutì più volte e ogni volta il naso gli colava di nuovo diventando sempre più paonazzo. Chiuse gli occhi e tentò di rilassarsi. Il sudore ricominciò a corrergli in rivoli lungo la schiena appiccicandogli la camicia alla pelle, facendolo sentire sporco. La morsa dell’abitudine lo incatenava a quel letto, a quello scorcio di

esistenza piatta e sporca, torbida eppure innocente. Aveva tentato di farvi fronte, di sfuggirgli, ma aveva solo trovato nuovi modi di avere Paura e così attese che si compisse il suo destino, che la Peste-per-Tutti prendesse il sopravvento. Ancora una volta tirò su con il naso sentendosi già infetto. Poi si misurò la temperatura perché si sentiva la fronte troppo calda. Morbosamente calda. 36.7 Merda, mi sta salendo! Dieci minuti di pausa. 36.9 Dio mio aiutami! Altri dieci minuti. 37.01 Ho la febbre. Lo sapevo, lo sapevo! Chiuse gli occhi e dalla sua gola, ma poteva anche essere dalla sua anima, fuoriuscì un urlo soffocato, quasi un ruggito al rallentatore, emesso da una belva milioni di chilometri lontana, diversa, atavica, terrificante. I nervi gli saltarono definitivamente in quel preciso momento, la gola si fece secca mentre si mordeva le labbra più e più volte. Spalancò gli occhi con uno sguardo da folle e s’inarcò nel letto come scosso da una corrente troppo forte perché potesse sopportarla. Poi giacque lì, inerme, con il respiro affannoso. L’ineluttabilità del fato alla fine aveva vinto, come al solito. L’aveva mandata via e Lei si era offesa. Ecco perché adesso si sentiva morire, perso nella propria disperazione, in preda alla Peste-per-Tutti. In un guizzo di lucidità afferrò il suo cellulare e compose il numero del Servizio Sanitario Anti Peste-per-Tutti. Seguì un cicalino e una melliflua voce femminile pre-registrata rispose: “Il Servizio Sanitario Anti Peste-per-Tutti vi dà il benvenuto e vi invita a scegliere l’opzione desiderata.” Primus imprecò. La sua gola stava diventando una fornace ardente e il naso colava in continuazione. Bastardi, dannati bastardi! Mai una volta che rispondano subito.

La voce continuò, implacabile: “Per il servizio assicurativo valido per un anno contro la Peste-per-Tutti comporre 1.” Il mondo intorno a lui stava cominciando a diventare indistinto. Anche gli occhi avevano cominciato a bruciargli. “Se desiderate informazioni sul nuovo servizio ‘Proteggi i Tuoi Bambini e Diventa un Eroe Anti Peste-per-Tutti’ comporre 2.” Starnutì e imprecò un’altra volta. “Per il servizio ‘Debella la Peste-per-Tutti dal tuo Cane o Gatto’ comporre 3.” “Qualcuno mi aiuti!” Esclamò, ma il suo tono era debole come un soave sussurro. Intanto la vocetta salmodiava felice: “Per le informazioni sull’estensione della garanzia o per le opzioni ‘Aggiungi un Amico alla Tua Polizza Anti Peste-perTutti’ comporre 4.” Il suo respiro divenne un rantolo soffocato e il mondo cominciò a girare. “Per ottenere informazioni sul siero anti Peste-per-Tutti o inviarci le vostre congratulazioni su quanto siamo bravi comporre 5.” La stanza, le pareti, la porta-finestra, tutto sembrava dissolversi e ricomporsi davanti ai suoi occhi. Si rese conto che stava per svenire e ancora non aveva parlato con nessuno. “Per parlare con uno dei nostri operatori medici comporre 6.” Facendo un ultimo, disperato appello alle forze residue scaricò la sua ansia sul tasto giusto, la vocetta disparve e sentì il familiare suono del telefono che squillava. Sperò che qualcuno fosse in linea, che arrivassero presto. Quando una voce metallica e indifferente esalò un “Pronto?” non troppo convinto le sue labbra riarse si piegarono in un sorriso emaciato e dalla sua gola proruppe una fievole richiesta di aiuto con occhi esagitati fissi sul vuoto sopra di lui e le lacrime che ricominciavano a cadere. La voce meccanica gli chiese nome e indirizzo e quando lui fornì le informazioni richieste sibilò qualcosa che non capì e la comunicazione saltò. Primus restò così, inerte e vuoto con le sue labbra e

tutto il suo essere che tremavano, vuote e imperscrutabili, con la sua anima che continuava imperterrita ad agitarsi rabbrividendo di febbre e Paura. La sua mente non pensava più, ansimava. Seguiva le note di una paura ancestrale composta di rabbia e solitudine e continuava ad agitarsi nell’oscurità privata di speranza e gioia. E mentre la notte si posava sul mondo aleggiando sulle sue ali funeree, Primus continuò a tremare senza posa, senza speranza, avvolto solo nella propria solitudine, al buio.

L’ambulanza arrivò solerte davanti alla casa immersa nell’oscurità. Ne scesero tre uomini che tirarono fuori dal suo ventre di metallo asce e picconi e una porta nuova di zecca per sostituire quella che con ogni evidenza avrebbero danneggiato per aiutarlo. I nuovi arrivati fecero il proprio lavoro con metodo e indifferente determinazione. Erano vestiti con le loro belle uniformi grigioargento del ‘Servizio Sanitario Anti Peste-per-Tutti’ e non parlavano, non si scambiavano informazioni. Si limitavano ad agire meccanicamente come robot, macchine automatiche silenziose e non vive. Il cancello automatico si aprì al loro aggio e qualche attimo dopo le asce si abbatterono sulla porta dell’ingresso che scricchiolò e si contorse sotto il loro impeto selvaggio. Qualche luce si accese nelle case dei vicini, occhi assonnati e curiosi svettarono dalle finestre, bocche parlottarono dell’evento che si svolgeva a pochi metri da loro; un nuovo spettacolo da osservare, riferire alle amiche, da godere. Quando la porta cedette due di loro si precipitarono nel salotto accendendo le luci e cercando l’autore della chiamata notturna che li aveva richiesti con tanta urgenza. Il terzo, quello più alto, si dedicò a installare una nuova porta sui cardini di quella vecchia, oliando le giunture metalliche con amore e pazienza, non mancando di stilare mentalmente il conto del prezioso servizio che così celermente lui e i suoi colleghi stavano svolgendo. Gli altri trovarono il paziente al piano superiore che giaceva riverso sul letto in uno stato comatoso, gli occhi privi di luce, il respiro ansimante. Cauti, indossarono le mascherine anti Peste-per-Tutti e attivarono la bomboletta di ossigeno che portavano sulle spalle, destinata a fornire loro aria pura e senza argentei. Reggevano una strana macchina fatta di fili e luci, un elettrocardiografo modello ‘Te la Salvo Io la Vita’ e un piccolo compressore portatile che, una volta collegato alla macchina risplendente di luci, avrebbe sostituito il sangue di

Primus con altro puro al 99% inoculandogli nel contempo sostanze adatte a neutralizzare gli argentei della Peste-per-Tutti che circolavano nelle sue vene. Quello più robusto afferrò Primus per le spalle e lo stese meglio sul letto aprendogli con fare esperto la bocca da cui scendeva un rivoletto di saliva. “Cazzo Ewan, sbrigati con quell’affare.” L’altro diede un’occhiata al proprio compagno mentre applicava gli elettrodi sul petto del paziente. Lo schermo dell’elettrocardiografo si risvegliò a nuova vita come se fosse stato una cosa viva ma senza vivere veramente, qualcosa che tutto registrava senza mai capire davvero. “Allora?” “Niente di buono.” Fece l’altro osservando il tracciato del cuore di Primus che sembrava prossimo alla fibrillazione. Il suo viso era asettico come la tuta che indossavano. “Com’è la pressione?” “Un attimo.” Ribatté il suo collega, rivelando una voce nasale e stridula. “Non lo abbiamo un attimo, Ewan.” Come se non avesse affatto sentito la voce del compagno, il tecnico continuò ad armeggiare sull’elettrocardiografo e disse: “Pressione 80 su 60. Polso 140, ci vuole una dose robusta. Prepara una fiala completa di anestetico e poi dagli 6 milligrammi di Salbutamolo e 124 di solumedrol, ma fa’ presto perché altrimenti lo perdiamo!” L’altro eseguì prontamente praticando le necessarie incisioni sulle braccia di Primus per trovare le vene superficiali in cui instillare i farmaci che dovevano restituire al paziente la vita e dare la morte agli argentei. In pochi minuti il tracciato dell’elettrocardiogramma tornò stabile. Il suo collega applicò una piccola sonda naso-gastrica che avrebbe risucchiato tutto l’eventuale veleno che si fosse accumulato nello stomaco e poi un ennesimo ago nella carne del braccio sinistro. Il tempo si fermò quando la macchina tutta luci e suoni fu attivata e il suo sinistro gorgoglio riempì l’aria della notte, mentre il sangue infetto ribolliva metodicamente accumulandosi in un contenitore di plastica sterile sostituito da altro rosso rubino, così bello da sembrare dipinto.

Ogni tanto Primus era scosso da conati di vomito, ma i tecnici che lo assistevano erano esperti e impedirono alla tosse di diventare funesta, agli occhi di tornare coscienti prima che il lavoro fosse compiuto. Continuarono in questo modo per un certo tempo, sempre senza parlare, assorbendo nella loro macchina argentei misti a veleno, tossine e Peste-per-Tutti che immagazzinavano nella loro ampolla speciale che sarebbe stata distrutta al loro rientro. E la macchina continuò a ronzare nella notte e l’uomo che li aspettava all’esterno tenne alla larga i curiosi che osavano avvicinarsi per poi ritrarsi non appena venivano informati che si trattava di un autentico caso di Peste-per-Tutti. Indifferenti e remoti, i due uomini che vegliavano su Primus continuarono a lavorare in modo indefesso. Quando il lavoro fu completato uno dei tecnici praticò un’iniezione all’altro braccio di Primus, il destro, che gli fece riaprire gli occhi allontanandolo dall’oblio. “Si sente bene ora, signore?” Primus sbatté le palpebre un paio di volte prima di rispondere. Si sentiva debole e il sondino nel naso non lo aiutava a respirare. Uno dei due operatori glielo tolse e lui lo guardò con gratitudine. Tossicchiò. Nonostante la mascherina che indossava l’istinto fu più potente della ragione e convinse l’uomo a ritrarsi, ma solo per un secondo. “Ho la Peste-per-Tutti…” Biascicò a fatica il paziente e la sua voce era un rantolo. “Non più, ormai.” Fece quello che gli aveva parlato per primo, “Ora il veleno che aveva in corpo è tutto qui!” E indicò maestoso l’ampolla di plastica con il suo vecchio sangue e il veleno. Gli furono levati gli aghi e disinfettati i piccoli tagli che gli erano stati praticati. Con voce improvvisamente più chiara Primus domandò: “Avete finito?” “Sì!” fece l’altro, “Siamo arrivati appena in tempo. L’aria di questa stanza non è più infetta perché la nostra macchina depura il sangue e aiuta anche a igienizzare l’ambiente in un raggio di sei metri quadrati. È rimasto solo in questa stanza da quando ha scoperto di avere la Peste-per-Tutti?” “Sì.” E un pallido sorriso errò sulle sue labbra rese esangui dalla Paura.

“Bene.” Aggiunse il tecnico, “Se avesse atteso qualche minuto in più avrebbe dovuto sorbirsi la Peste-per-Tutti per un’intera settimana e forse sarebbe perfino morto. Ci ha chiamati giusto in tempo, sa?” “Vi ringrazio.” “Sono venti dollari e cinquanta per il servizio più altri dieci per la Tariffa Urgenza e trenta per la porta nuova.” Rispose il più robusto dei due, quello con la voce stridula. Primus ammirò la loro freddezza e per un attimo si scoprì a invidiarli. Doveva essere bello andare in giro a salvare le persone dalla Peste-per-Tutti. Si chiese se avessero a disposizione un farmaco speciale formulato appositamente per loro che li proteggesse dal terribile morbo, qualcosa di cui magari il pubblico non era a conoscenza ma che consentiva a quei coraggiosi Difensori della Salute Pubblica di andare avanti con il loro glorioso lavoro. Ma poi si rese conto che, se fosse esistito, un farmaco del genere sarebbe stato messo in vendita in un modo o nell’altro. Magari in forma leggermente degradata così che il ‘Servizio Sanitario anti Peste-per-Tutti’ non avrebbe mai corso il rischio di essere bollato come obsoleto. Con uno sforzo sovrumano si puntellò sui gomiti ma era ancora troppo stanco per riuscire ad alzarsi da solo. “È meglio che stia giù ancora per un po’,” fece l’altro con sussiego, “è ancora troppo debole per alzarsi.” “Ma guarirò?” Chiese. Quello più robusto dei due ridacchiò in tono bonario: “È già guarito, caro signore! Adesso abbiamo i suoi argentei nella nostra ampolla e il suo sangue è tornato fresco come quello di un neonato. Almeno fino alla prossima volta.” Al sentire le parole fino alla prossima volta Primus si senti gelare il sangue: “Ma non si può combatterla definitivamente, la Peste-per-Tutti? Sono stanco di beccarmela una, due volte l’anno.” “Non si può, caro signore.” Rispose mister Voce Stridula, “E poi non creda di essere il solo. Di casi come il suo ne riceviamo una decina per notte e senza macchine come questa”, e diede una pacca affettuosa alla strumentazione che

aveva con sé, “sarebbe un disastro. Se lo immagina? La gente non va al lavoro con la Peste-per-Tutti, non si diverte, non parte per le vacanze. L’economia intera si ferma; c’è da impazzire, al pensiero.” Primus annuì in silenzio. Si sentiva stanco, spossato, e non aveva alcuna voglia di parlare. Tutto a un tratto desiderò che quei due se ne andassero e lo lasciassero dormire in pace. Senza contare che il giorno seguente avrebbe comunque dovuto recarsi al lavoro ora che era stato completamente guarito. Sempre in silenzio, si sporse sul letto estraendo il suo portafogli dal comodino. Porse loro la sua carta di credito e lasciò che prelevassero la somma necessaria. “Le lasciamo le chiavi della nuova porta in salotto, va bene? Ci chiami pure in caso di recidive. Buonanotte.” E i due sconosciuti con le loro uniformi grigio-argento e le loro macchine fatte di luci e suoni uscirono dalla sua casa con l’aria soddisfatta di chi sa di aver compiuto il proprio dovere. Rimasto solo, Primus fece un lungo respiro, ascoltando il rumore dell’ambulanza che si allontanava sferragliando dal cancello e ringraziando mentalmente Dio di aver fatto installare un sistema automatico che provvedeva ad aprire il cancello ogni volta che i sensori individuavano un’ambulanza davanti la soglia di casa. In caso contrario le spese extra non avrebbero riguardato solo la porta dell’ingresso. Chiuse gli occhi, avvertendo nuove forze rifluire lentamente in lui e lanciò un pensiero al nuovo sangue che gli era stato inoculato e che aveva sostituito quello vecchio, alla libertà che aveva riconquistato grazie ai prodigi della tecnologia. Era debole, proprio come gli avevano detto i tecnici, ma era ancora vivo e soprattutto senza Peste-per-Tutti. Il suo respiro era tornato regolare e l’aria gli sembrava pura e frizzante. Ma con tutto quel trambusto il sonno gli era ato del tutto e di questo se ne dispiacque. Attese qualche tempo, forse una mezz’ora, poi riuscì ad alzarsi stancamente dal letto senza accendere la luce del corridoio, ma accendendo invece quella del bagno. A testa china aprì il rubinetto dell’acqua fredda e la lasciò scorrere lungo i polsi. Le tempie e i tagli superficiali che gli avevano praticato i due tecnici gli bruciavano un po’ ma non erano nulla al confronto dell’imponente mal di testa che provava. A stento riusciva a tenere gli occhi aperti, ma era vivo. Era ancora vivo! Sapeva che non sarebbe riuscito a prendere sonno in quello stato e guardò la propria immagine riflessa nello specchio. Si fece le boccacce da solo

osservandosi la lingua che gli parve gonfia, forse per effetto dei farmaci che gli erano stati somministrati. Avvicinò il viso alla propria immagine riflessa, trovandosi orribile. Si mise a sedere su una sponda della vasca e si misurò nuovamente la temperatura col suo fido termometro elettronico. Lo aveva pagato d’occasione 4 dollari e 50, prezzo speciale, alla farmacia all’angolo. La biondina che glielo aveva dato era carina, ma troppo vecchia per lui. Dopo quaranta secondi il familiare bip dello strumento lo riportò alla realtà. 36.6… Adesso va molto meglio. Sorrise. Finalmente si sentiva sollevato. Ripensò a Lei, la desiderò prepotentemente e la bellissima visitatrice che già da qualche anno allietava i suoi momenti più intimi non si fece aspettare. Era di nuovo seduta alla sponda del letto e lo guardava con uno sguardo lascivo. Le andò incontro e lei si distese sul letto, alzando verso il cielo le lunghe gambe nervose. Non indossava calze e la morbida tonalità della sua pelle risaltava nella penombra della stanza. Ma proprio quando stava per abbracciarla intorno alla donna si formò una nuvola di radiazione radiante luminosa come un cristallo percorso da una luce splendente. Chiazze di colore colarono dalla figura spaventata che si agitava in preda all’ira e allo stupore, mentre una nuova forma sorgeva da quella di Lei cancellandola letteralmente dalle tre dimensioni. Adesso vedeva un vortice di gocce iridescenti, una pioggia luminosa composta da milioni o forse miliardi di diamanti ardenti che vaporizzavano ciò che restava della sua amante. Primus urlò spaventato ma non si mosse. Poi, dopo un certo tempo scaturì dall’aria una figura diversa, in piedi, il cui viso dalla bellezza classica era incorniciato da una cascata di capelli castani lunghi e brillanti. La sua radiosa figura illuminava quell’angolo della stanza come se fosse dotata di una luce propria, vivida e senziente. Aveva un’espressione indefinibile, come se tutto in lei fosse composto di nebbia che assumeva in ogni secondo la forma che desiderava. Sembrava più giovane della donna con cui abitualmente andava a letto e nonostante la sua bellezza fosse per molti aspetti superiore Primus provò paura. Non era abituato a separarsi da Lei, non riusciva a farne a meno, sebbene sapesse che non lo amasse veramente. “Chi sei?” Le chiese, “che ne hai fatto di Lei?” La destra della nuova arrivata si prodigò verso di lui in un evidente gesto di

amicizia. Primus la ignorò: “Che cosa vuoi da me?” “Troppe domande.” Sussurrò la sconosciuta. La sua voce era flautata, morbida, non meno di quella di Lei. “Ti ho fatto una domanda!” “È da quando sei nato che sento la tua voce, Primus, che ti vedo, che mi sveglio quando mi desideri. Mi piace fidarmi dei nostri corpi che si fondono in uno, dimenticare il tempo e lo spazio che a volte, anche se raramente, ci dividono. Mi piace pensarti con la luna sulla soglia della notte. Mi piacerebbe svegliarti di carezze quando la luce bussa alla finestra. Mi piacerebbe stringerti prima di consegnarti alla tua vita. Ma in fondo è quello che già faccio da diverso tempo, anche se non sempre te ne rendi conto.” “Non capisco il senso delle tue parole. Io non ti conosco.” “Ma tu mi hai già incontrata, non ricordi?” “Rivoglio Lei.” “Se è quel che vuoi tornerà presto!” Disse la ragazza, e la sua voce gli trasmise una sottile tristezza, “non preoccuparti.” “Sarà meglio. Non ho pagato per farmi liberare dalla Peste-per-Tutti e riaverla ancora. Qual è il tuo nome?” “Ho molti nomi e ognuno di essi mi rappresenta soltanto in parte. Io li possiedo tutti e nessuno, ma generalmente il più delle volte sono Altha. È questo il mio vero, unico nome. Io sono Altha.” Primus stava cominciando a perdere la pazienza: “Chi sei, veramente?” “Io sono da sempre nel mondo-mondo. Sono ovunque e in nessun luogo. Sono con te e intorno a te. Ma ciò che più conta è quel che non sono.” Primus stava per ribattere e ingiungerle di andar via, ma subito le gambe gli tremarono e il suo corpo cominciò a ondeggiare, come se avesse il mal di mare.

In preda alla Paura più oscura si accorse che anche le pareti della stanza stavano ondeggiando, quasi fossero di gomma. “Cosa mi sta succedendo?” “È Lei.” Rispose la donna, “Ti desidera.” “Voglio riposare. Sono stanco, domani devo lavorare.” La ragazza se ne stette a guardarlo imibile e apparentemente remota. Ma il suo sguardo non era glaciale, non era lontana da lui. I suoi occhi erano pozzi neri in cui avrebbe voluto guardare e perdersi, dove avrebbe potuto trovare, forse, la Verità sulla sua esistenza, su una vita alla rovescia in cui si era svegliato una volta venuto al mondo. Quella donna sembrava in attesa. In attesa che lui fe qualcosa. Ma non fece nulla. Aveva troppa Paura e, soprattutto, era ancora troppo debole. “Ricorda,” Disse la ragazza, che in quell’istante gli parve rattristata in modo inesplicabile, “io sono Altha.” Poi disparve e Primus tornò di nuovo nella sua solitudine. Scosso, raggiunse il suo letto e si sdraiò con un sospiro. Si sentiva a pezzi dopo quello che era successo. Avrebbe voluto Lei a fargli compagnia, a carezzarlo con le sue dita delicate, fatte di seta e morbidezza. Invece era solo e non sapeva se sarebbe tornata. Per di più il mattino seguente lo attendeva una giornata pesante. Non se la sentiva di lavorare in quelle condizioni, anche senza Peste-per-Tutti. Non poteva. Avrebbe fatto un colpo di telefono a Margareth per dirle che sarebbe ato alle undici in redazione e non alle nove come al suo solito. E mentre avvertiva su di sé la forza del sonno ristoratore una sensazione indefinibile lo avvolse con ali impalpabili e spietate. Quella donna, Altha, aveva ragione. Lei lo voleva. Poteva avvertirla in se stesso, sentirla respirare quando lui respirava, carezzarlo quando voleva essere coccolato. Lei arricchiva la sua vita solitaria di femminilità e dolcezza, sensualità e raffinata bellezza. Perché avrebbe dovuto rinunciarvi? La desiderò di nuovo ma non ricomparve. Temette che si fosse offesa. Forse non sarebbe tornata mai più e lo avrebbe lasciato solo. Loro due dovevano restare insieme, completarsi a vicenda. Le notti che ava in compagnia di altre donne non significavano niente, per lui. Era Lei la sua sola amante, la più femminile. Non poteva farne a meno neanche volendolo. E non voleva, anche se quando Lei se ne andava si ritrovava solo. Come quella sera,

guarito ma triste, intento a fissare il soffitto inespressivo in cui specchiare la propria solitudine. Solo contro il mondo, contro i suoi ricordi, contro gli altri. Solo contro se stesso.

3

Verso le nove del mattino seguente si svegliò di soprassalto da un sonno agitato da incubi perversi. Aveva la bocca amara e un lieve giramento di testa. Sospirò rumorosamente e si tirò su, posando con cautela i piedi nudi sul pavimento. Ancora assonnato si alzò dal letto e cercò a tentoni la strada per il bagno, ma appena cominciò a camminare le piastrelle che rivestivano il pavimento si contrassero ritmicamente facendolo cadere come un corpo morto. Sorpreso, restò sdraiato su un fianco, così com’era caduto, sbattendo le palpebre ancora intrise di sonno e stupore. Sotto di sé poteva avvertire le piastrelle continuare a muoversi come animate da una perversa sorta di coscienza propria. Le giudicò sgradevolmente fredde. “No!” Esclamò interdetto, “non adesso, maledizione! Ora devo andare in bagno, ok?” Forse qualcosa che aveva sognato, un incubo rimasto nascosto appena sotto la superficie della sua consapevolezza ma ben radicato nel suo inconscio aveva messo in moto la sua mente in modo del tutto automatico. Quando, a fatica, riuscì ad alzarsi, scorse una serie di immagini curiose, più strane che terrificanti, che gli sfilarono davanti come pezzi di colore solido che si mescolassero uno nell’altro per comporre un nuovo e più vivido quadro d’insieme. Per un certo tempo (di norma quando gli succedevano cose del genere, il concetto di Tempo cessava di avere significato) ebbe l’acuta sensazione di vedere e, in qualche modo, sentire, milioni di sprazzi di colore succedersi uno dopo l’altro simili agli infiniti pezzi di un puzzle più grande. Frenetici come gli oggetti risucchiati in un tornado, i colori presero ad aggrovigliarsi insieme diventando un non-colore tendente al grigio. Nel momento in cui comprese che quelli non erano altro che i pezzi di plastilina che da bambino mescolava insieme non vi badò più e lentamente la sua coscienza riprese il controllo del suo corpo intorpidito dal sonno riacquistando le sensazioni normali. Erano sensazioni Extra percettive che un po’ tutti sperimentavano ogni giorno, anche se probabilmente non erano rimasti in molti a esperirne di così convincenti.

Primus ricordava ancora quando, alle elementari, il medico della scuola ‘Vi Insegniamo Noi Come Si Fa’, uno degli istituti più prestigiosi di Celestia, lo aveva sottoposto insieme agli altri bambini al ‘Reattivo di Rorschach’, il test standard usato per determinare l’ampiezza della Capacità Immaginifica, trovandola insolitamente elevata. I suoi valori mentali arrivavano a 182, un punteggio limite che non aveva mancato di far preoccupare l’uomo inducendolo a parlarne ai suoi genitori. Perché la maggioranza della gente non superava il valore di 100, un dato che distingueva le persone norm dalle altre. Ma 100 era un valore onesto, tutto sommato. Induceva sensazioni piacevoli e mai pericolose. La solida realtà oggettiva di ogni giorno, quella che si poteva vedere, toccare, sperimentare con i sensi fisici del mondo-mondo, coabitava in tal modo con una sorta di universo parallelo del quale i norm erano in grado, il più delle volte, di afferrarne solo fuggevoli sprazzi. La loro vita scorreva via tranquilla come le placide acque di un fiume che scenda verso valle, senza alcun problema o imprevisto. La sua, invece, non era altrettanto fortunata. Era intimamente connessa a pensieri, ricordi, sensazioni diverse e in certi casi estreme; capitava che potesse parlare con ricordi personificati o persone e parenti morti che non aveva mai conosciuto prima. Di più, poteva letteralmente inventare entità che acquisivano, sia pure per periodi brevissimi, uno stato apparentemente solido e concreto. Quando era stato un bambino lo aveva considerato un dono, ma poi si era reso conto cosa vuol dire non far parte dei norm. Significava essere allontanati e presi in giro, significava non provare interesse verso gran parte delle cose dei norm, e vivere dei propri sogni che non di rado potevano diventare incubi. Per questo motivo il medico aveva caldamente raccomandato ai genitori di sottoporlo a un intervento cerebrale in modo da asportare la parte dell’ipotalamo responsabile di valori così elevati ma Primus non subì mai quel procedimento, perché sua madre aveva avuto paura. Ed era cresciuto così, alieno al mondo-mondo e ai norm e vivendo di ciò che le sue sensazioni erano in grado di essere, senza seguire la massa. A volte gli si aprivano prospettive e visioni di rara bellezza, ma in altre gli procurava sensazioni inquietanti, cose talmente impalpabili ma reali da minare alla base il suo equilibrio mentale. Spesso esperiva visioni e schemi di pensiero che lo rendevano nervoso perché non sapeva decifrarne il senso. Il rischio maggiore era che prendesse quelle esperienze per buone e la vita di ogni giorno per fallace. Era certo che anche Lei fosse originata dalla sua capacità Immaginifica, ma ormai era la sola a dargli sollievo in una vita che altrimenti non capiva.

I norm erano in grado di vivere tranquillamente nello stadio Vivo-Morto per il resto della loro vita, mentre lui non era in grado di usare quelle sensazioni perché il suo universo personale era assai differente. Nel ato aveva cercato di contattare gente dotata di livelli Immaginifici simili ai suoi, ma coloro che aveva trovato preferivano in genere non discuterne o semplicemente si verificavano pericolose interferenze percettive. Nei lavori di ufficio non rendeva e le sue visioni a occhi aperti gli avevano attirato più di un licenziamento. Ecco perché solo al Writer’s Magazine poteva lavorare in pace. Sulle sue pagine poteva sbizzarrirsi a descrivere i suoi sogni-visioni nella massima libertà e almeno li esorcizzava usando la propria Capacità Immaginifica come uno strumento di lavoro. Altre volte si sentiva come se i suoi pensieri fossero svaniti, persi nel tempo o al di fuori di esso, liquefatti, scomparsi e soffriva la sua eterna solitudine desiderando una vita diversa e gente che scherzasse e interagisse con lui a livelli ben diversi da quelli raggiunti dai norm. Ma soltanto con Jack e Richard, i suoi unici amici, capitava che si lasciasse andare e rivelasse cose e sensazioni che lo spaventavano. Erano loro le uniche persone che frequentava ed escludeva le occasionali frequentazioni con ragazze che abbordava nei locali quando desiderava compagnie femminili. Ma trent’anni di vita solitaria avevano temprato il suo organismo in un modo che lo rendeva estraneo al mondo e a tutto ciò che sapeva di rapporti umani davvero profondi con l’altro sesso. E così il suo tempo trascorreva senza un amore stabile, perché quale donna sana di mente avrebbe potuto convivere con la possibilità di svegliarsi nel cuore della notte al cospetto di un mostro o di forme scaturite dalla sua fantasia onirica che vagavano libere per casa? Con questi pensieri si liberò dagli ultimi residui di sonno con una doccia rapida poi, senza fare colazione, uscì di casa nel solito guazzabuglio del caos metropolitano, immergendosi nella folla anonima e inquieta per far tacere l’inquietudine della sua mente. Era fatto così nonostante a livello superficiale non fosse certamente un burbero. Conosceva gente che non poteva fare a meno della propria mandria di amici, tutti sorridenti, casinisti, tutti uguali. Ma anche se rideva, gridava, scherzava, avvertiva una parte di quella curiosa sensazione che si smaterializzava come un fantasma, ma che non scompariva mai del tutto. Rimaneva invece sospesa da qualche parte, tra sé e il resto del mondo, in attesa. Forse era questa la sensazione di freddo e di stanchezza che lo colpiva ultimamente, forse era l’eccessivo accumulo di tensione che sperimentava dopo tre decenni di Capacità

Immaginifica superiore alla norma. Arrivò in redazione per le dieci e venti salutando Margareth, la segretaria factotum, con un esile cenno del capo. Era martedì, uno dei giorni in cui di solito Richard non lavorava, ma in compenso c’era Jack e quindi si poteva prevedere di mangiare un boccone insieme più tardi se fossero riusciti a finire il lavoro in tempo utile. Quando oltreò la porta d’ingresso rivolse un cenno del capo a Martin Steel, Brenda Miller, Kate Mc Cormick e Sandra Parrish, gente con cui aveva abbastanza confidenza da non esserci in rotta di collisione. Sedette davanti la sua postazione, una scrivania caotica con cartine di caramelle alla frutta, fotocopie dei suoi articoli, un portacenere verde che aveva sempre trovato deprimente e una serie di figurine di plastica trovate nelle merendine della ‘Trangugia & Ingrassa’ ordinatamente disposte in fila come tanti soldati in assetto di guerra. Accese il suo pc con fare meccanico mentre riava mentalmente il lavoro da fare quando una voce familiare gli fece alzare gli occhi dallo schermo. L’uomo ben piazzato, alto non meno di un metro e ottanta che lo aveva chiamato trotterellò nella sua direzione con il suo solito sorrisetto furbo. Aveva trentacinque anni e un carattere ironico quanto bastava perché gli ispirasse simpatia. Jack Barton era il solo che svolgesse un doppio lavoro in quel casino che chiamava redazione. Uno era ovviamente il Writer’s Magazine, che solleticava prettamente la sua voglia di un lavoro interessante quale può essere il giornalismo divulgativo. Il compito di farlo tirare avanti lo affidava però alla ‘Dormite Bene Fratelli’, la più importante ditta di materassi della Costa Occidentale, per conto della quale faceva il rappresentante a giorni alterni di prodotti in puro lattice. A differenza di molti altri colleghi per i quali la vendita di cose del genere proprio non si accordava con la presunta superiore dignità tipica di un lavoro da reporter, Jack non faceva mistero dell’attività che gli consentiva di fregarsene altamente dei magri compensi di Parson. Ignorando gli altri colleghi gli tese la grossa mano rubiconda che Primus strinse con un certo vigore. “Primus, come butta?” Sbottò l’amico, “ti hanno mai detto che a quest’ora sembri particolarmente incazzato?” Sedendosi meglio sulla sua vecchia sedia girevole, Primus gli lanciò un mezzo sorriso: “Non c’è bene, grazie.”

Jack gli rivolse un ghigno di pura degnazione: “Sembra che tu abbia scaricato un camion di mattoni.” “Questa è vecchia, Jack.” Fece una risata nervosa, ma sul suo umore Jack aveva ragione, “devo parlarti.” “Hai programmi per l’ora di pranzo?” “In effetti no. Se ce la facciamo potremmo magiare un boccone al Tinie’s più tardi, una volta usciti da questo immondezzaio, tanto per fare due chiacchiere.” “Di che si tratta?” Primus si strinse nelle spalle, abbassando a tal punto il tono della voce che l’altro dovette abbassarsi un po’ per capirne le parole, “ultimamente mi stanno capitando cose più strane del solito.” Gli occhi dell’amico brillarono di una luce nuova: “Donne?” Primus sospirò: “Non riesco proprio a capirla questa fama in fatto di cuori femminili che mi sarei conquistato.” Ma Jack fu irremovibile: “Te lo dico io il perché. Tu hai quella capacità di attirarle, le donne. Con i tuoi modi, la tua voce. Penso si debba alle tue percezioni. Una donna se ne accorge, che credi? Lo sai che sono più sensibili di noi su questo genere di cose.” Primus scosse tristemente il capo: “In questo momento penso a cose che non hanno nulla a che fare con le donne.” “Deve essere roba seria per vederti così accigliato.” “Non è il caso di parlarne qui.” “Hai ragione amico, scusami. Che ne dici del cibo cinese?” “Sai qual è il mio piatto preferito, no?” “Ma non possiamo mangiare pizza fino a farcela uscire dalle orecchie! Saranno le tue origini italiane a fartela adorare in questo modo?”

“Forse hai ragione. Facciamo roba se? Conosco un ristorante poco distante che offre piatti a base di escargot per pochi spiccioli.” “Lo conosco, è il ‘Mangiate Poco Ma Pagate Tanto’, un locale per finocchi travestiti da stilisti, se non erro.” Jack scoppiò a ridere. “Ti sei bevuto il cervello!” Fece Primus, serio, “Ci ho portato Melody la scorsa settimana e non ho visto niente del genere.” “Chi è questa Melody, quella della profumeria ‘Woman’s Destiny’, per caso?” Primus annuì. “Bella ragazza.” Gli occhi di Jack si ridussero a due sottili fessure mentre per darsi un tono cercava di giocherellare con le figure dei soldati giocattolo sulla scrivania. “È solo un’amica. Allora?” “Ne vorrei io amiche come le tue. Ma come fai?” Primus sospirò: “Mi capita.” “E com’è che a te capita sempre?” “Non guardo solo il culo come fai tu.” “Ma davvero?” Jack prese la figurina del generale Patton e la scrutò attentamente, poi aggiunse: “I si fanno tutto con la besciamella! Usano quella fottuta besciamella per un macello di cose, anche per preparare il caffè. Così invece di mangiare succhiano da una cannuccia.” “Jack!” “Beh?” “Devo lavorare. Facciamo così: il posto lo scegli tu e io mi accodo. Adesso lasciami perdere così scrivo questo dannato pezzo, controllo la posta e poi inizio i rimpasti, d’accordo?” L’amico esultò: “Va bene, facciamo al Dolls World. A più tardi, bello.”

Primus si gettò a capofitto nel lavoro cominciando a buttare giù il nuovo articolo che sarebbe dovuto uscire sul prossimo numero del Writer’s Magazine. Una rapida disamina di alcune tra le più curiose creature marine, commissionatogli direttamente da Parson dopo il successo del pezzo precedente. Il Capo lo voleva pronto prima di sera. S’immerse nel lavoro fino a quando non fu Margareth a pararglisi davanti. Sospirando di stizza col pensiero ma sorridendo con le labbra, lui sollevò lo sguardo, incrociando gli occhi verdi della donna incapsulati da occhiali dalla foggia antiquata. A giudicare dall’espressione di sconforto di lei capì che non aveva altra scelta e le disse, paziente: “Oh, Margareth!” “C’è una persona che desidera parlare con te. Aveva già telefonato questa mattina alle nove, ma tu non eri ancora arrivato e quindi…” “Chi è?” Tagliò corto lui. “Ha detto di chiamarsi Liira Rosenthal.” “Mai vista né sentita. Dov’è?” “È arrivata proprio in questo momento. Ha detto che deve consegnarti un pacchetto o qualcosa del genere. Le dico di are più tardi?” Primus sbuffò: “Un pacchetto? Che genere di pacchetto?” Margareth lo guardò di traverso: “Non ne ho idea. Te la mando, d’accordo? O se preferisci puoi venire tu.” “Va bene.” Sospirò lui, “vengo io.” Si alzò dalla vecchia sedia girevole e con la coda dell’occhio vide Jack rivolgergli un cenno con il pollice della destra alzato in chiaro segno di vittoria. Primus sollevò per un attimo gli occhi al cielo e seguì Margareth in sala d’attesa finché non vide una donna seduta tranquilla in un angolo della tozza saletta che aspettava pazientemente. Sembrava perfettamente a suo agio e sorrise quando Margareth li presentò. Primus strinse la mano della sconosciuta, che probabilmente non era oltre i quaranta, dal viso simpatico. I suoi capelli erano neri e lucidi come se fossero unti d’olio. I suoi occhi erano di un azzurro slavato che ben si raccordavano al viso piccolo ma non sproporzionato. Nel complesso

mostrava i tratti di una donna dalle spiccate doti di intelligenza ed equilibrio. “Ci conosciamo?” Fece subito lui saltando i convenevoli, “mi scusi ma non posso dedicarle molto tempo.” Con voce dolce la signorina Rosenthal (Primus aveva notato che non portava l’anello che indicava la Fede, Speranza & Carità al dito) disse: “Lei no, ma io la conosco per la sua firma sul Writer’s Magazine.” “Vuole un caffè, signorina Rosenthal?” La donna sorrise, garrula: “No, grazie. Ho già bevuto il mio caffè. Sono qui per darle questa.” Gli porse una busta bianca che recava scritto il suo nome, cognome e indirizzo. Primus afferrò la lettera, una normalissima busta di carta della qualità più comune senza timbri o altro che servisse a identificare chi l’aveva spedita, e guardò la donna con uno sguardo interrogativo. “Gliela manda una mia amica, signor Valance, una persona che mi ha detto di conoscerla bene.” “Un’amica?” “Si chiama Altha.” “Altha?” Una goccia di sudore scorse sulla sua fronte, incontrò altre sue sorelle e tutte insieme si trasformarono in un brivido che gli corse appiccicaticcio giù per la schiena. Ostentando una sicurezza che non provava disse: “Deve essere la stessa donna che ho visto ieri.” “Credo che lei abbia ragione.” Annuì la sua interlocutrice con un sorrisetto, “so che è venuta a trovarla ma non le ha parlato come avrebbe desiderato. Ecco il motivo di questa lettera.” Primus sospirò: “Altha e poi? Immagino avrà anche un cognome, la sua amica.”

“Si chiama solo Altha.” La donna lanciò uno sguardo frettoloso a un elegante orologio d’oro che portava al polso, “e non ho molto tempo, mi spiace. Il mio compito è finito e il resto non è affar mio.” “Chi è lei?” “Gliel’ho già detto, signor Valance.” La donna gli voltò le spalle diretta verso la porta, “sono un’amica di Altha ma non ho le risposte che cerca; solo lei potrebbe aiutarla. Arrivederci.” Restò da solo, sotto lo sguardo implacabile di Margareth che lo fissava con uno strano sorrisetto dipinto sulle labbra esili. Forse pensava che si trattasse di un’altra delle sue amiche. Sconsolato, tornò alla sua postazione e solo allora aprì con fare circospetto la busta. Ne trasse un foglietto di uso comune quasi completamente bianco a eccezione di una sola frase scritta da una minuta calligrafia femminile:

Tu stai morendo e Lei ti vuole sempre.

Altha

Non seppe cosa pensare del biglietto e non aveva mai visto prima la donna che gli era capitata tra capo e collo in redazione. Che cosa stava succedendo? Con un sospiro di stizza si cacciò il foglio in tasca poi, come se niente fosse, rivolse la propria attenzione alla tastiera del computer con la mente scossa nel profondo. Stava cominciando a preoccuparsi per qualcosa di oscuro che sfiorava inquietante le porte della sua coscienza senza avere il potere di controllarlo in qualche modo. E di nuovo la sensazione di oppressione al petto, gelida e spietata, lo fece ansimare come se si trovasse a quattromila metri di quota e l’ossigeno si fosse improvvisamente rarefatto. Non poteva continuare in questo modo, gli serviva aiuto, forse da un medico, anche se con ogni probabilità nessuno sarebbe stato in grado di aiutarlo. Anche se era un uomo giovane aveva pur sempre trentotto anni, un’età troppo

avanzata per subire l’intervento di resezione senza temere di correre rischi elevati. La sensazione al petto divenne gradatamente più fredda avvolgendogli il corpo con un vestito composto da ghiaccio polverizzato. Spaventato, sollevò lo sguardo sull’ambiente intorno a sé ma redazione, computer, persone e gli oggetti familiari della sua vita lavorativa erano adesso scomparsi. Il luogo dove ora si trovava era deserto, una spiaggia dalle enormi proporzioni. Non vedeva nessun essere vivente e provò la netta sensazione che in quell’ambiente il Tempo non avesse alcun significato, una variabile senza importanza. La sabbia sembrava composta di marmo nero polverizzato e l’oceano era un’unica, immensa lastra di cobalto che risplendeva in modo impressionante. C’era qualcosa nell’acqua, come tanti faretti disposti sul fondo, che riverberavano dolcemente attraverso le acque che dovevano essere cristalline. Nel cielo torreggiavano imponenti nuvole azzurrine che sfavillavano soavi, carezzate da una brezza delicata. Che fosse un sogno o soltanto la rappresentazione extra percettiva di un suo desiderio nascosto, quel luogo gli sembrò diverso dalle esperienze che aveva provato fino ad allora. La sensazione che ne ricavò fu che quel posto era vivo. Quasi che ogni singolo granello di sabbia fosse dotato di uno sprazzo di coscienza. Qualcosa lo sfiorò su una spalla e si voltò di scatto. Una figura alta e snella, con un blazer blu assolutamente inadatto al luogo in cui si trovava, lo stava osservando con un’espressione indecifrabile sul viso affilato. I capelli della ragazza erano corti e le ricadevano in ciocche leggere sulle spalle. Ai piedi portava tacchi alti che, stranamente, non affondavano affatto nella sabbia di quella spiaggia solitaria. “Lei è Primus Valance del Writer’s Magazine, vero?” Cominciò la ragazza. Lui assentì ma non rispose. “Voglio che questa lettera finisca nelle mani giuste.” La donna sollevò una mano nel cui palmo si formò dal nulla una lettera del tutto simile a quella consegnatagli dalla donna in redazione. “Chi sei?” “Un argenteo. Faccio parte di un luogo come questo.”

Ma Primus scosse la testa: “Impossibile. Gli argentei danno la Peste-per-Tutti e sono come…” esitò, “farfalle!” “Gli argentei non sono tutti uguali; lei conosce molto poco del mondo che la circonda.” Primus allargò bene le braccia: “Cos’è questo? Appartiene al mio ato o ai miei sogni?” “Niente di tutto ciò.” Esclamò con noncuranza la donna, “quello che vede fa parte del Nescium.” “Non la seguo e non riconosco questo posto come una mia evocazione.” “Non lo è affatto!” Ora il tono della ragazza salì quasi impercettibilmente, “questo non è un suo pensiero, ma dell’Altro.” “Dell’Altro?” “L’Alfa e l’Omega di questa realtà, signor Valance.” “Chi la manda?” “Altha.” Rispose seria la ragazza. “E chi è?” “Un concetto che è difficile spiegare così, su due piedi. Il miglior paragone che mi venga in mente è quello di un archetipo, se capisce cosa intendo.” “È il risultato della mia Capacità Immaginifica?” La ragazza gli rivolse uno sguardo di degnazione: “Legga questa lettera, vi troverà l’essenza di Altha. Non potevamo consegnargliela prima perché le sue sensazioni sono così potenti da essere viste, o almeno percepite, anche da altri. È bene che sappia che la sua posizione è a rischio, signor Valance. Lei deve guardarsi da un nemico formidabile. Ecco!” Gli porse la busta, “stia ben attento a come si muove. Il mondo-mondo e tutto quel che ha conosciuto finora non sono affatto ciò che sembrano.”

“Non capisco.” Biascicò lui, ma ormai era tardi. Come se un’invisibile barriera si fosse ormai frapposta tra loro, la ragazza divenne gradatamente più lontana: “Dovrà farlo se vuole sopravvivere.” Aggiunse con voce sempre più sottile, sempre più distante, “se le cose andranno bene potrebbero esserci contatti in seguito, forse con altri come me. A presto.” Inghiottita dall’aria fredda e greve dell’ambiente primordiale in cui si trovavano, la sconosciuta scomparve e solo allora Primus realizzò di non averle neanche chiesto come si chiamasse. “Sarebbe stato comunque inutile.” Disse poi, con aria triste, non sapendo cosa fare o dove andare. Guardò la busta che stringeva convulsamente in mano. Era assolutamente identica a quella che gli aveva dato quella Rosenthal, stessa carta pesante, bianca, senza alcuna intestazione. E una volta aperta anche questa gli mostrò solo un foglio su cui era stata scritta, a mano, una frase:

Sono con te da quando sei nato. Io sono la forma dei tuoi pensieri che diventano desideri, stelle e sogni. Amo il mondo che è la tua mente, pronuncio le tue parole che sono le mie e insieme i nostri pensieri non hanno confini. La mia essenza supera i timidi sprazzi dell'aurora che danza oltre le porte dell’Eternità. Io sono Altha.

Non aveva ancora finito di leggere che vide le sue mani farsi trasparenti al punto da vedervi attraverso. Un vento sottile arrivò fino a lui e gli soffiò addosso il bacio di stelle remote e inarrivabili. Poi qualcosa cambiò nella qualità dell’aria (sempre che fosse aria la sostanza che respirava) e avvertì la curiosa sensazione che il Tempo stesse ricominciando a scorrere. Prima ancora che potesse provare qualsiasi tipo di emozione vide che anche l’oceano risplendente e la sabbia scura iniziavano a scomparire o meglio si fondevano insieme allontanandosi percettibilmente dal suo campo visivo. Era come se un’immensa, infinita gomma da cancellare stesse restituendo il bianco a un foglio di carta grande quanto lo stesso universo. E rivide la redazione del Writer’s Magazine, la sua scrivania e tutto il resto. Era di nuovo tornato alla vita di tutti i giorni e con un senso di vago stupore guardò i suoi colleghi che vivevano e lavoravano in quella stanza. Nessuno sembrava essersi accorto della sua momentanea assenza. Questo era

molto strano, di solito era esattamente il contrario. Per qualche istante ancora ascoltò inebetito il familiare ticchettare delle dita sulle tastiere, le voci colloquiali, il profumo del caffè che qualcuno, forse Jack, stava bevendo. Tutte cose che gli parlavano del mondo-mondo, della sua vita normale, solida e concreta. Testimoniavano una routine fatta di semplici gesti e normali discussioni che non era mai scomparsa dall’esistenza oggettiva, ma quando si guardò le mani vide che la lettera consegnatagli dalla sconosciuta era sparita. Se ne chiese il motivo. Cosa stava succedendo? Il mondo-mondo e tutto quel che conosco non sono affatto ciò che sembrano Era uno dei concetti che gli aveva rivelato quella creatura sotto le sembianze di donna, almeno a voler credere alla sua affermazione di essere un argenteo. Ripensò allo strano messaggio sull’essenza di Altha come gli aveva detto quella… cosa. Qualcuno si stava divertendo alle sue spalle? Magari si trattava di persone dotate della sua stessa Capacità Immaginifica o anche più grande. Non era impossibile. Dopotutto non poteva essere sicuro di essere rimasto l’unico essere vivente nel mondo-mondo a possedere una capacità così elevata. Ma se anche fosse stata questa la spiegazione, non era sufficiente a risolvere il problema. Chi poteva essere a prendersi gioco di lui? Forse una donna, magari una che si era legata al dito qualche offesa reale o solo presunta che le aveva fatto. Poteva essere. E se così era prima o poi avrebbe saputo di chi si trattava. Presto o tardi avrebbe scoperto chi gli giocava quei tiri discutibili e allora avrebbe reagito di conseguenza. L’idea lo rasserenò un poco, ma fu una sensazione di breve durata. Il suo io più profondo gli diceva di essere del tutto fuori strada. Gli infondeva una sensazione inesplicabile che gli sussurrava di fidarsi di ciò che aveva vissuto. Quella lettera era sparita, ma il suo significato era rimasto. Aleggiava da qualche parte, forse nella sua mente inconsapevole, nel suo id, e lo chiamava per nome da sconosciute profondità abissali. Un mondo che non aveva mai visto, liquido e solido, reale e di sogno, che esisteva e lo desiderava. Che gli faceva sognare di essere ancora nei pressi del luogo senza Tempo chiamato Nescium.

Mentre sorseggiava pensieroso il suo drink seduto a un tavolo del Dolls World, uno dei locali più noti della città, Primus pescava di tanto in tanto la mano in

tasca per toccare le due lettere ancora in suo possesso come se volesse assicurarsi che fossero reali. Il contatto sulla carta ormai sdrucita non cessava di infondergli un senso di stupore, come se quel semplice gesto fosse per lui allo stesso tempo fonte di sollievo e paura. Anche Jack appariva teso, quasi fuori posto nel locale, e il suo stato d’animo era evidente dai movimenti che faceva per sedersi meglio su una sedia che sembrava troppo piccola per la sua mole. Nugoli di pensieri si frapponevano tra i due uomini a proteggere l’uno da quelli dell’altro, a ritagliare uno spazio personale per entrambi, di sopravvivenza, dove potessero sentirsi ancora al sicuro. Finalmente, dopo un’interminabile mezz’ora trascorsa a centellinare i rispettivi drink come fossero calici di un vino unico e pregiato, Jack si decise a infrangere un muro composto di silenzio che si era fatto troppo alto per non essere abbattuto. “Va bene.” Esordì, “di cosa parliamo esattamente?” Primus sollevò gli occhi su di lui. Il suo sguardo impiegò qualche istante di troppo per mettere a fuoco Jack come se i suoi pensieri fossero mille miglia lontani. “Scusami.” Disse, “mi rendo conto di non essere un granché come compagnia, oggi.” L’altro agitò il suo Gray Gost di cui aveva già fatto fuori l’oliva farcita: “Ti conosco da un pezzo, ormai, e ho imparato a fare i conti con il tuo umore altalenante.” “E funziona?” “Non proprio.” Jack gli sorrise, “cosa c’è che non va?” Primus sorrideva a sua volta, ma il suo tono era serio: “Sono nei guai, Jack.” “Sempre a causa delle tue sensazioni?” “Da un po’ di giorni avverto una sensazione di freddo che mi sconcerta e non so perché.” “Hai provato ad andare dalla Florence?” “Per farmi dire cosa? Che avrei dovuto sottopormi all’intervento da bambino?

No, grazie.” Primus fece una smorfia e vuotò il suo Martini di getto. “Non è troppo tardi.” Lo corresse Jack, “ho sentito parlare di un nuovo Centro dove riescono a intervenire con successo anche su soggetti adulti.” “Lo conosco.” Il tono di Primus era atono, “è il ‘Vedete in Grigio e Sarete Felici’ nella periferia ovest della città. Ho esaminato la lista dei soggetti che si sono sottoposti all’intervento.” “Che vuoi dire?” “Che non esiste un solo uomo o donna da loro trattato che avesse il mio stesso livello. Tutti avevano un indice inferiore a 120.” L’entusiasmo di Jack si smorzò all’istante: “No, non lo avevo controllato.” Mormorò, “ma potresti rivolgerti a loro ugualmente. Forse potrebbero farti un intervento di resezione parziale e così risolveresti almeno alcuni aspetti della tua vita.” “Forse.” “Penso ti converrebbe fare un altro tentativo. Di che cosa hai paura?” “Di rimanerci secco.” Mormorò cupo Primus. Jack fece spallucce: “Ma se fosse possibile fare qualcosa, anche parziale, potresti tornare a vivere sul serio, farti una vita vera. Così facendo, invece, ti distruggerai da solo pezzo dopo pezzo. A meno che tu non riesca a gestire le tue sensazioni. Puoi farlo?” “No!” “Secondo me dovresti pensarci seriamente.” Primus si levò di tasca le due lettere e gliele porse: “Leggi.” “Cosa sono queste?” “Lettere. Riguardano me.” Jack lesse le due frasi, poi disse: “Chi te le ha date?”

“Forse due sconosciute con tanta voglia di scherzare. La prima l’ho incontrata per caso davanti alla profumeria Woman’s Destiny. La seconda, in redazione. Una certa Liira Rosenthal che ha affermato di conoscermi bene, almeno a livello di firma sulla rivista.” “Mai sentita nominare.” “Neanch’io.” “Questa donna, Altha, è la stessa che viene a trovarti e che non ti ha mai rivelato il suo nome?” “No, è decisamente un’altra persona. La donna che io conosco si chiama proprio Lei, non ha altri nomi. Questa Altha, invece, sembra stia cercando di mettermi in guardia. Come hai letto, afferma che sono in pericolo di vita.” “Ti manda biglietti un po’ criptici.” Osservò Jack. “Anche la seconda donna che questa mattina è venuta in redazione era mandata da Altha o qualsiasi sia il suo nome. Mi ha consegnato la busta e non ha voluto rispondere alle mie domande. Poi, dopo aver parlato con te, ho sperimentato una sorta di retrocessione mnestica che mi ha scaraventato in un luogo parallelo al mondo-mondo. Qualcosa di simile a un oceano primordiale dove una ragazza mi ha consegnato una terza busta che però si è dissolta al mio ritorno alla normalità. Ha detto che esistono diverse varietà di argentei. E che anche lei ne faceva parte.” “Vuoi dire che ti ha detto di essere un microrganismo?” “Non un microrganismo. Aveva sembianze umane, quelle di una bella ragazza, per di più. Anche lei era mandata da Altha.” “Mi prendi in giro?” “Lo so che sembra assurdo!” Scattò allora Primus, stridulo, “ma è la verità pura e semplice. E anche quel posto, il luogo dove mi sono ritrovato… ha detto che non era un’emanazione della mia mente ma un qualcosa di indipendente dal mondo-mondo. Lo ha chiamato Nescium e secondo lei scaturirebbe da un’altra entità.”

“Un momento, aspetta!” Disse allora Jack, “vediamo di ricapitolare. Tu mi stai dicendo che questa Altha, chiunque lei sia, ti dice che la donna che ti scopi da un bel po’ di tempo cerca di farti la pelle, che gli argentei non portano solo la Pesteper-Tutti ma sono capaci di assumere forma umana e che il posto in cui ti sei ritrovato oggi non faceva parte del mondo-mondo ma era qualcosa originato da un’altra entità. Cosa mi sono perso?” “Hai espresso il concetto con la tua solita raffinatezza, Jack.” “Avanti, amico, rispondi e basta.” Primus lo guardò fisso: “È quello che ho detto.” Jack scosse la testa: “Io non ti ho visto scomparire neanche per un momento.” “Questo è strano: di solito le mie sensazioni extra percettive sono visibili a chiunque mi stia intorno, anche alle persone norm. Non capisco.” “Non ho alcun motivo di dubitare della tua parola, ma se non fossi tu a dirmi queste cose penserei a una tipica gelosia femminile. Forse Altha, o come si chiama lei, ti considera attraente e vuole distrarti dalla tua amichetta.” “All’inizio l’ho pensato anch’io. Del resto non posso essere il solo a possedere un valore così elevato di Capacità Immaginifica. Ho pensato anche che potesse trattarsi di qualcuno in vena di scherzi, magari da parte di una donna che ho conosciuto.” “È possibile.” “Ma improbabile.” Primus adesso tremava leggermente. Il fatto di avere a che fare con qualcosa che non riuscisse a controllare lo faceva sentire a disagio, gli faceva paura, “subito dopo quella sensazione avevo pensato anch’io a questa possibilità ma dopo ho cambiato idea. No, decisamente non penso sia uno scherzo.” Jack lo guardò negli occhi: “Ma concorderai anche tu che è strano.” Insisté, “gli argentei sono stati scoperti nel secolo scorso e ormai è assodato che siano i soli responsabili delle patologie virali, dei malanni stagionali e della perdita di capelli. Di norma sono invisibili, purtroppo. Solo quando si annidano tra i capelli puoi fregarli con lo spray ‘Ferma gli argentei adesso!’ Un ottimo prodotto, l’ho

usato parecchie volte. Se ti viene un malanno chiami il Servizio Sanitario e se sei ancora in tempo la scampi. Questo è quanto.” Primus ricordò la notte che aveva trascorso a base di Peste-per-Tutti e operatori del Servizio Sanitario e rabbrividì, ma non lo disse a Jack. “So come sono fatti gli argentei,” ora la sua voce era tagliente come un rasoio, “nel caso tu non lo sapessi l’ho letto anch’io qualche dannatissimo libro di Fisiologia.” “Non ti scaldare, sto solo cercando di inquadrare il problema.” In quel momento una giovane coppia sedette al tavolo vicino, due ragazzi che non dovevano avere più di vent’anni. Sembravano felici e, per un istante, Primus li invidiò. “Hai ragione.” Esclamò, “ma il punto è che non mi sento affatto tranquillo. Queste lettere, le parole di quella Rosenthal e della ragazza sconosciuta non le capisco. Ti confesso che mi sento molto confuso. Troppo confuso. E più a il tempo più le sensazioni del mondo-mondo diventano strane. Questa mattina le mattonelle del pavimento nella mia camera da letto sembravano fatte di cera. Ci sono scivolato sopra.” “Quello può darlo anche un ricordo d’infanzia che rimane nella parte inconscia della tua mente. Magari hai fatto parecchi scivoloni da bambino.” “E secondo te cosa dovrei fare, Jack? Tutti i medici che ho interpellato mi hanno sconsigliato l’intervento di resezione e comunque non voglio, non posso fare a meno della vita per come la conosco. Ma quel che mi sta capitando negli ultimi tempi è al di là della mia comprensione. Non so cosa fare, non so proprio cosa fare!” Jack scosse la testa, accomodante: “Mi rendo conto delle tue difficoltà ma da persona estranea ai fatti mi pare anche che il fatto di vivere la cosa in prima persona rischia di farti essere meno lucido. Che le tue sensazioni siano eccessive non ci piove. È proprio di chiunque abbia Capacità Immaginifiche come le tue. Ecco perché è consigliato l’intervento. Le mie capacità non superano il livello 109 e così le sensazioni e le visioni che sperimento non sono mai troppo pericolose. È come se mi drogassi ma fossi al sicuro, capisci cosa intendo? Vedo queste visioni, ascolto il rumore del mondo-mondo, ma non mi capita mai di

parlare con gente distante nel tempo e nello spazio e quindi tutto finisce li. Io sperimento solo visioni indistinte e quasi mai tangibili. Voglio dire, non ho il senso del tatto quando vedo certe cose; sono come allucinazioni esclusivamente visuali. Ma proprio per questo le mie percezioni non mi rendono la vita difficile, non mi fanno del male. Vedo con la mente l’altro lato del nostro universo ma attraverso una specie di velo, ma tu… Dio mio!” Jack fece un lungo sospiro, “Tu interagisci molto di più. Parli e ricevi risposte, evochi oggetti e persone reali che puoi non solo vedere ma anche toccare. Hai tutte le sensazioni fisiche di un evento completo e sei in grado di vedere cose che farebbero impazzire i norm. È colpa della tua famiglia, loro non hanno voluto farti fare l’intervento e ne hai pagato le conseguenze. Non ti hanno fatto crescere in modo normale.” Primus stava per ribattere quando arrivò una delle cameriere; una ragazza snella ma non molto alta. Indossava la divisa del locale, una sottoveste color carne di pizzo, calze di seta trasparenti, decolté bianche dai tacchi alti. Portava i fluenti capelli castani sciolti sulle spalle delicate e le sue labbra erano carnose e sensuali. Ignorò la giovane coppia che adesso si stava baciando apionatamente e con voce tutta zucchero e carezze esordì: “Volete ordinare, ragazzi?” Primus giudicò che avesse un bel sorriso, ma che doveva essere nuova perché non l’aveva mai vista. Probabilmente era stata ‘arruolata’ da poco. Jack, invece, la fissò come un cane guarda l’osso e quasi non sentì la gomitata nelle costole che gli assestò l’amico. Primus disse: “Un doppio cheeseburger al formaggio, patatine fritte e una birra.” La sua voce era un filo appena intellegibile e dall’atteggiamento di Jack La ragazza si era sicuramente accorta di come lui la fissava e questo non gli piaceva. Lo intimidiva. “Per un dollaro e cinquanta in più le patatine e la birra diventano maxi.” “Per me va bene.” “E per il tuo amico?” Jack si morse il labbro inferiore guardando dritto nella scollatura di lei: “Pollo fritto, un toast al prosciutto e uova strapazzate con una spolverata di pepe nero.”

La cameriera segnò diligentemente le ordinazioni e ancheggiò verso le cucine. Poi, come se nulla fosse Jack riprese: “Di argentei esistono solo due varietà e quindi qualunque cosa ti abbia detto la donna del Nescium o di comesichiama è una penosa menzogna.” “Jack!” Fece allora Primus, “Conosco bene il ciclo vitale degli argentei.” Ma Jack proseguì, testardo: “Quando avevo solo tre anni mi ero fissato anch’io su di loro, come tutti i bambini, penso, e ho letto parecchio.” Primus ghignò: “Hai detto bene: come tutti i bambini. Io, invece, mi ci sono fissato fino a qualche anno fa. So tutto di loro.” “Sicuro?” Primus sbuffò: “Gli argenti attraversano tre stadi; prima atterrano tra i capelli di un povero diavolo portati dal vento che a sua volta li preleva da altre persone del tutto ignare di esserne i portatori sani. In questa fase non sono affatto di colore argento ma trasparenti come il cristallo in modo da confondersi perfettamente con l’aria e minimizzare così i rischi di essere scoperti. Somigliano a farfalline delicate che svolazzano tranquille tra i capelli. Nel secondo stadio le farfalline diventano meno carine, perdono le ali e irrobustiscono le zampe attaccandosi tenacemente ai capelli. Nel terzo si vestono a festa, d’argento appunto, cominciano a riprodursi e i capelli raggiungono il pavimento per effetto delle loro secrezioni che li bruciano. Solo se mutano assumono le caratteristiche della seconda variante, quella infettiva, ed entrano nel corpo attraverso le mucose cominciando a far danni anche gravi.” “Appunto.” Jack era soddisfatto, “quanta gente conosci che blatera dell’esistenza di più specie di argentei?” “Vuoi dire gente norm?” “Non ti seguo.” Primus sorrise: “Beh, visto che tutti i bambini che mostrano Capacità Immaginifiche superiori alla norma oggi vengono operati al più presto fanno parte della categoria dei norm, no? Quelli che restano, e ormai siamo in pochi, la

gente li chiama folli o artisti perché sfruttano le loro sensazioni per i loro scopi. Purtroppo per me, io non faccio arte e non invento strani congegni in qualche laboratorio governativo.” “Però sei uno scrittore, no?” “Di poco conto. Non sarò mai pubblicato da una grande casa editrice. Quelle vogliono roba per i norm, non per gente come me.” “Beh, questo è vero. Ormai libri e film sono in gran parte studiati per i norm.” “Quelli come me sono poco più che reietti, te lo dico io.” “I reietti, come dici tu, vivono ai margini della società, non riescono a trovare lavoro e muoiono di stenti. Non mi pare sia il tuo caso. Tu sei stato molto fortunato con il Writer’s Magazine.” “Più o meno.” Ribatté amaramente Primus, “eppure la gente come il sottoscritto è solitamente emarginata dai norm. Credi che non immagini cosa pensano i nostri colleghi di me? Primus il visionario, Primus il disadattato. I norm inventano un sacco di nomignoli per quelli come me.” “Ecco perché faresti meglio a recarti in quel Centro. È la soluzione, migliore. E comunque non potrai dire di averci provato ad avere una vita decente se prima non tenti tutte le possibilità.” “Hai trascurato una possibilità, Jack. Che cioè possa anche non volere un intervento del genere.” “Non è una novità!” Jack si grattò perplesso la testa, “A volte ho l’impressione che ci sguazzi nella tua strana vita.” Primus gli sorrise. Un sorriso gioviale dallo sguardo aperto e splendente. In quegli occhi, Jack ebbe l’impressione di guardare un uomo che camminasse sospeso su un sottilissimo filo tra la sanità e la follia con il sorriso sulle labbra. Un’immagine che considerò terrificante. “Alcune delle sensazioni che provo mi spaventano ma altre”, Primus continuava a sorridere, “hanno una bellezza mirabile che non vedo altrove. È la differenza con i norm è un po’ come quando si ascolta il concerto di un solo strumento.

Loro vedono a una dimensione, ascoltano solo il violoncello, o il piano, o l’arpa. Io ascolto il suono in tutte le sue sfumature, vedo le note, interagisco e faccio parte di loro. È difficile da spiegare, ma alla fine tutto quel che vedi arriva ad avere un senso, sai che lo possiede, e fa parte di te. Ecco perché sono combattuto, Jack. La mia vita sarebbe certo più tranquilla dopo, ma forse sarebbe anche monotona.” “Io non considerò la mia vita monotona.” Primus si accorse della gaffe: “Non volevo dire questo!” Jack, ignorò tranquillamente le sue ultime parole: “Ormai sei abituato a queste cose. Per questo l’intervento è sconsigliato agli adulti. Una volta privato della maggior parte degli stimoli sensoriali extra percettivi un cervello in età adulta impazzisce. E infatti questi nuovi Centri eseguono solo una resezione parziale e non l’asportazione in toto del mesencefalo. Se superassi i loro test e fossi giudicato idoneo a un intervento di questo tipo avresti comunque le tue visioni, ma rese innocue.” “Non so, Jack.” Ora il sorriso di Primus si era spento. L’amico continuò: “Saresti vivo e vegeto. Saresti quasi un norm. Non è questo che hai sempre desiderato?” “Desidero un po’ di tranquillità, arrivare a fine mese con qualche soldo in tasca, avere visioni piacevoli. Ma voglio anche continuare a scrivere e questo senza certe sensazioni non è possibile.” “La tua posizione si contraddice da sé.” La voce dell’amico si era fatta più dolce, “Non sarebbe meglio se scrivessi anche tu roba per norm? Pensa ai vantaggi. Parson sarebbe più soddisfatto e magari ti darebbe un aumento. La tua vita più tranquilla, i tuoi sogni finalmente monocordi, senza colori. Una vita simile a quella di ogni norm che si rispetti, ma più ricca. Questo, se tu fossi dichiarato idoneo all’intervento, naturalmente.” “È questo il punto. Io non voglio scrivere roba norm, non è questa che mi rappresenta. Io voglio continuare a provare queste sensazioni, non posso farne a meno.” “Ma quelli come te la gente li chiama eccentrici, non dimenticarlo.”

Ma Primus non lo guardava: “Vivono dove gli altri non possono.” Jack si chiese se fosse ancora con lui o se vedesse dell’altro. Cose che i suoi sensi percepivano e che lui non era in grado di afferrare: “Li chiama anche cadaveri, prima o poi. Non è meglio vivere?” “Li chiama anche folli lucidi, se è per questo.” “E non ha tutti i torti.” “Insomma vuoi starmi a sentire o no?” Stavolta Primus batté una manata sul tavolo. Adesso il suo sguardo era diverso. Sembrava tornato in sé e il suo umore non era dei migliori. Jack sospirò pazientemente. La giovane coppia di prima abbandonò per un attimo le proprie effusioni per guardarlo e così gli altri avventori del locale. Primus si sentì addosso diverse paia di occhi interessati soltanto a lui. Guardò Jack che a sua volta lo guardava storto: “Scusami!” Mormorò, quasi parlasse a se stesso, “sono molto teso ultimamente.” In realtà Jack era più preoccupato che arrabbiato, ma sapeva che l’amico era un uomo particolarmente testardo. Il ritorno della cameriera con le ordinazioni salvò la situazione. Quando li servì, la ragazza rivolse un sorrisetto a Primus: “Sono sedici e cinquanta.” “Faccio io, Jack.” Le diede una banconota da venti dollari: “Lascia perdere il resto.” La ragazza depose il vassoio, prese i soldi e si allontanò schioccandogli un altro sorriso e lui non capì se fosse ambigua o il suo era soltanto un comportamento di ‘servizio’. Per un po’ calò nuovamente il silenzio, ognuno perso nei propri pensieri. Primus continuava a pensare a ciò che gli era successo, alla sensazione di soffocamento che provava sempre più spesso, sempre più inquietante. Anche Jack era taciturno e Primus se ne dispiacque. Era un buon amico e sapeva che ormai complice la sua vita e i suoi sempre più frequenti sbalzi di umore non gliene erano rimasti poi tanti, ultimamente. E comunque cercava di aiutarlo.

Consumò il suo panino meccanicamente, con la mente da tutt’altra parte con Jack che faceva altrettanto. Finalmente, con voce più calma, riprese: “Le mie sensazioni extra percettive diventano sempre più incontrollabili e pericolose. A volte ho l’impressione che si sovrappongano a quelle fisiche come se volessero sostituirle. In altre occasioni, invece, il freddo che provo si unisce a una sensazione di soffocamento. Capita che mi senta così stanco che mi sembra di morire. Letteralmente. Non è piacevole.” La massiccia testa di Jack continuò a fissare il suo piatto, come se non lo avesse sentito. Portava le patatine fritte alla bocca una alla volta, metodicamente, intingendole in un po’ di maionese e innaffiandole con lunghe sorsate di birra. Poi lo fissò: “Primus, io non ho mai sentito parlare del Nescium o di argentei umanoidi. Per quello che vale un mio consiglio, penso francamente che dovresti farti vedere da un altro medico, ma uno bravo, uno che abbia già trattato gente con i tuoi stessi livelli di Capacità Immaginifica.” “Ne esiste ancora qualcuno di questi specialisti?” “Sono pochi, ma esistono.” “E dove li trovo? Forse dovrei fare una ricerca su internet.” “Ho un collega che lavora con me alla ‘Dormite Bene Fratelli’. Ha portato suo figlio, un bambino con una Capacità Immaginifica pari a 132, da uno psicologo specializzato in questi casi. Forse potrebbe aiutarti a chiarire le idee. Che ne dici?” “Forse sarebbe il caso di provare, ma voglio pensarci bene, prima.” Jack scosse tristemente il capo: “Senza offesa per nessuno, ma se fossi in te filerei in quella clinica e chiederei una bella serie di test. Magari quelli hanno la capacità per darci un taglio. Un taglio chirurgico, per la precisione.” “Ma tu non sei me.” Primus sorrise. “No, non lo sono.” Jack ricambiò il sorriso, “Conoscendoti, non penso cambierai idea così facilmente, ma un miracolo può sempre accadere.”

Ridacchiarono, ma non proseguirono oltre l’argomento. Un tacito accordo tra loro, evolutosi in anni di amicizia, fece capire a entrambi che era il caso di parlare d’altro. Finirono ciò che restava del pasto e infine uscirono dal Dolls World. Camminarono lungo Fragment of the Past Square come due spettri in mezzo a un mondo che non li vedeva. Jack era ridiventato cupo ma Primus sapeva che non era arrabbiato. Certo, se la soluzione chirurgica si fosse rivelata fattibile aveva serie speranze di poter far cessare certe visioni spiacevoli e soprattutto, forse, quella sensazione di freddo che a volte lo assaliva. Ma il rovescio della medaglia risiedeva nella cessazione anche di tutta una vita fatta di evocazioni e visioni magnifiche di cui non sapeva più fare a meno. In questo senso, si sentiva come un drogato. Sapeva che certe esperienze extra percettive erano rischiose ma allo stesso tempo non sapeva, e non voleva, farne a meno. Semmai era agli effetti collaterali che avrebbe rinunciato volentieri. Ma non facendo nulla in un senso o nell’altro era anche consapevole di trovarsi sull’orlo di baratro sormontato da un bivio molto delicato. Da una parte la presunta possibilità di una vita serena, con percezioni normali e nessuna sorpresa. Dall’altra la sottile divisione tra sanità mentale e lucida follia, abissi di consapevolezza splendidi ma terrificanti nella propria vastità. E lui era come uno spettro in procinto di cadervi per sempre o di attraversare quel confine per ritrovarsi dall’altra parte. Cos’era che gli aveva detto quella donna? Nescium! Si domandò se la sconosciuta, quella Altha, potesse aiutarlo in qualche modo a capire meglio la sua vita. Se potesse realmente aiutarlo a comprendere la verità, a fare certe scelte. Forse non ho altra scelta. Questo voleva: la possibilità di un’altra opzione, in modo da capire la Verità Assoluta che si celava dietro l’esistenza. Perché se c’era qualcosa che poteva dire di aver imparato nella sua vita era che proprio l’assenza della sua Capacità Immaginifica, e non di tutto il resto, era il solo fantasma della sua esistenza che doveva evitare.

4

Richard Everett Whitesnow dormiva profondamente nella sua graziosa villetta a ovest di Beyond the Lifeline, a pochi i dalla periferia della città. Faceva caldo e a causa della temperatura insolitamente alta per quella stagione e durante la notte si era mosso parecchio. Non era ancora prossimo ai prodromi del risveglio e come tale non si trovava ancora in quello stato curioso che viene prima del risveglio vero e proprio, quando ancora le tracce del sonno non sono svanite e la veglia sta per arrivare. Immagini offuscate si affastellavano nella sua mente cosicché il suo cervello non aveva ben chiaro dove si trovasse. Per tutta la notte aveva sognato di vagare tra valli lussureggianti e freschi laghetti alpini, con piacevoli folate di una brezza gentile che spiravano verso di lui allontanando il caldo dal suo corpo intriso di sudore. Poi quelle immagini avevano lasciato il posto a una nuova e più deprimente prospettiva e si vide riflesso in uno specchio, pallido ed emaciato, con gli occhi gonfi, rossi e dallo sguardo folle. Nel sogno provava una pena indicibile per qualcosa ma i segnali che arrivavano alla sua mente erano confusi e lui non ne capì il motivo. All’improvviso comprese che quella riflessa non poteva essere la sua immagine, non poteva essere lui, anche se una strana, curiosa affinità d’espressione lo lasciò stupefatto. L’immagine riflessa nello specchio aveva il suo stesso sguardo, il suo stesso modo di fare. Ma non era lui. Chi era? Era un sogno lucido o una visione? Era come guardare un film, una pellicola su uno schermo traslucido che tuttavia non aveva il potere di fermare o controllare in qualche modo. Alle spalle dell’altro se stesso vide argentei dappertutto, che svolazzavano tra i suoi capelli arruffati e sudati, sulla sua fronte resa lucida da una copiosa sudorazione. Aveva Paura, ma non sapeva esattamente di cosa. A un tratto rabbrividì inspiegabilmente e si rese conto di non essere più solo con se stesso ma che c’era qualcun altro. Qualcuno che era lui e allo stesso tempo non lo era, un uomo/Richard, forse espressione del sogno, forse no. Non poteva saperlo. Ciò che accadde dopo fu rapidissimo. Colto da un senso di terrore abissale scattò come una molla rimasta troppo a lunga compressa e uscì da una strana casa dal tetto in ardesia per salire a bordo di una Camaro parcheggiata davanti al vialetto. Era la macchina di qualcuno di famiglia, ma non sapeva di

chi si trattasse. Ben presto l’auto superò le cento miglia orarie e senza che se ne accorgesse sterzò per evitare un camion che comparve come per incanto sulla sua carreggiata. La ruota anteriore sinistra impattò contro il gradino in cemento di uno spartitraffico, la Camaro piroettò per aria e si capovolse rovesciando il mondo. Lui non provò paura. Non provò niente. È finita La sua prospettiva cambiò di nuovo e si ritrovò in piedi davanti a una donna. “Sei andato da quella sgualdrinella, non è vero?” Gli aveva detto lei, con gli occhi che sembravano uscirle fuori dalle orbite per la rabbia. La figura subì una grottesca mutazione. Senza braccia o gambe, senza un busto e senza vestiti, divenne un’immensa bocca vomitante rabbia e paura che gli urlava contro. Una bocca mostruosa che minacciava d’inghiottirlo se solo avesse fatto un o falso. Eppure la voce gli giungeva lontana e ovattata, come se tra lui e la Bocca ci fosse una parete a prova d’aria. Poi si accorse che anche l’altro sé stesso parlava: “È la mia fidanzata. Lei non ha colpa, non lo sapeva nemmeno!” “Sai quanto costa quell’auto?” Lo aggredì miss Bocca. “Ma io…” “Sta’ zitto!” La bocca si contorse, mostrando i denti, lunghe zanne acuminate grondanti saliva e sangue. La lingua gli apparve in tutta la propria enormità, gonfia e tumefatta, sembrava sul punto di esplodere. L’uomo/Richard esalò un urlo gutturale, come quello che può emettere un animale ferito cui si sta dando la caccia, la bocca si mise a gridare contro di lui e il veleno di quelle parole restò concentrato come una nube portatrice di morte, una nube tossica che non lo avrebbe mai lasciato. Era ancora sanguinante a causa dell’incidente ma quella voce continuò a inveire. Le sue ferite non erano un dettaglio che sembrava interessarle. Lei si preoccupava unicamente della Camaro distrutta. Senza neanche cambiarsi fuggì dall’inferno della casa dal tetto in ardesia lasciandosi dietro miss Bocca che lo accusava. Rivide se stesso scappare verso nord, verso il mare e, come spesso capita nei sogni, si ritrovò dotato di poteri sovrannaturali che gli consentirono di trovare riparo in una villetta dopo aver percorso pochi i. Una casa normale, la classica casetta per le vacanze disabitata per l’inverno, battuta dal vento e lambita dalla notte. Nel sogno, l’abitazione

apparteneva alla sua famiglia. E tra quelle mura si accasciò al suolo piangendo, urlando la sua angoscia alle stelle, precipitando nelle cateratte dell’abisso che era la sua mente solitaria senza nessuno che potesse sentirlo, senza un cane che gli desse una mano. “Mi spiace!” esclamò al Buio, mentre la pioggia si abbatteva cupa sulle assi del tetto, ma il buio non gli aveva risposto, non era compito suo. “Mi spiace!” Ripeté, e le lacrime erano corse copiose, brucianti come e più delle ecchimosi. Io non volevo! Si denudò completamente lasciando i suoi vestiti laceri e contusi sulle assi di legno del pavimento freddo e buio. Non ne avevo idea! Alcune monetine fuoriuscirono dalle tasche dei pantaloni tintinnando al suolo, ricordandogli la caducità della vita umana. Non voleva tornare in quella casa, non poteva se voleva vivere. Lì avrebbe trovato tre figure nevrotiche e schiumanti. Tre figure che urlavano, si torcevano lanciando bestemmie che arrivavano al cielo e come bombardieri supersonici arrivavano da lui, alle sue orecchie stanche, torturavano i suoi pensieri come spietati aguzzini. Se fosse tornato quelle grida si sarebbero unite alle grida, avrebbero esalato contro le nubi gonfie di pioggia e amarezza, e tutto quell’odio non avrebbe mai avuto fine finché morte non vi separi. E come sempre lui avrebbe gridato in silenzio, perché tanto in una situazione del genere puoi urlare quanto vuoi ma se dall’altra parte non esistono orecchie per sentire e menti per capire è del tutto inutile. Quello era un posto dove le vittime erano carnefici e dove i carnefici erano le vittime. Un luogo dove la totalità delle cose era bianca e nera allo stesso tempo e si confondeva nel grigio imperante che lui tanto detestava, che non portava a nulla, a nessuna certezza. Solo indecisioni miste a follia. Nella casa dal tetto in ardesia non era mai esistito un inizio o una fine perché il tempo non scorreva mai veramente. Piuttosto si abbarbicava sui suoi abitanti consumando la loro vita in cambio di una babele di grida. Di suoni buffi o solo grotteschi. Si litigava per la conquista del nulla, per logorarsi e logorare in un’eterna vita di dannazione e terrore. E nessuno sapeva le cose, non veramente. Nessuno sapeva nulla della

vita reale. Quella dove le persone si aiutano una con l’altra facendo squadra contro il mondo, dove non si era accesi o spenti ma vivi. Solo questo. Vivi. Rivide se stesso barricarsi in una stanza. “Oh no!” Disse, e la sua mente gemette. Sono tornato a casa. Urlò ma dalla sua gola uscirono solo sospiri di tristezza. Sono di nuovo a casa. L’uomo/Richard sussultò nel suo letto sfatto e stanco, dove il sudore scorreva come un mare la cui superficie era agitata da un tremendo uragano. I fulmini della tempesta lo cercavano e lo avrebbero raggiunto. Le parole di quelle figure lo avrebbero trovato, avrebbero banchettato con la sua carne, avrebbero corroso il suo spirito. “Oh no!” E il suo gemito ripetuto fu un altro urlo nel silenzio. Sono a casa! E l’uomo/Richard pianse ancora. Sono a casa! Si raggomitolò in posizione fetale. Sono a casa! Le urla dall’altra parte della parete ricominciarono. Qualcuno gridò ma non era la voce della grande Bocca, era una voce maschile. Forse il proprietario della Camaro. Sprazzi confusi di luce arrivarono e se ne andarono dandogli fuggevoli segni di consapevolezza. Una donna anziana urlò contro di lui, poi un’altra più giovane, fece lo stesso. La voce maschile rovesciava imprecazioni su imprecazioni e l’uomo/Richard si fece piccolo tentando di svanire, pregando Dio di farlo diventare invisibile, uno spettro in grado di abbandonare la casa dal tetto in ardesia e svanire oltre il mondo, dove nessuno avrebbe più potuto raggiungerlo. Nell’ultima fase del suo sogno Richard esalò un lungo respiro inarcandosi nel letto e strabuzzando gli occhi nello sforzo. Tornò alla vita reale con un gemito sommesso, ansimando, mentre le pareti della sua stanza da letto diventavano gradatamente solide certezze. Si guardò intorno, confuso. Si accorse che le lenzuola erano realmente fradice di sudore e avvertì prepotente il desiderio di una doccia. L’uomo/Richard si era finalmente risvegliato nella vita reale e, sollevato, sorrise.

“Un sogno!” mormorò rincuorato, “solo un realistico, dannatissimo sogno.” Si ò una mano sulla fronte sudata, toccando le lenzuola sfatte, con il sudore che pareva scorrergli direttamente nell’animo. Allora si alzò dal letto portandosi la testa tra le mani. Gli ci volle un po’ ma sentiva di essersi meritato una buona doccia. Gli era dovuta. L’acqua avrebbe levato via il sudore e insieme a esso lo avrebbe purificato da quelle immagini terrificanti. Indossò le sue pantofole in pelle di vitello fatte a mano e andò in bagno. La sua casa non era molto grande ma non per questo si ritrovava priva dei confort più comuni che la rendevano accogliente quanto bastava per viverci decentemente. Richard era alto non più di un metro e settanta, portava i capelli lunghi e mossi, che gli arrivavano quasi alla base delle spalle. Non era solito radersi tutti i giorni perché aveva la pelle del viso delicata e per quante creme usasse, farsi la barba era per lui una vera e propria prova di coraggio. I suoi tratti erano spigolosi ma piacevoli e il naso, che giudicava troppo lungo per i suoi gusti, era sormontato da un paio di grandi occhi grigi. Aprì il rubinetto della doccia e si lasciò bagnare dal liquido che regolò perché fosse sufficientemente fresco da levargli di dosso la notte e il sudore in un colpo solo. Afferrò la boccetta dello shampoo e lasciò che il sapone refluisse lungo il suo corpo con regolarità. Ripensò allo strano sogno che aveva fatto. Già altre volte gli era successo di fare sogni particolarmente vividi e naturalmente sapeva che la sua capacità Immaginifica, lievemente superiore alla media, poteva benissimo avere un ruolo, ma il fatto era che non si sentiva affatto tranquillo. Quando chiuse la manopola dell’acqua e allungò una mano per afferrare l’accappatoio appeso alla parete, una raffinata voce femminile disse: “Ciao Richard.” Stupito, aprì completamente il box della doccia e afferrò di scatto l’accappatoio sollevando una beffarda risatina soffocata. Davanti a lui si stagliava una forma nebulosa e biancastra percorsa da sottili variazioni cromatiche. Il fenomeno lo lasciò esterrefatto perché era la prima volta che vedeva qualcosa del genere. Solitamente le sue percezioni erano più indistinte di così. Sorpreso, Richard disse: “Chi sei?” “Un’amica!” Il tono della Voce si era fatto lievemente incrinato, ma restava ugualmente affascinante.

