Guerrino Babbini
Quello che le donne raccontano
Youcanprint Self-Publishing
Titolo | Quello che le donne raccontano Autore | Guerrino Babbini Immagine di copertina a cura dell’Autore ISBN | 9788891124340 Prima edizione digitale 2013
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Sul titolo mi ha convinto un proverbio africano
“quello che non viene raccontato è perso”
INTRODUZIONE
Sadaf e Mara hanno entrambe 25 anni. Sadaf è di origine persiana ma tra i 12 e i 22 anni ha vissuto negli Stati Uniti, dove ha studiato letteratura. E’ sposata con un italiano e insegna inglese all’università. Mara è italiana, ha vissuto negli Stati Uniti per un anno e studia storia delle comunicazioni. Lavora come archivista ed organizzatrice di eventi culturali.
Il femminismo è l’argomento di una loro conversazione.
Sadaf: Il femminismo secondo me è, nel 21 secolo, il non doversi più preoccupare della disparità tra uomo e donna, non pensarci proprio più. O almeno dovrebbe esserlo: dovrebbe essere un concetto superato. In Italia si parla tanto di incoraggiare il lavoro femminile, le quote rose….io da piccola pensavo che ormai, dopo 80 anni di lotte, saremmo state pari, arrivati a questo punto. Poi bisogna tenere in conto che il femminismo nei paesi industrializzati, o meglio post industrializzati come l’Italia, è molto diverso da quello nei paesi meno sviluppati, come l’Iran. Lì in qualche modo la questione è più semplice, perché per legge le donne non possono fare determinate cose, e le lotte e gli obbiettivi sono molto più evidenti, i problemi più facili da additare. In paesi come Spagna, Italia, e anche Stati Uniti, sono meno tangibili: nessuno ti dice chedevi metterti la gonna più lunga e pensi che sei libera, che hai tutto. Poi vedi, proprio in Italia, che su solo 4 donne ministro una è la Carfagna, messa alle pari opportunità oltretutto. Il problema qui non è il ato da soubrette, o che abbia fatto il calendario, questo va benissimo, chi se ne frega! Poteva anche essere una pornostar, non sarebbe stato un problema, se avesse avuto un background politico, una certa esperienza. Ma lei è stata travasata direttamente dal mondo delle veline alla politica, senza nessuna preparazione, e questo fatto diventa il punto più offensivo del governo nei confronti delle donne. Il femminismo è considerato ormai troppo tradizionale dalla gente come pensiero, e stiamo perdendo tantissime cose. Una mia professoressa, profondamente attiva nel movimento, mi ha scritto
l’altro giorno che secondo lei la mia generazione non si rende conto di quanto la sua abbia lottato per avere i diritti che a noi spettano, e diamo tutto per scontato, pensiamo che ormai l’uguaglianza sia raggiunta. Invece non è così. Per esempio, tu non crederai quante mie amiche ano il weekend a casa del fidanzato per fargli le pulizie, lavargli i vestiti……ora ok, è un gesto che fai per amore, per dimostrare il tuo affetto….ma lo fai una, due volte, non sempre! Quando diventa l’abitudine questo per me è proprio medioevo. Hai mai sentito di un ragazzo che invece vada dalla sua fidanzata a farle le pulizie?
Mara: Per me qui il problema non è tanto che le ragazze lo facciano, quanto il fidanzato che le lascia fare senza sentirsi a disagio.
Sadaf: Ma a tutti piace che qualcun altro faccia le pulizie, anche io se mio marito mi dicesse che fa tutto lui mi ci abituerei in fretta e lascerei fare! Non è tanto il ragazzo, ma la ragazza che sente naturale farlo. Sono ancora cresciute in famiglie dove era la mamma che faceva tutto e quindi lo vedono come normale; ma loro hanno 20 anni, sono di una nuova generazione, non si rendono conto che non possono continuare a seguire vecchi modelli.
A me sorprende tantissimo come la gente pensi che ci siano lavori maschili e lavori femminili: lavare i piatti è femminile, cambiare la lampadina è maschile; le coppie si dividono i lavori in questo modo…ma perché? Se si è rotta una lampadina anche io posso cambiarla nello stesso identico modo di un ragazzo….potrei capire se ci fosse un muro da abbattere, magari non ne ho la forza fisica, ma non sono naturalmente più portata a lavare i piatti che a riparare un tubo dell’acqua! Veramente, quando sono arrivata in Italia questa cosa mi ha stupito tantissimo!!
Quando da bambina ero in Iran, era sempre mio padre a cucinare, perché gli piaceva. Adesso lavora come capocuoco, a quei tempi era solo una ione. A me sembrava assolutamente normale, ma per i miei amici era una stranezza, era
sempre materiale di dibattito! Questo era l’Iran di 20 anni fa….oggi in Italia ho le stesse discussioni: Massimo (mio marito) cucina e gli amici mi dicono: “ti tratta bene”…ma io tratto bene lui allo stesso modo, cosa c’entra! Un giorno cucino io e l’altro lui, è normale. Loro invece lo vedono come se lui stesse facendo un favore a me.
Mara: Invece negli Stati Uniti non era così.
Sadaf: Beh, quando ero negli Stati Uniti eravamo in un’età per cui le coppie non convivevano ancora, non ne parlavamo. Ma quando mi sono trasferita qui è stata una delle cose che più mi hanno stupito. Poi non penso che il femminismo non possa essere unico, il femminismo come lotta intendo, ogni paese ha le sue peculiarità politiche e culturali che rendono i temi di lotta diversi.
Mara: Ma in Iran come impostano le lotte, cosa si fa esattamente?
Sadaf: Le lotte sono condotte tutte dalle donne, per esempio Shirin Ebadi, la premio Nobel, che ha una sua organizzazione molto attiva. Lì le cose sono stabilite per legge, è anche una questione di mentalità ma soprattutto è una questione istituzionale, politica. Per esempio quando si divorzia, la madre non può prendere i bambini. Da una parte è molto più facile, è chiaro che cos’è che va cambiato: la legge. Ma dall’altra è molto più difficile, è una lotta proprio contro il sistema, contro il governo….è molto diverso da una lotta culturale come può essere quella italiana. Qui non ci sono leggi per cui una donna non possa diventare giudice, come in Iran. Però quando vivi in una situazione di oppressione forte e chiara, la gente reagisce quasi automaticamente, mentre qui in Italia non succede niente.
Mara: Sì, è vero, qui c’è una specie di stallo perché sembra che abbiamo tutto
e invece non è così.
Sadaf: Per esempio, quando quel Ferrara aveva fatto la lista anti-aborto, nessuno ha fatto niente! Sembravano tutti molto tranquilli, anche le donne…. a me ha fatto molto paura, pensa se una legge del genere venisse abrogata! E Berlusconi che parla di un soldato per ogni bella donna? Ma questo è al livello di quando si diceva che una ragazza con la minigonna che veniva stuprata se l’era andata a cercare, perché provocava: una donna bella si dovrebbe aspettare di venire stuprata per gli istinti che provoca nell’uomo??? E nessuno si indigna, nessuno fa niente, neanche le donne!
Mara: non è che nessuno si indigna, il problema è che ognuno si indigna per sé e basta, non succede niente, non si riesce a trasformare questo sentimento in un’azione collettiva. Ci si iscrive ad un gruppo su Facebook pensando di poter sfogare così la frustrazione e l’impotenza.
Sadaf: Per esempio, in questo periodo abbiamo assistito ad una vera e propria epidemia di violenze sulle donne; se ne parla tanto ai telegiornali per incolpare gli immigrati, ma nessun programma serio (parlo di Santoro o di Ballarò, per dire) ne ha parlato in modo reale, non strumentale. Questa cosa del soldato per ogni bella donna, l’idea che è compito della donna stare attenta a non provocare gli uomini, è alla base del velo in Iran e di tutta questa mentalità: se provochi gli uomini ti prendi quello che ti vai a cercare.
In Iran una donna che viene stuprata in automobile può andare in prigione perché è vietato per un uomo e una donna trovarsi da soli in un’auto, e quindi è colpa sua che se l’è andata a cercare. Io spero in Italia nessuno pensi in questi termini, ma per esempio quella ragazza violentata a Roma ha dichiarato di sentirsi molto umiliata per quello che è successo, che la gente parla molto male di lei…lo stupro anche in Italia è una macchia sulla tua reputazione come donna.
Mara: pensa che qui in Italia fino al 1996 il reato di stupro era considerato un reato contro la morale, e non un reato contro la persona. Fino al 1996, ma ti rendi conto??? E il delitto d’onore è stato abolito solo nel 1981!!
Mara: Parliamo del rapporto con tua madre. Per esempio, mia mamma si può dire che sia una femminista vecchio stile, ha partecipato a tutte le lotte della sua giovinezza. Per me, la ribellione adolescenziale significava comprarmi scarpe con il tacco, vestirmi elegante, truccarmi…che per mia madre erano cose sbagliatissime, che lei non si sarebbe mai messa addosso; quando le ho chiesto i soldi per il primo reggiseno, a 13 anni, mi ha risposto che quegli affari da giovane lei li bruciava in piazza. Ma questo non è un regresso per me, semplicemente è un’evoluzione. Io trovo il reggiseno comodo e lo indosso, non lo faccio certo per mostrare o nascondere qualcosa agli uomini; non lo vedo come un simbolo di repressione, assolutamente. In questo mi rendo conto che c’è una differenza di vedute. Per esempio, ne’ a me ne’ a te dà minimamente fastidio che la Carfagna abbia fatto un calendario o sia stata una velina, lo sdegno nasce dal fatto che non abbia nessun titolo, nessuna capacità per fare il ministro, velina o non velina.
Sadaf: Io con mia madre non ho mai avuto questo tipo di scontri. Però una cosa che mi dava sempre fastidio in casa era che quando c’era una festa le donne andavano da una parte e gli uomini dall’altra: le donne parlavano del proprio matrimonio, della famiglia, della loro vita; gli uomini di politica, della rivoluzione, di economia. Molto spesso, io vedevo mia madre che andava a parlare con gli uomini, e in questo la vedevo come un modello. Parlava anche con le donne ovviamente, ma era presente in entrambi i gruppi. Ancora adesso mi dà un fastidio terribile questo pregiudizio, spesso ricreato dalle donne stesse, devo ammettere, per cui le donne parlano di shopping e di trucco mentre gli uomini affrontano altri argomenti. A me viene naturale mettermi nel gruppo degli uomini perché anche se mi piace parlare di vestiti mi piace molto di più parlare di politica. Forse uno scontro c’è stato nel momento in cui dall’Iran siamo andate negli Stati Uniti. In Iran è tradizione che le donne si sfoltiscano le sopracciglia solo appena prima di sposarsi, e io sono arrivata con il mio monociglione negli Stati Uniti. Mi vergognavo e volevo iniziare a curarle, mia madre era contraria perché diceva che ero troppo piccola…ma
erano minuzie di questo tipo. Per il resto, mio padre faceva tutto in casa, ed entrambi i miei genitori erano profondamente coinvolti in politica durante la rivoluzione: erano entrambi nel Partito Comunista, quindi con una formazione molto diversa da quella degli altri; poi in Iran c’erano così tanti altri problemi che la gente pensava ad altro…comunque mia mamma ha sempre lavorato in grosse aziende, da quando aveva 18 anni, è sempre stata molto aggressiva sul lavoro. Non lo so, forse quando non ci sono certe situazioni a casa non se ne parla nemmeno, per cui non ho mai pensato al mio modo di fare in rapporto a quello dei miei genitori.
Mara: E adesso, negli Stati Uniti, tua madre che lavoro fa?
Sadaf: Gestisce un asilo entro casa; mio padre la aiuta quando non ha servizi di catering.
Mara: Quindi anche tuo papà è un po’ maestro di asilo, e non si fa problemi a badare a una colonia di bambini piccoli!
Sadaf: No, affatto. Però guarda, anche se è uno degli uomini più aperti che conosca, ogni volta che vado da loro e si pranza tutti insieme, lui versa il vino agli uomini e non alle donne. Io mi arrabbio sempre e glielo faccio notare, ma lui lo fa automaticamente, senza pensarci! Lo sgrido sempre. Però vedi, queste sono piccolezze culturali tipiche dell’Iran: bere è vietato, ma lo fanno tutti lo stesso, però è vista come una cosa molto maschile.
Lo so che è una piccolezza, però mi dà molto fastidio, diventa indicativa…
Mara: Guarda, anche io nel mio gruppo d’amici sono l’unica che beve, le altre
ragazze sono quasi astemie. Mi prendono in giro dicendo che sono un maschio, ma perché?
Sadaf: E’ vero, anche le mie amiche italiane me lo fanno notare, sono io quella alcolista!! E poi, c’è un’altra cosa che ho notato con le mie amiche italiane: qui in Italia non si parla mai del sesso! Non dico entrare in dettagli intimi, ma con le amiche più in confidenza per me è normale confrontarsi su come prosegue anche la vita sessuale, che fa parte della vita di una persona e ancor più di una relazione; io negli Stati Uniti ne parlo molto tranquillamente con le mie amiche, qui per niente!
Mara: E in Iran?
Sadaf: Beh, in Iran ero bambina, però i miei amici negli Stati Uniti sono iraniani come me.
Mara: Questo è verissimo. Negli Stati Uniti è molto più facile parlare di sesso, soprattutto in coppia…ho avuto una relazione importante con un Americano, e parlavamo della nostra vita sessuale molto liberamente, problemi e cose belle sotto le coperte. Qui in Italia non è così. Mi chiedo se dipenda da un retaggio cattolico che influenza anche chi non è praticante….
Sadaf: E non solo in materia di sesso! Per esempio, un altro tabù sono gli ex fidanzati. Se hai una relazione seria non puoi parlare degli ex…per esempio, io sono sposata, e se dico a una mia amica “ah, io con il mio ex ho avuto questa esperienza…” mi guarda male, quasi sconvolta, come se stessi tradendo Massimo, ma è ridicolo! Ora che ci penso, nessuna delle mie amiche parla mai degli ex!!
Un’altra cosa è che per gli uomini è molto più facile fare scherzi e battute riguardo a tradimenti eccetera. Se un mio amico mi prende in giro dicendo “ho visto Massimo con una bionda” io rido. Ma se ribatto dicendo “e chi era il ragazzo che stava con la tua fidanzata” è considerato sconveniente, da evitare. Come il fatto che mi dicono sempre “Massimo ti ha scelta”. Va bene, è anche un complimento, mi ha scelto in mezzo a un sacco di persone, ma anche io ho scelto lui in mezzo a un sacco di uomini….ma questo non è visto come una cosa alla pari, se io dico di aver scelto Massimo vengo guardata male.
Mara: Invece sulla vita lavorativa? Ti devo dire la verità, io nel mio ambiente universitario mi sono sempre sentita in parità, e anche adesso che sto lavorando. Però ad alcune mie amiche ai colloqui di lavoro hanno chiesto se pianificavano una gravidanza e se sì tra quanto. Io lo trovo orribile.
Una donna deve ancora scegliere tra carriera e lavoro: le famose “donne in carriera”, sono considerate sinonimo di persona che pensa solo al lavoro e non ha tempo per la famiglia. Ma è un problema solo femminile, un “uomo in carriera” non è mai visto come un padre snaturato, e quante più donne si sentono in colpa perché lavorando trascurano i figli rispetto agli uomini? Per non parlare della totale mancanza di welfare, di aiuto alle donne che vogliono anche fare un figlio. Sembra una specie di vendetta: vuoi un lavoro e una carriera come un uomo? Te la garantiamo per legge, ma la tua vita privata sono problemi tuoi. Anche come modello di sviluppo, è tutto incentrato su una totale, incondizionata adesione al lavoro. Ma il fatto che anche le donne possano aderire a questo modello non è vera parità, non prendiamoci in giro. Fare un figlio è un lavoro, devi dedicargli tempo, cure, e tutti devono poter essere messi in condizione di non dover scegliere tra quello e la propria professione.
La donna ha bisogno di aiuti concreti, e l’uomo deve prendersi allo stesso modo della donna la responsabilità del “doppio lavoro”: fare il padre non è solo portare tuo figlio a giocare a calcio la domenica, deve dedicargli tanto tempo quanto la madre! Ma questa mentalità è davvero ancora lontanissima in Italia.
Sadaf: Parli delle donne in carriera, ma quante donne fanno tanto le sbruffone dicendo che non vogliono fare figli, ma solo carriera? Non c’è niente di male nel non voler far figli, per carità, ma quando sono le donne stesse ad avvallare l’idea della “scelta” tra famiglia e lavoro, fa davvero arrabbiare. Come quando si resta incinta e per 9 mesi ci si comporta come se si avesse una malattia invalidante al 100%: certo, è uno stato particolare e bisogna stare attente, ma la verità è che si può ancora fare tutto!!
Mara: Sotto sotto, è lo stesso discorso delle femministe italiane nei primi del Novecento e sotto il fascismo. Mentre in Inghilterra si combatteva per il diritto di voto, qui le donne dicevano: il posto naturale della donna è nella famiglia, ma quelle più ricche e più in gamba che potevano permettersi aiuti avrebbero dovuto avere la possibilità di lavorare, perché riuscivano a lavorare senza venire meno ai doveri della famiglia. E siamo ancora a quella mentalità!
Sadaf: Ma certo, come marito ti senti a disagio a rimanere a casa a badare ai figli, mentre le donne si sentono in colpa quando escono, pensano: “mio marito lo fa perché è bravo, ma dovrei essere io a occuparmene”. Si pensa che la donna abbia un legame tutto speciale con il figlio, un legame che l’uomo non può sostituire per natura; ma se in ospedale c’è uno scambio di culle la donna non se ne accorge come non se ne accorge il marito: dov’è allora questo legame? L’istinto materno è uguale a quello paterno, può esserci o non esserci, e in diverse gradazioni, negli uomini come nelle donne, dipende da cosa tu vuoi dalla vita.
Mara: Io noto questa cosa anche nelle relazioni. Molto spesso sono le donne a gestirle, a tenerle in piedi. La donna si sacrifica in modo da tenere una relazione in piedi, prima di tutto in termini di tempo e di capacità affettiva, l’uomo si aspetta che la donna lo segua. E’ una questione di egoismo personale, e quindi non si può generalizzare, ma dipende anche da una fattore culturale: quello che si chiama “istinto materno” è solo una maggiore sensibilità, una maggiore capacità di darsi agli altri che ci si aspetta più nelle donne che negli uomini. E molto spesso, per le donne “libertà e
autoaffermazione” sono diventati comportarsi come gli uomini: penso a modelli stile “Sex and the city”, visti come la rivincita dell’indipendenza delle donna quando invece sono inni ad una mentalità maschilista, semplicemente applicata al sesso femminile. E quando faccio notare queste cose però, o per la zitella acida e arida oppure per una perbenista.
