RITA SOTGIU
Quando ero uno spermatozoo
Racconto material-idealistico
A mio padre e a mia madre e a quei dodici che hanno generato dopo me
NOTA PRIMA
Prima della mia nascita, ma prima che diventassi embrione e poi feto e ancor prima che diventassi zigote, io mi trovavo diviso in due parti e in ognuna di quelle fui qualcuno. E ciò che sono ora è ciò che fui allora, separato e diviso e ora, unito e indiviso.
Vagai in quel primo viaggio alla ricerca di me stesso e quando mi incontrai fu la mia morte come parte divisa, ma fu la mia vita come parte indivisa.
Fra le infinite combinazioni di me che avrebbero potuto essere, una sola si realizzò fenotipicamente e ora, per caso, sono io e non un altro.
Ricorderò la mia esistenza a ritroso in un tempo senza tempo, in un’astratta dimensione spaziale; mi porterò nei vasti quartieri della mia memoria e ricorderò, ricomporrò la tela sfilacciata della mia immaginazione e inventerò.
Dovrei partire dall’inizio, ma è difficile individuare l’inizio perché esso nasce dal nulla, e cos’è il nulla?
“Non è particella sostanza corpo quantità forza, non ha massa volume figura forma né movimento, non è patimento, affanno, né gaiezza ed esultanza, non è ragione, saggezza, continuità, errore, oscurità, chiarore o riverbero, non è istante né età non è falsità e non è verità”.
Tale ero io prima di essere. E come tale ero incorruttibile, inviolabile,
immutabile, immobile ed eterno. Ero pura e perfetta idea in quel nulla impalpabile, precedevo in quello stato la mia stessa realtà sensibile.
Ma un messaggio antelucano venne codificato e una volontà occulta decise la mia origine da quel nulla e per una frazione infinitesima di tempo (tale è la durata della vita umana) avrei sperimentato la mutevolezza della materia che mi avrebbe avvolto.
Non so dirvi con precisione come io fossi da quel momento, ma se mi contraggo in un luogo remoto della mia mente attuale, ecco, mi vedo: sono un punto in cui è annichilito tutto il mio essere fremente di despiralizzarsi, di perpetuarsi, di duplicarsi, di possedere quel vuoto in cui mi trovavo immerso.
Custodivo un messaggio in codice, un bagaglio pesante compattato in un quasi niente; avevo in definitiva un’enciclopedia miniaturizzata fino all’impossibile, in cui era racchiusa la memoria, la visione e l’attesa di anni di evoluzione: ben quarantasei volumi, uguali però a due a due, di un sapere per me allora indecifrabile.
Improvviso fu un suono, una voce direi, che calma e rassicurante cominciò a leggermi. Cadenzava le parole con monotonia melodiosa, stereofonica:
ADENINA GUANINA CITOSINA TIMINA ADENINA TIMINA ADENINA CITOSINA GUANINA GUANINA TIMINA CITOSINA ADENINA GUANINA ADENINA....................Cos’ero dunque? Una sequenza infinita e variabile di sole quattro “parole”?
In principio ero solo “verbo”!
Quella voce mi svelava a me stesso, mi srotolava come se stesse leggendo un rotolo antico di pergamena o il nastro magnetico di un computer, ma io non capivo. Mi veniva così dichiarato quale messaggio fosse compattato in me, ma indecifrabile ne trovavo il significato. Alla desolazione della mia incomprensione si aggiunse lo stupore quando mi accorsi di non essere più solo: quella voce, leggendomi, mi duplicava; era come se quelle parole rimbalzassero tra mille specchi e creassero infinite copie di me stesso.
Infinite copie con ognuna i quarantasei volumi di un sapere inintelligibile.
Intuivo la contraddizione dilaniante del mio essere, perpetuato da una voce ignota in ciò che non sapevo di essere, ma che ero mio malgrado. Memorizzavo quella sequenza ripetuta all’infinito e ben presto conoscevo già la perfetta successione di quella martellante ripetitività, ma ahimè, oscuro era il suo significato.
Mi consolava un’unica consapevolezza e cioè che in quella monotona lettura commettesse, a volte, degli errori, piccole varianti del mio ignoto sapere, leggeva pertanto una parola per un’altra (errore o calcolo, non so dirvi); pertanto quelle parti che man mano mi attorniavano affluendo dal nulla, erano identiche a me, simili a me e decisamente diverse da me. Vedevo contemporaneamente me stesso e il mio esatto contrario.
In poco tempo quello spazio senza estensione in cui mi trovavo brulicava di un’esistenza uniforme e multiforme a un tempo, non so dirvi perché, ma messo di fronte alle mie proprie possibilità di essere, provai il primo sentimento della mia vita, la paura: non c’è niente che ci intimorisce più di noi stessi!
Mi prese improvvisa una grave crisi, non respiravo bene e dovevo allontanarmi subito dal luogo in cui mi trovavo; ma qualcosa mi tratteneva, da essa tuttavia riuscii a prelevare l’energia necessaria per potermi finalmente staccare e lasciarmi precipitare nel lume di un probabile tubulo lunghissimo e contorto. Fu una caduta memorabile, che ancora oggi rievoca in me un senso di vertigine, come di stordimento e turbamento incognito ogni qualvolta mi conduco in luoghi di altitudine. Urlai mentre vorticavo, o per lo meno ebbi l’impressione di farlo, un pentimento angoscioso mi assalì e volevo tornare indietro, ma non fu possibile. Ingoiato in quel frattale elicoidale e ottenebrato dal suono delle interminabili sequenze che quella voce monotona ancora mi faceva giungere in lontananza nel tentativo (ben riuscito) di perpetuarmi, caddi in uno stato di ipnosi profonda avviluppato su me stesso.
NOTA SECONDA
Quando ripresi conoscenza, il senso di pesantezza e oppressione che mi aveva portato a quel gesto era scomparso, mi sentivo infatti più leggero e più libero di movimento: il mio bagaglio era stato dimezzato in quanto trasportavo ora, solo ventitre volumi; ma non solo, le pagine si erano scomposte, scambiate tra volumi omologhi; sentivo lo scompiglio interiore e questo mi rendeva irrequieto e ancor più incomprensibile a me stesso.
Perché quel dimezzamento e quell’aumento di disordine interiore; avevo l’impressione di aver smarrito qualcosa che dovevo assolutamente ritrovare per comprendermi; quelle parole che custodivo dovevano avere un significato, lì stava la conoscenza, il sapere.
“Cosa sono dunque?” mi parve di urlare, ma era solo un pensiero che con il suo punto interrogativo simile a un gancio pungente, rendeva ancor più cupo il buio che mi accecava e più insopportabile il silenzio che mi stordiva.
«Come, non lo sai?» una voce rauca ruppe quell’assordante silenzio, mi voltai repentinamente verso essa, sbigottito e subito assalito da un senso di smarrimento, turbamento, meraviglia e, ancora una volta, paura: il mio sforzo per raggiungere la solitudine era dunque miseramente fallito; intorno a me, non una, ma due, tre, mille, milioni e milioni di altre copie di me stesso mi attorniavano, una moltitudine minacciosa e soffocante.
«Che cosa dovrei sapere?» gli domandai seccato.