“Ti conosco? Forse la definizione del tuo aspetto sarebbe migliore se ti concentrassi di più.” Le disse allora, “forse la struttura del tuo mondo-mondo è alterata da qualcosa. Vuoi riprovare più tardi a contattarmi? O se preferisci, dimmi chi sei e proverò io.” “Io ti conosco, Richard. Vorresti vedermi per come sono realmente?” Solo in quel momento Richard si accorse di essere seminudo e arrossì. “Andiamo, ti conosco da molto tempo ormai.” Gli sussurrò languidamente quella voce morbida. La parte logica di lui non era tanto sicura di voler vedere quella donna e neanche di continuare quella strana conversazione ma un’altra parte, quella che affondava le proprie radici direttamente nella zona più istintiva della sua anima, era del parere contrario. Seguì una vampa gialla, come quella prodotta da un flash al magnesio, da cui emerse la snella figura di una giovane donna di straordinaria bellezza. I suoi occhi erano grandi, simili a giada della varietà più pura mentre i capelli, una vaporosa cascata che le arrivava fin quasi alla vita, erano di una delicata varietà di nocciola. Il viso di una perfezione superba esibiva labbra sensuali e morbide che lui desiderò immediatamente. La carnagione della ragazza era chiara, anche se ostentava un lieve tocco ambrato molto piacevole a vedersi. Indossava un elegante vestito da sera scarlatto che aderiva perfettamente alle sue morbide curve, forse di seta o di un altro tessuto nobile, che le lasciava le spalle e gran parte della schiena scoperta. Richard ne fu impressionato e sentì immediatamente desideri infelici sorgere in se stesso. La donna gli si avvicinò con movenze da gatta senza fare alcun rumore e lui si accorse solo allora che lei era a piedi nudi, piedi incredibilmente minuti e delicati, quasi fragili. “Ti è piaciuto il sogno, Richard?” “Me lo hai provocato tu?” “Se lo desideri posso evocarne altri per te.” “Mi ha fatto paura.” La sconosciuta avvicinò il viso al suo e lui sussultò lievemente nel percepire il

calore di quel corpo meraviglioso. Le dita di Lei giocavano ora con il suo collo in modo così soffuso da apparire quasi impercettibile. Continuando ad accarezzarlo la donna aggiunse in un roco sussurro: “Hai un buon odore, Richard. Sai di buono.” Il suo desiderio aumentò e Richard non seppe se temere o sperare che la ragazza vedesse la sua eccitazione. Completamente soggiogato, non reagì quando le labbra della donna si unirono alle sue in un umido bacio. Avvertì la lingua curiosa di lei che giocherellava con la sua, mentre le dita gli carezzavano il petto e la nuca. Le sue mani si tesero e affondarono tra quei capelli vezzosi e soffici mentre lei sospirava di ione. Goffamente, tentò di denudarla e la sconosciuta rise di nuovo, una risata dolce e squillante, seducente. Poi qualcosa cambiò e Richard si sentì allontanato con una violenza che non si aspettava. Sorpreso prima ancora che arrabbiato, riaprì gli occhi mentre cadeva all’indietro, sbattendo malamente contro le piastrelle del pavimento bagnate adiacenti alla doccia. Aprì la bocca per protestare ma in quell’istante il suo telefonino squillò. Davanti a lui, la meravigliosa visione lo guardava con occhi languidi e beffardi. “Vorresti fare l’amore con me?” Ancora scosso dalla caduta, Richard annuì meccanicamente. Voleva quella donna, voleva farla sua. Ma il bel volto gli rivolse un sorrisetto ironico: “Non sei abbastanza potente per me, Richard. Magari un’altra volta, d’accordo? Appena ne avrò voglia di nuovo.” Ridendo, la sconosciuta tornò a essere solo una nebbia indistinta. Anche se non poteva più vederne gli occhi, lui avvertiva adesso la sua ostilità: “Che cosa significa?” “Significa,” replicò con indifferenza la figura prima di svanire del tutto, “che anche se prima o poi sarai mio, questo avverrà in un altro istante, Richard Everett Whitesnow. Tu non esisti.” La forma nebulosa scomparve e lui si ritrovò solo con se stesso, tremante di freddo e umiliazione. Scosso, allungò una mano verso il cellulare che continuava imperterrito a reclamare la sua attenzione: “Sì?” “Richard!” Fece la voce concitata di Jack, “sto tentando di contattarti via mondo-mondo da almeno un’ora. Non eri allo specchio-visore e ho dovuto

chiamarti sul telefonino. Che diamine sta succedendo?” “Perché, che ore sono?” Era ancora sconvolto dall’accaduto. “Come che ore sono?” La voce di Jack salì di tono, “È ora di andare in redazione, bello! Lo hai dimenticato? Io e Primus siamo sotto casa tua col motore , i caffè già scolati compreso il tuo e venti minuti di ritardo accumulati.” Una voce più distante, che riconobbe per quella di Primus, disse a Jack: “Digli di darsi una mossa, se non vuole che tutti e tre riceviamo una bella strizzata da Parson.” Terminò la conversazione e scattò in avanti come un centometrista al meglio della sua forma fisica. “Com’è tardi!” Disse allo specchio, dandosi una veloce occhiata per controllare che tutto fosse in ordine. Lavarsi i denti e asciugarsi i capelli richiese una manciata di minuti soltanto, poi afferrò la prima cosa che gli capitò sotto mano senza prestarvi particolare attenzione. “Sto diventando troppo pigro.” Disse a se stesso, “e mi sto trasformando in un vegetale a base di sonno e cene scadenti.” Guardò tristemente la sua casa spoglia e in disordine, “e mi servirebbe una fidanzata!” Indossò le scarpe e barcollò in direzione della porta. Ma prima che raggiungesse la maniglia una voce alle sue spalle lo fece voltare: “Richard, ehi Richard!” Disse la Voce. Riconobbe la forma indistinta di qualche minuto prima, ma non si lasciò intimidire, non questa volta. La ignorò. La piccola nebulosa gli apparve davanti, frapponendosi tra lui e la porta. “Lasciami andare!” Le disse, irritato, “Non so chi sei, ma non tollero che mi si prenda in giro.” “Và pure!” Lo canzonò allora la donna con una voce in falsetto, “tanto prima o poi, da me dovrai tornare.”

La forma si dissolse e Richard si slanciò fuori dalla sua abitazione incontro al sole troppo alto e ardente, districandosi tra le aiuole incolte del suo piccolo giardino e saltando a piè pari la bici che giaceva riversa sull’erba troppo cresciuta. Prendendo mentalmente appunti sulle cose da fare per restituire alla sua casa un aspetto decente si diresse in tutta fretta verso la macchina di Jack, una Mustang d’epoca perfettamente restaurata, riverniciata di un blu elettrico, con gli ammortizzatori sportivi e le gomme dai fascioni bianchi. Primus uscì fuori dall’auto e lo fece sedere sul sedile posteriore affollato di bicchieri di carta e confezioni da sei di birra desolatamente vuote. “Dovresti fare un po’ di pulizia!” Disse Richard a Jack che diede subito gas lasciando una buona porzione di battistrada sull’asfalto nero e lucente. “Ma se l’ho fatta lavare soltanto il mese scorso?” Jack sterzò a destra superando una vecchia Dodge del ’99 tutta ammaccata. L’uomo che era al volante gli clacsonò dietro, imprecando. “Sarebbe meglio imparassi a guidare, prima.” Aggiunse Primus, con un sorriso, “così non faresti la barba alle altre auto.” “Piantatela!” Replicò Jack che ora filava tutto serio nella corsia di soro, “abbiamo un bel ritardo perciò ora chiudete il becco e lasciatemi guidare in pace, okay?” Ignorandolo, Richard disse: “Primus, a te capita spesso di fare sogni curiosi, vero?” Primus si girò verso di lui: “Tanti. Ne hai fatto uno anche tu?” Richard stava per rispondere ma si zittì non appena guardò meglio il viso dell’amico. Quando aveva fatto quello strano sogno aveva sperimentato l’impressione sia di essere lui sia di non esserlo e adesso gli sembrava che in realtà il protagonista fosse stato lo stesso Primus. O poteva essere anche Jack? Adesso era certo che anche lui fe parte della cosa, o almeno glielo diceva l’istinto. Aveva dunque sognato di essere parte di un uomo risultante dalla mescolanza dei tratti suoi e degli amici? “Richard, mi ascolti?” La voce di Primus riaccese la sua soglia di attenzione. “Scusami.” Disse, “credo di essere stressato da una vita troppo solitaria.”

“Vedrai come ti stresserà Parson!” Jack emise un gorgoglio che nelle sue intenzioni era una risata. Ma Richard non lo seguiva. La sua mente stava pensando a cosa sarebbe successo se avesse rivelato il suo sogno agli altri. Probabilmente lo avrebbero preso in giro per qualche giorno e così ci ripensò. Decise per una mezza verità e disse: “Sì, ne ho fatto uno, ma non vale la pena parlarne.” Le sue labbra erano tremanti. Primus tornò a guardare dal finestrino e Jack a superare file e file di macchine sulla corsia di soro. Anche Richard guardò fuori dal finestrino, ma non vedeva ciò che lo circondava, era troppo confuso. I palazzi sfilavano davanti ai suoi occhi in fila ordinate, le macchine saettavano, si fermavano e ripartivano senza che se ne accorgesse. Nei suoi occhi spaventati si riflettevano altre immagini che lo gettavano nella più nera delle apatie. E in quell’apatia c’erano una grande Bocca che imprecava contro di lui e altre voci ugualmente ostili che lo cercavano. Al pensiero di quelle voci il suo cuore sussultò e gemette, minacciando di esplodergli nel petto. Scosse la testa tentando di liberarsi di quelle sensazioni, di quella voce suadente che lo aveva irretito, quella donna sconosciuta che asseriva di essere la causa di quel sogno spaventoso. E più i minuti avano più era convinto che quello non fosse stato solo un sogno, ma una vera e propria visione extra percettiva. Un’occhiata fuggevole su qualcosa che lo attendeva al varco. Forse, dopotutto, ne avrebbe parlato ai suoi amici appena ne avesse avuta l’occasione. Avrebbe rischiato le loro battutine caustiche perché gli serviva il parere di un esperto e chi meglio di Primus poteva dargliene uno? Ma era ancora scosso per poterne parlare. L’immagine della grande Bocca gli tornò in mente e la sua voce percorse il suo cervello come impazzita. Altre voci si sovrapposero a essa, voci beffarde che inveivano e schiumavano rabbia e imprecazioni. E di nuovo provò paura, un terrore abissale e senza fine e se fosse stato lui al volante avrebbe probabilmente invertito la marcia per scappare come aveva fatto durante il sogno ma senza più tornare nella casa dal tetto in ardesia. Perché in quel posto voci familiari ma spietate gridavano ancora nella sua mente e lui sentiva l’esigenza di andare dove non avrebbero potuto scoprirlo. Tremò di paura e solitudine. Si sentiva stremato ancora prima di iniziare a lavorare. Era stata la Paura, la viscida sensazione di essere impotente e solo. La

preda di suoni che corrodevano e distruggevano, umani ma disumani, che non conoscevano riposo o dolcezza. Voci che erano accese o spente, niente di più. E nonostante ormai sapesse che la realtà gli parlava di una mustang blu elettrico che correva rapida verso una vita normale, gli ci volle del tempo prima di tornare sereno. Le voci erano ancora vive, anche se diventavano sempre più indistinte e remote. Ma fu quello il pensiero che lo fece sorridere. Perché in cuor suo desiderò che quelle voci fossero spente per sempre.

Le insegne dei negozi avevano cominciato ad accendersi una dopo l’altra quando Primus e gli altri uscirono dalla redazione del Writer’s Magazine alla fine di un’altra giornata di lavoro. Di sera, i palazzi assumevano forme maestose gettando lunghe ombre sulle strade inframmezzate dalla luce dei lampioni e delle auto. Sospeso in un cielo così nero da sembrare dipinto, occhieggiava il dorato disco della luna la cui luce riflessa, delicata e austera, bagnava la città di ombre segrete e spettrali. I tre amici salirono ordinatamente in macchina e mentre Jack la guidava sulla Renovatio Boulevard, una delle arterie più importanti della città, a bordo regnava un’atmosfera di funerea stanchezza causata non soltanto da una giornata di lavoro particolarmente intensa, ma anche da pensieri che ciascuno rimuginava tra sé. Dopo aver svoltato su Loneliness Song Street, fu Jack a interrompere il silenzio: “Che si fa, ora?” Proruppe con la sua grossa voce da baritono. “Io sono stanco.” Li informò Richard. Il ricordo del sogno e della strana visione lo ossessionava, ma non aveva ancora rivelato il suo piccolo segreto nonostante ci avesse pensato per quasi tutto il giorno. La voce di Primus pose fine alla questione: “Accompagnatemi a casa.” Disse senza mezzi termini, “Mi sento stanco anch’io.” La sensazione di freddo era tornata a invaderlo e si sentiva gelare nelle ossa come se fosse esposto a una corrente di aria gelida proveniente direttamente dal suo cuore. Una sensazione indescrivibile, paurosamente reale, come se si trattasse di un qualcosa di organico. Vistosi in palese minoranza Jack borbottò qualcosa, ma nessuno degli altri rispose. Irritato, affondò il piede sul pedale dell’acceleratore e la Mustang schizzò in avanti con il motore che frullava aggressivo, obbedendo ai comandi del suo proprietario. Senza mai fermarsi

l’auto divorava l’asfalto, fagocitava i marciapiedi con rabbia ed efficienza. Una lancia dalle nervature blu che fendeva l’aria come un vendicatore di acciaio inossidabile. Mentre lasciava vagare la sua mente tra mille pensieri, Primus lanciò furtive occhiate per le strade illuminate dalle centinaia di lampioni e insegne al neon. La notte non poteva inghiottire tutta quell’attività, non vinceva davvero quella folla vociante, le altre macchine che ruggivano, sgommavano e correvano. Il gelo stava cominciando ad allentare la morsa intorno al suo corpo e sentiva nuovamente le forze refluire libere nelle sue vene. Finalmente Richard disse: “Questa mattina ho avuto una visione.” Tacque subito, in attesa, quasi sperando in cuor suo di non essere sentito dagli altri. Fu Primus a disilluderlo per primo: “La cosa non mi sorprende. Non esiste al mondo-mondo una persona che non abbia qualche visione, di tanto in tanto.” Richard scosse la testa con forza: “Non è questo. La mia visione è stata la più reale di tutta la mia vita.” “Che genere di visione?” Chiese Primus. Richard raccontò il più fedelmente possibile il sogno insistendo sulla somiglianza del suo personaggio immaginario con i suoi amici ma non parlò della donna sconosciuta. In quel momento Jack arrestò la sua corsa a un semaforo e una bella brunetta sui trenta attraversò rapida sulle strisce. Era snella e attraente, come la maggior parte della popolazione femminile di Celestia. “Ehi!” Jack emise un fischio di ammirazione verso la ragazza che proseguì oltre senza scomporsi. Jack sghignazzò, poi si volse verso Richard: “Anch’io ho fatto un sogno del genere.” Diventando improvvisamente scuro in volto, Primus disse: “Perché non ce lo hai detto subito?”

“Eh?” fece Jack. “Che tipo di sogno hai fatto?” “Praticamente identico a quello del nostro amico, qui” sorrise di nuovo, aveva l’aria di divertirsi un mondo, “con la netta impressione che il mio alter ego avesse qualcosa di tutti noi. L’ho fatto circa una settimana fa.” “Una settimana fa?” “Esatto.” “Non capisco.” Mormorò Primus, “cosa vorrà dire?” “Niente.” Primus si rivolse a Richard: “Cosa diceva la Bocca? Per caso si parlava di una ragazza? Una ragazza che il tuo protagonista andava a trovare con una Camaro verde bottiglia nuova di zecca?” “Sì, l’ho già detto. Ricordo che lui aveva deciso di rubare le chiavi e mostrarle la macchina. Nel mio sogno superava le cento miglia orarie e il ragazzo non si accorgeva in tempo del camion per frenare prima di perdere il controllo dell’auto. Il resto lo sai. L’auto che tocca contro un gradino di cemento, che viene scaraventata verso il cielo e tutto il resto.” “E tu?” Ora Primus si era rivolto a Jack. “Identico, penso. Ma perché?” “È un mio sogno.” Osservò, “ma non ve ne ho mai parlato. Sono stupito che abbiate sognato le stesse cose anche voi.” “Potrebbe essere una Memoria Condivisa.” Azzardò allora Jack che in quel momento stava svoltando nell’elegante quartiere di Nova’s Dream. Primus lo guardò: “Non so. Ultimamente mi sento molto confuso.” “Nella mia esperienza,” aggiunse Richard, “è successo anche dell’altro. Subito dopo il sogno, mentre facevo una doccia, ho sentito la voce di una donna che mi

ha rivelato di essere stata lei la responsabile di quell’incubo. Poi si è materializzata all’improvviso. Non ho mai visto niente del genere!” “Che aspetto aveva?” “Era bella, molto più di qualunque ragazza in carne e ossa che abbia mai visto in questa città. Bruna, sulla trentina, dai capelli color nocciola, folti e abbastanza mossi. I suoi occhi erano lucenti, davvero molto, molto belli. Indossava un abito da sera sexy di un bel colore rosso che ne faceva risaltare le forme perfette.” “È Lei!” Sbottò Primus, “ne sono sicuro.” “Come fai a esserne così convinto? Hai idea di quante belle ragazze esistano da queste parti? La gente viene da Renovatio per le nostre pupe.” Jack alzò leggermente il piede dall’ acceleratore. Ancora pochi istanti e sarebbero arrivati a destinazione. “È Lei, vi dico!” La voce di Primus divenne leggermente isterica, “so che è così. Richard, aveva una voce calda, un po’ roca, ma vellutata?” Richard assentì: “Mi spiace! So che la consideri la tua ragazza. Non so cosa mi abbia fatto ma…” Annaspò come se gli mancasse il respiro. Si sentiva un idiota, “ero come soggiogato dalla sua femminilità. Ma poi, quando ormai ero quasi certo di come sarebbero andate le cose, mi ha allontanato con cattiveria. È stato in quel momento che mi avete telefonato e quando sono andato verso la porta è riapparsa in una forma nebulosa dicendomi che non esisto.” Richard tacque, guardando alternativamente i due uomini e non sapendo cos’altro aggiungere. Jack disse: “Io non l’ho mai vista.” “Non era un sogno. Decisamente non lo era. È stata un’apparizione autentica.” Decise Primus e subito si sentì scaraventato in avanti. “Per la miseria, guardate!” Era stato Jack a parlare, ma non doveva spiegare nulla perché lo spettacolo era evidente a tutti e tre. Primus saltò fuori dall’auto seguito a ruota dagli altri. Dove prima c’era la sua bella villetta a due piani vedeva adesso un edificio a metà. Usò il telecomando e

scoprì che il cancello funzionava ancora. Con rapide falcate superò il giardino e aprì la porta. Vide che erano spariti il secondo piano e il tetto. Della scala che avrebbe dovuto condurlo su rimanevano solo pochi gradini. Le pareti non presentavano segni o crepe di alcun tipo. A una rapida occhiata sembravano tagliate di netto con un’enorme sega circolare ma non vedeva alcuna traccia di polvere o macerie, né frammenti di intonaco o un solo quadro caduto a terra. Niente danni di alcun tipo. Fece il giro dei locali rimasti e si sincerò che nulla fosse stato toccato. “Non è possibile!” Esclamò, “no, non lo è.” “È come se fosse stata dematerializzata di un piano.” Osservò Richard, “guardate le pareti. Non sono sbrecciate.” Indicò con un cenno dell’indice le modanature in stucco che non si limitavano a essere interrotte brutalmente all’altezza del taglio, ma erano rifinite come se la casa fosse stata costruita fin dall’inizio in quel modo. “Tutto questo è un incubo!” Gemette Primus, “un orrendo, incredibile incubo.” Scosse tristemente il capo, “non so come sia potuto accadere ma so che non è un caso. Il tuo sogno,” e guardò Richard, “quello di Jack, i curiosi biglietti di quelle donne, le miei più recenti visioni e ora questo. Deve esserci un nesso logico, per quanto folle sia.” Richard disse: “E se questa casa fosse una Memoria Condivisa? Magari è qualcosa che riguarda tutti noi ma che al momento ci sfugge. Dobbiamo cercare di conservare la lucidità necessaria altrimenti non ne usciremo.” “La mia capacità Immaginifica non supera il 109 per cento.” Lo corresse Jack, “quindi non può esserlo. Solo tu e Primus avete valori più elevati ma non è che tu abbia un livello molto superiore al mio, alla fine, solo 114. Non è semplicemente possibile. La spiegazione deve essere un’altra.” “Cazzo!” Primus afferrò un pesante candelabro di argento e lo scaraventò a terra, con rabbia. Imprecò di nuovo. Richard disse: “Fare in questo modo non risolve nulla.” “Guardati bene intorno!” Primus era visibilmente alterato, “questa è realtà! La mia casa è distrutta, il mio futuro incerto. Avrò il diritto di essere un tantino incazzato o no?”

“Hai tutti i diritti, amico, ma Richard ha ragione. Dobbiamo pensare, non agire d’istinto.” La voce di Jack era sicura, determinata, “e a ogni modo mi chiedo se sia possibile che nessuno abbia visto nulla. Qualcuno dei tuoi vicini avrà pure notato qualcosa. Forse hanno già chiamato la polizia.” Senza aspettare i commenti degli altri, Jack uscì dalla casa superando di corsa il cancelletto di legno e andò a bussare a una delle villette a schiera, tutte uguali, che nel complesso costituivano il quartiere di Primus. Scamlò nervosamente una mezza dozzina di volte incurante dell’ora tarda finché non si aprì una finestra dalle persiane particolarmente rovinate e apparve una donna sui cinquanta, con indosso una vestaglia da camera verde e i capelli rosa sfatti e consunti. Portava degli occhiali di corno che le davano un aspetto simile a quello di un gufo. Un gufo rosato: “Cos’è, sei strafatto già a quest’ora, amico?” Jack tacque un momento. “Sto parlando con te, stronzo!” Continuò la donna-gufo, “ti avviso che se non te ne vai immediatamente chiamo la polizia.” La sua voce particolarmente sgradevole aveva un accento del sud e Jack si chiese oziosamente se fosse mai stata arrestata per oltraggio al buon gusto. “Non voglio grane, signora.” Rispose lui tentando di controllare i nervi, “ma solo chiederle se ha visto chi è stato a fare questo.” Indicò col dito verso la casa di Primus. “La casa di Valance.” Rispose fredda la donna-gufo, “e allora?” “Vorrei sapere se ha visto chi l’ha ridotta in quel modo.” “Levati dai piedi, idiota!” rispose lei, “quella casa è sempre stata così. E dì al tuo amico di inventare uno scherzo meno stupido per svegliare la gente, hai capito?” Le persiane sbatterono in faccia a Jack e al resto del mondo, incapsulando nuovamente la donna-gufo. Jack sollevò il dito medio all’indirizzo della casa ora di nuovo silenziosa e tornò dai due amici.

“Proprio dalla signora Browning dovevi andare.” Borbottò Primus, “la strega più odiosa dal quartiere.” “Dice che la tua casa è così da sempre.” “Ti ha preso in giro.” Replicò Richard. “Era dannatamente seria, invece!” Jack era furioso, “è ovvio che quanto sta accadendo è reale. Non ci sveglieremo da un sogno e non ci scherzeremo al lavoro, domani mattina. Questa è realtà.” “Dovrai trovarti un nuovo alloggio.” Disse Richard. “Chiediti un’altra cosa.” Aggiunse Jack, stavolta in tono più accondiscendente, “le parole di quella donna dimostrano che non siamo solo noi a vedere quanto accade, ma il punto di vista è diverso. Perché?” “Come se la realtà scorresse diversamente per noi e lei.” “E se così fosse anche tra noi e il resto del mondo?” Era stato Jack a parlare. “Questo ci porta al punto di prima: qualunque sia la causa di quel che vediamo riguarda tutti noi.” Biascicò Primus, sedendosi stancamente su una delle mura a metà. “Ma questo non porta acqua al mulino della Memoria Condivisa?” Richard fece un cenno del capo a Primus che lo guardava fisso, “spiegherebbe ogni cosa. I sogni identici, la donna misteriosa che mi è venuta a trovare questa mattina e persino ciò che è successo alla tua casa. Può darsi che sia tutta una visione del mondo-mondo che ci riguarda e forse la tua vicina è anch’essa una materializzazione del nostro incubo. Magari a farlo è uno solo di noi, molto probabilmente tu, visto che hai la Capacità Immaginifica più potente.” “Ti sbagli.” Osservò Jack, “hai dimenticato i biglietti che sono arrivati a Primus? Io dico che la chiave di tutto è quella Altha. È come se volesse indicarci la strada ma quello che mi chiedo è: dove porta questa strada? E perché ha detto a Primus che è in pericolo di vita? Forse, dopotutto, non è solo di ciò che è successo alla casa che dovremmo preoccuparci.” Primus sospirò: “Tu cosa suggerisci?”

“Non ho ancora elementi per suggerire qualcosa, ho solo domande, come voi, ma una cosa posso dirla. Hai detto che il sogno che abbiamo fatto io e Richard è in realtà tuo, vero?” “E allora?” “Sei assolutamente sicuro di non avercelo raccontato, magari per allusioni?” Primus ci rimuginò sopra un attimo: “Assolutamente.” Disse in un soffio. “Questo vuol dire che questa donna, quella che tu chiami Lei, ne è a conoscenza. Potrebbe allora darsi che ti conosca da una vita. Da quando viene a farti visita?” “Saranno circa quattro anni.” “Il tuo sogno si basa su fatti reali o è solo frutto della tua immaginazione?” Primus scosse tristemente la testa: “Risale ad almeno 10 anni fa. A quel tempo ero fidanzato con una donna che non amavo abbastanza.” “Allora a questo punto devo riconsiderare quel che ti ha detto quella ragazza durante la tua visione al Writer’s Magazine, quella che parlava di se stessa come di un argenteo. Che cioè esista davvero il Nescium, una sorta di dimensione parallela al nostro piano di esistenza.” “Siamo nel regno della fantasia pura.” Replicò Richard, “ma di che state parlando?” “Dello sviluppo emotivo.” Fece Jack, senza scomporsi, “se quel sogno è in realtà una visione, allora in qualche modo deve avere un nesso con le nostre vite. Voi sapete come funziona il mondo-mondo, no? I vari fattori della vita di ciascuno non svaniscono con l’adolescenza e la crescita, ma coesistono insieme alle altre e con questo intendo quelle esperienze che concorrono, tutte insieme, a fare di un ragazzo un adulto il più possibile equilibrato. Le fasi infantili sono le più delicate. Sono quelle che danno l’imprinting al nostro sistema nervoso, le basi necessarie per costruirsi al meglio possibili. Se queste fasi si svolgono correttamente e in seguito non ci sono grossi traumi è probabile che il bambino diventi un adulto responsabile. Ma se invece ci sono dei danni e il bambino è particolarmente sensibile allora le cose cambiano. Io e te ci conosciamo da parecchio, Primus, ed è evidente che la tua Capacità Immaginifica trae linfa

proprio dalla tua infanzia. È così che succede, è una cosa risaputa. Sono sempre i più sensibili che possiedono elevati valori di Capacità Immaginifica. Sono i soggetti ideali e per questo sono la maggior parte di quelli che vengono sottoposti all’intervento per la resezione del mesencefalo.” Primus cominciò a torcersi le mani, a incrociare le dita come faceva quando si trovava a disagio. “È vero, non ho avuto un’infanzia normale, ma quanti l’hanno avuta?” Jack gli posò una mano sulla spalla: “Stiamo solo provando a fare ipotesi. Non abbiamo la situazione chiara e precisa e dobbiamo rifletterci bene. Penso che solo dopo eventuali altre manifestazioni potremo avere il quadro un po’ più completo. La tua infanzia ti ha segnato, inutile negarlo, e potrebbe avere un ruolo in tutto questo. Il mondo-mondo è sempre interconnesso alle sensazioni degli esseri umani e la cosa è tanto più vera quanto più si tratta di individui particolarmente sensibili. Tutti gli altri, io e la maggior parte delle persone che vivono nel mondo-mondo coesistono tranquillamente con il proprio vissuto e le loro esperienze extra percettive sono assai più modeste.” “Sì, ma servono tanti fattori perché un individuo possa mostrare valori insolitamente alti di Capacità Immaginifica.” Osservò Primus, “e non esisto solo io. Perché cose del genere non capitano anche ad altri?” “E chi ti dice che non capitino? Il semplice fatto che non lo sappiamo non esclude che non accada.” Richard fece spallucce: “L’unica cosa certa è che il problema va affrontato insieme se vogliamo sperare di capirne qualcosa. E dobbiamo avere un’idea di cosa sta succedendo prima che accadano cose più curiose di questa perché potrebbe voler dire guai seri per tutti noi.” “Sono d’accordo.” Osservò Jack, ansioso “e penso che le domande cui dobbiamo trovare riposta siano essenzialmente tre. Domanda numero uno: chi è la donna che viene a trovarti da quattro anni? Domanda numero due: perché ieri è andata anche da Richard? Domanda numero tre, la più importante di tutte: chi sono veramente Altha e Lei?” Primus lo guardò serio: “Due entità che cercano ciascuna di controllare i miei movimenti, è evidente.”

“I nostri movimenti.” Lo corresse Jack. Primus assentì: “Hai ragione.” “E che succede se una di queste donne si arrabbia?” Richard osservò i due uomini contemporaneamente, “ve lo siete chiesto? Non sappiamo niente di loro, mentre potenzialmente sanno abbastanza di noi da interagire con le nostre vite come più gli piace. La cosa non vi rende ansiosi? A me moltissimo.” “Non avete considerato un dettaglio, però.” Il tono di Primus divenne un sussurro, “la possibilità cioè che quel che è accaduto a casa mia sia solo uno dei primi segni che il mondo-mondo sta cambiando.” Jack annuì lentamente: “Non sappiamo se stia cambiando, ma se fossi uno che scommette sarei propenso a crederlo. È come dicevo prima, non abbiamo sufficienti elementi per fare ipotesi abbastanza solide e rimaniamo, perciò, nel campo della pura speculazione. Non possiamo fare altro che continuare la nostra vita aspettando che siano le nostre amiche a fare il primo o.” “È ciò che stanno facendo.” Commentò Richard, con sussiego, “e non mi piace per niente. Preferirei essere io a decidere della mia vita.” “Per adesso non possiamo che aspettare.” Jack trasse un lungo respiro, poi aggiunse: “Primus, se vuoi potrai dormire da me, stanotte, almeno fino a quando non deciderai altrimenti. Per ora ti serve un tetto sulla testa e un po’ di calma per riflettere.” Ci fu un cicalino stridulo, il clacson di uno scooter, seguito da una voce femminile. “Primus Valance?” Si voltarono. “Abbiamo visite.” La voce di Richard si era fatta strozzata: “Sta arrivando qualcuno.” Stancamente, Primus si avviò verso il cancello facendo scattare il meccanismo che lo apriva avvalendosi di una delle sue chiavi. Gli apparve una figura femminile che indossava pantaloni attillati neri e un top bianco. Sopra portava la

casacca verde fluorescente del ‘Servizio Postale Ritardatario Americano’. Il viso era coperto da un casco nero da cui uscivano ciuffi disordinati di capelli biondi. La ragazza si levò il casco rivelando un viso affilato dai grandi occhi scuri e sottili labbra rosate. Non aveva un filo di trucco ma era comunque molto graziosa. I capelli, leziosi e arruffati, le arrivavano appena alla base dell’esile collo. La riconobbe per la postina che a volte gli recapitava le raccomandate. Mentre lei posava il casco su uno dei manubri dello scooter decise di fare una prova: “Ha visto cosa mi è successo?” Lei lo guardò, seria: “Prego?” “La mia casa.” Primus si sentì a disagio, “l’ho trovata così.” E indicò la costruzione alle sue spalle. Jack e Richard erano seduti su uno scalino di mattoni rossi e avevano l’aria oziosa. “Sinceramente, non mi sembra sia cambiata affatto dall’ultima volta in cui l’ho vista. Cosa c’è che non va?” Primus si sentì svuotato di ogni energia: “Lasci perdere.” La giovane donna non rispose, ma frugò nella borsa che le pendeva da un fianco e ne trasse fuori una busta marrone debitamente timbrata sul fronte e sul retro con la scritta:

Espresso Postale Speciale, Celestia, Stati Uniti.

Sopra, scritto con eleganti caratteri cubitali, c’era il suo indirizzo, ma mancava il nome di chi l’aveva spedita. “Chi me la manda?” “Non mi riguarda.” Disse allegra la ragazza, “faccio le consegne e basta. Se vuol fare un reclamo vada all’ufficio postale più vicino.” “Aspetti! Io non voglio fare un reclamo, voglio solo... ”

Si zittì mentre la ragazza indossava nuovamente il suo casco. Sarebbe stato del tutto inutile continuare a parlare. Che quella donna fingesse o no era ovvio che non gli avrebbe risposto. È lei che prende in giro me o semplicemente non può vedere, esattamente come la mia vicina e forse il resto del mondo, che la realtà è diversa? Se ne stette in silenzio vedendola schizzare via in tutta fretta; la seguì con lo sguardo fino a quando non svoltò alla fine della strada. Tornò da Jack e Richard che lo guardavano: “Neanche lei è stupita dal fatto che la mia casa sia così.” “Questa è la prova che ciò che ha detto la tua vicina è vero. Ora sappiamo che la realtà scorre in modo diverso per noi e il resto del mondo-mondo.” Jack si alzò, “e il fatto che né io né Richard pensiamo che la tua casa sia normale conferma la nostra ipotesi che quello che accade riguarda con ogni evidenza soltanto noi tre.” Richard disse: “Cosa dice la lettera? Aprila.” Primus chiuse gli occhi un secondo come per riordinare le idee, poi fece quel che Richard gli aveva chiesto. Ne emerse fuori un normale foglio di carta bianca e pesante, da fotocopia, senza intestazione. C’era scritta una sola frase:

Raggiungi al più presto la libreria ‘Gabbiani delle Stelle’. Mi spiace molto per la tua casa, ma non ho potuto far nulla.

Altha

“Un altro indizio.” Mormorò Richard, “mi chiedo se la ragazza che te l’ha portato faccia parte del gioco.” “Ne dubito,” Primus appariva sicuro, “sembrava sincera.”

“Dov’è questa libreria?” chiese Jack. “Dovrebbe trovarsi in Memory’s Sea Avenue, accanto allo studio notarile ‘Bam & Bam’. Non è lontana da casa mia.” Li informò Richard, “lo so perché ci vado spesso a piedi.” In quel momento una strana luminosità riverberò accanto a loro, come se milioni di lucciole impazzite si fossero date convegno sulle mura e le finestre della casa, facendola sussultare e vibrare all’unisono con una strana, potente vibrazione dell’aria. L’edificio non pareva più composto da cemento ma da una materia viscosa, plastica, la cui oscillazione durava soltanto pochi secondi. I tre uomini contemplarono la struttura pulsare poi la brezza della sera si sollevò facendoli rabbrividire. Jack imprecò, mentre Primus non disse nulla. Era troppo confuso da quel che succedeva. Anche Richard sembrava completamente colto alla sprovvista. Ora era la stessa sensazione di freddo a deformarsi avanti e indietro, pulsante, inumana. Lame di ghiaccio invasero i loro corpi fino al cuore, massaggiandolo con dita gelide e terribili. Per un solo, terrificante attimo la casa e l’intero quartiere scomparvero e i tre amici si ritrovarono su una vasta piana ondulata disseminata di pezzi di roccia frammisti a ghiaccio. Anche il vento era composto da ghiaccio polverizzato e una sensazione di terrificante oscurità prese il sopravvento sul paesaggio rendendolo innaturalmente alieno. Poi, all’improvviso, così com’era cominciata la sinistra vibrazione disparve e riapparve la casa a metà e il resto del quartiere. Ormai il fenomeno era terminato, ma Primus, Jack e Richard si precipitarono al di là del cancello di legno. Un istante dopo saltarono a bordo della Mustang blu elettrico che si allontanò immediatamente dalla casa. Nessuno parlò, nessuno ebbe altro da dire per quella sera. Il mondo-mondo sembrava tornato normale, l’ambiente era nuovamente quello di ogni giorno. Eppure, mentre si allontanava cupamente dalla propria abitazione, Primus provò la sinistra sensazione che la fine, in realtà, fosse soltanto l’inizio.

5

La libreria ‘Gabbiani delle stelle’, che si trovava incastonata tra due palazzi vittoriani al numero 6 di Memory’s Sea Avenue, non era a prima vista diversa dalle altre. La sua vetrina principale era grande e ordinata, i libri sistemati in posizione strategica con tutte le novità in evidenza e i classici in posizione opportuna. Una volta varcato l’ingresso il visitatore si trovava in un ambiente raffinato ed elegante, con tende vaporose che incorniciavano le nicchie principali disseminate di libri di ogni sorta, tra cui molte edizioni rare dal punto di vista collezionistico. Stampe e dipinti moderni illustravano la storia del libro sulle pareti affrescate a colori vivaci. Ma per magnifico che fosse, il locale si differenziava dalle altre librerie della città soprattutto per l’assoluta mancanza di opere commerciali dai propri listini. La politica di vendita prediligeva titoli che avessero evidente valore letterario e artistico scartando tutti i libri che i proprietari non reputavano degni di tale etichetta. A giudicare dalle copertine Primus ebbe l’impressione che la libreria fosse specializzata principalmente nei generi del Fantastico e della Fantascienza e davvero vi si poteva trovare di tutto. Dai primi, timidi precursori dell’800 agli ultimi e affermati scrittori particolarmente validi. Ci andò insieme a Richard il giorno seguente, dopo aver dormito a casa di Jack, e saltando una mattinata di lavoro. E mentre l’amico gli faceva da Cicerone indicandogli l’ordinata disposizione dei volumi, l’area adibita a caffè letterario dove si tenevano diverse presentazioni ogni mese e il piccolo bar adiacente, nella sua mente vorticavano le emozioni ben più incisive della curiosità e un vago timore che non sapeva identificare. Avrebbero trovato un altro messaggio di Altha? L’avrebbero incontrata lì o avrebbero parlato con qualcuno disposto a chiarire loro una parte del mistero? Oppure avrebbero vissuto qualcosa di completamente diverso? Per tentare di calmarsi cominciò a sfogliare distrattamente qualche libro a caso, lanciando fuggevoli occhiate verso le commesse e i clienti nella speranza che qualcuno si fe avanti.

“Mi sento stupido.” disse a Richard, mentre fingeva di sfogliare un libro con una vistosa copertina a macchie colorate di cui non aveva neanche letto il titolo, “forse è inutile per noi essere qui. Siamo arrivati da almeno mezz’ora e ancora nulla. Penso che non caveremo un ragno dal buco e tutto si risolverà in un’enorme, fantasmagorica bolla di sapone.” Almeno lo sperava, anche se una vocina nella sua testa gli diceva di non illudersi eccessivamente. “Eh?” Fece l’altro in tono atono. “Ho detto che mi sento un idiota.” Richard lo guardò: “Parla piano, c’è gente.” E indicò due ragazze che frugavano davanti a loro scegliendo e scartando alcuni titoli e un signore di mezza età che sfogliava con aria interessata un grosso volume sulla Storia Americana del ventesimo secolo. “Che cosa ci facciamo qui?” Lo incalzò Primus, sottovoce, “non sappiamo neanche cosa cercare.” “Il biglietto parlava di questa libreria, no? Adesso ci siamo. Dobbiamo solo aspettare.” “Vorrei avere la tua capacità di autocontrollo.” ò le dita sulla serie completa dei racconti di Poe tra i quali spiccava un’edizione superlusso de Il pozzo e il pendolo. Richard aggiunse: “Rilassati: qualcosa accadrà.” Lui assentì ma non disse altro. Preso dallo sconforto, afferrò un altro libro a caso e si diede a sfogliarlo sovrappensiero. Non si curò di un’ombra che si parò tra lui e l’amico fino a quando non sentì una voce sottile, maschile, che diceva: “Secondo me il suo amico ha ragione.” Sollevò gli occhi sul nuovo arrivato e vide il tizio che prima sfogliava il saggio sulla storia americana del ventesimo secolo apparentemente intento a scartare i libri di Poe in favore di altri. L’uomo non sembrava fare il minimo caso a loro, ma d’altra parte non poteva essere stato qualcun altro a parlare.

“Ha detto qualcosa?” Gli chiese. L’uomo lo fissò con aria distratta: “Ti sbagli, amico, non ti ho detto niente.” Ma quella voce riprese: “È inutile che guardi da qualche altra parte, signor Valance. Qui non c’è nulla che può interessare chi non acquista un libro.” Stupito dall’affermazione, tornò a fissare l’uomo che ora si stava allontanando da lui, evidentemente insoddisfatto. Adesso ne era assolutamente sicuro: quell’uomo gli aveva rivolto la parola. “Che strano.” Mormorò e fissò di sottecchi Richard che al contrario di lui esibiva una compostezza invidiabile. Subito dopo un ragazzo sui sedici anni gli si parò davanti, guardandolo fisso. Aveva un’aria sfrontata e una massa confusa di capelli neri: “Penso che dovrebbe comprare un libro, signore.” Primus guardò Richard con aria interrogativa: “Hai sentito?” Gli disse. Richard scosse la testa: “Cosa avrei dovuto sentire?” “Questo ragazzo…” Ma non c’era nessuno davanti a lui. “Era qui, di fronte a noi.” Spiegò, confuso. Non capisco. Forse le nostre visioni cominciano a divergere? “Hai avuto una visione?” “No, non credo.” Gli raccontò quello che aveva creduto di vedere: “Forse è uno pseudo ricordo, non so.” “Compra un libro, allora.” Suggerì l’amico, “forse è quel che dovremmo fare. Io comprerò questo.” Alzò un volume facendolo emergere da un mucchio bene ordinato composto dai romanzi di London, Melville, dalle poesie di Joyce, dai racconti di Bradbury e da molti, moltissimi altri. Primus guardò il frontespizio e lesse il titolo: “Gabbiani delle stelle.” Disse. “Sì, è il libro che dà il nome alla libreria. Ho saputo che i proprietari sono grandi fan di questo Autore.

“Mai sentito nominare.” Ribatté lui, perplesso, “Che te ne fai?” “Da bambino ho sempre amato le storie di mare e spesso i libri su cui mettevo le mani accennavano a questo libro in un modo o nell’altro,” Richard ò un’amorevole mano sulla copertina, “non ne ho mai visto una copia prima d’ora. Deve comunque essere un arrivo recente.” “Non lo definirei un libro di grido ma se è quello che vuoi compralo pure. Dio, vorrei essere da tutt’altra parte!” “Forse anche tu dovresti comprarne uno, non credi? Altrimenti perché quell’Altha ti avrebbe detto di venire qui?” “Una copia basta e avanza. Secondo me dovremmo parlare con quella commessa laggiù. Magari potrà dirci qualcosa.” Indicò una ragazza dai corti capelli a caschetto, vestita di scuro, impegnata a dare il resto a un cliente, “probabilmente è solo questo ciò che dobbiamo fare.” “Compra un libro. Altha lo ha mandato a te il biglietto.” Primus sbuffò: “Ok!” Pescando a caso prese un volume dalla copertina azzurra e si diresse verso la cassa. Arrivati al bancone si misero ordinatamente in fila dietro una donna robusta ma agghindata all’ultima moda. Inguainata in una minigonna troppo corta per le sue gambe, aveva l’aria di credere che le sue cinquanta primavere fossero invisibili al resto del mondo tranne che a se stessa. A Primus venne da sorridere, ma non disse nulla. Prima di lei c’erano un ragazzo e una ragazza. La cassiera, che ora poteva vedere distintamente, era una brunetta dall’aria attenta e disponibile; afferrò il volume che la ragazza le porgeva: “Vedo che questo libro sta piacendo molto.” Le disse con un bel sorriso, rivelando due fossette ai lati delle guance. “Sono una fan dell’Autore.” La ragazza parlò con una voce sottile e sgraziata, “a casa ho tutti i suoi libri. Questo è l’unico che non avevo.” “Quindi non è un regalo.” Chiese la commessa facendole l’occhiolino. “Oh, no.” Rise lei, dandole una banconota da venti dollari, “è solo ed esclusivamente per me.” Aprì la mano dalle dita esili per ricevere il resto che mise con destrezza in una capiente borsa color sabbia e si allontanò dalla cassa.

Toccò alla donna di mezza età e di nuovo la commessa attaccò bottone. Primus pensò che fosse la politica del locale; cortesia e chiacchiere in cambio di una clientela affezionata e disposta a tornare di nuovo. Stava cominciando a irritarsi. Quando finalmente arrivò il loro turno Richard porse il suo libro alla commessa che immancabilmente disse: “Ha comprato il libro giusto, signore.” “Questo libro è nei miei sogni da quando ero piccolo.” Ecco che comincia a blaterare anche lui. Diamine! Primus sospirò. La ragazza rise: “Complimenti! Non è da tutti interessarsi fin da bambini alla filosofia popperiana.” Stupito, Richard guardò il suo libro, ‘I tre mondi’, di Karl Popper. “Ma io non ho scelto questo libro.” La ragazza lo guardò fisso: “Ne è sicuro?” “Certamente!” “È una splendida rappresentazione del mondo-mondo, in effetti. Ha fatto bene. Con questo libro potrete farvi un’idea di quello che succede, se integrato con l’altro. Quattordici e cinquanta, prego.” “Tornerò allo scaffale e ne sceglierò un altro.” “Se non lo compra ora dovrà farlo in seguito.” Lo avvisò la ragazza, “e c’è gente in coda. Si sbrighi.” I due uomini si fissarono un attimo. Dietro di loro una donna filiforme e anziana disse qualcosa che non capirono ma il tono era inequivocabilmente ostile. C’erano almeno altre sei persone in fila e a Primus sembrò impossibile che la coda si fosse allungata in quel modo in un così breve lasso di tempo. Richard pagò il libro, sconsolato, e la commessa disse: “E adesso la prego di lasciar are il signor Valance.”

Mi conosce? Il libro di Richard è cambiato. Perché? La ragazza davanti a loro sembrava ora un automa, una bambola. Forse era collegata a qualcosa che la faceva parlare a comando. Si scosse da quel pensiero inutile e, trovandosi in imbarazzo a causa dei mormorii di disapprovazione dietro di sé lanciò una fuggevole occhiata al suo libro e lesse ‘Critica della ragion pura’, di Kant. Non aveva mai letto Kant né aveva voglia di cominciare a farlo, ma pur di togliersi da quella scomoda situazione lo avrebbe acquistato lo stesso. Porse il volume alla commessa: “Anche lei ha fatto la scelta giusta, signor Valance. Questi racconti sono stati il mio pane per tanti anni.” Racconti? Guardò un’altra volta il volume: “Sulle ali di Althaira”, lesse con stupore. “Lei mi conosce?” disse, “è un’amica di…” esitò, “Altha?” La commessa non gli rispose, ma continuò a parlare come se non lo ascoltasse affatto: “Ho cominciato a essere un’avida lettrice all’età di 14 anni, sa?” aggiunse imperterrita, “non avevo generi preferiti e leggevo di tutto. Dalle ricette per dolci ai classici della letteratura, dai fumetti ai romanzi d’amore e quelli di Fantascienza. E da allora ho continuato a leggere, soggiogata da una fame inesauribile di parole scritte, mondi composti di fuoco e ghiaccio impressi in quelle pagine. Sono stati i libri i compagni della mia fanciullezza e per causa loro ho rifiutato le amicizie, i primi amori, l’aria aperta. Non mi chieda il motivo perché non lo conosco.” Sorrise, “ comunque, di certo questo è il libro giusto.” Le rivolse un sorriso sbiadito, annuì, pagò il dovuto e si liberò dalla coda che li opprimeva. Uscì dalla libreria in preda a molti dubbi e altrettante domande. Il libro che aveva scelto Richard era diventato un’altro e la stessa cosa era accaduto al suo. Ecco il motivo della libreria. Ma il quadro generale non era affatto più semplice di prima. “Fammi vedere il tuo libro.” Disse a Richard. A sua volta gli porse il suo e afferrò il grosso tomo popperiano cominciando a sfogliarlo: “Nella prefazione non ci sono messaggi.” Disse pensieroso.

Lo sfogliò in lungo e in largo, controllò la quarta di copertina, le note del curatore, scelse una pagina a occhio ma non trovò nulla che potesse spiegare il motivo di quella visita alla libreria: “In questo libro non c’è nulla.” Richard alzò gli occhi su di lui: “Qui si, invece.” Solo allora ricordò la commessa che, indicando quello che lui credeva un libro di Kant, aveva invece parlato di racconti. Alzò gli occhi sul volume e invece di un testo di filosofia scoprì un libro assai più snello dalla copertina azzurra su cui campeggiava il titolo ‘Sulle ali di Althaira’. “Non è il libro che ho scelto io.” Disse. “Althaira.” Disse Richard, “per questo ti ha detto di venire qui. Questo libro è scritto da lei?” “Lo sapremo presto.” Afferrò il volume dalle mani dell’amico e aprì la copertina. Dall’indice si rese conto che si trattava di una raccolta di sei racconti con una breve prefazione. Almeno a giudicare dalla rilegatura e dalle minuscole dimensioni dei caratteri, usate con l’evidente proposito di risparmiare spazio, gli parve un’edizione economica. In un certo senso gli ricordava il genere di libri che pubblicava lui. Edizioni tirate in un numero limitato di esemplari destinati a un pubblico ridotto. Minima spesa, massima resa. Poi lesse un dettaglio che attrasse la sua curiosità. Il primo dei racconti era intitolato ‘Althaira’. Una coincidenza davvero singolare. “Sfoglialo.” Sbottò Richard, eccitato dalla scoperta. Ma nessuna di quelle pagine era scritta. Tutto il racconto era in bianco con la sola eccezione della pagina numero quattro che recava la frase:

Io sono Altha. Quando tu sei nato, io sono nata. Ho dato vita ai tuoi sogni, soffio fuoco nel ghiaccio delle tue vene. Di me rimbomba la tua consapevolezza.

Si chiese quale potesse essere il significato del messaggio. Sfogliò il libro ma trovò che anche il resto delle pagine erano bianche, nessuna esclusa. Stava per gettarlo via quando per qualche oscuro motivo lo richiuse e sbirciò sull’aletta di copertina posteriore dove trovò l’altra parte del testo:

Tu non sei quello che credi. Nessuno di voi lo è! Ciò che tu sei è parte di me. Leggi attentamente il libro di Popper. Solo così potrai sapere dove sei, tornare da me e scoprire la Verità.

Altha

Primus alzò lo sguardo su Richard: “Non è tantissimo per tirare avanti, vero?” Richard scosse il capo: “Hai scelto tu questo libro?” “No, io ne ho preso uno a caso ed è venuto fuori un libro di Kant. Credo che il reparto dove abbiamo prelevato i libri fosse quello riservato alla filosofia.” “Eppure quello che hai in mano è un libro di racconti.” “Ma ci sono solo pagine bianche, a parte i due messaggi.” Primus sospirò. “E quella commessa? Chiaramente si tratta di un’altra manifestazione. Ho osservato bene la gente dietro di noi. Pareva far caso al vostro discorso, ma ho come avuto l’impressione che non sentisse le vostre parole. Come se ci vedesse ma non potesse ascoltarci. Era una strana sensazione.” “Ne sei sicuro?” Primus si fermò di colpo sul marciapiede. Richard assentì: “Si, ormai sto cominciando ad abituarmi a questi fenomeni. La gente dietro di noi non ha visto né sentito nulla. Ha visto solo noi e forse pensava che stessimo perdendo tempo. È come la tua vicina di casa, come la postina. Queste cose accadono solo a noi.”

Ricominciarono a camminare costeggiando le vetrine. “Dobbiamo vedere Jack.” Disse Primus, “dobbiamo sapere se anche lui ha visto qualcosa questa mattina.” Trovarono la macchina esattamente dove l’avevano parcheggiata. Di fronte alla vetrina di un’armeria specializzata in armi bianche e fucili per autodifesa, la ‘The Perfect Predator’. Il motore della Trans Am antracite di Primus sussultò un po’ in fase di avviamento, poi le gomme ritrovarono il giusto grip sull’asfalto e l’auto si fiondò nel traffico senza esitazioni. “Continuo a non afferrarne il nesso di tutto questo.” Esclamò Richard mentre abbassava i finestrini. Il sole era particolarmente torrido e la macchina aveva il condizionatore fuori uso. L’aria cominciò a rinfrescare a fiotti l’abitacolo regalando ai due amici una piacevole sensazione di sollievo. Richard osservò: “Ogni cosa ha un senso, ma è proprio come ha detto ieri Jack. Non abbiamo un quadro coerente, non sappiamo ancora quale sarà l’aspetto del puzzle, una volta completato. È come se avessimo solo poche tessere del mosaico.” “Il libro di Popper,” Continuò Primus, “cosa pensi di trovarci? E perché noi non saremmo noi?” “Deve essere tutto in questo libro. Dovremo studiarlo bene.” Richard si allungò sul sedile, mentre l’auto percorreva di buona lena Life’s Book Street, diretta verso nord. ò davanti alla familiare fila di negozi che, da bambino, Primus aveva visto tante volte e che non erano mai cambiate. Poi, senza alcun preavviso, schiacciò con forza il pedale del freno sterzando bruscamente verso destra. Le gomme stridettero con un suono lamentoso inchiodandosi sull’asfalto e subito seguirono gli schiamazzi degli altri automobilisti che li tallonavano. “Che diavolo ti prende?” Proruppe Richard, “e meno male che avevo le cinture!” Una vecchia Nissan del ’99 in perfette condizioni lo superò di striscio, mentre le altre macchine si adeguarono al nuovo cambiamento di programma. Primus ignorò le urla e gli insulti e sgattaiolò fuori dal veicolo senza fornire

alcuna spiegazione. Si fermò davanti a uno spazio vuoto, accanto a un negozio che vendeva articoli per la casa e a un altro specializzato in abbigliamento. Una transenna in legno, completa di lampade da segnalazione notturne e fasce elastiche per allontanare i curiosi, divideva il varco dal marciapiede. Un attimo dopo lo raggiunse anche Richard e insieme si sporsero in avanti per osservare una spianata di terra assolutamente inusuale, senza alcuna traccia di fondamenta o cemento. Poi, come se si fosse improvvisamente alzata una folata di vento gelido, Primus cominciò a rabbrividire. Provava la sensazione che fosse il suo corpo a diventare più freddo e non il mondo circostante, e di nuovo si sentì stanco, svuotato, come se non avesse fatto altro che scaricare materiali pesanti da un camion. Intanto, il vento gelido lo attirava e lo respingeva e lui dovette tenersi alla transenna per non essere risucchiato da quella forza misteriosa. “La senti anche tu?” Biascicò, ma Richard aveva lo sguardo stupito. Sembrava che non capisse o forse non era interessato dal fenomeno. Intanto, il flusso delle invisibili oscillazioni era potente, ma riusciva a mantenere l’equilibrio senza cadere al di là. Con un moto di paura si chiese cosa sarebbe successo se si fosse lasciato trascinare. La gente gli ava accanto senza dare segno di capire ciò che stava succedendo. Guardando i anti, ebbe l’impressione che i loro volti cambiassero colore per poi diventare trasparenti come lastre di vetro. Come se una gigantesca gomma da cancellare si abbattesse su di loro e sul mondo-mondo intero, cancellando e ripristinando tutto. Fu impressionato da quelle sensazioni e un conato gli salì alla bocca dello stomaco. Aveva la nausea. Dovette controllarsi per non vomitare addosso a qualcuno. Riuscì ad allontanarsi quel tanto che bastava per non accusare più quelle odiose sensazioni, ma si sentiva sempre più stanco e si ritrovò ad ansimare. Guardò verso Richard che lo fissava, interdetto. Un attimo dopo l’amico gli rivolse la parola ma a lui sembrò che fossero ati anni, forse eoni, da quando aveva sentito l’ultima volta la sua voce. Richard gli pose una mano sulla spalla: “Che ti succede?” “Mi sento morto.” “Andiamo, ti riporto alla macchina.” “No!” Primus lo allontanò con un gesto deciso, “devo controllare una cosa. Và in macchina e aspettami, sarà una faccenda veloce.”

Vide l’esitazione comparire sul volto dell’amico, ma fu irremovibile. Mentre Richard tornava sui propri i, lui visitò il negozio di abbigliamento, il ‘Moda Per Tutti Gli Intelligenti’, e chiese informazioni a un impeccabile commesso. Ripeté la stessa cosa con quello che vendeva articoli per la casa e infine tornò all’auto. Richiudendo lo sportello, le cerniere fecero uno stridore metallico. “Che succede?” Chiese Richard, interdetto. La fronte di Primus era sudata e aveva il fiato corto: “Nulla.” Abbozzò un sorrisetto, “di nuovo quella sensazione di freddo e stanchezza. Sto bene ora.” “Sei sicuro?” “Adesso siamo su Leyla’s Street, vero?” Accese il motore e s’immise nuovamente nel traffico. “E allora?” “Dov’è la profumeria ‘Woman’s Destiny’?” “Da queste parti.” Richard ancora non capiva. “Nello spazio davanti al quale mi sono fermato, in effetti. Ora non c’è più e al suo posto abbiamo visto uno spazio vuoto. Lo hai visto?” “Sì, ma non ci ho fatto caso. Per questo sei andato in quei negozi?” Primus lo fissò: “Il personale di entrambi dice la stessa cosa: non esiste alcuna profumeria con quel nome, non in questo quartiere, almeno.” “Allora il fenomeno non è più circoscritto agli oggetti che ci riguardano da vicino. Il nostro mondo-mondo sta cambiando.” “Oppure sta svanendo.” Lo corresse Primus. Vedendo stamparsi la paura sul volto di Richard aggiunse: “Chiama Jack e digli di andare a casa mia. Se non la trova più allora le nostre sono qualcosa di più che manifestazioni riservate a noi. Vediamo queste cose, ma gli altri no; ormai non sono solo gli oggetti che ci riguardano a subire alterazioni. È come se la realtà scorresse in modo differente per noi e il resto della città.”

“Diciamo invece che scorrono per te e per noi in modo diverso che per gli altri.” “Che vuoi dire?” “Io non mi sono accorto dello spazio vuoto dove prima c’era la ‘Woman Destiny’. Tu hai le percezioni un istante prima di me e a volte sperimenti cose che io non noto.” “Non ci avevo pensato. Il mio indice di Capacità Immaginifica, naturalmente.” “E cos’altro? Aggiungi che i messaggi di questa Altha sono sempre rivolti a te, almeno fino a questo momento, ma nonostante questo anch’io e Jack siamo interessati da questa tua consapevolezza, a differenza del resto del mondo. Perché?” Primus lo fissò: “Ne so quanto prima, Rick, però mi chiedo se anche il resto del mondo sia così. Forse hanno cominciato a svanire molti edifici, oggetti e persone. Mentre me ne stavo davanti a quello spiazzo vuoto ho sentito come delle vibrazioni, una qualità dell’aria o Dio solo sa cosa, e ho visto i volti della gente sbiadire gradatamente. Come se perdessero colore, capisci?” “Dobbiamo leggere il libro di Popper.” Disse Richard, e il suo tono era serio. Primus annuì: “Ma prima dì a Jack di andare a controllare casa mia.” Richard tirò fuori da una tasca il suo telefonino mentre Primus tacque, continuando a guidare. Le macchine lo sorarono, il tempo continuò a scorrere, la gente ad attraversare i marciapiedi, parlare ai cellulari, vivere. Lui, però, non vedeva più il mondo-mondo né prestava attenzione a quel che vi succedeva. Non in quel momento. Provava la sinistra sensazione che dovesse accadere qualcosa di enorme da un momento all’altro, senza nessun preavviso. Era un pensiero assurdo, lo sapeva bene, ma non poteva non pensarci. Ci sarebbe voluto del tempo per capire, o almeno per tentare di capire, cosa volessero dire quelle visioni, quei misteriosi messaggi. Ma una vocina nella sua mente gli diceva che il tempo continuava a scorrere e che, forse, non era illimitato.

Il buio gli girava intorno, silenzioso, languido come una sottoveste in seta che scivoli via dal corpo di una bella donna. E a Primus quella donna mancava

nonostante intuisse che fosse pericoloso averci a che fare. Come se non bastasse, essere in casa di Jack non gli consentiva di dare libero corso ai suoi desideri. Naturalmente sapeva che se soltanto l’avesse desiderata con intenzionalità, probabilmente Lei sarebbe venuta a trovarlo ma non era quello il momento. Ma in situazioni come quella ne sentiva la mancanza, desiderava la sua presenza. Era sempre così quando attraversava periodi bui, quando si sentiva particolarmente in tensione. Stava meglio solo tra le braccia di Lei, come in un bozzolo delicato e sensuale, al riparo dal mondo esterno e dalle sue responsabilità. Cercò di non pensarci, respirando piano al buio, disteso sul divano letto che Richard gli aveva assegnato, nel suo salotto. Le ombre scure della notte rigiravano impazienti sul soffitto della stanza, ma il sonno non ne voleva sapere di venirlo a trovare. La sua mente era troppo scossa, i suoi muscoli troppo tesi. La sua casa era sparita nel nulla e nessuno diceva di saperne niente. La profumeria ‘Woman’s Destiny’ aveva fatto la stessa fine lasciando al suo posto una spoglia distesa di erbacce che copriva la superficie dell’area dove un tempo era sorto il negozio. Un’entità che si faceva chiamare Altha inviava altre donne, o sue manifestazioni, per recapitargli messaggi che definire criptici sarebbe suonato come un semplice eufemismo. I suoi amici cominciavano, ormai, a verificare le sue stesse sensazioni. Le sue certezze si stavano sfaldando inesorabilmente ma di una cosa era sicuro. Che a prescindere di come si sarebbero svolti gli eventi futuri, la sua vita non sarebbe stata mai più la stessa e questo pensiero incoraggiava la sua ansia impedendogli non solo di dormire ma anche di pensare lucidamente. E del resto ne aveva tutti i motivi. Difficilmente nella vita di un uomo capitano così tanti avvenimenti inspiegabili, di così vasta portata. L’indomani avrebbero discusso ancora una volta dei flebili indizi a loro disposizione ma era ovvio che l’enigma che li opprimeva era destinato a restare tale se non fosse intervenuto qualcosa che potesse aiutarli a scioglierlo in qualche modo. Quella stessa sera, Richard cenò a casa di Jack e aveva riferito che anche la sua casa era scomparsa lasciando come ricordo un desolato spazio vuoto. Aveva chiesto a due o tre persone del suo vicinato se sapessero qualcosa dell’accaduto ma tutti avevano giurato che in quella strada non esisteva alcuna casa a suo nome. Tutti e tre si erano scambiati impressioni sui libri acquistati alla libreria ‘Gabbiani delle Stelle’, ma non ne sapevano più di prima. Quanto a lui, Primus sapeva che la sua sensibilità troppo elevata aveva un nesso con quel che stava

accadendo, lo sentiva. In momenti del genere, e ormai si facevano sempre più frequenti, avvertiva nascere in sé la rabbiosa consapevolezza che la sua famiglia avesse sbagliato tutto con lui fin dall’infanzia. Nessuno, neanche i suoi genitori, aveva mai sospettato la portata delle sue possibilità d’interazione con il mondomondo, ma adesso le cose stavano cambiando. E non in bene. Con un lungo sospiro si alzò dal letto improvvisato, con il sonno che ormai si era dileguato del tutto, e si accostò alla tozza finestra che dava luce al piccolo salottino. Scorse l’ombra della notte che dal cielo si riverberava su tutto e che pareva pesante, di piombo, e affondava fino al fondo del cemento, fin sotto di esso come una lama che affondi nel burro fuso. E dall’inenarrabile vuoto che viveva urlò la propria solitudine in silenzio. Portò con sé l’oscurità e le tenebre sul mondo. Si ritrovò a pensare a quando aveva undici anni, un periodo d’oro, per lui, un periodo in cui la sua famiglia sembrava unita. Erano stati gli anni più piacevoli della sua vita, anni in cui aveva pensato a giocare e sognare e la sua Capacità Immaginifica aveva sostituito gli amici, i videogiochi, i film, i primi amori infantili. Era sempre stato un bambino diverso dagli altri, più portato alla contemplazione solitaria del mondo-mondo che ai giochi dei suoi coetanei. Riservato per natura, non aveva mai legato davvero con gli altri e se ora poteva dire di avere degli amici erano relativamente recenti, non più di una decina d’anni, in effetti. Fino alla maggiore età aveva pensato soltanto a coltivarle, quelle capacità, e quando non studiava correva in macchina tutto il giorno su e giù per Long Island, dove allora viveva, con la musica ad alto volume nelle orecchie e la voglia di sognare nel cuore. Aveva cominciato a scrivere e pubblicare racconti molto presto, intorno ai sedici anni, e li aveva venduti in qualità di gost-writer. Aveva avuto anche una ragazza che lo amava e la possibilità di seguire un corso di laurea promettente. Poi era successo l’inizio della fine, e come spesso accade era stato inesorabile. La sua ragazza era morta all’improvviso, a soli ventidue anni, e lui era precipitato nel caos mentale. Ma era stata la sua famiglia a dargli la botta mortale. In quella casa le sue giornate erano state sempre uguali, monotone, prevedibili nella propria imprevedibilità. Era stata tutta una guerra in quella casa. Una guerra per logorare i nervi. La nonna che si lagnava di avere chissà quali malori (era malata, a sentire lei) e invece stava meglio di tutti. Suo zio che prendeva fuoco per ogni nonnulla. E ogni volta tutte le parti cercavano di tirare Primus dalla propria coinvolgendolo nelle loro beghe, gridandogli contro, dicendogli i loro segreti.

Per questo, appena avutane la possibilità se n’era andato, anche se aveva sempre provato l’impressione che ormai fosse troppo tardi. I danni erano già stati fatti. La sua giovinezza, il periodo più bello della vita di un essere umano, era stata privata della sua parte più spensierata. Lui l’aveva persa, consumata dalle urla della sua famiglia. Erosa da battaglie senza senso, parole urlate che pesavano come macigni, che rotolavano vomitate dalle fiamme dell’inferno, che volavano verso il soffitto per poi ricadere come lingue di fuoco. Poi era arrivata la maggiore età e con essa la consapevolezza che nel mondo-mondo esistevano flagelli come la Peste-per-Tutti. Ma i suoi non lo avevano capito. Lui aveva tentato di avvertirli, ma quando si è soli è difficile combattere contro uno status-quo. Così, come per tutti, anche lui aveva visto gli argentei, che da ragazzino avevano cominciato a fargli perdere i capelli, diventare qualcos’altro. Mutare nella seconda variante, avida e sporca, che rischiava di rovinare le sue vie nasali, di farlo ammattire. E anche lui aveva iniziato a vivere l’alternasi delle stagioni con un’ansia morbosa, invadente, che non era nient’altro se non quella di prima che ora si era riciclata per metterlo in guardia dalle malattie. Perché nessuno poteva dirsi al sicuro da esse, nessuno al mondo. Nutrendosi di Paura e Solitudine, era vissuto in uno stato di relativa apatia evitando come la morte i luoghi affollati, limitando le uscite invernali allo stretto indispensabile e tremando come un fuscello se la pioggia lo trovava senza ombrello. Si era un po’ rasserenato quando aveva cominciato a capire che molti, nel mondo-mondo, seguivano rigidamente quelle regole non scritte per evitare alla società di arrestarsi e al mondo di finire. Che strano. Aveva sempre pensato che il ato rimanesse sepolto. Che non esistesse più, che non potesse più raggiungerlo. Ma invece si stupì di se stesso quando avvertì le prime, timide lacrime solcargli il viso, i suoi occhi farsi di brace, mentre quelle gocce di ricordi incandescenti rotolavano via, lontane e vicine, arrivavano sul pavimento, avviluppavano i suoi piedi nudi come un caldo sudario. E in tutte quelle lacrime c’era un significato, un ricordo, un frammento della giovinezza che non aveva saputo vivere. E per esorcizzare quelle paure aveva cominciato a immergersi in strane immagini, sogni vividi che in seguito avrebbe trasformato in racconti. Lui li

raccoglieva soltanto. Non lo abbandonavano mai e gli avevano dato la forza di andare avanti, di non farla finita. Di non provare a bucarsi o a prendere pasticche. Ed era diventato bravo anche nel suo lavoro. Quando era riuscito ad andarsene via, verso il suo destino, la sua Capacità Immaginifica gli era corsa incontro dandogli la possibilità di guadagnare qualcosa scrivendo. Questo non aveva fermato le sue lacrime e a volte si svegliava nel cuore della notte con il cuscino fradicio e il cuore che gli batteva all’impazzata nel petto. Aveva sperimentato sulla sua pelle nuovi modi di provare Paura, nuove angosce che altro non erano se non la stessa che si riciclava di volta in volta per l’occasione. Come una casa cui venga cambiata il colore dell’intonaco ma restando sostanzialmente identica a se stessa. Così si era sentito lui, così aveva vissuto. Poi, negli ultimi anni, era apparsa Lei e le cose sembravano essere migliorate. Quella donna gli aveva portato sensualità e bellezza e lui aveva cominciato a uscire di più, a frequentare meglio quei pochissimi amici che era riuscito a conoscere. La vita aveva riacquistato sapore per Primus Valance, dopo anni in cui il solo gusto che aveva conosciuto era quello salato dei ricordi. Ma proprio quando le cose avevano cominciato a ingranare nel modo giusto ecco di nuovo la mazzata. La Paura che non lo aveva mai abbandonato. Invece, gli aveva concesso una pausa, un piccolo angolo di tempo che non significava nulla in confronto all’eternità. La Paura poteva aspettare, ne aveva facoltà, ma intanto adesso l’esile filo della sua esistenza aveva ricominciato a cedere. Era a questo che doveva guardare per sciogliere l’enigma? Al suo ato? Non lo sapeva. Domandò a se stesso cosa avrebbe potuto fare, di chi avrebbe potuto fidarsi ma non trovò risposta. Con un sospiro contemplò le stelle per un tempo infinito, ignorò il freddo e la paura della Pesteper-Tutti, sfidando l’oscurità nel suo stesso cuore. Milioni di pensieri lo travolsero, milioni di visioni riverberarono sui suoi occhi. E quando sentì una voce femminile pronunciare il suo nome non si voltò. Pensava fosse Lei e rabbrividì di piacere. Era in casa di Jack e sapeva che non avrebbe potuto toccarla o abbracciarla. Ma era contento che fosse venuta. Nonostante quel che gli aveva raccontato Richard. “Primus.” Ripeté la voce, e le sue labbra s’incurvarono in un sorriso. “Mi sei mancata.” Disse semplicemente, ma i suoi occhi erano troppo avidi di ricordi e non voleva che lo vedesse in quello stato. “Non sono Lei, Primus.”

Qualcosa si ruppe nella sua mente e la sensazione di gelo, la detestabile Paura del Niente lo avvolse. “Chi sei, allora?” E la sua voce tremò. “Non aver paura. Non di me. Voltati.” “Va’ via, non voglio avere contatti con un’altra donna che non sia Lei.” “Lei non ti ama.” Le tempie cominciarono a pulsargli di rabbia. Si voltò e vide una forma indistinta. Ripeté la domanda: “Chi sei?” “Tu mi conosci da sempre.” Silenzio. Solo buio inframmezzato da striscioline di luce provenienti dalle stelle silenziose, immote ma mobilissime, che lo osservavano danzando nell’Eternità. Silenzio, nonostante il rumore della notte, quello delle auto che sfrecciavano venti piani più sotto, il suono del mondo-mondo intero. “Ti ho chiesto chi sei.” Sbuffò allora, “non è gentile apparire in questo modo senza uno straccio di presentazione.” Un sospiro, il suo, che si mescolava alla delusione neanche tanto recondita che quella forma nel Buio non fosse Lei. Un altro sospiro, ma stavolta era femminile: “Io sono Altha.” Spiegò la Voce, e lui scoprì che era bello ascoltarla, farsi accarezzare da essa. Dava un senso di pace assoluta. “Tu sei l’entità che si diverte a inviarmi quegli strani messaggi.” Nessuna risposta. “Molto grazioso, da parte tua.” Aggiunse sarcastico. Lentamente la nebulosa figura assunse contorni più nitidi e provò un’acuta sensazione di disagio.

“Sei una donna? Vieni dal ato?” “Io sono da quando tu sei.” Esclamò allora la Voce, “Non devi aver paura di me. La mia anima aleggia nel tuo universo che mi sussurra il tuo nome. Tra sentieri di ghiaccio mi parla di arcani misteri e solitudine. E nel tuo io più profondo mi rivedi bella, mentre tendo le braccia verso di te con i capelli inghirlandati di rose. Dove io vivo, nel Mare dell’Eternità che ci diede i natali, parliamo con onde di luce, i nostri sogni danzano insieme a noi nella notte stellata, e la luna ci carezza come il vento fa con le onde del mare.” La voce di lei era un canto melodioso, costituito da milioni di arpe che suonavano all’unisono. Su quel suono Primus provò la sensazione di librarsi, ma il suo timore e la sua rabbia erano troppo grandi per lasciarsi andare. “Un altro dei tuoi criptici messaggi.” Primus strinse i pugni, furioso. “Perché non mi riveli cosa succede alla mia vita invece di parlare per enigmi?” “Perché devi arrivare da solo alla Verità e per farlo devi avanzare per gradi. Piccoli i, Primus, quelli più importanti della tua vita.” “Fatti vedere meglio.” La voce di Primus non accettava tentennamenti. “La mia essenza è difficilmente spiegabile a parole e non può essere percepita davvero tramite i sensi fisici, ma cercherò di soddisfare la tua richiesta.” Apparve una forma più definita, ma non come lui avrebbe desiderato. Era una forma curiosa, qualcosa che sembrava racchiudere in sé ben più di un aspetto fisico. Milioni, innumerevoli colori si alternarono davanti ai suoi occhi e solo raramente quella luce assumeva i contorni di visi riconoscibili. Altha, chiunque fosse, possedeva ogni forma e nessuna, ogni suo colore aveva una qualità evanescente, i suoi occhi erano sprazzi di luce nelle tenebre, guardavano qualunque cosa con tranquillità. Come se ciò di cui era costituita fe parte in realtà di un unico, super essere senziente che aveva il potere di trovarsi ovunque e in nessun luogo. Vicino a lei, Primus divenne consapevole della propria fragilità. Sentì le proprie gambe che vacillavano, ma il senso di oppressione al petto che aveva provato fino a pochi momenti prima era scomparso. “La mia casa è stata distrutta. Perché?”

“Lei ti vuole.” “Lei mi ama!” Primus strinse i pugni, testardo, “Di te non ho mai saputo nulla fino a questo momento.” “Guarda il libro che hai comprato,” la voce di Altha si mantenne calma e vibrante, quasi monotona nella sua matematica dolcezza, “e se leggerai bene quello di Popper mi troverai.” Ciò detto, l’entità disparve e Primus tornò solo. Restò a contemplare lo spazio vuoto che si stendeva tra sé e il mondo e rabbrividì. Intanto, il primo sole cominciò a fare capolino all’orizzonte buttando i suoi raggi in tremuli spicchi di luce, disegnando arabeschi luminosi sul pavimento. Era il momento di tornare alla sua solita vita fatta di paura e solitudine. Si toccò il viso e vide che la sua pelle era asciutta. Si chiese da dove provenisse Altha, quale fosse la sua vera origine. Quale il senso delle parole che gli aveva detto. Era stanco, non aveva chiuso occhio, e lo aspettava una giornata dura, fatta di lavoro e Paura. Le sue insicurezze sorsero prepotenti dagli abissi della mente facendolo nuovamente tremare, riportandogli quella detestabile sensazione di freddo. Eppure, nonostante le sue molteplici paure di una cosa soltanto era sicuro. Che di quella donna, reale o immaginaria che fosse, non avrebbe mai fatto svanire il ricordo.

6

La sera del giorno seguente Jack e Richard se ne stavano seduti al centro del salotto dell’appartamento del primo, al numero 6 di On the Ocean of Time Boulevard, nei pressi della contea di The Woman that Wispers in the Wind City, la più elegante ed esclusiva tra quelle confinanti con Celestia. Benché avesse condiviso con loro il turno in redazione, Primus non era ancora arrivato perché era stato richiamato da Parson e così avevano dovuto separarsi. La stanza non era spaziosa e del resto non si poteva dire che tutto l’appartamento, nel suo complesso, fosse particolarmente grande. Il suo proprietario, però, lo giudicava sufficiente per le proprie necessità, soprattutto perché apprezzava la visione incomparabile della città durante le ore notturne grazie al fatto di essere ubicato al trentunesimo piano. Davanti ai due uomini c’erano piatti e posate di plastica provenienti, insieme alla cena, da una delle tante rosticcerie che facevano anche servizio a domicilio. “Spero che Parson non lo tenga incollato ancora troppo tempo.” Jack guardò pensoso il grosso orologio appeso a una parete, “sono quasi le otto di sera e io sto morendo di fame.” Masticava appena alcune patatine fritte prendendole dall’enorme scorta che si era fatto recapitare insieme a panini farciti, tranci di pizza e fette di torta alla frutta che avrebbero costituito il loro dessert. “Mi sembrava molto stanco oggi.” Commentò Richard, con un filo di voce. Si sentiva inquieto. “Non te lo ha detto?” Jack divorò un’altra patatina tentando di non esagerare prima che arrivasse l’amico, “questa notte non ha dormito quasi per niente e pare che quella donna, Altha, sia venuto a trovarlo alle prime luci dell’alba.” “Ecco un dettaglio interessante.” Ora anche Richard aveva sollevato tra il pollice e l’indice una patatina fritta e la guardava pensieroso. Il senso di appiccicaticcio dell’olio che avvertiva sui polpastrelli solleticava anche il suo di appetito, “cosa gli ha detto?”

“Niente di nuovo a parte insistere sul dare un’occhiata ai libri che abbiamo acquistato alla libreria del centro.” “La ‘Gabbiani delle stelle’. Se penso a quante volte ci sono andato…” La voce di Richard esprimeva tutta la sua perplessità. Prese un altro paio di patatine fritte dopo aver inghiottito la prima. Jack annuì: “Suggerisco di cominciare a discutere dei fatti curiosi che sono accaduti in questi giorni prima di dare un’occhiata ai libri. Non penso che Primus tarderà ancora per molto, non credi?” “D’accordo.” Richard fece da parte il suo piatto prima di buttarcisi sopra a corpo morto, si ripulì le dita dall’unto e mise i due volumi sul tavolo, “Da quale vuoi cominciare?” “Potremmo elencare tutti i fatti strani che sono successi fino a ora per cercare di metterli in relazione con i libri.” “Ma ‘Althaira’ è vuoto! Vi sono solo pagine bianche.” “Per ora sì, ma può darsi che le cose cambino da qui a poco, chi può dirlo?” “Va bene.” Richard si rassegnò, pose un foglio da carta sul vecchio tavolo in legno, ricordo della madre di Jack, e scribacchiò qualcosa leggendo ad alta voce: “Vediamo, tutto è cominciato con le visioni di Primus ma su quelle non possiamo essere sicuri di nulla. Le ha sempre esperite e potrebbero essere del tutto normali per uno come lui.” “Cominciamo dai biglietti che ha ricevuto.” “Giusto!” Richard scrisse, volenteroso, “Ha detto che sono cominciati dopo aver cercato di abbordare una sconosciuta che gli ha dato un foglietto.” “Abbiamo il testo del messaggio?” “Li ha tutti Primus.” “Prosegui.” Richard sospirò: “In redazione ha ricevuto la visita di una certa Liira Rosenthal

che gli consegna un secondo messaggio. Nello stesso giorno ha una visione dove un’altra donna, presentatasi come un argenteo, gli ha detto che il luogo in cui si trovava si chiamava…” Richard esitò. Non ricordava il termine usato da Primus. Stava per aiutarlo Jack ma in quell’attimo si aprì la porta della stanza e apparve Primus con un’espressione tesa in volto. Jack la notò immediatamente: “Sei arrivato! Che mi sono perso?” “È scomparso il Writer’s Magazine.” Due paia di occhi lo guardarono inebetiti: “Che hai detto?” Primus non disse nulla, limitandosi a sedersi al tavolo. Richard continuò: “Vuoi ripetere, per favore?” “È scomparso, tutto qui. Scomparso nel nulla. Eppure ci ho lavorato tutto il giorno. Quando ho finito di lavorare sono uscito e subito dopo ho avvertito una scossa sul selciato. Quando mi sono voltato era scomparso, dissolto con tutto il palazzo! Come se non fosse mai esistito.” tremava, “ho girato anche sette edicole, ma nessuno ha mai sentito parlare del nostro luogo di lavoro. Per quasi dieci anni sembra che abbiamo lavorato in un posto fantasma.” “E naturalmente nessuno ne sa niente!” Jack era sconvolto. “Non è tutto. Mentre guidavo mi è sembrato di avvertire un’altra sorta di scossa sotterranea, come un terremoto. Ho visto alcuni palazzi cominciare a tremare e…” Primus esitò, “sbiadire e riapparire sotto i miei occhi. Il nostro mondomondo sta svanendo un pezzo dopo l’altro. ” “Non ho più fame.” Richard si alzò e cominciò a far scorrere lo sguardo da un capo all’altro della stanza, “É terribile. Mi chiedo quando toccherà a noi.” “Che stavate facendo?” Primus guardò il cibo che giaceva mestamente nei piatti. Non era stato praticamente toccato. Jack disse: “Cercavamo di compilare una lista dei fatti assurdi che stanno capitando in modo da cercare un filo conduttore, un punto comune. Poi vedremo i due libri che avete comprato.”

“È inutile. Il filo comune lo conosciamo già. È chiaro che sono all’opera due entità in grado di controllare tutto quel che facciamo o vediamo. In qualche modo, dal loro operato dipende la sparizione della mia casa, della profumeria, del nostro ex giornale e di Dio solo sa cosa!” “I messaggi sono troppo oscuri. Che ti ha detto quella Altha? Cerca di ricordare più dettagli possibili. Potrebbe essere importante.” Jack afferrò un panino con tutte e due le mani, poi lo rimise sul piatto. Aveva la nausea. “Un momento!” Fece Richard, “Dimentichiamo un particolare; a me quella donna ha detto: ‘tu non esisti’. Pensate ci sia un collegamento con la sparizione delle nostre case e degli altri edifici?” Jack riafferrò il panino e stavolta ne staccò un grosso boccone che cominciò a masticare lentamente: “È possibile. Come si chiama il luogo da cui la donna della tua visione, al giornale, ti ha detto di provenire, Nescium?” “Esatto!” Jack inghiottì il boccone, poi aggiunse: “Sappiamo che gli eventi sono collegati. Sappiamo che stanno scomparendo i luoghi che ci riguardano tutti in un modo o nell’altro e che il resto della città li ignora. Allora non sono solo gli oggetti a scomparire quanto l’intera memoria delle persone. Altrimenti avrebbero dovuto ricordare, per esempio, che le vostre case, il ‘Woman’s Destiny’ e il Writer’s Magazine esistevano realmente, no?” “È vero.” Primus fece un mesto sorriso, “Questo vuol dire che esiste un disegno dietro tutto questo e coinvolge tutti quanti, anche se i protagonisti di quest’assurda storia siamo soltanto noi. Gli altri sono come le comparse di una pellicola. Le loro esistenze ruotano intorno alle nostre.” “Ecco un privilegio di cui farei tranquillamente a meno.” Jack scrollò le spalle massicce. “Allora la tua intuizione sulle due entità è esatta.” Richard sospirò rumorosamente, “la chiave è in quei libri.” “Sono sempre stato allergico alla filosofia. Popper, poi!” Jack non completò la frase, in compenso finì il suo panino e afferrò una manciata di patatine fritte. Gli era tornato l’appetito.