Sadaf: Quante volte sentiamo di una ragazza che vorrebbe sposarsi, o convivere, e del ragazzo che non vuole saperne? E’ sempre in questo senso, mai il contrario, e qual è la ragione? Vogliamo davvero appiattirci sull’idea che gli uomini sono tutti stronzi e infantili?
Mara: E’ una condizione culturale, di quello che tu vedi in famiglia prima di tutto e poi nell’immaginario comune. Poi in Italia si vive in casa fino a trent’anni, è una condizione ancora più particolare! Ma dalle ragazze si pretende che siano più mature, responsabili, le si fa diventare madri anche se non lo sono, ci si aspetta che si prendano cura di chi gli sta intorno: è una cosa lodevolissima e giusta; il problema è che ai maschi questo non è richiesto.
Sadaf: Il sessismo poi è talmente evidente in tutto ciò che è comunicazione! In tv ci sono conduttori brutti, pensa a Jerry Scotti, mentre le donne sono sempre tutte belle; se nella pubblicità della pasta è l’uomo che cucina, lo fa per sedurre, per essere “gentile”, non perché fa parte dei suoi doveri.
E in tante cose, la vita è quello che vedi in tv!
Marta Musso
Noemi
Via Olivetti a Leinì è a ferro di cavallo. Inizia e termina nella trafficata via Torino. Racchiude nel suo cerchio diverse case in un’atmosfera tranquilla, odorosa di tigli. La caratteristica di questa via è di essere tutta nell’ansa di una grande fabbrica, la ex Revelli, specializzata in carpenteria di precisione per pezzi di grandi dimensioni, come le ogive di aerei. Ora inattiva, destinata a divenire l’ennesimo supermercato.
Suono il camlo di Noemi, in un decoroso condominio.
Noemi non risponde. Eppure dovrebbe esserci. Devo portarle il programma di LiberaFesta al parco Ruffini di Torino.
Risuono. Si affaccia da un balcone al primo piano il suo vicino: «Noemi è qui, si fa misurare la pressione da mia moglie. Ti apro subito. Sali».
Noemi: Vuoi il caffè?
Le porgo il programma.
Noemi: Cum ela che non si chiama piu’ festainrosso?
Guerrino: Vogliono farci morire democristiani”
Noemi: E no! Mi devi portare anche alla festa dell’Unità, quando c’è Fassino, che gli voglio far vedere l’attestato che ha firmato nel 1984 al mio Berto, come anziano comunista iscritto dal ’45. A gal dig mi.
Guerrino: Io sono impegnato tutte le sere alla griglia per la festainrosso.
Noemi: Mi faccio portare da mio figlio Robledo, voglio vedere la faccia che farà Fassino.
Guerrino: Quando vieni al parco Ruffini? Mettiti d’accordo con Piera. Io non vi posso portare perché devo fermarmi fino a mezzanotte e oltre. Il lavoro nei giorni feriali finisce alle 23, dopo faccio promozione del mio libro. Non venite venerdì, sabato e domenica, nonostante il partito sia in crisi c’è sempre tanta gente, che quasi non ce la facciamo. Lunedì ho incontrato don Ciotti. Era appena arrivato da Palermo, dove aveva partecipato alla commemorazione del generale Dalla Chiesa. Ero fuori dal ristorante della griglia, dopo aver grigliato una sessantina di quarti di porco, avevo ancora il grembiule, mi ha salutato con affetto. Forse non aveva ancora mangiato quel giorno, oppure saluta così tutti. Ha fatto un dibattito su laicità e religioni con Maria Bonafede, a della Tavola Valdese. Venerdì scorso c’è stato un dibattito sulla Tav. La direzione della festa aveva invitato Antonio Ferrentino, Marilde Provera, Giuseppe Joannas, sindaco di Bussoleno, ed anche Mario Virano, promotore di tutte le palle mediatiche sulla necessità dell’alta velocità attraverso le Alpi, commissario del governo per le infrastrutture nonché direttore dell’Osservatorio, nel quale verificano le possibilità che ha l’attuale linea Torino Lione e le previsioni degli sviluppi futuri del traffico sul famoso canale 5 e poi dice tutto il contrario di quanto è stato verificato concordemente. I toni erano accesi. I Valsusini non accettano di spendere tutti questi soldi, di rovinare la loro valle e le loro case, per portare il latte da Kiev a Lisbona più velocemente. E’ un progetto assurdo in questi tempi. Può essere solo funzionale alle tangenti.
Noemi: Mi piacerebbe venire a sentire, però non domani. Ho comprato al supermercato due sacchetti di riso, era vecchio e pieno di camole. Ho visto che c’era l’indirizzo del produttore, gli ho telefonato e gli ho detto che ho fatto la mondina e che di riso me ne intendo. Vengono a cambiarmelo domani.
Guerrino: A proposito, quand’è che mi racconti bene di quando facevi la mondina?
Noemi: Quando vuoi, ma bisogna raccontare tutto per capire quante ne ho ate.
Guerrino: Vengo domattina.
Noemi: Va bene. Vuoi il caffè? Lo faccio buono.
Guerrino: No. Devo andare subito a fare la spesa. Piera ha poca autonomia a camminare. L’hanno messa in lista anche per l’operazione all’anca destra.
Noemi: Fa bene a farsi operare, anch’io ho dovuto fare le protesi a tutte due le anche.
Il racconto di Noemi
Noemi: Sono nata a Pegognaga, piccolo paese agricolo della pianura mantovana, nel gennaio del 1928. A Pegognaga c’erano anche famiglie benestanti, proprietarie di case padronali e terreni fertili, lavorati dai braccianti e dai contadini che dovevano consegnare al padrone anche più della metà del raccolto. Io sono nata in una famiglia povera. Dieci figli, tra maschi e femmine. Mi è difficile ricordare l’ordine delle nascite. Ero la penultima. Mio padre, Ruggero, per il troppo lavoro faticava a ricordare il nome dei figli, tanto che all’anagrafe registrò mia sorella, l’ultima, con il mio nome: Cesarina. Così io sono sempre stata chiamata Noemi. Faceva il bracciante. Faceva due giornate ogni 24 ore. Tagliava erba, zappava, seminava, mieteva per diversi padroni e nei tempi in cui non c’era il lavoro dei campi faceva il paratore, con carro e cavallo trasportava merci da un paese all’altro. Era il lavoro dei mesi invernali: infatti lo ricordo avvolto nel suo tabarro.
Anche mia madre, tra un figlio e l’altro, faceva giornate nei campi perché le esigenze della famiglia erano tante. Quando mia madre lavorava nei campi i figli più piccoli erano accuditi dalle figlie più grandi. Toccarono a me ancora piccola, le faccende di casa, compresa la cottura della polenta. Per arrivare al paiolo dovevo salire su uno sgabello e quando la polenta era pronta, chiamavo una vicina che me la rovesciava sul tavolo. Salvo il periodo della mietitura, la mamma a mezzogiorno tornava a casa o alla mensa di Mussolini per le puerpere, dove mangiava solo il cibo che non poteva mettere nelle tasche per portarlo a noi. Per le tante maternità otteneva dal dottore la ricetta per la farina lattea. Con questa, e la polenta, ci facevamo le cene.
Tra i tanti lavori di mio padre ci fu anche il lavoro in una cooperativa di produzione del vino, di cui mio padre era un buon consumatore. Il presidente di questa cooperativa, che veniva da Carpi, chiese a mio padre di mandare una figlia da sua moglie, sfollata durante la guerra sul lago Maggiore. Andai io. A Milano fummo fermati dalle camicie nere. Il signor G., presidente della cooperativa, consegnando i documenti disse: «SS compagnia della morte». Lo salutarono con deferenza e si riprese il viaggio. Io cercavo di non far vedere la mia paura.
In quella famiglia mi trovai bene, lui non c’era mai e la signora mi voleva bene come ad una figlia. Non mi mancava niente, il cibo era abbondante. Mi affezionai al bambino, anche perché era poliomielitico, poverino. Poco dopo il mio arrivo si trasferirono a Luino in una villa meravigliosa, che si chiamava Villa Battaglia.
La mia casa
La casa che la mia famiglia affittava a Pegognaga aveva due camere da letto al piano di sopra, al piano terra la cucina, un altro locale e la scala. In questo locale c’era un letto per i fratelli più grandi.
Noi più piccoli dormivano quattro in un letto, due di testa e due ai piedi. I letti erano assi su due cavalletti. I materassi erano di foglie di pannocchie di granturco, che si appiattivano ogni notte e bisognava cambiarle ogni anno.
In cucina c’era la stufa per cucinare e riscaldare nei giorni invernali, un grande tavolo con sedie di legno. Completavano l’arredamento la credenza bassa e il tuler, dal quale si estraeva il tagliere per impastare il pane e la pasta. Questo mobile ci era stato regalato, ma la farina per utilizzarlo era poca.
I piatti si lavavano in un mastello. Un mastello più grande serviva per lavarci noi.
L’acqua andavamo a prenderla con i secchi alla fontana a pompa, poco lontano da casa.
Ero molto legata ai miei fratelli e sorelle, soprattutto alla sorella Berta che diverrà madre di 18 figli. Nei giochi con gli altri bambini del paese ci divertivamo, anche se eravamo poveri.
In inverno andavamo tutti, anche gli adulti, nella stalla della famiglia Nigrelli. Gli uomini giocavano a carte, le donne filavano e facevano maglie o calze di lana. Questa famiglia aveva due figli e una figlia. Il capo famiglia veniva arrestato tutte le volte che Mussolini ava a Milano o nelle vicinanze. Non era bello vederlo portar via dai carabinieri come una bestia.
A scuola feci solo la seconda elementare perché dovevo lavorare in casa, le mie sorelle erano già a servizio. L’istruzione era ritenuta un lusso per i poveri e inutile per le donne. In chiesa andavo con regolarità.
Ricordo le funzioni religiose e due preti, uno anziano e uno giovane, attivi nell’aiutare i poveri, ma ci giudicavano ignoranti. Frequentavo la messa ogni mattina presto, con lo scialle e gli zoccoli di legno tipo ciabatte che, d’inverno, non difendevano i piedi dai geloni. Andavo nella vicina chiesa di San Lorenzo, dedicata ai Caduti di tutte le guerre.
Mi allontanai dalla chiesa verso i tredici anni. Io ero povera e ignorante. I preti erano ricchi e stavano con i ricchi. Li vedevo fare il loro lavoro come un mestiere. Io continuavo a credere che Dio era dalla parte dei poveri. Chi aveva ammazzato Gesù Cristo erano i ricchi e i potenti di allora, perché Gesù Cristo voleva l’uguaglianza. Non mi sembrava giusto che i preti costruissero delle chiese ricche e lasciassero i poveri nella miseria. Ora sono convinta che Gesù Cristo non avrebbe abitato in Vaticano.
A otto anni andavo con mia sorella Berta a chiedere l’elemosina. Spingevamo una carriola per trasportare la farina di polenta che ricevevamo, mentre il pane e qualche uovo erano riposti in due sporte appese ai manici della carriola. Quanto freddo in inverno!
Mio padre partiva presto al mattino e tornava tardi la sera. Nella paga del suo lavoro c’era sovente il mangiare, altrimenti era una bocca in più, con cui a casa dividere il cibo scarso.
Tra i lavori fatti nell’infanzia ricordo la tanta acqua pompata per la moglie dell’orefice di Pegognaga. Il paese ha falde di acqua ricche di ferro e il bucato restava giallastro. L’orefice del paese aveva trovato nel suo giardino una vena di acqua chiara. Io con la pompa riempivo tanti mastelli e la signora mi pagava con una mela e un pezzo di pane.
Il padre dell’orefice forniva i pezzi di ricambio per le macchine trebbiatrici e il filo di ferro per legare le balle di paglia. Il filo doveva essere tagliato su misura e bisognava fargli un occhiello. Quanti occhielli ho fatto! Quando facevo questo lavoro mi invitavano alla loro tavola, che era ben fornita.
Feci per qualche mese la baby sitter ad una bambina, figlia di un professore delle scuole professionali. Mia madre, però, notò che la mia schiena si incurvava e mi portò dal professor Soldi, del Rizzoli, che aveva uno studio a Gonzaga. Il professore disse a mia madre: «Se lei ha una pianta piccola e la carica di un sacco bagnato, la pianta si piega. Lo stesso è per sua figlia portare i bambini».
Mi prescrisse un busto con stecche di alluminio e la schiena si raddrizzò. Ero più alta della mia età e magra come un chiodo. Avevo sempre fame.
A 11 anni andai a servizio dalla famiglia di un avvocato fascista, che ebbe un figlio ucciso dai partigiani. Lasciai questo lavoro dopo tre o quattro mesi perché non mi davano da mangiare. Per sfamarmi dovevo rubare il cibo al cane, che veniva sfamato con gli avanzi, prima di me.
Mia madre ci accompagnava nelle famiglie presso le quali prendevano servizio e stabiliva questi accordi: le figlie dovevano essere libere 40 giorni all’anno per andare a lavorare nelle risaie, mai uscire di sera e la paga ava lei a ritirarla a fine mese.
Aspettavo che mia sorella Claudia, che già aveva ereditato il posto di lavoro da Berta presso la famiglia Rangoni, si sposasse, così io avrei ereditato quel posto a mia volta. Il posto a servizio presso la famiglia Rangoni era molto ambito, perché erano brave persone e ci facevano anche il corredo per il matrimonio, infatti io e altre due sorelle ci siamo sposate con l’aiuto di questa famiglia. Claudia non si sposò subito, ma ò al servizio del figlio dei Rangoni, oculista, che abitava a Mantova e io, terza sorella, ebbi questo lavoro.
La famiglia Rangoni era titolare di una concessionaria Fiat. La signora Rangoni era stata camiciaia e al mio corredo fece delle asole molto belle. Quelle che avevo fatto io non erano perfette, e lei non voleva che il mio bucato steso fosse criticato.
Il marito aveva fatto fortuna prima come meccanico di biciclette e poi come venditore di macchine. Loro erano di buoni sentimenti, ma anche noi eravamo brave a lavorare e nel comportamento. Si presero cura anche della mia salute. Per uno spavento ebbi una preoccupante infezione a una ghiandola linfatica del collo, e dovetti essere operata. Lo spavento era conseguenza del mitragliamento di un ricognitore degli alleati, un piccolo aereo che chiamavamo Pippo.
I Rangoni avevano sovente ospiti importanti a tavola e io, nel mio bel grembiulino nero con il pizzo bianco, servivo e facevo bella figura. Mentre mi allontanavo dalla sala sentivo i commenti di ammirazione degli ospiti e i Rangoni dicevano di me: «Brava e onesta ragazza, grande lavoratrice, ma tanto comunista».
La domenica era il mio giorno di libertà, e con la bicicletta mi facevo 21 chilometri da Mantova a Pegognaga e ritornavo in servizio il lunedì mattina.
Anche quando tornavo a trovarli da sposata, mi ingozzavano di cibo e mi davano cibo da portare a casa, e sempre qualche vestito.
Non sembra vero di aver fatto tutti questi lavori fin da bambina, ma se guardi gli immigrati di oggi, e i loro bambini, capisci che era così anche per noi.
Mentre noi sorelle andavamo a servizio, i miei fratelli andavano servitori. La differenza tra bracciante e servitore era che il primo era pagato a giornata, mentre il secondo mangiava e dormiva presso i padroni, completamente disponibile a lavorare secondo la loro volontà, e oltre al vitto e all’alloggio aveva una misera paga.
La guerra
Andavano servitori soprattutto prima del militare. Il militare, a quei tempi, significava guerra. Se tornavano vivi e sani il lavoro che li aspettava era quello dei campi, come braccianti, o muratori. Mio fratello Luigi tornò dalla Jugoslavia con la malaria. I miei fratelli Nelson, Franco e Paolo, che all’anagrafe si chiamava Policarpo, si misero a fare i muratori, lavoro più retribuito di quello
dei campi.
Berto, mio marito, alla visita militare fu assegnato al corpo dei bersaglieri. Non fece, però, il militare, perché lo avevano fatto i suoi tre fratelli, prima di lui. Durante la guerra aiutava i partigiani. Fu denunciato da una spia. Lo salvò un medico fascista, suo fratello di latte, Dino Truzzi, che lo nascose nel suo granaio fino all’imminente liberazione. La mamma di Berto, che aveva allattato anche questo medico, morì per malattia polmonare quando Berto aveva 3 anni.
Il fratello di Berto, Gualtiero, fu richiamato e inviato in Russia, e non fece più ritorno. Fu ucciso sul Don. L’ultima sua lettera fu una foto con scritto: «Questo vi sia per mio ricordo. Gualtiero».
Quando Putin disse che aveva le piastrine degli Italiani, tentammo di attivarci, ma non siamo riusciti a trovare la sua salma.
Un nipote riposa in Germania: Remo, figlio della sorella di Berto che fu ucciso barbaramente. Una ragazza del posto, sua fidanzata, riuscì a riavere il corpo e lo seppellì in una bella tomba.
Non ho corso rischi per i miei figli, che non erano ancora nati, Berto era in montagna. A parte i mitragliamenti di Pippo e la paura dei tedeschi, la povertà è stata, per la mia vita, più terribile della guerra.
Tra i ricordi peggiori della guerra ricordo l’aumento della fame e quando mi scambiarono con mia sorella Cesarina, per via dello stesso nome. Mia sorella Cesarina si era lasciata attrarre dai tedeschi, perché le davano del cibo e indicò dove erano nascosti i partigiani. I partigiani dopo aver capito che non ero io
quella Cesarina, mi mandarono alla Bagna in bicicletta, perché piccola e insospettabile, ad avvertire i partigiani. Così poterono scappare.
Mia sorella si lasciò anche sfuggire con i tedeschi che nostro padre non voleva che lei li frequentasse. Mio padre che lavorava, come tanti, a scavare trincee in piazza, il lavoro obbligatorio organizzato dalla Total, fu affrontato sul posto di lavoro dai tedeschi e riuscì a cavarsela solo perché disse che la sua contrarietà era dovuta al fatto che la figlia era troppo piccola, ma si prese un bello spavento.
Finì la guerra e si tornò a ballare nelle aie. La gioia era molta, le speranze ancora di più. Ma molti approfittatori si erano arricchiti con il mercato nero e ci fu anche chi trasse vantaggio dalla guerra di Liberazione. I poveri restarono tali, ma alcuni compagni si arricchirono.