«Che noi siamo dei CD-human in cui è stato listato un programma, creato un software se preferisci, chiamato Uomo e il nostro programmatore lo chiamano Dio, ma pare abbia commesso degli errori, tant’è vero che ad un certo punto, per capire meglio di quali errori si trattasse, è entrato nel programma, praticamente si è fatto uomo, ma non ha risolto molto e il programma è rimasto tale e quale, anzi per certi aspetti è peggiorato, ma il nostro Dio pur di non annullare il suo programma imperfetto, lo fa perpetuare all’infinito sperando che in questo processo di copiature multiple, errore dopo errore, si arrivi alla perfezione ultima secondo i suoi programmi iniziali. Dio sta creando l’uomo a propria immagine e somiglianza con la complicità del Caso che sbaglia senza premeditazione. L’errore porterà alla perfezione o...alla perdizione! Ma non è tutto …» continuò serafico «per aumentare la possibilità di errore e quindi paradossalmente la possibilità di raggiungere la perfezione, dobbiamo mescolare le nostre informazioni con altri CD-human, dobbiamo effettuare una Unione, se preferisci, ma non so dove, quando e come.»
«Ma tu come fai a sapere certe cose?» obiettai di rimando.
«Semplice, le invento!»
«Ma vattene!» lo apostrofai con disgusto.
«Dai, che ti costa, inventa anche tu, crea ipotesi, fantastica, del resto è l’unico diversivo che ci viene concesso in questo luogo angusto e privo di certezze.»
«Sì, ma io voglio la verità, non la menzogna» gli risposi secco.
«Sei patetico, ma non sai che la verità non esiste? Non c’è nessuna cosa che sia
Verità, esiste solo la parola Verità: sicure verità non conobbe mai nessuno e nessuno né conoscerà» recitò enfatico.
«Ma da qualche parte deve pur esistere», obiettai sconsolato.
«Hai detto bene, da qualche parte, allora sarebbe una verità solo in quella parte e non avrebbe valore per un’altra parte. Tu stai cercando, se non sbaglio, una verità assoluta, completa, totale, universale, che valga in qualunque parte; ed è questa la verità che non esiste. Creati la tua verità e non porti futili domande.»
«Ma chi è Dio?» urlai disperato.
«Quando sarai Dio, lo saprai.» Pronunciate queste ultime parole, se ne andò con un’aria che a me sembrò alquanto beffarda. Colui che stava accanto a me, quasi pigiato, mi guardò di sbieco e sghignazzò. Che avrà avuto da sghignazzare? Che si stessero prendendo beffe di me? Era evidente che alcuni di loro avevano qualche conoscenza, ma perché facevano tanto i misteriosi?
Conobbi da quel momento altre sensazioni: la confusione e la diffidenza verso gli altri. Capii che se qualcosa avessi voluto scoprire, avrei dovuto cercarla da solo, non potevo certo contare sull’aiuto degli altri (e anche in futuro sarebbe stato sempre così). Certo come inizio non era male, avevo una disperata sete di conoscenza di verità sul mio conto e sul mio destino e mi era stato appena detto che qualunque verità era valida o meglio, falsa. Pertanto la mia ricerca era vanificata dall’inizio ancor prima che cominciasse. Non potevo arrendermi così facilmente, forse non sarei approdato a nulla, ma tanto da lì provenivo, al limite, avrei ricominciato da capo.
All’improvviso un dubbio atroce mi assalì e una voce quasi afona mi sussurrò: «ma in quale modo andrai cercando quello che assolutamente ignori?».
Era qui il punto! Io non cercavo ciò che ignoravo, cercavo solo di capire e di decifrare ciò che in me era già. Volevo conoscere e imparare ciò che già ero, ma in uno stato per me incomprensibile; andavo cercando le condizioni perché la mia reminescenza avesse luogo, cercavo qualcuno o qualcosa che mi insegnasse a immergermi in me stesso per scoprire quella verità che custodivo e che avrei colto attraverso lo sforzo della ricerca, ne ero certo.
NOTA TERZA
Rimasi per un attimo immobile, dubbioso sul da farsi; forse sarebbe stato meglio tornare indietro e informarmi adeguatamente sul mio destino nello stesso luogo di provenienza da dove, del resto, troppo velocemente me n’ero allontanato preso dal panico. Cercai inutilmente di trovare la strada ritornando sui miei i, ma il percorso era in salita e ad ogni tentativo di scalata precipitavo nuovamente in mezzo a quella caotica e minacciosa moltitudine di me stesso.
Percepivo un’ostilità indefinibile, ma mi feci coraggio e cominciai ad aggirarmi fra quella turba di vocianti elementi; ammucchiati gli uni sugli altri avevano un non so che di torvo e avevo la netta sensazione che ognuno volesse sopraffare l’altro; l’angoscia riprese a soffocarmi e raccolsi tutte le mie forze per liberarmene; scattai e raggiunsi con un balzo un punto di osservazione che mi sembrò abbastanza sicuro e da lì, li scrutai.
Quanto erano brutti! O sarebbe meglio dire: quanto eravamo brutti. Risultavamo di una parte rigonfia, come una testa, e di un lungo e sottile filamento, come una coda, era con questa che ci muovevamo dando come dei colpi di frusta che ci permettevano, appunto di avanzare. La testa vista in superficie aveva figura ovale, quasi ellissoidale, col maggior asse diretto longitudinalmente, veduta di profilo, invece, era piriforme, inoltre era sormontata da un cappellino rassomigliante a una papalina e al di sotto del quale c’era probabilmente un liquido perché lo sentivo fluttuare sopra la mia testa. Un brevissimo tratto, una specie di collo, era fra testa e coda.
La testa racchiudeva o forse imprigionava i ventitré volumi o meglio, come qualcuno li aveva definiti, i ventitré CD-human del nostro sapere ancora indecifrabile. Inoltre eravamo tutti sospesi in un fluido biancastro, torbido e di consistenza gelatinosa. Mi confuse a lungo il fatto che nessuno di loro fosse fermo, ma che girasse attorno agli altri e nello stesso tempo su se stesso. Questa
loro attività frenetica e incessante stava senz’altro ad indicare una grande impazienza per qualche eccitante avvenimento, ma quale? Per non rischiare di venirne escluso non mi rimaneva altro da fare che imitarli, all’inizio mi parve difficile, ma poi pian piano mi abituai ed era come se quella fosse stata la mia condizione ideale. Quella frenesia mi piaceva, anzi cercavo di agitarmi con quanta più energia potessi come se stessi facendo a gara con chi mi stava vicino: roteavo, andavo a zig zag, procedevo lineare poi all’improvviso mi esibivo in capriole vertiginose con doppio e anche triplo salto mortale e intanto osservavo di sottecchi (metaforicamente) se qualcuno mi ammirasse, ma nessuno mi degnava della sua attenzione né tanto meno si complimentava né mi chiedeva niente, era come se io per loro neppure esistessi.
Già da allora ero dunque severo e indifferente con me stesso perché quelle parti roteanti non erano altro che copie di me stesso, ero io sdoppiato, triplicato, moltiplicato all’infinito, ero io, così uguale e così diverso.
Mi lanciai alfine in una corsa affannosa per non sentire quella opaca umiliazione che mi sopraffaceva; corsi avanti a tutti loro affannosamente fino a perdere il fiato, mentre correvo gli ellissoidi lisci e incappucciati delle loro teste si voltavano a guardarmi; finalmente! Io le sfogliavo velocemente una ad una con l’ansia del pensiero che vuole scoprire in esse la verità, ma i loro volti metaforici erano simili a fantasmi su cui non potei discernere né la sfumatura del sentimento né l’alterazione del dubbio, né tanto meno l’estasi contemplativa della verità; corsi finché potei, ma poi dovetti fermarmi, ansante, scoraggiato, sfiduciato.