Primus aprì il libro di Popper e si mise a sfogliarlo. Diversamente dall’altro era completamente scritto. Non era però stampato. Tutte le pagine risultavano coperte da una fitta calligrafia. Sollevò lo sguardo su di loro: “Sapevate che è scritto a mano? Quando è cambiato?” “Prima che tu arrivassi era stampato normalmente.” Lo informò Richard. “La calligrafia è femminile,” Primus sfogliò altre pagine, “ed è molto ordinata. È un altro messaggio, senza dubbio.” Continuò a sfogliare il libro e mentre lo faceva, un’immagine apparve nella sua mente. Quella della donna che era venuta a trovarlo prima dell’alba. La calligrafia doveva essere la sua. Seguì un brivido che lo scosse profondamente, una sensazione che partiva direttamente dalla sua mente. La trovò quasi piacevole. Era come se mille dita gli carezzassero la nuca, il volto, i capelli. Dita affusolate, animate di tranquilla dolcezza, che si prendevano cura della sua anima. Si rese conto che ciò che stava provando riguardava il libro che aveva in mano. Agitate da una consapevolezza nuova che non apparteneva completamente a lui, le sue mani si tesero, sfogliarono pagine e il suo cervello assimilò le informazioni fornite da quella minuta calligrafia. Immagini riaffiorarono dal suo ato, ma erano troppo confuse perché potesse riconoscerle, eppure sapeva che facevano parte di un qualcosa che aveva già vissuto. Qualcuno o qualcosa stava agendo sulla sua struttura cerebrale per fargli assorbire quelle nozioni e quel qualcuno non poteva che essere la donna misteriosa della sera prima, Altha. Quando risollevò gli occhi su Jack e Richard disse: “So che cosa dice questo libro.” “Un’altra visione?” “No, Jack. Qualcuno ha fatto appena in modo che io assimilassi subito le sue informazioni, come se in realtà le conoscessi già.” “Non sapevo che conoscessi Popper.” Lo incalzò Richard. “Finora non lo conoscevo, infatti. Me lo ha detto Altha.” “Cosa c’è scritto? Non possiamo perdere altro tempo. Dobbiamo muoverci, e rapidamente, anche.”

Jack ansimò. La sua fronte stillava gocce di sudore, “Ti senti bene?” Gli disse Richard. “Sto bene. Solo un po’ d’ansia.” Primus riprese: “In questo libro si parla del mondo tri-partito, un mondo costituito da tre stati diversi ma comunicanti tra loro. Popper li chiama Mondi uno, due e tre. Il primo riguarda gli oggetti fisici; del secondo fanno invece parte gli stati mentali. Il terzo, infine, riguarda i cosiddetti contenuti oggettivi di pensiero costituiti in massima parte da pensieri scientifici e artistici.” “Bene.” Mormorò Jack con un sorrisetto di sfida: “Non ne capisco più di prima.” Primus sorrise a sua volta: “D’accordo. Richard ami ‘Sulle ali di Althaira’. Credo che abbiamo dimenticato un dettaglio importante di questo libro. Chi è Althaira?” “Ricorda Altair,” Osservò Richard, “è una delle dodici stelle più luminose del nostro cielo.” “Ma ‘Althaira’ ricorda chiaramente anche Altha.” Disse Primus, “Dobbiamo scoprire perché questo libro è vuoto.” “Con tutto il rispetto, ma continuo a non capirci nulla. Andiamo con ordine.” Jack afferrò un altro panino ormai freddo e gli diede un morso. Masticò un po’, poi lo rimise nel piatto con una smorfia di disgusto, “questa roba è terribile, fredda.” Mormorò. Primus disse: “Cercherò di farvela semplice: Popper afferma che il nostro mondo si divida in tre parti. Questo libro, per esempio.” Sfogliò ‘Sulle ali di Althaira’, “fa parte del mondo uno perché è un oggetto fisico. Un qualcosa, cioè, che possiamo vedere, toccare, percepire con i nostri sensi. Nonostante questo, esso continua a esistere anche nel cosiddetto mondo due, che poi è quello della nostra esperienza soggettiva. È chiaro per tutti?” “Puoi spiegarti meglio?” Fece Jack. Primus annuì: “Diciamo che se questo libro fosse scritto apparterrebbe al mondo uno, come ho già detto, anche per via delle sue pagine scritte, fatte cioè di materia concreta. Pagine che possiamo toccare e leggere. Tuttavia, le stesse

pagine comunicherebbero in chi le leggesse delle idee, giusto?” “Giusto!” “Le idee farebbero parte del mondo degli stati mentali, il secondo, appunto. Insomma, da una parte abbiamo il libro, stampato, oggettivamente reale. Ma allo stesso tempo abbiamo anche il linguaggio composto dalle parole scritte sulle pagine. È il nostro linguaggio a rendere reali le nostre idee. Mi seguite?” Jack annuì. “Qual è il mondo tre?” Fece Richard. “Ci stavo arrivando. Il mondo tre è composto esclusivamente dalle idee. Un universo astratto ma non per questo meno reale degli altri due. È il mondo delle nostre astrazioni siano esse paure, speranze, progetti mentali, teorie, ispirazioni artistiche.” “Ricapitolando,” sbottò Richard, “il mondo due sarebbe quello della nostra esperienza soggettiva? Delle cose cioè che vediamo, tocchiamo, odoriamo. Quello che viviamo insomma.” Primus scosse la testa: “Il mondo due è costituito dagli stati mentali che esperiamo a partire dal mondo uno. Questo libro è mondo uno. Quando lo leggo il mio cervello genera stati mentali che fanno parte del mondo due. Ciò che penso di esso dopo averlo letto fanno parte del mondo tre. Faccio un altro esempio: questo tavolo, il panino che Jack ha divorato con così tanto impegno,” Jack ghignò, “la nostra pelle, le mani, questa casa, tutto ciò fa parte del primo mondo. Anche la mia voce che adesso ascoltate è mondo uno, perché composta da suoni che possiamo percepire attraverso il nostro udito. Ma c’è dell’altro. Un concetto è un nome, le idee hanno altri nomi. Le idee cui giungiamo come uno spartito o il senso di un romanzo sono il mondo tre. Gli oggetti del mondo tre non possiamo toccarli, non li percepiamo attraverso i cinque sensi, ma esistono comunque al di fuori di noi. Come se fossero fantasmi, entità disincarnate ma non per questo irreali, anime ed essenze che aleggiano in uno stato perennemente legato al nostro mondo concreto, il mondo uno, ma allo stesso tempo avulse da esso. È come se l’essenza di questo libro, il suo significato, fosse la sua anima. Non la vediamo, ma sappiamo che esiste da qualche parte. Questo ‘qualche parte’, lo ripeto, è il mondo tre. In breve, esso è composto da pensieri e opere fatte da noi e da tutti gli altri esseri umani. Ecco cosa dice il

libro di Popper. Afferma che esistono tre mondi. Il mondo uno, che è quello degli oggetti fisici. Il mondo due, che riguarda le nostre esperienze, i nostri desideri e le nostre paure. Il mondo tre è infine l’universo che deriva dalle nostre esperienze, dai desideri e dalle nostre paure. In altre parole, dai prodotti del mondo due, mondo quest’ultimo che potremmo chiamare il mondo dell'animo e della mente umani.” Richard afferrò dalle mani di Primus il libro e lo sfogliò distrattamente: “Tutto questo è molto interessante, ma cos’ha a che fare con noi?” Primus lo guardò: “Ma non capite? Altha ci sta dicendo che quello di Popper è un modello affidabile del nostro mondo-mondo! Nella nostra esperienza quotidiana chiunque sperimenta sensazioni extra percettive, anche se in misura diversa a seconda dei soggetti, no? Alcune di esse sono frutto del nostro ato, dei nostri ricordi. Altre volte derivano dal futuro o da proiezioni del nostro stato d’animo. Probabilmente questa suddivisione ci darà la chiave per capire chi sia Lei e anche la stessa Altha” “Senza offesa,” Richard scosse la testa, “ma preferirei qualcuno che mi dicesse cosa diavolo succede in modo chiaro e conciso invece che in questo modo. Non sarà cominciando a parlare di filosofia che riporteremo le cose al loro giusto posto.” “Forse ciò che sta accadendo è inevitabile.” Osservò Jack, “forse era già programmato che accadesse, chi può dirlo?” “Nella mia ultima sensazione extra percettiva Altha non mi è apparsa subito chiaramente come fa Lei. Era una forma iridescente e instabile. Quando le ho chiesto di farsi vedere meglio mi ha risposto che la sua vera essenza non è fatta per essere spiegabile con le sole parole. E tuttavia mi si è mostrata sotto le sembianze di una donna diafana, quasi pallida ma serica, dalla voce melodiosa. La sua visione mi ha dato un senso di vertigine ma anche una pace assoluta. Mi ha detto che non sono pronto per vedere il suo vero aspetto e che devo arrivare fino a lei per scoprire la Verità.” Jack disse: “Ti fidi di una donna che non hai visto veramente in faccia, di cui ignori l’aspetto reale e le ambizioni?” “Devo farlo. Quale alternativa abbiamo? Nel caso non te ne fossi accorto il nostro mondo-mondo sta svanendo e la strada che ci lasciamo alle spalle già la

conosciamo. Non abbiamo altra scelta se non quella di andare avanti. E per farlo dobbiamo lanciarci nell’ignoto.” In quel momento Jack aprì la bocca per dire qualcosa, ma nessuno riuscì a sentirlo. Si verificò una sottile distorsione nel Tempo, come un segnale televisivo disturbato da interferenze. Fu solo per un istante e dopo il fenomeno si ripeté. Primus lo vedeva muovere la bocca, gesticolare normalmente con le mani come faceva di solito quando s’infervorava su qualcosa, ma non ne sentiva più la voce. Guardò allora Richard che gli restituì l’occhiata con uno sguardo interrogativo. Poi cominciò anche lui ad allontanarsi come se la superficie del tavolo che li divideva avesse assunto una consistenza gommosa. Non sa perché stia accadendo questo fenomeno. Loro si stanno allontanando da me. Perché? Gli vennero i sudori freddi. Aveva paura. Paura che svanisse com’era capitato alla sua casa, ai negozi. Forse in quello stesso istante altri oggetti nella città o nel mondo-mondo stavano svanendo e tutta la gente veniva istantaneamente riprogrammata per non farvi caso. Forse anche la strada che aveva percorso per essere lì era già stata inghiottita dal vuoto più assoluto, lasciando di sé null’altro che una vasta piana ondulata di Nulla. Non aveva forse avvertito le prime avvisaglie di un terremoto? E se fossero state qualcosa di diverso da un terremoto? Se il ragionamento che avevano appena fatto era corretto ed esistevano realmente due entità che controllavano tutto quanto, forse erano esseri che giocavano con loro come se fossero fantocci, regalando falsi ricordi alle persone allo scopo di non far vedere la Verità. Verità! Ma qual è la verità? Da chi mi devo guardare, da Altha o da cos’altro? Qualcosa che ancora non ho visto? Poi avvenne un ulteriore cambiamento e gli giunse una voce lontana. Una voce remota milioni di chilometri nello spazio e nel tempo, persa in qualche angolo dell’universo. E in quella voce riconobbe il timbro di Jack. Lo rivide come attraverso la superficie di uno specchio. Lo rivide che stava parlando normalmente senza dare segno di aver capito che c’era qualcosa che non andava. Alzò una mano e Jack esitò, provò ad annuire e l’amico riprese a parlare. Capì in questo modo che non era scomparso, che solo la voce di Jack era lontana, ma

non i loro corpi. Loro tre erano ancora al centro della stanza e l’appartamento continuava a esistere. Non erano morti, non erano stati ridotti a pallide ombre di loro stessi. Era già qualcosa. Avevano ancora una speranza. Una folata d’aria gelida investì la stanza e lui non seppe spiegarsene il motivo. L’unica finestra era ermeticamente chiusa e fuori non faceva poi così freddo. Eppure il gelo ghiacciò le sue ossa, arrivò al suo cuore e lo torse con dita aliene. Primus urlò dallo stupore e terrore che mescolati insieme componevano una sensazione di devastante isolamento da tutto e tutti. Allora urlò una seconda volta e la sua voce si perse in rivoli sul pavimento, divenne visibile. Vide le parole, i suoni che le costituivano solidificarsi davanti ai suoi occhi, vibranti, pulsanti, repellenti. Li vedeva fluire via dalle teste dei suoi amici sotto forma di idee, pensieri, emozioni, paure. Poteva leggere le loro menti come se fossero fogli di carta scritti in modo perfettamente comprensibile. Di nuovo ebbe Paura e il gelo continuò a impossessarsi di lui, inesorabile e silenzioso. Ma Jack continuava a parlare tranquillo, come se non si accorgesse di nulla. Primus sapeva che Jack lo vedeva, i suoi occhi guardavano lui e Richard. Ma i suoi amici non lo sentivano esattamente come lui non percepiva più le loro voci. Le nostre realtà diventano parallele? Che cosa significa? Le parole continuavano a fluire verso l’alto. Si chiese se anche le sue idee fluissero nella stessa direzione; allora alzò gli occhi e vide il Buio. Era una qualità aliena dello spazio, del mondo fisico che vedeva di fronte a sé. Là dove c’era il soffitto e il vecchio lampadario a tre bracci della stanza, Primus percepiva ora un qualcosa senza angoli o dimensioni che accoglieva le idee e i pensieri dei suoi amici. Inghiottiva le loro parole. Se ne nutriva come fosse una cosa viva e senziente. Una cosa in attesa. In attesa di loro. La sensazione di freddo cominciò ad aumentare sempre più. Si accorse di tremare. Si sentiva sempre più affaticato, stretto in una morsa di ghiaccio; il suo cuore aveva rallentato i battiti. Rischiava di morire assiderato e l’oscurità cominciò a espandersi sopra di lui, invase le cose, gli oggetti visibili, i mobili della stanza. Lentamente il Buio avanzava inghiottendo tutto, le pareti del salottino, i piatti sul tavolo, la stessa superficie in legno del mobile. Allungò una mano con le ultime forze che ancora gli restavano e sentì la realtà del legno. Il tavolo non era

scomparso, era solo avvolto nel buio. Tutti loro lo erano. Jack e Richard scomparvero alla sua vista. Solo le loro parole erano visibili, luminose come lucciole mostruose, e fluivano, fluivano sempre più veloci verso l’alto. Avvertì un alito caldo, al suo orecchio, che diceva il suo nome. Fu quello il momento più terrificante, per lui. Il più ancestrale attimo che provò perché sebbene quella voce fosse delicata come un sussurro ne avvertiva l’osceno desiderio di controllo e dominio. Un qualcosa che sapeva di annichilazione totale. Con uno sforzo sovrumano tentò di articolare frasi coerenti o di fuggire via, ma né il suo corpo né le sue labbra obbedirono agli impulsi del suo cervello. Era solo uno strumento, una marionetta nelle mani di un destino più grande di lui e del mondo-mondo. “Ti desidero.” Sussurrò la Voce. Paura, molta Paura. “Devi essere mio!” Il ghiaccio avanzava. “Soltanto io non ti abbandonerò mai.” Il suo cuore sussultò. Stava entrando in ipotermia e presto avrebbe esalato l’ultimo respiro. È finita! E il suo pensiero si espanse e superò i bastioni del Tempo. Risuonò in quello sterminato spazio vuoto che era la stanza di un appartamento come tanti al numero 6 di On the Time’s Ocean. Un appartamento che ormai era diventato l’universo intero fatto di ghiaccio, tenebre e suono. E quei tre elementi, insieme, erano tutto l’Infinito. Fu in quell’attimo che un altro pensiero risuonò nella sua mente, rimbombò nel suo cervello assordandolo con il suo fragore. Un fragore gentile che però feriva. Feriva il Buio. Lo dissolveva. Altha e Althaira… sono la stessa cosa. Io… sto… morendo… Il suo cuore pulsava ancora, ma era debole. Un suono roco echeggiò in risposta al suo pensiero, un urlo di pura malvagità che lo cercava, impotente, dopo averlo stretto negli artigli fino a quel momento. Poi il ghiaccio divenne meno solido,

ruscellò via da lui. Lentamente le forze gli ritornarono. Due pallide figure gli ricomparvero davanti facendosi sempre più solide man mano che quell’essere fatto di Buio si ritirava. Ora non vedeva più le parole fluire dalle loro teste. Erano state sostituite dai contorni di oggetti più familiari. Un orologio dal quadrante laccato di bianco che ticchettava alla sua sinistra, le pareti color giallo pallido del salotto, il ripiano del tavolo. Ma non erano soli perché sospesa poco sotto il soffitto vide una macchia di tenebra oscillare pigramente, come una grossa vescica, ritmicamente. Tendeva a fondersi con le altre ombre masticandole, assimilandole. Non aveva occhi, né voce, né arti visibili. Era solo una massa scura e gelatinosa nella propria estraneità eppure era convinto che fosse viva. Era l’essere-Buio di prima. C’era un collegamento tra lui e quella cosa. Un legame dal significato oscuro. Oscillava gravando su di loro come una coltre di piombo. Poi si dissolse come una macchia di ghiaccio sotto un sole rovente e gli ultimi residui del gelo che ancora lo assalivano scomparvero. Jack e Richard acquistarono la loro normale solidità e di nuovo sentì le loro voci: “Sei di nuovo qui.” Disse qualcuno con la voce di Richard. Primus restò in silenzio, come se tra loro ci fosse un abisso invisibile. Poi disse: “Vi ho visto scomparire.” “No!” E Jack ritornò udibile, “Tu sei scomparso eppure non provavo nulla. Ero senza emozioni.” “Abbiamo assistito alle nostre reciproche dissoluzioni?” “Credo di si e anche tu stavi scomparendo. Abbiamo visto i tuoi pensieri. Voglio dire, quelli che sembravano pensieri. Parole, le tue idee. Il fenomeno presentava oscillazioni ritmiche molto veloci,” Replicò Richard, “non ho mai provato sensazioni così realistiche ma concordo con quanto dice Jack. Io stesso consideravo il fenomeno normale e la cosa mi lascia francamente perplesso.” “È la stessa cosa che ho visto io riguardo a voi.” Ribatté calmo Primus. Non disse loro della grossa macchia scura e amorfa che aveva visto. Non c’era motivo per non dirlo, avrebbe potuto essere un dettaglio importante, ma non ne ebbe la forza. O la volontà. Una voce sbottò, ed era quella di Jack: “Guardate!”

Sulle prime, né Richard né Primus capirono. Avevano pensato che dovessero guardare di fronte a loro, ma ciò che Jack indicava era molto più vicino. Incise sulla superficie del tavolo, una mano femminile aveva tracciato con estrema precisione questo messaggio:

Verum: Mondo Uno. Sensum: Mondo due. Nescium: Mondo Tre. Voi fate parte del Sensum. Lei vi aveva quasi presi. Non posso proteggervi se non state uniti. Altha Il silenzio li avvolse e per un istante il Buio parve sul punto di tornare di nuovo. Nella stanza appena rischiarata dal vecchio lampadario a tre bracci l’aria si era fatta quasi palpabile. Il libro di Popper era scomparso, inghiottito definitivamente dal Buio. Anche la frase incisa ebbe vita breve. Poco a poco si dissolse come se non fosse mai esistita. Solo il libro di Althaira continuava a esistere indifferente, vicino a loro ma remoto al resto del mondo che lo circondava. Emanava una pallida luminosità e pulsava, esattamente come Primus aveva visto pulsare il Buio, pochi istanti prima. Brillava come se avesse una sua propria luce. Quel messaggio, l’esperienza che avevano sperimentato tutti e tre, costituivano un altro tassello di una visione d’insieme che stava lentamente prendendo forma. “Altha è dalla nostra parte, allora.” Esclamò Primus con voce tranquilla. Gli altri lo guardarono: “Non è detto!” “Ma vi rendete conto di ciò che ha scritto?” Jack aveva gli occhi spiritati, “che noi siamo nel Sensum.” Richard domandò: “Saremmo come le pagine scritte di un libro?” “Non abbiamo uno straccio di prova di questo.” Ruggì Jack, “neanche uno. Sarebbe come fidarsi della prima persona che incontriamo per strada.” “Io mi fido di lei.” La voce di Primus si elevò sulle altre, “se ci voleva morti avrebbe potuto distruggerci quando voleva.” “Ma se non sappiamo neanche quale sia il suo vero aspetto!” Jack rise, ma fu una risata amara, spaventata. Anche lui era preda della Paura. Come tutti.

Richard disse: “Come facciamo a sapere se ciò che dice Altha è affidabile oppure no?” “Non lo so, ma sono certo che in un modo o nell’altro arriveremo alla Verità. Questo libro”, Primus afferrò ‘Sulle ali di Althaira’, ma senza sfogliarlo, “forse fa parte di lei. Ci ha detto di stare uniti, no? Forse dobbiamo essere uniti nel fidarci di lei. Altrimenti ciò che è accaduto prima potrebbe ripetersi e non sono sicuro che finirebbe allo stesso modo.” Primus lanciò un’altra occhiata al libro che adesso aveva finito di brillare. Ripensò all’orribile chiazza di Buio che aveva visto pochi momenti prima e rabbrividì. Forse i messaggi di quella donna sconosciuta erano la loro ultima speranza per non cadere preda del Buio. Di quella cosa oscena e pulsante che li attendeva per dissolverli, consumarli, assimilarli. Lanciò un’altra occhiata al libro ma quando esso scomparve a sua volta si sentì perduto. Poi si accorse che anche Richard era scomparso e l’ansia minacciò di trasformarsi in panico. Fece uno sforzo su se stesso per controllarsi. L’orribile macchia era svanita e forse anche il libro non c’era più perché aveva esaurito il suo compito di informarli. Forse Richard si era alzato un attimo per una ragione qualunque. Non poteva saperlo. Portò una mano nella tasca dove conservava tutti i messaggi di Altha ancora in suo possesso. Era certo che fossero la sola possibilità che avevano per uscire dalla notte di una Paura ancestrale composta di rabbia e argentei. Per uscire da un mondo senza posa, senza speranza, al buio.

Richard si accomodò meglio sull’elegante divano in pelle beige, aspirando lunghe e voluttuose boccate dal suo sigaro al gusto di vaniglia. La luce elettrica del lampadario e quella assai più luminosa del sole che filtrava dalla finestra non lo infastidivano affatto, mentre osservava pensieroso le ombre del giorno che giocavano a rincorrersi lungo le pareti della stanza. Si sentiva leggermente stordito, come se avesse fatto baldoria e ora ne pagasse lo scotto. Ma a parte la serata con i suoi amici non ricordava altro. Con un brivido ripensò alla manifestazione extra percettiva della sera prima che aveva coinvolto tutti e tre. Verum, Sensum e Nescium. Erano concetti assurdi che non poteva accettare. Tutto il mondo che conosceva,

tutte le esperienze che aveva vissuto fino ad allora non sarebbero state più le stesse se le parole di quella Altha avessero trovato una conferma. C’era da perdere la ragione al semplice pensiero. Ma visto quel che stava succedendo onestamente non sapeva se temerlo o sperarlo. Il fumo si allargava in rivoli vaporosi e per un attimo si chiese per quale motivo stesse fumando. Non l’aveva mai fatto in vita sua tranne qualche anno prima, quando aveva cominciato a fumare sigari come quello che reggeva tra le dita, attratto dal loro profumo ma non da una reale attrazione per la nicotina. Una sorta di vezzo personale. Lui adorava quel genere di cose, ma pensava che l’ultima scatola l’avesse terminata da tempo. Un’occhiata all’orologio gli confermò che erano le nove del mattino e che quella era la sua casa. Non ricordava di esserci tornato ma non aveva importanza. O forse la sua casa si era dissolta? Ricordò che nonostante avesse discusso con veemenza, la sera precedente Jack era riuscito a spazzolare quasi tutta la cena. Sorrise, divertito da quel pensiero. Notò un oggetto sul tavolinetto in mogano, accanto a lui, su cui troneggiava una pesante lampada in vetro e metallo che aveva acquistato diversi anni prima in un negozio di Los Angeles specializzato in pezzi d’arredamento. Alla base della lampada c’era una giarrettiera di pizzo bianca con un piccolo fiocchetto azzurro. Incuriosito, spense il sigaro sul piccolo portacenere per esaminarla meglio. Come era capitata in casa sua? Fu proprio in quel momento che starnutì e il naso gli divenne umido. Pericolosamente umido. Un orrendo sospetto cominciò a farsi spazio nella sua mente e inghiottì la saliva mista a Paura. Quanti soldi ho nel portafogli? Posso chiamare un’ambulanza? Aprì il cassetto del comodino, quello dove conservava il suo accuratissimo Piano Strategico Anti Peste-per-Tutti, e cominciò a leggerlo con attenzione. Qualche istante dopo, perplesso, si rese conto di non aver mai stilato quel foglio e che non si trovava affatto in casa sua. Si domandò se fosse quella di Jack. Non ricordava quel particolare e questa constatazione lo fece cadere preda di uno strano timore. Si rese conto all’improvviso di avere freddo, troppo, per essere nella bella stagione. Il suo fiato divenne visibile e cominciò a tremare letteralmente dal freddo. L’aria si era fatta ghiacciata. La Paura crebbe e più i brividi lo scuotevano più il suo alito si solidificava in oblunghi listelli di ghiaccio che precipitavano sul pavimento con un suono secco.

E così seppe che la Paura bussava alle porte della sua consapevolezza chiedendo di essere ascoltata. Chiedendo di vivere. Si ritrovò a piedi scalzi sul pavimento. Gli argentei amano il freddo. Ci sguazzano. Dagli un po’ di freddo e loro ti daranno in cambio un bel po’ di Peste-per-Tutti. Gemette a questo pensiero, starnutì, andò alla finestra e lanciò un’occhiata fuori. Forse la Peste-per-Tutti stava per impadronirsi di lui. Fuori non c’era nulla che non andava e il sole splendeva alto in un cielo terso e senza una nuvola. Si voltò e lo sguardo gli cadde nuovamente sul comodino. Non era roba sua, ci avrebbe scommesso la testa, e anche la stanza in cui si trovava sembrava diversa da prima. Poteva essere di Primus? Non aveva tempo per pensare perché starnutì ancora. Animato da un’ansia incontrollabile aprì un cassetto di un altro mobile e controllò le varie scadenze dei farmaci che usava, ma non vide errori. “Vitamina C Fa Ben, una compressa al mattino per venti giorni. Stacco di tre mesi ed altro ciclo.” Cantilenò, “Bronco San, una compressa al giorno i primi dieci giorni di ogni mese per tre mesi. Poi stacco di tre mesi e secondo ciclo.” Sembrava tutto in ordine. Ma quella non era decisamente la sua casa. E neanche la sua vita. Lui non aveva mai avuto eccessiva paura della Peste-per-Tutti né aveva mai chiamato l’ambulanza. Che gli stava succedendo? Ormai in preda al panico, si precipitò rabbrividendo fuori dalla stanza ritrovandosi in un corridoio ampio che non gli sembrò affatto familiare. Aprì di scatto la porta di una stanza e si guardò nello specchio. Era lo specchio del suo bagno. La temperatura era tornata mite, ma il naso continuava a gocciolare. Guardò la propria immagine riflessa evitando di toccarsi naso, occhi e bocca. Erano le porte di accesso per gli argentei. Era da lì che invadevano il corpo, che prendevano possesso di un essere umano. Una volta invase le mucose del naso prendevano a moltiplicarsi divorando tutto ciò che incontravano. Cellule, vitamine, sali minerali. Aprì il rubinetto del lavandino e mise la testa sotto il getto dell’acqua tiepida. L’acqua disperdeva gli argentei che si erano accumulati tra i suoi capelli durante la notte. Certo, non serviva a molto. Bastava un niente ed eccoli di nuovo lì a rovinargli la vita. Ma almeno quando si lavava era certo di essere pulito. Sterilizzato. “Ma che sto facendo?” Si chiese ad alta voce, “Io non ho di queste paure. La

Peste-per-Tutti l’ho sempre curata con un po’ di antistaminici e qualche giorno di riposo. Non ho mai fatto cicli di terapie. E da quando ho un comodino con tutte le ricette e le profilassi anti Peste-per-Tutti?” L’altro se stesso lo guardava attraverso lo specchio e rabbrividì di nuovo. Allora chiuse gli occhi, cercando di riordinare i suoi pensieri. Ero con Jack e Primus a casa di Jack. Abbiamo parlato di ciò che succede, abbiamo letto il messaggio di Altha. Abbiamo provato l’esperienza di una visione comune. Fu a quel punto che urlò. La sua voce si trasmise alle pareti facendole vibrare, facendole dissolvere: “Non ho paura degli argentei, non io!” Non riconosceva quella casa o forse era una parte di essa mescolata con qualche altra abitazione. La città aveva cominciato a fondersi mescolando ogni cosa con un’altra? E se era così, perché Jack non si svegliava? Perché neanche Primus era accorso? Si guardò nello specchio ma questa volta non si vide più. Il suo doppio era stato sostituito dalle pareti del bagno. Riconobbe alcuni degli asciugamani appesi un po’ ovunque, ma non tutti. Ne era sicuro. Dove sono? “Eccomi.” Disse una Voce alle sue spalle. Un tono caldo, assolutamente calmo, suadente. Il suo cuore ebbe un sussulto. Si voltò, ma non vide nessuno anche se qualcosa nel profondo della sua mente lo avvertiva di non essere solo. No! “Sì, invece!” Percepisci i miei pensieri? “Ogni cosa. Io sono ovunque nei tre mondi.” Richard riconobbe quella voce calda: “Tu sei Lei!”

Senza aggiungere altro scattò fuori dal bagno e percorse tutta la casa, ma per quanta strada fe non ritrovò Jack né Primus. Ciò che vedeva erano solo copie di altri bagni e altri corridoi perfettamente identici a quello che aveva appena percorso. Ma non era possibile. Forse Primus avrebbe potuto evocare quelle sensazioni ma non lui. Non aveva abbastanza capacità Immaginifica. “È un sogno anche questo!” Gridò, “sei tu che ne hai il controllo!” “Bravo il mio scienziato.” La Voce rise. Una risata dal tono cristallino, piacevole, ma con una punta di sottile disprezzo. Arrivò all’ingresso ma aprire la porta era un’altra faccenda. Provò e riprovò la chiave, ma girava a vuoto. Era prigioniero. Come un topino da laboratorio, uno di quegli animaletti che girano in tondo nel loro labirinto osservati dagli scienziati che li studiano, ma il suo labirinto non era grande, aveva solo due stanze. Provò ad abbattere la porta ma l’unico risultato fu di lussarsi una spalla. “Richard, non dirmi che hai Paura!” Cantilenò la Voce. Sì, aveva Paura, molta Paura. Ma nonostante quel che provava non poteva esimersi dall’ammirare lo splendido tono di quella voce sublime. Allora si arrese: “Ti prego, dimmi chi sei!” Implorò. “Mio caro,” disse Lei, in falsetto, “sono la tua amichetta.” Qualcosa di umido gli sfiorò una guancia, qualcosa di umido e caldo. Due labbra invisibili lo avevano baciato. Non ebbe tempo per reagire perché starnutì un’altra volta. “La senti? Sta arrivando.” Ormai fuori di sé filò di slancio verso una delle finestre, afferrò una sedia e la scaravento contro la superficie vetrata. La finestra si comportò come un muro di gomma, accusò il colpo senza incrinarsi e ritornò alla posizione originaria. “Cosa vuoi da me?” Gridò al Niente che lo circondava. “Sei mio!” “No!” Urlò, poi tossì. La voce gli divenne rauca, il naso ricominciò a colargli: “Io non posso avere la Peste-per-Tutti! Non ho paura di lei!”

“È sbagliato anche solo pensarla la Peste-per-Tutti, figurarsi pronunciarla ad alta voce.” Gli disse l’invisibile entità, “se la pronunci ti uccide o almeno, se sei vulnerabile alla sua idea, ci sono altissime possibilità che lo faccia.” “Dio, non voglio. Tutto, ma non la Peste-per-Tutti!” Gemette, accasciandosi sul pavimento. Il freddo tornò, fluendo in lui attraverso le piante dei piedi nudi. Vagava nel suo sistema circolatorio portando la Peste-per-Tutti, portando il terrore. “Vedi che ho ragione?” Ricominciò la Voce, “tu sai che vuol dire avere la Pesteper-Tutti. Arriva e ti solletica il naso, i polmoni, ti brucia la gola, aggredisce le tue tonsille facendole gonfiare. Poi esplodi e tutto quello che ti circonda diventa altra Peste-per-Tutti.” Richard urlò di nuovo ma nessuno poteva sentirlo. Nessuno poteva più aiutarlo, ormai. Non in quel labirinto, non con quella Voce che lo seguiva così da vicino. Non da solo contro l’ignoto. Si accorse di tremare violentemente, sentì le vertebre del collo incrinarsi, il dolore seguì le ramificazioni del suo sistema nervoso, infiammò ogni suo nervo, per quanto piccolo, per quanto periferico. E il freddo lasciò posto al fuoco che lo lambiva con fiamme ghiacciate, lo consumava, mentre quella Voce si faceva più acuta, arrivava al pavimento e gli scendeva nuovamente addosso in un eco senza tempo. E perse per strada i cocci della sua vita che si dissolveva, che scemava, moriva lentamente in un’agonia vista e non vista, sentita o completamente ignorata. Anche il tempo ricominciò a trascorrere diversamente e le ore e poi i giorni arono prima lenti poi sempre più veloci, quasi istantanei, portandosi con sé gli amici e le fidanzate, rotolando via come schegge impazzite, senza controllo, e la direzione che prendeva non era quasi mai a suo favore. Ma non era più lui che conduceva le danze, non controllava più la sua vita. La Voce lo aveva estromesso e non gli dava ascolto. Il mondo-mondo diventava sempre più piccolo, sempre più una prigione. Richard non aveva la forza per combatterli e gli argentei ridevano. Loro sì, loro potevano farlo. Ridere, ballare, danzare, pensare. Loro si alzavano la mattina e andavano al lavoro, si lavavano i denti, baciavano le loro argentee-mogli e via, a vivere un’altra giornata. Ma non lui. Non poteva più. Fu in quel momento preciso che si svegliò. Sbatté meravigliato le palpebre, mise a fuoco l’ambiente di sempre della sua camera da letto. Il calore che aveva creduto di provare, quella sensazione di fuoco ghiacciato, era sparita. Era a casa sua? Non sentiva più la Voce, non provava freddo e neanche caldo. Si scosse.

Ricordò quanto era successo nella serata precedente, ricordò di essere tornato a casa. Non ne sono certo. Con gli occhi rivolti verso una serie di stampe di scarso valore alle pareti rovinò via dal letto imprecando, chiedendosi che diamine stesse succedendo, e subito avvertì un buon profumo di bacon e uova e strapazzate che proveniva dalla cucina. Sulle lenzuola di cotone color pesca vide un reggiseno in pizzo nero e una morbidissima giarrettiera bianca con un fiocchetto blu. Rabbrividì. Sul pavimento in teak vide un foglio fittamente scarabocchiato. Era la sua calligrafia. Lo raccolse e lesse. Era un messaggio di Primus che lo aspettava insieme a Jack a casa dell’amico per le diciotto e trenta. Non ricordava nulla di quell’appuntamento. Non ricordava niente di niente. Lasciandosi guidare dal profumo andò in cucina dove trovò una figura tutta tesa a preparare la colazione. Sul tavolinetto con due sole sedie scorse due bicchieri con succo d’arancia. Una fila di soffici pancakes occhieggiava invitante con il barattolo del miele d’acacia appena aperto. Una caraffa a metà di liquido bollente indicava che non era stato dimenticato il caffè. La snella figura che gli rivolgeva le spalle indossava una raffinata sottoveste nera completamente trasparente. Era bellissima e tutta una curva, con la sua massa di capelli scuri che le scendevano a ciuffi setosi dalla testa elegante. I suoi piedi erano nudi e incredibilmente sottili. Quasi fragili. Il buon profumo delle uova lo stuzzicava ed ebbe la voglia di cingerle la vita con le mani senza neanche chiederle chi fosse. Quando Lei si voltò gli rivolse un sorriso radioso: “Tutto bene?” “Chi sei?” Disse in un soffio. Gli occhi lucenti della donna, due abissi senza fondo, lo fissarono ridenti: “Ci siamo incontrati qualche giorno fa, non ricordi?” “Sei una visione extra percettiva?” “Non proprio, non tua almeno. Ho una buona Capacità Immaginifica, Richard.

Sono io che ti ho trovato. Ti ho visto per la prima volta diversi mesi fa nel visore mondo-mondo dello specchio e ieri ho deciso di conoscerti di persona.” “Sei la ragazza di Primus!” Lei si morse un labbro, guardandolo con desiderio: “La cosa ti dà problemi? Sei stato tu a chiamarmi.” “No, io…” Richard non terminò la frase. L’abbigliamento della sconosciuta la lasciava praticamente nuda ma non sembrava affatto intimidita dalla cosa. Lo sguardo di lui indugiò dove non avrebbe dovuto e la cosa non sfuggì alla donna. Come la volta prima, si rese conto di essere soggiogato da quella bellezza sublime. “Vedo che apprezzi chi si prodiga per te.” Disse civettuola la ragazza, “hai fame?” “Sì!” Ammisero meccaniche le sue labbra. Pensieri vorticosi gli capitarono nella testa portati da un vento strano che si elevava sulla sua consapevolezza. Pensieri che gli parlavano di ricordi confusi, solo che non sapeva se fossero i suoi o di qualcun altro. Primus? Ricordò la donna e il loro chiacchierare per mesi attraverso lo specchio. Ricordò i suoi inviti e lei, maliziosa, che interrompeva sempre il contatto sul più bello. Ma non era sicuro che questi ricordi fossero anche reali. Sono reali? Non conosceva neanche il suo nome. Lei spense il gas e con una paletta di plastica versò un po’ di uova fumanti in un piatto che gli porse con garbo. Mentre lui si sedeva ancora intontito, la donna prese un vassoio con del pane tostato e glielo mise davanti. “Buon appetito.” Esclamò.

Richard si portò una forchettata di bacon e uova alle labbra e la inghiottì. Una piacevole sensazione di calore scese nel suo stomaco facendolo sentire meglio. “Lascia che ti aiuti.” La donna gli levò la forchetta, imboccandolo, poi gli si sedette sulle ginocchia, languida, e lasciò che una piccola quantità di cibo le rovinasse sul decolleté: “Oh, che sbadata!” Sussurrò. Richard era inebetito. Sentiva crescere una forte eccitazione, il profumo della pelle di Lei lo inebriava. Sapeva di femminilità lontano un miglio. Anche la ragazza avvertì le sue sensazioni perché si pose meglio su di lui strusciandosi con desiderio: “Sei di nuovo pronto alla lotta, mi sembra.” Lasciò scivolare via una spallina, poi l’altra facendo sbocciare i seni alti, sodi e bianchissimi. Contrastavano acutamente con la sottoveste in seta trasparente che le giaceva ormai appallottolata lungo i fianchi: “Ti piaccio, Richard? Stanotte mi era sembrato di sì.” “Sì, mi piaci.” Disse lui, con voce resa roca dall’emozione. “E mi desideri, vero?” “Tantissimo.” La sua voce era ridotta a un sussurro. Quella donna sapeva come stuzzicare un uomo. Lei mugolò di piacere continuando a strusciarglisi sopra lentamente: “Vuoi ancora fare colazione?” Gli occhi della donna lo fissarono, suadenti. Labbra umide lo baciarono, dita affusolate s’immersero nei suoi capelli arruffati. Ormai incapace di essere sufficientemente lucido, Richard le strappò di dosso ciò che restava della sottoveste senza più pensare a Primus, al mondo-mondo o a qualsiasi altra cosa. La sua mente era completamente sgombra, come una piana deserta e ondulata sotto un sole implacabile. Era torrida di ione e desiderio. Torrida di Lei. Dolcemente, la ragazza avvicinò alla bocca di lui i suoi morbidi seni. Richard li baciò, chiudendo gli occhi mentre le unghie della donna lo graffiavano sulla schiena, soffocando il piacevole dolore che gli infliggevano nei baci con cui carezzava quella pelle morbida e profumata. Qualcosa si rovesciò sul tavolinetto e un liquido fresco si versò sulle spalle nude della donna prontamente seguito

dallo schianto di qualcosa, un oggetto in vetro, che cadeva sul pavimento. Perso nei fumi di quelle sensazioni riaprì un attimo gli occhi e vide minuti frammenti di uno dei bicchieri sul pavimento. Allora sollevò la sua amante e la adagiò sul tavolo mentre Lei dischiudeva le gambe lunghe e nervose e gli si offriva completamente. La vista di quella bellezza nuda gli offuscò ancora di più la mente, lo rese del tutto incapace di pensare. Afferrò i piedi nudi della ragazza stringendoli piano, per non farle male, per darle il piacere che si aspettava. Per un attimo i loro sguardi si incrociarono. La donna lo aspettava fremente, le labbra semiaperte, la lingua capricciosa che le umettava, invogliandolo. Era inarcata in un lungo e morbido movimento e Richard le posò le mani sull’addome tonico, giocherellando con i minutissimi rilievi di quella pelle delicata. “Voglio sentirti dentro di me.” Gli disse, e il desiderio di lei suonò come un ordine. Non se lo fece ripetere una seconda volta e, denudatosi completamente, la accontentò. La sua amante gemette forte, inarcandosi così tanto che per un momento pensò che potesse farsi del male. Ma quando tentò di muoversi si rivide fermo in quella posizione. Fulminea come una gatta in caccia Lei si rialzò prontamente, avvinghiandolo in un lungo e intenso abbraccio: “Te lo avevo detto che sei mio, Richard Everett Whitesnow!” L’uomo non rispose, non poteva, perché la lingua di Lei si era impadronita della sua bocca e gli impediva di parlare, soffocandolo. In un ultimo guizzo di consapevolezza vide il vero aspetto della creatura che lo ghermiva con tanta foga. Allora sentì il terrore puro che gli invadeva le ossa, consumandolo con implacabile determinazione. Tentò di urlare, cercò di liberarsi di quella stretta ma non poté fare nulla. Folate di pensieri confusi gli attraversarono la mente mentre capiva che erano quelli di entrambi, onde di emozioni che giocavano una con l’altra. Sei mio, Richard. La risata si perse nel Vuoto. No! Ricordi cosa ti dissi in uno dei nostri incontri?

Mio Dio! Sono io che comando, qui! La risata echeggiò ancora tra le pareti della sua mente che collassava, ripiegandosi su se stessa, inesorabilmente. Il freddo tornò e lo portò via insieme a Lei che sempre lo seguiva. Tu non esisti! E quella Voce inesorabile risuonò per lo spazio vuoto che era diventata la sua mente. Fu quello l’ultimo suono che avvertì. L’ultima vibrazione, l’estrema visione che non avrebbe mai più provato. Un suono bello, elegante e raffinato. Il suono delle parole di Lei. E nel residuo guizzo della sua esistenza Richard sorrise senza neanche sapere il perché. Niente emozioni, nessuna vita, alcun sentimento. Non aveva più nulla, non era più nulla. E infine, quando ogni residuo del mondo-mondo disparve, la sua vita si spense.

7

Primus e Jack erano ancora seduti al tavolo. Le luci della stanza si erano fatte fioche e dalla finestra socchiusa proveniva uno spiffero di aria gelida. Più di una volta era mancata la corrente e anche quando era tornata il vecchio lampadario che illuminava il salotto sembrava arrancare nel proprio compito. Seduto davanti a loro Richard era immobile come una grottesca statua di cera, ma con uno sguardo di terrore assoluto negli occhi vacui. Le sue labbra continuavano a muoversi come se fosse impegnato in un vero e proprio discorso, ma non articolavano alcun suono. Jack aveva cercato di farlo svegliare dalla catalessi in cui era piombato, ma tutti gli sforzi erano stati inutili. Era evidente che stava vivendo qualcosa, probabilmente una percezione, e che dovevano aspettare che finisse prima di poterlo riavere tra loro. Nessuno sapeva cosa fare e su tutto era piombata una coltre di silenzio spettrale. Poi, da un punto indistinto dello spazio, forse dal traffico sottostante, arrivò un suono strano. Una nota agghiacciante, calma e inesorabile, ricca di significato. Come scossa da un vento imperioso la finestra si aprì violentemente e una massa d’aria gelida invase la piccola stanza. Primus si alzò e andò verso la finestra per richiuderla. Solo di sfuggita diede uno sguardo fuori ma in luogo della popolosa On the Ocean of Time Boulevard con le sue luci, il traffico e le insegne dei negozi accese, vide tenebre assolute e palpitanti. Buio allo stato puro, senza luci di alcun tipo, naturali o artificiali che fossero. Non si sentiva alcun rumore di traffico e il cielo pareva un unico spazio infinito di oscurità latente e beffarda che lo fissava restituendogli uno sguardo di abissale cupidigia. “Dio del cielo!” Esclamò, ma non si mosse. Non poteva ancora. Le tenebre lo avevano inchiodato, doveva continuare a guardare quell’essere di liquida coscienza che lo scrutava con occhi fatti di avidità. Avvertì un rumore alle sue spalle poi l’urlo di una voce conosciuta, quella di Jack, lo scosse. Con un terribile sforzo di volontà chiuse gli occhi e si voltò lentamente. Jack era lì, davanti al corpo di quello che una volta era stato Richard, tremando

visibilmente: “Primus…” Biascicò, ma non finì la frase. Gli occhi di Richard si erano fatti vitrei, sempre persi in uno sguardo folle, da ubriaco, verso il Nulla silenzioso. Le sue labbra si muovevano ancora, ma era ormai ridotto a una marionetta, un povero manichino senz’anima che si muoveva per inerzia. Nella destra, Jack reggeva qualcosa di nerastro che all’inizio Primus non riconobbe. Poi capì e fu invaso dalla gelida morsa della paura quando riconobbe l’oggetto per quello che era, una buona porzione del cranio di Richard frammista a ciuffi di capelli. La massa si sgretolò in una polvere sottile, fluendo dalle dita di Jack che si lasciò sfuggire un altro gemito. Allora, Primus gli si avvicinò e toccò il volto di Richard con una mano. Le sue labbra continuavano assurdamente a muoversi come se stesse effettivamente parlando e gli occhi, visti da vicino, erano orribili a vedersi. Ridotti a vuote orbite nere senza luce, prosciugati di ogni segno di vitalità. La pelle era fredda e rigida, come se invece di una persona stesse toccando del cuoio spesso. Cuoio che si disfaceva come polvere finissima. Il vento di prima serpeggiò nella stanza seminascosta al buio e Primus ringraziò il Cielo che il vecchio lampadario non potesse illuminare l’ambiente di una luce sufficientemente vivida, quando iniziò la dissoluzione. In un silenzio sempre più innaturale, poco alla volta la polvere nerastra cominciò a scorrere. La mascella inferiore fu la prima a staccarsi, ma non ebbe il tempo di cadere perché si sbriciolò all’istante. Poi fu la volta del viso consumarsi fino alle ossa sottostanti. La testa, il collo e il resto del corpo seguirono in pochi minuti fino a quando di Richard non rimase più nulla. Primus arretrò istintivamente, gemendo di terrore. “Merda!” Jack lo afferrò per un braccio, scuotendolo violentemente, “è stato polverizzato. Prosciugato della sua vitalità. Dobbiamo andar via da qui.” Quel che rimaneva di Richard si stava ulteriormente disgregando. Una volatile, orribile nube simile a fuliggine o sottilissima ghiaia che quel vento oscuro esalava in rapidi turbinii per la stanza prima di involarli rapidamente verso l’ignoto. I due superstiti percepirono quel che restava delle rispettive certezze che andava in frantumi. “Dannazione!” Jack era sconvolto, “perché lui, cosa aveva fatto?” Si prese la testa tra le mani, non voleva guardare i residui di polvere nera sul pavimento. Gli

davano la nausea. Corse alla finestra per una boccata d’aria ma Primus lo fermò: “Non ti sporgere! Non andare alla finestra.” “Perché?” “Perché non c’è nulla, fuori. Assolutamente niente!” “Richard è morto!” Proruppe Jack, e la sua voce fu un grido. “cosa succederà adesso? Chi sarà il prossimo?” “Dobbiamo stare uniti. Ricordi il messaggio di Altha?” “Forse non ti rendi conto della situazione,” disse l’altro con voce isterica, “ma siamo uniti! Non ci siamo mai mossi di qui. E se fosse stata lei? La tua preziosissima Altha è troppo pericolosa per starla a sentire.” “Non è stata Altha a ridurre in quello stato Richard.” “E come fai a dirlo?” Jack era furioso, “non sappiamo niente di niente sul suo conto.” Qualcosa scricchiolò. Una sottile, subdola vibrazione dell’aria che li fece tacere immediatamente. Piccoli frammenti di vetro tintinnarono sul pavimento producendo un rumore troppo assordante per essere anche reale. Ma il fatto era che tutta la finestra stava andando in pezzi. “La finestra,” sussurrò Primus, “si sta rompendo.” Lentamente altri pezzi si unirono a quelli già caduti, poi le imposte cigolarono e caddero, come divelti da un’immensa mano invisibile. Con voce debole, ma ferma Primus continuò: “Prendi il libro di Althaira.” “Che cosa?” “Hai sentito benissimo! Dev’essere sul tavolo. Non voltarti verso la finestra e prendilo, qualunque cosa succeda.” Si voltò verso di lui imponendosi di non guardare alle sue spalle, anche se i resti di Richard erano quasi del tutto scomparsi. Sul tavolo, il libro emanava ora una

pallida luminosità che nella luce fioca dell’ambiente risultava più accentuata. Jack fece quanto gli era stato detto e aprì il volume con mano esitante. Il suo sguardo era spaventato ma non disse nulla. Lo sfogliò: “Vuoto!” Disse. Primus lo ignorò: “amelo.” Afferrò il libro a mezz’aria e aprì una pagina a caso. Scritta nella stessa calligrafia di quella che campeggiava sul libro di Popper, lesse ad alta voce la frase:

Mi spiace per Richard. Lei lo ha annientato. La vostra vita dipende dalla vostra capacità di restare uniti senza esitazioni. Manderò qualcuno da voi.

Altha

Jack disse: “Perché tu lo hai trovato e io no?” “Non ne ho idea.” “La tua amica farà bene a sbrigarsi.” “Avevo ragione allora, quando sono arrivato qui. Quelle non erano scosse di terremoto. On the Ocean of Time Boulevard stava veramente cadendo a pezzi.” “Tutto il mondo-mondo sta cadendo a pezzi! Cos’hai visto dalla finestra?” “Non so cosa ho visto. So solo che aveva tutta l’aria del nulla, il Niente più assoluto fatto di tenebre. Non ho visto luci, né sentito suoni. Non ho visto macchine né palazzi. E anche il cielo era un’unica massa scura.” “Credi sia tutta un’allucinazione? Un’emanazione del mondo-mondo destinata a noi?” Primus scosse la testa: “Richard è morto, Jack. La mia e la sua casa dissolte, la

‘Woman’s Destiny’, la redazione, la strada che portava qui! Davvero ti servono altre prove? Qualunque cosa stia succedendo dobbiamo fidarci di Altha.” “Forse è così.” Jack appariva perplesso, “ma il punto è che non conosciamo neanche il suo vero aspetto. Potrebbe essere chiunque! E quella storia del Nescium! Se il libro di Popper dice il vero, cosa siamo noi?” Primus non seppe rispondere. Se ciò che diceva l’entità che si faceva chiamare Altha era reale, le implicazioni erano semplicemente fantastiche. Molte domande erano senza risposta e forse lo sarebbero rimaste per sempre ma ormai era certo che Altha, chiunque fosse, doveva loro un bel po’ di spiegazioni. In quell’istante qualcuno bussò alla porta. I loro sguardi si incrociarono: “Và ad aprire.” Disse Primus. Jack esitò prima di muoversi, come se non avesse sentito la voce dell’amico, quasi che la distanza tra loro fosse abissale. Primus gli ripeté la richiesta. Tremando, Jack barcollò fino alla porta. Appena pose mano sulla maniglia la porta si spalancò rivelando una ragazza magra e graziosa che indossava un vestito scuro aderente ma sobrio. Gli occhi erano grigio-verdi e i suoi lineamenti delicati. I capelli, così mossi da sembrare quasi ricci e tagliati non oltre le spalle sottili, erano di una bella gradazione di biondo tendente al rosso, molto inconsueta. “Chiedo scusa,” disse in modo educato, “abita qui il signor Valance?” Stupefatto, Jack rispose: “Qui abito io. Primus è nel salotto. Lei chi è?” “Mi chiamo Xoavia. Sono la vostra guida nel Nescium.” “Ah, bene!” Disse acido Jack, “dobbiamo attendere qualcun altro?” La ragazza sorrise gentilmente ma con determinazione lo fece da parte. “Il tuo atteggiamento non è costruttivo,” disse con un sorrisetto furbo, “io sono qui per aiutarvi.” Jack borbottò qualcosa, ma fu ignorato dalla nuova arrivata che raggiunse subito

la stanza dove si trovava Primus. La seguì a ruota, però, guardandola con curiosità. Il suo aspetto non gli diceva nulla e aveva l’aria arrogante. Anche Primus la guardò, ma neanche lui l’aveva mai vista né come persona reale né in qualità di emanazione extra percettiva. “Sei un argenteo?” L’idea gli comparve nel cervello così, da sé, e la trovò perfettamente naturale. La donna assentì: “Mi chiamo Xoavia. Altha ha visto che siete in cattive acque.” Jack ghignò, sarcastico: “Solo un tantino!” La ragazza continuò: “Tutto quello che vi è capitato, tutto ciò che avete visto è complesso da spiegare.” “Quanto complesso?” Chiese Jack. “Mettiamola così: la vostra, la mia e l’esistenza di tutto il mondo-mondo deriva da un’entità con un’unica, grande consapevolezza che neanche noi Argentei abbiamo mai visto, ma che sappiamo esistere al di fuori del Sensum. Se questa entità cessa di avere quel tipo di consapevolezza noi finiamo di vivere.” “Cos’è questa entità?” Fece Primus. “Noi lo chiamiamo l’Altro, ma non conosciamo il suo vero nome. Forse lo conosce Altha.” “Anche lei è un argenteo?” Jack si avvicinò alla donna ma proprio come gli aveva detto Primus evitò di lanciare un’occhiata alla finestra. Qualcosa gli diceva che il suo amico aveva ragione a non voler sporgersi in quel Niente amorfo il cui solo pensiero gli faceva accapponare la pelle. La ragazza aggiunse: “Molto più di questo. Altha è il tramite tra questa entità e noi. È in intima unione con essa, conosce i suoi pensieri, le sue speranze e le sue volizioni. È capace di vagare dal Verum al Nescium a sua discrezione, ma anche al suo potere c’è un limite. Un limite che però io non conosco.”

“Se non l’avete mai visto come fate a sapere che questo Altro esiste?” “Ne avvertiamo le decisioni.” Rispose lei. “Fuori non c’è niente!” Continuò Primus, “il Buio eterno. Penso sia una conseguenza di un processo già iniziato. E sono certo che non sia affatto un’allucinazione o una sensazione extra percettiva. Cos’è?” “Il Sensum sta collassando su se stesso: una sorta d’implosione.” “Che cosa sei davvero tu? E cos’è questa storia del Sensum?” Era stato Jack a parlare. “Mi sembra di averlo già detto, sono un argenteo. Per capirmi bene dobbiamo essere in un posto tranquillo e non abbiamo molto tempo. Il mondo-mondo si contrae come un immenso buco nero privato di energia. Non è solo qualche negozio o la tua casa” guardò Jack, “ma tutto quanto. Lentamente, le idee svaniscono dal Sensum e Lei guadagna potere su di voi e su tutto ciò che esisteva, esiste o esisterà in questa dimensione dell’essere. Sta diventando più intraprendente e presto avrà ragione anche di noi se non vi sbrigate.” “Se non ci sbrighiamo a fare cosa?” Domandò Jack. “Dobbiamo andare nel Nescium.” “Perché ha ucciso Richard?” Xoavia guardò Primus con uno sguardo enigmatico: “Si era indebolito. Stava cominciando ad avere sempre più paura degli eventi e Lei è accorsa al suo richiamo.” “Richiamo?” “Sì, Jack.” La donna lo fissò intensamente, “Lei è Paura allo stato puro. La sua rabbia non ha confini né esitazioni. Dobbiamo fare in fretta.” “Non mi muovo di qui fino a quando qualcuno non mi spiegherà cos’è successo al mio amico!” Jack era furioso, ma il tempo scarseggiava e lo sapeva benissimo. “Jack,” e la voce cristallina della nuova arrivata esprimeva una volontà

invincibile, “ricorda ciò che vi ho detto: io sono un argenteo. In questo momento voi avete due possibilità. Venire con me senza fare domande o restare qui. Io non sono esclusa dal mondo-mondo e come voi ne condivido i relativi rischi. Per dirvi quello che so ci sarà tempo in seguito. A voi la scelta.” “Veniamo!” incalzò Primus, “cosa dobbiamo fare?” “Restare vicini a me.” Si avvicinarono. “Bene.” Disse la nuova arrivata, “ora andiamo.” Si diresse verso la finestra spalancata da cui occhieggiava il Buio in attesa. Mentre si muoveva con lunghe falcate, Primus osservò attentamente quell’essere dalle sembianze di donna. Nessuna emozione, alcuna paura traspariva dal suo comportamento e il suo viso ostentava uno sguardo inesplicabile. Tutto in lei sembrava immune al mondo-mondo e a ciò che la circondava. Il suo controllo dei nervi era assoluto. Lui non avrebbe saputo fare altrettanto. Giunta davanti alla finestra Xoavia si voltò verso di loro: “Venite o no?” “Dobbiamo saltare dalla finestra?” Jack la guardò come se fosse impazzita. Lei disse: “Il mondo-mondo è finito. Uscire dalla porta o da questa finestra non fa differenza. Questa è solo la strada più breve. Altha sta ritardando il più possibile la disgregazione di questa casa, ma non ci resta molto tempo. Siete pronti?” “Ma moriremo!” “Nessuno muore nel Nescium in questo modo. Ve lo ripeto un’ultima volta: dovete fidarvi di me!” Ciò detto superò agilmente il parapetto, fece un paio di i e poi si voltò. Per quanto incredibile potesse sembrare, stava lievitando a mezz’aria. Sotto e tutto intorno a lei il Buio si agitava, furioso, come se non potesse ghermirla. La sua corazza senza emozioni, la fredda luce che albergava nei suoi gelidi occhi verdi teneva a distanza l’abisso sul quale volteggiava, impavida,

remota a tutto e a chiunque. Primus e Jack si scambiarono un’occhiata di mutuo terrore, poi salirono sul parapetto. Le pareti dell’appartamento crepitarono e istintivamente i due uomini si voltarono. Grosse crepe stavano correndo da una parete all’altra, le piastrelle del pavimento cominciarono a svanire, scoppiettando come tante bolle di sapone. Il lampadario a tre bracci ondeggiava placidamente come se fosse stato fissato alla cabina di una nave sballottata da un invisibile oceano in tempesta. Anche il tavolo divenne indistinto. “Il mondo-mondo è ormai perduto.” Disse Xoavia, cupa. Era arrivato il momento di decidere. Fidarsi di quella donna poteva equivalere a morte certa, così come era capitato al povero Richard. Dietro di loro non c’era che dissoluzione e davanti il Buio. Primus sorrise amaramente: “Eccomi!” Gridò e si lasciò cadere dal parapetto. Una serie di suoni lo bombardarono, si riversarono da quel che rimaneva delle pareti della stanza, esplodendo come tante immagini impazzite nella sua mente. Sentì il suo cervello tremare, i suoi occhi arrossarsi, le sue mascelle aprirsi e chiudersi mentre tentava vanamente di parlare. Con uno sforzo sovrumano si voltò e vide Jack ondeggiare dietro di lui con la bocca impegnata in un urlo silenzioso e inumano. Xoavia era con loro, ma si limitava a fissarli con indifferenza, come se le loro emozioni non contassero niente per lei. Il Buio li avvolgeva sempre, palpitava ed emanava un rumore curioso, a bassa frequenza, terrificante nella sua ossessiva consapevolezza. Le tenebre pulsavano di cattiveria infinita, inumana, blasfema. Continuarono a scendere senza mai risalire, toccando l’abisso delle rispettive emozioni, scivolando all’infinito verso il Niente alla ricerca di qualcosa di cui non conoscevano né la forma né lo scopo. Persino la loro percezione del Tempo era alterata. Primus avvertì le sue forze infiacchirsi o rigenerarsi come se la sua età biologica oscillasse avanti e indietro tra la vecchiaia e la giovinezza. Gli sembrava di impazzire, anche se cercò di non urlare. Poi, non avrebbe saputo dire quando, l’ambiente cominciò a cambiare. Un’impercettibile, strana qualità dell’aria la fece diventare un po’ meno fredda permettendo a tremuli sprazzi di luce di sfidare il Buio di quella notte eterna. Scorse forme indistinte agitarsi a poca distanza da loro, forme plastiche e

intelligenti. Fremevano e si contorcevano ma non squarciavano il Buio, si limitavano a fluttuargli intorno. Forme che li cercavano. “Fate attenzione!” Gridò la donna con la sua voce atona ma determinata, “non fate un movimento, non scappate. Se vi muovete vi afferreranno.” Vide Jack che tentava di farfugliare qualcosa, ma Primus non poteva capire ciò che diceva. Eccettuata quella della donna, le loro voci non esistevano in quel luogo senza dimensioni. Intanto, le forme cominciavano ad apparire meno indistinte e più vicine. Troppo vicine. Strie colorate guizzarono inframmezzandosi al Buio, sfidandolo come immensi pesci nel mare delle tenebre di nubiana memoria. Primus non sapeva che cosa fossero ma cercò di non guardare. Quella caduta sembrava interminabile. La sensazione di calore era costante e se non fosse per il disorientamento, avrebbe giudicato quasi piacevoli certe sensazioni. Tuttavia, gli sprazzi di colore che occhieggiavano nel Buio non gli piacevano né Xoavia faceva qualcosa per rassicurarli. Poi, quando il mondo-mondo non ebbe più alcuna ragione di esistere, la loro caduta rallentò fino a fermarsi del tutto. Il buio non era stato scalfito dai deboli sprazzi di luce, vane scintille che aveva creduto di poter contrastare l’Infinito. Eppure l’evidenza della logica, ammesso che la logica valesse ancora qualcosa, gli diceva che i suoi piedi toccavano qualcosa di solido. Un materiale liscio lo sosteneva, ma non gli dava una sensazione di solidità. Piuttosto, pareva quasi morbido, ondeggiante, come se fosse fatto di gomma vulcanizzata e non di terra, pietra o altra sostanza. Incuriosito, si chinò per vedere di cosa si trattava, e le sue dita attraversarono una forza invisibile senza incontrare alcuna resistenza. Quando realizzò ebbe un tuffo al cuore e il primo istinto mente fu quello di gesticolare e gridare in preda alla disperazione. Invece si sforzò di mantenere il controllo su se stesso guardando Jack e Xoavia. Invisibile o meno, quel materiale sosteneva anche loro. “È finita?” Disse. “Per il momento.” Rispose la donna, “siamo vicini a casa mia, ma continuate a stare vicini. Non siamo ancora soli.” Jack gli toccò un braccio, poi la sua voce gli arrivò all’orecchio. Era poco più di un sussurro: “Siamo nel buio più completo,” biascicò, “ma riusciamo comunque a vederci.”

“Venite!” tagliò corto Xoavia, “siamo quasi arrivati.” Poco a poco l’oscurità cominciò a diradarsi, sostituita da una nebbia vaporosa e biancastra, venata di sottili lampi rosati. Una pallida luce spettrale proveniente da un globo incandescente posto in un cielo biancastro e lattiginoso s’irradiava sulla nebbia, illuminando quel tanto che bastava i dintorni da non farli inciampare. Man mano che proseguivano il materiale sotto di loro sembrava acquistare consistenza e adesso sembrava un terriccio ghiaioso. Primus si rilassò un poco. Un’altra forma si stagliò davanti a loro ma stavolta non provò paura. Era quasi certo che la massa scura e immobile fosse un’abitazione o comunque un edificio. I loro i scricchiolavano su un sentiero color bianco sporco, producendo un rumore che Jack trovò sgradevole, pur non dicendo nulla. Avanzavano in fila indiana, guidati dalla ragazza. Poi apparvero una serie di villette, aiuole ben curate, alberi ordinatamente disposti in fila uno dopo l’altro, come tanti soldati in parata. Le casette erano tutte in legno e dipinte a colori vivaci. Jack le trovò pacchiane. Voltandosi indietro per un momento, Primus scorse l’immensa regione appartenente al Buio che sembrava fissarlo con avidità. Fu felice di esserne fuori. Fece un sospiro di sollievo: “Una di queste è casa tua?” “Quella più in fondo. Queste case, in realtà, non esistono.” Jack ò le mani sui cespugli di una villetta a due piani dalla facciata arancione. Nel piccolo giardino vide cespugli di rose e qualche albero da frutto. Strappò un ramoscello da uno dei cespugli: “Non esistono?” Ripeté guardando fisso la donna. “Esatto.” Xoavia non si voltò, “prova a guardarlo meglio.” “Come fai a sapere che…” ma poi tacque e tornò a fissare il rametto che credeva di avere in mano. Con sua sorpresa tra le sue dita non c’era assolutamente nulla. Il rametto era scomparso. “Qui le leggi naturali non valgono, vero?” Mormorò. La ragazza non rispose.

Proseguirono oltre, superando tutte le villette fino in fondo al viale quando, finalmente, si parò davanti a loro una casa diversa dalle altre. Sembrava fuori luogo con la facciata georgiana dall’ampio porticato, il tetto a doppio spiovente rivestito da tegole in ardesia, il camino che spuntava, minaccioso, alla sinistra del tetto, quasi il suo architetto l’avesse applicato lì per vezzo e non per utilità. La villa era costruita interamente in mattoni così come l’alto muro rivestito d’erica che la circondava su ogni lato. Nell’insieme esalava un’aria di curiosa, ambigua antichità e Primus immaginò che la sua fittizia esistenza fosse antecedente alle lignee villette a due piani del quartiere. “Siamo arrivati?” Xoavia disse: “A differenza delle altre, questa casa è reale.” Un enorme cancello in ferro si aprì cigolando al loro aggio e si ritrovarono a calpestare un giardino ampio e ben curato, all’inglese, che a sua volta lambiva un porticato elegante su cui spiccavano un tavolino e alcuni mobili da esterni in vimini. Una piccola costruzione in legno, probabilmente adibita a magazzino o ripostiglio, se ne stava acquattata a un lato, ben a ridosso del muro di recinzione che in quel tratto non era ricoperto d’erica. Sparsi ai lati del muro vide parecchi cespugli di rose e alcuni alberelli da frutto disposti strategicamente in modo da dare, al contempo, ombra e una veloce colazione alla loro proprietaria. Come Jack, anche Primus avanzò con circospezione, gettando un’occhiata tutt’intorno con curiosità e dirigendosi verso il porticato. La casa presentava quattro finestre disposte in coppia ai due lati della porta che appariva sbiadita per l’azione dei raggi solari. Arrivata davanti alla porta la donna si girò, guardandoli attentamente. C’era qualcosa, in lei, che Primus non capiva. Non era solo a causa delle vicissitudini che erano capitate e neanche dell’assurdo Buio che avevano superato per ritrovarsi in una regione ancora più assurda. No, non era quella situazione di non-sense, non precisamente. Erano gli occhi di lei; efficienti, abissali pozzi grigio-verdi di rara determinazione. Occhi come non aveva mai visto l’eguale, voragini in tempesta che tutto vedevano, scandagliavano, esploravano, senza posa. Senza mai mostrare un’emozione. “I tuoi occhi.” Disse. “Sì, Primus?” Disse lei, con voce inaspettatamente dolce. Quegli occhi bruciavano, ora se ne rendeva conto, dissolvevano le tenebre a

cominciare da quelle che avevano superato. Una profonda, oscura energia si annidava in essi senza mostrarsi, non veramente. E un pensiero gli venne in mente, a prima vista assurdo ma, riflettendoci, non più di quel che aveva visto: “Tu sei Altha!” “Anche tu la pensi così, Jack?” Disse lei, ondeggiando lieve sulla soglia di pietra. La porta di legno alle sue spalle, sembrava semiaperta. Primus si chiese che cosa nascondesse. Lo avrebbe saputo presto. “Io voglio solo trovare un senso a tutto questo.” Disse stancamente Jack. Xoavia tornò a fissare Primus: “Forse,” disse, “l’illusione si sta assottigliando. Forse la tua mente comincia a vederci più chiaro.” La sua voce era calma, carezzevole. I suoi occhi bruciavano sempre, ma non di vita pura e semplice. La luce che li animava era qualcosa di più dell’essenza vitale che tiene in vita un organismo umano. Era un archetipo. Attingeva a fonti di energia segrete che Primus non capiva. Non aveva mai visto nulla del genere. “Ma non sono Altha.” Gli occhi erano sempre fermi e risoluti, “solo una sua emanazione. Una parte di lei, un brandello della sua consapevolezza.” “Un brandello?” “Un argenteo!” disse la ragazza, mentre dava un colpetto alla porta che si aprì silenziosamente, “ma sono completa in me. Quando varcherete questa soglia vi lascerete alle spalle il mondo-mondo e tutte le certezze che avete vissuto da quando esistete.” “Credevo fosse finito il mondo-mondo.” Jack non aveva più tanta voglia di entrare in quella casa, ora. “Il Buio che abbiamo attraversato,” disse la ragazza senza scomporsi, “era solo ciò che circondava il mondo-mondo. Il suo, come dire, involucro. Le forme che avete intravisto sono forme-fantasma instabili e pericolose. Esse non pensano, sono meno che idee cieche e idiote. Per questo motivo sono pericolose. Essere ghermiti da loro avrebbe implicato la dissoluzione istantanea. Ma oltre questa porta gli ultimi brandelli del Sensum finiscono e saremo nel Nescium. Il mondo tre di Popper, ricordate? Comincia da qui.”

Jack esitò. Xoavia lo guardò: “Stai tranquillo, Jack, non vi ho portati qui per ingannarvi.” “D’accordo.” Fece lui, facendo un respiro profondo. La donna lanciò un rapido sguardo anche a Primus poi, con un esangue sorriso, superò leggera la soglia. L’ambiente era stranamente avvolto dall’ombra e dal mistero, ma questo non fermò affatto Jack che la imitò prontamente. Quanto a Primus, lui, ebbe una leggera esitazione. Osservò la porta che lo aspettava e ripensò alle parole della loro guida. Respirò a fondo, inquieto, poi fece il o che gli avrebbe consentito di perdere il ato e tutti i ricordi che ancora gli affollavano la mente. Forse quella perdita sarebbe stata un bene. Forse gli avrebbe consentito di lasciarsi alle spalle molte cose spiacevoli. Aveva assistito alla distruzione della sua casa e di tutto il mondo-mondo. Tutto ciò che aveva conosciuto era stato fagocitato da un qualcosa che non conosceva, che li cercava. E adesso avevano superato il Buio. Ripensò a Richard e si dispiacque per lui. Non aveva avuto alcuna colpa, nessuna responsabilità ma era andato, morto, disintegrato. Loro, invece, erano vivi. E se lui voleva in qualche modo vendicare quella morte, era tempo di compiere delle scelte. Per questo, qualsiasi cosa si celasse al di là di quella porta, non l’avrebbe fatta aspettare. Perché ormai era giunto il momento di conoscere il suo destino.

Attraversò un ambiente spazioso arredato con gusto dalle finestre protette da tende sontuose e delicate che davano all’insieme un tocco fiabesco che non guastava. Svariati vasi di cristallo esibivano rose delle più estrose varietà e davano al tutto un’atmosfera orientaleggiante. I pensieri si affastellarono nella sua mentre. Superarono una porta e videro un’altra stanza, più piccola, dal soffitto basso e finemente decorato con rilievi in stucco. I mobili erano in vera noce, del diciottesimo secolo, scuola inglese, con fregi e intarsi di grande valore. Si chiese cosa ci fosse di reale in quell’ambiente. In fondo quel che vedevano poteva essere una manifestazione extra percettiva di un qualche tipo. Nel mondo-mondo poteva anche essere una manifestazione solida (almeno per lui, stando alle sue precedenti esperienze) ma in quella dimensione ne dubitava.

Intanto la ragazza sedette dietro una scrivania dall’aria elegante su cui troneggiava una rosa scarlatta di notevole bellezza, i cui petali rilucevano della luce che riverberava dalla finestra prospiciente il giardino. “Bene!” Disse con una voce radiosa che lo stupì, “ora possiamo parlare.” “Che cosa ci facciamo qui?” Cominciò Jack. “E soprattutto dov’è qui?” Aggiunse Primus. “Nell’ultima forma della nostra esistenza, quella più pura. Quella dove le idee diventano vive e da cui a loro volta ano, o meglio, avano, nel Sensum rendendolo reale.” Jack scosse la testa; nei suoi occhi non c’era spazio per l’umorismo né per le buone maniere: “Richard è morto, il nostro mondo distrutto. Pensi davvero che questa spiegazioncina sia sufficiente? Te la farò semplice, Xoavia o cometichiami: chi diamine sei tu e dove sta la tua amichetta?” “Quante domande.” Disse la donna, per niente impressionata. “Credo tu ci debba delle risposte.” Aggiunse Primus con voce più dolce, “questa sorta di enorme, crudele gioco del gatto con il topo è snervante.” La ragazza li osservò in perfetto silenzio. Primus era soggiogato dalla sua personalità che, nonostante la franchezza dell’espressione e la cordialità della voce, gli comunicava una sensazione di tenebrosa profondità. “Sedetevi pure.” Indicò uno spazio vuoto davanti a loro. All’inizio i due amici non capirono, poi apparvero due sedie perfettamente abbinate all’ambiente. Primus toccò lo schienale di una di esse, lo carezzò a lungo tanto per accertarsi che fosse reale. Che non fosse un’altra illusione. Non lo era: “Come ci riesci?” Rivolto a Primus, Jack osservò: “Ricorda le tue sensazioni extra percettive. Il modo in cui le evoca, solo in scala maggiore.”

“È qualcosa di più.” Mormorò cupo Primus e lanciò un’occhiata interrogativa alla donna che ora li osservava compiaciuta. “È un altro dei giochetti di Altha?” Disse Jack. A quelle parole gli occhi della ragazza mandarono lampi: “Sedetevi!” Ripeté. Lo fecero e lei sorrise, ma non era un gesto di accondiscendenza, era solo diplomazia. “Se voi sapeste che quanto state per ascoltare è l’ultima e più insondabile verità che si cela dietro l’apparenza del vostro mondo, ditemi! La vorreste ascoltare? Siate sinceri.” “Non credo ci restino molte possibilità.” Rispose pronto Primus, “a meno che imboccata quella porta non mi ritrovassi per magia nel mio salotto, sbronzo ma consapevole di aver fatto solo un incubo.” “Scegliamo la verità, Xoavia.” Disse Jack, “Non possiamo tirarci indietro.” Le dita della donna tamburellarono sul ripiano in legno della splendida scrivania, gli occhi socchiusi, immersi in uno stato di profonda riflessione, ma non per questo meno letali. Due armi dalla potenza devastante i cui scudi erano stati temporaneamente richiusi, ma pronte a ricominciare a incenerire con la semplice apertura delle palpebre. Poi quegli occhi li fissarono di nuovo ed erano placidi: “Popper aveva ragione, ma non ne sapeva molto. Anche lui era soltanto un argenteo, dopotutto.” Si alzò e tracciò un elegante gesto della mano nell’aria. Apparve un’immagine tridimensionale del mondo-mondo così perfetta da apparire reale, ma quando allungò le dita per toccarla Primus scoprì che vi avano attraverso, esattamente come il materiale su cui avevano camminato per uscire dal Buio. “Questo è il mondo-mondo come siete abituati a vederlo.” Riprese lei, “un mondo abitato da gente normale, sei miliardi di individui che vivono, lavorano, fanno l’amore, dormono. Persone che possiedono esperienze soggettive di grande variabilità. Molte di queste non hanno che visioni indistinte, lampi fuggevoli di parenti e persone morte o latenti nel futuro. Alcuni, i più fortunati, vedono con maggior precisione, generalmente riflesse nello specchio, situazioni e civiltà scomparse o mai esistite. Vivono limitate fantasie con cui non possono

interagire oltre un certo livello. Ci siamo?” “D’accordo.” “Bene. Voi sapete che prima ancora del livello tecnologico, quello che rende piacevole la vita è la più potente delle facoltà a disposizione dell’uomo, la sua Capacità Immaginifica. È, questa, la capacità che un essere umano ha di esteriorizzare le proprie speranze, i propri desideri più nascosti. A volte, però, succede che un nuovo nato possa manifestare livelli eccessivamente alti di questa facoltà rendendogli difficile vivere a causa dell’acutezza delle sue interazioni con le manifestazioni extra percettive. Si tratta di pochi individui, meno dell’uno per cento della popolazione complessiva. Persone come te, Primus, in grado di evocare situazioni più complesse che spesso riguardano i loro sogni. Manifestazioni estremamente realistiche e complesse ma che durano poco, qualche ora al massimo, fino alla prossima occasione. Un tempo eravate più numerosi e questo aveva degli effetti collaterali. L’avanzare della tecnica ha permesso la comprensione sempre più particolareggiata della mente umana, aprendo la strada a nuovi tipi di interventi così raffinati che sarebbe rozzo definirli semplicemente chirurgici. Il risultato è che quelli come te sono drasticamente diminuiti e oggi non è raro che molti genitori facciano sottoporre il proprio bambino all’intervento di resezione almeno parziale del mesencefalo. Ma tutto questo, per voi, è il normale mondomondo di ogni giorno. La realtà che pensate di vivere e di conseguenza che accettate senza porvi domande.” “Per noi?” Esclamò Jack. “Cosa intendi dire?” Aggiunse Primus. Xoavia non si scompose: “Che il mondo-mondo è qualcosa di completamente diverso da come lo immaginate. Concettualmente potremmo paragonarlo a un’immensa rete, anche se non infinita, dove ogni dettaglio, dall’umile granello di sabbia a un essere umano, fa parte e comunica con qualsiasi altra cosa sia animata che inanimata. Non è esattamente reale nel senso che date a questo termine, ma attraversa due fasi di esistenza. La prima è ciò che voi sperimentate come reale. La seconda, fa parte del Verum e la rende del tutto ipotetica.” Primus disse: “Mi stai dicendo che tutto ciò che abbiamo creduto come reale, come autentico, sarebbe stata solo un’illusione dei nostri sensi? Che il mondo-

mondo sarebbe una sorta di mente costituita da milioni di altre? Non è un’idea originale. Lovelock formulò per la prima volta la teoria di Gaia nel 1979.” La ragazza scrollò le spalle delicate: “L’ipotesi Gaia non ha nulla a che vedere con quanto sto per dirvi. Io vi sto dicendo che la vita come noi la conosciamo attraversa tre piani distinti e separati di esistenza che si sovrappongono, dando agli esseri viventi l’illusione che il loro sia l’unico piano possibile. Voglio farvi un esempio semplice.” Tirò fuori da un cassetto un grosso volume dalla copertina blu recante sul frontespizio, in oro, il titolo ‘Historia de Gentibus Septentrionalibus’, di Olaus Magnus. La ragazza aprì il volume a caso, indicando una vecchia incisione che raffigurava ogni sorta di creature marine. Indicò con l’indice un curioso disegno di una balena rappresentata con la testa di maiale, una folta criniera di spine e due lunghe corna. “Allora!” Cominciò, “pensate sul serio che i primi uomini davanti alla visione di una balena dovessero, per descriverla, distorcerla tanto da dargli un aspetto come questo? E tuttavia non sono disegni di fantasia. Queste creature sono in parte reali e in parte no.” “Dove vuoi arrivare?” La voce di Primus era atona. “Queste creature sono simboli così come lo siamo, in una certa misura, noi stessi.” Primus scoppiò a ridere: “Ma che dici?” Xoavia rimase assolutamente imibile: “Voi due, Richard e molte delle persone che avete conosciuto o incontrato siete parte di un immenso, complicatissimo processo creativo di cui non avete alcuna cognizione.” “Processo creativo? Come una simulazione?” “Non è affatto una semplice simulazione. Il mondo-mondo è reale ed esiste concretamente ma nello stesso tempo non è una dimensione immediatamente percepibile dagli altri piani di esistenza. È difficile da spiegare ma per fare un paragone potremmo pensare al gatto di Schrödinger.” “Tu stai dicendo che tutti noi saremmo qualcosa di simile agli atomi?”

Xoavia assentì: “In un certo senso.” “Ehi, un momento!” Jack si rivolse a Primus, “Sei tu il fissato con certe cose e non io. Che diamine sarebbe questa storia del gatto?” “È un esempio usato dalla fisica elementare per spiegare il mondo quantico, Jack.” Primus fece una breve pausa, cercando convulsamente di mettere ordine tra le reminiscenze delle lunghe notti ate sui libri ai tempi dell’università e proseguì, “Si tratta di un esperimento ideato da Erwin Schrödinger, un fisico che intendeva dimostrare la duplice natura della materia.” “Esatto.” Aggiunse la donna, “Continuo io, adesso.” Trasse un breve respiro e continuò: “Schrödinger presentò al mondo accademico una teoria secondo la quale l’interpretazione classica della meccanica quantistica, la famosa ‘Interpretazione di Copenaghen’, è incompleta quando deve descrivere sistemi fisici che vedono il livello subatomico interagire direttamente con il livello macroscopico.” Jack sbuffò: “Che tradotto in termini umani sarebbe?” Xoavia rise. Una risata cristallina il cui tono contrastava visibilmente con la durezza dello sguardo: “Beh, immaginò un gatto in una scatola con una pistola puntata contro una fiala di veleno. La pistola era innescata dall’interagire dello scienziato con l’esperimento. Si tratta di una metafora per spiegare una proprietà apparentemente assurda dell’universo fisico. Voi sapete che ogni cosa è costituita da atomi, giusto?” Jack annuì. “Bene. Gli atomi sono i mattoni di tutto, compresi gli esseri viventi. Questo esperimento dimostrò come una qualsiasi particella di livello subatomico possieda la capacità di collocarsi in diverse posizioni allo stesso tempo perché è ‘delocalizzata’. Ma, e questo è il paradosso, ogni volta che una di queste particelle ‘delocalizzate’ è osservata con un esperimento, che, per propria natura modifica il livello energetico, la quantità di moto e la posizione della particella stessa, essa sarà immancabilmente trovata nella posizione cercata e dotata di quel determinato livello energetico. Tornando al famoso gatto, finché l’atomo non si disintegra emettendo la particella che aziona il congegno letale la bestiola resta in vita. Ma quando avviene il decadimento dell'atomo allora va certamente incontro alla morte. Pertanto, se non si apre il contenitore dove sono l’animale e

il congegno letale non si potrà determinare quale destino abbia avuto il gatto, il che vuol dire che può allo stesso tempo esser considerato sia vivo che morto. Nel caso del mondo-mondo parliamo di qualcosa che attraversa due stadi distinti e separati: esistenza e non esistenza. Esso si accorda perfettamente con la teoria dei tre mondi di Popper.” “Non ho intenzione di starla a sentire!” proruppe allora Jack, fuori di sé dalla rabbia, “ma senti quello che dice? È follia!” “Siediti Jack, lo dico nel tuo interesse.” Gli occhi della donna si spalancarono, pronti a scattare. “Chi lo dice?” “Io sono un argenteo, non dimenticarlo. Ho un certo potere sugli oggetti del Sensum e voi ne fate ancora parte.” “Credo dica il vero.” La seguì Primus, e indicò il globo luminoso che continuava a roteare come nulla fosse davanti a loro. “Meglio morire ora che are gli ultimi istanti della nostra vita ad ascoltare una pazza furiosa.” Xoavia non fece una piega, non mosse neppure la testa, ma appena Jack ebbe pronunciate quelle parole la sua voce divenne indistinta. Con orrore, Primus assistette alla fusione delle sue labbra fino alla loro completa sparizione. Jack aveva ancora una testa, gli occhi, i capelli e tutto il resto. Ma non rimaneva che una superficie di pelle dove prima era la sua bocca. “Sei stata tu?” Xoavia lo guardò remota come al solito, in silenzio. Al contrario, Jack era fuori controllo. Si portava le mani dove prima c’erano state le sue labbra, gli occhi erano fuori dalle orbite. Cominciò a inalare violentemente dal naso. “È in iperventilazione!” Primus si accostò all’amico, “Calmati Jack, per favore! Calmati o soffocherai.” E poi rivolto alla ragazza: “Fa’ qualcosa!” Xoavia puntò il suo sguardo glaciale su Primus: “Non tollero che mi si minacci.

