Michela Dogliotti
Schegge di follia
Alle persone più importanti della mia vita:
mio figlio, mio marito, i miei genitori e tutti coloro che mi amano.
UUID: 52f5e950-d53e-11e5-8a26-0f7870795abd
Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write (http://write.streetlib.com) un prodotto di Simplicissimus Book Farm
Indice
1. Il lungo viaggio 2. Giallo come... 3. Per sempre 4. We come in peace 5. Ancora, ancora 6. Amen 7. Destino? 8. Ecco come
1. Il lungo viaggio
Freddo, tanto freddo. E paura. Solo questo riusciva a percepire Irina. C’era stato un tempo in cui il dondolio del treno riusciva ad addormentarla, durante viaggi particolarmente lunghi. Anche in questo caso il viaggio era lungo e anche se gli occhi le si chiudevano per la stanchezza, il sonno tardava ad arrivare. Irina e suo marito Jan stavano viaggiando in un carro bestiame, insieme ad un centinaio di persone, con l’aria gelida che filtrava dalle feritoie, che sferzava l’anima, annientandola, senza però riuscire ad allontanare l’odore di urina, feci, sudore che quella massa di persone sprigionava. Erano così stipati che erano quasi l’uno addosso all'altro, in una sorta di promiscuità che, se durante le prime ore del viaggio risultava fastidiosa, ora risultava quasi una specie di abbraccio generale che, in qualche modo, li confortava. Jan era seduto, con la schiena appoggiata ad una parete del vagone e sua moglie era seduta tra le sue gambe, con la schiena che aderiva al busto di lui. Jan affondò ancora una volta il viso tra i capelli di Irina, inspirandone il profumo il più possibile, nel vano tentativo di togliersi dalle narici il tanfo nauseabondo che ormai impregnava ogni angolo del vagone. Irina si accoccolò ancora di più. Molte ora prima aveva chiesto al marito quale fosse la destinazione del viaggio e lui aveva risposto che non lo sapeva, mentendole. In paese giravano già molte voci, era da tempo che i tedeschi portavano via persone. Persone che poi non avevano più fatto ritorno. Ufficialmente si parlava di campi di lavoro, ma Jan aveva visto portare via anche bambini, malati, vecchi, donne incinte, invalidi…. Insieme a lui e sua moglie c’erano molti appartenenti a queste categorie, anzi, Irina stessa era in attesa del loro primo figlio: mancavano tre mesi al parto. In che cosa potevano essere mai utili queste persone, nei campi di lavoro? Il brusco fermarsi del treno lo distolse da questi pensieri. Sentì voci concitate abbaiare degli ordini in tedesco. Alcune persone del vagone sporsero le braccia dalle feritoie, ricevendo in risposta dei colpi inferti con i calci dei fucili. Fino ad allora non era mai successo, queste richieste di aiuto durante le soste del treno erano state semplicemente ignorate. Le persone che avevano ricevuto i colpi ritirarono le braccia urlando di dolore e spavento, mentre da fuori giungevano le risate sguaiate degli autori del gesto.
Irina aveva istintivamente chiuso gli occhi e si era portata le braccia alla testa, rannicchiando anche le gambe in una specie di posizione fetale. Jan la strinse, sussurrandole parole di conforto, mentre le urla ed il terrore ben presto invasero il vagone. Il treno ripartì poco dopo, e Jan invano tentava di calmare Irina, che nel frattempo si era messa a piangere e chiedeva insistentemente perché erano stati portati via dalla loro casa, perché venivano trattati in quel modo e, soprattutto, dove stavano andando. Jan non aveva risposte, o almeno non ne aveva di sicure e comunque non voleva condividerle con la moglie, per cui per calmarla le chiese se si ricordava del viaggio in treno fatto alcuni anni prima, quando si erano recati in Italia. Irina, mentre il marito sciorinava lentamente i ricordi di quel viaggio, si aggrappò a quelle parole, cercando di evocare le immagini, i profumi e le sensazioni di allora. Erano partiti alcuni giorni dopo il matrimonio, ed essendo entrambi figli di famiglie molto ricche, il viaggio in Italia durò a lungo. Avevano visitato Venezia, Firenze, Roma e Napoli, soggiornando in hotel di lusso, mangiando nei migliori ristoranti. Jan chiese a Irina se si ricordava quella volta che era caduta in un canale, a Venezia, mentre tentava goffamente di salire su una gondola. Irina sorrise ed annuì, rivedendo l’espressione del marito dapprima preoccupata e poi subito dopo sfigurata dalle risate mentre la aiutava ad uscire dall'acqua. Presto si rivide in piedi sul Ponte Vecchio, a Firenze, mentre abbracciata a Jan guardava i riflessi della luna danzare come tremule farfalle sulle acque dell’Arno. Si ricordò anche di quando furono sorpresi da un temporale estivo a Roma durante una eggiata e invece di cercare riparo si divertirono a salire e scendere la scalinata di Piazza di Spagna, ridendo sotto l’acqua come bambini. Sentì anche il profumo del mare, che non aveva mai visto fino all'arrivo a Sorrento, e meccanicamente appoggiò una mano a terra, come aveva fatto allora, per sentire di nuovo la sensazione della sabbia calda che scivolava dalle dita. In realtà la sua mano incontrò la gamba della sua vicina che mugugnò qualcosa, risvegliando Irina da quel breve sogno ad occhi aperti e riportandola bruscamente alla realtà. Le musiche lasciarono il posto ai pianti e ai lamenti, i profumi all'orrenda puzza.
Irina, troppo stanca anche per piangere, chiuse gli occhi e si addormentò. Arrivarono ad Auschwitz che era notte fonda. Erano stati fatti scendere dal treno , o meglio, il vagone aveva vomitato una massa di persone impaurite non appena si erano aperte le porte. Alcuni non erano riusciti a rimanere in piedi nello scendere, per cui erano atterrati a terra come sacchi di patate e subito presi a calci dai soldati. Un uomo cercò di spiegare, piangendo, che si era rotto una caviglia nel saltare dal vagone e come risposta ricevette un proiettile in fronte. La fiumana di persone, urlante, terrorizzata, si unì agli altri gruppi scesi da altri vagoni ed insieme furono sospinti, come bestie al macello, verso alcune neri ed imponenti edifici. Per un attimo la luce delle fotoelettriche si spense, i soldati fecero fermare la marcia, Irina sollvò gli occhi al cielo. Gli occhi non abituati a quel buio improvviso erano come ciechi. "Vorrei rivedere le stelle", sussurrò. Jan tacque. Le fotoelettriche si riaccesero, e la marcia continuò. Oltre i cancelli, i soldati stavano dividendo i gruppi in quella che era la prima "scrematura" : donne incinte, bambini piccoli, vecchi, menomati, malati da una parte, uomini e donne senza impedimenti fisici dall'altra. La separazione forzata provocò nuovo terrore, nuove urla, nuove violenze da parte degli aguzzini. Jan urlava il nome della moglie, mentre un soldato gliela strappava dalle braccia, spingendola a terra, incurante della gravidanza di lei. Irina tentò di rialzarsi, aiutata da una donna, mentre le usciva del sangue da sotto il ventre. L'unica nota di colore in quel panorama spettrale: il sangue di sua moglie, di suo figlio. A Jan fu tutto chiaro. Riuscì a raggiungere di nuovo la moglie, sorreggendola. Un soldato cominciò a contare, urlando. "Ein! Zwei!" Ma loro non lo udirono. Prima di morire, abbracciati, uccisi da scariche di mitra, Jan e Irina si tennero negli occhi, mentre lui le sussurrava stringendola forte "Vedremo le stelle da
vicino, Irina mio amore, le stelle...."