Mondina
Ora ti parlo della risaia.
Furono molte le stagioni in cui feci la mondina, a cominciare da 13 anni, fin dopo il matrimonio. Lavorai anche una stagione, 40 giorni, chinata con i piedi nell’acqua che ero incinta di Robledo, il mio secondo figlio. Ricordo molti paesi del Piemonte e della Lombardia. La prima volta avendo solo tredici anni, per poter lavorare dissi che ne avevo sedici e li dimostravo. Ero sempre con le mie sorelle e qualche volta anche un fratello, perché eravamo famiglia numerosa. Si viaggiava in treno. Alla stazione trovavamo i «cavaler» con carri e cavalli che ci portavano alla cascina. Arrivati buttavano giù dal fienile balle di paglia, con le quali dovevamo fare i pagliericci, riempiendo il «paion» (fodera vuota) che avevamo portato da casa.
Il lavoro era faticosissimo, la schiena faceva male. Un incaricato del padrone stava continuamente alle nostre spalle con un bastone. Controllava che la schiena fosse sempre piegata, e che l’erba strappata non fosse riso.
I primi anni non resistevo alla necessità di drizzare la schiena un istante e mia sorella mi tirava giù.
La sveglia era alle quattro. Subito colazione con pane e un quarto di latte nella gavetta. Poi un’ora di cammino a piedi per arrivare sul posto di lavoro. A mezzogiorno e a cena minestra di riso. A metà mattinata una pausa nella quale potevano mangiare un panino. Ci davano il pane, ma il companatico dovevamo procurarcelo autonomamente.
In treno, da Mantova alle risaie, viaggiavamo in carri bestiame. Qualche uovo e qualche salame era nella cassetta di legno, che su questi vagoni serviva anche da sedile. Compravamo queste cose prima di partire e le pagavamo al ritorno. La paga della risaia doveva servire per l’affitto, i debiti della bottega e la legna per l’inverno.
I giorni della risaia erano le nostre ferie. Si, nonostante la fatica non mancava la festa. Si guadagnava e si scacciavano più lontano fame e povertà. La sera si ballava sull’aia. Molto presto la capa stabiliva la fine dei balli e l’ora del riposo. Al mattino ci si doveva alzare presto e se qualcuna non ubbidiva sarebbe stata scartata nella stagione successiva.
Mi ero portata la corona del rosario, ma smisi presto di recitarlo. Il cambiamento della mia religiosità fu dovuto al fatto che mi innamorai di un ragazzo. La novità di questo sentimento mi fece dimenticare il rosario. Ricordi quella canzone che diceva: «Scordai il Credo e pur l’Avemaria, come potrò salvar l’anima mia?»
Vidi are un bel ragazzo in bicicletta. Lo stuzzicai:
«Guarda che la ruota di dietro gira».
«Spiritosa!» rispose.
Si chiamava Italo. Era carabiniere. Si arrivò fino alle presentazioni in casa e all’anello. Ma quando incontrai Berto, molto bello e con le mie stesse idee comuniste, scrissi a Italo una lettera di addio, adducendo motivazioni fasulle, come la lontananza.
Italo rispose. Ricordo a memoria il suo biglietto: «Ho capito che amare troppo si va a finire a essere inebetiti e considerati niente. Io volevo portarti all’altare fin dal giorno che ti avevo conosciuto».
Il ritorno dalla risaia era sempre una festa. Il treno era pieno di ragazze chiassose. Una volta arrivò Pippo, il ricognitore degli alleati che mitragliava tutto quello che vedeva muoversi. Il treno si fermò e facemmo in tempo a scappare nel campo di grano turco. Nessuna fu ferita. A Cremona dovemmo fermarci perché la linea ferroviaria era interrotta. Attendemmo per molte ore i camion, che dovevano portarci a casa. Nel frattempo con mia sorella Berta ricorremmo a chiedere l’elemosina perché la fame non dava tregua.
Domande
Guerrino: Il tuo racconto sulla risaia, è molto sereno. Io però ne ho letto di tutti i colori su quel lavoro. La fatica che anche tu citi, le condizioni climatiche, i tagli alle mani e ai piedi, la postura innaturale, il mal di schiena, il bagliore dell’acqua, nella quale eravate immerse fino alle ginocchia, il poco cibo. Ho sentito dire che cantavate continuamente per non sentire il mal di schiena e la fatica. La bella canzone: «Se otto ore vi sembran poche» con tutte le sue varianti l’avete creata in risaia, come pure molte altre canzoni che sono diventate patrimonio di tutti i lavoratori.
Prima dei tuoi anni le condizioni erano ancora peggiori. Le mondine già dal 800 hanno cominciato a capire la loro condizione di proletarie. Nasce con la risaia la figura della donna proletaria sfruttata, ma coraggiosa.
Le frequenti le contrapposizioni tra mano d’opera locale e quella che, come te, veniva da fuori, i contrasti costruiti dai padroni per diminuire la paga.
Il vostro, pur essendo lavoro agricolo, era organizzato come quello delle officine e vi trattavano come militari. La vostra cassetta di legno, i treni, le camerate dove vi facevano dormire, e gli orari, erano uguali a quelle dei soldati.
Le grandi riserie non erano solo poderi agricoli, ma aziende agricole, piccole industrie, per la modalità di organizzazione del lavoro e di reclutamento della mano d’opera, che veniva pagata il meno possibile, meno del costo dei diserbanti.
Voglio leggerti alcuni brani che ho trovato, che parlano dell’evoluzione economica e sociale del lavoro delle mondine. Prima delle mondine c’erano i risaroli perché le mondine «nel seicento avrebbero scandalizzato il mondo, non con le loro sofferenze, ma con l’esibizione - inevitabile, dato il genere di lavoro che si fa d’estate, seminudi nell’acqua ponendo la parte ignobile del corpo più in
alto di quella nobile…» (Vassalli 1990) Insomma, parla male della posizione di lavoro che mette in bella mostra i glutei che, a giudizio della chiesa e della società di allora, bisognava tenere accuratamente nascosti.
Noemi: Noi donne ci pagavano meno e lavoravamo di più. Il padrone se ne fregava del pudore, della chiesa e di tutto.
Guerrino: Per te il pudore nel lavoro della risaia è stato un problema?
Noemi: Non eravamo affatto seminude. Portavamo pantaloncini e calze soprattutto per difenderci dagli insetti e dalle bisce. Ci comportavamo bene, perché eravamo tante dello stesso paese e se ritornavamo a casa con qualche chiacchiera eravamo finite.
Guerrino: Sempre nel 1952 uscì il libro di Renata Vigano: Mondine. Nella prefazione Libero Sigaretti dice: sono giovani, portano grandi cappelli, hanno le gambe nude e cantano sempre bei cori.
Noemi: Le gambe nude no. Avevamo le calze, sempre bagnate per difenderci dai morsi dei tafani e altri insetti. Sì, cantavamo molto. Alla fine della stagione cantavamo: Siur parun da li bele braghe bianche fora le palanche e anduma a ca.
Guerrino: Ada Negri, nel volume di poesie, Fatalità, del 1892, scrive di un pianto che «la persegue e che cessar non vuole, che le giunge dalle officine e dalle risaie attossicate. Qui grigia nebbia sul mio cuor ristagna. / Nella risaia muor la poesia.
Un giornalista e poeta di San Germano Vercellese morto nel 1928 così vi descrive in una sua poesia:
Su le risaie livide e stagnanti
Flagellate dal sol, le mondatrici
col piè nell’acqua e i grandi occhi brucianti
S’incurvano a schiantare dalle radici
Le selvagge e maligne erbe allegnanti
Con le brune mani stanche e sanguinanti mentre
Bieca frattanto dalla terra smossa
Serpeggiante per vie umide e nere
Esce la febbre e penetra nell’ossa.
Si riferisce alla malaria e altre malattie dovute all’ambiente e alla malnutrizione.
In effetti la produzione del riso era ritenuta nociva anche dalla legislazione. Non furono pochi i decreti legislativi che la limitavano, fino all’apertura del canale Cavour nel 1866. Con questa opera la casa Savoia cominciò ad incrementarla.
Nel 1952 a Molinella, la mondina Maria Margotti, fu uccisa dai carabinieri durante uno sciopero. Ti sei mai trovata coinvolta in scioperi, repressioni, durante la monda?
Noemi: Ci siamo trovate molte volte coinvolte in scioperi, dove quelle del paese che noi chiamavamo “cascinotte” andavano egualmente a lavorare e noi cercavamo di indispettirle con canzoni che mettevano in risalto la loro crumiraggine.
Guerrino: Lavoravate anche la domenica?
Noemi: Certe domeniche sì, certe no. Quando non lavoravamo andavamo al paese a fare spesa, con il permesso della capa. Ma erano giornate di riposo, non di divertimento.
Guerrino: Mi hai detto che andavi volentieri a fare la stagione nelle risaie. Hai pure detto, credo ironicamente, che erano le vostre ferie. Tu già lavoravi fuori di casa. Sei diventata donna lavorando a servizio in altre case e nelle risaie.
Noemi: Mia madre raccomandava alle famiglie, dove andavamo a servizio, che non permettessero a me e alle mie sorelle di uscire di sera. Questa richiesta non veniva fatta ai padroni dove i miei fratelli andavano a fare i servitori.
Donna
Quando c’erano in paese feste e balli, cantanti famosi come Nilla Pizzi, io e le mie sorelle chiedevamo il permesso per andare. Mia madre diceva: «Chiedete a vostro padre». Andavamo da lui, al lavoro o all’osteria, e ci rispondeva: «Chiedete a vostra madre». Alla fine alcune volte ottenevamo il permesso, se non c’era da pagare. Quelle poche volte che siamo andate a ballare, quando lui tornava a casa verso le dieci, dopo la tappa in osteria, bisticciava con mia madre: «Sei stata tu a mandarle da me. E’ tutta colpa tua. Non sono ancora tornate». E giù a litigare.
I figli maschi non avevano bisogno di permessi, andavano e venivano come volevano.
Nel teatro di Pegognaga si facevano le opere. Ci piaceva cantare ed eravamo apionati della musica operistica. Berta cantava molto bene e Luigi aveva un dono naturale per il canto melodico, tanto che Giuseppe Lugo si offrì di farlo studiare a sue spese. Ma i miei non acconsentirono, perché avrebbe dovuto andare lontano da casa, affidato a questo artista che loro non conoscevano.
In queste occasioni, grazie all’intercessione delle vicine che si impegnavano ad accompagnarci, andavamo in un grande prato, dietro il teatro, da dove si sentiva cantare senza pagare. Per entrare ci volevano bei soldi e vestiti buoni, che potevano permettersi solo i ricchi e i preti.
Questa situazione era, da noi ragazze, accettata come normale.
La protezione della famiglia non era del tutto inutile. Gironzolavano intorno a noi molti giovanotti, anche benestanti, che non avevano alcuna intenzione di sposarci, ma solo approfittare della nostra giovinezza. Anche quando andavamo a prendere il latte eravamo controllate da qualche fratello. Se qualcuno ci accompagnava per la strada eravamo sgridate e insultate. Solo accettare compagnia maschile per un breve tratto di strada era ritenuto poco serio dall’opinione pubblica, alla quale mia madre teneva molto. Era la più severa nel reprimerci, per evitare su di noi il giudizio negativo dei vicini. In questo modo cercava di conservare intatto il patrimonio della nostra giovinezza, convinta che non bastava la bellezza a portare la vita verso l’unico sbocco, una nuova famiglia. Certo mia madre con sei femmine non era priva di pensieri e preoccupazioni.
La contestazione femminile doveva ancora nascere, alle pari opportunità manco ci si pensava. Liberarci dalla miseria era la nostra aspettativa più importante.
Il matrimonio era l’unica prospettiva per ragazze come noi. Nel matrimonio vedevamo la realizzazione dei nostri sogni romantici. avamo dalla tutela dei nostri genitori a quella del marito, ma la miseria continuava eguale, se non peggiore.
A tutto questo si ribellò solo Cesarina, ritenuta la pecora nera della famiglia. Prese molte botte, ma non si piegò, continuò per la sua strada, pagò pesantemente con molti compromessi, affidandosi di volta in volta a diversi amanti, per allevare un figlio di cui non si conosceva il padre.
Noi restavamo diligentemente sulla buona strada. Anche quando eravamo fidanzate in casa eravamo controllatissime ed era impossibile restare incinte
prima del matrimonio. Fortunatamente i ragazzi che abbiamo avuto ci volevano bene e ci rispettavano. Questo rispetto richiedeva da parte nostra molta tolleranza per le avventure dei nostri fidanzati e mariti. Anche dopo il matrimonio, l’unica contraccezione possibile era quella comandata dalla chiesa: l’astinenza. La nostra vita sessuale era compressa per colpa della miseria. Una mia amica commentando la vita di oggi, dice: «Noi non ci siamo potute godere neanche il sesso».
La paura di restare incinta era grande. Prima del matrimonio era una tragedia. Si perdeva facilmente la vita nel tentativo di abortire con l’aiuto delle mammane, come capitò a una mia amica. E restare ragazza madre era il peggio della miseria, disprezzate e maltrattate da tutti. Anche nel matrimonio il problema era mantenerli i figli. Ricordando la povertà della nostra infanzia, io e Berto siamo stati ben attenti nel limitare il numero dei figli. Però ci volevamo bene. La miseria non riusciva a soffocare il nostro amore, come nell’infanzia non ci aveva privato del gioco e della sua gioia. Anche quando andavamo per l’elemosina la gente ci trattava bene e portavamo a casa con soddisfazione quello che ci davano.
Io sono sempre stata molto legata alla mia casa, alla mia famiglia e alla mia terra. Quando mi allontanavo per andare a servizio piangevo. Erano chilometri tristi, il lunedì mattina, quando tornavo a Mantova in bicicletta dalla famiglia Rangoni. Anche da Torino, la più bella destinazione per le ferie, l’unica possibile, non poteva che essere il ritorno al paese, e il ritorno dal paese alla vita di lavoro era sempre accompagnato da molto magone.
Berto mi trattava come la regina della casa. Concordavamo tutte le decisioni. Io ho sempre avuto la convinzione che i miei diritti venivano dopo quelli di mio marito e dei miei figli. La grande sofferenza di quando sono stata ammalata era la sorte dei miei figli.
Il lavoro di Berto e mio ci ha gradualmente liberati dalla miseria e abbiamo
goduto della dignità di essere lavoratori.
Qualche discriminazione continuavamo ad averla per le nostre idee comuniste.
La mia idea era che noi dovevamo fare bene il nostro lavoro e rendere anche per il padrone, che lavorava e si impegnava anche lui, ma i frutti del lavoro dovevano essere, anche per noi, sufficienti a vivere dignitosamente. Io facevo più del mio dovere, perché mi andava così, ma sono contro lo sfruttamento e la pretesa che i lavoratori lavorino più delle loro forze, soprattutto se a loro restano solo le briciole.
Cellule
Fin da quando, nel ’43, partecipavo a Mantova alla cellula del partito comunista, ho capito che la politica è una cosa importante nella vita. Non era solo un dovere partecipare alle manifestazioni. Con l’iscrizione al Pci ho partecipato a molte riunioni dove si discuteva di giustizia e di uguaglianza.
Cominciai a capire il comunismo verso i quindici anni, quando ero a servizio dai Rangoni. Prima, per me, era solo opposizione alle brutture del fascismo. La mia famiglia è sempre stata comunista. Mio fratello Paolo, che morì per itterizia fulminante a 27 anni, fu sepolto con uno dei primi funerali civili e con la partecipazione di moltissima gente, venuta anche dai paesi vicini. Paolo aveva nascosto le fotografie di Stalin in una crepa del muro in solaio, perché le camicie nere perquisivano le case.
La mia idea del comunismo era che la Russia avrebbe portato la giustizia nel mondo, cancellando la povertà. Nei confronti di Stalin conservo ancora oggi
ammirazione, nonostante la condanna di tutte le repressioni sanguinose. Credo che quel sangue fosse necessario per impedire che ne fosse versato di più dagli zar e dal nazismo. Ora però sembra smarrita la strada del comunismo.
Conobbi queste riunioni a Mantova, perché veniva a fare il bucato dai Rangoni una signora che mi raccontò che c’erano questi gruppi di compagni che si chiamavano cellule.
Cominciai a frequentare una cellula fuori città. Andavo a piedi, accompagnata da questa signora e altri compagni. Le persone con cui andavo erano conosciute dalla famiglia Rangoni e il veto di non uscire di sera non contava, non andavamo a ballare.
In questi incontri si cercava di capire la situazione politica e vedere cosa si poteva fare. Leggevamo la vita di Gramsci, che era stato in prigione e poi ammazzato perché difendeva i diritti dei lavoratori, che i fascisti invece calpestavano.
Già a 12 anni ero andata in bicicletta, con molti abitanti di Pegognaga, a una manifestazione oltre Mantova. Mentre camminavamo molte altre persone si univano a noi. Andavamo a protestare perché un padrone aveva ucciso a fucilate un bracciante che faceva sciopero. Cantavamo: «Con De Gasperi alla testa non si mangia la minestra». Da allora la mia idea comunista divenne fortissima e irrinunciabile. Io non abbandonerò mai la falce e martello, dovessi anche restare la sola comunista al mondo. Avrei sempre il ricordo del mio Berto.
Ricordo la befana fascista. Ci riunivano nel grande teatro di Pegognaga: era l’unica volta che potevamo sederci su quelle poltrone, guardati con disprezzo e sufficienza dai fascisti e dai preti. Ci davano un paio di zoccoli e mio padre, per farli durare di più, ci inchiodava sotto la gomma dei copertoni vecchi delle
biciclette.
L’incontro con i compagni nelle riunioni e nelle manifestazioni era una festa. La nostra festa più grande era il Primo Maggio a Suzzara, dove si riunivano tutti i paesi dei dintorni con grandi comizi. Una volta parlò Togliatti. Che grande persona! Parlava con tutti e le cose che diceva le capivano anche i bambini. Ho un grande rimpianto di quest’uomo. Non ne ho visti altri come lui.
Cantavamo a piena voce «Bandiera Rossa» e le altre canzoni dei partigiani. Essere in tanti ci faceva toccare il cielo e sperare in un futuro migliore. Futuro migliore ci fu. Ma troppe conquiste fatte con le nostre lotte ce le hanno riportate via. Credo che torneremo alle condizioni di povertà e di guerra come quando ero piccola, o peggio ancora.
