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Lorenzo Di Silvestre

Se cadesse il mondo

SE CADESSE IL MONDO

Autore: Lorenzo Di Silvestre

Copyright © 2013 CIESSE Edizioni Via Conselvana 151/E 35020 Maserà di Padova (PD) [email protected] www.ciessedizioni.it - http://blog.ciessedizioni.it

ISBN versione eBook 978-88-6660-096-1

I edizione stampata nel mese di luglio 2013

Impostazione grafica e progetto copertina: © 2013 CIESSE Edizioni

Tutti i diritti sono riservati. È vietata ogni riproduzione dell’opera, anche parziale. Questa è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi ed eventi narrati sono il frutto della fantasia dell’autore o sono usati in maniera fittizia. Qualsiasi somiglianza con persone reali, viventi o defunte, eventi o luoghi esistenti è da ritenersi puramente casuale.

Collana: Green Editing a cura di: Sonia Dal Cason

A sco, Sara, e Valentina, che da sempre sostengono il mio mondo.

E a mio nipote Riccardo, con l’augurio che il suo mondo non cada mai.

Tavola dei Contenuti (TOC)

SE CADESSE IL MONDO 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11. 12. 13. 14. 15. 16. 17.

18. 19. 20. 21. 22. 23. 24. 25. 26. 27. 28. 29. IL VENTO SOFFIA DA SOLO Copyright © 2013 CIESSE Edizioni

1.

Lei

Tulle, organza, raso, veli fermati con fiocchi o piccoli graziosissimi diademi, finti bouquet a scettro o a cascata, strascichi, cappellini, scarpette di cristallo stile Cenerentola… Se la cosa va avanti per molto, mi soffoco nella seta! Probabilmente ero una delle pochissime ragazze della mia età che, pur trovandosi in una boutique di abiti da sposa, non aveva un infarto per la contentezza. Del resto mia madre me lo ripeteva sempre: «Non sei femminile! Non hai classe!». Poi è ovvio che a forza di sentirselo dire, una si convince che sia davvero così. Sbaglio? Non sarei nemmeno stata così poco di compagnia se non avesse fatto tanto caldo. Ma questi sanno cos’è un condizionatore? Era maggio. Il secondo giorno di maggio, e il caldo era paragonabile a quello del mezzogiorno di ferragosto nel Sahara. Insostenibile! Specialmente per una che, come me, odia l’afa, l’estate e la calura. Odio, per altro, accentuato dalla maglia a maniche lunghe e ampie che portavo, dai jeans lunghi non troppo stretti, e capelli legati in una sciattissima coda di cavallo. Adesso, ripensandoci, mi rendo conto che all’epoca dovevo avere l’aspetto, e forse anche la grazia, di una barbona ubriaca. Avevo ventidue anni, vale a dire abbastanza giovane da potermi godere la mia età, ma abbastanza matura da avere le mie responsabilità. Una figata, insomma! O forse lo sarebbe stato se avessi avuto qualcosa che si potesse vagamente avvicinare a una vita sociale. Niente amici, niente ragazzo, e zero femminilità. Non avevo un accidente! Anzi no, qualcosa l’avevo: un lavoro. Facevo la commessa in un negozio di borse e articoli in pelle nel centro commerciale della mia città. Venivo sfruttata, maltrattata e pagata una miseria. Ma in fin dei conti era meglio di niente, piuttosto che soffrire la fame, no? Oddio, “fame” non direi. A parte il fatto che abitavo con i miei che erano così

gentili e premurosi da armi vitto e alloggio, in secondo luogo, se anche avessi smesso di mangiare per un po’, la mia riserva di grasso mi avrebbe consentito di vivere per almeno sei mesi. «Angela, vieni! Aiutami a decidere» mi chiamò mia sorella. Laura aveva cinque anni più di me, e stava per sposarsi. Al lavoro avevo tentato di spostare il mio turno dalla mattina al pomeriggio per evitare di accompagnare mia madre e mia sorella alla disperata ricerca del perfetto abito da sposa, ma la mia responsabile aveva intuito che per me si trattava di una cosa importante, quindi mi aveva detto di no. Così alla fine ero stata costretta ad andare in giro per atelier e non solo: c’eravamo scarrozzati anche la migliore amica, nonché testimone di nozze, di mia sorella Laura. Era stato deciso che, già che c’eravamo, avremmo comprato anche il vestito per me e per mia madre che, presa dall’eccitazione, ne aveva già provati diciotto. Io mi ero spalmata su un enorme pouf rosa, ed ero rimasta a guardare mia sorella che provava un abito da sposa dopo l’altro. Di tutte le silhouette, forme, tessuti, marche. Uno strazio. «An-ge-la!» Oddio, ha sillabato il mio nome. Segno che si stava irritando. Mia sorella ha sempre avuto una bassissima soglia di sopportazione e pazienza. Anzi, diciamo pure che non ne ha mai avuta alcuna. Mi alzai pesantemente dal pouf, che nel frattempo aveva preso la forma del mio sedere, tipo il divano marrone di Homer Simpson. Mi avvicinai alle altre e rimasi a fissarla. Adesso si era messa un abito strizzatette sopra e mastodontico sotto. «Ma con quella gonna ci i dalla navata della chiesa?» Domanda errata. Laura si voltò di scatto, con espressione felina. «Vuoi dire che sono grassa?» Non ebbi tempo di rispondere. L’odiosissima amica di mia sorella, Sofia, che per inciso mi detestava, prese in mano la situazione. «Ma certo che non sei grassa, sciocca!» le disse premurosa.

«Sei anche dimagrita cinque chili! E poi non hai il sedere di Angela» concluse. Ma tu senti questa carogna! Guardai mia madre in cerca di sostegno, ma lei disse: «Ha ragione Laura. Stai benissimo». Allargai le braccia e tornai al mio pouf rosa. Se ero fortunata c’era ancora la forma delle mie chiappe, e non sarei stata costretta a mettermi d’impegno per riformarla. «Mamma, pensi che qui ci stia bene il velo?» «Mah, non saprei». A quel punto non potei più contenermi. «Certo, con quel vestitino così discreto e semplice mettiamoci anche il velo, i guanti al gomito e una bella corona da Regina di cuori. L’unico problema è che tu e Diego non potrete sposarvi in contemporanea perché in due sull’altare non ci entrate». Mi resi conto di essere andata troppo oltre un istante dopo aver proferito quelle parole. Laura divenne paonazza, i capelli iniziarono quasi a volteggiarle intorno al viso, diventò verde e strinse così tanto i pugni che le si staccò un’unghia finta. «Mamma!» strillò isterica. «Angela, per favore» sbuffò mia madre. «So che non ti importa niente di tutto questo. Ma per tua sorella è importante. Potresti, per favore, darti una regolata?» mi disse dura. Sofia aveva una faccia disgustata. Mia sorella mi rivolse un’espressione furente. Potevo quasi vedere il fumo uscirle dalle narici. «Va bene, lascia stare mamma» disse improvvisamente calma, tornando a sistemarsi il corpetto davanti allo specchio. Al contrario della sottoscritta, lei aveva delle tette praticamente inesistenti. Perfette per il suo fisico scolpito. Guardai fuori dalla vetrina, mentre mia sorella continuava:

«Del resto lei non avrà mai un giorno speciale come il mio» disse maligna. «Ecco perché sta facendo di tutto per rovinarmelo». Ma che grandissima bastarda! Mi alzai e mi avvicinai di nuovo alla pedana dove Laura troneggiava con quella cattedrale bianca che aveva addosso. «E questo cosa vorrebbe dire?» chiesi minacciosa. Laura si girò verso di me con le mani sui fianchi. Se l’avesse fatto quando eravamo piccole, sarei già morta di paura. Adesso non mi intimoriva più. Anche perché sotto stress da matrimonio pesava quanto una mia tetta, e avrei potuto sopraffarla con estrema facilità. «Che non ti sposerai mai. Non ti sentirai mai bene come me in questo momento» disse con perfido appagamento. «E cosa ti fa pensare che la mia massima aspirazione sia di sposarmi vestita da montagna innevata?» Lasciai correre il fatto che, con la mia mole, l’effetto “montagna innevata” sarebbe stato reale. «Perché è scontato» disse Laura come se stesse spiegando la cosa più semplice del mondo. «Desideri quello che sai che non avrai mai. Avanti, guardati. Sei vestita come una stracciona, non hai un taglio di capelli decente, non porti un filo di trucco, ti mangi le unghia e sei ingrassata di quanto nelle ultime settimane? Tre chili? Non hai un fidanzato, non hai amici, e sei ancora vergine a ventidue anni. Pensi davvero che prima o poi ti sposerai?» concluse. Rimasi lì, paralizzata dall’orrore. Quello che aveva detto era tutto vero. E questo faceva ancora più male. Questo, e il fatto che l’aveva detto davanti all’odiosissima Sofia, che adesso aveva un’aria trionfante, e a mia madre che invece aveva preso la notizia della mia intatta verginità con sollevata felicità. Io lo ero un po’ meno. Non sapevo cosa replicare, scioccata da tanta perfidia. Sapevo che quella non era la vera Laura. Con me era sempre stata buona, mi aveva sempre difesa e consigliata. Eravamo anche abbastanza unite per essere due sorelle con cinque anni di differenza. Solo che il matrimonio fa uscire fuori il peggio di una persona. In particolar modo se è imminente. Negli ultimi tempi

Laura era diventata cattiva, irascibile, nervosa e assolutamente intrattabile. Però c’è differenza tra prendersela con quelli del servizio catering, e prendersela con la tua povera sorella che in fin dei conti non ha colpa! No? «Ehm… scusate». Ci girammo. La commessa era entrata alla nostre spalle dentro la mega-sala prove e aveva sentito tutto. Ma porca di quella tr… Ci mancava solo che una commessa in tiro e con la puzza sotto il naso sapesse che non avevo una vita, un fidanzato, ma che in compenso ero ancora vergine. A quel punto feci l’unica cosa che pare logico fare in casi del genere. Strozzai mia sorella con un reggicalze in pizzo. No, scherzo. Girai sui tacchi e uscii in strada. Camminavo svelta, senza una meta. Ero incazzata come un serpente a sonagli con l’otite, e triste perché sapevo che le parole di mia sorella avevano un fondo di verità. E va bene, non solo un fondo. Ma cosa potevo fare? Io non avrei mai voluto arrivare a quel punto. E non sapevo nemmeno come ci ero arrivata! Adesso, ovviamente, lo so. Diciamo che, col tempo, ho avuto modo di approfondire e analizzare la mia vita di ventenne. Alle medie avevo tante amiche. Dagli undici ai tredici anni ero circondata da stormi, greggi, branchi di amiche! Poi ero andata alle superiori. Lì avevo commesso il mio primissimo sbaglio. Avevo scelto di fare il liceo artistico, scelta per la quale mio padre si batté eroicamente tentando di farmi desistere. «Non ci sono sbocchi lavorativi!» mi urlava. Ma io niente, imperterrita continuavo a voler andare all’artistico. Ero nella fase di ribellione, quindi con buona probabilità, se i miei mi avessero appoggiato, io avrei cambiato idea e sarei andata al professionale. Oppure per fargli un torto maggiore, sarei andata a lavorare. A ogni modo, dopo lunghe, lunghissime discussioni, urla, crisi isteriche e minacce, mio padre acconsentì a iscrivermi al liceo artistico. A patto che andassi a quello di un paese vicino a dove abitavamo, perché quello della mia città era un posto “poco raccomandabile” come lo definì mio padre. Ovviamente credetti di farli fessi, e a settembre iniziai ad andare alla scuola che tanto volevo fare. Mi aspettavo prati verdi e cieli blu, amici che mi invitavano alle feste, ragazzi che facevano la fila per baciarmi, mi aspettavo la popolarità, il successo. Invece

non arrivò nulla di tutto questo. Certo, strinsi qualche amicizia, ma niente che si consolidò nel tempo. Nessuna compagna di banco alla quale confidare i segreti per poi ascoltare i suoi. Uscire insieme, confrontarsi e parlare. Per questo, però, ho sempre Caterina. Mia cugina. Abbiamo la stessa età, e anche se non siamo mai andate a scuola insieme, abbiamo sempre avuto un certo feeling. Grazie al cielo su di lei ho sempre potuto contare, ed è l’unica a cui ho sempre confidato i miei segreti e i miei stati d’animo. E lei ha fatto lo stesso. Siamo sempre uscite insieme: cinema, discoteche, anche se i miei mi hanno proibito d’andarci fino al compimento dei diciotto anni, locali e eggiate sul lungomare la sera. Tutto insieme a lei. E fu lei a presentarmi il primo ragazzo che baciai alla veneranda età di diciassette anni. Era un suo compagno di classe. Era alto e dinoccolato, ma che vi devo dire? Ai miei occhi non avrebbe potuto essere più bello nemmeno se fosse stato Brad Pitt. Purtroppo lui non mi vedeva neppure se gli sbattevo contro. L’unica cosa che gli interessava erano le mie tette, che con il are del tempo stavano raggiungendo la grandezza di due palloni da spiaggia. «Se continui così emo due mongolfiere come reggiseno» mi sfotteva mia sorella. Ma non le badavo. Sapevo che parlava per invidia. Insomma, questo ragazzo secco e alto una sera mi portò sulla spiaggia, dietro le cabine di uno chalet, e lì ricevetti il mio primo bacio. Umido e impacciato. Da dimenticare. Però anche questo fa curriculum. Lì finirono le mie esperienze con l’altro sesso. A scuola non mi aveva mai filato nessuno, quindi anche dopo il mio primo bacio le cose non andarono diversamente. Finii il liceo e decisi che avrei fatto un lavoro artistico, pieno di estro e che mi avrebbe fatto viaggiare molto. Avrei fatto la vita che avevo sempre desiderato, dimenticando questi schifosi quanto inutili primi diciotto anni! Ma la vita ti schiaffeggia quando invece ti aspetti una carezza. Dopo interminabili curriculum mandati praticamente dappertutto, aprirono un nuovo negozio al centro commerciale non troppo lontano da casa mia. Feci domanda, pregando che non mi prendessero. Invece zac! Accettata al primo colloquio. E così da tre anni lavoravo in quel negozio. Con una responsabile che non mi poteva vedere e me ne faceva di tutti i colori, e una collega che ava più tempo dallo psicologo che a casa. Poi ditemi che ho un motivo per stare allegra! Ditemi se non avevo ragione a trascurarmi così. Per chi o che cosa avrei mai dovuto cambiare? A cosa serviva truccarsi o andare dal parrucchiere? Mentre camminavo, mi specchiai nella vetrina di un negozio. Aveva ragione Laura. Ero sciatta. Trasandata. E avevo solo ventidue anni.

2.

Lui

Tulle, organza, raso, veli fermati con fiocchi o piccoli delicati diademi, finti bouquet a scettro o a cascata, strascichi, cappellini, scarpette bianche dal tacco più o meno basso con Swarovski e/o diamanti. Amavo quel posto! Era il mio regno. «Eros!» Ecco cosa significa avere una mamma che ama spasmodicamente Ramazzotti. «Eros! Vieni, corri subito!» mi chiamò Gaia, la ragazza con cui condividevo l’ufficio. Ero nel magazzino circondato da tutto quel ben di Dio che adoravo. «Erooooos!» Allarmato corsi nell’ufficio adiacente rischiando di schiantarmi a terra inciampando nello strascico di un abito appeso alla parete. Imprecando, irruppi dalla porta per vedere Gaia in piena crisi isterica, arrampicata sulla scrivania, e a terra un’agghiacciante lucertolona marrone. «Toglila!» urlò. «Cosa? Ma nemmeno per idea!» mi ribellai facendo qualche o indietro. Cuor di leone! «Ma che uomo sei?» mi riprese lei. In quel momento entrò la signora Flora.

«Che succede qui?» chiese un po’ seccata. La signora Flora odiava il chiasso e il disordine. E a giudicare da cosa si era messa addosso, odiava anche vestirsi in maniera decente. A casa la signora Flora sembrava avesse una porta magica, tipo l’armadio di Narnia, che le forniva ogni giorno un imbarazzante completino diverso: quel giorno indossava una camicia semi trasparente e una gonna di uno strano colore rosso con decorazione jacquard dorate. Ci mancava che si vestisse da catarifrangente. Senza battere ciglio prese la lucertola a mani nude e la gettò fuori dalla finestra. Era così tutti gli anni: ogni volta che tornava il caldo la mia datrice di lavoro chiamava un uomo per tagliare l’erba del giardino sotto la nostra finestra, che durante l’inverno raggiungeva altezze pari alla vegetazione della Foresta Nera, e puntualmente ci trovavamo con l’ufficio infestato da ogni sorta di bestie. «Eros, è pronta la scheda dell’abito di Giorgini Elena?» mi chiese la signora Flora. «Sì signora. Stavo cercando un campione di quell’applicazione di strass che la Giorgini vuole sul retro del corpetto. L’abbiamo usata anche l’anno scorso per la nostra collezione primavera/estate, ma non la trovo». «Sì, ricordo. Ma il campione l’ho preso io, quindi difficilmente lo troverai nel magazzino» mi informò sbrigativa. «Lascia stare il campione, lo farò avere io ai diretti interessati. Manda subito al reparto confezione la scheda per realizzare l’abito. Siamo già in ritardo» mi ordinò. «Subito signora». La signora Flora uscì dall’ufficio scoccando un’occhiata ammonitrice a Gaia che nel frattempo era scesa dalla scrivania e stava lavorando come se nulla fosse successo. «Oddio che spavento» sospirò appena fummo soli. «Era solo una stupida lucertola» le feci notare sedendomi alla mia scrivania.

«Che tu non hai voluto togliere di mezzo. Alla tua età non dovresti avere paura delle lucertole». Evitai di rispondere. Avevo ventidue anni, ero giovanissimo quindi. Dopo aver frequentato un istituto professionale diplomandomi nel settore moda, avevo iniziato uno stage presso quella bella boutique di abiti da sposa non troppo lontano da casa mia, Flora Spose. Avevo ato sei mesi a pulire per terra, fare caffè e riempire i portasapone dei cessi, e alla fine ero stato assunto. Dopo svariati contratti a tempo determinato mese per mese, ero riuscito nell’intento che mi ero posto e avevo firmato un bel contratto a tempo indeterminato! E per un ragazzo della mia età è un po’ come cadere di culo e trovare il petrolio. Lavoravo lì da tre anni, ed era tutto bellissimo! La mia datrice di lavoro, la signora Flora, vestiario a parte, era gentilissima, e con Gaia avevo stretto un bellissimo rapporto. A unirci erano soprattutto la ione per i completini sempre diversi e atrocemente abbinati della nostra capa e le fotografie di bei ragazzi: quando eravamo scarichi di lavoro, facevamo a gara a chi scovava quella più sexy su internet. In tutto eravamo in sei nella boutique, senza contare le quattro signore che cucivano gli abiti, il minimo indispensabile insomma. E io mi ritenevo un privilegiato. A dire il vero tutta la mia vita era stata un bel viaggio in business class! Non mi era mai andato storto nulla! Non mi mancava niente: avevo una bella famiglia unita, una sorella più grande con la quale andavo tutto sommato d’accordo, contentissima di avere un fratellino da proteggere e coccolare, una migliore amica con la quale condividevo tutto, tranne i ragazzi. Avevo un bel lavoro, una schiera di conoscenti, avevo messo da parte una discreta somma grazie al mio stipendio, ed ero addirittura riuscito a comprarmi una macchina! Insomma, me la avo bene. Preparai la scheda per la realizzazione dell’abito, e la portai alle signore nel reparto confezione, rimanendoci per almeno un quarto d’ora. Avrei lavorato volentieri con loro. Amavo cucire, e costruire l’abito piano piano mi entusiasmava come si entusiasma un adolescente di fronte al tipo riccio dei One Direction. A dire il vero quello che più avrei desiderato era disegnare. Da quando lavoravo lì occupavo ogni minuto libero a disegnare abiti miei, fantasticando che un giorno avrei aperto una mia boutique come la signora Flora. Ed Elisa, la mia bestfriend, mi avrebbe fatto da modella. Per lo meno era quello che lei aggiungeva ogni volta che parlavamo di cosa avremmo voluto fare nel nostro futuro. Io ero più concreto. Lei aspirava a diventare una modella. Era quello che voleva più di ogni altra cosa. L’idea le era venuta a dodici anni, quando la madre le aveva comprato la prima copia di Vogue della sua vita. Era rimasta estasiata da quelle pagine, e aveva deciso che un giorno sarebbe comparsa anche lei lì sopra. Elisa

era altissima e magrissima. Aveva un fisico da alta moda, e si curava in maniera esasperante. Si era anche iscritta a un’agenzia locale di modelle, ma si rendeva conto che nel nostro paesino non aveva sbocchi di nessunissimo tipo. Però sognare non costa nulla, non ancora per lo meno! Come ho già detto, me la avo bene. Ero felice. Appena tornai in ufficio mi squillò il cellulare. Parli del diavolo. «Pronto, Elisa» risposi. «Ciao checca. Che fai?» Gentile come sempre. «Me lo gratto» sospirai. «Secondo te? Sono al lavoro». «Che acidità» se la prese lei. «Sappi che mi hai già rotto le scatole». «Senti, ci dobbiamo vedere. Ho una novità da raccontarti» mi disse eccitata, dimenticando di essere offesa, e senza badare a me. «Quale novità?» «Vediamoci e te lo dico». «Ok. Usciamo dopo cena?» le proposi. «No, andiamo a prendere qualcosa prima di cena» mi comandò. Guardai l’ora. Sarei uscito alle sei, quindi due ore dopo. «No, dai. Voglio rilassarmi un po’» tentai di persuaderla. Nulla da fare. «Eros, non fare lo stronzo! Se non fosse una cosa importante per me, ti avrei mai chiamato?» Devo rispondere sinceramente?

«E va bene, allora. Che palle però. Immagino debba arti a prendere» alzai gli occhi al cielo. «Sì. Ti aspetto appena finisci di lavorare. Non tardare sennò ti trito!» mi minacciò, e riattaccò. Sbuffai seccato, e spensi il cellulare. Almeno non mi avrebbe chiamato più. Non giudicatemi male, è che non ero affatto incuriosito, visto che la mia amica aveva una novità da raccontarmi un giorno no e tre sì. Ma era una ragazza d’oro. E per qualche motivo i miei la adoravano. Forse credevano che stessimo insieme. Beata illusione! «Ohmmioddio» Gaia era pietrificata davanti allo schermo del suo computer. Io la guardai. «Eros, vieni a vedere che video ha postato su Facebook una mia amica» mi chiamò. Mi alzai pesantemente e raggiunsi la scrivania della mia collega, che fece partire il video in questione. Era la scena del film Piccolo grande amore, con Raul Bova e Barbara Snellemburg, quando lui esce dall’acqua al rallentatore. Da piccolo avrò visto quel film trecentosessanta volte. «Ma perché io non lo trovo mai uno così?» si lagnò Gaia. Io stavo asciugandomi un rivolo di bava vogliosa. «Eros» mi chiamò la signora Flora entrando di soppiatto nel nostro ufficio. «Quindi clicca lì, ed è fatta» improvvisai con Gaia. Era il nostro accordo in caso di blitz, per non farci sgamare. Fronteggiai la mia capa con una faccia da culo, come se non stessimo guardando quel gran pezzo d’uomo di Raul. «Sì?» «Vieni nel mio ufficio per favore» mi disse.

Oddio, ci ha beccato! Guardai Gaia, che dall’espressione stava pensando la stessa cosa. Con o demotivato entrai nell’ordinatissimo e profumatissimo ufficio della signora Flora, che chiuse la porta e sedette dietro la sua bella scrivania. «Allora» iniziò. Io rimasi seduto di fronte a lei in religioso silenzio. «Lavori qui da quanto?» «Tre anni» dissi con un filo di voce. «Bene» annuì a se stessa. Ma perché non sputava il rospo? In realtà sapevo benissimo che quello non era un modo di tenermi sulle spine, né voleva creare suspense. Stava solo riflettendo. La signora Flora era una che pensava molto, e prima di dire qualsiasi cosa si prendeva almeno due minuti per decidere quale fosse il metodo migliore per dire quello che aveva da dire. Esasperante, vero? «Ti ho tenuto d’occhio durante questi anni» mi disse seria. Ohccazzo! Voleva dire che sapeva che io e Gaia facevamo a gara a chi trovava il maschio più sexy su internet? Mannaggia! Non risposi, e lei andò avanti. «So perfettamente che genere di mansioni vorresti avere all’interno del mio atelier, e so che saresti in grado di farlo. Tu sei un creativo, ti piace disegnare e so che sei piuttosto bravo» mi lusingò. Rimasi ancora in silenzio. Non capivo se mi stava rimproverando perché aveva scoperto che io e Gaia guardavamo i video di Raul Bova su YouTube, o se mi stava rimproverando perché sbavavamo per terra quando li vedevamo. Oppure

non c’avevo capito una mazza, e mi stava dicendo qualcosa di carino. «Arriviamo al sodo, Eros» disse avvicinandosi e sorridendo impercettibilmente. «Voglio darti la possibilità di partecipare alla nuova collezione autunno/inverno» sparò. In quel momento probabilmente caddi in coma, perché quando mi ripresi, la mia datrice di lavoro mi guardava apprensiva. «Eros? Tutto bene?» «Sì» soffiai. «Perfetto» continuò la signora Flora. «Voglio che tu disegni quanti più abiti da sposa puoi in due mesi. Io prenderò le tue creazioni e ne sceglierò dieci, cioè la metà dei modelli che di solito produciamo ogni stagione, apportandovi qualche eventuale modifica. Il tema della prossima collezione sarà Inverno in Alaska. Voglio linee semplici ma accattivanti, niente fronzoli, veli di organza, e applicazioni di eco pelliccia a pelo lunghissimo. Niente tulle e niente cristalli» sorrise. «Sei interessato?» «Certo signora!» annuii vigorosamente. «Molto bene. Avrai un aumento di cinquecento euro in busta paga. Sto finendo di preparare il mood, una volta terminato potrai consultarlo quanto vorrai per l’ispirazione. Inoltre se ti rivelerai all’altezza del compito che ti ho affidato, voglio che tu collabori con me ogni nuova stagione». Credetti di sollevarmi sulla sedia. Riuscivo quasi a vedermi il sorriso a trentadue denti che avevo messo su come un idiota. «Grazie mille signora» le dissi. Con quella nuova prospettiva tutto mi stava andando alla grande. Ma proprio tutto! Non riuscivo a crederci. Finalmente sarei diventato uno stilista di abiti da sposa, come avevo sempre sognato. Ed ero così giovane! Presto avrei avuto un’esperienza da fare invidia a Carlo Pignatelli! Rimasi un’altra mezz’ora ad annuire come un demente di fronte alle mille spiegazioni della signora Flora sui particolari della collezione. Che onestamente mi faceva schifo. Ma avrei

accettato qualunque tema, pur di disegnare! Quando tornai in ufficio, Gaia mi chiese cosa mi avesse detto la capa, ma non le confidai nulla. Un po’ perché volevo cullare tra me e me il mio nuovissimo impiego, un po’ per scaramanzia, e un po’ perché volevo che la prima a saperlo fosse Elisa. Quando ai a prenderla poche ore dopo, avevo ancora il mio sorriso da scemo. E se non fossi stato così preso da me stesso, forse avrei notato che lo stesso sorriso ce l’aveva anche lei. «Dove andiamo?» le chiesi. Lei mi guidò per le strade della nostra cittadina. Era incredibile come i locali aprissero e chiudessero alla velocità della luce. Ma ancora più incredibile era che Elisa sapesse sempre quali aprivano e quali chiudevano. Arrivammo a questo nuovo locale dall’aspetto psichedelico, molto hippie anni ’70. Sarebbe durato al massimo un mese. «Allora, sputa il rospo» le dissi dopo aver ordinato. Elisa si stiracchiò, e rispose: «Mi vedo con un ragazzo!» «Suonate campane!» esclamai colpito. Era un evento! Non era mai successo prima! Per Elisa uno era troppo basso, uno troppo alto, uno aveva uno strano naso, uno un profumo disgustoso, uno usava il gel invece della cera per capelli. Aveva perfino lasciato un ragazzo perché a suo dire aveva la pelle dei talloni troppo secca. «E chi è quest’essere perfetto?» le chiesi. Lei mi guardò seccata. «Non fare lo stronzo. Se mi rovini questo momento, ti sfiguro» mi intimidì. Alzai le mani in segno di resa. «Perdono» le sorrisi. «Dai, racconta». Mi raccontò di aver incontrato questo ragazzo sul treno che la portava

all’università, la mia amica stava tentando di prendere una laurea in discipline delle arti figurative, della musica, dello spettacolo e della moda. E non chiedetemi che tipo di lavoro puoi fare una volta laureato in una roba del genere. Già quando qualcuno le chiedeva cosa studiasse, stavamo lì delle mezz’ore in attesa che Elisa spiegasse di cosa si trattava. «Abbiamo iniziato a parlare, una cosa tira l’altra, e a poco a poco abbiamo deciso di rivederci» fece raggiante. «No, aspetta» la interruppi. «Siete già usciti insieme?» le chiesi accusatorio. «Una volta» ammise. La guardai sconvolto. «Elisa! Come hai potuto? Non mi hai detto niente!» la rimproverai. Ci eravamo conosciuti in prima superiore e da otto anni ormai eravamo inseparabili. Il nostro era stato amore a prima vista. Avevamo legato subito, iniziando a notare alcune analogie tra di noi: io sono nato il 2 febbraio, lei il 4, di solito festeggiavamo il 3 per tutti e due, a entrambi piacevano la stessa musica, gli stessi film, avevamo gli stessi gusti nell’ambito della moda e il nostro nome inizia con la lettera E. Quando compimmo diciotto anni ci regalammo un tatuaggio simile: una bella E in corsivo che si intreccia con il simbolo dell’infinito. Prima ci faceva impazzire quel disegno, adesso ci fa ridere. Ma lo amiamo ancora. E mi teneva nascosta una cosa così importante? «Questa cosa è grave quasi quanto la volta in cui decidesti che il nuovo must della tua estate 2005 sarebbe stato il cappello a tesa larga, e non mi dicesti niente. E lo sai che noi decidiamo le nostre nuove ossessioni in concomitanza!» Lei si imbarazzò un po’. Ben ti sta! «Scusami! Davvero, mi dispiace! Ma è successo tutto in fretta». «Sì, sì. Come no».

«Dico sul serio!» «Mmmh». Lei continuò a supplicare il mio perdono, che tanto aveva già, e alla fine iniziammo a parlare di questo Alessandro che la faceva impazzire. «Alessandro? Non ha un nome troppo comune?» le chiesi sarcastico. Ma non troppo. Una volta aveva mollato uno perché si chiamava Luca. «Luca!» mi aveva detto con lo stesso tono che avrebbe usato se avesse scoperto che si vedeva con un pluriomicida. «Ma hai idea di quanti Luca ci siano al mondo?» No comment. Lei mi guardò sbuffando. «Stai un po’ zitto. E poi posso sempre cercargli un soprannome». Io feci finta di cadere dalla poltrona. «Non ci posso credere! Ma sei Elisa?» le controllai scherzosamente la febbre. «Tu che scendi a compromessi? Non può essere!» Elisa invece di picchiarmi si mise a ridere. «Sei proprio una checca idiota» mi prese in giro. Lei era l’unica che potesse dirmi una cosa del genere. Durante gli anni delle superiori mi ero sorbito la mia buona dose di prese in giro, le classiche cattiverie che solo i ragazzi di quell’età possono dire. Solo che un conto è stare zitti a diciassette anni, un altro è reagire a ventidue. Comunque. Parlammo del più e del meno, finché non le dissi di avere anche io delle novità. «Non dirmi che ti vedi con qualcuno anche tu! Sarebbe davvero troppo. Va bene che mi ami, ma copiarmi fino a questo punto è da maniaci!» «No, è un’altra cosa. Si tratta di lavoro».

Creai suspense. «Mi hanno promosso!» saltai allegro sulla poltroncina, accompagnato presto da Elisa. «Non ci credo! Racconta» mi gridò all’orecchio. Le dissi tutto, senza tralasciare il video di Raul Bova, e alla fine ci abbracciammo allegri. «Che bella notizia! Certo, Spose in Alaska fa cagare, ma per iniziare va bene tutto! Se non avessi già deciso di non volermi sposare, ti chiederei di disegnarmi l’abito!» mi disse bevendo l’ultimo sorso del suo drink. «Ed io ti risponderei di disegnartelo da te». «Ed io ti romperei gli specchietti della macchina». Uno a zero per Elisa.

3.

Lei

Raggiunsi casa a piedi cercando un motivo per non buttarmi sotto il primo autobus di linea che ava. Non era vicina, ma nella mia mente mi ripetevo che, camminando, sarei dimagrita. Autolesionista. Quando rientrai mi facevano male i polpacci. Con ogni probabilità, le Converse non sono fatte per eggiate chilometriche. Dentro non c’era nessuno. Evidentemente le altre erano ancora alla boutique super contente per la mia assenza. Sofia lo era di sicuro. Non so bene perché con lei ci fosse questo rapporto burrascoso, ma era stato così fin da subito. La prima volta che venne a casa mia, io stavo giocando con le mie adorate Barbie. Nemmeno a dirlo, da grande avrei voluto essere come quel giocattolo: biondissima, secchissima e famosissima. Sì, come no. Lei si avvicinò e mi chiese cosa stessi facendo, facendomi notare che stavo giocando con una cosa stupida come una bambola, alla mia età. Avevo sette anni. Mi strappò dalle mani la Barbie che io avevo chiamato Tatiana, nome per il quale all’epoca avevo una fissa, e dopo averla guardata con aria disgustata, con noncuranza la lanciò via. La mia Tatiana, schiantandosi a terra, si lesionò un braccio che mia madre aggiustò con l’attack, con il risultato che, per vestirla, dovevo ingaggiare una vera e propria lotta greco-romana, visto che aveva un arto paralizzato. Mi misi a singhiozzare, ma non tanto per la Barbie, quanto perché mia sorella aveva assistito alla scena e non aveva detto niente. Aveva preferito non perdere quell’amicizia e lasciar correre, piuttosto che difendere la sua povera sorellina. Pensai che le cose non erano cambiate! Bene, se non sono gradita non andrò più con loro! Sai che perdita.

Prelevai dalla credenza in cucina una busta confezione famiglia di patatine e mi misi a guardare la tv. Non potevo credere che quella bestia di mia sorella mi avesse sputtanato in maniera così plateale e perfida davanti a tutti. Ero indignata e offesa. Ma come aveva potuto? Era stata cattiva, esattamente come quella volta con la Barbie, quando non mi difese nel momento del bisogno. Iniziarono a scendermi lacrimoni grandi come meloni, e non feci nulla per fermarli. Tanto non avevo nemmeno il mascara, quindi non rischiavo l’effetto clown depressoide. Mentre tentavo di stordirmi guardando una replica della replica di A Simple Life, con la Hilton e la Richie in un campo d’erba pieno di mucche con addosso una salopette mimetica che sarà costata più di casa mia, mi squillò il cellulare. Sicura che fosse mia madre preoccupata per la mia incolumità, fui tentata di mangiare anche il telefonino insieme alle patatine. Poi vidi che era mia cugina Caterina. «Non posso rispondere, sto cercando di morire» le dissi. «Oggi sei allegra» constatò. Non risposi, mangiando un’altra tonnellata di patatine. «Cosa stai ingurgitando?» mi chiese lei accusatoria. «Niente» risposi con la coda di paglia. Non so quanto fui convincente con la bocca piena, ma almeno non mi vide sputazzare briciole dappertutto. «Bugiarda!» mi disse. «La finisci di ingozzarti? Guarda che non ti fa bene!» Ingoiai a fatica le patatine. «E chi se ne frega. Tanto non ho nessuno per cui essere carina. La cosa peggiore che mi può capitare è morire soffocata». «Allora stai mangiando schifezze!» «E se scomparissi adesso, c’è di buono che mia madre potrebbe chiedere la beatificazione, visto che grazie a Laura adesso sa che morirei ancora vergine come la Madonna».

Caterina trattenne il fiato. «Non ci credo!» «Eh già». «Ma cosa è successo?» Le raccontai tutto. Ok, magari omettendo qualche particolare, tipo la battuta che aveva fatto incavolare mia sorella! «Oh cielo» sospirò Caterina. «Vabbè, devi capirla. Organizzare un matrimonio non è facile». Mi alzai come se fossi stata morsa da una vipera. «Cosa?» urlai alla cornetta. «Ma che dici? Scusa, capisco lo stress, ma si poteva dare una regolata!» feci valere le mie argomentazioni. Caterina mi diede ragione, ma credo l’abbia fatto solo per amor di pace. «Non so se è il momento adatto per ricordarti che domani sera c’è la festa di addio al nubilato di Laura». Silenzio. «E, insomma non so se lo ricordavi, ecco». «Me lo ricordavo» la interruppi. «Ma non vengo». «Oh, dai! Avete solo discusso, e…» «Non è per questo» la fermai di nuovo. La verità era che tutte le amiche di mia sorella erano brutalmente perfette e bellissime. E io no. Sarei stata come un pesce fuor d’acqua, cercando di mimetizzarmi con la tappezzeria del locale, pregando affinché tutto finisse presto. Non sarei stata a mio agio, e avrei finito per rimanere in disparte, in completa solitudine per tutta la sera. Era già successo, e avevo giurato a me stessa che non si sarebbe più ripetuto.

«Allora che ragione c’è per non venire?» mi chiese scettica Caterina. «Ehm…» Mi vergognavo a dirle le vere motivazioni. Caterina non mi avrebbe mai giudicato, non l’aveva mai fatto, anzi, se gliele avessi dette probabilmente mi avrebbe tirato su di morale. Ma non volevo la pietà di nessuno. «Allora?» insistette. Io chiusi gli occhi cercando di pensare in fretta a una scusa, ma non mi venne niente. «Non lo sai nemmeno tu. Quindi non voglio sentire ragioni. Vengo da te domani sera alle nove, così ci facciamo belle e aspettiamo che arrivino le amiche di tua sorella per uscire». Non avevo modo di defilarmi, così ci salutammo e riattaccai sbuffando. Quando mia madre e mia sorella tornarono a casa, io mi ero chiusa in camera già da un pezzo. Non volevo vederle. Sentii mia sorella che diceva a mio padre di aver trovato il vestito perfetto. Pregai che non fosse quello che stava provando! Anzi sì, spero sia quello! E spero abbia aggiunto tutti i gadgets che stava provando! Ero maligna, lo so. Ma tentate di comprendermi! Ero fuori di me. Quella sera andai a dormire senza cena. Non che avessi fame dopo le patatine, comunque. Il giorno dopo lo ai tentando di sfuggire a quanti più familiari possibili. Alle otto di sera entrò in camera mia sorella. «Scusa per ieri. Non ho detto delle belle cose». No, infatti. Pensai che probabilmente anche io ero stata un po’ fuori luogo. Forse. Ok, sicuramente avevo anche io la mia parte di colpa. Contenti? «Nemmeno io sono stata un bignè» le dissi. Lei mi sorrise.

«È tutto ok». «No, non lo è» aggiunsi, cercando di pilotare la conversazione sul vestito da sposa così da poter fare una delle mie famose battute e fare definitivamente pace. Lei mi guardò con una punta di irritazione. Credeva che volessi litigare ancora? Mi affrettai ad aggiungere: «Dimmi che non hai comprato il vestito che ti stavi provando!» Laura scoppiò a ridere. «No» ammise. «Quando te ne sei andata, mi sono resa conto che era un po’ troppo appariscente». Giusto un filino, sì. «Hai fatto bene». Lei si alzò. «Vai a fare una doccia. Tra un po’ arrivano Caterina e le altre e si va a festeggiare!» fece una giravolta. Non l’avrei ammesso nemmeno se mi avessero spento sigari cubani sui polpastrelli, ma avrei tanto voluto essere un po’ come mia sorella. Non tanto fisicamente, ma almeno essere un po’ più aperta, solare. Avrei fatto amicizia più facilmente, e avrei avuto una qualche vita sociale. Lei aveva sempre stretto amicizie con estrema facilità, e risultava simpaticissima già dopo poche parole. Io, per dire ciao a qualcuno, dovevo prima farmi coraggio con le tecniche di respirazione diaframmatica, e generalmente la prima reazione che suscitavo era fastidio. Una tragedia. Alle nove in punto arrivò Caterina con una valigia che mi avrebbe potuto tranquillamente contenere. E ho detto tutto. «Ci tieni un cadavere dentro?» le chiesi. «No, questo è il mio beauty-case» disse riprendendosi. Trascinare quel valigione dalla sua auto in camera mia non doveva essere stato facile. La guardai stralunata. La mia idea di beauty-case era una pochette con

dentro il minimo indispensabile. Non che ne avessi una, ovviamente, ma quel vagone con il manico era decisamente troppo! «Allora, mettiamoci all’opera» disse mia cugina. «Cos’hai in mente esattamente?» ero un tantino allarmata. «Oh, fidati. Quando avrò finito non ti riconoscerai! Sarai bellissima!» mi disse raggiante. «Un modo sottile per dire che adesso sono un cesso». Caterina sbiancò. «Ma cosa dici, scema!» tossì. «Non volevo dire questo. Ma così conciata non puoi andare a festeggiare da nessuna parte, no?» Mi guardai, e mi resi conto che con la tuta più lacera che possedevo e quelle pantofolone alla Bridget Jones aveva tristemente ragione. Mi fece sedere su uno sgabello e si tirò su le maniche della sua perfetta camicetta in tinta con praticamente tutto quello che portava, dagli orecchini alle scarpe. Ma come diavolo fa? Caterina iniziò stirandomi i capelli con la sua piastra ultramoderna, legandoli in maniera decente, poi mi ò un delicato velo di trucco, steso in maniera sapiente, che mi illuminò il viso. Questo lo riconobbi anche da me. Poi mi mise lo smalto su quella sottilissima linea d’unghia che avevo ancora, mi fece le sopracciglia e la ceretta. Alle undici e mezza erano arrivate le amiche di mia sorella, ma stavano ancora aspettando me. Caterina mi costrinse a mettere un abitino che aveva scippato dall’armadio di mia zia che scopriva il 70% delle tette e arrivava a metà coscia, mettendo in risalto le mia ginocchia cicciottose e i miei polpacci da centrocampista. Infine mi fece infilare un paio di tacchi discretamente alti, ma ragionevolmente portabili. Per lo meno secondo i suoi standard. Tanto io non ci sapevo camminare comunque, quindi la differenza non l’avrei notata. «Et voilà!» Caterina mi fece voltare verso lo specchio, e io potei ammirarmi. Sembravo un’altra persona. Però il mio pensiero si rafforzò: fare quell’opera di

restauro tutti i giorni era impensabile! A parte il fatto che ci avevamo messo due ore e mezza, ma poi per chi valeva la pena fare tutto quel teatrino? «Allora? Ce la fate?» Laura irruppe nella mia camera piuttosto indispettita, e rimase a guardarmi. «Cavolo. Stai benissimo» mi disse ammirata. «Grazie. Ma con questo vestito sembro un roast-beef con i tacchi» dissi. «Ma che dici! Sei bellissima» mi sculacciò Caterina. «Ha ragione. Sembri una ragazza» rise Laura. Evitai di proferire parola. Mia cugina mi porse una borsetta in tinta con le scarpe, coperta di paillettes. «Questa è mia. Quindi vedi di trattarla bene» mi raccomandò. Uscimmo da camera mia. Quando entrai in cucina per salutare i miei, mia madre e mio padre non credevano ai loro occhi. Non penso mi avessero mai vista sistemata così bene. E probabilmente mia madre temeva che conciata così avrei perso la mia rispettabilità. Sarebbe anche ora. Comunque notai che le amiche di mia sorella erano diecimila volte più strafighe di me. E avevo l’atroce sensazione che per essere così, ci avessero messo molto meno di due ore e mezzo. Sofia mi guardava come se avesse la nausea, e questo scatenò in me una scintilla di ribellione. Adesso basta! Le avrei fatto vedere che anche io sapevo essere femminile! Mi girai e con o convinto mi accinsi a uscire, il tacco cedette e io mi schiantai a terra creando una nuova catena montuosa. «Ti sei fatta male?» mi raccolse mio padre. «No, sto bene». A Sofia era venuto l’asma per il ridere.

Brutta beep! Schifosa, razza di beep, beep, beep! Uscimmo con tre macchine, ognuna super affollata. Io ebbi l’onore di salire su quella della sposa, dove però a guidare era appunto Sofia. Che ansia. Ci dirigemmo verso uno dei locali più frequentati ed esclusivi della zona. «Non staremo mica andando al Carrà, vero?» chiesi apprensiva. «Ma certo!» disse Sofia allegra. Aveva il tono di una che sapeva perfettamente quanto mi sarei sentita a disagio in un posto come quello, e l’avesse scelto apposta. «Perché» continuò. «C’è qualche problema?» chiese sarcastica. «No, è che mi chiedevo se con un rossetto viola-morto come il tuo ti lasceranno entrare». Piccola pausa di assimilazione. Poi la macchina esplose in una risata che, ne ero sicura, si sarebbe sentita fino alle Hawaii. «Questa la devo postare su tweeter!» fece giuliva un’amica di mia sorella. Fu il mio momento di gloria. Fatto bene, stronza! Mi sentii incredibilmente forte. Quando scendemmo, non camminai fino all’interno del locale: sfilai come se fossi su una erella! Entrai in quel mondo sfavillante fatto di luci, palle da discoteca e gente perfetta. Gli uomini erano vestiti con camicie aperte che lasciavano intravedere i peli sul petto, e pantaloni strettissimi con scarpe eleganti, le donne portavano mini abitini che io avrei potuto usare solo come cinte. Le mie certezze crollarono. Laura e le sue amiche mi sorarono urlando e strepitando come galline, e presero posto al tavolo che avevano prenotato, su un palchetto rialzato con vista sulla pista da ballo.

«Forza, buttiamoci nella mischia!» mi spronò Caterina. Io rimasi lì. «No, forse è meglio che mi siedo e…» «Assolutamente no! Angela, non iniziare! Stasera sei bellissima e, cascasse il mondo, ti troveremo un fidanzato!» decise mia cugina. Io la guardai scettica. Magari quella sera avrei potuto rimorchiare qualcuno, ma quando scoccava la mezzanotte e io mi ritrasformavo in zucca, come la mettevamo? Senza contare che lì dentro non c’era uno che si potesse definire “uomo”. Maschio sì, ma “uomo”? Erano tutti in super tiro, ma diciamoci la verità, avrei mai avuto il coraggio di presentare qualcuno di quelli ai miei? Probabilmente avevano delle macchine che io mi sarei potuta permettere solo se avessi rapinato una banca, un guardaroba con vestiti presi direttamente da Vogue Uomo, e il portafogli più gonfio dei miei piedi dopo mezz’ora di tacchi. Suvvia, lasciamo stare. «Allora, già pronta per tornare a casa?» mi sussurrò Sofia all’orecchio. Odiosa piccola stupida testa di ca… «Come?» finsi di non capire. Dovevo prendere tempo. «Immagino come devi sentirti in un posto così alla moda» sorrise perfida. Alla moda, qui? Non vedevo uno, e dico uno, vestito in maniera decente! Se quello voleva dire essere alla moda, io stavo benissimo con le mie felpe taglia XXXL sformate e i miei jeans strappati. Oddio come odiavo quella stupida smorfiosa! Lo stava facendo apposta, voleva rovinarmi la serata e fare in modo che io mi divertissi il meno possibile. Bè, non sarebbe successo! Una nuova Angela era entrata in quella discoteca. Un’Angela che non aveva paura di niente e nessuno, tanto meno di un rossetto di un viola così brutto.

Ma dove diavolo l’avrà trovato, poi? Le avrei fatto vedere chi ero. L’avrei scioccata. Avrei scioccato tutte! Avrei fatto qualcosa che avrebbe impennato le quotazioni del mio ego, e mi avrebbe fatta apparire come una loro pari, e non una sottospecie femmina di una qualche specie animale. Improvvisamente decisi che quella sera avrei fatto sesso per la prima volta. Non restava che scegliere il fortunato. Ma chi? Il solo pensiero di concedermi a qualcuno di quegli elementi mi faceva rabbrividire. Coraggio, Angela. Non possiamo aspettarci Colin Farrell! Dobbiamo abbassare lo standard. E poi eccolo lì: alto, capelli castani perfetti, begli occhi luminosi. Un po’ troppo aggraziato, ma non si può avere tutto dalla vita, no? E poi aveva un paio di jeans molto belli, ma soprattutto al contrario degli altri idioti lì dentro, portava la camicia fuori dai pantaloni in maniera incurante. Ed ecco a voi il prescelto!

4.

Lui

Quella sera dovevamo festeggiare! Anche se, a dire il vero, a ventidue anni io ed Elisa trovavamo un po’ troppe scuse per festeggiare. Però eravamo, e siamo, dei bravi ragazzi. Non fumavamo, non bevevamo, ok, Elisa un po’ sì, ma non si ubriacava mai! Io invece ero astemio. Insomma, anche quella sera la nostra meta era il Carrà, una discoteca gestita da due gay, ma frequentata perlopiù da eterosessuali. Solo il venerdì sera c’era uno spettacolo di drag queen, e il locale si trasformava in un tempio dell’omosessualità con le luci che si facevano più belle, la gente più interessante e gli spettacoli straordinari! Io ed Elisa ci andavamo sempre. Eravamo, com’è che si dice? Degli habitué. Inutile dire che avevo una fittissima rete di conoscenze. Quando non c’erano gli spettacoli gay, il locale diventava un covo di tamarri, ma io ed Elisa avevamo comunque giurato fedeltà eterna al Carrà, che portava il nome di uno dei nostri idoli in assoluto. Quindi quella sera misi i jeans che mi ero cucito da poco e, nemmeno a dirlo, erano bellissimi, una camicia che mi rifiutai di infilare dentro i pantaloni e mi sistemai i capelli meglio che potevo, rimanendo davanti allo specchio mezz’ora più del solito. Alla fine mi guardai soddisfatto. ai a prendere Elisa, che se anche aveva il permesso di prendere l’auto dei genitori, preferiva che le fi da taxi, e partimmo. «Eros, tesoro» mi salutò il proprietario con il solito accento napoletano piuttosto marcato. Elisa era convinta che avesse un debole per me, ma brutto com’era, poverino, non volevo nemmeno prendere in considerazione l’idea. «Ciao Carmelo» ricambiai il saluto. Lui mi fece l’occhiolino e non mi fece pagare il biglietto d’ingresso. A Elisa invece sì.

«Ma che palle stratosferiche» si lamentò. Io risi. «Dai Eli. Lascia stare. Ti ridò la metà e siamo pari» le proposi. Lei alzò gli occhi al cielo. «Ok, ti pago da bere?» Il suo sguardo si ammorbidì. Bingo! Una volta dentro prendemmo un drink per lei e un analcolico per me, poi segnammo il territorio salutando amici e conoscenti, fino a prendere posto in un bel tavolo in una zona esposta al pubblico. Così tutti ci potevano vedere e venire a salutarci! Lo so che forse vi sto dando l’impressione di essere un tantino superficiale e un po’ egocentrico. Ma avanti, a ventidue anni non si è proprio maturi al 100%, e ovviamente ci piaceva metterci in mostra! Senza contare che Elisa era una drag queen mancata. Dopo un’ora il nostro tavolo era circondato da amici che si erano uniti a noi, e tutti erano al corrente della mia promozione. Elisa invece fu stranamente discreta, evitando di sventolare la sua nuova storia con Alessandro ai quattro venti. Mi stavano offrendo il diciottesimo analcolico, avevo la vescica piena come la diga di Ridracoli, quando Gigi, un odioso essere bassissimo e scheletrico che si ostinava a rasare i capelli a zero e a sfoltire le sopracciglia come quelle di una donna, mi mise un braccio intorno alle spalle. «Allora, stasera come la festeggiamo questa promozione?» ammiccò. In nessun modo se il festeggiamento implica un noi. «Sto già festeggiando, caro» gli dissi cordiale evitando di cogliere l’allusione. «Sì, ma dopo?» alzò le sopracciglia. Signore aiuto! Fu Elisa a correre in mio soccorso.