2. Giallo come...
Lo sente. "Che Madre Natura stramaledica la mimosa", pensa. Tra la folla che accalca il vagone della metro, cerca l'origine dell'appestante effluvio. All'improvviso lo vede. Un enorme mazzo di fiori di mimosa. L'immagine le appare riflessa sul vetro del finestrino, un tripudio di giallo che ondeggia con le persone. "Sto sperimentando l'odorama", si dice. Sorride, ed intanto invoca un raffreddore che le tolga l'olfatto. Cosa che non accade, ovviamente. Man mano che le fermate scorrono, la carrozza si svuota, così può vedere direttamente chi la sta brutalmente aggredendo con il fiore che più odia al mondo e fulminarlo all'istante con una delle sue occhiate. No, non sta esagerando. Preferirebbe annusare una fetta di gorgonzola lasciata su un davanzale in un pomeriggio di metà luglio piuttosto che la mimosa. Profumo subdolo, ti corteggia l'olfatto per un millesimo di secondo, dopodiché... zac! Ti esplode nel cervello, senza scampo. Eppure sembra così innocente, con tutti quei pallini gialli, morbidi... Il treno si ferma e solo all'ultimo secondo lei si accorge che la fermata era la sua. Si alza in piedi di scatto e corre verso le porte. Il treno riparte e la ragazza si avvia verso le scale mobili. Nell'uscire dal sottosuolo, Milano le regala un cielo plumbeo che le strappa un sorriso. Adora il cielo grigio, gonfio di pioggia e di tempesta. Al contrario, il sole le mette tristezza. Guarda verso il Duomo, le guglie sembrano voler infilzare le nuvole ed alcuni grassi piccioni volteggiano sulla piazza, per la gioia dei turisti. Nota che nella piazza il famigerato fiore giallo la fa da padrone: chi ne ha un rametto appuntato sul cappotto, chi ne porta un mazzo, chi ne vende su banchetti
improvvisati... Poi, l'illuminazione: è l'otto Marzo. "Hmm, ecco perché 'sti fiori dappertutto" e con il disappunto dipinto in volto si avvia rapida verso la sua destinazione, "Nest", una sala da tè/internet point/biblioteca, ovvero il suo rifugio ideale. Si siede al suo posto preferito, appoggia la borsa sul tavolo e tira fuori "Harry Potter e i doni della morte". Ok, non è una lettura culturalmente edificante, ma le piace. E poi è in lingua originale (tié). "Ma come, sei qui anche oggi? Non sei a farti bella per stasera?" "Monica, lo sai, io non festeggio mai la festa delle donne." risponde alla ragazza che prende gli ordini. Monica incalza: "E la mimosa? Te l'hanno regalata?". Grazie a questa domanda, Monica si becca come risposta uno sguardo che tradotto risulta più o meno"Ci sei o ci fai?". La cameriera incassa e segna una tazza di tè ai frutti rossi senza nemmeno chiedere conferma, tanto sono mesi che questa particolare cliente prende sempre la stessa cosa. La ragazza intanto si accomoda sulla sedia imbottita, apre il libro e comincia a leggere. ano un po' tempo e molte pagine. Alla seconda tazza di tè sacrifica un attimo la lettura per ringraziare Monica. E lo vede. E' sicura che quando si è messa a sedere lui non ci fosse. O forse no? Adesso invece è seduto anche lui davanti ad una tazza di qualcosa che fuma, ovviamente immerso in un libro, dall'altra parte della sala. Improvvisamente lui alza lo sguardo ed incrocia quello di lei. Magnetismo puro, che dura all'infinito. Lui alla fine abbozza un sorriso, lei altrettanto, ed entrambi si rimettono a leggere. Solo che stavolta la lettura è ata in secondo piano. Le parole si confondono, il segno viene perso, ritrovato, di nuovo perso. Minuti interi a rileggere le stesse righe.
Ed intanto lo sguardo cerca di nuovo il contatto. Quando entrambi si scoprono a spiarsi a vicenda, subito volano occhiate altrove : soffitto, tazza, pareti, libro.... Finalmente lui prende coraggio, si alza, si avvicina al tavolo di lei, che nel frattempo ne ha seguito le mosse sottecchi, col cuore che comincia a pompare a mille e la mente che proietta diverse versioni di quello che sta per accadere, cercando affannosamente la cosa meno banale da dire. A dispetto delle elucubrazioni elaborate in millesimi di secondo, entrambi esordiscono con un "Ciao" all'unisono. "Posso?" chiede lui indicando la sedia. Senza aspettare il consenso di lei, che nel frattempo si limita ad annuire con la testa, lui appoggia il proprio libro sul tavolo, si siede e trasferisce su una terza sedia le altre cose che aveva in mano, tra cui il giubbotto, che copre tutto il resto. Lei spia immediatamente il titolo del libro di lui, "Birdy, le ali della libertà". "Ma non potevo scegliere qualcosa di meno frivolo???" si domanda lei mentre cerca di nascondere il libro che ha in mano. Lui nota la cosa e sorride. "L'ho letto anche io. Molte volte. In italiano però. E adoro i Beatles" dice lui accennando con un gesto alla t-shirt di lei, che si intravede sotto la camicia aperta, con la stampa del famoso "attraversamento pedonale" dei quattro musicisti ad Abbey Road. Il ghiaccio è rotto. Le parole e le frasi dapprima impacciate, adesso fluiscono come acqua. Parlano di tutto: libri, musica, università, conoscenze comuni, sogni, desideri, speranze. Hanno sete l'uno dell'altra e più si conoscono, parlando, più hanno voglia di scoprirsi. Lui tra un discorso e l'altro le confessa di averla notata da molto tempo ma che fino ad allora non aveva mai trovato il coraggio di parlarle. Lei non ricorda di averlo mai notato, ma del resto ogni volta che si reca in quel luogo, per lei esistono solo il libro e la tazza del tè. A volte scambia qualche parola con Monica, ma le distrazioni finiscono lì.
Lui invece da un paio di mesi non vive che per quelle tre volte alla settimana in cui lei si rifugia al "Nido". Ama guardare il profilo di lei, cogliendo ogni sfumatura di emozione sul suo viso mentre legge. Nel frattempo fuori si è fatto buio. Monica è costretta ad interrompere i due ragazzi, dicendo loro che di lì a 10 minuti avrebbe chiuso il negozio. I due la guardano, entrambi sorpresi di come il tempo sia volato. Troppo poco tempo e troppe cose ancora da dire ed ascoltare. "Ti va di mangiare una pizza insieme?" chiede lui speranzoso. "Avviso casa!" risponde lei entusiasta, tirando fuori il cellulare dalla borsa. Lui intanto armeggia sotto il giubbotto sulla sedia. Finita la conversazione al telefono, lei scoppia a ridere. "Ti rendi conto? Abbiamo parlato ore e non sappiamo nemmeno il nostro nome! Mi chiamo Amanda." Anche lui scoppia a ridere. "Io Andrea, piacere.... e....questo è per te". Amanda guarda il piccolo bouquet di mimose che lui tira fuori un po' malconcio. Andrea glielo porge, sfiorandole le dita: un momento che ricorderanno per sempre. Aspirando profondamente l'inatteso dono, Amanda sorride e sussurra "Mimose... Il mio fiore preferito...". E lo pensa davvero.