«Non t’affannar tanto» mi disse chetamente qualcuno al quale la punta della mia coda grattava il cappuccio, «abbi pazienza, è inutile che tu voglia fare il furbo, tanto tra poco si parte tutti insieme».
«Si parte! Dove?» Chiesi quasi urlando colto dallo stupore di apprendere all’improvviso una tale novità, e nel frattempo agitavo freneticamente la mia
coda per mantenermi in equilibrio sopra di esso per non perderlo di vista.
«Non senti l’onda che arriva, non senti il caldo opprimente che ci soffoca; è l’ora, tra breve saremo in balia di titaniche forze che ci proietteranno a intraprendere quell’ardua impresa per cui siamo nati: trovare l’altra parte di noi stessi e finalmente tradurre e capire il nostro sapere codificato».
Capii allora che i dubbi, le speranze e le ricerche per le quali io lottavo non erano solo una mia prerogativa, ma che probabilmente molti se non tutti, in quel luogo avevano la stessa sete di conoscenza. Non erano forse loro stessi, me stesso?
Siamo insieme, mi dissi, il nostro fato è legato; da quel momento li vidi con meno diffidenza e timore, ma con una punta di comione.
NOTA QUARTA
Intanto avendo udite quelle parole di imminente sballottamento, mi preparai al peggio e la cosa fu alquanto sofferente. ai in rassegna mentalmente tutte le ipotetiche realtà che si sarebbero potute verificare, ma ne tralasciai almeno una, ed è quella che poi si realizzò, ma c’è di più, quando quel cosiddetto temuto peggio arrivò, mi accorsi che non era poi tanto insopportabile e che avevo sofferto molto di più preparandomi ad esso che vivendolo effettivamente. E’ proprio vero: chi si preoccupa prima del necessario, si preoccupa più del necessario. Del resto cosa poteva accadermi di tanto terribile? Tutto ciò di estremamente terribile che può accaderci è l’annientamento, la dissoluzione nel nulla, ma da lì proveniamo e nel nulla, non si possono avere timori, perché niente ci può nuocere.
M’immaginai pertanto tutto, ma non quello che accade di lì a poco.
Tutto cominciò con piccole vibrazioni: venivamo debolmente compressi e dilatati gli uni contro gli altri con un movimento a fisarmonica; a queste prime scosse ondulatorie ne subentrarono altre rotatorie, per cui cominciammo tutti a girare sul nostro asse e, intanto, le vibrazioni aumentavano di intensità. Questi movimenti erano accompagnati da boati e bagliori improvvisi. In quello spazio angusto, la pressione e il calore aumentarono vertiginosamente, tutto il mio corpo (se così si può chiamare) era pigiato da teste e acrosomi e flagellato da code impazzite. Era un pigia pigia esasperante. Ad un certo punto mi volsi e la vidi: un’onda spaventosa di quel plasma seminale in cui eravamo immersi, ci incalzava minacciosa. Ero come assordito da tutto ciò, come affogato (credo sia questa la parola adatta). Avevo un disperato impulso ad afferrare qualcosa, ma non disponevo di nessuna struttura prensile, forse la coda! Così, nel tentativo di aggrapparmi con essa a qualcosa, la sferzavo energicamente e poi con un colpo secco l’arrotolavo contro delle formazioni filiformi, ma erano troppo deboli per sorreggermi. Tutto si spostava, si muoveva, mi trovavo in qualcosa di disgustosamente molle, cedevole, elastico.
«Niente, niente! Questo è solo il principio. erà. con più coraggio, su!» mi disse qualcuno.
Accanto a me, facendo roteare leggermente la testa, scorsi un profilo sottile come tagliato sulla carta, fluttuava ondeggiante con una serenità inaudita, provai invidia, ma mentre mi apprestavo ad interrogarlo, delle ondate improvvise mi abbatterono facendomi vorticare, e un istante dopo mi sentii sollevare, e sotto di me, teste, teste e ancora teste.
Era uno spettacolo strano, eccezionalmente strano: io mi sentivo al di sopra di tutti, io ero un essere a sé (quante volte, avrei ricercato questa benefica sensazione da individuo completo e indiviso!). E così col corpo sgualcito, spezzato, io mi abbandonai all’improvviso a quegli abbracci ondosi. Non serviva opporre resistenza: cominciai a roteare mille volte più rapidamente del solito e io bevetti avidamente quella sensazione e mi parve di assorbire fuoco, scintille fredde, calde, pungenti e poi tutto divenne in me leggero, semplice, chiaro e mi sentii alfine felice (fu la prima volta da ché ebbe inizio la mia genesi).
Io, il mio essere, la mia sensibilità, i miei timori e la mia sete di sapere, svanivano prive di importanza, diventai nient’altro che un impercettibile, irrisorio granellino rispetto al fragore immenso di quell’incomprensibile avvenimento (che la felicità consista nel minimizzare se stessi?!).
Poi improvvisamente tutto cessò e mi trovai come catapultato in un luogo nuovo dominato da tenebre inesprimibilmente profonde, voraci, ma confortevolmente calde.
Fui subito colto dal presentimento che lì avrei trovato qualcosa di grandioso.
Uno dopo l’altro arrivarono tutti: cento, duecentomilioni, forse anche di più. Ansanti e disordinati come un’armata in fuga, ci ritrovammo in quello che, a prima vista, sembrava un meandro buio e umido.
«Andiamo», mi disse secco colui che prima mi aveva impertinentemente infuso coraggio «... è finito. »
«Come è finito?» gli dissi «mi sembra che il meglio cominci ora!»
Mi guardò con aria di commiserazione: «Il meglio!» sibilò e se ne andò. Con un balzo gli fui addosso, ma non avevo previsto la sua agilità. Riuscii solo a sfiorarlo ed era già indistinguibile, mescolato fra gli altri.
NOTA QUINTA
Nel momento in cui finisce, già ti accorgi che qualcos’altro comincerà, nuove forze ti serviranno e nuove speranze le dovranno alimentare in vista di un traguardo finale in cui forse delle tue esperienze ate non ricorderai più nulla.
«Dove ci troviamo? » mi chiese timidamente uno di loro.
«Non saprei, sembrerebbe una specie di tunnel» gli risposi premurosamente, lusingato dal fatto che qualcuno mi rivolgesse finalmente la parola, qualcuno che non fosse quell’enigmatico elemento di prima e soprattutto del fatto che ci fosse qualcuno in quel luogo che ne sapesse meno di me.
«Un tunnel, già!» disse perplesso e fece roteare la testa per osservare meglio da tutte le parti; anch’io lo imitai. Le pareti di quell’ipotetico tunnel presentavano rilievi e rughe trasversali; l’ambiente acido di quel luogo non ci andava molto a genio, ma il liquido nel quale nuotavamo fin dall’inizio ci proteggeva.
Con un sospiro mi abbandonai al tepore di quel fluido in cui ero immerso e al vivido spettacolo che presto mi si presentò: delle bellissime “cellule” tappezzavano volta e pavimento dell’ambiente in cui mi trovavo; alcune producevano dei granuli ripieni di una sostanza mucosa che veniva emessa e ci permetteva di scivolare sopra di esse, era molto divertente e sembrava di essere nell’ottovolante di un luna Park. Altre cellule erano poi completamente rivestite da corte ciglia che con il loro movimento ondulatorio ci solleticavano e sospingevano in avanti. Il tutto aveva l’aspetto di una meravigliosa prateria.