Mai! Sono stata chiara?” Poi, con estrema calma, si alzò e sfiorò il mento di Jack con un dito. La bocca ricomparve all’istante e un suono gutturale, sgradevole, fuoriuscì dalle labbra appena riformate. Jack rantolò per qualche minuto portandosi le mani alla gola. Ci volle un po’ perché tornasse a respirare normalmente. “Verum, Sensum e Nescium sono i nomi che noi argentei diamo ai mondi uno, due e tre di Popper.” La voce di Xoavia era tornata trasparente come il cristallo. A vederla, quella donna sembrava indifferente a ciò che aveva appena fatto, come se quel che era successo fosse una semplice svista. Jack sedette sul bordo della scrivania, furente, ma non disse nulla. Lei lo guardò un attimo: “Mi spiace, ma devo ricorrere a ogni mezzo perché mi crediate. Lei vi sta cercando e, se morite voi, niente sarà più come prima.” “Che razza di metodi!” Sbottò Jack. “Però adesso mi credi.” Lui la guardò, cercando di controllare i nervi. Quella donna era pericolosa almeno quanto le entità che descriveva, su questo non aveva dubbi: “Dicci tutto. Cos’è questa storia?” “Il vero mondo uno non è il mondo-mondo. Nel Verum nessuno è in grado di coesistere con i propri sogni e non parla con amanti, amichette e amici attraverso lo specchio del bagno! La capacità Immaginifica non ha potere reale e gli esseri che la abitano seguono le leggi fisiche note della struttura di livello sovra molecolare. Gli abitanti di quella dimensione vivono, crescono e muoiono. Se vivessimo lì e dicessimo di aver parlato, poniamo, con un antenato morto tre secoli prima, saremmo probabilmente scambiati per pazzi.” Primus ebbe un sussulto. Si era ricordato qualcosa. “Che cosa c’è?” Fece lei. Primus sorrise imbarazzato: “Ricordo una frase pronunciata da Richard quando incontrò Lei. Prima di svanire gli disse: ‘tu non esisti’.”

“Lei aveva ragione. E questo ci porta direttamente alla faccenda del gatto. Ricordate il dettaglio che finché non si apre la scatola l’animale è vivo e morto nello stesso tempo? Il potere di rendere tale il gatto si deve all’osservatore, al fisico che conduce l’esperimento. Ciò vale anche per gli abitanti del Sensum, cioè il mondo-mondo. Come vi ho già detto esiste un Osservatore che noi argentei chiamiamo L’Altro. Questo essere non soltanto esercita il suo potere sul Sensum ma, diversamente dallo scienziato, è anche una vera e propria entità creatrice del mondo-mondo. Ma nel Verum, il suo mondo, io, voi e il Sensum non esisteremmo.” “Così semplice?” Jack scrollò le spalle e fece per continuare ma un’occhiataccia della donna lo zittì: “Non è semplice per niente! La creazione ‘Jack’, quella ‘Woman’s Destiny’ o quella di una strada qualsiasi del mondo-mondo fanno parte di un’immensa attività che funziona come un solo, grandioso disegno. Ogni cosa è sincronizzata con tutte le altre a loro volta impegnate in uno scopo comune che ci sfugge. Noi argentei ne abbiamo un’impalpabile percezione, ma voi del Sensum neanche quella. Tutto questo sistema è mirabilmente organizzato. Una minima perturbazione provoca conseguenze ma il meccanismo resta stabile finché i danni risultano compensabili. Così la tua casa distrutta, Primus, non ha avuto conseguenze sul resto del tuo quartiere, ma solo sulle percezioni dei tuoi vicini. Allo stesso modo la profumeria ‘Woman’s Destiny’ e la stessa Peste-per-Tutti non implica una totale distruzione se contrastata da misure adeguate di sicurezza. Ma quando tali misure diventano inefficaci il sistema perde coesione e si dissolve. Ed è l’entità che chiamiamo Lei la vera responsabile. È l’unica a possedere il potere, la consapevolezza e la perversa volontà di annichilire tutto. Ed è esattamente ciò che è successo al mondomondo.” La donna indicò il globo sospeso a mezz’aria, schioccò elegantemente le dita e il globo svanì. “Ma per quale motivo l’Altro non si è mai mostrato neanche a voi?” “L’Altro non sempre è consapevole del processo che egli stesso mette in moto, Primus.” L’argenteo sospirò quasi impercettibilmente, “per una creatura del genere è sufficiente il semplice pensiero. Un po’ come succede a te quando fai un sogno e desideri che si realizzi. La differenza tra quelli come te e l’Altro è che quest’ultimo ha un potere enormemente superiore.”

Primus si alzò e andò alla finestra dello studio. Le gambe gli si erano intorpidite e inoltre, quando era teso, si sentiva meglio se poteva evitare di starsene seduto. Gli calmava l’ansia: “Tu però sei in qualche misura meno soggetta di noi al mondo-mondo, quindi le cose per voi sono diverse.” “E un’altra cosa.” osservò Jack, “hai detto che senza di noi niente sarà più come prima, sono parole tue.” “È esatto.” “Che vuol dire?” “Vi dirò quello che so. Gli argentei non sono solo portatori della Peste-per-Tutti. Ricordate che tutto, nel mondo-mondo, è il risultato di pensieri e desideri dell’Altro. Lo stesso dicasi per la Peste-per-Tutti. Potrebbe essere una sua paura interiorizzata in modo talmente radicato da averla resa reale nel Sensum. E così le donne che avete incontrato possono essere il risultato di pensieri o sogni che gli stanno a cuore. Lo stesso vale per le case, gli oggetti e qualunque cosa presente nel mondo-mondo. Ma ciò che per questa entità è reale non lo è necessariamente per il Verum, il suo mondo uno. Quanto agli argentei, beh!” Aprì le braccia, sorridendo: “Siamo entità in parte indipendenti. All’origine non esistevamo. Poi alcuni di noi sono giunti all’autocoscienza e si sono liberati dal fardello dell’inconsapevolezza. È stata Altha a farci questo dono. Forse è la stessa cosa che potrebbe voler fare con voi ma ignoro perché proprio voi e non qualcun altro. Su scala minore, anche noi argentei riusciamo a intervenire sulle leggi mentali che regolano il mondo-mondo per uniformarlo ai nostri scopi, ma non siamo certo onnipotenti. Al contrario, Altha ci arriva vicino in questa dimensione. Tuttavia, adesso il mondo-mondo è collassato per motivi che ci sono ignoti e voi siete gli unici superstiti. Il mio compito è aiutarvi ad arrivare da lei sani e salvi.” Primus disse: “Perché non è venuta lei, invece di mandare te? Quelle donne che mi hanno fatto visita al Writer’s Magazine, erano sue emanazioni?” “Altri argentei ma non siamo rimasti in molti. Anche il Nescium sta subendo un qualche tipo di alterazione che non possiamo controllare. Molti di noi sono già morti.” “Che cos’è Altha?” Jack stava cominciando a sbollire la rabbia. Non che avesse

archiviato la cosa; era interessato a quel che diceva quella donna. La resa dei conti, però, era soltanto rimandata. Xoavia scosse il capo: “Qualcosa che esiste indipendentemente da noi e dai tre piani. È il deus ex machina dei tre mondi, l’entità più potente perché in contatto diretto con l’Altro. La sua consapevolezza è immensa e le consente di vedere con una sola occhiata intere esistenze, le persone mai nate e quelle che esisteranno. Il suono e il silenzio più totale sono per lei due aspetti della medesima unità. Che io sappia le sue sono potenzialità diverse ma complementari a quelle dell’Altro, con la differenza che lei è consapevole dei tre mondi.” Jack chiese: “Da come ne parli, Altha e l’Altro sembrano entità divine. Lo sono?” “Il nostro punto di vista è più limitato del loro e questo rende le loro azioni imperscrutabili anche per noi argentei. Ma ciò non implica che siano dei; vuol dire solo che la loro consapevolezza e la loro creatività sono incomparabilmente superiori alle nostre.” “Io mi chiederei un’altra cosa, Jack.” Xoavia guardò Primus: “Chiedi pure.” Primus scostò le tende che proteggevano la finestra dello studio. Vide tremuli alberi, i cui rami frondosi erano scossi da una leggera brezza. Immerso nella maestosa luce del sole, il giardino che circondava la villa era magnifico. Si chiese quale fosse il suo vero aspetto. Magari era un’infinita distesa di Buio, una landa desolata, una superficie spoglia e senza alcuna attrattiva: “Perché Lei ha voluto Richard?” “Lei è il grande problema. Da quando viene a farti visita?” “Perché?” “Potrebbe essere importante. La mia consapevolezza non si estende che fino a un certo punto, nel Sensum. C’è stato un tempo in cui anch’io facevo parte del mondo-mondo. Fu merito di Altha se ora sono un argenteo. È molto meglio e la consapevolezza è migliore. Allora, da quanto la conosci?”

“Saranno circa quattro anni, credo. Mi è sempre venuta a trovare in sogno attraverso lo specchio-visore.” “Si presenta sempre nello stesso modo? Primus assentì: “Carnagione chiara ma non troppo, tipicamente caucasica. Di bellissimo aspetto, circa trentacinque anni o poco meno, molto femminile. Ha una voce calda e morbida, occhi che a volte sono neri, ma più spesso verdi. I suoi capelli sono castani e fluenti. Non supera il metro e sessanta e la sua corporatura è filante ma non magrissima.” “Io penso che sia la realizzazione di un suo desiderio. Senza dubbio.” Suggerì Jack. Primus lo guardò: “Non l’ho mai sognata, né ho provato a disegnarla o a volerla in alcun modo.” “Ne sei certo?” Disse Xoavia, “pensaci bene. Potrebbe essere importante.” “Hai detto che è Paura allo stato puro.” Osservò Jack, “perché allora queste domande?” “Perché devo sapere se trae energia da Primus o da se stessa. Il suo potere non è grande quanto quello dell’Altro o di Altha, ma è in grado di tele-trasportarsi ovunque nei tre mondi in modo più ampio di come posso fare io.” “Un’altra categoria di argentei?” Tentò Jack. Xoavia scosse la testa: “Nessun argenteo può uccidere un abitante del mondomondo.” “Allora prima era un’illusione.” Xoavia scosse la testa: “Ti ho già detto che posso intervenire sul mondo-mondo ma i miei poteri non sono illimitati. Era la tua illusione di non avere più la bocca a farti iperventilare. Se fossi stato consapevole di non essere più nel Sensum non avresti corso rischi.” “Se non è un argenteo e neanche un normale abitante del mondo-mondo, cosa può essere?” Intervenne Primus.

“Ci hai mai fatto l’amore?” “Si tratta della mia vita privata.” “Ora non più!” La voce di Xoavia era tagliente come una lama, “allora?” Primus sbuffò: “Diverse volte. Mai avuto problemi, però.” “Ti ha mai detto qualcosa di particolare? Che so, magari una frase che non ti aspetteresti da una visitatrice dello specchio-visore?” “È sempre venuta da me con l’intento di fare sesso. Non abbiamo mai parlato veramente. Non per conoscerci meglio, almeno, ma spesso ho provato la sensazione di conoscerla da molto tempo.” “Probabilmente perché, forse, lei invece ti conosce bene.” “Cos’è successo veramente a Richard?” Chiese Jack. “Altha mi ha detto che lo ha prosciugato con il sesso.” Xoavia scoccò un’occhiata perplessa a Primus, “Lo ha ucciso in questo modo. Mi chiedo perché non lo abbia mai fatto con te.” “Forse è gelosa.” Osservò Jack. “Piantala, Jack.” Primus lo guardò. Jack azzardò: “Tu hai avuto una visita di Altha. Forse Lei è gelosa dell’altra entità.” “Ma perché uccidere Richard?” Primus guardò Xoavia. Gli occhi della ragazza adesso splendevano come pezzi di giada attraversati da una luce calda e potente: “Per saperlo dobbiamo raggiungere Altha e credo subiremo diverse interferenze da parte sua.” “Come facciamo a restare in vita se lei vuole ucciderci?” era stato Jack a parlare, “l’esortazione di Altha a stare uniti non ha salvato Richard!” “Richard era succube del fascino di quella creatura. Gli aveva già fatto visita, lo aveva già sedotto e lui non ha opposto resistenza. Ciò che rende diversa la vostra

situazione dalla sua è che ora sapete. Per cui statene alla larga. Non credete a nessuna manifestazione sia riconoscibile che sconosciuta. Sappiamo che ha afferrato Richard con la seduzione. Non so perché con te non lo abbia ancora fatto ma deve esserci un motivo. È troppo intelligente per volere solo del sesso e basta; altro non saprei dirvi, per ora.” Primus fece un risolino: “Magnifico! Adesso siamo a posto.” “Dobbiamo raggiungere Altha. È lei la sola sicurezza che abbiamo.” Jack disse: “Quando ci muoveremo?” “Appena avremo riposato un po’. Non possiamo permetterci di restare senza energie. Ci sono tre stanze da letto, sceglietene una e testa e dormite quanto vi è necessario. In cucina, se vi va, troverete una cena a base di carne, formaggio, birra e acqua. Domattina presto, partiremo.” “Un’ultima cosa.” Disse Primus senza varcare la soglia dello studio come invece aveva fatto Jack. Xoavia gli elargì un debole sorriso. “Se noi siamo semplici creazioni dell’Altro perché proviamo il desiderio di nutrirci, dormire o fare l’amore?” “Perché non siamo manichini, Primus. Non siamo oggetti senz’anima. Siamo sue creazioni, siamo le sue rappresentazioni. E non fare qualcosa per come l’Altro le ha immaginate equivarrebbe a morire, nel Sensum. Adesso basta parlare. Dobbiamo riposare.” Pensieroso, Primus salutò l’argenteo con un cenno del capo e seguì l’amico al piano di sopra. Nessuno dei due fece onore alla cena ma si scambiarono parole di circostanza prima di ritirarsi. A Primus toccò una stanza che si trovava nell’ala esposta a ovest della casa, un ambiente spazioso ma anonimo con un grande letto in ferro, un armadio a tre ante ben fornito di vestiti maschili che scoprì adatti alla sua corporatura e una finestra che dava sull’onnipresente giardino. Il sole, o qualsiasi cosa ne fe le veci, era ancora alto, per cui tirò le persiane in modo da avere la stanza immersa nel buio. Poi si gettò sul letto, vestito, a riflettere. Quella conversazione era stata assurda, ma quella donna gli era sembrata molto

persuasiva. Troppo, a ben pensarci. Si chiese se fosse realmente affidabile come diceva. Non gli piaceva il modo in cui si era comportata con Jack, anche se aveva reagito all’inizio di quello che aveva tutta l’aria di un’aggressione fisica. Ma una vocina nella sua mente, una vocina che niente aveva a che fare con lo specchio-visore o le varie altre esperienze extra percettive che conosceva, gli diceva di stare attento. Forse Xoavia sapeva più di quanto desse a intendere. Al momento, comunque, non potevano fare altro che attendere gli eventi. Ma era determinato a non farsi cogliere impreparato da niente e nessuno. Almeno, lo sperava. Con questi pensieri, spense la luce della piccola lampada di metallo che aveva , chiuse gli occhi cercando di rilassarsi e, in pochi minuti, si addormentò profondamente.

8

Quando fu il momento, Primus si ritrovò a guardare con una punta di nervosismo Xoavia che impartiva a lui e a Jack le ultime istruzioni prima di avventurarsi nel Nescium. Non era affatto sicuro che quanto stavano per fare fosse la cosa giusta ma c’era poca possibilità di scelta. Il mondo-mondo era andato, distrutto. Era collassato su se stesso e non sarebbe mai più tornato. La realtà come lui la conosceva aveva ceduto il posto a qualcosa di cui non aveva la minima esperienza e se c’era qualcuno in grado di aiutarli quella era Xoavia, sempre che non si rivelasse ostile. Se lo era in un modo o nell’altro lo avrebbero saputo e tale consapevolezza lo rendeva ansioso. La donna, al contrario, sembrava perfettamente a suo agio, nessuna emozione apparente, nessun ripensamento. Qualsiasi cosa fe o dicesse, mostrava un autocontrollo perfetto, come se tutta quella faccenda non la toccasse minimamente. Aveva preparato zaini con cibo e acqua, perlopiù sotto forma di barrette energetiche e bottigliette. Guardando cupamente il suo zaino Jack disse: “E adesso?” “Adesso comincia il viaggio.” Rispose lei, aprendo la porta. Primus fece un profondo respiro cercando di controllare i nervi. Prima ancora di uscire all’aperto si accorse del cambiamento del paesaggio che avevano attraversato per raggiungere la casa. Non esisteva più la stradina fiancheggiata dalle villette in legno dai giardini ben curati. Non c’era neanche quella nebbia insidiosa né la pallida luminosità diffusa al posto del sole. Ciò che vedeva era solo una sterminata, terrificante landa desolata e grigiastra che si perdeva a perdita d’occhio in tutte le direzioni. Prima di uscire fermò la donna per un braccio: “Questo cos’è?” Nella sua voce, l’ansia era palpabile. “Non somiglia a quel che abbiamo visto ieri.” Incalzò Jack, esitante. Lui e Primus si scambiarono un’occhiata. “Il mondo del Nescium non è come il mondo-mondo.” Come al solito il tono di Xoavia era limpido, senza incertezze, “la prospettiva cambia continuamente e nulla resta mai uguale a se stesso. Ricordatevi che questo è simile al mondo tre

di Popper. Qui le volizioni dell’Altro diventano entità astratte ma a se stanti.” “E perché la tua casa rimane tale e quale?” Xoavia guardò Primus: “Perché la mia abitazione è una mia idea. Vi ho già detto che noi argentei siamo parzialmente autonomi in questa realtà, anche se non raggiungiamo le capacità di Altha. Per questo dovrete seguirmi e starmi il più vicino possibile. Diversamente potreste perdervi e non sarebbe una bella cosa.” Ciò detto, oltreò la soglia e li attese per qualche istante. Lanciandosi fuggevoli occhiate intorno, i due amici seguirono la donna che si mise in marcia ponendosi alla testa del gruppetto. Uscirono lentamente dal giardino e superarono il cancelletto che cigolò quando lei lo richiuse ordinatamente. Oltre la casa l’ambiente era morto, non c’erano alberi, case, altre persone. L’orizzonte era completamente sgombro e non videro neanche detriti o strade. Il terreno era una superficie di terra rossiccia, poco cedevole e molto polverosa. Sopra di loro veleggiavano placidamente nuvole possenti, nivee e aggraziate, illuminate da una luce diversa da quella solare. E Jack vide con sgomento che non ci sarebbe stata alcuna auto: “Dobbiamo andare a piedi?” Chiese. “È più sicuro. Qui le strade non si mantengono tali a lungo. Le guardi un attimo prima e ti sembrano asfaltate a dovere, poi scendi dalla macchina e ti ritrovi in una palude dove le sabbie mobili hanno già provveduto a farla affondare.” “Se il Nescium è così imprevedibile è anche pericoloso, non credi che un mezzo di trasporto sarebbe più sicuro invece di proseguire a piedi?” “Non mi stai ascoltando.” Lo rimproverò Xoavia senza asprezza, “tutto è instabile. Soltanto le creature coscienti come noi restano identiche a se stesse perché sono consapevoli di esistere. Ma questo mondo è composto da astrazioni che per la loro stessa natura sono mutevoli.” “Ma hai detto tu stessa che la tua casa è stabile perché è un tua idea. Tu puoi creare materia, anche se hai dei limiti. Perché non creare una macchina o un veicolo diverso, magari un aereo?” “Proprio perché sono un argenteo, Jack.” Ribatté lei, con pazienza, “Sì, è vero, io posso creare materia ma se fi lo stesso con un veicolo o qualsiasi altra cosa,

esso subirebbe comunque l’influenza del Nescium. La mia casa è stabile perché si tratta di un’idea che riguarda me sola e non voi. Ricordatevi che qui tutto interagisce con tutto e io non so come potrebbe interagire con voi un qualcosa creato da me perché siamo entità diverse e separate. Meglio andare a piedi, fidati.” “Stai dicendo che niente di inanimato è stabile, solo le creature viventi e consapevoli, giusto?” “Esatto, Jack.” “E quali sono gli abitanti?” La donna scosse la testa: “Qui siamo tutti argentei, naturalmente, e non è detto che siano nostri amici.” “Allora siamo a posto!” Commentò lui, acido. Xoavia non disse nulla e continuò ad avanzare. Qualcosa si accostò a loro e Primus ebbe modo di osservare un buffo animaletto giallo e arancio che somigliava vagamente a una lucertola. Aveva due enormi occhi giallastri ed era completamente ricoperto da una fitta pelliccia. Una lucertola pelosa dall’aria simpatica. Primus sorrise istintivamente a vederla: “Cos’è?” L’animale scattò a destra e li superò filando a una velocità vertiginosa. Primus lo guardò prima che svanisse all’orizzonte. Xoavia disse: “Non so cosa sia, probabilmente il simbolo di un’idea dell’Altro.” “Non ho mai visto un animale del genere.” Replicò Jack, pensieroso, “e credo che non sarà il primo.” “Abbiamo qualche possibilità di vederlo, questo Altro?” Fece Jack, accelerando leggermente il o per stare vicino alla donna. Lei sorrise: “In realtà spero proprio di no. Per gli abitanti del mondo-mondo vedere l’Altro equivarrebbe a morire. Come vi ho detto, non è un’entità del Nescium, ma colui che l’ha creato.”

“Di bene in meglio.” Commentò lui, in tono scherzoso. Xoavia sorrise, Primus rimase serio. Quel mondo lo deprimeva. I suoi piedi avanzavano meccanicamente su quel suolo brullo che minacciava di trasformarsi in qualcos’altro in qualsiasi momento. In quell’immensità loro tre sembravano gli unici esseri viventi, a parte sparuti animaletti come la curiosa lucertola pelosa che aveva visto prima. Altro punto oscuro era la misteriosa entità che aveva ucciso Richard, la stessa che aveva fatto l’amore con lui tantissime, infinite volte. Possibile che fosse letale come dicevano Altha e Xoavia? Si chiese per quale motivo non si combattevano tra loro invece di mettere in mezzo lui e Jack. Ma pensò che Xoavia avesse ragione su un punto: la loro presenza era realmente indispensabile a qualcosa. C’erano un milione di domande da rivolgere alla loro guida ed era sicuro che se anche le avesse soddisfatte tutte, le risposte ne avrebbero fatte nascere un altro milione. La Conoscenza era l’unica barriera che poteva proteggerli e, in senso lato, farli sopravvivere. Stranamente, però, nessuno parlava, nessuno di loro scambiava pareri, anche se immaginava che Jack fosse avido di informazioni quanto lui. Quella donna, o meglio, l’argenteo che li guidava, incuteva un vago senso di timore reverenziale. Un leggero sommovimento nel terreno allarmò la donna: “Fermi!” Ordinò. “Che cosa c’è?” Domandò Jack, teso come al solito. Prima che lei potesse rispondere dal suolo rossastro spuntò una massa di cemento e vetro che aveva tutta l’aria di un edificio. Jack imprecò ma il suolo sussultò un’altra volta. Alla struttura di prima si aggiunsero porte, negozi e nuovi strati di cemento o vetrate ma non era il solo. Uno dopo l’altro, diversi edifici in vari stadi di costruzione spuntarono dalla terra allineandosi come soldati in assetto da combattimento. Poi fu la volta delle strade, che si plasmavano direttamente con il terriccio sulle quali, una volta complete, appariva istantaneamente la segnaletica orizzontale senza che nessuno la tracciasse. La stessa cosa avveniva per quella verticale, i semafori e i cartelli con le indicazioni stradali. Una città intera che si stava costruendo da sola, fuoriuscendo dal Nulla all’esistenza. “Proseguiamo!” Li ammonì Xoavia. “Cosa succede?” Chiese Primus. L’argenteo rispose senza voltarsi: “È una delle idee dell’Altro. Forse sta

pensando a qualcosa, un luogo o una fantasticheria qualsiasi. Potrebbe anche essere il simbolo di un suo stato d’animo. Non è sicuro qui, anche se sto cercando di attenuare gli effetti della costruzione.” “La costruzione?” “Esatto, Jack.” Rispose la donna senza scomporsi, come al suo solito, “avvertite forse scosse del sottosuolo? Sto limitando le vibrazioni, ma non posso fare di più. Allunghiamo il o. Tra poco qui sarà affollato.” “A me farebbe comodo se ci fermassimo.” Obiettò Primus, “se nascono anche negozi potremmo mangiare un boccone e magari riposare per la notte da qualche parte.” “La notte in questa dimensione non è innocua come quella del Sensum e noi abbiamo le razioni energetiche.” “Alta cucina?” Esclamò con sarcasmo Jack, guadagnandosi un’occhiataccia da parte della donna. “Qui è il Buio assoluto che si oppone alla luce ambientale ma anche se non la vince mai del tutto, Jack divora ogni cosa incontri sul suo cammino.” Spiegò lei, “non è prudente aspettarla, meglio proseguire. Una volta arrivati in vista di una zona buia, vedremo cosa offre la situazione e considereremo il da farsi.” Continuarono per la loro strada ignorando i negozi che aprivano e le auto che cominciavano a circolare sulle strade come in una qualsiasi città del mondo reale. Improvvisamente, Primus si fermò, gli era parso di vedere qualcosa. Da un edificio davanti a loro, distante non più di una ventina di metri, qualcuno gli stava facendo cenni di avvicinarsi. All’istante, l’intonaco del complesso divenne arancio e una moltitudine di vetrine splendettero abbaglianti, nonostante la luce del sole non fosse affatto fioca. Qualcosa si muoveva nelle vetrine, qualcosa che faceva cenni ai anti che si fermavano volentieri. Alcuni posavano le mani sulle vetrate e indugiavano o varcavano la soglia dell’ingresso sorvegliata a vista da un ex presidente degli Stati Uniti, Richard Nixon. Era quella la figura che gli aveva fatto cenno di avvicinarsi. Primus guardò il curioso spettacolo con stupore. Jack, invece, emise un fischio di ammirazione perché le grandi vetrate mostravano donne eleganti che sembravano divertirsi un mondo a chiacchierare tra loro e con gli uomini che le

guardavano. Alcune di quelle ragazze erano molto belle e invitavano i anti a offrir loro la cena. “Volete andare a vedere?” disse l’argenteo, con aria divertita. “Che roba è questa?” Fece Jack. “Uno spaccato degli anni d’oro della politica americana, direi. Almeno a giudicare da Nixon che fa il gorilla del locale.” La ragazza fece un sorrisetto e guardò Primus: “A te interessa dare un’occhiata?” “M’interessa sapere il perché di Nixon.” “Forse l’Altro lo sta semplicemente sognando.” Una limousine bianca si fermò davanti all’ingresso e ne scese la first lady, elegantemente abbigliata con un completo nero. Jack disse: “Se l’Altro sta sognando tutto questo ha dei gusti notevoli in fatto di donne.” Senza dire nulla, Primus si staccò dal gruppo e si avvicinò alle vetrine dove ora si era radunata una piccola folla. Cominciava a sentire il chiacchiericcio che facevano gli avventori, mentre Nixon e signora si disponevano a mo’ di guardie del corpo, all’ingresso. Da una delle vetrine una donna lo chiamò: “Ehi!” Disse, salutandolo con un gran sorriso e rivolgendogli un languido cenno. Primus si avvicinò, incuriosito, ma qualcuno lo fermò per un braccio. Si voltò e vide Xoavia: “Non avvicinarti troppo, potrebbe essere una trappola.” “Credi che quella ragazza potrebbe essere Lei?” Le chiese. “Quella è una proiezione dell’Altro, come tutte le donne che vedi qui. Parlale se vuoi, ma tieniti a distanza di sicurezza.” Si era aggiunto anche Jack: “Credevo che non ci fossero altre persone, oltre a noi.”

“Quelle non sono persone.” Ripeté l’argenteo. “Sono proiezioni dell’Altro, pare.” Aggiunse Primus. “State attenti a quello che fate quando vedete qualcuno.” Continuò Xoavia in tono serio, “proiezioni come queste sono innocue ma potrebbero nascondere qualche argenteo negativo o addirittura Lei.” La ragazza che gli aveva fatto cenno si sporse e andò incontro al terzetto. Era giovane, non dimostrava più di venti o al massimo ventidue anni. Indossava un completo beige attillato in vita, un foulard bianco attorno al collo e scarpe di vernice dello stesso colore del foulard. I capelli, biondi, erano arruffati e incorniciavano un visetto molto grazioso. I suoi occhi erano grandi e vivaci, ma privi di una vera espressione: “Ciao!” Esclamò quando fu davanti a Primus, “Siete Esterni?” Non sapendo cosa dire, Primus annuì. Jack le si avvicinò leggermente: “Tu chi sei?” Con voce squillante la proiezione disse: “Mi chiamo Sandy.” “Dove abiti?” “Dovete farmi le domande giuste.” “Cosa fai per vivere?” Le domandò allora Primus. “Parlo!” “E poi?” La ragazza sorrise gaia, poi ripeté: “Dovete farmi le domande giuste, Esterni.” Stupito, Jack le girò cautamente intorno e ritrovò lo stesso volto di donna, lo stesso foulard, gli stessi occhi che adesso parlavano anche a lui: “Ciao!” Gli disse l’altra Sandy. Preso alla sprovvista, abbozzò un sorrisetto trovandosi stupido. Xoavia aveva ragione ancora una volta. Quella era davvero una proiezione dell’Altro. In tutto e per tutto simile a un’immagine tridimensionale, non aveva una forma ben definita. Era solo la caricatura di un vero essere

umano, ma non aveva un corpo. Era un fantasma dalla consapevolezza molto limitata. Senza rispondere si allontanò da quella sorta di diapositiva animata facendo nel contempo cenno a Primus di proseguire. Sorridendo, Sandy tornò al suo posto e cominciò a chiacchierare con gli altri avventori. “Le proiezioni non sono veramente vive, Jack.” Lo informò Xoavia, con una risatina, “esistono per il tempo sufficiente all’Altro per cambiare idea su qualcosa. Se sono fortunate possono durare a lungo, a volte persino per qualche ora. Ma di solito il loro tempo è di pochi minuti, man mano che l’Altro prosegue con la sua fantasia o il suo sogno.” Jack si sentì a disagio. Non era logicamente possibile vedere un ex presidente che fa da gorilla a un mucchio di ragazze tirate a lucido. O forse no? “Questo Nescium è del tutto fuori fase!” Commentò ad alta voce, come se stesse parlando più che altro a se stesso. “Pensavi sul serio che fosse una donna vera, Jack?” Ridacchiò l’amico. “Ci sei cascato anche tu, mi pare.” Primus assentì: “È incredibile. Questo Altro ha una Capacità Immaginifica simile a quella necessaria per creare il mondo-mondo. Guarda quegli edifici: sono perfetti.” “Esatto.” Xoavia gli scoccò un sorriso, “ricordatevi che anche il mondo-mondo era legato all’Altro, anche se in modi che noi non comprendiamo.” “Dove stiamo andando?” Disse Jack. “Penso proprio che dovremo fermarci. Siamo vicini alla Notte.” “Non vedo nulla!” “Io riesco a percepirla, ma non credevo che l’avremmo incontrata così presto. Evidentemente il Nescium ha perso stabilità più velocemente di quanto pensassi.” “E che facciamo, ora?” Il tono di Jack si era fatto incrinato.

“Tra poco gireremo a sinistra, oltre quel palazzo laggiù.” Xoavia indicò un edificio intatto, non molto alto, dove c’era una tavola calda la cui insegna diceva ‘Gusta & Assapora’. La ragazza continuò: “Ho già visto altre volte quell’insegna e questo potrebbe essere indizio di una relativa stabilità. Di solito, più una cosa riappare più l’Altro la immagina e di conseguenza la costruzione è stabile. Se saremo fortunati potremo anche dormire un po’ prima di tirare dritto. La notte dovrebbe essere subito oltre l’edificio. Preferisco affrontare il rischio lì invece che tentare la sorte in posti che non ho mai visto prima e, quindi, probabilmente meno sicuri. E del resto non è che abbiamo molte alternative.” Primus le si accostò, guardandosi intorno con apprensione. “Il tempo qui è diverso da quello del mondo-mondo, vero?” “Non scorre, se è questo che vuoi sapere. Il tempo non ha motivo di esistere in un mondo abitato da astrazioni a loro volta nate da concetti e idee.” Il gruppetto s’inoltrò attraverso la strana città animata da illusioni che sembravano persone reali. Di tanto in tanto quei buffi esseri li salutavano come se li conoscessero ma né Primus né Jack rispondevano al saluto. Nessuna proiezione dava mai a intendere di essere offesa e semplicemente proseguiva oltre. A Primus la cosa in un certo senso divertiva, ma questo non era il parere di Jack. Era un mondo popolato da fantasmi che da un momento all’altro poteva scomparire per riformarsi da qualche altra parte in quel Niente che Xoavia chiamava Nescium. Non aveva ancora la minima idea del suo funzionamento e neanche se realmente funzionasse, in qualche modo. Solo lui e Jack erano sopravvissuti al mondo-mondo perché Xoavia non faceva parte del gruppo, lei si era soltanto aggiunta su ordine di Altha. Se noi dovessimo scomparire come tutto il resto cosa cambierebbe per lei? “Ecco!” Disse in quel momento la donna, indicando con una mano la loro destinazione. Insicuro, Primus alzò lo sguardo e si ritrovò davanti la tavola calda indicata dalla ragazza. Sperò con tutto il cuore che l’argenteo non li tradisse, che fosse realmente quel che diceva di essere. In questo modo avevano una possibilità di sopravvivere. Sopravvivere… Sperò di farcela, sperò che anche Jack ce la fe. Senza sapere il perché

sorrise, ma il suo era un gesto puramente istintivo e ritornò subito serio. Perché era ormai chiaro che anche con Xoavia dalla sua parte la vita come la conosceva non sarebbe mai più tornata.

Jack guardò l’edificio, una costruzione curiosa, ultima di una lunga serie di palazzi, alcuni molto alti, che sembravano reali sia alla vista che al tatto. Da quell’angolazione, tutto in quella strana città non appariva dissimile dal mondomondo. L’edificio con la tavola calda ‘Gusta & Assapora’ delimitava la fine di tutto, letteralmente. Alle sue spalle, Jack notava uno spazio scuro che gli ricordò quello che lui, Primus e Xoavia avevano attraversato per varcare la soglia del Nescium. Solo a vederlo gli vennero i brividi: “È quella la Notte?” Disse. “Esatto.” La ragazza si fermò voltandosi verso di loro, “ora mangiamo qualcosa. Probabilmente gli altri clienti sono tutti argentei. Nel caso, non accettate niente da loro, intesi? Non possiamo prevedere dove sia Lei.” Primus disse: “Che cos’è quella che tu chiami Notte? Uno spazio vuoto o cosa?” “Fa paura.” Commentò Jack, quasi mormorando con se stesso. “Voi sapete che il Nescium non registra lo scorrere del tempo,” la ragazza fece un sorrisetto, “e non esiste neanche l’alternarsi della sequenza giorno/notte.” “Quindi quello non è il sole!” Primus rivolse un cenno alla fonte luminosa che splendeva sulla città. Xoavia annuì: “Quella è la nostra destinazione.” Jack ghignò: “Vuoi dire che quel… quel coso è Altha?” “Esatto, Jack. Sorpreso?” La voce della donna era leggermente salita di tono e questo fece drizzare le antenne a Primus. Per quanto in apparenza tranquilla, Xoavia non era una persona con cui scherzare troppo. Jack stesso ne aveva avuto la prova da vicino, quando aveva fatto un commento non proprio positivo su Altha. Xoavia non era una persona

nel vero senso del termine, dunque perché stuzzicarla? Sperò che Jack se ne rendesse conto e scendesse a più miti consigli. Chiunque fosse, argenteo o meno, la loro guida non necessariamente era anche loro amica. “Sta’ zitto!” Esclamò. Jack sbuffò: “Credevo che Altha fosse una donna.” Xoavia spostò alternativamente lo sguardo da Primus a Jack: “Altha diventa quello che vuole. Però hai ragione, Jack, la sua anima è femminile quindi potremmo dire che è una donna.” “Dormiremo davvero qui?” Chiese Primus, cambiando discorso. “Solo se sarà possibile.” La donna varcò la soglia della tavola calda. Primus e Jack, invece, esitarono un momento. L’edificio era strano e sembrava instabile, come se invece di cemento, vetro e acciaio fosse composto da una sostanza in perenne cambiamento. Se concentrava lo sguardo su un dettaglio qualsiasi, a Primus pareva di vedere il cemento ribollire come una vasta massa di sostanza plastica e aliena che tornasse a fuoco e si dissolvesse svariate volte al secondo. Gli dava la sgradevole impressione di essere un qualcosa di vivente, pulsante, solo che l’occhio umano era troppo lento per vederne le pulsazioni simili a quelle di un gigantesco, incommensurabile cuore. Jack disse: “Non mi piace per niente.” Primus annuì: “Non facciamola aspettare. La nostra Xoavia è una donna di polso.” “Così sembra.” Ribatté l’amico, seguendolo. Anche nel locale Primus ebbe la stessa sensazione di prima. Camminava lentamente facendosi strada in una vera e propria bolgia. C’erano proiezioni che facevano le stesse cose delle persone reali, ma vide anche gente che aveva una forma più definita, tridimensionale. Probabilmente erano argentei. Come già aveva notato all’esterno, anche lì ogni oggetto, ogni struttura, dal pavimento al bancone, alla vetrina con i primi piatti, gli antipasti e i dolci, possedeva quella

strana qualità che rendeva tutto instabile. Rapidissimi, gli oggetti avano da uno stato solido a uno quasi gassoso e viceversa. Se si avvicinava di più poteva osservarne le condizioni alternate. Concentrò l’attenzione su una sedia, la toccò e ne percepì direttamente la fase aleatoria. Avvertiva il flusso e il riflusso delle oscillazioni come se la sua mano fosse risucchiata e respinta da invisibili ‘onde di materia’. Ripensò all’esempio del Gatto di Schrödinger e alla struttura della materia subatomica. Ma poi capì che quello di Xoavia era stato solo une esempio per rendere loro l’idea, ma non era sufficiente. Le ‘onde di materia’ che avvertiva sui polpastrelli delle dita non erano atomi ma pensieri. Intanto, le proiezioni e gli argentei gli avano accanto senza farci caso, come se nessuno di essi percepisse le sue stesse sensazioni. A volte, alcune scomparivano lentamente, diventando più trasparenti fino a dissolversi del tutto e confermando in tal modo ciò che aveva detto Xoavia a proposito della loro durata. Primus era completamente sconcertato e ciò che più gli dava la nausea era che probabilmente avrebbero dormito in un posto come quello. Alla sua sinistra vide un lungo bancone in acciaio verniciato di scuro sormontato da un ripiano in finto marmo dove i clienti prendevano il caffè e mangiavano ciambelle parlando e scherzando. Se si trattava di proiezioni, il lato posteriore di ciascuna masticava all’unisono con quello anteriore e così capitava che la ciambella venisse masticata e si riformasse più e più volte finché la proiezione stessa esisteva. Nel caso degli argentei era diverso: loro avevano una forma tridimensionale ben definita e mostravano un comportamento più naturale. Dietro il bancone c’erano due ragazze bionde che servivano i clienti con grande professionalità e cortesia. Il personale di servizio sembrava essere esclusivamente femminile e avevano tutte una loro dimensione nello spazio. Quelle donne erano argentei e questo dettaglio lo inquietò. Alle loro spalle vide bottiglie di liquori, scatole di colore chiaro, insegne di birre e il tariffario prezzi. Quasi al centro della sala c’era una lunga fila di tavoli color crema le cui sedie erano rivestite in panno azzurro. Molti posti erano vuoti perché la maggior parte dei clienti preferiva stranamente mangiare in piedi. Primus seguì i suoi compagni a uno dei tavoli più appartati e sedette accanto a Jack. Come il resto dell’edificio, anche la superficie del tavolo pulsava ma cercò di non darvi troppo peso; tuttavia non poteva fare a meno di notare che tutto, in quel locale, era permeato da un’essenza tenebrosa e onnipresente che gravava sulla sua mente in modo sottile e insidioso. E desiderò fortemente di essere nel suo mondo, al sicuro, lontano da

quello strano Nescium che non capiva e che lo spaventava. Il rumore di fondo era alto e gli venne da sorridere all’idea di quelle curiose caricature di persone che consumavano le loro ordinazioni per poi scomparire miseramente senza neppure accorgersene. Fu la voce di Jack a farlo tornare con i piedi per terra: “Allora? Che si mangia in un posto fantasma come questo?” “Lo trovo orribile.” Commentò Primus. “L’hai detto!” Jack era teso, “non mi piace qui.” “So che è sconcertante, ma cercate di non darvi peso. Se resteremo uniti non potrà accadervi nulla. Voi seguite solo i miei consigli e presto saremo da Altha.” “È una parola.” Disse Jack. Xoavia gli rivolse un blando sorriso: “È la nostra unica possibilità.” “Il restare uniti non ha salvato Richard.” Commentò tristemente Jack. “C’è una differenza, adesso. Siete con me e voi sapete quanto sia pericolosa Lei.” “Ho notato molti argentei e sono tutte donne. Immagino abbia un senso anche questo.” Sbottò Primus. Sulle prime la ragazza esitò, poi disse: “Non è un caso, infatti. Come vi ho detto, il Nescium è abitato per lo più da argentei come me. Non tutti sono consapevoli di quel che è successo al mondo-mondo, ma molti lo sono e non ci fanno caso. Per loro la vita è questa, un po’ come per voi lo era quella della vostra dimensione. Il fatto che qui il personale di servizio sia composto da sole donne non deve sorprendervi se ricordate che l’Altro ha una natura essenzialmente maschile e che questo, in fondo, e il suo mondo delle idee. Anzi, se ci fate caso noterete che le cameriere sono stereotipate. Sono tutte carine, esili e un po’ stupidotte.” Xoavia scoppiò a ridere, “Esattamente come una buona parte delle proiezioni.” “Sembra un po’ misogino questo Altro.” Osservò Jack, di rimando.

“Non è detto!” Xoavia sembrava di buon umore, “perché è possibile che le proiezioni non rispecchino in tutto e per tutto le entità reali. Del resto, anche nel Sensum le donne erano per la maggior parte belle, no?” “Esistono altre entità come l’Altro?” Era stato Primus a parlare. Xoavia rispose senza esitazioni: “Non ne ho idea.” In quell’istante arrivò da loro una ragazza snella, alta poco meno di un metro e sessanta. I suoi capelli biondi erano raccolti in una coda sbarazzina legata con un fiocco rosa. Era una delle cameriere che indossava la divisa rosata del ‘Gusta & Assapora’. Il suo abbigliamento comprendeva anche calze di seta e scarpe rosa dai tacchi alti. Primus la trovò deprimente come un cartone animato. “Volete ordinare, ragazzi?” Disse la ragazza con voce flautata. Il tono di lei fece scattare qualcosa nel suo cervello, un minuscolo, lieve interruttore che mise in moto ricordi e sensazioni che aveva già provato. E quelle sensazioni gli dicevano che quella donna non era un volto sconosciuto, che l’aveva già vista. Ma dove?” “Qual è il piatto della casa previsto per oggi, Donna?” Domandò la loro guida. La ragazza scoccò un’occhiata furba a Xoavia: “Per dieci NM il piatto della casa prevede bistecca di manzo in salsa rossa, patate al forno, pancetta, pane tostato, una birra media. Per dolce potete scegliere tra crostata di more e torta al limone.” “NM?” Chiede Primus, incuriosito. La cameriera lo guardò: “Come hai detto?” Primus non riuscì ad aprire bocca perché Xoavia fu più veloce: “Va bene per tutti, vero ragazzi?” “Che dolce volete?” “Jack alzò la mano: “Torta al limone.” “Anche per me.” Primus sospirò.

“More, Donna.” Xoavia le allungò tre banconote dipinte a colori vivaci, fluorescenti, dalle dimensioni simili a un dollaro standard. Simili a un vero dollaro. Quando la ragazza se ne fu andata, Xoavia disse: “Volevi dirmi qualcosa, Primus?” “Che soldi sono quelli?” “Nescium Money, naturalmente. La moneta accettata in questa dimensione.” La ragazza gli diede una banconota da venti e Primus lesse, incuriosito, la seguente frase: “Venti Nescium Money. La legge punisce i fabbricatori e gli spacciatori di idee originali. Io sono il tuo dio.” “Fa’ vedere!” Jack gliela tolse di mano. “Anche questi sono idee dell’Altro.” Primus sorrise. “Come tutto, qui.” “Incredibile!” Commentò Jack. “Non tanto.” Xoavia si riprese la banconota, “c’è una logica anche qui. Oggi il denaro ha sostituito valori, religione, ideali. E deve essere così anche nel mondo dell’Altro. È logico, quindi, che nel Nescium le idee e le considerazioni siano quelle del creatore di tutto questo. Che altro c’è, Primus?” “Quella ragazza… io la conosco.” “Sì, l’ho notato.” Lei sa. “È un argenteo, naturalmente. Dove l’hai vista?” “In un posto chiamato Dolls World, un giorno che ci sono andato con Jack. Ricordo anche le nostre ordinazioni. Io scelsi un doppio cheeseburger al formaggio, patatine fritte e birra, Jack invece decise per una porzione di pollo fritto, toast al prosciutto e uova strapazzate.”

“Non ricordo.” Fece Jack. “Io ricordo che le hai guardato nella scollatura.” “Davvero interessante!” Ribatté l’amico, guardandolo di traverso. Primus sorrise, ma fu Xoavia a parlare: “Donna avrà quasi certamente capito che l’hai riconosciuta, ma ho interrotto qualsiasi possibilità di confronto tra te e lei. Sì, è vero: potrebbe benissimo aver lavorato nel mondo-mondo, cosa che d’altronde fanno moltissimi argentei. E comunque tutti i biglietti che vi ha inviato Altha sono stati portati da qualcuno di noi, no?” “Ma adesso non ne manda più!” Xoavia fissò Jack: “Non è necessario visto che ci sono io con voi. Lei sa quel che so io e quando mi ponete le domande è in parte come se le faceste a lei. Tornando a noi”, posò lo sguardo su Primus, “meglio non rivolgere domande agli altri argentei. L’entità che chiamiamo Lei resta comunque un’incognita. Lasciate sempre che sia io a parlare con loro.” “La sua divisa,” osservò Primus, “è molto simile a quella che indossava nel mondo-mondo. E ora che ci penso hai ragione tu. Un aspetto stereotipato, direi, come quello della maggior parte delle donne nel mondo-mondo. Tutte argentei?” “Non penso proprio ma, come vi ho detto, tutti i tre mondi riflettono idee e volizioni dell’Altro, sebbene in modo diverso.” “Parliamo di Altha, adesso.” Jack sospirò ma s’interruppe quando vide la cameriera tornare con le ordinazioni. Se ne andò rapida com’era arrivata ma Jack non intendeva aspettare la fine del pasto e Xoavia fu disponibile ad assecondarlo. “Altha è una stella?” “Per essere precisi si chiama Altair e il nome Altha né è una versione. E prima che mi facciate la domanda,” Xoavia sorrise, “vi dirò che non so perché lei si chiami così. So però che non è propriamente una stella reale e non ha una forma ben definita.” “Tempo fa mi è apparsa con una forma indistinta, variamente luminosa. Forse, in

realtà, Altha ha tutte le forme e nessuna. È un’entità astratta ma nello stesso tempo reale.” L’argenteo assentì ma non aggiunse altro. Forse non era un caso che rimanesse in silenzio. Mentre mangiava, Primus notò una lieve vibrazione nella superficie del tavolo, e un’altra a livello della sedia. Sembrava una minuta dissolvenza, una lieve scossa elettrica che pervadeva la materia a livello molecolare. Solo in quel momento si ricordò delle sensazioni di instabilità che aveva avvertito così e si chiese se anche il cibo lo fosse. Quasi di sicuro, direi. La vibrazione continuò. Cercò di non farci caso e prese il suo bicchiere di birra per berne un sorso, ma quando inghiottì gli parve di bere elettricità liquida. Allontanò il bicchiere dalle labbra in un gesto scomposto che fece rovesciare parte della bevanda sul tavolo: “Scusate.” Sbottò, ma né Jack né Xoavia dissero nulla. A parte le proiezioni che continuavano ad apparire e svanire una dopo l’altra, fu in quell’istante che notò un certo aumento del caos sia tra i clienti che tra le ragazze del ‘Gusta & Assapora’. “Zitti!” Ordinò Xoavia, prevenendo le loro domande. Il caos aumentò. Gli argentei e i clienti, solidi e semisolidi, cominciarono a sciamare fuori dal locale in modo disordinato. “L’entropia del sistema sta aumentando!” Disse la ragazza, “la Notte è qui; dovete venire con me.” Senza aggiungere una sola parola si alzò lasciando il pasto così com’era, prontamente seguita dai due amici. Jack scansò una marea di proiezioni impazzite ando attraverso di loro come si farebbe con fantasmi incorporei, prontamente imitato da Primus. Insieme seguirono Xoavia salendo rampe di scale anguste insieme ad altri argentei. Sbucarono in una serie di stanze spaziose, prive di letti, mobili o finestre. Erano solo ambienti vuoti e spogli che Primus reputò squallidi. Non capiva perché fossero saliti lì invece di fuggire all’esterno come avevano fatto molti altri

avventori, ma doveva fidarsi di Xoavia. La ragazza fece loro cenno di accucciarsi sul pavimento, in attesa, e lui e Jack obbedirono. “Non ci staremo per molto!” Li avvertì la ragazza, “non abbiate paura e rimanete qui. Non possiamo fare altro che aspettare. La Notte si allontanerà presto.” Aveva appena finito di parlare che una grossa sezione del pavimento scomparve. Ci furono grida, poi altre voci isteriche che urlavano. Diverse proiezioni accanto a loro strabuzzarono gli occhi mentre svanivano. Adesso Primus poteva vedere il piano terra completo dei tavoli, il bancone, le bottiglie e i piatti di cibo ammassati alla rinfusa un po’ dappertutto. Gli sembrava di galleggiare nel vuoto, ma non cadeva. Nessuno cadeva. Poi, lentamente, anche il piano di sotto sparì e vide il profilo dei palazzi accanto a loro, con le insegne e la gente che sciamava impazzita per ogni dove. Diverse macchine si scontrarono, le strade si torsero come se fossero vive, i semafori lampeggiarono, caotici. Le luci delle insegne al neon lottarono impotenti contro la gran massa buia che si avvicinava, atemporale e inesorabile, investendo tutto e tutti senza averne neanche percezione. La Notte era una forza puramente bruta, impersonale. Sta cancellando tutto come un gigantesco pennello su un quadro non finito! Poi vide il Niente, e una voce dentro di lui urlò. Qualcuno gli prese la mano; era Xoavia. Jack se ne stava con gli occhi chiusi, visibilmente spaventato. La ragazza gli rivolse un pallido sorriso. Istintivamente, Primus strinse le dita di lei, trovandole morbide e piacevoli al tatto. Intanto, la città si dimenava svanendo e riapparendo in mostruosa sincronia con il Niente che la inghiottiva. Automobili, edifici, strade, segnali erano divorati, consumati da quella massa nera e vorace che tutto dissolveva. Mio Dio! Scomparirò. La Notte m’inghiottirà e io non posso farci niente! “Primus!” La Voce apparve da sé, nella sua mente. Una voce femminile. Chi sei?

“Guarda in te stesso, tu sai chi sono.” Primus tremò violentemente. Doveva andarsene da lì, doveva alzarsi, correre, fuggire. Ma scappare dove? “Vieni da me.” Gli disse la Voce. La riconobbe. Era la voce di Lei, che lo cercava. “Ti desidero, ti desidero da sempre.” Hai ucciso Richard. “Lui non esisteva ma tu, amore mio, tu esisti!” Xoavia gli strinse con più decisione la mano. La guardò e le lesse negli occhi una volontà infinita. L’avrebbe obbligato a restare. “Liberati da Xoavia. Lei non ti vuole. Vi getterà come uno straccio vecchio quando non le servirete più. Vi sta ingannando, ti sta ingannando. Io ti amo, Primus, soltanto io sono il tuo Destino.” La stanza parve irrigidirsi su se stessa in una calma irreale, assoluta. Poi le pareti cominciarono a cambiare colore, il soffitto sembrò accorciarsi finché divenne simile a una gran voluta di fumo nerastro. Primus guardò verso l’alto ma non vide il cielo. Non vide più la luce di Althaira, sostituita da tenebre fitte e avide. Altre proiezioni urlarono, qualche argenteo si unì al coro finché da quella piccola folla si levò un unico, selvaggio grido di Paura. Tenne gli occhi socchiusi e la mano di Xoavia tra le sue. La guardò e ammirò una volta ancora la sua apparente freddezza. Volute di sostanza smaterializzata fluttuarono nell’aria raggruppandosi in nuvole instabili, rosate, poi verdi, cambiando istantaneamente colori e sfumature. Gli elementi si raccolsero, vibrarono, si separarono poi si unirono di nuovo, più e più volte, in una sequenza terrificante di accese proiezioni cromatiche. In un solo istante Primus avvertì una terribile sensazione di freddo, poi cessò e si ritrovò solo, insieme a pochi altri, a galleggiare in quell’infinito buio e tenebroso. Notò che Xoavia teneva per mano anche Jack che dal canto suo si ostinava a rimanere con gli occhi chiusi. Poi la Notte sostituì

tutto il resto eliminando le sensazioni, i pensieri, le proiezioni che brillarono al calor bianco prima di esplodere senza un grido in infiniti frammenti. Primus si ritrovò in uno spazio senza confini ed eterno e non sentiva più nulla. A parte la voce di Lei: “Ti amo, Primus. Sono tua. E tu sei mio.” Anch’io ti amavo “Vieni da me. Sei spaventato. Solo io posso farti vivere di nuovo.” Una stretta, un tepore, come una mano che stringeva la sua. Xoavia Tese le mani alla ricerca di qualsiasi cosa che potesse restituirgli una sensazione di realtà, ma brancolò nel buio della sua Paura. Esisteva solo come puro pensiero. Sono morto? “Sei mio!” Xoavia “Primus!” Mani adunche lo afferrarono tirandolo verso il cielo o in quel che ne faceva le veci, sospeso a un’altezza vertiginosa che non aveva forma. Che non aveva amore né odio. Solo il Niente come non lo aveva mai immaginato, come non avrebbe mai potuto concepire in tutta la sua vita. E quel Niente lo voleva, lo chiamava, gli diceva parole dolci tentando di arrivare al suo cuore. Era una voce morbida e calda, un alito di fuoco misto a ione. Corpi morbidi apparvero davanti ai suoi occhi, donne bellissime dagli occhi di ghiaccio, pallide dee fatte di marmo e luce, opere d’arte viventi, cesellate dalla mente di un dio. E Primus urlò e cadde, precipitò e gridò e dalla sua gola non esalò nulla, neanche un sibilo, neanche un sospiro che vagasse per l’universo. Erano fatte di pura bellezza e lo volevano. Curve chiamavano curve, quelle dei loro corpi sublimi, vestiti di seta, capelli di giaietto, sorrisi di luce e gambe nervose, saettanti, tutte da carezzare e baciare. E la più bella di quelle dee gli

apparve come non l’aveva mai vista. In un tripudio di calda sensualità, fasciata in un vestito composto di seta e sogno che ne esaltava le forme sublimi. Volteggiò per farsi ammirare, evidenziando con tocchi sapienti le sue curve straboccanti di bellezza. Le sue gambe inguainate da calze leggerissime che terminavano in fiocchi di seta, i suoi glutei tonici che parevano alabastro. La pelle biancheggiava nel buio come un faro nella notte, i seni erano arroganti, scolpiti nella femminilità più seducente. Intorno al morbido collo portava un foulard di seta scarlatta che si levò con mani soavi e per cingere il suo e avvicinarlo a sé. Primus non si oppose e lasciò che quelle labbra umide lo inondassero di un alito delicato come brezza leggera. Labbra morbide, fatte di luce e dolcezza. Già ne sentiva il sapore. Avvertiva la propria eccitazione crescere a dismisura e allora desiderò le dita di Lei. Le sue labbra delicate, umide. “Sei pronto, per me, amor mio?” Lo sono Lei fece sbocciare i suoi capelli, ò le dita tra le ciocche, giocherellò lasciva con la sua bellezza. Si distese su un impossibile letto mostrandogli il suo corpo senza un difetto. E Primus volle percorrere quelle curve, baciare quelle caviglie, i polpacci, le cosce sode e nervose. La sua femminilità lo aspettava umida come una rosellina baciata dalla rugiada. Desiderò assaporarla e darle il piacere che così morbidamente gli offriva. I gemiti che uscivano dalle sue labbra lo fecero prigioniero: “Vieni da me.” La donna dischiuse al massimo le sue gambe perfette, inarcandosi e mettendo in mostra la propria femminilità. Allora Primus le afferrò le caviglie, incapace di pensare. Tra i mugolii di ione di Lei che lo aspettava, leccò una caviglia, poi percorse con la punta della lingua quelle gambe sode ma morbide. Miagolando di piacere, Lei sollevò meglio le gambe, pronta a tutto. Primus tentò di afferrarla per i fianchi ma qualcosa lo afferrò. Qualcosa che stringeva la sua mano e che non lo aveva mai lasciato. Il Buio cominciò a diradarsi, prima lentamente, poi sempre più veloce. Oltre la donna, sospese nel tempo, apparvero strade e balconi, case e palazzi. Qualcuno dei anti si voltò e parve riconoscerlo. “Sono tua ogni volta che vuoi. Guardami, Primus!”

Un laghetto apparve sotto di lui, le sue acque erano pure come il cristallo. “Con me hai la possibilità di conoscere tutto l’universo. Di comprenderlo nella sua infinita interezza, simultaneamente. La nostra unione sarà lo spartito definitivo e universale, oltre il tempo, tutte le note che suonano insieme… Io sono la tua vera Conoscenza, io sono la tua dea. Vieni e fammi tua come desidera il tuo cuore.” Bambini che correvano lungo un viale, alcune donne che chiacchieravano. Jack che lo fissava. “Primus!” Seduta su una poltrona, Xoavia lo guardava. Era diversa da prima, anche nel modo di vestire. Ora indossava una minigonna bianca, un top azzurro screziato di nero. Aveva sciolto i capelli che le ricadevano sulle spalle. Una mano terminava in un braccio innaturalmente lungo e lo teneva stretto con negli occhi uno sguardo di rimprovero. E l’universo urlò con lui. La voce di Lei perse la propria femminilità e divenne un rauco raspare, un suono orrendo, gutturale, scaturito dall’abisso. Una voce che lo chiamava. Primus si scosse, e Xoavia fu più vicina, il braccio di lei ritornò normale. E vide i bambini, il viale e il laghetto. Vide la superficie tranquilla dell’oceano. E sentì il mare che lo lambiva su una spiaggia deserta, assolata, e Xoavia era intorno a lui, insieme a Jack. Il sapore della pancetta del ‘Gusta & Assapora’ gli solleticò piacevolmente il palato e la voce di Xoavia che lo chiamava carezzò le sue orecchie. Annegò nel Buio ma non cadde. Precipitò ma si posò al suolo. Sono vivo ma potrei anche essere morto. E forse non vivrò mai Il mondo ò e nacque ma qualsiasi cosa avvenisse, la luce di Althaira splendeva nel cielo senza stelle perché lei era l’unica stella. Fu con quella piacevole consapevolezza che ritornò alla vita. E mentre Jack continuava a guardarlo, Xoavia gli sorrise dolcemente.

9

Primus era tremante quando fu di nuovo vicino all’argenteo. Come al suo solito, la giovane donna manteneva un aspetto imibile ma qualcosa nel suo atteggiamento sembrava cambiato. Sedeva su un divanetto a due posti, vicino a Jack, che invece appariva quello di sempre. Primus esitò un istante davanti a lei, incapace di parlare, per osservarla bene. E non poté fare a meno di notare le sue gambe che, accavallate in una posizione insolente, erano sottili e armoniose. Fin dal primo momento l’aveva giudicata una donna graziosa ma ora sembrava pervasa da una misteriosa qualità che la rendeva più attraente. Gli occhi, grandi e profondi, sembravano illuminati da una luce nuova. Trasmettevano qualcosa di completamente diverso dalla pura e semplice vanità femminile; trasmettevano orgoglio, come se fosse fiera di se stessa. Forse di averlo salvato. Era proprio così? Il suo viso mostrava un trucco molto leggero, ben disegnato, gli orecchini di perle che portava ondeggiavano graziosamente a ogni lieve movimento della testa. Le labbra erano atteggiate in un sorrisetto e Primus non capì se la loro espressione fosse beffarda o amichevole. Alle spalle della ragazza la strana città, le strade, la gente… tutto era sparito. L’avanzata della Notte aveva inghiottito ogni cosa, compresa se stessa lasciandosi dietro uno spazio vuoto terrificante e senza confini. Era il terreno rossastro e polveroso sormontato da un cielo terso dove brillava la luce di Althaira. Si accorse solo allora di non avere più lo zaino con le provviste e lo stesso valeva per gli altri. Evidentemente lo avevano perso in quel marasma di argentei urlanti. Ma non era questa la sua preoccupazione. Ricordò la sua eccitazione, forse era stato nudo, ricordò Jack e la stessa Xoavia che lo guardavano quando si trovava insieme a Lei. Ci avrebbe fatto l’amore e sarebbe morto. Quella donna, quell’essere, esercitava su qualsiasi uomo un fascino ineguagliabile. E Xoavia lo aveva salvato, lo aveva fermato. Dunque sia lei che Jack avevano visto tutto. Arrossì violentemente al pensiero. Doveva essere così. Balbettò parole incoerenti, respirando frettolosamente, agitato. Jack gli si fece incontro, scrollandolo per le spalle, cercando di farlo tornare in sé. Gli disse qualcosa, ma non capì il senso delle sue parole. Poi fu la volta dell’argenteo

parlare mentre gli occhi di lei danzavano all’unisono con la luce di Althaira. Io sono un’emanazione di Althaira! Così aveva detto. Althaira era forse una sola, enorme consapevolezza in grado di scindersi in milioni di frammenti ciascuno dei quali fornito di una minima dose della sua personalità? In un universo strano come il Nescium poteva anche essere così. “Tutto bene?” La voce di Xoavia era stranamente musicale. Accondiscendente, quasi dolce. Dov’era finita la sua apparente, inscalfibile indifferenza? La ragazza ripeté la domanda, ma non seppe cosa risponderle. E cosa avrebbe potuto dirle, in realtà? Che aveva provato una violenta eccitazione? Poteva forse descrivere il senso di muto stupore che lo aveva inchiodato quando si era sentito in quel Nulla buio ma terribilmente reale? E l’abissale terrore che aveva provato dopo, quando Lei si era accorta di non poterlo strappare dalla ferrea stretta di Xoavia, quando aveva urlato con una voce fattasi mostruosa oltre ogni umana comprensione? Non erano cose che avrebbe saputo spiegare a parole, tutto qui. Al mondo esistono principi che i concetti umani non possono descrivere davvero e uno di questi è la Paura. Uno di questi era Lei. Provò una violenta sensazione di fragilità. Nonostante Xoavia, Lei li avrebbe raggiunti presto. Li avrebbe annichiliti, dispersi, annientati come aveva fatto con Richard e il mondo-mondo. La sua vergogna aumentò. Come se leggesse i suoi pensieri, Xoavia continuò: “Tranquillo, non è successo nulla anche se Lei ti ha quasi preso. Vuoi sederti un attimo?” Fu come se un’invisibile barriera impermeabile si fosse dissolta intorno a lui. Adesso i suoni gli arrivavano nitidi, chiari. Intanto, il divano si fece più accogliente e spuntò un terzo posto, ma Primus non si mosse. “Cosa avete visto?” Si sentì un idiota nel dirlo, ma preferiva la verità a una pietosa bugia. Jack disse: “Di che parli?” Jack mi ha visto! Perché finge di non sapere? Lo guardò meglio e nei suoi occhi lesse un sincero stupore. Gli aveva detto la

verità, lui non aveva visto niente. Allora le sue sensazioni, le donne che aveva visto erano state sensazioni extra percettive che solo Xoavia aveva il potere di vedere? Guardò la donna che a sua volta lo fissava con quel suo sguardo che vedeva tutto, persino nella Notte abissale. “Primus?” Xoavia lo chiamò un’altra volta, ma non rispose. Tu sai “Primus, stai bene?” Lei mi ha detto che Xoavia sta mentendo. A chi devo credere? “Forse è meglio se ti siedi un momento.” Le labbra della ragazza ora tacevano, in attesa di una sua reazione. Una qualsiasi. I suoi occhi mobilissimi continuavano a guardarlo. Anche Jack lo guardava ma il suo era lo sguardo di un uomo perplesso, che non sa cosa sta vedendo, che non capisce. Neanch’io capisco Xoavia sembrava preoccupata davvero. Le restituì lo sguardo: “Sto bene!” Rispose con un mezzo sorriso, “Mi sembra incredibile che quanto sto vivendo sia così deleterio. Tutto mi sembra incredibile.” “Tutto cosa?” “Questo Nescium,” scosse la testa, “il mio comportamento, quello degli altri… tutto quanto, insomma! Non ha senso. Che cosa facciamo qui? Questa Notte, come la chiami tu, è stata orribile. Ma il termine ‘Notte’ è solo una convenzione, è una parola che non significa nulla. Quella non era la notte, ma uno spazio abissale dove la luce non arriva. Era il Niente.” “Quella era l’essenza di Lei. Ve l’ho già detto che ormai sta distruggendo anche il Nescium.”

Jack biascicò qualcosa a denti stretti. Anche lui era teso, aveva paura. Primus glielo leggeva negli occhi. Come biasimarlo? “Ho visto donne bellissime, più belle di qualsiasi altra.” Continuò a bassa voce. Gli era tornata la timidezza. “E la più bella di tutte era Lei, vero?” Gli occhi acuti dell’argenteo lampeggiarono di consapevolezza. Jack sembra non aver visto niente, ma Xoavia sì. Com’è possibile? Assentì con una certa fatica: “Sì, hai ragione. La sua bellezza era qualcosa d’incredibile. Non posso descriverla a parole. Il linguaggio è inadeguato a spiegarla. Mi ha detto che cerchi di ingannarci, di distogliermi dal suo amore. Ma quando tu hai impedito quello che… quello che stavamo per fare, la sua voce è diventata un orribile incubo. Se non fosse stato per te mi avrebbe preso e questo mi ha fatto capire che le raccomandazioni di Altha sullo stare uniti non servono. Richard era con noi ed è morto. Io ci sono andato vicino. Il puzzle, allora, non è affatto completo.” Quando tacque, Xoavia si rivolse a Jack: “Tu hai qualcosa da dire?” “Non potrei non essere solidale con Primus. Noi non siamo fatti per questo posto e questo posto non è fatto per noi. Siamo creazioni di questo Altro, siamo simili a delle idee, lo hai detto tu stessa, ma il senso di quel che accade ci sfugge. Le uniche cose che ci sono familiari sembrano pericolose, ma quelle che non ci sono familiari lo sono anche di più. E poi, se Altha dispone realmente di poteri così estremi, perché non è qui con noi? Affermi di non conoscere molto di lei, ma ammetterai che è piuttosto difficile crederti.” Xoavia li guardò entrambi, soppesandoli in silenzio. Jack giudicò il suo modo di fare enigmatico e inatteso e quando lei sollevò una mano a mezz’aria per un momento pensò che si fosse offesa. Invece scomparvero sia il terreno dalla sabbia rossastra che il cielo terso, sostituiti da un ambiente che sarebbe stato riduttivo definire bianco e che non presentava alcun punto di riferimento nelle tre dimensioni. Anche il divano scomparve e sia Jack che Primus si ritrovarono a sedere su una sedia davanti a un rudimentale tavolo di legno. Accanto a loro altre sedie, vuote, che se ne stavano grottescamente sospese in quel Nulla. L’argenteo disse: “Risponderò ai vostri dubbi, ma dopo non chiedetemi altro.

Non vi sto ingannando né mi prendo gioco di voi. Guardate questo ambiente. Toccate quelle sedie, la superficie del tavolo. Se lo farete vi accorgerete che non vibrano come la tavola calda o la città.” “Ma questo cosa proverebbe?” “Che gli oggetti che vedete ora, pur essendo integrati in questa realtà sono diversi dal Nescium, Primus. Sono il risultato di una mia idea, proprio come la mia casa.” Jack sfiorò il tavolo, lo spinse, saggiò la solidità delle sedie: “Tutto questo è una pura illusione?” “È realtà in quanto io lo desidero. Essendo un argenteo posso interagire in modo lieve con il Nescium e molto con il mondo-mondo, quando quest’ultimo esisteva nella dimensione del Sensum. Ma a differenza di questo, il Nescium è qualcosa di instabile e non definitivo, perché soggetto al mutare dell’atto creativo dell’Altro.” Primus sospirò: “Però hai detto anche che Lei è pura Paura e che i suoi poteri, benché immensi, sono inferiori a quelli di Altha.” La donna assentì, silenziosa. Primus continuò: “Sia tu che i messaggi di Althaira sottolineate l’importanza dello stare uniti per impedire alla Paura di prendere il sopravvento. Ma come ha fatto a venire da me se tu stessa mi tenevi per mano?” Xoavia si strinse nelle spalle: “Quando Altha vi ha detto di stare uniti intendeva esserlo nella mente. Intendeva, cioè, la capacità dell’animo umano di trovare la determinazione necessaria a vincere le difficoltà. Se perdete la vostra sicurezza diventate preda della Paura e, quindi, in pratica, di Lei. Se poi vi avessi detto che i concetti ‘Notte’ e ‘Lei’ sono la stessa cosa sareste stati presi dal panico. Prima, quando le proiezioni, gli altri argentei e quell’edificio sono scomparsi la mia mano nella tua ha agito da collegamento tra noi ed è per questo che sei qui a raccontarlo.” Jack emise un fischio di finta ammirazione: “Quanto sono vasti i poteri di Lei?” “Per certi aspetti, Lei e Altha condividono alcuni tratti di base. Per esempio

esistono entrambe al di là dei tre piani di esistenza e quindi possono spostarsi a piacimento attraverso Verum, Sensum e Nescium. Queste similitudini, però, si fermano qui. C’è stato un tempo, prima che la sua brama di vita diventasse senza controlli, dove Lei svolgeva un compito utile, aiutando gli individui più sensibili verso la saggezza del non essere indomiti né eccessivamente paurosi. Ma poi le cose sono cambiate ed è diventata più affamata, anche se questo non significa che sia invincibile. Se credete in voi stessi non vi può far nulla.” “Tutto qui?” Jack era perplesso, “sarebbe dunque tutta un’illusione?” La ragazza lo fissò: “Che uccide.” Primus osservò: “Perché noi e non altri?” “Ti sbagli Primus. Ricorda che ha distrutto anche gli altri.” “Ma come ha fatto il mondo-mondo intero a essere annientato in modo così rapido da una sola entità, per quanto potente essa sia?” “Il motivo è più semplice di quanto sembri: chiunque provi paura non fa che chiamarla, anche se inconsciamente. Ed è un atto spaventosamente efficace, dopotutto pensateci bene! Difficile trovare qualcuno che almeno una volta nella vita non abbia conosciuto la paura, non credete? E Lei è un’entità potente, veloce e implacabile. Non si può scendere a patti, non si può intavolare una discussione come quella che stiamo facendo ora. Non si fermerà mai fino a quando non ci avrà distrutti.” “Se noi siamo creazioni dell’Altro, quasi delle sue idee, com’è possibile ucciderci? La morte e il male non dovrebbero esistere realmente. E infatti qui non esiste il tempo.” Xoavia scosse la testa. Sembrava triste: “No, Jack, non ci siamo. Nei tre piani di esistenza la morte esiste perché è essa stessa un’idea. Nel Nescium non scorre il tempo e tutto ci appare come un’illusione atemporale, per certi versi immortale. Ma in questo universo la realtà è composta da quella che Platone chiamava eidos, la forma. Qui abitano le forme perfette platoniane, la realtà assoluta. Male e Bene sono forme, la città che avete visto è una forma, l’argenteo che ci ha serviti alla tavola calda era una forma. L’eidos, la forma di un concetto come il Bene, per esempio, è interpretato dagli esseri senzienti, noi, e come tale è perciò reputato buono. Ma né Lei né Altha sono la forma di qualcosa. Loro sono anti-

eidos, concetti che esistono indipendentemente dall’Altro. Sono eterne e immutabili, trascendono il tempo e lo stesso Nescium. Lei è meno potente di Althaira sia perché la sua è un’essenza meno creativa sia perché dà illusione e non realtà. Al contrario, Althaira è essa stessa la forma della realtà.” “Ma è impossibile non provare paura. Si tratta di un sentimento innato in ciascuno di noi, istintivo.” “È esatto, Jack.” Xoavia prese a tamburellare con le dita sul tavolo. “Allora siamo morti senza possibilità di appello. Come diamine possiamo controllare il nostro istinto?” “Quando diciamo che qualcosa è difficile non vogliamo intendere che sia anche impossibile. Se vi convincete che il potere di Lei si esplica tramite illusioni non potrà fare nulla per fermarci.” “E come si fa a riconoscere un’illusione in un mondo dove tutto appare aleatorio?” Primus guardò Jack che gli restituì l’occhiata, “Ci serve aiuto.” Osservò. “In effetti ci serve saggezza.” Precisò la ragazza. “Immagino che nel Nescium la saggezza si trovi al supermercato accanto ai prodotti per la casa.” Ribatté acido lui. La donna scoppiò a ridere: “È più arduo di così, ma si può fare. Primus, te la senti di fare la tua parte?” “Cosa dovrei fare?” “Andremo in cerca di saggezza ma per farlo dovrai fidarti completamente di me; la tua Capacità Immaginifica ci sarà di grande aiuto. Grazie a essa potrai discernere i pericoli dallo sfondo e così facendo aiuterai tutto il gruppo.” “Se è l’unico modo per salvarci la pelle ci sto.” Xoavia si alzò in piedi: “Non sarà una eggiata,” li avvertì, “pensavo di poterne fare a meno ma quel che è accaduto conferma i miei timori circa l’impossibilità di raggiungere Altha in queste condizioni.”

“Che vuol dire ‘in cerca di saggezza’?” “Che cercheremo la Guardiana, Jack. Un’entità che potrà darci preziosi consigli per arrivare ad Althaira.” Primus disse: “Che rischi corriamo?” “Dobbiamo attraversare un continuum molto più instabile di tutto il resto. Il rischio è che potremmo disgregarci anche noi.” Primus sorrise, cercando di dissimulare la paura che provava: “Non mi piace l’idea di essere preda di qualcosa, argenteo, Notte o altro. Se l’alternativa è la morte per mano di Lei preferisco andare da questo tizio. Almeno avremo tentato.” La ragazza ripeté il movimento con le braccia e il paesaggio ghiaioso e rossastro riapparve, mentre il tavolo e le sedie si dissolsero lentamente. La luce di Althaira piovve loro addosso e per un attimo Primus ne fu abbagliato. Il suolo gli sembrava più cedevole di quanto gli fosse sembrato in precedenza, poi ricordò cosa aveva detto Xoavia circa la continua mutevolezza del Nescium e dovette convenire con se stesso che il paesaggio era cambiato completamente. Il fatto che anche nel Nescium accadessero eventi contrastava con l’affermazione di Xoavia sulla presunta immobilità del Tempo in quella dimensione. Un altro mistero in cui avrebbe voluto vederci chiaro, ma non fece altre domande. La sua preoccupazione più importante era rimanere in vita. Guardando verso nord vide una serie di rovine a notevole distanza che gli apparvero ciclopiche, inumane. Alla sua destra una scia di vapore bluastra si estendeva a perdita d’occhio elevandosi verso l’alto, simile a nebbia. In direzione opposta una grande, bellissima distesa verde, la cui vista gli diede un’impressione di pace. La macchia era molto lontana, sulla linea dell’orizzonte ma per raggiungerla dovevano prima attraversare la zona disseminata di massi pietrosi. “Mai che si veda un paesaggio normale!” Disse Jack, rompendo il silenzio, “sempre proiezioni dell’Altro?” “Come tutto, qui.” Sospirò Primus. “Dove siamo diretti?” Tornò alla carica Jack, “immagino che in questo posto non abbiano ancora inventato l’elenco del telefono.”

La ragazza ignorò il suo sarcasmo: “Andiamo verso quella vegetazione laggiù. Che io sappia, la Saggezza abita in un luogo adiacente a una regione boscosa e quello laggiù è il solo bosco che vedo.” Si misero in marcia. A una prima occhiata il paesaggio pareva morto, senza alcun essere vivente. Era un errore. Qualcosa si muoveva tra le grosse pietre e per i ruderi disseminati ovunque, ma non sembrava nulla che avessero mai visto. Nulla che sembrasse umano, almeno: “Guardate là!” Primus puntò una mano verso alcune nuvolette di fumo che aleggiavano tra le grosse rocce lontane, “quegli sbuffi di vapore!” “È solo nebbia.” Disse Jack. “Si muovono come se avessero una volontà propria. Penso siano vivi.” “Vivi?” Jack sospirò, per lui era solo comunissimo vapore. “Primus ha ragione. Quelli sono Istanti di Tempo,” confermò Xoavia, “si muovono milioni di volte in un tempo inferiore a quello che serve a noi per compiere un semplice o. Per loro noi siamo lenti e goffi, ma non sono pericolosi.” Primus la guardò: “Hai detto che il tempo non scorre nel Nescium.” “E lo confermo. Tutti i processi che possiamo osservare si compiono seguendo regole diverse dal tempo. A un ipotetico osservatore esterno gli eventi del Nescium apparirebbero o troppo rapidi o troppo lenti perché il suo sguardo possa coglierli. Ciascuno di quegli esseri è invece un istante isolato, una sorta di bolla temporale completa in se stessa che non scorre ma fluttua, esistendo. La loro velocità supera quella di qualunque altra cosa nell’universo perché si muovono alla velocità del pensiero. Si pensa che la loro natura abbia a che fare, in un modo che mi sfugge, con le idee dell’Altro sul concetto del tempo.” Curioso, Jack tentò di aguzzare la vista. Le miriadi di macchie che vedeva apparivano e scomparivano come fantasmi. A volte poteva vederne i contorni ben definiti, simili a nuvole in miniatura, altre aveva solo la sensazione di un qualcosa che li superava. Il primo sbuffo si materializzò a un’altezza di circa

quattro metri, una nuvola impazzita che cambiava forma e colore miliardi di volte al secondo e ciascuna di quelle volte rifletteva forme riconoscibili o del tutto aliene. Osservò uno di quegli esseri, rosato, che volteggiava a spirale disegnando minute scie nell’aria come se fosse senza controllo. Un momento dopo la creatura gli si accostò riflettendo come uno specchio persone (o almeno quelle che sembravano persone) e infinite quantità di volti senza corpo, occhi, paesaggi naturali. Come un inimmaginabile schermo televisivo a tutto colore sintonizzato su migliaia di programmi contemporaneamente. Un caleidoscopio di sensazioni, colori, alberi, oceani, galassie. Tutto era proiettato all’unisono e l’universo trovava uno scopo in quella sorta di nuvoletta bianco-rosata. Le altre macchie si comportavano allo stesso modo. Sparivano, s’intersecavano tra loro, variavano la propria velocità accelerando o decelerando senza alcuna parvenza di logica. Anche Primus le osservò con un certo interesse. “Possiamo ignorarli?” Jack si era avvicinato a Xoavia in modo impercettibile. “Dobbiamo. Sono molto curiose e rischieremmo di perdere tempo se ci fermassimo.” Continuarono ad avanzare prestando scarsa attenzione a quelle forme nebulose che saettavano intorno e oltre loro. Man mano che superavano i primi massi, gli sbuffi si facevano più numerosi, ma anche meno rapidi. Due di loro si accostarono dalla parte di Primus e lui ebbe la netta sensazione che parlassero, scambiandosi opinioni ed esperienze senza ricorrere al linguaggio verbale. Piuttosto, ebbe l’impressione che discutessero per immagini, in silenzio, in un’ovattata esperienza sensoriale che doveva essere grandiosa. Interi capitoli di cognizioni scambiati istantaneamente. Emozioni, pensieri, punti di vista… tutto fluiva attraverso quei corpi vaporosi senza l’intercessione di macchine, microfoni o fogli di carta. Primus vide oceani, nuvole e lampi. La pioggia scendeva, uno stormo di gabbiani saettava in un cielo azzurro. Vide Persone che si baciavano, facevano l’amore, nascevano e morivano. In ciò che vedeva il tempo non esisteva, non ne aveva motivo, perché tutti gli avvenimenti svanivano ed esistevano all’unisono. Era bellissimo osservare quegli esseri scambiarsi le informazioni nella loro completezza, liberi dai patetici vincoli del linguaggio umano. Erano creature interessanti. Sarebbe stato piacevole restare a osservarli, immergersi tra loro, ascoltare il suono del loro silenzioso universo senza più

proseguire. Era certo che anche le due creature fossero consapevoli della sua presenza perché le loro essenze vaporose cambiarono colore diventando di un vivido bianco e avvicinandosi percettibilmente. Una di queste rifletté l’immagine di un’aquila che volteggiava maestosa nella sconfinata vastità dello spazio. Ne fu affascinato ed ebbe una curiosa sensazione che quell’aquila non fosse una forma di saluto nei suoi confronti quanto un’altra entità. Come aveva detto Xoavia? Eidos, una forma. Era certo che quell’immagine lo fosse. E un improvviso brivido lo scosse, ma era una sensazione di tiepida, infinita dolcezza. Una sensazione di protezione. “Primus!” Esclamò allora Xoavia, “Dobbiamo andare.” A quelle parole l’immagine scomparve e i due sbuffi di vapore tornarono a conversare tra loro. Quando anche Jack lo richiamò all’ordine l’incanto si ruppe definitivamente e Primus raggiunse gli altri, continuando la marcia. Quegli esseri, però, sembravano provarci gusto a seguirli, ma stavolta non si fermò, anche se continuò a gettar loro fuggevoli occhiate. Mentre camminava ripensò a quanto gli sembrassero fortunati. Giocherellavano senza posa tra loro e anche se erano privi di un volto definito immaginò che stessero divertendosi, in pace, senza preoccupazioni di alcun genere. E li paragonò a buffi e dolcissimi cuccioli, abitanti felici di una loro propria valle dell’Eden separata da ogni cosa, da ogni tempo. Per un attimo li invidiò. Gli Istanti di Tempo non avevano alcuna difficoltà a comprendersi né a far comprendere. Non si servivano delle parole per esprimere ciò che erano, quel che facevano, cosa desideravano. Nessuna possibilità di incomprensione, nessuna lite, alcuna guerra. ato, presente e futuro coesistevano armoniosamente in essi senza limiti. Il Sapere universale non era al di fuori della loro portata. Ecco perché non erano aggressivi. Non dipendeva dal loro aspetto buffo, quasi grazioso, per quanto inesplicabile. Semplicemente non gli serviva esserlo. Chi contempla il tempo non essendone parte non ha alcun desiderio di cupidigia, tristezza o solitudine. Niente lo assilla, nessun compito da fare, alcun limite da prevedere né una vita in cui sopravvivere. Perché in un certo senso, chi è il tempo si limita semplicemente a vivere.

Percorsero una notevole quantità di spazio prima di arrivare in vista della grande macchia boscosa che Xoavia aveva indicato come destinazione. Furono

necessarie diverse soste per rifocillarsi e riposare in pochi, improvvisati ostelli che incontrarono durante il cammino. Per fortuna non incontrarono un’altra Notte e gli Istanti di Tempo continuarono imperterriti ad apparire e scomparire, giocherellando tra loro a beneficio del terzetto. In mancanza della percezione del Tempo era impossibile calcolare la distanza percorsa e la situazione era resa più complessa dall’assoluta piattezza del paesaggio. Quando la grande zona boscosa verso cui erano diretti sembrò essere più vicina Primus era stanco, aveva i piedi gonfi e un certo appetito. Davanti a loro c’erano filari di alberi imponenti simili ad abeti ma oltre di essi gli sembrava di scorgere una vasta, bellissima serie di templi o edifici affini. Sotto la luce di Althaira risplendevano palazzi arditi ed eleganti, molti dei quali sormontati da cupole dorate che svettavano orgogliose verso il cielo. Quella sconosciuta città, sempre che non si trattasse di un semplice miraggio, era adagiata tra valli rigogliose dai dolci pendii che la isolavano e la proteggevano dall’ambiente desertico disseminato di rovine. Da quella distanza Primus non era in grado di scorgerne gli abitanti ma era incuriosito e quando fu chiaro che era quella la loro destinazione apparvero altri dettagli. Quando furono a poca distanza dalla città gli Istanti di Tempo tornarono indietro e Primus se ne dispiacque perché trovava piacevole la loro compagnia. E tuttavia lo splendore sinistro delle tantissime strade lastricate a cubetti di pietra e gli edifici eleganti attrassero notevolmente l’interesse generale. Alcuni dei palazzi erano collegati uno all’altro da ponticelli in marmo che accentuavano la bellezza della metropoli. Diversi erano i monumenti disseminati in ogni piazza, ogni anfratto, dovunque ci fosse posto. Alcune statue ritraevano uomini illustri, altre erano astratte o di pura fantasia, ma tutte parevano cesellate da artisti molto abili nell’arte dell’intaglio. Primus e Jack erano i soli a osservare quella desertica città con stupore e meraviglia, non così Xoavia che invece appariva tesa. “Come si chiama questa città?” Chiese a un tratto Jack, un po’ ansimante. Anche lui avvertiva gli effetti della camminata e se la luce di Althaira non poteva certo essere definita rovente, la distanza percorsa a piedi era comunque notevole. “Non ho idea di come si chiami. So solo che la sua stabilità è praticamente nulla, per cui fate attenzione a dove mettete i piedi.” Primus disse: “Questa è la zona pericolosa di cui parlavi?”

