Racconti Dell'alba E Del Tramonto - Un Regalo Speciale 6z3v14

Daren Wood © 2014

Un Regalo Speciale è un racconto horror autoconclusivo che fa parte della raccolta dei Racconti dell'Alba e del Tramonto.

L'opera completa e la copertina sono di proprietà esclusiva dell'autore.

Per informazioni visita il sito web: www.darenwood.blogspot.it

I Racconti

dell'Alba e del Tramonto

sono figli

dei miei incubi notturni,

dei miei sogni turbolenti,

dei miei miraggi,

delle mie paranoie.

RACCONTI DELL'ALBA E DEL TRAMONTO

-

UN REGALO SPECIALE

14 febbraio. Ore 16:00.

Non le ho ancora fatto il regalo.

Esco dall'ufficio con due ore di anticipo e mi precipito al centro commerciale. Mai visto così affollato neanche alla vigilia di Natale.

Sto cercando disperatamente quel negozietto di cianfrusaglie che a lei piace tanto. Ci sarò ato davanti un milione di volte mano nella mano con la mia dolce metà che mi strattona sistematicamente ogni volta per guardare da vicino la vetrina.

Ma quando vengo qui da solo è sempre la stessa storia: mi perdo.

Calma, mancano ancora quattro ore.

Sì, è vero, devo tornare a casa, preparare la cena, apparecchiare la tavola, creare l'atmosfera, ma quattro ore, se utilizzate al meglio, possono essere un'eternità.

Mentre la mia parte razionale cerca di combattere quella emotiva a suon di ragionamenti, un flash m'illumina la mente e pone fine a tutte le ostilità: primo piano a destra.

Salgo le scale come un forsennato e raggiungo in un baleno la vetrina del negozio che sembra sia stato appena saccheggiato dagli Unni. Del resto è tardo pomeriggio e, chi doveva comprare il regalo, avrà già provveduto. Sarà rimasto il peggio del peggio, la spazzatura di San Valentino, i regali che la tua ragazza non vorrebbe mai ricevere…

Attimi di puro terrore.

Comincio a scandagliare la vetrina cercando qualcosa di decente, ma non vedo altro che una sfilza di portafotografie terribilmente pacchiani e al centro, il top dello squallore, una scimmietta a pile che suona la fisarmonica.

Sono rovinato!

Arreso all'evidenza dei fatti, poggio la fronte contro il vetro e comincio a pensare… Devo farmi venire un'idea, occorre un piano B e devo partorirlo alla svelta o non mi rimarrà neppure il tempo di farle il regalo, ammesso che trovi quello giusto. Sì, perché preferisco presentarmi a mani vuote piuttosto che con quella maledetta scimmietta pelosa!

Il proprietario del negozio mi guarda storto. Perché quell'imbecille se ne sta con la testa piantata contro la vetrina che ho appena pulito? borbotta fra sé e sé.

Alla terza occhiataccia faccio per tirare su la testa quando un'immagine riflessa cattura la mia attenzione. Si trova alle mie spalle nel negozio dirimpetto. È piccolo come un batuffolo e mi guarda vibrando il nasino rosa pallido.

Il mio morale riemerge dal fango nel quale si era inabissato e per un attimo mi sembra di volare: finalmente ho trovato il mio regalo speciale.

Mi lascio alle spalle quell'inutile mondezzaio di cianfrusaglie e mi precipito come un fulmine nel negozio di animali.

Alla cassa il tipo meno sveglio del mondo mi guarda con i suoi occhi insonni e con il labbro pendulo m'informa che sta per chiudere, ma le sue parole insignificanti si perdono nel brusio assordante del centro commerciale.

«Voglio quello», gli dico. Sì, perché non so cosa sia. Sembra un coniglio, ma ha le orecchie corte e il pelo lungo il doppio rispetto a un coniglio comune.

«Il testa di leone?» Il nome mi suona strano e strabuzzo gli occhi. E lui, con la faccia da ebete, «è una razza di coniglio».

Sorrido forzatamente, perché la figura da scemo del villaggio l'ho fatta io.

«Sono venti euro», prosegue lui mentre si avvicina al recinto. «Ma deve comprare alcune cose. Non può portarselo via così.»

Temo che voglia approfittarsi di me per fare un po' di cresta e lo squadro con aria diffidente. «Che genere di cose?»

«Le serve una gabbia, innanzitutto. Una ciotolina per il mangime, un gocciolatoio per l'acqua. E ovviamente anche un po' di mangime. Questi conigli hanno fame di continuo.»

Capisco che non vuole fregarmi. Mi fido e compro tutto.