Non potei fare a meno di lasciarmi dolcemente trasportare e così fecero anche i miei strepitanti compagni di viaggio. Ci concedemmo tutti un momento di spensieratezza, gioendo e rincorrendoci a vicenda. Ma fu soltanto un divertimento ingannevole perché quell’eccessiva euforia aveva indebolito molti di loro, improvvisamente li vidi accasciarsi e immobilizzarsi privi di vitalità. Osservai che quelli che cadevano avevano anche qualcosa di strano come due teste o due code, erano per così dire fuori dalla norma. Capii solo adesso perché partimmo così in tanti: molti di loro sarebbero infatti rimasti privi di azione e di pensiero, morti, credo sia questa la parola esatta.
Uno sconforto incontrollabile s’impossessò di me e temetti anche per la mia sorte. Un’irosa malinconia m’invase, non volevo più continuare, tanto valeva lasciarsi sopraffare dall’immobilità della morte, subito e senza invano sperare, visto che quello sembrava il destino ultimo a cui tutti eravamo diretti.
All’improvviso mi balenò davanti, ondeggiante, era lui, ancora una volta mi rivolse la parola incoraggiante: «i fini da raggiungere sono iscritti in ognuno di noi e non fuori di noi e il loro raggiungimento è frutto di impegno e di responsabilità. Coloro che sono caduti non si sono impegnati abbastanza, scuotiti dal torpore in cui stai precipitando, non è così che si ottiene ciò che si vuole. Nei tuoi libri sta scritto ... sta scritto che approderai».
«Dove?» urlai, ma si dileguò e rimasi avvinghiato nel mio punto interrogativo.
Ancora una volta quel profilo sottile mi infondeva coraggio, ma quel suo fare enigmatico mi indispettiva: cosa cercava di comunicarmi e perché non parlava chiaro e in modo continuativo, perché non mi svelava a me stesso?
Ripensai ai miei libri, alla mia lillipuziana enciclopedia indecifrabile; dimezzata da chi e perché; una cosa sola avevo intuito, che bisognava trovare una probabile
altra parte di noi stessi per poter capire e decifrare il nostro sapere codificato.
«Allora, hai trovato la tua verità, o ancora cerchi quella universale?» lo riconobbi, era colui che mi aveva parlato del Dio programmatore e dell’inesistenza di verità; devo dire che non mi era molto simpatico, ma mi affiancai ugualmente a lui per continuare un dialogo perché in mezzo a quella moltitudine, la solitudine cominciava ad essere insopportabile.
«Io voglio soltanto decifrare il mio sapere» gli risposi scoraggiato.
«Il tuo sapere!» fece eco «accidenti che saggezza!» fu alquanto ironico e pungente.
«Ma allora non hai capito che sei solo un piccolo, microscopico ammasso di lettere indecifrabili, destinato, sì ad evolvere, ma poi nuovamente ad annullarti reintegrandoti nel tutto; sei manovrato, sappilo, e l’unico scopo di Colui che ti manovra non è concederti di capirti, ma capire Egli stesso ciò che ha creato e arrivare alla perfezione con l’errore. Sei una tappa, una fase di un processo evolutivo incipiente, momentaneamente irrilevante, un esperimento, il vettore di un Pensiero Primordiale che deve aver modo di oggettivarsi, spazializzarsi e temporalizzarsi per perpetuarsi. Un dato empirico di un Dio che gioca alla ricerca di una sua verità: che possa essere creata la perfezione. Magari siamo solo un momento di Dio: la fase finita di un Dio infinito. E questa fase finita, questo momento, viene chiamato ... Vita».
«Bene», gli risposi «e io voglio vivere, voglio sapere di che si tratta».
«Sì, sì, accomodati, ma ricordati che siamo tutti in gara e non sarà facile, bello
mio, e ci vorrà energia, molta energia, e furbizia, molta furbizia! », sottolineò quest’ultima parola in modo argutamente perfido, ma non mi lasciai intimorire.
«Ma perché dimezzarci?» chiesi fingendo remissione.
«Perché... per aumentare la possibilità di variazione, diversità, errore e raggiungere così, forse, la perfezione”, rispose sempre più seccato, ma non ci badai e continuai: «ma l’altra parte di noi stessi, dove sta?»
«Dove sta?!» fece eco ironico: «questa è bella! Ma io non so dove sta» mi urlò addosso, «siamo tutti in gara verso un traguardo ignoto, questa è la beffa infingarda». Detto ciò si accasciò quasi privo di forze e rimase immobile e attonito quasi piegato in due.
«Ignoralo» nel nostro dialogo subentrò un terzo elemento che con pacatezza così continuò: «il suo parlare non è veritiero, ti dirò io qual è la verità: sei una tappa, è vero, ma una tappa casuale di un cieco processo evolutivo, inconscio, automatico. Non c’è in vista alcun fine; non c’è mente alcuna, né forma di coscienza che ci ha programmato e tanto meno ci manovra. Non è detto che una complessa eleganza, un complesso disegno, presupponga un progetto, frutto di abilità e intenzionalità. E’ il Caso artefice del nostro esistere che come un orologiaio cieco, che ha tutto il tempo che vuole a propria disposizione, ci ha forgiati in tale nostra indecifrabile complessità. Siamo la sintesi, forse momentanea, di un lento, lentissimo processo caotico privo di intenzionalità».
In quel momento mi sfuggiva la differenza tra Caso e Dio (e forse continua tuttora a sfuggirmi) ma una cosa avevo capito, che per entrambi il tempo non aveva alcun valore, potevano averne tanto a loro disposizione, ma io no, io dovevo capire al più presto perché sentivo la labilità del mio esistere.
Mi consolava però aver preso conoscenza del fatto che fossi complesso, quindi era comprensibilissimo che non mi comprendessi.
La storia dell’orologiaio cieco, comunque non mi convinceva e meno ancora la storia del Dio programmatore di se stesso e non capivo se Dio e Caso fossero soci in affari.
Intanto i miei due interlocutori cominciarono a confabulare tra loro sostenendo alacremente ognuno la propria idea, e più uno urlava Dio, l’altro sbraitava Caso.
All’improvviso un quarto elemento si rivolse a me con tali parole: «ciò a cui devi mirare non è la ricerca della verità, ma l’eliminazione degli errori. Ti renderai ben presto conto che se non lanci la tua, e sottolineo tua, rete di ipotesi, non abboccherà nessuna verità».
«Quindi anche tu mi dici di inventare? » dissi sconsolato.
«Non inventare, ma formulare ipotesi».
«E come faccio a sapere che la mia ipotesi è quella vera?»
«Tentando di falsificarla - mi rispose telegrafico - non cercare la verità, ma cerca gli errori delle tue ipotesi, solo questo ti è concesso fare. Ciò che è fantasia e creatività ti permetterà di formulare ipotesi, questa è Arte, falsificarle è Scienza. Portando alla luce gli errori delle tue creative ipotesi, troverai la soluzione, forse
momentanea, ma accettabile finché non dimostrerai il contrario. Se vuoi essere uno scienziato, sii innanzitutto un artista dubbioso.»