La ragazza assentì: “Esatto.” A Primus la loro guida appariva decisamente preoccupata. “Non c’è nessuno, qui.” Esclamò allora Jack, incuriosito dalle migliaia di colonne degli edifici più belli, ampi e decorati come i templi della Grecia antica. “Questa non è affatto una città abbandonata a se stessa. È il luogo dove vivono creature trasparenti,” Lo informò lei, a bassa voce, “come fantasmi che vagano tra queste mura nel più completo silenzio. Ne vedrete presto qualcuno ma non vi rivolgeranno la parola. Nessuno di essi vi parlerà o farà il minimo accenno a voler comunicare in qualche modo. Qui abita solo il Silenzio.” “Chi sono?” La donna gli rivolse un esile sorriso: “Nessuno lo sa. Questa città”, e con un gesto indicò la sterminata distesa di costruzioni, “esiste da tempo immemorabile. A volte, quando a la Notte, sparisce ma non ne è mai inghiottita veramente. È la sola cosa capace di contrastarla. Si limita a svanire per un po’ ma in seguito ricompare puntualmente, solida ma indistinta, con le sue creature fatte d’aria e silenzio, e sempre i suoi templi splendono fantasmagorici come mute testimonianze di qualcosa di terribile ma inespressivo. Non ho difficoltà a confessarvi che non vorrei trovarmi qui. Sebbene le creature-fantasma non siano pericolose di per sé, questa città non è affatto muta. Probabilmente voi non potete vederle ma io si. Ascoltate.” Xoavia si fermò, subito imitata dai due amici. In perfetto silenzio Primus e Jack osservarono quei palazzi sublimi la cui bellezza architettonica sfidava quella di qualsiasi altra cosa, anche del mondo-mondo, che avessero visto o sperimentato. Materiali come marmo e cristallo regnavano ovunque in una profusione di stili che però non offendeva l’occhio né appariva barbarica. E le statue sembravano vive tanto erano perfette. Le strade, lastricate in pietra e quarzo, erano fiancheggiate da arbusti e cespugli di fiori della più straordinaria varietà e provenienza. Ma non si sentiva un insetto frinire, non si vedeva un volo di uccelli. Niente abitava quel luogo stupendo, niente lo viveva. E, con tutta probabilità, niente moriva. Eppure, se rimanevano immobili, ecco arrivare il suono di risate, conversazioni, urla e imprecazioni. Rumori di traffico, lo sferragliare di un treno, l’acuto fischio di un sistema pneumatico, simile a quello prodotto dalle porte di un tram

nell’atto di chiudersi. Spostandosi di poco, Primus avvertì gemiti e sospiri, mugolii di piacere e conversazioni indistinte e lontane ma inesplicabilmente vicine. E su tutto si elevava, invisibile e perciò mostruosa, un’acuta e incredibile sensazione di ansia che sembrava pervadere quegli edifici splendenti. E intuì che anche le emozioni umane lì avevano un senso, per quanto perverso. Nonostante la sua Capacità Immaginifica non poteva scorgere gli abitanti come invece faceva Xoavia, ma poteva comunque avvertire rapidi e confusi desideri che attraversavano le menti degli esseri che gli avano accanto. In rapida successione provò il desiderio di mangiare un gelato al pistacchio, una pizza, la voglia di fare l’amore con una ragazza sconosciuta. E poi bugie e verità rivelate, altre solo accennate, rumori nascosti e sordidi sospiri, grida di bambini e abbaiare di cani. C’era un intero mondo invisibile che si dispiegava, ansioso e imperscrutabile. Un universo di cui provava la chiara sensazione della reale esistenza, ma che si risolveva in vuote sensazioni senza lasciare una traccia visibile, solida. E tutta quella rutilante vitalità, quelle grida sincopate, quei desideri ed emozioni, quella voglia di fare e di non morire si spegneva appena faceva un o, un solo, umile o, come se il semplice suono delle sue scarpe sulla pietra delle stradine fosse sufficiente a spazzare via tutto. Dopo un suo sospiro la valle tornava inviolata, muta nei millenni se il tempo avesse avuto senso, gli alberi a svettare silenziosi e imperscrutabili come verdi guardiani di un mondo inesistente. Ma in quel solitario splendore si sentì solo come mai nella sua vita. Gli edifici, nonostante fossero solidissimi, gli davano una strana sensazione quando allungava le mani per toccarli. Come se in realtà non avessero un’esistenza concreta, ma era comunque una sensazione diversa da quella che aveva provato nella tavola calda ‘Gusta & Assapora’. Al tatto parevano composti da marmo, ma a ben guardare il materiale di cui erano costituiti spariva se si concentrava lo sguardo. Xoavia aveva detto bene, quella era una città-fantasma. Per averne un’ulteriore conferma fissò un punto lontano, una statua che doveva ritrarre un personaggio politico del ato, l’ex presidente Bush Senjor, la cui figura era stata rappresentata dall’ignoto artista nell’atto di un plastico balzo fuori da un boschetto di petunie. La fissò intensamente e la statua divenne trasparente ma, distogliendo lo sguardo quel tanto che bastava per guardare oltre di essa, riappariva beffarda. Era solo una presenza percettiva ma aleatoria, un inutile orpello di un periodo senza senso, come tutto, lì. A poca distanza vide la statua di Topolino, non ritratta a grandezza naturale, ma più grande. Aveva le braccia aperte e un largo sorriso e Primus notò che anche la sua riproduzione aveva dell’incredibile. Per qualche motivo le sue

dimensioni erano maggiori di quelle di Bush, come se l’importanza di un fumetto fosse superiore a quella di un Capo di Stato. Primus non capiva il nesso logico di quel che vedeva, ma non ne fece parola con Xoavia e lo stesso fece Jack. Ormai sapevano che qualunque fosse, la logica del Nescium era al di fuori della loro comprensione. E forse, dopotutto, al momento non era importante conoscerla. Xoavia lasciò pazientemente che esaminassero l’area, poi li condusse in un’altra zona. Anche qui facciate di edifici immensi e altri di dimensioni assai più modeste ma non per questo meno splendidi. Il marmo sembrava il materiale da costruzione più comune e lo splendore abbagliante che ricopriva i tetti, le cupole, le fantastiche guglie e diverse statue pareva oro puro. Quell’Eldorado, quella magnifica fila di costruzioni, doveva essere costata una cifra incalcolabile. Uno spreco di risorse immenso per uno scopo ignoto. Più tardi, il gruppo si avvicinò a una costruzione più bassa delle altre, un palazzo a due piani soltanto la cui facciata era riccamente istoriata da figure classiche, che ritraevano volatili nell’atto di spiccare il volo, e poi spighe, uomini intenti alla caccia, guerrieri scintillanti nelle loro marmoree armature. L’ingresso era protetto da alte colonne e il portone di legno, maestoso nella sua ricchezza d’intagli, doveva aver richiesto ore e ore di paziente lavoro artigiano. Il portone era parzialmente socchiuso, e Primus espresse a Xoavia il desiderio di visitarlo. “D’accordo, ma restiamo uniti.” Disse lei, a voce bassa. Di nuovo, Primus ebbe la conferma che l’argenteo, per qualche oscuro motivo, provasse un terrore quasi fisico a essere lì. Questo lo stupiva, perché la ragazza stessa aveva ammesso che nessuno dei vuoti abitanti della città era davvero pericoloso. Comunque non obiettò e s’inoltrò nel palazzo solo quando gli altri lo raggiunsero. Sempre attenta, Xoavia si mise in testa al gruppetto, guidando gli altri in un ambiente che per ricchezza artistica li lasciò stupefatti. La prima cosa che notarono fu la totale assenza di polvere o disordine, come se un efficiente servizio di pulizia rimettesse in ordine ogni sera. Creature alate rappresentanti ippogrifi e altri animali mitologici erano allineati alle pareti. Ognuna stringeva tra gli artigli di una zampa quelle che sembravano tavole piatte fittamente incise. Avvicinandosi, Jack notò che ciascuna di quelle tavole era scritta in una lingua diversa, ma ugualmente incomprensibile. Una però, era incisa in inglese e

presentava svariate frasi, con tanto di virgolette e punteggiatura, come se fossero massime di grande importanza:

“La signora Wells era riccamente abbigliata come il suo solito, ma non mi ha dato affatto la sensazione di questa gran classe. Come se non avessi notato la mancanza di parecchi dei suoi mobili di famiglia.”

“E cosa te ne fai di quell’auto? Mio Dio, vendila e fatti una macchina degna di te.”

“Il lavoro è importante, vecchio mio, altrimenti come faremmo a vivere senza lavorare?”

“Il sacro esempio di Cristo ci esorta a vivere in modo consono alle Sue dichiarazioni. Ma noi siamo semplici esseri umani e quindi non possiamo…”

E così via… Nessuna di quelle frasi aveva un senso e anzi, Jack ipotizzò che non fossero state scelte secondo una logica. ò oltre e si concentrò su un’altra tavola, stavolta incisa in olandese, di cui masticava qualche parola avendo intrecciato, una volta, una relazione con una bella ragazza di quel Paese. Anche lì campeggiavano frasi, ma stavolta le riconobbe come concetti espressi da politici e uomini di religiosi. C’erano le dichiarazioni dell’Ayatollah Khomeini, quelle dei vari leader buddisti, di Maometto, di S. Agostino e dei tanti Padri della Chiesa Cattolica. C’erano papi e sovrani, profeti e santi ma nessuna di quelle frasi aveva un senso compiuto né era indicativa del perché si trovasse in un luogo che tutto pareva fuorché legato alla politica o alla religione. Saltò un’altra fila di tavole e si avvicinò a un enorme, bellissimo altare che

sembrava completamente rifinito in oro, su cui troneggiava un grosso volume, dalla copertina in pelle. Giaceva aperto, posato su un leggio, rivolto nella direzione opposta alla sua ed era scritto in italiano. Incuriosito, fece il giro in modo da leggere ciò che riportavano le sue pagine. Ad alta voce, lesse:

“La religione è l’oppio dei popoli!” K. Marx

“Non posso credere che Dio giochi a dadi con noi!” A. Einstein

“Non sappiamo cosa sia Dio perché Egli è infinito e perciò inconoscibile. Egli stesso si ignora perciò trascende l’essenza.” S. Eriugena

“Perciò quando sorgono e tendono all’essere, più velocemente diventano quello che possono essere e più velocemente vanno verso il non essere.” S. Agostino

“Non ha senso!” Sbottò Jack. “O forse siamo noi che non riusciamo a trovarne uno.” Lo rimbeccò Primus. Lanciò uno sguardo interrogativo alla loro guida ma Xoavia fece spallucce: “Ne so quanto voi.” Disse tristemente. Primus, allora, alzò lo sguardo posandolo sulle pareti, spaziando da enormi tele,

tutte protette da una ricchissima cornice di legno, dipinte come se fossero fumetti. Guardando meglio, scoprì che parecchi di quei quadri rappresentavano in realtà battaglie storiche di notevole importanza. Riconobbe la disfatta di Napoleone a Waterloo, un'altra tela che illustrava la celeberrima vittoria del faraone Ramses II che nella battaglia di Kadesh sconfisse gli Ittiti. E poi la battaglia di Lepanto e lo sbarco in Normandia. Letti nel contesto generale quelle date e quegli eventi, sebbene storicamente corretti, non avevano senso perché le varie citazioni erano state confuse tra loro. Il fatto che il pittore avesse dipinto quelle scene terribili traboccanti sangue e azione con la tecnica del fumetto dava un tocco d’irrealtà a tutto l’ambiente, una sensazione tanto più spiacevole perché ogni scena, ogni battaglia, ogni più minuto duello era stato rappresentato con abbondanza di particolari. Non c’era nulla di grandioso in quei quadri, nulla che meritasse di essere rappresentato. Primus aveva visitato il Louvre durante un viaggio a Parigi. Alcune delle opere che ricordava di aver ammirato avevano lo stesso soggetto ma dalla maestria dei grandi artisti del ato era possibile trarne un’impressione di forza, di grazia, di nobiltà a vedere le gesta dell’ammiraglio Nelson, l’impeto della battaglia di Lipsia, il portamento fiero degli spartani durante la battaglia delle Termopili. Ma in quel luogo, episodi che in un modo o nell’altro avevano segnato la grande storia dell’umanità apparivano ridotti a patetiche caricature di se stesse, dipinte su imponenti arazzi che potevano benissimo essere le pagine di fumetti dalle enormi dimensioni ma dal minuscolo significato. E un istintivo terrore s’impossessò di lui perché aveva avvertito la terrificante sensazione che tutto ciò che vedeva e toccava aveva comunque un senso. Tutto aveva l’aria di una grande, titanica beffa verso la vita umana. Un senso di vuoto straniante e avvolgente lo travolse e si ritrovò a tremare senza conoscerne il motivo, esattamente come Xoavia; preda anche lei di una paura senza nome. La sala in cui si trovavano era immensa e ciò contrastava con le dimensioni apparenti dell’edifico quando lo aveva guardato dall’esterno. File e file di quadri si estendevano alle sue spalle, decine di altari simili, tutti con grossi libri dall’aria preziosa aperti sui rispettivi leggii, centinaia di grifoni fieri e maestosi che stringevano negli artigli tavole di marmo incorniciate sì in oro purissimo, ma contenenti frasi storiche o sconosciute che prese singolarmente avevano un senso ma che nel contesto generale erano inutili e aberranti. Perplesso, guardò l’incredibile soffitto. Anch’esso era artisticamente lavorato, illustrato e affrescato con scene di soggetto diverso e non collegate tra loro come se l’architetto si fosse divertito a richiamare artisti, scultori, fumettisti e

sceneggiatori lasciandoli liberi di scatenare la propria fantasia senza un progetto unico, senza la minima traccia di rigore e coerenza interna. Ed ecco scene di caccia alla balena che si mischiavano a languide dame abbigliate secondo la moda dell’800, cruente battaglie alternate alle avventure disegnate da Walt Disney, personaggi illustri e meno famosi, scienziati e cantanti, idoli della folla di tutti i tempi che giocavano a un assurdo rimpiattino con personaggi politici, storici e religiosi. C’era Alessandro Magno, fulgido nella sua gloria, che giocava a scacchi contro Enrico Fermi. Papa Giovanni Paolo II impegnato in una gara di sci con Gandhi, Rita Levi Montalcini che ballava sulle punte nell’improbabile cornice di un teatro italiano. E poi personaggi mitologici, esseri immaginati e inimmaginabili, sirene, avventurieri, idre e gorgoni illustrate mentre discorrevano con Pietro il Grande, Mussolini e Hitler i cui volti erano gioviali e ironici insieme. Era sicuramente oro puro il metallo che vedeva, a fiumi, straboccante da quelle impossibili opere d’arte, lasciato a se stesso in preda di ladri che non lo avrebbero mai depredato, mai rubato, mai neanche immaginato. Pietre preziose di ogni tipo giacevano incastonate ovunque e si accorse che gli occhi delle statue erano tutte gemme dalle più disparate dimensioni. Ma nonostante la barbarica profusione di ricchezze nessuno avrebbe mai avuto l’ardire anche solo di sfiorare quei diamanti, oggetti senza tempo né importanza che nessuno avrebbe mai voluto. Perché quegli occhi fatti d’onice e smeraldi, quei rubini affioranti da una città stillante lusso e silenzio, guardavano lui, Jack e Xoavia con beffarda familiarità. Troppo tardi Primus si rese conto che quella sala aveva un ché di familiare, gli ispirava un senso di repulsione che però aveva qualcosa a che fare con lui, le sue idee, forse persino la sua vita. E un sentimento nuovo si fece strada nella vaga paura che aveva provato fino a quel momento. Un’emozione potente che non poteva non accostare all’odio e all’insofferenza, lo fece tremare violentemente e desiderò fuggire da quel luogo senza indugiare oltre. Qualcuno pronunciò il suo nome, non ci fece caso, poi si accorse che era Jack seguito a ruota da Xoavia. Quando tornò alla luce dell’ambiente esterno fu come rinascere. Si appoggiò alla balaustra della scala d’accesso a un enorme teatro, irto di opere d’arte come un immenso gioiello, cercando di ritrovare la lucidità necessaria per non impazzire. Eppure non si spiegava il perché delle sue sensazioni, non capiva cosa ci fosse di pericoloso in quel salone. Sì, era tutto assurdo ma gli oggetti in se stessi non erano più bizzarri delle altre cose che aveva visto da quando era nel Nescium. Forse c’era qualcosa di più e aveva a che fare con la sua anima, il suo sentire, il suo vissuto. Cosa

fosse, però, lo ignorava. Guardò Jack, che ora gli era vicino, e nei suoi occhi lesse lo stesso timore, la stessa, inquieta paura. Xoavia era turbata come e più di loro e i suoi tentativi di mantenere l’usuale contegno lo fecero sorridere. “Scusate!” disse, “ma dovevo venire via da lì. C’è qualcosa che…” Non finì la frase. Aveva notato strane nebbie indistinte, vapori dalla forma vagamente umanoide privi di volti riconoscibili. “Le vedete anche voi quelle cose?” Jack non aprì bocca, ma Xoavia annuì: “Sono loro, sono gli abitanti di questa città.” Osservò quelle pallide e nebulose visioni vagare per le strade, i palazzi, guidare impossibili veicoli o fermarsi a leggere il giornale davanti a loro senza dare alcun segno di vederli. Non somigliavano agli Istanti di Tempo perché non gli instillavano quella sensazione di pace che aveva provato accanto alle buffe creature nebulose. Gli abitanti di quel luogo avvolto dal silenzio emanavano solo una costante sensazione di ansia che lo rendeva inquieto. Xoavia disse: “Vedi qualcosa Jack?” “Vedo forme strane, figure spettrali” Rispose l’altro, “non so cosa siano ma questo posto mi rende nervoso.” Rivolta a Primus la donna disse: “È la tua capacità immaginifica che li rende visibili.” “No, io…” Primus scosse la testa, “Io non so. Non ho desiderato quello che dici. Sono stupito quanto voi.” “Lo so,” rispose lei, comprensiva, “ma qualcosa in te lo sta rendendo reale anche a Jack. Proseguiamo, presto!” Lui e Jack si guardarono un attimo, ma seguirono la ragazza senza indugi. Intorno a loro continuavano a vagare quelle criptiche figure. A volte, alcune assumevano contorni più umani e si scorgevano capelli lunghi, occhiali, telefonini che venivano portati alle orecchie, valigette simili alle ventiquattrore degli uomini d’affari. Ma per il resto somigliavano a ombre scure di forma umanoide che abitavano quella strana e inclassificabile città facendo ciò che vere

persone avrebbero fatto al loro posto. A volte capitava che qualcuna di quelle cose attraversasse letteralmente i loro corpi andoci in mezzo come fantasmi e proprio come aveva detto la ragazza, se non si faceva il minimo rumore o movimento era possibile ascoltarne le voci. Voci normali, discussioni normali. Ma quella gente non si vedeva, era composta di ombra, e vagava da un lato all’altro delle strade, degli edifici in preda a un’inimmaginabile fretta come se avesse i minuti contati: “Cosa sono?” Chiese Jack, inebetito. “Esseri immaginati dall’Altro, penso.” Xoavia era stupita quanto loro, “qui ci sono venuta una volta sola ma nessuno, nessun argenteo intendo, conosce chi o cosa siano né cosa vogliano. Prima vi ho detto che questa città non ha nome e in effetti è così. Nessuno sa perché esista ma tutti la evitano per istinto. Gli argentei più antichi, però, ne parlano come Duende Town, la Città dei Fantasmi, ma se sia il suo vero nome lo ignoro. Questa è la prima volta che vedo i suoi abitanti con tale chiarezza, ma sono certa che questi esseri non abbiano mai raggiunto il mondo-mondo né vagato per il Nescium. Hanno sempre vissuto qui, se questa si possa definire un’esistenza, e sono virtualmente invulnerabili. Come ho detto, neanche la Notte può distruggere questo posto.” “Ma perché questa città è pericolosa?” Domandò nuovamente Jack. Xoavia ebbe un moto di stizza: “Lo hai visto, credevo fosse chiaro, no? Le sensazioni che si provano sono strane! Danno i brividi. Ti scavano la mente fino a far riaffiorare confusi pensieri. E più sei sensibile, più la tua Capacità Immaginifica è elevata, più potenti sono le sensazioni che ne scaturiscono. Non è piacevole.” “Andiamo via.” Primus aveva riacquistato il suo autocontrollo, “il più presto possibile!” “Non possiamo. Il posto dove siamo diretti si trova oltre quelle montagne laggiù.” La ragazza indicò un canyon poco profondo oltre i confini della città, “e per raggiungerlo dobbiamo attraversare tutto questo.” Primus rabbrividì. Percepì nuovamente una spiacevole sensazione che non aveva più provato da quando aveva varcato la soglia del Nescium. Aveva freddo e il suo cuore tornò a farsi pesante come se i suoi battiti fossero rallentati da qualcosa. Anche gli altri erano intirizziti e questo gli fece capire che non era il

solo. Si chiese perché. Nonostante le apparenti contraddizioni di quel luogo era certo che tutto avesse un senso e che l’esigenza di incontrare Altha fosse sempre più importante. “Prima ci allontaneremo da questo posto prima mi sentirò più tranquillo.” “Approvo.” Grugnì Jack. Si misero nuovamente in cammino. Percorsero una strada lunga e diritta, ben delimitata da alberi o protezioni anti traffico. Nonostante avesse l’aspetto di una megalopoli dell’antichità, come testimoniato dal tipo di costruzione dei palazzi, Duende Town era organizzata come una qualsiasi città occidentale. Il sistema viario era ottimo, sebbene non dimensionato per un traffico imponente come potrebbe esserlo quello tipico di una grande metropoli. Le ombre-tram apparivano e sparivano sferragliando alle loro orecchie, andoci in mezzo, ronzando come autentici mezzi di trasporto ma, anche qui, solo se si fermavano ad ascoltare. Gli abitanti continuavano a essere invisibili ma tracce della loro presenza si potevano vedere dai velocissimi cambiamenti di colore che subivano quando qualcuno di loro ava attraverso il gruppo. La vegetazione era l’elemento decorativo più largamente usato ed era sistemata in modo ordinato e geometrico e nessuna strada, per quanto larga, ne era priva. Tra i fiori non si contavano le varietà di tulipani, gladioli, mimose, gerbere e orchidee alcune delle quali di notevole bellezza. Gli alberi, invece, appartenevano a specie che Primus non riconosceva e anche quelli che a una prima occhiata gli erano parsi pini non lo erano affatto. Statue ve n’erano sempre in abbondanza e ritraevano tutte, in un modo o nell’altro, personaggi politici di ogni tempo e provenienza accostati a personaggi di fantasia le cui dimensioni erano decisamente maggiori. La tipologia di costruzione appariva simile in tutti i casi. Normalmente, le statue poggiavano le loro fondamenta su una base di marmo cubica, corredata d’iscrizione del nome del soggetto inciso su una targa d’oro. Alle statue di personalità politiche erano state date pose curiose, grottesche. Non così a quelle di personaggi immaginari, le cui pose plastiche facevano quasi il verso al loro dirimpettaio. La statua di Stalin era più simile a quella di un venditore di prodotti igienici che non alla figura dell’autoritario dittatore. Primus ne osservò la tipica espressione impostata, lo sguardo fiero, la mano che reggeva un mappamondo e l’altra che ammiccava, curiosa, verso uno spazzolino da denti.

Vi era dell’immaginazione perversa in quelle figure marmoree mute e inesplicabili rivolte l’una contro l’altra, come se la politica guardasse la fantasia e che ne fosse a sua volta guardata e beffata. Altri soggetti erano quelli di personaggi noti e meno noti dello Star System, nessuna delle quali aveva l’aspetto che Primus si sarebbe aspettato. Diverse statue di cantanti erano abbigliate come se fossero intente alle pulizie casalinghe con secchi, stracci, lucidatrici e altri strumenti del genere. Il grande verismo della costruzione acuiva la sensazione di orrenda beffa che le caratterizzava, esacerbata dalla presenza di svariati microfoni e strumenti musicali in miniatura, oggetto delle loro attenzioni. Alcune figure erano decisamente inquietanti e rappresentavano divette e showman che reggevano quelle che avevano tutta l’aria di protesi estetiche, parrucche e altri artifizi atti a farli sembrare più giovani e desiderabili. Era chiaro che chiunque avesse ideato quelle statue, accanto all’incredibile maestria nel realizzarle, avesse inteso prendere in giro più che esaltare i soggetti scelti. E nessuna delle attività umane era esente da quell’atmosfera di beffa che si respirava un po’ ovunque. Capi di Stato, uomini d’azione, generali e dittatori visti come buffe pantomime di se stessi, tanto patetiche quanto più l’artista aveva dato loro pose plastiche di dominio e controllo. Personaggi dei cartoni elevati al rango di esseri in carne e ossa, scolpiti in modo da dare allo spettatore l’impressione che fossero più importanti dei loro corrispettivi reali. Ecco, quindi, l’immagine di Hitler che reclamizzava pannolini e Felix il gatto che lo fissava altero e beffardo dall’alto della sua statura dalle proporzioni più che ragguardevoli. E più ci ava in mezzo, più Primus sperimentava la sinistra impressione che tutto combaciasse a qualcosa di cui ancora ignorava il senso. Insieme a Jack e Xoavia continuò in questo modo per un po’ evitando di visitare altri edifici o i negozi, nonostante la fame cominciasse a farsi sentire. Ma arrivato a un certo punto, il gruppetto dovette arrestarsi perché nel bel mezzo della strada era stato piazzato un edificio titanico, altissimo nella sua maestosa indifferenza, e presto fu chiaro che per proseguire bisognava arci attraverso. Tentare di aggirarlo avrebbe richiesto riattraversare tutta la città e ciò non era proponibile. Era dunque necessario esplorarlo e sperare che da qualche parte ci fosse un varco di qualche tipo. In effetti, osservandone bene la struttura, sembrava che la città stessa fosse costruita in modo tale da non permettere una strada alternativa. Non era ben chiaro l’uso cui era destinato l’immenso complesso, anche se aveva

qualche similitudine con un teatro di notevole estensione e profondità. Da solo, doveva rappresentate una buona percentuale di Duende Town. L’edifico, però, era veramente magnifico con la sua profusione di opere d’arte, fregi e intagli cesellati con autentica genialità. La facciata, realizzata totalmente in marmo come gli altri edifici, s’innalzava verso il cielo perfetta e paradigmatica di tutto ciò che per sua natura è grandioso e incontrovertibile. Presentava un gran numero di aperture di aspetto quanto mai singolare. Finestre e rosoni forniti di cristalli di grande bellezza occhieggiavano un po’ dappertutto. Nella zona centrale si aprivano due porte massicce in oro rosso il cui peso doveva essere di varie tonnellate per ciascuna. Raffinatissime incisioni, eseguite da orafi esperti, rappresentavano scene di vita quotidiana della città che invero stonavano con la grandiosità dell’insieme. L’ingresso era accessibile tramite un’enorme scalinata composta da non meno di un centinaio di gradini, tutti di marmo rosato, ognuno dei quali era lungo una ventina di metri. Statue di quelle che parevano vestali, almeno a giudicare dall’abbigliamento in stile greco, erano piazzate strategicamente ogni due o tre metri e si posavano con grazia a una balaustra in porfido allo stesso tempo robusta ed elegante. Ma niente raggiungeva la magnificenza del frontone triangolare ornato di fregi e statue di esecuzione inarrivabile, raffiguranti personaggi sconosciuti intenti alla vita e occupazione di ogni giorno, istoriate allo stesso modo di quelle presenti nelle piazze e nelle strade. Nel complesso l’edificio ispirava sensazione di incredibile modernità che però ben si sposava all’antichità dei rilievi, di chiara impronta ellenica, ravvisabile anche nei pregiati materiali di costruzione. Anche in quel caso, però, vi era l’elemento tipico della beffa che aveva voluto una costruzione titanica come quella ornata da statue di gente che cercava di imitare a ogni costo personaggi famosi contemporanei. Né gli elementi, né la polvere avevano corrotto in qualche modo quelle superfici levigate che parevano nuovissime e in ottimo stato di conservazione. C’erano molte cose suscettibili di attrarre l’interesse del curioso e le creature-ombra che sciamavano silenziose da e per le scalinate, entrando e uscendo dall’edificio, fermandosi ai piedi delle statue in quello che pareva religioso silenzio, erano surreali oltre ogni immaginazione. Quando le loro dita spettrali toccavano la base delle statue diventavano visibili, anche se per pochi momenti, e tutto nel loro contegno dava l’impressione di essere in un’immensa chiesa e non in un edificio la cui funzione, per quanto ancora sconosciuta, non era di certo religiosa. Prontamente imitata dai due amici, Xoavia percorse cautamente l’enorme

scalinata d’accesso fermandosi davanti all’ingresso che appariva dischiuso quanto bastava per varcarne la soglia. All’interno, la luce non entrava rendendo impossibile farsi un’idea di quel che si celava. Per la prima volta da quando la conosceva, Primus ebbe l’impressione che Xoavia fosse in preda al terrore all’idea di varcare quella soglia enigmatica. Lui stesso ne era atterrito ma nello stesso tempo ne era curiosamente, beffardamente attratto. Il perché non lo avrebbe saputo spiegare ma era un dato di fatto e doveva adeguarvisi. E quando Jack chiese il da farsi sia lui che Xoavia esitarono visibilmente. L’edificio attirava la loro consapevolezza allo stesso modo e i suoi abissi inviolati, fatti di tenebra apparente, ispiravano un senso di terrore più profondo di quello esibito dalla Notte. Primus pensava di conoscerne il perché e immaginò che, in fondo, anche Jack e Xoavia sapessero. Questa volta fu lui a dare l’esempio, superando gli altri che non poterono far altro che seguirlo. Ma prima di varcare la soglia misteriosa lanciò un’ultima occhiata alla luce di Althaira, poi all’enorme frontone istoriato e abbracciò in un colpo d’occhio quella città il cui fine era avvolto nella beffa come i suoi abitanti senza nome. Ma ormai il desiderio inesplicabile che lo spingeva ad andare avanti era sempre più imperioso e lo attirava con voci e sensazioni fantasma forse causati dalla sua Capacità Immaginifica, forse no. Di una cosa sola era sicuro: se volevano uscire da quella strana città era necessario varcare quella soglia. In caso contrario nessuno di loro avrebbe avuto una minima possibilità di raggiungere Althaira. Fu per questo che, dopo aver guardato il mondo illuminato dalla luce e i volti spaventati dei suoi compagni, decise di andare incontro al mistero.

10

Il buio era palpabile come se fosse qualcosa di materiale e non aleatorio, disseminato ovunque. Primus dovette fare uno sforzo di volontà per proseguire invece di tornare sui propri i. Si sentiva soffocare, come se quella terrificante oscurità gli invadesse i polmoni togliendogli tutta l’aria. E aveva freddo. Il gelo gli correva per la schiena, artigliava il suo cuore, lo stringeva in una morsa di ghiaccio repellente e oscura. Si ritrovò a tremare e, ormai fuori di sé dal terrore, corse via, ciecamente, senza una meta o una direzione prestabilita. Cercò anche di tornare indietro ma vide con angoscia che l’ingresso dagli enormi battenti in oro era scomparso. Allora inciampò e cadde e l’oscurità si aprì per lui, rutilante e atemporale, ovunque e in nessun luogo, fino a quando non si ritrovò senza sapere come in un ambiente argenteo. Scoprì di essere ancora in piedi e questo lo stupì. I volti di Jack e Xoavia erano davanti a lui, ma sulle prime non li riconobbe. L’ambiente era incommensurabilmente grande, al punto da non scorgere il soffitto e neanche le pareti. Solo il pavimento era qualcosa di reale ma rifletteva la luce in tutte le direzioni come un enorme specchio funzionante al contrario. Jack si guardava intorno girando su se stesso, in silenzio. Non c’era nulla in quello spazio, niente oggetti o esseri viventi. Niente alberi né opere d’arte. Era un immenso spazio vuoto dove la luce era circondata da uno strato di buio plastico, reale, dove l’aria era fredda e l’ossigeno scarso. Primus si riscoprì ad ansimare e lo stesso facevano gli altri. Era come se fossero ad alta quota, in montagna, e l’atmosfera fosse rarefatta. Si accorse che quella sensazione gli causava un’enorme ansia. Stiamo per morire? Una voce tonante, proveniente dall’alto, disse: “La vostra vita va a rotoli? Avete paura di morire? Con ‘Magic & Day’, polvere magica, avrete una vita stupenda!” La voce era femminile e aveva un accento tedesco. O forse imita soltanto un accento tedesco?

Primus non lo sapeva. Comparve uno schermo enorme, a forma di parallelepipedo, i cui lati erano lunghi, in apparenza, almeno un centinaio di metri. Una ragazza bionda, occhi verdi e sorriso gioviale, vestita con un corto vestitino estivo, da bambina, aveva in mano un enorme lecca-lecca dalla forma di un grazioso cuoricino rosato che ogni tanto sbocconcellava radiosa. Di nuovo, la voce di prima disse: “Ecco il vero motivo della vita: la caramella ‘Vita Bel’ risolve le vostre preoccupazioni. A che serve preoccuparsi per il mutuo da pagare, la bolletta della luce, i figli che si drogano quando avete ‘Vita Bel’?” La ragazza cominciò a denudarsi languidamente senza mai far cadere a terra la caramella a forma di cuore. Con movimenti esperti si levò il vestitino rimanendo completamente nuda, i seni turgidi che svettavano orgogliosi sulla pelle candida. La voce riprese: “ate ‘Vita Bel’ su tutto il vostro corpo e la vita tornerà a sorridervi!” La ragazza fece quanto aveva detto la voce, sorridendo come un’oca. Inebetito, Primus cercò di are oltre ma il gigantesco schermo era sempre davanti a loro. “Dove siamo?” Disse qualcuno. “Non lo so.” La seconda voce era indistinta. È una voce femminile? Un’enorme macchina per la movimentazione terra, cingolata, grande quanto una montagna, affondava la sua vorace bocca meccanica nel terreno sradicando alberi, laghetti, terra e animali e gettandoli in un enorme fornace dove la materia ardeva all’istante. Dietro il bulldozer una squadra di figure che sembravano tecnici da laboratorio manovravano assurde strumentazioni brunite, simili a draghi meccanici, inondando tutto di una sostanza plastica, amorfa, che crescendo e sibilando formava case, strade, negozi e città. L’enorme meccanismo avanzava lentamente per la sua strada fagocitando il paesaggio e dal retro continuavano a uscire altri omini, tutti rigorosamente vestiti di bianco, che costruivano e modellavano il paesaggio. Ed ecco che in pochissimo tempo dove

prima esisteva una vallata in fiore Primus vide una splendida e modernissima città dai servizi impeccabili. La città dove chiunque avrebbe voluto vivere. E morire. Duende Town Avvertiva presenze vicino a sé, ma non ci fece caso perché ciò che lo schermo mostrava assorbiva la sua attenzione in modo completo, assoluto. Il suo cervello era diventato un meccanismo di collegamento, una connessione organica tra lui e quel gigantesco meccanismo. Era quello schermo che pensava al suo posto, con i suoi colori sgargianti, la musica ad alto volume, ma che non feriva le orecchie, suadente, dalle immagini fantasmagoriche, grandiose. E un sentimento sconosciuto s’impossessò della sua anima per farla propria. Primus non provava alcuna meraviglia a non poterlo identificare dal momento che proveniva da sfere d’esistenza esterne a tutto ciò che è futile, superficiale, umano. E quell’emozione gli diceva di allontanarsi da quell’enorme scacchiera video composta da menzogne, da quelle falsità travestite da ideologie, che attiravano lui e i suoi compagni in un vortice di cui non vedeva la fine. Un plotone di soldati avanzava brandendo oggetti scuri dalle funzioni a lui sconosciute. Poi si accorse che erano pentole, piatti, piccoli elettrodomestici. Uomini incomprensibili e oscuri, anime senza corpo o tempo che si combattevano tra loro per la conquista del nulla con le pentole e i fucili, i forni a microonde e i lanciarazzi. Il tempo sembrò dissolversi e i soldati persero la propria aurea di folle modernità e divennero ussari, confederati, sudisti e cavalieri. Primus era ridotto a una delle ombre che abitavano Duende Town, non vedeva le proprie mani, il proprio corpo né quello dei compagni. Assisteva come un’entità disincarnata vedendo e sentendo il rumore degli spari, l’odore della polvere e quello acre del sangue che sgorgava a fiotti da milioni di ferite. Imprecazioni, silenziose preghiere, grida di furore e di battaglia si mischiavano una con l’altra volando su milioni di parole e fuoriuscendo da milioni di cuori. Le loro divise continuavano a mutare una dopo l’altra e così capitava che ciò che prima era un’armatura medioevale diventasse la divisa di un soldato semplice ai tempi di Pietro il Grande per poi acquisire l’immagine di una divisa da parata. Anche le armi subivano la stessa, orrenda metamorfosi. L’evoluzione tecnologica le accompagnava, svanendo e ribollendo come una cosa viva, dando forma ai fucili, plasmando i cannoni, inventando le fionde e gli aerei da combattimento. Né Primus né i suoi compagni potevano dubitare che

ciò che vedevano fosse un’illusione perché non erano pallidi simulacri di qualcosa cui potevano solo guardare. Quegli uomini, la loro rabbia, il loro dolore, le loro speranze erano reali e vitali, palpitavano cristallizzate e incristallizzabili in un mondo grande quanto l’universo che un alito di vento poteva cancellare. E su tutto aleggiava lo spettro della pazzia che vagava non visto sulla Notte, demoni d’onice e basalto vomitanti fiamme, orrende chimere nate dall’ambizione degli uomini. Nascondersi sarebbe stata pura follia, inutile perché quella gente non voleva vederli. La loro vita trascorreva veloce sulle ali della vendetta, quella del tempo che non li avrebbe aspettati, né amati, quella degli ideali che i loro comandanti avevano tradito e che non sarebbero mai più tornati. Quando, simili a pallide ombre di un mondo spettrale, i soldati si ritrassero svanendo nel tempo, una fatina si mise a volare piroettando nell’azzurro del cielo disegnando nell’aria ghirigori di fiori e violette: “Volete un rimedio sicuro per la vostra bellezza? Desiderate essere attraenti per il vostro capo? Provate ‘Sono Bella Per Voi’, l’unico balsamo di bellezza attivo per il tempo necessario alla vostra promozione.” La fatina scese dal cielo ritrovandosi in una stanza che aveva tutta l’aria di un ufficio. Sorrideva stringendo tra le dita un flacone di balsamo, mentre frotte di uomini correvano verso di lei armati di mazzi di fiori e contratti da firmare. Primus scoppiò a ridere, e il suono della sua risata rimbombò ovunque al punto che non riconobbe neanche quella voce come la sua, tanto era amplificata. Niente è come sembra! La fatina si mosse, lo vide, gli corse incontro: “E tu, non vuoi vedermi bella come desideri?” Primus chiuse gli occhi. Non poteva far nulla, non poteva decidere, muoversi, andar via da quel nulla informe, dallo schermo onnipresente e onnisciente che tutto guardava, trasformava, odiava. Migliaia di occhi lo guardarono, milioni di labbra pronunciarono il suo nome e tutte volevano qualcosa da lui, cercavano di irretirlo, gli promettevano offerte allettanti. “Vitamina C- Fa Ben, a rilascio autenticato! Ricorda, fa bene a te, fa bene a noi, fa bene al mondo!”

Questa la conosco! “Vitamina C Fa Ben, a rilascio…” “Dove l’ho già vista? “Vitamina…” La musica era ovunque, i colori sempre più vividi, affascinanti. Coloravano il mondo. Il suo. Di tutti. Di nessuno. Un porporato grasso, sorridente, con gli occhiali d’oro, parlava dal suo trespolo simile a un enorme, informe gufo: “Per quale motivo siamo ridotti a non ascoltare la voce di Dio? È forse perché siamo troppo ricchi in casa nostra e abbiamo dimenticato il mondo? Ho sentito strane voci, il mondo sta morendo. Noi, voi, tutti stiamo morendo! Prostratevi, dunque, alla potenza del Signore e donate…” Doniamo, doniamo al Signore… “Donate i vostri soldi. Donateli a noi…” Un minuto, solo sessanta secondi, e la stanza da pranzo fu allegra, luminosa. La donna sedeva a tavola bevendo con un sorriso di plastica il suo succo d’arancia aromatizzato al mirtillo. Indossava un vestito giallo che la faceva somigliare a un enorme, delicato uccellino. Alle sue spalle, un televisore trasmetteva le immagini di un documentario sulla guerra in Vietnam. E Primus decollò immediatamente, veloce sulle nuvole e intorno a esse. La donna continuava a bere, deliziata, mentre le immagini scorrevano dietro di lei. Subito dopo, alcuni ragazzini corsero lungo un campo di fiori e la pioggia cadde, il sole sorse, la vita ricominciò a girare sempre più veloce, più lontana, sempre più inumana. “Oh, Ellen, hai visto?” Disse la donna-uccellino. “Ma certo, cara, ho visto.” Rispose l’altra, una robusta signora di mezza età tutta disponibile a versarle dell’altro succo d’arancia. “Ma che magnifico capo indossi.” Fece la donna-uccellino. “Grazie, tesoro!”

“Sei molto elegante.” “Grazie, tesoro!” “E anche Ronald, credo, non mancherà di notarlo.” “Grazie, tesoro!” La guerra scorreva implacabile dietro di lei. Dietro di loro. La gente moriva crivellata da milioni di colpi. Ma non erano proiettili, né bombe al napalm. Erano parole. Parole vuote, inutili, umane. Jack? Primus era stupefatto. Le osservava. Cercava di capire, ma nulla sembrava avere un senso. Non c’era logica in quelle cose vuote, in quelle parole inutili che volavano, volavano, volavano senza un perché. La sua mente non poteva collegare quelle immagini tra loro, la guerra, le donne del salotto, il succo d’arancia. Perché tutto questo? E perché farlo vedere a lui? Adesso non avvertiva più le presenze di Jack e Xoavia. Sono solo Provò a fuggire ma non sentiva le gambe, non sentiva se stesso. Era ancora un’entità disincarnata. Era immerso nello schermo, conviveva con esso, assorbiva i suoi onda-pensieri, era lui stesso un’emanazione dello schermo. Ne assorbiva le intime riflessioni, tentava di capire, ma non c’era nulla da capire. Solo fuggire. Una donna lasciva, seducente nel suo abito da sera color panna, camminava elegante su un tappeto di perle. Perle che diventavano sempre più simili a un acciottolato lastricato con cubetti di pietra e quarzo. Si voltò un attimo nella sua direzione e sorridendogli disse: “Vieni da me, Primus.” Chi sei? La prospettiva si allargò roteando su se stessa, mostrando i fulgidi palazzi di marmo e crisolito. Le statue beffarde, la magnificenza dell’oro.

Tu hai costruito Duende Town. La città sorse davanti a lui in tutto il suo splendore. Le statue, i villini, gli alberi alteri che svettavano eleganti verso il cielo. Il frontone dell’immane palazzo decorato con arte finissima, gli abitanti-ombra che sciamavano in estatico e religioso silenzio davanti a lui. Miriadi e miriadi di palazzi come quando da bambino si era soffermato a contemplare incuriosito le statue dei santi in una chiesa come tante. Quelle figure tacite, silenziose, che per certi versi aveva sempre trovato deprimenti. Altre volte, invece, quelle statue non gli avevano trasmesso alcuna emozione. E quando aveva ascoltato i sermoni di chi aveva parlato, del sant’uomo che aveva spiegato, esposto, esaminato, aveva tentato di conservare quelle parole, di farle proprie, assimilarle. Ma poi aveva guardato nuovamente le placide figure dei santi e le parole erano volate via. Gli sembrava che quelle immagini smaltate a colori vivaci attendessero qualcuno che le svegliasse, facendo dire loro quel che provavano. I valori di sempre, quelli da seguire. Ma nessuno era stato in grado di vedere. Allora osservava le facce smunte dei fedeli. Le donne percuotersi il petto, gli uomini pregare a occhi chiusi. Il pastore parlare solenne, tonante, ma non c’era nessuno che lo ascoltasse davvero. E forse neanche lui si ascoltava davvero. Così gli apparvero quelle donne. Parlavano tra loro senza guardare le immagini che scorrevano alle spalle del mondo. Senza badare al sangue, alle grida, alle imprecazioni. E Primus che cercava di capirne il motivo, di assimilare l’incenso di un mondo che non esisteva veramente. Le tre donne erano figure di cera, dalle guance colorate, le labbra dipinte di violetto e rubino. Gli occhi di porcellana, ma senza luce né vita. Sorseggiavano i loro drink scarlatti affinché il succo d’arancia sostituisse il loro sangue ormai marcio con liquido chiaro, incolore, insapore, inutile. Non c’era nulla. Nulla da scoprire. Niente da spiegare che già non sapesse. E Primus provava le stesse sensazioni davanti a quelle marionette travestite da esseri umani. Che accendevano le loro sigarette per darsi un contegno. Che si toccavano i capelli, esibendo le proprie unghie finte, di plastica come i loro cuori, dipinte a colori vivaci. Le loro labbra vomitavano parole su parole, i loro denti splendevano radiosi, freschi di gomma al mentolo. E la città si dipingeva in esse, nei loro occhi vacui, nelle loro bocche attive ma spente, come tanti dischi in vinile ormai superati dal suono purissimo di nuova generazione, ma come essi del tutto frivolo. Completamente inutile. Da un momento all’altro, Primus si aspettava che quelle labbra rutilanti esplodessero cessando di parlare, ripiegandosi su se stesse. Vuote, stupide

caricature della vita che non avevano mai sofferto, mai vissuto veramente. Ma fu quando le donne, con un veloce movimento del capo, sembrarono finalmente accorgersi di lui che tutto accadde. Vide, o forse immaginò solo di vedere, punti argentei e luminosi sorvolare quella città abitata da fantasmi. Il cielo fu scosso da un impercettibile fremito, poi l’onda d’urto dei propulsori fece tremare i bicchieri che le tre figure femminili avevano adesso adagiato sul tavolino, incredule. Il terrore si dipinse nei loro occhi vuoti. Forse qualcosa provano, adesso Per un rapidissimo istante, il fremito dei soldati le travolse e con esse Duende Town. Gli ordigni si sganciarono dalle fusoliere, dispiegarono corte alette metalliche e planarono come delicate farfalle verso la città. Verso le guglie di marmo e oro. Verso le statue beffarde. Hitler che vendeva pannolini le attendeva. Stalin allungava il suo spazzolino verso di loro. Felix il gatto torreggiava insieme agli altri personaggi dei fumetti. Simili a rapidi falchi in picchiata, gli ordigni piombarono con furore sui tetti splendenti. L’ululato dei reattori cessò e seguì un irreale silenzio. Le tre donne guardarono verso il cielo, finalmente ammutolite. Un minuto all’esplosione… Quaranta secondi… Venti secondi… Xoavia L’impatto fu devastante, ma nessuno si mosse. Il cameriere continuò a servire al tavolo. I palazzi furono frantumati, le loro fondamenta s’irrigidirono nell’istante supremo, inetti, come se potessero davvero esistere per sempre. E in quell’istante divennero fiammate ruggenti, sagome vibranti di fuoco divino. Si udì un sibilo enorme, con un gorgogliare di infinite voci scomparse. Primus si portò le mani alle orecchie per tenere lontano quell’urlo. La città che si accasciava, vuota e inutile, urlando su se stessa. Enormi boccioli di fuoco sorsero verso l’alto rendendo il cielo cremisi di fiamma. Dies Irae Il fruscio di una sola foglia in autunno. Il soffio del vento che aleggia sull’erba

primaverile. Primus si voltò verso gli edifici di cui già immaginava le macerie fumanti. Ma invece di enormi ombre annerite e contorte dalle fiamme rivide i palazzi intatti ma spogliati dal loro sgargiante vestito da sera. Dov’erano le tonnellate di marmo, l’oro splendente illuminato dal sole? Le statue avevano ragione, dunque. La vita non era che una grande beffa vestita di fiori, stillante lusso all’esterno ma oscurità nell’anima. I frontoni scolpiti si erano sbriciolati sotto l’impeto degli ordigni plananti, i reattori avevano compiuto il loro lavoro mostrando il vero volto di quel lusso decadente. Non era oro quello che scorreva nelle vene dei possenti edifici, né marmo il loro vestito splendente. Rivelata dagli ordigni in picchiata, la melma che li componeva sorse alla vista stillante fango e terrore. L’odore dei fiori ormai avvizziti era intollerabile, mefitico. Le statue erano grottesche pantomime della vita, le strade acciottolate erano viscide di putridi liquami. Tremando, Primus si voltò a guardare le tre donne, dagli occhi di brace, i capelli stopposi che cadevano a ciocche, le labbra riarse, rinsecchite a mostrare i denti. E quelle bocche fameliche di Vuoto continuarono a parlare senza che nulla fosse cambiato. Artigliavano con dita informi bicchieri incrinati di vetro in cui galleggiava una poltiglia verdastra e l’orrendo rumore che producevano nell’atto della deglutizione parve a Primus l’urlo della Nemesi. Allora corse via con quanto fiato aveva in gola, scivolò e cadde, si sporcò e si rialzò levandosi dalla fronte il fango della Città dei Fantasmi, costruita a immagine di tutto ciò che esiste di bello e senz’anima. Nella foga della corsa, non vedeva dove fosse diretto, ma che importava, ormai? Dove fuggire? Dove ritrarsi da quella follia? Le creature-ombra continuavano a vagare per la città odiosa, mosse dalla loro ansia eterna, ma Primus non si fermò più ad ascoltarle, ormai conosceva l’orrore che si celava dietro la finta magnificenza di quelle mura terribili. E quando scivolò sul limo verdastro di una stradina in discesa, si ritrovò a cadere in una voragine sconosciuta fatta di fumo e terrore. Tenebre palpabili nella loro terrificante qualità, gridavano la propria follia ai venti della notte. Ci fu un boato, come milioni di soli che esplodessero simultaneamente. È finita! I suoi pensieri vorticavano impazziti nell’istante supremo. Le nebulose palpitavano, la luce spariva inghiottita dalle tenebre dell’universo. Duende Town riapparve ai suoi occhi stillante follia e inumanità. Uno strano senso di nausea lo travolse e il mondo cominciò a roteargli intorno. Rivide i velivoli da

combattimento avvicinarsi di nuovo, distruggere e ripartire. Rivide la città che si ergeva, stupida e inumana, stillante orrore e corruzione. Il suo cuore di marmo frantumato nel profondo come un essere vivente colpito da un proiettile vagante, incredulo di essere stato colpito da una pallottola. Poteva avvertire il suo stesso sangue scorrere impazzito nelle sue vene, il cuore pulsargli furioso nel petto, la vita scorrere nei suoi pensieri. Chiuse gli occhi ma continuò a vedere la scena. Duende Town non era un sogno o un’allucinazione. Era più reale di quanto immaginasse. Qualcosa lo colpì e Primus immaginò essere la scheggia di una di quelle bombe impazzite. Ecco, il mio sangue continua a scorrere impazzito nelle vene Ma anche se il cuore batte, la vita fugge. Si apre una voragine e una luce splendente lo fa brillare, scarlatto. La mente evapora con dolcezza e disperde i suoi ricordi preziosi insieme al sangue che si ritrova, esanime, all’aria aperta. E il mio corpo, ormai finito, muore. Ma Primus no, lui non era morto. Era soltanto caduto a terra e quando, tremante, riaprì gli occhi, scoprì una stanza completamente bianca, dal pavimento alle pareti, dai mobili al letto. E adesso? La sua ansia si trasformò prima in un vacuo terrore poi nella rassegnazione di chi sa di non avere più nulla da perdere. Seduto a una scrivania di cristallo, vide un uomo impegnato a scrivere qualcosa su un quaderno. Accanto a lui un vaso di cristallo dalla foggia strana, quasi prismatica, con una rosa nivea. Primus non vedeva il viso della figura perché era immerso in una strana qualità di ombra che lo nascondeva. Indossava un vestito dello stesso, candido colore della stanza. Poi udì tremuli sospiri e capì che l’uomo singhiozzava in quella candida oscurità. Una goccia perlacea rigò le guance dello sconosciuto, cadde per finire poi nel vaso contenente la rosa. Ma erano strane lacrime, rosse di sangue. Niente in quella figura era minaccioso, ma a quella vista un indefinibile terrore afferrò nuovamente il cuore di Primus e desiderò fuggire da quel luogo al più presto. I singhiozzi cessarono e con essi i sospiri ma quando l’uomo si alzò quel lieve movimento scatenò un rumore assordante, causato dalla sua sedia che si spostava. Primus si portò le mani alle orecchie per non sentire e capì che quel suono era lo stesso provocato dai propulsori degli aerei che avevano distrutto Duende Town.

L’uomo aveva la sua stessa altezza, ben fatto e proporzionato. Il suo viso era ancora al buio, ma gli occhi verdi di fiamma, profondi e imperscrutabili, gli instillarono un sentimento di curiosa riverenza. Nel suo sguardo che non lo vedeva, scivolavano le ombre dei millenni. Tutta l’eternità si condensò, sorse e svanì nell’arco di pochi attimi ma né Primus né l’altro sembrarono farvi caso. Il tempo non esisteva. Poi, man mano che il terrore allentava la sua morsa, Primus decise di guardare l’uomo negli occhi, tentò di scorgere il suo viso. I suoi i risuonarono sul pavimento bianchissimo, i suoi occhi percorsero quella figura alla ricerca di un dettaglio, una forma, qualsiasi cosa che potesse aiutarlo a capirne l’identità. I petali della strana rosa scintillavano di luce e il loro riverbero pervadeva ogni cosa nella stanza. Si era sbagliato sul quaderno. Aveva di più l’aspetto di un libro e quando la figura lo richiuse amorevolmente si stupì di quel che lesse. Ma non fu quello il dettaglio che lo avrebbe portato a chiudere gli occhi, aspettando la morte. Non furono le lettere gotiche scritte a mano, in neretto, che riportavano il suo nome sul frontespizio; fu qualcos’altro, una qualità propria della figura che stava ritta di fronte a lui. Le labbra dell’uomo mormoravano una lingua sconosciuta, fragile, e il suo viso che ora lo guardava era l’esatta replica del suo. Allora Primus urlò e la luce di quella rosa che si nutriva delle sue lacrime scosse l’universo. Ma quando l’uomo scomparve in un lampo di luce purissima lasciandolo solo, cominciò a precipitare in un sonno profondo che salvò la sua mente.

Primus si svegliò su una grande roccia piatta, forse levigata dall’azione del vento, in un paesaggio molto diverso dalla Città dei Fantasmi. Alla sua sinistra Jack e Xoavia stavano cercando di riaversi dagli ultimi avvenimenti e il solo vederli lo sollevò. Aveva temuto di averli persi per sempre. Nessuno disse nulla perché non era necessario e il solo suono che avvertivano era quello prodotto da placide onde delicate che lambivano una spiaggia sconosciuta alle loro spalle. A fatica, riuscì ad alzarsi scrollandosi la sabbia dai capelli arruffati. Il mondo che li circondava, immerso in una luce soffusa, era incantevole e riverberava di placida dolcezza nella pace del tramonto. Un mare dalle acque cristalline si stendeva oltre l’orizzonte, sfumato in una luminosità rosata che non feriva gli occhi. In alto, nel cielo, una nebulosa splendeva suadente, punteggiata da stelle lucenti e bellissime e, accanto, roteava maestoso un pianeta enorme,

della stessa gradazione azzurrina del cielo. Per un attimo, la massa del pianeta lo terrorizzò poiché sembrava talmente vicino da essere sul punto di precipitare. Trasse un profondo respiro e tentò di schiarirsi la mente annebbiata. Chi era l’uomo vestito di bianco che aveva visto? E dov’erano stati Jack e Xoavia per tutto il tempo? “Dove siamo finiti?” Grugnì a un tratto Jack, facendo uno sforzo sovrumano per rialzarsi. “Ne so quanto voi! Dove siete stati? Mi era sembrato di essere rimasto solo, a un certo punto.” Xoavia disse: “Io mi sono persa tra i soldati, sono svenuta e mi sono ritrovata qui.” “Anch’io.” Aggiunse Jack, “e tu?” “Sarebbe troppo lungo da spiegare e forse non mi verrebbe neanche bene. Mi è sembrato di vedere Duende Town crollare e poi ricostruirsi in un eterno ciclo senza fine. Ho rivisto gli abitanti-ombra che sciamavano, melma e fango ovunque per le strade. Anch’io ho visto i soldati e poi una sorta di spot pubblicitario dove una fatina svolazzava quasi completamente nuda.” Si massaggiò la fronte. La testa gli girava e aveva i muscoli indolenziti come se fosse rimasto sdraiato per molto tempo in una posizione scomoda. “Non sono sicuro di aver visto realmente certe cose, se fossero illusioni o sensazioni extra percettive causate dalla mia Capacità Immaginifica. So solo che alla fine mi sono ritrovato al cospetto di un uomo vestito di bianco; aveva il mio stesso volto. Non so perché, ma dubito di conoscere il senso di qualunque cosa accada nel Nescium!” Fece un blando sorriso. “Un uomo con il tuo volto?” Esclamò pronta la ragazza, “sapresti descriverlo meglio?” Primus sorrise di nuovo, imbarazzato: “Non ho avuto modo di vederlo bene perché gli eventi si sono svolti in fretta e poi sono svenuto. Aveva la mia altezza, snello e se ne stava seduto davanti a una scrivania in una stanza completamente bianca. Accanto a lui una rosa che scintillava come un piccolo sole, nutrita dalle lacrime di quell’uomo. Lacrime che sul suo viso erano chiare ma una volta gocciolate sul fiore diventavano scarlatte. Sembrava sangue.”

“Continua.” Lo incoraggiò lei, interessata. Primus fece un sorrisetto. Non sapeva perché ma era imbarazzato: “Scriveva qualcosa, un diario o forse un libro, sulla cui copertina era stampigliato il mio nome a caratteri gotici. Mi ha dato una strana sensazione di familiarità. Come se già lo conoscessi. Ma perché me lo chiedi?” La ragazza scosse il capo: “Non so. Perché sono curiosa, credo. Quest’uomo che hai visto deve possedere una qualche valenza, ma non sono in grado di capire quale sia. Forse si è trattato solo di una delle tante percezioni evocate da quella specie di museo, non lo so. Quanto a questo posto,” La ragazza sbuffò, “non mi è familiare, non lo riconosco. C’è qualcosa, qui intorno, che non vuole mostrarsi ma so che c’è, avverto la sua presenza e la cosa mi rende nervosa.” “A me sembra invece che siamo completamente soli in questa vastità.” Disse Jack, facendo qualche o verso il mare tranquillo. A Primus il tono della ragazza non era parso molto convincente, ma non ne fece parola. Dal suo punto di vista gli eventi dovevano sembrare anche più strani che a Xoavia e quindi le sue ipotesi avevano maggiori probabilità di essere errate. Come se intendesse finire bruscamente la conversazione la donna aggiunse: “Diciamo che non sono sicura che sia questo il posto che cerchiamo.” “Se non lo sai tu!” Primus le sorrise. Jack fece qualche o sulla spiaggia: “Beh, secondo me questo posto è strano almeno quanto quello che abbiamo lasciato, anche se qui mi sento molto meglio che a Duende Town.” Si stiracchiò con soddisfazione, poi aggiunse: “Comunque, a dirvela tutta, vorrei tanto essere a casa mia, mangiare patatine e godermi le partite dei Pink Panthers.” Ma Xoavia era seria: “Siamo usciti dalla Città dei Fantasmi, questo è certo. A questo punto dovremmo vedere una villetta immersa in un giardino di rose ma qui,” allargò perplessa le braccia, “non vedo nulla di tutto ciò.” Jack non rispose. Si avvicinò invece alla battigia aguzzando lo sguardo verso l’orizzonte. Come un bambino troppo cresciuto si chinò a sfiorare con le dita le piccole onde che morivano sulla spiaggia.

“Ehi, guardate!” La sua voce risuonò eccitata in una strana eco, “quest’acqua non esiste.” “Non esiste?” Primus si avvicinò all’amico che ora si era levato le scarpe e saltellava, sollevando spruzzi d’acqua che svanivano prima di toccare terra. “Che stai facendo?” “Prova!” Rispose l’altro, “e non sentirai assolutamente nulla. Questo mare, l’oceano, forse anche quelle piante laggiù; è tutta un’illusione.” Primus si chinò immergendo a sua volta le mani nell’acqua. La sensazione che provò non era quella solita ma un contatto lieve, come una brezza leggera che gli sfiorasse le dita. A una certa distanza da loro scorse quelle che gli sembrarono due isolette adiacenti alla riva, praticamente sul pelo delle acque, contornate da alberi frondosi disposti in circolo. Il paesaggio era strano ma gli infondeva una piacevole sensazione di tranquillità. Quello che gli ci voleva dopo Duende Town. Con voce decisa Xoavia disse: “Sarà meglio muoverci. Non so dove siamo, ma non mi sento tranquilla. Cerchiamo di scoprire se questo posto è abitato da qualcuno.” “Dubito che troveremo tracce di esseri viventi su questa spiaggia.” Osservò Jack “Credo che questo ambiente sia tutto una spiaggia.” Commentò Xoavia, pensierosa, “ed è questo il dettaglio che mi stupisce di più. Ci sono sicuramente delle presenze qui, forse altri argentei, ma se così fosse dovrebbero essere già visibili. Mi chiedo che cosa stiano aspettando.” Primus disse: “Non possiamo fare altro che proseguire e scoprirlo da soli.” “È l’unica, a questo punto.” La ragazza sospirò. Si misero in cammino. Per quanta strada fero quel luogo rimaneva sempre identico a se stesso. Non c’era traccia di case o altre costruzioni né videro esseri viventi di qualsiasi tipo. La stessa spiaggia era piatta, composta da una sabbia scura e ruvida completamente nera, somigliante a minutissimi frammenti di marmo polverizzato. A parte le isolette circolari non si vedevano montagne o altri dettagli degni di nota. L’aria non era neanche salmastra come sarebbe stato logico in un ambiente del genere ma sembrava quella di un luogo antichissimo

sospeso nel tempo e al di fuori di esso. Poi, cominciarono a scorgere piccoli bagliori tra le acque tranquille che riconobbero per fiori variopinti che crescevano direttamente dal basso fondale. “Quelle sono rose!” Disse Xoavia. Primus si avvicinò e ne contò a centinaia, forse milioni. Tutto l’oceano sembrava cosparso da rose subacquee dai colori vividi e brillanti. Incuriosito, ne sfiorò una, provando la sensazione di un delicato rumore musicale che diventava più intenso se chiudeva gli occhi per mettersi in ascolto. Si rialzò su invito della ragazza e ripresero ad avanzare verso nord, in direzione dell’immane pianeta blu che continuava nella sua lenta e indifferente rotazione. Sulla sua superficie era possibile scorgere diversi crateri e poi quelle che avevano tutta l’aria di essere nuvole. Sempre di più si accorse di apprezzare quel paesaggio immerso in un eterno crepuscolo rosato e azzurro, le cui vivide gradazioni erano piacevoli alla vista e al cuore. Certo, doveva essere anche quello un’idea dell’Altro e si chiese che razza di entità fosse, capace com’era di creare mondi di così rara bellezza. Quali panorami aveva contemplato, a cosa erano connesse le sue sensazioni? Contemplando quel paesaggio alieno nella propria vertiginosa estraneità, Primus provava la sensazione di gettare uno sguardo al di là di abissi insondabili e atemporali che avevano un intimo legame con il mistero. E quel cielo enigmatico era percorso da intense e fantastiche radiazioni composte da colori delicati che sembravano vivi. Anche gli altri le videro e si arrestarono per osservare quello straordinario spettacolo celeste. Brillavano rapidissime nel più perfetto silenzio come innumerevoli stelle cadenti che vibravano e si assiepavano intorno all’enorme pianeta sospeso, allo stesso modo di uno stormo di uccelli dove i singoli esemplari si muovessero in modo non sincronizzato tra loro. All’improvviso, tutti e tre furono colti da vertigini che li portarono ad accasciarsi a terra, sulla spiaggia scura, come se quelle radiazioni interferissero in qualche modo con il loro senso dell’equilibrio. “Che succede?” Gridò Jack. “Quelle radiazioni,” la voce di Xoavia sembrava distorta come se provenisse dritta da un enorme diapason, “sono vive!” Primus cercò di rialzarsi ma inutilmente. Anche lui avvertiva quelle vibrazioni,

ora, come se il mondo in cui si trovavano fosse un’unica, enorme creatura vivente che si stesse risvegliando da un sonno lungo quanto l’eternità. Guardò il profilo dell’enorme pianeta che adesso sembrava dissolversi in vaste porzioni di spazio-tempo luminose e imperscrutabili, simili a giganteschi aggregati di oggetti cubici, la cui consapevolezza brillava all’unisono con le radiazioni delicate. Due di quegli oggetti si staccarono dal resto del gruppo e arrivarono planando davanti a loro a velocità vertiginosa. Jack cacciò un urlo di stupore e lo stesso fece Primus mentre le due creature, enormi, si posarono con grazia aiutate da ali curiose, composte da profili geometrici impossibili da descrivere con le sole parole. La loro forma, vagamente cubica, non era costituita da carne ma da un materiale affine alla carta, come se fossero enormi ammassi di pagine e pagine di libri mai scritti che si fronteggiavano. Non avevano occhi, sostituiti da profonde cavità luminose, e il loro colore variava dal grigio chiaro al bianco sporco con le estremità delle ali punteggiate di nero. Suoni non ne emettevano e del resto erano privi di un becco. Erano vivi, ma sembravano statue animate in cui la vita aleggiava a livello superficiale senza permeare davvero il loro cuore, sempre se ne possedessero uno. Nonostante non avessero forme aggraziate, i loro movimenti erano armoniosi e avvenivano in perfetto silenzio. “State fermi!” Gridò Xoavia, “Se non ci muoviamo non ci noteranno. Non hanno occhi né orecchie come i nostri. Loro percepiscono solo il movimento. Sono le variazioni nella densità dell’aria che li attira!” Ma era troppo tardi per Jack. Animato da un terrore inestinguibile, si era messo a correre all’impazzata in direzione opposta da quella da cui erano arrivati gridando frasi sconnesse. Mentre correva, gli sembrava di avvertire le grida scomposte degli altri che lo chiamavano ma il terrore era troppo forte e le sue gambe rifiutarono di fermarsi. Ben presto, le voci di Primus e Xoavia furono sostituite dal suono ben più assordante del suo stesso respiro che sembrò pervadere ogni cosa, dall’oceano tranquillo alle curiose isolette circolari disseminate di alberi, immobili nella pace di quel luogo sconosciuto. Dietro di sé non avvertiva movimento e per qualche minuto pensò di aver seminato quegli orrori cubici là dove li aveva visti. Stava cominciando a perdere le forze che svanivano insieme all’ossigeno dai suoi polmoni. Presto avrebbe dovuto fermarsi per respirare ma sapeva che non poteva, non doveva farlo. Ridusse gli occhi a due sottili fessure mentre il sudore prese a scorrergli in rivoli appiccicaticci sul collo, inondandogli la fronte e gli occhi di un mondo nebbioso e salato. Fu allora che il terreno gli mancò da sotto i piedi e

vide la spiaggia nera farsi sempre più lontana e indistinta provando nel contempo la sensazione di se stesso che veniva sollevato nell’aria a una velocità vertiginosa. Le sue gambe continuavano a muoversi frenetiche, come se la spiaggia fosse ancora al proprio posto, solida, concreta, sotto i suoi piedi. E quando alzò lo sguardo urlò con quanto fiato aveva in gola e le sue urla si estesero oltre le radiazioni cosmiche che splendevano in quel cielo delicato. Gli artigli del mostro lo abbrancavano ma non gli facevano alcun danno. Nonostante il terrore che provava si rese conto da vicino che la materia di cui era composta la creatura era realmente carta perché sulle zampe (o sulle appendici che avevano la funzione di zampe) erano evidenti frasi scritte in neretto. Dalle aperture che le servivano da occhi, l’essere emetteva una serie di lampi che evidentemente le servivano come sistema di orientamento. Sotto di loro l’oceano era un’unica, infinita lastra d’indaco punteggiata di colori che parevano muoversi lentamente nei suoi abissi inviolati e tuttavia trasparenti come il cristallo. Improvvisamente a Ovest sorse una stella che prima non aveva notato. Era più brillante delle altre e aveva un movimento ipnotico stranissimo. L’immane mostruosità che lo teneva avvinto con i suoi artigli di carta durissima e spigolosa variò l’inclinazione delle sue ali e perse quota, descrivendo eleganti cerchi nell’aria immobile di quel tramonto perpetuo. Poi gli artigli si aprirono e lui si ritrovò a cadere in un vuoto azzurro-rosato percorso da schiere infinite di altre creature simile a quella che lo aveva ghermito, rugose, dalle carni cartacee, silenziosi messaggeri di tutto ciò che è strano e inesplicabile. Nonostante la sensazione di cadere era troppo inebetito per gridare e la sua mente obnubilata aveva l’impressione di vagare in abissi cosmici senza nome o dimensioni e quando arrivò a terra non provò alcuna sensazione particolare né dolore fisico. Solo Paura, ovunque e assoluta, che lo ipnotizzava, fermo, senza un movimento, senza fiato, senza alcuna possibilità di reazione. Si portò le mani alla gola che trovò stranamente calda e aveva gli occhi che gli bruciavano; si voltò nel timore di vedere un altro di quegli esseri diretto verso di lui. Ma non c’era niente e poco alla volta il suo cervello sconvolto realizzò di essere solo in quella vastità. Come un automa privato da ogni residuo di volontà sedette sulla spiaggia; gli sembrava di vivere un sogno. Un vivido, impressionante, sogno. Con cautela tastò quella sabbia composta da frammenti di marmo nerastro trovandola soffice ed elastica. Sorrise. Poi notò un movimento in lontananza.

Una figura indistinta avanzava, o meglio, aleggiava nella sua direzione, perché si teneva a pochi centimetri dalla spiaggia solitaria. Man mano che si avvicinava acquistava contorni più definiti. Aveva l’aspetto di una donna alta e snella, dai capelli neri che le arrivavano fino alle spalle, ondeggianti come una vaporosa massa di seta. Il suo vestito, morbidamente aderente ai fianchi perfetti, era color panna. Si avvicinò con i leggeri, ancheggiando visibilmente, fissandolo con uno sguardo malizioso. Ai piedi incredibilmente minuti portava scarpe dai tacchi alti che non sprofondavano nella sabbia, come se la donna più che camminare fluttuasse. Un filo di perle le impreziosiva il collo e sui denti dischiusi in un dolce sorriso splendeva una luce strana che aumentava l’effetto di straordinaria bellezza che l’avvolgeva. Jack restò a guardarla arrivare con la più nera delle disperazioni perché qualcosa nel suo essere aveva capito che quella donna non gli era amica. Lo sguardo della sconosciuta era dolce solo in apparenza, ma conservava una qualità estranea, un senso di avida consapevolezza che lo inebetiva. Che fosse un’autentica ipnotizzatrice era evidente perché lui non era in grado di fare il benché minimo movimento, neanche alzarsi. Quando quella figura gli si arrestò davanti, gli disse: “Ti aspettavo, Jack.” La sua voce aveva una strana qualità timbrica, il suono del Nulla. Jack non rispose. “Non puoi rispondere?” Aggiunse allora la donna, in tono canzonatorio. Jack aprì la bocca per ribattere e la voce gli si strozzò in gola; lui soffocò e tossì con gli occhi inondati di lacrime. Avvertiva una grande pressione sul petto, gelida e inumana, una mano enorme che lo premeva in quel punto con dita di ghiaccio. Tossicchiò ancora, spaventato nel profondo, sempre continuando a mantenere gli occhi puntati sulla sconosciuta. “O forse non vuoi?” La donna si chinò verso di lui, languida, aiutandolo a rialzarsi. Il tocco delle sue dita affusolate fu sufficiente a fargli ritrovare la forza delle gambe e Jack scoprì con stupore di essere nuovamente in grado di camminare. Con un ultimo sforzo tentò di mettere più spazio possibile tra sé e quell’apparizione, ma inutilmente. Non erano le sue gambe ad aver ritrovato le forze ma erano le dita della donna a girarlo come meglio credeva. Era solo un burattino nelle sue mani. Un burattino vulnerabile a qualsiasi cosa lei volesse fargli.

“Posso fare qualcosa per te, Jack? Magari un dolce, piacevole bacio?” La donna avvicinò la bocca alla sua. Jack avvertì il caldo fiato di lei, delicato come una brezza leggera. Non disse nulla. Non poteva parlare. Era come quando Xoavia gli aveva cancellato le labbra, a casa sua, dopo che lui aveva criticato Althaira. Provava la stessa sensazione. E in quel momento desiderò di non essere mai scappato; se non lo avesse fatto non si sarebbe ritrovato in quella situazione. La donna lo baciò. Un tocco esile, leggero, piacevolissimo lo sfiorò e lui desiderò ancora quel bacio. Come se gli avesse letto nel pensiero, la donna disse: “Sapevo di piacerti, Jack. In un certo senso, l’ho sempre saputo.” Ridacchiò: “Vedrai, ti piacerà stare con me.” “Chi sei?” La voce gli uscì in un boato, come un flusso d’acqua fuoriuscito da un’immane pressione in superficie. Non la riconobbe come sua, ma non aveva importanza. Adesso era in grado di parlare di nuovo. Gli ci era voluto un enorme sforzo ma alla fine era riuscito a farcela. “Dovresti conoscermi.” La voce di lei aderì alla sua mente come rugiada che scivoli sulle foglie di un albero e questo lo affaticò ancora di più. Il suo cuore prese a battere più lentamente, con fatica, come se fosse in procinto di fermarsi, esausto, per il troppo lavoro. “Io ti ho già vista!” La donna gli diede un altro bacio, e un altro ancora, con ione ma a fior di labbra. Gli occhi di lei erano profondità abissali senza luce. Composti di tenebre solide, concrete e quelle vuote oscurità lo attendevano a braccia aperte. “… Ti ho già vista...” Chi aveva ripetuto cosa? Il suo mondo stava cominciando a svanire. “Jack, mio unico grande amore!” E la voce di lei risuonò torrida nelle sue orecchie come un eco dei millenni.

Continuando a sorridergli, la giovane donna gli voltò delicatamente la testa verso destra. C’era qualcosa, in lontananza, una sorta di enorme fabbricato immerso nel verde. “È lì che eravate diretti, tu e i tuoi amici, vero?” Arresto cardiaco… Sto morendo di arresto cardiaco… “Vogliamo andarci insieme? O preferisci aspettare Primus e quella donna, Xoavia?” La nuova arrivata lo prese sottobraccio, guidandolo, e le sue gambe si mossero ma il freddo invisibile che lo ghermiva aumentò in maniera esponenziale. Incapace di opporsi in qualche modo si lasciò aiutare, osservando la sua espressione perfettamente tranquilla, il suo distacco da tutto e tutti. Per un istante, la invidiò. I suoi polmoni cominciarono a gonfiarsi, in cerca d’aria. Sto soffocando Si sentì soggiogato da uno spazio vuoto, con la donna che lo guardava, bellissima e fatale, con occhi avidi di lui, della sua forza, della sua vita. E la riconobbe per ciò che era, una predatrice intelligente e spietata. Paziente e inesorabile, forse li seguiva da sempre, da prima ancora che cominciassero il viaggio, che fossero usciti dal mondo-mondo. Ma sì, doveva essere così. Era Lei, la Paura. Si avvicinarono al grande edificio. Era una villetta graziosa, elegante, circondata da un vasto giardino. Era rilassante da osservare. Era lì che stava la saggezza. Lo aveva detto Xoavia. La saggezza “La saggezza non esiste, Jack.” “Non… voglio… andarci… con te!” Ansimò. “Oh, tesoro!” E la donna rise beffarda, e nella sua voce Jack lesse tutto l’odio e la solitudine del mondo. Qualcosa risuonò nelle sue orecchie intorpidite. Sembravano voci. Voci umane. “Tu non esisti, Jack!”

E l’odio scaturì da quelle labbra scarlatte, da quelle forme fasciate di seta, da quella bellezza vaporosa e sofisticata. Bella come una dea, cesellata dalla follia di abissi privi di qualsiasi parvenza di umanità. Primus e Xoavia Lei lo sorreggeva, pronta a non farlo cadere, lo aiutava con le sue morbide dita, gli rendeva possibile percorrere lo spazio che li separava da quella villetta così bella, così ordinata, dove Xoavia era sicura di poter trovare la saggezza. Il cuore gonfio gli soffocò la gola, i polmoni gli si contrassero nel petto ormai fiacco, il sangue rallentò e si solidificò nelle vene provate dal troppo scorrere del tempo. Inciampò e si ritrovò per terra. Lei mi aiuta “Ecco Jack, riposa, mentre aspetti che ti raggiungano i tuoi amici.” Si rannicchiò in se stesso assumendo una posizione fetale, protettiva, che lo tenesse lontano da Lei e dalle sue grinfie fatte di vuoto e odio. Allora la donna gli avvicinò le labbra all’orecchio, respirando, picchiettandogli con la lingua le guance. In un ultimo istante Jack la guardò e la trovò bellissima, desiderabile, morbida come nessun altra. Con un solo movimento delle dita Lei accontentò il suo desiderio più nascosto e torreggiò su di lui con i seni alti e sodi, seducentemente rivolti verso le sue labbra. “Mi vuoi, Jack? Lasciati andare. Qui c’è solo tanto freddo. Non vuoi invece il calore di una vera donna?” Le voci che lo chiamavano… Di chi erano? “Io…” “Jack!” Dolcezze e veleno che stillavano sulla sua lingua. Gli occhi sgranati su un cielo azzurro-rosato che sembrava dipinto per quanto era bello. Dov’erano le creature cubiche? Che importa, ormai?

Voci, voci che facevano il suo nome. Che lo cercavano nel vuoto della Notte Eterna. I palpiti del suo cuore che rallentava sempre di più, il sangue che si fermava coagulando nelle sue vene ormai assopite. Il cielo fu sostituito dalla notte e una pioggia leggera cominciò a cadere sul mondo e su di lui. Allora i suoi occhi si posarono su due figure che invocavano il suo nome. E una tempesta spaventosa si abbatté sulla spiaggia che diventava indistinta e sempre più fredda. Fai l’amore con me. “Sono tua, Jack.” Labbra che si posavano sulle sue. Le loro lingue che si cercavano, frementi, umide… “Sei mio!” Voci che lo cercavano, sempre più lontane. Sollevò le mani per cercare quel viso sublime, quei seni meravigliosi. Ma non scorse più le sue mani com’erano sempre state; erano diventate pallide, traslucide, trasparenti come il cristallo. Furono l’ultima cosa che vide. Poi, quello che una volta era stato Jack Barton, scomparve come se non fosse mai esistito.