«Dopo verrà a letto con me». Tutti scoppiarono a ridere. Anche Gigi che però tolse il braccio dalle mie spalle con un’espressione irritata. Non sopportava Elisa. Io e Gigi avevamo la stessa età. Eravamo anche andati a scuola insieme, ma non ci eravamo mai frequentati. In nessun senso. Io ero piuttosto discreto, nel senso che se anche non mi preoccupavo di dare a vedere che ero gay, di certo non mettevo inserzioni sulla Gazzetta dello sport. Gigi era il contrario: non perdeva occasione di mostrarsi, e questo fece sì che a scuola venisse preso di mira da un considerevole numero di bulli, e si fece un numero allarmante di nemici, o gente che non lo poteva soffrire. Gigi era affetto da vittimismo spastico, era convinto che il mondo ce l’avesse con lui perché era omosessuale. Del tipo che se una vecchietta non lo faceva are davanti alla cassa del supermercato nonostante avesse solo un pacchetto di caramelle, per lui era segno che l’anziana era omofobica. Non ci voleva un genio per capire che Gigi aveva un debole per me, ma io avevo sempre fatto finta di niente. Per carità, nemmeno a pensarci! «Però a vedervi da fuori sembrate davvero una coppia! Siete più affiatati di Brad e Angelina» fece un nostro amico. Io ed Elisa ci facemmo gli occhi dolci, stringendoci un po’ di più. «Già vi vedo insieme, in una grande casa tutta mobili Rococò, pizzi e merletti, a litigare come le vecchie coppie sposate da una vita su chi ha lasciato in giro la dentiera dell’altro» disse un’altra. Io mi misi a ridere. Erano tutti convinti che tra me ed Elisa ci fosse più che una semplice amicizia. Forse era davvero così, ma il nostro era amore platonico. Un po’ come quello tra Maurizio Costanzo e la De Filippi. Anche se segretamente i miei speravano che rinsavissi e chiedessi la mano della mia amica. «Avete mai fatto sesso insieme?» chiese Gigi. Ecco, un’altra delle sue tipiche uscite insensate e inopportune. Elisa gli scoccò un’occhiata truce. Io non risposi. «L’unica cosa che Eros ed Elisa possono fare insieme, è pettinare le bambole, tesoro» intervenne simpaticamente Andrea.

«Ma io direi anche che non sono cazzi vostri, eh?» Elisa alzò un po’ la voce, e tutti smisero di fare battute idiote. Stranamente Elisa incuteva un certo timore. Tutti tranne Gigi. «Perché ti scaldi tanto? Forse nascondete qualcosa?» continuò. «Sì, nascondo un vaffanculo che ti sto per cacciare dal culo». Che classe. «Elisa, dai». Lei mi rivolse un’occhiata alla tu-non-ti-immischiare! Buttai giù un sorso del mio diciottesimo analcolico. «Vabbè, non puoi semplicemente rispondere?» insistette Gigi. A quel punto persi la pazienza. «No Gigi, non siamo mai andati a letto insieme. Ma quello che più mi turba è questo tuo morboso voler sapere a tutti i costi quello che fanno gli altri. Non potresti farti una vita tua, in modo da non rompere più i coglioni?» I nostri commensali batterono le mani. Eccheccazzo! Gigi si alzò borbottando istericamente che aveva qualcuno da salutare. Riprendemmo a divertirci scavalcando quanto appena successo. «Perché non andiamo a fare un giro di pista?» chiese Elisa ancora un tantino irritata. «Andiamo» la presi per mano e ci avvicinammo alla folla che si agitava a ritmo di musica house. Alcuni, soprattutto i ragazzi, si esibivano in i tristemente imbarazzanti. Invece io ed Elisa eravamo due assi della danza. Ci infilammo in mezzo agli altri mentre il DJ scambiava una parola con una ragazza carina, ma che aveva un orrendo rossetto viola scuro.

«Ma quella dove l’ha trovato quel rossetto?» urlai nell’orecchio di Elisa nel tentativo di farmi sentire nonostante la musica alta. Lei si mise a ridere. «E adesso» urlò il DJ, «facciamo un grandissimo applauso a Laura, che è qui stasera per il suo addio al nubilato!» Il locale esplose festeggiando quella povera disgraziata che si sarebbe sposata. Stavamo muovendo i nostri collaudatissimi i, quando Elisa si fermò e tirò fuori il cellulare dalla tasca. Eccitata mi mostrò il display: Alessandro. Mi fece cenno che usciva a rispondere, io annuii e rimasi lì come un ebete a ballare da solo. Mi guardai intorno alla ricerca di qualcuno di interessante da rimorchiare, ma erano tutti accoppiati, a parte un gruppo di ragazze che stavano saltando lì vicino. Una portava un assurdo diadema con una serie di peni rivestiti di diamanti, con un velo da sposa corto e una fascia tipo miss Italia con scritto “Finalmente miss-poso!”. Doveva essere la futura maritata. Sì, era lei: vicino c’era l’amica con quello stupido rossetto che aveva parlato con il DJ. E tra le altre c’era anche una ragazza cicciottella che mi guardava con aria ammiccante. Oddio, e mo’ questa che vuole? La ragazza in questione aveva una strana espressione felina negli occhi. Anche se ero distratto dalle tette più grandi che avessi mai visto per potermi concentrare a pieno sull’espressione. Ballando si avvicinò, iniziando a volteggiarmi goffamente attorno. Ero agghiacciato. A parte il fatto che mai nessuna ragazza sana di mente mi aveva ballato intorno, avendo sempre accuratamente evitato che accadesse, e perché per credere che fossi etero bisognava essere dei completi imbecilli, senza contare che questa sembrava un trattore con la gonna e i tacchi! Un peccato, perché guardandola bene notai che aveva un bel viso. Aveva dei begli occhi verdi, ed era truccata bene. Solo che l’umidità del locale le aveva arruffato un po’ i capelli tipo quelli delle sorelle gemelle di Marge Simpson, e sembrava che non avesse mai visto un paio di tacchi in vita sua. Non sembrava neppure totalmente sobria. Però aveva l’aria simpatica. Magari voleva solo divertirsi un po’, ed ero io che stavo esagerando. Le sorrisi. Errore. Mi si fece ancora più vicino e prese a ballare con me. Non sapendo cosa fare, stetti al gioco, tentando di eclissarmi. Altro errore. Mi afferrò per una mano trascinandomi fuori dalla pista. Aveva una presa fortissima, e io ero troppo terrorizzato per oppormi. Quando fummo ragionevolmente lontani dal volume

impossibile della musica, lei mi fronteggiò. «Io e te faremo sesso. E non fare il santarello, tanto lo so che voi uomini fareste sesso anche con una vanga!» «Ma…» «Niente ma. Preferisci il bagno o la macchina?» Io avevo gli occhi sbarrati dal panico. Non mi era mai successa una cosa simile prima! Quella era una pazza isterica, e magari era pure armata! Già avevo seri dubbi che tette di quelle dimensioni fossero legalmente trasportabili. «Senti, io…» «Allora?» Santa Madonna di Vogue, aiutami tu! Ma dove cazzo era Elisa quando serviva? Evidentemente i miei silenzi furono presi per consensi, e la ragazza mi trascinò verso il bagno. Io mi aggrappai come un disperato a una colonna, e lei stramazzò al suolo. Mortificato, la aiutai a rialzarsi, e la affrontai a mia volta. «Tesoro, io sono gay!» Lei mi guardò come se fossi un’ortensia che cammina, poi agghiacciato, vidi che le si riempivano gli occhi di lacrime. «No, no, no, no! Ti prego, non piangere» tentai. «Vieni, andiamo fuori». La presi e la trascinai all’aperto, dove sedette goffamente su un muretto. Potei quasi giurare di aver visto parte del cemento cedere! «Sei gay?» mi chiese scioccata, come se aspettasse che mi rimangiassi le parole. Feci sì con la testa. La ragazza si diede una manata in fronte. «Ma può essere? Cioè, al mondo ci sono più uomini che granelli di polvere. E tutti sarebbero pronti ad andare a letto con qualunque donna nell’istante stesso in cui gli viene proposto. E io? Niente! Il primo che becco batte bandiera corsara!»

disse lei con autocommiserazione. Io rimasi zitto. «Ti ho visto appena sei entrato, così pulito». Pulito? «E mi sono detta che la grazia che avevi era perché dovevi essere un tipo gentile. Ok, ti ho visto con quella ragazza, ma mi sono convinta che fosse tua sorella. O tua cugina. E se anche era la tua ragazza, chi se ne frega! Tanto si sa come siete voi uomini, fedeli solo alla vostra squadra del cuore. Santo cielo! E invece? Becco l’unico gay del locale» si coprì la faccia. «Ci rinuncio! Non farò mai sesso e morirò vergine. Va bene così? Almeno mia madre e la commessa della boutique saranno d’accordo» urlò al cielo. Io valutai l’ipotesi di chiamare la vigilanza. Ma poi pensai che quella povera ragazza non era pazza, non del tutto almeno, ma solo triste e scoraggiata. «Dai, non buttarti giù. Vedrai che accadrà presto anche a te. E poi guarda che non ero l’unico gay del locale, eh» cercai di consolarla. «Oh, per favore. Non rifilarmi queste idiozie! Tu sei gay! Gay! Cioè biologicamente programmato per fare sesso e altre cose porche» disse con tono ovvio. Io annuii. «Mi dici cos’ho che non va? A parte il fatto che conciata così sono imbarazzante come Stefania di Monaco che tenta di essere femminile». Risi. «Invece stai bene». Lei mi guardò. «Non ti vesti mai così, vero?» «Macché. Questo vestito è di mia zia» ammise lei.

Risi di nuovo. «Scusa, non volevo mancarti di rispetto. Però sul serio, anche se non sono un grande esperto di rapporti eterosessuali, credo che agli uomini piacciano le ragazze sicure di sé, e a proprio agio con quello che indossano». «Non dire cazzate, agli uomini piacciono tutte le donne abbastanza disponibili da sbattergliela in faccia!» Troppo vero per tentare di ribattere. «Io non sono così, ok? Non ne sono capace. Io a casa non ho nemmeno un trousse per il trucco! Sono più tipa da felpa e jeans. E per una sera che provo a essere come quelle sciacquette lì dentro? La sbatto in faccia al ragazzo sbagliato». La guardai facendo spallucce. «Sicuro di non volerti fare un giro?» «Non saprei nemmeno da che parte iniziare, tesoro» le dissi sincero. «Non sei mai stato con una ragazza?» Io scossi la testa. «No. Le femminucce non sono mai state il mio forte». «Allora siamo in due a essere ancora vergini» si alzò. «Questo mi ridà un po’ di coraggio». Cosa ha detto? Questa sfigata aveva quanto, venti? Venticinque anni? Magari anche trenta. E ancora non aveva mai fatto sesso con nessuno in vita sua, e veniva a dire a me che ero casto e incorrotto? Non lo so, è come se Corona denunciasse il papa per tentata estorsione. ‘Sta stronza! «No, aspetta» esclamai irritato.

Lei mi guardò forse con la speranza che avessi cambiato idea. «Scusami tanto tesoro, non che ti debba una qualche spiegazione, ma io vergine? Proprio no». Lei mi guardò scettica, incrociando le braccia. «Bè, adesso scusa se sono indelicata, ma per perdere la verginità il tuo pistolino lo devi infilare dentro una di queste» si indicò il basso ventre «E non dove pare a te!» Io la guardai allibito. «Dove mi? Ma… come?» boccheggiai. «Non ti scandalizzare, ma è così» disse lei, come se mi avesse appena spiegato che non esiste la fatina dei denti. «Scusa, ma abbiamo un punto di vista totalmente diverso, direi» ribadii un tantino incazzato. «No, il punto di vista è sempre lo stesso. Sei tu che vuoi illuderti» mi sorrise. Io ero furioso. Ma come si permette? «Ok, come ti pare» risi. «Ma mi capirai se decido di non dare retta a una che vuole fare sesso per la prima volta, e va in discoteca a rimorchiare per poi offrirsi in un bagno o in una macchina. Ma quant’è patetico?» Lei mi guardò assassina. «Patetica io? E allora tu che vuoi fare il pornostar e poi non sai nemmeno come si fa sesso con una donna?» si arrampicò sugli specchi. Io la guardai allibito. «Per forza non so come si fa con una donna! Sono gay!» «Appunto, quello che fate voi non è sesso, ma solo una pallida imitazione!»

«Ma cosa ne sai tu? Come puoi giudicare cos’è o com’è fatto se non sai nemmeno di cosa stai parlando? Non lo so, è come se volessi spiegarmi che sapore ha la porchetta non avendola mai mangiata!» «Oh, ma per favore». Rimanemmo lì a guardarci in cagnesco per un po’, finché lei non decise di averne abbastanza. Come se non avesse fatto tutto da sola. «Sai che ti dico? Ma chi se ne frega!» e girò sui tacchi. «Ecco, brava!» le urlai dietro. Lei si voltò un attimo furente, poi decise che non era ancora arrivato il momento di finirla, e si avvicinò minacciosa. Oddio, adesso mi picchia!

5.

Lei

Il cuore batteva all’impazzata, tanto ero nervosa. Cioè, so che non ne avevo motivo: quel poveretto ce l’avevo trascinato io in quella situazione, dopotutto! Ma è come il marito colto a letto con l’amante che, nonostante l’evidenza, nega di essere in compagnia di un’altra donna. Volevo negare a me stessa che quel bel ragazzo avesse ragione e, inconsciamente, dicendogli quelle cose, volevo che si sentisse come mi sentivo io. Mi avvicinai minacciosa, e devo dire che lui ebbe il coraggio di mantenere un’espressione abbastanza sicura. Vacillò solo un pochino. «Io sarò anche patetica, è vero. Probabilmente avrei dovuto aspettare che qualcuno si innamorasse di me alla follia come è successo a Bridget Jones, ma cosa ti devo dire? La vita vera non è una favola, e non c’è Sharon Maguire che mi dirige. È inutile aspettare che arrivi il principe azzurro, perché al giorno d’oggi i principi sono diventati quasi tutti gay, senza offesa, attori o modelli, e di certo non filano una come me! Quindi sai che ti dico? A me sta benissimo così: ho cercato di prendermi quello che voglio con un ragazzo che mi sembrava carino e gentile, e non mi vergogno nemmeno un po’ di quello che ho fatto». Con grandissimo stile tentai di tornare dentro. Ma per l’ennesima volta il tacco cedette, e caddi. Quella sera l’avevo ata più per terra che in piedi. Epperlamiseria! Grazie a Dio c’era il muretto dove mi ero seduta poco prima temendo che il cemento cedesse, che se da una parte mi salvò dal perdere due denti, dall’altra mi sbucciò un polpaccio che iniziò a sanguinare. «Oddio, ti sei fatta male?» accorse il mio candidato. «No, ormai ci sono abituata. ‘Sti cazzo di tacchi» li tolsi.

Che liberazione! Che imbarazzo, però. Cadere è una cosa da bambini non da ventenne sicura di sé e padrona delle sue scelte. «Dai, vieni che disinfettiamo la ferita» lui mi prese per un braccio. «Dove mi porti?» «Alla mia macchina» sorrise cordiale. «Guidi un’ambulanza?» chiesi guardandolo. «No, ma ho un kit del pronto soccorso nel cofano. Non si sa mai». «Hai un principio di ipocondria?» «No, ho un’amica che tiene più alla salute fisica che alla madre» mi disse. Mi guidò fino ai parcheggi che a quell’ora erano completamente deserti. Erano tutti dentro a divertirsi. Stranamente non avevo paura di stare da sola con un completo sconosciuto che mi conduceva verso una zona buia e desolata. Forse perché aveva degli occhi così dolci, forse perché era gay. Era una bella sera con il cielo limpido e un sacco di stelle luminose. Non faceva né caldo né freddo. Insomma, si stava bene. «Eccoci qui» mi disse. Azionò l’apertura centralizzata dell’auto. Mi fece sedere galantemente sui sedili posteriori e aprì il kit del pronto soccorso. Cavolo, com’è ben attrezzato! C’era di tutto dentro quella cassetta: acqua ossigenata, garze, ovatta, cerotti, alcool. Alcool? Ma si può portare in giro così? «Adesso stai buona» mi avvertì parandosi di fronte a me.

Forse temeva che, se mi avesse bruciato, gli avrei assestato un calcio da terzino destro con quelle mie belle gambe da calciatore che lo avrebbe mandato dritto dritto a Potchefstroom a pascolare le pecore! Annuii per rassicurarlo. Con un batuffolo d’ovatta imbevuto d’acqua ossigenata iniziò a pulirmi la ferita che smise quasi subito di sanguinare. Io ero sconsolata. Ma cosa deve fare una ragazza per andare a letto con qualcuno? Davvero, tutto mi sarei aspettata, tranne che nel duemila fosse ancora così complicato, santo cielo. Capisco che sarebbe stato difficile se avessi voluto qualcuno che prima mi portasse a cena, mi offrisse tutto quello che trangugiavo, mi regalasse un mazzo di rose per poi andare nella sua stupenda villa al mare dove, tra mille candele e incensi profumati, mi prendesse sussurrandomi dolci parole d’amore. Ma non pretendevo tutto questo! E il fatto che mi trovassi con un gay che mi puliva il polpaccio dal sangue colato dalla ferita ne era una prova lampante. «Va meglio?» mi chiese. «Sì, grazie. Ma prima di giocare al dottore e alla paziente non dovresti offrirmi una cena?» Lui sorrise. Un attimo dopo buttò il batuffolo d’ovatta e mi mise un cerotto sul graffio che si rivelò essere largo non più di un centimetro. Doppio imbarazzo. Lui sedette vicino a me. «Allora. Com’è che vuoi per forza fare sesso stasera? Perché non puoi aspettare? Ti hanno dato una settimana di vita?» mi chiese. «No. Ho solo voglia di crescere» gli dissi. «Va bene. Ma crescere non vuol dire che devi perdere la verginità, sai?» Odio quando la gente mi tratta da bambina. Lo so che ha ragione, ma voglio fare di testa mia. E se voglio farlo adesso che sono ati un po’ di anni da quella sera, figuriamoci all’epoca! «Senti, non voglio una paternale. Lasciamo stare, tanto ho già deciso» tentai di zittirlo. Lui alzò le braccia. «Come vuoi».

«Grazie per la comprensione». «Prego». Rimanemmo zitti per un po’. Temevo che il cofano si chiudesse da un momento all’altro, ma il ragazzo sembrava sereno, quindi decisi che potevo stare tranquilla. In lontananza sentivo il tipico tunz-tunz-tunz della musica house che già mi aveva scocciato. L’unica cosa che volevo era tornare a casa e rintronarmi con le repliche di Uomini e Donne! Ma di quelle con gli anziani! Volevo stordirmi e farmi male. E soprattutto volevo buttare nel fuoco quello stupido reggiseno che mi costringeva le tette in uno spazio inferiore al necessario. «Secondo te sono davvero ancora vergine?» mi chiese lui dopo un po’. Poverino, avevo fatto crollare le sue certezze! «Bè, adesso non so cosa dirti» ammisi. Naturalmente nutrivo le mie convinzioni. Sarò stata all’antica, ma per me se uno non è più vergine, vuol dire che ha fatto l’amore con una donna. Punto. Ma mi sembrava troppo brutale dirgli quello che pensavo davvero. Soprattutto dopo che lui era stato così carino con me. «Non hai mai voglia di sperimentare cose nuove?» gli chiesi incuriosita. Non avevo amici in generale, quindi figuriamoci se ne avevo di omosessuali! Bisogna pur procedere con una certa regolarità. «Mah, non saprei» fece spallucce. «Probabilmente un giorno accadrà, ma non credo che sarà così facile» mi disse guardando dall’altra parte. «Questo non so dirtelo nemmeno io. Sennò non sarei qui adesso». Lui sorrise. «Giusto». Stronzo! Non mi dovresti dare ragione.

«Comunque, se mai succederà, lei dev’essere bella, alta, magra, biondissima e con le tette grandi» aggiunse pensieroso. Nient’altro? Il conto in banca o il gruppo sanguigno non ti interessano? «Bè, io ne prendo una su cinque» dissi cercando di farlo sentire in colpa. E ci riuscii, perché diventò rosso. «Ma tu non c’entri niente. Insomma, voglio dire, io non saprei cosa fare. Lei dovrebbe essere gentile, paziente, esperta. Non dovrebbe volere un rapporto serio, anzi, non dovrebbe voler nessun rapporto! Non dovrebbe voler continuare a vedermi, né sentirmi. Insomma, hai capito! Inoltre mi dovrebbe dire esattamente cosa fare e come farlo, e non arrabbiarsi se non ci riusciamo. Cosa che mi sembra abbastanza probabile». Gay o etero gli uomini sanno dire sempre la cosa sbagliata al momento sbagliato. «Grazie mille. Insomma con me non si può fare niente perché sono una cozza bassa, grassa, mora che non ci sa mettere mano e si incazza facilmente, giusto?» Lui rimase a guardarmi a bocca aperta. «Guarda che non intendevo te». «Non direttamente». «E va bene, se dobbiamo ricominciare, allora tanto vale che smettiamo di parlare!» si innervosì lui alzando un po’ la voce. «Non ti arrabbiare con me! Io stavo solo conversando, sei tu che dici cose offensive!» «Ma non ti ho mai detto che sei una cessa!» «Cessa no, ma tutto il resto sì!» «Sei davvero immatura». «E tu sei davvero stronzo».

«Ma chi ti conosce? Figurati se mi faccio prendere a parolacce da una cretina come te!» «Cretina? Ma come ti permetti? Guarda che…» «Lascia stare. Davvero!» Rimanemmo con il fiatone a guardarci truci. Era incredibile come potessimo are dalle confessioni più intime all’aggressività più feroce. E nemmeno ci conoscevamo! Forse era davvero lui l’uomo della mia vita. Poi però mi dissi che forse un fidanzato non deve voler indossare i tuoi vestiti, mettersi i tuoi trucchi o giocare con le bambole di quando eri piccola, no? Certo, nel mio caso non correvamo questi pericoli, visto che i miei vestiti sembravano usciti dall’armadio di un muratore, non possedevo trucchi se non un vetusto burro cacao praticamente finito, e non avevo idea di dove fossero le bambole di quando ero piccola. Ma avevo mai avuto delle bambole, Tatiana a parte? Era più probabile che da piccola avessi giocato con i soldatini, o con le macchinine. Ero la tipica bambina che preferiva giocare al meccanico invece che alla principessa. «Mi spieghi da dove sei uscita? Non ti conosco e rompi le palle così. Ci credo che non trovi un ragazzo! Sei troppo scassa cazzi» mi accusò. «Non è vero! Non sono così! Sei tu che fai uscire il mio lato peggiore». «No, credimi, fai tutto da sola. Non mi conosci neppure». «Va bene!» gli urlai Avevo perso definitivamente le staffe. Lui indietreggiò. «La verità è che mi scoccia che hai ragione, ok? Sì, è vero: sono sola al mondo. Non ho amici tranne mia cugina che ogni tanto esce con me giusto per farmi sentire amata, non ho un fidanzato perché mi vesto e mi atteggio da profuga appena sbarcata e sono sexy quanto un Vigorsol! Che posso fare? Non sono come voi modelli bellissimi e perfettissimi, non so come essere femminile e quando sono di fronte a delle scarpe con il tacco vedo un’arma funesta piuttosto che un accessorio seducente. Va meglio? Evviva, evviva, evviva! Adesso che ti ho dato ragione, sei contento? Anzi no, ti dico di più per farti felice: tu non sei vergine! Sei una macchina trita piselli e se Rocco Siffredi ti incontrerà un giorno, capirà che di fronte a te è pudico come Orietta Berti! Oh, adesso tutti mi

batteranno le mani e vivranno per sempre felici e contenti! Tranne la scorfana tettona, che tanto non merita un accidente dalla vita!» Non mi accorsi che, mentre gli sputavo in faccia tanto rancore, le lacrime mi scendevano lungo le guance. E adesso che avevo due occhi come quelli di un panda gigante, potevo davvero ritenermi fortunata. Ed ecco cosa avrei fatto: sarei rientrata, avrei scippato le chiavi della macchina alla terribile Sofia e mi sarei chiusa dentro aspettando che le altre finissero di divertirsi, sintonizzandomi su Radio Donna, che a quell’ora probabilmente stava trasmettendo le canzoni d’amore più demoralizzanti dell’ultimo mezzo secolo. Invece il ragazzo, che prima era pietrificato di fronte alla mia reazione spropositata, si avvicinò e cosa fece? Con un fazzolettino immacolato mi asciugò i lacrimoni. Ma quant’è carino? Mi sentii una cacca. Anzi, una cacca di una cacca! «Va tutto bene» mi abbracciò lui. Io non riuscivo a calmarmi. Avevo il cuore che batteva così forte che probabilmente dentro il Carrà stavano ballando al suo ritmo. Il ragazzo si scostò, e mi accarezzò la fronte. Mi sentivo protetta e amata. Ecco perché con tutta la naturalezza di questo mondo lo baciai. Senza preoccuparmi di nulla: né del fatto che mi aveva ripetutamente detto che non provava attrazione né per me né per il genere femminile, né per il fatto che dopo l’umidità i miei capelli sembrassero un Buxus Sempervirens, né che dopo aver pianto dovevo avere una faccia sensuale come quella di un aratro rotativo motocoltivatore. Lo baciai e stop. Quello che non mi aspettavo era che lui, dopo qualche secondo di folle terrore, ricambiasse! Evvai, sono irresistibile! Incoraggiata infilai la lingua, e poco dopo lui mi stava avvinghiato come il formaggio sugli spaghetti al sugo! Dopo un po’ che andava avanti quel giochetto, lui si staccò e con una certa fretta chiuse il cofano, mi prese e mi sbatté sul sedile posteriore. Non scherzo: fu tale l’impeto, che diedi una craniata pazzesca sulla portiera dell’auto, e per un po’ vidi tante stelle colorate che mi volteggiavano intorno. Riprendemmo a baciarci, e lui osò mettermi le mani sul seno. Non so se lo fece perché gli andasse, se provava desiderio, o solo perché erano la parte di me alla quale arrivò con più facilità. Comunque sia, la cosa si stava facendo

interessante. Se riesco a convertire i gay, posso iniziare a considerarmi seducente come Jessica Alba! Lui parve riprendersi un attimo. «Accidenti, io…» balbettò. Stava cambiando idea? Col cavolo! Per zittirlo lo baciai ancora, gli tolsi la camicia e gli sbottonai i pantaloni. Un attimo dopo eccolo che, pallido e impaurito, era dentro di me, e un attimo dopo… Era tutto finito. Non provai dolore come avevo letto nei vecchi Harmony di mia madre, né fu quell’esaltante esperienza che le mie amiche raccontavano alle superiori. Fu piuttosto viscido e appiccicaticcio. «Oh mio Dio» disse lui, dopo che ansanti, più per la fatica immane dell’amplesso in una macchina che per l’eroticità della situazione, sedemmo uno vicino all’altro sul sedile. «Mi sa che alla fine l’ho spuntata io» scherzai. Lui mi sorrise. «Com’è stato?» mi chiese. Ci pensai un attimo. Sicuramente niente di eccessivo. Cioè, non avevo visto le farfalle leggiadre che mi piroettavano intorno, salvo per la capocciata. Però non era stato nemmeno brutto. «Non saprei. Forse la prima volta non è niente di che» gli dissi. Lui sembrò mortificato. «Bè, te l’avevo detto che non sapevo da dove iniziare, no?» «Sì, certo! Ma non intendevo per colpa tua. Sicuramente sono io che non so come si fa a farselo piacere».

Ci guardammo e scoppiammo a ridere come due imbecilli. «Oddio! Non ci posso credere che sono stato a letto con una donna! Elisa morirà quando glielo dirò!» disse lui coprendosi la faccia eccitato. «E chi è Elisa?» «La mia migliore amica». Per un attimo lo invidiai. Io non avevo migliori amiche alle quali confidare quello che era successo. Sì, c’era Caterina, ma non era la stessa cosa. «Uh!» cinguettò lui. «Senti cosa hanno messo dentro il locale?» tese l’orecchio. Mi feci più attenta. Era Raffaella Carrà che tuonava che, se per caso fosse caduto il mondo, lei si sarebbe spostata un po’ più in là. Beata lei. Il ragazzo iniziò a cantare, stonando, la canzone della platinatissima Raffy. Io lo guardavo. «Tu cosa faresti se per caso cadesse il mondo?» mi chiese d’un tratto. «Che domanda è?» «Eddai. Rispondi!» Oh mio Dio. Se ogni volta che questo fa sesso è così esuberante, non vorrei essere l’uomo che se lo prende. «Bè, con l’agilità che mi ritrovo, se il mondo cadesse io non farei in tempo a fare un accidente» gli dissi. «Forza!» si spazientì lui. Sbuffando provai a pensarci un attimo. «Se per caso cadesse il mondo, prenderei una bustona di M&M’s e me le mitraglierei in bocca una dopo l’altra alla faccia di chi dice che non vado bene così, che sono grassa, sgraziata e poco femminile!»

Tiè! Non sono nemmeno più vergine! Lui rise di gusto. «Tu invece? Cosa faresti?» chiesi. «Se per caso cadesse il mondo, mi assicurerei di avere tutti i cd di Beyoncé in tasca e il correttore per le occhiaie in mano. E poi amen» mi sorrise. Io lo guardai bonaria. Avevo fatto bene ad andare a letto con lui la prima volta. Oddio, letto non direi! «Che dici? Sarà ora di tornare alla vita di sempre?» mi chiese lui in imbarazzo. Forse si aspettava che volessi rivederlo. «Eh sì. Anche se non credo che mia sorella o le sue amiche abbiano notato la mia assenza». Uscimmo dalla macchina e ci sistemammo. Afferrai la mia bella pochette e la aprii per vedere se c’era tutto. Da un lato c’era qualcosa che di certo non era mio: un correttore. Doveva avercelo lasciato Caterina. «Tieni, questo è un regalo per te. Così ti ricorderai di me» gli dissi porgendogli il tubetto. Lui rise. «Ma no! Non devi! E poi mi ricorderò comunque di te» rispose lui. Che carino! «Ma figurati. Prendilo. Non è nemmeno mio». Lui rise ancora e accettò. Ci avviammo verso il Carrà. «A proposito. Io mi chiamo Eros» si presentò. Gli strinsi la mano. «Eros?»

Lui mi guardò rassegnato. «Mia madre è follemente innamorata di Eros Ramazzotti» mi disse. «Poteva andarti peggio» lo consolai. «Io mi chiamo Angela».

6.

Lui

Il giorno dopo mi svegliai alle due e mezza del pomeriggio. E solo perché mia madre venne a controllare se ero ancora vivo. Non ricordavo bene cos’era successo, vista la particolarità della serata. Ricordo che tornai dentro il Carrà dove c’era Elisa imbestialita perché l’avevo mollata lì ed ero sparito. Stava per tramortirmi con un posacenere dall’aria particolarmente pesante, quando la presi da parte, per evitare che gli altri ci sentissero. «Tu sei un grandissimo testa di cazzo!» mi aveva aggredito. «Esco un attimo a parlare al telefono e non ti ritrovo più! Ma dov’eri? Guarda che se non volevi che ti lasciassi solo potevi dirmelo! Non serviva sparire per tutto questo tempo! Mi hai lasciato con questi qui, e…» «Non ci crederai mai!» le avevo detto interrompendola. Poi le avevo raccontato tutto nei minimi dettagli, mentre lei a poco a poco cambiava espressione, fino a emettere un urlo vittorioso che aveva fatto stoppare un attimo la musica. Vabbè, non proprio, ma così rendo l’idea! Ripensandoci appena sveglio, sorrisi. Se qualcuno mi avesse detto che avrei fatto l’amore con una ragazza in macchina, non c’avrei creduto! Non era da me. Né fare certe cose con una ragazza, né farle in macchina. Ma per tutto c’è una prima volta, suppongo. Inoltre quel genere di cose accadono solo in serate particolari. Sai uno di quei momenti in cui ti sembra che potrebbe succedere tutto? Come se stessi vivendo temporaneamente una vita che non è la tua? Dove ti senti liberissimo di dire cose stupidissime che però sembrano intelligenti, o puoi fare cose di cui poi magari ti penti, ma che lì per lì ti sembrano giustissime. Una di quelle sere dove riusciresti a farti dei nuovi migliori amici, e il giorno dopo non ricordare nemmeno come diavolo si chiamino! Vabbè, ho reso l’idea. Adesso mi sentivo stupidamente quasi più adulto. Più “uomo”. Ma la cosa durò poco, perché ai la domenica a casa, chino sulla scrivania a disegnare e mangiare biscotti e ad

ascoltare i cd di Mina. Virile come il ciuffo di Malgioglio. Avevo così tante idee per la nuova collezione, che non sapevo da che parte iniziare. Buttai giù schizzi su schizzi, anche disegnati male, decidendo che li avrei ripresi in seguito e organizzati meglio, ma per il momento dovevo spurgare tutte le idee. Mentre disegnavo come una furia, squillò il cellulare. «Pronto?» risposi senza guardare chi era. «Ciao macho. Che fai?» mi chiese Elisa. «Disegno. Tu?» «Niente, mi annoio. Usciamo a fare una eggiata?» mi domandò. Ma dove diavolo è la gomma? Avevo centinaia di gomme disseminate per tutta la camera, ma quando servivano non le trovavo mai. «Come hai detto?» le chiesi afferrandone una particolarmente minuscola che scovai in un cassetto remoto della scrivania. «Ci senti? Ti ho chiesto se ti va di uscire!» «No, guarda Eli. Sono troppo preso» tentai di defilarmi. «Preso da cosa? O meglio, da chi?» indagò. «Non è che ti senti ancora con la signora del sesso?» Alzai gli occhi al cielo. «Assolutamente no. So solo che si chiama Angela, ma non ho intenzione di cercarla» ripetei per la centesima volta. Dopo l’iniziale scoppio di felicità, Elisa era stata un po’ freddina con me per tutto il resto della serata, finché non le avevo giurato e spergiurato che non avrei più sentito né visto Angela. Sapevo che inconsciamente Elisa era un tantino gelosa, ma siccome non potevo farci nulla, decisi di lasciare che le asse. Di mio ero felice di aver fatto questa nuova esperienza.

«Non ha nemmeno il mio numero» aggiunsi. «E se lei ti rintraccia?» insistette la mia amica. «E come fa? Mette gli annunci su Cosmopolitan?» «Ma che ne so. Al giorno d’oggi non è difficile trovare una persona. Può sempre vedere su Facebook. Quanti Eros ci saranno in zona?» Alzai gli occhi al cielo, lasciando i miei disegni per un attimo. «Non succederà». E fine del discorso. Dopo essermi preso un sacco di parolacce da Elisa perché non volevo uscire, potei dedicarmi ai miei disegni e a sera ero piuttosto soddisfatto di me e del mio lavoro. Mi dissi che una volta avuto sotto gli occhi il mood, sarebbe stato più semplice riprenderli e modificarli. E mai pensiero fu più sbagliato. Con l’avvicinarsi di giugno, le spose diventavano più feroci di un Pittbull con le emorroidi, e presero letteralmente d’assalto la nostra boutique. Eravamo sopraffatti dal lavoro, e saltai il pranzo quasi tutta la settimana! E la cosa mi seccava parecchio. Come ogni anno a maggio, la signora Flora diventava pazza e non la smetteva di correre da tutte le parti strillando ordini affinché il lavoro procedesse più veloce, ma era impossibile, visto il numero dei dipendenti e solo 24 ore al giorno disponibili! Quindi, come ogni anno, ognuno veniva investito di nuovi privilegi temporanei: i modellisti seguivano e cucivano parte degli abiti che creavano, la signora Flora, oltre a disegnare, a volte faceva il modello da sola senza i modellisti, e così via. Io avevo già abbastanza lavoro di mio: oltre agli abiti da sposa anche quelli per le mamme, le suocere, le damigelle, i testimoni, i parenti. Quindi non venivo incaricato di fare altro. Avevo da preparare un numero agghiacciante di schede di produzione. Quella che ci rimetteva più di tutti era Gaia che, non avendo un ruolo ben preciso dentro l’atelier, era obbligata a fare di tutto. «Giuro che non ce la faccio più!» disse un pomeriggio mentre era impegnata a inserire minuscole perle dentro fili di ferro sottili come un capello e che sarebbero serviti a decorare un bouquet particolarmente costoso. «Sto impazzendo» Gaia aveva le lacrime agli occhi.

«Su, su, tesoro! Stai calma. Vedrai che ce la faremo» le dissi digitando al computer dieci tasti contemporaneamente. Dovevo sbrigarmi! Veloceveloceveloceveloceveloce! «Ma io sono esausta! Ho bisogno di rifocillarmi» si lagnò Gaia. Buttò all’aria quello che stava facendo e si mise a navigare in internet. «Gaia! Non farlo!» «Devo!» disse lei con aria folle. Un paio di click e… «Eros! Vieni a vedere!» mi disse eccitata. Mio malgrado mi alzai per raggiungere il suo computer. «Mamma mia, quanto ben di Dio» di nuovo la bavetta vogliosa. C’era una fotografia mozzafiato di un attore famoso, del quale non sapevo il nome, tutto sporco di terra e con la faccia dura e cattiva, probabilmente durante una scena del suo ultimo film. «Ma quant’è figo questo?» bisbigliò la mia collega. «Io so solo che è così sexy che sto per lacrimare». Un attimo dopo tornai in me, visto che sentii la mia datrice chiamarmi con un urlo selvaggio. E se la placida Flora gridava, significava che il crollo nervoso era imminente. «Sì signora?» corsi da lei. «È appena arrivato il camion con i tessuti che abbiamo ordinato. Vai sotto e controlla che sia tutto ok» mi disse mentre crollava sulla sedia e si teneva la testa. Una signora che ha questa perenne emicrania non dovrebbe aprire un atelier. Troppo stress! Senza battere ciglio scesi i gradini e uscii dalla porta posteriore dell’azienda, dove la signora Flora faceva scaricare il materiale. Era più

scomodo per i camion entrare, ma la signora era convinta che non era esteticamente accettabile vedere davanti al suo atelier un camion sporco e puzzolente. Se è per questo, nemmeno i tuoi completini sono esteticamente accettabili. Un attimo dopo stavo girando l’angolo del piano terra, e… Sbam! Andai a sbattere dritto contro un palo. Un palo? «Ma che caz…» guardai bene cosa mi aveva percosso. Era il ragazzo delle consegne. «Ti sei fatto male?» mi raccolse lui. Io ero rosso di vergogna. Ma dove vai con tanta fretta? «No, sto bene. Ti ho fatto male?» Lui mi sorrise. Un bellissimo sorriso. «No, figurati». Mamma mia quant’è carino! Era più alto di me, con una zazzera di capelli spettinati castano chiaro e due begli occhi verdi. Aveva i denti bianchissimi, e forse furono questi ad attrarmi inizialmente. Portava una salopette di un orribile color cammello, che però a lui stava benissimo. «Dove scarico?» mi chiese. «Va bene anche qui» gli dissi in un soffio.

Riprenditi, Eros! Una volta scaricato, sarebbe toccato a Gaia classificare i tessuti e portarli al reparto confezione se servivano immediatamente, o nel magazzino se erano per un abito che sarebbe stato realizzato nelle settimane seguenti. Aspettai che il ragazzo delle consegne finisse di portare dentro i tessuti, e ammirai il bel fisico asciutto, con pochi muscoli ben piazzati, le spalle larghe, le mani forti, il sedere tondo. Ma iamo oltre! «Ecco fatto. Mi firmi tu la bolla di trasporto?» mi porse la tavoletta con il foglio da firmare. «Ok» firmai di sfuggita, e gli resi la penna. Speriamo di non essermi preso libertà che non mi competono! Flora a volta sapeva essere crudele. «Molto bene» lesse il mio nome, «Er…» mi chiese incuriosito. Che nervi quando la gente reagisce in maniera stupita davanti al mio nome! Ok, non sarà usuale, ma non è nemmeno così strano! Voglio dire, la Paltrow ha chiamato sua figlia mela! Aveva perso mille punti. «Eros» gli dissi. Evidentemente assunsi un tono un po’ scocciato, perché l’espressione sorridente del fattorino vacillò. «Scusa, è che sono senza occhiali» si riprese. «No, sono io che ho un nome idiota» gli sorrisi a mia volta per fargli capire che non ero offeso. Lui rise. «Ma no! Perché idiota. È un bel nome. E poi c’è di peggio. Pensa che mio fratello si chiama Quintino». A questo punto risi anch’io.

«Oddio!» cercai di assumere un’aria addolorata. «Eh già. Gli hanno dato il nome di mio nonno paterno» aggiunse. «Cavoli. Sono stati così spietati anche con te?» «No, io me la sono cavata con l’altro nonno. Raffaele» disse, e mi tese la mano per presentarsi. La strinsi con decisione, e apprezzai la bella stretta. «Bè, grazie mille allora» mi salutò. «Grazie a te» e uscì dalla porta. Tornai in ufficio euforico per lo scambio di battute con quel bel ragazzo. Ok, aveva una salopette orribile, ma non era colpa sua, povera stella! «Perché sorridi?» mi chiese Gaia. «Così» rimasi vago. Non mi andava di raccontarle dell’incontro. Però afferrai al volo il cellulare e scrissi a Elisa. «Ho appena conosciuto & parlato con il ragazzo che ci porta i tessuti. Vedessi com’è bello!» A qualcuno dovevo pur dirlo, no? La signora Flora mi chiese com’erano i tessuti, e io mi resi conto che, preso com’ero da quel bel fattorino, non avevo dato uno sguardo al materiale. Bravo! Complimenti! Tuttavia le dissi che era tutto ok. «Bene. Allora Gaia vai sotto e fai il solito lavoro. Eros, a che punto sono i disegni che ti ho chiesto?» A che punto vuoi che siano, strega? Me li hai chiesti due giorni fa!

«Ho già buttato giù delle cose piuttosto buone. Vuole che glieli porti a mano a mano che li finisco, o vuole tutto alla fine?» chiesi subdolo. Gaia fece finta di vomitare senza farsi vedere. «No, va bene tutto tra due mesi» e se ne andò. Gaia si alzò per scendere sotto. «Lecca, lecca» mi prese in giro. «Lascia stare. Vengo con te» la seguii. «Perché? Non hai un accidente da fare? Ci sono quegli stupidi fili di ferro da riempire di perline, se vuoi». «No, è che in realtà non ho controllato niente di quello che ci hanno portato» ammisi. «Speriamo vada tutto bene!» «E cosa hai fatto di sotto? Hai contato le mattonelle?» «No, ero impegnato ad ammirare il bel ragazzo che ci ha consegnato il tutto» ammisi. Gaia scoppiò a ridere. «Flora ti fa un culo così!» Ridemmo entrambi per la qualità della battuta. Una volta sotto tirai un sospiro di sollievo: tutto era come doveva essere. Sbirciai la bolla e lessi il nome dell’azienda. Starfabric. Bene, bene, bene. «Qui è tutto a posto, grazie al cielo. Io torno sopra. Buon lavoro tesoro» e lasciai un’imbronciatissima Gaia con i tessuti. Una volta alla mia scrivania e con l’ufficio a mia completa disposizione, entrai nel file dell’ufficio acquisti per vedere se avevamo in programma un’altra consegna della Starfabric.

Peggio di un hacker! Click qui, doppio click lì. Eccolo! Un’altra consegna di tessuti era in programma dopo due settimane. Perfetto! Chissà se sarebbe tornato lui? Dopotutto sarebbe stato il 24 maggio, e saremmo stati sommersi di lavoro, quindi c’erano buone probabilità che Flora avrebbe mandato me a ritirare i tessuti. Ero immerso nei miei dolci pensieri, quando arrivò la risposta di Elisa. «Sono contenta di vedere che sei tornato gay! La prossima volta fai una foto a questo bonazzo, così lo vedo anch’io! Eh eh eh!»

7.

Lei

Un rumore incessante mi strappò dalle braccia di Morfeo. La colpa era di una stupida sveglia che mia zia mi aveva regalato qualche anno prima per il mio compleanno. Era a forma di gallina, alta una ventina di centimetri e avevo forti sospetti che venisse dall’inferno. Sì, perché per spegnere quell’affare demoniaco, dovevi premere sulla cresta che, pensa che culo, si inceppava tre volte sì e mezza no. Quella mattina però ero smagliante e in formissima! Avevo un leggero fastidio tra le gambe, ma mi sentivo una strafiga! Adesso non avevo nulla meno delle ragazze bellissime che vedevo are fuori dal negozio dove lavoravo. Ero esattamente come loro. Perfino le mie immense tette mi sembravano pericolose armi di seduzione di massa, e non più solo massa! Mi alzai con un sorriso da orecchio a orecchio, e dopo essermi lavata la faccia, aprii l’armadio piena d’aspettativa. Vediamo un po’ cosa posso mettere stamattina. Solitamente non mi ponevo mai il dubbio, visto che al lavoro ci costringevano a vestire in un’unica tonalità: il nero. Devo dire che per me non era fonte di disagio. Un po’ perché tendevo a voler are sempre inosservata, e un po’ perché, diciamocelo, il nero snellisce! E per una che tende alla rotondità, e che lavora in mezzo a delle stangone tutte gambe, questa è un po’ una benedizione dal cielo. Quella mattina tirai fuori un’assurda maglia super scollata e con più frange di quelle che sono umanamente tollerabili, che mia madre aveva avuto l’audacia di regalarmi senza tenere conto che solo per contenere le mie tette ne sarebbero servite due. Ma quella mattina mi sembrò assolutamente adatta. Infine trovai in un angolo remoto e buio dell’armadio un vecchio paio di pantaloni neri, classici, attillatissimi, che avevo comprato più o meno due anni prima spendendo un bel po’ di soldi, ma che non avevo mai messo. Bene, era arrivato il momento. Peccato che due anni prima non ero così pienotta. Ma non fa niente! Decisi che sarebbero entrati a tutti i costi! Mi ci spinsi dentro a forza, e mentre stavo per

andare a prendere l’olio extravergine d’oliva per aiutarmi, quelli si strizzarono intorno alla parte inferiore del mio corpo. Se dovessi ripensare adesso all’effetto finale, direi che quei pantaloni mi facevano un misto tra un prosciutto di Parma e un corsetto settecentesco. Non respiravo e credo che all’epoca il mio lato B non fosse da valorizzare in quel modo! Però che devo dire? Mi sentivo bellissima, una donna. Una femmina sicura di sé, indipendente, che cerca e si prende quello che vuole senza guardare in faccia niente e nessuno. E infatti fu per questo che scambiai gli sguardi allucinati dei anti che mi incrociavano per strada per occhiate maliziose e ammirate. Nonostante possedessi la patente già da qualche anno, non avevo ancora una macchina, e dato che i miei genitori usavano le loro per andare al lavoro, io utilizzavo i mezzi urbani per i miei spostamenti. Devo dire che la cosa buona del vivere in una piccola cittadina è che non hai il problema dei ritardi o degli scioperi dei pullman! Ci saranno al massimo tre autisti, e ormai li conoscevo tutti come vecchi amici. «Buongiorno Angela. Come sei sexy stamattina» mi adulò Adelmo, un ultracinquantenne scapolo che credeva di avere trent’anni di meno. Non era cattivo, o comunque era innocuo. «Grazie Adelmo» sorrisi smagliante. Non mi ò per l’anticamera del cervello che un complimento di Adelmo equivaleva a uno sciopero di Pannella: era così frequente ed elargito con abbondanza, che non era da prendere in considerazione. Anzi, decisi che era stata la mia personalissima prova del nove, segnale tangibile che quella mattina stavo davvero bene, e che le esperienze appena vissute mi avevano profondamente segnata! Come già detto, lavoravo al centro commerciale alla periferia della mia città. Era uno stabilimento immenso, costruito pochi anni prima. Dentro c’erano un’infinità di negozi, manco a dirlo, la maggior parte d’abbigliamento. Io avevo frequentato il liceo artistico che, se non vai all’università, serve quanto un dito mignolo del piede: ce l’hai, ma è solo per bellezza. E per farti un male boia quando lo sbatti contro i piedi del letto se ti alzi in piena notte perché hai la vescica che ti sta per scoppiare come la diga del Vajont. Quando ho preso il diploma non avevo più voglia di studiare e, mentre i miei colleghi studenti si sparpagliavano in tutta Italia per conseguire lauree, ubriacarsi alle feste, fare tante amicizie, avere coinquilini e are le serate in mini appartamenti a farsi di canne, io no. Cercavo lavoro dentro quel centro commerciale. Ora, pensateci bene. Tutti i negozi ricercavano in media due o tre

commessi, no? Con cinquanta negozi, servivano minimo cento commessi, anche se poi, considerando il mastodontico Conad, erano ben più di cento. Bene. Io mandai il curriculum a tutti. Ma tutti davvero! Andai in una cartolibreria e feci fare tipo cento copie del mio curriculum, vuoto per altro, e lo ai a tutti i negozi. E indovinate chi mi aveva assunto? Il peggiore. Cioè, in effetti l’aspetto era abbastanza innocuo: si trattava di un negozio che trattava articoli in pelle. Vendevamo dalle borse ai portafogli, dalle valigie alle cinture, quindi non era poi tanto male, se non contiamo che toccava sempre a me riporre le pesantissime valigione negli scaffali in magazzino perché, secondo la mia responsabile, «sei tu la più muscolosa», che detto da lei suonava tipo: «tu sei la più grassa». Gentile come una guardia del Schutzstaffeln. A ogni modo, la mia responsabile mi assunse e iniziai a lavorare in quel paradiso dello shopping insieme a Giuditta, una ragazza tanto docile quanto gentile. Il problema non erano né gli orari né la paga. Il problema era Ilva. La mia responsabile. Secca come un braccio di Victoria Beckham, capelli a caschetto secondi solo alla Wintour, cattiva come il verme nella mela avvelenata della strega di Biancaneve. Ilva, insomma. Durante gli anni di fedele servizio al negozio, me ne aveva fatte are di tutti i colori, e me ne aveva dette altrettante. Voi vi chiederete perché non mi cercavo un altro lavoro. E l’ho fatto! Ma forse avreste dovuto leggere il mio CV all’epoca. Se lo aprivi, ci uscivano le farfalle. Con la crisi perenne che c’era, poi, chi avrebbe preso una ragazza con zero esperienza in qualunque settore? Così rimanevo inchiodata lì, con quella iena. Poi milleduecento euro al mese non mi facevano tanto schifo, ecco. Il bottone dei miei pantaloni minacciava in maniera sinistra di esplodere, ma con tutto l’entusiasmo e la sicurezza che avevo quella mattina, la cosa non mi preoccupava. «Angela finalm…» Ilva si bloccò venendomi incontro. Portava una magliettina con la scollatura che le arrivava alle caviglie secche tipo le dita di Fassino, una mini-mini-mini-minigonna alta sette centimetri compresa di cintura e tacchi come quelli che portavano le Spice Girls ai tempi d’oro. I capelli erano piastrati e sottili e tagliati perfettamente pari. Sospettavo da tempo che il suo parrucchiere usasse squadretta e centimetro per tagliarglieli. Il trucco accentuato era sapientemente messo negli angoli giusti della faccia. Perché è di angoli che possiamo parlare quando citiamo Ilva. Non come me, che possiamo parlare di raggio, diametro e pi greco! «Buongiorno Ilva» la salutai.

Giuditta, la ragazza che lavorava con me, si affacciò da dietro uno scaffale e mise su una faccia da “Oh-mio-Dio”. «Cosa c’è?» chiesi a entrambe. «Bè» Giuditta non sapeva cosa dire. «È che ti sei vestita in maniera particolare stamattina» mi disse Ilva. «Non mi pare» dissi guardandomi con nonchalance. Poi sinceramente, detto da una che si era vestita in quel modo, non è che la cosa sembrasse veritiera! «Come no? Sembri un prosciutto. Tutta strizzata lì dentro! E quei pantaloni, poi. Saranno di almeno due taglie più piccoli del necessario» mi disse cattiva. Io ero scandalizzata. Ma senti questa! «Ma certo che no! Mi stanno benissimo!» replicai quasi isterica. Ilva fece spallucce. «Come ti pare. Adesso vai a sistemare il magazzino». Questa è un’altra cosa che mi sfuggiva: perché il magazzino toccasse sempre a me. Inutile specificare che lì dentro le pulizie avvenivano una volta all’anno, e che la polvere sembrava essere sprigionata dalle pareti stesse. Ogni volta che ci andavo, ne uscivo solo all’ora di chiusura, con le narici che bruciavano, gli occhi rossi e forti crisi respiratorie. In realtà se entravi lì dentro per prendere qualche articolo per un qualche cliente, ne uscivi abbastanza integra e sufficientemente in salute. Ma se dovevi fare le pulizie, e quindi spostare la vecchia merce, mettere ordine e disturbare l’ordinaria posizione degli articoli, la polvere si vendicava sparando da tutte le parti, tipo irrigatori. E, aggiungerei, con la stessa potenza. Ilva aspettò qualche istante per godersi la mia espressione pietrificata e sconsolata prima di girare sui tacchi e sistemarsi dietro il bancone, dove sapevo non si sarebbe più schiodata lasciando che io e Giuditta fimo tutto il lavoro. Sbuffando, mi avviai al magazzino, che non era tanto largo a volerla dire tutta, e

in quel poco di spazio disponibile dovevamo stipare tutti gli articoli che ci arrivavano. Fosse stato per me o per Giuditta, tutto sarebbe stato in ordine, ma purtroppo ci alternavamo ad altre due commesse, due ragazze alte, secche e truccatissime, un po’ la versione giovane di Ilva, che avevano un’attitudine spaventosa per il non far niente. Quando arrivava qualcosa non lo sistemavano. No! Lo buttavano! E poi toccava a me mettere in ordine. Ma vi pare giusto? «Angela» Giuditta entrò alle mie spalle. A momenti mi prendeva un infarto. «Giudy!» la rimproverai. «Scusa. È che devo dirti una cosa lontano dalle orecchie di Ilva» mi disse un po’ nervosa. «Allora non dire niente, aspetta di cambiare stato». «No, davvero!» Io mi voltai, guardandola. «Ok, dimmi tutto». «Ho un colloquio di lavoro» mi disse tutto d’un fiato. Io spalancai la bocca. Mica perché a Giuditta mancasse qualcosa, tranne forse un po’ di aggressività, ma perché non si trovava lavoro in generale! Dove diavolo avrà mandato il curriculum? «Dove?» chiesi. «Dal fioraio vicino all’entrata». Era un negozietto che stava all’inizio del centro commerciale. Per me era una specie di landa irraggiungibile, dove tutto splende, i prati sono più verdi e l’acqua è più blu.