Ma io non sapevo cosa volessi essere perché non sapevo cosa fossi, mi cercavo e cercavo di capire. Un groviglio vano e infruttuoso cominciava ad attanagliarmi e lo confessai al mio interlocutore che così mi consolò: «il tuo destino sarà quello di uno che cerca!»
Consolante, pensai ironicamente, ma almeno troverò?
«Certo che i nostri amici sono tutti bravi a seminare confusione», così si espresse un quinto elemento che a me si accostò.
«Ma non sono i peggiori -continuò - almeno loro ogni tanto saranno assaliti dal dubbio, dal benefico dubbio, ma altri, altri in questo e in diversi luoghi, non avranno dubbi, nemmeno l’ombra; una fede cieca li animerà, quella stessa fede che metterà malignamente l’uno contro l’altro alla ricerca del supremo inconoscibile».
«Ma allora c’è un Supremo?» chiesi.
«C’è un Supremo!» sentenziò cupo.
«Ma inconoscibile.» obiettai.
«Nelle cose dell’intelletto non bisogna pretendere che le conclusioni non dimostrate e non dimostrabili possano essere false. Quel che oggi non è provato potrà esserlo domani.»
«Di cosa mi parli?»
«Ti parlo di Fede, ma di quella fede umile che ci spinge a cercare e che nasce dalla consapevolezza dei nostri limiti e che può sapientemente guidarci se non proprio a comprendere l’esistere, almeno a esistere.»
«Ma allora la fede va alimentata?» domandai.
«La fede ci deve alimentare, ma non deve diventare guida arrogante di menzogne. La fede comunque non dovrà costituire la prova delle cose non viste, perché bisogna sempre dar ragione della fede che è in noi.»
Cominciavo a capire che per trovare me stesso e capirmi dovevo avere fede nel trovarmi e fantasia per come e dove andare a cercarmi e rigore scientifico nel confutarmi.
Un sussurro glaciale mi distolse da tali riflessioni, era lui, il solito profilo sottile: «non ti curar di ciò che stai udendo in questo luogo, siamo solo le tue proprie possibilità di essere che mai saremo, rimarremo solo tue ispirazioni. Continua il tuo viaggio e più non domandare se vuoi approdare incolume di pensieri ancestrali che tormenteranno la tua esistenza perché inspiegabile ne troverai la fonte, persi in una memoria introvabile.»
Cessò il suo dire e veloce si dileguò lasciandomi solo con le mie incognite.
NOTA SESTA
«Vieni con noi!», mi gridò uno di loro correndo. «Dobbiamo subito uscire da questo tunnel se vogliamo andare da qualche parte».
Come un automa lo seguii, ondeggiando dietro la sua scia bianca e sottile e intanto riflettevo: che senso aveva questa ricerca infruttuosa, questo vagare incessante alla ricerca di ciò che non conoscevo? Ognuno argomentava le proprie convinzioni e io parevo l’unico essere privo di certezze. Rotolavo dietro quell’essere che mi faceva strada in quel meandro arido ma sovrappopolato tanto che non fui più certo di seguire lo stesso. Ma come potevo distinguerli fisicamente, se non nei loro pensieri dati da una diversa sequenza di quell’informazione primordiale data da sole quattro lettere? Erano perfettamente uguali; l’unica differenza fisica era che alcuni avevano il 23° volume contrassegnato da una X e altri da una Y.
«Ma tu non sei lo stesso di prima?»”, chiesi ragionevolmente notando che la sua X ora era Y.
«Siamo entrambi lo stesso!», ribatté, e riferendosi a quello di fianco continuò: «lui è lo stesso. Io sono lo stesso. Siamo tutti lo stesso, sai, esattamente lo stesso!»
«Ma è ridicolo», cercai di argomentare, ciò che avevo udito da loro non era affatto lo stesso, almeno nelle astrazioni non erano “lo stesso”.
Avendo letto il mio pensiero, la mia guida fuggevole, così mi disse: «ognuno di
loro ha espresso solo un frammento di un unico pensiero, paiono per questo diversi, ma sono tutti la stessa cosa, te stesso!».
Sconsolato lo abbandonai e ripresi la mia corsa verso l’ignoto e intanto riflettevo: avevo dialogato con diversi di quegli individui, ma non mi avevano comunicato niente di esauriente e definitivo, uno di loro, però, più volte mi aveva incoraggiato, da lui trapelava una saggezza che in altri non avevo riscontrato, era come se avesse particolarmente a cuore il mio destino e sentivo che di lui potevo fidarmi, ma perché non mi parlava esplicitamente? Decisi di cercarlo.
NOTA SETTIMA
Mi costernava quella caparbia volontà di decifrare il sapere che ormai pesantemente custodivo, perché mi ostinavo a non lasciarmi neppure la consolazione dell’ignoranza?
All’improvviso lo rividi: la X contrassegnava il suo ventitreesimo volume. Cercò di evitarmi movendo celermente la coda per nebulizzarsi in mezzo alla moltitudine, ma questa volta fui più veloce e lo raggiunsi; fulmineo lo bloccai avvolgendo con tre giri la mia coda attorno al suo collo, non fece motto alcuno e non tentò di liberarsi. «Parla, dunque!» gli urlai.
«Cosa vuoi sapere?» mi chiese acquiescente. «Tutto!» risposi «dal principio alla fine».
Così cominciò a proferire teatralmente: «In principio era il Verbo e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio…»
«Piantala!» gli sibilai con un tono tra rabbioso e implorante temendo l’ennesima successione di parole sibilline, «non è quello il principio che voglio udire».
«Allora, cosa vuoi udire», incalzò quasi arrogante, «che in principio era caos indistinto e tutto ciò che esisteva era vuoto e informe, oppure che il principio è nel profondo di te stesso».
Mi accorsi di conoscere il principio per averlo vissuto direttamente e prima del
principio c’era il nulla, quindi non potevo chiedere nulla sul nulla, o per lo meno, non ancora.
«Lasciamo perdere il principio», azzardai «parlami piuttosto del futuro che mi aspetta, parlami di ciò che sarò».
Mi guardò con un’aria di benevolenza, o forse pena, commiserazione, non saprei dire, fatto sta che mi parve più remissivo e adagiandosi sulla testa così si espresse: «Il tuo esistere rimarrà un dubbio irrisolvibile, un problema insolubile, sarai il frutto di quello che hai vissuto e non di quello che vivrai, prima che tu possa vivere non posso dirti ciò che sarai.»
«Ma i miei libri?», cercai di argomentare «nei miei libri qualcosa sta scritto, sta scritto che approderò, tu lo dicesti.»
«Sì, approderai all’inizio, ma dopo l’inizio, il messaggio contenuto nei tuoi libri si integrerà con l’ambiente e ne verrà influenzato, ciò che è in te, diverrà sotto l’influsso ambientale, altro, diverso da te».
«Ma potrò decifrarmi?», chiesi ormai disperato.
«Certo, ma in qualcosa ancora per te più incomprensibile perché più complessa, per non parlare dei tuoi pensieri, la confusione che hai recepito in questo luogo sarà nulla rispetto a quello che udrai quando sarai. Assisterai al dibattito incessante, perpetuo, intorno a dubbi irrisolti nella speranza di sciogliere l’enigma dell’esistenza, ma la più alta facoltà umana, la ragione, non si accontenterà di sondare l’esistere, ma avrà un’irresistibile aspirazione a sorare l’esistere, cioè i propri limiti, nella speranza così di giungere
all’Assoluto per farne oggetto di scienza, spererà così di conoscere l’inesistente e allora si arriverà al paradosso che per conoscere oltre i limiti di se stessa, oltre i limiti del proprio esistere, dovrà straripare nel non esistere per “vedere” ciò che esso è».