3. Per sempre
Elisa sa bene che non ha senso aprire quel cassetto mentre rifà il letto. E’ sabato mattina ed i raggi di sole irrompono nella stanza rivelando migliaia di particelle di polvere in sospensione. Si riavvicina al comò, apre un cassetto ed estrae una busta di nylon. Si siede sulla sponda del letto e con lenta riverenza, come se fosse un rituale, apre la busta e tira fuori una tutina da neonato. E' bianca, con un coniglio ricamato e suo figlio la indossava una delle prime volte che lo ha preso in braccio. Elisa accarezza la ciniglia della tutina ed affiorano mille ricordi. La sveglia digitale sul comodino le ricorda che deve prepararsi. Da quanto tempo è lì seduta? Si accorge anche di avere pianto. Con il dorso della mano tira via i residui di lacrime, rimette la tutina a posto e chiude il cassetto. Cerca di concentrare i pensieri altrove, sa che sta per succedere, sente arrivare la crisi, ma non vuole lasciarsi sopraffare. Dopotutto, quello è il giorno. Dopo essersi fatta una doccia, mentre si pettina davanti al grande specchio del bagno, urta per errore la fede appoggiata sul lavabo e la fa andare in terra. Con lo sguardo segue l'oggetto metallico mentre schizza verso un mobiletto, uno di quelli coi piedini alti un dito, infilandosi sotto. Sospirando, Elisa pensa a come fare per recuperare l’anello…. Spostare il mobile è fuori discussione. Opta quindi per una soluzione più semplice. Recuperato un ferro da calza, lo infila sotto il mobile e riesce nell'operazione. Insieme all'anello, come sospettava, batuffoli di polvere e capelli... Guardando meglio, Elisa scorge anche qualcosa che sembra un cartoncino. All'improvviso capisce di cosa si tratta, e una scarica di adrenalina le attraversa il
corpo. E' una carta-gioco dei Pokémon. Enrico le collezionava. La carta è come una specie di portale per un'altra dimensione e riporta Elisa a 8 mesi prima, quando il figlio le aveva chiesto di poter acquistare un altro pacchetto di carte dei Pokémon perché ne aveva persa una, quella (la sua preferita, "Pikachu"), e sperava di ritrovarne una nel pacchetto nuovo. Elisa aveva accondisceso alla richiesta ed aveva anche accettato di mandarlo da solo all'edicola che distava circa trecento metri da casa. Avevano fatto il percorso a piedi molte volte, ed Elisa ormai si fidava. Del resto lui aveva più di undici anni ed era un bambino molto giudizioso.Era un sabato mattina anche quel fatidico giorno. Enrico non era più tornato a casa: un'auto lo aveva investito sulle strisce pedonali. Il guidatore era ubriaco. Da otto mesi Enrico era in coma all'ospedale pediatrico. Elisa ava tutta la settimana in ospedale e solo con moltissima fatica aveva accettato di tornare a casa almeno un paio di volte alla settimana, lasciando che fosse sua madre a darle il cambio. I medici, pochi giorni dopo l'incidente, avevano comunicato che c'erano remote possibilità che il bambino si risvegliasse. Una diagnosi riconfermata anche il giorno prima. Elisa aveva quindi deciso di non voler vedere il figlio morire. L'avrebbe aspettato nell'aldilà, se davvero esisteva. Avrebbe approfittato degli psicofarmaci prescritti dalla psicologa che la seguiva per la depressione. Ne aveva così tanti.... Sarebbe scivolata in un sonno profondo, come il figlio, e poi nel nulla. "Mamma, se mi succedesse qualcosa di brutto e non ci fossi più, cosa faresti?" Enrico aveva posto questa domanda alla madre proprio il giorno prima della tragedia. Un bambino della sua età, frequentante la stessa scuola, era deceduto dopo una lunga malattia. Enrico era rimasto molto turbato da quanto accaduto. Elisa, se lo ricorda bene, gli aveva risposto attirandolo a sé, abbracciandolo, dicendogli semplicemente che senza di lui lei non avrebbe potuto vivere.
Adesso è lì, seduta sul pavimento del bagno, con quella carta in mano. Basta, non può più aspettare. Non le importa se la gente l'avrebbe definita vigliacca. Ama suo marito, i genitori, ma non riesce più a guardare il corpo inerme del figlio, attaccato ai macchinari, sapendo di doverlo seppellire, prima o poi. Una cosa innaturale. Decide che sì, quello è il momento. Si rialza dal pavimento, apre il mobile, prende tutti i medicinali e li porta in cucina. Si siede ed apre tutti i flaconi e blister, costruendo un piccolo cumulo di pasticche e capsule. Prende un bicchiere e lo riempe d'acqua. Ha già la prima manciata di medicinali in una mano ed il bicchiere nell'altra, quando si accorge che la carta dei Pokémon, Pikachu, è rimasta sul tavolo. Combattuta tra il proseguire ed il rimandare, anche se di poco, opta per la seconda scelta. Prende la carta ed entra nella camera del figlio. Le carte sono tutte in una scatola che Elisa non ha mai aperto. Gli occhi si riempiono di lacrime mentre posa la carta tra le altre. Tra di esse, vede un foglio di carta ripiegato. Incuriosita, lo apre e riconosce la calligrafia disordinata del figlio. "Non mi è piaciuto vederti piangere. Se mi succede qualcosa voglio vederti sempre con il sorriso. Ti voglio bene. Per sempre." C'è anche una data ed è quella del giorno prima dell'incidente, quando Enrico aveva fatto quella domanda particolare. Non aveva fatto in tempo a dare il messaggio alla madre. Elisa, sconvolta, piange a lungo sul letto del figlio. Quella carta le aveva portato via il figlio, adesso glielo stava, in parte, restituendo e donava la vita a lei. Il marito di Elisa torna a casa e la trova così, nella cameretta, col foglio in mano. Poi vede le pasticche sul tavolo e capisce. Lui e la moglie si guardano a lungo negli occhi. Sta per dirle qualcosa, ma squilla il cellulare di lei. "E' tua madre" dice lui mentre le porge il telefono, che continua a suonare. Lei fa un cenno di diniego, ma il marito insiste, con dolcezza, e alla fine Elisa risponde. Le esplode la voce della madre nei timpani, urla qualcosa che dapprima Elisa
non comprende, poi capisce, ma non crede a quanto sente. "Si è svegliato, Elisa! Si è svegliato e chiede di te... e farfuglia un'altra parola... Picciù, Picù..." "Pikachu". Elisa piange di nuovo, stavolta di felicità e stringe la carta al petto trascinando il marito con l'altra mano verso la porta di casa, e tra un singhiozzo e l'altro tenta di spiegargli che il loro bambino è tornato. Mentre corrono verso l'ospedale, Elisa ritrova il sorriso. Per sempre.