«Ma come cavolo hai fatto?» le chiesi. «Ho avuto culo» sorrise nervosamente. Parlavamo in fretta, per non dare a vedere a Ilva che stavamo conversando. Se l’avesse scoperto, si sarebbe di certo vendicata. Giuditta mi disse che la commessa storica che dava una mano alla simpaticissima proprietaria era incinta e che una volta sfornato il marmocchio non aveva intenzione di tornare. «Ma dai!» le dissi incredula. «Sì. Vado a parlarci stasera, dopo il turno» aggiunse lei. «Cosa?» dissi. Ok, a dire il vero urlai. «Zitta! Sei pazza? Se viene Ilva sono cazzi!» sibilò. Io feci un respiro. «Giuditta, non puoi farmi questo! Tu sei la mia unica ancora di salvezza! Se te ne vai tu, io resto qui sola con Ilva!» poi pensai bene a quello che sarebbe successo, che avevo appena detto. Io. Da sola. Con Ilva. Ilva. Il-va! Spalancai gli occhi e la guardai supplichevole. «Non fare così! A parte il fatto che non è detto che mi prendano, ma anche tu hai mandato curriculum dappertutto! Magari qualcuno chiamerà anche te» mi disse lei. Allora, a parte il fatto che nessuno sarebbe stato più indicato per un negozio di fiori di Giuditta, che esprimeva solarità e dolcezza da tutti i pori. Lei stessa era un fiore, che cavolo! Probabilmente la sola presenza di Giuditta dentro quell’esercizio avrebbe irradiato di luce e acqua i fiori senza bisogno di altri mezzi! Che ingiustizia. A me chi mai avrebbe chiamato? Non ero adatta per fare la commessa di intimo, d’abbigliamento, men che meno di fiori e c’erano tante probabilità che qualcuno mi assumesse come commessa in un negozio di

gioielleria, quante che Monti che sparasse puzze ballando la mazurca sui tavoli del parlamento. Mamma mia che depressione. Mentre starnutivo a tutta forza, ripensavo a Giuditta e alla sgarbatezza che stava per farmi. Ma come si può essere tanto ingiusti? Tutta l’allegria si era dileguata. O forse l’avevo starnutita via. L’unica cosa buona è che stando qui dentro non ho visto quella belva di Ilva. Nemmeno il tempo di pensarlo, ed eccola che apparve. «Angela? C’è un cliente. Pensaci tu». Adesso, ripensandoci, dovevo immaginare che c’era qualcosa che non andava. Ti pareva che Ilva mi strape da un’incombenza così faticosa per non dire tritamaroni come riordinare il magazzino, solo per assistere un cliente? Ammesso che Giuditta fosse impegnata con qualcun altro, piuttosto che farmi riposare un attimo, Ilva sarebbe stata capace di rendersi cieca fondendosi le pupille con un attizzatoio ardente. Quando tornai alla civiltà uscendo dal magazzino, ero cianotica per i pantaloni che mi stringevano ormai da sei ore, e avevo i capelli grigi per tutta la polvere accumulata. Vidi il cliente in questione e feci due più due. O meglio: stato impresentabile più bonazzo allucinante. Uno strafigo alto sette metri, con un fisico alla Cristiano Ronaldo e la faccia che sembrava uscita dallo schermo di qualche film Hollywoodiano. Uno spettacolo, insomma. Voi vi starete dicendo: ma com’è che uno così non voglia servirlo Ilva che non perde occasione di, come dirlo in maniera fine? Troieggiàre con tutti gli esseri di sesso similmaschile? Bene, in verità la mente di Ilva non lavorava solo in funzione del proprio tornaconto o del proprio piacere. No, si divideva per concepire qualcosa che mettesse in cattiva luce la sottoscritta. Era il suo atempo preferito. Poteva andare a lezione d’equitazione, poteva darsi alla lettura, scrivere un romanzo, dipingere, andare a scuola per imparare i dialetti norvegesi. E invece no. Mi avvicinai depressa al dio greco. «Posso essere utile?» chiesi. «Certo» poi mi vide e si bloccò. Va bene, non dovevo essere un grandissimo spettacolo. E grazie a Ilva adesso lo

sapeva anche lui. «Ehm…» fece lui incerto. «Sì?» lo incitai. «Ho visto una cinta in vetrina. Quella marrone con la fibbia d’ottone». Annuii e gliela presi. «Questa?» «Sì. Ce l’avete anche nera?» «No, nera è finita. Ma l’abbiamo grigia». Che fa cagare. «No, grazie. Posso provarla?» chiese. Puoi provare anche me. «Certo!» Io, e tutto il resto della poca clientela femminile del negozio, trattenemmo il fiato quando quel pezzo di ragazzo si alzò la t-shirt, rivelando la scontatissima tartaruga di addominali, perfetta e guizzante. Da friggi-ormone, proprio. «Prendo questa marrone» decise, dopo essersi specchiato per un quarto d’ora. «Le faccio un pacchetto?» «No, è per me». Se vuoi ti aiuto a indossarla! «Allora le prendo un sacchetto». E fu così che accadde. In un secondo. Io mi piegai di lato per prendere una busta sotto il bancone, il bottone dei pantaloni cedette e schizzò via alla velocità di un proiettile, beccando il bonazzo in mezzo alla fronte. Lui si coprì con le mani il

punto dov’era stato colpito, chiuse gli occhi, si sbilanciò e rovinò a terra, senza riuscire a evitare una vetrinetta che andò in mille pezzi. Conclusione? Ilva fece la sua entrata trionfale, mi allontanò come si fa con le mosche sulle cacche, aiutò il modello a rialzarsi, gli regalò la cinta per discolparsi, si scambiarono il numero e il sabato seguente sarebbero usciti insieme. Ma esiste la giustizia a questo mondo?

8.

Lui

Se pensavo che al lavoro avrei faticato, mi sbagliavo. Sarebbe stato anche peggio. Eppure tutti dicono che nessuno si sposa più, che aumenta il numero dei divorziati, ma a giudicare da quanti abiti avevamo da preparare, non si sarebbe mai detto! Senza contare che al giorno d’oggi le spose non sanno cosa sia la semplicità! Le ragazze venivano da noi con idee impossibili e ci commissionavano abiti da principesse Disney. Questo ovviamente sovreccitava la signora Flora, che sparava prezzi assurdi e guadagnava come una petroliera. Ma per noi poveri dipendenti significava ore e ore di straordinari. Senza contare che nel mio caso, quando tornavo a casa, mi aspettavano schizzi e disegni per tentare di compiacere la mia capa. Volevo fare bella figura, ci tenevo moltissimo a portare a termine nel migliore dei modi questa bellissima opportunità. Mi madre era preoccupata del fatto che non mi vedeva praticamente più, dato che ero sempre al lavoro o chiuso in camera. Mia sorella entrava qualche volta e giudicava i miei disegni. Lei era la mia prova del nove! Le facevo vedere un abito e le chiedevo: «Se ti sposassi, lo metteresti?» Se mi diceva sì, allora poteva andare. Se mi diceva no, le chiedevo il perché e una volta che lei mi esponeva le sue ragioni, io cercavo di controbattere finché non si spazientiva e se ne andava borbottando. «Cosa me lo chiedi a fare, se poi fai comunque di testa tua?» Quella sera ero di nuovo chino su un disegno che secondo me era particolarmente brutto. Ero stanco dopo undici ore no-stop davanti allo schermo del computer in ufficio, e la fantasia sembrava essere sparita. Mia sorella bussò alla porta e si affacciò. «È pronta la cena» mi avvertì.

«Arrivo subito». Feci l’ennesima cancellatura e, in un impeto di nervi, strappai il foglio in mille pezzi. «Sei impazzito?» mi chiese. «Faceva schifo» mi lamentai. «Vorrei che Flora mi dicesse se sto facendo un buon lavoro. Giusto per vedere se sto esagerando, o se sto facendo troppo poco». «Non hai quella grossa paginona piena di foto e ritagli per le indicazioni?» Daiana aveva dieci anni più di me. Ed era la ragazza più docile di questo mondo. Forse era per questo che, nonostante il suo ragazzo continuasse a non volersi sposare mentre lei non aspettava altro, rimaneva in silenzio appoggiando le sue scelte. Ecco, come avrete capito non avevo una grande stima di mio cognato. Ma uno che a trentacinque anni ancora non sa cosa fare della vita, non merita considerazione! Mia sorella Daiana faceva la segretaria in uno studio odontoiatrico. Il suo fidanzato, Benny, lavorava dal padre che aveva un’azienda che produceva mobili in legno e ceppame simile. Aveva l’opportunità di diventare titolare di una ditta con le palle e contropalle, e invece ciondolava tutto il giorno alla ricerca di uno scopo. Daiana lo giustificava dicendo che era ancora immaturo, ma che presto si sarebbero sposati e lui avrebbe messo la testa a posto. Stavano insieme da otto anni, e lui aveva ripetuto più volte che l’idea di accasarsi non lo toccava lontanamente. Ma le femmine sono femmine, si sa. «Il mood, sì. Ma serve a dare indicazioni sugli elementi che bisogna mettere o no, i modelli me li devo inventare io». «Secondo me il tuo disegno era buono» mi disse facendomi alzare dalla sedia. «Solo perché non piace a te non vuol dire che non farà impazzire il tuo capo». Andammo in bagno a lavarci le mani. Quella era una cosa che facevamo sempre all’epoca: lavarci le mani nello stesso momento, mentre ci aggiornavamo al volo sulle ultime news che ci riguardavano. «Non ho idea di cosa faccia impazzire il mio capo. Anzi sì, i completi di colori impossibili con fantasie che sembrano uscite dalla testa della Tommasi. Forse

dovrei chiedere a lei di darmi una mano». Mia sorella sorrise mentre sedevamo a tavola con la famiglia. Altra ricorrenza immancabile. «Che succede?» mi chiese mia madre. La mia mamma aveva cinquantatré anni, ed era una bellissima donna che si manteneva ancora giovane andando in palestra, dal parrucchiere e vestendo in maniera giovanile, ma non volgare. «Niente. Sono quegli stupidi disegni! Mi stanno facendo uscire pazzo» mi lamentai. «Non fare lo stupido. Un’occasione così non ti ricapita più e dai retta a me che sono più vecchia di te e certe cose le capisco meglio» mi ammonì. Io rimasi zitto. In quel momento entrò mio padre e, dalla faccia di mia madre, capii che era in arrivo un’altra litigata. In realtà non è che si stessero antipatici, ma credo che dopo trent’anni di matrimonio si raggiunge un livello tale di confidenza con il coniuge, che puoi permetterti di urlargli in faccia senza che l’altro se la prenda. Un po’ come me ed Elisa. «Ti pare questa l’ora di tornare?» lo aggredì mia madre. «Ada, non ricominciamo, eh?» sedette mio padre. «Non ricominciamo un accidente! Guarda che io non sono una cameriera! Lo sai che in questa casa alle otto si mangia. La prossima volta puoi rimanere al bar, e farti cucinare qualcosa da Dino!» Ecco una serata tipo in famiglia. Il mio papà aveva quasi sessant’anni, ed era in pensione. Da quando non lavorava più ava sempre meno tempo a casa, e sempre più tempo dall’amico Dino che, non avendo moglie, figli o una famiglia in generale, si occupava del suo bar con una dedizione quasi commovente. E anche un po’ patetica, a dire il vero. Comunque alla mia mammina non andava giù che mio padre asse tutto il tempo in compagnia di ubriaconi e gente che viveva solo per farsi la partita a scopone scientifico giornaliera. E sinceramente non potevo darle tutti i torti.

«Forse ci rimango, sì. Dino non mi rompe mai se faccio un po’ tardi». Papà! Ma non sai quello che è meglio non dire? Mia madre strillò qualcosa che non afferrai, e la litigata andò avanti fino al secondo. Una volta arrivati alla frutta si erano calmati, e quando mio padre si trasferì davanti alla tv in salotto per sintonizzarsi su Fox Crime, mia madre gli portò il caffè come se nulla fosse. Io mi ritirai in camera e mia sorella Daiana mi seguì. «Lo sai che sono davvero belli?» mi disse prendendo gli ultimi disegni che avevo fatto. «Grazie. Quand’è che posso disegnare il tuo?» la punzecchiai. Lei sbuffò, e fece per andarsene. «No, dai! Scusa. Sto zitto» le dissi. «Non è che stai zitto. È che mi metti sotto pressione per una situazione che è già dura da sopportare senza che ti ci metti anche tu». Io alzai le mani. «Non volevo essere pesante». «No, solo sbattermi in faccia la verità». «E io che posso fare? Questa situazione te la sei scelta da te» mi irritai. Avevo perso una grandiosa occasione per tacere, ma non poteva pretendere che io non dicessi assolutamente nulla. Era pur sempre mia sorella! Lei si innervosì e andò via. Io tornai al lavoro finché all’una di notte gli occhi iniziarono a chiudersi da soli: era il segno che mi stava dando il mio corpo avvertendomi del crollo imminente. Il giorno dopo Gaia mi salutò un po’ preoccupata. «Hai una faccia spaventosa» mi disse. «Grazie mille» ironizzai, sedendomi sulla mia scrivania e accendendo il computer.

Ormai erano gesti che facevo in automatico. «È successo qualcosa?» insistette Gaia. «No, è solo che non dormo molto per disegnare gli abiti della nuova collezione». Gaia annuì poco partecipe. Le avevo confessato della mia bella occasione, e la mia collega era un po’ permalosa sull’argomento. Credo le scocciasse di non essere stata promossa. Vabbè, io non posso farci niente. Dopo circa mezz’ora entrò la signora Flora. «Buongiorno» salutò frettolosamente. «Eros, sta per arrivare la signora Gigli» disse tristemente. Io trattenni il fiato. La signora Gigli era quanto di peggio ci potesse essere. Era una donna tanto ricca quanto possente. Sembrava il ciclopico titano grasso di Hercules. Veniva una volta al mese per farsi cucire un nuovo abito per qualche serata a teatro o qualche festa dai suoi amici. Certo, lei da sola ci garantiva uno stipendio mensile! Però era intrattabile, irascibile e incontentabile. «A che punto è il cappello che va insieme all’abito?» mi chiese. «Sarà pronto solo oggi pomeriggio» dissi tremando. «No! No, no, no! Lei lo vuole per stamattina!» la signora Flora era agghiacciata. «Corro a spronare le signore del reparto confezioni» dissi. «Ma sono solo in quattro, e abbiamo le altre consegne. Non possono fare più di tanto». Per trattare con le signore che cucivano bisognava avere uno stomaco di ferro, e tanta, tantissima buona volontà. E io modestamente, avevo entrambi! Dopo che mi ebbero assicurato che ci avrebbero messo tutto il loro impegno, tornai al lavoro con una punta d’ansia. Lavorai tutta la mattina come se fossi seduto sui rovi, pronto a scattare appena la signora Gigli fosse arrivata. Alle undici in punto la donna varcò la soglia del nostro atelier, e iniziarono a venirmi le palpitazioni per l’agitazione.

«Buongiorno» salutò come se si trovasse nella cucina della sua servitù. Flora la accolse come faceva con pochi, e un istante dopo la mastodontica signora si provava l’abito che si era fatta confezionare. Così gialla e paillettata sembrava un enorme bidone per la raccolta dei vestiti usati della Caritas. E anche la stazza era simile. Ah! E il cappello è un tocco di classe. Ma la signora Gigli era al settimo cielo per la contentezza. «Flora!» la chiamò Giada, una mia collega modellista, dalla porta del suo ufficio. «È arrivato il fattorino per la consegna dei materiali» la avvertì. Il fattorino! Il bel ragazzo! Oddio, ma era oggi? La signora Flora guardò la cliente che con faccia porcina si ammirava allo specchio una metà alla volta, visto che non ce la faceva a specchiarsi per intero. «Io adesso non posso andare» ragionò tra sé e sé la mia capa. Manda me! «Eros?» Yes! «Dica». «Vai tu e fai come l’altra volta» mi ordinò. Nemmeno il tempo di finire la frase e mi ero già dileguato. Arrivai alla porta posteriore in tempo record, probabilmente ando attraverso i muri. La fretta di rivedere quel bel ragazzo mi aveva dato superpoteri che prima di allora non avevo mai avuto. Ed eccolo lì! Stessi capelli spettinati, stessi occhi vivi, stessa salopette orrida, e appena mi riconobbe, sorrise. Stesso sorriso bianchissimo. «Ciao» lo salutai aprendogli. «Ciao Eros! Chi si rivede!»

Si ricorda il mio nome! «Eh sì. Lavoro ancora qui» dissi. Ero emozionato come quando mia sorella mi portò al cinema con le sue amiche a vedere Titanic. «Vorrei poter non dire la stessa cosa» si appoggiò alla parete. «Non ti piace il tuo lavoro?» chiesi. Lui mi guardò come se lo prendessi in giro. «A te piacerebbe portare un camion a destra e a manca e spezzarsi la schiena per scaricare?» «Ehm, no» ammisi. «Grazie per il sostegno» disse lui mettendosi a ridere. Che bella risata che ha. «Allora. Scarico qui come l’altra volta?» mi chiese. «Sì, va benissimo». E di nuovo via ad ammirare il bel fisico di quel bel ragazzo. Questa volta ci mise un po’ di più a scaricare, visto che Flora aveva ordinato di tutto e di più in previsione degli ultimi vestiti da sposa per le clienti e di quelli per la nuova collezione. «Ecco qui. Con questo abbiamo finito!» si asciugò la fronte sudata. Non doveva essere piacevole fare quel lavoro con un caldo così! «Oddio, sembri stanchissimo» gli dissi solidale. «Vuoi una bottiglietta d’acqua?» gli chiesi forse un po’ troppo civettuolo. Se mi avesse visto Elisa, mi avrebbe tirato un ceffone. «Ce l’hai qui?» mi guardò sorpreso.

«No, ma abbiamo i distributori sparsi per tutto l’edificio. Ce n’è uno nel magazzino, e io ho la mia chiavetta» dissi sventolandogliela in faccia. «Una bottiglietta d’acqua sarebbe perfetta». «Seguimi» gli dissi precedendolo. La sola vicinanza mi faceva battere il cuore. Avevo i brividi! Eppure avevo avuto diversi ragazzi. Certo che se abiti in un paesino, non hai una vastissima scelta! Però nessuno mi aveva mai attratto tanto! Forse perché sapevo che non l’avrei potuto avere. Arrivammo al distributore dove gli presi una bottiglietta d’acqua. «Ecco qui». Lui la tracannò in un solo sorso. «Cavoli! Avevi sete» dissi ridendo. «Da morire. Qui in giro non ho trovato un bar che sia uno» mi disse. «Eh no. Ce n’è uno più avanti sulla destra». «Io vengo da ovest, quindi». Finì di bere l’ultima goccia rimasta. «Te ne prendo un’altra. Così mentre torni non morirai di sete» dissi infilando la chiavetta. «Ma no, non è necessario, adesso sto bene!» «Troppo tardi» presi la bottiglietta e gliela diedi. Lui mi sorrise. Mentre la prendeva, mi sfiorò le dita con le sue e io per poco non persi i sensi. Se mi avesse beccato Flora, mi avrebbe infilato nel distributore a calci nel sedere, ma dato che c’era la signora Gigli ero tranquillo per almeno un’altra ora! «Lascia che torni un attimo al camion, così ti ridò i soldi!»

«Assolutamente no. Questa è la mia buona azione quotidiana». Lui rise ancora. Ride sempre questo? «Ma hai speso la bellezza di…» controllò il prezzo dell’acqua al distributore. «Sessanta centesimi!» «Ti avverto che se esci per tornare al camion ti chiudo fuori. Quindi lascia stare». Lui mi sorrise e mi diede una pacca affettuosa sulla spalla. «Allora grazie». «Allora prego» cercai di scherzare, mentre le ginocchia mi cedevano. Ma perché mi fa quest’effetto? «Posso sdebitarmi in qualche modo?» mi chiese lui mantenendo il suo solito, bellissimo sorriso. Bè, se vuoi ci sarebbero un paio di modi che mi vengono giusto in mente. «Non è necessario» cercai di minimizzare. Ero arrossito. «No, davvero. Voglio ricambiare la tua buona azione. Ti va di andare a mangiare una pizza una sera di queste? O quando vuoi tu» mi chiese. Io ero fuori di me dalla contentezza. Sapevo che dovevo tenere i piedi per terra, che probabilmente era solo un eccesso di gentilezza, e non voleva implicare niente, ma intanto avrei potuto vederlo e godermelo una sera intera! Tutta una sera! «Va bene» acconsentii. «Però facciamo alla romana» aggiunsi. «E allora che ti invito a fare se poi paghi da te?»

«Posso concederti una bibita». «E bibita sia». Rimanemmo lì per qualche secondo a sorriderci come due deficienti. Poi ci avviammo verso la porta posteriore. Prima di uscire lui si voltò. «Forse è meglio se mi dai il tuo numero di telefono. Magari cambi idea e non vorrei aspettare in pizzeria tutta la sera» sorrise. «Magari invece non vuoi pagarmi una coca-cola e vorrai inventarti che ti hanno rapito gli alieni». Sorridemmo, poi gli diedi il mio numero. «Bene. A presto Eros» mi diede una seconda pacca, e questa volta le ginocchia mi cedettero davvero. «A presto. Buon lavoro» gli dissi cercando di riprendermi. Rimasi lì a guardarlo risalire agilmente sul camion, e farmi un cenno di saluto. Che bello, che bello, che bello! Elisa sarebbe scoppiata! Dovevo dirglielo subito!

9.

Lei

Grazie a Dio mia sorella scelse un abito da sposa decente. Quasi piaceva anche a me! Alla fine aveva optato per un abito a fantasia floreale dai colori pastello tenui che andavano dal lilla al rosa, con qualche tocco di verde. La gonna ampia aveva uno strascico non troppo lungo, era ripresa sul davanti e sotto c’era una seconda gonna bianca. Era carina, dai. Poi Laura era raggiante. Sembrava brillare di luce propria. Invece per quanto mi riguarda, dove avo io apiva l’erba. In parte perché dovetti subire la presenza di Sofia che, anche se aveva rinunciato a quel terribile rossetto viola morto, era stata più acida che mai, e in parte perché mia madre mi aveva costretto in un abito da cerimonia. «Insomma!» aveva sbraitato. «Non hai ancora comprato nulla! E il matrimonio sarà tra tre giorni! Non puoi venire in jeans e felpa». Così ero stata costretta a are in una boutique con mia cugina Caterina, che per la cronaca quel giorno era più bella della sposa nel suo semplicissimo tubino blu, e che era stata così magnanima da aiutarmi a scegliere. La commessa mi guardava come se compatisse la mia ciccetta in eccesso, e la prima cosa che ci disse fu: «Cercheremo in tutti i modi di trovare qualcosa di adatto per la ragazza». Cioè, ma dico io! Scuoteva anche un po’ la testa! Come se pensasse che ero una causa persa! No, ma grazie davvero. Ero quasi tentata di andare via, se non fosse stato per mia madre che, non fidandosi, irruppe nella boutique, e facendo comunella con la commessa stronza, iniziò a provarmi di tutto. Alla fine decidemmo per un abito impero con un

intreccio sulle tette, che secondo me le accentuava ancora di più con il risultato che sembrava portassi due cuccioli di maltese vivi sotto il corpetto, e che frusciava fino ai piedi in un vortice terrificante di tulle e organza. Mia cugina mi aveva trascinato dal parrucchiere, dove sfoltirono la mia chioma indomabile, mi fecero un bel taglio scalato e indovinate cos’altro? Un riflessante che dava sul rossiccio. Giuro che non sapevo nemmeno che esistesse una roba simile. Le mie unghie mangiucchiate erano tornate lunghe grazie a una ricostruzione con french ed ero stata sapientemente truccata. Era stato abbastanza imbarazzante constatare che c’era voluto più tempo per preparare me che mia sorella. Constatazione fornita da Sofia, ovvio. L’unica cosa sulla quale ero stata ferma e decisa fin dall’inizio era che non avrei messo i tacchi per nulla al mondo. Niente tacco, nemmeno mezzo centimetro. Sotto minaccia di Caterina, scartai le Converse. «Ma tanto non si vedranno!» protestai. «Niente da fare! Se osi mettere quelle cose lì, giuro che ti costringerò ad ascoltare ininterrottamente i cd di Britney Spears uno dietro l’altro!» C’era minaccia più efficace? Optai per un paio di ballerine bassissime e piene di pietre che le adornavano. Col cavolo che avrei sofferto di nuovo come all’addio al nubilato! Dovetti ammettere però che alla fine non stavo così male. Durante la funzione mia madre e mio padre piansero tutte le lacrime che il buon Dio gli aveva donato. Io mi guardavo intorno annoiata. E fu così che incrociai lo sguardo di un ragazzo. Vestito con giacca e camicia e con i capelli perfettamente gellati. Mi sorrise. Io guardai dietro di me per vedere se stesse interagendo con qualcuna. Eh no. Sorrideva a me! Confusa, ricambiai. Poi ovviamente successe come accade sempre quando ti senti osservata da una determinata persona, no? Ti senti gli occhi addosso, anche se magari non ti fila più, avverti un pizzicore alla nuca e ti viene spontaneo voltarti dalla sua parte per vedere se ti sta ancora guardando. E lui mi guardava davvero! E continuava a sorridermi, anche! Mai successa una cosa del genere. «Caterina?» Mia cugina, emozionata, si soffiò il naso delicatamente. «Sì?»

«Senza voltarti subito» puntualizzai «Conosci quel ragazzo alla mia destra? Quello con la camicia bianca e la giacca nera e i capelli pieni di gel». Lei aspettò qualche istante poi controllò. «Mai visto. Perché?» «Così». Lei mi guardò alzando le sopracciglia, come se la sapesse lunga, ma evitò di aggiungere altro. Quando la funzione terminò, ci accomodammo fuori dove tutti e cento gli invitati fecero la fila per baciare gli sposi. Io quasi ululavo dalla fame. Dopo i baci, gli abbracci, le risate e i pianti, andammo a fare le foto per l’album matrimoniale. E anche lì, scatto dopo scatto, parente dopo parente, si fecero quasi le tre. Io avevo dei mancamenti. Al ristorante mi avventai sul buffet, facendone fuori almeno metà e mi eclissai per evitare che l’ennesima zia di settecentesimo grado, e altrettanti anni, mi staccasse una guancia con la classica: «Maquantoseicresciuta!» «Tu sei parente dello sposo o della sposa?» una voce mi arrivò da dietro, facendomi cadere l’ultima frittellina. Dannazione! Me l’ero lasciata alla fine nel chiaro intento di assaporarla per bene. E invece niente, sarebbe stato il pranzo di qualche stupida formica. Mi voltai con il feroce proponimento di aggredire l’idiota responsabile di cotanto scempio, e chi mi ritrovo? Il ragazzo gellato della chiesa. Lo guardai spalancando gli occhi, uno era ancora rivolto alla frittellina. «Parente della sposa o dello sposo?» chiese ancora lui. «Della sposa». «Ah, ecco. Mi sembrava di non averti mai vista prima. Una come te non la dimenticherei facilmente» mi disse guardando avidamente le mie povere tette strizzate dentro il corpetto. Io mi voltai leggermente, come a proteggerle.

«Mi chiamo Filippo. Cugino alla lontana dello sposo» mi disse porgendomi la mano. Ero tentata di mandarlo al diavolo dopo l’apprezzamento poco galante, ma dopo mi sorrise in quel modo così dolce. «Angela. Sorella della sposa» mi presentai. «Sorella? Urca!» Urca? No, davvero. Ha detto “urca”? «Eh già». «Ecco perché sei più bella delle altre ragazze presenti» mi adulò sorridendomi. Io non ci potevo credere. Mai nella vita qualcuno, specialmente un ragazzo, mi aveva detto una cosa simile. «Grazie» arrossii. «È ora di entrare, finalmente. Sto svenendo dalla fame. Magari più tardi avremo l’opportunità di conoscerci meglio» e con un lievissimo buffetto sulla guancia, andò via. Io rimasi lì quasi ansante. Mi ero perfino dimenticata della frittellina, pensate voi! Riprendendomi, entrai nella sala dove si svolgeva il pranzo. Mia sorella era stata così gentile da mettermi vicino a Caterina e al suo fidanzato storico, Giacomo, senza vendicarsi del poco coinvolgimento da parte mia per il suo gran giorno. Grazie sorella. «Ho visto che stavi parlando con quel ragazzo» mi diede una gomitata Caterina. «Sì, infatti». «Che ti ha detto?» «Ma niente. Credo che apprezzi le mie tette».

Caterina sbuffò un po’. «Bè, sì, in effetti sono piuttosto evidenti oggi». Io la guardai. «Anche con un burqa sarebbero state piuttosto evidenti» puntualizzai. Caterina ebbe il buon gusto di non replicare. Iniziarono a servire le varie portate. Io ero così affamata che non guardai nemmeno cosa c’era nel piatto. Ogni tanto sbirciavo in direzione del ragazzo, che puntualmente ricambiava lo sguardo o mi salutava con un cenno. Io ero al settimo cielo. «Adesso che farai?» Caterina mi fece sobbalzare. «Di cosa parli?» Lei mi guardò un po’ seccata. «È evidente che interessi a quel ragazzo» mi fece notare. «Io?» Caterina alzò gli occhi al cielo. «Angela sei tarda? Tu, sì!» Non dissi niente, assaporando il risotto. Ma cosa diavolo era quella roba gialla che stava lì in mezzo, a proposito? «Adesso non rovinare tutto comportandoti da camionista» mi ammonì lei. Mi voltai di scatto, seriamente offesa! «Camionista?» «Sì, da scaricatrice di porto. Adesso lascia che ti dia qualche consiglio». Ma mi ha dato della camionista? «Non fare rutti, non toglierti le mutande dal sedere, non camminare a gambe

larghe, non ridere sguaiatamente, non parlargli del desiderio che hai fin da piccola di dare fuoco ai capelli delle veline». «Però devi ammettere che sarebbe bello!» Giacomo annuì. «Non sbadigliare senza metterti una mano davanti alla bocca, e ti prego, ti prego! Siediti in maniera femminile, accavallando le gambe con grazia!» «Caterina, sono fortemente tentata di mandarti a fanculo». Mi alzai e mi avviai verso il bagno. Almeno lì potevo starmene un po’ sola! Sapevo che mia cugina mi aveva detto quelle cose senza la minima cattiveria, e che voleva solo darmi una mano. E probabilmente era il caso di ammettere a me stessa che effettivamente togliersi le mutande dal sedere non era una mossa fine. Ma quel giorno mica portavo il perizoma! “Camionista”. Ma come osa? E poi io ero fatta in un certo modo. Punto e basta. Non mi piaceva dover fingere di essere qualcosa che non ero solo per piacere a un ragazzo. Se fingi all’inizio di una storia, ti ritroverai a fingere fino alla fine della relazione, basando il tutto sulla bugia e sulla menzogna. Non mi garbava l’idea. Se mai fossi piaciuta a un ragazzo sarebbe stato perché apprezzava anche le mie Converse, le mie felpone, i miei capelli tenuti alla meno peggio, le mie unghia rosicchiate e, se ci scappava, anche i miei ruttazzi da benzinaia. Oh! Anche perché probabilmente a quel ragazzo piacevo a causa del vestito da tappeto rosso, per i capelli sapientemente acconciate e per le mie due megatette che stavano per esplodere. Difficilmente, se fosse entrato in negozio una mattina qualunque o mi avesse incontrata per strada per caso, mi avrebbe notata. Quindi ecco quello che avrei fatto se si fosse riavvicinato a me: gli avrei detto chiaro e tondo com’ero, senza dargli false speranze. Brava Angela! Piena di carica uscii dal bagno, nemmeno un secondo dopo fui braccata da

Filippo. «Ciao» mi salutò allegramente. «Ciao» ricambiai decisa. «Facciamo due i fuori?» Il ristorante era provvisto di un bellissimo giardino con un fiumiciattolo artificiale e gazebo nel bel mezzo. Prendemmo a camminare in silenzio, io aspettavo mi dicesse qualcosa solo per iniziare a elencargli tutte le cose brutte che facevo, e quanto ero poco femminile. «Ti stai divertendo?» mi chiese. «No. Sinceramente non sono molto presa dal matrimonio» confessai candidamente. «Ma come? Tu non sei come tutte le ragazze?» fece sorpreso. Io lo guardai. «Cioè, come?» «Mah, si sa. Aspettate il principe azzurro, per poi sposarvi e fare figli, e la famiglia, e tutte quelle cose lì». Oh mamma! Io rimasi un po’ a bocca aperta, devo essere sincera. Certo che le ragazze erano fatte così, ma nell’800! Ma chi è che nel duemila ancora sogna una cosa del genere? Cioè, vada per la famiglia e i figli, ma il principe azzurro? Era più probabile che arrivasse un operaio a bordo di una Punto che il principe a cavallo. «No, decisamente non sono così». «E cosa vorresti nel tuo futuro?» mi chiese. «Una felpa comoda, e non questo vestito. Scarpe da tennis invece delle ballerine. Togliere queste assurde french alle unghie in modo da poterle mangiare come ho sempre fatto, e sciogliere i capelli che mi tirano da stamattina» gli dissi. «Ah! E

se possibile vorrei anche un lavoro decente». Lui scoppiò a ridere. «Urca! Mai conosciuta una come te». Urca? Oh no! Ditemi che non l’ha detto di nuovo! «Lo prendo come un complimento» dissi. «Certo che lo è» mentre lo diceva mi guardò di nuovo le tette. La cosa mi infastidì notevolmente, in altre occasioni sarei andata via lasciandolo lì come un ebete. Ma non mi era capitato spesso che un ragazzo mi fe la corte, quindi. «Quanti anni hai Angela?» mi chiese. «Ventidue. Tu?» «Venticinque» sorrise ancora. Camminammo per un po’ senza parlare. «Mi hai detto che vorresti un lavoro decente. Significa che sei disoccupata?» «Significa che quello che ho fa schifo». Senza rendermene conto, mi ritrovai a raccontargli di quanto fosse brutto lavorare con Ilva e di tutti i dispetti che mi aveva fatto. Anche di quella volta che si era intasato lo scarico dei bagni del centro commerciale, e il tubista era entrato da noi chiedendoci se doveva aggiustare anche il nostro water. Già uno che te lo chiede, ti dovrebbe far capire che razza di tipo è. Ma se si sono rotti tutti i cessi del centro commerciale, cosa ti fa pensare che il nostro è intatto? Cavolo, vai e controlla, no? Invece Ilva non fu dello stesso avviso perché gli disse: «Oh no, grazie. C’è la ragazza qui, ci penserà lei».

E giuro, mi fece sturare il bagno. E non chiedetemi perché non mi ribellai! Lavoravo lì da poco. «Urca. Che stronza» arricciò il naso Filippo. E lì mi resi conto che mi piaceva. Chiunque reputasse Ilva una stronza era degno di considerazione. Anche se era un habitué del termine “urca”. In quel momento arrivò Caterina. «Angela! Ti vuole Laura. Dovete fare delle foto» mi informò. Sbuffando in maniera evidente mi accinsi a tornare dentro, ma Filippo mi afferrò per un braccio, facendomi correre le formiche su per l’arto! «Aspetta! Te ne vai così?» mi sorrise. «Vuoi che ti lasci una scarpetta come Cenerentola?» «No, ma almeno il tuo numero di cellulare» fece speranzoso. A quel punto mi sciolsi.

10.

Lui

Avete mai notato che quando siete sentimentalmente presi da qualcuno, tutto il resto va meglio di conseguenza? Dovrebbero condurre uno studio approfondito sulla questione. O forse l’hanno già fatto. Dopo aver dato il mio numero al fattorino ero corso in ufficio dove avevo scritto a Elisa le novità. Quando il cellulare vibrò, pensai che fosse la mia amica che mi rispondeva. Invece no! «Mi sono dimenticato di darti il mio numero! Eccolo qui, registralo pure. E comunque ti scrivevo solo per dirti che ti saluta la tua bottiglietta. Raffaele». Anche se era una battuta scema, mi fece ridere lo stesso, e cominciammo a scambiarci sms per il resto della giornata. Probabilmente avrei dovuto immaginare che non era saggio che lui usasse il cellulare mentre guidava, perché quella sera mi scrisse di aver preso una multa perché guidava con il telefonino in mano. Mi sentii in colpa e promisi che la pizza gliel’avrei pagata io. La cosa andò avanti per tutta la settimana successiva, arrivando addirittura a scrivermi un messaggio per augurarmi buongiorno e buon lavoro e uno per la buonanotte. Non sapevo più cosa pensare, anche se immaginavo di interessargli nonostante non avesse davvero l’aria di essere gay. Mai giudicare un libro dalla copertina! E poi se era sempre lui a scrivermi per primo, un motivo doveva pur esserci, no? Ne parlai con Elisa che non era più nella pelle per quella mia uscita programmata, ma non ancora confermata. Ma, forse, faceva così solo perché era contenta che mi fossi riconvertito all’omosessualità eterna, lasciando perdere le sconosciute pazze che si incontrano in discoteca. «Elisa, tesoro, datti una calmata. Guarda che è solo una pizza, nient’altro» la ammonii quel sabato mentre camminavamo in un centro commerciale.

«Lo dici tu! Ma i ragazzi etero non offrono una cena a un ragazzo gay solo per sdebitarsi di una bottiglia d’acqua» mi disse con l’aria di chi la sa lunga. «Due bottiglie d’acqua. E comunque io non gli ho detto di essere gay». Lei si fermò guardandomi esasperata. «Perché, pensi ci sia bisogno di parole?» rise. Io, mio malgrado, sorrisi a mia volta. «No, davvero. So che vuoi andarci con i piedi di piombo, e fai bene. Però io ho le mie convinzioni e sono felice per te» mi disse. «Grazie. E con Alessandro come va?» Lei non aspettava altro che glielo chiedessi. «Benissimo! Sapessi com’è dolce! Così carino, così attento. Non vedo l’ora di fartelo conoscere!» disse eccitata. «Bene, allora organizziamo una cena tutti e tre una sera». «Ok, ne parlerò con lui». Quella versione di Elisa era una scoperta. Non avrei mai immaginato che potesse cambiare tanto. «Ah, e indovina un po’?» mi disse parandomisi davanti. Per poco non la travolsi. «Cosa?» «Mi hanno offerto di posare per una linea di gioielli!» mi disse tutta contenta. «Ma è fantastico!» «Lo so! la mia carriera di modella sta decollando, ho incontrato un ragazzo meraviglioso e a scuola ho preso ventinove e trenta agli ultimi due esami! Va tutto benissimo!» fece una giravolta.

«Sono contento per te». Quella sera mi presi un piccolo break dai disegni. Mi piaceva sempre tantissimo buttare giù le mie idee, e vedere come un pensiero si tramutasse in abito concreto, ma per una volta volevo starmene tranquillo. Elisa era uscita con il suo nuovo ragazzo, e io avevo declinato le proposte di amici per uscire di sabato sera. Volevo godermi l’aria fresca di quel fine maggio così caldo. Ero affacciato alla finestra di camera mia, con i gomiti poggiati sul davanzale tipo Giulietta che aspetta Romeo, al buio e in completo silenzio. Vabbè, se escludevamo i miei che litigavano di nuovo! Il cellulare squillò. Oh mio Dio! È Raffaele! «Pronto?» «Buonasera. Disturbo?» Ma figurati dolcezza! «No, sono in camera mia». «E cosa fai in camera tua?» «Assolutamente niente. Sono al buio in completo silenzio» lo informai. «E perché? Oddio, sei in compagnia? Ho interrotto qualcosa?» fece in ansia. «Ma no! È solo che voglio starmene tranquillo, tutto qui». Piccola pausa. «Al buio?» «Al buio» confermai. Che bello sentire la sua voce dopo una settimana ata a scriverci sms! «Tu invece com’è che mi chiami a quest’ora? Non esci con gli amici il sabato sera?» gli chiesi evitando appositamente di dire ragazza invece di amici. «Guarda che se ti scoccio, riattacco» disse fingendosi offeso.

«No, no! Anzi». Lui sembrò sorridere. Non so perché lo pensai, ma fui certo d’averci preso. «Ti chiamavo per quella famosa pizza, sempre se non hai altri impegni» mi disse. «Ok, quando andiamo?» «Bè, volevo proporti questa sera, ma se preferisci fare l’eremita non fa niente». Mi alzai di scatto dal davanzale della mia finestra. «Niente eremita! Per me va benissimo» gli dissi. «Ottimo! Dove ci vediamo? Va bene anche dalle tue parti. Conosco la zona anche se abito più a nord». Gli offrii un paio di opzioni in modo che fosse facilitato nell’arrivarci, e ci demmo appuntamento da lì a un’ora. Erano le otto. Avvertii mia madre che sarei uscito a cena e per le otto e un quarto ero pronto. Scrissi un sms velocissimo a Elisa sapendo che non l’avrebbe letto, e partii alla volta dell’appuntamento con Raffaele. Mentre guidavo non ero più in me dalla contentezza. Speriamo solo che non si presenti con quella sua salopette color cammello. Arrivai con notevole anticipo, e ai la mezz’ora successiva a canticchiare le canzoni che avano alla radio. Anche quelle di Tiziano Ferro, che io non potevo soffrire. Stupidamente, mi aspettavo di vedere da un momento all’altro il camion delle consegne materializzarsi dopo la curva del lungomare, dove ci eravamo dati appuntamento, ma poi pensai che a rigor di logica sarebbe venuto con la sua macchina. E infatti alle nove in punto mi bussò al finestrino, facendomi sobbalzare. «Ciao». «Ciao. Sali?» gli dissi.

Lui prese posto vicino a me. Era bellissimo: i capelli erano sempre spettinati, e aveva sempre quel sottile filo di barba che però lo rendeva irresistibile. Il sorriso bianchissimo era sempre gentile e spontaneo. E quella sera portava una camicia a maniche corte e jeans scoloriti. Stava benissimo! «Eccoci qui. Dove andiamo?» mi chiese. Feci mente locale. «Vedrai. Ti porto in un bel posto» gli dissi partendo. Mentre guidavo mi fece ridere con le sue solite battute, e fui sorpreso nel vedere che non c’era il minimo imbarazzo mentre mi parlava. Ma poi perché ci sarebbe dovuto essere imbarazzo tra noi due? Stavo facendo tutto da me: stavo trasformando un invito per una pizza in qualcosa di più. Questo non è un appuntamento! Sveglia! Eppure non so, una vocina insistente mi diceva il contrario. «A cosa stai pensando?» «A niente» gli sorrisi. «Di’ la verità. Ti manca così tanto quella bottiglietta d’acqua?» mi prese in giro. «Ma non era mia. L’ho solo presa dal distributore» obbiettai. «Sì, ma non credere che non abbia notato la tua espressione vogliosa verso quella bottiglia mentre me la avi» disse. Io risi. «Cavolo, hai ragione». Parcheggiai. Era un po’ distante dalla pizzeria, ma era una così bella serata che mi andava di camminare un po’. Raggiungemmo il locale e prendemmo posto all’interno.

«Alla fine a chi tocca pagare la pizza?» mi chiese Raffaele con noncuranza mentre osservava con finto interesse il menù. «A te. Devi sdebitarti, no?» «Sì, ma io ho preso una multa. Quindi tocca a te». «Ma la multa non te l’ho fatta io. Quindi sta a te!» «Ma l’ho presa perché stavo messaggiando con te. Quindi…» Io alzai le braccia. «Non ti ho chiesto io di messaggiare con me!» risi. «Anzi, hai iniziato tu!» «Vero. Ma questo non cambia le cose». «Le cambia eccome». Lui lasciò il menù e si fece più vicino a me dall’altra parte del tavolo, appoggiandosi sui gomiti. Oddio com’è bello! «Non ti ha fatto piacere sentirmi durante la settimana?» mi chiese con voce suadente. Io rimasi senza fiato. «S-sì» soffiai. «Bene, allora la pizza la paghi tu» e si rimise a guardare il menù senza prestami più attenzione. Io lo guardai allibito. «Disgraziato!» «Non si prendono a parolacce gli ospiti». «Ma tu non sei mio ospite! Semmai il contrario».

«Ah sì?» «Sì! Sei tu che hai chiamato me». «Vero» sorrise. Di nuovo mi sentii mancare. La cena fu piacevolissima, e alla fine con la scusa di andare un attimo alla toilette, pagò lui. «Ma non dovevi!» gli dissi. «Sì invece, così ti sentirai in colpa e la prossima volta pagherai tu! E andremo in un ristornate più costoso!» rise. Feci finta di picchiarlo, uscimmo dal locale per accorgerci che stava diluviando come mai avevo visto prima. Sembrava che stessero rovesciando secchi d’acqua dal cielo. «E adesso?» gli chiesi. Ovviamente non avevo un ombrello, viste le condizioni meteorologiche dell’ultimo mese e, come un idiota, avevo parcheggiato distante perché volevo camminare. Bravo cretino! «E adesso si corre e si arriva alla macchina» disse lui, e lasciandomi lì prese a correre sotto la pioggia. Ma questo è pazzo! Ci ho messo un secolo per sistemarmi i capelli! Cominciai a correre anche io cercando di ripararmi sotto qualche albero o sotto qualche grondaia, ma fu tutto inutile. Dopo un paio di metri ero fradicio. Quando arrivammo alla macchina salimmo in fretta e furia. Ci guardammo e scoppiammo a ridere come due ebeti. Avevamo i capelli che gocciolavano, i vestiti bagnati che si appiccicavano addosso e sentivo i piedi freddissimi. «Sei zuppo!» mi disse.

«Pure tu» gli feci notare. Lui stava ridendo di gusto, finché si avvicinò e mi baciò di sfuggita sulle labbra. Il cuore prese a martellare in maniera frettolosa e pericolosamente energica. «Cos’hai fatto?» mi toccai le labbra. Lui non smise di sorridere. «Non lo so. Mi è parsa la cosa più giusta. Ti ha dato fastidio?» «No» risposi in fretta. Volevo che lo rife ancora, per convincermi che era successo davvero, e non solo nella mia mente. «Bene allora» e si appoggiò allo schienale del sedile con gli occhi chiusi, con un lieve sorriso sulle labbra, in apparente, completo benessere. Ok, me lo sono immaginato. Rimasi lì in imbarazzo senza sapere cosa dire, o cosa fare. Ma come si fa a baciare uno, e poi mettersi appoggiato al sedile senza prestargli più attenzione? O forse Raffaele era come la signora Flora, e aveva bisogno di riflettere bene su qualunque cosa. «Mi sono divertito un sacco stasera» mi disse rompendo il silenzio. «Merito mio o della pioggia?» «Della pioggia». «Scendi subito!» mi finsi scandalizzato. «Ok, anche un po’ tuo». «Adesso ti annego in una pozzanghera». «Va bene, allora è solo merito tuo» mi disse guardandomi. «Così va meglio. Se sei sincero» aggiunsi guardandolo con la coda degli occhi.

Lui si fece più vicino a me, e mi prese il viso con una mano. «Sono totalmente sincero» mi disse senza sorridere. E serio era anche più bello. Poi si avvicinò ancora di più e mi diede un bacio bagnato e profumato di pioggia, che poco dopo mi scoprii a ricambiare con trasporto.

11.

Lei

Quando tornai al lavoro, la settimana successiva, Giuditta mi disse che la fioraia stava seriamente prendendo in considerazione l’ipotesi di assumerla. «La paga è inferiore a quella che prendo qui, ma non mi importa» mi disse lei. E chi poteva biasimarla? Se avessi trovato qualcos’altro, avrei mandato a quel paese Ilva anch’io. Ma a quanto pareva no, sembrava che gli astri avessero altri programmi per me, perché nonostante gli ottocento curriculum che avevo inviato, nessuno sembrava necessitare di mano d’opera. E mi sarei accontentata anche io di orari meno flessibili e una paga meno consistente, eh! Ma non tutto stava andando male. So che questo vi caà uno shock anafilattico, ma mi stavo sentendo con Filippo. Sembrava che gli pii davvero! Non so bene cosa lo attirasse in me, ma avevo avuto una prova inequivocabile che era davvero interessato: una sera era ato in negozio, dopo una giornata particolarmente stressante. Ma la gente che bisogno ha di tutti quegli articoli in pelle? Non eravamo d’accordo che in Italia c’era la crisi e che bisognava economizzare? E invece no, tutti diventano pazzi quando vedono i saldi. Comprerebbero l’impossibile. Addirittura una donna voleva acquistare la vetrinetta, quella ancora intatta, dove esponevamo i portafogli. «Non è in vendita signora» le avevo detto dolcemente. «Non lo è? Peccato, mi serviva proprio una vetrinetta così» si era offesa lei. Ero reduce da una giornata sfiancante, visto che Ilva non aveva mai lasciato la sua postazione dietro il bancone. Stavo per chiudere, quando Filippo si materializzò dietro di me. «Che bella commessa» mi disse.

Io mi voltai. «Ciao» mi sorrise lui. «Ciao» ricambiai senza fiato. «Che ci fai qui?» «Sono ato a comprare delle scarpe» mi fece vedere la busta di un negozio piuttosto costoso. «Ti va di prendere qualcosa insieme?» Erano le nove, il centro commerciale stava chiudendo, io ero stanca morta dopo tutti i chilometri che mi aveva fatto macinare Ilva, ero vestita come una foca monaca e avevo i capelli sporchi, quella mattina non avevo avuto voglia di lavarmeli, raccolti in una coda che mi aveva tormentato tutto il giorno facendomi venire un mal di testa da Guinness. «Certo» tentai un sorriso. Andammo in un bar non troppo lontano da casa mia, il che fu un bene, perché mi avrebbe evitato di fare tutto il tragitto con i mezzi pubblici. Eravamo in maggio e le giornate si erano allungate, ma d’inverno con il buio che scendeva già alle quattro del pomeriggio, per me era un vero problema. Ok, non essendo magari tutta questa gran bellezza, probabilmente eventuali stupratori non mi avrebbero notata. Ed è vero che mia sorella mi diceva sempre: «Se un qualche pazzo ti molestasse sul pullman, almeno potresti dire che ti fila qualcuno». Dolce come l’aceto lasciato al sole d’agosto. Comunque avevo paura lo stesso dei brutti ceffi, per questo portavo sempre con me una piccola trombetta da stadio. Avete presente quelle bianche, piccoline, con il beccuccio rosso? Ecco, quelle. «Ti sei stancata molto, oggi?» mi chiese Filippo. Io repressi uno sbadiglio. Ero distrutta. «Non più del solito» gli dissi rassegnata.

Mi resi conto che stava cercando di intavolare una conversazione, quindi decisi che dovevo mostrargli un minimo di interesse. «Tu invece che lavoro fai?» gli chiesi. «Non lavoro». «Oh. Studi allora?» tentai. «Nemmeno». Lo guardai interrogativa. A casa mia c’era una regola fissa e piuttosto ferrea: o si va a scuola o si lavora. Il dolce-far-niente non era contemplato nel vocabolario di famiglia. «E di cosa ti occupi?» chiesi infine. «Di nulla. Ho finito gli studi e sto cercando lavoro». «Studi? Frequentavi l’università?» «No, parlo delle scuole superiori». Io lo guardai. Secondo un rapido calcolo, se Filippo aveva venticinque anni le cose erano due: o stava cercando un impiego da sei anni, oppure era stato bocciato tante di quelle volte che aveva appena preso il diploma. «Quando ti sei diplomato?» cercai di esprimermi con dolcezza. «Ehm» calcolò mentalmente. «Sei anni». Ecco appunto. E il bello è che me lo disse sorridendo, senza il minimo imbarazzo! «E in sei anni non hai trovato nulla?» domandai incredula. Impossibile, no? «Niente che mi piaccia fare» specificò.