Sembrava ormai un fiume in piena e le parole uscivano in modo incontrollabile ed enfatico ed io, metaforicamente, pendevo dalle sue labbra e lasciai che continuasse ascoltandolo con muta venerazione.
«Un groviglio infruttuoso e vano attanaglierà la tua mente tra libertà e felicità perché l’intera umanità si ostinerà sempre a voler unire libertà a felicità e non si accorgerà che la vera felicità consiste nel non porsi alternative, nel non avere scelta: è l’opportunità di scelta, ciò che dilania l’uomo e lo rende infelice. Vivere senza scelte è vera felicità; vedi, dunque, quanto sarà sciocca la ricerca della felicità. Ad un certo punto sentirai la tua testa vuota, la tua anima sbiadita, plurilavata, nel tentativo di renderla bianca, immacolata, ma rimarrà sempre il segno indelebile del precedente peccato originale. Si maledirà la mela che ci ha fatto discernere il bene dal male, ma da più parti si continuerà a chiedere: Cos’è il bene? Cos’è il male? Un filo sottile li separerà e pochi lo vedranno, ma sarà tutta colpa degli occhi che mentiranno, perché la visione retinica delle cose, non è la visione delle cose! Per non parlare della disputa infinita tra evoluzionismo e creazionismo e non si accorgeranno che è molto più miracoloso un evoluzionismo di un banale creazionismo. Diranno che Dio è onnipotente, ma gli attribuiranno la creazione dell’uomo al pari di un bambino che gioca con la creta; ma un Dio onnipotente, per creare l’uomo, può aver fatto ricorso a dei metodi più sofisticati: l’evoluzione, ad esempio!»
A tal proposito non accennai a quello udito da colui che sosteneva l’esistenza di un Dio programmatore e del Suo progetto di arrivare alla perfezione con l’errore; anche se ciò che mi svelava era ancora sibillino, continuai a tacere sperando di capirne di più.
«Ma scioccamente riterranno più logico attribuire il merito di un tale grandioso processo, al Caso» continuò, «ingenui! E’ solo un nome diverso con cui chiameranno Dio e qualcuno amaramente si definirà: individuo biologico, casuale tappa di un cieco processo evolutivo.»
Ci siamo, pensai, ecco il collegamento, anche quell’altro parlava di Caso, ma in termini leggermente diversi, più che altro come complice inconscio di un Dio consapevole del suo sbaglio al quale voleva rimediare con l’errore, non c’è che dire, cominciavo a provare una grande confusione, quasi nausea e volevo scappare, ma lui continuò incalzante, come un profeta esaltato dal suo sapere inventato: “Fede e cultura si anteporranno alla ricerca del supremo inconoscibile, la fede vorrà credere anche a costo di non sapere e la cultura vorrà sapere anche a costo di non credere”; già da allora mi accorsi che avrei simpatizzato per la cultura spinto dalla fede di sapere.
«E alla fine ti accorgerai che saranno sempre gli stessi pensieri e le stesse idee a circolare nella mente degli uomini e ognuno crederà di averle pensate per la prima volta, ognuno crederà alla propria originalità e unicità e non si accorgerà di essere solo una parte di un tutto talmente ampio da coincidere con l’infinito!»
Mi pareva impossibile riuscire a sopravvivere in una tale nebbia di cognizioni e non cognizioni; «A che mi servirà», dissi sconsolato, «portare a compimento il mio essere, sapendo fin da ora che il dubbio lo assillerà perpetuamente?»
Soggiunse: «potrai fare solo una cosa, dovrai imparare a soffermarti più volte in angoli deserti della tua mente, dove le percezioni sensoriali del mondo circostante ti giungeranno soffocate, e là, cercherai di discernere nel lontano brusio di tormentose ma inevitabili incertezze, una voce intonata che come un suono melodioso rimbalzerà nei meandri freddi e bui della tua anima, riscaldandola e illuminandola col riverbero incessante di una sola verità, e allora sentirai che solo nell’amare sta la felicità e la salvezza. Questo, è ciò che dovrai
attuare per sopravvivere alla sofferenza incondizionata dell’esistere: Amare. L’amore ti salverà». Era la prima volta che udivo quella parola, aveva un suono equivoco e per questo affascinante, era un suono ermafrodita che aveva in sé la perfezione dell’ambiguità. Il mio loquace compagno di viaggio, che mi aveva così erudito, rimase compiaciuto vedendo il mio atteggiamento trasognato e ormai preda di una nuova curiosità: trovare l’amore.
Aveva colpito nel segno. Da quel momento un desiderio irrefrenabile s’impossessò di me, il desiderio di amore.
Avevo ripreso il mio viaggio verso l’ignoto, ma qualcosa di nuovo ora mi spingeva, la volontà di decifrarmi mi appariva priva di valore se paragonata a questa nuova, sublime volontà che in me all’improvviso era sorta: la volontà di amare. Avevo compreso in un attimo quello che sarebbe stato il motore che mi avrebbe spinto in avanti e questo benefico istinto mi nutrì di speranze, di sogni, di gioia.
Andavo qua e là sospirando con un atteggiamento di estasi infinita, malinconico, era come se fossi malato. Che strano effetto fa l’amore! Mi sentivo come quando in un sogno ci si sveglia senza smettere di dormire. Ero in preda a un sentimento. C’era sempre in me un soffuso senso di dolore, ma qualcosa di nuovo tendeva a farmelo ignorare, a sperare che da qualche parte avrei trovato ciò che cercavo. L’Amore.
Ma questo nuovo sentimento che mi animava era ancora per me indefinito, più incomprensibile a me stesso del medesimo me stesso.
Cos’è Amore? L’eco del mio muto pensiero si diffuse ovattato in quel luogo amorfo e subitanea arrivò una risposta: «amore è desiderio di un qualcosa che non si possiede, nel momento in cui la possiedi cessa anche l’amore.» Adagiato
tra due cellule cigliate così si espresse un pigro elemento, copia di me stesso.
Continuò: «Tu insegui il tuo sapere ignoto e inseguendolo lo ami, proprio perché ignoto e incuriosito brami ad esso per coglierne la verità ultima.»
«Quindi Amore è desiderio di conoscenza», risposi incalzante e intenzionato a continuare un dialogo su quell’argomento che trovavo interessante.
«Sì, credo proprio sia così! Ma la conoscenza ultima e completa è irraggiungibile, per questo noi esseri incompleti e imperfetti potremo amare in eterno. La nostra imperfezione ci rende anche eterni amanti; l’uomo è inaccessibile nel profondo di se stesso! Soltanto un essere onnipotente, onnisciente e perfettissimo può raggiungere la conoscenza ultima perché compenetrandola la comprenderebbe in modo intimo e profondo e impossessandosene in tal modo non l’amerebbe più.»
Domandai: «quindi non possiamo raggiungere la conoscenza ultima e completa perché siamo esseri imperfetti, pertanto il desiderio di conoscere non potrà mai esaurirsi?»
Eccolo che ondeggiante subentra nel nostro dialogo, è lui, il sostenitore del Dio programmatore: «Dio, dandoci l’imperfezione, ci ha donato la capacità e l’opportunità di amare in eterno.» «Ma Dio ama?», chiesi frastornato.