Prima di andarmene mi spiega - se ce ne era bisogno - che i conigli sono animali molto timidi e hanno paura di tutto, perciò ci vorranno dei giorni prima che si convinca a uscire dalla gabbia. In tal caso basterà mettere un vecchio lenzuolo in terra e il coniglio resterà lì nei paraggi. Sarà molto difficile vederlo andare in giro per casa. E comunque, se dovesse succedere, occorre tenerlo lontano dai fili elettrici del computer, della tv e dello stereo, perché è pur sempre un coniglio e tende a rosicchiare tutto ciò che gli capita sotto tiro.

Soddisfatto come un bambino, esco dal negozio con la gabbia sotto un braccio e una busta di mangime nell'altra mano, mentre tutto il mondo mi osserva incuriosito e divertito.

Sì, sì, sfottete pure! Tanto io il regalo l'ho già fatto e voi siete ancora qui a dannarvi l'anima! Tanti auguri, bambocci!

Ore 17:35.

Parcheggio l'automobile nel vialetto.

Il coniglio se ne sta immobile nella gabbia. Sembra un peluche.

Non faccio in tempo a chiudere lo sportello dell'auto che il grosso rottweiler del vicino mi dà il suo solito benvenuto fatto di ringhi e latrati. Odio quel cane e lui odia me: è sempre stato così dalla notte dei tempi. Ma stavolta mi rendo conto che le sue attenzioni sono tutte per il mio nuovo amico peloso.

Il bestione, che per un curioso scherzo del destino si chiama Dingo (un po' come se io mi chiamassi Scimpanzé...), si attacca alla rete del giardino con le zampe anteriori e comincia a saltare come fosse indemoniato, mentre il coniglio si rannicchia tutto e quasi scopare sotto l'ombra del mio braccio. Cerco di calmare il cane fischiettando e ad ancate mi faccio strada nel giardino di casa, lasciandomi alle spalle gli ululati rochi di quel cane odioso.

Ho circa tre ore per preparare tutto. Alla fine mi è andata di lusso!

Posso prendermela comoda.

Ma prima pensiamo a lui. Avrà sicuramente fame.

Lo porto in camera da letto e poggio la gabbia sulla scrivania.

Lui è sempre immobile. L'incontro con Dingo deve averlo spaventato a morte.

«Tranquillo, arriva la pappa», gli sussurro attraverso le sbarre e lui mi risponde vibrando il nasino.

Sorrido come uno scemo perché so che a lei piacerà da morire.

Apro la busta del mangime e con un po' di riluttanza pesco una manciata di quegli affaretti verdi, che somigliano tanto agli escrementi delle capre, ma che a lui devono piacere da matti, visto come saltella nella gabbia appena li vede.

Ne verso tre o quattro nella ciotola e il mio piccolo amico li divora in un batter d'occhio.

«Santo Cielo, ma ti davano da mangiare al negozio?»

Il coniglio accosta il muso alla gabbia e mi fa intendere che ne vuole altri.

«Ok» rispondo divertito. Ne prendo un'altra manciata e il ragazzo fa di nuovo piazza pulita.

Non è così timido come diceva il tizio del negozio, penso. Chissà se riesco a farlo uscire dalla gabbia? e sblocco il gancetto dello sportellino, che si apre da solo cigolando. Il coniglio si ferma di colpo e mi guarda. Forse si domanda perché gli abbia aperto la gabbia e quel filo di coraggio che ero riuscito tirargli fuori scompare del tutto. Ma io non demordo e prendo un altro cilindro di mangime.

«Lo vuoi? Vieni a prenderlo» e lo poggio sulla scrivania appena fuori dalla gabbia. Il coniglio fa due i, avanza dieci quindici centimetri, ma poi torna indietro impaurito.

Scuoto il capo. «Sei proprio un coniglio!» e afferro il cilindro con le dita. Lui è sempre lì in fondo alla gabbia. Metto la mano davanti alla porticina e mostro il pasto succulento al mio simpatico amichetto.

Il coniglio ci pensa un po', fa ancora qualche o e poi come un razzo si avventa sul pezzetto di mangime, me lo estirpa dalle dita e se lo riporta nel suo angoletto buio.

«Quando si tratta di mangiare diventi coraggioso, eh?» e non contento ne prendo un altro per ripetere l'esperimento. Stesso tentennamento iniziale, stesso atteggiamento guardingo e poi via! Ancora come un fulmine, ma stavolta succede qualcosa di strano: mi accorgo che il musetto del coniglio è sporco di sangue...

Porca miseria, si è ferito! è la prima cosa che penso.

Con lo sguardo seguo la scia rossa che ha imbrattato tutto il fondo della gabbia,

quando mi rendo conto che quel sangue è il mio!

«Cristo, mi ha morso!» Adesso che vedo la ferita sul polpastrello dell'indice e il pezzo di unghia mancante, comincio a sentire il dolore e di conseguenza caccio un urlo. Un urlo di rabbia. «Bastardo!» gli grido contro e con l'altra mano afferro la gabbia per scuoterla energicamente, per vendicarmi, ma poi torno lucido e mi rendo conto che la colpa è soltanto mia.