4. We come in peace
Non sapeva da quanto tempo era rinchiuso lì dentro. C'è una maledettissima luce bianca accesa, intensa, che non viene mai spenta, nemmeno quando dorme. Ma la luce non è poi così fastidiosa come una delle pareti della stanza. E’ completamente trasparente, per cui gli alieni possono vederlo mentre mangia, mentre dorme, mentre espleta le proprie funzioni corporali, mentre si lava. Tutto sempre sotto i loro occhi. Sospirò mentre pensava, ancora una volta, a quanta strada avesse fatto per essere lì, a quanti sogni si erano infranti nel momento stesso in cui si era reso conto di essere prigioniero. Ormai non faceva nemmeno più caso agli alieni che andavano e venivano: erano comunque sempre i soliti. Aveva un ottimo spirito di osservazione ed aveva notato ad esempio che erano sempre i soliti quattro alieni che si alternavano nel argli il cibo da una feritoia della porta: li vedeva are dalla parete trasparente. “Cibo”. Beh, non sapeva cosa fosse (e non voleva saperlo) ma il sapore non era poi così malvagio e, in fondo, non era ancora morto avvelenato. Già, di una cosa era sicura: gli alieni non lo volevano morto. Anzi, si erano prodigati a curargli le ferite causate dall’impatto dell’astronave sul suolo alieno. Lo aveva dedotto da strane sostanze applicate sui tagli e le abrasioni. Ebbe anche il dubbio che molte delle ferite in via di guarigione forse non erano frutto dell’incidente, ma di un qualcosa occorso dopo. Del resto chissà per quanto era rimasto incosciente. L’ultima cosa che ricorda sono i minuti immediatamente precedenti lo schianto, poi il dolore lancinante che pervadeva il suo corpo mentre qualcuno lo estraeva dai rottami. Fu lì che aprì gli occhi e vide i suoi quattro compagni sdraiati come lui in mezzo ai detriti dell’astronave. Due di sicuro erano morti carbonizzati, gli altri due forse no, ma senza dubbio erano messi peggio di lui, almeno da quello che ricordava. E poi, gli mancava il radio-traduttore universale. E’ un congegno piccolo, situato dietro l’orecchio, applicato in modo che non si sposti mai, qualsiasi movimento faccia chi lo porta. Non averlo più significava solo una cosa: gli alieni lo avevano tolto mentre lui era svenuto. Se lo avesse ancora avuto avrebbe potuto comunicare con gli altri membri del suo equipaggio, qualora fossero ancora vivi. Si sedette sul giaciglio che utilizzava per dormire e si ritrovò a pensare a quando,
moltissimo tempo prima, era stato scelto per quella missione. Finalmente le ricerche protratte dagli scienziati avevano scoperto un pianeta sul quale poteva esserci vita e la cui atmosfera era compatibile con la loro. La sonda inviata aveva trasmesso dati inequivocabili in questo senso. La criogenia applicata ai viaggi interstellari, sebbene in via sperimentale, aveva permesso il lunghissimo tragitto a lui ed ai suoi quattro compagni. Si era chiesto milioni di volte, guardando le stelle, se lui e la sua razza fossero davvero gli unici esseri viventi nell’universo. E quando una sonda aveva decretato che la risposta era probabilmente “no”, si era subito proposto per la missione. Era andato tutto bene fino all’entrata nell’atmosfera del pianeta. Man mano che si avvicinavano alla superficie videro, con sorpresa ed emozione, costruzioni artificiali che potevano essere stati realizzati solo da essere senzienti. Esseri che si manifestarono di lì a poco con dei velivoli. Come da protocollo, l’astronave azionò le potenti luci con le quali emettere segnali visivi, una sorta di codice binario che forse gli abitanti del pianeta avrebbero potuto interpretare, ma così non fu. O almeno, probabilmente scambiarono le luci per altro, probabilmente armi, perché immediatamente dopo furono abbattuti. Colpi secchi alla parete di vetro lo distolsero dai ricordi. Alcuni alieni gli fecero segno di avvicinarsi, cosa che fece, incuriosito. Su una specie di carrello con ruote gli alieni avevano messo due traduttori universali e quella che sembrava (anzi, era) una delle scatole con attrezzi in dotazione all’astronave. Gli alieni, con gli arti superiori, gli stavano indicando ora la scatola, ora gli strumenti. All’improvviso capì: volevano che lui riparasse i traduttori! Fu talmente felice della cosa che corse verso la porta, per far loro intuire che aveva capito ed infatti dopo alcuni momenti la porta si aprì e gli fu consegnato il materiale. Quando gli alieni gli furono accanto, trasalì un poco: non si era ancora abituato alla loro altezza. Ma il timore lasciò subito spazio all’emozione. Finalmente avrebbe potuto comunicare, far capire loro che le intenzioni della visita erano pacifiche. Sicuramente gli alieni avrebbero compreso e quindi lui avrebbe potuto chiedere
dei propri compagni ed avere un nuovo tipo di approccio. Si mise subito all’opera e si rese conto che uno dei due trasmettitori era quello dell’unico membro femminile dell’equipaggio. Chissà se era ancora viva… Con questo pensiero, si mise al lavoro alacremente. Prima avrebbe finito e prima avrebbe chiarito le cose. Dopo molte ore finalmente terminò le riparazioni. Avvicinò il carrello alla porta ed indietreggiò, trattenendo uno dei trasmettitori. Gli alieni capirono e prelevarono il carrello. ò molto altro tempo e finalmente arrivò il momento. Nella stanza al di là della parete trasparente c’erano molti più alieni del solito. Erano gli uni dietro agli altri, ma a ridosso della parete erano solo in due. Notò con stupore che entrambi avevano il trasmettitore, segno che ne avevano riparato un terzo da soli. I due alieni erano molto diversi tra loro: uno dei due sembrava molto agitato, forse emozionato. L’altro invece era calmo. Forse troppo calmo. Lo sguardo inquisitore però tradiva la calma apparente. “Dove sono i miei compagni?”. L’alieno agitato sembrò quasi saltare dalla felicità. Urlò solo “Funziona! Funziona! Ho capito quello che ha detto!”. Uno sguardo dell’altro alieno lo fece ricomporre subito. “L’alieno femmina e gli altri tre sono deceduti nell’impatto”. “Alieno”, lo avevano chiamato alieno. In un’altra circostanza si sarebbe messo a ridere, ma la notizia che aveva appena ricevuto era sconvolgente: a parte la disperazione per il fatto che i propri compagni erano morti, si rese improvvisamente conto, con orrore, di essere l’unico rappresentante del suo popolo su quello che, fino a quel momento, era apparso come un pianeta ostile. Ma decise comunque che avrebbe fatto la propria parte. Raccolse tutto il coraggio che aveva e cominciò il discorso che tante volte aveva provato.
“Salve, fratelli tra le stelle. Siamo venuti in pace da molto lontano e…” La voce tuonante dell’altro alieno, che fino ad allora aveva taciuto, gli rimbombò in testa. “E tu pensi che noi crediamo a queste idiozie? ‘Fratelli tra le stelle’ ? Le cose sono due, fratellino. O questo traduttore del cazzo non fa il suo dovere oppure ci stai prendendo tutti quanti per il culo. Io propendo per la seconda opzione. Per cui dimmi in quanti siete e risparmiaci le favolette. Qui comando io. Benvenuto a Roswell, pianeta Terra, fratello. Rimpiangerai molto di essere venuto a spiarci, fottutissimo alieno”. Sì, rimpiangeva di essere partito. Almeno su questo il terrestre aveva ragione.