«A lui non serve amare, perché Conosce e conoscendo non desidera e non desiderando non ama; sentirai in futuro una storia, la storia di un Dio che si è fatto uomo: ecco perché si farà Uomo proprio per provare il sentimento di Amore proprio dell’essere imperfetto e completarsi così nella sua perfezione
sperimentandone anche l’imperfezione e le conseguenze che ne derivano.»
«Quindi ci sarà un Dio che avrà bisogno dell’uomo per completare la propria onnipotenza?», chiesi sempre più confuso.
«Sì!» fu la risposta laconica
«Dio avrà bisogno dell’uomo da lui stesso creato, avrà bisogno della sua stessa creazione per esprimersi ed Essere; sarà nella sua stessa creazione, senza la quale non potrebbe essere. Ecco che Dio si compenetra nell’Uomo e l’Uomo in Dio. Ma ancora questo processo di identificazione non è ultimato: Dio sta creando l’uomo a propria immagine e somiglianza errore dopo errore, copia dopo copia, con l’aiuto del Caso che sbaglia senza premeditazione.» Avevo già sentito quelle tesi.
Completò così il suo discorso iniziato nella fase incipiente del mio e del suo viaggio e alla fine si accasciò inerte e in un ultimo respiro profondo si collassò, raggrinzendosi spaventosamente. Cessò lì il suo blando e precario esistere in un’affermazione ultima, ma che sentivo, in qualche modo, molto vicina a una parvenza di Verità. Ripresi spaventato il mio viaggio.
NOTA OTTAVA
Mi sfuggono i pensieri ora, così come allora sfuggivo a me stesso, a quelle copie di me stesso che tenacemente mi inseguivano (così almeno, a me pareva). Echeggiava nella mia ragione una espressione: “Non ti curar di ciò che stai udendo in questo luogo, siamo solo le tue proprie possibilità di essere che mai saremo, rimarremo solo tue ispirazioni. Continua il tuo viaggio e più non domandare se vuoi approdare incolume di pensieri ancestrali che tormenteranno la tua esistenza perché inspiegabile ne troverai la fonte, persi in una memoria introvabile.”
Eppure non potevo fare a meno di loro, mi erano indispensabili per osservarmi, per scrutarmi e conoscermi. Cominciavo a sentire la stanchezza di quel lungo e interminabile viaggio. Eravamo decisamente rimasti in pochi: da duecento milioni iniziali, in questo tratto del nostro percorso eravamo ora un centinaio e ci accalcammo in quello stretto condotto senza più sapere dove proseguire.
Non avevo idea di dove mi trovassi, un’ennesima galleria, curvata inferiormente, ma monotona nella sua fisionomia paesaggistica.
I miei compagni di viaggio ormai stanchi e muti, si adagiarono per riposare un po’; io, senza dar troppo nell’occhio decisi di andare un po’ più oltre per vedere cosa vi fosse: proseguii solitario in quel meandro ristretto, ebbi paura, ma andai avanti spinto da un Amore cieco; muovevo lentamente la mia coda come un subacqueo che ondeggia lentamente le sue pinne un po’ per rispetto di quel profondo silenzio e un po’ per non farmi notare quale preda prelibata per qualche macrofago affamato (erano loro infatti che ripulivano il luogo da coloro di noi ormai morti o stanchi per proseguire).
Ad un certo punto mi accorsi che il diametro del tunnel in cui mi trovavo si allargava ad imbuto, mi spinsi ancora in là ma, ahimè, se non avessi avuto la prontezza di aggrapparmi ad un lembo di quell’imbuto, che terminalmente si sfrangiava con delle fimbrie, sarei precipitato nel vuoto.
In quello spazio buio mi apparve improvvisa una grossa formazione ovoidale, aveva un colorito grigio rossastro e la sua superficie non era liscia, ma piuttosto rugosa per la presenza di strane vescicole più o meno rigonfie e proprio una di queste mi diede l’impressione che stesse per esplodere: si gonfiava lentamente sotto la spinta di un qualcosa che premeva al suo interno. Oltre a queste vescicole osservai altre formazioni in tutto simili a delle cicatrici di colorito bluastro, probabilmente era ciò che rimaneva dopo quella che, secondo me, sarebbe stata un’imminente esplosione di quella vescicola. E infatti, così fu: il rigonfiamento, esplodendo si squarciò e qualcosa avanzò verso me, non violentemente, ma dolcemente, come al rallentatore; rotolava con eleganza, circondato da una moltitudine di celluline che gli formavano tutt’attorno una delicata corona.
Per un momento si trovò a galleggiare nel vuoto di quella cavità, ma poi venne come aspirato dalla tuba in cui mi trovavo, quindi mi retrassi per non venirne travolto; per un momento rimasi immobile, estasiato dalla bellezza di quella sferica perfezione e dal bagliore aureo che emanava; incapace di pensieri e volontà stavo lì in estasi contemplativa e mi sentivo infinitamente vivo e pervaso di un sentimento di …. Amore.
Improvvisamente ne fui meccanicamente attratto e come un automa mi avvinghiai ad esso; intanto fui raggiunto anche dai miei compagni di viaggio che freneticamente e disordinatamente si dirigevano verso quella formazione sferica; mi travolsero e mi pigiarono contro di essa, il tutto avvenne in un attimo senza che ebbi il tempo di rendermi conto di ciò che stesse accadendo.
Quel contatto improvviso mi elettrizzò, quasi inconsciamente liberai dal mio
cappuccio il liquido che più volte avevo sentito fluttuare sopra il mio capo e le cellule protettrici della Sfera, al contatto di quel liquido, si separavano tra loro e mi aprivano così un varco; anche i miei compagni (ormai diventati tali) nel tentativo di entrarvi, scioglievano le celluline e segavano con i loro cappucci l’ulteriore pellicola lucida che ancora avvolgeva ciò che decisamente era un Uovo, ma così non fecero altro che facilitare il mio ingresso al suo interno e tutto repentinamente si richiuse alle mie spalle. Il fruscio del silenzio mi invase e in quella pace immensa perdetti i miei contorni e la sfera incantevole ed io, diventammo una cosa sola.
NOTA NONA
Ecco cos’ero stato, un organismo microscopico guizzante, che nella ricerca sfrenata del proprio sapere occulto e indecifrabile, aveva dialogato con le sue proprie possibilità di essere che mai sarebbero state, ma che avrebbero lasciato un segno indelebile come memoria ancestrale di conoscenze pregresse e inspiegabili. E avvertendo la mia incompletezza, spinto da un sentimento d’Amore, mi ero avventato verso quella che doveva essere senz’altro l’altra parte di me stesso che mi avrebbe così completato e forse decifrato. E compenetrandomi con essa avrei scombussolato la sua tranquillità data dall’assenza totale di dubbio e di speculazioni astratte, ma che era azione pura.
Avvinto in quel muto legame di intesa mi sentivo non più parte di una parte, non più individuo dimezzato e inconoscibile, ma Unità. La mia vita cominciò in quell’attimo inavvertibile dell’unione fatale con me stesso per Essere e il ticchettio di un tempo inesorabile prese avvio.
Ciò che era stato frammentato, era ora lineare, rettilineo, continuo, armonico; non più un interminabile frammentarsi di idee, concetti, opinioni, ma solo azione, attività frenetica senza pensiero né dubbio alcuno.
Quell’Unità generata dall’unione con me stesso comincia a dividersi come per perpetuarsi all’infinito: due, quattro, otto, sedici, trentadue. Un aspetto simile a frutto di mora è ora il mio.