Sono un idiota! Ci mancava solo questo oggi! Corro in bagno a medicare la ferita che è molto più profonda di quanto pensassi, perché non la finisce più di zampillare. Ho un taglio profondo al centro del polpastrello che mi sfiora l'osso. Cerco di non pensarci, altrimenti svengo, e rovescio nella ferita un fiume di disinfettante.

So bene che ho bisogno di qualche punto, ma non mi va di are la sera di San Valentino in fila al Pronto Soccorso e m'improvviso infermiere. Con ovatta, garza e nastro medico adesivo faccio del mio meglio e dopo un po' il dito smette quasi di sanguinare.

Torno in camera. Lui se ne sta lì beato che lecca il sangue sul fondo della gabbia e la cosa mi fa decisamente orrore, giacché quel sangue è il mio. Sta mangiando una parte di me quel farabutto...

«Ma che razza di bestia sei? Dovresti essere erbivoro!» gli urlo contro, ma un crampo mi sale su per lo stomaco. Un pensiero pesante come un macigno mi grava sulla testa…

Se ha la rabbia o qualche altra malattia strana? Cerco immediatamente il numero di telefono del negozio che è riportato sullo scontrino e chiamo, ma ovviamente è tardi e non risponde nessuno.

Allora accendo il computer e inizio a cercare su internet. Quello che trovo mi fa venire la pelle d'oca: scopro che i conigli sono portatori di molte malattie infettive, fra cui la rabbia, e che il comportamento aggressivo di alcuni individui ne è il sintomo evidente.

La vista comincia ad annebbiarsi.

Sono fottuto! Mi sforzo di rimanere lucido e di usare la ragione.

Fra un po' lei sarà qui e non posso mandare all'aria la serata per il morso di un coniglio a un polpastrello, siamo seri!

Questo è il piano: le dico che sono tremendamente dispiaciuto, ma il coniglio che le avevo preso si è ammalato e che domani devo riportarlo al negozio per farmelo cambiare con un altro esemplare. Per quanto riguarda la fasciatura, le faccio credere che mi sono ferito tagliando i pomodori e domani mattina corro a farmi l'antirabbica. Punto.

Ore 18:08.

Sono le sei ate: andiamo a preparare la cena.

Lascio il coniglio in camera mia nella gabbia sopra la scrivania e vado in cucina. Devo fare un po' d'ordine prima d'iniziare: i piatti di ieri sera sono ancora nel lavandino da lavare.

Ok, una cosa alla volta: detersivo, acqua calda, asciugamano e... BOOM!

Che diavolo è stato? È un rumore di ferraglia che viene dalla camera mia.

Oddio, è caduta la gabbia!

Mi precipito di là mentre i piatti navigano nella schiuma. Quel coniglio comincia a starmi davvero sulle scatole!

Entro dentro e trovo un gran casino in terra.

Deve essersi agitato troppo ed è ruzzolato giù con tutta la gabbia. In terra è un maledetto porcile: tutto ciò che conteneva all'interno (segatura, mangime, fieno, escrementi vari...) si è sparso per la stanza come un barattolo pieno di biglie che

cade in terra.

La rabbia mi sale fino alla testa, ma il problema maggiore è un altro: nell'impatto la gabbia si è aperta e il coniglio è fuggito.

Merda! Con tutte le cose che ho da fare, ci mancava la caccia al tesoro!

Comincio a guardare sotto il letto, dietro al divano, sposto la scrivania, ma non trovo nulla. Eppure non può essere andato lontano, non ne ha avuto il tempo materiale.

Dalle ricerche effettuate in precedenza su internet, mi era saltata all'occhio una caratteristica peculiare di questi animali: amano scavare buche nel terreno, infilarsi fra i cespugli fitti e nelle intercapedini. Buche e cespugli non ne ho in casa, ma d'intercapedini quante ne vuoi, se consideriamo lo spazio fra i mobili e le pareti. L'armadio della camera sembra il primo indiziato.

«Lo so che sei lì», dico con aria vagamente minacciosa, afferro con una mano lo spigolo dell'armadio e inizio a spingere con l'altra contro la parete per fare leva.

E infatti il signorino si è rintanato là dietro.

Alleluia! Lo chiamo fischiettando (così come si farebbe con un cane), ma lui continua a fissarmi e non sembra avere alcuna intenzione di venire fra le mie braccia.

«Ok, l'hai voluta tu!» Mi chino in terra e striscio verso di lui che lentamente arretra fino alla fine dell'intercapedine, là dove la parete gira. «Vieni qui, piccoletto. Non voglio farti del male», ma lui si appiattisce sul terreno e comincia... a ringhiare...

Che mi prenda un colpo! «Ma che razza di coniglio sei?»

Mi blocco e inizio a tentennare.

E se mi morde di nuovo? E se ha la rabbia, come credo?