5. Ancora, ancora
“Ancora una, ancora una”. Si svegliò con questo pensiero nella testa. Credevano che ne avesse uccise solo undici e invece… Erano tante, tante di più. Ma non gli bastava. Ed era proprio questa sua ingordigia che lo aveva reso meno attento e che gli era costata la vita. Sì, di questo era sicuro: era morto. Ricordava perfettamente il momento in cui la sua trentanovesima vittima, aggredita sulle rive del Tamigi, si era rivelata improvvisamente più forte del previsto. I movimenti di lui invece erano goffi e maldestri, complice l’alcool assunto per svariate ore della notte, e quando cadde nel fiume non ebbe la forza di aggrapparsi a niente, o di nuotare. Fu semplicemente tirato giù dal fiume, come se il padreterno in persona avesse tirato lo sciacquone di quell’enorme cesso che era il Tamigi nella Londra del 1889. “Ancora una”, mormorò di nuovo, ma solo perché era quello che in effetti stava dicendo e pensando prima di morire. Solo che non era morto, o meglio, non lo era del tutto. Si rese conto anche di non avere più i suoi abiti e che il posto in cui si trovava adesso era buio e freddo. O almeno, questo era quello che credeva di sentire, perché sinceramente non provava niente, come se il suo corpo avesse smesso di trasmettergli informazioni e sensazioni. Immaginò di essere all’obitorio. Sì, era all’obitorio, ne era certo! Gli dispiaceva di essere morto solo per due ragioni: non avrebbe potuto più uccidere e, sicuramente, il buon vecchio George, capo del comitato di vigilanza di Whitechapel, sarebbe stato forse scaltro da attribuirsi il merito della sua morte. Jack sorrise nel buio, pensando che no, probabilmente George Lusk non si sarebbe potuto attribuire il merito di niente. La prostituta che aveva aggredito sulla riva del fiume avrà pensato ad uno stupratore e comunque era troppo ubriaca anche lei per ricordare qualsiasi cosa. Solo che era stata forte, troppo forte. “Maledetta puttana” pensò Jack. Per colpa di una meretrice dal sorriso storto e
marcio non avrebbe mai compiuto quello che avrebbe voluto (arrivare ad oltre mille vittime) e, cosa ancor peggiore, la propria morte sarebbe stata archiviata insieme a quelle di decine di ubriachi che perdevano la vita nello stesso identico modo. A Scotland Yard erano ancora nel buio più completo, non sarebbero mai risaliti a lui e Jack avrebbe potuto mietere vite con la stessa facilità di una pestilenza sconosciuta ma micidiale. E invece adesso era lì, sdraiato, nel buio di un obitorio. Stava ancora maledicendo la donna quando all’improvviso vide una luce. O meglio, il luogo in cui si trovava si riempì di luce, almeno così a lui sembrava. Apparvero uomini vestiti con tuniche lunghe e nere. Jack li guardò senza timore, solo che credeva che il diavolo e l’inferno fossero diversi da quello che stava vedendo adesso. Si perché oltre ad essere sicuro di essere morto, era anche sicuro che sarebbe andato dritto all’inferno. Ma quello non sembrava l’inferno. Anzi, era un ambiente alquanto anonimo, con quei tre tizi vestiti di nero. All’improvviso una voce gli rimbombò in testa, ma nessuno dei tre che aveva di fronte stava muovendo le labbra. E la voce la sentiva “dentro” la sua testa; Jack ebbe quasi un senso di disagio. La voce gli spiegò che sì, era morto. Ma, nonostante non fossero più sulla Terra, quello non era paradiso o l’inferno o qualsiasi altro luogo inculcato dalle religioni. Quello era chiamato “Il cancello”. Un Jack sempre più stordito ed incredulo ascoltò nella propria testa la storia della razza umana, di come fosse stata creata da esseri di un altro pianeta, talmente evoluti che avevano potuto fare della Terra un enorme laboratorio con cavie (gli esseri umani, la fauna e la flora). Jack ascoltò come un tempo l’essere umano aveva vissuto su Marte, Venere ed altri mille mondi sparsi in tutto l’universo. Quando l’uomo diventava troppo evoluto, o sull’orlo dell’estinzione, allora i creatori annientavano la popolazione e ricominciavano da capo in un altro luogo. Jack si disse che sì, aveva bevuto, ma che questa era la Madre di Tutte le
Allucinazioni. Convinzione che fu subito smentita dalle voci. Gli leggevano la mente. Gli spiegarono che non capivano come mai la razza umana, alla fine, riuscisse ad autodistruggersi o quasi. Su ogni pianeta gli uomini erano stati come parassiti: capaci sempre e solo di succhiare la linfa vitale del pianeta, violentando la natura, sconvolgendo equilibri e, soprattutto,uccidendosi l'un l'altro. Ciò che avevano notato, in millenni di storia della razza umana, era stato un unico filo conduttore, ovvero la tendenza dell’uomo al male. Questa caratteristica li affascinava. Sì certo, sarebbe stato semplice per loro eliminare questo o quell’individuo, ma provavano quasi piacere nel poter vedere l’evoluzione degli eventi scatenati dal singolo. I dittatori, i serial killer ed altre figure simili erano estremamente affascinanti per i creatori. “Ed io? Perché sono qui? Perché non sono morto?” questo domandò mentalmente Jack e la risposta lo lasciò basito. Li ascoltò nuovamente mentre spiegavano che ad ogni persona, al momento della morte, veniva prelevata l’essenza (“Quindi l’anima esiste” pensò Jack). Se l’essenza era “buona”, ovvero non tendente al male, veniva immediatamente reimpiantata in un nuovo nato. Se l’essenza, al contrario, era oltremodo tendente al male, le veniva data una possibilità di “redenzione”. Appurato il sincero pentimento, anche questa veniva reintrodotta. Jack chiese se ci fossero mai stati casi di mancati pentimenti. Il diniego dei creatori lo lasciò sgomento. “Possibile?” si chiese. I creatori gli confermarono che potevano scrutare l’essenza come attraverso un vetro e tutti, alla fine, arrivavano ad invocare il perdono. Jack era stato uno dei pochi “prescelti”, attraverso le ere, la cui essenza si era trovata al cospetto dei creatori ed al quale era stato spiegato il tutto. A tutti gli altri veniva semplicemente offerto il pentimento attraverso figure che rimandavano al culto religioso. Praticamente una specie di purgatorio. I pentimenti erano quasi sempre immediati, quindi la ricollocazione dell’essenza
avveniva in modo rapido. L’unico fattore che i creatori non potevano controllare era dove l’essenza venisse reimpiantata. In ogni caso, spiegarono ancora, l’essenza non ricordava niente della vita ata o del rito della “redenzione” se non per alcuni attimi al momento del reimpianto, per cui al momento della nascita. Questo i creatori lo avevano potuto verificare con le migliaia e migliaia di casi di morte al momento del parto. Il reimpianto non aveva potuto essere completato, perché il corpo moriva prima dell’effettivo riavvio. L’essenza veniva inviata di nuovo al “purgatorio” e solo allora i creatori si rendevano conto del mancato reset, come quello di un computer. “Computer?” chiese Jack. "Che parola strana". Il creatore che gli stava “parlando” si rese conto che nel 1889, anno in cui Jack era morto, il computer era solo un abbozzo di progetto. Jack ò il resto del tempo a raccontare cosa provava nell’uccidere le persone, per lo più donne; cercò di spiegare ai creatori la fame di vita altrui che lo portava, inevitabilmente, a compiere gli efferati crimini attraverso i quali si era guadagnato l’appellativo di “squartatore”. Rise perfino, mentre confessava decine di delitti che non gli erano stati attribuiti perché era riuscito, grazie al fiume, a far sparire i corpi delle persone da lui assassinate. Ma era una risata quasi isterica; in realtà Jack avrebbe voluto che la gente sapesse che aveva ucciso molto di più rispetto a quanto si credeva. Ma soprattutto desiderava far sapere che aveva voglia di uccidere ancora, ancora, ancora. Quando i creatori si dichiararono “soddisfatti” delle spiegazioni fornite da Jack, quest’ultimo si rese conto che probabilmente quelli erano gli ultimi attimi che “viveva” nell’essenza di Jack lo Squartatore. I creatori gliene diedero conferma, spiegandogli che, visto il male che pervadeva la sua essenza, sarebbe stato resettato, poi spedito nel “purgatorio” ed infine, dopo la redenzione, reimpiantato. Gli dissero a chiare lettere che il reset lo avrebbe privato della sua natura omicida. Jack ne fu quasi scioccato. Voleva uccidere. Ancora. Ancora. Ancora. 20 Aprile 1889 “E’ nato, è un maschio”. Alois ne fu contento. Aveva avuto un maschio ed una femmina e questo bambino permetteva la perfetta continuità della catena dei propri eredi.
Entrò nella stanza dove la moglie aveva partorito. Il bambino stranamente non piangeva. La levatrice sembrò intuire il dubbio di Alois perché gli spiegò che non c’era stato bisogno di sculacciarlo: il bimbo respirava autonomamente, quindi perché infliggergli un ulteriore trauma, oltre a quello della nascita? Alois annuì, ma in cuor suo sperava che le credenze popolari tramandate nella sua famiglia non si avverassero. Si diceva infatti che un bambino alla nascita andava sculacciato, altrimenti sarebbe stato fonte di guai. Il dolore della botta non serviva solo a far aprire i polmoni col pianto, quanto ad una sorta di avvertimento: se non ti comporti bene, il mondo ti punirà. Alois si disse che era l’ora di smettere di credere a tutte queste sciocchezze. Diede un casto bacio alla fronte della moglie, esausta. Si avvicinò alla culla del figlio e lo guardò. Il piccolo aveva ancora gli occhi chiusi. Si muoveva, ma quasi impercettibilmente, come se stesse sognando. La voce della levatrice lo scosse. “Il nome?” “Adolf. Adolf Hitler”. Mentre Alois pronunciava queste parole, il bimbo aprì gli occhi. L’ultimo barlume di essenza del ato lasciò il posto a quella nuova. “Ancora, ancora, ancora”.