Io alzai le sopracciglia. «E come vivi?» «Mi mantengono i miei» annunciò candido. Un venticinquenne disoccupato che si fa mantenere dai genitori? Oddio, ma con chi ero capitata? Ecco, vedete? Era impossibile che un bel ragazzo fosse interessato a me. Doveva avere qualche magagna. È matematicamente dimostrato. «E i tuoi dove prendono i soldi per mantenerti?» accennai alla busta del negozio. Quelle scarpe dovevano costare più di quanto avessi mai speso io per le mie scarpe. «I miei sono separati. Mio padre ha uno studio legale piuttosto frequentato a Roma. Mia madre ha ereditato un sacco di soldi da suo padre quand’è morto» finì di bere il suo caffè con noncuranza. Io avevo la bocca aperta. Ma allora non ero capitata con un idiota qualunque! Quello davanti a me era un ereditiere! Mi asciugai un filo di bavetta smaniosa. «Senti, ti va di uscire insieme una sera?» mi chiese Filippo. «Perché, adesso che stiamo facendo?» «No» rise. «Intendo un vero appuntamento» specificò. «Con me?» «Sì». «Davvero?» «Ehm…» Ok, basta Angela! Non fare la cogliona. Stava titubando. Brutto segno.

«Sì! Certo! Sono d’accordo» dissi in fretta, prima che potesse cambiare idea. «Urca!» esclamò. Eddaje! «Fantastico!» mi sorrise. «Bene». «Facciamo questo sabato?» «Questo sabato va benissimo». «Ti o a prendere?» «Facciamo alle nove e mezza?» calcolai il tempo necessario per tornare a casa dal negozio e darmi una sistemata. «Perfetto». Ci avviammo in strada, ma non prima che Filippo mi offrisse il caffè. «Allora ci sentiamo» mi sorrise. «Certo». Adesso mi piacerebbe dire che si chinò in un perfetto baciamano elegante e da racconto Harmony. Ok, sì, lo ammetto! Mi piaceva leggere quella roba! E allora? Un sacco di persone li leggono. Donne. Sulla quarantina, cinquantina, magari zitelle. Ma ce ne sono comunque tante! A ogni modo, ero pronta per un gesto simil-romantico. Lui si avvicinò. Sporse le labbra verso la mia fronte, e accompagnò un bacio umidiccio sul cranio con una bella pacca sul sedere. Romantico, no? Una volta a casa mi catapultai in camera e telefonai a Caterina. Dovevo raccontarle cosa mi era successo. Per una volta anche io avevo una storia che comprendeva un appuntamento e un ragazzo! E nella stessa occasione, poi! «Pronto?» «Cate? Sono io» mi interruppi.

Avevo sentito dei mugugni dall’altra parte della cornetta. «Angela! Ciao. Che fai?» mi chiese come se i muggiti fossero una cosa normale. Ma stava facendo sesso? «Niente. Ma c’è Giacomo con te?» indagai. «Come? Oh, sì. È qui. Ti saluta». Oh mio Dio! «Ehm, interrompo… insomma, quella cosa lì?» Caterina ci mise un po’ a capire di cosa stessi parlando. «Cosa? Oh no! Certo che no! Figurati, gli stavo togliendo i peli dietro la schiena» rise. «Ma che schifo!» Caterina sbuffò. «Che schifo cosa? Tra un po’ andremo al mare. Mica posso andarci con lui che sembra il tappeto di Aladdin, no?» Quando uno ha ragione, ha ragione. Anche perché il povero Giacomo avrebbe sfigurato comunque in spiaggia al fianco della mia stupenda cugina perfetta con il fisico da modella e le tette da pornostar. Peli o non peli. «Comunque, cosa succede tesoro?» mi chiese lei. Mi ripresi dall’immagine di una striscia di ceretta orribilmente piena di pelami strappati. «Oh! Sì! Indovina?» E le raccontai per filo e per segno del caffè che avevo preso. Tralasciando il particolare della pacca, e del fatto che fosse disoccupato, puntando l’accento sulla questione dell’eredità.

«Non ci posso credere!» strillò Caterina al telefono. «Nemmeno io!» mi buttai sul letto felice. «Oh cara, sono così felice per te! Cosa metterai sabato?» Ecco. Bella domanda. Cosa avrei messo? «Ehm». «Angela!» «Io…» «Niente felpe, Converse o jeans!» «Ma…» «Niente ma! Domani andremo a fare shopping» decise Caterina. «Oh no!» «Oh sì!» «Ti prego, Caterina». «No, no, no, no, penserò a tutto io. Tu porta solo il bancomat». Ero agghiacciata. Far shopping con Caterina? Piuttosto preferivo attaccarmi per le palpebre a un bus urbano e lasciarmi trascinare per mezza città. Quando Caterina andava per negozi, perdeva ogni comportamento umano. Diventava una bestia! Non posso raccontare nulla, visto che non sono sicura che queste righe non vengano lette da minorenni, ma l’ultima volta che avevo fatto l’errore di accompagnarla, dico solo che ci eravamo ritrovate in un allevamento di struzzi fuori città, con degli enormi stivali di gomma e il fango che ci arrivava ai fianchi, con un contadino incazzato come un tirannosauro con la piorrea che ci urlava di andare via. «Caterina, non credo serva comprare nulla. Qualcosa di carino devo avercelo nell’armadio. Posso arrangiarmi» tentai ancora, supplichevole.

«Ho detto niente ma! Ci vediamo domani» disse decisa. Giacomo lanciò un urlo. La cosa prometteva male.

12.

Lui

«Un bacio, e poi un bacio, e poi un bacio, e poi altri cento, teoricamente il mondo è più leggero di una piuma». Alzai il volume della radio in macchina e sorrisi ripensando a ciò che mi stava succedendo con Raffaele. Dopo quella sera ata a pomiciare, ci eravamo sentiti sempre più spesso, e lui era stato sempre più dolce rivelandosi galante oltre che simpatico. ammo moltissimo tempo con l’orecchio alla cornetta o a mandarci sms, e quando lo dissi a Elisa, lei per poco non scoppiò. E lo so che non si deve guidare mentre si parla al cellulare, ma andavo piano, giuro! «Lo sapevo!» urlò al telefono. Io rimasi zitto. «E adesso? Vi mettete insieme? A proposito, io e Alessandro ormai ci reputiamo una coppia. Oddio! Senti che idea! Una bella uscita a quattro! Non sarebbe bellissimo? Dai usciamo stasera tutti insieme! È l’unico venerdì che Alessandro ha libero» era smagliante. «Rallenta, Usain Bolt. Io e Raffaele siamo usciti solo due volte». E la seconda volta era stata anche più bella, perché c’era molto meno imbarazzo e più voglia di conoscersi meglio! Era stato lui a invitarmi nel suo paese ed eravamo andati a cena in un agriturismo dove però avevo insistito per pagare io. Quando eravamo usciti all’aria aperta, mi aveva proposto di andare a casa sua. A quanto pare abitava nell’appartamento sopra i suoi genitori. Io tergiversai. «Ehm, non saprei». «È tutto ok» mi aveva sorriso intuendo la mia indecisione.

«Non ti dispiace? Siamo usciti solo due volte, e…» «Ma no!» mi interruppe. «Non avrei dovuto proportelo, so che è prematuro. Ma quando sono con te perdo la ragione» e mi aveva stretto forte, baciandomi dietro un enorme salice piangente fuori dall’agriturismo. Era stato da togliere il fiato! Però da lì a considerarci una coppia vera e propria ce ne ava, insomma. «Ma io voglio farti conoscere Alessandro!» si lagnò Elisa. «Allora stasera usciamo insieme noi tre. E poi più in là, se la cosa va avanti…» Ti prego! Fa che sia così! «Ti presento Raffaele». Ci misi un po’ per convincerla, ma alla fine la spuntai. Ci demmo appuntamento alle nove in un locale tranquillo appena fuori città, e io tornai a casa felice. Al lavoro andava sempre meglio, ora che gli ultimi vestiti erano stati consegnati, avevamo la prospettiva di luglio e agosto, mesi in cui i matrimoni non sono così frequenti. Anche se già tremavamo per settembre. E poi c’era la nuova collezione per l’inverno da finire! Avevo un altro mese per presentare i disegni, e sembrava che la nuova storia con Raffaele fe bene alla mia fantasia! Avevo un milione di idee, e buttavo giù uno schizzo dopo l’altro. Daiana mi faceva mille complimenti, anche se le cose con il suo fidanzato non stavano andando per il verso giusto. Che nervi che mi metteva quell’essere! I miei non facevano che litigare, adesso più che mai. Forse l’estate accentuava il malcontento. E come biasimarli? Io stavo letteralmente evaporando. Soprattutto dal momento che Flora non voleva vedere pantaloncini corti, o a tre quarti. Voglio dire, una che si mette certe cose può davvero pretendere tanto con 35 gradi all’ombra? Comunque, una volta a casa informai mia madre che sarei uscito a cena e andai in camera mia preparandomi a una bella doccia rilassante. Ero in accappatoio, quando mi chiamò Raffaele. «Ciao» gli risposi. «Ciao. Sei tornato a casa?» «Sì, sono appena rientrato. Mi hai beccato mentre stavo per andare a fare una

doccia» gli dissi sedendomi sul ciglio del letto. «Mmmh, quindi sei nudo?» abbassò la voce. «Eh sì» dissi cercando di stuzzicarlo. «Come vorrei essere lì» mi disse piano. «Ti aspetto?» «Cinque minuti e arrivo!» Ridemmo, cercando di mascherare l’eccitazione. La mia per lo meno era piuttosto evidente. «Che fai stasera?» mi chiese poi. «Vado a conoscere il nuovo ragazzo della mia amica» sospirai. «Uffa. Volevo uscire con te» mi disse piagnucolando. «Ci vediamo domani? È la prima volta che me lo presenta ufficialmente ed Elisa non perdona». Lui sospirò. «E va bene. Ma non guardare gli altri ragazzi» mi disse. «E perché no? Non sono fidanzato» lo provocai. «Ah no?» «No» confermai. «Non ti interessa nessuno in questo periodo?» scherzò. «No, nessuno. Sono libero come l’aria». «Bene! Allora posso provarci io con te». «Non sei il mio tipo, mi dispiace» sorrisi.

«Mai dire mai. E poi ormai sono troppo preso da te per poterti lasciare in pace» mi disse dolcemente. Dovevo metterci così tanto per incontrarlo? Per la cena con il famoso Alessandro mi vestii in maniera semplice, e quando arrivai alla pizzeria dove ci eravamo dati appuntamento notai senza stupore che Elisa era in ritardo. Riusciva a non arrivare puntuale anche se non era lei a guidare. Dovetti aspettare un quarto d’ora prima di vederla scendere dall’auto del ragazzo. Era bellissima come sempre. «Scusa! Lo so che abbiamo fatto tardi, ma…» «Tanto ho prenotato per le nove e trenta, anche se ti avevo detto le nove» la zittì quello che doveva essere Alessandro. «Piacere, Alessandro». Ecco, appunto. Era altissimo! Almeno due metri. Ed era magro, moro con gli occhi azzurri. Aveva l’aria di chi sa sempre cosa sta facendo, sicuro di sé e sicuro di piacere agli altri. E infatti già mi piaceva. Senza contare che aveva subito capito il giochetto delle prenotazioni: dire a Elisa di aver prenotato una mezz’ora prima dell’orario vero! Così forse potevi arrivare puntuale. «Piacere, Eros» mi presentai. «Finalmente ti conosco. Non fa che parlarmi di te» mi sorrise lui. Elisa gli faceva le fusa. «Sì, anche a me ha parlato molto di te» annuii. Entrammo in pizzeria, dove io e la mia amica cercammo di non dare a vedere che la nostra intesa era più immediata di quella tra lei e Alessandro, e tutto sommato fu una bella serata. Certo, c’era un certo imbarazzo, perché non ci conoscevamo. Però il fidanzato della mia amica si rivelò un ragazzo calmo, gentile e spiritoso, impossibile non

andarci d’accordo. Sapeva conversare di tutto: dal calcio, al cinema, alla musica, tentò con la politica, ma dalle facce che facemmo io ed Elisa si rese conto che non sapevamo nemmeno su che pianeta si trovassero gli individui di cui parlava. Riuscì perfino a chiacchierare del tempo senza essere banale! E non è da tutti! Raffaele mi mandò una decina di messaggi, e mi chiamò per dirmi che mi pensava. Ero così felice che tornai al tavolo volando come una Calopteryx Virgo. A fine serata io e Alessandro fummo d’accordo nel dividere il conto in due, esentando Elisa. Eravamo pur sempre uomini, no? Inutile dire che la mia amica aveva le lacrime agli occhi dalla contentezza. Dopo la pizza decidemmo di prendere un gelato, poi facemmo una eggiata sul lungomare strapieno di anti e infine scendemmo in spiaggia, dove prendemmo un aperitivo postcena in uno chalet e che Alessandro insistette per pagarmi. Ero un tantino imbarazzato, ma alla fine non ebbi scelta. Intanto Raffaele mi chiamò una seconda volta per dirmi che andava a letto, e che prima di dormire voleva sentire la mia voce. Mi corse un brivido lungo la schiena. E non esagero! Raffaele mi faceva davvero quell’effetto! All’una decidemmo di tornare a casa, Alessandro dopo avermi salutato come se fossimo vecchi amici, ebbe addirittura il buon gusto di aspettare che io ed Elisa scambiassimo quattro chiacchiere in disparte! Che uomo. «Allora? Dimmi, dimmi, dimmi!» saltellò Elisa. «È praticamente perfetto! Capisco perché ti piace tanto» le dissi. «Lo è, vero?» Elisa fece una piroetta gioiosa. «Oddio che contentezza! Ho la tua benedizione e quindi posso concedermi» disse lei. Io la guardai con gli occhi sbarrati. «Ma perché, ancora niente?» Lei si finse offesa. «Certo che no! Io sono una ragazza seria e rispettabile». «Ma Elisa! Povero Alessandro! Uscite insieme da quanto?» la rimproverai ridendo. «Un mese circa. E visto che ha sempre detto che usciva con me per come sono

dentro, e non per portarmi a letto, gli ho chiesto di aspettare finché non fossi stata pronta. E l’ha fatto! E poi scusa, te e Raffaele, allora?» «Ma io e lui ci vediamo da molto meno» protestai. «Sì, ma il tempo nelle uscite tra gay si conta in maniera diversa. Come gli anni per i cani. Quindi è come se usciste da un anno. Si sa che voi omosex non aspettate molto per andare a letto insieme» mi diede una pacca sul sedere. «Praticamente hai appena affermato che i gay sono cani?» «No, sei tu che hai capito male». «Sì, vabbè». «Comunque adesso che ha dato prova di essere un uomo paziente…» alzò le sopracciglia in maniera significativa. Io risi. «Vai, forza. Che il tuo principe ti aspetta». Lei mi abbracciò e corse via. Mentre tornavo a casa in macchina pensavo a come avrebbe reagito Raffaele se l’avessi tenuto sulle spine per un mese prima di are al sodo. Certo un mese non è un tempo eccessivo, anzi. Quando stai bene con una persona, un mese vola via in un attimo. E poi probabilmente i miei genitori negli anni settanta si erano concessi al massimo una palpatina prima del matrimonio. Oddio, ma che pensieri faccio? Mi schiaffeggiai. Quando rientrai a casa mi resi conto che lì dentro la temperatura era a meno dieci gradi dalla tensione. Nel senso che il gelo si avvertiva nell’aria. Era successo qualcosa. In salotto mia madre era seduta sul divano con mia sorella che la abbracciava. E stava piangendo. «Mamma?» la chiamai. Lei e Daiana si voltarono.

«Che succede? State male? È papà?» chiesi ansioso senza riuscire a muovermi. Daiana annuì distrattamente, tornando a consolare mia madre. «Che succede?» chiesi di nuovo, agitato. «Io e tuo padre ci siamo separati» disse mia madre. Sembrava avesse un forte raffreddore. Io rimasi fermo senza dire nulla. «Separati in che senso?» chiesi dopo una piccola pausa per assimilare le parole di mia madre. «Nell’unico senso possibile, no?» mi aggredì Daiana. Ma non può essere! Ok, magari di tanto in tanto litigavano. E va bene, litigavano sempre, praticamente di continuo. Ma quale coppia sposata da trent’anni non lo fa? Voglio dire, non è normale? Era anche vero che mia madre aveva un caratteraccio, si arrabbiava facilmente e non le andava mai bene un accidente. Però era fatta così, in realtà era una bravissima mamma e una moglie attentissima! Non era cattiveria la sua, solo nervi. Era anche vero che mio padre ava più tempo al bar che a casa, era un uomo molto accondiscendente, abitudinario e non amava nessun genere di cambiamenti. Soprattutto mio padre non amava quel genere di cambiamenti! Una separazione. Tanto per darvi un’idea: mio padre da solo non era nemmeno capace di decidere quali calzini mettere. Era mia madre che tutti i giorni glieli faceva trovare lavati e puliti sul comodino. «Ma… perché?» chiesi muovendo finalmente un o. «Non facevamo che litigare. A casa non c’era mai, ed è inutile negare che non avevamo più una vita di coppia o sessuale». Perforatemi i timpani! «Stasera la goccia che ha fatto traboccare il vaso, quando ho scoperto una traccia di rossetto sul colletto della camicia. Rosso. Come quello delle donnacce!» singhiozzò nuovamente mia madre.

Oh Signore, come nei film! «Magari era lì per qualche altro motivo» tentai. Non sapevo bene quale, visto che mia madre non aveva mai messo un filo di rossetto in vita sua che non fosse il solito rosa anni ottanta. «E quale altro motivo avrebbe avuto? Se l’è messo lui quel rossetto? Peggio ancora! Adesso prendi le sue difese? Tutti uguali voi uomini, lo sapevo!» mi gridò in faccia mia madre. Io per lo spavento indietreggiai fino a spalmarmi contro la parete. “Voi uomini”, poi. «Non volevo dire questo. Magari aveva una spiegazione logica» sussurrai spaventato. «No. Nessuna spiegazione. Non ha nemmeno negato di avere un’altra» pianse mia madre. Io non sapevo cosa dire. Non mi sarei mai aspettato che quel bonaccione di mio padre si fe l’amante! Ma la domanda che più mi tormentava fu: com’era potuto succedere che una donna lo trovasse attraente? Io e Daiana impiegammo un’altra ora per calmare mia madre, che alla fine andò a dormire solo dopo aver preso un tranquillante che le distese i nervi. «Che situazione» sospirò Daiana mentre andavamo nelle nostre stanze. «Già. Ma può essere davvero che papà abbia l’amante?» chiesi. «Bè, quando sono rientrata stavano litigando per questo. E lui non si è dato la pena di smentire. L’ho sentito io!» Rimasi zitto un attimo. «Adesso dov’è papà?» chiesi a Daiana. «Ha urlato che se ne andava a vivere da Dino, e dopo aver fatto una valigia in fretta e furia, è uscito di casa» Daiana aveva le lacrime agli occhi.

Lei era sempre stata molto più legata di me a mio padre. «Vedrai che la questione si risolverà» dissi. Non ci credevo davvero, ma al momento era l’unica cosa che mi veniva da dire. Ci demmo la buonanotte, e io mi chiusi in camera. Non potevo crederci. Mio padre che andava a vivere dall’amico barista dopo che mia madre aveva scoperto una sua tresca! Se me l’avesse raccontato qualcuno, o l’avessi letto sul giornale, mi sarei fatto una risata. Ma adesso che stava accadendo alla mia famiglia, la cosa mi fece sprofondare in una profonda crisi depressiva. Tant’è vero che andai a letto senza armi il filo interdentale!

13.

Lei

L’esperienza in giro per negozi con Caterina fu atroce, come avevo immaginato. Mi trascinò ovunque per l’intero pomeriggio. Dalle sedici alle venti, tutto il tempo a correre a destra e a manca, a provare vesti, jeans, cinture, cappelli, scarpe, e perfino guanti! «Non c’è tempo, non c’è tempo!» mi urlava lei isterica come il Bianconiglio di Alice nel paese delle meraviglie, quando io le dicevo di rallentare il o. Più che o sembrava la marcia che si vede alle olimpiadi. Quella dove un mucchio di ragazzi secchi sculetta perché non può correre, avete presente? Che poi, davvero, che razza di sport è la marcia? Perché uno dovrebbe apionarsi a quella roba lì? E perché Caterina voleva che a giugno comprassi dei guanti? Quando feci l’errore di farlo notare alla mia cara cuginetta, lei mi incenerì con lo sguardo. «Potrebberoessereutili!» disse a denti stretti. Posso quasi giurare di averle visto uscire del fumo grigio-pantegana dalle narici! Comunque alla fine tornai a casa con più vestiti del necessario per un’unica uscita, e il conto in banca notevolmente diminuito. Filippo mi scrisse un messaggio e mi chiamò, ma dopo che ebbe sentito mia cugina lamentarsi perché stavo perdendo tempo, si eclissò saggiamente. A sera non sentivo più i piedi. Cenai e crollai a letto. Il giorno dopo mi richiamò Filippo, il che mi fece piacere solo a metà, visto che avrei lavorato nel pomeriggio, quindi quella mattina avevo tutte le intenzioni di rimanere a letto in stato comatoso almeno fino a mezzogiorno. Risposi con voce impastata dal sonno e dai nervi. Ma perché dimentico sempre di spegnere il cellulare? La verità è che squillava di rado, quindi o spento faceva poca differenza.

«Chi è?» «Sono Filippo. Disturbo?» In un attimo ero seduta e mi ero sistemata i capelli che durante la notte si erano animati di vita propria, come se lui potesse vedermi. Che idiota. «No! Che disturbo? È tutto ok. Stavo… ehm, salendo le scale» inventai. «Alle otto di mattina?» Ma che mi chiami alle otto di mattina? «E dove sei andata?» mi chiese. «A… ehm… correre! Faccio footing abitualmente» e subito me ne pentii. Ma perché devo dire le bugie? Non potevo ammettere che sì, stavo dormendo! Come un ghiro! Come Pisolo di Biancaneve! Come un orso bruno in letargo. Che poi vista la mia stazza all’epoca, era la metafora più azzeccata. «Davvero? Urca! Buon per te! Io sono pigrissimo e non vado nemmeno in palestra». Tirai un sospiro di sollievo. Dovevo stare molto attenta d’ora in poi. Metti che era un patito dello sport e mi invitava a correre con lui? Cosa ci sarebbe stato di peggio? La marcia, appunto. Non so, di peggio avrebbe potuto portare i calzini con i sandali, avrebbe potuto vestire di rosso e rosa contemporaneamente, gli sarebbe potuto piacere l’aglio. Certo però, anche questa cosa di dire sempre urca… «Allora, è successo qualcosa?» lo dissi come se volessi fargli notare che nessuno sano di mente chiama alle otto del mattino. «Ah, sì. Volevo chiederti se possiamo anticipare l’uscita a venerdì. Dopodomani» puntualizzò.

Feci mente locale. Al lavoro avrei avuto il turno mattutino, quindi avevo l’intero pomeriggio per fare le cose con calma. «Nessun problema». «Posso chiederti un’altra cosa?» Ecco, lo sapevo. Adesso mi avrebbe detto qualcosa di brutto. Qualcosa che non andava a braccetto con i miei piani. C’era qualcosa che non andava nel tono di voce un po’ apprensivo. «Spara». «Ecco, volevo chiederti se invece della cena possiamo uscire per un aperitivo». Bè, poteva andare peggio, no? Immaginai cosa sarebbe potuto succedere quando Caterina avesse saputo del cambio di programma. Quello che avevamo comprato insieme era indubbiamente adatto solo per una cena! Per un aperitivo ci voleva tutt’altro outfit. Decisi che non le avrei detto nulla. Non avrei potuto sopportare né un altro pomeriggio come quello del giorno prima, né di spendere un’altra somma vertiginosamente alta! «Oh, certo! Va benissimo». «Mi dispiace non poter are un’intera serata con te» mi disse un po’ triste. «Ma devo partire sabato mattina alle cinque e non vorrei fare tardi». «Non preoccuparti, davvero. Ci rifaremo quando torni». Lui sembrò sollevato. «E dove vai di bello?» chiesi con un tono che sperai risultasse noncurante. «San Pietroburgo» disse semplicemente. E cosa diavolo ci vai a fare in Russia? Tenni per me i miei pensieri, e senza chiedere altro ci accordammo per l’orario, le cinque di pomeriggio, e ci salutammo.

Ma che due coglioni! Già immaginavo la nostra uscita, e adesso mi toccava solo uno stupido aperitivo! E poi con chi andava a San Pietroburgo? E quanto tempo ci sarebbe rimasto? Decisi di chiederglielo quando ci saremmo visti. Quel pomeriggio andai a lavorare sconsolata. Cioè, più sconsolata del solito, intendo. Ilva aveva negli occhi un bagliore sinistro, che in genere annunciava che era particolarmente in vena. E in genere questo voleva dire che ci sarei andata di mezzo io. Mi chiusi con Giuditta nel magazzino, dove mettevamo i nostri giubbotti d’inverno e le borse d’estate. Di solito era l’unico momento della giornata in cui ci era concesso scambiare due parole prima delle torture. «Notizie dalla fioraia?» le chiesi. Lei mi guardò colpevole. «Inizio dopo le ferie di ferragosto. Quando la ragazza va in maternità» annunciò senza guardarmi. Credo che in quel momento mi spuntò il primo capello bianco della mia vita. Sai quell’unico capello bianco che hai in mezzo a tutti gli altri del colore giusto? Solitamente questo può notarlo chi non si fa la tinta. E dall’idea che vi siete potuti fare finora, credete che all’epoca io mi tingessi i capelli? «Ah. Bene. Sono felice per te» dissi, senza convinzione. Giuditta mi strinse le mani. «Mi dispiace tanto! Non voglio lasciarti sola con Ilva!» quasi si mise a piangere. Io le sorrisi. «È tutto ok. Vai e goditi la pace dei sensi». «Cercherò di trovare qualcosa anche per te» mi disse animata. «Chiederò personalmente a tutti i clienti che verranno in negozio per vedere se conoscono qualcuno che cerca dipendenti!» «Grazie tesoro» le sorrisi magnanima.

Ma sapevo che non l’avrebbe fatto. E se anche l’avesse fatto, sapevo che non avrebbe trovato un accidente. Comunque il gesto era da apprezzare, no? «E con Filippo come va?» mi chiese Giuditta. «Tutto bene. Usciremo venerdì pomeriggio per un aperitivo, invece che a cena sabato sera». «E perché?» «Sabato mattina deve partire. Venerdì pomeriggio è l’unica occasione che abbiamo di vederci prima che se ne vada» le dissi. «Ah bene. Tanto facciamo la mattina» si interruppe. In quel momento entrò Ilva che, guardandoci con superiorità, ci disse sprezzante: «Allora? Si va a lavorare, o no?» Mancavano cinque minuti abbondanti alla riapertura del negozio. Senza dire nulla, io e Giuditta andammo a dare una spolverata e a far vedere che stavamo facendo qualcosa. Ma il pensiero che mi preoccupava era un altro: quanto e cosa aveva sentito Ilva? E non crediate che sia paranoica! Le informazioni personali, sommate al bagliore animalesco negli occhi iniettati di sangue della mia responsabile, erano un mix micidiale! Ma non tardai a scoprirlo. Per la sottoscritta era quasi ora di tornare a casa. Stavo giusto andando a recuperare la mia borsa, quando Ilva entrò nello stanzino chiudendosi la porta alle spalle, per impedire a Giuditta di entrare o di sentire quello che mi avrebbe detto. Iniziai a tremare. «Ti ho cambiato il turno» mi disse piano, godendo l’effetto delle sue parole. «Quale turno?» chiesi apprensiva. «Venerdì farai chiusura invece che il turno di mattina» mi disse sadica. Questo voleva dire che avrei lavorato fino alle nove di sera. E addio aperitivo con Filippo. Non potevo credere che mi stesse facendo una cosa del genere! Sapevo che aveva sentito la conversazione con Giuditta quella mattina, e con molta probabilità aveva anche udito il tono eccitato e felice della mia voce.

Brutta stronza! Spero ti venga una colite! «A dire il vero venerdì avrei un impegno» tentai di protestare. Ilva alzò un sopracciglio. Come se non credesse alle sue orecchie. «E allora?» mi chiese con aria di sfida. Di solito avrei ingoiato il rospo, e sarei rimasta zitta dicendo che sarei andata quando voleva lei. Ma qualcosa scattò in me: che diamine, ero o non ero una ragazza sicura di sé, forte e padrona delle sue scelte? Questa volta non mi sarei lasciata intimorire da quella belva della mia responsabile, né avrei lasciato che fe la bulla con me. «Allora non posso venire» le dissi decisa. Ilva non si scompose. Si avvicinò con aria assassina e mi sibilò: «Guarda che non te l’ho chiesto. O vieni venerdì o puoi dire addio a questo lavoro» mi minacciò. Bè, certo. È meglio che un lavoro così me lo tenga stretto! Dio, che nervi! Indietreggiai un po’, giusto per non esserle a portata di fauci, perché ero certa che se solo avesse spalancato la bocca non ci sarebbe stata una trachea umana, ma un enorme buco nero, un’enorme voragine oscura pronta a risucchiare tutto quello che gli si parava a portata d’ingoio! Una volta a qualche centimetro in più di distanza, mi schiarii la voce e osai chiedere: «Perché Serena non può venire a lavorare? È il suo turno, no?» Ilva iniziò a mostrare i primi segni di impazienza. La classica impazienza di chi non è abituato a dare spiegazioni. Di chi è abituato a vedersi obbedire. Tutte quelle cose che io non avevo mai sperimentato, insomma. «Serena non può venire» disse fredda. «Bè, nemmeno io. Quindi chiama Serena e falla venire per forza. Non vedo perché devo sacrificarmi io per un suo problema».

A quel punto osai davvero troppo. Lo capii dallo stucco sapientemente intonacato sulla faccia della mia responsabile che ebbe un accenno di incrinatura. E anche dal fatto che si mise le mani sui fianchi come fosse una modella alla quale non hanno dato lo specchio migliore nel backstage della sfilata. Non so se rendo l’idea. «Ho preso la mia decisione. Vedi di venire o puoi iniziare a mandare il tuo curriculum altrove» e così dicendo uscì teatralmente dallo stanzino. Lurida stupida schifosa canaglia! Canaglia? Ma a chi volevo darla a bere? Non ero cambiata. Non ero sicura di me, non ero forte né tantomeno padrona della mia vita. Ero la solita, classica, monotona Angela che non sapeva farsi valere nemmeno di fronte a un bambino. Non riuscivo neanche a prendere a parolacce la mia responsabile nella mia mente! Come potevo pretendere di emanare autorità e sicurezza? Scoraggiata, tornai a casa e chiamai Caterina in cerca di fraterno conforto. «Cosa?» Allontanai la cornetta giusto in tempo. L’urlo di mia cugina avrebbe potuto perforarmi un timpano. «Ma devi andarci! Devi!» «Lo so. Ma non posso farmi licenziare, no?» dissi debolmente. Sembrava che la mia storia con Filippo non fosse destinata a proseguire. Per una volta che qualcuno mi fa il filo! Affondai una mano nel sacchetto delle patatine sottomarca con doppio formaggio, e me le cacciai in bocca. In momenti come quelli, l’unica cosa che può davvero tirarti su di morale è ingurgitare qualcosa di oscenamente schifoso. Qualcosa che trasudi grasso, zuccheri e calorie. «No, no, no. Dobbiamo inventarci qualcosa» disse Caterina. «Tipo? Un attentato?»

Giuro che se mi avesse detto sì, avrei anche potuto iniziare a programmare di mettere una bomba nella Vuitton di Ilva. O del cianuro nel lucidalabbra. Sarebbe anche bastato accendere il ventilatore al massimo, in modo che l’aria la trascinasse via. Tanto era così secca! «No, certo che no» disse dopo aver valutato l’ipotesi. «Piuttosto dille che sei malata, e poi esci con Filippo» mi propose mia cugina. «Sì certo. E secondo te quella non mi manda un controllo a casa?» dissi triste. Probabilmente sarebbe venuta lei stessa a controllare. «I controlli ci possono essere al massimo fino alle sette di sera. Proponi a Filippo di vedervi alle otto ed è andata» fece mia cugina con tono fiero. Mi si illuminarono gli occhi. Giuro che sentii le scintille dalle palpebre! O forse furono le briciole doppio formaggio che mi entrarono nei globi oculari.

14.

Lui

Un inizio luglio così caldo non c’era mai stato nemmeno nel giorno più torrido di tutta la storia del deserto di Atacama. Mentre andavo al lavoro quella mattina avevo paura di arrivarci allo stato liquido. Ed erano solo le otto meno dieci! Come sarebbe stato a mezzogiorno? Cercando di non pensarci, sedetti alla mia scrivania, troppo teso per salutare Gaia. Quella mattina avrei presentato a Flora i miei disegni. Non ero mai stato così agitato, neanche il giorno dell’esame di maturità. Elisa mi aveva già scritto per augurarmi in bocca al lupo, e Raffaele mi aveva addirittura chiamato. Le cose con lui andavano sempre meglio. Durante il mese trascorso dalla nostra prima uscita ci eravamo visti molto, e una sera avevo finalmente acconsentito a salire nel suo appartamento. Faceva caldo come sempre, e dopo una pizza particolarmente schifosa in un locale particolarmente malfamato, Raffaele si fece coraggio e mi chiese tra un rossore e l’altro se mi andasse di salire da lui per bere qualcosa. No, se beviamo solamente. Prima di allora avevo astutamente cercato di far cadere le sue avance troppo insistenti, memore di quello che mi aveva detto Elisa: se ci tiene davvero a te, aspetterà senza forzarti. Sapevo che era una stupidaggine, ma mi dissi che quella sarebbe potuta essere una sorta di prova del nove del rapporto che stavamo costruendo. Poi, però, ricordai anche cosa aveva detto Sandra Milo in un’intervista con Victoria Cabello: è vero che in amore vince chi fugge, ma solo se il nostro amato ci rincorre, sennò fermi! E poi Raffaele mi piaceva così tanto! Senza contare che era la nostra quinta uscita e i miliardi di messaggi che ci eravamo mandati, le ore ate la telefono a non dirci nulla dovevano pur portare a qualcosa. Credo che la Vodafone all’epoca pagò i suoi dipendenti grazie a noi due. E poi se non ci fosse stato lui, avrei affrontato molto peggio la separazione dei miei, che sembravano intenzionati a divorziare. Quindi quella sera gli sorrisi e accettai di salire. Raffaele abitava in un attico minuscolo ma

bellissimo! Appena varcato l’ingresso c’era il salottino con l’angolo cottura di Barbie, una porta che dava in una camera abbastanza grande, una che dava in un ripostiglio 4x4 e una che dava in un bagno dove poteva entrare al massimo una persona alla volta. Il tutto arredato con pochi mobili di ogni stile. Sulle pareti campeggiavano locandine di vecchi film famosissimi di cui era apionato. «Scusa il disordine. Non avevo programmato di chiederti di salire. E non mi aspettavo che avresti accettato» disse un po’ imbarazzato. «Non è affatto in disordine» dissi sorridendo. Già amavo quel posto, in un istante mi immaginai noi due che avamo i nostri pomeriggi dentro quel mini attico come una vera coppietta. «Siediti pure, vado a prendere qualcosa da bere. Vino? Birra?» «Coca Cola?» «Aggiudicato» mi fece l’occhiolino. Mentre scompariva dietro l’angolo cottura per prendermi da bere, io mi guardai intorno. Aveva due enormi librerie, una con tutti i libri di Steven King, e l’altra piena di cd! Improvvisamente morivo dalla voglia di sapere che musica ascoltasse, cosa leggesse, qual era il suo piatto preferito, qual era secondo lui il film più bello di Nicole Kidman e se odiava i programmi della De Filippi quanto me. «Ecco qui» mi porse la bibita dentro un bicchiere dalla forma stranissima. «E questo?» «L’ho scippato in un bar malfamato in una via sperduta di Hermsdorf» poi, vedendo la mia espressione aggiunse: «È in Lussemburgo». «Ah. E perché eri in Lussemburgo?» «Ci sono andato con mio fratello. A lui piaceva un sacco viaggiare» disse bevendo un sorso di birra.

«E adesso non gli piace più?» «Adesso è morto» mi sorrise senza allegria. «Incidente stradale. Aveva una moto…» non finì. Ma perché non sto mai zitto? «Mi dispiace tantissimo. Davvero» gli presi una mano. «Anche a me» disse lui. Poi si riprese. «Ma parliamo d’altro» era quasi una supplica. «Ecco, sì. Perché hai una libreria per i cd?» «Perché non avevo altro posto. Ne ho un po’ troppi, vero?» No, solo una libreria intera. Nell’ora successiva mi disse di amare i vecchi successi dei Rolling Stone e il rock in generale. Mi disse che aveva un debole per i film di Marlon Brando, e che andava pazzo per la saga de “Il Padrino”. «Io non l’ho mai visto» confessai finendo la Coca Cola. «Ma scherzi?» alzò la voce lui. «No, davvero. Non mi piace molto quel genere di film». «Oddio, perdo i sensi!» disse lui, fingendo di svenirmi addosso. Io caddi disteso sul divano sotto il suo peso morto. Raffaele rideva, ma non si spostava. «Mi soffochi!» Lui mi guardò muovendo appena la testa, ma rimanendo sopra di me. «Vuoi dire che sono grasso?»

«No, ma non riesco a respirare». «Oh no! Qui urge la respirazione bocca a bocca». E mi baciò. Con sempre più trasporto, finché non ci ritrovammo ansanti e senza magliette avvinghiati sul morbidissimo mega tappeto che prendeva quasi tutto il suo mini salotto. «Senti» mi disse lui staccandosi da quel bacio. Io rimasi a guardarlo. «So che non dovrei metterti fretta, ma tu mi piaci da morire e so che anche io ti piaccio, e stasera sono arrivato al punto di non ritorno» mi guardò un po’ smarrito, e io gli scoppiai a ridere in faccia. Certo, so che sono stato poco delicato! E infatti la sua faccia esprimeva vergogna. Gli presi il viso tra le mani e lo baciai ripetutamente. Quella fu la nostra prima notte insieme. Inutile dire che fu meglio di qualunque esperienza avessi mai avuto. Raffaele sapeva esattamente cosa fare e quando farla. Rimanemmo sdraiati sul tappetone morbido a parlare, senza preoccuparci di rivestirci. Era incredibile quanta confidenza avevamo acquistato l’uno con l’altro, e ancora più sorprendente era rendersi conto che non c’era il minimo imbarazzo. «Credevo che la prima volta l’avremmo fatto a letto» mi confessò lui. «Questo è un modo gentile per dirmi che qui non ti è piaciuto?» «No, questo è un modo gentile per dirti che è meglio se ci spostiamo in camera per realizzare i miei desideri». Una volta sul letto a due piazze, tutto fu decisamente più confortevole! E fu ancora più bello, perché con le finestre aperte tirava un gradevolissimo vento fresco che combatteva l’afa di luglio. Una volta sdraiati uno stretto all’altro, Raffaele mi abbracciò. «Sai che con te sto davvero bene?» mi sussurrò. «Anch’io» mi strinsi a lui.

«Ti è ata la tristezza per quanto sta succedendo ai tuoi?» mi accarezzò piano la schiena facendomi rabbrividire di piacere. «Un po’ sì». «E se ti proponessi una cosa, erebbe del tutto?» mi incuriosì. Io lo guardai. «Prova». Raffaele si sciolse dall’abbraccio, appoggiandosi sul letto con gli avambracci e avvicinando il viso a tre centimetri dal mio. «Parti con me in vacanza?» Subito! «Sei serio?» gli chiesi. «Certo. Non viaggio più da tre anni. Da quando mio fratello è morto. Ma sento che con te… insomma, andrei…» Un bacio. «Anche…» Due baci. «In capo…» Tre baci. «Al mondo!» Quarto, lunghissimo bacio. Io continuavo a fissarlo. «Allora, verresti? Sempre se te lo proponessi» mi incoraggiò. «Sì. Verrei» lo abbracciai.

Lui aveva il viso sopra alla mia spalla e la testa appoggiata sul cuscino, quindi la sua voce mi arrivò soffocata. «Ok, allora lo terrò a mente se mai volessi partire con te». «Stronzo!» lo picchiai. Lui rise e mi immobilizzò con forza inaspettata. «Dove ti piacerebbe andare?» mi chiese. «Non lo so. Parigi?» proposi. «Mia zia abita a Parigi». «Allora no, decidi tu». «Non lo dicevo perché non voglio andarci. Non mi vergogno mica! Era per dire che se andiamo a Parigi abbiamo vitto e alloggio già pronti» mi fece l’occhiolino. «Allora è ufficiale? Partiamo?» «Partiamo». Non rimaneva che festeggiare. Per la terza volta. Sorridendo dei miei pensieri, parcheggiai la macchina ed entrai nella boutique, mettendomi al lavoro. Era già mattina inoltrata quando: «Eros?» mi chiamò la signora Flora affacciandosi al mio ufficio. Io alzai lo sguardo. Inutile dire che avevo già sentito i suoi i avvicinarsi. Era tutta la mattina che lavoravo al rallentatore con l’orecchio teso alla porta. «Appena hai un attimo mi porti i tuoi disegni?» mi sorrise. Senza aspettare un secondo scattai in piedi e, con due falcate, ero già seduto davanti alla sua scrivania. Le consegnai i fogli trattenuti da una cartella che avevo scippato dall’armadietto della cancelleria, lei iniziò a sfogliarli. Fissava le mie belle creazioni per circa tre secondi assorta nel suo mondo, poi metteva il

foglio alla sua destra o alla sua sinistra. Capii che ne aveva scelto una metà e l’altra no. Non sapevo quale, ma la cosa mi seccava ugualmente. Ci avevo messo anima e corpo per disegnare tutto in fretta, bene e nella maniera più dettagliata possibile, pensando e ripensando al modo più veloce e meno costoso di realizzare ogni singolo elemento di quegli abiti e lei, in appena tre secondi, decideva se il mio lavoro era valido o meno. Mi aspettavo che mi chiedesse spiegazioni sui modelli, su come dovevano essere realizzati, o che li commentasse per farmi capire i miei eventuali errori. Invece niente. Dopo che li ebbe divisi, mi diede uno dei due mazzi. «Questi li puoi riprendere, non li emo» mi disse cordiale. Io li presi un po’ triste. «Quest’altra metà va bene. Ne sceglieremo dieci. Dobbiamo tener conto dell’insieme della collezione, e dobbiamo far in modo che abbia un filo logico. Bisogna anche pensare ai tessuti che emo, alla loro consistenza e al loro costo, e se vanno bene per i modelli che hai ideato» mi disse come per scusarsi di aver scartato metà del mio lavoro. ammo il resto della mattinata e metà del pomeriggio a selezionare i bozzetti, fino a sceglierne dieci. A dire il vero fece tutto la signora Flora, io mi limitai ad annuire impotente mentre i miei adorati disegni venivano criticati ed eliminati. Dopo che ebbe scelto i dieci abiti vincenti, la mia datrice estrasse da un cassetto matita e gomma e prese ad accanirsi sui miei abiti. Eliminò, aggiunse, cambiò, cancellò. Un massacro di segnacci incomprensibili e cancellature sulle mie opere dettagliate e perfette. Avevo le lacrime agli occhi. Alla fine della strage degli innocenti, di mio erano rimasti solo i fogli. E nemmeno, perché la maggior parte li avevo scippati dalla stampante nel mio ufficio. «Bene. Ottimo lavoro. Questi verranno realizzati. A breve ti darò anche i miei dieci, in modo da arti tutto, e iniziare a preparare le schede per la confezione dei campioni» sorrise. Io annuì con poco entusiasmo. «Ben fatto» si complimentò ancora. Io ringraziai educatamente, e uscii dall’ufficio. Mi aveva fatto sgobbare due mesi per fare quanti più disegni possibili, mi aveva illuso facendomi credere che avrei

visto qualcosa di realmente mio realizzato per la prima volta, mi aveva eccitato, e invece mi ritrovavo con dei fogli pieni di scarabocchi incomprensibili e un sorriso. Che me ne faccio? Grazie mille, preferivo riavere i miei centoquattordici disegni intatti, così come li avevo ideati, che vedermi ringraziare per abiti con i quali non avevo nulla a che vedere. Non volevo nemmeno più l’aumento che mi era stato proposto. Volevo solo che la signora Flora non mi avesse mai chiesto di collaborare con lei, perché in quel momento ero troppo deluso per essere felice di quello che per la mia datrice di lavoro era un successo. Alle sei e un quarto, mentre tornavo a casa ancora un po’ depresso, mi chiamò Raffaele. «Ciao tesoro mio. Com’è andata allora?» «Male!» mi sfogai. Gli raccontai per filo e per segno il comportamento di Flora, e lui cercò di consolarmi. «Ma porteranno sempre il tuo nome. Per iniziare va benissimo! Pensaci, hai solo ventidue anni e hai una fortuna del genere. Quanti possono dire lo stesso? E poi dimentichi che hai me» aggiunse. «Bè, certo, questo è rilevante. Ma che c’entra adesso?» «Ti pare una cosa da sottovalutare?» si finse offeso. «No, hai ragione» risi. «Allora stasera ti cucino una bella cenetta solo per noi due. Ti va?» mi propose. «Ok. Io porto il gelato». Mi salutò e riattaccammo. Bene, non tutta la giornata era da buttare alle ortiche, dopotutto. In casa l’aria era insostenibile. Un po’ perché mia madre aveva scoperto i piaceri dell’aglio fresco, e dopo la separazione si era data al giardinaggio di piante aromatiche, e un po’ perché ormai il divorzio sembrava deciso. Io e Daiana eravamo andati a casa del barista dove alloggiava al

momento mio padre, e avevamo trovato un uomo di dieci anni più giovane. Era più allegro, rideva e in pochissimo tempo era anche dimagrito. «Ma questa non è la tua vita! Torna a casa, ti prego» l’aveva supplicato Daiana. Io ero rimasto zitto. La casa di Dino era agghiacciante. Sembrava il covo di un vecchio pornoattore. «Ma cosa dici! Io qui sto benissimo. E poi Dino non rompe i coglioni se fumo in casa, se voglio andare in palestra, se torno tardi la sera o se compro una motocicletta!» sbraitò mio padre. «Una moto?» esclamai con gli occhi sbarrati. È andato. È ufficiale. È impazzito! «Ci stavo pensando, sì. La voglio da quando ero giovane, solo che vostra madre me l’ha sempre proibito. Però adesso che mi sto godendo la libertà…» si perse nei suoi pensieri. Oh Madonna, adesso anche la moto! Ci mancava solo che mio padre si mettesse a fare il centauro con una Harley Davidson! Mentre tornavamo a casa mia sorella non fece altro che inveire piangendo contro mio padre, il suo fidanzato Benny e i maschi in generale. Io invece pensavo che mio padre andava in palestra. Ero allibito. Va-in-palestra!

15.

Lei

Per mia somma, sommissima fortuna, Filippo acconsentì a vederci un po’ più tardi del previsto. Così, piena di eccitazione per averla fatta pagare a Ilva, le mandai a dire tramite Giuditta che non potevo andare a lavorare perché malata. Mica ero tanto idiota da chiamare io stessa. Ovviamente questo mi sarebbe costato almeno dieci angherie in più rispetto all’ordinario. Ma per Filippo avrei potuto sopportare i soprusi della belva. Stenterete a crederci, Caterina non ci credette, ma iniziai a prepararmi alle cinque. Mai successa una cosa del genere. Nemmeno per i grandi eventi come il battesimo di mio cugino, o la laurea di mia sorella. Mi sono sempre preparata all’ultimo minuto. Con scarsi risultati, come amava ricordarmi Laura. Mi preparai con studiatissima cura e misi un paio di jeans nuovissimi, una maglia tutta veli e, per completare il look perfetto, misi al collo un foulard bucato come una groviera che mi era costato una fortuna, ma che Caterina mi aveva obbligato a comprare. Mi guardai allo specchio decidendo al volo che stavo benissimo. Salutai i miei dicendo loro che sarei tornata per cena. Mentre correvo alla fermata dell’autobus, iniziai a sudare intorno al collo. Ma perché diavolo ho messo quest’affare? Tuttavia lo lasciai lì, credendo che senza non sarei stata bella come avrei voluto. Beata innocenza! Comunque sia, arrivai con dieci minuti di ritardo. Pregando affinché Filippo fosse ancora dentro, sbirciai il locale da fuori e lo vidi seduto, intento a scrivere un sms sul cellulare. Era carinissimo con i capelli perfettamente sistemati con il gel, il giubbino di Jeans e quei pantaloni con il risvolto! Meno male che mi sono truccata! Con una certa difficoltà, aggiungerei. Giuro che se becco quello che ha detto che bisogna mettersi la matita sugli

occhi per essere belle, la matita gliela ficco su per il… Feci un respiro profondo, e spalancai la porta. Tutti si voltarono a guardarmi: io credevo che mi stessero fissando perché ero sensazionale, ma con il senno di poi mi resi conto che con molta probabilità avevano spalancato gli occhi perché, al contrario della sottoscritta, avevano visto che un buco del mio dannatissimo foulard si era impigliato nella maniglia della porta. Il tempo di fare un o. La porta si chiuse e io finii a gambe all’aria, strozzata per terra. Il locale esplose in una risata, mentre io mi alzavo cianotica, cercando di allentare la presa di quello che adesso era diventato un cappio. Imprecando, raggiunsi il tavolo. «Ciao. Ho fatto tardi?» salutai Filippo, massaggiandomi il collo. «No, sono appena arrivato» mi disse. «Che è successo prima? Cos’erano quelle urla?» mi domandò. Grazie a Dio lui non aveva visto nulla. «Oh, non ne ho idea» mi tolsi con un gesto solo il foulard, sorridendogli come una povera scema. Lui mi sorrise di rimando e ordinò per tutti e due senza chiedermi cosa mi andasse. Da una parte mi fece piacere perché mi hanno sempre affascinato gli uomini sicuri di sé, il maschio che non deve chiedere mai, insomma! Da un lato mi diede sui nervi perché odio i Mojito. Soprattutto se sono a digiuno. Inoltre non bevevo mai alcolici, a meno che non sapessero di frutta. Ma per amor di pace rimasi zitta, non volendo rovinare tutto già al primo appuntamento. Cavolo! Un appuntamento! Uno vero! Non riuscivo a credere di essere lì, di essere seduta a un tavolo con un ragazzo! Come avrei voluto che asse qualcuno che conoscevo, che mi vedesse così ben vestita, truccata e seduta con Filippo e che lo andasse a raccontare al mondo intero! Magari tralasciando l’irritazione rosso vivo che avevo sul collo. «Sei bellissima stasera» mi disse lui, guardandomi le tette attraverso la maglia velata. Ecco, lo sapevo.