Al diavolo! È solo un coniglio! Lo afferro per il collo e lo rimetto in gabbia! Ecco cosa faccio! Allungo le mani... ma lui anticipa la mia mossa e mi azzanna di nuovo!

Stavolta il dolore lo sento eccome, una fitta tagliente al mignolo della mano destra all'altezza dell'attacco con la mano.

«Bastardo!»

Cerco di afferrarlo, ma lui mi a sulla schiena e fugge via. Scivolo nel mio sangue e cado con la faccia in terra.

Fra la mia guancia e il muro c'è qualcosa di cilindrico. I miei occhi mettono lentamente a fuoco forse una carota… ma poi mi rendo subito conto di ciò che ho davanti al naso perché la mano zampilla come una fontana…

«Il mio mignolo! Il mio dito mignolo! Mio Dio!!!»

Quella bestiaccia infame mi ha appena staccato un dito!

Mi prende il panico e comincio a piangere come un bambino. A singhiozzi. Mi sento uno scemo, non piangevo così da parecchi anni, probabilmente da quando mia nonna ci lasciò, ma l'idea che trascorrerò il resto della mia vita con un dito in meno mi fa star male.

Zuppo di lacrime e imbrattato di sangue dalla testa ai piedi, mi faccio forza e mi alzo da terra.

Devo andare in bagno per curare la nuova ferita.

La testa mi gira un po', più per la paura che per colpa del sangue che ho perso, ma riesco ugualmente a disinfettare il moncherino e a fasciarmi la mano.

Per fortuna sono mancino. A mani invertite auto-medicarmi sarebbe stato un problema.

Torno in camera e raccolgo il dito da terra. Voglio conservarlo. Lo congelo in freezer così magari riescono pure a riattaccarmelo. Perché disperare? Oggi la microchirurgia fa miracoli.

Vado in cucina, lo avvolgo nel Domopak e lo metto in mezzo al pesce surgelato. Mi viene una specie di risata isterica: pensa se per sbaglio finisce nell'insalata di mare questa sera? Ma un nuovo rumore sinistro mi fa tornare di cattivo umore.

Quel maledetto sta gironzolando per casa a fare danni!

Afferro lo scopettone. Stavolta gli faccio del male! Stavolta voglio veder scorrere il suo di sangue!

Esco dalla cucina e cosa vedono i miei occhi?

Pezzi d'intonaco sparsi per ogni dove e un bel buco nel muro in fondo al corridoio.

«E no! Questo No!»

Lui fa capolino dalla sua nuova "tana" con il musetto completamente zuppo del mio sangue ed io gli tiro contro lo scopettone a mo' di giavellotto, ma lo manco clamorosamente.

E adesso come faccio a tirarlo fuori di lì? Di certo non c'infilo una mano dentro...

ma mi viene subito un'idea un po' diabolica.

Ho un pianoforte antico in soggiorno: peserà due quintali ed è praticamente impossibile da spostare se gli si bloccano le ruote.

Non mi faccio pregare due volte e lo spingo lungo corridoio contro il muro rotto. Blocco le ruote e il gioco è fatto.

Lo sento che corre dentro la parete e che ogni tanto prova invano a scavare con le zampette contro il pianoforte.

«Sei in trappola, brutto stronzo! Adesso qui comando io. Ti faccio morire di fame e di sete, se voglio, lo sai?»

Penso che in fondo, come è entrato, può uscire: se è stato in grado di fare un buco nel muro, può rifarlo da un'altra parte, però stavolta mi piazzo lì con lo scopettone in mano e lo tramortisco appena mette il muso fuori.

Eh, già, adesso comando io... ma all'improvviso va via la luce.

«No, dai! Che sfiga! Maledetto gestore! Sempre nei momenti meno opportuni!»

Accosto il viso al vetro della finestra per vedere se è un guasto locale o riguarda tutta la zona, ma mi accorgo che fuori le luci sono tutte accese: i lampioni del vialetto, la casa del vicino, la cuccia di Dingo, è tutto illuminato!

Come una tetra filastrocca, mi tornano alla mente le parole del negoziante "occorre tenerlo lontano dai fili elettrici del computer, della tv e dello stereo, perché è pur sempre un coniglio e tende a rosicchiare tutto ciò che gli capita sotto tiro".

Ore 18:26.

Devo fare luce.

Corro in soggiorno. C'è una scatola a muro dove è alloggiato il contatore ed è lì che tengo la torcia per le emergenze.

Giro la chiavetta, apro lo sportello e inizio a tastare alla cieca per prendere ciò che mi serve nell'incavo della parete... quando mi rendo conto di aver appena fatto qualcosa di tremendamente stupido...

Mi afferra la mano con una forza abnorme, sproporzionata per un esserino così piccolo, e mi strappa via pezzi di carne e ossa...