6. Amen
Londra, 1934 Finalmente ci sono riuscito. Io, Lewis Whittel, sto per diventare l’inventore di tutti i tempi. Domani testerò la macchina del tempo. Porterò con me questo diario, i miei appunti, medicine, alcune sostanze chimiche, cibo, acqua. Secondo i miei calcoli dovrei riuscire a tornare a tre giorni fa e poi di nuovo nella mia epoca. Adesso incido le mie iniziali sul portellone, una nota di vanità in questo momento epico! Cafarnao, 35° anno del regno di Augusto Sono qui da quattro anni ormai. Solo adesso ho il coraggio e la forza di tenere un diario. La mia impresa ha avuto successo ma è stata anche un fallimento. Ho viaggiato indietro nel tempo di oltre mille anni, non solo tre giorni come avevo previsto. Il peggio è che la macchina del tempo è andata quasi completamente distrutta. Sono “atterrato” nel lago di Tiberiade, in un punto dove l’acqua è profonda circa quindici metri. Ho recuperato tutto il possibile, per fortuna avevo messo quasi tutti gli oggetti in contenitori stagni. In una crisi di disperazione ho distrutto tutti gli appunti sulla costruzione della macchina. Tanto non potrei mai e poi mai ricostruirla comunque. Cafarnao, 40° anno del regno di Augusto Oggi è il mio 45° compleanno. Sto aspettando Yeshua, sicuramente avrà un regalo per me. Yeshua è un bimbo di circa dieci anni. L’ho incontrato sulle rive del lago un paio di anni fa e poco a poco siamo diventati amici. Gli ho raccontato la verità su di me. Non ha mai dubitato delle mie parole, anzi, mi chiede sempre di raccontargli delle “meraviglie” del mio tempo. E’ stata una benedizione incontrarlo, sebbene da buon ateo non dovrei dirlo! Gli ho insegnato alcuni trucchi con le carte (ne avevo portato un mazzo con me) ed altri giochi di prestidigitazione. Del resto era quello che facevo per mantenermi: il mago. La mia vita qui scorre tranquilla. Mi sono inventato egiziano, quindi normale non parlare l’aramaico. Sono stato accettato. Ho alcune capre, un orto. Ho rinunciato da tempo al voler tornare nella mia epoca, tanto è praticamente impossibile. Qui la tecnologia più avanzata è un bue con l’aratro, figurarsi
componenti elettrici… Ma ora basta scrivere, le pagine sono quasi terminate ed io non ho portato un altro diario (altro errore). Cafarnao, 15° anno regno di Tiberio Come ho potuto essere così CIECO! Avrei dovuto capirlo prima, gli indizi c’erano tutti! Il mio caro Yeshua sta per essere condannato a morte ed io ho contribuito a questo... Alessandria d’Egitto, 18° anno di Tiberio Ho dovuto lasciare Cafarnao, ma non spontaneamente. Tre anni fa, dopo la sua "morte" sono venuti a cercarmi, loro, i suoi discepoli. Mi intimarono di non parlare. Ed infatti non ho detto una parola. Nella notte preparai i bagagli con le mie poche cose e dopo un viaggio di alcuni giorni giunsi finalmente ad Alessandria, dove si dice che lui si sia rifugiato. Non posso tacere oltre, affiderò il mio racconto a questo mio diario che seppellirò qui, ad Alessandria. E’ giusto che il mondo sappia. Yeshua è sempre stato carismatico, affascinante. Ho sempre sostenuto che il suo destino non fosse quello di continuare la professione di falegname del padre, ma certamente non intendevo quello che poi è accaduto. Ha utilizzato le mie medicine per guarire molte persone, il resto erano solo recite costruite ad arte. I miracoli? Giochi di prestigio. Qui basta un niente per creare la meraviglia nella mente delle persone, che nei racconti poi amplificano e plasmano gli avvenimenti a proprio gusto. Ha pagato anche i soldati romani che lo pungolavano sulla croce. Alla fine, una volta creduto morto (complice un infuso di belladonna che gli ho insegnato a fare) e deposto nella tomba, si è finto risorto, senza rinunciare a fare qualche trucco scenografico con il magnesio. Sono così deluso che non ho nemmeno la forza di spiegare nel dettaglio tutto quello che è successo in questi anni. Ma la storia si ripete: il suo culto sta diventando sempre più potente, con la piccola differenza che lui se ne sta qui ad Alessandria, con sua moglie, i suoi figli, e si gode la vita grazie a tutti i i finanziari avuti negli anni. Tutti coloro che avrebbero potuto smascherarlo sono morti in circostanze misteriose. So che mi sta facendo cercare, ma non qui. Non ha idea che io viva proprio nella sua stessa città, i suoi discepoli stanno battendo
in lungo e in largo tutta la Galilea ma senza speranza. Almeno in questo l’ho battuto. Di una sola cosa sono sicuro: il mondo deve sapere. La più grande farsa della storia deve essere rivelata. “The Times”, trafiletto in nona pagina, 2015 Si sono finalmente conclusi gli studi circa il famoso diario ritrovato lo scorso anno ad Alessandria d’Egitto, durante alcuni scavi archeologici. Nei pochi frammenti rimasti del diario (in perfetto inglese) come sapete si raccontava una storia diversa sulla nascita di una delle religioni più importanti al mondo. Il clamore suscitato da tale documento è comunque stato smorzato grazie ai risultati ottenuti dalle analisi: la carta e l’inchiostro usati, infatti, risalgono ai primi decenni del 1900. Gli scienziati escludono la possibilità che qualcuno abbia potuto davvero inventare una macchina del tempo, come il diario vuole far credere. Una burla davvero ben orchestrata. Resta da svelare come il diario sia stato così ben “invecchiato” tanto da ingannare i più validi esperti, che ne fanno risalire l’usura e lo stato generale a secoli fa. Caveau di Città del Vaticano, 2015 Padre Richards stava per coronare il suo sogno. Avrebbe finalmente potuto vedere quello che il mondo credeva ancora sepolto chissà dove: il Santo Graal. La reliquia era stata effettivamente trovata dai soldati cristiani durante la prima crociata (seguendo le indicazioni sui documenti lasciati da un ricco mercante di Alessandria d’Egitto di nome Yeshua) ed era poi stata nascosta nel caveau del Vaticano, senza mai venire rimossa. A Padre Richards era stato chiesto di mantenere l'assoluto riserbo su quello che stava per vedere. Se si fosse venuto a sapere dell'esistenza del Santo Graal il Vaticano sarebbe stato preso di mira da fanatici, novelli Indiana Jones, atei, scienziati... La Chiesa voleva evitare tutto ciò. Avrebbe solo continuato a mostrare la reliquia solo a chi ne fosse stato davvero degno. Uno come Padre Richards, appunto. Gli fu comunque spiegato che avrebbe potuto guardare la cassa che conteneva la reliquia da fuori, perché aprirla ed esporre il Santo Graal avrebbe potuto risultare dannoso per il calice stesso. Ma a Padre Richards non importava. Non appena fu al cospetto della cassa (in oro, tempestata di pietre preziose ed incisioni) il sapere di essere così vicino ad un qualcosa che il Salvatore aveva toccato con le sue proprie mani gli provocò
un’emozione così grande che si gettò in ginocchio e pianse per molti minuti, ringraziando Dio in cuor suo per avergli fatto scegliere la strada giusta, quella di prete. Ciò che Padre Richards ignorava (a differenza di chi aveva autorizzato la visita ed alcuni membri della gerarchia ecclesiastica), mentre veniva dolcemente invitato a ricomporsi, a lasciare la stanza e mentre gli veniva ricordato ancora una volta di non divulgare quanto visto, è che aveva appena idolatrato alcuni resti metallici, rugginosi, recuperati dal lago di Tiberiade, su uno dei quali vi era incisa la scritta “My Time Machine, L.W.”