Avevo detto e stradetto a Caterina che quel push-push-push-up non faceva al caso mio! Insomma, va bene valorizzare il ben di Dio, ma giuro che mentre camminavo non riuscivo a vedermi i piedi! Ecco cosa succedeva tutte le volte che osavo mettere quel tipo di reggiseno: il mio interlocutore perdeva la cognizione di dove si trovavano gli occhi nell’anatomia umana. Anche in quel caso preferii rimanere zitta, incassando quell’atteggiamento poco galante limitandomi a ringraziare. «Allora, domani parti?» Lui annuì distrattamente. «È pronta la valigia?» chiesi sorridendo. «Sì, è tutto pronto» mi disse stiracchiandosi. E stop. Cavolo, devo indagare un po’ più a fondo! «Mi hai detto che vai a San Pietroburgo, giusto?» chiesi facendo finta di non ricordare bene la sua meta. Ottimo lavoro! Così gli avrei fatto vedere che ero una sexy femmina sfuggente. «Sì» rispose annuendo. Innervosita, non mi persi d’animo. «E che vai a fare?» «Così». «Oh». Silenzio. Non mi ero immaginata così il mio appuntamento. Avevo immaginato risate, frecciatine sensualmente stimolanti, avevo immaginato che lui mi accarezzasse il collo per poi baciarmi. E invece Filippo sembrava assorto nei suoi pensieri e rispondeva alle mie domande con non più di due sillabe. E andò

avanti così per tutta la serata. Mi venne il mal di testa a furia di sforzarmi di pensare a un qualche cavolo di argomento che suscitasse una minima reazione nel mio accompagnatore, che sembrava risvegliarsi solo quando le mie tette si muovevano più del dovuto, o quando mi chinai a prendere la borsa che mi era caduta dalla sedia. Santa Rihanna, protettrice delle parrucche rosso-fuoco, dammi tu la forza. Alla fine, alle ventuno e trenta, decidemmo che era ora di tornare a casa. Ci facemmo portare il conto al tavolo, che almeno pagò Filippo e, prima di alzarci, lui mi trattenne per un braccio. «Senti, che fai la settimana prossima? Magari potremmo rivederci» mi propose a bruciapelo. Io rimasi un attimo spiazzata. Non mi parli per tutta la sera e poi mi chiedi di rivederti? Ma per chi mi hai preso? «Certo che possiamo vederci». Appunto. «Bene. Allora ti chiamo quando torno» mi sorrise. Ma perché devo essere così debole? Perché mi sciolgo quando mi sorride? «Aspetterò con ansia». Complimenti, guarda. Proprio una donna indipendente! Misi a tacere la voce indignata di Kate Millett nella mia mente, e feci per alzarmi. Lui però mi prese il viso con una mano e mi baciò. Vorrei poter dire di aver visto le stelle, di aver sentito un coro d’angeli che canta o almeno di aver avuto un qualche minimo sentore di scintilla. Invece niente. Un cavolo di niente. Forse il primo bacio è così. Forse dobbiamo ancora abituarci l’uno all’altra. E in un istante mi convinsi che doveva essere per forza così. Filippo mi stava

ancora premendo le labbra contro, quando udii un leggero tossicchiare, come a voler richiamare la mia attenzione. Mi schiodai e con una stretta allo stomaco vidi una trionfante Ilva che mi guardava malvagia. «Buonasera Angela» mi salutò. «Ciao» soffiai. Due sole parole mi vennero in mente in quel momento: oh merda! «Non eri malata?» mi chiese con un sorriso che non prometteva niente di buono. «Malata?» intervenne Filippo guardandomi apprensivo. Forse temeva gli attaccassi qualcosa alla vigilia della partenza. Lo guardai come a dirgli: «non ti ci mettere pure tu, idiota!». «Sto molto meglio. Ecco perché sono uscita con lui» mi schiarii la voce. «Ti presento Filippo, a proposito ». Cercai di sviare l’attenzione della mia orribile responsabile. Per un attimo la totale e incondizionata attenzione di Ilva fu proiettata sul mio accompagnatore, che con mio grandissimo disappunto e giramento di palle, le stava sorridendo galante. «Piacere» si presentarono. Rimasero a fissarsi per qualche istante tagliandomi fuori dal loro flirtare così poco carino nei miei confronti. Ma speravo che questo fe dimenticare a Ilva che mi aveva beccato tutta in tiro, quando sarei dovuta essere a casa malata! Così rimasi in silenzio. «Bene Angela» mi disse lei dopo un po’, tornando a concentrarsi su di me. «Vuol dire che domani sarai in negozio?» mi chiese guardando di sottecchi Filippo. «Certo» annuii. «Molto bene» e, girando sui tacchi, se ne andò.

Ma non prima di essersi assicurata che i suoi capelli super piastrati ondeggiassero per bene nel voltarsi, tipo quelli delle modelle nelle pubblicità per shampoo e ammorbidenti vari. Io rabbrividii. «Sei davvero malata?» mi chiese subito Filippo. «Certo che no, scemo. L’ho detto per non andare al lavoro» gli dissi, precedendolo fuori. «Oh». Sbuffai. Quella serata non era stata bella come me l’ero immaginata. Filippo era sempre stato assorto nei suoi cacchio di pensieri, il Mojito mi aveva dato alla testa che adesso mi girava fastidiosamente, e Ilva aveva sgamato la mia bugia. Senza contare che per fare colpo su Filippo avevo speso un botto di soldi in vestiti che sapevo benissimo non avrei più rimesso! Soprattutto quel cavolo di reggiseno del menga! «Allora a presto» mi disse lui. «Buon viaggio». Lui mi baciò di nuovo. Questa volta sentii quasi un po’ di calore. Visto? Ci stiamo già abituando l’uno all’altra! Quando raccontai a Giuditta che Ilva mi aveva scoperto la sera prima, lei rimase inorridita dal mio racconto. Era l’unica che poteva capire cosa avrebbe comportato il fatto che la nostra responsabile mi avesse smascherato! E infatti erano le undici di mattina quando arrivò una telefonata e Ilva mi chiamò da dietro il bancone comodamente appollaiata sul suo sgabello, porgendomi la cornetta. «È per te» disse soave tendendomi il cordless. Io mi ritirai in magazzino per avere un minimo di privacy. Non volevo che quella strega mi sentisse. Per un attimo pensai che fosse Filippo che mi chiamava per dirmi quanto era stato bene la sera prima, che magari era arrivato in Russia, ma che già gli mancavo. Poi, però, ripensai bene alla faccia soddisfatta e felice di Ilva, quindi con il cuore in gola immaginai si trattasse di cattive notizie.

«Pronto?» «Signorina Angela?» Straminchia! Il grande capo. Solo lui chiamava le sue dipendenti “signorina”! Il nostro datore di lavoro aveva almeno venti negozi sparsi in tutta Italia, gestiti da varie responsabili. «Sì?» dissi ansimando. «Volevo dirle che il suo comportamento è inaccettabile» mi disse senza preliminari e in maniera un po’ brusca. Io rimasi in silenzio, e lui proseguì: «Darsi per malata per poi amoreggiare in un bar con un ragazzo. Mi aspetto più professionalità dalle mie dipendenti» mi riprese. Io ero mortificata e incazzata. Mortificata per essere stata ripresa in maniera così imbarazzante, e incazzata perché sapevo che quella non era che la prima di una serie di malvagie prepotenze di Ilva. «Non ho mentito, signore. Ero veramente malata» tentai. «Quindi vuole dirmi che non era lei in quel bar?» «Sì, ero io. Ma ero lì solo perché stavo meglio, e…» «Non aggiunga altro. La sua responsabile mi ha già raccontato tutto. La avverto che questo le è costato un richiamo ufficiale. Un’altra mancanza da parte sua le costerà il posto» mi salutò professionale e sbrigativo. Io rimasi con il cordless sull’orecchio ad aspettare che la rabbia sbollisse. Com’erano quelle tecniche di rilassamento muscolare thailandese che avevo visto in tv l’altra mattina su TeleSfiga? Tentai con gli «Ohmmmmmm… ohmmmmmm…», ma niente. Ero incazzata nera. Non c’era verso che mi asse.

Quella stronza, bastarda, ingiusta, grandissima… «Tutto ok?» si affacciò Ilva. Io la guardai cattiva, con tutto il veleno che avevo in corpo, con tutto l’odio di cui ero capace. La afferrai per quel suo cavolo di caschetto e la scaraventai dall’altra parte del magazzino, dove gli scaffali cominciarono a caderle sopra a effetto domino e la schiacciarono in un tripudio di scricchiolii d’ossa. Poi mi spuntarono due grosse ali candide, il mio corpo si modellò come quello di una modella e volai via da quell’inferno, scortata dal mio grosso drago fucsia. Ok, forse non andò proprio tutto così. In realtà senza dire nulla, la scavalcai e tornai al lavoro.

16.

Lui

Se avesse dovuto conoscere i miei, Raffaele non sarebbe stato così agitato. Aveva preteso che andassi a casa sua per aiutarlo a scegliere cosa mettere, aveva addirittura lavato la macchina, e adesso aspettavamo Elisa e Alessandro fuori dalla pizzeria dove finalmente l’avrei presentato alla mia amica. Ovviamente lei era in ritardo. Erano già dieci minuti che l’aspettavamo seduti su una panchina, e Raffaele non riusciva a stare fermo un attimo. Quando vedemmo Alessandro parcheggiare, Raffaele scattò in piedi. «Scusate il ritardo». Classica frase di Elisa. «Se non ti fossi cambiata tre volte saremmo arrivati in orario» disse Alessandro avvicinandosi a noi. «Raffaele, vero? Piacere, Alessandro» si presentò lui con un gran sorriso. Poi fu la volta di Elisa che non si diede nemmeno la pena di cercare di non dare a vedere che lo stava giudicando da capo a piedi. Lo squadrò con gli occhi socchiusi come se non volesse perdersi un particolare, e parve soppesare anche il modo in cui si presentava, perché dopo che gli strinse la mano, aspettò che lui parlasse prima di smettere di fissarlo. «Direi di entrare, allora» disse Alessandro accalappiando Raffaele. Tempo un minuto ed erano già amici di vecchia data. Io rimasi qualche o dietro, trattenendo Elisa. «Finito di fargli i raggi X?»

«Come?» «Certo che potevi anche metterlo un po’ sotto pressione. Ti sei risparmiata» le dissi secco. «Ma cosa vuoi? E poi non dirmi che tu con Alessandro non hai fatto lo stesso». «Sì, perché me l’hai chiesto tu. Ma non ho certo studiato ogni sua mossa!» «Vabbè, comunque mi piace. È bello, alto, sexy e a parte la timidezza iniziale, sta già facendo amicizia» mi sorrise dandomi una pacca sulla spalla. Entrammo anche noi, raggiungendo i nostri accompagnatori che nel frattempo si erano sistemati parlando dell’ultimo campionato di calcio. Io ed Elisa tenemmo saggiamente le bocche chiuse. «Indovinate?» alzò un po’ la voce la mia amica, dopo aver lasciato ai ragazzi il tempo di familiarizzare. «Io e Alessandro andiamo in vacanza insieme!» batté le mani. «Anche noi due!» le dissi. «Davvero? E dove?» «Parigi! Voi?» «London». Parlammo dei progetti che avevamo fatto per le due settimane di agosto previste per il viaggio, ed Elisa fu parecchio seccata che io e Raffaele non avremmo pagato l’albergo. «Ai tuoi cosa hai detto?» mi chiese Elisa senza farsi sentire. «Riguardo cosa?» «Con chi parti?» «Ah» sghignazzai. «Con un amico. Mamma non mi ha chiesto altro, e papà è troppo preso dalla sua nuova moto» dissi.

Elisa annuì. «Sono sempre decisi a divorziare?» «Hanno già avviato le pratiche». Sospirai. «Tu invece? Con chi parti?» le sorrisi. «Con Alessandro. Gliel’ho presentato» disse con noncuranza Elisa bevendo la sua Pepsi. «Cosa?» Alessandro e Raffaele ci guardarono. E anche la metà del locale si voltò. «E quando pensavi di dirmelo?» «Non mi sembrava una cosa così importante». «Ah no, ok! Almeno quando ti sposi me lo fai sapere?» «Che succede?» chiese Raffaele. Io lo ignorai. «Ma che ti prende? Non mi dici più niente?» «Ma certo che sì! È solo che…» «Certo. Lascia stare». Non so bene perché la cosa mi turbasse tanto. Io ed Elisa ci eravamo sempre detti tutto. A volte ci eravamo confidati prima tra di noi, e poi con le nostre famiglie. Insomma, se uno sapeva una cosa, automaticamente lo veniva a sapere anche l’altro quasi in contemporanea. Adesso mi sentivo escluso, come quando da piccolo venivo invitato alle feste di compleanno per poi starmene in disparte mentre gli altri giocavano. Avrei potuto andare io dai miei amichetti e chiedere di partecipare, ma per qualche motivo aspettavo che lo fero loro e, quando non accadeva, avo il tempo da solo con le spalle appoggiate a un muro. La

cosa devo dire, preoccupava parecchio mia madre. Quando uscimmo dalla pizzeria ci salutammo con una punta di gelo. «Perché tanta irritazione per una cosa che non ti ha detto?» indagò Raffaele una volta in macchina. Non sapendo come spiegarglielo, mi limitai ad alzare le spalle. Le settimane successive le impiegai a preparare la valigia per le vacanze con Raffaele, quindi non ebbi molto tempo per sentirmi con Elisa, che da parte sua era un po’ indispettita per la mia reazione esagerata. Prima di partire la signora Flora mi chiamò di nuovo. «Devo chiederti un’altra cosa» mi disse lasciandomi qualche secondo di tempo affinché potessi capire le sue parole. Oddio, ti prego. «Dopo aver visto il bel lavoro che hai fatto con i dieci abiti per la nuova collezione…» Ma se hai fatto praticamente tutto da te! «Vorrei che tu ne disegnassi altri. Vorrei realizzarne di più per la prossima stagione. Dovranno essere a bassissimo costo, e, possibilmente, con i tessuti che avanzeranno dai modelli già approvati. Non posso permettermi di spendere quanto vorrei per dei modelli aggiuntivi. Le cose vanno benissimo, ma è innegabile che con la situazione economica in Italia, devo tenere presente quello che il mio atelier può permettersi. Dunque, sarà più difficile, perché dovrai gestire bene le risorse presenti in deposito. Cosa ne pensi?» congiunse le mani come se sapesse quant’era succulenta la proposta. Per un attimo fui tentato di non accettare, se dire sì implicava la correzione totale di tutto quello che disegnavo. Poi però mi tornarono in mente la parole di Raffaele: «questi abiti porteranno sempre il tuo nome. Pensaci bene, hai solo ventidue anni, e hai una fortuna del genere. Quanti possono dire lo stesso? E poi dimentichi che hai me». Sorrisi pensando alla sua faccia da schiaffi. «Allora è un sì?» mi portò alla realtà la mia capa.

«Sì, ok. Per quando li vuole?» «Stupiscimi» disse lei appoggiandosi allo schienale della sedia. Certo, con le vacanze lei credeva che avrei avuto un sacco di tempo per disegnare. Ma con una partenza di mezzo, non avrei potuto stare sopra a carta e penna! Che palle! Ma ce l’avrei fatta. Magari potevo fare un vestitino al giorno mentre ero in vacanza, magari mentre Raffaele si faceva il suo riposino pomeridiano. E quando fossi tornato, sarebbero bastate un paio di notti insonni e avrei presentato tutto in tempo record! Ma sì! Ce la posso fare! La compagnia aerea con la quale viaggiavamo chiedeva un prezzo esorbitante per depositare la valigia nel “portabagagli” se pesava più di dieci chili, e siccome né io né Raffaele potevamo accendere un mutuo, decidemmo di alleggerirle. Non fu possibile. Una settimana intera implicava cambi di biancheria, vestiti per il giorno e per eventuali cene di sera, piastra, shampoo, cera per capelli, e quant’altro! Senza contare che, se anche ce l’avessi fatta a mettere tutto dentro un bagaglio e a non superare un certo peso, una volta in Francia avrei sicuramente svaligiato i negozietti pieni di souvenir per turisti scemi come il sottoscritto, quindi avrei superato comunque il massimo del peso consentito da portare in stiva. Non dovetti chiedere un prestito bancario, ma ci andai vicino. Durante il viaggio verso Parigi tenni tutto il tempo la faccia spiaccicata al finestrino dell’aereo, eccitato come un bambino. Quando mi voltai verso Raffaele, dopo l’atterraggio, me lo ritrovai con un ridicolo baschetto e un paio di baffetti da moschettiere. Scoppiai a ridere. «Ma cosa caz…» «Monsieur» si chinò in un perfetto baciamano lì, davanti a tutti. Io arrossii. «Vieni, cerchiamo mia zia» era così contento che non riusciva a trattenersi.

Mi aveva parlato della zia Margherita, la sorella di sua madre, che aveva quarant’anni e viveva in Francia come una hippie. Ed era l’unica che aveva accettato in maniera felice l’omosessualità di Raffaele. I suoi genitori facevano finta che non fosse mai successo e che il loro figlio fosse uno scapolone don Giovanni. «Zia!» mi fece sobbalzare Raffaele. Accelerò il o e abbracciò una donna vestita con una camiciona immensa e una gonna che le nascondeva i piedi. Aveva lunghissimi capelli castani, e un migliaio di braccialetti intorno ai polsi. «Tesoro!» lo strinse forte lei. Era una donna minuta e spaventosamente magra. Dopo aver stritolato il nipote si avvicinò a me e mi ò le braccia intorno al torace con affetto. «E tu devi essere Eros! Bellissimo nome. Del dio greco dell'amore, ma questo lo saprai già. Deriva dal verbo erasthai, che in greco vuol dire amare» mi scoccò un’occhiata significativa. «Ehm… sì, grazie signora». «Grazie»? L’ho ringraziata? «Signora! Chiamami Maggy. Come fanno tutti!» mi diede uno schiaffetto affettuoso sulla guancia, che quasi mi fece cadere due denti. «Zia, stai benissimo. Deve farti bene l’aria parigina» l’adulò Raffaele. «Mi fa bene stare lontana da quella bigotta di tua madre! Come sta a proposito?» «Sta bene. Come sempre». «Immagino. Dai, andiamo a casa» ci prese per mano. Dopo aver raccattato le nostre valigie, chiamai mia madre per farle sapere che ero arrivato sano e salvo e che stavamo andando a casa della zia del mio amico. Dopo averla sentita snocciolare le solite interminabili raccomandazioni, partimmo alla volta della minuscola casa di zia Maggy, che si rivelò essere un

appartamento in uno stabile frequentato da figli dei fiori, che non aveva nemmeno i portoni! Ma cosa faceva questa se una sera gli entrava uno in casa? Sembrava un unico grande edificio con tanti appartamenti. Ma per la mia concezione di intimità, era davvero troppo. Guardai Raffaele in cerca di un segnale che la pensasse come me, ma lui si era già buttato sul divano. «Purtroppo non ho una camera degli ospiti. Quindi vi toccherà dormire qui» sorrise la zia. «Non abbiamo nemmeno le porte, perché limitano la fantasia ed è come tenere lontani i nostri fratelli e sorelle. E questa non è una buona cosa. Mi rendo conto che voi magari non siete abituati, quindi appenderemo questa tenda alla stipite, così non vi sentirete osservati se… bonjour Ferdande!» salutò un uomo immensamente grasso che stava salendo le scale. «Se qualcuno a» ci guardò gentilmente. Io avevo i brividi. E se Fernando entrava in casa di notte? Sapevo come funzionava tra hippie. Quella storia dell’amore libero poteva convincermi solo fino ai 100 chili! A ogni modo, dopo aver fatto una doccia, ammo il pomeriggio a parlare con zia hippie, che a un certo punto accese uno spinello. «Zia!» rise scandalizzato Raffaele. «Che vuoi?» fece lei aspirando avidamente. «Ma è illegale!» «Non ti permettere di rimproverare tua zia! Sono una donna adulta e faccio quello che mi pare. Non sono andata via dall’Italia e da tua nonna per sentirmi dire cosa posso o non posso fare. Voulez-vous fumer?» «No, grazie» rifiutai. Per me non c’era distinzione tra droghe pesanti e droghe leggere: la droga è droga! E non mi ero mai fatto una canna in vita mia. Di certo non avrei iniziato adesso. Soprattutto quando mi servivano i sensi allertati in vista della notte senza portoni e Ferdande che pascolava liberamente! La sera uscimmo a eggio, e ci godemmo una Parigi stupenda. Quando rientrammo la zia non c’era. «Lei esce, entra, fa come vuole» mi disse Raffaele con aria beata, buttandosi a letto in mutande.

Col cavolo che dormo mezzo nudo. «Bè, è pur sempre casa sua. Ma non ha paura che qualcuno rubi le sue cose?» Raffaele rise. «A lei non importa un accidente dei beni materiali. E poi guardati intorno. Non c’è niente qui dentro che valga più di cinque euro. Inoltre hai visto che gente abita in questo stabile. Qui si proteggono l’un l’altro». «Che genere di lavoro hai detto che fa tua zia?» «Non te l’ho detto, perché non lo so. E nemmeno mia madre. Dice di fare un po’ questo, un po’ quello» rise. Io storsi il naso. Qualcosa non quadrava in quella storia, ma decisi di non indagare oltre. «Eros, non preoccuparti. Non ti avrei mai portato da mia zia se non fosse stata una brava persona. È una tipa particolare, ma se ti devo dire la verità, secondo me è più quello che vuole dare a vedere che com’è davvero. Mia nonna ha sempre tenuto mia madre e mia zia sotto stretto controllo. E lei non l’ha mai sopportato. A diciotto anni è scappata in Francia, ha lavoricchiato e si è mantenuta senza troppe pretese. Credo che le piaccia la libertà di poter fare quello che vuole, in un posto dove non la conosce nessuno e nessuno le pone limiti. Però se sei preoccupato, possiamo andare in albergo». Per un attimo fui tentato di accettare la proposta. Poi mi dissi che quello era un bel modo per Raffaele di stare un po’ con una persona a lui cara. «Ma no, figurati. Va benissimo così, ho esagerato» gli sorrisi. «Sicuro?» «Assolutamente!» feci, cercando di apparire il più allegro possibile. «Bene» mi disse, battendo una mano sul letto. «Vieni qui». Io ero un po’ nervoso. Mi avvicinai al divano letto, ma Raffaele mi fece segno di fermarmi.

«Dormi vestito?» mi chiese. «No, ma qui possono are tutti, e…» «Ma dai! A parte che con quella tenda non si vede niente. E poi se non l’hai ancora capito, qui dentro tutti possono fare quello che vogliono». Sospirando mi spogliai e cercai di infilarmi in fretta il pigiama, ma Raffaele mi prese e mi buttò sul materasso sorprendentemente morbido. «No dai! Fammi vestire!» Lui mi immobilizzò. «Le garçon veut se vêtir, mais je veux le voir nu!» «Hora pro nobis». «Dico davvero». «E io non ho idea di quello che hai detto. Non so una parola di se». «Ho detto che voglio vederti nudo» mi sospirò nell’orecchio. Io ero già eccitato. «Scordatelo! Non con l’entrata libera in casa di tua zia» lo ammonii. Lui si staccò un attimo e mi guardò come se fossi un povero idiota. «Quindi niente sesso per una settimana intera?» Io lo guardai, ovvio. Cioè, solo l’idea di essere lì a Parigi e dormire per la prima volta nello stesso letto con Raffaele stretti tutta la notte mezzi nudi mi faceva un certo effetto, ma poteva entrare chiunque in qualunque momento! Come pretendeva che fimo l’amore? «Absolument pas!» mi prese le mutande e le fece volare giù dalla finestra.

Nonostante tutto risi. E in fondo in fondo fare sesso con la consapevolezza che potevano are e vederci fu ancora più eccitante. Pervertito! ammo la settimana a visitare Parigi, o in giro con zia Maggy che aveva sempre un posto nuovo da farci vedere, o una nuova esperienza da farci fare. Mangiai le baguette a regola d’arte, mi sfondai di croissant, facemmo un migliaio di foto alla Torre Eiffel salendo anche in alto in alto, dove si vedeva tutta Parigi e, grazie a un amico della zia che aveva una barchetta, facemmo anche un bellissimo giro sulla Senna al tramonto. Fantastico. Inoltre visitammo il Louvre, il museo D’Orsay, e Notre Dame. Grazie a una conoscenza dell’onnipresente zia, riuscimmo ad assistere a uno spettacolo del Moulin Rouge dove per poco non svenni dalla contentezza, e Raffaele mi fece una sorpresa prenotando un albergo a Disneyland Paris per una notte, così da goderci il parco il giorno successivo. Senza contare il sesso. Ovunque, a qualunque ora diverse volte al giorno. Raffaele era instancabile, e quella vacanza era d’ispirazione. Ormai mi ero rilassato all’idea di dormire senza porte! Fu un viaggio indimenticabile. Soprattutto l’ultima sera, quando Raffaele insistette per andare di nuovo sotto la Torre Eiffel. «Ancora? Ci siamo già stati. Ormai inizia a perdere attrattiva» gli dissi. «Ti prego! Solo stasera!» mi fece gli occhi dolci. Come dire di no? Così ci ritrovammo a eggiare lungo il magnifico parchetto con laghetto sotto la mega struttura in ferro. «Eros» iniziò Raffaele. Io lo guardai. Vuoi vedere che adesso mi molla qui? «Dimmi» lo incoraggiai. «Stavo pensando a una cosa». Piccola stressantissima pausa.

«Io e te ormai ci vediamo da un po’. Siamo stati insieme più volte, e siamo venuti in vacanza a Parigi insieme. Abbiamo dormito nello stesso letto, abbiamo fatto la doccia insieme, hai bevuto dalla mia tazza di latte per colazione, e io ho ato le ultime cinque notti a osservarti mentre dormivi…» «Come, prego?» sbarrai gli occhi. «Sei bellissimo mentre dormi» mi accarezzò una guancia. Diverse persone ci guardarono male. «Comunque, quello che voglio dire è che, nonostante tutto, io e te non stiamo insieme». Altra piccola pausa, in cui mi guardò intensamente. «Eros, io con te sto benissimo. E sento che mi sono innamorato di te. Ma innamorato pazzo» confessò, mentre io mi appoggiavo alla torre per non svenire. «Ti vuoi mettere con me? Ufficialmente, intendo». Ecco, se io avessi assistito a una scena come quella che stavo vivendo in prima persona, mi sarei messo a ridere dando a quei due del patetico. Ma se la vivi tu una cosa del genere, credetemi, è tutt’altra cosa. «Allora?» mi spronò Raffaele. «Sì! Certo che sì! Mille volte sì! Sì! Sì! Sì!» lo abbracciai stretto. Probabilmente la gente intorno a noi chiamò la polizia denunciando due ragazzi in atteggiamenti poco rispettabili in luogo pubblico. Ma noi andammo via, quindi non ho mai saputo se i miei dubbi fossero fondati. Quando fu ora di partire, non sapevo una mazza di se. La zia ci abbracciò e baciò almeno dieci volte prima di lasciarci imbarcare. «Divertito?» Raffaele mi accarezzò una mano sulla via del ritorno. «Divertimento è poco. È stato tutto…» non trovai le parole, quindi appoggiai la testa sulla spalla di quello che adesso era ufficialmente il mio ragazzo.

Tò, per chi ci sta guardando disgustato!

17.

Lei

ai la settimana successiva a evitare Ilva. Quando entravo non dicevo buongiorno, e se lei mi dava qualche ordine, lo eseguivo senza prestarle attenzione. Notai con piacere che il mio atteggiamento la faceva ulteriormente innervosire, così continuai. Il giovedì stavo tornando a casa dal lavoro alle nove di sera, e mi chiamò Filippo. «Ciao! Com’è andata la vacanza?» chiesi nella speranza che mi dicesse qualcosa di più sul suo viaggio. «Tutto bene. Allora ci vediamo sabato? Hai da fare?» mi domandò lui. Con leggero disappunto per non aver ricevuto informazioni sul suo soggiorno russo, risposi che no, non dovevo fare niente, e ci mettemmo d’accordo per vederci. Non dissi nulla a Caterina, che mi avrebbe costretto a comprare altri vestiti per la serata e due giorni dopo ero in pizzeria ad aspettare che arrivasse. Era già mezz’ora che lo attendevo come una cretina, truccata come una battona e con il push-push-push-up della volta prima. Squadra vincente non si cambia, anche se ci avevo pensato a lungo prima di metterlo. Quando arrivò non si scusò del ritardo. Si comportò come se nulla fosse, e io iniziai a dubitare di aver capito male l’orario. «Ci dovevamo vedere alle nove?» gli chiesi dopo che lui ebbe ordinato per entrambi, di nuovo senza chiedermi cosa preferissi. «Sì, certo» mi disse. Guardò l’orologio «Ho fatto un po’ tardi, effettivamente». Iniziava a darmi sui nervi. Ma che razza di uomo sei? Se conti di conquistare una ragazza così, stai fresco.

Poi però iniziò baciarmi lì, in pizzeria, e a me ò tutto. Lo so, sono una smidollata. A un certo punto gli arrivò un sms. Lui prese il cellulare e con un sorriso scrisse furiosamente una risposta. Io aspettai paziente che finisse, solo che poi gliene arrivò un altro. E poi un altro ancora, e ancora. Dopo il decimo mi schiarii la gola. «È tutto ok?» accennai al cellulare. «Sì, certo» mi ripose senza degnarmi della minima attenzione, preso com’era a rispondere all’ennesimo messaggino. Arrivarono le pizze, che io divorai come un’affamata. Che cavolo, avevo pur sempre lavorato sei ore di fila, eh! Praticamente cinque minuti dopo stavo pensando su una scala da uno a dieci quanto fosse da cafoni sbottonarmi il primo bottone della cinta al secondo appuntamento, e lui aveva a mala pena assaggiato la sua pizza. Vi sembriamo una coppia che poteva andare avanti? «Vado un attimo al bagno» disse lui alzandosi. Ecco, appunto. Io annuii e rimasi sola. Di nuovo. Quella serata era anche peggio della prima volta che eravamo usciti insieme. Ma cos’era successo al ragazzo che mi corteggiava al matrimonio? Che mi scriveva sms carini e ci teneva davvero a vedermi? Non sembrava lo stesso Filippo. Beep. Un altro messaggino. So benissimo che quello che sto per raccontarvi non si deve mai fare, soprattutto a un ragazzo con il quale non hai confidenza e con il quale stai uscendo per la seconda volta. Ma che vi devo dire? Ero esasperata dallo scarso interesse nei miei confronti! Quindi afferrai il suo dannato cellulare e lessi il messaggio di una certa Melissa: «Certo! Come no. Vedrò di cambiare turno con Sophie. Poi magari la prossima volta, invece di andare in un posto così freddo ed essere costretta a mettermi quei geans, possiamo anche partire per un posto caldo dove posso mettere solo un perizoma». Fissai schifata lo schermo del cellulare. Allora, a parte il fatto che jeans si scrive con la J, razza di cretina!

Ma poi chi diavolo era Melissa? E dov’era andata con Filippo? E per che cavolo Sophie avrebbe dovuto cambiare il turno con lei? No, un attimo. Posto freddo? Allora l’aveva accompagnato in Russia! Misi via il cellulare giusto un secondo prima che lui tornasse. E adesso cosa devo fare? Dovevo chiedergli spiegazioni e affrontarlo? Ma avrei dovuto ammettere d’aver letto i suoi messaggi, il che è una chiara e illegale violazione della privacy. Ma non potevo demordere. «Allora, com’è la Russia?» Lui fece spallucce. «Carina». Signore, dammi tu la forza. «E?» «Fredda». «Che avete fatto lì?» domandai imperterrita. «Mah, niente di che. eggiato, visitato i negozi». Mangiò un altro pezzo di pizza. La rabbia si impossessò di me. «Insomma!» dissi ad alta voce. «Mi dici con chi cazzo sei partito?» Lui, e tre quarti della piccola pizzeria, mi guardò con occhi sbarrati. Forse credeva fossi impazzita. «Ti sto facendo un mucchio di domande per mandare avanti una stramaledetta conversazione, e tu te ne stai lì senza guardarmi a scrivere quei cazzo di messaggi! Hai stipulato un contratto con la Wind? Gli fai da testimonial? Sei amico di Aldo, Giovanni e Giacomo? Ma che cavolo!» mi arrabbiai.

Lui si guardò attorno imbarazzato. «Ma si può sapere che ti prende?» mi chiese avvicinandosi a me. «Con chi sei partito?» chiesi fredda. «Con un mio amico» rispose lui. Ohi-ohi. Risposta sbagliata. «Il tuo amico è un trans?» Lui quasi si strozzò con la coca-cola che stava bevendo. «Cosa? Certo che no!» «E allora com’è che lo chiami Melissa?» Ed eccola là. Mi morsi la lingua, ma lui capì al volo. Prese il cellulare e vide che c’era il messaggio che avevo letto e che era già stato aperto. «Hai letto i miei messaggi?» adesso era anche un po’ spaventato, oltre che arrabbiato. «Sì! Cioè, no. Allora chi è questa Melissa?» «Ma come ti permetti! Questa è violazione della privacy!» disse lui alzandosi. Io lo seguii fuori dal locale. «Lo so che ho sbagliato. Ma la questione è sempre la stessa! Mi hai mentito» gli dissi accusatoria. «Non ti ho mentito» mi disse lui fermandosi. «Mi hai detto che sei partito con un tuo amico!» gli ricordai.

«Solo perché avevo paura che non mi credessi. Melissa è mia cugina» confessò. Lo guardai scettica. Davvero credeva che mi sarei bevuta una storiella del genere? Soprattutto dopo che la ragazza che gli aveva scritto proponeva di partire per un posto caldo dove sarebbe potuta andare in giro mezza nuda? «Per amor di Dio! Mi hai preso per una cretina?» «Certo che no!» «Allora pensi che io creda che una cugina ti scriva che la prossima volta andrete al mare così che lei possa andare in giro in perizoma? Per favore, Filippo!» feci per voltarmi, ma lui mi prese per un braccio, cosa che, devo ammettere, non mi aspettavo. «Io e mia cugina scherziamo sempre così. Non devi farci caso. So che ti sembra strano, ma è la verità. Credimi» mi disse. Sembrava sincero. Giuro che sembrava sincero! Sennò pensate che avrei ceduto? Ok, era una domanda retorica, non rispondete. «È davvero tua cugina?» gli chiesi. «Sì, certo. Scusa se non sono stato di compagnia. Ma ho dei problemi a casa. A te ci tengo» mi disse abbracciandomi. E io mi sciolsi. Non solo gli credetti in maniera assoluta, ma arrivai anche a rimproverarmi per essere stata una stupida idiota sospettosa. Come avevo fatto a dubitare di un ragazzo come Filippo? Non era uno stronzo bugiardo, era solo un ragazzo che stava affrontando un brutto periodo a casa, ma non aveva il coraggio di chiedermi tempo per paura che la nostra storia finisse subito. «Mi dispiace tantissimo. Sia per averti accusato, sia per aver letto il tuo messaggio, e anche per la situazione a casa tua» gli dissi dolcemente. «Va bene. Non pensiamoci più». Mi baciò. Sentii un coro d’angeli. Oddio, magari invece che d’angeli era il coro

dell’Antoniano, ma pur sempre un coro era! No, è proprio il coro dello Zecchino D’Oro! Ma cos’è? Mi guardai attorno. Nella casa accanto alla pizzeria si stava svolgendo la festa di compleanno di un bambino. Eh vabbè. «Andiamo a casa mia» disse Filippo suadente. «Non possiamo». «Ok, scusa. Se non sei pronta aspettiamo». «Non è questo» lo interruppi. «È che dobbiamo pagare il conto in pizzeria». Il lunedì seguente avevo la giornata libera, quindi ne approfittai per uscire con Caterina che mi dava il tormento già da una settimana. Devo ammettere che l’affetto e l’amicizia che mi legavano a mia cugina si stavano rivelando utili e importanti per me, almeno avevo qualcuno a cui raccontare della notte con Filippo. Non era stata spettacolare, ma come dissi a Caterina, magari prima di fare del sesso stellare dovevamo abituarci ognuno alle esigenze e al corpo dell’altro. Soprattutto Filippo doveva abituarsi alle mie tette: se in un primo momento era quasi impazzito di gioia solo a vederle, a letto l’avevano quasi soffocato. Evitai di dire a Caterina che a momenti era stata più bella la mia prima volta con quel ragazzo in discoteca, Eros, che con Filippo. Che i gay fossero naturalmente predisposti al sesso? Saggiamente tenni quei pensieri per me. Io e Caterina ci incontrammo in un bar per fare colazione. Io avevo un sonno spaziale, quindi non avevo rimorsi per essermi presentata all’appuntamento con una vecchia maglia a maniche corte e dei jeans stinti, mentre mia cugina era semplicemente spettacolare con il suo vestitino estivo e i sandaletti rasoterra. «E tutti i vestiti che abbiamo comprato insieme?» mi chiese Caterina vedendomi. «Nell’armadio» sbadigliai. Lei storse il naso, ma non disse nulla. Sedemmo a un tavolo all’ombra e

abbastanza appartato e ordinammo. Notai che mia cugina era agitata. «Tutto ok, Cate?» le chiesi. «Sì. No. Oddio, devo dirti una cosa!» sospirò lei. «Che succede? Non dirmi che stai per arruolarti!» «Arruolarmi? Ma che dici!» «Ieri ho visto un servizio al Tg dove hanno parlato delle ragazze che si arruolano. Ma perché diavolo una donna dovrebbe voler fare il militare? Non abbiamo già abbastanza problemi, dico io? Dobbiamo anche metterci a strusciare nel fango e a guidare i carri armati? Ok, ok, dimmi tutto. Mi stai facendo preoccupare». Ci interrompemmo un attimo quando arrivarono le ordinazioni: cappuccino con panna e cacao più cornetto con la crema per me, e un decaffeinato per Caterina. Non commentate, così è davvero troppo facile. «Allora?» «Aspetto un bambino». Credo che a quel punto mi spuntò il secondo capello bianco della mia vita, il primo mi era già spuntato, ricordate? «Cosa?» urlai. «Zitta!» mi ammonì mia cugina. «Sono incinta» sorrise, mettendosi una mano sulla pancia ancora perfettamente piatta. «Ma come! Come?» «Angela, vuoi che te lo spiego com’è successo?» mi chiese lei sghignazzando. «No, lo so come succede. Ma… oddio! Sei incinta! Incinta! Cazzo, Cate!» la abbracciai. Per quanto le mie tette me lo consentissero, ovviamente. Non potevo crederci. Mia cugina che aspettava un bambino! Immaginai la reazione dei miei zii che

erano persone spaventosamente all’antica. «Che hanno detto i tuoi?» «Bè, sono rimasti un po’ scioccati all’inizio. Ma adesso è tutto ok. E io sono felicissima! Giacomo, poi, non vede l’ora di diventare papà. Ho quasi ventitré anni, ed è un’età giustissima per avere un figlio. E anche per sposarsi» disse lei. Io annuii addentando il mio cornetto, mentre la crema usciva dal lato opposto e cadeva sui jeans. «Porca tr…» imprecai. Poi guardai mia cugina. «Certo!» appoggiai la brioche cercando di pulire quel disastro. «Hai ragione!» «Sì» e si torse le mani. «Ed è per questo che ci sposeremo». Il cornetto mi andò di traverso. «Come?» «Vuoi abbassare la voce?» rise Caterina. «Mi sposo. Io e Giacomo ci sposiamo» mi disse allegra. La abbracciai di nuovo dicendole quanto fossi felice per lei. Non potevo crederci. Quelle erano troppe novità importanti da assimilare tutte insieme! Non volevo iniziare a tingermi i capelli già a ventidue anni per albinismo precoce. «Quando vi sposerete?» «Tra cinque mesi. Il trentuno dicembre. Faremo una bella festa tutti insieme per l’arrivo del nuovo anno!» disse lei eccitata. «Wow, romantico» dissi. «Già. E c’è dell’altro. Vorrei che tu fossi la mia testimone di nozze». Io la guardai con gli occhi sbarrati.

«Oh, Cate!» mi commossi e la abbracciai per la terza volta. Ero felicissima per Caterina. Si meritava tutta la felicità del mondo! Era una così cara ragazza. Io mi sentivo debole per le forti emozioni. Dovevo riprendermi. Qui servono zuccheri! «Cameriere! Un altro cornetto. Con la Nutella! Anzi due». Il cameriere, insolente, guardò il mio piattino ancora con mezzo cornetto e storse il naso. «Guardi che uno è per mia cugina, qui, che è incinta!»

18.

Lui

Inutile dire che durante la mia bellissima vacanza non avevo disegnato un accidente. E questo mi costò ben più che un paio di notti insonni come avevo previsto. Per finire in tempo non facevo altro che disegnare. Con l’arrivo di settembre il caldo e l’afa erano scomparsi quasi del tutto, e di punto in bianco ci toccò riprendere dagli armadi giacche e maglie a maniche lunghe. La prima cosa che feci quando tornai in Italia fu scrivere un sms a Elisa.

«Gay come back to Italy. Ho grandissime novità da raccontarti! E immagino anche tu dopo Londra. Quando ci vediamo? Un bacio. Ti vù bì!» Decidemmo di vederci il week end successivo, e l’ultima settimana di ferie io mi chiusi in camera per disegnare e disegnare e disegnare. E ok, uscii anche diverse volte con Raffaele, ma questo non vuol dire che non mi impegnai a fondo! Raccontai in fretta e furia a mia madre e mia sorella delle vacanze e di quanto mi ero divertito, e venni a sapere che mio padre aveva finalmente fatto coming-out con la sua nuova fiamma. «Ha qualche anno più di me» disse imbarazzatissima Daiana nascosta in camera mia una sera, lontano da mia madre. Era meglio non toccare l’argomento davanti a lei, ogni volta che sentiva il nome di papà aveva uno stranissimo tic nervoso all’occhio. «E com’è fisicamente?» chiesi. Ma avevo già una mezza idea. Mia sorella sbuffò. «Nemmeno a dirlo è altissima e biondissima. Credo sia moldava» e scoppiò a

piangere. Santo cielo! Credevo che queste cose succedessero solo agli altri, o a limite in qualche film scadente. Non certo alla mia famiglia! Per consolarmi mi cambiai e raggiunsi il locale dove c’eravamo dati appuntamento io ed Elisa per parlare, dopo circa un’era che non ci vedevamo. Ovviamente arrivò in ritardo, ma con un abitino intero sportivo dalla fantasia anni ’80 che le lasciava una spalla scoperta, hot pants e un paio di fiammanti Nike ai piedi che probabilmente sarebbero arrivate in Italia tra un secolo. Stava benissimo. Si avvicinò camminando come se si trovasse su una erella e quando arrivò davanti a me fece addirittura una posa senza nemmeno rendersene conto. Che modella nata! «Elisonzola!» la abbracciai felice. Non mi ero accorto di quanto mi fosse mancata. «Erossuccio! Come sei bello, tutto abbronzato» mi disse. «Tu invece non devi aver visto un raggio di sole manco a pagarlo». «Londra è grigia. Però è stupenda! Non immagini cosa ho potuto comprare! Di tutto! E un sacco di cose me le ha regalate Alessandro» saltellò. «Uh, e per me?» Elisa si fermò all’istante. «Porc… l’ho dimenticato a casa!» Appunto. Almeno ebbe il buon gusto di mettere su un’espressione triste. «Io per fortuna no» e le diedi un pacchetto regalo. Le avevo comprato una statuetta che era una rappresentazione in miniatura della Torre Eiffel con una modella che si faceva fotografare. «Oh mio Dio!» saltellò ancora.

Dedussi che le era piaciuto. Entrammo nel locale, sedemmo e ordinammo. La prima cosa che feci fu parlarle di quello che mi aveva detto Daiana poche sere prima riguardo mio padre e la sua nuova ragazza dell’est. Fui colpito dal turbamento della mia amica. A momenti era più basita di me! «Non so, non me l’aspettavo» disse lei quando le chiesi il perché di quella faccia da pesce lesso. «Le nostre famiglie sono vecchio stampo, per me rappresentavano una certa stabilità! E adesso che i tuoi stanno ando questi momenti… Non so» e bevve un sorso del suo drink. Io sbuffai. «Che situazione». Elisa mi mise un braccio intorno alle spalle. «Dai, ci sono sempre io per te! E adesso ti allieto con i racconti della mia bella vacanza!» e tirò fuori cinque mini album per fotografie. Di quelli che contengono almeno cento foto! ammo il resto del nostro meeting a sfogliare album e a commentare le foto, mentre Elisa mi ragguagliava dei bei momenti romantici ati con il suo Alessandro. Quando fu il mio turno notai con disappunto che si era fatto tardi, quindi mi limitai al riassunto, cercando di piazzare qua e là un aneddoto hot, giusto per farle sapere che anche a me era andata piuttosto bene, infine ci salutammo. Il giorno dopo, nonostante avessi messo in guardia la mia famiglia più di una volta che non dovevo essere svegliato la domenica mattina per nessun motivo, incendi o crollo delle mura incluse, mia madre irruppe in camera mia, spalancò le tende facendo entrare più sole di quanto uno possa tollerare alle otto di mattina, e cioè, dopo aver ato la notte al telefono con Raffaele e aver dormito quattro ore. «Mamma!» urlai con la tipica voce roca mattutina. «Ho deciso che da oggi si cambia aria» mi disse ignorando le mie ripetute proteste. Daiana si affacciò in camera mia già vestita e sistemata, appoggiandosi allo stipite della porta mangiando uno yogurt.

«Ridipingeremo le pareti di casa» annunciò mia madre aggressiva. «Cambieremo le tende, sostituiremo parte dell’arredamento e finalmente comprerò una lavastoviglie!» Io sbadigliai. Ormai era perfettamente inutile tentare di recuperare un po’ di sonno. «E questo implica una mia partecipazione?» le chiesi annoiato. «Ma certo. Mi aiuterete sia tu che tua sorella». Io guardai Daiana, che fece spallucce. «Ora alzati, vestiti con qualcosa di vecchio, e iniziamo a lavorare!» «Adesso? Alle otto di mattina?» «Prima iniziamo, meglio è!» «Ma la vernice non si asciugherà mai per stasera! Ci intossicheremo con la puzza» protestai. «Sciocchezze! Lasceremo le finestre aperte». «Con questo freddo?» «Freddo. Siamo a settembre, mica a gennaio. Forza!» mi tolse di dosso le coperte. «Ma scherzi?» Mia madre non scherzava affatto. Anzi, la cosa era premeditata! Dopo dieci minuti ero di fronte a immensi secchioni pieni di vernice colorata, pennelli e giganti teli di plastica. Mia madre indossava pantaloncini corti risalenti al periodo Rococò, canotta multicolore sbiadita e un po’ strappata e ciliegina sulla torta, anzi, in testa, visto che s’era annodata una bandana con fantasia di ciliegine fosforescenti. «Mamma, come sei elegante!» dissi. «Non fare lo spiritoso. Aiutami a spostare i mobili e mettere tutto sotto i teli, che

iniziamo a dipingere» mi disse con le mani sui fianchi. Tempo mezz’ora ed ero già distrutto. Mia madre faceva sul serio! Il salotto da bianco diventò azzurrino, la cucina diventò gialla, il bagno diventò turchese, camera mia rimase verde acqua grazie al cielo, ma quella di mia madre da grigio funerale, colore dovuto al tempo, diventò rosa pastello. Mia sorella optò per un classico bianco, ma mia madre rifinì i contorni delle due finestre e il soffitto dello stesso rosa di camera sua. Finimmo a pomeriggio inoltrato, e benché casa nostra non fosse grandissima, ero stremato. A tenermi su fu Raffaele, che per tutto il giorno mi mandò sms dolcissimi incitandomi come una ragazza pon-pon. Dopo tutta quella fatica, purtroppo, mia madre aveva ancora qualche forza che impiegò per ripulire i mobili, buttando una quantità allarmante di vecchie cianfrusaglie e souvenir che mio padre amava collezionare. A fine giornata crollai a letto, mezzo stordito dal pungente odore della vernice. Il giorno dopo mi svegliai in coma, rimanendo per almeno un quarto d’ora a fissare il soffitto, prima di rendermi conto che mancavano solo due giorni prima di tornare al lavoro, e che grazie alla temerarietà di mia madre ero indietro con i disegni. Feci una colazione veloce, e una doccia fredda, e poi mi misi all’opera. Ero chino sui miei disegni da dieci minuti, quando mia madre irruppe di nuovo in camera mia. «Ho affittato un furgoncino. Di quelli che puoi guidare anche con la patente B» mi annunciò sbrigativa. «Quindi?» cancellai una parte del disegno. «Quindi cambiati che si va in quel grande magazzino aperto da poco che vende arredamento per la casa». Io la guardai seccato. Quando è troppo, è troppo! Capivo perfettamente che per mia madre era un modo per tagliare i ponti e cercare di risollevarsi dal divorzio inaspettato, e capivo anche che per lei era un bruttissimo periodo, e che stava soffrendo. Ma doveva comprendere anche lei i miei stati d’animo, e quelli di Daiana. Che comunque quel giorno era al lavoro, quindi salva dalle pazzie di mia madre. «Non pensarci nemmeno. A causa della tua improvvisa voglia di cambiamenti sono indietro con i disegni che devo presentare mercoledì prossimo alla mia

datrice di lavoro. E quel poco che riesco a fare lo sto facendo al rallentatore, visto che mi fanno male le braccia per i lavori di ieri!» la aggredii. «Bel modo di ringraziare tua madre! A me non ci pensa nessuno, vero? Io lavo, cucino, stiro, pulisco, e nessuno lo nota! Per una volta che ti ho chiesto un favore». Ecco che fa la vittima. La sua parte preferita. «Sì, ma devi comprendere quand’è il momento e quando no!» «Oh, scusa tanto se ho interrotto la tua vita perfetta, ma sai una cosa? Anche alla mia età si possono avere dei problemi!» Rimase un attimo con le mani sui fianchi, prima di buttarsi seduta sul mio letto e azionare i due rubinetti che ultimamente aveva al posto dei bulbi oculari. Mi sentii subito in colpa. La felicità di mia madre era davvero meno importante del lavoro e della carriera? Carriera dove, poi? Non stavamo certo parlando di una grandissima firma. «No, mamma, dai, per favore. Scusami! Non piangere. Hai ragione tu» la raggiunsi a letto. «Fai così tanto per noi. Posso benissimo dedicarti un po’ del mio tempo! Mi vesto e usciamo» le dissi tentando di consolarla. «No, hai ragione tu. Sono una sciocca. Non si cambia la propria vita cambiando l’arredamento e il colore delle pareti» si soffiò il naso. Mia madre portava sempre un fazzolettino di carta in tasca. Ed era un’abitudine che aveva inculcato anche a me e Daiana. «No, ma è pur sempre un inizio» le dissi. Dopo cinque minuti mia madre si era data una calmata e finalmente uscimmo alla volta del grande magazzino. Comprò una nuova cucina sui toni del giallo provvista di lavastoviglie. «Ultima generazione!» rise.

Prese anche una nuova, delicata e super femminile camera da letto per lei. «Non voglio più dormire dove dormiva quel porco di tuo padre!» E infine una serie di mobili sull’azzurro che avrebbero dato vita a un salotto bello e moderno. Ma non finì lì: ricomprò nuovi mobili per il bagno, nuove tende, nuovi tappeti e decise di acquistare qualche quadro più vivace. «Voglio fare fuori quelle schifezze che ci regalò tua nonna per il matrimonio. Non ho mai potuto sopportare quei quadri!» Mi chiese se volevo una nuova camera da letto anche io, ma decisi che mi trovavo bene con quella che avevo. Ci ero affezionato, non so se mi capite. E per concludere in bellezza, comprò specchi, plafoniere e addirittura un nuovo cordless. Spese un’eresia. Inutile dire che il furgoncino ci bastò a fatica. «Adesso chi monterà i mobili che hai comprato quando ce li consegneranno?» «Oh, non ti preoccupare. Verrà un amico di Lalla» mi informò. Lalla era la migliore amica di mia madre. «E chi sarebbe costui?» «Un ragazzo albanese che si arrangia lavorando saltuariamente dove capita» disse lei casualmente. Ecco, ci mancano gli extracomunitari in casa. Non prendetemi per razzista, eh! Indipendentemente dalla provenienza, in generale mi seccava che venisse un estraneo in casa mia. Addio privacy. «iamo al centro commerciale, così facciamo spesa» mi disse. Era felice e appagata. In fondo se era bastato spendere un po’ di soldi per renderla felice, che male c’era? Visto che i soldi alla fine danno la felicità? E poi diciamocelo: con tutto quel mal di braccia avrei disegnato poco. Al centro commerciale mia madre riempì il carrello, infine uscimmo alla volta della macchina. Ma avanti, credete davvero che la giornata potesse finire in maniera così tranquilla? Eh no. In quel momento vedemmo uscire da un negozio

d’abbigliamento niente po’ po’ di meno che mio padre con una ragazzotta un po’ volgare al suo fianco. Mia madre si bloccò agghiacciata. Io trattenni il respiro. Mio padre stava facendo l’idiota con la sua ragazza, come se fosse un adolescente. Era un po’ patetico, a dire la verità. Del resto se non fosse stato mio padre, cosa avrei pensato di un sessantenne che si comportava da cretino con una biondona più giovane di lui, e vestita da pornodiva? Un attimo dopo anche mio padre ci vide. Per un momento vacillò, ma poi, ignorando totalmente mia madre, si avvicinò e mi abbracciò. «Ed ecco mio figlio!» disse a voce troppo alta. In quel momento pregai che il pavimento si aprisse e mi inghiottisse nella sua voragine nera di fumo e disperazione. In altre parole, tutto era preferibile alle attenzioni pacchiane e plateali di mio padre. «Come stai?» mi diede una pacca sulla spalla. A dire il vero credo che me la lussò. «Bene. Ma lasciami, per favore» lo respinsi. Ma cosa diavolo gli prendeva? Non si era mai comportato così! «Lei è Aglajda» la presentò mio padre. “Aglajda”. Ma che cazzo di nome è? A mia madre, lì vicino, pulsava una vena sulla fronte. «Molto piacere» mi disse lei stringendomi una mano. Aveva, come previsto da Daiana, un forte accento russo. «Speravo di presentartela a cena, ma…» «Non fa niente» dissi io. «Allora, fatto compere?» chiese mio padre. «Ehm…»

A quel punto, credo, la pazienza di mia madre si esaurì. Del resto come biasimarla? «Sì, vuoi sapere cosa abbiamo comprato?» gli si avvicinò minacciosa. Mio padre indietreggiò. «Avevi lasciato a casa mia i soldi che hai raccolto negli ultimi dieci anni per quell’escursione in Africa che volevi fare. E io ho deciso che sarebbero serviti per rimodernare il mio appartamento». Pausa sadica. Ecco, in quel momento temetti che il centro commerciale crollasse, o che a mio padre venisse un infarto. Negli ultimi dieci anni, il mio papà aveva risparmiato centesimo su centesimo per fare un viaggetto nella Savana con il suo amico Dino. Ovviamente quella mattina avevo chiesto a mia madre dove avrebbe preso il denaro sufficiente per comprare tanta roba, ma lei aveva detto in tono vago che era stato mio padre a lasciarle qualcosa. Se avessi saputo che i soldi erano quei soldi, avrei cercato di dissuaderla! «Non l’hai fatto sul serio» boccheggiò mio padre. «Oh sì» ghignò mia madre. «Li ho spesi tutti». Mio padre prese a tremare di rabbia. «Vecchia cagna deficiente! Come ti sei permessa? Oh, ma io ti faccio causa! Vedrai se non ti faccio causa!» le urlò. Mia madre non aspettava altro. «Ah, sì, fammi causa, stupido maiale, vedrai se non mi faccio are gli alimenti a vita!» Tutti, ma proprio tutti i anti nel centro commerciale li stavano guardando. E purtroppo guardavano anche me, che ero lì in mezzo come un cretino senza trovare il coraggio di fare qualcosa. «Quei soldi erano miei! Miei! Servivano a me per una cosa che ho in programma da anni!» urlò ancora mio padre gesticolando a più non posso.