Non riesco a staccarmelo di dosso e l'unica cosa che posso fare è rispondere colpo su colpo. Rifilo due pugni alla cieca contro quel coso peloso e lo scaravento con violenza contro il muro di fronte. L'impatto lo sento bene come il rumore delle sue ossa che si frantumano come grissini.

Non vedo nulla ma sono certo di averlo ammazzato stavolta quel figlio di puttana.

All'improvviso l'adrenalina scompare e le ginocchia mi cedono, mentre mi sale una nuova fitta lancinante. Mi accascio al suolo con la schiena poggiata alla parete. In terra è in un lago di sangue e di lacrime. Stavolta mi ha staccato almeno altre tre dita quell'essere indemoniato…

Riesco a prendere la torcia che è ruzzolata in terra durante la colluttazione e faccio luce.

Sono terrorizzato perché ho appena sentito un rumore, un verso, un rantolio. Non è ancora morto. Spero solo di averlo ferito gravemente così lo finisco.

Ma che razza di bestia strana ho portato in casa mia?

Tremo tutto. Ho freddo e il dolore mi leva quasi il respiro.

Mi avvolgo il maglione intorno alla mano martoriata e con l'altra accendo la torcia.

Lui è lì di fronte a me dall'altra parte del soggiorno. Sì è spostato quel farabutto. Ferito a morte, probabilmente, si è trascinato fin laggiù e ha lasciato in terra una lunga scia di sangue.

Adesso sono io il carnefice e lui la preda!

«Scappa pure, brutto stronzo! Adesso sei mio!»

Fa un verso strano e ondeggia con la schiena. Non sono un veterinario, ma giurerei che sta per vomitare.

«Spero che le mie dita ti siano andate di traverso, figlio di puttana! Voglio vederti crepare! Hai capito?»

Ore 18:35.

Mi sento sadico.

Non voglio ucciderlo e basta. Non mi accontento più dopo quello che mi ha fatto. Voglio vederlo soffrire e voglio fargli qualcosa di terribile. Il bastardo ha qualcosa di rotto perché non corre e non saltella più come prima, perciò sarà facile catturarlo.

«Ti scuoio vivo! Ecco cosa ti faccio! Ti apro in due come una castagna!» ma il maledetto in terra non sta male...

In quegli attimi in cui sto architettando la mia vendetta perversa mi rendo conto che quell'essere sta solamente mutando forma…

All'improvviso la testa del coniglio si spacca in due e l'animaletto da solo fa del suo corpo ciò che avevo in mente di fargli io stesso armato di coltello.

Resto spiazzato e il terrore stavolta mi paralizza. L'azione più crudele e terribile che la mia mente avesse mai partorito, diventa una bazzecola quando lo osservo auto-sviscerarsi per uscire dal suo bozzolo e mi rendo conto in quel preciso istante che sono un uomo morto.

Contro le leggi della fisica, dalle sue interiora emerge un essere schifoso, una specie di topo gigante grande dieci volte tanto. È tutto ricoperto di muco e lievita a vista d'occhio.

Al diavolo la mia vendetta! Devo scappare e devo farlo alla svelta, prima che completi la sua orrenda metamorfosi!

Sono paralizzato dalla paura, ma devo trovare la forza di alzarmi. Per terra è un lago di sangue e i piedi scivolano, così decido di procedere carponi.

Il piano è semplice: esco di casa e corro a chiedere aiuto. Poi ci penseranno loro - i vigili del fuoco, l'accalappiacani, l'esercito o i servizi segreti - non m'interessa, voglio solo uscirne vivo.

E così, striscio per il soggiorno e o a due metri da quel mostro ripugnante che si sta letteralmente auto-partorendo. Ad ogni tremito del dorso, imbratta i muri di quella poltiglia gelatinosa che lo ricopre e che puzza di interiora di pesce andato a male.

Devo sbrigarmi, devo fare in fretta, quegli occhi cominciano a guardare l'ambiente, quelle pupille a roteare, quei denti crescono a dismisura...

All'improvviso emette un verso raccapricciante, una via di mezzo fra un latrato e un ruggito, afferra con i denti la carcassa del coniglio che lo aveva ospitato (il suo insospettabile Cavallo di Troia per entrare in casa mia) e me la lancia addosso.

Preso alla sprovvista, caccio un urlo da femminuccia e mi getto contro il muro, mentre lui distende le zampe e si gira verso di me. Quei denti squarterebbero in due il ventre di una vacca e quegli occhi rossi sembrano quelli di Satana in

persona.

Sta per attaccarmi, lo so, e con un colpo di reni mi alzo in piedi. La porta è ancora lontana, ma la camera da letto è lì a pochi i. L'adrenalina e la paura mi fanno correre come non avevo mai fatto prima, ma quel mostro con due balzi mi è subito alle spalle.

Un po' per la paura, un po' per il pavimento pieno di sangue, finisco in terra appena tento di curvare per infilarmi in camera mia, e lo stesso fa quella bestiaccia che finisce lunga, ma riesce lo stesso ad afferrarmi fra la natica e la coscia.