7. Destino?
“Signora, si sente bene? Vuole che chiamiamo qualcuno?” Sara era ancora scioccata da quello che aveva appena sentito dire dal medico: “…qualche settimana di vita al massimo.” Aveva effettuato una risonanza magnetica il giorno prima, richiesta con urgenza dopo che un’ecografia di routine dalla ginecologa aveva evidenziato qualcosa. La ginecologa non si era espressa, aveva parlato di “cisti” e Sara non si era preoccupata. Non era la prima volta che le venivano riscontrate cisti. Cisti che puntualmente tra una visita e l’altra sparivano, riassorbendosi. Invece questa volta la “cisti” era un carcinoma aggressivo che si era sviluppato in metastasi aggredendo utero, reni, polmoni, intestino. La cosa assurda è che lei non sentiva dolori, non c’erano stati camli d’allarme. Si sentiva stanca, è vero, ma era anche cominciato il caldo ed aveva dato la colpa a quello. Si asciugò meccanicamente una lacrima col dorso della mano. Lo sguardo, tenuto fisso alla finestra per alcuni interminabili momenti, si spostò di nuovo sul medico. “E’ proprio sicuro?”. All’improvviso quella domanda le risuonò così stupida, le sembrava di essere il conduttore di un gioco televisivo a quiz. Certo che il medico era sicuro. Non ci si può sbagliare con una diagnosi del genere. Il medico rinnovò la domanda, chiedendole se potevano chiamarle qualcuno. “No”, rispose Sara alzandosi dalla sedia. “Sto bene, grazie. Ho solo bisogno di fare due i.” Sara pensò che, per fortuna, non avrebbe dovuto affrontare a casa la presenza del figlio dodicenne, fuori casa tutto il giorno per una gita scolastica. Come dirglielo? Come spiegargli che sua madre probabilmente sarebbe morta nel giro di due o tre mesi al massimo? Come dirlo a suo marito, ai suoi genitori, agli amici…
Sara all’improvviso immaginò suo marito e suo figlio soli, in casa, con l’orologio della cucina alla parete che ticchettava. Vide il suo posto a tavola vuoto e la disperazione negli occhi delle persone che più amava al mondo. “Mio Dio, mio Dio, mio Dio” Sara si rese conto di ripetere questa litania a mezza voce, mentre camminava lenta senza meta. Sorrise nel constatare che, in un momento di sconforto, aveva scomodato con le proprie preghiere il padreterno. Cosa assai singolare dal momento che Sara era atea praticamente da sempre. Poi qualcosa la “illuminò”. Sì, perché non provarci? Avrebbe fatto di tutto pur di non morire. Il medico le aveva chiaramente spiegato che non c’erano speranze, che era inutile anche operare, fare chemioterapia o radioterapia. Quindi quella, oltre alla rassegnazione, era l’unica alternativa rimasta. Adesso non camminava più senza meta, si era come svegliata dal torpore, realizzando dove si trovava e calcolando mentalmente il percorso per la chiesa più vicina. Nel giro di dieci secondi fu davanti alla cattedrale. Sara entrò, sentendo comunque un senso di forte disagio. In fondo non aveva mai pregato, non sapeva nemmeno come si fe, ma non poteva esimersi dal provarci. Si inginocchiò quindi davanti alla statua della Madonna, con lo sguardo di approvazione delle comari onnipresenti e pregò. A dire il vero non fu proprio una preghiera. Semplicemente parlò mentalmente con Dio o chi per lui, chiedendo di guarire dal tumore. “Prendi chi vuoi, ma non me”. Fu questa l’ultima frase che ripeté in chiesa mentre si rialzava e guadagnava la porta. Quando uscì, capì di avere fatto una cazzata. Quanto era stata scema, alla fine c’era cascata. Proprio lei, che sbandierava l’ateismo con orgoglio. Pianse amaramente per essersi abbassata a chiedere aiuto a qualcosa in cui non aveva mai creduto. All’improvviso le squillò il cellulare: di nuovo lo studio medico.
Rispose a malavoglia ma quello che sentì fece are tutto in secondo piano. “E’ proprio sicuro?” Sara fece questa domanda per la seconda volta, ma a differenza di un paio di ore prima, quello che le stava comunicando il medico era di tutt’altra natura. Avevano sbagliato cartella clinica, mescolato i risultati delle risonanze. A Sara non importò poi molto il perché ma il risultato finale: non aveva alcun tumore. La metastasi l’aveva un povera ultranovantenne, non lei. Quasi riattaccò il telefono in faccia al medico che le stava chiedendo di nuovo scusa per l’ennesima volta nel giro di pochi minuti. Sarà si sentì leggera come non mai. Interruppe il medico, lo congedò bruscamente e rise, rise tanto. Rise anche quando lo raccontò al marito nel pomeriggio, quando lui tornò dal lavoro. Il marito era propenso ad una denuncia, ma Sara gli disse che a lei bastava così, che aveva ricevuto il più bel regalo della sua vita. Gli raccontò anche della tappa in chiesa ed il marito dapprima fu incredulo, poi rise insieme a lei nell’immaginarla inginocchiata in mezzo a signore di una certa età. Decisero di non dire niente al figlio, per non mettergli confusione o dubbi senza senso. Quando andarono a prenderlo al punto di ritrovo, verso le 19 di sera, attesero mano nella mano che scendesse dal pullman e subito l’aria fu piena delle chiacchiere di lui che raccontava di come fosse andata la gita.
Sara si risvegliò dolorante in una camera di ospedale. Nel guardarsi intorno, nonostante la vista appannata riconobbe subito i suoi genitori. All’improvviso ricordò. Le chiacchiere del figlio, le risate, poi i fari di un tir che si avvicinavano, le urla. Una scarica di adrenalina le scosse il corpo mentre pronunciava con voce flebile i nomi del figlio e del marito. Un medico all’interno della stanza fece un cenno di assenso con la testa ed i suoi genitori si avvicinarono. Sara vide che entrambi avevano gli occhi gonfi di pianto e che stavano facendo fatica nel trattenere quello che sarebbe stato un pianto disperato.
Un movimento colto con la coda dell’occhio le fece voltare la testa a sinistra e scorse un’infermiera bionda, bellissima, con due occhi di un azzurro profondo, quasi innaturale. Sara si voltò di nuovo verso i genitori, cominciò ad intuire, ma inconsciamente negava. Guardò sua madre dritta negli occhi e mentre chiedeva ancora del marito e del figlio, la madre le disse semplicemente “I dottori dicono che è successo tutto subito, amore mio. Non hanno sofferto. E dicono anche che sia un miracolo che tu sia ancora viva”. Mentre Sara urlava, nessuno si accorse che l’infermiera, con la scusa di intervenire con i sedativi, accostava la bocca all’orecchio di Sara sussurrando, con un sorriso sadico: “...Chi vuoi, tranne me”.