I Padroni e i politici vogliono guadagnare sempre di più. Il profitto per i ricchi è oggi l’unica legge. I ricchi, per arricchire di più, favoriscono anche la guerra e inquinano, distruggono la natura, la nostra salute. La distanza tra ricchi e poveri e sempre più grande. La povertà torna ad essere una condizione normale per molti, che dal lavorano non traggono più il necessario per vivere e devono comprare a rate le cose necessarie.
Matrimonio
Guerrino: Quando hai conosciuto Berto?
Noemi: Ho conosciuto Berto durante gli anni di guerra, nel ‘43. L’unico uomo della mia vita. Ero tanto innamorata, che non m’importava niente di tutte le difficoltà. Berto abitava con il padre Tommaso a Villa Saviola, in un edificio
che si chiamava «la Corte», che era stato un convento di frati. Abitava in una sola stanza con un soffitto molto alto, fatto con travi in legno. C’era anche un pozzo in quel edificio, si raccontava, che i frati vi gettassero le donne. Si parlava anche di sotterranei che collegavano questo ad altri conventi, sempre nel Comune di Villa Saviola.
Il padre di Berto era un personaggio molto conosciuto. Ne parlano anche in un libro che ti faccio vedere, «Protagonisti ed umili sognatori della Bassa», scritto da Renato Bonaglia. Edito dalle «Edizioni grafiche Sarti» nel ’91, molto ricco di profili di personaggi popolari. Tra questi quello di Tommaso Verbeni, padre di Berto. Eccolo:
«L’uomo dai cento mestieri
Tommaso Verbeni, conosciuto in vita in almeno «tre parti del mondo» col soprannome di «barbirun», nacque a Mantova il 27 aprile 1885. La sua infanzia fu contrassegnata da un cumulo di tristezze e di dure esperienze, essendo orfano di entrambi i genitori e quindi cresciuto in un ospizio.
All’età di sette anni, mercè la bontà dei coniugi Ernesto Cortelazzi e Adelaide Carera di Pegognaga, potè avere un tetto e gustare le prime, indimenticabili gioie della famiglia.. I Cortelazzi, che non avevano avuto figli propri, circondarono di premure e di affetto il piccolo Tommaso. Ma, poveri com’erano, furono costretti ad avviarlo molto presto al lavoro dei campi. Comunque a 19 anni il «baldo giovanotto, al quale sorrideva la vita, incontrò Natalina Belsorriso che divenne sua sposa e che gli regalò, uno dietro l’altro, ben dieci figli (3 maschi e 7 femmine).
I primi anni di matrimonio furono duri per entrambi i coniugi. Infatti, un anno dopo la felice unione, Tommaso venne strappato agli affetti familiari, dovendo
compiere il servizio militare di leva, presso il glorioso 50 Regg. Lancieri di Novara.
Tornato alla vita civile pensò bene di cambiar mestiere, occupandosi come manovale nelle ferrovie, e fu quella una parentesi abbastanza felice. Lo scoppio della grande guerra ruppe però l’incanto e i tanti sogni.
Richiamato alle armi trascorse quattro durissimi anni nelle trincee del Carso e della Bainsizza, meritandosi tre medaglie al valor militare.
Congedato nel 1919, iniziò l’attività in proprio di barbitonsore in quel di Villa Saviola.
In seguito, visto che la prole andava via via aumentando, si rese conto che le esigue entrate della «bottega» non erano più sufficienti. Si mise di buzzo buono e fece, a tempo perso, un po’ di tutto: il cameriere, il vetraio, il paglierino (durante le festose operazioni della trebbiatura), il musicante-orchestrale e, addirittura, il corriere.
Se poi volessimo parlare compiutamente di quest’ultimo lavoro (svolto con l’ausilio di un carrettino, trainato con la fedele bici) dovremmo raccontare un sacco di avventure, talvolta esilaranti. Durante l’ultimo periodo bellico i viaggi da Villa Saviola a Mantova e viceversa, si moltiplicarono e con essi aumentarono anche i rischi. Non poche volte al «Barbirun» dovette sottostare alle perquisizioni dei tedeschi e dei partigiani, ma se la cavò sempre con grande tatto e diplomazia.
Sotto l’incalzare dei tempi nuovi, la sua attività di barbiere subì una profonda
metamorfosi. La gente divenne sempre più esigente e, per campare, fu costretto a trasformarsi in tonsore di quadrupedi.
E, allora, lo sentimmo frequentemente ripetere con l’amaro in bocca: «Quando si è vecchi non si è più buoni per nessuno. I miei clienti mi lasciano asserendo che non ho più la mano ferma. Così ho scelto di andare casa per casa a tosare cani, cavalli e somari. Vi garantisco, comunque, che, strappi e «scale» a parte, gli animali sono molto più comprensivi degli uomini e non lamentano alcunchè. Quindi continuo ad indossare il camice bianco perché non intendo fare differenze fra i clienti del periodo d’oro e quelli che mi sorreggono nella vecchiaia. Anzi…».
La sua arguzia ci ha sempre colpiti e ci ha permesso di riscontrare come Tommaso non avesse, nonostante tutto, perso il suo naturale humor. Le dure vicende del suo esistenziale e l’ingratitudine umana non erano mai riuscite a scalfire, più di tanto, le sue convinzioni e la sua eccezionale fibra».
Villa Saviola dista solo 6 chilometri da Pegognaga, ma non mi era mai capitato di incontrare Berto. Una sera al teatro di Pegognaga si ballava con l’orchestra Angelini. Cantavano Nilla Pizzi, Carla Boni e Gino Latilla. Quando si ballava toglievano le poltrone e la platea diventava pista da ballo. Con molta fatica avevamo ottenuto dai nostri genitori di poter andare a questo ballo. Era un avvenimento. Io avevo 15 anni. Ero seduta con le mie sorelle. Si avvicinò un giovane molto moro e mi invitò a ballare. Dissi di no. Lo avevo già guardato e avevo detto alle mie sorelle che non mi piaceva. Lo avevo visto piuttosto brutto. Poi lo guardai ballare. Ballava veramente bene. Decisi che se mi avesse invitato ancora, avrei accettato.
Mi invitò una seconda volta e da quel ballo non l’ho più lasciato.
Berto piaceva a molte altre donne, e lui era sensibile al fascino femminile. Mia madre mi picchiò molte volte perché lo lasciassi. La su paura era che Berto mi prendesse in giro. Berto quando vedeva i miei genitori scappava.
Ci vedevamo di nascosto. Andavo a prendere il latte e lui era lì. Andavo al cinema con mio fratello Paolo, che mi lasciava nelle prime file con Berto e lui andava in galleria. Mi incontravo con lui a casa di mia sorella Vittoria a Suzzara, dove Berto arrivava sempre in ritardo, perché prima era stato da un’altra. Mia sorella non diceva niente ai miei genitori, ma diceva a me che ero rimbambita. Anche lei insisteva perché lo lasciassi. Sapevo benissimo che, oltre a me, frequentava altre tre o quattro ragazze. Ma non volevo rinunciare a lui e aspettavo che si risolvesse questa situazione. In quel periodo ero già a servizio a Mantova dai Rangoni. Veniva sempre a cercarmi. La sua bicicletta non aveva bisogno di essere guidata, conosceva a memoria quei 26 chilometri di strada.
Dopo tante visite, nelle quali ci salutavamo in strada, la signora Rangoni mi disse di farlo entrare e di mangiare assieme qualcosa. Da allora lasciò le altre.
Anche le sorelle di Berto, che cercavano di fargli da mamma perché l’aveva persa a tre anni, erano contrarie al nostro matrimonio, perché le ragazze a servizio erano giudicate poco serie.
Un giorno, dai Rangoni, suonò il camlo. Andai ad aprire e mi trovai davanti le mie future cognate. Erano venute a parlare con la signora Rangoni per verificare se io ero una ragazza per bene.
«Si figuri - rispose la signora - Qui si sono sposate altre due sorelle di Noemi». Offrì loro il caffè e loro si accomiatarono, scusandosi.
I miei capirono che non avrei ceduto e acconsentirono alle nozze.
Cosa dovevamo aspettare? Il «sol dell’avvenire» era ancora lontano? Mi licenziai dalla famiglia Rangoni, che mi aveva aiutato tanto. Oltre al corredo mi comprarono anche il vestito per il matrimonio. Non era un vestito da cerimonia, ma era molto bello. Quando lavoravo da loro mi compravano sempre vestiti nuovi, perché la figlia aveva un negozio di abiti.
La mia nuova abitazione sarebbe stata a Villa Saviola, nella stessa stanza che Berto divideva con suo padre.
Di questa stanza, che già comprendeva un cucinino, si cercò di farne due, separate da cartoni incollati con la colla di farina.
Per sposarmi dovetti fare la cresima. Da piccola non l’avevo fatta, perché quando veniva il vescovo eravamo a lavorare. Mi cresimarono nel vescovado di Mantova. Non ero tanto contenta di fare la cresima, perché avevo perso i sentimenti religiosi, ma Berto ci teneva a fare il matrimonio in chiesa.
Berto, che era stato battezzato Benito per avere il premio dal duce, aveva comprato le fedi in argento nichelato.
Dopo la cerimonia un amico di Berto, che aveva il taxi, ci portò a Villa Saviola. Nessuno aveva preparato da mangiare, ma ero felice perché ero assieme al compagno della mia vita.
Nei primi anni di matrimonio dimenticai il sapore del caffè, che a servizio non mi mancava. La carne la vedevamo una volta alla settimana. La paga di Berto, che lavorava in un mulino con le macine di pietra, non bastava. Io tentavo di fare delle giornate per aiutare l’economia della casa, andavo a mietere il grano anche negli ultimi mesi di gravidanza: in effetti Gualtiero nacque il 10 di agosto.
Il giorno della nascita di Gualtiero Berto andò a vedere la partita della Virtus di Suzzara. Alle preghiere della levatrice, che lo invitava a restare a casa per il parto, rispose che il bambino lo avrebbe visto dopo.
La vita con Berto cominciò con qualche difficoltà. Non mi potevo confidare con mia mamma, che mi avrebbe risposto: «Te lo avevo detto». Ma a poco a poco si spianò. Non mi sono mai pentita di aver scelto lui come compagno della mia vita.
Appena Gualtiero cominciò a camminare lo portavo dalle suore, così potevo andare a lavorare.
Nel ’51 sapevo di essere ancora incinta e lo tenni nascosto per poter andare al lavoro della risaia. Però stavo bene. Le amiche mi dicevano: «A te Noemi la risaia ti fa bene, diventi più bella e più grassa».
Restammo in quella casa, dove io avevo paura anche degli spiriti, fino al ’55, quando Robledo aveva due anni e mezzo.
Il mulino con le macine di pietra chiuse i battenti perché avevano aperto un mulino a cilindri, molto più automatizzato, che separava la farina dalla crusca già nella lavorazione. E Berto restò disoccupato.
Torino
Una sorella di Berto, sposata a Torino in Barriera del Fum, dove faceva la pettinatrice, seppe da una sua cliente tedesca che il marito, dirigente del giardino zoologico, cercava uno che gli fe da jolly, per sostituire gli altri lavoratori nei giorni di riposo. Questo lavoro fu di Berto, che dovette imparare ad accudire tutti gli animali. Ebbe il suo momento di gloria perché una sua foto, con un grande serpente sulle spalle, fu pubblicata da «La Stampa». Erano gli anni in cui la televisione utilizzava gli animali come protagonisti di molte trasmissioni, ti ricordi quelle di Lombardi?
Berto era arrivato a Torino da solo e abitava dalla sorella. Dopo otto mesi trovò due stanze in via Oropa, e potei trasferirmi anch’io con i bambini nel 1955 e riunire la famiglia. Feci il viaggio in treno con i piccoli. La nostra roba, tutta in due sacchi, viaggiò con un camion.
La gioia del ricongiungimento con Berto non mi impedì di sentire una grande tristezza per l’allontanamento dal mio paese. Ogni anno tornavamo, come tutti gli emigrati, al paese. E ogni anno si ripeteva la tristezza del ritorno al lavoro in una città, che ci aveva accolti e ci dava da vivere, ma non era la nostra terra. Ci sentivamo sradicati.
Gualtiero fece qualche mese di asilo dalle suore Carmelitane. Robledo lo teneva mia cognata, era il beniamino delle apprendiste. Mia cognata era pettinatrice rinomata e aveva clienti importanti. Trovò subito lavoro anche per me. Cominciai a fare delle ore nelle famiglie.
L’ edificio della nostra casa aveva due appartamenti, nell’altro abitava una
famiglia con la quale dividevamo il gabinetto. Ci affacciavamo in un vasto cortile con un grande palazzo. A me sembrava una reggia.
Berto, dopo circa tre anni di lavoro allo zoo, incontrò un camionista, che gli offrì un lavoro meglio pagato, come autista. Andava a caricare le verdure nei paesi e le portava al mercato generale.
Salute
Nel frattempo mi ammalai ancora, seriamente, per la solita ghiandola. Dovetti mettere subito i bambini in un istituto di suore in Val San Martino e partire urgentemente di notte con il collo molto gonfio. La mutua di via San Maurizio mi aveva curato solo con pennellate di jodio e c’era il pericolo di setticemia. Gli operatori del dispensario di corso Savona mi inviarono senza perdere tempo a Venezia, all’ospedale del Lido. Mi accompagnò Berto, che faceva finta di non essere preoccupato. Io ero molto preoccupata per i bambini e la nostra malinconia era grande. L’unico conforto era sapere che, in qualunque evenienza, i miei figli potevano fare affidamento sulle mie cognate. Mia cognata Oriele aveva sposato un torinese e ci era vicina.
Per guarire dovetti stare ricoverata sei mesi. La Previdenza Sociale pagava il mio ricovero, perché la mia malattia era una forma tubercolotica.
Ogni due mesi Berto veniva a trovarmi, e mi portava notizie dei bambini, che si trovavano bene dalle suore. Quelle suore volevano bene ai miei bambini.
Erano pochi momenti di gioia in un ambiente molto triste. Il cibo dell’ospedale era scarso, prevalentemente erano patate.
C’erano molti bambini al piano di sotto. Anche il loro trattamento era scarso rispetto alla retta che la Previdenza pagava.
Guarii grazie alla streptomicina. Molte volte le suore mi portavano al vescovado, a prendere le medicine che il Patriarca Roncalli ci donava. Il Patriarca per i suoi 15 giorni di ferie non andava in montagna, ma veniva in questo istituto elioterapico pieno di ammalati con peritoniti e infezioni tubercolari. Alloggiava nello stesso piano dove si trovavano i nostri cameroni. Veniva spesso a trovarci, e ci chiedeva della nostra salute, se avevamo notizie della famiglia e dei bambini. Finite le ferie, tornava al vescovado.
Quando l’hanno fatto papa ero già a casa con i miei bambini. Provai una grande gioia, però sapevo che non avrebbe potuto fare quello che voleva, perché i condizionamenti del Vaticano sono troppi.
Operaia
Ritornai da Venezia ancora convalescente. Mia cognata Elettra ci trovò un appartamento con bagno interno. Questo migliorò molto la qualità della nostra casa. Per un anno ebbi un sussidio che il governo dava agli ammalati come me.
Ristabilita, trovai lavoro in un atelier di moda delle sorelle Minardo. Quanto pulire saloni, tappezzerie e lampadari. Ogni lampadario era un’ora di lavoro in cima a una scala. I clienti di questo atelier erano persone molto importanti, anche gli Agnelli.
Mi licenziai perché la mia salute non reggeva la fatica e perché avevo trovato lavoro presso una famiglia vicino a casa. Uno dei figli di questa nuova famiglia, nel 2002, mi ha operata di cataratta. Mi ha riconosciuta e, nonostante fossi stata con loro solo 9 mesi, diceva a tutti: «E’ la mia tata».
Solo 9 mesi perché, finalmente, nel 1959 si presentò l’occasione di lavorare in fabbrica. L’ orario di lavoro nella fabbrica era inferiore a quello che facevo nelle famiglie e meglio retribuito. Più soldi e più tempo per la mia famiglia.
Era, la ditta Mosso, una fabbrica di conegrina. Le mie mani si rovinarono, corrose e sanguinanti, nonostante i guanti. Lavoravo all’imbottigliamento e le bagnavo facilmente. Ero pagata con il contratto dei chimici, che è sempre stato un buon contratto dal punto di vista soldi. Ci pagavano un po’ della salute che ci portavano via.
Lavorai 8 anni in questa fabbrica. Poi i titolari, anziani, chio e vendettero tutto. Al posto di questa ditta, in via Monza angolo via Bologna, ora c’è un condominio.
Vicino, in via Bergamo, c’era una fabbrica di pentole d’alluminio: ho ancora una teglia, delle pentole e dei tegami comprati direttamente in fabbrica.
Sempre nelle vicinanze c’era la Nebbiolo, che costruiva macchine tessili, dove Berto trovò lavoro. Lavorava sui tre turni, compresa la notte.
Alla Nebbiolo, in quegli anni, si lavorava senza contratto sindacale. Paga inferiore ai minimi salariali e mancanza di qualsiasi contrattazione aziendale. Berto fu tra i promotori di scioperi, si iscrisse al sindacato e riuscì a far entrare
l’organizzazione sindacale in fabbrica che sarà, nel panorama operaio torinese, una delle più combattive.
Allora gli scioperi erano ad oltranza, e per molti giorni al mese. Per molti mesi la paga era ridotta a metà. I picchettaggi impedivano ai crumiri di rompere l’unità della lotta.
I risultati si ebbero. Si ottennero tutte le spettanze definite dal contratto metalmeccanici.
Però Berto fu licenziato. In sua difesa non fu possibile organizzare altra lotta. Le famiglie erano stremate. Ebbe una buona uscita, ma avrebbe preferito il posto di lavoro.
Le mie difficoltà, come operaia e madre due di due figli in età scolare, erano tante.
Dovevo alzarmi alle sei, preparare la colazione e le borse con il mangiare per mezzogiorno. Poi partivo con i bambini. Portavo Gualtiero alla scuola elementare, vicino alla chiesa della Speranza, dieci minuti di strada. Altri quindici minuti per portare Robledo dalle suore in via Leinì. La scuola di Robledo era ancora chiusa e lo lasciavo alle suore, in chiesa, dove pregavano. Poi via in bicicletta per essere puntuale in fabbrica alle 8. C’era il tram, ma non era affidabile per gli orari, e rischiavo di arrivare in ritardo al lavoro.
Alla sera uscivo alle 16.30 dalla fabbrica e facevo il giro contrario per ricuperare i figli. E avevo ancora tutto da fare. La mia giornata difficilmente finiva prima della mezzanotte.