I denti mi traano il muscolo e si conficcano nel femore.

Grido come un disperato e cerco di afferrarlo per il collo, per staccarlo dalla mia gamba, ma lui lo fa da solo e si accanisce di nuovo sulle mie povere mani già martoriate.

Ingoio il dolore e lo trasformo in rabbia: con l'altra gamba, quella buona, lo colpisco in pieno muso e lo faccio ruzzolare contro la porta del bagno. Con un ultimo sforzo mi butto dentro la camera da letto e richiudo la porta con la schiena.

La torcia è in terra che illumina metà della stanza. Come sia arrivata lì insieme a me è un mistero. Durante la lotta deve essermi caduta ed è rotolata nella stanza da sola. Una vera fortuna. Senza luce sarei stato perso.

Avrei voglia di piangere, di gridare. Ho una gamba malconcia e le mani ridotte a due moncherini. Devo trovare il modo di fuggire, di chiedere aiuto ma, appena provo ad alzarmi, quel mostro inizia a prendere a testate la porta per demolirla.

Sposto la scrivania ad ancate e la metto contro la porta per sbarrargli l'entrata. Il piano sembra funzionare perché il bestione dopo tre o quattro testate sul duro decide di lasciar perdere e improvvisamente non lo sento più.

So che non se n'è andato. Lo so come vanno le cose in queste situazioni. Ho visto troppi documentari da bambino per non sapere come si comporta un predatore che cerca di stanare la sua preda. Vuole farmi uscire, vuole convincermi che il pericolo è scampato per poi attaccarmi alle spalle e farmi suo.

Ma io non ci casco.

Però devo trovare il modo di uscire di qua. Un modo alternativo, magari, ma devo trovarlo. Devo farmi curare o morirò dissanguato.

Un'immagine orribile e grottesca al tempo stesso di me che cerco disperatamente di aprire la porta di casa mi piomba in testa come un macigno… Dannazione, come faccio a venirne fuori? Seppure riesco ad arrivare sano e salvo alla porta di casa, come faccio ad aprirla? Come faccio a girare la chiave senza le mie mani?

Le mie mani! Le mie povere mani! Mi viene un crampo allo stomaco e rimetto tutto quello che avevo dentro. Vomito anche sangue e la cosa non mi piace. Sto perdendo le forze. Ormai non mi reggo più in piedi, ma so che devo restare lucido se voglio sopravvivere.

L'orologio sulla scrivania segna le 18:48.

Ho un nuovo problema.

Fra un'ora e mezza lei sarà qui. Devo chiamarla! Avvertirla!

Ma ho lasciato il cellulare in cucina, maledizione! E poi, è sempre la stessa storia: come faccio a senza le mani? Non posso chiamarla e, a pensarci bene, non posso neppure guidare l'auto per andare al pronto soccorso.

Sono disperato ma non ho altra scelta: devo affrontarlo e devo ucciderlo.

Mi sdraio in terra a riflettere sommerso da mille pensieri orrendi.

Ci sarà un modo?

Ho visto migliaia di film. Letto centinaia di libri.

Possibile che non mi venga in mente un'idea?

Mi sento un po' come Capitan Uncino con il coccodrillo, solo che lui almeno una mano ce l'aveva! La spada la poteva impugnare!

Mentre penso a Dustin Hoffman con i baffi e il cappello piumato, lo sguardo mi va da solo al servizio da scrittoio sulla scrivania e la soluzione ai miei problemi si materializza davanti ai miei occhi.

Eureka! Rinvigorito da una ventata di ottimismo, apro il cassetto con la bocca ed estraggo il nastro adesivo grosso, quello marrone da pacchi. Con un calcio faccio volare il servizio in terra e afferro - sempre con la bocca - il tagliacarte in ottone, che credo di non aver mai usato in tutta la mia vita. Grazie al cielo due anni fa, quando decisi di buttarlo, per qualche motivo alla fine non lo feci. Un semplice gesto che oggi potrebbe salvarmi la vita.

Con i denti, i gomiti e le ginocchia riesco (non so in che modo) a legarmi il tagliacarte al polso, bello stretto, da una parte e la torcia intorno all'altro moncherino: mi sento un po' Bruce Campbell nell'Armata delle Tenebre, solo che la sua motosega era molto più figa del mio tagliacarte…

Sono pronto: ho una lama di venti centimetri al posto della mano sinistra. Se mi attacca, gliela pianto nella gola. Mi sento cattivo al punto giusto e so che lui questa mossa non se l'aspetta. Sarà la mia rivincita, la mia vendetta per tutto quello che mi ha fatto!

Fuori c'è silenzio.

Un bel respiro profondo per ricaricare le batterie e spingo con decisione la scrivania per liberare l'uscita.

Sto arrivando, figlio di puttana! Siamo alla resa dei conti.