«Allora avresti dovuto prenderli quando te ne sei andato per andare a vivere con quella puttana!» indicò la biondona. «Puttana a chi?» intervenne lei cattiva. Ecco, ci manca che s’incazzi il Kgb. «Tu! Tu sei una puttana! Una sfascia famiglie, ecco cosa sei!» «Otvaly!» Olè! Casatchok! Era ora che intervenissi. Anche perché si erano affacciati anche i commessi di tutti i negozi, e si stava diffondendo una certa ilarità tra il pubblico. C’era una commessa che si era sporta più degli altri e che mi guardava con una certa insistenza, arrivando perfino a sorridermi di fronte allo spettacolo che stavano offrendo i miei! Ma guarda questa stronza! Gode delle mie disgrazie! Mi sembrava familiare, ma non era quello il momento per la mia vita sociale. «Ok, mamma. Adesso basta» la presi per un braccio e la trascinai con me verso l’uscita, mentre con l’altra mano tentavo di manovrare il carrello. Mio padre continuava a sbraitare, ma al momento era mia madre che doveva avere la priorità. Anche se usando quel denaro aveva oltreato il segno. Una volta a casa le diedi due gocce di Valium per farla calmare e la feci stendere a letto coprendole gli occhi con un panno fresco, e accendendo il suo adorato fornelletto per l’aromaterapia. Optai per una generosa quantità di camomilla. Quando fui certo che mia madre non avrebbe avuto un altro collasso nervoso, andai in cucina dove trovai Daiana che era appena tornata dal lavoro. «Cos’è successo?» si allarmò. Rovinai su una sedia e le raccontai tutto, sfogandomi. Le raccontai dettagliatamente l’accaduto. Mia sorella era atterrita. «Hanno fatto questo davanti a tutti?»

«Tutti». «E papà?» «Papà niente. Si è sgolato e ha sbracciato fino a che non siamo usciti, mentre Miss Matrioska ci strillava di tutto e di più in russo, quindi non ho idea di cosa ci abbia detto» mi coprii la fronte esausto. Mia sorella era allibita. Decisi di tornare in camera, e tentare di disegnare qualcosa. Prima però risposi a Elisa che mi aveva scritto una lunga mail dal suo Blackberry, cancellai le duecento mail spam che mi erano arrivate e che mi offrivano rimedi contro la calvizie, che non avevo grazie al cielo, e infine chiamai Raffaele per calmarmi un po’. A quell’ora stava presumibilmente rientrando a casa dopo il lavoro che per lui era iniziato quel lunedì. Mi rispose al secondo squillo: «Ciao amore mio. Mi mancavi!» E tornò il sorriso.

19.

Lei

ò un mese. Arrivò agosto con un caldo micidiale che mi faceva sudare come una cammella gravida. E non è piacevole lavorare d’estate in un negozio di articoli in pelle, anche se avevamo l’aria condizionata. Dopo una mezz’oretta svaniva l’effetto condizionatore, e iniziavi a sentire di nuovo caldo. È ingiusto come certe persone, Ilva ad esempio, non sembrassero accusare nemmeno lontanamente la fatica e gli sforzi che si fanno d’estate, apparendo sempre fresche, profumate e riposate, e come invece alcune persone, tipo la sottoscritta, iniziavano a sudare copiosamente dopo un quarto d’ora dall’ultima doccia, con osceni aloni sotto le ascelle e due bei segni a delineare il contorno tetta inferiore. Lavorare a contatto con Ilva non era mai stato così brutto, adesso che Giuditta si era licenziata. Dopo il preavviso di otto giorni, aveva salutato con discrezione e se n’era andata. Ovviamente ci tenevamo in contatto. Lei avrebbe ato il periodo che la separava dal nuovo lavoro in vacanza in Grecia, con il suo nuovo boy-friend, e io iniziai a tremare e ad avere gli incubi notturni quando realizzai che bisognava cercare una nuova commessa. Credete che Ilva avrebbe assunto una ragazza con la quale andassi d’accordo? Era ancora inviperita perché l’avevo lasciata per uscire con Filippo, e ancora me la stava facendo pagare. Sapevo che aveva intenzione di prendere una ragazza che mi avrebbe reso la vita impossibile. L’unica cosa che mi teneva un po’ su era che il grande capo aveva imposto a Ilva di non assumere nessuno prima delle vacanze estive, visto che era un periodo piuttosto spento, quindi avevo ancora qualche giorno di calma piatta prima di dovermela vedere con qualche nuovo mostro. Le cose con Filippo non stavano andando bene. Dopo avermi detto di avere una pessima situazione in famiglia non ne aveva più accennato, il che non so bene se avrebbe dovuto farmi preoccupare o meno. Comunque non mi impicciai e rimasi zitta senza sollevare la questione. Non mi portò mai a casa dei suoi, preferendo farmi salire all’attico minuscolo e arredato in maniera pessima che usava di tanto in tanto per dare feste con gli amici, che puzzava di fumo e birra, e dove consumavamo i nostri rapporti sessuali. Non ero una grandissima esperta di sesso, ma non è che le cose

andassero come me le aspettavo con lui, sotto quell’aspetto! Filippo si concentrava solo sulle mie tette e in cinque minuti era tutto finito. Non mi faceva sentire a mio agio, era come se io nemmeno ci fossi. Oppure come se al mio posto ci fosse una gigantesca bambola gonfiabile. Non era bello per me. Avevo sempre sognato di fare l’amore su un letto di rose, con mille candele intorno e lo stereo che spandeva una musica sensuale. E invece mi ritrovavo puntualmente lì, senza il minimo romanticismo, su lenzuola con macchie sospette, in un appartamento che puzzava di rutto! Ogni volta, dopo aver fatto l’amore, lui andava a fare una doccia veloce e tornava a letto dove si metteva a russare dopo tre minuti. A dire il vero il record era due minuti e 59 secondi. L’avevo cronometrato. Niente parole dolci, niente baci, niente coccole. E non era solo il sesso che non andava come avrebbe dovuto. Filippo non mi scriveva mai messaggi, che ne so, solo per domandarmi cosa stessi facendo. Non mi diceva mai che gli mancavo e non voleva mai vedermi per uscire a fare una eggiata. Puntualmente mi chiamava per chiedermi cosa avessi da fare quello o quell’altro giorno e, quando ci vedevamo, mi portava velocemente a cena dove non parlava quasi per niente, e poi via di filato nel suo mini attico. Ecco un’altra questione che mi rompeva non poco: stava sempre a messaggiare. Sospettavo che si stesse sentendo con un’altra ragazza, ma lui mi assicurava che era il suo migliore amico, il cui nome avevo sempre ignorato. Quando mi facevo insistente, lui mi faceva leggere il nome di chi gli aveva scritto, che era sempre un nome maschile, ma che io non avevo idea a chi appartenesse. Infatti, dopo un mese che ci vedevamo regolarmente, non mi aveva mai presentato un amico che fosse uno. Quando glielo feci notare, mi disse semplicemente: «Preferisco stare da solo con te». Il che, lo ammetto, mi fece piacere. Pensai che fosse dolcissimo a volermi tutta per sé, e che ci sarebbero state altre occasioni per conoscere i suoi amici. Perché se ci vedevamo diverse volte a settimana voleva dire che gli piacevo, no? Magari vi chiederete: ma se è un tipo del genere, perché non lo molli? Ecco il perché: una sera, dopo aver fatto l’amore, e dopo che lui si era fatto la doccia, io iniziai ad accarezzarlo. «Scusa, ma sono stanco» si defilò lui. «Non ti piace?» gli chiesi io con dolcezza continuando a stuzzicarlo. «Sì, ma vorrei riposarmi un attimo» mi scansò la mano.

Mi fece innervosire. Mi alzai dal letto e cominciai a rivestirmi. «E adesso cosa c’è?» mi chiese lui con esasperazione. Come se fossi io a rompere per questioni di poco conto, capito? «Come sarebbe a dire cosa c’è? Abbiamo appena fatto l’amore, santo cielo!» Lui parò le mani avanti, come per ripararsi dalle mie parole. «Non mi pare che ti sto buttando fuori a calci» mi disse. «No, ma se ti metti a dormire, mi spieghi cosa ci sto a fare qui?» Lui mi guardò come se fossi un’ebete. «Dormi anche tu?» mi propose con ovvietà. «Se voglio dormire, ho casa mia». Lui scosse la testa. «Angela, non capisco cosa vuoi da me» mi disse sconsolato. «Cosa voglio? Voglio un rapporto normale! Andiamo a letto insieme da un mese. Non dico che devi presentarmi i tuoi, o che devi comprarmi un anello, o mettere un lucchetto su ponte Milvio con le nostre iniziali e poi buttare la chiave di sotto, anche se effettivamente i tuoi abitano nell’appartamento qui sotto e quando ci vedono salire non faccio una gran figura, ma quantomeno usciamo a fare una eggiata, a prendere un gelato! Fa caldissimo qui sopra!» mi lamentai. «Urca» si buttò pesantemente sul letto, con irritazione. «Senti, mi sono svegliato presto questa mattina. Avevo voglia di vederti e nonostante la spossatezza sono ato a prenderti. Non mi pare di non dare prova di tenerci a te». Ma come cavolo parla questo? «Non voglio la Luna, Filippo» gli dissi con più calma. «Ma mi spieghi quanto meno che tipo di rapporto abbiamo? È una cosa seria oppure è una cosa da sesso e basta? No, basta che tu me lo faccia sapere, così valuto la faccenda, ed eventualmente mi metto l’anima in pace e la accetto. È più per soddisfazione

personale, non so se mi capisci». Lui mi guardò un attimo, poi scese dal letto e, con il pistolino al vento, mi abbracciò. «Ma certo che è una cosa seria. Non stiamo insieme? Credevo fosse ovvio». Ed ecco qua il motivo per cui non l’ho mollato. Era il primo ragazzo che si spingeva tanto in là con me, e nella mia testa una storia a metà era meglio di nessuna storia. Patetico? La verità era che volevo essere felice, fare le stesse esperienze di tutte le altre ragazze del mondo. Come Caterina, per esempio! «Maledetta me, quando ho deciso di sposarmi!» disse un giorno, isterica, mentre eravamo insieme. Parcheggiò l’auto e ci avviammo verso l’enorme negozio d’arredamento. Prendeva almeno tre piani ed era gigantesco. Caterina e Giacomo sarebbero andati ad abitare nell’appartamento di quest’ultimo, che non era grandissimo, ma sarebbe stato perfetto per loro due e il piccolo, o la piccola, che sarebbe nato, o nata, a marzo. L’unica cosa che non mi spiegavo era perché Giacomo avesse dormito fino a quel momento in un letto singolo. Cioè, va bene che abiti da solo, ma un uomo della tua età non dovrebbe dormire in un letto a due piazze? Mi chiesi come era stato concepito quel bambino. Però poi pensai anche che Caterina, al contrario della sottoscritta, era un fuscello. A letto non avrebbe occupato più di dieci centimetri! Io invece avevo convinto da tempo i miei a comprarmi un letto a una piazza e mezza, e ci stavo stretta. Solo che non mi andava di spendere soldi per ricomprarne uno matrimoniale. Ebbene sì, sono una tirchiona! A ogni modo adesso avrebbero dovuto comprare una camera matrimoniale, e visto che Giacomo doveva lavorare, fui io ad accompagnare mia cugina che, incinta di due mesi, divideva il suo tempo tra la nausea, le vampate di caldo e la pipì. «Davvero. Non ce la faccio più con questa storia del matrimonio. È stancantissimo! Mia madre è più d’impiccio che d’aiuto. Giacomo sembra non interessarsene affatto, affibbiando tutto a me. Dice che per lui una cosa vale l’altra e che l’unica cosa che vuole è are il resto della sua vita con me e il piccolo».

«O la piccola. Bè, è romantico, no?» Caterina mi ignorò, continuando la sua lagna. «Non ho mai vomitato tanto in via mia come in questo periodo! Davvero, tutti i giorni, mattina e sera, puntuale come un orologio svizzero. Se continuo così, il bambino lo vomito via» si lamentò, asciugandosi il sudore. Strano vedere Caterina sudare. «Su, su. Ci sono io con te. Non sono esattamente una maestra dell’organizzazione matrimoniale, ma è pur sempre qualcosa» la abbracciai. Caterina mi appoggiò la testa sulla spalla. «Grazie Angy. Sei un tesoro». Una volta al reparto camere feci del mio meglio per esserle d’aiuto. Ma Caterina faceva l’impossibile per darmi sui nervi. Si lamentava, era nervosa, acida e ogni mio consiglio sembrava esasperarla. Alla fine, dopo che mi riprese in maniera poco gentile davanti a un imbarazzatissimo commesso, andammo via senza comprare nulla, e quando mi accompagnò a casa ci salutammo con una punta di gelo. A rovinarmi ulteriormente la giornata ci pensò Filippo, con cui sarei dovuta uscire quella sera a cena. «Scusa, ma stasera proprio non ce la faccio» mi diede buca. «Oh. Non preoccuparti. È tutto ok?» indagai dolcemente. «Sì, è solo che mia madre non sta bene e preferirei stare a casa con lei. Sai com’è». Eh certo. Come no. Sbuffando chiusi il telefono e mi avviai al lavoro. «Santo cielo, ma sei sudatissima» mi accolse Ilva con aria disgustata. Cosa ti aspettavi? Stiamo a trentotto gradi! «Fa caldo oggi» le feci notare.

«Bè, scordati che ti faccio stare a contatto con i clienti in questo stato». Quali clienti? «Vattene a ordinare il magazzino» mi scacciò. Senza ribattere, mi recai in mezzo alla polvere, dove per tutto il pomeriggio feci finta di mettere in ordine quello che era già perfettamente a posto. Quando uscii ero sudata fradicia, stanca, con gli occhi rossi per la polvere e gli starnuti e decisamente affamata. Ma che vita di mer… Una volta a casa sentii la voce di mia sorella che cianciava allegra con mia madre in cucina. Senza farmi sentire mi infilai in bagno dove feci una doccia di almeno mezz’ora. Non avevo voglia di parlare con nessuno. Quando uscii mi trovai di fronte Laura. «Cavolo, hai un’aria terribile» mi fece notare. «Sono esausta» risposi stancamente. «Tutto ok al lavoro?» «Certo che no. Ilva è una totale stronza». «Ehi! Cosa sono queste parole?» mi riprese mia madre. Io non risposi. «Non potresti cercare un altro posto?» Risi amaramente. «Certo. Mando curriculum praticamente dappertutto. Ma non si trova una mazza» dissi. «Potrei chiede a Sofia. Mi pare che nella ditta dove lavora cercassero dipendenti» mi propose. «Se non devo stare a stretto contatto con lei, per me va bene» dissi.

Lascio Ilva per Sofia? No, grazie. Non sarebbe stato poi questo grandissimo cambiamento. «Guarda che lo faccio per te, se non vuoi, stai dove ti trovi» se la prese Laura. Io non avevo la forza per rispondere così feci spallucce e lasciai che si lanciasse in un’invettiva contro la mia inettitudine. Perfetto. Ilva mi maltrattava al lavoro, rendendomi la vita impossibile, Filippo prima mi diceva che stavamo insieme, che eravamo una coppia, e poi mi chiamava per dirmi che non poteva uscire usando come scusa quella stupida storiella della madre malata. Caterina, che era praticamente la mia sola e unica amica, era arrabbiata con me non si sa per quale cacchio di motivo, ma probabilmente non faceva testo, visto che i suoi ormoni la facevano stare incazzata con il mondo intero, e Laura mi strillava addosso mentre tentavo di mangiare qualcosa, solo perché non mi ero mostrata felice all’idea di andare a lavorare a contatto con quella iena della sua migliore amica. E poi mia madre s’arrabbiava se dicevo una parolaccia. Dio mio, che vitaccia.

20.

Lui

Il ritorno al lavoro fu decisamente traumatico. In pochi giorni mi ero abituato a svegliarmi quando volevo, fare colazione con calma, guardare la tv, pranzare, uscire con Elisa per poi are la sera con Raffaele. Svegliarsi da quell’idillio fu una mazzata! «Buongiorno Eros!» mi salutò allegra Gaia dopo due settimane di ferie. Flora era sempre stata molto prodiga con le vacanze. «Ciao» le dissi sedendomi alla mia scrivania. «Allora? Com’era Paris?» Sorrisi al ricordo della bella vacanza con il mio Raffaele. «Se sorridi dev’essere andata bene» alluse Gaia, che non avendo risposta decise di lasciar cadere il discorso. Impiegai più tempo del previsto per riprendere un ritmo decente, e quando arrivarono le 17.30 non avevo fatto ancora nulla. «Eros, puoi venire nel mio ufficio?». La signora Flora si affacciò alla porta, senza nemmeno salutare. Quel giorno aveva superato se stessa nella scelta del completino abbinato! Aveva una camicetta d’organza semitrasparente e una gonna di raso al ginocchio, entrambe con un’assurda fantasia nei vari toni del verde, fucsia e rosso. Sembrava un enorme albero di Natale. «E porta i disegni» aggiunse prima di scomparire alla velocità della luce.

Afferrai il raccoglitore ed entrai silenziosamente nel bell’ufficio profumoso della mia capa, che tese la mano verso i miei capolavori. Li prese e li soppesò per un attimo con un’espressione interrogativa borbottando tra sé, come se stesse pensando ad alta voce. E conoscendola, probabilmente era così! «Non mi sembrano molti» mi disse poi. Era delusa? «Ehm…» «Eros, mi sembrava di essere stata chiara sull’importanza del compito che ti ho affidato» prese a cazziarmi. Ma non ci posso credere! Ero rientrato quel giorno e già non le andava bene qualcosa! Non le bastavano tutte le mansioni che avevo lì dentro? «Io…» «Con tutto il tempo che avevi a disposizione durante queste ferie, mi aspettavo almeno cinque volte tanto» mi disse. Vuoi anche una fetta di culo? Cinque volte tanto. Ma non lo sapeva questa che anche io avevo una vita? Che si aspettava? Che assi tutte le vacanze chiuso in una camera buia a disegnare modelli che poi lei avrebbe scartato, o nel migliore dei casi, modificato? Eddai. «Voglio molti più modelli» mi disse con aria grave. «Molti, molti di più». Ripresi i disegni che non aveva degnato di uno sguardo, e sui quali avevo speso ore e ore di lavoro e impegno. Poteva almeno dargli un’occhiata! «Va bene signora» dissi piano. Ero deluso.

«Ti do un altro mese. Ma voglio una quantità esagerata di proposte» mi avvertì. Annuii e tornai nel mio ufficio. Quella sera, appena tornai a casa, telefonai a Raffaele. Ma prima, per raggiungere camera mia, dovetti schivare l’operaio albanese e gli amici che si era portato appresso e i mobili semi assemblati, sparsi per casa. Notai che la cucina l’avevano montata quella mattina. «Ciao tesoro» mi salutò Raffaele allegro. «Ciao». «Che voce triste! Che succede? Brutto ritorno al lavoro?» Lo informai velocemente di quanto accaduto con la mia datrice, dei modelli che avevo fatto e che non aveva sfogliato, e della delusione che mi stava divorando. «Forza amore. Non essere triste! Ne farai altri, e saranno mille volte più belli di quelli che fa la tua boss». Io risi. Lui chiamava tutti i datori di lavoro “boss”. «Ma sì, probabilmente è così» mi sdraiai sul letto, un po’ più felice. «Certo! Posso fare qualcosa per te?» «Bè, un paio di cose ci sarebbero» lo provocai. «Per esempio?» Iniziai a dirgli un paio di cosette sconce, giusto per stuzzicarlo un po’, e lui stette al gioco. Tempo un minuto e già ero ferocemente eccitato. «Perché non ci vediamo stasera e…» «No!» mi interruppe lui severo. «Perché no?» «Devi disegnare. E non voglio sentire ragioni». Rimasi a bocca aperta.

«Ma io…» «Niente ma! Inizia subito. Io e te ci vedremo un altro giorno». E allora che me le dici a fare tutte quelle cose porche? Lo salutai un po’ risentito. Stavo per mandare un sms a Elisa per chiederle se voleva uscire, alla faccia di Raffaele-il-severo, quando mi arrivò un messaggio sul cellulare. Raffaele. «E non provare a chiamare Elisa! Forza, disegna! A dopo, ti amo». Ma guarda questo! Ripensando bene alle parole della mia capa, mi resi conto che effettivamente potevo fare di più. Anche se ero andato in vacanza, e anche se Raffaele non mi aveva certo lasciato del tempo libero, nulla toglieva che avevo ideato solo il cinquanta per cento di quello che ero capace di fare. Ok, magari anche il trenta per cento. Ma ero a Parigi! Con il mio ragazzo! E avanti, chi non avrebbe fatto lo stesso al mio posto? «Io avrei fatto lo stesso al tuo posto». Elisa concordava, visto? «Voglio dire. Probabilmente la tua datrice di lavoro durante le ferie non ha fatto altro che starsene chiusa nella boutique a girare per i vari uffici come un’anima in pena. Ma tu sei giovane, e lei non può pretendere che i suoi dipendenti non abbiano una vita solo perché lei non ne ha una!» Ok, magari esagerò un pochino, ma servì ugualmente a tirarmi su. «Allora, quando ci vediamo? È una settimana che non ti fai vivo» mi disse un po’ lagnosa. «Lo so, ma sto sempre qui a disegnare! La mia vita si divide tra il lavoro, le follie di mia madre a casa e i disegni che devo fare! Pensa che non ho nemmeno visto Raffaele». Elisa sbuffò.

«Sì, ma che c’entra? Io non sono Raffaele, no?» «No, certo che no» confermai subito. «Allora dai, usciamo! Una sera in meno non può fare la differenza!» No, aveva ragione. Ma se concedevo una sera a lei, allora dovevo concedere del tempo a Raffaele. E a mia madre. E poi nuovamente a Elisa e così via! Alla fine avrei di nuovo deluso le aspettative della signora Flora e dei suoi completini assurdi. «No, Eli. Davvero, ho da fare» le dissi. «E va bene! Disegna allora!» e riattaccò. Ecco, ci mancava la rabbia della mia migliore amica. Stizzito, mi rimisi a disegnare imprecando. ai il resto del tempo concessomi dalla signora Flora a disegnare. Lavorare e disegnare, lavorare e disegnare, lavorare e disegnare, tutto il tempo! Che due palle! Raffaele fu un amore: non mi mise mai fretta, lasciandomi lavorare senza pretendere di are insieme più tempo del necessario. A dire il vero non ammo affatto del tempo insieme! Iniziavano a mancarmi i baci, le carezze, la sua voce. E anche il sesso, se devo essere sincero! Insomma, chi è che ha a disposizione uno come Raffaele e non ne approfitta? Io. Elisa era più incazzata che mai. Non le piaceva essere ignorata così a lungo, e alla fine mi chiamò sul cellulare riempiendomi di urla per tutto il tempo che non ci eravamo visti. Un’eternità, paragonato al tempo che di solito avamo senza vederci. Al massimo una settimana. Ma cosa potevo fare? Ogni volta che volevo chiamare Raffaele o Elisa per uscire, mi tornava alla memoria la faccia delusa della signora Flora, e la mia mente partiva in quarta con tutta una serie di pensieri su come la mia capa mi toglieva l’incarico dicendomi che non ero stato all’altezza. So che è una cosa irrazionale, ma era quello che mi diceva la testa. E poi ero giovane e ingenuo, dopotutto. Mia madre nel frattempo era impazzita del tutto. Oltre a rimodernare casa nostra, che adesso, dovevo ammettere, era

davvero bella, si era rifatta il guardaroba con qualche capo davvero provocante! Brividi di terrore! Andava a ballare nelle balere tutti i fine settimana con mia zia e suo marito e avevo l’atroce sospetto che fosse andata a letto con qualcuno. Non so bene cosa me lo fe credere, ma la vedevo troppo rilassata per poter affermare che tutto andava come sempre. E poi, se devo dirla tutta, il pensiero che mia madre avesse potuto avere un rapporto sessuale e io no mi faceva imbestialire! Daiana invece stava perdendo i capelli. Il medico le aveva detto che era dovuto allo stress, e benché lei affermasse di non essere stressata, io sapevo che non era così. Il motivo era quello di sempre: la repulsione del suo fidanzato Benny per qualunque tipo di responsabilità. Sapevo che mia sorella era sempre più desiderosa di avere una famiglia, e per una ragazza della sua età sarebbe stata ora, come le ricordava quell’adorabile signora che era nostra madre. E anche la madre di Benny, che non perdeva occasione per lanciare frecciatine assurde insinuando che, se non si erano ancora sposati e sistemati, la colpa era solo di mia sorella. Lei veniva a confidarsi con me, si innervosiva, io la ascoltavo consigliandole di mollarlo, lei diceva che no, non poteva perché ormai erano troppo legati, e intanto si spelacchiava. Tutto perfetto, no? Adesso stava usando uno shampoo dall’odore atroce che, a detta della dottoressa che gliel’aveva prescritto, serviva a fortificare il capello e a prevenire la caduta, ma onestamente i risultati tardavano a mostrarsi. Ero immerso a pensare a quanto avrebbe potuto guadagnare Daiana se si fosse presentata come testimonial per Crescina, come Ronaldo qualche anno fa, e mi stavo chiedendo cosa spingesse uno che ha un botto di soldi a prestarsi per una cosa così idiota, quando Raffaele mi chiamò. «Ciao amore» risposi. «Ehi. Che fai?» mi chiese. «Il solito. Disegno. Tu?» «Sto guardando la tv. È sabato sera, perché non usciamo? Sono tre settimane che quasi non ti vedo! Sto impazzendo, ho voglia di stare con te» mi disse dolcemente. E aveva ragione. «Ehm…» titubai. «Dai Eros!»

«Veramente…» La voce di mia madre mi arrivò dall’uscio: «Eros! Io sto uscendo, ci vediamo domani, non aspettarmi in piedi!» Ecco. Anche mia madre aveva una vita sociale più attiva della mia. «Eros, anche tua madre sta uscendo» mi fece notare lui un po’ seccato. «Lo so amore, ma…» «Sì, mi chiami amore, ma poi non ti impegni per tenere vivo il nostro rapporto». Non potevo credere alle mie orecchie! Ma dov’era finita la reciproca comprensione? «Senti, sai benissimo che ho da fare!» «Sì, ma un piccolo break per noi due potresti anche concedertelo». «Ma non eri tu che mi dicevi che dovevo mettermi sotto?» mi innervosii. «Quindi è un no? Non ci vediamo?» «Sai benissimo che vorrei. Ma…» «Eros, discorso chiuso, lascia stare» e riattaccò. Sbattei il cellulare sul letto, dove rimbalzò e cadde a terra aprendosi in due. Imprecai. Tutti ce l’avevano con me. Ma cosa diavolo si aspettavano dal sottoscritto? Ero sempre stato più che disponibile per tutti, ero sempre stato presente per tutti appena venivo reclamato. E adesso che avevo bisogno di tempo da concedere a me stesso e al mio lavoro, nessuno era disposto a darmene! Bell’amica Elisa, che solo perché veniva ignorata un minimo me lo faceva pesare mantenendo una muta protesta contro di me, e se doveva farsi sentire, lo faceva con messaggi o mail tipo codice morse. E Raffaele poi, mi rimproverava che non mi impegnavo per mandare avanti il nostro rapporto. Ma anche lui arrabbiandosi con me non era certo d’aiuto! Non capiva che dovevo dedicarmi alla carriera? Poi scusa, prima mi diceva che non dovevamo vederci, che dovevo

impegnarmi e disegnare e dare il meglio di me, e se poi facevo come diceva lui, si arrabbiava? Ma andassero tutti a fanc… Suonarono al citofono di casa. Mi alzai stizzito per rispondere. Chi veniva a casa mia a quell’ora di sabato sera? «Chi è?» «Raffaele. Apri». Rimasi a bocca aperta. Che diavolo ci faceva a casa mia? Non era incazzato? «Allora?» «Oh, sì, scusa!» aprii il cancello, e lui venne davanti alla porta. «Che ci fai qui? Credevo fossi arrabbiato con me» gli dissi. «Credevi veramente che avrei rinunciato a vederti solo perché tu mi dici che non puoi? Avanti, credevo mi conoscessi» mi sorrise e mi baciò. «Non mi fai entrare?» «Sì, scusa! Prego». Lo introdussi per la prima volta a casa mia, e visto che era tutto nuovo e pulito, mi sentii orgoglioso. «Bella casa» mi disse. «Grazie». «Però sei più bello tu» mi strinse forte e mi baciò con più veemenza. Oddio se mi era mancato! «Perché non mi fai vedere camera tua?» mi disse con voce sexy. A dire il vero dopo tre settimane di astinenza, mi sembrava sexy un po’ tutto. Lo

portai in camera mia, e tempo due minuti eravamo già completamente nudi. Fu una serata a dir poco strepitosa! Credo che a un certo punto presero fuoco anche le lenzuola. Non potevo stare tre settimane lontano da lui, ormai l’avevo capito. Adesso tutto mi sembrava più sostenibile, perfino il pensiero di disegnare nuovo materiale in così poco tempo non mi pareva più impossibile! Rimanemmo a letto nudi, abbracciati, finché non sentimmo un auto fermarsi fuori. Era mia madre che rientrava. Ci rivestimmo in tempo record, e quando mia madre aprì la porta, io salutai Raffaele che, dopo aver salutato educatamente mia madre, andò via. «Chi era?» mi chiese lei. «Un mio amico». «Ed è venuto a quest’ora?» «È venuto poco dopo che sei andata via tu». Lei mi guardò sospettosa. «Adesso inviti la gente a casa dopo che me ne vado, come fanno i ragazzini?» Ma cosa stava dicendo? La guardai diffidente. «Ecco, lo sapevo, adesso non potrò nemmeno più uscire la sera!» prese a comportarsi da attrice melodrammatica. «E perché no?» «Perché ormai non mi fido più!» «Fidarti di cosa?» «Eros, sono stanca, vado a letto» tagliò corto lei. Io non lasciai cadere il discorso e la seguii in camera sua. «Esattamente, cosa ti turba?» le chiesi forse un tantino più aggressivo del necessario. «Niente» fece secca lei, senza guardarmi.

«Oh, avanti!» «Mi scoccia che fai venire a casa persone che non conosco» disse tutto d’un fiato. «E allora la prossima volta te lo presento». «Non mi interessa, grazie». Io allargai le braccia esasperato. «Ma si può sapere cosa cerchi? Cosa non ti va bene adesso?» «Senti, mi dà fastidio che fai certe cose sotto il mio tetto! Ho sempre taciuto di fronte a certi tuoi atteggiamenti, ma adesso è troppo». Piccola pausa per assimilare le cose che mi aveva detto. «Che faccio certe cose sotto il tuo tetto? Miei atteggiamenti? Quali atteggiamenti? Cosa credi che faccio mentre tu non ci sei, scusa? Mi drogo? E poi da quando in qua è solo il tuo tetto? Ci vivo anch’io qui!» «Non parlo di droga». «No, parli di sesso». «Non voglio nemmeno pensarci» disse lei voltandosi. «Ma credi davvero che a ventidue anni io sia ancora vergine? Eddai, mamma!» «Non mi interessa se vai a letto con qualcuna! Mi disturba che tu lo faccia con un maschio» disse lei, e poi si mise una mano sulla bocca, come se avesse osato troppo. «No scusa, se permetti i miei gusti sessuali sono una mia scelta, e non intendo discuterne» replicai secco. «Allora ammetti che quello non è solo un amico!» mi accusò. «Sai benissimo che sono gay, non cadere dalle nuvole».

Lei si zittì per un attimo. Era anche impallidita. Forse ero stato troppo diretto. «Sì, lo so. Ma una madre vuole sempre il meglio per i figli» disse lei con voce tremante. «Chi ti dice che io non stia bene così?» Lei sbuffò, e io mi irritai nuovamente. «Per favore» disse lei scettica. «Ma questi sono affari miei!» «Diventano anche miei, nel momento in cui mi porti i ragazzi in casa!» alzò la voce lei. «Non ho mai portato nessuno a casa! Credi sia un totale idiota?» «E quello di stasera, allora?» «Lui non è catalogabile ne i ragazzi in generale. Lui è qualcosa di più». Lei si calmò, ma rimase scioccata. Del resto non potevo fingere che prima o poi quel discorso non sarebbe venuto fuori. Bè, facciamoci coraggio! «Adesso mi tocca organizzare un matrimonio?» ironizzò mia madre. «No. Ma è inutile dirti che tra me e quel ragazzo che hai visto c’è amore». «Amore». «Sì. Amore. Anche se tu non ci credi più perché stai divorziando. Anche se credi che non possa esistere tra due persone dello stesso sesso». «Non volevo dire questo». «Sì, volevi. Ed è tuo figlio che stai offendendo». Rimanemmo a guardarci per un po’.

«Scusami, ma per me è tutto così strano». «È tutto ok. Ti presenterò presto Raffaele» le dissi. «Si chiama così il tuo amico?» «Sì». «Bel nome. Avevo un compagno di classe che si chiamava così in prima elementare. Eravamo molto legati». «E poi che fine ha fatto?» «È in carcere per sfruttamento della prostituzione».

21.

Lei

Per tutto il mese di settembre non cambiò un accidente. Anzi sì, perché le cose, se possibile, andarono anche peggio. Dopo le vacanze di agosto la mia responsabile assunse Consuelo. Consuelo era una ragazza di origini brasiliane, mulatta, altissima, con morbidi capelli neri che le arrivavano al sedere a mandolino e magra come un chiodo. In pratica l’esatto contrario della sottoscritta. E messe a lavorare insieme, il contrasto era tragicamente evidente. L’unica cosa in cui la battevo erano, nemmeno a dirlo, le tette. Nemmeno lei poteva competere, anche se un chirurgo pareva ci avesse provato. Credo che tra la mia nuova collega e Ilva fu amore a prima vista. Fu chiaro quanto io risultassi sgradevole alla vista della bella brasiliana, e credo che questo compensò il curriculum schifosamente vuoto che sottopose alla mia responsabile. Vabbè, fatto sta che a settembre me la ritrovai tra i piedi. E adesso oltre a Ilva dovevo servire e riverire anche lei, che, manco a dirlo, in negozio faceva il minimo indispensabile. Ma vi pare giusto? Laura aveva definitivamente rinunciato ad aiutarmi a trovare un lavoro, dicendo che non meritavo il suo gentilissimo aiuto. S’arrende subito la ragazza. Anche con Caterina le cose andavano sempre peggio. Arrivata al quarto mese di gravidanza, la pancia le era cresciuta un po’, e lei aveva perso la sua figura perfetta, assumendo le sembianze di un morbido essere etereo. La pelle splendeva, i capelli erano magnifici e gli occhi più chiari. Se possibile, insomma, era ancora più figa di quanto non fosse di solito! Ma lei no. Si vedeva grassa, gonfia, brutta, una balena. Una mongolfiera. Uno di quei bidoni gialli che si vedono sul ciglio della strada per i vestiti usati. Un dirigibile. E fu veramente tosta non replicare mentre diceva queste cose di fronte a me! Perché al contrario di mia cugina, io non avevo la scusa di una gravidanza per giustificare di mangiare per due. Sfogavo la mia frustrazione con il cibo, ecco. E dove andava

il grasso? Culo, fianchi e cosce. Sembravo la copia sputata della statuetta della fertilità degli antichi Sumeri, o chi diavolo l’aveva scolpita. Comunque Caterina, insieme alla sua linea perfetta, aveva anche perso la pazienza e la gentilezza che la contraddistinguevano. Ora era più simile a un Crocodylus Mindorensis Schmidt a digiuno da dieci mesi, e con il mal di denti. Era feroce, cattiva e nervosa. Ogni volta che mi chiamava per chiedermi aiuto per il matrimonio, mi veniva da piangere! Avrei voluto evitare, perché sapevo che avrebbe finito per prendersela con me ogni qualvolta le cose non fossero andate esattamente come voleva lei, ma in qualità di testimone di nozze non avevo scelta. Mi toccava star zitta e subire. L’unica cosa che rimase invariata fu il mio rapporto con Filippo. Con lui era sempre tutto uguale. avamo il nostro tempo nel suo mini attico, dove il sesso non accennava a migliorare e nemmeno lui accennava a dare una svolta alla nostra storia. Una sera stavamo salendo a casa sua quando per le scale incontrammo sua madre che subito si presentò. Imbarazzata le strinsi la mano, ma Filippo fu veloce a dirle che ero solo un’amica, trascinandomi quasi di peso lontano da lei. Mi ferì. Va bene, non mi presentava ufficialmente, ma poteva quanto meno evitare quel tono sminuente! Comunque non mi negai a letto. E non dite nulla. So cosa pensate. Se ci ripenso mi viene ancora da sbattere ossessivamente la testa contro il muro! Ormai stavamo insieme da tre mesi, ma lui non faceva niente di diverso dal solito. Quando gli parlai della mia nuova collega, lamentandomi di quanto fosse pigra e inutile, lui mi fece una romanticissima sorpresa, presentandosi con una rosa rossa in negozio. Ilva saltò giù dallo sgabello offrendogli addirittura un caffè, che poi gli dovetti fare io, mentre tra lei e Consuelo facevano a gara a chi civettava di più. E con mio supremo giramento di maroni, mi accorsi che lui flirtava di rimando. Alla fine mi spazientii e lo accompagnai fuori. «Grazie per la rosa, amore» gli dissi a voce alta, in modo che le due stronze sentissero bene che quello era il mio ragazzo. «Figurati» mi baciò lui al volo, mentre gettava un’ultima occhiata al sedere perfetto di Consuelo. Non dissi nulla, perché sapevo che io un sedere come quello non l’avrei avuto nemmeno con un intervento divino. «Ci vediamo stasera?» gli chiesi sensuale. «No, mi dispiace. Ho da fare con Matteo» mi disse sbrigativo.

«E chi è Matteo?» non riuscii a nascondere la delusione. «Come sarebbe a dire chi è? Il mio migliore amico, no?» mi guardò divertito. «Ma non si chiamava Luca il tuo migliore amico?» Lui scosse la testa. «No tesoro. Ti sbagli» mi baciò al volo. «Ci vediamo, eh?» e se ne andò prima che potessi dire altro. Che palle però! Ci stavamo vedendo sempre meno. Quella settimana non c’eravamo visti mai. E quando facevamo l’amore durava ancora meno del solito, se possibile. E il bello era che dovevo tenermelo per me, perché non pensavo lontanamente a confessarlo ad anima viva! Poi una vocetta masochista e cattiva nella mia mente mi disse: Tanto a chi potresti dirlo? Effettivamente. Caterina non era da prendere in considerazione, visto il suo stato d’animo, e non avevo nessun’altro con cui avessi abbastanza confidenza da svelargli una cosa del genere e ricevere un consiglio valido. Inoltre non ero propensa ad ammettere che il mio stupendissimo ragazzo in realtà era una stratosferica ciofeca! Stavo per tornare in negozio sconsolata, quando vidi una piccola folla radunata intorno a un gruppo di persone che litigavano. Decisi di lasciar perdere: se stavo fuori oltre cinque minuti, Ilva diventava terribile. Cioè, più terribile del solito! Poi però la curiosità ebbe la meglio, così mi avvicinai. Cercai di scansare con una spallata un uomo calvo e unticcio che mi bloccava il aggio e la visuale, e riuscii a piazzarmi in una posizione decente giusto in tempo per vedere un uomo sulla cinquantina, o forse qualcosa di più, accompagnato da una biondona un po’ volgarotta che inveiva contro una signora e un ragazzo. «Vecchia cagna deficiente!» le stava urlando l’uomo. «Come ti sei permessa? Oh, ma ti faccio causa! Vedrai se non ti faccio causa!» Sinceramente la cosa mi divertiva un po’. E non solo me: la folla che prima era

composta da un numero ristretto di spettatori, adesso stava diventando un piccolo pubblico, e ognuno stava sghignazzando di fronte a quella sceneggiata. Udendo quelle parole, anche la signora cominciò a urlare contro l’uomo. «Ah sì, fammi causa stupido maiale! Vedrai se non mi faccio are gli alimenti a vita!» «Quei soldi erano miei! Miei! Servivano a me per una cosa che avevo in progetto da anni!» urlò ancora l’uomo gesticolando a più non posso. Sembrava un indemoniato! «Avresti dovuto prenderli quando te ne sei andato per andare a vivere con quella puttana!» la signora indicò la biondona, cercando di avventarsi contro di lei. La cosa divertente era il ragazzo che tentava disperatamente di trattenere quella che intuii fosse la madre. Si guardava ossessivamente intorno alla ricerca di qualcuno che lo aiutasse. «Puttana a chi?» intervenne la biondona. Ecco, adesso fanno a botte. «Tu!» gridò la donna, che cercava di divincolarsi dalla stretta del ragazzo «Tu sei una puttana!» No, aspetta un attimo… «Una sfascia famiglie, ecco cosa sei!» Ma quello non è… «Otvaly!» Eros! Cercai di sorridergli, senza pensare che forse in quel momento aveva ben altro a cui pensare. Lui mi guardò di rimando, ma non ebbe la minima reazione. Anzi, se possibile, mi squadrò con cattiveria, con freddezza. Io rimasi paralizzata, mentre lui strattonava di nuovo la madre dicendo con decisione:

«Ok, mamma. Adesso basta». E senza indugio la trascinò via. Io ero allibita. Non ci potevo credere! Certo che gli uomini sono proprio stronzi! Etero, gay, alti, bassi, secchi, grassi, pelati, capelloni, tutti uguali! Tutti insensibili, stronzi, bastardi. Ma santo cielo, ci ero andata a letto, ero stata la sua primissima ragazza, mi aveva medicato una ferita che adesso era diventata una piccola cicatrice sulla gamba, e nemmeno mi salutava? Va bene che era preso da quella che, dovevo ammettere, non era la più facile delle situazioni, però che cavolo! Non me l’aspettavo da lui. Non mi aspettavo che si fe avanti e, inginocchiandosi, mi chiedesse la mano dicendomi che non mi aveva mai dimenticata e che non poteva stare senza di me, ma un minimo! Un saluto, un cenno! Che cazzo! Avevo quasi le lacrime agli occhi e non mi accorsi che tutti si erano tolti di mezzo, lasciandomi lì, impalata, a guardare il vuoto. Fu la voce di Ilva, dolce e comprensiva come quella di uno che rimane bloccato nel traffico la sera della finale di coppa del mondo. «Vuoi andare a prenderti un caffè, o ti decidi a tornare al lavoro?» mi sgridò davanti a tutti. La gente che ancora era rimasta, o che si trovava lì di aggio, sghignazzò trovando la faccenda sosa. Paonazza per la rabbia e la vergogna, tornai in negozio. Adesso nella mia vita tutto mi sembrava schifoso: il lavoro, la famiglia, le mie amicizie inesistenti, quello che mi ostinavo a considerare il mio ragazzo. Perfino Eros mi aveva dimenticata! Quella sera rimasi a casa sola, davanti a una mega vaschetta di gelato al cioccolato, cercando di procurarmi uno shock iperglicemico, ma niente. Nemmeno una colite. In compenso però, il giorno dopo avevo un brufolo sulla guancia delle dimensioni di un piccolo cratere lunare. Avevo un aspetto orribile: i capelli arruffati dopo una notte di sonno focoso, le occhiaie che mi arrivavano all’ombelico, gli occhi gonfi e l’elastico delle mutande mezzo strappato. Ebbene sì, d’estate dormo in biancheria intima! Ero inguardabile. Stavo per entrare nella doccia così, senza prima spogliarmi, quando squillò il cellulare.

Ma perché diavolo non prendo l’abitudine di spegnerlo? «Pronto?» «Angela, ciao. Che stai facendo?» Era Caterina. «Stavo per tentare il suicidio». «Bene. Allora sbrigati che tra mezz’ora o a prenderti. Devo andare a picchiare la fioraia che ha fatto un macello con le composizioni per la chiesa, e mi serve una spalla che faccia male». Eh certo, hai bisogno di qualcuno abbastanza grosso da intimorire. «No, Caterina. Stamattina non posso» le dissi. «Non puoi? E perché no?» indagò nervosa. «Devo accompagnare mia madre dal dottore». Se la sarebbe bevuta? Non avevo la forza di spiegarle che ero troppo depressa e che piuttosto che sorbirmela con tutti quegli ormoni impazziti, mi sarei alleviata il prurito sotto le ascelle con una grattugia in acciaio inox. Non sapevo nemmeno io perché mi sentissi così giù. Immagino fosse l’insieme di cose che caratterizzavano la mia vita. Inoltre quella specie di incontro con Eros mi aveva buttato a terra. «Ma che dici? Zia non sta male per niente!» mi aggredì nuovamente mia cugina. Io sospirai. «Senti, io…» «Sei o non sei la mia testimone di nozze? Muoviti e preparati!» mi ordinò cattiva. Adesso ne avevo abbastanza. Va bene essere comprensivi per il livello di stress e di ormoni tremendamente alti di Caterina, ma questo non significava che era autorizzata a maltrattare chiunque le capitasse a portata di mano!

«Caterina, adesso smettila di rompere i coglioni e datti una calmata. Capisco che non è facile gestire una gravidanza e un matrimonio in contemporanea. Ma indovina un po’? Non sei l’unica che ha una vita di merda in questo periodo» le dissi dura. Credevo che Caterina mi urlasse contro, che inveisse contro di me, che minacciasse qualcosa di tremendo, tipo che se non fossi subito andata con lei avrebbe fatto un matrimonio a tema dove tutti sarebbero dovuti andare vestiti a pois arancioni e verdi. Quello per me sarebbe stato davvero una mazzata: i pois di quel colore mi avrebbero fatto sembrare “La notte stellata” di Van Gogh! Invece no. Per tutta risposta sentii la cornetta che veniva abbassata e, un secondo dopo, il classico segnale che la chiamata era stata interrotta. Tanto peggio per te! Che cavolo. Non ero una marionetta! Giusto? Misi su Pearl Days di Elisa, e selezionai a tutto volume I know, che mi piaceva tanto. Poi mi misi sotto il getto della doccia senza togliermi reggiseno e mutandine, sperando che l’acqua ghiacciata mi togliesse di dosso quel fastidiosissimo senso di tristezza e vuoto che sembrava non volermi lasciare.

22.

Lui

Quella mattina la signora Flora portava una camicetta strapiena di volant e una gonna dal solito taglio e della solita lunghezza, entrambe con una fitta fantasia a pesciolini di tutti i colori. Non avevo parole per descriverla, e infatti ero talmente ipnotizzato dall’abbigliamento della mia capa, da non accorgermi che lei, seduta dietro la sua scrivania, era lì da mezz’ora con le braccia tese verso i miei disegni. Riprendendomi, glieli porsi pieno d’aspettativa. Stavolta ero certo di aver fatto un buon lavoro. Avevo fatto più bozzetti di quelli che si aspettava, perdendo parecchie ore di sonno, calcolando al centimetro le rimanenze di tessuto che avremmo avuto in magazzino, e studiando il modo migliore per impiegarli, il tutto a discapito di Raffaele ed Elisa che non vedevo da parecchio. Flora sfogliò i miei capolavori, e come la volta precedente, divise i disegni in due pile. Uno era ok e andava modificato completamente, gli altri potevo metterli in brodo. Dopo una mezz’ora circa aveva finito di valutarli, e notai con una certa apprensione che una pila di fogli era più alta dell’altra. Speriamo sia quella dei modelli che le vanno bene. «Dunque, devo dire che non mi aspettavo questo buon lavoro. Concederti un mese in più è servito» mi sorrise. Io ringraziai educatamente, rimanendo in ascolto. «Questi li emo» indicò la metà di fogli più consistente, e mi rese quella più sottile. Evvai! «Ora dobbiamo decidere cosa modificare e cosa tenere» disse. La mia euforia scemò in un attimo. Adesso avrebbe preso matita e gomma e

avrebbe cambiato tutto, e del mio lavoro sarebbe rimasta solo Elisa arrabbiata. ammo circa due ore a decidere cosa variare, e devo dire che mi aspettavo di peggio. Alla fine non cambiò poi moltissimo, anzi, mi fece più volte i complimenti per aver azzeccato l’intero lavoro. Quando tornai in ufficio era quasi ora di andare via, infatti Gaia stava mettendo ordine sulla sua scrivania in vista del week end. «Com’è andata?» c’era molta meno invidia nella sua voce adesso. «Tutto bene» le sorrisi. Presi il telefono e scrissi un sms a Raffaele: «Missione compiuta! Il mio lavoro è andato benissimo! Direi che è il caso di festeggiare. Mi i a prendere stasera? Vorrei presentarti mia madre». Speriamo acconsenta. Dopo aver proposto a mia mamma di presentargli Raffaele, lei non era stata in grado di pensare ad altro. Non la reggevo più! Prima faceva la sua conoscenza, meglio era. «Io vado, Eros. Ti serve altro?» mi chiese Gaia gentilmente. Mi faceva la stessa domanda tutte le sere, anche se sbrigare qualche mio lavoretto non era tra le sue mansioni. Non sarei potuto capitare con una collega migliore. «No, è tutto sistemato, tra cinque minuti vado via anche io» le sorrisi. «Buon fine settimana, tesoro». Ci salutammo e prima di uscire approfittai del telefono in ufficio per chiamare Elisa. Lasciai che squillasse più e più volte, ma lei non rispose. Eddai, Elisa. Sei ancora arrabbiata? Riprovai tre volte, alla fine rispose dopo dieci squilli. Ero piuttosto seccato. «Pronto?»

«Potevi anche non rispondere» le dissi duro. Elisa sbuffò. «Ero un attimo impegnata». Sì, come no. «Comunque. Cosa c’è?» mi chiese sbrigativa. «Volevo dirti che ho consegnato i disegni, che è andata benissimo e che ho fatto un figurone. E che mi manchi». Piccola pausa. Evidentemente Elisa stava valutando se era il caso o meno di fare ancora un po’ l’offesa con me. Ma tre settimane sono tre settimane, e nemmeno lei poteva stare così a lungo lontana dal sottoscritto, modestamente parlando! «Mi manchi anche tu! Brutto stronzo. Non ti sei fatto vivo per niente! ami a prendere, che andiamo a prendere un aperitivo insieme». Non era il caso di ribadire che toccava sempre a me andarla a prendere, quindi la salutai e uscii dall’atelier. Mentre andavo da Elisa, mi chiamò Raffaele per complimentarsi e per avere delucidazioni sulla storia delle presentazioni. «Cioè, sarà una cosa formale?» chiese agitato. «Ma no. Le stringi la mano e via. Non sarà nulla di che! Però se non vuoi, non ti costringo». «No, no, è tutto ok. Per te questo e altro». Per ringraziarlo gli dissi un paio di cose smielate che lo fecero sciogliere, e due minuti dopo abbracciavo stretto Elisa. «Quanto tempo». Altra frecciatina. «Dove andiamo?» le chiesi. Lei mi guidò come al solito per le vie del paese, fino ad arrivare a un locale che

avevano ristrutturato da poco, ma che presentava già una clientela affezionata. «Allora, questo è per te» mi disse lei dandomi un pacchetto. «Cos’è?» «Il souvenir che ti ho preso a Londra. Ce l’ho a casa da una vita». Eddaje. Eh vabbè, me la sono voluta. Aprii il sacchetto e trovai un bel maglione con una fantasia piuttosto eccentrica. «Oh» esclamai. «Ti piace?» mi guardò eccitata la mia amica. «Ho pensato che questa fantasia gay ti avrebbe fatto impazzire!» batté le mani. Fantasia un po’ troppo gay! Ma guardandola bene, mi dissi che in effetti era carina. «L’ho preso in un negozietto di uno stilista sconosciuto, e che fa cose bellissime a due lire. Mi sono anche fatta dare il contatto Facebook, così mi può spedire tramite posta le sue nuove proposte!» saltellò eccitata. «È stupendo, grazie Eli!» la abbracciai. Prendemmo posto all’interno del locale, e ordinammo con una certa fatica, visto il numero di persone ammassato lì dentro. Salutammo un paio di conoscenti, rimanendo a parlare con loro per almeno mezz’ora, e infine ci concedemmo l’uno all’altro. «Dai, raccontami di questi disegni per i quali mi hai ignorata» mi disse. «Elisa, ti prego, basta. Sono esausto!» la ripresi. «Ok, ma ammetti che ti sei comportato da stronza?» «Sì, sono una stronza». «Bene. Inizia pure» mi concesse, contenta.