Intanto discendo e mi adagio mollemente in un tessuto morbido e ovattato, ispessito, che mi avvolge e mi ingloba caldamente e io mi annido in esso sicuro e protetto. Da una solida sfera di cellule, mi trasformo in un piccolo organo cavo a forma di otto: le due cavità che mi formano sono separate da un disco, il disco
embrionale (e da esso che poi mi svilupperò). La metà inferiore di questo otto diventa una piccola vescicola vuota (che poi si distaccherà da me). La metà superiore forma pian piano una cavità ripiena di un liquido che mi circonda poi completamente e nel quale mi trovo a galleggiare come in un rivestimento acqueo.
Frattanto il disco embrionale come primo abbozzo di me stesso comincia a trasformarsi: cuore e cervello sono i primi a svilupparsi; compaiono giovani cellule del sangue che si raccolgono in piccoli isolotti che in breve si fondono per formare un unico tubo cardiaco che presto si mette a battere diventando il mio cuore. Al centro del primigeno disco embrionale si forma come una specie di placca i cui bordi si sollevano e si arrotolano formando un tubo, la cui parte anteriore diventa cervello e quella posteriore midollo spinale.
In seguito nel mezzo del disco si forma una tasca da cui si sviluppano stomaco e intestino.
Dopo venticinque giorni sono lungo 2,5 mm e ho un’estremità cefalica e una caudale, un dorso e un ventre. Non ho né braccia né gambe e nemmeno faccia e collo, perciò il cuore e accanto al cervello.
Cominciano a formarsi i polmoni che appaiono come una piccola scanalatura nella faccia ventrale; il fegato è solo un ispessimento nella parete dell’intestino, dietro il cuore. Il mio primo rene sarà simile a quello posseduto da un pesce, poi ne formo uno simile a quello di una rana e infine con i frammenti di questi ne formo uno mio proprio.
Alla fine del primo mese sono lungo 6 mm, formo quasi un cerchio, con una breve coda a punta sotto il ventre e piccole protuberanze ai lati del corpo: abbozzi di braccia e gambe. Credo di avere ai lati del corpo le branchie. Nella
testa compaiono due piccole protuberanze, gli occhi e preme verso l’esterno anche l’abbozzo di un naso e una parvenza di sensazione uditiva arriva a una porzione di un tessuto sensibile.
A due mesi dal mio inizio come unità, la mia lunghezza è aumentata di sei volte, arrivando a più di 3 cm e il mio peso è aumentato di circa 500 volte.
Comincio a delinearmi in contorni netti in quanto ossa e muscoli si sviluppano pian piano tra la pelle e gli organi interni. La bocca si rimpicciolisce, le cavità nasali si avvicinano, gli occhi si spostano sul davanti. Premono sfacciatamente verso l’esterno le braccia e le gambe e, ancora più sfacciatamente gli organi sessuali emergono con una serie di abbozzi ambigui.
Al terzo mese compaiono le gemme di tutti i venti denti provvisori della mia futura infanzia e gli alveoli, fanno la loro comparsa anche le corde vocali; le cellule che rivestono l’interno dello stomaco cominciano a secernere muco e il fegato comincia a riversare la bile nell’intestino, anche i reni cominciano a funzionare sprigionando urina.
Al quarto mese sono lungo ormai 15 – 20 cm e comincio a muovermi.
La superficie della pelle si fodera di cellule dure, morte e dissecate che formano una barriera di protezione tra il mio corpo e il liquido in cui mi trovo immerso. Ghiandole sebacee e sudoripare compaiono e iniziano la loro secrezione liquida grassa e untuosa che collabora alla protezione. Sono alla fine del quinto mese e potrei già pettinarmi e graffiare perché capelli e unghie fanno la loro comparsa.
Al sesto mese le palpebre si aprono e mostrano occhi completamente formati e la
mia bocca ha già la percezione del gusto per la presenza della papille gustative.
A sette mesi sono una creatura rossa, grinzosa, lunga circa 40 cm, che pesa 1,5 Kg.
Trascorro l’ottavo e il nono mese agitando arti superiori e inferiori.
Un giorno di agosto di un istante indefinito, ai primi albori, avverto una luce. Un chiarore, un barlume soffuso, risveglia in me un senso di ricerca assopitosi nell’incedere di quella metamorfosi fenotipica. Nel luogo in cui mi trovo c’è caldo e sono in uno stato di benessere, protetto da un brodo primordiale. Ma quella luce sortisce in me la curiosità incontrollabile. Una forza con potenza risoluta mi spinge, calca preme e mi incoraggia spostandomi verso quell’incognito luccicante. Mi prende improvvisa una grave crisi, e ho vertigini per via della difficile posizione cefalica che ho assunto, mi aggrappo a un cordone che provvidenziale da qualche tempo mi sostiene ma da esso riesco a prelevare anche l’energia necessaria per potermi finalmente staccare e coraggiosamente lasciarmi sbalzare dal tunnel in cui mi trovo. Una cumulo di percezioni sensoriali irrompono nei miei sensi proiettandomi in uno stato di stordimento assoluto. Quella luce fulminea mi acceca, un’ aria sconosciuta mi soffoca, urlo, i polmoni si espandono per accoglierla e la compressione inattesa di quel respiro primordiale deforma lo sterno causandomi un dolore lancinante, urlo incessantemente ed ho proprio la certezza di piangere urlando. Sono già pentito del mio gesto e voglio tornare indietro, ma non è più possibile.
Ed ora eccomi qua, completamente tradotto, decifrato, materializzato. Vedo, leggo, comprendo quel patrimonio di sapere che era racchiuso in una sequenza interminabile di sole quattro parole, allora indecifrabili e adesso materializzate in me, Essere Vivente: ora sono finalmente tradotte le mie mani, i miei occhi, il mio cuore, il cervello con le sue capacità di pensare, ragionare, amare, comprendere, piangere, sorridere, …dubitare, accogliere nei pensieri rinnovate visite di Dio, voce consolatrice delle mie incertezze a cui offro riguardosa ospitalità priva di
vani interrogativi. Ora che tutto è compiuto attendo senza fretta il ritorno allo stato primordiale e nel frattempo vivo immergendo la mente nella fitta nebbia delle sensazioni, emozioni, cognizioni e azioni e quando sarà l’ora mi collasserò nuovamente in pura e perfetta idea, arricchita però, di un’esperienza nuova: l’esistere nel tempo. Chissà se mi servirà!
Indice
NOTA PRIMA
NOTA SECONDA
NOTA TERZA
NOTA QUARTA
NOTA QUINTA
NOTA SESTA
NOTA SETTIMA
NOTA OTTAVA
NOTA NONA
Titolo | Quando ero uno spermatozoo Autore | RITA SOTGIU ISBN | 9788891174383 Prima edizione digitale: 2014 © Tutti i diritti riservati all’Autore Youcanprint Self-Publishing Via Roma 73 - 73039 Tricase (LE)
[email protected] www.youcanprint.it Questo eBook non potrà formare oggetto di scambio, commercio, prestito e rivendita e non potrà essere in alcun modo diffuso senza il previo consenso scritto dell’autore. Qualsiasi distribuzione o fruizione non autorizzata costituisce violazione dei diritti dell’editore e dell’autore e sarà sanzionata civilmente e penalmente secondo quanto previsto dalla legge 633/1941.