La spesa la facevo il sabato, anche perché eravamo pagati con acconti alla fine di ogni settimana. Il sabato e la domenica erano i giorni per lavare e stirare. Allora non avevamo la lavatrice.
In fabbrica eravamo pochi: una decina con gli autisti e l’impiegata. Sono molto grata all’impiegata perché, durante le vacanze scolastiche, mi permetteva di telefonare a casa ai bambini per capire cosa facevano e raccomandare di stare buoni.
I bambini li chiudevo a chiave in casa, ma loro riuscivano a are da una finestra che dava sulla scala e andavano a giocare al pallone al parco Sempione, dove allora c’erano prati e mucche al pascolo. Non mi accorsi mai di questo. Me lo hanno confessato da grandi. Quando rientravo dalla fabbrica li trovavo bravi, che facevano i compiti, preparavano la tavola e gli altri lavoretti che avevo indicato.
A mezzogiorno, in bicicletta venivo a casa velocemente. Arrivavo verso la mezza e dovevo ripartire subito perché il lavoro ricominciava alle 13. Importante era vedere come stavano e che non si fossero scottati nel cuocere la pasta.
Una volta, andando casualmente sul balcone, trovai un grosso cane. Mi spaventai. Era dei proprietari della farmacia vicina. Robledo lo era andato a prendere per portarlo a so. Sempre impaurita lo costrinsi a riportarlo ai proprietari. Robledo, che era molto piccolo, portava il cane, che era molto grande, al guinzaglio. Io avevo la bicicletta per mano, perché non potevo far tardi al lavoro. Alle mie impaurite rimostranze la signora della farmacia mi disse: «Lo viene prendere tutti i giorni». Robledo invece di salutarmi mi disse: «Sei cattiva. Non sai che i cani salvano le persone?»
Gualtiero, mentre giocava a pallone nei prati, fu visto da un signore che gli disse: «Perché non vai a giocare nei pulcini della Juventus?» Gli diede l’indirizzo e gli spiegò quale tram prendere, il 15. Gualtiero, che aveva 8 anni, pieno di entusiasmo, riuscì a capire dove scendere e dove dirigersi. Io non potevo accompagnarlo e a malincuore mi convinsi che poteva farcela da solo. Però non aveva le scarpe né i pantaloncini adatti. Un vecchio paio di scarpe poteva essere sacrificato e i pantaloncini li feci con pezze bianche che ci davano in fabbrica per asciugarci le mani. Mise il tutto in una rete, che allora si usava come borsa. Tornò a casa tutto felice. Lo avevano preso. Gli avevano dato i buoni per la divisa e le scarpe. Doveva presentarsi una volta alla settimana per gli allenamenti. Giocava nella rappresentativa regionale. Aveva come compagni Cabrini, Bettega, il povero Maggioni e altri campioni divenuti famosi. La domenica, tutti lo seguivamo per stare assieme e vederlo giocare. Giocava bene come gli altri.
Restò nell’organizzazione sportiva della Juventus fino al militare, che fece nel centro sportivo di Orvieto, come granatiere.
Quando tornò da militare, la Juve lo lasciò libero, per i soliti ruffianamenti. Fu richiesto dalla ProVercelli, ma non si trovò, con la Juve, l’accordo sul prezzo del cartellino, e Gualtiero si dedicò al tennis, che praticò e pratica tuttora, che è in pensione.
Gli anni della fabbrica non sono per me un brutto ricordo. Pagavano sempre regolarmente e ci davano pure il latte.
Tra il mio stipendio e quello di Berto potevamo mantenere la nostra famiglia dignitosamente, e vedere i nostri figli crescere bene, senza dover più fare i conti con la fame.
Mettevo subito da parte i soldi per l’affitto, il gas e la luce. Amministravo tutto io.
Riuscivo a fare anche qualche piccolo risparmio.
Quando, durante la settimana, trovavo qualche momento di riposo, mi piaceva leggere i giornali del partito e la rivista «Noi Donne». Berto frequentava la sezione regolarmente, io raramente. Questi incontri ci aiutavano a capire i problemi di tutti e le lotte necessarie per risolverli. Il Primo Maggio non era più a Suzzara, ma continuava ad essere una grande festa. C’erano sempre tantissimi lavoratori. Torino è la culla delle lotte operaie. Questi incontri e queste manifestazioni ci davano coraggio e speranza per il futuro. Ora molte di queste speranze si sono spente o per lo meno sono sotto la cenere. Eravamo tanti, ma dalle urne uscivano sempre risposte deludenti».
I movimenti di lotta femminili
Guerrino: Hai partecipato alle lotte dei movimenti femminili?
Noemi: Non sono stata coinvolta dalle lotte per i diritti delle donne in modo particolare. Seguivo quello che indicava il partito. Il lavoro e il superamento della miseria mi sembravano già un buon traguardo. Non che fossi cieca di fronte alle discriminazioni che sopportavamo noi donne. Mi sembrava un segno del destino. Lavoravo come un uomo ed era giusto che fossi pagata come un uomo. In fabbrica mi volevano bene e in casa ero la regina. L’importante per me non era il riconoscimento del lavoro che facevo a casa, che nei miei sentimenti era dovuto, ma che ci fossero i permessi per la maternità e per quando i figli erano ammalati. Importante era avere asili e scuola a tempo pieno per poter lavorare tranquille.
Lontani da me erano anche le esigenze di una legge per il divorzio e per la libertà di interrompere una gravidanza. Davo, comunque, il mio contributo, come ci indicava il partito, perché sono conquiste di civiltà anche se possono aprire strade ad abusi. Chi ha i soldi può sposarsi molte volte, anche in chiesa. Certo se nella politica e nei posti di comando ci fossero più donne il mondo andrebbe meglio. Gli uomini, da piccoli serviti dalle madri e da grandi dalle mogli, credono di essere i padroni del mondo e, come tutti i padroni, fanno rovine.
A pensarci bene, nella mia educazione di donna, ha avuto un gran peso la religione. Noi, le regine della casa, dovevamo essere sottomesse. Educare i figli e servire il marito. Fuori per noi non c’era spazio, comandavano gli uomini e i preti più ancora. Noi donne dovevamo comportarci bene e non dare adito a critiche morali.
L’aver fatto solo la seconda elementare mi crea problemi. Capisco tutto, ma alle volte non trovo le parole giuste per esprimere le mie idee. Come vedi con te che, per fortuna, mi aiuti a trovarle.
Con gli altri parlo molto, soprattutto di politica. Mi sembra impossibile che gli altri non abbiano capito quello che capisco io. Molte volte sono brusca e troppo esplicita nei miei giudizi.
Guardo in televisione i programmi politici e quando sento dire le cose giuste, sono contenta. Quando parlano i compagni, non perdo una sillaba.
Dalla fabbrica ancora al servizio
Mia cognata Santa, che lavorava da 15 anni presso la famiglia Cerutti, un dirigente dell’azienda del gas, era andata a Roma dalla figlia. Il genero era stato trasferito a Roma per lavoro. Questo viaggio che doveva essere provvisorio, divenne definitivo.
Io ero disoccupata. La signora Cerutti mi pregò di prendere il posto di Santa, provvisoriamente, intanto avrebbe cercato un’altra collaboratrice domestica. Questa provvisorietà durò 20 anni, fino a quando, per deterioramento delle mie anche, dovetti mettermi in pensione. Mi avevano pagato regolarmente i contributi. Già ero titolare di pensione di invalidità, che essendo piccola mi permetteva di lavorare e completare il mio reddito per la vecchiaia. La mia vecchiaia è la stagione più florida economicamente. Ancor oggi sono in grado di aiutare i miei figli.
Nella famiglia Cerutti c’erano 6 persone, tre figlie e un figlio. Avevano anche una casa in campagna, a Montanaro, ma quella l’accudiva una mia paesana che si chiamava Jones.
Le ho telefonato pochi giorni fa. Mi sono decisa, avevo come un presentimento. Voleva salutarla. Ha risposto la figlia. Jones è mancata due anni fa. Ci sono rimasta male. Me lo sentivo. Per questo da tempo non osavo telefonare. Anche il marito è molto ammalato, non conosce e non ricorda. Quanto lavorare lei e suo marito! E poi finire così.
I Cerutti erano cattolici praticanti, veramente religiosi, aiutavano attivamente i poveri. Mi pagavano più del contratto. Io lavoravo bene e molto, ma loro erano generosi e mi facevano tanti regali. Mi diedero persino la mancia per Gualtiero, quando andò militare. La signora mi avrebbe dato il cuore. Purtroppo quando restò paralizzata non potevo fare tutto quello che sarebbe stato necessario, perché dovevo pensare anche alla mia famiglia e cominciavo a soffrire molto per
il dolore alle anche. Fu un grande dispiacere quando le mie condizioni di salute mi costrinsero a licenziarmi. Tornavo sovente a fare qualche piccolo lavoro, perché anche la figlia aveva gravi problemi di salute e mancò presto. Al suo funerale c’era un numero grande di auto blu. Il marito di questa figlia era andato a lavorare in Vaticano, dove lo zio era impegnato in attività finanziarie che riguardavano anche il Banco Ambrosiano.
Di lavoro ne ho fatto tanto. A 46 anni avevo 820 punti per la pensione equivalente a più di trent’anni di lavoro. La previdenza sociale allora funzionava meglio. Mi hanno mandata per tre anni alle cure termali, tutta spesata, pure l’albergo. Andavo con Berto a Salsomaggiore. Mi mandavano i medici. Io non sapevo che si potessero fare delle cure per prevenire l’invalidità. Dopo tre anni mi dissero che non guarivo e che avrei dovuto operarmi verso i sessant’anni. Queste terapie furono un’esperienza come di persona benestante. Operai, vivevamo 15 giorni come ricchi. La previdenza pagava pure il treno e la ditta pagava la giornata lavorativa. Che tempi!
Leinì
A Torino abitavamo in un piccolo appartamento di proprietà del sindaco di Leinì.
I signori Caviglietto ci avevano affittato l’alloggio nonostante i due figli, che per altri proprietari di case erano motivo di rifiuto.
L’appartamento era piccolo, al primo piano, in un palazzo di cinque piani e ci arrivava giù l’immondizia di tutti i piani superiori.
Un geometra, a cui Berto portava il gasolio, ci offrì un appartamento a Leinì.
L’alloggio era in una palazzina di 4 famiglie.
Berto mi portò a vedere l’alloggio in zona Mulino. Era bello e traslocammo.
La proprietaria affidò a me la gestione della palazzina, anche per l’accettazione di altri inquilini. Un alloggio fu affittato a Gualtiero. Un altro ad una guardia giurata, con moglie e figli in Germania, col quale cascai male. Avevo paura dei suoi atteggiamenti e cominciai subito a guardarmi intorno.
Trovai in via Olivetti questo piccolo appartamento, che con mutuo ed altri debiti potemmo comprare.
Sono qui da 35 anni. Un buon posto dove are la nostra vecchiaia.
Berto, dopo la Nebbiolo, aveva trovato lavoro come autista nella ditta di Bastia Remo, proprietario, come ti avevo detto, dei grandi depositi di carburante qui di fronte, poi divenuti proprietà dell’Ecolinea.
Quanto ci ha fatto soffrire questa Ecolinea! Ti ricordi? Aveva trasformato la ditta in deposito di rifiuti. Molti camion con rifiuti industriali cambiavano la bolla di accompagnamento e ripartivano per destinazioni ignote, verso il sud, ma alcuni stazionavano sotto le nostre finestre. Fastidiosissimi i rifiuti del mercato di Porta Palazzo fermi all’Ecolinea il sabato e la domenica con la loro puzza di pesce marcio. Peggio è stato quando abbiamo saputo dell’arrivo dei fusti della Zenobia, una nave carica di veleni, che l’Africa, giustamente, aveva rispedito indietro.
Ci siamo piazzati davanti ai cancelli alla fine di agosto. Tu sei tornato dalle ferie con il camper il secondo o il terzo giorno. Ci avevano aiutato ad organizzarci i Verdi, con la continua presenza dei loro militanti, in particolare di Pasquale Cavaliere, che voleva incatenarsi al cancello. Ti sei messo subito a disposizione della lotta con la tua esperienza. Abitavamo a 50 metri, conoscevamo bene il problema. Quanti incontri con la direzione avevamo già fatto! Ma era ora di dire basta. Nonostante la continua presenza di 60 carabinieri, con i quali abbiamo parlato civilmente per quaranta giorni e quaranta notti, impedimmo ai camion di entrare. I camion della Zenobia non si sono neppure presentati.
Abbiamo avuto la partecipazione di molti che, nelle mezze giornate libere dai turni di lavoro o al ritorno dallo stesso, si fermavano con noi. E abbiamo ottenuto che tutta l’Ecolinea si trasferisse in una zona del territorio di Leini, lontana dalle abitazioni. E’ stato un grande successo.
Ricordo che Piera veniva a consultarti perché faceva da sola tutto il tuo lavoro, e Donatella giocava in mezzo a noi, con gli altri bambini.
Ti voglio parlare del signor Bastia, non per la lotta dell’Ecolinea, che conosci meglio di me, ma perché ha dato il lavoro a Berto, nonostante fosse comunista, in memoria di suo padre, Teseo, anche lui comunista e ha pagato a Berto e a me un bellissimo viaggio in Russia.
Era un viaggio tutto programmato, chiamato il «Viaggio dell’Amicizia». In treno. E’ stata l’unica volta che siamo andati fuori dai confini dell’Italia, ma non dai confini della patria, perché la Russia, la patria della Falce e Martello, era per me e per Berto la nostra patria ideale. Era un nostro grande sogno visitare la Russia ed anche Cuba. Il viaggio in Russia diventò una realtà da favola. Molti sposini viaggiavano con noi per il viaggio di nozze. Fu anche per noi un bellissimo viaggio di nozze, che non credevamo di poter fare. Ho ancora i aporti.
Fatti tutti i preparativi, siamo partiti da Venezia in agosto. In Russia maturavano le ciliegie. Eravamo tanti. Il treno aveva le cuccette. Intanto che cambiavano le ruote, la polizia fece un’ispezione accuratissima dei documenti e dei bagagli. La prima tappa fu Bucarest, città stupenda, piena di zingari. Vi facemmo un’ottima colazione a base di latte e dolci.
La seconda tappa fu a Budapest, ospitati con calore ed amicizia in un grande albergo di lusso. Oltre alla bellezza di queste città, si vedeva che erano tenute molto bene dai cittadini e questa si rivelò una caratteristica di tutte le città comuniste che abbiamo visto. A Kiev ci meravigliò la grande stazione tutta marmo e grandissimi lampadari di cristallo. La Russia aveva tanto verde che ci faceva desiderare di abitarla.
Finalmente a Mosca. Vie immense. Ci portarono a vedere tutto: Cremlino, chiese, musei, supermercati tanto più grandi dei nostri. Commovente la visita al cimitero di guerra, dove i caduti sembravano ancora presenti, ricordati da tante piante e dalla musica. Mi è piaciuto molto vedere che le donne facevano gli stessi lavori degli uomini. Donne poliziotto, donne autista, donne funzionarie del partito e delle amministrazioni, non come da noi dove trovavamo solo lavoro a servizio.
Da Mosca a Leningrado - io non la chiamerò mai Pietroburgo - sempre accolti con grande simpatia. Abbiamo visto incredibili opere d’arte all’Eremitaggio, le prigioni, la nave che ha salvato Leningrado dall’invasione nazista. Mi sono sentita orgogliosa che tutta la bellissima architettura della città fosse in gran parte opera di italiani. Ho visto una nazione stupenda. Ora non so come sia cambiata. Sento brutte notizie. Troppi ricchissimi e troppa delinquenza.
Il viaggio durò un mese. Tutte le sere partecipavamo a spettacoli, teatri, balli, coro dell’Armata Rossa. Al ritorno in Italia, Berto sfoggiava un bel colbacco e io
continuavo a sognare.
Risparmiavo soldi per poter andare anche a Cuba. Ci tenevamo tanto a poter incontrare Fidel Castro. Io sono coetanea di Che Guevara, sono nata anch’io nel ’28, solo quattro mesi di diversità, io il 14 gennaio e lui il 15 di maggio. Vedi quante foto, calendari e quadri alle mie pareti? Mi hai portato il disco del diario di Che Guevara in motocicletta nell’America del sud. Sì, è bello. Ma ci sono gli attori.
A me piacciono i documentari dove proprio si vede il Che. Che Uomo! Guarda, io prendo sempre il calendario con le sue fotografie.
Guerrino: Certo che entrare in casa tua è come entrare in un santuario.
Noemi: Purtroppo la vecchiaia con Berto è durata poco. Aveva una gran salute e un fisico indistruttibile. Glielo ha distrutto, troppo presto, il fumo. La morte di Berto è stata una perdita che ancora non so accettare. Anche a te voleva bene e c’era stima vicendevole. Sono tante le iniziative politiche che assieme avete fatto.
Ce l’ha messa tutta per farti eleggere consigliere comunale. Avete fondato assieme il circolo di Rifondazione Comunista e raccolto compagni che a Leinì non trovavano più tracce di comunismo. Ora sento delle brutte arie. Molti ex compagni hanno rinunciato al comunismo buttando via la falce e martello.
Altri vanno a cercare il comunismo in piccoli partiti che hanno conservato con dignità la falce e martello, ma sono troppo piccoli. Manca l’unità dei lavoratori. Quando vado sul pullman glielo dico sempre ai giovani che bisogna lottare.
Quello che abbiamo conquistato nessuno ce l’ha regalato.
Abbiamo fatto molte lotte anche per risolvere i disagi del quartiere. Ti ricordi?
Non c’era neppure la buca delle lettere. Non che ora ci sia molto di più’. Almeno il semaforo ha arrestato la pesante serie di morti sulla strada.
Vent’anni abbiamo impiegato per avere la pista ciclabile, e adesso posso andare a Leinì in bicicletta senza il rischio di essere travolta dalle macchine.
Guerrino
Chiudiamo questo dialogo il 15 aprile 2008. Le tappe di questo raccontare, dilazionate nel tempo terminano in un momento triste. I compagni storici sono riusciti a cancellare la mia sinistra dal parlamento italiano. Io sono tornato extraparlamentare con tutti i miei «No».
Mi preparo a partire per l’Africa. Pino mi dice che nei villaggi c’è ancora solidarietà ed eguaglianza.
Noemi non si abitua ad essere orfana della Falce e Martello.