Le raccontai quello che si era persa nell’ultimo mese: dai disegni, alla modernizzazione di casa nostra, di mia madre e mio padre e le raccontai anche dell’episodio al centro commerciale. Elisa non deludeva mai, sgranando gli occhi al momento giusto, trattenendo il respiro, e ridendo quand’era necessario. Il pubblico perfetto. «Porca vacca. Quindi i tuoi divorzieranno definitivamente? Io credevo che avrebbero cambiato idea, alla fine». «Eh già. Ma dopo che mia madre ha speso i soldi del safari, credo che ci siamo giocati anche l’ultima possibilità che papà lasciasse la biondona rifatta» buttai giù un sorso del mio analcolico. Al pompelmo. Io odio il pompelmo. «È rifatta davvero?» si informò Elisa. «Le labbra sicuramente sì. Aveva due cosce di ippopotamo al posto della bocca. Il resto non so, era addobbata con un cappottone rosso che la nascondeva. Fisicamente però, assomiglia un po’ a Valeria Marini» ragionai. Fu la volta di Elisa, che per ragguagliarmi su tutte le cose che le erano accadute in circa un mese di assenza l’uno dall’altra, ci mise più tempo di me. «Adesso iamo ad altro» disse. «Tra un mese e mezzo sarà capodanno». «Oddio, è vero!» «Sì. E dobbiamo decidere dove e come arlo». Sarebbe stato il primo capodanno con Raffaele. Avremmo festeggiato l’arrivo dell’anno nuovo insieme! Non stavo più nella pelle! «Alessandro che vuole fare?» le chiesi. «Oh, figurati. Per lui va bene tutto» mi disse. «Tu e Raffaele avete preso impegni?»

«No, figurati» finii di bere il mio analcolico. Non sapevo se organizzare qualcosa con Elisa senza prima sentire cosa aveva da dire il mio boyfriend. Non avrei voluto che si arrabbiasse perché facevo tutto da solo senza sentire il suo parere. Se lui lo avesse fatto a me, io me la sarei presa di sicuro. «Non so, vorrei prima sentire Raffaele. Non ho idea di cosa voglia fare. Non so nemmeno come l’ha festeggiato gli altri anni!» dissi a Elisa, sperando che rimanesse calma. «Ok, fammi sapere. Così prendiamo una decisione. Male che va andiamo al Carrà e non se ne parla più» mi sorrise. Cavolo, cosa le era successo? Non era da lei lasciare che gli altri, chiunque altro, decidesse per lei! «Perché tanta accondiscendenza?» le chiesi. Lei mi guardò. «Preferivi che fi il diavolo a quattro?» «No, ma me lo sarei aspettato» le confessai. «Figurati». Ma era agitata? Sì, decisamente. «Elisa, c’è qualcosa che non va?» socchiusi gli occhi con aria indagatrice. «No» rispose in fretta. Troppo in fretta. «Sì invece! Ti conosco! Avanti, sputa il rospo». Lei sospirò, e questo mi diede la conferma che avevo ragione. Stranamente avvertii che era una brutta notizia. Non so perché, ma il mio sesto senso non sbaglia mai!

«Hanno promosso Alessandro al lavoro» mi disse. «Bene! Congratulazioni!» Aspettai che andasse avanti. «A Gennaio si occuperà di una cosa piuttosto importante, non so spiegarti cosa, nella sede principale dell’azienda» s’interruppe. Ma perché parlava con il contagocce? Non poteva dirmi tutto e stop? «E non è una buona cosa?» le chiesi. «È a Milano» disse lei. «Oh». Ecco il problema. Il ragazzo della mia migliore amica si sarebbe trasferito a chilometri e chilometri di distanza, e diciamocelo: non è facile portare avanti una relazione a distanza. Si sarebbero visti poco, e avrebbero avuto solo il telefono o il computer per potersi sentire. Ero triste per lei. Se fosse capitato a me, se avessi perso una persona come Raffaele al quale tenevo moltissimo, anche io sarei stato depresso come lei in quel momento. Le misi un braccio intorno alle spalle. «Lui ha accettato?» le chiesi. «Poteva rifiutare? Gli daranno un paga scandalosamente alta, vitto e alloggio, e farà il lavoro dei suoi sogni in una città come Milano, che offre moltissimi sbocchi» disse lei sempre più triste. Come dargli torto? Capivo perfettamente la situazione di Alessandro, ma ero anche conscio degli altri aspetti. «Forza Elisa. Non è detto che debba finire» le dissi. «In che senso?» «Nel senso che anche a distanza, ci sono molte relazioni che continuano ad andare avanti» le dissi cercando di sorriderle. Non ci credevo affatto. Sono sempre stato contrario alle relazioni a distanza. Io

non ce la farei mai! Ma in quel momento dovevo consolarla, no? «A distanza?» Elisa sembrava confusa. «Ma sì, non stare a preoccuparti. Magari vi vedrete un po’ meno, ma non è detto che non possiate stare insieme più di quanto pensi! Magari a turno lui può scendere qui, o tu andare da lui. Anche Gaia, la mia collega, faceva così con il suo ex ragazzo!» «Ex ragazzo? Ma…» «Oh, sì, è vero, poi si sono lasciati! Ma non per questo! Cioè, non per la lontananza, figurati» continuai a sorriderle. Elisa era a bocca aperta. «Eros?» «Dimmi cara». «Io vado con lui». Pausa. «Come?» «Io mi trasferisco con lui». «Dove?» «A Milano». Ok. Di sicuro avevo capito male. Avevo frainteso le parole della mia amica. Due volte di fila? Ero incredulo. No, non poteva essere. La ragazza con la quale condividevo tutto da anni e anni sarebbe andata a vivere a chilometri di distanza lasciandomi lì? No, assolutamente no. Non mi avrebbe mai fatto una cosa del genere. E allora perché mi guardava con quella faccia?

«Eros, parliamone». «No!» replicai. «No, non parliamone! Dimmi che stai scherzando! Che mi stai prendendo in giro perché non ci siamo visti per un mese e vuoi farmela pagare!» alzai la voce. Non mi resi conto che tutti ci stavano guardando e che stavo dando spettacolo. In quel momento non mi interessava. «Stai reagendo in maniera esagerata, lascia che ti spieghi». «Cosa?» Ero fuori di me. Cavolo, che ingenuo! Che idiota ero stato! Fino a un attimo prima stavo facendo il dolce con lei, nel tentativo di consolarla, pensando che fosse triste per l’imminente separazione dal suo ragazzo, e stavo pensando a cosa avrei fatto se mi fossi trovato nella sua situazione, e adesso guarda un po’? Ero nella sua situazione! Avevo capito male, avevo fatto la figura del fesso, e ciliegina sulla torta, Elisa se ne sarebbe andata in Lombardia! Ma che ci vai a fare in Lombardia? Non lo sai che Milano è inquinata? «Eros?» mi guardò apprensiva Elisa. Mi resi conto che stavo semi sdraiato sulla sedia e che tutti mi fissavano preoccupati. Una ragazza lì vicino stava sussurrando a un ragazzo: «Dobbiamo chiamare un’ambulanza?» Mi venne una voglia irrefrenabile di ridere. Elisa corse a pagare, mi afferrò per un braccio e andammo via. Sedemmo su una panchina, nel parco di fronte. Il sole tramontava presto e le giornate si erano accorciate. «Elisa, dimmi che mi hai fatto uno scherzo». Lei sospirò. «No, non è uno scherzo. Ma lascia che ti spieghi» aggiunse subito. Io la guardai senza dire nulla.

«Mettiti nei miei panni. Una volta a Milano avrò la possibilità di stare con il ragazzo che amo. Vivremo insieme, e non dovrò pagare l’affitto. Potrò concentrarmi su me stessa, diventare adulta, tagliare il cordone ombelicale da mamma e papà». Bel discorso. Sì, sì! «E potrò iscrivermi a un’agenzia di modelle seria. Ho già preso qualche contatto» confessò. Io spalancai la bocca. Non sapevo se mi scandalizzasse di più il fatto che la cosa andava avanti da un po’, e che lei non mi avesse detto niente, oppure se lei credesse realmente a questa cosa di fare la modella! «Elisa ti prego!» «Cosa?» «La modella?» la guardai un po’ ironico. «Sì, la modella. Perché?» lei si fece più aggressiva. Ok, era arrivato il momento di essere sincero con lei. Era ora che la mia amica aprisse gli occhi una volta per tutte. «Perché» iniziai, «è ora che tu cresca e che ti renda conto che a ventidue anni non è più tempo per fare la modella. Non diventerai mai famosa, non avrai successo solo perché vai a Milano! Anzi, lì la concorrenza è mille volte più dura, e tra te e una sedicenne anoressica e senza tette, chi credi che prenderanno? Nessuno stilista rimarrà folgorato da te, anche se sei altissima e secca per carità, perché quello che conta davvero sono le conoscenze e i calci in culo che riesci a ricevere per avere un lavoro! Sveglia Elisa! La moda non è quella che vedi ad America’s Next Top Model! Nessuno tiene davvero a te come persona, perché le modelle non sono più che appendiabiti che camminano! E questo te lo dico perché sono stato a parecchie sfilate, ci sto dentro da molto prima di te, ho più esperienza, e ti posso assicurare che ormai per te è troppo tardi per fare Naomi Campbell!» Ecco. Un po’ brutale, ma avevo detto quello che avevo da dire. Cercai di prenderle una mano, ma lei si alzò dalla panchina incazzata come una iena con la

gastrite. Tremava di rabbia e aveva gli occhi pieni di lacrime. «Tu… tu… mostro, sei uno stronzo!» mi strillò isterica. «Guarda che lo dico per il tuo bene» mi alzai a mia volta. «No, lo dici per il tuo bene, Eros! Dì la verità! Quanto ti rode che io vada a costruirmi una vita con il mio ragazzo, mentre tu sei inchiodato qui, al tuo lavoro, alla tua solita vita, a quello stupido atelier che ti da l’illusione di essere un grande stilista? Eh? Quanto ti scoccia?» Io la fissavo inorridito, senza capire da dove le uscisse quella cattiveria. «Ammettilo! Io sto per trasferirmi in una città grande, eccitante, piena di divertimenti e sto per realizzare il mio sogno, mentre tu? Sì, hai trovato un fidanzato, ma cos’altro hai? Eh? Dimmelo, Eros! Che motivo hai, tu, di essere felice qui?» mi disse fredda. «Cosa cazzo ne sai di come sto io?» «Perché ti conosco! Tu vorresti fare un sacco di cose, ma sei un vigliacco! Hai paura! E per questo ti accontenti di startene qui buono, in mezzo ai tuoi vestiti da sposa! E poi se io voglio ribellarmi a questo schifo ti incazzi, perché vedi che qualcuno ha le palle per fare quello che tu non farai mai!» Una vocina in fondo alla mia testa le stava dando ragione, ma la soffocai e, arrabbiatissimo, la fronteggiai. «Tu non hai le palle di fare un cazzo, Elisa! Non hai mai concluso niente nella tua vita! Né l’università, né pallavolo, né i miliardi di corsi che hai iniziato a seguire, o le tonnellate di strumenti musicali che hai iniziato a suonare, né tantomeno le relazioni, nulla! E adesso stai facendo la stessa cosa con questa storia di fare la modella. Solo che adesso è diverso, perché una volta a Milano sarai troppo lontana per correre da mamma e papà! Sarai troppo lontana per farti consolare da me quando fallirai. Io, che sono sempre stato lì pronto, senza giudicare i tuoi continui disastri! E pensi che Alessandro sarà paziente con te come lo sono io?» «Disastri? Paziente? Ma chi ti credi di essere? Tutti sono utili, nessuno indispensabile, te lo assicuro! E a parte il fatto che non fallirò un accidente di

niente, in caso dovesse succedere, certo che Alessandro mi starà vicino, lui mi ama! Almeno non sarò lontana da lui, col rimpianto di non averci provato!» «Oddio, Elisa, ti prego! Sii realista!» «Va al diavolo, Eros! Tu sei solo un amico, non sei il mio Dio!» «Però ti ho fatto comodo fintanto che ti servivo!»

«Tu mi servivi? Io servivo a te!» gridò Elisa. «Eros, è sempre stato così! Fin dalle medie!» «E adesso di cosa diavolo stai parlando?» sbuffai. «Ti faccio un esempio? Hai sempre evitato di fare amicizia con tutti! Tutti! Hai sempre avuto paura che gli altri ti giudicassero perché sei gay, e l’unica che ti ha sempre difeso sono stata io! L’unica che ti è stata vicino mentre venivi alla luce e accettavi questa cosa ero io! Sempre e solo io! E adesso ti stai comportando da coglione immaturo perché sei geloso di Alessandro e della vita che sto per intraprendere». «Geloso? Io?» «Sì, geloso! È vero, ho ventidue anni, e ormai non diventerò più una modella super famosa, ma sai una cosa? Per raggiungere il mio sogno mi basterebbe fare le erelle per gli stilisti importanti. Mi basterebbe comparire su una rivista locale. Mi basterebbe poter dire che sono una modella vera, e mi sentirei realizzata! Sai benissimo che iscrivendomi a un’agenzia di modelle seria, le probabilità che un giorno io possa sfilare per Prada, Armani o Gucci almeno una cazzo di volta nella vita non sono così remote, ed è questo che ti rode! Il fatto che io posso farcela, e tu no! Ma sai una cosa? Adesso ho capito chi sei, e come sei. Ci ho messo vent’anni, ma meglio tardi che mai» mi guardò disgustata. Forse si aspettava che a mia volta rispondessi, ma mi limitai a restituirle uno sguardo carico di rancore, senza dire nulla. «Addio Eros» e girando sui tacchi se ne andò.

23.

Lei

Il tempo sembrava are senza che io potessi fare niente per renderlo più sopportabile. Quasi mi stesse punendo per qualche mia grave mancanza. Ero infelice, stavo male, mangiavo, ingrassavo, e stavo ancora peggio. A novembre avevo preso più chili di quelli che ero disposta ad ammettere anche con me stessa, raggiungendo più o meno le dimensioni di un SUV. Ma non me ne importava. Dividevo il mio tempo tra le angherie di Ilva, aiutata da Consuelo, il pesantissimo silenzio stampa di mia cugina che non voleva parlarmi per essere stata così insensibile ed egoista, e Filippo che era sempre peggio. Era tornato il freddo, e io fui costretta a ricomprarmi mezzo guardaroba, visto che molte delle cose che amavo indossare l’anno prima adesso mi stavano strette. E non voglio considerare il fatto che erano già piuttosto abbondanti. Quel giorno avevo l’intera giornata libera, quindi avevo in mente di fondermi con il divano, come se fossimo un’unica entità, con la tv sui programmi della Fox a livello più trash possibile, una quantità imbarazzante di patatine e una flebo endovena di succo di frutta. Invece no. Avevo appena la tv, quando squillò il cellulare. Appena vidi il numero sul display ebbi una stretta al cuore. Era il negozio. «Pronto?» risposi terrorizzata. «Angela, devi correre qui» mi disse Ilva con una certa urgenza. «Veramente avevo già preso altri impegni». Sì, col diabete. «Niente ma. Hai già un richiamo ufficiale. Vedi di presentarti tra un’ora, altrimenti ti faccio licenziare» e mise giù. Ma che razza di vipera, schifosa, ingiusta, stronza!

Andai in camera a vestirmi di nero, come imposto dal grande capo, solo che le uniche cose di quel colore che ancora mi stavano erano a mollo nel detersivo. Quindi entrai in camera di mia madre, dove scippai uno di quei vestiti orrendi a fiorellini bianchi da ultrasettantenne, uno di quelli con il bordino di pizzo rinsecchito dai vari lavaggi sullo scollo tanto per intenderci. Siete arrivati ad avere una vaga idea di quanto fosse deprimente? E non finisce qui: per completare l’opera, e dare un tocco di giovinezza al mio look, misi un paio di fuseaux pesanti che avevo comprato in uno slancio di allegria nel periodo in cui mi sentivo “secca”, quando cioè avevo perso un chilo dopo una dieta di due settimane, e che adesso erano pericolosamente tesi sui fianchi. Mi guardai allo specchio. Atroce. E chi se ne frega. Un’ora dopo entravo in negozio con una certa svogliatezza. Quando mi vide, Ilva si spanciò dalle risate. Io rimasi immobile, aspettando che finisse. «Che succede?» chiesi dieci minuti dopo, senza nascondere un certo fastidio. «Il mio parrucchiere ha un buco per sistemarmi solo adesso» mi informò asciugandosi attentamente una lacrima. «Quindi mi serve qualcuno che tappi la mia assenza. A tra poco» prese la mini borsetta e andò via. Io rimasi lì a bocca aperta. Ma vi rendete conto? Mi ha richiamata perché lei deve andare a farsi i capelli! Ma che razza di persona era? Ma perché dovevo sopportare quelle angherie? Era davvero indispensabile quel lavoro? Va bene la paga assicurata ogni mese, il contratto a tempo indeterminato che sappiamo bene essere un miraggio per la maggior parte dei ragazzi della mia età, ma ne valeva la pena? Mentre mi facevo quelle domande, rimasi lì praticamente tutta la mattina, finché alle due del pomeriggio Ilva non si degnò di tornare accompagnata da Consuelo. La sentii mentre informava la brasiliana ad alta voce, nella speranza che io la sentissi, che era stata a farsi i capelli e che aveva speso pochissimo, poi era stata a pranzo con un ragazzo che avrebbe rivisto quella sera alle dieci, e poi si era comprata quel paio di scarpe di cui parlava il giorno prima. Furiosa, presi la borsa e andai via. Tornai a casa dove mangiai due bocconi prima di buttarmi sul letto. Mi veniva da piangere, ma non volli cacciare nemmeno una lacrima. Nessuno doveva averla vinta e avere il mio pianto triste! In quel momento mi chiamò Filippo. Non so

perché, ma non fui felice di vedere che mi cercava. «Sì?» «Ciao. Senti, ho avuto un contrattempo per questa sera. Va bene se ti o a prendere alle quattro o alle cinque e andiamo a prendere una cioccolata calda?» mi disse. Ma sì, tanto cioccolata più, cioccolata meno. «Va bene. Vieni quando vuoi». Così quel pomeriggio mi ritrovai come sempre seduta a un tavolino con Filippo che, senza degnarmi di un pizzico di considerazione, ava il tempo a messaggiare con chissà chi. Se gli chiedevo chi fosse, mi snocciolava una serie di nomi di suoi amici che per me non avevano alcun significato, e se gli chiedevo cosa volessero, mi diceva semplicemente: «Niente». Oppure faceva spallucce. Io iniziavo ad averne abbastanza di quella situazione. «Che tipo di contrattempo hai stasera?» gli chiesi a bruciapelo. Lui non si scompose. «Il mio amico Giancarlo si è lasciato con la ragazza. Ha bisogno di andare fuori e svagarsi» mi disse. «E non potrebbe uscire con me e te?» proposi. Lui mi guardò divertito, come se avessi detto una cosa così ridicola da non doverla nemmeno prendere in considerazione. «Ma dai! Non ti conosce. Si sentirebbe in imbarazzo, e non parlerebbe liberamente. Lui ha bisogno di sfogarsi» mi spiegò come se fossi una bambina idiota. «Mi conoscerebbe stasera. Senza contare che un parere femminile è quello di cui ha bisogno, no?»

Lui strinse le spalle senza rispondermi, visto che gli era arrivato l’ennesimo sms. Lasciai stare. Tanto non saremmo andati da nessuna parte. Dopo la cioccolata mi portò nel suo mini attico, e un’ora dopo ero già a casa dove trovai mia sorella e mio cognato seduti con i miei sul divano che parlavano allegramente. «Angela!» mi accolse mia madre. «Dove sei stata?» Per tutta risposta andai a chiudermi in camera. Ero davvero, davvero triste. Sentii bussare alla porta, ma non risposi. Un attimo dopo entrò mia sorella. «Che succede? Sei depressa?» mi chiese Laura sedendosi vicino a me, sul ciglio del letto. Sembrava che la sua vita da sposata fosse una vera meraviglia. Non avevo mai visto mia sorella così serena e in pace con se stessa. E notai che anche Diego era più felice. Ma perché io e Filippo non possiamo essere così? D’un tratto feci quello che mi ero ripromessa di non fare: scoppiai a piangere. «Oh, dai» mi abbracciò mia sorella. Mi sta abbracciando? Non era mai stata così gentile con me! «Che succede?» mi chiese nuovamente. Le confessai del lavoro che andava sempre peggio, del litigio con Caterina e soprattutto le raccontai del mio rapporto con Filippo, di quanto fosse diverso da come l’avevo immaginato, e di quanto fossi incapace di mandarlo a quel paese. Mi aspettavo che Laura mi scuotesse, dandomi qualche consiglio con tono sbrigativo e autoritario, com’era da lei. Invece no, si alzò e disse dolcemente: «Quello che ti serve è un po’ di svago. Stasera uscirai con me e le mie amiche» disse lei.

«Cosa?» smisi di piangere. «Certo. Organizziamo spesso un’uscita solo ragazze. Stasera sarai delle nostre» decise lei. Uscire con Sofia e il suo rossetto viola? Preferisco la solitudine e la desolazione! Ma la faccia di mia sorella era così speranzosa e gentile, senza contare che dovevo per forza apprezzare quello che stava facendo per me. «Va bene». «Così ti voglio!» sorrise. «o a casa a fare una doccia e a prepararmi e torno a prenderti alle nove!» Mi ritrovai a decidere cosa indossare quella sera. Le amiche di mia sorella sarebbero state in tiro. Quando aprii le ante del mio armadio, uscirono i pipistrelli. Pescai al volo qualcosa che per la mia testa era decente e mi preparai, rassegnata al fatto che, comunque fosse andata, avrei sfigurato vicino alla cricca di mia sorella. Quando mi ò a prendere, aveva l’auto carica di ragazze linde e profumate. La musica era assordante, le amiche di mia sorella erano super eccitate e vestite all’ultimissima moda. E io che mi sentivo bene con i pantaloni neri e la maglia con le perline! Ma ormai quel che era fatto, era fatto. Andammo a cena in una pizzeria poco fuori città, dove quasi non proferii parola, cercando di sedere il più lontano da Sofia, visibilmente irritata dalla mia presenza. «Angela! Guarda che bel cameriere» mi disse un’amica di mia sorella. «Gli chiediamo il numero per te?» risero tutte complici. Mia sorella sorrise incoraggiandomi. «Oh, no, grazie» arrossii. «E perché no?» fece beffarda Sofia.

«Ehm… sono già impegnata» dissi piano. Le altre starnazzarono elettrizzate dalla notizia. Sofia alzò le sopracciglia incredula e ironica. Strega! «E con chi?» mi urlò nell’orecchio. «Non lo conosci» evitai di rispondere. Non mi andava di parlare di Filippo. Laura se ne accorse, perché prese in mano la situazione. «Ho portato con me Angela perché con il suo ragazzo non sta andando benissimo. Ha bisogno di svagarsi, quindi parliamo d’altro» spiegò brevemente. Le regalai un’occhiata di gratitudine. «Oh, certo che è così!» mi abbracciò l’amica di mia sorella. «I maschi sono tutti dei grandissimi pezzi di merda». «Dei perfetti accessori». «Dei comodi bancomat portatili!» Tutte risero. Anche io sorrisi, mio malgrado. «Così si fa! Un brindisi!» strepitò una. Dopo cena mi scarrozzarono in tre locali diversi. Finché non arrivammo a uno poco conosciuto, di recente apertura. Entrammo e prendemmo di nuovo da bere. Io ne avevo abbastanza di analcolici. Quindi presi una coca-cola. Ma le bevute precedenti iniziarono a pesarmi sulla vescica, così mi scusai e andai in bagno. Quando uscii, rimasi paralizzata dalla visione che mi si presentò a un tavolo seminascosto: Filippo avvinghiato a una ragazza, mentre pomiciavano furiosamente. Era quasi imbarazzante. Non mi ha mai baciato così!

Ma quello che quasi mi fece svenire fu scoprire chi era la ragazza che gli stava per saltare nelle mutande. Ilva. Mi appoggiai al muro per non schiantarmi a terra. Mi mancava il respiro. Non poteva essere. Stavo sognando. Avrei voluto aver bevuto come una spugna, in modo da poter giustificare quel quadretto raccapricciante come un effetto collaterale dell’alcool. Invece no. Ero perfettamente sobria. Mi avvicinai con o sicuro e, urlando come una pazza scatenata, scaraventai a destra e a manca qualunque cosa mi capitasse sottomano: tavoli, sedie, camerieri. Infine spezzai l’osso del collo a entrambi, e fu così che mi beccai trent’anni. No, scherzo. In realtà tornai al tavolo in trance. Aspettai che le altre si decidessero ad andare via. Aspettai che mi portassero a casa, che mi salutassero e che mi dicessero di star su, che tutto si sarebbe sistemato. Annuendo, entrai in camera dove rimasi tutta la notte sdraiata di schiena, a fissare il soffitto. Non potevo credere a quello che stava accadendo. Non potevo credere a quello che avevo visto. Certo sapevo che il mio rapporto con Filippo non era da manuale, e che c’erano diverse cose che non andavano. Ma stupidamente mi ero illusa che con un po’ di perseveranza tutto si sarebbe sistemato. Erano solo quattro mesi che stavamo insieme. Magari ci voleva più tempo per ingranare bene la marcia. Ma non adesso! Non ora che era contaminato! Che cazzo. Se l’avessi beccato tra le braccia di qualcun’altra avrei anche potuto perdonarlo, ragionai. Certo, gliel’avrei fatta pagare. L’avrei tenuto sulle spine, l’avrei fatto soffrire facendogli pesare quello che aveva fatto. Ma non adesso. Non con Ilva. Tutte, ma non Ilva. Avrei preferito trovarlo tra le braccia di mia sorella. Perfino di mia madre. Ma non con Ilva. Ilva no. No, no, no, no, no! Mi rifiutavo di crederlo. Quella… quella…

Non avevo nemmeno l’epiteto giusto per descriverla. Ma sapevo cosa fare. Sapevo esattamente cosa fare. Il giorno dopo mi alzai presto, dopo un’ora e mezzo di sonno. Mi feci una doccia, mi lavai i capelli, mi ai la piastra acconciandoli meglio che potevo. In camera ai la bellezza di sessanta minuti truccandomi come se fosse il mio ultimissimo giorno di vita, e dall’armadio scelsi i vestiti più belli che avevo. Volevo essere perfetta per fare quello che stavo per fare. Volevo che Filippo vedesse quello che si era perso. Uscii di casa profumata come una rosa primaverile baciata dalla rugiada. Che poetessa! Presi un autobus, e arrivai sotto casa di Filippo. Suonai il camlo. «Chi è?» mi rispose una voce di donna. «Sono un’amica di Filippo. È in casa?» «Salga pure» mi disse la voce. Salii al piano dove abitava il mio ragazzo, dove ero ata già migliaia di volte per raggiungere il mini attico puzzolente e sporco. Ad attendermi sull’uscio c’era la madre di Filippo. «Buongiorno» la salutai con allegria. «Buongiorno cara. Cerca Filippo?» mi chiese cordiale. «Sì signora. È in casa?» «No, temo di no. Però abbiamo un secondo appartamento qui sopra». Lo so. «Magari è lì. Ci a spesso la notte. Scende solo per mangiare» mi disse scuotendo la testa quasi a significare “si sa come sono fatti questi ragazzi”. Ma va? E a me che diceva sempre che quell’appartamento lo usava solo di tanto in tanto per are delle serate con gli amici! «Grazie mille, signora. Vado di sopra. Buona giornata» le sorrisi. Salii i gradini e, senza bussare, aprii la porta. L’idiota non s’era nemmeno chiuso dentro! Ed eccolo lì. Addormentato nudo con la bocca spalancata in un groviglio

di lenzuola. Chissà che bella nottata che hai ato con Ilva. Repressi un brivido di disgusto. Mi sdraiai accanto a lui, e lo accarezzai. «Mmmh» mugugnò aprendo gli occhi. Quasi gli prese un infarto. Saltò giù dal letto, coprendosi con un lenzuolo. «Buongiorno amore mio» gli sorrisi sorniona. «Che cazzo ci fai qui?» mi chiese stralunato. Io assunsi un’aria innocentemente sorpresa. «Come sarebbe a dire! Sono venuta per stare con te, no?» Lui mi guardò spaventato. Io mi alzai lentamente. «Chi credevi ci fosse vicino a te?» Guardai per terra e mi si illuminarono gli occhi. Un reggiseno! Meglio di quello che speravo. «Oh, eccoti, caro. Questo vorrai restituirlo a Ilva» gli dissi, porgendoglielo. Lui sbiancò in volto. «Come?» «Ilva. La mia responsabile» gli dissi calma, sorridendogli. «Non eravate voi due in quel locale ieri sera a pomiciare?» poi guardai il reggiseno. «Oppure non siete riusciti ad arrivare qui? L’avete fatto direttamente sul tavolo? Dopotutto sembravate piuttosto presi. Magari questo è il reggiseno di qualcun’altra? Melissa, forse?» lui era a bocca aperta, senza trovare il coraggio di dire nulla. «Ma io…» «Non preoccuparti, Filippo. In fondo in fondo sapevo benissimo che sei un

verme» gli dissi bonaria. Girai sui tacchi per uscire. Solo che lui ebbe la malaugurata idea di urlarmi dietro: «Ecco brava! Vattene! Stupida cretina. Non sei buona a niente, grassona di una vacca!» Ora. Cosa credete che sia successo? Opzione A: la sottoscritta prende e, con grandissima dignità, esce di scena fregandosene altamente di quello che è stato detto. Opzione B: con i miei super poteri mi trasformo in Wonder Woman e con un’onda energetica da Super Sayan livello otto, lo spedisco all’altro mondo. Opzione C: mi alzo in volo tipo Matrix e lo prendo a calci rotanti aerei. Ok, in realtà nessuna di queste. Sorrisi amabilmente, mi avvicinai con o educato a Filippo e, con tutta la forza dei miei braccioni cicciosi, gli mollai un cazzotto in pieno grugno che dopo due piroette lo fece atterrare a terra stordito. Non scherzo: ne fece proprio due! Poi, con grandissimo stile, uscii di casa. Felice.

24.

Lui

Non ricordo bene come tornai a casa. So che presi la macchina e guidai come se fossi sotto effetto anestetico, scioccato dalla lite con Elisa, dalle cose che mi aveva detto e dalle accuse infondate che mi aveva rivolto. Forse anche io ero stato troppo diretto e brutale nel dirle esattamente cosa pensavo. Ma avanti, mi sbagliavo? Quante probabilità aveva di andare a Milano e diventare la prossima Claudia Schiffer? Senza contare che al giorno d’oggi le modelle che riescono a diventare famose sono pochissime. Le riviste preferiscono mettere sulle copertine le star di Hollywood, immediatamente riconoscibili, piuttosto che una modella conosciuta solo da quella parte di lettori realmente apionati di moda. Entrai in casa e andai diretto in camera mia, senza farmi sentire. Non avevo voglia di parlare con mia madre o Daiana, né avevo voglia di raccontare del mio successo al lavoro. Volevo stare solo, punto e basta. Ma non avevo fatto i conti con il cellulare, che prese a squillare. «Pronto?» risposi senza interesse. «Eros? Sono papà». Mio padre? E che diavolo voleva? Non mi aveva mai chiamato da quando era andato via di casa. «Che succede?» chiesi apprensivo. «Senti, volevo parlarti dei soldi che tua madre ha speso per casa nostra». Casa di chi, scusa? «Tu lo sai che erano miei. Cioè, li avevo risparmiati per tutta una vita, e insomma, non pensi che non avesse il diritto di prenderli? Voglio dire, non potresti aiutarmi?»

Io sbuffai, senza preoccuparmi di non farmi sentire. In quel momento non ero propenso ad aiutare nessuno. «Aiutarti?» «Sì, insomma, sei pur sempre mio figlio!» Alla buon’ora, padre! «Cosa vorresti che fi?» «Non lo so. Sono stato da un avvocato mio amico, ma mi ha detto di lasciar perdere, figuriamoci! E poi tua madre, oltre alla sua stessa voce, ascolta solo te e tua sorella». Per forza, tu sei andato via per abitare con quella pornodiva russa! «Senti papà» iniziai. «Davvero Eros» mi interruppe lui. «Ci ho messo una vita per risparmiarli. Stavo sul serio per partire per quel safari in Africa!» si lagnò. «Ho capito, e me ne rammarico» ironizzai. «Non hai modo di recuperare quel denaro?» Ma ci è o ci fa? «E come dovrei fare? Riporto i nuovi mobili indietro?» «Non lo so!» fece mio padre impaziente. «Senza contare che prima dovrei smontarli» lo presi in giro. Lo so, non fu una cosa molto educata da parte mia. «Bè, non sarebbe male. Potreste sempre andare a vivere da qualche altra parte, no?» «Bè, certo. In fin dei conti andare a dormire sotto un ponte ha un non so che di allettante».

«Non dico questo. Ma quella è anche casa mia! E non pensi che avevo il diritto di decidere se l’appartamento andava rimodernato o no?» Per me era davvero troppo. «Spero tu stia scherzando!» «Scherzando? Guarda che quelle mura dove abitate, le ho pagate io! Con il mio lavoro!» Ma mi stava rinfacciando qualcosa, per caso? «Papà, cosa vuoi?» «I soldi per il safari». Aveva lo stesso tono dei bambini che incontri al supermercato, che fanno i capricci perché vogliono le caramelle e le mamme non gliele comprano. Petulante, irritante e fastidioso. «Non ho tutti quei soldi, mi dispiace». «Ma non devi darmeli tu». «E allora vuoi che rapini una banca?» «No, ma vorrei che parlassi con tua madre e la convincessi a restituirmeli». Adesso davvero non ce la facevo più. Quella discussione non ci portava da nessuna parte. Lui manteneva la sua posizione, reclamando del denaro di cui non intendevo preoccuparmi e del quale francamente non mi interessava un accidente. E poi era un problema suo. «Papà, se non andavi via di casa lasciandoci soli perché t’è venuta questa improvvisa voglia di tornare giovincello, non avresti di che preoccuparti. Tu non vuoi più fare il padre? E io non voglio fare il figlio. Va a chiedere i soldi a quella biondona hot dal nome assurdo che ti porti a letto» e riattaccai. Lo so, era pur sempre mio padre, e bla bla bla. Ma non credete che abbia avuto ragione? Almeno un pochino? Come cavolo pretendeva che convincessi mia

madre a ridargli i soldi? Piuttosto lei si sarebbe impiccata. E poi io me l’ero già sorbito a sufficienza. Ancora mi sognavo di notte la scena al supermercato. Che ci pensasse Daiana a calmarlo e a cercare di fare qualcosa. La comprensione per mio padre era notevolmente scesa da quando ci aveva abbandonato, come se per lui non esistesse più alcuna famiglia. E che cazzo! Non si possono mettere al mondo dei figli, e poi… «Eros?» mia madre bussò lievemente e si affacciò alla porta di camera mia, distraendomi dai miei pensieri cupi. Io la guardai. Aveva un tono troppo gentile per i miei gusti! Che mi avesse sentito sbraitare con mio padre? Dio me ne salvi! «Ci sono visite» spalancò la porta ed entrò Raffaele. Mi drizzai a sedere. Raffaele entrò in camera mia con o incerto, sorridendo a mia madre. «Oh! Allora… ehm, vi siete già conosciuti?» «Sì, non preoccuparti» Raffaele sorrise a mia madre. «Il tuo amico mi ha portato dei fiori!» arrossì lei. «Davvero?» Raffaele mi strizzò l’occhio. «Bè, vi lascio, che ho da fare» cinguettò mia madre raggiante, e chiuse la porta dietro di sé. Raffaele sedette vicino a me sul letto, e mi baciò. «Cavolo, hai conquistato mia madre» gli dissi ributtandomi sul letto.

«Eh già. Nessuna donna resiste al potere dei fiori» disse con voce nasale ed espressione finto-sexy. Io non risi. «Cosa succede, tesoro?» «Ho litigato con Elisa». «E perché?» Non avevo voglia di rivivere quei momenti terrificanti. Volevo dimenticare il litigio, e aspettare che tutto asse. Perché ero certo che, se la ignoravo, la faccenda sarebbe semplicemente svanita come se nulla fosse. Rimasi in silenzio, guardando fuori dalla finestra. «Allora?» mi spronò Raffaele dopo un po’. «Scusa, ma non ne voglio parlare. Voglio dimenticare». «Come ti pare» disse lui, ma sembrava un po’ risentito. Cercai di non dare peso al suo comportamento. Ci mancava solo lui che si incazzasse con me perché non volevo raccontargli una cosa che mi faceva stare male! «Perché sei ato?» gli chiesi. «Come sarebbe a dire perché? Me l’hai chiesto tu!» Lo guardai interrogativo. A cosa diavolo si riferiva? Poi mi tornò in mente: il messaggio che gli avevo scritto poco prima, al lavoro. «Guarda che se non vuoi, me ne vado, eh» disse lui offeso. Mi irritai ancora di più. Non era un bambino. Non capiva che avevo avuto una pessima giornata? Perché doveva farmi pesare ogni singola cosa che facevo o dicevo? Ok, mi era ato di mente che gli avevo chiesto di uscire, ma può succedere, no? «Vuoi uscire?» mi chiese nervoso.

«No, sinceramente non mi va». «Bene. Vogliamo fare qualcosa o me ne posso andare?» A quel punto mi arrabbiai. Quel tono risentito non serviva a nulla. «Devi per forza fare così?» «Così come?» «Così. Come stai facendo! Perché ti offendi?» «Non mi offendo» disse lui evitando di guardarmi. «Oddio, ti comporti come un bambino» gli dissi con tono sprezzante. Forse un po’ troppo sprezzante, ma capitemi, ero arrabbiato! «Io un bambino? È da quando sono arrivato che ti comporti da idiota! Mi stai facendo pesare ogni cosa che dico o faccio. Cosa pretendi?» Eccone un altro che mi dice cose perfide gratuitamente. «Non ti sto facendo pesare un accidente. Sei tu che non capisci che razza di serata del cazzo ho avuto!» Lui mi guardò. «E allora raccontamela!» «Ma non mi va di parlarne, non capisci? Mio padre mi ha chiamato perché rivuole dei soldi di cui mi ero perfino dimenticato, e Elisa che mi dice quelle cose». «Elisa, Elisa, sempre Elisa! E io?» Lo guardai scandalizzato. Non è possibile che adesso mi fa il geloso! «Tu cosa?»

«Io non conto niente? Ok, hai litigato con la tua amica. Ma non è meglio cercare di scordare quei brutti momenti andone di belli con me?» «Ma è quello che volevo». «No, tu sei arrabbiato e frustrato, e ogni occasione è buona per sfogare i nervi. Ma non funziona così in un rapporto!» mi disse serio. E anche un po’ deluso. «Senti, adesso non ho la forza di assecondare la tua gelosia». «Ah, quindi sarei geloso?» «Non è evidente?» Lui si bloccò un attimo, sembrava furioso, ma poi parve cambiare tattica. «No, non mi risulta» disse serio. «È solo che a volte mi chiedo se per te è più importante la nostra storia, o quella con la tua amica. Non voglio dire che devi scegliere tra me ed Elisa, non lo farei mai, perché so cos’è l’amicizia. Ma dovresti saper gestire meglio la tua vita sociale». Io rimasi a guardarlo senza dire nulla. Forse perché sapevo che aveva ragione. Anche quella era una mossa sbagliata, perché Raffaele era chiaramente in attesa di un mio cenno o mossa. Forse voleva che gli saltassi al collo? O forse che mi scusassi? Mentre ero intento a decidere cosa fare, lui alzò gli occhi al cielo, spazientito e si avviò verso la porta. «Ti chiamo domani. Sempre se la cosa non ti disturba». E così anche lui mi aveva lasciato solo, impalato, a fissare il vuoto. Che giornata di merda. «Il tuo amico è andato via?» mi chiese mia madre affacciandosi alla porta. «Sì». «Perché?» indagò.

Ci mancava il terzo grado. «Non si sentiva bene» inventai. «Oh, mi dispiace!» recitò. Io rimasi zitto. «Comunque mi piace. È educato, ed è anche un bel ragazzo» continuò lei. Io rimasi in religioso silenzio. «Prima eri al telefono?» mi chiese ancora mia madre. Evidentemente non aveva intenzione di mollare. «Sì». «Con chi parlavi?» Io la guardai. Sapevo perfettamente che sapeva perfettamente che ero al telefono con mio padre, perché lei non chiedeva mai con chi ero al cellulare. E se lo faceva, era perché andava a colpo sicuro. Mia madre non ha mai saputo mentire! Anche quando scoprì che avevo un pacchetto di sigarette nascosto sotto il materasso, per indurmi alla confessione era stata assolutamente maldestra. Pensai che dirle la verità sarebbe stato poco saggio. «Con Gaia, la mia collega». «E parlavate di soldi?» mi guardò lei, con noncuranza. Ok, fine del gioco. «Era papà» confessai stancamente. «E cosa voleva il porco?» «I soldi che hai speso». «E li vuole da te?» mi guardò sorpresa.

«No, voleva che te li fi sborsare». Mia madre rise senza allegria. «Quei soldi non li rivedrà mai! E tu non provare a fare nulla del genere, sai? Sennò ti butto fuori casa a calci nel sedere, capito?» urlò, sbattendo la porta. Io rimasi lì, come un ebete. Ecco fatto. Adesso ci mancava mia madre che si incazzava con me per una cosa che non avevo fatto, e che non avevo nemmeno in mente di fare. Perfetto. Sempre e solo colpa mia.

25.

Lei

Camminai verso la fermata dell’autobus per smaltire i nervi. L’adrenalina mi faceva quasi volare. Ero triste per la piega che aveva preso la mia storia con Filippo, ma decisi che me la sarei fatta scivolare addosso. Non ne valeva la pena. Era ora di mettere insieme i cocci della mia vita in maniera seria e decisa. Un taglio netto. Con tutti. Presi un bus al volo, e arrivai al centro commerciale. ai davanti al negozio di fiori dove lavorava Giuditta e le lanciai un sorriso smagliante che lei ricambiò placida. Entrai nel negozio e individuai Ilva. Anche lei mi vide e, dopo un attimo di sorpresa per la mia presenza, mi squadrò da capo a piedi con le sopracciglia alzate. Io non mi lasciai intimorire: ero vestita benissimo e sistemata alla grande. Non ero un fuscello, non ero una modella taglia zero, una di quelle soubrette che si vedono in tv o sui giornali di gossip per signore. Non avevo un fisico mozzafiato, e non lo avrei mai avuto. Ma, porca miseria, ero una gran figa! E se qualcuno mi voleva, mi avrebbe dovuto prendere così com’ero. Pregi e difetti! In caso contrario, amen! Sarei rimasta sola a vita. Avrei comprato un gatto, e avrei riversato su di lui tutto il mio amore. Magari se fossi riuscita a metterlo all’ingrasso, sarei anche potuta entrare nel Guinness dei Primati! Ma bisognava procedere con regolarità. Mi avvicinai decisa a quella che era stata la causa del mio stress al lavoro e della fine di quello che adesso non sapevo più se era il caso di chiamare “rapporto”. «A cosa dobbiamo la tua presenza?» mi chiese sarcastica. «Volevo solo dirti che sei una grandissima troia» le sorrisi graffiante e scandii bene le parole ad alta voce, in modo che non solo i clienti intenti a scegliere i primi regali di Natale, ma anche le persone che stavano ando all’esterno potessero sentire, fermandosi sulla soglia per ascoltare interessati. Lei spalancò gli occhi, rossa in volto e paonazza. «Ma come ti permetti?»

«Voglio informarti che il motivo per cui Filippo cercava sesso al di fuori del nostro rapporto era perché io e lui non andavamo a letto insieme». Lei sbiancò in viso, come Filippo poco prima. «Già. E vuoi sapere perché? Perché Filippo ha una grave malattia sessualmente trasmissibile. Senza contare che soffre di herpes». Piccola pausa per godere l’effetto delle mie parole. Ilva sembrava terrorizzata. «Così adesso oltre a una nuova commessa, dovrai anche trovarti un bravo specialista. E al più presto, aggiungerei. In bocca al lupo» e così dicendo, mi voltai per andare via. Purtroppo Ilva fece un grandissimo errore. Incazzata per essere stata messa in imbarazzo davanti a tante persone che stavano ridendo di lei, fece il mastodontico sbaglio di afferrarmi per i capelli. Così, per la seconda volta in pochissimo tempo, le spalmai una manata sulla sua guancia grondante di fondotinta e fard. La mia stazza era nettamente superiore alla sua, quindi stramazzò sulla vetrinetta che avevo frantumato io qualche mese prima e che avevamo ricomprato da poco, rompendola in mille pezzi. Ma la ciliegina sulla torta, oltre alle fragorose risate della folla che aveva assistito alla scena, fu vedere la mini-minigonna di Ilva salirle alla gola, lasciandole scoperto il sedere. Giuro che non sarei mai voluta arrivare a tanto. Uscii dal negozio dove ne avevo ate di tutti i colori e dove non avrei mai rimesso piede neppure se ne fosse dipesa la mia vita, e tornai a casa. Mentre ero sulla strada del ritorno, soddisfatta come non mai, afferrai il cellulare e chiamai una mia cugina di ottavo grado che aveva un’agenzia di viaggi. «Per caso hai qualcosa last minute per me?» «Per te? Una sola persona?» mi domandò sorpresa. «Sì, solo io» confermai. «E dove vorresti andare?» la sentii digitare i tasti del computer. «Non importa dove. Va bene anche l’Iraq o la Terra Santa. Voglio solo partire. Va bene qualunque destinazione disponibile. Ho solo bisogno di tornare a casa e preparare una sacca da viaggio» le dissi.

Lei mugugnò qualcosa mentre continuava la ricerca. «Va davvero bene qualunque cosa?» mi chiese scettica. «Tutto» confermai. «Anche una località di montagna?» «Sì, se costa poco». «Ok. Allora senti questa: c’è un viaggetto più pernottamento tutto incluso nella Valle del Weissensee. Una località in Austria. A 930 metri d’altezza c’è un lago balneare» mi disse. «Inoltre puoi fare varie attività come il Nordic Walking, puoi andare in Mountain bike, andare a pesca, fare surf. Che ne pensi?» Mi informai sul prezzo e le dissi di prenotarmi l’aereo. Era ora di fare qualcosa che fe piacere solo a me. Avevo voglia di pace. Tranquillità. Neve. Tanta neve. L’albergo dove sbarcai era minuscolo ma stupendo. Tutto era ordinato, pulito, meravigliosamente fuori dal mondo. Faceva un freddo cane, ma era tutto bellissimo. Non parlavo una mazza di tedesco, ma me la cavavo con l’inglese quindi non fu difficile raccapezzarmi. Prima di partire ero tornata a casa e, mentre preparavo la sacca, avevo assicurato a mia madre che non ero impazzita, ma che avrei solo fatto una gita, che stavo bene, che sarei andata in Austria per un paio di giorni, e sì, che ci sarei andata sola. Le garantii inoltre che non facevo uso di sostanze stupefacenti, promettendole che una volta rasserenata e in pace con me stessa sarei tornata e le avrei raccontato tutto, e che se non credeva che non avevo assunto acidi, avrei fatto le analisi del sangue. Ma non adesso. Non volevo pensare a nulla. Lasciai a casa il cellulare pensando che, se mai avessi voluto parlare con qualcuno, mi sarei arrangiata. Così lo buttai sulla scrivania senza degnarlo di un ulteriore sguardo e presi il pullman che mi portò a Roma. Da lì mi imbarcai su un aereo piccolissimo che mi trasportò in Austria dove presi un secondo pullman che mi condusse in quella località spettacolare. Prima di partire avevo ritirato dal mio cassetto non-troppo-segreto tutti i soldi che avevo da parte, e ritirai anche qualcosa al bancomat. Ero lì già da tre giorni ad ammirare quel lago stupendo. avo le giornate in totale relax. La mattina mi svegliavo presto, uscivo a fare una eggiata e mi godevo la solitudine. Poi rientravo in albergo, facevo colazione e uscivo di nuovo. Mi piaceva girare per le minuscole vie dei paesini intorno al lago e ogni giorno visitavo un cittadina diversa. Comprai una carta telefonica e chiamai a casa da una cabina pubblica.

Dopo un quarto d’ora di urla preoccupate riuscii a calmare mia madre per dirle che stavo bene, dove mi trovavo e quanto fossi in pace con me stessa. La rassicurai svariate volte sul fatto che fossi sola, infine riagganciai. Povera mamma. Deve essere seriamente preoccupata. Non ero in pensiero. Non pensavo più a Filippo, a quello che avevamo avuto, o meglio, a quello che non avevamo avuto. Non pensavo nemmeno più al lavoro, che ero sicura avrei trovato presto. Il pomeriggio del quinto giorno iniziai a preoccuparmi di quanto quel viaggio avventato e per niente programmato avrebbe pesato sulle mie finanze. Ma ero ancora nella fase della negazione e continuavo a ripetermi che tutto stava andando bene, e che quella vacanza sarebbe stata un toccasana. Inoltre ero riuscita a mettere da parte una discreta somma, quindi per una volta che volevo godermi qualcosa, non era il caso di trattenermi. Senza contare che non c’era assolutamente nulla che mi avrebbe fatto spendere più del necessario: niente discoteche, niente locali notturni, niente negozi. Solo souvenir, ma non comprai niente, tranne delle cartoline, giusto per ricordo. Iniziavano a mancarmi la mia famiglia, la mia tv, il mio letto, e devo ammetterlo, la cucina italiana! Avevo perfino perso qualche chilo da quando ero arrivata in Austria. Le cose che cucinavano non mi piacevano, quindi mangiavo pochissimo e male. Mi ritrovai a pensare con nostalgia agli spaghetti fatti in casa dalla mia mamma, alle polpette di carne, al purè di patate, alla crostata, ai pasticcini che faceva mia nonna. Era ora di tornare. Natale si stava avvicinando, e avevo voglia di avvolgermi nella calda atmosfera natalizia di casa mia. Quest’anno poi, libera da Ilva, dai turni massacranti del periodo festivo e dal negozio, avrei comprato io l’albero, l’avrei addobbato e avrei fatto il presepe. Avrei acquistato anche uno di quei disgustosi babbi natale che s’arrampicano sui balconi, che mi fanno sempre desiderare che la terra si apra e io sprofondi nelle viscere del pianeta, pur di non vedere uno di quei cosi appesi come dei salami! Pensate voi a che punto ero arrivata. Il conto in albergo fu meno gravoso di quanto pensassi, e grazie al cielo me la cavai con poco. Mi andò meno bene con l’aereo la mattina dopo, che mi toccò pagare un tantino più del previsto, ma avevo voglia di tornare, quindi non feci una piega. Quando arrivai a Roma riuscii a prendere al volo il bus interurbano che mi avrebbe riportato a casa, e due ore dopo mio padre era alla stazione che mi aspettava. «Va tutto bene?» mi abbracciò. «Sì. Che tu ci creda o no, mi ha fatto bene stare da sola per una settimana» gli

dissi. Partimmo alla volta di casa. «Che è successo in mia assenza?» chiesi. «Niente. Laura ha l’influenza e tua madre è quasi morta di crepacuore sapendoti in mezzo ai boschi austriaci. Ma si può sapere cosa diavolo ti è preso?» volle sapere mio padre. Solitamente lui era quello che lasciava sbagliare me e mia sorella lasciandoci fare le scelte che credevamo più giuste per noi. Invece mia madre era quella che tentava di tenerci buone, cercando di indurci alla ragione, come quando io volevo farmi un enorme tatuaggio di un teschio durante il mio periodo gotico, o quando mia sorella voleva comprare un cucciolo di gatto nonostante la sua allergia. Vabbè, io non ero ancora del tutto pronta per raccontare ai miei cosa mi aveva indotto alla fuga. «Ogni cosa a suo tempo. Non è che mi vada di parlare tanto dei miei problemi adesso che sono così serena. C’è altro?» chiesi. «Caterina ha iniziato le prove in chiesa per il matrimonio. Sai, il parroco insiste per fare una simulazione con testimoni, eccetera. Povera Caterina. Con quella pancia» scosse il capo mio padre. A me prese un colpo. Avevo dimenticato mia cugina e quello che stava ando tra il matrimonio e la gravidanza. E io, che si supponeva fossi la sua testimone di nozze, l’avevo lasciata sola. Ma che razza di persona ero? Ero stata così egoista da non preoccuparmi di nessuno e partire, con il risultato che mia madre era stata in ansia tutto il tempo e Caterina s’era dovuta arrangiare da sola. E poi cosa cavolo mi era preso? Prendere e partire per l’Austria così? Non si scappa dai problemi! Si affrontano! Ecco cosa fanno le persone adulte. Non come me, che pretendevo di essere trattata come una donna emancipata e poi fuggivo come una vigliacca da quello che mi faceva stare male. «Aspetta! Portami a casa di Caterina!» dissi a mio padre di getto.