11

Tutto era perfettamente immobile quando Primus e Xoavia arrivarono da Jack. L’aria era irreale nella propria tranquillità e adesso che anche le mostruose creature alate si erano dileguate nel cielo primordiale il paesaggio era ancora più inesplicabile. Il silenzio ne era il solo protagonista; aleggiava incontrastato e maestoso, si librava sulla superficie di quel mare sconosciuto, lasciava le proprie invisibili impronte su quella spiaggia desolata. Jack se ne stava seduto sulla sabbia di marmo nero polverizzato, lo sguardo vacuo, l’espressione assente. I suoi occhi parevano spalancati su abissi sconosciuti, il viso contratto in un’espressione di puro terrore. Sembrava vivo, ma non viveva veramente. Dalle sue labbra usciva un respiro lieve, ma non respirava. La sua mente più segreta si era come dileguata e il vero Jack non esisteva più. Primus allungò una mano per scuoterlo, ma Xoavia glielo impedì. Sapeva cosa sarebbe successo. Si sarebbe sfaldata, disgregata, cancellata. Allora, la ragazza s’inginocchiò accanto alla figura che un tempo era stata Jack, ma senza osare toccarla. Guardò Primus che fece lo stesso. “Jack!” La voce di Primus si perse nel cielo azzurro e rosato. Pallide stelle, o almeno quelle che sembravano stelle, ammiccavano indifferenti a quella tragedia senza tempo e luogo, simili a enormi scaglie di perle rilucenti nel buio dell’oscurità infinita. Eterne e remote, riflettevano la vita che tuttavia non le sfiorava, guardiane senza prezzo di un mondo fatto di vento ed emozioni senza voce. L’uomo e la donna si guardarono, impotenti. La ragazza mise una mano sulla spalla di lui, quasi volesse confortarlo. “Non possiamo fare nulla, non più ormai.” Primus guardò quella figura polverosa. Sembrava impossibile che fosse stata viva fino a pochi momenti prima. A osservarla così da vicino, anzi, non sembrava neanche vera. Lei lo aveva ghermito, sedotto, come aveva tentato di fare con lui e come aveva fatto con Richard. E adesso Jack era lì, il volto simile a un’isola perduta nell’infinito mare della morte, occhi che non vedevano più, cuore che ormai non provava alcuna emozione. E mentre l’uomo e la donna

stavano lì, affranti, il cielo alle loro spalle si mise a gridare, si mise a tuonare nel silenzio, scuoteva una polvere sottile di Paura, percorso da una beffarda, silenziosa risata. Sconvolto, Primus poteva quasi contare i battiti del proprio cuore. Jack, l’amico di molti anni, se n’era andato per sempre. Non fu in grado di piangere, non più di quanto avesse fatto per Richard, ma in quel momento le lacrime non erano richieste. Restavano, sottili e non viste, nei suoi occhi abbacinati, ondeggiavano convulse in ogni goccia del suo sangue, s’innalzavano lievi nel suo respiro accelerato. Si erano tuffate nell’abisso della sua paura, ruscellavano in rivoli infiniti su quella spiaggia composta di silenzio e Solitudine. “Stiamo morendo uno dopo l’altro!” Esclamò, ma non era rivolto a Xoavia. Era un pensiero ad alta voce. “Primus…” Disse lei, ma non finì la frase. Gli porse invece una mano che l’altro afferrò meccanicamente, come un automa. Riuscì a staccare gli occhi dalla figura che un tempo era stata umana, ora ridotta a una povera marionetta senza luce né vita. Non voleva più vederla, preferiva ricordare Jack com’era sempre stato. Adesso la donna gli aveva posato entrambe le mani sulle spalle: “Dobbiamo andare.” “Lasciami qui.” Mormorò. “No, tu devi venire con me. La Saggezza ci sta aspettando, lo sai.” Una risata convulsa, isterica, scosse quel luogo silenzioso come una maestosa cattedrale. Xoavia rimase a fissarlo senza tradire alcuna emozione, come al suo solito. Questo fece scattare ancora di più i nervi del giovane. “La Saggezza ci aspetta!” La canzonò lui, “quale Saggezza?” Continuò a ridere per un po’, fece qualche o, barcollò e cadde. Si accasciò al suolo con disperazione, giocherellando con la strana sabbia nera, come un bambino impegnato nella costruzione di castelli di sabbia. Quando il suo riso si arrestò, il

suo volto cambiò atteggiamento. L’isteria aveva lasciato posto a un altro sentimento. Rabbia. Xoavia disse: “A cosa stai pensando?” “Al fatto che siamo uniti sia fisicamente che mentalmente, eppure stiamo morendo lo stesso. C’è qualcosa che non quadra nelle tue asserzioni o in quelle della tua cara amica.” La ragazza ignorò il suo sarcasmo: “Fare così non ti aiuterà. Ti ho detto quello che so e che tu ci creda o no Althaira è l’unica che possa salvarci da Lei.” A quelle parole Primus si alzò, fronteggiando la donna: “E se Althaira non potesse far nulla, ci hai mai pensato? A quel punto come pensi di regolarti? Francamente, tutta questa storia non mi piace per niente.” “Che intendi dire?” “Che non ci hai mai detto tutta la verità. Hai detto di essere un’emanazione di Althaira ma, se è vero, perché nutri dubbi sulla direzione da seguire?” “Ti ho detto che sono un argenteo, non Althaira. Per questo stiamo cercando la Saggezza.” “Dubito che possa davvero aiutarci.” “Primus!” La voce di Xoavia si era fatta incrinata, ma non si lasciò intimidire. “La tua amica avrebbe potuto fare qualcosa di più che spedirmi bigliettini misteriosi. Avrebbe potuto evitare la loro morte, tanto per cominciare!” La ragazza gli scoccò uno sguardo truce: “Sei fuori di te!” Cominciò ad avviarsi con rapide falcate verso nord, lasciandolo indietro. I suoi i non producevano rumore sulla spiaggia composta da frammenti di marmo polverizzato. In quel luogo, eccettuate le loro voci, il silenzio era assoluto. Sentendo il sangue che gli pulsava impazzito nelle tempie, Primus scattò verso la ragazza e l’afferrò per un braccio, costringendola a fermarsi. “Certo che sono fuori di me, chi non lo sarebbe?” E poi, in tono più incisivo

possibile, “ Te esclusa, naturalmente!” “Lasciami andare!” La voce di Xoavia salì minacciosamente di un tono. Ma Primus non intendeva retrocedere di un millimetro. Jack aveva seguito Richard nella morte ed essere ucciso da Xoavia o da Lei non faceva alcuna differenza, al punto in cui era. “Guarda alle tue spalle,” continuò, “proprio dove la spiaggia disegna un lungo gomito in questo mare così strano. Quello che vedi laggiù non è prodotto del tuo Nescium, non è un pupazzo! Quello era carne e sangue e si chiamava Jack. E adesso è scomparso, inghiottito senza alcun apparente motivo. Adesso è solo una marionetta che continua a balbettare senza parlare e se solo lo sfiorassi si sbriciolerebbe come se fosse fatto di polvere!” “Stai facendo il suo gioco, quello che Lei vuole, non lo capisci?” Gli occhi dell’argenteo mandavano lampi di rabbia. “No!” Ruggì Primus, lo sguardo vacuo di chi ha perso troppo per provare ancora paura, “sto solo facendo il vostro gioco e il mio destino lo controllano tutti tranne me! Dove sono le certezze delle quali vaneggi? Non sappiamo neanche dove stiamo andando, non conosciamo la strada! Questo viaggio è perfettamente inutile così come è inutile sperare di farcela.” “Se fossi rimasto nel mondo-mondo adesso non esisteresti più.” “Almeno adesso sarebbe già finita senza assurda speranze.” La corresse lui, con impeto. “E allora accomodati!” Xoavia vibrò di rabbia troppo a lungo repressa, “resta qui se vuoi, resta pure a farti distruggere da Lei visto che ci tieni tanto. Non conosco il futuro e non voglio neanche farlo. Ci sono state miriadi di occasioni in cui la Paura avrebbe potuto impadronirsi di te, ma sai che mi sono sempre frapposta tra te e lei.” “Non me ne sono accorto sempre, forse dormivo, che ne dici?” La ragazza rimase in silenzio, con gli occhi che le splendevano di una luce crudele. Il suo sguardo era fiero, ma c’era qualcosa in lei che Primus non sapeva identificare. Come una sorta di tristezza mista all’orgoglio, ma ormai lui era

scatenato. Senza una casa o un posto qualunque dove andare, dove potesse sentirsi al sicuro, senza persone di cui potesse fidarsi, senza alcuna speranza di farcela in un luogo che non riconosceva e che non avrebbe potuto riconoscere come suo, non gli importava più di nulla. “Uccidimi!” Proruppe allora, e si stupì che quella era proprio la sua voce. Gli occhi di lei mandavano fiamme, le vene della gola delicata che pulsavano. Il sangue che fluiva avanti e indietro, avanti e indietro, in un eterno carosello di vita che alimentava la fiamma di un odio letale. Ma Primus la provocò di nuovo, con voce tagliente: “Avanti! Sei un argenteo, no?” Il respiro della donna divenne assordante, esplose nel cielo, fece il giro dell’universo in un elegante volo stellare, ma tornò da lei posandosi nei suoi occhi di brace. La sua mano fu troppo veloce perché il suo compagno potesse realmente vederla e si abbatté sulla guancia dell’altro con uno schiocco sordo e bruciante. Primus indietreggiò leggermente, ma non vacillò: “È tutto qui quello che sai fare?” Per tutta risposta, la mano della ragazza si alzò di nuovo ma stavolta non si abbatté su di lui. Dal palmo rivolto verso il cielo si levò una fiammella cerulea, brillando di una ipnotica luce acutissima. Primus osservò indifferente quella piccola stella e subito dopo la fiammella lo avvolse. Chiuse gli occhi urlando la sua disperazione che si elevava fino al cielo azzurro e rosato, fino ai bastioni dell’universo, ma non era la sua pelle a percepire il calore di quella luce, era qualcosa che bruciava ben più del suo aspetto, lo bruciava nel profondo come se mille e mille saette incandescenti bruciassero le sue carni senza tregua, senza riposo, senza umanità. Poi quella fiamma si dissolse e lui si ritrovò accasciato sulla spiaggia mentre lei lo fissava con occhi che stavolta esprimevano un acuto senso di tristezza. “Io non voglio, non posso farti del male. Non provocarmi più, per favore.” Primus non rispose, non sapeva cosa dire. Si chiedeva quale fosse stato il vero motivo che aveva portato la donna a cambiare atteggiamento. Di nuovo, provò

l’angosciosa sensazione di essere solo un ingranaggio in un disegno più vasto che né lui e forse neanche la sua compagna comprendevano realmente. Forse aveva ragione lei, forse anche la sua consapevolezza era limitata e Althaira era la sola ad avere le risposte che cercava. Poi ripensò a Jack e cercò di non rievocare l’immagine mentale di quel volto dagli occhi spenti, quelle labbra incartapecorite e contratte, bisbiglianti ma prive di vita. La Paura si era presa anche lui e lo aveva fatto nel modo più subdolo. Primus non aveva ben capito come fosse successo, si ricordava solo l’immensa creatura cartacea che lo aveva ghermito, sollevandolo e portandolo via con sé. Aveva creduto che lo avrebbe divorato o che lo avrebbe lasciato ricadere in mare. Poi avevano visto due figure in lontananza e una era l’immagine seminuda di Lei. Allora sollevò gli occhi su Xoavia e in quell’attimo un suono echeggiò nell’aria immobile, una sorta di stridio. Guardò il cielo. Qualcosa volteggiava con sciolta eleganza sopra di loro, ma non era un’altra delle orrende creature cubiche che avevano ghermito Jack. Era un’aquila. Le sue grandi ali la facevano librare senza sforzo nelle tre dimensioni e cominciò a girare in cerchi concentrici sulle loro teste. Senza parlare, Xoavia tese una mano al suo antagonista che però non accettò, preferendo rialzarsi con le proprie gambe. La donna levò lo sguardo sull’aquila e un lieve sorriso errò sulle sue labbra e poi, senza aspettare il suo compagno, proseguì per la sua strada. La vista dell’aquila ebbe uno strano effetto su Primus che ripulitosi sommariamente dalla sabbia si mise a camminare accanto alla ragazza, in silenzio. Non si voltò, non voleva vedere come la Paura aveva ridotto Jack. Non lo avrebbe accettato una seconda volta. Insieme, percorsero quella spiaggia che diventava sempre più variopinta e meno scura, con file e file di rose scarlatte, violette, rosse e azzurre immerse nell’acqua che brillava cristallina senza intaccarle, senza sfiorirne la delicata bellezza. Primus non era in grado di calcolare la distanza che percorsero di buona lena, ciascuno perso nei propri pensieri. L’aria era tersa e fresca, e ancora una volta dovette constatare che la luce di Althaira non era calda, non bruciava. Sembrava squisitamente spirituale. Proseguirono così fino a quando l’aquila non decise di prendere contatto con il suolo. Una volta a terra si girò nella loro direzione e Primus ebbe la netta sensazione che li fissasse con occhi stranamente umani. Poteva essere quella la forma della Saggezza? In un mondo strano come il Nescium, aveva imparato che

poteva accadere di tutto, ma quella spiegazione non lo convinceva affatto. Quando le furono abbastanza vicini, lanciò un altro grido e si dissolse in un delicato alone luminoso. “Che cos’era?” “Un’emanazione di Althaira.” Xoavia sembrava compiaciuta. Primus se ne chiese il motivo: “Come te?” “Non come me. Era la manifestazione di qualcosa che non fa parte del Nescium ma che è comunque in grado di viaggiare attraverso di esso quando lo desidera. Era qui per farci raggiungere questo posto.” “Ma non c’è niente, qui!” “No, ma forse ci sarà.” “Come fai a esserne sicura? Quell’aquila poteva essere qualsiasi cosa, Paura compresa.” “L’aquila è uno dei suoi simboli. Voglio dire di Althaira. Lei è legata a quella forma. Mi aspetto di trovare altre manifestazioni del genere e del resto abbiamo già incontrato un’aquila.” “Quando?” La donna gli scoccò un’occhiata strana: “Ricordi quando abbiamo incontrato gli Istanti di Tempo? Tu hai indugiato con uno di essi che a un certo punto ti ha mostrato un’aquila in volo. Quello è stato un indizio, per me, che la nostra direzione era corretta.” “Potevi anche dircelo!” “Era un dettaglio trascurabile.” “Ma perché proprio un’aquila? Hai detto che Althaira diventa quello che vuole.” “Perché l’aquila identifica Althaira anche al di fuori del Nescium e quindi è un simbolo importante. Ti ricordo che una delle sue forme è anche una stella. In

quanto tale, il suo nome deriva da Altair, a sua volta derivato dalle parole arabe al-nasr-al-ta'ir, che significano letteralmente l'aquila volante.” “Per quale motivo non si è materializzata in forma umana?” “Il suo comportamento è prettamente simbolico e del resto tutto, nel luogo in cui siamo, lo è. Come pure lo era nel Sensum, se vogliamo.” “È una cosa che non capisco.” “Ti ho già detto di non avere tutte le risposte. So solo che siamo noi a dover andare da lei e per farlo dobbiamo attraversare il Nescium fino ai confini. Tutto qui.” “E nel frattempo Lei ci à come stuzzicadenti!” “Non cominciamo di nuovo, non serve a nulla. Le cose stanno così, che ti piacciano o no.” Primus stava per ribattere quando apparvero due curiose macchie sospese a mezz’aria davanti a loro. Strane nuvole dai contorni cangianti che mutavano colore a velocità vertiginosa. Le gradazioni cromatiche procedevano dai bordi verso il centro ed erano ipnotiche quel tanto che bastava da indurre confusione nello spettatore. “Cosa sono quegli affari?” “Non li riconosci?” “Istanti di Tempo!” Disse allora lui, quando identificò quelle strane creature, “ma che ci fanno qui? Credevo avessimo superato il loro territorio.” Adesso le macchie sembravano giocare rincorrendosi sulla spiaggia, svanendo e riapparendo e tracciando nell’aria scie colorate e tremolanti. Al loro aggio, l’aria sembrava elettrificarsi, rilasciando flussi luminosi di grande potenza che sfrecciavano verso tutte le direzioni prima di svanire rapidamente com’erano apparse. Primus disse: “Perché sono qui?”

“Sono messaggeri, credo.” Le nuvole divennero traslucide cominciando a riflettere immagini e pensieri, mescolandoli uno nell’altro in modo folle e apparentemente privo di senso. Occhi, paesaggi, alberi, case… gli oggetti più svariati venivano proiettati da quelle strane sfere rosate senza alcun nesso logico. Finalmente, l’incanto che li aveva avvinti si ruppe e Primus si accostò agli esseri che adesso erano immobili, senza tuttavia osare toccarli. Percepiva la vita scorrere in quelle creature, ne avvertiva la viva intelligenza, la tranquilla consapevolezza. Erano le uniche forme di vita, nel Nescium, che non gli instillavano timore. Sembravano discutere tra loro riflettendo in rapidissima sequenza le immagini più diverse, ognuna delle quali esprimeva un pensiero o uno stato d’animo. E di nuovo provò le stesse sensazioni che aveva provato quando le aveva incontrate la prima volta, una sensazione di tranquillità assoluta che lo pervadeva nel profondo. Con cautela, allungò una mano su quella più vicina a lui, ma questa si ritrasse variando allo stesso tempo la velocità delle immagini che rifletteva. Adesso uno stormo di uccelli volava in quel paffuto universo rosato e poi oceani, albatri e gabbiani che saettavano in un cielo terso sullo sfondo del quale si intravedevano splendide galassie remote nello spazio-tempo. Primus lasciò la mano a mezz’aria, sorridendo. “Mi vede.” L’altra creatura si avvicinò leggermente a lui, come se fosse indecisa. “Sta valutando se considerarti un amico o un nemico.” La ragazza sorrise: “Ehi!” Disse poi, e allungò anche lei una mano per sfiorare la seconda creatura. Questa non si allontanò e Primus osservò le dita di Xoavia che s’immergevano in quella superficie vaporosa in uno sfavillare di scintille dello stesso colore senza che la creatura offrisse una sia pur minima sensazione di apparente solidità. Poi avvenne un cambiamento e il vapore che le avvolgeva la mano cominciò a ripiegarsi su se stesso fino ad assumere una forma definita che strappò un sorriso a entrambi. Anche l’altra creatura conquistò una propria, paffuta solidità che non aveva nulla di minaccioso. Primus si chiese se l’aspetto che stava osservando fe parte di quegli esseri, se cioè l’archetipo corporeo che definitiva gli Istanti di Tempo fosse realmente quello o se ciò che vedeva fosse invece la scelta di un momento, un capriccio. Una di esse sembrava una bestiola a metà tra un cagnolino e un coniglietto. Alta

una ventina di centimetri, era di colore marroncino sul dorso, con il ventre bianco, quasi crema, e due piccole orecchie a punta sul capo completato da vividi occhi neri e lucenti. Aveva un’espressione buffissima che ispirava tenerezza e un grande senso di protezione. L’altra, assai più piccolina, aveva la forma di una coniglietta gialla con un vezzoso fiocchetto rosa intorno al collo. Le caratteristiche orecchie allungate erano leggermente flesse e la sua espressione era furba, anche se non aggressiva. Per qualche strano motivo provò la sensazione che l’essere simile a un cagnolino fosse un maschietto mentre quello giallo fosse femminile. Non sapeva il perché. L’essere-cagnolino lasciò che Xoavia lo accarezzasse sulla testolina. Primus fece lo stesso con l’altra che si mise a saltellare come una pazza nelle vicinanze, senza allontanarsi. L’altro imitò la compagna per un po’, quindi si avviarono, sempre saltellando, nella direzione contraria a quella da cui erano arrivati, voltandosi di tanto in tanto nella loro direzione. Primus disse: “Vogliono che li seguiamo.” “Da lì torneremo indietro.” Rispose la donna, pensierosa. “Verso Jack!” La ragazza emise un sospiro, ma non rispose. Cominciarono a seguire le due creature costeggiando il mare silenzioso punteggiato di rose e fiori sconosciuti, dove ogni tipo di suono era bandito e lo sguardo si perdeva in un mondo soffuso che sembrava uscito da un sogno. La gaia festosità degli Istanti di Tempo spiccava in modo strano sul generale senso di estraneità che quel mondo suscitava. Sembravano immuni dai pensieri tristi, si rincorrevano come cuccioli, fingendo di lottare tra loro, rotolando sulla sabbia, saltellando ovunque. Primus ripensò a quando li aveva visti in forma indistinta e istintivamente sorrise, anche se a mezza bocca. Di nuovo, quelle creature davano l’impressione di essere libere dall’ansia, dagli affanni, da ogni sentimento negativo. Vivevano con il gaio sorriso di chi ha capito che la vita non va interpretata ma semplicemente vissuta. E il solo fatto di vederle giocare sciolse una parte della sua rabbia ancora latente, facendola evaporare in lente spirali verso il cielo. Avrebbe voluto essere come loro. Senza un ato che potesse tornare e senza un futuro da desiderare. Una vita dal sapore di una tranquilla eternità. Si rese

conto che anche Xoavia guardava gli Istanti di Tempo, ma dal suo sguardo non risaltava alcuna emozione. Era tranquilla come sempre. Primus disse: “Scusa.” La sua voce ricadde a terra, pesante come un macigno, ricca di orrore, stupore e altre confuse sensazioni. “Non importa, il tuo è stato un comportamento del tutto naturale nella nostra situazione, ma voglio che tu sappia che neanche per me è facile più di quanto non lo sia per te.” “Cosa ci attende adesso? Cosa dirà la Saggezza?” La sua voce era sempre pesante. “Come sai, io non possiedo tutte le risposte.” “Ma non dici tutto quello che sai!” Di nuovo, gli occhi della sua compagna brillarono di una strana tristezza, una comione che vinceva tutto. E che prima lo aveva risparmiato. Voltatasi nella sua direzione gli sorrise dolcemente. In quell’attimo sembrava impossibile che fosse una persona capace di ucciderlo con un semplice gesto: “Jack non è morto per colpa tua, né mia.” “E neanche per causa di Althaira, immagino.” Disse quelle parole con un tono amaro, ma senza aggressività. La rabbia aveva ormai lasciato il posto alla tristezza. “Non lo credo, infatti. Semmai, forse lei lascia che avvengano per metterci alla prova.” “Quindi è vero che non hai detto tutto.” Xoavia fece un cenno di assenso con il capo: “Non vi ho rivelato che Althaira vuole indicarvi la strada, che non vuole o forse non può rendervi le cose troppo semplici. Mi aveva chiesto di non dirvelo ma non credo che ormai abbia più senso. Siamo rimasti soli, Primus.” “Solo, lo sono sempre stato, comunque grazie per quello che fai.” La donna rimase in silenzio.

Continuarono a seguire gli Istanti di Tempo. Il cielo si manteneva sempre terso e luminoso, immerso in un eterno crepuscolo senza suoni, senza tempo. Primus si accorse solo allora di quanto fosse piacevole da osservare, quasi accogliente nella sua solitudine, ma sperò di non incontrare nuovamente le orribili creature alate che avevano rapito Jack. Quando videro all’orizzonte le due bizzarre isolette circolari sormontate da alberi imponenti ebbe la conferma che non avevano fatto altro che un percorso a ritroso. Il mare era sempre uguale a se stesso, le sue acque cristalline si stendevano oltre l’orizzonte nel cui cielo splendeva remota la nebulosa punteggiata da stelle e il maestoso pianeta azzurro. E lì, davanti a loro, una pietosa figura che un tempo era stata umana era china sulla spiaggia, esattamente nello stesso posto dove l’avevano lasciata. Nel vederlo, Primus ebbe un moto di repulsione e distolse lo sguardo, a disagio. Xoavia si lasciò sfuggire un’imprecazione soffocata, ma non disse altro. Dal canto loro, i due Istanti di Tempo continuavano imperterriti ad avanzare sulla spiaggia non facendo il minimo caso alla sagoma di Jack. Un vento dolcemente tiepido faceva volare le prime scaglie di polvere da quella vuota caricatura di un essere umano. Presto sarebbe svanito turbinando lontano e magari le sue ceneri sarebbero cadute in quel mare stupendo che le avrebbe accolte come si fa con qualcosa di prezioso, proteggendole dalla cattiveria del mondo, dalla Paura e dall’angosciosa solitudine della vita. Quando lo superarono, Primus s’impose di accelerare il o per lasciarselo alle spalle, poi si fermò perché anche i due buffi messaggeri si erano fermati e adesso tornavano indietro verso di loro. Saltellarono intorno a lui e a Xoavia festosi come sempre, ma quando la ragazza si chinò verso la creatura dalla forma di coniglietta questa schizzò via come una saetta e si lanciò in mare seguita dal compagno. Non affondarono; levitarono su quelle acque che non bagnavano, come sospese su un’immensa lastra di cristallo. I due compagni fecero altrettanto e appena superate le piccole onde la prospettiva davanti a lui cambiò di colpo come se avessero varcato la soglia di un altro mondo, una dimensione diversa che era sempre stata lì e che non avevano ancora visto. La spiaggia silenziosa e il mare cosparso di fiori si trovavano alle loro spalle ma sembravano avvolti da una nebbia indistinta, come un’immagine che si allontani dopo una notte abitata da sogni particolarmente vividi. Dall’altra parte c’era un viale piuttosto largo, punteggiato da cespugli di rose variopinte, a migliaia, ordinatamente raccolte ai bordi da una mano esperta. Sullo sfondo si stagliava una proprietà delimitata da un basso muricciolo color salmone, a sua volta protetto da un bel cancello di legno. I due Istanti di Tempo

presero la rincorsa saltellando in modo giocoso come al loro solito, poi saltarono con un’agilità insospettabile il muricciolo scomparendo alla vista. Avevano svolto il loro compito e ora tornavano probabilmente dal luogo da cui erano venuti. Primus però si fermò, rifiutandosi di avanzare oltre. “Primus!” Sbottò la donna, “non vuoi raggiungere la Saggezza?” L’uomo non le rispose e invece si voltò senza tuttavia tornare indietro. La sua compagna gli pose una mano sulla spalla, ma non disse nulla. Invece, rispettò il suo silenzio, limitandosi a sorridere timidamente. Primus guardava il cielo sfumato di rosa e di azzurro dove l’enorme pianeta blu sembrava sfidare le leggi della fisica in un luogo in cui quelle stesse leggi non avevano alcun valore. La spiaggia ordinata di fiori, composta da marmo polverizzato, nascosta nel silenzio, non gli sembrava poi un brutto posto dove morire. Da quella distanza la figura che era stata Jack era appena visibile. Primus non poteva vedere lo scarno movimento di quelle labbra consumate, lo sguardo vacuo di orbite vuote e senza speranza. Era un puntolino nerastro all’orizzonte. Cadde una lacrima, poi un’altra, e insieme a esse le voci degli amici scomparsi; e di nuovo lo sguardo della donna incontrò quello dell’uomo. Con un rapido cenno del capo assentì a una muta richiesta di lei e tornò ad avanzare verso la Saggezza. Non prima, però, di aver lanciato un’ultima occhiata dove una volta c’era stato un puntolino nerastro. Dove un’esistenza si era spenta per sempre, smarrita nell’infinito vortice della vita e della morte. Una brezza leggera gli carezzò il viso e Primus immaginò che anche il puntolino nero fosse stato trattato con gentilezza. E sperò che, se Jack poteva ancora esistere da qualche parte, quel vento gentile come l’abbraccio di Dio lo avesse portato in un luogo, l’ultimo, dove non sarebbe stato più preda della Paura.

Il Tempo non aveva motivo di esistere intorno a loro ma qualcosa scorse ed eoni dimenticati svanirono sotto i loro i incerti ed esitanti. Il silenzio li aveva abbandonati e il caratteristico rumore della ghiaia che scricchiolava sotto i loro piedi diede a Primus una sensazione di piacevole normalità. Il cielo gli sembrò più scuro e l’eterno tramonto si mostrava sotto forma di eteree sfumature di porpora simili a infiniti nastri di seta all’orizzonte. Al di sopra, le stelle splendevano come lucciole e di tanto in tanto la scia di qualche meteora capricciosa sfarfallava lucente d’oro nel cielo cremisi. Ben presto si ritrovarono

in una sorta di bozzolo senza aver superato un vero confine. Come ci fossero arrivati era qualcosa che andava al di là della comprensione umana e Xoavia ebbe la sensazione di esistere in una dimensione separata ma allo stesso tempo presente nel continuum spazio-temporale del Nescium. Mentre avanzavano si chiese cosa sarebbe accaduto se avesse tentato di oltreare il viale inghirlandato di rose. Non lo fece, ma arrivò al massiccio ed elegante cancello trovandolo semplicemente accostato. “A quanto sembra siamo attesi.” Disse Primus, sbirciando attraverso le assi di legno e spaziando nella vastità che si estendeva oltre, “non credi che ci convenga un invito? Non sappiamo neanche come sia fatta, la Saggezza.” “Lei sa quello che fa.” Ribatté la ragazza, “sono certa che in questo momento conosce tutti nostri movimenti. Ecco perché sono arrivati da noi gli Istanti di Tempo. Li ha inviati lei.” “Cos’è questo posto? Questo cielo così crepuscolare non sembra diverso da quello che ci siamo lasciati alle spalle.” “Questo non è un crepuscolo, ma un’alba. Non riconosci le caratteristiche sfumature dorate? Se ne vuoi la prova osserva attentamente la configurazione delle stelle visibili. Esse definiscono la notte e pertanto sono più luminose.” Primus accolse le parole della donna con un’alzata di spalle: “Io spero soltanto che questa Saggezza si dimostri amichevole! Se lo sarà, almeno la morte di Jack non sarà stata inutile.” “Perché vuoi pensare che qualcosa che esprima saggezza possa esserti ostile? Il tuo ragionamento manca di logica.” “Perché il Nescium non segue le leggi note del mondo-mondo, ma regole sue proprie non immediatamente percepibili. Un essere saggio, che magari vive in eterno, potrebbe non badare all’idea del nulla, da noi vista come l’assenza di qualsiasi vita o pensiero e che caratterizza la morte, perché le manca il concetto. Chi ti dice che questa Saggezza non consideri le nostre esistenze come trascurabili?” “E per eliminarci ci avrebbe mandati quegli Istanti di Tempo, secondo te?” La voce di Xoavia esibiva una sfumatura vagamente ironica che lo irritò, ma non

le diede la soddisfazione di farci caso. “Nessuno di noi due sa nulla di questa entità,” le disse con un tono distaccato, “e quindi le mie sono congetture tanto quanto le tue.” “Anche questo è vero.” La donna sorrise, ma nello stesso tempo toccò il battente del cancello che non fece alcun rumore, come se i suoi cardini fossero ben oliati. Quando lo lasciò andare si richiuse con un leggero tonfo. “Siamo in trappola!” Disse Primus, allarmato, “ora siamo alla sua mercé.” “Proseguiamo.” Xoavia aveva riacquistato la sua determinazione. Il vialetto che percorreva il giardino nella sua interezza era più angusto di quello che portava alla costruzione principale ma conservava i caratteristici cespugli di rose che svettavano come tante ancelle in attesa, alzando verso il cielo i loro petali scintillanti. Alberi sottili e altissimi erano disposti a ridosso delle mura di cinta e le loro fronde ondeggiavano dolcemente come se sussurrassero melodie segrete che solo essi potevano ascoltare. Il giardino, le cui dimensioni erano più adatte a definirlo un parco, esibiva una disposizione matematica per ogni oggetto, ogni cespuglio, ogni pianta. Un piccolo magazzino di mattoni dal tetto spiovente si trovava a un angolo del muro, circondato da cespugli di rose bianche e gialle. La casa posta al centro dell’enorme spazio verde stonava con la grandiosità dell’insieme a causa delle sue non esagerate dimensioni. Era piccola, a un solo livello, ma appariva intima e silenziosa. Splendeva in quell’incerta luce stellare come se fosse uscita da un sogno maestoso nel quale era ansiosa di tornare. Le sue finestre occhieggiavano tranquille, furtive come tanti visi che sbirciavano il mondo non visti, senza varcarne la soglia. Primus sapeva che il tempo non esisteva nel Nescium, ma anche se così non fosse stato era evidente che in quel luogo non contava. Quel posto era stato fatto per controllare il tempo, non per subirlo. Come già nel regno silenzioso che si erano lasciati alle spalle ma che circondava il luogo in cui si trovavano, il tempo si era cristallizzato in un solo istante, un eterno presente dove ato e futuro non avevano importanza. Il Presente regnava implacabile con una calma apparente, immersa nell’aurora dell’alba, dove le stelle facevano da cornici ai sogni del mondo che non diventavano mai obsoleti perché il tempo era stato sconfitto. Le finestre della casa erano illuminate di una luce spettrale che traspariva da

quelle che sembravano tende delicate. Come un grande, remoto essere vivente, la casa li attendeva a braccia aperte, esalando un sospiro di eternità. Lì la Paura non stendeva le sue ali nere, non sussurrava i suoi sospiri di tenebra verso il cielo, non era in grado di esercitare il proprio potere. Le nuvole non avrebbero oscurato la luna nelle notti serene, né il cielo avrebbe rosseggiato di fiamma, ma solo riverberato di speranza. Guardandosi intorno, si resero conto che il giardino digradava verso il mare silenzioso che s’intravedeva a causa della limitata altezza delle mura di cinta. Le rose onnipresenti erano state ordinate da una mano sapiente e non si affollavano, non aggredivano gli alberi o la ghiaia del vialetto. Primus notò che proprio le rose erano gli unici fiori presenti mentre gli alberi appartenevano a una varietà sconosciuta che non era in grado di classificare. Alcune di quelle rose superavano la fantasia più sfrenata. Ne scorse di ogni forma e colore, ordinate e splendenti, che allungavano i loro steli verso il cielo cupo e misterioso. Vide steli grandi quanto un pugno, rose che raggiungevano le dimensioni di un piatto, altre che esibivano petali iridescenti in grado di cambiare colore a seconda dell’incidenza della luce. Alcuni di quei fiori si muovevano da soli ondeggiando lievi anche quando non c’era un alito di vento. Altri ancora riverberavano di una luce scarlatta e quando il vento li sfiorava liberavano uno sciame di scaglie luminose che si libravano ovunque, assumendo forme fantastiche in cielo, prima di scomparire con un lampo luminoso. Vide splendide, vellutate rose nere, profumatissime e all’apparenza morbide e delicate. Ne vide altre di un rosso cupo, enigmatico, la cui stupefacente brillantezza dava loro l’aspetto di manufatti in porcellana. Non toccò nessuna di quelle stranezze vegetali perché aveva imparato fin troppo bene che niente, nel Nescium, era quel che sembrava. “Perché tutte queste rose?” Chiese. “Non ne sono sicura, ma credo abbiano una qualche attinenza con la proprietaria della villa.” “Non ne ho mai viste di così.” “Credo che presto ne scopriremo il motivo.” Degli Istanti di Tempo nessuna traccia e Primus immaginò che fossero nella casa che li attendeva silenziosa, senza che nessuno si fosse presentato per accoglierli.

Quando arrivarono davanti alla grande porta protetta da un elegante porticato di mattoni, si fermarono. I pannelli lucidi in mogano massiccio recavano fregi curiosi, scolpiti con grande precisione, che raffiguravano una figura femminile con una rosa in mano. E una rosa rosso rubino, stavolta vera, si trovava anche ai loro piedi, adagiata sullo zerbino dell’ingresso. Anche la porta, come già il cancello esterno, era semplicemente accostata. Fu Primus a toccare il grande pannello e fu come varcare la soglia di un mondo a parte, separato anche dal giardino. Le dimensioni esterne erano ingannevoli perché il luogo in cui si ritrovarono non aveva limiti fisici. Quella costruzione era un’unica, immensa sala disseminata di colonne di porfido che a loro volta sorreggevano archi di marmo. Le pareti erano traslucide, come se non fossero reali, e lasciavano trasparire perfettamente ciò che si trovava al di là. Ecco perché non esisteva camlo sulla porta. A cosa sarebbe servito? L’aria era immobile, quasi visibile. Di mobili neanche l’ombra, ma in compenso vasi con piantine di rose erano presenti ovunque ci fosse uno spazio, un posto qualsiasi dove sistemarle. La luce soffusa che avevano visto filtrare dalle finestre non proveniva da lampade ma dal soffitto stesso, altissimo, che si apriva direttamente sul cielo stellato. La luce sembrava coesistere insieme alle pareti, integrata in esse, come se si trattasse di un comune materiale da costruzione. Primus si avvicinò incuriosito a una parete e la toccò. La sensazione che ne ricavò aveva dell’incredibile perché, nonostante le sue dita toccassero un materiale indubbiamente solido, dalla consistenza vetrosa, poteva quasi percepire il soffio del vento esterno. Poi avvertì qualcosa; una forma di vita diversa da lui e dalla sua compagna, benché quella sala apparisse disabitata. Qualcosa gli sfiorò un orecchio e lui si voltò di scatto, i sensi all’erta. Ciò che rimaneva della sua sicurezza si dissolse, ripiegandosi su se stessa e infine scomparendo senza lasciare tracce della propria esistenza. Non era Paura, ma una sorta di timore reverenziale, la consapevolezza di non essere soli in quella sala, come se una coscienza di un qualche tipo fosse all’opera su di loro e li guardasse, forse spiandoli, controllandone i movimenti e percependo i loro pensieri. Poi avvertì voci diafane che sussurravano un canto misterioso e ultraterreno. Quella melodia, cantata da molte voci diverse, ondeggiava in quello spazio che solo in apparenza era delineato tra quelle mura-fantasma ma che in realtà era infinito ed eterno. Tutta la costruzione gli apparve allora per ciò che in effetti era; un tempio, un mausoleo isolato e remoto dove i concetti di spazio, tempo,

fretta, ansia e quotidianità svanivano, si scioglievano, si annullavano fino a diventare i milioni di gocce che componevano il Mare dell’Eternità che li avvolgeva. E in quel luogo simbolo della solitudine si accorse di non volere altri con cui coesistere. Perché quella non era una solitudine come le altre. Si elevava altera ma non beffarda, spiegando le sue candide ali sull’universo e assorbendolo per ridurlo a un unico punto; un solo pensiero riassumibile nella calma contemplazione degli eventi. Si chiese se proprio questo fosse il significato della Saggezza, il distaccato atteggiamento di chi ha capito che nella vita non si deve aver fretta poiché essa è già troppo breve per doverla anche aiutare a scorrere più veloce. C’era una qualità grandiosa in quell’idea, qualcosa che lo affascinava. Alle sue spalle, Xoavia osservava una minuta piantina di rose variopinte e ne sfiorava i petali che ondeggiavano lievi sotto il suo tocco, come fossero esseri viventi sensibili che si ritraevano davanti a una creatura che non conoscevano. Allora lui si accorse che da quando erano in quella sala nessuno dei due aveva aperto bocca. Fu il primo a rompere il silenzio: “Che ne pensi?” Appena le sue labbra esalarono quei suoni, essi si allontanarono da lui in un veloce sfarfallio di ali, le parole rimbombarono tra le pareti producendosi in un eco inquietante e oscuro, allontanandosi in gran fretta come se le pareti-fantasma lo filtrassero verso l’esterno. “Ci osserva.” Disse pronta lei, “ma non vuole mostrarsi. Forse è delusa da noi.” Anche le parole della ragazza si allontanarono da lei, vibrando come se la reale distanza tra loro fosse molto più elevata di quel che sembrasse, come se l’aria che respiravano non esistesse o fosse rarefatta. “Anch’io provo questa sensazione, ma non ho paura. Non qui. Questo posto,” indicò con un gesto della mano l’ambiente intorno a loro, “è tutto fuorché un luogo chiuso. Ho quasi l’impressione che sia un unico essere vivente o un qualcosa di ancora diverso, astratto dal mondo e dallo stesso Nescium da cui sembra dissociarsi benché continui a esistere, come idea, in questa dimensione.” Xoavia lo guardò con uno strano sorrisetto sulle labbra sottili: “La tua sensazione corrisponde alla mia. Mi chiedo solo perché la Saggezza non si mostri.” “Perché non mi avete chiamata, è ovvio!” Le parole fuoriuscirono da un punto

remoto nello spazio vicino a loro e oltre loro. Un punto che non si trovava nella grande sala immersa nel silenzio ma neanche proveniva dall’esterno. Nell’istante stesso in cui furono pronunciate, le pareti, il pavimento e le colonne di porfido si dissolsero, scomparve il giardino, il vialetto d’ingresso, il grande cancello di legno. I due si ritrovarono nello spettrale paesaggio dove il pianeta azzurro roteava maestoso, con il Mare dell’Eternità che lambiva placido la marmorea sabbia di granito nero. Foglie autunnali sfiorarono i loro volti. Primus ne raccolse una e vide che si trattava di petali di ogni colore e dimensione che scendevano a milioni, come se le nuvole fossero rose infinite e quei petali la loro pioggia. Poi, come se sempre fosse stata lì, scorsero la figura di una donna intenta a raccogliere le rose che crescevano nell’acqua, a pochi centimetri di profondità. Indossava una tunica bianca semitrasparente, forse di lino, che ne ricopriva le forme delicate senza però mostrarle eccessivamente. Era scalza e i suoi piedi nudi splendevano argentei sul nero specchio marmoreo della spiaggia senza fine. I capelli, completamente sciolti dietro le spalle, le ricadevano in ciocche leggere intorno al viso dall’espressione rilassata e fiduciosa. Sceglieva con attenzione i fiori più belli che adagiava in un cestino di vimini. Di tanto in tanto lanciava uno sguardo divertito nella loro direzione con grandi e vivaci occhi verdi, ma continuò nel suo compito senza fretta. Intorno alla sconosciuta apparivano e svanivano sbuffi bianchi e rosati, nebbioline sottili che sembravano molto indaffarate. Le rose che la donna adagiava nel cestino svanivano dolcemente, in eterno. Si accorsero che erano quegli esseri a farle svanire, Istanti di Tempo che andavano e venivano incessantemente, raccogliendosi intorno a lei come se fossero in contemplazione della loro dea, in attesa dei suoi desideri. “Immagino stiate cercando me.” La sua voce era cristallina come il mare, argentea, ed esprimeva una calma difficile a descriversi con le sole parole. Piegava la testa di lato, come in attesa. La sua pelle era bianca come l’avorio e il suo sguardo animato da una gentile, instancabile attenzione. Guardandola, Primus ebbe la certezza che nulla le potesse sfuggire. Il suo aspetto era quello di una ragazza giovane, non oltre la ventina, ma i suoi erano occhi scintillanti, troppo profondi per quell’età. Era come se riflettessero i millenni ma rimanessero giovani in eterno in modo non diverso, forse, dagli Istanti di Tempo. Ora quegli occhi maestosi guardavano proprio loro e Xoavia si sentì in dovere di risponderle: “Voi dovreste essere la Saggezza.”

La donna sorrise: “Veramente mi chiamano La Guardiana, ma va bene lo stesso.” Primus disse: “Io sono…” “Althaira mi ha parlato molto di te, Primus.” Il giovane provò la sensazione che la voce di quella donna fosse assai diversa da quella di un essere umano, come se provenisse da organi per la parola fisiologicamente distanti. Il suono delle parole che La Guardiana pronunciava gli girava intorno scuotendolo con dolcezza, limpide senza possibilità di fraintendimento, senza che lei fe un solo sforzo per farsi capire. “Non sapevamo come trovarvi,” le spiegò Xoavia, “l’illusione della vostra casa che si dissolveva mi ha quasi portata a pensare che foste offesa per qualche nostra mancanza.” La Guardiana scoppiò a ridere, ma con benevolenza. Anche la sua risata era cristallina, piacevole, ed esprimeva una calma assoluta. “Eravate troppo spaventati per vedermi.” Spiegò, “Quanto alla mia casa”, fece un gesto elegante con la mano, “è sempre questa!” L’aria intorno a loro acquisì luminosità, percorsa da una potente scossa d’energia. Ed ecco che il mare, la spiaggia e l’orizzonte furono delimitati tra le pareti della dimora. Poco a poco le forme-fantasma della casa si stabilizzarono e, trasparenti come un cristallo appena lucidato, cominciarono a coesistere con l’ambiente esterno a sua volta immerso nell’eternità di quel luogo. “Questo spazio è la mia casa. Non servono pareti perché la saggezza che io simboleggio è in ogni dove allo stesso momento. Ma voi non conoscevate la via per raggiungermi e per questo vi ho mandato due miei amici, i canconiglietti.” “Canconiglietti?” Xoavia sorrise istintivamente. “Così chiamo i miei Istanti di Tempo. Con me sono molto teneri e mi infondono una sensazione di dolce tranquillità.” A quelle parole alcuni di quegli sbuffi divennero visibili e i due amici riconobbero le due creature che li avevano guidati fino alla villa della Saggezza. Ne scorsero anche altre, tutte molto simili, che avevano l’aria di divertirsi un

mondo. Impossibile non sorridere, guardandoli. Alcuni prendevano le rose dalle mani della Guardiana e, ritornando indistinti, ne soffiavano i petali delicati nell’aria, subito aiutati da altri e altri ancora in un eterno ciclo di vezzosa giocosità. “Potete aiutarci?” La voce di Xoavia ardeva di speranza. A quelle parole la Guardiana si alzò ma, un istante dopo, la sua fisionomia era già cambiata. Il viso che prima era quello di una giovane donna era adesso segnato dalle rughe della maturità e i capelli, prima corvini come il nero di seppia, si erano fatti screziati d’argento. Solo gli occhi scintillavano con la stessa luce di sempre. “Non stupitevi,” disse lei, notando la loro sorpresa, “la vera saggezza non abita in una sola persona né in una sola età. Essa fa parte di tutte le creature ma è distribuita in modo diseguale da mente a mente.” Trasse un sospiro e uno degli Istanti di Tempo le si accostò saltellando e strofinando le zampine sulle sue caviglie. Sorridendo, la donna lo prese in braccio e lo carezzò brevemente sulla testolina. Mentre lo posava a terra continuò: “Voi siete qui perché avete perso la strada per raggiungere Althaira e, insieme a questa, anche due compagni. Voi avete Paura.” “Come possiamo fare per evitarla?” Xoavia era trepidante, “Ho seguito alla lettera gli insegnamenti di Althaira. Ho detto loro di restare uniti, restare insieme, ma niente di ciò che dico sembra bastare.” “Non mi stupisce, purtroppo. Voi due non conoscete realmente il vostro nemico.” Xoavia abbassò leggermente lo sguardo: “So che è un archetipo, e che perciò esiste al di fuori sia del mondo-mondo che del Nescium, come Althaira. Non so altro.” “Per saperlo davvero dovrete fare a meno delle vostre credenze e degli insegnamenti che avete acquisito nelle vostre esistenze. Prima hai detto bene: la Paura è un archetipo, ma non per questo esiste al di fuori di voi.” I tratti del viso della Guardiana si ricombinarono un’altra volta, s’ingentilirono, perdendo le rughe della maturità, accorciando i capelli. In pochi attimi la donna sulla sessantina di prima aveva lasciato il posto a una ragazzina non ancora

maggiorenne. Ma gli occhi e il suo tono di voce erano immutati: “Quando una nuova vita nasce, la Paura fa già parte di essa come un programma genetico. Non è né nostra amica né una nemica e può persino risultarci utile quando siamo troppo abbagliati dagli scatti della giovinezza o dall’eccessiva pigrizia della maturità. Quando quella giovane vita cresce la Paura acquisisce una connotazione più definita, ma queste cose tu le conosci perfettamente, Primus.” “No,” si schernì lui, “io non so di cosa stiate parlando.” La ragazzina con la voce di donna sorrise: “Tu sai che le fasi infantili sono quelle che danno l’imprinting al sistema nervoso, le basi necessarie per costruirsi al meglio possibile. Se si svolgono correttamente e in seguito non ci sono grossi traumi è probabile che lo sviluppo emotivo porti a un adulto responsabile. Ma se così non è la Paura cessa di essere solo un elemento generico della vita per diventarne una costante. Gli individui più sensibili sono i soggetti ideali, specialmente se dimostrano un’elevata Capacità Immaginifica. Ecco perché il bambino con tali caratteristiche viene operato alla nascita: per salvarlo da se stesso.” “Da se stesso?” Primus fu scosso da un dubbio atroce. “Sì, esatto. La Paura fa parte di ciascuno di noi, coesiste nella nostra mente, abita nei nostri cuori. Si sveglia quando il bambino apre gli occhi nel primo respiro, muore quando la persona rende l’anima all’Eterno. Quando la tristezza anima il nostro spirito la Paura sorride ma si dispera quando invece siamo felici. Ecco perché avete sbagliato finora. Non avete capito di aver ingaggiato una battaglia contro voi stessi.” “Allora Richard e Jack?” “Sono morti perché erano terrorizzati. La Paura non può prendere chi non crede in lei.” “Ma perché assume la forma di una bella donna? Ho vissuto per anni con lei, siamo stati insieme parecchie volte. Credevo fosse quasi una sorta di ragazza, una persona con cui avessi stabilito un legame, che veniva a farmi visita attraverso lo specchio-visore, ma non è così e, forse, non lo è mai stato.” La Guardiana inarcò blandamente le spalle: “La sua forma è piacevole perché è la sua stessa azione a essere suadente. Pensaci bene: se tutto è simbolico nei tre

mondi, cos’è la sua bellezza se non il simbolo della sua intima unione con la mente? Qualcosa che non si vede e non si percepisce se non quando ci facciamo attenzione. Alla stregua di una mano, un occhio, il cuore, la Paura fa parte di noi da sempre. E proprio come i nostri occhi ci consentono di vedere senza che facciamo caso ai complicati processi biologici che rendono possibile la visione, così la Paura esercita il suo potere senza che la nostra mente se ne renda conto a livello cosciente. Sia nel Sensum che nel Nescium tutto quel che vediamo è un’essenza, un’astrazione dell’Altro e perciò un’idea. Al contrario, la Paura è sì un’idea ma nello stesso tempo è un archetipo che esiste a prescindere dalle idee. Essa assume la forma di ciò che il soggetto apprezza di più. Per te una bellissima donna, per Xoavia potrebbe essere un altro simbolo da lei considerato piacevole. La sua bellezza supera quella delle vere donne perché sei tu a dargliela, ma essendo un archetipo negativo, il suo vero volto è quello di un mostro che vi da’ la caccia senza pietà. Un’entità come questa è virtualmente indistinguibile dalla sua vittima che quando le si getta tra le braccia continua a mantenere la sicurezza di agire sotto la propria volontà.” Xoavia disse: “Perché ha distrutto il mondo-mondo?” “È successo un evento nuovo nei tre mondi, un fatto che ha modificato in modo radicale le radici della nostra esistenza, la cui portata non possiamo prevedere. Nessuno nel Sensum e nel Nescium dispone di poteri così sofisticati perché una cosa del genere è ampiamente superiore a ciò che possono fare gli argentei come te, la Paura e la stessa Althaira. Andando per esclusione, diventa chiaro che questo si deve necessariamente all’entità che identifichiamo come l’Altro. Ciò ha consentito alla Paura di affrancarsi da ogni controllo, ormai libera di esercitare il proprio potere nel modo che più le aggrada. E dato che il suo archetipo è essenzialmente negativo la sua attività si esplica come distruttiva.” “Ma deve esserci un modo per combatterla!” Ribatté testarda la ragazza, “Althaira non mi avrebbe inviato da Primus e i suoi amici senza un preciso motivo. Non so neanche perché proprio loro e non altri!” “Perché non ti sei chiesta chi insegue.” Lo sguardo della Guardiana era inequivocabile. A Primus sembrò di svegliarsi da un sogno bizzarro per ritrovarsi in un incubo.

La Guardiana lo guardava fisso. Non c’era rabbia nei suoi occhi ma il suo sguardo ebbe su di lui l’effetto di una cannonata al petto. È per causa mia se Richard e Jack sono morti? “Perché?” Chiese semplicemente. Se anche avesse voluto non sarebbe stato in grado di formulare una domanda più articolata. Il suo cuore aveva accelerato i battiti, la sua fronte stillava sudore. Il senso di responsabilità che sentiva sulle spalle pesava come un macigno impossibile da smuovere. Era responsabile della distruzione di un intero mondo senza neanche saperlo. “Per la tua Capacità Immaginifica, naturalmente. Tu stesso sei inconsapevole di quanto sia vasta. Ricorda che è questa qualità a rendere libere le persone. La morte è solo una via di fuga dalla vita ma il potere dei sogni consente a uno spirito sufficientemente determinato di esistere anche quando le sue reali condizioni di vita siano negative. Un uomo può essere vivo e non vivere per davvero. Può essere felice senza sapere di esserlo. Sensibilità e Capacità Immaginifica vanno a braccetto, si completano una con l’altra, e se a livello cosciente possono portare a problemi di interazione sociale a livello mentale rende questi individui diversi dagli altri. Tu sei l’ultimo a esserne dotato e sei anche il primo che può contrastare la Paura. Ecco perché Althaira ha scelto te. Fino a quando eri un semplice cittadino di Celestia, eri inconsapevole e lo sei stato fino a questo momento. Lei ti ha seguito per controllarti, assicurarsi che fossi abbastanza lontano da questa consapevolezza in modo tale da non costituire un serio rischio per la sua esistenza. E ha giocato con te come potrebbe fare la più tenera delle amanti, per sondare la tua capacità Immaginifica da cui si sente molto attratta. Tu sei un serio rischio per Lei perché potresti distruggerla, ma non sai controllare le tue capacità. Per tutta la vita hai evocato sensazioni extra percettive, ma di un tipo che nessuno ha mai sperimentato nel mondo-mondo. Poi è accaduto questo elemento nuovo, un elemento che io stessa non sono in grado di identificare, che le ha schiuso la possibilità di non essere più relegata a un angolo dell’esistenza. Adesso Lei è libera da ogni equilibrio e ha cominciato a distruggere i tre mondi.” “E Althaira che ruolo ha in questo processo?” Le gambe gli tremavano per la tensione e la voce gli uscì dalle labbra incrinata, stridula, ansante. Le parole della

Guardiana avevano scavato solchi profondi in lui che non sapeva e, forse, non desiderava ripianare. C’era un senso in quel che avveniva nel Nescium, Xoavia era stata chiara in proposito. E naturalmente anche Althaira aveva le sue buone ragioni per non rivelare particolari significativi, neanche se si trattava della donna che aveva inviato da lui. Sempre di più avvertiva una rabbia crescente, quella di un uomo che non si sente artefice del proprio destino, di essere manipolato per fini oscuri da qualcosa che neanche conosce. E poco gli importava se quel qualcosa fosse la Paura o Althaira, perché in un modo o nell’altro non era lui a prendere le decisioni sulla propria vita. Non era lui a poter decidere dove andare, che cosa fare. Forse non era libero neanche di morire. “Lei è la sola in grado di farti capire le tue vere potenzialità.” “Sono solo uno strumento, dunque.” Le parole gli uscirono minacciose senza però suscitare alcuna reazione apparente alla Guardiana. “Non è esatto. La tua esistenza non è strumentalizzata, giovane uomo, non da parte sua. Chi è abituata a farlo è la Paura, non Althaira. La tua vita e la stessa esistenza del Nescium dipendono dalle vostre forze insieme. Ecco perché vi è stato sempre detto di restare uniti. Uniti come una sola mente e un unico destino, una sola consapevolezza in grado di orientare il flusso della vita in una direzione soddisfacente per tutti. Se riuscirete nel vostro intento le cose torneranno a posto, comprese le vite dei tuoi amici.” “Jack e Richard potrebbero tornare a vivere?” Il suo cuore rallentò i battiti all’istante. Era dunque possibile sperare? La Guardiana non ebbe alcuna esitazione: “Non soltanto loro. Tutto ricomincerebbe a esistere cancellando l’intervallo che ha comportato la distruzione del mondo-mondo come se questa non fosse mai avvenuta.” Xoavia disse: “Ma è impossibile fermare la Paura, non per noi.” “Avete una possibilità!” La Guardiana ora era diventata ancora più giovane, ma nei suoi occhi ardeva fiera la luce di un adulto. Primus ebbe un brivido a sentire quel tono di voce dolce ma determinato fuoriuscire dalle labbra di una bambina di circa sei anni. Non c’era indecisione in lei, non c’era giovinezza né vecchiaia. La Guardiana era in grado di essere tutti e nessuno contemporaneamente e Primus si chiese quanto fossero vaste le sue capacità. Poi pensò ad Althaira. Un

archetipo, un qualcosa che esulava dai tre mondi e che tuttavia poteva intervenirvi in ogni istante e a proprio piacimento. Se la Guardiana era superiore ad argentei come Xoavia, di cosa era capace l’entità che lo stava aspettando? Di quale intelligenza disponeva, quali le sue conoscenze? La bambina prese una rosa scarlatta dal suo cestino e la porse a Primus. “Ecco!” Disse, “questa vi sarà d’aiuto.” “Non vedo come.” Rispose lui, pentendosi immediatamente della sua insolenza. “Questo non è un fiore come gli altri, è una rosa a otto petali.” Afferrò il fiore che la Guardiana gli porgeva e lo guardò. Non aveva l’aria di una pianta, non nel senso con cui s’intende una forma di vita vegetale, almeno. Il gambo era corto, ma vantava una robustezza eccezionale e le spine, piccole e ricurve come veri e propri artigli, erano affilatissime. Ne sfiorò i petali che avevano la consistenza della seta. Se era un fiore, era il più strano che avesse mai visto. Se non avesse saputo che era reale avrebbe pensato a un fiore artificiale. Vedendo il suo stupore, Xoavia gli tolse la rosa di mano e la esaminò con attenzione: “Quali sono le sue proprietà?” Chiese. “Quelle tipiche che da sempre vengono attribuite alla rosa. I cristiani, per esempio, hanno usato questo fiore come simbolo del Graal, la coppa che raccolse il sangue di Gesù. In genere comunque, la rosa simboleggia la realtà in fieri. Tutte le culture hanno un fiore assunto al ruolo di simbolo. In Oriente tale simbolismo è espresso dal loto che è poi il medesimo della rosa per le culture occidentali. Per gli occultisti medievali la forma della rosa si riallaccia ai significati simbolici del pentacolo e della stella a cinque punte. La rosa a cinque petali simboleggia l’elevazione spirituale dell’uomo. In quanto tale, rappresenta l’evoluzione, la transizione dallo stato profano allo stato sacro. Invece, la rosa a otto petali è simbolo di rigenerazione; per questo venivano portate sulle tombe degli avi e offerte ai defunti. Ma questo fiore indica anche la soavità, la grazia e perfezione dello spirito. Le sue spine servono per difendersi dalla profanazione e di conseguenza simboleggiano il silenzio. Secondo la mitologia greca e romana la rosa è nata dal sangue di Adone e da quello di Venere, per questo rappresenta l’amore che genera e riproduce la vita. Nel nostro caso, la rosa riflette un valore

più alto anche per l’entità che noi chiamiamo Altro: la rigenerazione.” “E questa potrebbe aiutarci contro la Paura?” Primus appariva dubbioso, “non sembra neanche vera!” “Questa è una delle rose più pregiate che possiedo. Non può seccare né le serve acqua per vivere. Solo lacrime.” “Lacrime?” Un lampo vivido splendette nella mente di Primus che ora ricordava la visione dell’uomo vestito di bianco, subito dopo essere uscito dalla Città dei Fantasmi. “Cosa c’è?” Primus ansimò: “Ho visto qualcosa, qualcuno, che aveva una rosa simile a questa dopo Duende Town. Le sue lacrime si cambiavano in sangue e finivano nel vaso di cristallo di quel fiore.” La Guardiana sorrise: “Nella mia memoria non esiste un ricordo su questa figura. Nessuno me ne ha mai parlato e io non ne avverto la presenza nello spazio-tempo del Nescium.” “Ma aveva il mio viso!” “Poteva essere una visione evocata dalla tua Capacità Immaginifica a sua volta favorita dalla Città dei Fantasmi. Le lacrime, invece, sono più spiegabili. Sono uno dei simboli delle emozioni umane. E anche questo oceano che voi vedete è composto dalle lacrime di tutte quelle persone che hanno dovuto lottare per un ideale. Forse le lacrime che hai visto simboleggiano qualcosa, ma dovrai scoprirlo da te. Conservate questo fiore e vedrete che vi tornerà utile. Adesso è tempo che proseguiate il vostro viaggio. Procedete verso nord seguendo la luce di Althaira. Raggiungerete una valle scoscesa dove la nebbia gareggia con il sole per stendere le sue ali sul mondo. È la Valle dell’Oblio, la linea di confine che definisce il Nescium. Se riuscirete a superarla incontrerete Althaira.” Ciò detto, la Saggezza tornò a cogliere le sue rose e i due amici capirono che la discussione era finita. Si avviarono nella direzione indicata e per qualche o ancora gli Istanti di Tempo fecero loro compagnia, saltellando e giocherellando in un eterno, profondo attimo di vita e di gioia. Primus lanciò una rapida

occhiata alla strana rosa che Xoavia teneva tra le mani a mo’ di trofeo e vide che brillava come uno splendido, inestimabile rubino. Anche lei era silenziosa, persa in pensieri che lui non sapeva né voleva indovinare. In silenzio continuarono a camminare sulla spiaggia silenziosa. E ancora, fecero il giro della spiaggia dalla sabbia nera e dal mare cristallino. Osservarono l’immenso pianeta azzurro rischiarato dalla pallida luce che non sarebbe mai tramontata. Un giorno che non avrebbe mai vissuto l’ultimo momento, quello della fine. E per ogni tratto che percorrevano l’oceano si faceva più indistinto, il cielo più scuro. Quando finalmente arrivarono nel posto dove la figura di Jack era rimasta a farfugliare il suo terrore contro il cielo, videro che di essa non era rimasta alcuna traccia. Di ciò che era stato un suo amico non esisteva più niente, neanche un’esile traccia di polvere. In silenzio, Primus ascoltò i battiti del suo stesso cuore. Il Tempo poteva anche non avere senso nel Nescium ma quei battiti erano più che sufficienti a fargli capire che qualcosa, tempo o meno, scorreva. Era la vita. La vita che fluiva nelle sue vene a ritmo sostenuto, che gli ricordava di essere vivo. Quasi per contrasto, immaginò la polvere del corpo di Jack che s’innalzava morbidamente verso il cielo. Forse si era già sparsa sulla tranquilla superficie di quell’oceano così strano. Una forma naturale di cremazione. E gli parve che il suono del suo respiro cadesse verso il mare le cui pallide onde silenziose risplendevano di milioni di rose sotto quell’eterno tramonto. Gli piacque immaginare che anche la vita del suo amico fosse diventata una di quelle rose che splendevano tra quelle acque tranquille, al riparo della follia e della Paura. In quel momento una mano di Xoavia gli sfiorò una spalla e questo lo scosse dai suoi pensieri. Non fece nulla per nasconderle le lacrime che velavano il suo sguardo, ma non una parola fu pronunciata dalle labbra di lei. Dopotutto, in quel mondo crepuscolare composto di silenzio le parole erano poco più che superflue. E così continuarono il proprio cammino uno accanto all’altro, avanzando insieme verso l’infinito.

12

La Valle dell’Oblio splendeva davanti a loro nel suo desolato fulgore. Né Primus né la sua compagna capivano com’era possibile averla raggiunta senza praticamente aver superato il regno della Guardiana, ma quando si voltarono indietro non videro più il Mare dell’Eternità né i festosi Istanti di Tempo. Nel cielo azzurro e senza una nuvola ardeva luminosa la luce di Althaira che ora illuminava a giorno un orizzonte intessuto di morte e desolazione. Xoavia chiuse gli occhi per un attimo, cercando così di schermare se stessa dall’accecante luce ambientale. “Siamo usciti dai confini della Saggezza, su questo non ci piove.” Disse in tono stanco, “adesso dobbiamo proseguire verso nord.” “Immagino che qui non piova da anni,.” Rispose lui, ironico. “Beh, questa è la Valle dell’Oblio!” Primus sospirò: “Non fa caldo come mi sarei aspettato. La luce di Althaira non ha calore, o almeno non nel senso che intendiamo noi, ma brilla un po’ troppo intensamente per i miei gusti.” “Ci stiamo avvicinando a lei sempre di più; ricorda che stiamo parlando dell’archetipo di una stella.” Primus replicò: “Dobbiamo trovare un posto dove mangiare qualcosa. La fame esiste anche nel Nescium.” La donna brontolò qualcosa che lui non capì, fissando spavalda il curioso panorama che si stagliava in tutte le direzioni. In una mano stringeva la rosa a otto petali che aveva donato loro la Saggezza; il fiore riluceva di una luce strana, ipnotica, visibilissima nonostante la potente illuminazione ambientale che si stendeva inesorabile su quel che rimaneva di strani edifici disseminati sulla sabbia.

“Cosa sono quelli? I resti di un’antica città?” La ragazza scosse il capo: “Non so cosa siano, ma conosco il motivo per cui sono ridotti così: dissoluzione.” Primus osservò stupito quelle forme di cemento, vetro e acciaio, titanici resti di costruzioni che un tempo dovevano essere state imponenti, che artigliavano l’aria immobile in un silenzio irreale. Statue bizzarre, ma comunque diverse da quelle disseminate per Duende Town, giacevano in vari gradi di dissoluzione, rivelando l’armatura metallica che le sorreggeva. Alcuni pezzi di marmo evidentemente staccatisi dalle figure giacevano semisommerse da una polvere finissima, biancastra, simile a quarzo sbriciolato. Di tanto in tanto un vento sottile la soffiava via da quelle macerie innalzando il proprio canto rauco e tenebroso verso il cielo azzurro. “Da quanto stanno lì?” Primus indicò con un cenno del capo le vecchissime statue e i monumenti in sfacelo, “hanno l’aria di avere parecchi secoli sulle spalle.” “Sarà meglio metterci subito in cammino; non abbiamo molto tempo!” Rispose la donna bruscamente. La massa biondo-cenere dei suoi capelli era spettinata e ondeggiava al vento in modo lascivo. Era l’unica nota vezzosa che le riconosceva. Sembrava, infatti, che il mondo che vedevano in quel momento fosse un suo nemico personale. “Che succede?” “Non è sicuro, qui.” Primus seguì la ragazza che ora si era messa ad avanzare con rapide e ben coordinate falcate delle sue gambe sottili. “Conosci bene la direzione da seguire?” Le chiese dopo un po’, ancora stupito dai suoi modi. Lei non rispose e Primus pensò bene di non insistere. Al contrario di lui, Xoavia fissava quel panorama primordiale con occhi fieri e determinati. All’orizzonte si elevava una serie di catene montuose che dovevano essere altissime, le cui vette sembravano avvolte da un niveo manto di ghiaccio.

A nord, quelle vette curiosamente frastagliate digradavano bruscamente, formando poche colline e altre elevazioni ancora più modeste, brulle e senza alcuna forma di vita vegetale. Non volavano uccelli nel cielo né camminavano creature sulla terra ma questo era uno dei pochi aspetti che Primus trovava rassicuranti in quel luogo desolato. Non aveva alcuna voglia di incontrare esseri come quelli che avevano portato via il povero Jack. Ripensò ai recenti avvenimenti, alla meravigliosa sensazione di pace che aveva provato durante l’incontro con la Guardiana, ai buffi e deliziosi Istanti di Tempo e, di nuovo, desiderò essere uno di loro. Libero di sorridere e giocare per sempre lontano dalle tristezze e dagli sbalzi d’umore in quel mondo fatto di silenzio dove non sarebbe mai stato solo. Con occhi stanchi contemplò quel panorama desolato, le catene montuose in lontananza, la strana e irreale luce che riverberava come un diadema sospeso nel cielo. Un luogo dove non poteva fuggire, dove non era possibile rifugiarsi al riparo dallo sguardo degli altri, che non offriva alcuna scelta se non la fuga. I resti anneriti degli edifici erano la macabra cornice di un paesaggio altrimenti monotono nella propria vastità. A ben guardare, quelle rovine non sembravano neanche essere state una vera città; la loro disposizione sembrava più che altro casuale. Non c’erano strade o sentieri, non c’erano resti di eventuali abitanti: soltanto mute ossa di cemento, grigie e desolate, che cantavano una canzone silenziosa le cui note erano il mistero e l’oblio. Mentre avanzava stolidamente in quella vuota enormità, i pensieri più diversi affollarono la sua mente e cominciò a chiedersi il motivo per cui quella landa fosse nota come Valle dell’Oblio. Quali pericoli si annidavano tra quelle masse annerite, quali strane creature avrebbero incontrato? Sarebbero mai arrivati da Althaira o la Paura avrebbe avuto la meglio? Non pensava avessero molte probabilità di farcela, anche se la Saggezza aveva detto che avevano una possibilità, ma non era gran cosa, a suo parere. Quanto a Xoavia, non capiva il motivo del suo repentino cambiamento. Pareva animata da una misteriosa paura che la obbligava ad andare avanti, perdendo per strada l’umanità necessaria a provare emozioni più comprensibili, più dolci. Ma quando casualmente gettò uno sguardo al terreno sotto i loro piedi si rese conto di un dettaglio che non aveva notato. Il terreno sembrava avanzare più velocemente di quanto pensava possibile per due esseri umani stanchi e provati da un viaggio lungo e irto di insidie. Stranamente, la discrepanza non era evidente confrontando gli oggetti disseminati lungo il percorso, ma solo in

relazione al terreno polveroso. Lo fece presente alla ragazza. “Me ne sono accorta anch’io.” Rispose lei con voce atona, inespressiva, “ma sto cominciando a ricordare la direzione giusta e credo sia grazie alla Guardiana. Comunque non mi preoccuperei del terreno se fossi in te, ma dobbiamo fare in fretta.” “Da cosa scappiamo?” Lei lo guardò e Primus si ritrovò a fissare i suoi occhi insondabili. Ancora una volta notò un’ombra silenziosa e imperscrutabile che sapeva di tristezza in quello sguardo altrimenti determinato e orgoglioso. Quando la ragazza finalmente gli rispose gli parve che le sue labbra fossero curiosamente fuori fase con la sua voce, come se lei gli parlasse da una grande distanza e il suono ci impiegasse un po’ ad arrivare alle sue orecchie. “Siamo nella Valle dell’Oblio e corriamo seri rischi se ci rimaniamo troppo a lungo.” La voce della donna era piacevole nonostante la sua durezza, “i nostri ricordi potrebbero esserne danneggiati, forse addirittura cancellati, e noi vagheremmo in eterno in un mondo che non ricorda più se stesso fino ad annientarci, scomparendo dal Nescium.” “Per questo motivo quegli edifici sono ridotti in quello stato?” Xoavia assentì: “Esatto! Non hai notato che non esiste alcuna forma di vita, qui intorno? Essendo idee le nostre ossa, i nostri muscoli, il nostro stesso corpo, per quanto reale, è pur sempre un’espressione dell’Altro. Una volta catturati dai nefasti influssi di questo posto, scompariremmo senza lasciare alcuna traccia del nostro aggio.” “Una prospettiva allegra.” Lei sorrise. Era la prima volta che la vedeva sorridere da quando si erano ritrovati fuori dal territorio della Saggezza. “Non è quel che si potrebbe dire una prospettiva esaltante,” convenne la donna, “ma dobbiamo proseguire se vogliamo arrivare alla nostra destinazione.”

“Ma non possiamo trovare una strada alternativa?” Xoavia gli rivolse un’occhiata ironica: “Quali strade alternative vedi? Questa è la sola direzione.” Primus non replicò. Xoavia era la sua guida e del resto lui non avrebbe saputo orientarsi in quel posto monotono e immutabile. Meglio seguire lei che vagare da solo e senza meta. Ripensò con un brivido alle parole della Saggezza. Lui era l’unica speranza per ricostruire il mondo-mondo. Sorrise apertamente al pensiero, ripensando all’aspetto paradossale della questione. La ragazza disse: “Che hai da sorridere?” “Sto ripensando alle parole della Guardiana, al fatto che la Paura temerebbe la mia Capacità Immaginifica. È buffo: non avrei mai pensato di essere proprio io l’eroe della situazione.” “Non ti ci vedo svolazzare per la città sgominando i cattivi.” Primus rise: “Neanch’io se è per questo. Mi chiedevo però se anche la Paura possa morire.” “Ti riferisci al fatto che se stiamo uniti non può raggiungerci?” “In un certo senso, ma non solo. In realtà pensavo al fatto che Lei è l’entità che vuole distruggerci mentre Altha sembrerebbe la sua antagonista, l’entità che vuole salvarci, giusto?” “Così sembra.” Il tono della donna era sibillino. Primus se ne chiese il motivo. Continuò: “Non credo abbia a che fare solo con la possibile ricostruzione del mondo-mondo. Tu stessa hai detto spesso che tutto quel che vediamo è frutto delle idee dell’Altro!” “Dove vuoi arrivare?” “All’affermazione della Guardiana secondo cui non sono tanto io come persona che servo ad Altha quanto la mia Capacità Immaginifica.” “Questo mi sembra evidente.”

“Ma non ha senso!” “No?” Primus sorrise di nuovo: “Pensaci bene. Di gente con una Capacità Immaginifica pari alla mia o comunque superiore alla media ne è sempre esistita nel mondomondo, ma guarda caso la tua Althaira vuole me. Anzi, tra le righe mi pare di capire che ha sempre voluto me e lo stesso sembra fare la Paura. Io sarei di conseguenza l’ago della bilancia ma per un fine che non mi è stato rivelato e che tu stessa ignori. Adesso la Guardiana ci dice che Altha vuole proprio la mia Capacità Immaginifica, ma solo perché io sono l’ultimo essere umano ancora esistente se escludiamo te che, di fatto, sei un argenteo. Ma nella sua consapevolezza molto superiore a quella di qualsiasi argenteo, Saggezza compresa, Althaira non avrebbe forse potuto prevedere il destino del mondomondo in qualche modo? Avrebbe dunque potuto scegliere una Capacità Immaginifica tra le tante senza per questo rivolgersi a me specificatamente. Questo ci porta a considerare le cose in modo diverso da come le ha poste la Guardiana, e cioè che Althaira non solo desidera avvalersi della mia Capacità Immaginifica per ricostruire il Sensum ma anche di me. A questo punto, allora, o la Saggezza ci ha mentito o nella migliore delle ipotesi non ci ha rivelato tutto.” “Il tuo ragionamento non fa una grinza, ma io temo purtroppo che certe domande potrai rivolgerle solo ad Althaira, sempre se riusciremo a raggiungerla, naturalmente.” Era solo una sua impressione o il tono della ragazza si era sottilmente incrinato? Aveva visto giusto? Ancora una volta si frappose un silenzio irreale tra loro, più strano di quello che imperversava per la landa desolata. Cominciò a provare un senso di nausea con la stanchezza che cominciava a farsi sentire. Non ricordava da quanto tempo non mangiava un boccone e pensò che gli avrebbero fatto comodo un pasto e un buon letto dove poter riposare. Xoavia, al contrario, sembrava assai meno stanca di lui. Avanzava con bieca determinazione, lo sguardo truce che tutto vedeva ma che da niente si lasciava impressionare. Rade macchie di arbusti scheletrici punteggiavano quel territorio desertico, ma anche quelle rade testimonianze di vegetazione gli ricordavano l’onnipresente sfacelo di tutta la valle. Sempre in silenzio raggiunsero le creste rocciose lasciandosi definitivamente alle spalle le rovine degli edifici sconosciuti. Le avevano raggiunte a una velocità vertiginosa,

inumana, eppure a lui non sembrava far altro che camminare. I raggi luminosi di Althaira continuavano a irrorare il mondo di una folgorante luminosità e le guglie altissime delle cime più frastagliate disegnavano ombre fantastiche sulle pareti di roccia e sul suolo sabbioso. Presto si ritrovarono a percorrere un sentiero grigiastro il cui terreno era letteralmente sommerso da uno spesso strato di cenere grigia, friabile come polvere e molto volatile. Le scarpe assunsero ben presto lo stesso, monotono colore grigiastro e l’eco dei loro i rimbombava in modo inquietante tra quelle gole di roccia che sembravano inginocchiarsi davanti alla luce di Althaira. Le pareti montuose, irregolari e biancastre, perdevano turbinii di polvere che si staccava a scaglie dissolvendosi in fiocchi setosi a ogni alito di vento. In preda alla curiosità, Primus sfiorò con la mano una delle pareti di pietra ma non incontrò alcuna superficie solida come se la montagna dalla vetta innevata fosse solo un’immagine riflessa, un miraggio, nonostante la polvere fosse assolutamente reale. Di più, le sue dita scomparivano nella roccia con una facilità disarmante e quando le ritraeva aveva di nuovo il senso della loro ingannevole solidità. Le montagne, a ben guardare, subivano proprio in quel momento una curiosa mutazione, la roccia appariva ora grigia ora color mattone, come se la materia da cui era composta si stesse annichilendo, ritraendosi in se stessa. Come se i suoi componenti svanissero a partire dallo strato più esterno. “Hai visto?” Chiese alla ragazza, stupito. “Cominciano a scomparire anche queste.” “Quegli edifici, le rovine che abbiamo incontrato. Perché erano ridotti in quello stato?” Xoavia lo guardò, continuando ad avanzare alla massima velocità che le era possibile: “Ciò che abbiamo visto erano le strutture, l’impalcatura di quelle costruzioni. Forse era una città o forse no. Strade, palazzi, vegetazione, veicoli, meccanismi: tutto è stato assimilato dalla Valle dell’Oblio. Ciò che arriva in questa zona si disintegra dapprima scomponendosi nelle sue componenti principali che poi si dissolvono anch’esse.” “E che ne è stato di coloro che abitavano quegli edifici? Sono scomparsi anche loro?”

“Delle creature intelligenti scompaiono i ricordi e quindi la memoria di sé. Una volta che un individuo non ricorda più chi è scompare anche l’auto-percezione e diventa un semplice impasto di carne senza identità. E dato che la popolazione del Nescium è anch’essa un’emanazione dell’Altro, si dissolve.” Un senso di timore assai più subdolo di quel che provava verso la loro eterna nemica, la Paura, s’impossessò di ogni fibra del suo essere. La Valle dell’Oblio era dunque un luogo dove ogni cosa, compresa la vita, si sfaldava inesorabilmente senza una ragione, senza un perché. Non capiva, ma poi scrollò meccanicamente le spalle. In fondo quale dei fenomeni del Nescium era immediatamente comprensibile? “Non voglio fare la fine del topo!” Mormorò a denti stretti, “quando questo processo comincerà ad agire su di noi?” La ragazza scosse la testa: “Non lo so, Primus, davvero!” Primus provò un altro brivido al vedere le vuote immensità che scomparivano lentamente, sfaldandosi in silenzio. Cercò di non pensare all’orribile processo che li attendeva, e allungò il o senza tuttavia correre per non affaticarsi eccessivamente, proprio come faceva Xoavia. Il rischio di essere arrivato al punto di non ritorno gli vorticava nella mente sotto forma di pensieri funesti. Sapeva tuttavia che non poteva permettersi il lusso di aver paura e che, se lo avesse fatto, il rischio di mettere a repentaglio anche l’esistenza della sua compagna sarebbe stato concreto. Cercò di concentrarsi sui dettagli del paesaggio, anche i più insignificanti, in modo da tenere occupata la mente che altrimenti si sarebbe dibattuta tra le fauci della Paura. Ripensò, invece, a ciò che lo attendeva se fossero riusciti a superare quel deserto senza vita, primordiale, e a raggiungere Althaira in tempo utile. La Saggezza aveva detto che sarebbe stato possibile, combinando la sua Capacità Immaginifica con i poteri della misteriosa entità, ricostruire il mondo-mondo, i suoi abitanti e soprattutto i suoi amici e la sua solita vita. In quel momento non chiese a se stesso se la Saggezza gli avesse mentito più o meno consapevolmente. Si augurò invece che le sue parole potessero presto diventare realtà. Lottando contro il senso di nausea che rischiava di sopraffarlo avanzò finché non superarono anche gli ultimi bastioni delle creste rocciose. Capitava che massi pesanti parecchie tonnellate si staccassero dalle grandi montagne rovinando fino a terra dove sollevavano enormi ondate di polvere. Dovettero scansare quei

mostri di pietra in più di un’occasione ma essi non cadevano come avrebbero fatto nel Sensum, quasi fossero composti da sostanze ben più leggere della pietra. Quando finalmente uscirono fuori dallo stretto canyon, s’irrigidirono entrambi, fermandosi di colpo. Si erano accorti di non avere realmente superato le creste montuose ma che erano state queste a scomparire intorno a loro. Mossi da un impulso sconosciuto continuarono ad avanzare sempre più spauriti fino a quando videro una massa nebbiosa profilarsi all’orizzonte. “Guarda!” Disse Xoavia, indicando con l’indice una larga striscia di nebbia scarlatta che si disperdeva in volute di vapore, “penso che siamo arrivati al limite estremo di questa regione.” Primus osservò affascinato la titanica visione che si presentava così inaspettatamente ai loro occhi. Se la cresta montuosa non si fosse dissolta probabilmente non avrebbero visto la gigantesca pletora di guglie, edifici e masse di misterioso vapore scarlatto che si estendevano turbinando verso le nuvole del cielo, simili ad ancelle fatate che si davano appuntamento, vibrando del respiro dell’eternità. “Che cos’è?” “Forse una porta dimensionale, forse qualcos’altro, ma che importa? Non abbiamo altra scelta che proseguire. Dobbiamo proseguire, anche se forse non servirà. Comincio a sentirmi debole e ho le vertigini.” Primus la guardò. Adesso, Xoavia non appariva più un argenteo spietato, dallo sguardo fiero e glaciale. Adesso era una donna spaurita e perplessa. Istintivamente, le sfiorò una spalla: “Forse moriremo!” Disse lentamente, con una sicurezza di cui lui stesso si stupì, “ma non qui e non oggi.” Xoavia sospirò rumorosamente poi, stringendo tra le dita la rosa della Saggezza e dimenticando la sete che la opprimeva accelerò il o, ricambiando il suo sorriso. Il Tempo non scorreva nel Nescium. Non aveva alcun senso pensare in termini temporali ma Primus ebbe la sinistra impressione di poter contare i secondi man mano che la distanza tra loro e la regione delle nebbie a ogni o che facevano. La nausea minacciava di farlo crollare, la vista gli si fece annebbiata. Lacrime salate di sudore scendevano dal suo collo, inondavano la sua schiena,

scivolavano sulle sue gambe a ogni metro percorso con il cuore che accelerava i battiti. Ma nonostante questo la speranza di sopravvivere alla Valle dell’Oblio aveva infuso nei suoi muscoli una determinazione nuova, l’innato istinto di proteggere la propria vita. Stringendo i pugni, obbligò il suo corpo stanco ad avanzare su quel terreno pianeggiante e morto, senz’acqua, senza vita, senza futuro, immerso nel ato che divorava inesorabile e acosciente senza alcuna pietà. Per quanto ne sapeva, forse lui e Xoavia erano tra gli ultimi superstiti anche del Nescium. La luce di Althaira non bruciava, e anzi aveva una qualità carezzevole che non lo appesantiva. Il sudore che scorreva impetuoso sulla sua pelle era dovuto a una combinazione di ansia, fatica e paura, oltre che alla nausea che sembrava ogni momento più presente, ma di questo aveva cessato di preoccuparsi, cercando di concentrarsi sulle necessità più urgenti. Dovevano trovare qualcosa con cui sfamarsi e dissetarsi. Poi avrebbero pensato al resto. Con questi pensieri avanzò nel nulla verso la nebbia, aggrappandosi con tutto se stesso alla possibilità di trovarvi dell’acqua e una speranza nuova. Quando finalmente arrivarono davanti a quelli che credevano i confini della nuova regione scoprirono, una volta superato il primo strato di nebbia, una lussureggiante vegetazione. Scoprirono così che la nebbia scarlatta, rilucente di curiose striature di luce, era solo il prodotto dei boschi e degli innumerevoli giardini che si stendevano a vista d’occhio. Pur di lasciarsi alle spalle l’orribile zona desertica scivolarono silenziosi ai margini di quel luogo sinistro disseminato di fiori iridescenti, ma subito la luce di Althaira scomparve e il cielo si fece nero, punteggiato però della pallida luce stellare. Era una qualità di buio diversa dalla Notte che Primus aveva imparato a conoscere, e a temere, in altre zone del Nescium, una qualità che sebbene non fosse altrettanto rischiosa lo stupiva e lo confondeva. Nonostante questo, la vista del firmamento luminoso era bellissima e riposante sia per la vista che per gli altri sensi. L’aria si era fatta improvvisamente frizzante, senza per questo perdere nulla in piacevolezza, e gli oggetti risaltavano in modo assai più nitido di quanto fero nel deserto. Alberi esotici di ogni forma e colore erano presenti ovunque, disseminati in gruppetto o esemplari isolati e il frinire dei grilli gli ricordò che il regno del silenzio era finito. A parte questo, non udirono altri suoni ma Primus provò la sinistra impressione che non fossero del tutto soli. “Che facciamo?” Disse, ansante, “ho una strana sensazione, come se fossimo in

mezzo a una folla silenziosa, come se qualcuno ci spiasse senza che noi riusciamo a vederlo.” “Anch’io non mi sento tranquilla e la scomparsa della luce di Althaira mi rende nervosa. Mi chiedo se non sia meglio per entrambi tornare indietro.” Primus stava per ribattere il suo dissenso quando un furtivo rumore gli fece aguzzare la vista e tendere al massimo gli altri sensi. Era un rumore di i calmi, come di una persona che venisse verso di loro calpestando una sorta di pavimento lastricato. Chiunque fosse e ammesso che quei suoni non si dovessero alla stanchezza, non sembrava avanzare in modo furtivo. Poi, come un faro che squarci all’improvviso le tenebre, una fenditura netta, dai contorni ben definiti, si produsse nell’aria emanando una pallida luminosità giallastra, come quella prodotta da una torcia elettrica. La porta, o meglio, l’apertura da cui filtrava la curiosa luminosità, era apparsa praticamente a mezz’aria. Soffocando un’esclamazione di sorpresa Xoavia guardò il compagno poi, prendendo il coraggio a due mani, lo seguì verso l’impossibile radiazione luminosa. Si ritrovarono in quella che pareva una stanza di medie dimensioni arredata con gusto e dall’aria accogliente. Videro raffinati quadri alle pareti, un paio di divani in pelle beige, un piccolo tavolinetto dal ripiano in madreperla a sua volta sormontato da una lampada in stile inglese dell’Ottocento. Due finestre, protette da tende leggermente stropicciate, avevano le serrande abbassate ma dall’esterno non doveva trasparire alcuna luce. Dal soffitto pendeva un lampadario a tre bracci, l’unico responsabile della luce che avevano visto prima di varcare quella soglia. La stanza aveva qualcosa di familiare che però Primus sulle prime non riconobbe. “Questo posto non mi è nuovo.” Esclamò. “Io non lo riconosco,” Le labbra della ragazza tremavano e la voce, roca, era bassa e sospettosa, “e non mi fido!” Si avventurarono per l’appartamento che ora aveva più l’aria di una villetta distribuita su due livelli che non un modulo abitativo facente parte di un palazzo più grande. Visitarono una stanza da letto spaziosa e dall’aria comoda. Le lenzuola era sfatte e il materasso conservava la forma dei corpi che aveva ospitato. A quanto pareva, il letto era stato usato da poco. Primus percepì un leggero profumo nell’aria, un misto di sudore, acqua di colonia e una fragranza

che sembrava femminile. “Qualcuno è stato qui da poco.” Disse lei, gli occhi verdissimi aperti, spalancati in cerca di ogni possibile pericolo. La donna era stanca e le sue labbra riarse apparivano ancora più sottili di quanto fossero in realtà. Si guardarono intorno. Un armadio a tre ante in legno scuro, leggermente screpolato dal tempo e dall’uso, si ergeva solitario, accostato a una parete. Di fronte, un cassettone sormontato da alcuni oggetti di uso quotidiano. Un rasoio usa e getta usato giaceva accanto a un flacone di profumo maschile sul ripiano di un comodino. Sul pavimento scorsero alcuni vestiti, forse lasciati cadere con noncuranza. Oltre a una camicia e a un paio di pantaloni da uomo, riconobbero una sottoveste di seta nera e un raffinato reggiseno in pizzo dello stesso colore. “Qualcuno che ci ha appena fatto l’amore.” Aggiunse lui, confuso. Nonostante la nausea che lo ottenebrava, Primus scattò verso la finestra spalancandola e gettando una fuggevole occhiata all’esterno. Un fiotto di aria fresca, violenta, gli schiaffeggiò il viso stanco scompigliandogli piacevolmente i capelli. Vide un traffico caotico composto da auto, luci al neon, pedoni scarsamente coordinati in una città dove le enormi sagome dei grattacieli la facevano da padrone. In alto luci lampeggianti sfrecciavano in un cielo punteggiato di stelle. Una città che sebbene immersa nella sera avrebbe riconosciuto tra mille. “Primus, non è prudente rimanere qui!” Celestia! “Primus?” La voce di Xoavia proveniva da regioni remote, solleticava le sue orecchie, sfiorava il suo cervello con ali di seta. Si voltò come al rallentatore. Negli occhi la gioia assolutamente illogica di essere tornato in un luogo che conosceva, dove era nato, dove aveva amato, che lo aveva accolto tra le sue braccia di cemento, negozi di giocattoli, pasticcerie. Un luogo che aveva desiderato fin da quando aveva varcato la soglia del Nescium. Qualcosa lo afferrò con mani tremanti, qualcosa che aveva un buon profumo. E un bel viso. Occhi stanchi si fissarono tra i suoi. La nausea che continuava ad avvolgerlo e il suo corpo sfibrato che reclamava cibo e riposo. Tutte queste sensazioni si confo tra loro, mescolandosi in modo caotico e bizzarro. Il volto di Xoavia chino su di lui, gli occhi sfavillanti nonostante la stanchezza, una mano di lei che gli mostrava un fiore bellissimo e ipnotico.