Vilma
Mio padre, sceso dalle valli dell’Orco intorno agli anni venti del 1900, fu tra i primi a migrare verso la grande città TORINO. Pur essendo piemontese trovò ad accoglierlo le stesse difficoltà che trovarono i meridionali negli anni 60/70, ed oggi i migranti extracomunitari, comprese le ingiustizie nel lavoro. Ciò che determina questi comportamenti verso i più deboli è insito nel nostro modello di sviluppo.
Mia mamma, orfana di madre dalla tenera età, era considerata fortunata, per quei tempi, perché aveva una casa di proprietà con giardino.
Ho assistito mia sorella maggiore per molti anni con l’ausilio della famiglia perché affetta da una malattia invalidante.
Il destino, che ho cercato di modellare fin da giovane ha continuato a presentarmi situazioni non facili, mi aiutano molto i valori e la dignità con i quali ho cercato di costruire la mia vita fin all’età di 14 anni.
Finite le medie, andai a lavorare come cameriera in un noto ristorante di Ciriè. A quel tempo avevo una sola mezza giornata libera alla settimana e rincasavo a notte tarda perché gli equipaggi delle linee aeree, nostri clienti, arrivavano tardi a cenare.
Ricordo volentieri quel periodo perché imparai a presentarmi bene. Ci tenevo al mio aspetto, a non essere goffa e a dare una buona impressione.
La mancanza di tempo libero mi spinse a cercare un lavoro diverso. In quegli anni era abbastanza facile trovare lavoro in fabbrica. ando davanti ad una manifattura che faceva velluti per la Fiat, vidi un cartello che indicava richiesta di manodopera femminile. Le condizioni economiche erano interessanti. Quindi cambiai lavoro. Le ore di lavoro erano 12 al giorno compreso il sabato. Ma in questa filatura a lavorare erano i telai, io controllavo lo svolgimento della tessitura e intervenivo quando il telaio si fermava.
Nel telaio erano inseriti dei fermi, i cosi detti “ballerini”, ferri che, quando si rompeva il filo, bloccavano il telaio. Di li a poco il nuovo direttore decise di abolire questi fermi, perché secondo lui erano la causa di molte fermate e quindi impedivano una maggior produzione. Scaricò su di noi la responsabilità di eventuali falle sul tessuto. Poiché non riuscivamo a intervenire tempestivamente per il numero di telai che dovevamo controllare, ci addebitava multe per le pezze fallate. Per non subire questi soprusi io e molte altre colleghe ci licenziammo.
Trovai lavoro in una azienda che produceva elastico, la Remmert. Era un ambiente di lavoro eccessivamente rumoroso e il capo era prepotente e perseguitava chi cercava di far valere i propri diritti.
A marzo del 1968 andai a lavorare alla SIEM dove si producevano fari e fanali per la Fiat. Lavorai 32 anni in questa azienda facendo i due turni, fino alla pensione.
In questa fabbrica la brutta sorpresa fu la catena di montaggio. Qui non lavoravano le macchine, ma erano gli operai a montare i pezzi. Chiamavano questo sistema di lavorare, taylorismo. La buona sorpresa fu di trovare in questa azienda l’organizzazione sindacale che cercava di tutelare le esigenze dei lavoratori. Per far valere le nostre rivendicazioni si doveva anche scioperare cosa che io feci durante il periodo di prova. Fui salvata da un delegato che mi
consigliò di mettermi in mutua per quel giorno. Mi raggiunse nell’anticamera del dottore mia madre e mi mollò un sonoro ceffone dicendo: “Vuoi fare come tuo padre?” Mio padre ha sempre lottato contro la nocività e i pericoli per la vita nei posti di lavoro, subendo pesanti conseguenze.
Il lavoro alla Siem segnò la mia vita, la mia giovinezza e la mia formazione come donna, moglie e madre.
Incontrai Eugenio a 23 anni. Lui ne aveva 24. Ci siamo sposati nel 1976.
Nei fine settimana ci piaceva andare a ballare, ma in famiglia vigeva la regola che a divertirsi troppo poteva indurre i vicini a giudicarci negativamente. Io non trovavo giusta questa limitazione e ci andavo ugualmente, al rientro dovevo subire le ingiurie dei miei genitori e qualche ceffone da mia madre, la quale si preoccupava molto della mia reputazione e mi ripeteva: “attenta a quello che fai”. In questa raccomandazione c’era la paura tremenda di una maternità prima del matrimonio.
Mi rendevo conto che il mio comportamento sovvertiva valori consolidati, ma io non accettavo più che altri decidessero per me. Ancor più dopo aver incontrato Eugenio, che con le sue idee chiare, moderne, politicamente evolute mi aiutò molto a crescere.
Ricordo un viaggio a Roma per Natale con un’altra coppia di amici. Mia madre fece di tutto per impedirlo e la mia futura suocera mi definì una poco di buono “perché le brave ragazze stanno a casa”, come se per amarci fosse necessario andare a Roma. Eravamo nel 1973.
Nell’estate successiva programmai con Eugenio le vacanze al mare. Mia madre , ormai quasi arresa , ci disse: ”partite in due non tornate in tre” Eugenio con le borse in mano: “se permette questi sono problemi miei e di sua figlia”. Alla risposta inaspettata rimase di stucco. Mio padre commentò: “come le allevi, te le ritrovi”.
Noi partimmo felici. Avevo chiaro il diritto all’amore in tutte le sue manifestazioni.
Ricordo che Eugenio a mio padre piaceva, anche se non lo dava a vedere.
In questi anni tante erano le discussioni sull’emancipazione delle donne. Il diritto al divorzio e per l’interruzione delle gravidanze indesiderate.
Il paese era diviso e lacerato, pieno di ipocrisie. Chi aveva denaro andava ad abortire in Svizzera, chi era priva di mezzi rischiava la vita sui tavoli dalle mammane.
Quello che in Francia , Germania, Svezia e altrove. era garantito dallo stato, qui era reato. Avevano da poco abolito la legge penale, che proibiva la vendita degli anticoncezionali.
In fabbrica di sesso si parlava a mezza voce, sogghignando e banalizzando. La questione veniva ridotta a fatti goliardici. Da noi la manodopera era prevalentemente femminile, i capi erano maschi e si comportavano come galli nel pollaio.
Si radicava in noi donne la consapevolezza dell’indipendenza economica come presupposto all’autodeterminazione delle nostre decisioni nella società. Ho sempre avuto una grande considerazione per l’autonomia, soprattutto quella economica.
Questo modo di pensare mi ha impedito di commettere vari errori.
Ricordo che ancora fidanzati Eugenio mi aveva proposto di andare a lavorare alla Singer dove le condizioni di lavoro erano più accettabili e avrei potuto fare un po’ di carriera sfruttando le mie capacità organizzative. ma soprattutto, non si facevano i turni. Rinunciai perché pensai che se uno di noi in futuro perdeva il posto di lavoro potevamo sopravvivere anche con uno stipendio solo, senza chiedere aiuto alle famiglie .
Questa decisione si rivelò molto opportuna nella costruzione della nostra famiglia.
Quando decidemmo di sposarci ci fu un certo conflitto con i genitori di Eugenio, che era in cassa integrazione. L’azienda dove lavorava, la SINGER, era chiusa e non si vedevano prospettive. Loro volevano che andassimo a vivere nella loro ampia casa, ma io un lavoro l’avevo e non potevo rinunciare alla nostra autonomia.
Ci sposammo domenica 28 novembre 1976, in chiesa, per accontentare le famiglie.
Officiò la cerimonia mio cugino prete, riducendo la liturgia al minimo. Mi definiva una “barbetta”, appellativo che in Piemonte si dà ai protestanti.
Il giorno successivo Eugenio era impegnato nel presidio del comune di Leini, occupato per qualche giorno per protestare contro l’indifferenza della classe politica, che non si impegnava concretamente a dare una mano a risolvere il problema occupazionale dei 2000 lavoratori, lasciati sul lastrico dalla Singer. Gran parte di questi lavoratori erano leinicesi e costituivano l’ossatura dell’economia della popolazione del comune.
Il viaggio di nozze l’abbiamo fatto nei cortei che i lavoratori Singer facevano per sensibilizzare la società civile. In compenso ho avuto la possibilità di conoscere molti compagni di Eugenio, bravi a lottare per la difesa del posto di lavoro. Grandi della musica, come sco Guccini, gli Inti Illimani , del teatro come Dario Fo , Franca Rame, e tanti altri che si alternavano nella mensa della Singer a portare la loro solidarietà e una speranza alle famiglie, che per la maggior parte provenivano dal sud.
Appena sposa avo molte notti da sola, perché Eugenio durante l’occupazione faceva i suoi turni anche di notte. Nella casa nuova una notte fui presa dallo sconforto, che si tradusse in paura. Telefonai in fabbrica. Mi risposero alcune operaie, che erano lì per il medesimo motivo e cercarono di tranquillizzarmi, dicendomi, con bella arguzia, di stare tranquilla che ad Eugenio ci pensavano loro.
In quegli anni con la conquista contrattuale della parità fra uomo e donna sul posto di lavoro, mi diedero una nuova mansione, quella di capo catena (fuori linea, cioè jolly) e mi ritrovai ad organizzare il lavoro delle mie compagne, dare il cambio per le pause fisiologiche, recuperare gli scarti, pulire la linea e movimentare con il traspallet il materiale. Questa presunta parità a me e alle mie compagne comportarono un aumento del carico di lavoro. Nella mia officina le nuove leggi sulle pari opportunità portarono solo un traspallet, così anche noi donne potevamo fare i lavori più pesanti. Fortunatamente non avevamo il turno di notte. Il sindacato e i padroni ce lo avrebbero dato volentieri.
Un uomo dopo aver fatto il turno di notte, va a casa a riposare. Alla donna, sulle cui spalle c’è il doppio lavoro, della fabbrica e della gestione della casa, capita sovente quello che mi ha raccontato una mia amica:
“ Ho fatto il turno di notte, sono smontata alle 6,30. Ho accompagnato i bambini a scuola. Ho fatto la spesa. Ho riordinato la casa. Ho preparato il pranzo. Tornati i bambini, ho controllato i compiti. Sto andando dal dentista. Ne avrò fino alle 18. Nel frattempo arriva mio marito, che fa il turno centrale. Se tutto va bene mi ricavo due ore di sonno. Alle 21,15 sarò già in strada per ricominciare un’altra notte di lavoro”.
Le pari opportunità in molte case non portarono neppure il traspallet. Alcune compagne di lavoro tornavano a casa alle 23 e trovavano ancora il tavolo da sparecchiare e i piatti da lavare e il marito che guardava la televisione. Io avrei preso la tovaglia e gettato tutto dalla finestra. La casa la lascio in ordine e voglio ritrovarla in ordine. Fortunatamente Eugenio, cresciuto riverito e servito dalla tipica mamma chioccia, pur essendo molto impegnato nelle attività sindacali della sua fabbrica, collaborava moltissimo nella gestione della casa e per nostro figlio c’era tutta la sua disponibilità.
Nostro figlio Dario nacque nel 81. Quando tornai al lavoro ottenni, come di consuetudine per le lavoratrici con bambini piccoli, la possibilità di fare continuamente il 1° turno. Per mia sorella era più facile accudire Dario al mattino insieme a nostro nipote Diego, di qualche anno più grande.
Dario aveva 2 anni, quando nel ’83 il sindacato firmò un accordo che obbligava i lavoratori a fare 32 ore di straordinario all’anno, da concordare con il consiglio di fabbrica. Quando c’era qualche problema o qualche vertenza, la possibilità degli straordinari veniva sospesa con l’esposizione di un cartello. Il cartello con scritto “sciopero degli straordinari” era esposto ed io un sabato non mi presentai
al lavoro. Mi fu immediatamente sospeso il privilegio di poter fare solo il primo turno, mentre altre madri, che avevano i figli già grandi, continuarono a fare solo il turno del mattino.
Non frequentavo gruppi femministi, ma le loro riflessioni rimbalzavano nella società e nei posti di lavoro.
Noi operaie ci rendevamo conto che la società era maschilista, perché controllava, sfruttava ed esercitava violenza sulla nostra vita e sui nostri corpi.
La fatica del lavoro in fabbrica e la necessaria dedizione alle nostre famiglie ci consumavano tutte le energie.
Ho sempre lottato per cancellare tutte le illibertà che pesavano sulla mia vita. Giudicavo i miei comportamenti e quelli delle mie amiche in se stessi non per quello che ne diceva la gente.
Nel 83 già c’erano le prime avvisaglie di attacchi alle conquiste dei lavoratori, in fabbrica. Si parlava di assenteismo non più di nocività, di maggiore produttività invece degli investimenti necessari per migliorare il lavoro e l’ambiente. Il sindacato nel nuovo contratto accettava ulteriori straordinari da farsi obbligatoriamente, mentre gli operai volevano nuove assunzioni. Ci sentivamo come traditi, il sindacato rinunciava sempre più a rappresentare le istanze dei lavoratori in nome della modernità e competitività che si traduceva in più sfruttamento. Le fabbriche cominciavano a decentrare, a fondersi per tipologia di prodotto.
Da noi non più Siem, ma diventati Carello SpA, arrivarono lavoratori di altre
aziende ristrutturate presenti sul territorio, ma lontane una dall’altra con i relativi problemi di spostamento. Molte nuove colleghe erano costrette ad alzarsi alle 4 per essere sul posto di lavoro alle 6, quando iniziava il 1° turno. Io ero più fortunata mi alzavo alle 4,45 e sonnecchiavo mezza ora in pullman. Gli spazi per costringere l’azienda ad investire nell’ambiente erano sempre più ridotti. Il sindacato non ti dava più una mano. Il rumore, i carrelli diesel usati per lo spostamento dei materiali avano tra le linee di montaggio inquinando ulteriormente il posto di lavoro, i forni usati per l’incollaggio dei fanali non erano isolati termicamente per cui la temperatura d’estate raggiungeva e superava i 40 gradi. Alcune di noi svenivano per questo inquinamento e per il caldo, nell’indifferenza generale.
In questa situazione di disagio e sfruttamento, alle richieste di fare straordinari obbligatori, il consiglio di fabbrica era costretto a dichiarare lo sciopero al quale io aderivo e mi feci portavoce dei nostri problemi.
Fu in questa circostanza che decisi di dare la mia collaborazione entrando a far parte del consiglio di fabbrica.
A lungo ho cercato di evitare la partecipazione diretta all’attività sindacale interna. Avevo già un delegato in casa, molto impegnato. Credevo di aver già dato, avendo per compagno Eugenio che era da molto tempo impegnato nelle lotte operaie. Non volevo portare a casa anche le tensioni della mia fabbrica.
Ma non potei rifiutare l’inserimento nell’elenco dei candidati da cui doveva essere eletto il consiglio di fabbrica.
Fui eletta all’unanimità.
Eugenio mi aiutava con la sua esperienza. Le nostre esigenze e le nostre rivendicazioni erano poco ascoltate dal sindacato ufficiale. Ero rispettata dalla direzione aziendale, ma nelle sedi sindacali sovente si sentiva raccomandare: “Tenete a bada la Vilma”.
Negli incontri con la direzione preparavo accuratamente le mie argomentazioni. Ricordo una volta che i miei calcoli non coincidevano con quelli del direttore:
“Scusi dottore, chiesi, che laurea ha preso?”
“Scienze politiche, perché?”
“Perché in matematica non andiamo d’accordo”.
Con Eugenio discutevo le problematiche che via via si presentavano in fabbrica, ero costretta a rinunciare al mio tempo libero per documentarmi per confrontare con i colleghi le nostre rivendicazioni. Questo fu motivo di conflitto con chi, nel consiglio di fabbrica e nelle organizzazioni sindacali esterne, riteneva le nostre istanze esagerate. Fare la delegata non mi fu facile, troppe volte partivo da casa con il timore di sbagliare, ma con il tempo mi sentii più sicura e sviluppai anche una certa aggressività verbale. Mi sentivo carica di responsabilità che pesavano sulle mie spalle. Alcune volte i compagni pretendevano che trovassi soluzioni miracolistiche. Nei reparti c’erano problemi derivanti dai ritmi eccessivi di lavoro ma per la nocività i conflitti erano quotidiani in tutta la fabbrica.
Mentre il tempo ava il sindacato dimostrava sempre meno interesse alle tematiche dell’ambiente di lavoro, già si parlava di metodo giapponese e di isole di montaggio. I problemi non venivano mai risolti. I lavoratori perdevano fiducia
nella organizzazione sindacale.
L’ introduzione delle prime “isole di montaggio“ si dimostrarono ancora una volta una fregatura per i lavoratori. Prima ti istupidivi con mansioni che mediamente duravano 17 secondi e dovevi ripetere continuamente, mentre la linea (catena) correva e trasportava il pezzo. Ora il pezzo lo dovevi assemblare girando su più postazioni fino ad imballarlo e si ricominciava. Se eri un po’ più lenta della collega che doveva subentrare nella tua postazione quest’ultima ti redarguiva e ti incitava perché il tuo ritardo pesava sul suo lavoro. In più c’erano i display che indicavano il tasso di produttività raggiunta, e la responsabilità di una bassa produttività era sempre nostra, mai dei componenti difettosi o del perché avevi dovuto soffiarti il naso. Non lavoravi più seduta con il pezzo che ti ava davanti. Nelle isole di montaggio eri tu che facevi da nastro trasportatore e portavi il pezzo lavorato ad un’altra postazione. Era più faticoso e si stava in piedi tutto il giorno, per le 8 ore lavorative.
In tutto questo innovamento io non vedevo nessun miglioramento delle nostre condizioni di lavoro, ma ormai tutti erano convinti che la modernità avrebbe risolto i nostri problemi.
Cominciavano ad arrivavate i primi operai con il contratto di formazione al lavoro e poi gli interinali, cioè a termine. I padroni decentravano sempre più. La cassa integrazione era lì a fare da spauracchio con la scusa di fantomatiche ristrutturazioni.
Mentre lo sfruttamento della manodopera aumentava, i nuovi lavoratori, più giovani, erano convinti che a tutelare il loro lavoro fossero i padroni, non le lotte. Era in arrivo il berlusconismo.
Era il 1995 quando mi resi conto della differenza dei valori a cui facevano
riferimento i lavoratori giovani da quelli con i quali avevo costruito la mia vita. Tutti parlavano di grande fratello, si vestivano con indumenti stracciati , sbiaditi, che costavano un occhio della testa. Molti facevano debiti per comprare il telefonino di ultima generazione, che costava un mese di stipendio. Le discussioni sul calcio e sulle fiction televisive avevano preso il posto delle nostre discussioni sulle lotte per l’emancipazione e le condizioni del lavoro e la qualità della vita.