8. Ecco come
Non era la prima volta che Durante lasciava la propria casa per rifugiarsi nei boschi appena sopra Firenze. La prima volta era poco più di un bambino e quella fuga gli costò non poche nerbate sulle cosce. Ora, che di anni ne aveva quasi quaranta, sorrise al pensiero che entrambi gli allontanamenti erano avvenuti per lo stesso motivo: sua moglie Gemma. Era stato un matrimonio combinato, come quasi tutti quelli del tempo, ma Durante sentiva per la moglie la stessa ripugnanza che provò quando suo padre gli comunicò che la sua sposa era stata scelta. Fu allora fuggì, impotente di fronte alla decisione che il padre aveva preso per lui. Aveva sperato, in cuor suo, di cambiare idea una volta vista la fanciulla, ma i loro sguardi, non appena si incontrarono, sortirono l’esatto opposto. Non era l’aspetto fisico che tratteneva Durante dall’amare sua moglie. Era piuttosto il carattere piatto ed apatico di lei che lo sdegnava. E sapeva che anche lei era stata costretta ad accettarlo come sposo: i suoi sguardi tradivano disprezzo, rabbia, rancore. Non avevano niente in comune se non quei figli nati dalle rare volte in cui il vino aveva contribuito a far sembrare Gemma meritevole di “attenzioni”. Il motivo scatenante della fuga, questa volta, era stata una violenta discussione causata dalla grande ione di Durante per la poesia. La moglie mal sopportava l’interesse del marito per questa arte, anzi, non perdeva occasione per disprezzarne i lavori. Soprattutto perché nemmeno uno dei componimenti di Durante parlava di lei. Lui le aveva vomitato in faccia che per lei non valeva la pena sprecare inchiostro e pergamena, lei aveva cominciato a vaneggiare dei mormorii della gente circa l’interesse del marito per un altro tipo di “arte” che possedeva una chioma dorata e la camminata sinuosa. Lui preparò in fretta una bisaccia con qualcosa da mangiare, dell’acqua, ed uscì. Voleva lasciare alle spalle la voce stridula della moglie, le sue accuse (non del tutto) infondate, la responsabilità della famiglia, la noia… Durante sentiva, dentro di se, che egli non apparteneva a quel mondo: stava vivendo una vita non sua.
Grazie al aggio su di un carro di un contadino, Durante raggiunse il bosco nei dintorni di Fiesole poco prima di sera. Non era certamente un uomo esperto della vita “selvaggia”, ma decise che tutto era meglio di casa propria. Il contadino, prima di lasciarlo al limitare del bosco, gli raccomandò di stare attento ai briganti che spesso si rifugiavano lì dopo aver compiuto nefandezze di ogni genere. Durante annuì, lo ringraziò e si incamminò nel fitto della boscaglia. Dopo circa due ore di buon o, Durante si rese conto che il sole era ormai prossimo al tramonto e, con rabbia, realizzò di non aver portato niente per accendere un fuoco. Fortunatamente era estate, non avrebbe certo patito il freddo, ma cosa dire riguardo al buio e ad animali? Le cime degli alberi incombevano su di lui, i rami sembravano dita pronte a serrarsi sulla sua figura. Il canto degli uccelli lasciò il posto ai richiami dei predatori notturni e Durante si pentì amaramente di aver preso quella decisione repentina senza pensare alle conseguenze. Era solo, al buio, in un bosco. Decise di sdraiarsi e cercare di dormire, cosa che riuscì a fare dopo poco, non senza prima pensare un po’ a Lei. “Lei” non era altri che la personificazione delle dicerie di quartiere. Una fanciulla così pura che Durante temeva di profanare anche solo pensandone il nome. Dalla prima volta che l’aveva scorta, in mezzo ad un gruppo di giovani amiche, il suo cuore era stato rapito dalla bellezza e la leggiadria di lei. Lo sguardo della giovane stava accarezzando un piccolo fringuello in gabbia, il cui canto veniva interrotto dai risolini ed i commenti del gruppo di ragazze. Durante non sa per quanto tempo rimase a guardare il volto di lei. All’improvviso provò invidia per quell’uccellino, meritevole di attenzioni di una così angelica figura. Non appena ebbe formulato questo pensiero, la fanciulla spostò lo sguardo su di lui. Durante si trovò catapultato in un mondo fatto di azzurro. Era come se tutte le sfumature del blu (il cobalto, l’oltremare, lo zaffiro, il fiordaliso e mille altri ancora) fossero stati sapientemente mescolati da madre natura e dipinti negli occhi della giovane donna. Durante distolse immediatamente lo sguardo e chinò il capo, sentendosi indegno di ricevere così tanta grazia. Ecco, quella era la donna che avrebbe voluto al suo fianco. Lei era la musa
ispiratrice dei suoi componimenti, la ragione per la quale continuava a vivere giorno dopo giorno. Fu con questi pensieri che Durante si addormentò, non senza prima volgere lo sguardo al cielo trapuntato di stelle. Si svegliò che era ancora notte, destato da risa sguaiate ed odore di cibo. Non appena il profumo della carne arrostita sul fuoco colpì le sue narici, Durante sentì il proprio stomaco gorgogliare. Le voci erano allegre, il profumo invitante. Durante, dimentico degli avvertimenti del contadino, si alzò e seguì la debole luce del fuoco. In prossimità del gruppo di uomini intenti a mangiare e bere inciampò, rovinando a terra e producendo un forte rumore. Le chiacchiere dei tre uomini si interruppero bruscamente e due di loro sguainarono le spade, mentre un terzo intimò un “Chi va là”. Salve, mi sono smarrito nel bosco, mi chiamo Durante e vengo da Firenze. Durante cercò di mantenere un tono forte e severo, ma dubitò della riuscita. Gli uomini risero nel veder emergere dal buio del bosco questo signorotto coi pantaloni di velluto. Uno di loro lo aggredì, senza troppi preamboli, perquisendo ogni tasca o pertugio. Non trovò niente, a parte qualche fetta di pane nella bisaccia e due mele. La cosa lo fece alquanto imbestialire, per cui tirò fuori un lungo coltellaccio e lo puntò alla gola di Durante sibilandogli di cominciare a pregare. Una voce fuori campo fece zittire di nuovo tutti. Durante, paralizzato dalla paura, girò gli occhi verso la fonte della voce e si trovò a guardare un guardiacaccia robusto, possente. Intimò ai briganti di lasciare Durante, il tutto mentre teneva tutti sotto tiro con due balestre, una per mano. L’uomo che tratteneva Durante allentò la stretta e Durante corse verso il guardiacaccia. Quando questi vide che l’uomo era al sicuro, salutò in modo ironico e sparì nel bosco, trascinando Durante con se. “E se ci seguono?” ebbe il coraggio di domandare Durante dopo un bel po’ che
camminavano nel buio. “Non lo faranno” rispose secco il guardiacaccia. Camminarono a lungo, fin quando Durante vide, con un certo sollievo, filtrare i primi chiarori dell’aurora. A quel punto il guardiacaccia si fermò e, con l’aiuto di Durante, accese il fuoco e cominciò ad arrostire due leprotti che riuscì a catturare in brevissimo tempo. Mentre mangiavano, Durante e Basilio (così si chiamava il guardiacaccia) parlarono a lungo della propria vita. Basilio intuì il disagio di Durante; nonostante fosse un uomo senza studi alle spalle e con l’unica esperienza di guardiacaccia, era molto sensibile e saggio. arono insieme quattro giorni. Basilio insegnò a Durante a cacciare, ad accendere il fuoco, a costruirsi un riparo. Durante ripagò l’amico con aneddoti sulla propria vita, componimenti. Ognuno dava all’altro il meglio di sé. L’ultima notte, mentre parlavano di come Durante avrebbe dovuto affrontare il ritorno a casa, quest’ultimo si rivolse all’amico con tono grave. “Se non fosse stato per te sarei morto per mano di quei manigoldi. E non avrei mai più potuto riveder le stelle”. Disse l’ultima parola accompagnandola con un gesto del braccio, come avesse voluto dare una mano di pittura trasparente alla volta stellata. Basilio annuì. Non c’era bisogno di parole. Il giorno dopo, di buon mattino, si salutarono. Basilio volle accompagnare Durante fino al margine del bosco, così da essere sicuro che l’amico avrebbe ritrovato facilmente la via di casa. Prima di incamminarsi da solo alla volta di Firenze, Durante disse a Basilio che aveva avuto un’idea per un nuovo componimento. “Ti regalerò l’eternità”, esclamò Durante. “Ma non con codesto nome, non mi garba poi molto”. “Bellino il tuo!” esclamò Basilio ridendo.
“E infatti mi chiaman tutti Dante” rispose Durante, e continuò “Vai, torna nella tua selva oscura. Magari c’è un altro poeta da salvare…”. Basilio scosse la testa, ridendo ancora. Entrambi si volsero le spalle a vicenda e si incamminarono ognuno verso la propria vita.