Di nuovo, ebbe la curiosa sensazione che le labbra della ragazza non fossero sincronizzate con la sua voce. Le parole arrivarono alla sua attenzione un attimo dopo, ma avvertibile, che le sue labbra si erano mosse. La sua massa di capelli spettinata, altera, ondeggiava lieve come in un sogno esalante dai fumi di una droga sconosciuta e inebriante. E i contorni di quel viso gli apparvero molto belli. “Andiamo via!” Gli stavano dicendo quelle labbra. “Mangiamo prima.” Le rispose lui, con una calma nuova nell’animo. Le sue gambe cominciarono a vacillare, l’aria fresca della sera inondava la stanza. Sedette da qualche parte, forse su una sedia. I sensi inviavano al suo cervello segnali contraddittori. Intanto il suo sudore continuava a scorrere. Divenne un mare, filtrò fino alle stelle, ritornò giù in forma di pioggia. Era inzuppato, immerso in esso. Seduta accanto a lui anche Xoavia appariva strana. Gli occhi continuavano ad ardere, furiosi, ma nel suo corpo non c’era più energia. Il deserto li aveva prosciugati entrambi di ogni determinazione. Solo la forza della mente, pur agli sgoccioli, impediva loro di cadere sul pavimento. Debolmente, la ragazza sollevò una mano e ora Primus riconobbe tra le sue dita la rosa scarlatta che aveva donato loro la Saggezza. Il fiore era mutato e il bel colore rosso vivo, da quella che sembrava una calda luce inestinguibile era diventato cupo e scuro. “Il fiore è cambiato!” Osservò lui, incuriosito. “La Saggezza ha detto…” comincio lei. Le sue parole si persero nel vento, arrivarono alle nuvole seguendo il sudore di Primus, balenarono di una strana consapevolezza mentre si perdevano tra la folla viva e vitale che animava quella città. Non possiamo fidarci di niente e nessuno Chi lo aveva detto? Forse lui, forse Xoavia, forse il Niente. Forse lo aveva soltanto pensato. La Valle dell’Oblio Avvertì nuovamente il tranquillo rumore di i. i leggeri ma non esitanti, esattamente come quelli che avevano sentito prima di varcare la soglia luminosa.

Dalle voci che gli arrivarono, filtrate dalla stanchezza, riconobbe quelle di un uomo e una donna. I legittimi inquilini della casa. Una, quella maschile, aveva un’aria familiare. Contemporaneamente uno strano profumo aleggiò nell’aria e non ebbe alcun dubbio a riconoscerlo come femminile. Una porta si aprì, forse quella della cucina perché odori di cibo si sovrapposero al primo, diffondendo per tutta la stanza un delizioso aroma di arrosto. Poi due figure apparvero sulla soglia della camera da letto, fissandoli con curiosità. La donna era giovane, alta e snella. Indossava solo mutandine di pizzo nero e una camicia maschile legata in vita da cui occhieggiavano, lascivi, i seni generosi e ondeggianti. Emise un grido strozzato quando li vide stringendosi automaticamente al corpo del compagno che le ò una mano intorno alla vita. L’uomo era alto un po’ meno di lui, piuttosto magro, dai capelli scuri e mossi. Non sembrava irritato; più che altro aveva tutta l’aria di essere stupito. La ragazza raccattò i suoi indumenti sul pavimento e scattò oltre la porta, fuori dalla sua vista. L’uomo, invece, si diresse verso di loro. Primus lo fissò come si guarda un fantasma. Poteva essere tutto originato dalla sua capacità Immaginifica? Non lo sapeva. Non ne aveva alcuna idea. Intanto, l’uomo disse qualcosa, ma né lui né Xoavia udirono le sue parole perché ora l’ambiente cominciò a vibrare avanti e indietro, il pavimento divenne un’unica massa di sostanza semiplastica e la stessa aria della sera che si riversava nella stanza dalla finestra spalancata cambiava temperatura a ogni istante. Il tempo… L’uomo si inginocchiò accanto a loro. Ha ricominciato a scorrere L’uomo continuava a parlare. Anche le sue labbra, come già quelle di Xoavia, non erano sincronizzate con i suoni che emettevano. Il sudore dardeggiò nella camera offuscando gli occhi di Primus e ogni residuo della sua sicurezza. Conosceva quell’uomo da tanto tempo. Allora cercò di guardare Xoavia ma vide che giaceva addormentata riversa sul pavimento. La stanchezza l’aveva sopraffatta. La nebbia si librava sul soffitto della camera, aleggiava insieme alla stanchezza nella sua mente. Ma quando l’uomo lo afferrò per le spalle urlò. Cercò di allontanarsi per quanto poteva, cercò di svegliare Xoavia ma andò a sbattere violentemente contro uno spigolo; cadde a terra con

un tonfo sordo. Prima di perdere conoscenza urlò di nuovo, ma il suono che riuscì a emettere fu un sospiro di terrore puro. Perché quel volto dai lineamenti allungati, quei capelli scuri e la corta barba appena spuntata appartenevano a Richard Everett Whitesnow.

La nebbia gli girava intorno, esalava in lente volute di fumo fino all’impossibile soffitto di un universo composto da ghiaccio e tenebre. Primus respirava a fatica, come se un peso enorme gli fosse stato applicato sul petto. La sensazione di freddo lo faceva tremare e istintivamente desiderò allontanarsi da quella morsa simile a una gelida carezza. Xoavia Quel pensiero gli fece riaprire gli occhi, instillò nuovo sangue nelle sue vene assiderate, restituì la vita al suo cuore intorpidito dal ghiaccio. Altri pensieri gli vennero in mente, altri tasselli di un puzzle mostruoso chiamato Nescium che non ne volevano sapere di fornirgli l’immagine unitaria di quel che lo circondava. Forse non esiste un’immagine unitaria Adesso riusciva a distinguere qualcosa in quella gelida oscurità. Una forma si agitava tremolante davanti ai suoi occhi intervallata dalle volute di nebbia onnipresenti, gelide, terrificanti. Primus avvertì il delicato profumo di quella forma, un odore che aveva già sentito ma che non riconosceva. Xoavia! Il viso della ragazza divenne più solido, si concretizzò davanti a lui. Gli sorrideva e i ciuffi di capelli biondi le ricadevano vaporosi sulle spalle sottili. Era più bella di quanto ricordasse e si stupì di osservarne la pelle bianca come l’avorio e le labbra sottili, vicine, forse troppo, che gli parlavano. Indossava un abito di satin che le fasciava le forme morbide. Nonostante, il freddo, non poté fare a meno di sbirciarle l’incavo del seno che faceva capolino dalla scollatura. Sembrava in splendida forma. Fu un attimo solo ma Xoavia si accorse del suo sguardo, sorridendogli con una grazia che gli parve studiata, esibita. Le sorrise, ma non poteva sollevarsi. Si sentiva debole e il cuore batteva con fatica nel suo petto intirizzito dal freddo.

La voce della donna volteggiò sopra di lui, vagò per le sue orecchie, raggiunse la sua anima impietrita dal gelo, scaldandola per allontanarla dal ghiaccio in cui era precipitata. Dietro di lei c’era un uomo che aveva creduto morto e che era stato suo amico, un uomo che teneva tra le braccia la ragazza che li aveva sorpresi per prima in quell’abitazione. La donna si era rivestita, ma guardava nella sua direzione con una curiosa espressione di stupore e gli occhi, strabuzzati e quasi fuori dalle orbite, lo fissavano con sgradevole intensità. Sembrava in stato di shock e Primus se ne chiese oziosamente il motivo. Richard doveva sapere del suo risveglio, ma non lo degnò di nessuna attenzione. Non era il Richard che ricordava, di questo era certo. “Xoavia!” biascicò. La donna continuava a sorridergli: “Come va? Sei svenuto per un bel pezzo.” Ansimando, tentò di mettersi a sedere ma ricadde sul divano dove qualcuno lo aveva deposto, forse lei, con il freddo che ancora torreggiava come un gigante sulla sua testa che gli girava. Scoprì così di avere ancora la nausea e questo gli fece ricordare il deserto, la Valle dell’Oblio, gli edifici spogli disgregati dal vento. Altri ricordi si affacciarono prepotenti alla sua attenzione e rivide Celestia in tutto il suo fulgore di luci colorate e traffico impossibile, i grattacieli alti, splendidi, alcune nuvole che vagavano nel cielo scuro della sera. Si chiese se avesse visto tutte quelle cose o se le avesse solo sognate. Ma era certo che quella non era un’esperienza extra percettiva. Guardò la ragazza e le tese una mano per farsi aiutare. Mi sento stupido “Aspetta, aggrappati a me, ecco, così.” Xoavia lo afferrò per un braccio e lui riuscì a tirarsi su, anche se gli costò un discreto sforzo di volontà. “Sono stanco!” Le disse con un debole sorriso, “dove siamo?” “Non ricordi?” “Ho immagini confuse e non so altro. Mi sembra di essere stato investito da un treno. Cosa sta succedendo? Puoi dirmelo?” “Devi mangiare un boccone, prima. Poi parleremo.”

Non la ricordava così accondiscendente. Al contrario, Richard e l’altra donna continuavano a rimanere sullo sfondo, come se ci fosse una parete a dividere due esistenze differenti. Da una parte lui e Xoavia che formavano una coppia completa, una sequenza vitale finita in se stessa; dall’altra, Richard e quella donna, vicini a loro ma cristallizzati in una realtà alternativa, inconsistente e aliena. L’impressione che ne ricavò era di assistere alla proiezione di ologrammi talmente realistici da sembrare autentici, ma non era sicuro che se avesse toccato quella realtà si sarebbe dissolta. Xoavia, al contrario, era molto reale. Gentilmente ma con fermezza, la donna lo aiutò ad alzarsi costringendo il suo corpo a uno sforzo ulteriore per tollerare il peso del freddo che lo sovrastava. Eppure non vide porte né finestre aperte e nessuno sembrava provare quella sensazione oltre a lui. Sentì la mano della ragazza argli sotto le spalle e quel contatto, stranamente, lo spaventò. Gli fece paura, anche se non aveva la più pallida idea del perché. Si liberò con un gesto nervoso, dicendo: “Posso camminare da solo.” “Sicuro di potercela fare? Sei molto debole.” Xoavia aveva ragione. La sensazione di freddo era terribile e la fame si faceva sentire. “Tu hai mangiato?” Le disse con voce impastata. “Ieri sera, insieme a Richard e Sharon. Adesso è quasi ora di pranzo e lo faremo tutti insieme.” “Ieri sera?” Primus avvertì un brivido di stupore percorrergli la spina dorsale, “per quanto tempo sono stato privo di sensi?” “Circa ventidue ore.” Lo informò lei, “abbiamo fatto venire persino un medico ma ha confermato la diagnosi: la Valle dell’Oblio ti ha quasi ucciso. Vieni!” Senza dargli il tempo di rispondere la ragazza lo superò e Primus vide la sua snella figura ondeggiare come se tra loro ci fosse uno spesso strato di nebbia che la rendesse indistinta. Ai suoi occhi affaticati dava l’impressione di muoversi rapida, ben oltre il suo campo visivo. Poi sentì qualcuno parlare dietro di sé. Anche Richard e la sua compagna si erano alzati e gli si affiancarono, ma nessuno gli rivolse una parola. Ma quando lo superarono un flusso d’aria gelida quasi lo paralizzò; ma si fece forza, costringendosi ad avanzare. Finalmente si

ritrovò nella cucina dove scorse un tavolo riccamente imbandito con arrosto di vitello, pesce, insalata, alcune bottiglie di vino e caraffe di acqua e succo d’arancia. I piatti erano in pregiata porcellana e il tavolo sembrava antico. Si chiese da quando Richard potesse permettersi un simile lusso. Xoavia gli indicò un posto accanto a lei. Si stupì di fissarle le gambe nervose, senza un filo di grasso, che quando si accomodò meglio sulla sedia mosse con la grazia di una tigre consapevole della propria agilità. E su tutto, sovrastante perfino il profumo dei cibi, quello di lei che gli solleticava le narici, suadente, che lo chiamava con una voce a base di feromoni. Si sentiva a disagio e cercò di sedere con naturalezza. Anche gli altri presero il loro esempio e Primus notò che la donna di Richard, Sharon, non smetteva di fissarlo. Rivolto a Xoavia Richard disse: “Forse sarebbe il caso che tu spiegassi a Primus dove si trova.” Fame e sete sconvolgevano la sua capacità di giudizio. Si avventò sull’arrosto e se ne servì una buona porzione completandola con patate al forno. Masticando con avidità biascicò: “Tutto questo non ha senso!” “Dipende dai punti di vista.” Gli disse l’altro, sorridendo benevolmente del suo appetito, “Questo è un nuovo mondo-mondo, amico mio, altrettanto stabile di quello che ci siamo lasciati alle spalle.” Ma Primus scosse il capo, rivolto a Xoavia: “E la Paura, il Nescium, la Valle dell’Oblio? La nostra ricerca di Althaira, i suoi messaggi, il crollo di Celestia?” “Una cosa alla volta!” Replicò tranquilla la ragazza, servendosi a sua volta dei cibi. Primus continuò a divorare il suo pasto. Si sentiva come se fosse a digiuno da mesi e nonostante in qualche modo cercasse di darsi una parvenza di educazione aveva troppa fame per badare all’etichetta. Xoavia gli versò un bicchiere di vino che tracannò in una sola sorsata. Il cibo aveva un sapore gradevole e pensò che Richard avesse ordinato il tutto a qualche rosticceria, ben conoscendo le sue scarse capacità in cucina. Xoavia, al contrario, mangiava in maniera più misurata, portando piccoli bocconi alle labbra e usando le posate con grazia. Ogni volta che inghiottiva

qualcosa, l’accompagnava con una sorsata d’acqua. Per diversi minuti nessuno aggiunse altro lasciando alle posate che danzavano sui piatti il compito di produrre suoni diversi che non fossero solo quelli del traffico provenienti dall’esterno. Con la coda dell’occhio Primus notò che non solo le sue labbra ma anche i movimenti di Richard erano scoordinati. Apriva la bocca come se fosse al rallentatore mentre le mani, più rapide, gli penzolavano davanti alle labbra con la forchetta in attesa che inghiottisse il boccone. Sharon, invece, sembrava pervasa da invisibili scosse elettriche, I suoi occhi ammiccavano in modo strano come se fosse preda di una crisi epilettica. E di nuovo Primus provò la curiosa sensazione di ritrovarsi allo stesso tavolo con persone che però vivevano o erano vissute in un’epoca lontana nel tempo. I piatti degli altri commensali fluivano avanti e indietro e così la stanza, sopra di loro, presentava una qualità tenebrosa che gli ricordava le qualità proprie del Nescium. E la sensazione di freddo non voleva saperne di abbandonarlo per quanto la cucina fosse piccola. Primus si rivolse a Xoavia: “Cos’è questo?” Tenendo la forchetta a mezz’aria, le fece fare un giro simbolico per indicare l’ambiente. La ragazza deglutì il boccone, poi si pulì con calma le labbra, andosi leggermente la lingua invitante sui denti: “Cosa ti preoccupa?” A fatica, Primus rise: “È tutto sbagliato! Non c’è nulla che vada per il verso giusto.” La ragazza afferrò con delicatezza un bicchiere di vino, lo osservò interessata per qualche istante, tenendolo sulle spine, poi sorseggiò la bevanda e posò il bicchiere: “Hai ragione!” Replicò, “questo mondo-mondo non è quello cui eri abituato ma ne è una buona imitazione.” “Quindi non è reale?” “Ci sono molti livelli differenti di realtà e questo non lo è meno di quello cui sei stato abituato.” “Quello che Xoavia cerca di dirti,” attaccò Richard, “è che questa realtà è una versione stabile del mondo-mondo originale che coesiste con il Nescium.”

Le parole uscirono dalle labbra dell’amico al rallentatore, come se fosse la comparsa di un’impossibile pellicola cinematografica. Primus non vi badò: “E chi ha creato questa realtà? Non penso si debba alla mia Capacità Immaginifica. Non è come a Duende Town, nel museo. Qui è diverso.” “Ce l’hai davanti!” Xoavia gli rivolse un luminoso sorriso. “Sei stata tu?” “Sono un argenteo.” Rispose con fierezza, “possiedo la capacità di modellare il mondo che ci circonda a seconda delle mie esigenze, almeno fino a un certo punto. Questo posto,” e fece un cenno plateale con la mano, “è il primo o. Grazie all’indeterminatezza della Valle dell’Oblio, posso ricostruire un angolo di mondo-mondo per te, per noi. E non morire.” Primus restò a bocca aperta. Una sottile, indefinibile paura gli serpeggiò nel cervello, gli fece stillare pesanti gocce di panico dalla fronte. Guardò Richard e pensò che si era immobilizzato come un automa. Quello non doveva essere il vero Richard, ma un’illusione. Solo la ragazza che gli stava accanto, pur immobile, lo fissava con occhi che riconobbe come inequivocabilmente coscienti. “Cosa sono, loro?” “Prodotti della mia mente ricavati a partire dai tuoi ricordi. Richard è solo il primo dei tuoi amici. Poi, se vorrai, riplasmerò Jack per te.” “Manichini! Richard e quella ragazza sono due fottuti manichini!” “Non devi prenderla in questo modo!” Lo rimproverò la donna, visibilmente dispiaciuta, “tutto quel che esiste nel mondo-mondo e nello stesso Nescium sono astrazioni dell’Altro e perciò sue idee. Il mio Richard, invece, non è diverso da quello che hai conosciuto tu, solo che non è ancora completo. Lo sarà quando accetterai la realtà del mondo che vedi.” “Ma com’è stato possibile? Da quando hai il potere di ricreare una realtà così complessa come il mondo-mondo?” La ragazza rise con voce musicale, piacevole: “Non è molto complessa! Molti

dettagli di Celestia mi sfuggono, ma conto di migliorare con il tempo. Quando siamo giunti qui ho avuto un lampo, una folgorazione. Credo me l’abbia data Althaira. Siamo sempre nella Valle dell’Oblio, ma come ti ho detto è proprio la sua indeterminatezza che mi ha consentito di ricostruire questo angolo di mondo. In questo modo possiamo sopravvivere!” “Quindi questa casa, la vista notturna di Celestia, ieri sera, prima di perdere i sensi, tutto ciò che ho visto è solo per me! E Althaira?” “La troveremo appena saremo più in forze. Ma adesso dobbiamo continuare a esistere.” “C’è qualcosa che mi sfugge.” Inghiottì il boccone. Non aveva più fame. Continuando a sorridergli, Xoavia si alzò e lo condusse per mano fuori dalla cucina lasciando le sagome di Richard e Sharon immobili al tavolo. La nausea di Primus scomparve e i muscoli delle sue gambe lo sostennero di nuovo. Dipendeva da lei, Era lei la sua fonte di energia. Ma quando la ragazza lasciò le sue dita facendolo sedere sul divano il senso di nausea e il freddo tornarono a farsi sentire. Sedutasi a sua volta con una dimostrazione di plateale femminilità ripiegò poi le gambe sotto di sé. “Non hai risposto alla mia domanda!” Boccheggiò lui, mentre l’aria tornava gelida, il suo cuore torpido e le sue mani si facevano di ghiaccio. Xoavia scoppiò a ridere, divertita. La sua era una risata profonda e gradevole, più dolce di quella che Primus aveva sentito prima. Poi fece un gesto con la destra e le pareti, il pavimento, la casa e la stessa città disparvero tremolando orribilmente davanti ai suoi occhi. Al loro posto una landa desolata di sabbia biancastra simile a polvere, che il vento faceva turbinare in forma di bianchi fantasmi vorticanti verso il cielo azzurro. Sullo sfondo, resti di palazzi titanici, esangui scheletri senza volto né memoria che aspettavano di liquefarsi nell’eternità. Una nuova ondata di freddo lo avvolse facendolo tremare. Aprì la bocca come a volere articolare le parole, ma dalla sua gola proruppe solo un gemito scomposto fatto di terrore allo stato puro. Perché davanti a lui, appena oltre il divano su cui era seduto insieme alla donna, vide due figure contorte, annerite, giacere nella sabbia turbinante. Erano adagiate una accanto all’altra, biancheggiando macabre tra la sabbia e grossi pezzi di cemento. Tra le dita di una splendeva una rosa rossa d’incomparabile bellezza e la massa di capelli biondo-cenere che ne ricopriva il

cranio ormai messo a nudo era scompigliata dal vento. L’altra figura rivolgeva le orbite vuote verso di lui, ghignando orrendamente in un patetico sorriso di morte e desolazione. Il sangue prese a scorrergli più velocemente sotto l’impeto delle pulsazioni del cuore. Il sudore, simile a un ruscello gonfiato dalla pioggia, scorreva inesorabile sulla fronte, bruciava nei suoi occhi sgranati. L’universo esplose davanti a lui facendo emergere il suo animo spaventato e scaraventandolo nel caos primigenio della notte eterna solo per fargli scoprire abissi ancora più vasti, letali e profondi. Guardò atterrito la figura sul divano, ma in luogo della donna che lo aveva accompagnato attraverso il Nescium vide una donna altera, snella ed elegante come la più bella delle donne, che lo fissava con uno sguardo di pietà e tristezza. Indossava un abito aderente completamente nero che sembrava di seta. La pelle era leggermente ambrata, serica e senza un difetto. Ecco spiegate la sensazione di freddo e la nausea. Era Lei a provocargliele. Le macerie scure, il cielo azzurro, i corpi e il resto del mondo cominciarono a girargli intorno senza emettere un suono, un rumore per quanto debole che potesse aiutarlo a reggersi in piedi. Cadde come uno straccio vecchio, un vestito improvvisamente vuoto, in ginocchio davanti a Lei che continuava a fissarlo, ovunque e in nessun luogo, che non lo aveva mai abbandonato. E il volto di Richard e l’immagine scagliosa di Jack che aveva lasciato vicino al regno della Saggezza lo punzecchiarono, urlandogli contro la propria paura. Allora tese le mani sul pavimento, senza forze, cercando disperatamente di avvicinarsi a Lei che lo fissava come una gatta in attesa della preda. In attesa di lui. Con un sorriso enigmatico dipinto sul volto ferino, la Paura lo aiutò a rialzarsi. Le sue dita erano tocchi di nuvole leggere, una piacevole brezza spirava dal suo alito profumato, la dolcezza dei fiori era nella sua pelle morbida. Senza più forze, avvertì nuovamente quella sensazione di freddo che lo ghermiva, mentre la Paura gli cingeva le mani intorno al collo, come una nube tenebrosa ma dolce che permeava il mondo e la sua stessa vita. “Devi a me la tua esistenza, Primus!” Le labbra della donna erano vezzose e delicate, “questa versione del mondo-mondo è la sola bolla di consapevolezza che ti resti. Se ne varcherai la soglia sparirai come è già successo ai tuoi amici.” Hai ucciso Richard

“Adesso conosci la verità!” Continuò imperterrita la Paura, “sai di essere solo un’idea nell’universo dell’Altro. Se ti ostinerai a cercare Althaira tornerai a biancheggiare nella Valle dell’Oblio. Io ti ho plasmato di nuovo, sei un mio pensiero, ora. A lei non importa nulla di te, le servi solo per i suoi scopi. Al contrario, io ti proteggerò da tutto, anche da te stesso. Ti darò miele ogni giorno, ti darò la conoscenza che desideri, lascerò libera la tua Capacità Immaginifica e insieme vivremo in eterno nel mondo-mondo come noi lo realizzeremo.” Hai ucciso Jack “Resta qui con me. C’è un mondo intero da ricostruire!” La donna fece un languido movimento con la testa meravigliosa, immerse gli occhi nei suoi lasciando che i capelli morbidi, profumati alla vaniglia, risplendessero in milioni di rivoli luminosi. Dietro di lei, i corpi ormai scheletrici continuavano a biancheggiare contro il cielo terso. Hai ucciso Xoavia “Solo io posso capirti realmente, soltanto io posso amarti. Con me la tua mente volerà di nuovo.” Alle spalle della Paura, il vento continuava a soffiare. Ciò che restava dei palazzi contorti prese a fluire rapidamente verso l’alto, verso il cielo. I corpi che erano appartenuti a lui e alla vera Xoavia si erano già dissolti, come tutti i patetici resti di chi aveva creduto di ingannare la Valle dell’Oblio. Hai distrutto tutto ciò che conosco! La sensazione di freddo rimaneva nelle sue ossa, solleticava il suo cuore facendolo sussultare. Primus alzò le braccia per tentare di fermare quelle di Lei, morbide e inesorabili, che lo abbracciavano e lo sorreggevano. Che gli rubavano la vita, sostituendo il suo sangue caldo con ghiaccio polverizzato. Alla vista dei suoi goffi tentativi di allontanarsi la Paura proruppe in un’altra risata e Primus capì che la sua era la vana speranza di una libertà che Lei non intendeva concedere. Ma poi qualcosa, non avrebbe saputo dire cosa fosse né quando, si mosse rapido dietro Lei. Una forma indistinta che avanzava con o strascicato ma senza alcun rumore. Occhi che brillavano di una feroce determinazione apparvero dietro le spalle della Paura, occhi posti in una massa senza un volto, senza

labbra. Primus cacciò un urlo strozzato. Per lui quella forma era solo un’altra minaccia, non una speranza. Poi, rapidamente, i lineamenti si ricomposero, apparvero biondi capelli spettinati che incorniciavano un volto riconoscibile. Un fulmineo movimento della creatura dietro di Lei balenò in uno scintillio scarlatto che si abbatté tra le spalle della figura che lo guardava, famelica. E mentre la Paura urlava di rabbia mista a dolore, il profumo dolciastro dei suoi capelli svanì. Gocce di sangue nero caddero a terra, ma gli occhi di Lei brillavano come fuochi fatui accesi nel buio, gemme perverse nel suo volto bellissimo. Si voltò di scatto e questo fu sufficiente per liberare Primus dal freddo che si allentò, presto seguito dalla nausea che cominciò a refluire dal suo corpo. Con un rapido e fluido movimento Lei afferrò la ragazza per i capelli e la trascinò per qualche metro, strattonandola violentemente. “Lurida puttana, vuoi dunque dissolverti prima del previsto?” Le assestò uno schiaffo simile a una frustata, “prima di consumarti come meriti voglio farti versare io stessa le tue lacrime!” Le diede un altro schiaffo e poi un altro ancora, scavando solchi rossastri nella morbida pelle del viso di Xoavia. L’argenteo sembrava impotente tra le mani di Lei e nessuna pietà traspariva da quella donna bellissima la cui voce ridente e lasciva non faceva nulla per nascondere il suo terribile senso di minaccia. Come in un incubo, Primus si rialzò e tentò di separare le due contendenti, ma perse nuovamente l’equilibrio. Il freddo, benché molto diminuito, lo ghermiva ancora perché Lei era troppo vicina. E con orrore si rese ben presto conto che avrebbe dovuto assistere alla morte di Xoavia senza poter muovere un dito per salvarla. “E dire,” aggiunse Lei continuando a schiaffeggiare la poveretta, “che avresti potuto vivere qualche attimo ancora, giusto in tempo di vedere il tuo protetto con me!” La nausea si era nuovamente impadronita di Primus, ma alla vista del viso di Xoavia coperto di sangue sentì risalire nelle sue vene il sangue che Lei gli aveva trasformato in ghiaccio. Le sue mani impazzite, simili ad artigli letali, artigliarono la gola della Paura da dietro e nell’impeto del gesto abbatté il peso di tutto il corpo contro la rosa scarlatta che Xoavia aveva usato a mo’ di pugnale,

ancora conficcata tra le scapole della donna. Urla isteriche di dolore, a tratti interrotte da singhiozzi spezzati, proruppero dalle labbra di Lei che, lasciata andare la ragazza si abbatté a terra, contorcendosi simile a un inimmaginabile predatore morente. Come se qualcuno le avesse versato addosso un liquido infiammabile, il suo viso, un attimo prima bellissimo, avvampò di fiamme. Gli occhi scuri e lucenti affondarono nelle loro orbite come masse di nero fango incandescente in un manto di seta. Le labbra si ritrassero, consumando la carne fino a rivelare le gengive nerastre su cui spiccavano denti giallastri e acuminati. Non più celata dalla barriera di quelle labbra ormai avvizzite, una massa viscosa cominciò a colare dalle fauci spalancate del mostro in un gorgoglio d’incubo. Ma non fu quella visione a paralizzare Primus quanto le braccia che la Paura rivolse verso di lui, alla ricerca di un improbabile, orrido abbraccio. E fu con la più nera delle disperazioni che Primus vide che invece di mani dalle dita lunghe e affusolate, svettavano ora artigli armati di uncini sporchi di sangue. La pelle di quelle braccia mostruose si coprì di rughe fitte come ragnatele e dal fondo della gola di quella cariatide si levò un altro urlo più terrificante del primo. Per un istante, l’uomo e la Paura si guardarono, poi un suono roco proruppe dalla bocca di Lei. “Primus!” la voce le uscì gorgogliante, flaccida. Ma non continuò oltre. Una macchia scarlatta, luminosa, si irradiò dalla rosa a otto petali e, ribollendo, la Paura perse coesione dissolvendosi sempre di più. Solo gli occhi avvizziti come carbone consumato dal fulgore delle fiamme conservavano la stessa, identica cupidigia. La medesima lussuria della donna che aveva tentato di corromperlo per farlo restare nella Valle dell’Oblio. Ma ormai libero dalla morsa del gelo, Primus la oltreò e sollevò tra le braccia il fragile corpo dell’argenteo. Xoavia tentò di sorridergli, ma invano. Il suo petto era scosso da scoppi di tosse e il sangue che le usciva a fiotti dalle guance e dal collo si raccoglieva in pozze di vita tra le spalle sottili. Primus l’adagiò sul divano avendo cura di posarle la testa su un cuscino nel modo più delicato possibile. “Non parlare!” Le disse, “vado a prenderti dell’acqua.” Ma Xoavia scosse debolmente il capo: “No! Il mio tempo è segnato, ormai.” “Ma no, tu sei un argenteo, lo hai dimenticato?”

“Io conosco il mio destino, me lo ha rivelato Altha. Dovevo proteggerti dal velo di oscurità che ancora ti cerca. Lasciami qui, non hai molto tempo.” “Che posso fare?” Dalle labbra della ragazza proruppe un gemito di dolore. Primus l’accomodò meglio sui cuscini guadagnandosi un sorriso pallido ed emaciato. “Devi sopravvivere, altrimenti tutto ciò che è successo non sarà servito a nulla. Solo Althaira potrà rivelarti il tuo destino. È lei la tua unica consapevolezza.” La ragazza tossicchiò, era debolissima. Primus si rese conto che non le restava molto tempo. Senza risponderle, Primus le ò un braccio sotto le gambe e con l’altro le circondò le spalle per sollevarla: “Ti porterò via da questo posto!” Disse, scostandole una ciocca di capelli dalle labbra. Ma Xoavia scosse il capo: “Lasciami qui, mi dissolverò presto. Ho fatto ciò che dovevo, ho cercato di proteggervi dal Buio che vi cerca, che vi desidera. Io stessa tornerò ad Althaira perché è da lei che provengo. Varca la soglia che ti divide dal deserto. Ciò che Lei ti ha mostrato è un’illusione.” Il petto della donna prese a sussultare negli ultimi spasmi di vita. Era troppo fragile. Senza saperne il motivo, Primus la ricordò altera e determinata quando guidava lui e i suoi amici senza un briciolo di esitazione. E ora l’aveva davanti, non più argenteo ma essere umano. La ragazza tentò di parlare e di nuovo lesse nei suoi occhi quella comione che tante altre volte aveva scorto in quei frammenti di giada verde. “Va’ e non voltarti indietro.” La voce di lei era ridotta a un sussurro, “la Paura sta già risorgendo perché non può morire, solo arretrare. Ti aspetta dall’altra parte in attesa delle tue debolezze. Il mondo là fuori è crudele, Primus. Non ha realtà né gioia, non ha amore, luce o certezza. Vaghiamo in un eterno crepuscolo su terre percorse da emozioni contrastanti. Questo è il Nescium ma non penso sia diverso dalla dimensione dell’Altro. Tutti noi, in fondo, cerchiamo un luogo dove non essere soli.” Xoavia emise un ultimo sospiro, una piccola lacrima sgorgò dai suoi occhi e scese sul cuscino che le sosteneva la testa. Fu la prima e ultima sua goccia di

tristezza. Con dita rese tremanti dallo sgomento Primus le abbassò le palpebre e dolcemente la strinse a sé. Quanto era leggero quel corpo, quanto vulnerabile. Adesso, la sua solitudine era veramente completa. Adesso tutto quanto gli apparteneva, un mondo senza prezzo o speranza che non avrebbe mai potuto capire. Lanciò uno sguardo alla desolata Valle dell’Oblio. Aveva vinto, alla fine. Si chiese se Xoavia lo sapesse, se avesse previsto quella di Jack e Richard e la sua stessa morte. Forse lo sapeva. Forse aveva sempre saputo. Non era stata una parte di Althaira? Contemplò un ultima volta quel viso che sembrava solo assopito, poi lo adagiò con la massima delicatezza. “Che tu possa continuare a vivere per sempre, Xoavia.” Mormorò. In quel momento avvertì un suono viscido e tenebroso e vide la pozza di icore scuro e venefico che era stata la Paura subire un’ulteriore trasformazione. Ma non si stava disgregando, non era finita. Xoavia aveva ragione. Lei si stava ricomponendo producendo un suono difficilmente esprimibile a parole, il suono dell’abisso che lo cercava. Pallide luminosità verdastre, amorfe, che avevano l’aria di occhi frementi, apparivano e scomparivano su quella sostanza nerastra. Fissavano lui e il corpo di Xoavia freddamente, e Primus provò la sinistra impressione che fossero animati da una perfida coscienza. Non avrebbe voluto lasciare il corpo della donna vicino alla Paura ma non dovette spostarlo. Anche il corpo di Xoavia cominciò a dissolversi e questo gli rammentò che non erano mai usciti dalla Valle dell’Oblio. Soffici pagliuzze biancastre, simili a polvere, furono portate via dal vento verso il cielo. Animate da una consapevolezza superiore, forse si libravano verso la luce di Althaira che attendeva una parte di se stessa. Allora Primus si alzò e, senza far caso alla tenebra mostruosa che stava risorgendo in forma di donna, uscì in pochi i dalla stanza che cominciava a sua volta a scricchiolare. Non c’era più il deserto, né i resti di titaniche montagne o frammenti di edifici. Quello che vide fu una zona ventosa dove il suolo era indistinto, dalla consistenza vetrosa. E le stelle che scorgeva splendere in quell’infinito drappo di velluto che è il cielo notturno gli fecero capire di non trovarsi più in quella dimensione abitata da spettri e illusioni chiamata Nescium. Ma quale che fosse quel luogo un suono conosciuto lo fece vibrare di inquietudine. Era la voce di una donna che lo cercava con un tono disperato. La Paura era risorta e lo desiderava ancora. Lo aveva voluto fin dall’inizio, si era sempre nutrita di lui e dei suoi timori. Poteva quasi percepire la sua voracità. Primus non si voltò ma

continuò ad avanzare nel nulla. Davanti a sé un altro infinito che non conosceva, ma non lo impensieriva perché ormai era riuscito a liberarsi dalle tracce di qualcosa che non voleva più scoprire. I suoi i risuonavano su quel terreno simile a cristallo, senza una direzione precisa da seguire. Non gli importava. Invisibili folate di vento gli scompigliarono i capelli e dal cielo scese una pioggia sottile. Imponendosi un’andatura regolare, alzò gli occhi verso il cielo le cui stelle sfavillavano remote attraverso nuvole sottili. Sapeva che una di quelle stelle era sicuramente Althaira. Sapeva che l’avrebbe raggiunta e le avrebbe parlato. Avrebbe ascoltato la sua voce parlargli nel vento. Gli avrebbe parlato come avevano fatto i suoi amici scomparsi, come aveva fatto Xoavia, la cui voce non aveva smesso di incoraggiarlo ad andare avanti. La voce di un argenteo che aveva voluto essere umana. Nella sua mente, il volto di lei divenne tutt’uno con quelli dei suoi amici. Le loro voci erano quel vento e il loro sangue quella pioggia. A quel pensiero, le labbra di Primus s’incurvarono in un diafano sorriso. Ma ora il suo volto brillava di ricordi che riverberavano nell’ignoto che lo attendeva. E Primus avanzò verso Althaira, lasciando che la carezzevole voce di lei asciugasse la pioggia delle sue emozioni come tante lacrime nella notte.

13

Primus guardò in alto e vide il cielo traboccante di tenebre in cui le fiammelle stellari turbinavano come frammenti di cristallo su un tessuto di seta nera. Non c’era luna e anche le nuvole, prima ovunque, erano improvvisamente scomparse. I suoi i risuonavano metodici come monotoni frammenti di un eco che si elevava sulle ali del silenzio. Non vedeva alberi, né città, né oggetti che potesse riconoscere. Solo un’interminabile, immota lastra vetrosa, liscia e aliena, che non evocava nella sua mente alcuna immagine nota. La luce soffusa delle stelle era quasi certamente quella proveniente da Althaira, anche se non scorgeva tra quella moltitudine una che risaltasse sulle altre. Si chiese come avrebbe potuto raggiungere una stella continuando a camminare, ora che era rimasto completamente solo. Althaira Era un bel nome, quasi mistico e gli piacque immaginarla mentre continuava ad ardere, ardere, ardere nel buio di quell’immensità. Entità estranea a tutto, ma connessa a ogni cosa. Che ardeva in eterno, consumava il Tempo, infinitamente lontana dai giri del mondo e da quelli della gente. Si chiese che aspetto avesse, se potesse anzi averne uno ben definito o fosse piuttosto un’idea come gli altri, come lui stesso, solo immensamente potente e diversa. E finalmente confessò a se stesso che ne aveva paura, che la temeva e non era sicuro che quell’essere fosse poi molto differente dalla Paura. Una strana consapevolezza lo aveva assuefatto ai ricordi e lo faceva sentire lontano dalle città che aveva visitato, dalle persone, dalle proiezioni, dalle creature con cui aveva parlato fino a quel momento. E persino gli amici scomparsi, e Xoavia, diventarono nella sua mente aleatori senza tuttavia perdere la coesione che è propria dei ricordi. La luce delle stelle non contrastava il Buio e non era in grado di scacciarlo dalla terra. Al contrario, coesistevano entrambi in eterno equilibrio, consapevoli dei rispettivi regni che né uno né l’altro avrebbe mai violato. Il Buio avvolgeva l’universo con la sua anima silenziosa, lo proteggeva da ciò che aveva vissuto rendendolo irraggiungibile, dimenticato.

Le stelle splendevano invece in un’infinita baraonda di luce gelida che non dimenticava, limitandosi a osservare ciò che accadeva alle buffe creature che brancolavano affannose sotto di loro, persuase di essere artefici del proprio destino. La sua risata echeggiò stridula in quella vuota enormità, ma era un riso amaro, molto amaro, anche se, stranamente, sentì il cuore farsi più tranquillo, rallentare i suoi battiti furiosi, riportarli al giusto senso della vita. E i suoi pensieri cessare finalmente di correre senza posa nella sua mente stanca e rimanere statici, contemplativi. Ripensò alle donne che aveva stretto, che aveva baciato, con cui aveva parlato e che erano svanite tra le pagine di quel grande libro che gli esseri umani chiamano vita. E mentre rifletteva la sua mente ebbe di nuovo accesso a ricordi che non sapeva di conservare, di aver vissuto. Ricordi che fluirono come un oceano silenzioso nell’universo. In quelle acque si denudò completamente perché ora che era rimasto solo non voleva più la maschera dell’esistenza. Non adesso che la sua casa, la sua vita e il suo mondo erano scomparsi. L’universo o qualsiasi cosa fosse quell’immenso cielo punteggiato di stelle gli apparteneva tutto, ma non sapeva cosa farsene. Il vento fluì intorno al suo corpo come la corrente di un oceano spettrale ed ecco centinaia di volti intenti a osservarlo, gli parlarono, allungarono verso di lui le loro diafane dita composte di vuoto e aria. Primus si lasciò andare alla deriva, lasciò che le sue gambe non toccassero più il suolo, si lasciò vagare in quella silenziosa immensità che gli parlava senza un suono. I suoi ricordi si riorganizzarono acquisendo forma, rievocando sensazioni, odori, sapori, suoni che aveva seppellito nel mare profondo del suo subconscio. Porte di invisibili case si aprirono per lui e i volti di gente che aveva incontrato anche solo per una volta sciamarono per invisibili strade, pallide come esangui fantasmi, spaventate nel buio della notte che tutto avvolgeva, che tutto rassicurava contro la vuota inutilità della vita. Ma ormai era nel Mare dell’Eternità, ne riconosceva le acque cristalline, ma non si pose più le domande, curiose ma inutili, del perché fosse successo. Aveva capito che non è possibile opporsi al Destino e che concetti come coraggio, arroganza, amore e speranza avevano tutti un significato ma nessuna applicazione pratica. Non dove si trovava. Quelle acque avevano un unico scopo: ricordare, assorbire e aiutare la vita. Primus lasciò che lo portassero via, che sorreggessero insieme al suo corpo il peso dei ricordi che sfilavano davanti ai suoi occhi come infiniti attori su un palcoscenico ancora più infinito di loro. Frammenti di vita che sussurravano

felici ma inutili. Ripensò a Jack e a Richard, li rivide seduti insieme a lui al tavolo di qualche ristorante, a parlare di lavoro, di tante donne belle e di altre solo graziose, di auto sportive. Argomenti superficiali che però lo avevano aiutato a vivere mentre negli ultimi tempi non aveva fatto altro che sopravvivere. Con un’ulteriore punta di tristezza ripensò alla sua casa svanita, al suo mondo che cadendo a pezzi lo aveva abbandonato, che si era dissolto in modo non diverso dagli edifici svaniti nella Valle dell’Oblio. Ripensò ai momenti belli, pochi, della sua precedente esistenza. E poi vide pietre, creste montuose, alberi da frutto. Rivide se stesso da bambino, gli tese la mano sentendo la sua, piccola, fragile, ancora pura perché non aveva toccato il mondo. Non era stata sporcata dalla sua illusione. Ripensò alla Paura, a quando era bello abbracciarla e farci l’amore prima di scoprire che razza di mostro fosse, e capì che era stata Lei a edificare Duende Town grazie l’arroganza degli uomini. E sorrise, eternamente solo, nella notte infinita. E rise di se stesso, rise di quando aveva Paura e non si accorgeva di essere stato una marionetta tra gli artigli di Lei. Rise della Peste-per-Tutti, delle storie che aveva sentito su di essa, degli inutili riti per farla are. Che la Paura lo prendesse pure, se proprio lo voleva. Ormai non aveva più niente da perdere. La sua vita aveva cessato di esistere da molto tempo. Da prima ancora che il mondo-mondo finisse, da prima che incontrasse Xoavia. Avvertì il peso dei vestiti che indossava, il turbinare dell’aria nei suoi polmoni. Avvertì il grido del sangue che gli scorreva nelle vene, la voce monotona del cuore che gli parlava, unico amico sincero e affidabile, che sarebbe rimasto con lui fino all’istante supremo della morte, quando dopo una vita difficile gli avrebbe detto addio. Ripensò agli Istanti di Tempo, per sempre liberi di esistere senza dover sopravvivere, preoccuparsi, ansimare nella polvere. Senza mai incontrare città abitate da fantasmi, senza conoscere lo scorrere del Tempo che tutto inghiotte in fauci sconosciute, senza dolore perché remoti alle bassezze del mondo. Era questa la vita che desiderava. Non voleva salvare il mondo-mondo ora che sapeva cos’era, non voleva ricostruire nulla. Voleva, anzi, dimenticare di essere. Una tazza di caffè fumante, un piatto di uova strapazzate e del pane tostato. Una finestra da cui osservare il mondo senza timore di doverne anche respirare il cattivo odore. Senza milioni di pensieri che lo opprimevano, senza responsabilità né furore. E mentre rifletteva percepì la presenza di qualcosa che lo guardava, sospirando, al di fuori dal Tempo. E in quel momento in cui non si poneva domande capì che quella presenza era Althaira. Lei era sempre stata lì come sua compagna, ma non l’aveva mai vista. Splendeva tra la luce delle stelle, sorrideva

nei visi delle donne che aveva amato. E perso. Era stata con lui quando non lo sapeva, lo aveva aspettato quando aveva viaggiato, gli aveva carezzato i capelli quando dormiva. Non lo avrebbe mai lasciato perché viveva, remota ma presente, nutrendosi delle sue emozioni ma donandogliene in cambio altrettante. Forse l’aveva vista ovunque ma in nessun luogo, l’aveva accarezzata durante l’amplesso con donne i cui volti non esistevano, le aveva detto addio dopo una lite furiosa, l’aveva desiderata nei momenti in cui la solitudine si era fatta più tetra. Ma adesso lui galleggiava con lo sguardo rivolto alle pallide stelle, come un fragile corpo senza più una vita da preservare. Antica vestigia di quel che un tempo era stato un uomo. In alto, a distanze abissali e inconcepibili, le stelle continuavano a guardarlo. Forse tiravano a sorte sul suo destino, forse lo compativano cercando di confortarlo con la loro luce spettrale. Gli piaceva immaginare di non essere solo. Pensare che la realtà fosse quella che desiderava, non ciò che era. Ma quel mare dove affogava, dove nasceva non visto e imperscrutabile, era reale, lo sosteneva confortandolo e parlandogli. Ma faceva tutto questo nel silenzio perfetto di un’ultima sera, un silenzio così assordante da sopraffare le voci dei ricordi che imperversavano ovunque. Il vento soffiò e la pioggia cadde, una pioggia scarlatta come fosse di sangue, ma che non lo bagnava. Niente lo toccava, nulla poteva raggiungerlo. Una corrente abissale, profonda, lo rapì facendolo vorticare tra le acque in modo sempre più rapido. Trovò piacevole quella sensazione, non provò alcuna paura e anzi, un’inesplicabile tranquillità. Il Tempo correva per lui, lo superava in corsa, descrivendo un’ellissi perfetta per poi tornare indietro come se giocassero insieme. La sua vita che continuava a fluire in sintonia con le acque che scivolavano sul suo corpo, affamate di vita ed emozioni autentiche, con la sua mente che percorreva l’abisso che l’avrebbe portata oltre le nebbie del Tempo. Poi uno schianto, il suo tempo che collassava e la sua consapevolezza che continuava la sua ascesa verso il cielo. Verso la riva di quel mare fatato. Si distese sul dorso, ansimando ma felice, sollevato perché per la prima volta dopo un’eternità era arrivato da qualche parte. Ed ecco il cielo e la luce delle stelle che splendevano fiere e lo guardavano. Erano sue amiche e, forse, sue sorelle. Cominciò di nuovo a piovere e di nuovo la pioggia non lo raggiunse. L’universo si dispiegava davanti a lui, un mondo dove aveva vissuto, sarebbe morto, non sarebbe mai esistito. Poi giacque, o credette di giacere, tra le braccia di una donna il cui viso era troppo perfetto

per sembrargli vero. Poteva sognare? Non era neanche in grado di capire se possedeva ancora un corpo. Le sue sensazioni erano atipiche e strane. Contemplò il viso bellissimo, diafano e pallido come un fantasma, sembrava composta di puro alabastro. Tutta l’espressione di quel viso nel suo complesso appariva avulso sia dal Tempo che dal luogo-non luogo in cui si trovavano. Primus intuì di non poterla vedere con i sensi fisici che forse neppure possedeva più. Invece, la percepiva come si fa con un’emozione, avvertendola in sé come se in un certo senso fosse una parte di lui. Era nuda, o così gli parve, la carnagione candida come il bianco più puro, le sue forme esili e delicate. Nonostante la sua nudità non emanava lussuria o cupidigia. Si limitava a esistere, circondandolo di se stessa. La sua bellezza trascendeva il Tempo, non lo ingannava, essendo totalmente estranea a quella di Lei. No, non c’era seduzione in lei, né aggressiva sensualità. Ne contemplò i fluenti capelli che lampeggiavano di un colore indefinibile e in un primo istante gli parvero biondi, poi castani, infine bianco-azzurri o blu scuri. Allo stesso modo gli occhi non erano né verdi né blu, nocciola o castani. Sfavillavano di luci e ombre a seconda dell’angolazione da cui li guardava. Le labbra erano atteggiate a un tranquillo sorriso e nonostante fosse letteralmente tra le sue braccia ebbe la completa visione del corpo di lei, era perfetta fino all’ultimo dettaglio. Era uscita dalla mente di un dio, creata dalla commistione degli elementi primordiali della natura e con loro coesisteva. E in uno sprazzo di coscienza la riconobbe per ciò che era. Era quella la sua essenza, il vero aspetto di Althaira? O piuttosto quello che voleva mostrargli? Ricordò la prima volta in cui gli si era mostrata. Una nuvola iridescente il cui fulgore non era stato in grado di a sostenere. Adesso poteva farlo? Sono morto E quell’idea, nonostante tutto, lo fece sentire in pace con se stesso. Sapeva di esistere, ma aveva dimenticato il proprio nome. Conosceva solo quello della donna che lo guardava silenziosa. Sorrise. Che importanza aveva, ormai? Il mondo in cui aveva vissuto, quello che gli aveva dato una casa, una vita e una consapevolezza era scomparso portando con sé le prove di una vita che poteva benissimo non essere mai esistita. Un sogno

Si guardò le mani. Non ne sapeva il perché. Sollevò una mano verso la donna per accertarsi che anche lei non fosse un sogno. I suoi ricordi erano svaniti e il Mare dell’Eternità erano tornato limpido come il cristallo. Trasparente. Poteva guardarvi attraverso. Il viso perfetto che lo guardava ebbe un fremito, i risplendenti capelli ondeggiarono nel vento. Primus cacciò un urlo e quel silenzio si ritrasse dolcemente, confortandolo. L’urlo di un uomo che gridava all’universo la propria solitudine. Ma era in errore perché, ora, solo non lo era più. Quel viso non apparteneva alla Paura, non nascondeva nulla dietro quegli occhi profondi come abissi lucenti. Lo faceva sognare di vivere ancora e in quell’istante seppe che così avrebbe fatto finché lui avesse voluto. Finché avesse deciso di essere rischiarato dalla luce di Althaira. Il suo viso era diverso, adesso, somigliava a quello di una donna che aveva già visto. A quello di tante altre. Il vento continuò a soffiare. Le sue dita toccarono la pelle morbida di quel viso, sfiorarono quelle labbra che non parlavano. Il Mare dell’Eternità svanì in un vorticare di stelle. Le nuvole si dissolsero, la materia perse coesione di fronte a lui, i suoi atomi si disfecero, perdendosi sulle ali di Althaira. Gli elementi si separarono, gli elettroni persero la propria materialità. I fantasmi cessarono di urlare nella lugubre oscurità. Ed ecco, istanti di Tempo, a milioni di migliaia, buffi, graziosi, inimitabili cuccioli composti da libertà e gioia. Io sono Lo circondarono. Coniglietti e canconiglietti, gridolini eccitati di animaletti che saltellavano contemplando l’infinito immutabili e felici, che scorrazzavano attraverso l’universo senza mai essere vittime della sua morte termica. E poi l’energia e la luce soave, bianca e delicata, degli occhi di Althaira che tutto vedeva, assimilava, rifletteva. Che lo avvolse come una carezza di seta e Verità. E a quel punto l’oscurità stramazzò al suolo dandosi per sconfitta e i canconiglietti, felici, tornarono a essere sbuffi di nuvole senza tempo vaganti per l’eternità. Se tu sei Althaira, chi sono io? Il viso della ragazza tornò marmoreo come prima, il suo sorriso non avrebbe sfigurato sul volto di un angelo, il suo sguardo abbracciava l’eternità. E infine, così com’era apparsa, la visione scomparve senza far rumore, senza una parola, senza un suono e lui si ritrovò solo. Allora si alzò in piedi e rivide la spiaggia

che costeggiava il Mare dell’Eternità. Vide l’enorme, silenzioso pianeta azzurro che roteava senza posa nel cielo e contemplò le isolette a poca distanza dalla riva, con i loro alberi che stormivano dolcemente nel vento. S’incamminò e scoprì una sensazione piacevole ogni volta che le piante dei piedi schiacciavano quella sabbia composta da marmo nero polverizzato. Nella volta del cielo scintillavano luci e bagliori senza tempo. E l’astro che illuminava tutto allungava nell’infinito i suoi dardi di fiamma che cambiavano colore come lame di luce ghiacciata e scintillante. Primus ripensò alla figura che lo aveva sorretto tra le braccia e ne desiderò la presenza. Il suo desiderio fu esaudito. Il niveo corpo di Althaira splendeva algido adagiato sulla battigia, con i piedi delicati immersi nell’acqua e lo sguardo fiammeggiante fisso sull’orizzonte. Non era più nuda ma indossava una sorta di tunica plissettata, anch’essa bianca con decori azzurri all’altezza dei seni. Avvicinandosi, Primus riconobbe che quei decori erano in realtà piccole rose. I loro sguardi si incontrarono: “Siediti accanto a me.” Gli sussurrò e la voce di lei risuonò come un diapason ondeggiante al ritmo di una musica sovrannaturale. Primus obbedì e insieme restarono ciascuno perso nei propri pensieri, senza dire nulla. Primus avvertì quel silenzio come una qualità fisica dell’aria, come se fe parte del paesaggio, ne fosse una componente essenziale. Era intorno a loro, simile, come estensione, ai ricordi che qualche tempo prima avevano formato quel mare da cui era nato lui stesso. Ma bastò la semplice vicinanza del corpo di Althaira perché i ricordi tornassero nella sua mente ed ecco i volti, gli spiriti, gli intelletti degli amici scomparsi, salutarlo per convergere sulla sua consapevolezza. Ricordo il mio nome. Ricordo quando la gente aveva paura. Quando la Pesteper-Tutti imperversava e gli uomini si proteggevano con strane sostanze. Ricordo i tecnici, quella sera, venuti da me per liberarmene. Ricordo la porta nuova, odorosa di legno, che installarono in sostituzione di quella vecchia che avevano abbattuto. Althaira lo guardò. Ricordo Celestia e la mia casa. Ricordo la donna, mia vicina di casa, che giurò di non aver mai visto la mia abitazione cambiare, disintegrarsi. Un pallido sorriso, dolcissimo, aleggiò sulle labbra della ragazza, il cui sguardo

pareva capace di abbracciare l’universo in un solo istante. Ricordo il vento soffiare sulla vita che conducevo, nella redazione del Writer’s Magazine. Ricordo i messaggi di Althaira. Ricordo le morbide braccia di Lei che veniva da me. Il sapore delle sue labbra. Il profumo del suo corpo di donna eccitante, seducente. La donna volse il capo e lui si perse nei suoi occhi profondi ed enigmatici. Ricordo Richard e il modo orribile in cui il suo corpo continuava a parlare mentre la sua anima era già andata via. Sparita, scomparsa dal mondo-mondo in dissoluzione. Ricordo Jack, quando fu rapito da quella creatura mostruosa proprio da queste parti, ricordo le sue urla di terrore, ricordo la Paura che lo ghermiva, languida, mentre correvo verso di loro. Le labbra della donna si schio rivelando denti piccoli e bianchi. Sembrava una silfide dei tempi ati, una dea o un’altra creatura mitologica abitante di un posto come quello, dove nessuno potesse raggiungerla, guardarla, giudicarla. Dove la libertà e l’intelletto regnano sovrani e dove il cuore non deve adeguare i suoi battiti alle inutili corse della società moderna. Ricordo Xoavia quando ha dato la sua vita per salvare la mia, rivelando la mia Paura. Ricordo la sua determinazione, il suo carattere sempre pronto all’estremo sacrificio per il bene comune. Quanta gente è morta, quanta ne dovrà morire per i miei ricordi? Le lunghe ciglia danzavano sui lucenti occhi neri della ragazza svettando come abiti eleganti su gemme rare e preziose. Primus avvertiva prepotentemente la morbidezza delle sue forme, il suo profumo dolce, inebriante. Ricordo gli ordigni nucleari scendere sulla Città dei Fantasmi, ricordo quelle figure inutili, quelle donne instupidite e vuote continuare a bere i loro drink mentre i palazzi crollavano, i marmi si liquefacevano, l’oro e i monili diventavano polvere la cui cupidigia innalzava mani adunche verso il cielo. Contemplò rapito gli alberi delle strane isolette le cui cime frondose stormivano dolcemente in balia della brezza. C’era armonia in quel paesaggio nato dal sogno e nel bel mezzo di quel panorama soave c’era quella donna. Ricordo la vuota caricatura della vita, la follia degli uomini, le loro stupide

battaglie, i loro messaggi pubblicitari tanto sfarzosi quanto ingannevoli. Ricordo il nulla di una vita che non mi appartiene e che, forse, non ho mai vissuto. Althaira volse gli occhi scintillanti verso di lui. Nel suo sguardo, Primus vide il mondo-mondo e tutte le creature che esistevano nelle tre dimensioni create dall’Altro. Le sue ciglia lunghissime, lisce e belle, danzavano come eleganti ballerine sugli oceani abissali che erano i suoi occhi lucenti. “Ricorda!” Disse e la sua voce delicata ondeggiò un attimo sopra di lui prima di elevarsi verso il cielo. Primus ricambiò quello sguardo e Althaira gli posò una mano su una spalla, lo soppesò con un’espressione pensosa, in attesa. In attesa che lui dicesse qualcosa. “Ho perso la mia casa, i miei amici, la mia vita. Perché?” Era da tanto che aspettava quel momento. Si era preparato le domande accuratamente, ne aveva discusso con gli altri. Ma adesso la prima frase che aveva rivolto ad Althaira aveva un tono amaro. Triste. Aveva sperato che potesse incontrarla insieme agli altri, con i suoi amici e Xoavia, ma non c’era più nessuno. Nessuno che la Paura non avesse ghermito. Ma Althaira gli prese una mano tra le sue, delicatamente ma con fermezza. Primus trovò molto piacevole quel contatto, il tocco di quelle dita sottili. Chiuse gli occhi, cercando di allontanarsi da quel mondo, persino da lei, e tornare a quando non sapeva. E in quel momento Althaira disse: “Osserva bene cosa c’è intorno a noi.” Indicò con un cenno la serica superficie liquida davanti a loro, “l’acqua è tranquilla perché né la terra né il cielo si prendono gioco di lei. Questa è la serenità che tanto desideri e che a nessuno dovrebbe essere negata. È la pace dello spirito.” “Non so neanche dove siamo. Sono vivo? Che ne è stato del mio corpo?” Rispose lui, tristemente, “volevo sopravvivere e migliorare la mia visione delle cose. E invece mi ritrovo in un luogo che ho già visto ma che non è servito a restituirmi la vita che ho perso.” “La vita come tu la conosci è ata e non dipendeva da noi, ma dall’Altro! Tu lo hai già incontrato, ricordi?” “Quando?”

“Dopo Duende Town ti sei ritrovato al cospetto di una figura vestita di bianco.” Primus scosse la testa, inquieto. La serica perfezione di quel viso lo rasserenava, ma il suo animo era ancora contrastato. “Sapere questo non mi da le risposte che cerco. Per esempio, chi sei tu? Non certo una donna. Non appartieni né a me, né ad altri. Sei completa in te e vivi al di sopra degli affanni umani. Con te vicina, ora, mi sento bene, ma quando svanirai resterò solo come sono sempre stato.” Si toccò mestamente la fronte, “Con me stesso.” “Io sono Altha! Sono la donna che ti cerca da prima che nascessi, sono colei che vive con te, ascolta il tuo pianto, la tua gioia. Sono nell’aria che respiri, sono con te quando fai l’amore con una donna, ascolto la tua voce quando litighi o discuti, consumo una fetta di torta quando fai colazione con gli amici. Non sei solo perché siamo insieme nella stessa misura in cui la tua mente è in comunione con la mia. Tu sai, hai sempre saputo della mia esistenza. Ma non ne eri sicuro. E anche la Paura sa, ma non ti ha mai detto nulla. Per questo dovevi venire da me. Per sapere dalle mie labbra che puoi ricominciare a vivere.” Primus disse: “Ne ho abbastanza di questi misteri. Io non ho speranze, gioia o futuro. Il mondo-mondo e questo Nescium che non capisco non hanno senso e la tua presenza non mi ha mai impedito di sentirmi solo.” Ma Althaira si mantenne tranquilla. Sembrava che la rabbia di Primus non la riguardasse, non la toccasse. Nei suoi occhi uno sguardo inesprimibile con le sole parole. Con voce rotta da una curiosa tristezza, disse: “Tu puoi cambiare tutto questo.” Primus notò che gli occhi le rilucevano di lacrime: “Piangi per me?” Althaira annuì: “Non ti ho forse detto che sono con te in ogni istante della tua vita? Di cosa ti stupisci? Hai in te il potere che altri non hanno e può renderti libero. Ma finora Lei ti ha sempre sedotto, e vinto. Per questo, tutto ciò che hai creduto di essere, di vivere, di conoscere, non è mai esistito.” “Ma come posso combattere qualcosa che non ha forma? Quel mostro è là fuori e mi sta cercando!” La voce gli uscì con un piglio isterico, e si accorse di tremare, ma Althaira gli

posò l’indice sulle labbra e continuò: “Verum, Sensum e Nescium sono simboli. Ogni cosa lo è, come anche la Peste-per-Tutti, i luoghi dove sei stato, le emozioni che hai provato e in un certo senso lo siamo anche noi. Il mio è quello dell’Aquila, come ti disse Xoavia. Ma tu sei il bandolo della matassa. La tua Paura, che pure esiste al di fuori di te, non può nulla se non le dai il potere di contrastarti. Perché tutto quel che hai vissuto, le donne che hai incontrato, gli Istanti di Tempo e perfino la Guardiana, dipendono unicamente dalla tua Capacità Immaginifica.” Primus la guardò interdetto: “Ma nel Sensum e forse anche nelle altre dimensioni la gente là fuori è morta realmente. Se tutto questo dipende da me perché non sono in grado di farli tornare in vita?” “Il corpo non sopravvive se la mente muore, Primus. È questo il senso. Tu sei la proiezione dell’Altro nelle tre dimensioni che hai esplorato.” “Stai dicendo che sono io l’Altro?” “Sto dicendo che tu vivi ciò che agita la sua mente. I suoi sogni, i suoi pensieri, i suoi desideri diventano realtà grazie alla sua Capacità Immaginifica di cui la tua è la proiezione in questa esistenza.” “E che ruolo hai tu in tutto questo?” Althaira avvicinò le sue labbra alle sue: “Io sono la guida che rende possibili i sogni.” E mentre parlava il suo aspetto divenne evanescente, i suoi capelli le si fecero limpidi, le mani cominciarono a svanire lentamente. “Che succede?” “Il mio tempo sta per scadere. Tu non accetti la realtà che ti circonda e dunque sei responsabile anche della mia morte.” “Ma io non voglio questo!” Il cielo divenne nuvoloso, le acque del Mare dell’Eternità divennero opache e scure come un’infinita lastra di marmo nero. La sensazione di freddo che aveva cominciato a impossessarsi di lui gli diede i brividi. Poteva avvertire i ritmici

battiti del suo cuore sconvolto, anche se non ricordava di avere più un corpo propriamente detto. Io… Althaira continuava a guardarlo. Negli occhi un’espressione di pietà indicibile. Come già Xoavia prima di lei. Io sto… Le lacrime cominciarono a scorrere scarlatte, lacrime di sangue ed emozioni. Pianse così, con pudore, in silenzio. Il significato di quei momenti assunse per lui il valore dell’Eternità. Non voleva che anche Althaira svanisse. Non voleva morire senza un perché. Io sto morendo Goccia dopo goccia, lacrima dopo lacrima, si accorse che il gelo cominciava a farsi sempre più lontano, remoto, abbagliante. Come se il suo corpo fosse fatto di un’altra sostanza, come se le sensazioni corporee non gli interessassero più. Alzò una mano e vide attraverso di essa le lacrime continuare a cadere. E dove prima vedeva una spiaggia di marmo nero polverizzato ora vedeva un pavimento di sangue. La donna continuava a fissarlo. Negli occhi una luce strana, bellissima, che desiderò di possedere. Era dunque colpa sua se Althaira moriva? Le labbra della donna si mossero. Sembrava fe fatica a parlare. Primus tese l’orecchio, i sensi all’erta, come per cogliere il suono di quella voce proveniente da abissi lontani: “Cosa vuoi dalla vita?” Semplicemente esistere Ma non fece in tempo a parlare che era già scomparsa e insieme a lei lo stesso Mare dell’Eternità. Al loro posto il Niente che tuttavia non lo spaventò. Sono solo un’idea dell’Altro? È questa la verità? In qualche modo continuò ad avanzare. Non sapeva come, evitava di chiederselo. La situazione era troppo assurda perché fosse logica. Ripensò ad Althaira. Gli aveva chiesto cosa volesse dalla vita e non era riuscito a risponderle.

Tornare a vivere Burro morbido si sciolse sulla fetta di pane tostato, la tazza del caffè prese a vorticare sempre più veloce senza versare una sola goccia del suo liquido nero. Il sole sorse, tramontò e s’immerse nell’oceano della vita e della morte, descrivendo le curve perfette di una donna che era Althaira. La sua macchina era parcheggiata al solito posto. Davanti a lui una strada lunga che non riconosceva. Con dita invisibili avviò il motore della sua Trans Am antracite. La strada era bordata di alberi disposti con ordine e fronde rigogliose che invitavano alla pace. Una schiera di villette, tutte simili, erano immerse in un’atmosfera di festosa quotidianità. Era il quartiere di Nova’s Dream, dove aveva sempre abitato. Senza pensare ingranò la prima e partì facendo slittare leggermente le ruote posteriori sull’asfalto. Raggiunse in un lampo Moving Spirit Avenue, la popolosa strada che si apriva una volta lasciata casa sua. Sapeva che quella era una calma solo apparente perché tra poco meno di un’ora la strada si sarebbe animata di auto e turisti, gente pazza per lo shopping selvaggio negli eleganti negozi alla moda le cui vetrine lascive occhieggiavano maliziose come affascinanti seduttrici degli occhi femminili che le avrebbero ammirate. Non si chiese se fosse un fantasma, se la gente lo vedesse o se quel che vedeva lui fosse solo un sogno. Forse Althaira aveva realizzato in extremis la sua ultima illusione e Primus voleva viverla fino in fondo. Continuò a correre sempre più veloce. Le cose, gli oggetti, gli edifici divennero indistinti come se il suo tempo fosse accelerato, come se la sua stessa percezione viaggiasse a velocità incredibili. Andava incontro al suo destino, la morte, con il sorriso sulle labbra. Non era più il caso di provare Paura. Non ora che aveva perso anche se stesso. E mentre così pensava l’universo divenne un pavimento bianco e nero come i tasselli di una scacchiera dalle dimensioni infinite. Bianco e nero ovunque, un mondo bicromatico senza forma, eppure con una forma ben definita. L’inchiostro cadde e si rapprese in parole concrete, grandi come automobili, e in ogni parola scorse un significato, un mistero, una dimensione di vita che non aveva mai sospettato. Su tutto, la luce di Althaira che splendeva in un cielo terso senza confini. Doveva raggiungere quella luce. Se l’avesse raggiunta, Althaira non lo avrebbe mai abbandonato. Solo lei era la sua unica speranza. Nei suoi occhi aveva visto il colore del suo stesso sorriso, nella sua voce le sue stesse emozioni. No, non avrebbe più esitato. Desiderava sensazioni che solo Althaira poteva dargli. Viverle, assaporarle, rifletterle. Il tempo del bianco e nero era finito. Il tempo della Paura doveva

finire perché ora sapeva chi era. Ricordava dettagli di una vita che non viveva. Ricordava la Paura che lo aveva abbracciato con le sue dita gelide e inumane, ma stavolta sapeva identificarla. E fino a quando Althaira avrebbe condiviso con lui la sua vita avrebbero vissuto le stesse emozioni. Perché adesso non voleva più sognare di vivere.

Seduto davanti la mia scrivania, guardo con fare assorto la finestra che dal mio salotto si affaccia sui margini crepuscolari della vita, tentando di fare ordine nei miei pensieri. È trascorsa una notte intera e ho scritto fino all’alba senza sosta, guidato da qualcosa che mi appare più potente della mia sola volontà. Io non so cosa sia questo qualcosa con cui a volte dialogo come farei con una persona in carne e ossa. So soltanto che questo qualcosa ha un nome, Althaira, e che fa parte di me, e così sarà fino a quando avrò fiato e i miei occhi continueranno a osservare la luce del mondo. Sono ormai parecchi i mesi in cui non faccio che aggirarmi nervoso tra queste mura, come una belva senza via di scampo, e mi ostino a scrivere queste pagine consapevole che con ogni probabilità non saranno mai lette da occhi diversi dai miei. Ma se anche così non fosse, dubito che altri possano capirle davvero. Forse neanche m’interessa, forse ciò che scrivo serve a me e a me solamente, per esorcizzare le mie paure. Ma in questo momento sono stanco, molto stanco. Ho voglia di addormentarmi sul serio, desidero dimenticare tutto questo. Cancellare con una spugna i miei fallimenti. Forse, la mia stessa esistenza. Sospiro, assorto e remoto ai rumori provenienti dalla strada, indifferenti alla vita che anima il quartiere, immune dalla fugace ombra delle auto che escono dalle case per portare i loro proprietari al lavoro. Come un automa, la mia mano raggiunge un cassetto e ne tira fuori un oggetto di cartone, una piccola scatola di sonniferi. La esamino con attenzione. Non ne ho mai fatto uso ma so che è una sostanza molto potente. Più di una mezza compressa non dovrei inghiottire. Metodicamente libero tutte le compresse dal blister, le esaminano con attenzione. Piccole, giallastre, efficienti. Mi appaiono simili a tanti proiettili di una nove millimetri perfettamente oliata e funzionante, che brillano nella mia mano di una luce crudele. Come se fossero di metallo levigato, vedo sulla loro superficie la mia immagine scomposta in minuti prismi luminosi che sembrano pronunciare il mio nome. Mi fanno cenno di

seguirli, mi chiedono di lasciare un mondo nei confronti del quale mi sento poco meno che estraneo. Non so se quel che vedo sia realtà o soltanto i fumi della mia immaginazione che esalano dalla fatica e dalla disperazione. Forse sono illusioni, diafane immagini della mia mente sconvolta. Sollevo l’arma/compresse con delicatezza, la/le porto alla bocca. Il contatto con quella sostanza che inizia a sciogliersi sulla mia lingua mi dà una nuova consapevolezza. Esiste qualcosa nell’altra parte? Esiste un mondo dove poter ricominciare, dove vivere sul serio dopo un sogno lungo una vita? Le persone che ho perso, i sogni che ho fatto, gli amici che non rivedrò mai più… ho qualche speranza di rivederli ancora? Potrei di nuovo parlarci per trovare un senso a questa vita fatta di Nulla e vanità umane? O anche l’idea di un altro mondo è una sterile illusione costruita da uomini che per motivi di cupidigia privata hanno trovato terreno fertile nella credulità popolare? Desidero inghiottire la vita che è stata, dimenticarmene, lasciare alle spalle ciò che ho sofferto. Basta, inghiotti e vattene! I miei pensieri fanno rumore come uno sparo, lacerano il Buio, tornano da me come parabole impazzite perché non saprebbero dove altro andare. Mi sento un manichino folle, sterile immagine senz’anima né mente, un simulacro che non ha motivo di esistere perché ha già consumato la sua candela della vita ed è arrivato all’inevitabile fine. Milioni di pensieri si riversano nella mia mente in un’assurda processione davanti ai miei occhi. Sono tutti qui, mi fanno compagnia, vedo i volti degli spettri che un tempo conobbi, gli amori che consumai senza un vero perché, assaporo cibi raffinati, storco le labbra davanti a putride brodaglie, accarezzo i fiori che ho colto e quelli che ho gettato via. Chi potrà mai riportarmi indietro, chi ha il potere di far sì che un mondo intero, ora distrutto, possa tornare a vivere? Non io, non un uomo come me, un essere umano, che sogna di giorno ma non di notte, che vaga per il mondo cercando di trovarvi un senso. Ma ecco, il peso dei proiettili/compresse diventa più dolce. La saliva ha iniziato a scioglierle, solleticano dolcemente il mio palato. Ho paura. Paura di scoprire la più grande truffa dell’umanità, paura che quel che dicono i preti siano solo farneticazioni di gente che non sa cosa sia la vera umanità. La Paura mi conosce bene. Sa dove sono, è nata con me e mi accompagnerà sempre dovunque andrò. Sa cosa faccio, quali sono i miei pensieri. Si estende al di là della mia consapevolezza, stuzzica le mie percezioni con mani di seta, accarezza

la mia mente dicendole di essere libera ma è solo un’illusione. Lei è sempre con me, ma non sempre ne sono cosciente. La vedo anche adesso, splendida, simile a una bellissima donna che mi guarda con occhi da gatta. E in fondo cos’è la Paura se non un fiore infernale al cui profumo l’uomo non può sottrarsi, pena la perdita della sua stessa umanità? Ecco, mi vede. Mi sussurra di inghiottire la sostanza che forma una piccola pozza di veleno. Non mi risveglierò più e andrò via lasciandomi tutto alle spalle. Superando tutto. Una vita che non mi accetta e non accetto. Ma accade qualcosa. La mia gola non si contrae, i muscoli non obbediscono. Sputo l’essenza di Lei e imbratto la scatola di veleno e Paura. Adesso so che non è la mia compagna, ma un’illusione mortale. Ho già visto tutto questo, l’ho già sofferto. Ho contemplato il mostruoso abisso che si cela dietro la sua delicata bellezza e se adesso dovessi inghiottire quelle compresse non perderei solo una battaglia, ma tutto quel che mi rimane. Lacrime cadono, le dita tremano. Paura, Paura allo stato puro, liquido, rosso sangue, che cade dalla scatola di cartone sul foglio sul quale ho vergato queste note. Cosa sono, io? Forse somiglio a un sorriso a metà, a volte buffo, altre deluso. Sono i miei pensieri, i miei ricordi e la mia memoria. Sono un essere che aveva un sogno e l'ha smarrito nella notte, ma che continua a cercarlo. Non è mai uguale l'animo dell’uomo e il viaggio che chiama vita non è mai prevedibile. Il mio sguardo è perso tra paure ereditarie, mentre gli argentei, dispettosi amici, ballano tra i miei capelli, sembrano prendersi gioco del mio essere nato. Sono un uomo normale? Dio non voglia! E allora mi fermo, taccio, rifletto e capisco. Primus non è un uomo che non conosco, Primus sono io, un uomo che sogna di vivere. C’è un altro blister di compresse, altri proiettili pronti a darmi la pace. Un’altra possibilità, una scorciatoia verso il Niente. Il cuore mi martella furiosamente nel petto, avverto il sangue impazzito circolarmi nelle vene. Le mie tempie si contraggono in un unico movimento e la testa mi gira a causa della stanchezza e della Paura. Sono solo e questa casa, che un tempo assumeva ai miei occhi dimensioni troppo esigue, adesso mi appare come un mausoleo. Con un sospiro mi alzo e poso i piedi nudi sul pavimento in legno che restituisce una certa luminosità all’ambiente. Le pareti di questa stanza, dipinte di un giallo chiaro, sono ornate da stampe riproducenti famosi dipinti di arte metafisica. I pochi mobili presenti, restaurati da esperti artigiani, sembrano fissarmi, beffardi come muti testimoni di me stesso e, ascoltando l’eco dei miei pensieri, fanno troppo chiasso per lasciarmi tranquillo. Sollevo lo

sguardo dal foglio e lascio cadere le lacrime sul pavimento. Che macchino pure questa vita che non sa più di nulla. “Ecco un’altra giornata al suo inizio!” Dico al Niente in attesa. Non ho voglia di riposare ma sbadiglio assonnato, mi allontano dalla sedia e riguardo il manoscritto. Resto così per un altro po’, ancora indeciso se prestare fede all’istinto di gettare via tutto o lasciarlo in vita. La vita Mi domando se quel che scrivo possa vivere, se abbia un’esistenza sua propria, magari in un altro spazio e un altro tempo. E in fondo, a pensarci bene, questa ipotesi non mi appare così bislacca come potrebbe sembrare. Chi esprime se stesso in questo modo esplica più di altri una parte di sé nelle sue storie. Mi chiedo se Primus possa vivere sul serio. Magari in qualche dimensione parallela, una zona remota che nessuno conosce da quando ha perso la capacità di meravigliarsi tipica dei folli creativi, gli artisti. Ma queste sono speculazioni e io non sono un artista. Io non sono uno dei pochi. Al contrario, sono uno dei tanti, anche se scrivo queste pagine nel tentativo di esorcizzare i fantasmi che agitano il mio animo. Non so fare altro. Non voglio fare altro! Vado in bagno, mi guardo nello specchio e vedo l’immagine di un uomo dalla barba non rasata. I miei occhi sono simili a pozzi abissali la cui superficie lucente nasconde il centro della Terra. O della mia mente, ugualmente remota quando sono assorto in certe fantasticherie. Apro il rubinetto dell’acqua fredda, faccio inondare il lavabo e vi immergo il viso stanco. Devo svegliarmi da questo incubo, devo tornare a vivere. Rialzo la testa e mi guardo. Il mio aspetto sembra un po’ migliorato, gli occhi sono più vivi. Mi asciugo frettolosamente con un asciugamano. Ma non basta perché il sonno torna da me, sussurra il mio nome, mi consiglia di riposare. È da parecchio che faccio sogni terrificanti. Sogni in cui titaniche metropoli senza nome si sgretolano in un deserto dove tutto è oblio. Città si ergono dal terreno, fremono un’esistenza di nebbia, si popolano di pallide figure solo in parte umane. Esseri che svaniscono al più semplice tocco. Sogno città magnifiche, stillanti arte e cultura, i cui palazzi più semplici sono un tripudio di marmi pregiati, traboccanti opere d’arte senza tempo che ritraggono figure storiche, carismatiche, icone di false ipocrisie. Sogno la vita stessa, con i suoi drammi e le sue follie. Perché faccia questi sogni non posso saperlo. Sono

andato da medici e luminari, ho chiesto loro di svolgere indagini sulla mia sfrenata fantasia che io preferisco chiamare Capacità Immaginifica. Ma costoro non hanno mitigato i miei sogni né tanto meno i miei incubi. Essi dicono che sono normale ma io non mi ci sento. Non mi sento come gli altri, eppure le mie sono le stesse angosce del mondo. Forse, io le vedo solo più chiaramente. Per questo scrivo. Per sprimere su carta quel che vedo durante la notte e nei miei sogni sperimento tutte le sensazioni della vita reale che ai miei occhi appare assai meno autentica di quella onirica. Ma ho Paura. Sonno, mi serve sonno! Obbediente alle mie debolezze, gli occhi di Lei sfavillano nello specchio, tornano a fissarsi nei miei, ricordandomi le altre pastiglie. Hanno ciglia lunghe e vaporose e uno sguardo dolcissimo. I suoi capelli m’inebriano, le sue forme sono meravigliose. Con uno scatto torno in salotto, osservo la luce del nuovo giorno filtrare dalle finestre nonostante la pioggia. Le auto lasciano nuvolette grigie dagli scarichi. Osservo quei fumi svanire e desidero che insieme a essi possa svanire anche la mia angoscia. Salgo in camera, rivedo il mio letto e le due dolci creature che occhieggiano tra le coperte. Io le chiamo Istanti di Tempo, sono i compagni silenziosi che mi danno sollievo dopo le mie notti da incubo. Ciò che chiamo anche canconiglietti. Loro non hanno nulla di minaccioso. Li accarezzo, cuccioli senza tempo regalatimi non so quando, poi scendo al piano terra, ritorno in salotto, vago tra le ombre della mia casa. Qualcosa si muove, ma non ci faccio caso. Allora qualcosa mi sbalza via, come se un’entità scura e senza forma si fosse improvvisamente materializzata alle mie spalle. Riesco a non cadere, mi volto. Non c’è nessuno, ovviamente, solo il Buio. Torreggia su di me come un orribile macchia sul punto di sciogliersi in tenebrose onde di liquida Paura. Sembra una progenie scaturita dall’abisso. So che mi vuole, che mi cerca. È in caccia dell’uomo, in caccia di me. Quella macchia non è Althaira, non è benevola. È una predatrice avida e spietata. Possiede occhi vacui che avverto, anche se non li vedo. Allora scappo, ma non da codardo, fuggo dalla mia Paura, ma non come ho fatto in questi ultimi mesi, per non affrontarla. Invece spalanco al massimo le finestre, lascio filtrare la luce, poca, ma che dal cielo nuvoloso si riversa con gioia nella stanza. Il rumore della pioggia sui vetri mi tranquillizza, sorrido. Appoggio le spalle contro il vetro della finestra, assaporo la sensazione di freddo che mi assale. Provo sempre freddo quando ho Paura, forse perché dormo senza coperte, completamente nudo. Il freddo mi ricorda che sto per svegliarmi, ma quando dormo non voglio farlo.

Nonostante detesti i miei incubi, a volte faccio sogni di rara bellezza. Il mio preferito mi porta su una spiaggia senza tempo dove dolci fiori crescono sul fondo di un oceano tranquillo. Dove la Saggezza, quella che desidero, abita in una pace senza confini. Dove il Tempo non scorre perché non ha più un perché. Su quella spiaggia muovo i miei i, osservo la luce delle stelle, dono loro un nome. Solo in quei momenti mi sembra di vivere davvero. Vorrei svanire dalla vita per risorgere a una nuova. Il sonno mi avvolge di nuovo. Sono quattro giorni che non chiudo occhio. Qualcosa mi scuote, non so cosa sia. Vado alla mia scrivania e osservo il manoscritto con le pagine aperte, rivolte verso di me. Mi siedo, accarezzo quelle pagine con gesti amorevoli. Quanti pianti ci ho versato, quante speranze infrante. Una pioggia che quando sgorga dai miei occhi è fatta di lacrime, ma quando tocca quelle pagine è sangue. Goccia dopo goccia dopo goccia, in un’eterna processione di Solitudine. Le palpebre ridiventano pesanti chiedono il riposo dopo notti di oblio, ma non voglio più dormire. Con uno sforzo sovrumano le mie dita si tendono, stringono convulse quei fogli, la penna cade sul pavimento in un tonfo ovattato. L’universo intero cambia, diventa qualcos’altro. La mia Trans antracite è lì, davanti a me, ma non esiste alcuna strada. Sono nel mio garage? No, l’ambiente è bianco, senza pareti né alberi, né case. Mi chiedo se stia ancora sognando. Non mi sembra uno dei miei sogni lucidi ma neanche la gretta, prosaica realtà di tutti i giorni in cui non mi riconosco. È qualcosa di più. C’è una luce, là fuori, una potente luminosità spettrale ma bellissima, soave. È Althaira. Voglio andare da lei e dimenticare la mia Paura. Lasciare alle spalle ogni timore e indecisione. Voglio vivere di nuovo. Allora salto in macchina, giro la chiavetta e sfioro il tasto di accensione. Il motore si sveglia a nuova vita, ruggisce esalando il suo respiro infuocato dai quattro scarichi. Ho fame, penso ai momenti di un ato purtroppo remoto in cui facevo colazione da solo in camera da letto, sfogliando le pagine dei giornali. Una sensazione di burro tiepido che si scioglie sulla lingua, il profumo di un caffè bollente che esala il suo aroma verso il nuovo giorno. Sogno? No, io sono sveglio, io vivo. Mi sento vivo. Ingrano la prima e ascolto il rumore delle ruote posteriori che fanno presa sul Niente. Una strada bordata di alberi

disposti con ordine mi dà il buongiorno. È la strada che da casa mia s’immette nel traffico caotico della città. Una schiera di villette di legno e mattoni, tutte uguali, lanciano le loro ultime ombre sul ciglio della strada. Mani si agitano verso di me in segno di saluto. L’asfalto è sdrucciolevole perché sta piovendo, anche se si tratta di una pioggia sottile, appena accennata, quasi carezzevole. Supero agilmente una fila di auto in coda a un semaforo e svolto a sinistra verso una strada di cui non ricordo il nome. Tutto questo mi ricorda qualcosa, ricordi si affastellano nella mia mente come se questi non fossero i miei ma quelli di qualcun altro. Eppure non so proprio a chi potrei attribuirli, visto che sono proprio i miei. Scelgo di dirigermi a nord. o davanti al Tinie’s, il mio ristorante preferito, ma non lo degno di un’occhiata. Accelero e il motore, obbediente, aumenta il numero dei giri con un ruggito musicale. Continuo a correre sempre più veloce. I anti, le altre auto, gli edifici diventano indistinti. E mentre i miei pensieri si mescolano al turbinio del vento il mondo intorno a me diventa un pavimento bianco e nero come i tasselli di una scacchiera dalle dimensioni infinite. La mia consapevolezza si sdoppia, mi sembra di avere due coscienze ma una sola anima. Si perde ogni colore, ogni sfumatura che prima apparteneva al cielo e alla terra. Il bianco e il nero la fanno da padrone, il mondo perde la forma che gli è familiare, eppure continua ad averne una sua propria. Non c’è tempo per capire, non c’è tempo per aver paura. Solo. Sono solo. È il mio Destino. Un destino di cui non so cosa fare. L’inchiostro cade, viene vergato da una penna gigantesca che traccia la strada della mia vita e la mia direzione. Di nuovo, la luce di Althaira la guida, le parole diventano concetti, i concetti assumono forma e sostanza. Adesso so che i concetti sono forme di vita, parti di me. Le dimensioni di questa vita, la mia, quella di chiunque, si susseguono una dopo l’altra e finalmente Verum, Sensum e Nescium non hanno più segreti. Adesso so che le mie reminiscenze di Popper danno un senso ai mondi che sto creando. Devo raggiungere la Luce. I sogni succedono ai sogni, gli eventi scorrono, il Tempo cessa di esistere. I canconiglietti appaiono davanti a me, festosi come al solito. Credevo di averli lasciati sul mio letto. Sono buffi e dolcissimi. La strada bianca e nera si dipana in un universo di curve. Qual è la mia? Sterzo a sinistra, le ruote stridono su un impossibile asfalto. Il cielo da nero diventa azzurro, poi bianco. Sembra un soffitto appena imbiancato.