Questa nuova generazione non si rendeva conto che non era più a scuola, ma stavano vendendo a buon mercato il loro futuro.
Decisi cosi di dare le dimissioni dal consiglio di fabbrica e di spendere quel tempo per la mia famiglia, per mio figlio già adolescente.
Sono andata in pensione nel 2003. Mi sento una testimone di valori che non vedo più nella società. Penso con rammarico e un po’ di nostalgia alle battaglie fatte per un futuro più giusto.
Non so quando una generazione di donne e di compagni prenderà in mano il nostro testimone, ma spero di esserci se questo avverrà, per testimoniare quello che abbiamo fatto e per vedere che i nostri sacrifici sono serviti a qualcosa.
L’amore di Eugenio, l’ambiente di lavoro in fabbrica, mi aiutarono molto a contrastare l’assuefazione alla sopraffazione e alla violenza.
Credo che con il mio lavoro, al quale ho dovuto dedicare ogni energia, anche quelle che non avevo, di aver raggiunto la mia emancipazione.
I problemi delle donne erano considerati privati, oggi sono ancora i nodi della vita politica.
Sono temi, esperienze, di cui non riusciamo più a parlare, tanto i poteri mistificano e confondono i linguaggi.
Continua il ricatto sulle donne per il lavoro, per la carriera, per la salute. Dobbiamo ancora scegliere tra maternità e carriera, peggio tra maternità e lavoro. Mancano i servizi di o alla famiglia e alle madri lavoratrici.
Tutti i servizi sociali potrebbero non essere sufficienti, perché ad un figlio non basta dare il bacio della buona notte, ma quando torni dal lavoro in riserva di energie aiuterebbero molto.
Credo che per creare degli effettivi spazi per le donne e per gli uomini sia necessario modificare l’organizzazione del lavoro. Ora pochi lavorano e lavorano troppo. Dovremmo lavorare tutti e lavorare meno. Lavorare a misura di di donna, così sarebbe più facile anche per gli uomini.
La donna è il crocevia di una società organizzata diversamente.
Una più equa organizzazione e distribuzione del lavoro e della ricchezza che si produce, è l’unica possibilità per trovare spazi alla vita.
Un altro valore che noi donne dobbiamo incrementare è la collaborazione e
attenuare la competitività.
La produttività esasperata, finalizzata al profitto di pochi, è un danno irreparabile per la qualità della vita e per la natura.
Noi dobbiamo trovare la possibilità di unire la lotta per il nostro privato alla lotta per i diritti di tutti. Oggi il lavoro divora le famiglie, le città divorano la natura, il cemento sta diventando una catastrofe. Gli equilibri climatici stanno avviandosi a punti di rottura senza ritorno.
Dobbiamo tornare a interrogare le nostre esperienze, riappropriarci della nostra conoscenza, per confrontarci con le parole dei linguaggi maschili ed individualistici della vita sociale, del lavoro, delle istituzioni.
Il nostro sapere deve aprire finestre in tutti i luoghi in cui le donne sono presenti.
Non possiamo permettere che tutti gli interrogativi siano liquidati in modo irrazionale da chi possiede più televisioni.
Dobbiamo ritrovare la solidarietà tra noi donne, carente perché distrutta ad arte.
Ho sentito molte volte frasi come queste: “Ti è successo questo? ben ti sta. Chi ti credi di essere? Se fai queste battaglie vuol dire che vuoi arrivare da qualche parte”.
Da jolly, con una categoria più alta delle mie compagne, ero trattata come la serva della linea: “Vilma dammi il cambio. Vilma mi mancano i pezzi. Vilma portami il caffè: Vilma qui non funziona.”
Finiva che il tempo per le mie pause non lo trovavo mai.
Non mi rassegnavo. La fabbrica era il mio punto di partenza, per dialogare con le mie compagne. I compagni ci ascoltavano poco.
Avevamo sulla nostra pelle la necessità di cambiare le strutture, gli orari di lavoro, le cause della perdita della nostra salute.
Invece l’affievolirsi della lotta operaia riportò lo squilibrio degli oneri sulle nostre spalle. Si è accentuata la violenza sulle donne e il potere di altri sul loro corpo, ridotto a merce.
La precarietà del lavoro porta povertà per tutti, ma più di tutti alle donne.
La perdita delle conquiste dei servizi sociali necessari alle famiglie e il degrado della sanità tornano a pesare sulle spalle delle donne.
Caterina
Sotto l’ombrellone di una spiaggia di Rimini, dove ci rechiamo 15 giorni ogni giugno, organizzati dalle associazioni del turismo sociale, tutto compreso, viaggio, albergo, spiaggia e bevande, Caterina, tra una partita di bocce, dove ai sui avversari restano poche speranze di vittoria, e una di carte, mi racconta la sua vita di operaia nella stessa fabbrica dove assieme abbiamo lavorato e lottato.
Sono rimasto male nell’ascoltare alcune valutazioni negative espresse con tristezza sugli insuccessi della nostra lotta e sulle frustrazioni conseguenti.
Tardi mi accorgo di non aver capito bene tutte le difficoltà delle mie compagne di lavoro e di quanto più grandi erano i loro sacrifici.
Non per rimediare, ma per capire meglio, chiederò altri racconti alle mie compagne di lavoro.
“Arrivai a Lombardore nel ’69, a 34 anni, già sposata e con 7 figli, nati a Palermo.
Fui assunta in Singer nel maggio del ’70.
Il primo lavoro fu ai forni, per l’abbinamento dell’isolante allo schienale dei frigoriferi. Durò un anno. Successivamente, in terza linea, aggiungevo gli
accessori ai frigo: cassetti, sportellini, ecc. Divenni jolly senza categoria, perché il posto di jolly era già coperto dal delegato della linea. Lavorai anche al reparto cucine e alla linea delle lavatrici, sempre addetta agli accessori, e al magazzino dove preparavo gli accessori.
Nella fabbrica sono stata una delle operaie che veniva spostata continuamente nei vari reparti, subendo pesantemente la mobilità all’interno dello stabilimento”.
La direzione tendeva ad approfittare della disponibilità dei lavoratori accentuando la mobilità provvisoria da reparto a reparto. Come consiglio di fabbrica cercammo di attenuarla, pretendendo comunicazioni e motivazioni, per impedire che i capi fero girare quelli a cui volevano far girare le scatole.
“Feci molti straordinari, addirittura doppi turni, fino al 72. La salute ne risentiva, avevo dolori alle spalle e alle mani.
Non avevo fatto un giorno di mutua fino all’operazione della cistifellea e tornai al lavoro con la ferita ancora aperta.
I figli. Il più piccolo aveva 7 anni quando entrai in Singer, venivano seguiti dal doposcuola e dalle suore.
Mio marito mancò nel ‘82 per un tumore ai polmoni, alla cui origine potrebbe non essere estraneo il lavoro. Anche lui lavorava in Singer, macinava plastica.
Anche le mie condizioni di lavoro erano nocive, perché avevo a che fare con la trielina, per attaccare i gocciolatoi dei frigoriferi, e con la lana di vetro.
Chiusa la fabbrica, durante l’assemblea permanente, ero sempre presente in fabbrica e partecipai a tutte le manifestazioni: volevo riavere il posto di lavoro.
Lo ottenni nel 83, soprattutto in considerazione della mia vedovanza, dopo 7 anni di cassa integrazione.
La cassa integrazione mi creò molti disguidi per i ritardi dei pagamenti, ma due figli avevano cominciato a lavorare e aiutavano in famiglia.
Il nuovo lavoro, alle dipendenze della Olivetti una delle aziende di De Benedetti, si svolgeva nello stabilimento ex Singer.
Durò 4 anni, fino alla pensione. Eravamo circa 150 dipendenti, una trentina exSinger. Prima fui addetta all’inchiostratura dei nastri, poi nuovamente agli accessori. I ritmi erano intensi e continuo era il controllo dei tempi e metodi per ottenere un aumento di produzione. Si era arrivati al punto che con difficoltà si trovava il tempo per andare in bagno. I delegati erano frustrati dall’insuccesso della lotta Singer e sui problemi della nocività si faceva finta di niente”.
Caterina era da tutti riconosciuta come grande lavoratrice. A testimonianza della sua dignità di lavoratrice cito questo dialogo.
Un nuovo capo, pretendeva che lei eseguisse il lavoro in modo diverso:
“Signora, lei deve fare così”.
“Io ho sempre fatto in quest’altro modo, lei pensi ai fatti suoi, risposi”.
Arrivò il capo reparto:
“Perché, Signora, non segue le direttive?”.
“Nessuno mi ha presentato questo signore come capo”.
“Le condizioni di lavoro continuavano a peggiorare e la mia salute anche.
Mi avviai alla pensione portandomi a casa un’ernia discale, conseguenza del modo di lavorare, che mi costringe a camminare con l’aiuto della molla di Codevilla.
In Singer, oltre al marito erano entrati anche il mio primo figlio e una figlia, che furono tra i primi ad essere avviati ai corsi della scuola dell’obbligo.
Ma il figlio per tornare in Sicilia si licenziò.
Ho sempre seguito le indicazioni di lotta del consiglio di fabbrica, ma non sempre ho avuto fiducia nella loro attività”.
Rosaria
Rosaria: “Una busta sola non basta, io ho sempre la preoccupazione per i miei bambini, di non poterli mantenere come tanti altri: per questo io vengo ancora a lottare alla Singer. Io non abbandonerò mai la Singer”.
“ma come fanno a dire che l’operaio non aveva voglia di lavorare? Eppure ci dicono: “ Gli americani non hanno dei milioni da buttare via con tutte queste donne che si mettono in mutua per i bambini…” Tutte queste cose ce le sentiamo dire nei negozi, al bar, in mezzo alla piazza. Già, ma una donna è costretta ad andare a lavorare perché con lo stipendio di un uomo non si riesce ad andare avanti e fa grandi sacrifici per non mettersi in mutua. Quella gente che critica fuori, si vede che non è mai venuta a lavorare in fabbrica a vedere come si lavora”.
(da Quando la fede e la lotta sono di classe).
Nata a San Giorgio Ionico in provincia di Taranto nel 1949, Rosaria si sposò nel ’63. Un rapido calcolo mi dava 14 anni, non poteva essere.
“Quanti anni avevi quando ti sei sposata?”
“14.”
“Ma eri piccola?”
“No, proprio come mi vedi ora”.
“Beh… allora…”
“Incontrai Giuseppe a una festa. Facemmo la fuitina e dopo due mesi eravamo sposati.
Giuseppe aveva 19 anni e fu chiamato militare. Abitai con la suocera e nacque il primo dei miei tre figli. Congedato Giuseppe riuscimmo ad affittare una piccola casetta e nacque il secondo figlio che purtroppo morì dopo due mesi. Anche il terzo figlio è nato nelle Puglie, dove però non si trovava lavoro.
Giuseppe riusciva a fare qualche lavoro saltuario in nero, nei campi, ma così non poteva andare avanti. Fece la solita valigia di cartone e partì per il nord senza sapere dove. Trovò due amici a Leinì che lo ospitarono e gli dissero di far domanda alla Singer.
Fu assunto il giorno dopo, il 4 aprile del ’69. Trovò anche alloggio. I proprietari dell’alloggio gli chiesero se aveva “cit”. Giuseppe non capiva la parola cit e rispose no.
Quindici giorni dopo arrivai con i bambini e due valigie. Mi feci subito accompagnare alla casa.
Quando la signora vide i miei figli non ci diede più la casa.
Non capendo mi arrabbiai con Giuseppe. Presi i bambini e le valigie e andai in comune per parlare con il sindaco. Faceva freddo e pioveva. In comune una impiegata chiamò i vigili, perché non volevo più muovermi di lì.
Accorse il vigile Ruggero al quale dichiarai che di lì non mi muovevo, perché mio marito aveva trovato casa, ma non ce la volevano più dare per colpa dei “cit”. Ruggero capì l’equivoco e mi spiegò che i “cit” erano i bambini. Non ci potevo credere. Feci chiamare il Sindaco. Arrivò e si parlarono tra di loro in piemontese, riuscii a capire che aveva detto a Ruggero di prendere la bicicletta e di fare un giro per vedere se riusciva a trovare una soluzione, almeno provvisoria. Trovò una casetta piccola, due stanze piene di muffa, che ammobiliai con alcuni mobili essenziali, comprati usati.
Nel ’71, già un po’ inserita in Leinì, a piedi, con i bambini per mano, andai allo stabilimento della Singer, per vedere se c’era lavoro per me.
In portineria una guardia mi chiese il nome e se ero sposata. Saputo che il marito lavorava già in Singer, chiamò l’ufficio del personale. Mi chiesero perché non avevo compilato la domanda e non l’avevo inoltrata tramite il marito. Risposi che mio marito era contrario a che io venissi a lavorare, invece io avevo bisogno di lavorare, per tirare su la famiglia.
Fui assunta come operaia due giorni dopo.
Giuseppe accettò a malincuore la mia decisione.
Il mio primo lavoro fu al reparto “lavori elettrici”. Dovevo collegare i fili ai motori dei frigoriferi. Lavorai anche nella vecchia verniciatura e poi a saldare le piastre di evaporazione ai frigoriferi.
Non era semplice lavorare e crescere i figli. La paga era buona, ma i servizi necessari alle lavoratrici madri erano ancora da conquistare.
Prima dei servizi arrivarono le voci che avevano cominciato a circolare sulla chiusura della fabbrica. Divennero realtà nelle ferie del ‘75. La Singer chiuse.
Non avevamo certo l’intenzione di arrenderci facilmente, anche perché le motivazioni della chiusura non erano chiare e certo non dipendevano dall’andamento della nostra fabbrica. Cominciammo l’occupazione e lo stabilimento divenne una seconda casa anche per i miei figli.
Frequentai le 150 ore e ottenni il diploma di terza media.
Mentre il lavoro aveva già portato una grande unificazione tra operai del nord e lavoratori del sud, tra uomini e donne, l’occupazione e le 150 ore, ci misero in contatto con gli studenti e con artisti anche famosi. Migliorò la nostra istruzione, la nostra cultura, l’interesse per la musica, per i viaggi . Parlando molto tra noi donne, capimmo meglio i problemi della nostra condizione di donne lavoratrici. La nostra convinzione era che per affrontare tutti i problemi la cosa più importante era difendere il posto di lavoro dal quale dipendevano le condizioni economiche della famiglia, la nostra dignità, il diritto di essere eguali agli uomini, il nostro modo di crescere e tutti i diritti civili che derivano dall’ essere persone che lavorano e con il lavoro costruiscono la società e il futuro.
La società non è fatta di soli uomini. Anche noi vogliamo decidere il nostro destino.
Il pensiero e l’azione del movimento delle donne ha perso visibilità, ma è profondamente necessario. Non possiamo restare identificate solo dal corpo. Non si può vivere solo in funzione degli uomini, obbligate a piacere a renderci disponibili e ad ogni contorsione per sopravvivere. Le esigenze di noi donne sono una rivoluzione, una rivoluzione che non fa morti, ma migliora la vita di tutti.
Con mio marito ebbi molto a discutere. Era troppo pericoloso essere ambedue nella stessa fabbrica per di più chiusa. Dissi a Giuseppe: o ti licenzi tu o mi licenzio io. Ora mi sento in colpa perché mio marito dopo essersi licenziato trovò lavoro solo in piccole boite, che a loro volta chiudevano, senza le garanzie che la lotta costruisce e ha rischiato di non maturare la pensione. Mio marito propose anche di rientrare al sud, ma io, per il futuro dei miei figli, mi opposi risolutamente.
Non persi alcun momento della lotta, ne alcuna manifestazione.
Arrivò uno scarso accordo che fummo costretti ad accettare e subito fui avviata a corsi di formazione tenuti dalla Sasib di Bologna per addestramento alla costruzione di relay. Dopo tre mesi fui assunta nello stabilimento ex Singer per questo lavoro, come dipendente Sasib. Fino al ’85 lavorai ai relay. Nel ’86 tornai in cassa integrazione, perché la Sasib chiudeva la lavorazione a Leinì.
Dopo 4 mesi di cassa integrazione fui spostata alla lavorazione della Olivetti Accessori.
Nel ‘99 altri sei mesi di corsi in valle D’Aosta alla Baltea di Arnaz, per la costruzione delle testine delle stampanti, lavoro che si svolgeva a Scarmagno, vicino ad Ivrea.
Comandata ad andare a lavorare a Scarmagno senza trasporti mi ribellai.
Eravamo in tre e dovevamo trovarci a Scarmagno alle 6 del mattino. Dissi all’ingegnere responsabile che non avevo la patente e non potevo recarmi con mezzi miei e che non intendevo fare 14 ore di lavoro con le quattro di viaggio tra andata e ritorno, che ci mandasse sua moglie. Ero pronta ad andare, ma volevo timbrare in Singer alle 6 e mi avrebbero dovuto riportare per ritimbrare nello stabilimento di Leinì per le 14. Ci fu una trattativa con i sindacati, ottenemmo la trasferta e i mezzi di trasporto. Dovevamo comunque partire dallo stabilimento ex Singer alle cinque del mattino.
Lavorai a Scarmagno circa quattro anni. Poi ancora cassa integrazione. E ancora un corso ad Ivrea di addestramento al computer per registrare documentazioni degli utenti Telecom, come dipendente Inovis.
Questo lavoro mi piaceva, e lo feci per gli ultimi tre anni, prima della pensione che arrivò a gennaio del 2006. Avevo accumulato 36 anni di lavoro, cassa integrazione compresa, e 57 di età.
Graziella
Già sposata con due bimbi arrivai a Leinì nel 1967 da Caorle.
Venti giorni prima era arrivato Luciano, mio marito. Aveva trovato alloggio ed era stato assunto alla Fiat, Fonderie Grandi Motori, in P.za Crispi, dove quando avviavano i motori delle navi per le prove, tremava la città.
Nel ‘73 entrai in Singer, alla terza linea, addetta al montaggio delle celle dei frigo.
Il lavoro mie piaceva più di quello dei campi ed era meno faticoso del lavoro di casa.
Luciano collaborava ai lavori di casa e alla Fiat faceva il turno alternato al mio. Comunicavamo con i bigliettini.
I figli andavano a scuola e quando noi genitori eravamo al lavoro erano guardati dai vicini, in quella casa abitavano 4 famiglie di operai e ci aiutavamo.
Mi ero inserita bene nel reparto e mi sentivo affiatata con le compagne e i compagni del mio turno. Seguivo con partecipazione le indicazione di lotta del consiglio di fabbrica, anche se alcune volte le ritenevo eccessive.