Punto il gomito sulla maniglia e apro la porta.

Prima di uscire faccio capolino: il corridoio è sgombro a destra come a sinistra. Eppure il bastardo mi ha sentito, ne sono certo.

È da qualche parte che mi aspetta, per attaccarmi di sorpresa, ma stavolta la sorpresa ce l'ho in serbo io per lui, è proprio qui legata al mio braccio, e con gli occhi spiritati il mio sguardo accarezza la lama di ottone scintillante.

Ripercorro il corridoio senza preoccuparmi di fare piano. Non ce n'è bisogno: lui mi sente e vede il fascio di luce della torcia.

Per la prima volta in vita mia, non ho paura di morire. Sarà l'adrenalina, la voglia di fare a fette quello scherzo della natura, ma mi sento vivo ed elettrizzato più che mai.

Entro nel salone e, guidato dall'istinto, punto la torcia alla base della porta di casa. E lui ovviamente è lì come un cane da guardia che non vede l'ora di sbranarmi.

Quel coso schifoso è cresciuto ancora (o meglio è lievitato) rispetto all'ultima

volta che l'ho visto. Adesso è grande come un cane di taglia media, ma più basso per via delle zampe tozze e ricurve. Mi ricorda un po' un tasso o un ghiottone, ma è tutto spelacchiato e ha la coda lunga come quella di un sudicio ratto di fogna.

Appena mi vede, drizza il pelo sulla schiena e comincia a ringhiare.

«Avanti bello», gli ripeto mentre avanzo lentamente verso di lui e tengo la mano sinistra dietro la schiena per nascondergli la mia arma segreta.

Il mostro non si fa pregare due volte e mi attacca. Uno scatto fulmineo e poi un balzo verso la mia faccia.

Lo lascio avvicinare pericolosamente… è la mia guerra questa, è la mia rivincita, è per questo che sono venuto al mondo, e... ZAC! Gli pianto il tagliacarte nella pancia.

Cadiamo a terra entrambi e lui emette un verso simile al pianto di un neonato. Dall'addome cola una sostanza schifosa simile al muco che lo avvolgeva al momento del parto. È il suo sangue quello.

«Pensi che siamo pari? No, figlio di puttana! Devo prima farti a pezzi per essere pari» e con un movimento fulmineo lo infilzo di nuovo una, due, tre, quattro volte.

Ogni volta che la lama affonda nelle sue viscere, ogni volta che il mio

moncherino si ferma contro la pelle ispida di quella creatura immonda, provo una sensazione di piacere indescrivibile.

Vorrei pugnalarlo all'infinito, farlo diventare un colabrodo, ma lui riesce a fuggire e si rintana dietro al tavolo del soggiorno.

Potrei scappare ora che la porta è libera.

Dovrei farlo, era questo il piano.

Ma non ne ho voglia.

Il desiderio di fare a brandelli quell'essere è più forte del mio istinto di sopravvivenza.

Forse andrò all'inferno questa notte, ma ci andremo insieme, bellezza, mano nella mano!

Con un calcio rovescio il tavolo del soggiorno per stanarlo. Sento la bava che mi cola dai bordi della bocca e un brivido di eccitazione che mi lascia la pelle d'oca su tutta la schiena.

È lì per terra il porco, che trema tutto e sanguina come un maiale appena sgozzato. Comincio a gridare come un guerriero selvaggio per fargli vivere nel terrore gli ultimi istanti della sua schifosissima e insignificante vita, ma l'urlo mi

resta strozzato in gola appena vedo quell'essere aprirsi nuovamente in due…

Come aveva fatto prima quando era un coniglio, inizia a rigenerarsi, partorendo dalle proprie viscere la copia esatta di se stesso.

La gioia, la rabbia, l'orgoglio, l'adrenalina, tutto svanisce in un lampo e l'unico pensiero che mi rimbalza nella testa è quello di tagliare la corda al più presto, prima che il nuovo essere si liberi da quella placenta gelatinosa e mi salti addosso di nuovo.

Sono prigioniero dentro un incubo senza fine. Lui è il carnefice ed io la preda, la bestia da portare al macello. Lo sono sempre stato. Non c'è mai stata storia. Mi sono illuso e ho solo perso tempo e sangue prezioso (si perché i moncherini grondano come fontane), tempo che mi avrebbe permesso ora di trovarmi in strada, o magari sull'auto del primo ante comionevole che si fosse offerto di portarmi al pronto soccorso.

E invece eccomi qui al punto di partenza.

Più debole e disperato di prima.

Con i denti afferro la chiave della porta blindata. Uno, due, tre scatti e spingo la maniglia verso il basso, ma l'essere piomba su di me come un rapace e mi afferra per il braccio all'altezza del gomito. Sento l'osso frantumarsi e i tendini strapparsi come elastici portati al limite della tensione. Tiro anch'io - non me ne importa più nulla se sto seminando pezzi di me stesso per ogni dove - e mi getto giù per le scale, lasciando una lunga scia di sangue.