Il mio salotto L’auto comincia una veloce rotazione verso l’alto. I canconiglietti scompaiono, la mia vita continua. Lingue di fuoco mordono la mia pelle. Urlo dal dolore ma nessuna ferita si produce sulle mie braccia avvolte dalle fiamme. Il mondo si capovolge, l’asfalto diventa morbido, sembra liquefarsi. No! Sto sbagliando. Diventa carta, come le pagine di un incommensurabile libro. Una luce sfolgorante si accende ma i miei occhi non ne sono feriti. Volo verso Althaira, verso la vita. È come rinascere, forse Ho scritto questa frase in un altro romanzo. S’intitola Il Sogno di Nova. Perché mi è venuto in mente ora? Forse è un’altra parte di me, dei miei sogni e dei miei pensieri. Sono sicuro, però, di cosa provo quando scrivo; è come rinascere! Qualcosa mi afferra per una caviglia. Mi volto e vedo una visione celestiale. La donna indossa una raffinata sottoveste nera completamente trasparente. Splendida e tutta una curva, con la sua massa di capelli scuri che le scendono a ciuffi setosi dalla testa elegante. I piedi sono nudi e incredibilmente sottili. La riconosco. È Lei. Io sono Richard Avverto il desiderio improvviso di farci l’amore. “Ciao amore mio!” La sua voce è una sola carezza, il suo respiro una brezza soave. So chi è, so cosa si nasconde dietro quelle forme sublimi. “No!” E il mio grido diventa un suono. Io sono Jack La Paura mi afferra con le sue braccia sinuose, simili a tentacoli. Non c’è più ombra di bellezza in Lei, nessuna dolcezza. Solo l’avida sensazione di qualcosa che mi cerca. Predatore e preda. È tanto difficile da capire? Sono cibo, per lei. Le sue dita si protendono come artigli, il suo viso è una maschera che esprime lussuria, cupidigia, qualcosa al di là dell’umano. Io sto sognando?

Di nuovo, provo la strana sensazione di essere qualcun altro. Di avere due coscienze, ma una sola anima. Un solo spirito. Io sono sveglio Lei azzanna la mia carne, morde la mia anima con denti abissali. Avverto le sue unghie, lame affilate simili ad artigli, strapparmi la pelle di dosso. Grido e il mio urlo si perde nello spazio. Il sangue sprizza dalle vene e, instupidito, si ritrova in un mondo che non l’accoglie più sotto il ritmico battito del mio cuore. L’universo intero si concentra nel mio salotto; il mio salotto è tutto l’universo. Ormai la ragione non serve, agisce l’istinto. Una preda non può ragionare quando un predatore la cerca. Serve qualcosa di più affidabile, più primitiva. Più violenta. Agisco come un animale impazzito. Affondo i miei denti nella creatura mostruosa. Nell’enfasi della battaglia, la Trans Am sparisce nella nebbia. Le parole scolpite dall’inchiostro continuano a diventare cose reali, tangibili, sperimentabili. Solo la Paura ne è fuori, fuori dal mondo che io stesso ho creato. Ma non sono un dio, sono solo l’artefice. Io sono l’Altro Nell’enfasi della battaglia ci scagliamo sempre più lontano, verso le pallide ombre assiepate a un lato del salotto/universo. Il fiato esce dalle labbra di Lei con un sibilo velenoso: “Sei mio, Primus! Mio e di nessun’altra!” Non rispondo, conservo le energie. Mi lancio all’assalto, do’ fondo a tutte le forze che mi restano e un fremito convulso attraversa da parte a parte la forma nera che mi avvolge. Adesso la creatura emana una fosforescenza abbagliante, le sue labbra, morbidamente disegnate, diventano gremite di zanne. Ma un altro me stesso avvolge le sue braccia intorno alle mie. Ho scoperto chi sono. Qualcosa di affusolato che si nasconde nella mia tasca. Il cuore mi batte all’impazzata nel petto. La mia fronte gronda sudore. Questo non è un sogno Mi sembra di avere quattro mani, una forza diversa e più potente. Più consapevole. Tiro fuori dalla tasca un oggetto affilato ma non faccio in tempo a puntarlo contro di Lei che mi soffoca con un bacio. Le sue labbra sono torride di una lussuria scaturita dall’inferno. Mi brucia la gola, la mia lingua è come

paralizzata. La creatura si agita follemente, un tentacolo nero che una volta era stato un braccio mi artiglia la gamba destra. Cado pesantemente, ma non prima di aver scagliato l’oggetto contro il cuore del mostro. Fiamme pervadono il mio corpo partendo dalla bocca. Mi sembra di essere un fantoccio, una figura esanime su un impossibile pavimento ma disteso a terra vedo la creatura mortaviva morire. Le sue ossa di tenebra esplodono crepitando, il suo alito venefico sale fino al cielo/soffitto. Anche Lei si accascia per terra esalando un lugubre ruggito di morte. Non smette di fissarmi, non smette di vivere. Avanti, Primus, in piedi! Il resto della stanza è immersa nelle tenebre, le finestre sono scomparse così come la strada di carta. Al loro posto una landa infinita bianca punteggiata di nero. Punteggiata dalle idee e i concetti che io stesso ho impresso nella carta. Sembra un vasto, gigantesco volume. Esalo un grido e avverto una parte di me stesso sfuggirmi dal petto. Il fumo si condensa insieme, acquisisce sostanza, assume la forma che è mia. Scaturisce dai miei sentimenti, si veste delle mie emozioni più segrete. Guardo me stesso come allo specchio, ma non sono in bagno. Chi sei? La voce dell’altro me stesso è debole, ma non serve usare il linguaggio per capirci. Non con me. Fa un o nella mia direzione, poi si volta, indeciso. Dai suoi occhi che sono i miei scorgo le lacrime iniziare a scorrere. Si inginocchia davanti la Paura agonizzante e un altro urlo sommesso, gorgogliante, esala dalla cariatide che finalmente muore. L’altro si volta, nei suoi occhi azzurri rivedo me stesso. Ha qualcosa in mano, una penna stilografica identica alla mia. Quella che uso per scrivere. Con gli occhi di speranza tende le sue mani verso di me. Anche lui è solo. Anche lui è preda degli argentei, delle sue paure. Mi aiuta a rialzarmi, la mia gamba sembra un ribollire di aghi in fiamme, punte di spillo roventi aggrediscono la mia carne, invadono la mia mente, rischiando di farmi impazzire. Sono in piedi, ma a fatica, su una sola gamba. L’altra non ho la forza di appoggiarla. Il pavimento/libro sembra guardarmi in un misto di pietà e indifferenza. Quando la poggio una cascata di aghi d’argento sprizza dalla mia pelle. Piango. Anche l’altro me stesso piange, ma entrambi lo facciamo con pudore, in silenzio. L’altro Primus afferra la mia mano, stringe le mie dita sulla penna e poi, con un

colpo secco, rapidissimo, se la conficca dritta nel cuore. Urlo e la mia voce si perde tra le arcate dell’universo, raggiunge i confini delle stelle, oltrea lo spazio, la vita e la morte stessa. La Paura non ha mai urlato in questo modo, il caos né è atterrito, l’universo si allontana da quel guizzo di disperazione. L’Uomo si accascia, cade sulle ginocchia, geme ma non dice una parola. Mi guarda: “Grazie a te, so chi sono.” La sua non sembra neanche una voce, ma un pensiero ai margini crepuscolari dell’esistenza. Adesso sono io che gli parlo, mia è la mano che lo conforta, che gli deterge il sudore. Lentamente, gli estraggo quella penna dal cuore, ma ho capito. Ho finalmente capito. “Xoavia, Richard, Jack…” Sussurro. Lui sorride: “I tuoi sogni.” “Perché?” Dico. “Le tue paure sono le mie. E le tue speranze che credevi morte possono risorgere. Althaira mi ha insegnato questo con il suo sacrificio.” “Anche tu puoi morire?” “Tu eri, sei e sarai. Finché tu sarai io non potrò morire. Perché io non sono un sogno.” E la guerra comincia e ha fine nello stesso momento. Abbasso le palpebre su quegli occhi spenti e per lui che era me stesso, evito di guardare la Paura gorgogliante. Quando l’ultimo respiro ha abbandonato quel corpo fremente io non l’ho guardato, ma ho sentito che qualcosa mi veniva strappato a viva forza come milioni di zanne acuminate che mi straziassero la carne. Lui era parte di me così come Richard, Jack, Xoavia, la Guardiana e tutto l’universo che ho creato. Ecco il senso del suo viaggio. Ecco perché Althaira non si è mostrata. Lei è ovunque e intorno a me. Forse lei e io non possiamo esistere separati. Il bianco e il nero si dissolvono tra le pagine che sto scrivendo. Riconosco l’isterico abbaiare dei cani, il rumore dei motori che si mettono in moto dopo una notte di oblio. Immagino la strada, prima deserta, farsi di nuovo animata delle auto di mariti, padri, mogli che vanno al lavoro o accompagnano i figli a scuola. Piango ancora. La gamba mi fa ancora male ma il dolore sta scemando. La obbligo a spostarsi, a servirmi ancora una volta. So che quello che ho vissuto non è stato

un sogno. So che quando sogno vivo davvero, che la mia vita continua, remota e indistinta, verso altri piani d’esistenza che tanti altri non possono capire. Non me ne dispiace. Una parte di me si è sacrificata perché potessi capire. Mi trascino verso la scrivania, chiudo il cassetto, sollevo il blister con le compresse/proiettili. Con un sorriso, le getto via. Salverò quel che resta della mia vita, di me stesso e dei miei sogni che alcuni chiamano illusioni. Io che ho guardato in faccia la mia Paura non posso soccombere davanti a Lei. Sono morto troppe volte e ormai ho capito. Zoppico verso una delle finestre, non mi sono accorto di aver trascorso l’intera giornata altrove. Ma non sono più solo adesso che ho capito. Dal cielo si estende un fascio di luce che splende nel vuoto della Notte Eterna. Milioni di gocce luminose vorticano in quel fascio, assumono contorni riconoscibili e altri occhi mi guardano. Occhi tranquilli, eterei, che splendono su tutto. “Primus!” La voce di Althaira accarezza i miei sensi. Nel suo viso contemplo l’universo. Io e lei siamo soli, ma non dimentichiamo quante volte abbiamo perso i nostri i. “Sei tornata da me.” Lei mi abbraccia dolcemente, poso la testa sul suo petto e la voce del suo cuore mi restituisce la vita. “Siamo soli,” Mi dice, “ma dove arrivano i nostri pensieri le galassie muoiono. Carezziamo i capelli uno dell’altra, giochiamo coi fili di perle del nostro amore. È tempo di tornare a vivere!” Così dicendo mi consegna una rosa scarlatta. È qualcosa di ben più che un fiore. È una cosa viva. I suoi petali iridescenti splendono dolcemente, riverberano dei suoi occhi soavi, vibrano portandomi una nuova consapevolezza. Ecco, cambia forma, diventa un oggetto che ho imparato a conoscere bene. Diventano la penna con cui ho versato parole di sangue. Vorrei dirle che l’amo da sempre. Ma non serve parlare e mi abbandono fiducioso tra le sue braccia amorevoli. Socchiudo gli occhi e sono finalmente in pace. La liscia superficie di un oceano tranquillo si staglia davanti a me e una lacrima sgorga dai miei occhi. Una goccia grande quanto l’universo, un universo piccolo come una lacrima senza confini. Li riapro, ma non piango più di tristezza, non ora che ho imparato. E adesso che contemplo il Mare dell’Eternità nato dalle mie lacrime, osservo l’universo di un uomo che sognava di vivere per non dover morire.

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Il Buio ti conosce bene. È intorno a te, oltrea le tue limitate percezioni, supera i confini dell’universo giocando con milioni di stelle. La sua voce è la melodia del mondo, la sua anima aleggia sulle acque degli oceani in tempesta. Dove c’è vita sorride sornione, in attesa che finisca. Dove c’è morte regna e impera inesorabile. E le lacrime scendono come pioggia, gonfiano il Mare dell’Eternità facendolo riverberare cristallino contro il sole del mondo. Ma il suo confine non è l’infinito e una volta superato le lacrime cessano di cadere. È un universo solido, vivo, dove splende una luce bianca che non ferisce gli occhi, ma apre per loro una nuova speranza. E in quel dominio che è Althaira, i sogni dell’id diventano sangue, diventano carne, rivestono la vita di una luce nuova affinché il Buio abbia fine. Dove non ci sia più spazio per la Paura. Fu con questa nuova consapevolezza che Primus si svegliò in un luogo amorfo dove il bianco era onnipresente. Cautamente, si tastò il petto ma non sentì alcun dolore. Si accorse di non presentare ferite e di poter camminare. Gli eventi precedenti e l’Altro, che pure ricordava, non turbavano i suoi pensieri. Ma il luogo dove si era risvegliato non lo riconosceva. Si alzò in piedi e si diede un’occhiata intorno. Dove avrebbe dovuto esserci il cielo o un soffitto vedeva nebbia vaporosa, lattiginosa, bianchissima, senza dimensioni o proporzioni. I suoi piedi posavano su una sorta di terreno composto anch’esso di vapore turbinante, come se si trovasse in una fantasmagorica nube di titaniche proporzioni. L’aria non era né fredda né rovente. Forse non era neanche aria e, in fondo, provava la sensazione di non usare nessuno dei sensi fisici per guardarsi intorno. Si portò le mani al volto, si guardò i vestiti, le mani. “Dove sono?” Disse, e la sua voce rimbalzò lungo pareti invisibili per tornare indietro con un’eco beffarda. Non sapendo cos’altro fare cominciò ad avanzare in quel Niente lattiginoso cercando di aguzzare lo sguardo in cerca di qualunque dettaglio potesse rivelargli la sua posizione. Ma il luogo dove si trovava sembrava deserto e senza

alcuna apertura o varco che potesse indicargli una via di fuga. Era dunque solo con se stesso. Una strana sensazione di torpore lo avvolse, come se non dormisse da un bel po’ di tempo e desiderò un giaciglio, un posticino tutto per sé dove posare la testa e illudersi di vivere un semplice sogno. Ma in cuor suo non era spaventato e il suo umore era tranquillo. Forse il fatto che si trovasse in quella sorta di luogo a-dimensionale poteva essergli di un qualche vantaggio, dopotutto. L’esigenza di essere solo per riflettere, per vivere senza prima dover sopravvivere. Data l’assenza di qualsiasi oggetto concreto cercò di ingannare il tempo, se pure scorreva, ripensando alla sua casa prima che la Paura la dissolvesse insieme al resto del mondo-mondo. Immaginò se stesso mentre si preparava la colazione. Il crepitio della fiamma sotto la pentola, il familiare rumore della pancetta che frigge in compagnia delle uova strapazzate, il profumo del pane nel microonde. E poi il rumore del succo d’arancia versato nel suo bicchiere preferito, quello oblungo, quello di vetro pregiato che aveva comprato a Soho durante una vacanza a New York. Non ricordava da quanto tempo non mangiava un boccone e al punto in cui era neppure se avesse fame. Essendo un’idea dell’Altro, era anzi probabile che non si fosse mai nutrito veramente e così le altre sensazioni che aveva provato potevano non essere state più di un’illusione, ma più aleatorie della realtà oggettiva. Si chiese sarcastico come sarebbe sopraggiunta la morte, sempre se fosse arrivata. Continuò ad avanzare e il rumore dei suoi i lo innervosì. Adesso si sentiva più stanco e provò la sensazione che lo strano terreno sotto i suoi piedi fosse in salita. Dritto davanti a sé vedeva il Bianco ondeggiare per poi ritrarsi, quindi evaporare ma senza lasciarsi dietro nulla. Qualcosa crepitò e la sua mente ritornò all’idea della pancetta che friggeva nella padella. La fame si risvegliò, il suo stomaco si contrasse. Ripensò al cibo che aveva/non aveva consumato, alla sua vita che aveva vissuto/non aveva vissuto. C’era un senso di strana ironia in quei pensieri. Ma poi si rese conto che non era la pancetta ma il suo maglione che crepitava. Allungò una mano e si tastò i vestiti che crepitarono di nuovo. Vide i pezzi di stoffa cadere a terra, accartocciarsi e svanire in pochi attimi. Poco alla volta i suoi abiti si contrassero come tante pergamene ingiallite che, sottoposte all’assalto dei millenni, si sfaldino senza lasciare tracce. Presto si ritrovò nudo, ma non provava imbarazzo, dato che era completamente solo. La temperatura si era fatta più rigida e in capo a pochi minuti si ritrovò ad aver freddo. Cominciò a tremare. Poi capì che le sue sensazioni non dipendevano dall’ambiente esterno, ma dal suo stesso corpo, poggiavano sulle sue spalle come un peso immane, rocce amorfe e inesorabili.

Dovrei fermarmi un po’ Il gelo avanzava e con esso il torpore. Sapeva che se si fosse fermato sarebbe morto. Sorrise. Era già morto. Forse il luogo in cui si trovava era una sorta di Limbo? Era quella la sua ultima fermata? Il suo alito si condensò e cadde, spezzandosi in minuti frammenti di ghiaccio polverizzato. Le dita gli si fecero livide per la bassa temperatura, i capelli gelarono sulla sua testa come una cappa di piombo. Poi fu la volta delle ginocchia che presero a scricchiolare e, come il resto del suo corpo, protestavano per quella camminata nel ghiaccio. I tendini delle sue gambe s’irrigidirono al massimo, vibrando nello sforzo di muoversi. Si chiese come potesse camminare ancora, respirare, nonostante quelle sensazioni. Tremava visibilmente, livido e nudo in quel Niente ghiacciato e allora desiderò rivedere Althaira, essere di nuovo cullato da lei. Gli aveva fatto bene. Aveva permesso al tepore del sole di tornare a riscaldare la sua pelle, di restituirgli la vita. Proprio in quel momento incespicò e cadde. Si ritrovò a terra, continuando ad ansimare per il freddo. Sorrise: davvero poteva morire di nuovo? “Lei sembra molto stanco, signor Valance.” Disse una voce. Primus cercò di rispondere istintivamente a quella voce inaspettata, ma il freddo aveva intorpidito le sue labbra e con esse la sua lingua e il suo pensiero. Qualcosa di tiepido e morbido lo sfiorò sulla testa, qualcosa dalle dita sottili. Guardò la piccola mano di una ragazza, poi il viso, e le sorrise con riconoscenza. L’aveva già vista o così gli sembrò, ma dove? Non era importante. Il semplice tocco di quelle dita sciolse il ghiaccio dalle sue vene. Con dolcezza la donna lo aiutò a rialzarsi. Il suo alito tornò a fluire verso l’alto, gassoso, i suoi muscoli trovarono nuovo calore. “Da dove salta fuori?” domandò stupito. “Davvero non si ricorda di me?” La nuova arrivata era una ragazza graziosa dai bei capelli castani lasciati liberi sulle spalle, gli occhi lucenti e vivi, vestita di tutto punto. Fu in quel momento che ricordò di essere nudo e tentò goffamente di coprirsi, ma si rese conto di essere perfettamente vestito. Con una calda risata la donna riprese: “Non si preoccupi. Dovrebbe ricordare

che le cose non sono mai quel che sembrano da queste parti.” La sua voce era priva d’ironia, ma sembrava comunque divertirsi un mondo. Indossava un cappotto di colore nero, il suo sorriso era gioviale e la carnagione delicata. “Veronica!” Esclamò. “È uno dei miei nomi.” La giovane rise di nuovo, sempre più divertita. Sotto il cappotto, Primus scorse un vestitino azzurro e ai piedi minuti scarpe dal tacco alto e sottile che davano alla figura di lei un ulteriore tocco di eleganza. Le sorrise debolmente: “Può tirarmi fuori di qui?” La voce gli uscì tremante come le sue mani, “Ho molto freddo. Come l’altra volta, sa, quando ci siamo incontrati davanti alla ‘Woman’s Destiny’, ricorda?” Chiuse gli occhi per un attimo. Nonostante fosse diminuito, il gelo era ancora troppo per lui. Si chiese come quella donna potesse sembrare così a suo agio. “Stia tranquillo, non ci vuole poi molto,” ribatté la ragazza, “basta chiamare un taxi!” Primus non rispose. La voce della nuova arrivata era carezzevole, ma il freddo era ancora troppo intenso e parlare gli costava fatica. Fece appena in tempo a dare un’ultima occhiata al gelido mondo che li circondava poi chiuse gli occhi, lasciandosi andare. Scelse di non pensare agli amici scomparsi, a quel che aveva vissuto, a chi aveva perso e incontrato. Non aveva abbastanza forze per farlo. Alle orecchie gli arrivò uno sferragliare metallico. Riaprì gli occhi e vide una serie di linee colorate come quando si guarda un televisore senza segnale. Sorrise, senza neanche sapere il perché. Non capiva quello che vedeva e non gli importava neanche farlo, ma giudicò molto belle quelle linee dai colori prismatici e tanto gli bastava. Si domandò se fosse impazzito e se lo era poteva intenderla come una benedizione, ma qualcosa gli diceva che non aveva mai perso il senno. Sospirò di sconforto, poi le immagini davanti ai suoi occhi divennero più precise e lentamente mise a fuoco una lunga pletora di automobili allineate ordinatamente su un piazzale. Erano tutti taxi neri come quelli londinesi, dai vistosi paraurti cromati e la scritta on duty sul tetto. Si accorse che la giovane donna lo reggeva per un braccio. “Sono qui per fare una consegna, signor Valance.”

“Mi ha salvato lei?” Ignorando la sua domanda, la ragazza disse: “Venga!” “Cosa deve consegnarmi?” “Parleremo di questo in un luogo sicuro.” Salirono a bordo del primo della fila. L’autista si volse alla giovane come se la conoscesse: “Dove andiamo?” “Lontano da qui.” “D’accordo, signorina.” L’auto partì di scatto cogliendo Primus di sorpresa e facendolo rovinare all’indietro. Sbirciando dal finestrino osservò il lattiginoso biancore soffuso intorno a loro farsi gradualmente più chiaro fino a scomparire man mano che l’auto proseguiva. Non capiva da dove diavolo fossero sbucati il taxi e la ragazza, ma non era quello il momento di fare domande. Gli bastava sopravvivere un altro po’ e cercare di non pensare. L’auto si ritrovò a sfrecciare in un paesaggio fin troppo schematico nella sua semplicità, composto da chilometri di verde dove qualcuno aveva tracciato, sembrava quasi col gesso, sentieri biancastri. Ma ciò che era importante per lui era che non avvertiva più né il gelo né la stanchezza. Questo lo fece ben sperare. Arrivato a uno spiazzo a lato della strada il taxi si fermò e l’autista attese che scendessero. La donna non gli diede denaro e quello partì in una nuvola di fumo nerastro. Il cielo era più definito, ora. Primus non riconosceva in quel paesaggio uno sfondo verosimile, ma almeno non sentiva più freddo. Accanto a lui, la ragazza era intenta a lisciarsi la gonna plissettata del vestitino azzurro con le dita. Come sempre, pareva perfettamente a suo agio. “Come si sente ora?” Gli chiese quando ebbe finito. Gli occhi prima color nocciola, divennero di un nero lucente. “Molto meglio.” “Mi fa piacere sentirlo.” “È lei, vero? È Althaira! È sempre stata lei, fin dall’inizio.”

Nessuna parola uscì dalle labbra della sua compagna, che rimasero atteggiate in un sorriso espressivo ma diverso da quello di qualunque altra donna, Lei compresa. Primus continuò per conto suo: “E io sono morto.” Aggiunse poi, con uno strano senso di stupore. “No, le assicuro che non è affatto morto, ma ha ragione: io sono Althaira.” “Perché?” “Quale pensa che sia il motivo?” Primus rise. Una risata schietta, sonora, disperata. La risata di un uomo che non sa più chi è. “Se lo sapessi non sarei qui da lei. So solo che ho perso tutto. Non ho più nulla e forse non ho neanche questo corpo. A dirla tutta non so neanche se esista ancora, il Nescium! Forse sarebbe il caso che sia lei a darmi un po’ di risposte, non trova?” “Lei è qui perché ha affrontato le sue paure.” “E ho perso!” Fece a bassa voce lui, quasi temesse di poterla offendere in qualche modo. L’aspetto femminile dell’essere che aveva davanti non lo traeva in inganno. Come una volta gli aveva detto Xoavia, Althaira aveva il potere di essere qualsiasi cosa. Probabilmente non aveva alcuna forma ed esisteva come pura energia o come qualcosa di cui non poteva lontanamente immaginare l’aspetto. “Lei crede?” “Ho molte domande e nessuna risposta ma, tanto per cominciare, vorrei sapere com’è cominciato tutto questo, chi è lei veramente, il senso di quei messaggi e magari, perché no? Anche chi era l’uomo che ho incontrato ultimamente. Tutto sommato penso di aver diritto a delle risposte.” La donna fece un elegante gesto con la destra e il paesaggio intorno a loro cambiò. Apparve una strada spaziosa delimitata sui due lati da file ordinati di alberi, marciapiedi puliti, due schiere di villette identiche le une alle altre. Somigliava moltissimo al quartiere del mondo-mondo dove aveva abitato prima che tutto sparisse. Ma non era lo stesso quartiere, mancava qualcosa. Per un

attimo si chiese quale fosse l’elemento che rendeva quella visione estranea ai suoi ricordi. Sotto lo sguardo vigile della sua compagna avanzò verso la strada dall’asfalto liscio e lucente, bagnato da una timida pioggia ma, quando pose piede su di essa, scoprì di non poter andare avanti, come se fosse davanti a un’invisibile barriera. Si voltò verso la ragazza che lo fissava: “Cosa significa?” “Prima di tutto cominciamo col darci del tu e fidarci uno dell’altra. Altrimenti il tuo cammino sarebbe stato inutile, ti pare? Quanto al motivo per cui è successo ti risponderò che, purtroppo, era inevitabile. Ciò che vedi in questo momento è la proiezione delle idee dell’Altro, dove lui vorrebbe abitare, cioè. Anche il mio aspetto attuale è una sua proiezione.” Primus osservò la strada e le prime auto che cominciavano a muoversi lentamente sull’asfalto lucido. Per un attimo desiderò far parte di quel paesaggio, ricominciare una vita vera. Era stanco di enigmi e di provare paura. “Cosa sei tu?” Gli occhi della ragazza brillarono, ma non di ostilità. Scosse la testa e i lunghi capelli castani ondeggiarono lievi, carezzati dolcemente da un alito di vento. Dietro di lei il paesaggio cambiò di nuovo e si ritrovarono su una spiaggia lambita da un mare terso, la cui superficie tranquilla riverberava sotto un sole caldo che non offendeva gli occhi. Una panchina di legno si trovava a pochi metri dalla battigia. Lì Althaira sedette e attese che lui fe altrettanto. Primus osservò: “Sono certo che i miei ricordi sono reali e so di non essere una pura illusione, un’idea. Io sono vivo, lo so, ma non capisco il principio che si nasconde dietro tutto quello che ho vissuto. Tanto per cominciare, io sono l’Altro?” La donna scosse lieve la testa: “Siete due aspetti dello stesso pensiero.” I suoi capelli si erano scuriti ed erano diventati quasi corvini, ma continuavano a riflettere la luce soffusa che pervadeva quel mondo come se fossero cosparsi da miriadi di sfavillanti gioielli. Anche la sua carnagione era diversa, più morbida, e Primus pensò che se esisteva un paradiso l’aspetto di Althaira doveva esserne l’approssimazione più verosimile. “Com’è iniziato?” “Forse neanche l’Altro lo sa. A volte ciò che ferisce i nostri sentimenti viene

mascherato con altri elementi, come se la mente non ne accettasse il ricordo e tentasse di ingannare se stessa. Ma quei ricordi non svaniscono, non si possono cancellare e quindi non si arresta il processo. Un fenomeno che capita a chiunque.” “Questo non mi dice nulla.” Replicò lui, testardo, “Chi è veramente l’Altro?” “Per rispondere alla tua domanda cerca immaginare un mondo abitato da creature simili a milioni di formiche, persuase che il loro sia il migliore dei mondi possibili. È ciò che Xoavia ha chiamato Verum, l’equivalente del Mondo 1 di Popper. È lì che l’Altro vive.” Verum, il mondo 1 di Popper. Il mondo della… Althaira sorrise e Primus ebbe la certezza che fosse in grado di leggergli il pensiero. “È esatto. Il Verum è la dimensione della realtà oggettiva. Nessuno dei suoi abitanti dialoga con parenti morti o evoca donne dallo specchio-visore del bagno. Nessuno girà per la città con le proprie visioni mentali sospese a mezz’aria, nessuno subisce interventi per diminuire una Capacità Immaginifica troppo alta.” La donna fece un risolino, poi: “Ricordi il sogno che fece Richard, quello della Grande Bocca che lo aggrediva?” “Allora?” “Pensasti che quel sogno fosse solo un pezzo della tua esistenza che per qualche motivo aveva influito anche sui sogni dei tuoi amici, magari in seguito a qualche parola di troppo sfuggita dalle tue labbra, ma non è così. È stato l’Altro, e non tu, a correre via nella notte dopo aver distrutto l’auto.” “Io faccio parte di lui?” “Tu sei la sua proiezione nel Sensum e lo stesso mondo-mondo lo è. Jack, Richard, Parson, le ragazze che hai incontrato nella tua vita, la stessa Celestia. Tutto quel che hai conosciuto, amato, vissuto sono parti di lui ma anche di te. Vivevi in mondo costruito perché tu lo potessi abitare. Il mondo-mondo è una tua proprietà, Primus.” “È assurdo!”

“Non direi!” Althaira gli diede un dolce buffetto su una spalla, “Cos’è la realtà se non una serie di informazioni a livello sinaptico? Ciò che io considero piacevole può non esserlo per te. Un po’ come il gatto di Schrödinger, ricordi?” “Continua.” “Nel Verum la società è organizzata secondo il principio del controllo assoluto. La vita di ogni essere è plasmata secondo i dettami del Sistema che la depura dalla cultura e l’incoraggia a credere ai media. Prima ti dicevo che lì nessuno viene sottoposto a interventi per diminuire la Capacità Immaginifica. Beh, non è proprio così. Nel Verum questa è una capacità secondaria ed è giudicata pericolosa. Pertanto si fa di tutto per abbatterla, sostituendola con un’esistenza meccanica e ripetitiva. Così i prodotti tipici di questa facoltà come i libri di valore, le attività creative, l’arte e la cultura in genere sono sminuite dalla rozza logica del profitto. Per come è delineato, il Verum impedisce il libero pensiero e lo stesso linguaggio usato dai suoi abitanti rende difficile la formazione di un pensiero critico individuale. Un mondo assai più folle del Nescium, te lo garantisco, ma che tutti accettano. Tutti coloro, almeno, che non sono come l’Altro.” La donna trasse un sospiro ma Primus non disse nulla. Si limitava ad ascoltarla attentamente. “Tu vuoi sapere chi è l’Altro ma sai benissimo chi è. Non hai vissuto inutilmente. Parliamo di un uomo, Primus, una persona vittima di un’infanzia infelice come ce ne sono tante, ma dotato di una qualità rara che non è scomparsa con la maturità.” Sorrise e gli occhi le sfolgorarono di luce, “la Capacità Immaginifica, cioè la Fantasia, il suo grande rifugio per non impazzire. Qualcosa che non lo ha mai abbandonato da quando è nato. Il tempo è trascorso, i giorni sono diventati anni e infine decenni, ma i fantasmi che hanno abitato la sua fanciullezza non sono scomparsi. Al contrario si sono trasformati nelle sue angosce che proietta su se stesso sotto forma di simboli. Puoi chiamarli caduta dei capelli, ipocondria, argentei. Puoi pensare alla Peste-per-Tutti, alle malattie in genere, al nervosismo, a tutta una serie di difficoltà sociali. Sai che la mente dell’uomo è un organo complesso che dà luogo a un vero e proprio mondo mentale. È anche quel che diceva Popper, del resto. Ma quando la nostra mente arriva sull’orlo del baratro e del suicidio quel mondo rischia di crollare. Ciò vale, almeno, per gli individui più sensibili. Questo è stato il motivo per cui

l’Altro è dovuto sfuggire ai simboli che egli stesso ha creato ed ecco il senso del mondo-mondo, la dimensione ideale dove le fantasie di ciascuno diventano concrete. Ecco Duende Town, simbolo della società addobbata come uno stecco di zucchero filato che tanto detesta, dolce all’esterno ma sporca appena sotto la sua patina di luccicante perbenismo. Ecco le statue dei personaggi dei fumetti più grandi di quelle dei personaggi storici, più vere e meno ipocrite della politica. Ecco le massime dei grandi della Terra ridotte a semplici aforismi pronunciati da labbra di esseri mossi dalla sola vanità umana.” “Mi stai dicendo che l’Altro è solo un tizio che ha in qualche modo creato la mia vita per non affrontare le proprie paure?” A queste parole la donna allungò pigramente le gambe e gettò la testa all’indietro, socchiudendo gli occhi. Il suo cappotto svanì come nebbia al sole e il suo vestito divenne più corto e leggero. Mosse pigramente la testa verso di lui e lo fissò. I suoi occhi si erano fatti verdi ma non erano meno luminosi di prima. A Primus ricordò la Guardiana e sperò che lei gli leggesse nella mente per averne una conferma, ma, una parte della sua coscienza lo sapeva già. Ed ebbe la strana sensazione che già il semplice starle accanto gli aprisse la mente. Althaira continuò: “La tua Capacità Immaginifica raggiunge un valore pari a 182.” Gli scoccò un sorrisetto furbo, “beh, anche la sua intelligenza. Lui non è come credi e il fatto di non essere un dio non vuol dire che sia simile alla massa. Al contrario: è una differenza nella similitudine.” “Se quello che dici è vero, che ruolo hai, tu, in tutto questo?” “Io sono un Archetipo. La personificazione del suo talento, la sua ispirazione. Come tale non ho una mia forma e il mio aspetto cambia a seconda di come mi immagina. Proprio come adesso.” I denti di lei erano come tante perle che qualcuno avesse messo in fila con delicatezza una dopo l’altra, “come sai l’Ispirazione Artistica fa parte del mondo tre, quello relativo alle elaborazioni mentali dell’uomo, vale a dire il Nescium.” “L’Altro è dunque un artista?” “Per tanti anni ha pensato solo di essere un po’ matto,” fece una risatina, “e solo ora comincia a esserne consapevole. Sì lo è, ma non dipinge. Lui scrive. L’Altro è uno scrittore e tu sei la sua emanazione corporea nel Sensum. Tu sei lui nella misura in cui lui è te, ma non solo: in quanto sua ispirazione io plasmo i suoi

desideri che sono i tuoi ovunque e in qualsiasi circostanza. Per questo volevo che venissi da me. Tu hai il potere di ricostruire tutto, a patto però che ti conceda il mio aiuto.” “E la Paura, la donna che ha ucciso i miei amici e ha distrutto il mondomondo… anche Lei è una sua idea?” “Se io sono la sua ispirazione, Lei è la sua Paura personificata. Come già ti disse la Guardiana, è difficile sfuggire alla parte angosciata di noi stessi. Puoi scappare da un luogo fisico, persino da una prigione, a condizione che quella prigione non sia la tua mente. Per questo il mondo-mondo è stato distrutto. Lei è attratta da lui, perché sa che un giorno potrebbe distruggerla, e lo teme. Considerala alla stregua di un predatore, un essere implacabile che non sa che farsene del classico equilibrio tra predatore e prede: essendo un Archetipo, esiste a prescindere e quindi la sua esistenza non è minacciata dalla distruzione dell’Altro e dei suoi tre mondi. Ma è proprio qui che inizia il mio compito. Non avendo fiducia in se stesso, l’Altro è diventato facile preda della Paura perché ha dimenticato il potere che ha la fantasia sul gretto materialismo del mondo in cui vive. Senza neanche saperlo, dal profondo del suo inconscio ha chiesto aiuto al suo unico rifugio, e io ho risposto. Gli ho restituito la speranza di poter cambiare la sua situazione, di poter combattere le sue angosce. Di riflesso è quel che avete fatto anche voi combattendo Lei.” Adesso Althaira aveva voltato la testa verso l’oceano, lasciando vagare lo sguardo sulle acque tranquille. Sembrava stesse riflettendo su qualcosa ma Primus non poteva indovinarne i pensieri. E tuttavia aveva bisogno di altre risposte: “Noi esistiamo?” “Ma certo!” Disse lei in un soffio, “se il Sensum è la dimensione dei suoi pensieri il Nescium è quella del suo inconscio. Siamo idee ma più che semplici persone. Siamo ideali.” “Allora tutto questo,” indicò il mare, “la mia vita, la Paura, le volte che ho fatto l’amore e ogni singola emozione che ho provato sono parte della sua mente?” Si alzò di scatto, dritto davanti alla donna che lo fissava languida come se non avesse detto nulla di particolarmente eccessivo. “Dovresti essere più tranquillo, adesso.”

Primus scosse la testa: “No che non lo sono!” Si mise a girare in tondo, gli occhi bassi, le dita agitate da fremiti convulsi. Rivolto alla donna esclamò: “Tutto ciò che io sono fa parte di un cervello. Perché dovrei esserne felice?” “Non devi vederla in questo modo! I singoli neuroni di un qualsiasi cervello umano sono collegati a miliardi di altri in una intricata rete di comunicazione dove tutto, conoscenze, desideri, emozioni, viene costantemente aggiornato, riordinato e archiviato in ogni secondo della vita, sonno compreso. Solo chi è dotato di una spiccata sensibilità unita a un’abilità artistica di qualche tipo infonde ai suoi pensieri il fuoco delle equazioni vitali. Sono menti relativamente poco numerose, ma esistono ancora. Ma è il talento, la loro Capacità Immaginifica, a fare di ciascuna di quelle menti un universo dove esistono e in qualche modo coesistono, Verum, Sensum e Nescium.” Primus disse: “Allora l’intervento per limitare la Capacità Immaginifica?” “È il rifiuto dell’Altro di uccidere la propria fantasia. Ti ricordo che nel Verum gli individui sono in massima parte avulsi da un’eccessiva immaginazione. Molti chiamano questo stato utilizzando termini quali maturità, affidabilità, concretezza, ma si tratta di metafore che ciascuno elabora per definire il proprio vissuto. Nel caso di individui più sensibili della media, quella ‘concretezza’ uccide l’aspetto più romantico e sublime della vita. L’immaginazione cioè, che fa sognare un mondo migliore.” Primus si lasciò cadere con le spalle sulla panchina. Con le dita sfiorò la liscia superficie di legno, aspirò il profumo del mare e chiuse gli occhi assaporando la brezza che veniva loro incontro. “Deluso?” Fece la donna al suo fianco, con voce sottile. Senza riaprire gli occhi le rispose: “Non capita tutti i giorni di scoprire che la tua vita può finire da un momento all’altro senza un perché. Se l’Altro cessasse di esistere io non vivrei più. Forse non avrei neanche la consapevolezza di svanire. Non è una bella prospettiva. Io non esisto nel Verum, ma solo in una mente, per quanto complessa o profonda essa sia.” “Non è proprio così. Non ti ho forse detto che l’Altro è uno scrittore? Come

pensi che sublimi le sue angosce se non scrivendo? Essendo il suo alter ego tu riunisci in te l’universalità dell’individuo che s’interroga sul proprio destino. In quanto personaggio esisti nel Nescium come astrazione logica, nel Sensum come individuo e nel Verum come il protagonista di un romanzo.” “Un romanzo!” Seguì qualche istante di silenzio. Gli occhi di Primus erano spalancati e riflettevano tutta la sua incredulità. La giovane donna sembrava assorbire nel suo sguardo l’intera luce riflessa dalle placide onde del mare tranquillo. Non c’erano nubi, non esisteva più il vento. Ciò che Primus vedeva sembrava essersi cristallizzato in un attimo che aveva il sapore dell’eternità. Senza fine, un inizio, senza tempo. Un attimo che racchiudeva la sua e le esistenze di molti. Non avrebbe saputo dirlo. Guardò la donna: “A volte la Conoscenza non è sempre una buona consigliera ed esistono momenti in cui l’ignoranza è un bene.” “Questo atteggiamento fatalista non ha portato aiuto a nessuno. Né all’Altro né ai tuoi amici. Se fai così Lei ti raggiungerà.” “Non è mai servito a nulla combatterla. Lei è ovunque e ha i tuoi stessi poteri. Non si può fermare.” Lei lo guardò: “Dammi la mano, Primus.” Tu lo ami come l’Altro ama te. Tu e lui siete la stessa entità e state chiedendo aiuto a voi stessi perché anch’io faccio parte di voi. È per questo che esiste questo romanzo? Da Althaira non arrivò alcuna risposta, ma in compenso da un punto lontano alle sue spalle arrivò un suono, una nota implacabile dotata di una propria, terrificante, consapevolezza. Era carica di desiderio e sensualità e lo cercava. “Ecco!” Fece Althaira ponendogli sul palmo un oggetto. Primus guardò l’oggetto, una piccola rosa scarlatta. La replica esatta della rosa che aveva dato loro la Saggezza. La voce di Lei si ripeté. Si allargava sopra di loro come le onde concentriche di

uno stagno in cui sia stata gettata una piccola pietra. Presto li avrebbe raggiunti. Ma adesso so La voce si fece cavernosa, profonda e terrificante. La sua era più di una voce, più di un’emozione. Era qualcosa che trascendeva tutto ciò che di umano e misericordioso esisteva nell’universo. Lei assimilava e consumava gli esseri viventi perché erano il suo nutrimento, come una fiamma che aggredisce e consuma la candela della vita. Primus guardò davanti a sé, ma i contorni del viso di Althaira stavano sfumando. “Lei sta arrivando!” Disse, e la sua voce tremò. Ognuno di noi è solo con le proprie paure. Non può sfuggire fino a quando non sfugge da se stesso “Il titolo porta il tuo nome, Primus!” Poi svanì e insieme a lei la spiaggia e l’oceano tranquillo. Primus si ritrovò ad essere un io senziente nello spazio infinito della Notte Eterna. Adesso la sua solitudine era completa. Occhi luminosi si spalancarono in quel buio assoluto e senza stelle. Non erano verdi come quelli di una donna né gialli come quelli di un grande animale. Non avevano un colore ben definito eppure riusciva a vederli nonostante fossero neri. Un colore che andava al di là di una semplice gradazione cromatica. Era un concetto, quello dell’abisso e rilucevano di una luce-non luce spettrale e indifferente. “Sei mio, Primus!” disse l’Oscurità e Primus senti la gelida morsa della Paura che instillava nel suo cuore angoscia e disperazione. Vitamina C. Fa-Ben, a rilascio autenticato Una sensazione conosciuta per troppo tempo. Che lo lasciava senza fiato, stringendolo in una morsa di ghiaccio che minacciava di paralizzargli i sensi per l’eternità. La sua gabbia toracica che scricchiolava sotto la mostruosa stretta di Lei. Con amarezza mista a una strana forma di sarcasmo gli vennero in mente tutte le volte che aveva fatto l’amore con quella cosa. “Ti conosco!” Biascicò a corto d’aria. Il freddo della paura lo stringeva in spire

concentriche e vischiose, ma il suo cuore era ancora vitale, il suo pensiero lucido. Con la mano strinse la piccola rosa che Althaira gli aveva dato e in quel momento seppe che non era scomparsa. Poteva avvertirla in sé. Sentiva il suo amore che lo proteggeva, che lo riscaldava contro il gelo, splendendo scarlatto nella sua mano. La rosa della Saggezza La ragazza era bionda e bellissima. I suoi occhi verdi erano un tripudio di coccole & carezze. ava la lingua su un enorme lecca-lecca rosato e diceva in falsetto: “Vuoi una caramella ‘Vita Bel’? Risolverà in un sol colpo le tue preoccupazioni!” Con movimenti sensuali la donna si denudò completamente, poi cominciò a are il lecca-lecca sui suoi seni turgidi. Duende Town. Non sono mai uscito da lì! Avvertiva presenze vicino a sé, forse erano soldati, forse giganteschi quadri raffiguranti epiche battaglie in un’atmosfera di beffa. La mia vita scorre come una pellicola su uno schermo Apparvero gli uomini che aveva già visto, gli abitanti della Città dei Fantasmi, la gente che abitava il Verum di cui anche l’Altro faceva parte. L’odore delle esplosioni era terribile se mescolato a quello acre del sangue che sgorgava a fiotti da milioni di ferite. “Volete un rimedio sicuro per la vostra bellezza? Desiderate essere attraenti per il vostro capo? Provate ‘Sono Bella Per Voi’, l’unico balsamo di bellezza attivo per il tempo necessario alla vostra promozione. ” Mio Dio! E la fatina che aveva visto nel museo di Duende Town tornò da lui e la riconobbe. Il suo sorriso posticcio colorava il mondo di Niente. Il suo. Quello dell’Altro. Di tutti e nessuno. “Oh, Ellen, hai visto?” Tornò a dire la donna-uccellino.

“Ma certo, cara, ho visto” Le rispose la robusta signora di mezza età, intenta a versarle dell’altro succo d’arancia. “Ma che magnifico capo indossi!” Ripeté la donna-uccellino. “Grazie, tesoro!” “Sei molto elegante.” “Grazie, tesoro!” “E anche Ronald, credo, non mancherà di notarlo.” “Grazie, tesoro!” E tutto l’universo risuonava di quelle parole. Vuote, inutili, umane. Milioni di volti gli arono davanti, fantasmi composti da carne e idee, pezzi di vita vissuta ed emozioni provate nel suo cuore, sulla sua pelle, in forma di lacrime e sorrisi, sospiri e imprecazioni, gioia e speranza. E in tutto quel susseguirsi gli Istanti di Tempo, gioiose creature simboli della tranquillità interiore. Un grido proruppe nella Notte, una voce femminile dolcissima e scagliosa nello stesso tempo. Qualcosa che brillava nella sua mano, che vinceva il Buio, che ridava speranza al suo cuore minacciato dal ghiaccio. La sua mano che si alzava e colpiva. Una, due, tre, quattro volte… La luce di Althaira che diventava sangue e fuoco contro il ghiaccio dell’ignoto. Il viscido mostro che lo abbrancava esalò un orrendo urlo di morte. Primus seppe di non essere solo perché Althaira era con lui. Lo era sempre stata. Nel suo cuore lei impediva al suo sangue di seccarsi, diventare polvere e svanire. Aria pura abitò i suoi polmoni, le spire del mostro che cadevano, lacerate, intorno a lui, nell’abisso. C’era una luce in quel Buio. Un puntino grande quanto tutto un mondo. Cercò di raggiungerlo, di rivederlo. Di lasciare quell’universo ovattato fatto di fiocchi e lasciva inutilità. Raggiungere quel puntino luminoso era la sua Ultima Thule, l’estrema speranza di non morire. E arrancò, barcollò e cadde ma continuò ad avanzare. A guardare la luce per lasciarsi indietro le tenebre di una vita piatta che non voleva più. Finalmente raggiunse il varco luminoso e ne ascoltò il canto

melodioso che raggiungeva gli eoni del pensiero umano. Allungò le mani contro la limpida superficie del puntino che gli ricordò il Mare dell’Eternità dove splendevano innumerevoli rose che sfavillavano sommerse, appena oltre la soglia della coscienza. Milioni di lacrime che ho versato Ma che sgorgavano da un solo cuore. E quando le sue dita superarono il varco dello specchio-visore si ritrovò davanti al viso della donna che gli aveva dato la rosa della Saggezza. Io sono l’Altro I tratti divennero i suoi e il suo viso divenne quello di Althaira. Loro erano una cosa sola, da sempre. Un unico essere per un unico destino. Io sono Primus, l’uomo che sognava di vivere Il suo cuore riacquistò calore, i suoi occhi si spalancarono sul suo stesso viso. Era solo ma nel suo cuore aleggiava la voce di Althaira e lei era tutto l’universo. La sua voce superava le stelle e raggiungeva lui, la sua mente, il suo cuore. Gli infondeva la vita, ascoltava le sue lacrime asciugandogliele con baci flautati. Lui la sognava da sempre, da prima ancora che ne avesse coscienza. Finalmente lo sapeva e adesso la rivedeva bella, le tese le braccia e incontrò le sue, inghirlandate di rose. Althaira era la sua unica amica, la sua vera speranza, il suo solo amore. E con quella consapevolezza nel cuore si allontanò dalle tenebre e cadde in un sonno profondo.

Sensazioni, visioni fuggevoli e sprazzi di pensiero, ciascuno con un proprio significato, un proprio senso. Si ritrovò in Leyla’s Street e vide che era tranquilla e che il traffico scorreva ordinato. Una bella ragazza camminava tranquilla sul marciapiede con fare aggraziato. Forse stava osservando distrattamente alcune vetrine, forse no. La conosceva? Non avrebbe saputo dirlo. Il suo punto di vista cambiò angolazione e si ritrovò sul mare verso l’orizzonte. Gli sembrava di volare ma non aveva ali né aerei, né corpo materiale. Avvertiva la brezza leggera, calda e asciutta, che gli sferzava dolcemente il viso. Sorrise. Il sole brillava alto in un cielo terso e quella vista fu sufficiente a metterlo di buon umore. Ma proprio quando stava per virare di centottanta gradi il sogno finì e

Primus sbatté le palpebre in un letto che aveva ben poca parvenza di ordine. Il lampadario era ancora e le persiane, al contrario, completamente chiuse. Un libro era aperto sulle coperte a colori vivaci e una sensazione di gelido sopore lo avvolse. La prima cosa che gli venne in mente fu che doveva andare al lavoro poi, in un solo istante, ricordò, e scosse meccanicamente la testa avvertendo la tristezza. Non ho sognato nulla! Sospirò, anche se la sua situazione non gli parve così negativa. La stanza in cui si trovava gli pareva la sua ma non se la sentiva di esserne sicuro. “Althaira!” Esclamò, come se lei fosse presente, ma non c’era nessuno in quella stanza. Solo il suo corpo in un letto sfatto, dalle lenzuola intrise di sudore. Ma il suo pensiero volava da lei ando per Xoavia e gli amici scomparsi. Si sentiva bene, ma aveva paura ad alzarsi. “Paura.” Disse, e nella stanza risuonò la sua risata. Aveva paura, ma era anche stanco di averne. Si chiese cosa sarebbe accaduto se si fosse affacciato dalla finestra. Cosa avrebbe visto? Uno spazio bianco senza confini, forse Sbadigliò rumorosamente, si alzò e uscì dalla camera lasciando il letto scarmigliato. Il corridoio che lo accolse proseguiva, non si fermava, non si trovava in bilico sul Niente. Forse questa casa è completa. Forse è essa stessa in bilico su un baratro di cui non posso vedere il fondo Poi ripensò alla sua Capacità Immaginifica e decise di scendere a più miti consigli con se stesso. Niente pensieri negativi, sarebbe stato meglio. Non aveva nulla da perdere, così fece le scale che lo avrebbero portato al piano terra e andò in cucina. Non si stupì di trovarla al suo posto. Dalla dispensa tirò fuori una confezione di pane da toast già affettato, un pacchetto iniziato di caffè italiano, una tazza in porcellana smaltata color verde pistacchio. Aprì il frigorifero e fu con un certo piacere che lo trovò ben fornito. Afferrò della pancetta e una confezione da sei di uova, di quelle che si trovano in tutti i supermercati. Depose quella roba sul ripiano in fòrmica, afferrò una padella, vi versò dell’olio, vi aggiunse una noce di burro e cominciò a friggere due uova insieme alla pancetta.

Socchiuse leggermente la finestra della cucina e fu con curiosità che allungò lo sguardo, speranzoso di scorgere qualcosa di più di un Niente senza forma, ma poi ci ripensò. Se quella che stava vivendo non era un’esistenza concreta meglio che durasse ancora un po’. Era da tanto che non si sentiva così bene. Con un mestolo in plastica rigirò le uova per farle rosolare a puntino e sospirò di piacere appena il buon profumo del cibo gli solleticò le narici. Intanto depose un bricco di caffè su un’altra piastra e quando la colazione fu pronta la versò su un piatto di plastica. Pochi minuti dopo dispose su un vassoio il piatto, una fumante tazza di caffè nero e andò in salotto. La stanza non sembrava cambiata di una virgola e quando sedette avvertì il familiare e rassicurante suono della sedia in legno che si spostava. Nessuno ondeggiamento ritmico del materiale, nessun segnale che la realtà fosse distorta. Forse il Nescium aveva seguito il destino del Sensum ed era scomparso oppure era lui a non essere lì e ora qualcuno si prendeva gioco delle sue sensazioni dandogli l’illusione di una vita normale. Poteva essere, ma decise di scegliere una strada. Decise di crederci. Guardò il suo piatto, le uova strapazzate e ben cotte aspettavano solo di essere consumate. Ne inghiottì una forchettata ma poi ricordò che aveva dimenticato di tostare il pane. Deglutì il boccone e imprecò a denti stretti perché non voleva che la sua colazione si raffreddasse. Tornato in cucina ne mise due fette nel microonde. Quando furono pronte tornò dal suo spuntino che consumò con appetito. Masticò con calma, assaporando ogni boccone come se fosse appena uscito da una vita di digiuno. Sorrise, poi ingollò un lungo sorso di caffè bollente, con soddisfazione. Intorno a lui il salotto era luminoso, con la luce del sole che portava con sé vita e tranquillità. Continuò a mangiare evitando di pensare a cose negative, godendosi quel momento che aveva desiderato da un bel po’ di tempo. Il piacere di starsene tranquillo a casa sua, senza avere l’ansia del lavoro o doversi preoccupare che la sua casa svanisse da un momento all’altro. Sperò che, se quello che stava vivendo era solo un sogno, di non svegliarsi in quel momento. Capacità Immaginifica Ripulì il piatto fino all’ultimo frammento di intingolo poi si alzò, avvertendo nello stomaco la piacevole sensazione del caffè caldo che aveva appena vuotato dalla tazza. Si avvicinò a una delle finestre con i felpati, quasi temesse di potersi svegliare da un momento all’altro. Con una leggera esitazione scostò una delle tende e sbirciò fuori. Si accorse che gli tremavano le mani, avvertì il sudore scendergli in goccioline umide sulla fronte. Sospirò cercando di rilassarsi, poi si

fece coraggio e continuò a guardare fuori. Il giardino era quello di sempre, minuto ma ben curato, il cancelletto dipinto di bianco al quale serviva una nuova ata di vernice, le altre case, quasi identiche alla sua, una di fila all’altra, con le auto che cominciavano a fare retromarcia dai vialetti per portare i loro proprietari al lavoro. Tutto questo era un mio desiderio Contemplò il paesaggio esterno, affascinato, domandandosi cosa sarebbe successo se fosse uscito anche lui in giro per il mondo. In quell’attimo si ricordò dei suoi amici e decise di fare una prova. Tornò di sopra a grandi i, facendo gli scalini due alla volta e afferrò il suo cellulare dal comodino. Premette il tasto di attivazione e attese che il sistema operativo si stabilizzasse, quindi cercò nella rubrica i numeri di Jack e Richard, ma non li trovò. La stessa rubrica era vuota, senza un solo numero. La sua fronte fu percorso da un rivolo di sudore freddo, la sua schiena dall’ansia che tutto finisse e ricominciasse senza posa, per l’eternità. L’angoscia si dipinse sul suo volto, i suoi lineamenti furono distorti da una marea di sensazioni negative. Cominciò a guardarsi intorno con aria spaventata temendo di scorgere da qualche parte una forma che lo fissava. Con dita tremanti sfiorò cauto una parete, ò le dita sulle lenzuola sfatte del letto, si precipitò in bagno e lanciò un’occhiata alla sua immagine riflessa. Era il Primus di sempre, forse qualche ruga di troppo sotto gli occhi, ma non sembrava cambiato. E lo specchio-visore sembrava essere solo un normalissimo specchio. Strinse i pugni cercando di non pensare a Lei, ignorando la Peste-perTutti e le medicine che teneva nascoste nel primo cassetto del suo comodino. Conosceva già quella strada e non aveva alcuna intenzione di percorrerla. Non poteva se teneva a se stesso. Per non pensare si gettò invece sotto la doccia ando una buona mezz’ora a insaponarsi più del necessario. Quando finì si asciugò, indossò la prima cosa che trovò nell’armadio e decise di compiere il grande o all’esterno della casa. Il primo o sul gradino dell’ingresso lo trovò esitante, ma vide subito che il mondo-mondo era lo stesso di sempre. O almeno lo sembrava. Fece qualche o, ancora incerto, assaporò la sensazione di affondare sul giardino umido di rugiada, si chinò e strappò un ciuffetto di erba per esaminarla. Sapeva di buono e, inconsapevolmente, sorrise. Lanciò uno sguardo alla proprietà. La sua casa aveva le stesse proporzioni, la vernice scrostata in alcuni punti, soprattutto sulle persiane, e il giardino era l’esatta replica di quello che aveva perduto. Una voce gli fece alzare lo sguardo e vide una donna di mezz’età che chiacchierava con un postino. La donna sembrava

alterata e aguzzando l’udito ne sentì alcune parole di straforo. I suoi capelli erano tinti di un improbabile rosa e gli occhiali dalla montatura di corno e la pelle cascante delle guance la facevano vagamente somigliare a un gufo. Un gufo rosato con indosso una vestaglia da camera verde bottiglia. Per un attimo gli occhi della donna lo fissarono e la sua proprietaria sollevò una mano grassoccia in gesto di saluto. Lui rispose con un cenno e sorrise. “La signora Browning esiste ancora, vedo.” Disse. Non avrebbe mai pensato di sentirsi rincuorato alla vista della vicina più arcigna del quartiere, ma questo lo faceva ben sperare. Vide la sua Trans Am antracite parcheggiata al solito posto, sul vialetto davanti al garage. Prima non c’era O almeno non gli sembrava di averla vista appena uscito di casa. Rifiutò di porsi domande sul perché vedeva quelle cose, si avvicinò all’auto, ò le dita sulla carrozzeria e avvertì il freddo del metallo. Quando lo aprì, lo sportello si spalancò con un rumore secco che giudicò piacevole. Indossò le cinture di sicurezza e mise in moto. Il propulsore si destò con un dolce borbottio, un rumore che lo invitava ad affondare il piede sul pedale del gas. Fece manovra per uscire, facendo attenzione alle altre auto. Percorse tutta la strada a velocità ridotta, osservando quanti più dettagli potesse dell’ambiente circostante. Il suo quartiere, il Nova’s Dream, era sempre lo stesso e così i suoi vicini. Quelli, almeno, che ancora non erano andati al lavoro. Diverse mani lo salutarono e lui ricambiò, quindi imboccò Moving Spirit Avenue, diretto in centro. I palazzi sfilavano davanti ai suoi occhi uno dopo l’altro, la strada era la solita, tranquilla arteria di sempre, neanche tanto affollata. Anzi, a ben vedere, non gli sembrava che il traffico fosse poi così presente. Per come gli sembrava, quello appariva proprio uno dei quartieri di Celestia, ma c’era qualcosa che non andava: i anti. Vide poca gente per i marciapiedi, poche auto sulle strade ma a quell’ora del mattino non poteva essere. Celestia era una metropoli, non una cittadina di provincia. Dato che le condizioni della strada lo consentivano accelerò, concentrando la propria attenzione sulla guida. Decise di fare un giro per la città e osservare persone, edifici, qualsiasi cosa che potesse aiutarlo a capire la sua situazione. La Trans Am si tuffò per le strade con un ruggito di gioia, i suoi quattro scarichi scoppiettarono allegri svuotando se stesso e il mondo dai suoi pensieri. I

grattacieli erano gli stessi di come li ricordava, le strade parevano quelle. A un tratto si sentì stanco e un’improvvisa sensazione di gelo lo avvolse, facendolo tremare di stupore e paura. Mio Dio, ricomincia! Le dita gli si fecero gelate, il suo respiro divenne un sottile ansimare. Con un gemito di tristezza accostò trovando spazio tra una Chevy del 2008 e una Dodge vecchio modello. Chiuse gli occhi, andosi le dita tra i capelli, tentando di riordinare i suoi pensieri. Provava meno freddo ora e, lentamente, si rilassò. Riaprì gli occhi e guardò fuori. Dalla Chevy grigio chiaro metallizzata si aprì lo sportello lato guida e ne scese una ragazza fasciata con una gonna di lino bianca e lunga fino alle caviglie, scarpe col tacco e un top bordeaux. Se ne stette a fissarla, dapprima senza farci molto caso, poi vide che la donna lo guardava. Aveva dei bei capelli castani leggermente mossi che le arrivavano poco sotto le spalle e l’aria spensierata. In mano reggeva con delicatezza un pacchetto azzurro. Primus immaginò che potesse essere un gioiello o il regalo per qualcuno. La sua vista risvegliò in lui qualcosa di familiare e quella sensazione diede il là a una serie di altre sensazioni che si autorganizzavano nella sua mente. Accortasi di lui, la donna lo osservava con uno sguardo di curiosità negli occhi grandi e profondi. Non sembrava seccata o stupita, guardava proprio lui. Abbassò il finestrino lato guida e le parlò: “Ci conosciamo, signorina?” Disse. Il tono della voce uscì esitante dalle sue labbra e lui si considerò un idiota, per questo. La ragazza posò le dita sulla guarnizione dello sportello chinandosi con grazia verso il suo viso. La sua pelle era molto chiara, quasi pallida, e dal collo le pendeva un ciondolo in cristallo che rappresentava una rosa stilizzata. Con una certa soddisfazione si rese conto che adesso l’oppressione al petto era completamente ata. “Buongiorno, Primus.” Si sentì mancare la terra sotto i piedi a quelle parole e rimase in silenzio per qualche attimo, obbligandosi a pensare. Perché lo conosceva? Sperò con tutto il cuore che non fosse Lei, che quell’incubo fosse finito, che potesse tornare ad avere l’effettivo controllo sulla sua vita.

“Lei mi conosce?” “Certo.” E la voce della sconosciuta fu un soffio di piacevole brezza sul suo volto. Primus deglutì timore mescolato a saliva e cercò di accettare l’inconsapevole sfida che lei gli porgeva: “Io non sono certo di conoscerla, invece.” “Potremmo fare colazione insieme al Cygnus, così potremo parlarne.” Era il suo bar preferito. In quell’istante ricordò tutte le volte che ci aveva fatto colazione solo o con i suoi amici, divorando fragranti cornetti alla crema e bevendo caffè all’italiana. Un velo di tristezza gli oscurò per un momento gli occhi, poi disse: “Ho già fatto colazione a casa, ma se vuole potrei farle volentieri compagnia.” “Venga, allora. Andiamo con la mia macchina e lasci qui la sua,” gli propose lei, “il Cygnus è a due isolati e non voglio andarci a piedi, con queste nuvole in cielo.” Primus non se lo fece ripetere una seconda volta e uscì dall’auto per salire su quella della ragazza. Non disse nulla quando lei accese il motore della piccola utilitaria, ma fu sollevato dal notare che neanche la donna si dimostrava loquace, tuttavia notò che aveva deposto il pacchetto azzurro sul cruscotto. L’auto si fece spazio agilmente tra lo scarso traffico e sfilò davanti alla Book’s Life Avenue dove Primus poté vedere la grande insegna della profumeria Woman’s Destiny. Gli batté forte il cuore quando ne rivide la vetrina sontuosa, ricca di prodotti e bottigliette elegantemente racchiuse in un’apoteosi di nastri e vezzose confezioni regalo. Con la coda dell’occhio sbirciò la sua compagna il cui sguardo era fisso sulla strada. Aveva un’aria tranquilla, di chi nella vita sa quello che fa, e la invidiò. Quando la Chevy accostò davanti al bar notò che la strada era praticamente deserta. Non soltanto il traffico era inesistente, ma non vedeva una sola anima in giro. La cosa gli regalò una sensazione di fredda inquietudine ma, come se avesse intuito i suoi pensieri, la donna disse: “Siamo ancora agli inizi.” Lui si voltò a fissarla e ne sostenne lo sguardo intenso ma privo di ogni ostilità: “Chi è lei?” Con un risolino divertito la ragazza disse: “Andiamo al bar.”

Oltrearono la soglia dell’elegante locale ma Primus fu sorpreso dal trovarlo praticamente senza arredi a eccezione del bancone, qualche tavolino e la vetrinetta dei dolci. La ragazza dietro il banco era snella e bruna, e aveva l’aria di essere molto professionale. Non c’erano altri clienti e neanche camerieri o gente che ci lavorava. Eccettuati loro due e la ragazza del locale, il Cygnus era deserto. La ragazza del bar chiese: “Desiderate qualcosa?” “Due cornetti alla crema e due caffè, per favore.” Ordinò la donna. “E una bottiglietta d’acqua liscia, grazie.” Aggiunse lui. Sedettero a un tavolino adiacente alla vetrina che dava all’esterno. Primus notò oziosamente che il ripiano del tavolo era riccamente addobbato con una tovaglia di buona qualità con impresso il logo del locale, un cigno stilizzato nell’atto di spiccare il volo. Il tavolo era già apparecchiato per due e si ritrovò a giocherellare distrattamente con la forchetta da dolce e un tovagliolo in tessuto accuratamente ripiegato. Ignorò il bicchiere di plastica robusta e non economica, anche questo con impresso a fuoco il logo del bar. Arrivò la cameriera con le ordinazioni. Alla vista del cornetto e nonostante l’abbondante colazione che aveva consumato a casa gli tornò l’appetito. “Sono nove e quaranta.” Li informò la cameriera, con voce indifferente. Era ansiosa di tornare alle sue faccende. Primus le diede una banconota da dieci: “Tenga il resto.” Mentre afferrava il cornetto, la ragazza esclamò: “Che te ne pare?” “Ci diamo del tu, vedo. D’accordo.” Sospirò, “credo che probabilmente tra qualche minuto mi ritroverò da un’altra parte senza un motivo plausibile.” “Lo pensi davvero?” Primus si strinse nelle spalle: “Se così non fosse sarei felice.” Afferrò una zolletta di zucchero e la mise nel suo caffè, lo rigirò con il cucchiaino e lo bevve tutto di un fiato. Era migliore di quello che si era preparato a casa. Davanti a lui, la donna sorseggiò la bevanda calda con calma, con gli occhi che

le brillavano: “È tutto vero. Puoi anche rilassarti, adesso.” “È difficile esserne certi.” Con la destra teneva ancora sollevata la tazzina del caffè che tremava leggermente tra le sue dita. Era ancora teso, ancora nervoso. Attese che anche lei finisse la sua bevanda, quindi rimise a posto la tazza. “Quello che vedi,” proseguì la donna, “è per ora un prodotto della mia mente, ma presto lo sarà anche della tua.” “Althaira!” fece allora lui, “me lo immaginavo.” Lei sorrise, facendo nello stesso istante un grazioso inchino con la testa. “E questo il motivo per cui non ho visto molte persone in giro? La stessa cosa vale per il traffico quasi inesistente, immagino.” “È molto faticoso per me sola ricostruire il mondo-mondo.” “E gli edifici?” La ragazza sorrise di nuovo: “Non ho ricostruito tutta Celestia, ma soltanto tre o quattro isolati. Se esci da questo bar e vai verso nord arriverai a uno spazio completamente vuoto. Per il momento, lo sono anche gli edifici. Riesci a immaginare quanti dettagli compongano un palazzo come questo?” Fece un elegante segno circolare con la destra, “ma ho ricostruito la tua casa, il tuo quartiere e ridato la vita a gran parte dei tuoi vicini.” Primus sbuffò: “Come la signora Browning.” “Naturalmente!” La voce di lei era cristallina e suadente, “la tua acida vicina è uno dei primi elementi che hai visto scomparire quando la Paura ha cominciato a distruggere il mondo-mondo, insieme alla tua casa. Io sto ricostruendo tutto nello stesso ordine in cui Lei lo ha distrutto.” “E restituirai la vita anche ad altra gente, ai miei amici?” La ragazza afferrò il cornetto, ne tirò via un boccone e lo portò alle labbra. Primus la imitò, ma riuscì solo a versare lo zucchero a velo sul piattino di carta. Il delicato sapore della crema al limone gli solleticò il palato.

“Lo faremo insieme.” Primus inghiottì e si ripulì goffamente dallo zucchero a velo con il tovagliolo. “Cosa devo fare?” “Utilizzerai la tua Capacità Immaginifica per continuare a sognare un mondo migliore, libero da troppe paure. Ricorda che i tuoi desideri, in fondo, non sono che i sogni dell’altro te stesso. Noi tre, vale a dire l’Altro, tu e io, siamo legati a doppio filo in tutto questo. E tu riavrai i tuoi amici e la tua vita.” “Quindi Jack, Richard e tutti quelli che ho conosciuto non esistono ancora, e lo stesso vale per il resto della gente e le strutture architettoniche.” Althaira assentì: “L’Altro ha ricominciato a credere in se stesso. Ha cominciato ad affrontare le sue paure e con esse affronta quella parte di sé che non ha mai conosciuto. Per farlo, però, dovremo aiutarlo noi. Ti confesso che sono molto fiduciosa. L’Altro ha finalmente deciso di vivere.” Negli occhi di Althaira notò una luce nuova e da nocciola i suoi occhi divennero verdi, poi azzurri. Sembravano cangianti e lui ne ricordò la terribile bellezza mai uguale a se stessa. Probabilmente, per l’Altro, il suo aspetto era quello che poteva vedere in quel momento.” “Ti ha dato un altro nome?” Le chiese. “Mi chiamo Althaira, dovresti saperlo, ma è solo uno dei nomi che mi ha dato. A volte mi chiama Antonella, Leyla o Veronica. Solo quando scrive usa il mio vero nome.” Primus posò i resti del suo cornetto sul piattino. Li fissò, tentando di concentrarsi. Immaginò che le parti che aveva consumato fossero di nuovo al loro posto. Ne immaginò il profumo, cercò di non guardare le briciole. Il gelo fece un largo giro e tornò su di lui, gli accarezzò la pelle del viso con un bacio ghiacciato; lui non mollò. Chiuse gli occhi, poi li riaprì, sbattendo le palpebre. Ciò che rimaneva del cornetto era ancora al suo posto, identico a prima. Non è cambiato nulla! Sollevò lo sguardo sulla ragazza, confuso, ma il luccichio negli occhi di lei non

era diminuito affatto. Althaira disse: “C’eri riuscito.” “Ma ho fallito.” “No!” Ribatté decisa la ragazza, “È un buon inizio, il tuo primo tentativo trascendente e consapevole delle tue possibilità. Imparerai con il tempo, non preoccuparti.” Primus disse: “E Xoavia?” “Xoavia vive in me e così la Guardiana e tutte le donne che ti hanno aiutato nel tuo viaggio verso l’autoconsapevolezza, argentei compresi. Io sono loro e loro sono me. Ciò che ti hanno detto, quindi, te l’ho detto io.” “E che mi dici di Lei?” La ragazza scrollò con dita vezzose i capelli morbidi. In quell’istante gli sembrò ancora più bella: “È un archetipo e, in quanto tale, indipendente dai tre mondi, proprio come me. Ma anche se parliamo di un’entità distruttrice e negativa non è invincibile. In futuro troverai altri modi per contrastarla, così come dovrà fare l’Altro se vuole continuare a esistere. Ma ricorda che anche Lei ha un suo ruolo nella vita, e quindi la sua presenza è normale. Credo che il mondo-mondo avrebbe più problemi se Lei non ci fosse. Ciò che conta realmente non è la sua assenza, ma il giusto equilibrio delle cose.” “Ricordo tutto ciò che ha fatto e non potrò perdonarla.” “Io sono certa che farai l’amore con Lei proprio come un tempo, ma stavolta non ti farà alcun danno. L’importante è che tu sappia quanto è fondamentale confidare in noi stessi e nelle nostre possibilità. Essere umani vuol dire anche sbagliare, ma non dobbiamo per questo convincerci che si può solo sbagliare. E nella vita conta anche e soprattutto il legame che instauriamo con chi amiamo.” La donna gli sfiorò una mano in un gesto delicato. La guardò intensamente e ne ammirò l’ovale del viso. Le labbra di lei s’incurvarono in un sorriso enigmatico che non seppe interpretare. Poi ricordò che lui era l’emanazione dell’Altro e che lei lo amava. Amava anche lui? Era questa la verità?

Qualcosa lo spinse ad allungare una mano a sua volta per incontrare quelle dita. Althaira lo lasciò fare. Incoraggiato, desiderò starle più vicino e il tavolino gli parve incredibilmente stretto. Le si ritrovò accanto. Sono stato io? Non gli importava. Adesso poteva arle le dita tra i capelli setosi. La donna si inarcò con grazia verso di lui, le sue labbra morbide risaltavano come dolcissimi fiori. Poteva avvertirne il profumo, delicato e femminile. Althaira era la sintesi perfetta di tutte le donne e lui si sentì preso dalle vertigini. I capelli della ragazza cominciarono a sfavillare di un colore che contemplava tutte le gradazioni e nessuna, e lui capì che lei gli stava mostrando il proprio vero aspetto. Rapidamente, troppo veloce perché occhio umano potesse coglierne tutti i dettagli, sbocciava letteralmente davanti ai suoi occhi. Primus le afferrò il viso tra le mani e la attirò a sé. Lei non oppose resistenza e lasciò che le posasse le labbra sulle sue, ma non accadde nulla. Althaira non aveva ricambiato il bacio né lui sentì quel trasporto che aveva immaginato di poter provare. “Non funziona, vero?” Gli rivelò con un sussurro. “Non possiamo!” Ricordò che quella era un Archetipo, non una donna. Era l’ispirazione artistica personificata, la seducente musa dei sogni dell’Altro. Come tale la sua anima era femminile, ma non poteva essere sua o di nessun altro. Il suo era un amore esclusivamente platonico. “Tu e io siamo simili.” Lo informò con dolcezza lei, “nei tuoi sogni più profondi provi il desiderio d’incontrarmi perché così desidera l’Altro. Ma il nostro amore non si misura secondo le convenzioni umane. Ciò non significa che tu non possa avermi. Cercami nei visi che ti piacciono di più, dove la mia bellezza è sublimata attraverso l’Infinito. L’Altro mi trova in sé stesso quando scrive, ma quando vuole stringermi tra le braccia contempla il viso di Leyla, la donna che ama. Per questo motivo io sono molte donne e nessuna. Perché io sono e sarò per sempre fino a quando l’Altro vorrà avermi accanto a sé.” Primus chiuse gli occhi. Trasse un lungo respiro e lasciò che l’aria refluisse lentamente dai suoi polmoni. “Ma come potrò ricostruire questo mondo, riavere i miei amici e la mia vita? Il

tavolo, prima, sei stata tu?” “Ci sei riuscito tu. Lo hai desiderato senza porti troppe domande e il tavolo è mutato obbedendo a un tuo desiderio. Ricorda che quando si desidera fortemente qualcosa si vaga nell’irrazionale che ci rende più liberi dalle convenzioni. Logica e sentimento sono due aspetti del nostro mondo. Nessuno dei due deve prevalere sull’altro affinché ci possa essere la saggezza., ma per cambiare e ricostruire il nostro universo insieme a me ti servirà questa.” Altha gli porse il pacchetto azzurro, invitandolo ad aprirlo. Non lo aveva più visto e non ci aveva pensato. Ma adesso il pacchetto era comparso tra le dita di lei. Afferrò l’oggetto e liberò dall’involucro di carta lucida una piccola scatola colorata di un azzurro squillante. Incuriosito, l’aprì ma a parte un pezzetto di velluto blu non vide nulla. Rivolse ad Althaira uno sguardo interrogativo. “Ricordi ciò che ti dissi sulla tua Capacità Immaginifica e sulla Rosa della Saggezza?” “Sì, ma non capisco cosa…” “Guarda meglio!” Fece come gli era stato detto. Ora sul pezzetto di velluto vedeva brillare qualcosa, un oggetto non più grande di pochi millimetri. Una rosa di dimensioni lillipuziane che brillava come una stella nella notte. La donna spiegò: “Grazie a essa la tua Capacità Immaginifica infonderà fuoco vitale nelle equazioni del mondo-mondo.” Così dicendo si alzò, preparandosi ad andarsene. “Sul serio credi che potrò andare avanti senza la tua guida?” “Sta’ tranquillo.” Althaira gli diede un buffetto affettuoso su una guancia, “finché mi desidererai più di ogni altra cosa noi saremo insieme. Il nostro respiro aleggerà tra le stelle e la mia voce sussurrerà per sempre il tuo nome. Perché tu ed io siamo una cosa sola.” Allontanandosi lentamente, la ragazza divenne sempre più indistinta fino a scomparire del tutto. Primus continuò a lungo a fissare il punto dov’era

scomparsa, ma non avrebbe saputo spiegarsene il motivo. A dirla tutta, non avrebbe neanche saputo dire se nel suo animo prevalesse la tristezza o la gioia per avere nuovamente la possibilità di vivere. “Althaira.” Mormorò, ma non apparve nessuno. Sospirò, si scosse e fece per alzarsi. La ragazza del Cygnus continuava imperterrita nelle sue occupazioni senza aver dato segno di aver visto o sentito qualcosa. Alcuni clienti sedettero a un tavolo vicino e lui seppe che la sua presenza lì era inutile. Allora afferrò la scatoletta che lei gli aveva dato, rimise a posto il coperchio e se la cacciò in tasca. Una volta fuori dal locale si accorse che il traffico sembrava più corposo. Senza dubbio Althaira si stava dando parecchio da fare. Sorrise e guardò in alto, verso quello che somigliava al sole. Era certo che anche da lì potesse vederlo e, forse, gli stava sorridendo proprio in quel momento. Decise di fare un giro a piedi e osservò gli edifici, il viavai di gente, le auto ferme ai semafori. Ogni persona, ogni auto, ogni dettaglio di Celestia stava tornando dal Niente all’esistenza. Tirò fuori il suo telefonino e controllò una seconda volta la rubrica. Stavolta trovò i numeri di Richard e Jack. Era stata di parola, dopotutto. Guardò nuovamente quel mondo fatto di idee e fantasia e sentì rinascere in sé l’entusiasmo per la vita. Niente più freddo da adesso in avanti. Con questi pensieri raggiunse la Trans Am, salì a bordo e accese il motore. Il rombo sommesso dell’otto cilindri lo fece vibrare di piacere. Diede gas e l’auto schizzò via, lasciando una generosa impronta nerastra sull’asfalto. Alla prima curva svoltò a sinistra, verso nord, poi proseguì sulla Statale, dritto verso la periferia. Quando il traffico si fu diradato a sufficienza affondò il piede sul pedale del gas e l’ago del contagiri scattò verso l’alto mentre lui snocciolava le marce una dopo l’altra, i capelli al vento, il sorriso sulle labbra. Aspirò l’armonia di un mondo di cui era responsabile, un mondo di cui lui stesso era l’essenza. Plasmato dalla sua Capacità Immaginifica il Niente della periferia divenne strada, divenne sentiero tracciato per lui dalla luce di Althaira. Sentieri e valli coperte di verde si snodavano con dolcezza e l’auto aggrediva felice la ghiaia che aveva sostituito il nero dell’asfalto, derapando vistosamente ogni volta che affrontava una curva in scioltezza. Adesso sapeva dove voleva andare, aveva deciso dove usare la Rosa della Saggezza. Non gli ci sarebbe voluto tanto per arrivare. Bastava semplicemente che lo desiderasse. Renovatio.

Era questa la sua destinazione, la città dove avrebbe desiderato vivere per sempre, dove avrebbe potuto ricominciare una nuova vita. Mentre guidava, la ghiaia mutò colore e consistenza, e le nuvole di polvere dietro la Trans Am divennero più sottili e si elevarono con più velocità verso il cielo cristallino. Il Tempo trascorse e morì disperdendosi sulla brezza di un vento leggero che gli scompigliava dolcemente i capelli. I minuti arono, gli anni finirono e l’universo fu percorso da una nuova consapevolezza, la sua. Quando finalmente arrivò in vista della nuova città spense il motore e uscì dalla macchina. Il gelo era scomparso e così i mille timori che lo avevano aggredito nel ato. Nella sua mano, la scatolina che gli aveva dato Althaira splendeva di una sua luce soave, limpida e dolcissima. Chiuse gli occhi e sorrise. Li riaprì, aspirò la brezza leggera, ascoltò il suono del mondo-mondo. Era suo e soprattutto, non era più solo. Sterminate file di edifici, strade e vegetazione rigogliosa si estendevano davanti ai suoi occhi e sapeva che da qualche parte avrebbe ritrovato la sua casa nel quartiere di Nova’s Dream. Aprì la scatola e la Rosa della Saggezza splendette con rinnovato fulgore nella sua destra. In quel momento decine di Istanti di Tempo, forse centinaia, gli vennero incontro festosi assumendo la forma di Canconiglietti. Primus ne accarezzò quanti più poteva, felice, e scoprì di capire i loro pensieri, scoprì di condividere con loro la pace della Saggezza. E allora capì che il tempo della Paura era finito. Insieme a loro contemplò il mondo-mondo che lo attendeva e rivide Althaira, la cui voce era la brezza del Tempo, il cui viso erano le nuvole e il suo amore era la luce che lo riscaldava attraverso le stelle. Di nuovo si materializzò per lui e gli carezzò le mani con le sue. No, non era più solo. Insieme, non avrebbero più dimenticato il richiamo della vita. Avrebbero giocato con i fili di perle del loro Amore, parlato di arcani misteri, note e solitudini. E il vento avrebbe sussurrato all’eternità i loro nomi con onde di luce, nel loro giardino d’inverno, là dove l’Uomo che un tempo sognava di vivere aveva cominciato a vivere sognando.

Epilogo

“Io vivo per sognare.” Al-Dabaran, Celestia

Io sono Primus. Ho dato vita alle genti e plasmato gli oceani. Dove arrivano i miei pensieri le galassie si dissolvono. Ho infuso fuoco nel ghiaccio della genesi, il mio nome sussurrano i mondi che nessuno conosce. Io sono la mente, l’idea e la parola. La gente può chiamarmi Primus, ma sono anche Altro. Con te vicina, la Paura non può raggiungermi. La tua voce parla di noi a milioni di mondi. Io vivo per sognare e il nostro amore non avrà mai fine. Perché io sono Primus, ma noi siamo Althaira…

Ringraziamenti

Sono molto grato a sca Vajro, persona di straordinaria sensibilità che, nonostante la complessa direzione de “Il Giornale dei Misteri”, è sempre disponibile e attenta. Al professor Michael Lettieri che ha levato tempo prezioso ai suoi mille impegni di Facoltà. A Giorgio Michelangelo Fabbrucci, (il cui sito è www.raccontopostmoderno.com) amico e scrittore di grande valore Letterario e umano. Ad Alessandro Iascy, sempre pronto a leggere, confrontare, consigliare. A Debora Libardi, avida lettrice che mi onora di recensioni piacevolissime. A Ivan Croce, fratello letterario, eccellente romanziere. Alla gentilissima Nasreen fondatrice del sito Sognando Leggendo.net. A Paola Laganà che, oltre a leggere, rivedere e ri-leggere manoscritti è anche paziente verso il mio carattere “tra le nuvole”. All’istrionico Roberto De Vincenti per la sua incondizionata vicinanza. A Chiara Lezziero, le cui recensioni private sono perle di riflessione. A Pietro, Maria, Carlo e sco Petrucci, per il loro aiuto e amicizia. Agli apionati lettori del mio blog e al Fan Club di Pisa. A mia madre Anna che mi ha dato l’amore per i libri e il Sapere. In un certo senso devo a lei il mio carattere rivolto alla ricerca della Verità. Ad Antonella, fidanzata, amica, ispiratrice e amore, che non finisce mai di credere nella mia penna e che è sempre prodiga di consigli e di aiuto. E infine a voi che leggete perché, se siete arrivati fin qui, forse potreste voler andare più lontano, dove io/noi/PRIMUS contempla la Luce di Althaira e i cui sogni non hanno mai fine.

Massimo Valentini

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