Il periodo limitato della mia presenza in fabbrica non ha lasciato strascichi sulla mia salute, nonostante manovrassi la schiuma (foam) e la lana di vetro per gli isolamenti. Il lavoro era sempre tanto e le voci di chiusura dello stabilimento non sembravano credibili.
La notizia della chiusura della Singer mi arrivò al mare, dove ero in ferie con la famiglia, portata dall’infermiera della Singer che mi salutò con queste parole: “Quando
torniamo troviamo chiuso”. Purtroppo era vero.
Il mio salario era buono. Prendeva tre o quattro mila lire più di mio marito che lavorava in fonderia Fiat.
Occupata la fabbrica, con l’assemblea permanente, tutti i giorni fui presente in fabbrica. Unica manifestazione che mi persi fu la marcia Leinì-Torino, perché volevano partecipare anche i miei bambini e non mi sono fidata a portarli.
Sette anni di cassa integrazione poi 10 anni alla Baltea, nello stabilimento Singer, addetta al magazzino spedizioni. Mi ritengo fortunata perché anche in Baltea mi trovai con un gruppo affiatato.
Fui messa in mobilità tre anni prima della pensione.
Complessivamente tra cassa integrazione e mobilità sono stata pagata 10 anni senza lavorare.
Agnese
Agnese:“non c’è la scuola a tempo pieno, che è essenziale, perché, cosa vuoi, i figli dove li metti? Col doposcuola che c’è adesso, è uno schifo, non è una scuola… Lì è roba da ammazzarsi, non li guardano, se spaccano devi ancora pagare. Dicono che ha spaccato e poi tu che sei la mamma devi pagare. Ci dovrebbe essere un tempo pieno come quello dei bambini della prima elementare”.
“è giusto sollevare anche i problemi dei bambini, però quando venivo in fabbrica , e facevamo i turni, ho sentito ripetere più di una volta: “io non posso venire… mio marito non mi fa venire… non vuole che io venga alla Singer”. Allora io, perché il marito non ce l’ho, la devo tener su io la Singer?
se vogliono a casa le mogli, perché non le fanno licenziare?”
“io ho un problema per il blocco degli straordinari alla Fiat il sabato. Io ho i bambini piccoli, sono sola, non posso andarmene via alle 4 e lasciare i bambini. A chi li lascio? Ma non ho paura che mi ammazzino e neanche ho mai guardato se siamo in dieci o cinque, perché quando io posso andare ci vado. Ci siamo trovati ad essere qua il mese di agosto in pochi tutta la giornata; non ho mai guardato perché quella era in ferie o quell’altro stava a Leinì a eggiare…la mia difficoltà sta nei figli. Io a Roma ci andrei ed anche alla Fiat al picchettaggio, ma come faccio. Io non ho paura delle bombe. Mia sorella si che ci è andata al blocco degli straordinari. E’ stato a casa proprio suo marito che era comandato dalla Fiat a lavorare, e al suo posto è uscita lei a picchettare”. (da Quando)
Sono nata nel ’42 a Santo Stino di Livenza, paese agricolo dell’entroterra veneziano, in una famiglia di mezzadri composta da tre fratelli, due cugini, rispettive mogli e figli per un totale di 44 persone.
Non mi non piaceva il lavoro in campagna, ne mangiare il pane solo una volta al mese. Di polenta non ne potevo più. Desideravo vedere altro e vestire meglio.
A 17 anni mi trasferii a Milano città, come collaboratrice domestica in una famiglia di professionisti. Avevo camera con bagno e mangiavo in cucina. Ricordo di essere stata trattata come una figlia. Questa famiglia si preoccupò di migliorare la mia istruzione facendomi leggere e tenendo d’occhio i miei fidanzati.
Dopo 7 anni, perché non accettavo l’eccessivo controllo sulla mia vita privata, mi trasferii in una famiglia con tre bambini, anche perché mi piaceva occuparmi dei bambini.
Mi trovava bene in questa famiglia, ma dopo due anni e sei mesi si ammalò mia madre di tumore. Mia madre era con mia sorella a Seveso e anch’io mi trasferii a Seveso.
Lavoravo presso una famiglia solo di giorno. Alla sera andavo a casa per essere di aiuto.
A Milano mi era innamorata seriamente e a Seveso nacque Antonella e sedici mesi dopo Gian Luca.
Dopo la nascita di Gian Luca la relazione con il mio compagno si ruppe. Restai con due bambini, senza lavoro e senza soldi.
Mi tagliarono i fili della luce. Trovai un bravo sindaco che pagò il mio affitto e una bottega mi diede a credito cibo per tre mesi. Saldai questo debito nel ’71 con il primo stipendio della Singer.
A Leinì dove mi ero trasferita presso la sorella, il 2 maggio del ’71 entrai in Singer, grazie alla raccomandazione di Principe Cataldo, che in tre giorni, colloquio e visita compresa, riuscì ad ottenere la mia assunzione.
Il primo lavoro fu ai fasciami delle lavatrici, cioè alle presse, cioè lavoro su due turni.
Con i pugni sul tavolo, poco aiutata dalla commissione interna, ottenni il lavoro a giornata per poter portare i bambini all’asilo.
Quando la Singer chiuse partecipai attivamente alla lotta in difesa del posto di lavoro, Sono sempre stata presente nell’occupazione della fabbrica e nelle molte manifestazioni di lotta.
Però se potessi tornare indietro dedicherei più tempo alla cura dei miei figli.
Dopo un misero accordo, fui tra le prime donne ad essere avviata al lavoro, perché la garanzia di lavoro per tutti non c’era e il mio era l’unico sostegno economico della mia famiglia.
Ad agosto del 1980, il giorno 22, fui chiamata per essere assunta alla Elton di Collegno a fare saldatori. A Collegno lavorai 8 mesi. Partivo alle 5,30 per raggiungere il lavoro, lasciando i figli in casa, che nessuno svegliava per la scuola. Questi otto mesi segnarono in modo molto negativo la mia vita. Tornata, dopo questa trasferta allo stabilimento ex Singer, potei essere più vicina ai miei figli.
Come tu sai, la mia vita si era complicata. La tragica morte di Antonella fu il colmo dei miei guai.
Ora ho ritrovato serenità grazie alla bella famiglia di Gian Luca e a Cristian figlio di Antonella, che sta diventando grande, bello e bravo.
Filomena
In famiglia i figli, cinque femmine e due maschi, aiutavamo il padre nei campi. Le risorse dei campi erano scarse. Si doveva cercare altri lavori.
Alcune ditte davano lavoro a domicilio a chi aveva una macchina da cucire.
Nell’angolo di una cucina contadina di San Giuseppe Vesuviano a dieci anni, seduta in punta alla sedia per arrivare al pedale della macchina, cucivo velocemente. La velocità era indispensabile, perché la macchina era stata comprata a rate.
Divenni molto brava, venni utilizzata dalle queste ditte come insegnante per l’addestramento di altre ragazze. La macchina da cucire era una Singer, nome col quale la mia vita si intreccerà non poco.
Con questo lavoro potei fare anche il corredo, e con la dote dissi “si” a Pasquale. E subito arrivarono i nostri figli.
Pasquale lavorava in un pastificio, però il lavoro era ridotto a tre giorni alla settimana.
Già i genitori e fratelli di Pasquale si erano trasferiti a Torino, trovando lavoro alla Fiat. Non fu difficile seguirli. Anche Pasquale trovò lavoro a Mirafiori nel ‘68, poco prima delle grandi lotte.
Fu messo in cassa integrazione con l’esercito dei 23 mila e, attraverso la mobilità, scaricato alla Fata di Leinì.
Trovai un alloggio a Leinì.
La vita in Piemonte era cara. Uno stipendio non bastava. Nonostante i bambini ancora piccoli, feci domanda di assunzione alla Singer, dove entrai a lavorare nel ‘72.
Come tanti lavorai in diversi reparti, fino a quando fui assegnata alla terza linea, quella dei frigoriferi, ambitissima dalle mamme con bambini piccoli, perché si lavorava a giornata. Era impossibile aver cura dei bambini, quando il turno del mattino o quello del pomeriggio coincideva con quello del marito.
Ebbi anche un infortunio: un’avvitatrice, non ben fissata, mi cadde sulla testa. L’infortunio mi causò una diminuzione della vista, ma mi guardai bene dal denunciare il danno, avevo paura per il posto di lavoro e per la patente, che solo io avevo in famiglia. Era necessario avere una macchina in famiglia per i problemi dei bambini.
Ero sempre disponibile alla lotta per migliorare le nostre condizioni, per questo venni eletta delegata.
Occupata la Singer, per difendere il posto di lavoro, ero sempre presente in fabbrica e sempre prima nelle manifestazioni.
La lotta degli operai per difendere il posto di lavoro non garbava a tutti.
Fui impaurita dal ricevere due avvisi di garanzia, come sospetta appartenente alle brigate rosse. Le lettere di convocazione erano minacciose. Prima a Ciriè, poi a Torino. Mi feci accompagnare dal delegato Pino Valsavoia. Alle domande degli inquirenti risposi: “Mi spieghi lei cosa sono queste brigate rosse, io sto lottando per il posto di lavoro per dar da mangiare ai miei figli.”
Per difendere il posto di lavoro andai anche a Roma alla manifestazioni in difesa dell’occupazione. Ne riportai un’impressione indimenticabile,centinaia di migliaia di lavoratori che gridavano con una sola voce, la difesa del posto di lavoro. Questa grande massa faceva un’impressione terribile.
Invece il governo continuava a proporre incontri che finivano in fallimenti, servivano a prendere tempo a tirar per le lunghe in attesa della stanchezza dei lavoratori, o indicava soluzioni parziali che erano trappole.
Una volta davanti allo striscione della Singer, cercarono di travolgermi con una macchina.
Una grande paura la provai andando alla manifestazione di Napoli. Avevano fermato il treno in mezzo alla campagna. Dicevano che c’era una bomba. Mi sono messa a gridare. Pennisi mi diceva: “Proprio tu che hai tanto coraggio!” ed io continuavo a dire: Ho due figli!
I miei compagni mi credevano coraggiosa, ma il coraggio dovevo molte volte far
finta di averlo. Quando la polizia ci caricò in piazza Castello a Torino, dove avevamo la tenda, simbolo delle lotta operaia, mi spaventai assai. Finita la manifestazione, andando a trovare mia figlia in ospedale, che si era rotto un braccio, ebbi un incidente con la macchina.
Ma la mia paura più grande restò sempre quella di perdere il posto di lavoro.
L’impatto con i piemontesi non è stato facile per noi, ma divenne più critico durante la lotta della Singer.
Ricordo che, mentre occupavamo il comune, ebbi lo sfratto. Mi fecero saper che alloggi per me “lottatrice e comunista” non ce ne sarebbero stati. Devo ringraziare Cavallini, consigliere comunale, che mise una buona parola e la sua garanzia, se riuscimmo a trovare e affittare un altro alloggio, quello nel quale abitiamo tuttora.
Ho messo tutte le mie energie a difendere il posto di lavoro. Pasquale non mi ha mai detto: “pensa alla famiglia, che alla fabbrica ci pensano gli altri”. Io capivo che dovevamo pensarci tutti e nessuno potrà mai dire che non ho fatto quello che potevo fare.
Grazie alla lotta che impedì di mandare a casa le donne, ottenni anch’io di lavorare fino alla pensione, che ho ottenuto nel ‘88.
E’ una pensione magra, perché dispongo solo di 23 anni di contribuzione e i tempi si fanno sempre più difficili.
Ho nel cuore i tempi dove si lottava per una nuova vita. Ora hanno messo da parte le nostre lotte, i nostri ideali e la nuova vita.
Se non ora quando
In questi racconti troviamo la soggettività femminile di donne che lavorano, la loro lotta contro l’organizzazione capitalistica, patriarcale e gerarchica della vita e contro l’autoritarismo nella famiglia.
La difesa del posto di lavoro è l’elemento cardine della propria autonomia, della propria dignità e della dignità di tutti.
Non è accettabile una società dove lo stato e il mercato danno spudoratamente per scontata la subordinazione delle donne, ne organizzano i ruoli e trasformano le donne in merce di scambio.
Anche nei partiti che contestano l’organizzazione capitalistica della vita viene ignorato lo sfruttamento casalingo e sociale delle donne.
Le pari opportunità continuano ad essere specchio per le allodole. Il ruolo delle poche donne nei governi continua ad essere prevalentemente estetico, portatrici d’acqua, esecutrici di ordini.
In questi tempi nei quali il lavoro è stato decentrato geograficamente e socialmente, il capitalismo improduttivo ha cercato di cancellare l’immagine stessa dei lavoratori, anche le parole d’ordine delle donne sono cambiate.
Ai tempi di questi racconto dicevano: Io Sono Mia, ora: Se Non Ora Quando, Se
Non Noi chi.
Le donne per costruire la loro liberazione e quella di tutti hanno capito la necessità di una lotta collettiva e con il movimento operaio hanno verificato l’efficacia della lotta non violenta, realizzando la coerenza tra mezzi di lotta e i fini da perseguire.
Combattono la violenza insita nel capitalismo con la sua necessità della guerra e dei sistemi militaristi. Sanno che ogni conquista fatta con la violenza, con la violenza deve essere difesa e quindi mandano in pensione definitiva ogni giustificazione della violenza.
Non basta conquistare il palazzo, importante e trovare spazio nelle case e nei posti di lavoro.
L’organizzazione delle fabbriche ha reso il lavoro difficile per gli uomini, quasi impossibile per le donne. Ricordo le vicissitudini di una delegata della Fiat, dal fisico minuto, ma molto combattiva. Tra le tante discriminazioni che stava subendo era stata esiliata alle fonderie di Carmagnola in una postazione di lavoro molto faticosa. Al robusto delegato operaio che tentava di confortarla e le diceva: “ non ce la puoi fare”, rispose: “pirla, se non ce la faccio io, non è un lavoro buono neanche per te”.
Se non ora quando. Se non le donne chi continua la linea di lotta che parte dal concreto, per cambiare in prima persona i burocraticismi delle organizzazioni e la stessa necessità dei leader, spostando così il potere dai singoli al collettivo?
Il mondo a misura di donna sarebbe il risultato più significativo di progresso e di
civiltà.
Alle lotta delle donne, come soggetto politico, dobbiamo il primo disegno di legge sul divorzio di Loris Fontana nel 1965 e il referendum che farà diventare il divorzio legge dello stato nel 1970.
Lo stesso Vaticano II nel 1966 aveva dichiarato segno dei tempi il riscatto delle donne, aveva condannato la responsabilità delle religioni nella violenza sulle donne e la misoginia religiosa. Il catechismo olandese, che sdrammatizza i peccati sessuali, aiuta a pulire, anche negli ambienti cattolici, l’immagine della donna dagli stereotipi che la relegavano ad un destino di ”essere prevalentemente corpo”.
Sono solo del 1971 la legge sugli asili nido e la dichiarazione della Corte costituzionale sulla illegittimità degli articoli del codice penale che vietavano la propaganda, la vendita e l’uso degli anticoncezionali.
Le organizzazioni politiche, partiti, sindacati, anche gli stessi gruppi della sinistra continuano ad essere organizzazioni maschili poco permeabili alle esigenze delle donne, che continuano ad essere considerate “angeli del focolare o del ciclostile”.
Nei maschi continua la inefficace nostalgia della presa del potere come mezzo del cambiamento. Ma il cambiamento non è conseguenza automatica della presa del potere. Troppe volte si è perso per strada dopo la conquista del palazzo d’inverno.
Per le donne continua il dilemma: spose e madri o emancipazione o lavoro.
La soppressione dello stato sociale, dei servizi alle persone è un pesante macigno sulla loro qualità della vita.
La lotta di classe non può essere senza la lotta alla discriminazione delle donne, che continuano ad restare come una minoranza oppressa.
Qualcosa abbiamo capito. Alcune tematiche sono diventate obiettivi politici, quali il diritto alla parità, la sessualità come elemento intrinseco della persona e non della morale, l’autodeterminazione alla maternità.
La rivoluzione femminile ha portato grandi cambiamenti nella società, senza alcun morto. Tra i risultati più belli ha posto al centro dei valori la qualità della vita. Abituati all’esaltazione postuma dell’eroismo e dell’etica del sacrificio, capire, grazie alle donne, che la qualità della vita è importante già durante la lotta è una innovazione straordinaria, più importante del progresso economico, dei consumi, della ricchezza e del potere
La forbice tra teoria e vissuto, tra politico e privato, che si era ridotta, è tornata ad allargarsi.
Molte conquiste si stanno perdendo complice la crisi economica, voluta e realizzata dall’ingordigia di pochi.
La disoccupazione o l’eccesso di lavoro per i pochi occupati emargina sempre più le donne.
Se questo sistema economico distrugge la Costituzione, la democrazia, la dignità e la libertà delle persone, va cambiato.
Perché le donne possano tenere insieme lavoro, politica, marito e figli bisogna modificare l’organizzazione del lavoro. No ai turni massacranti.
Interi popoli sopravvivano con risorse minime, grazie alla solidarietà, e alla condivisione, ma se la ricchezza che il lavoro produce va finire in poche tasche o nelle guerre distruttive, il futuro non può essere roseo.
Il ‘68 con le lotte alle cinque p: padrone, padre, prete, partito, professore, ha visto le donne in prima fila inventare modi di lotta non violenti. Molto bella l’iniziativa di una ragazza di 15 anni che frequentava il Liceo Classico a Torino, Vicky Franzinetti.
Era il ‘68, “In quegli anni le ragazze a scuola dovevano portare un grembiule nero con un colletto bianco, i ragazzi no. Anche le professoresse dovevano portare il grembiule nero, i professori no. In quinta ginnasio, leggendo il regolamento avevo scoperto che era prescritto il grembiule, ma non era specificato il colore. Mi ero perciò presentata con un grembiule rosa e verde e niente sotto. Come previsto, ero stata mandata dal Preside, il quale mi aveva detto “Si tolga quel grembiule!” ma quando avevo cominciato a sbottonarmi mi ha subito detto “Si riabbottoni”. Fui sorpresa ma da allora da noi non fu più richiesto quell’avvilente grembiule nero.”
Questa testimonianza è riportata in un libro con un titolo molto significativo FARE LA DIFFERENZA, che parla delle lotte delle donne nei posti di lavoro.
Indice
Introduzione
Noemi
Vilma
Caterina
Rosaria
Graziella
Agnese
Filomena
Se non ora quando