Batto violentemente la testa ma rimango cosciente tanto quanto basta per rendermi conto che la mia arma e parte del mio braccio sono adesso nelle fauci del mostro.

Lui è lì in cima al pianerottolo che spolpa il mio braccio e mi guarda con i suoi occhietti senz'anima. Ad ogni boccone che manda giù, la schiena vibra tutta e il corpo cresce a vista d'occhio.

La mia carne lo nutre. È ormai grande il doppio di prima.

Sono fottuto stavolta. Non ho via di scampo e lui lo sa: per questo non attacca. Vuole gustarsi la mia paura, la mia morte interiore. E ha ragione perché non ho più la forza di fare nulla.

Ormai mi sto lasciando andare. Penso che in fondo sia meglio morire prima, piuttosto che essere mangiati vivi.

Chiudo gli occhi e per un attimo tutto diventa bello, armonioso, un gran silenzio e senso di pace… quando mi torna alla mente lei.

«No, non posso!» grido a me stesso.

Se muoio, nessuno potrà avvertirla. Fra un'ora sarà qui e, ignara, finirà anche lei nelle grinfie del mostro.

Ma come faccio? Come posso fermarlo?

Sono lì ad aspettare qualcosa: un'idea geniale, un segno divino, qualcosa che cambi le sorti di questo maledetto San Valentino!

E il segnale arriva puntuale: un abbaio.

«Dingo!»

Grido il nome di quel cane odioso, come fosse il mio compagno inseparabile da una vita.

La siepe è a dieci metri dalla porta di casa e lui è là dietro che abbaia. Lo sento.

Devo farlo. A costo di saltare dalla padella nella brace.

Punto la nuca contro il muro e mi alzo inarcando la schiena fino quasi a spezzarla. Il mostro mi guarda sorpreso e comincia a ringhiare con una ferocia mai vista. Rispetto a prima, oltre ad essere cresciuto, ha le zanne più lunghe e sbava da far schifo.

Sono dieci metri. Non di più.

Ho la vista annebbiata, ma in testa ho in mente tutto: la mia corsa e il salto oltre la siepe.

«Prendimi, se ce la fai!» gli urlo contro e mi metto a correre come se avessi le ali ai piedi, nonostante la gamba azzoppata.

Con la coda dell'occhio lo vedo balzare giù dalle scale.

È vicino.

Mi raggiunge a un metro dalla siepe.

Sento i suoi denti affondare nel polpaccio, ma non importa, non sento neppure il dolore stavolta. La mia mente è già oltre la siepe e poi - come ripeteva sempre il mio allenatore di salto in alto - per saltare basta una gamba sola.

Supero egregiamente l'ostacolo alla Fosbury e mi trascino dall'altra parte il mostro, che resta attaccato alla mia gamba con i denti.

Batto la testa sul pavimento della veranda del vicino e i miei ultimi ricordi prima di svenire sono di Dingo che combatte all'ultimo sangue con quell'essere schifoso.

Ore 20:32.

Suona il citofono.

Mi sveglio di soprassalto.

Sono disteso nel mio letto.

Con la mano cerco l'interruttore e la luce si accende!

Incredibile, funziona! come ha funzionato la mia mano per pigiare l'interruttore…

Le mie mani! Il mio braccio! È tutto al suo posto!

Ho solo l'indice fasciato (quello del primo morso), per il resto sono sano come un pesce!

Mi pizzico le guance e mi rendo conto in quel momento di aver sognato tutto. È stato soltanto un maledettissimo incubo!

Cristo Santo, ma quanto ho dormito?

E soprattutto... non ho preparato la cena!!! Merda!!!

Beh, al diavolo! La porto a cena fuori!

Il citofono suona di nuovo.

«Arrivo!»

Mi guardo intorno: la casa è abbastanza in ordine, ma la gabbia è in terra, aperta, e il coniglio non c'è.

Devo trovarlo.

Mi alzo dal letto e mi accorgo che ho il maglione completamente bagnato.

Abbasso lo sguardo e inorridisco: sono pieno di sangue!

Ma non è il mio. A parte il dito, non sono ferito.

Sento invece che ho qualcosa nella bocca, un saporaccio misto a peli che mi fa venire il voltastomaco. Mi chino sulle ginocchia e rimetto tutto ciò che ho nella

pancia... ovvero il coniglio!

La schiena comincia a tremare e sento qualcosa agitarsi dentro di me.

Qualcosa

Forse qualcuno.

Sono io.

Un altro me.

Devo assolutamente liberarmi di questo stupido involucro!

Suona ancora il citofono.

«Un momento!» grido emozionato per quello che mi aspetta nei prossimi minuti...

Sto arrivando, amore, tranquilla.

Ho una fame che neppure immagini...