Lui sorrise. «Ok, ma non la troverai lì» mi disse. «E perché? Dov’è andata?» Vuoi vedere che è partita pure lei? «Stasera aveva le prove in chiesa» mi informò il mio papà. «Bene allora, portami in chiesa!» Mio padre mi guardò. «Per favore». Lui annuì. «Ah, ecco. Così va meglio». Un attimo dopo spalancavo la porta della chiesetta del nostro paese, facendo sobbalzare tutti. «Angela!» mia cugina mi guardò sorpresa e sollevata. «Cate!» andai verso di lei con le lacrime agli occhi. «Scusa! Scusami tanto. Non so cosa mi è preso, ti ho lasciata completamente sola, e…» Caterina non mi lasciò finire. Mi abbracciò stretta, quanto il suo bel pancione al sesto mese di gravidanza le permetteva. «Credevo fossi andata via perché sono stata una totale stronza con te. Ero sempre nervosa, mi sono comportata da iena con tutti! Credevo che fossi partita all’improvviso per colpa mia» mi disse guardandomi. «Quando tua madre me l’ha detto, per poco non partorivo». Ridemmo. «È tutto ok. Non è stata colpa tua. Ti racconterò meglio. Adesso diamoci da fare» le dissi, portandoli all’altare.

Fu una serata stupenda. Dopo le prove, io, Caterina, Giacomo e i loro amici decidemmo d’andare a prendere una cioccolata calda e feci la conoscenza degli amici dello sposo. Ci divertimmo, soprattutto quando il futuro marito di mia cugina mi prese in giro per la fuga. «Per farmi perdonare acconsentirò a farti scegliere il mio vestito da testimone. Ti va?» proposi a Caterina, ben sapendo che non aspettava altro che fare shopping in tutte le boutique eleganti della città. E infatti le si illuminarono gli occhi. «Uh! Sì!» esultò. «No, aspetta» la interruppe Giacomo. «Invece di questo, fatti fare un regalo più costoso, no?» le disse. E scoppiammo nuovamente tutti a ridere.

26.

Lui

Mia madre mi perdonò per prima. Il giorno dopo già non ricordava nulla e mi preparò addirittura un panino per pranzo, visto che sarei rimasto al lavoro. Dovevamo allestire le tre immense vetrine dell’atelier per le festività Natalizie e avevo circa un milione di schede da preparare in vista della produzione degli abiti che avevo disegnato. Ogni anno, per Natale, la signora Flora tirava fuori delle decorazioni che faceva di persona, prendeva qualche nuovo abito aggiungendoci un tocco di rosso, e fatto: quella era la vetrina. Io e Gaia pensavamo che le costruisse durante l’anno. Il brutto era allestire la scenografia intorno! La mia capa non badava a spese e non teneva conto delle leggi della fisica per arrivare alla vetrina perfetta che, a dire la sincera verità, era la più bella tra i negozi lì intorno. Del resto chi poteva competere con stoffe pregiate, strutture luminose, mobili antichi ristrutturati e un faro di luce multicolore arrivato direttamente dal Cile? Il tutto, a lavoro ultimato, risultava di classe e non pacchiano. Non troppo per lo meno. Uno non può essere discreto più di tanto: un faro d’importazione cilena è pur sempre un faro d’importazione cilena! Lavorai a ritmo serrato tutto il giorno, un po’ perché la signora Flora mi metteva addosso una fretta boia, un po’ perché lavorando non pensavo a quanto successo con Elisa e Raffaele. Quando uscii dall’atelier, ben oltre il mio orario di lavoro, faceva un freddo cane e la mia misera sciarpa non era sufficiente per ripararmi dal vento pungente. Si avvicinava Natale, e io non avevo ancora comprato neppure un regalo. Mi avviai verso il centro, dove tentai di acquistare qualcosa per non ridurmi come al solito all’ultimo momento, quando i negozi sono letteralmente presi d’assalto dalla folla che comprerebbe l’impossibile. Mi andò bene. Riuscii addirittura ad acquistare un nuovo accappatoio per mia sorella, a mia madre il suo profumo preferito, e a mio padre un dopobarba. Sapevo che l’avevo trattato male, e sapevo che lui non aveva tentato di riappacificarsi con il suo unico figlio! Però che devo dire, a Natale siamo tutti più buoni, no? O forse era l’aria che si captava per strada, di mansuetudine e felicità. Che comunque non riuscivo ad assimilare bene. Ero depresso per la prima litigata con Raffaele.

E la prima vera litigata con Elisa. Avevamo già discusso per stupidaggini insignificanti, ma adesso era diverso. Adesso c’eravamo detti troppe cose brutte per poter far finta di niente, e far pace come se nulla fosse. Tornai a casa e feci una doccia super bollente, cercando di annullare il gelo che mi era arrivato fino alle ossa. Quando tornai in camera mi fiondai sul cellulare per vedere se Raffaele avesse chiamato mentre ero sotto l’acqua, ma ancora niente. Fortuna che mi aveva detto che mi avrebbe chiamato oggi! Se mi andava. Ma a quel particolare non volevo pensare. Insomma, come diavolo facevo a dirgli che volevo che mi chiamasse? Mica potevo chiamarlo io, o scrivergli un sms. Doveva telefonare lui, visto che me l’aveva promesso! Il giorno dopo andai al lavoro ancora più cupo e la notizia che mi diede la signora Flora mi risollevò il morale solo del 10%. «Una ragazza deve sposarsi a breve e ha scelto uno dei tuoi abiti» mi disse sorridendo tra sé, come fosse una sua conquista personale. «Davvero? Ma è fantastico!» esultai. Gaia mi diede una pacca affettuosa. «E bravo Eros» sorrise. Quella sera decisi che era ora di fare pace con Raffaele. Lo chiamai. «Pronto?» «Una sposa andrà all’altare con un mio vestito» gli dissi tutto d’un fiato. «Bene. Bravo». Silenzio. E che cavolo. Non mi aspettavo i coriandoli o lo spumante per festeggiare, ma quanto meno un minimo di partecipazione in più! «Sei ancora arrabbiato con me?» gli chiesi.

Lui sospirò dall’altra parte del telefono. «Ma no, via. Ho esagerato in questi giorni». «È colpa mia! Non dovevo». «Ma no…» «Trattarti in quel modo». «È tutto ok». «Scusami!» «Perdonato». Silenzio. Aspettavo mi dicesse qualcosa, ma rimaneva zitto, così parlai per primo. «Ci vediamo stasera? Così recuperiamo questi brutti giorni» proposi ansioso. «Casa mia ti sta aspettando» disse lui dolcemente. «Solo la casa?» «Io ti aspetto da quando sono uscito da camera tua».

A Natale puoi fare quello che non puoi fare mai… Arriva il Natale, con l’albero, le luci, il presepio e i regali, e arriva purtroppo anche questa stupida pubblicità-tormentone. Ma chi è il genio che l’ha inventata? E quest’anno la sopportavo ancora meno dal momento che era l’arma vincente di Elisa quando voleva farmi innervosire. Lei la cantava a squarciagola, e io mi incazzavo. E invece quest’anno niente. E pensare che le avevo anche fatto un regalo! Credevo che per il 25 dicembre saremmo tornati amici, che tutto si sarebbe sistemato con lei che mi diceva che in realtà non sarebbe andata da nessuna parte, che non pensava a quelle cose e che mi voleva bene. Io le avrei detto che nemmeno io pensavo le brutte cose che le avevo sbraitato contro, che ero felicissimo che rimanesse, e che le volevo bene. Invece no, neanche gli

auguri di buon Natale. E non storcete il naso dicendo che gli auguri potevo farglieli io per primo! Non se ne parlava proprio. Raffaele apprezzò il mio regalo. E vorrei vedere! Avevo impiegato un mese per trovare quel dannato disco in vinile dei Rolling Stone! Un’edizione super limitata che adesso avevano praticamente solo lui e Mick Jagger. Quando glielo diedi, si mise quasi a piangere. Per ringraziarmi lo facemmo sul tavolo in cucina, poi in bagno sul lavandino, infine nell’armadio a muro all’ingresso dove teneva i giubbini. Alle sette di sera decisi che era ora di tornare a casa. Sia lui che io avremmo ato la sera di Natale con i nostri famigliari. Anche perché altrimenti mia madre l’avrebbe ata da sola e io e Daiana avevamo deciso che per quest’anno non era il caso. Quando arrivai la casa era tirata a lucido e i nuovi mobili sembravano più lustri del solito. Mia madre aveva cucinato di tutto, dando il meglio di sé e facendomi sbottonare il primo bottone dei jeans a fine cena. ammo una bella serata e gli unici momenti di tensione furono quando chiamò mio padre per farci gli auguri, cinque velocissimi minuti, e quando dovemmo andare in salotto per aprire i regali, l’unica cosa che la mia famiglia aveva davvero fatto sempre insieme. Però i bei pacchetti mitigarono l’atmosfera tesa, e mia madre gradì molto il profumo. Anche i miei regali furono molto carini, da una nuova vaporosissima sciarpa, Daiana aveva notato che la mia aveva una certa età ormai, a una bella felpa che mi aveva regalato mia madre. ammo il resto del tempo a guardare per la duecento milionesima volta Tutti insieme apionatamente su Rete4, a mangiare dolci, torroncini, popcorn e patatine. E nel frattempo Raffaele mi scrisse una serie di piccoli sms uno più dolce dell’altro. Ma non potevano essere così tutte le sere? No, impossibile. Quelle erano le classiche atmosfere che crea il Natale, e che si ripetono solo una volta all’anno. Quando il film finì, e io mi commossi un po’, devo ammetterlo, ci demmo la buonanotte e ognuno si ritirò in camera sua. Tranne Daiana che mi seguì. «Allora, ato un buon Natale con Raffaele?» mi chiese, acciambellandosi sul mio letto. «Sì, stupendo. Speriamo di arne molti altri così» mi morsi la lingua per scaramanzia. «Tu invece?» le chiesi, notando che aveva un’espressione un po’ triste. Mi resi conto che per tutta la sera era stata taciturna e poco espansiva.

«Cosa succede?» ripetei. Per tutta risposta mia sorella scoppiò a piangere. Io rimasi lì, impalato come un idiota, senza sapere cosa fare. Odio le lacrime! Mi danno un senso di impotenza. «Daiana?» «Io e Benny ci siamo lasciati» mi disse. Presto, i coriandoli! No, prima era il caso di lasciarla sfogare. Avrei avuto tempo per i festeggiamenti in privata sede. «Perché?» «Il solito» sbuffò lei tra le lacrime. «Solo che oggi è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso, come si dice». Bè, quel vaso doveva essere già pieno da un pezzo, con tutte le lacrime che mia sorella ci aveva versato dentro! «Racconta» le dissi placido. Non mostrai di essere sollevato. E non pensate che sia cattivo, o senza cuore! Mi dispiaceva da morire vedere mia sorella in quello stato, ma ogni volta che la vedevo così era per colpa di quell’imbecille! E siate sinceri: quanto si può avere in simpatia uno che fa stare male un nostro caro? Anche se questo nostro caro crede di star bene con questa persona, eccetera. Oddio, che discorso contorto! Comunque, mi appollaiai vicino a lei. «Ero a pranzo a casa di Benny. E sua madre ha iniziato a lanciarmi frecciatine che quello era l’ennesimo Natale che io e suo figlio avamo da single e non da sposati. Io rimanevo zitta, un po’ perché ci ero abituata, un po’ perché non mi sembrava il caso di litigare con mia suocera, poi sapevo che aveva ragione. Comunque ha continuato a dire che quella era una strana situazione, che non capiva come mai due giovani seri e responsabili come noi non si decidevano a mettere su famiglia, e le solite altre cose». Benny serio e responsabile? Ma la madre dove vive?

ai a Daiana un fazzolettino di carta, e lei si soffiò rumorosamente il naso. «Poi io e Benny siamo andati in camera sua, dove io ho cercato di sfogare la mia frustrazione nei confronti di quella stupida donna. Non ho detto parolacce, né ho insinuato nulla, davvero! Ho solo detto che aveva ragione, ma non vedevo il motivo di continue frecciatine. Ma lui ha reagito come se l’avessi offesa a morte. Non immagini cosa mi ha detto!» Il solito coglione. Ormai non era più una novità. «Io ero imbarazzatissima. Sapevo che i suoi erano nella stanza accanto e che sentivano ogni suo urlo. Ho cercato di calmarlo, ma niente. Lui me ne ha dette sempre di peggio» si soffiò di nuovo il naso. «E tu che hai fatto?» la spronai. Chissà se erano avanzati due pop corn? Adesso ci stavano proprio bene. «Io a quel punto mi sono incazzata, e ho iniziato a urlargliene a mia volta di tutti i colori. Avresti dovuto vedere com’è impallidito. Non se l’aspettava». Rise un po’. Fatto bene! «Gli ho detto che quella strega di sua madre ha ragione, che era una situazione del cazzo perché nonostante stiamo insieme da otto anni, ancora non si decideva a sposarsi o a concludere qualcosa nella vita. Gli ho detto che ho perso i miei anni più belli dietro a un idiota come lui, che ero stufa. Gli ho urlato che lo lasciavo, gli ho buttato l’anello che mi ha regalato durante il primo anno di fidanzamento e me ne sono andata» concluse. Certo che il Natale fa davvero miracoli, eh? Ma non era il momento di mostrarsi allegri. «Mi dispiace sorellina» la abbracciai.

«Non è vero che ti dispiace». «No, è vero. Ma solo perché è da tempo che so che Benny non serve a niente» le disse dolcemente. «Me n’ero accorta da un pezzo anch’io» confessò. «Cosa posso dire a mia discolpa? Volevo credere che sarebbe cambiato, che l’avrebbe fatto per amor mio. E poi sono troppo orgogliosa per ammettere che lui era un mio fallimento, o che tu e le mie amiche avevate ragione». «Bene, adesso lo sai». «Sì, ma fa male comunque» disse, mentre le lacrime tornavano a scendere. «So che fa male, tesoro. Ma erà. Ci sono io con te. E ci sono le tua amiche» le sorrisi. «Ti staremo tutte vicino». Lei rise. «Grazie. È quello che mi ha detto anche Anna» si asciugò gli occhi. «Cosa? Hai raccontato tutto prima alla tua amica e poi a me?» mi finsi offeso e scandalizzato. «Bè, dopo che sono andata via da casa di Benny non potevo certo tornare qui. Mamma si sarebbe insospettita, no?» Troppo giusto per contraddirla. Annuii. «Così sono andata da Anna. Abbiamo fatto la cioccolata calda e ci siamo strafogate». «E in aggiunta stasera hai mangiato tutte quelle schifezze?» le dissi con disapprovazione. «Ma avevo bisogno di consolarmi!» «Ok. Così sarai consolata e grassa». Lei mi tirò il mio cuscino per zittirmi, poi si alzò.

«Non dire niente a mamma, ok?» mi disse. «Certo che no. Ma prima o poi scoprirà che non stai più insieme al tuo fidanzato storico» le feci notare. «Hai ragione» sospirò. «E già». «Mi farò venire in mente qualcosa». «Buonanotte» la salutai. Lei alzò una mano e uscì. E così la mia cieca sorella aveva finalmente capito che stava con un perfetto idiota, e che la famiglia di lui era squilibrata. Cavolo, un regalo di Natale in più!

27.

Lei

La mattina di Natale mi svegliai con una bella sensazione di pace. Sorrisi ancora mezza addormentata e mi stirai sotto il piumone. Rabbrividendo al contatto con il pavimento ghiacciato, mi alzai e andai in cucina dove mia madre stava già cucinando per noi, mia sorella, mio cognato e mia nonna, che sarebbero venuti a pranzo. «Buon Natale» le augurai baciandola sulla guancia. «Buon Natale, cara» mi ripose lei con un sorriso. Adesso che le avevo raccontato quello che mi aveva indotto a partire, era molto più serena. Anche se devo ammettere che fu molto più tranquilla quando le assicurai che non sarei più andata via. Avevo imparato la lezione, ed ero prontissima ad affrontare quello che sarebbe successo. A pranzo ci ritrovammo con la casa piena di gente, con Laura che allegra e con gli occhi umidi ci annunciò di essere incinta. Mia madre scoppiò in lacrime, mio padre aveva gli occhi lucidi e mia nonna iniziò a snocciolare una serie di riti che doveva assolutamente fare per assicurare una sana crescita al bebè. Io la abbracciai. «Sono felicissima per te» le dissi sincera, prima di abbracciare anche Diego. Adesso capivo perché da un po’ di tempo era più gentile. Ricevetti dei bei regali, una collana con un ciondolo dai miei che sarebbe stata perfetta con il vestito che Caterina mi aveva fatto comprare per il suo matrimonio, un set di trucchi da mia sorella che, mi sorpresi a pensare, avevo tutte le intenzioni di iniziare a usare e il solito budget di soldi da mia nonna, che abbracciai con trasporto. Ma il regalo più bello me lo fece Giuditta, la mia ex collega di lavoro. Mi ero vestita, pettinata e truccata con cura. Non eccessivamente, ma un po’ più del solito. Stavo per andare a prendere una cioccolata calda con Caterina, Giacomo e i suoi amici che avevano insistito affinché uscissi con loro, quando Giuditta mi chiamò

al cellulare. «Buon Natale, Giudy» le augurai felice. Rimanemmo a parlare del più e del meno per aggiornarci sulle ultime news e la mia amica rimase scioccata nell’apprendere che ero andata in mezzo al nulla Austriaco, completamente sola per una settimana. «Questo ha a che fare con la rissa con Ilva?» mi chiese. Io rimasi a bocca aperta. «Come fai a saperlo?» «Scherzi?» lei rise. «Non si parla d’altro in tutto il centro commerciale! Sai bene come circolino in fretta questo genere di voci». Io sospirai. «Immagino che tu abbia ragione». «Ma com’è andata in realtà?» volle sapere. Non era giusto tenere Giuditta all’oscuro degli eventi. Dopotutto anche lei era stata vittima di quella tiranna. Insomma, non era corretto privarla di quel godimento! Così le raccontai tutto, per filo e per segno. «Non ci credo!» esclamò scandalizzata Giuditta, quando terminai. «Ti ha fregato il ragazzo! Che… che… Oddio, non ho nemmeno il termine giusto!» «Puttana?» suggerii. Scoppiammo a ridere entrambe. «No, davvero, hai fatto benissimo» mi appoggiò. «Grazie» apprezzai. «Ti ho chiamata per darti una notizia». «Non dirmi che sei incinta anche tu!»

No, perché qua le gravidanze escono fuori come le pulci sulle volpi! «Anche io? Perché, chi altra è incinta?» «Mia sorella». «Oh! Auguri! No, non sono incinta». «Con il tuo ragazzo tutto ok?» «Perfettamente! È un amore. Stiamo pensando di andare a vivere insieme». «Wow! Bello». «Già. Sono molto felice». «Buon per te, tesoro. Dicevi?» «Ah sì. Ti ricordi che ti dissi che avrei cercato un lavoro decente anche a te?» sghignazzò. Io trattenni il respiro. «Ho parlato di te a una signora che ha un’azienda che produce e vende camicie» mi informò. «Camicie?» «Yes. Ha bisogno di una ragazza che oltre alla vendita si occupi della reception. Insomma, che risponda al telefono. In realtà il negozio vende poco e niente, perché la maggior parte di quello che producono lo danno a vari franchising, quindi il lavoro è minimo e la paga ottima» mi informò. «Quando posso iniziare?» chiesi subito. Giuditta rise. «Vacci piano. Prima devi inviarle un curriculum. La signora viene quattro volte alla settimana al negozio per comprare fiori freschi per il suo ufficio, quindi ormai la conosco bene e le ho parlato molto positivamente di te. Infatti è ansiosa di conoscerti. Se giochi bene le tue carte, ti sei praticamente sistemata!»

Non potevo crederci. Avevo già l’opportunità di riprendere a lavorare. E non avrei faticato come un mulo, subendo le angherie e i soprusi di Ilva! «Certo non si tratta di un lavoro d’ufficio, me ne rendo conto» mi stava dicendo Giuditta. «Non sarà il massimo, ma è pur sempre qualcosa!» mi disse. «E poi, dopo che abbiamo fatto gavetta con Ilva, quanto terribile potrà essere?» Ridemmo. «Ma scherzi? Giuditta, sei un tesoro! Non so come ringraziarti!» le dissi felice. «Nessunissimo problema. Te l’avevo promesso, no?» Ci salutammo e felice corsi a dare la notizia alla mia famiglia. Era tutto, tutto perfetto! L’ultimo dell’anno lo ai a casa di Caterina a preparare le nozze. Mia cugina era raggiante, ed era più bella del solito. Aiutai mia zia e all’una del pomeriggio corsi dal parrucchiere per acconciarmi i capelli. «Cosa facciamo alla nostra testimone?» mi chiese. «Meches?» Mi guardai un attimo allo specchio. Al diavolo! «No. Tingi. E taglia» dissi decisa. Al mio parrucchiere salirono agli occhi lacrime di pura allegria. «Gioia! Così si fa! Cosa facciamo?» «Un colore deciso» mi guardai attorno in cerca dell’ispirazione. Vidi un’immagine di una modella su una rivista che stava sfogliando una signora anziana vicino a me. «Rosso!» annunciai con fervore. Il mio parrucchiere ebbe un cedimento per l’emozione. «E li tagliamo come? Una spuntata come al solito?»

«Assolutamente no. Stavolta si fa sul serio» gli dissi con un’occhiata di fuoco ardente. «Fammi un taglio corto. Asimmetrico, magari. Oppure corti dietro e un po’ più lunghi davanti. E comprerò anche una di quelle piastre minuscole in ceramica, così saranno sempre liscissimi» dissi fiera. Questo era davvero troppo per il mio parrucchiere. Credetti che scoppiasse a piangere, tanto era eccitato. Quando uscii dal salone ero irriconoscibile. Mi sentivo stupenda. E quando un ragazzo per strada si voltò sorridendomi con apprezzamento, mi sentii fighissima! Alle sei tornai con i miei a casa di mia cugina. Il matrimonio sarebbe stato alle sette, ma prima ci avventammo sul buffet. Quando entrai, collezionai una bella serie di occhiate. «Angela! Mio Dio, sei bellissima! Caterina è in camera mia che si veste. Non posso credere che la mia bambina si sposi!» si emozionò mia zia. Lasciai mia madre a consolarla, e bussai lievemente alla porta della stanza da letto di mia zia. «Avanti» mi invitò Caterina. Quando entrai rimanemmo l’una a fissare l’altra. «Cate… sei… meravigliosa» mi commossi. Mia cugina aveva scelto un abito semplice, color panna, che le avvolgeva il corpo come una tunica greca. La gonna svasata le formava un leggero strascico e in testa aveva una graziosa fila di perle con un velo delicatissimo che le scendeva fino a terra e formava un secondo strascico molto più lungo della gonna. Non le nascondeva la pancia, anzi: la metteva in mostra con riservata dolcezza. Siccome faceva un freddo boia, per completare il tutto aveva preso una calda mantella di lana bordata di pellicciotto. Era bellissima. «Stai benissimo anche tu» mi fissò a bocca aperta. Il mio nuovo taglio tinto di rosso era strepitosamente in contrasto con l’azzurro del vestito a taglio impero, che aveva ampie maniche che terminavano in un polsino stretto, le coppe mi sostenevano il seno che avevo rinunciato a nascondere. Tanto si sarebbe visto anche con un burqa! Aveva un sottile filo di perle e pietre di tutte le sfumature del blu e dell’azzurro che contornavano il decolleté, e da lì, in un tripudio di tulle e organza, partiva la gonna che arriva

fino ai piedi, ai quali avevo calzato delle belle ballerine in tinta con la borsetta. So che forse avrei dovuto mettere dei tacchi alti, ma a parte il fatto che con le mie caviglie da rinoceronte sarei parsa ridicola, non avrei sopportato la tortura del tacco per tutta la serata, quindi mi ero detta: ma chi se ne frega! «Mi ruberai la scena!» disse Caterina abbracciandomi. «Attenta, potrei macchiarti l’abito con il fondotinta» le dissi scostandomi. Non volevo piangere, altrimenti l’eye-liner avrebbe creato un bruttissimo effettopanda. Rimanemmo lì emozionate, mentre un fotografo scattava all’impazzata dandole istruzioni assurde per arrivare allo scatto perfetto. «Sdraiati. Più a destra! Girati. Cammina. Fa’ un triplo salto mortale. Più in alto! Arrampicati sui muri come un geco. Adesso sputa fuoco blu dalle narici». Decisi che, se mai mi fossi sposata, le fotografie le avrei fatte scattare con la digitale a turno dai miei parenti! Finalmente alle sette uscimmo di casa e ci avviammo in chiesa. La cerimonia fu abbastanza veloce per essere un matrimonio. Alle otto e mezza eravamo già fuori che sommergevamo di riso gli sposi, poi partimmo alla volta del parco dove la nuova coppia avrebbe fatto il book fotografico sfidando il buio e il freddo del trentuno dicembre. Devo ammetterlo, fu estenuante. Mia cugina mi affidò il compito di creare i vari gruppi di parenti affinché tutti si fero le foto con gli sposi e, se con la mia famiglia fu semplice, per quella di Giacomo fu impossibile. Un po’ perché non li conoscevo affatto e un po’ perché erano così tanti che per inserirli tutti il fotografo fu costretto ad allontanarsi considerevolmente. Inoltre la fame iniziava a farsi sentire, soprattutto per la sottoscritta che, a parte un panino a pranzo, non aveva avuto tempo di mettere nient’altro nello stomaco. Finalmente alle dieci eravamo al ristorante pronti per la cena, che si protrasse all’infinito. Festeggiammo la mezzanotte tutti insieme e fu molto emozionante, se devo essere sincera. Abbracciai tutti e sorrisi molto. Mi stavo divertendo davvero, e mia cugina era al settimo cielo. Quello era il suo giorno, e se era contenta lei, lo ero anche io. Inoltre il fatto che dessi il benvenuto al nuovo anno in un’atmosfera così festosa e genuinamente allegra, non so, era di buon auspicio per me! Alle quattro di mattina i parenti erano andati via, ma mia cugina aveva ancora energia da vendere, così i neo sposi, i loro amici, e io andammo in un locale vestiti ancora a festa a bere qualcosa tra noi giovani. Entrammo con mia cugina ancora vestita con l’abito nuziale.

Il Carrà. Trattenni un sorriso. L’ultima volta che ero stata lì avevo fatto l’amore per la prima volta con quel ragazzo gay gentile. Eros. Sedemmo a un tavolo e cercammo di fermare un cameriere per ordinare dello champagne, che mia cugina ovviamente non avrebbe bevuto, ma non c’era nessuno che fosse a nostra disposizione. Stizzita mi alzai. «Dove vai adesso?» mi chiese Caterina ridendo. «A prendere lo champagne» annunciai. «E dove lo prendi?» mi chiese un amico di Giacomo. «In cucina, ovviamente». Mi avviai verso le scale di servizio. Fino al giorno prima non mi sarei mai azzardata a fare una cosa simile: scendere fino alle cucine e rubacchiare una bottiglia di champagne, che poi comunque avremmo pagato, eh! Ma da quella sera sarebbe stato diverso. Con il nuovo anno salutavo per sempre la vecchia, insicura, timida Angela e davo il benvenuto alla nuova, adulta, sicura di sé, intraprendente Angela! Sarebbe andato tutto a meraviglia, ne ero certa. Solo che non riesco a trovare la cucina. Dove cavolo sarà? Ma perché c’erano tutti quei dannati corridoi? Voltai a destra, poi a sinistra, entrai in un paio di porte fino a raggiungerne una abbastanza grande, di ferro. La aprii e mi ritrovai in una cantina. Se non altro c’è lo champagne. Sbam! La porta si chiuse, facendomi sobbalzare. Mi voltai tentando di riaprirla, accorgendomi con terrore che si apriva solo dall’esterno. Ero bloccata.

28.

Lui

I giorni successivi li ai in compagnia di Raffaele. Sembrava che, dopo la nostra lite, volesse farsi perdonare il giorno e mezzo che avevamo ato senza sentirci, perché fu dolcissimo in ogni secondo. Mi chiese cosa volessi fare per Capodanno e, non volendo rovinargli eventuali progetti, decisi di lasciargli libero arbitrio. «Decidi pure tu» mi disse lui. «Io non impazzisco per il Capodanno. Per me è una giornata come un’altra. Fosse per me, andrei a dormire alle nove» mi sorrise. Nonostante avessi il permesso di are la fine dell’anno con i miei amici solo da pochi anni, questo festeggiare a ogni costo mi aveva già scocciato. Non sei libero di fare nient’altro che are la serata in qualche discoteca, o locale, comunque non ti è concesso trascorrerlo per i fatti tuoi senza essere visto come un mostro. Devi per forza salutare la fine dell’anno e dare il benvenuto a quello che arriva e, per assicurarsi che tu esca la sera del 31 dicembre, ti fanno una specie di lavaggio del cervello. Però avevo ventidue anni e non mi andava di stare a casa perché mia madre sarebbe sicuramente uscita, vista la sua nuova attivissima vita sociale, e mia sorella, anche in assenza di quel buono a nulla di Benny, avrebbe di certo ato la serata con le sue amiche. In effetti aveva parecchie festività da recuperare, visto che Benny la costringeva a casa con lui o al massimo con i genitori! Che trasgressione! Non avanzai l’ipotesi di partire, visto che le mie finanze erano ancora in deficit dopo il viaggio a Parigi. Non avevamo pagato un albergo, ma comunque quando uno viaggia spende sempre più dell’ordinario! E il mio armadio pieno ne era la prova lampante.

«Conosci qualche locale qui intorno?» mi chiese Raffaele. «O preferisci partire? Per me è lo stesso». «No, guarda. Dopo la Francia ho deciso che, economicamente parlando, le uscite non dovranno superare le entrate, sai com’è». Senza contare che la sera di Capodanno, ovunque vai, ti fanno pagare il quadruplo del normale. «Se vuoi possiamo are la serata a casa mia, e poi andare in qualche locale» propose. Ci pensai un attimo: salutare l’anno nuovo a letto con Raffaele era allettante. «Aggiudicato» gli dissi. «Sì, ma senza cucinare l’impossibile» mi ammonì. «Niente di niente. Magari ordiniamo una pizza». «O magari la facciamo noi! Dai, che ci divertiamo» mi diede una pacca sul sedere. Così il pomeriggio del 31 dicembre lo ammo al supermercato, cercando di comprare il necessario per preparare la pizza. Inutile dire che finimmo per acquistare molto altro, oltre gli ingredienti: patatine, bevande, M&M’s, caramelle, e una quantità di roba da mettere sulla pizza spaventosamente superiore a quella che avremmo potuto impiegare anche se l’avessimo preparata per dieci persone. Io mi ero portato il cambio dentro lo zaino delle superiori, che d’estate usavo per andare al mare. Avevo preso il necessario per rendermi presentabile dopo cena, in vista dell’uscita. ammo la serata a preparare la pizza, facendo arrivare la farina in ogni dove. «Qui dentro è un macello» feci notare a Raffaele, mentre infornava la pasta. «Lo so, ma per il momento non voglio pensarci» mi disse, facendo finta di svenire. «Domani ti aiuto a pulire».

«È una scusa per indurmi a chiederti di rimanere a dormire da me?» «Sissignore». «Allora è deciso. Io ti offro ospitalità, e tu in cambio mi aiuti a dare una sistemata». La pizza fu un disastro. Mai mangiata una roba del genere. Aveva un sapore orribile, sapeva di plastica. Io e Raffaele ci guardammo schifati e scoppiammo a ridere l’uno per la faccia dell’altro. «Oddio, è immangiabile» disse Raffaele inghiottendo a fatica un boccone. «È vero. Fa schifo». «Dove abbiamo sbagliato?» Raffaele stava controllando gli appunti. «Non lo so. Dove hai preso la ricetta?» «Me l’ha data un mio collega». «E lui dove l’ha presa? Da qualche concorrente incazzato di Masterchef?» «Credo da internet». «Non è che magari voleva avvelenarti?» «Possibile. L’altro giorno ho rovesciato una lattina di coca-cola nel camion che di solito guida lui». Gettammo quella che doveva essere pizza nella pattumiera. «Bè, suppongo che ci tocchi prendere un panino al volo quando usciamo» mi disse lui. «A quest’ora è tutto chiuso, o prenotato. E non mi va di cucinare altro». C’era sempre un paninaro che posteggiava a poche vie di distanza da casa di Raffaele. Sicuramente avremmo mangiato roba non del tutto salutare, ma a confronto di quella pseudo-pizza, potevamo quasi dire di mangiare in un ristorante di lusso. Andai in camera di Raffaele per cambiarmi. Mi ero appena tolto i pantaloni, quando lui mi fece spaventare abbracciandomi da dietro.

«Bene, bene, bene! Un ragazzo semi nudo in camera mia» mi baciò sensualmente il collo. «Un ragazzo mezzo nudo in camera tua, al quale hai quasi fatto venire un infarto» specificai. «Devi essere rianimato, quindi» mi disse, continuando ad accarezzarmi ovunque. Mi spinse sul letto dove, senza rendercene conto, facemmo mezzanotte. «Buon anno» mi disse lui, ansante, baciandomi. «Anche a te, amore». Andammo sotto la doccia per darci una sistemata, e lì facemmo il bis. Poi ci preparammo, continuando a ridere per ogni stupida battuta. Dopo un’ora lui era già stravaccato sul divano, in attesa che anche io finissi di prepararmi, ma io ero ancora davanti allo specchio che mi sistemavo i capelli. Ogni cinque minuti si affacciava e mi sbuffava indicando l’orologio. In effetti erano quasi le due di notte. In fretta e furia uscimmo di casa e ci fermammo dal paninaro dove trangugiammo un mega panino con cotoletta, pomodoro e una quantità industriale di maionese, e bevemmo coca-cola. Poi ripartimmo alla volta del Carrà, che Raffaele aveva solo sentito nominare. «Ma davvero non ci sei mai stato?» «No, te l’ho detto. A me le discoteche non piacciono molto» fece spallucce. «Ma questa è diversa. E poi è più un pub che una discoteca». «Sarà. Per me sono tutte uguali». Alle tre di notte eravamo dentro il locale che come ogni Capodanno era stupendo e festoso. Prendemmo posto a un tavolino minuscolo, miracolosamente libero, e ordinammo da bere. Stavamo ridendo per l’ennesima battuta scherzosa, quando una ragazza ci sbatté contro. «Scusa». «Di niente» mi voltai.

Elisa. Rimanemmo in silenzio, fissandoci per un tempo che mi sembrò interminabile. Poi Alessandro si avvicinò, e ci strinse la mano. «Buon anno! Come state?» Io non lo guardai, impegnato com’ero a fissare Elisa che sembrava tra l’imbarazzata e la seccata. La cosa mi fece innervosire un po’: non ci vediamo da un secolo, e tu mi fai la scocciata? Ma adesso ti sgozzo! Alessandro e Raffaele iniziarono parlare come se avessero ripreso un argomento lasciato in sospeso pochi minuti prima, probabilmente per lasciare il tempo a me ed Elisa di chiarire. «Credevo doveste partire per Milano» dissi a Elisa, rompendo il silenzio. «È così. Ma tra un mese». «Capito». «Sì». «Già». Fine del discorso. Possibile che avessimo esaurito le cose da dirci? Avevamo ato ore e ore al telefono, o chattando al computer dicendoci di tutto, anche cose senza senso. E adesso era tutto finito? Una lite, anche se accesa come la nostra, può davvero mettere fine a tutto quello che costruiscono due persone in anni e anni di amicizia? «Ma ti scoccia davvero che parta?» mi chiese all’improvviso. Spiazzato, mi guardai intorno alla ricerca di un appiglio. «Carina la musica stasera» dissi. «Eros, non fare il cretino» mi riprese lei. Io la guardai sospirando.

«Ma no. Non è la tua partenza che mi secca. È che so che una volta trasferita non avrai più tempo per me». Lei mi guardò. «Ma non è vero! Io avrò sempre tempo per te». «E come farai? Cioè, voglio dire. Quando sarò triste e avrò bisogno di qualcuno che mi consoli come hai sempre fatto tu, come verrai da me? Prenderai il treno e correrai ad abbracciarmi? Il tempo di fare sei ore di treno, e io starò già bene» le dissi. So che state pensando: che mi stavo comportando come un bambinetto viziato e idiota, che fa i capricci perché la mamma deve partire per un po’ di tempo e non vuole essere lasciato solo. Ne sono consapevole anch’io, attualmente. Ma in quel momento, in quel posto, con Elisa davanti a me stupenda nel suo abitino mozzafiato, dirle quelle cose mi sembrò appropriato! «No, non verrò da te. Rimarrò a Milano. Ma esistono i telefoni. Esistono internet, le chat, la webcam». Io sbuffai. «Allora è meglio che tra noi due finisca qui, piuttosto che provare a rimanere amici a distanza! È questo che vuoi?» mi chiese lei con voce tremante. «Quello che voglio è che tu rimanga mia amica!» «Il fatto che lei parta non vuol dire che smetterà di essere tua amica» mi fece notare Raffaele. Io gli lanciai un’occhiata truce, lui abbassò lo sguardo tornando a parlare con Alessandro che era rimasto saggiamente in silenzio. «Ha ragione» disse Elisa. «Tu lavorerai, ti farai una vita spaventosamente eccitante a Milano. Ti farai nuovi amici che potrai avere fisicamente accanto. Io e te invece potremo sentirci solo al telefono, o con internet».

«Ma la nostra amicizia è speciale!» mi interruppe lei. «Cazzo Eros, abbiamo già ato momenti senza sentirci, e adesso fai storie perché non potremmo vederci spesso come abbiamo sempre fatto? E poi io qui ho la mia famiglia, oltre che te. Credi che non tornerò mai più? Senza contare che tu lavori, mio caro, e potresti anche spendere quei cento euro per venirmi a trovare in treno una volta ogni tanto! Mi rifiuto di credere che sei così immaturo, e mi rifiuto di credere che vuoi continuare a tenermi il muso. So che anche io ho avuto la mia parte in quello che è successo, e ti chiedo scusa. Lo sai che sono orgogliosa. Ma adesso lasciamo che tutto vada a posto. Non pensavo quello che ti ho detto, e so che lo stesso vale per te, quindi perché non ci buttiamo tutto alle spalle?» Aveva ragione. Ma una parte di me sapeva perfettamente che qualcosa nel rapporto tra me ed Elisa si era incrinato. Le cose che ci eravamo detti non erano piccole parolacce che uno poi dimentica, e se era vero che non pensavamo totalmente quello che ci eravamo detti, in fondo in fondo sapevo che c’era un fondo di sincerità. Pensavo ancora che la carriera di Elisa come modella fosse finita prima ancora di iniziare, e mi dispiaceva che partisse. E sicuramente anche lei pensava che ero infelice e noioso. Era così, tutto finisce, anche le cose più belle. La mia amicizia con Elisa era stata una roccia, un porto sicuro, un rifugio confortevole ogni volta che le cose intorno a noi si facevano minacciose. Un po’ come l’abbraccio della mamma quando di notte da piccolo avevi paura del mostro sotto il letto. Però poi cresci, non hai più paura del buio, e ricordi quegli abbracci consolatori con affetto. Ma sai che appartengono al ato. Elisa sarebbe partita, con o senza la mia benedizione. Avrebbe vissuto a Milano con il suo ragazzo, e nulla di quello che potevo dire o fare avrebbe cambiato la realtà. Io, da buon amico, potevo solo augurarle buona fortuna e ogni felicità. È vero, ci saremmo sentiti, ma sapevo che sarebbe stato diverso. Sapevo che ci saremmo allontanati, com’era inevitabile che accadesse, sempre se non era già accaduto. «Hai ragione» scossi la testa. «Hai ragione tu. Non voglio che parti con la tristezza nel cuore» le dissi, abbracciandola. In fondo, forse, anche Elisa era giunta al mio stesso ragionamento, o forse no. Ma non volevo infrangere l’illusione che tutto sarebbe stato come sempre. ammo la serata a chiacchierare. Con un po’ di freddezza all’inizio, ma poi le cose tornarono pian piano come prima, anche se tra noi due si avvertiva un sentore di malinconia. «Che ore sono?» chiese Elisa.

«Le cinque» disse Alessandro. «Andiamo a casa?» mi chiese Elisa. Io le sorrisi. «Sì, ma prima faccio un salto al bagno». «Non puoi aspettare che torniamo a casa?» mi chiese Raffaele. «No, perché ho bevuto un sacco di bibite!» Elisa rise. Mi alzai dal tavolo e raggiunsi la toilette per gli uomini facendomi largo tra quelli che ancora persistevano all’interno del Carrà, ostinandosi a festeggiare il nuovo anno. Ma a quell’ora che ci faceva tanta gente in fila? C’era da aspettare almeno mezz’ora! E io e la mia vescica non potevamo attendere tanto. Valutai l’ipotesi di andare nella toilette delle ragazze. Del resto mi era già successo altre volte di farci una scappatina quando il bagno degli uomini era occupato. Ma notai con disappunto che c’era ancora più fila. Ragiona Eros! La vescica stava per scoppiare e avevo bisogno di un bagno al più presto. Dove ne avrei trovato uno? Al piano di sotto, vicino alla cantina! Dove sono le cucine! Tombola! Mi avventai per le scale, dove non incontrai nessun cameriere che mi avrebbe rimandato sopra. Trovai il bagnetto che cercavo e scaricai la mia ansia, per così dire. Quando uscii mi resi conto che non avevo idea di come ero arrivato lì, in quel dedalo di corridoi. E mo’? Imboccai il corridoio a destra e spinsi la prima porta che mi sembrava avesse un’aria famigliare. Non feci in tempo a entrare che mi resi conto che avevo sbagliato, quella era la cantina. Stavo per andarmene quando… Sbam! La porta si chiuse. Tentai di riaprila, ma niente. Era bloccata. Ed era immensa per sfondarla.

«Oh cazzo!» Ero bloccato.

29.

Lei

Oh porca vacca! E mo’? All’improvviso mi salirono alla mente agghiaccianti scene di me intrappolata a vita in quel seminterrato. Immaginai che dopo anni e anni qualcuno venisse ad aprire, trovando uno scheletro vestito con un immenso abito azzurro pensando: «Sicuramente questa era una femmina, ed era pure grassa!» Non voglio che si sappia che ho qualche chilo in più! Poi pensai che prima di morire avrei perso peso, no? Avrei sicuramente sofferto la fame. Ma che cazzo penso? Cercai disperatamente di aprire la porta, ma niente. Era decisamente chiusa. Ma perché diavolo una cantina non dovrebbe aprirsi dall’interno? Era una cosa ridicola! Frustrata, sferrai un calcio, con il risultato che mi feci male. «Va’ al diavolo» imprecai. «Chi c’è?» sentii una voce allarmata. Mi prese quasi un accidente. «Chi sei tu!» chiesi spaventata. Ero bloccata con un maniaco? Adesso mi avrebbe seviziato e poi ucciso barbaramente? «Te l’ho chiesto prima io» obbiettò l’interlocutore.

Un attimo dopo eccolo uscire da dietro una serie di scaffali. Poi ditemi voi se a volte il destino non tira strani scherzi. «Eros!» urlai. «Chi sei?» chiese lui guardandomi con curiosità. Volli credere che non mi avesse riconosciuta per via del nuovo taglio, il colore dei capelli, il vestito e il trucco, e non perché mi aveva completamente dimenticata. Sennò l’avrei ammazzato. Tanto chi ci avrebbe trovato più? «Spero che tu non abbia già dimenticato la nostra prima notte insieme nella tua macchina, al parcheggio qui fuori. Sarei davvero molto offesa» gli dissi. Lui sgranò gli occhi. «Oh mio dio! Non ci credo!» si mise a ridere. «Ma stai benissimo!» si avvicinò e mi abbracciò. Ricambiai la stretta con felicità. «Ma guardati. Sei uno schianto!» mi disse. Io mi sentii molto lusingata. «Anche tu stai bene». Poi realizzai dove eravamo. «La porta! È chiusa. Come cavolo sei finito qui dentro?» gli chiesi. Mi ci era voluta una vita per arrivarci, ed ero finita lì perché mi ero persa. Lui doveva essere anche più frana di me! «Sono venuto al bagno qui sotto perché sopra c’era troppa fila. Poi non ho ritrovato la strada per tornare su» mi spiegò brevemente. Quindi accennò alla porta. «È chiusa, sì. Stavo controllando se ce n’era un’altra di servizio, ma niente» disse lui, d’un tratto triste.

Io sbuffai. «Da quanto tempo sei qui?» gli domandai. Lui guardò l’orologio. «Cinque minuti» mi disse. «Ma non preoccuparti. I miei amici lanceranno l’allarme» mi fece l’occhiolino. «Sì. Probabilmente anche mia cugina. Se non altro perché stanno aspettando dello champagne con impazienza» gli dissi. Feci qualche o dentro la cantina e adocchiai delle sedie impilate l’una sull’altra. Ne schiodai una e sedetti, accavallando le gambe. «Tanto vale metterci comodi. Immagino che non hai con te un cellulare» gli dissi. Lui scosse il capo. E ti pareva. Pensai all’assurdità delle circostanze. Tornavo dopo tantissimo tempo al locale dove avevo concesso me stessa a quel bel ragazzo dalle movenze aggraziate, ed eccomi seduta lì. Vestita di tutto punto, con un bel taglio di capelli moderno, a festeggiare il matrimonio di mia cugina incinta, reduce da un licenziamento e dalla fine del mio primo rapporto sentimentale. Se qualcuno me l’avesse detto allora, non ci avrei creduto. Scoppiai a ridere. «Cosa c’è?» mi chiese Eros. Forse pensava che stessi impazzendo. Magari pensava che se mi fosse venuta fame, l’avrei sbranato come una Fiesta gigante. «Niente, pensavo a com’è strana la vita. Quante probabilità c’erano che finissimo entrambi chiusi qui dentro?» sorrisi. Lui scrollò le spalle e si mise comodo su una sedia, vicino a me. «Non molte, in effetti».

Io lo guardai. Era proprio bello. Peccato che non gli interessassero le ragazze! O meglio, se ricordavo bene, mi aveva detto che sarebbero potute interessargli quelle alte, bionde, con le tette grandi, esperte a letto, un po’ come quella contro cui stava urlando quel giorno al centro commerciale. A quel punto ricordai l’episodio. Scattai in piedi. «A proposito! Perché al centro commerciale non mi hai salutata?» lo aggredii. Eros si appiattì sulla sedia spaventato. «Quando?» squittì. «Quel giorno al centro commerciale! Mi hai guardata in maniera cattiva e fredda» lo accusai. Lui mi osservava come se non capisse di cosa stessi parlando. «Non ti ricordi?» lo spronai. Qui le cose erano due: o stava recitando, e a quel punto l’avrei steso con una mossa di thai-chi-chuan, oppure era sincero e non aveva idea di cosa stessi parlando. «Non ti ricordi?» gli chiesi un po’ meno aggressiva. «No davvero. Di cosa stai parlando?» adesso Eros sembrava un tantino più rassicurato dalla mia espressione più dolce. «Quel giorno al centro commerciale» ripetei ancora. «Io ero uscita un attimo dal negozio dove lavoro, o meglio, dove lavoravo, e tu eri con quella che credo sia tua madre. Stavate…» mi schiarii la voce imbarazzata. «Stavate urlando con un uomo e una ragazza un po’… ecco, appariscente». Guardai in basso, impacciata. «Ah, sì» disse Eros dopo un po’, con voce dura. Io lo guardai. «Mia madre e mio padre. Che classe, eh? Litigare così in pieno centro

commerciale» arrossì. «Ma no, io…» «Lascia stare, guarda». E mi raccontò dei suoi genitori. Del divorzio, del dispetto che sua madre aveva fatto all’ex marito e della strana situazione famigliare che pian piano stava tornando a un minimo di normalità. Io lo ascoltai senza dire nulla. «Bè, e a parte questo, come ti va la vita?» gli chiesi. «Bene» disse lui un po’ triste. «Bene, bene?» insistetti. Lui mi guardò un attimo, poi scosse il capo sconsolato. «La mia migliore amica sta per trasferirsi. Se ne va a Milano con il suo ragazzo. Vuole fare la modella da una vita, e crede che lì sfonderà» mi disse. «Tra l’altro, ci siamo appena riappacificati dopo una lite tremenda» puntualizzò. «E ti fa soffrire separarti da lei, vero?» indovinai. Lui annuì. «Se vuoi sapere quello che penso, credo che dovresti metterti l’anima in pace» gli dissi calma. D’un tratto mi sentivo saggia e matura. Lui mi guardò con le sopracciglia alzate, come se non credesse a quello che aveva sentito. Io non ci badai, e andai avanti. «Se fossi davvero suo amico, la appoggeresti a prescindere da tutto. Anche se la cosa ti fa stare così male che al solo pensiero ti senti morire, dovresti comunque darle il tuo sostegno incondizionato. È quello che fanno gli amici. Si danno una mano. Si comprendono e si vogliono bene» gli dissi. Lui mi guardava accigliato, senza dire nulla. Sembra incazzato?

«E tutta questa saggezza improvvisa sui rapporti umani da dove ti esce? L’ultima volta che ci siamo visti non mi sembrava che avessi questa grandissima vita sociale» mi apostrofò brusco. È incazzato. Io lo guardai allibita. «Ehi! Volevo solo darti un consiglio, datti una calmata!» lo ripresi. «Ma chi ti ha chiesto niente?» alzò la voce lui. Io mi alzai, troneggiando. «Senti tesoro, non avrò tantissime amicizie, ma a quanto pare ho centrato il punto, perché se fossi sicuro che non ho ragione, non ti arrabbieresti come un bambinetto immaturo!» Lui si alzò a sua volta, ma non poteva competere con la mia mole. «So benissimo che tra amici ci si dà una mano, ma credi che sia facile veder partire quella che è stata la tua migliore amica praticamente da quando sei in vita?» mi disse cattivo. «Hai mai avuto un’amicizia simile?» aveva le lacrime agli occhi. Mi fece così tenerezza che mi calmai al volo. «No, mai» confessai. Pensai a Caterina e a quello che avrei provato se avesse deciso di andare via. «In pratica ho solo mia cugina. Però so come mi comporterei con quei pochi amici che ho. E non capisco come tu non possa farlo per quella che dici essere la tua migliore amica da quando sei in vita». Ci guardammo in cagnesco per un po’, poi lui stramazzò sulla sedia prendendosi la testa tra le mani. «È così fottutamente difficile!» si lagnò. «Eh, lo so».

«È così brutto quando ti rendi conto che una cosa sta finendo!» «Ma non è detto che la vostra amicizia finisca» lo psicoanalizzai. Dio mio, come sono matura! Forse sarei potuta andare all’università e diventare una strizzacervelli! Chissà che non avrebbe fatto bene soprattutto a me. «Ma non sarà più lo stesso. È inevitabile che sia così. Ed è questo che mi rende triste, la consapevolezza che stia finendo un periodo importante della mia vita». «Eh, tesoro» risi amaramente. «Lo dici a una che ha una certa esperienza» gli dissi sedendomi vicino a lui, e andogli un braccio intorno alle spalle. «Ma è così. Si cresce, si matura. E si è costretti a comportarsi da persone adulte». Lo dissi più a me stessa che a lui. Eros mi guardò. «Tu sei diventata più adulta da quando ci siamo incontrati?» mi chiese ironicamente. «Allora, vediamo» feci finta di pensarci. «Da quando ci siamo incontrati ho conosciuto un ragazzo, ho fracassato una vetrinetta, come non ha importanza, mia sorella si è sposata, la mia collega di lavoro si è licenziata, poi hanno assunto un’altra ragazza, una brasiliana che mi odiava almeno quanto la mia responsabile. Poi mia cugina è rimasta incinta e mi ha detto che si sposava, ho scoperto che il mio ragazzo mi metteva un sacco di corna, tra cui con la mia responsabile di lavoro che, avrai capito, è uno degli esseri più odiosi al mondo. Così nell’arco di poche ore ho picchiato lui, lei, ho mollato tutto, e sono salita su un aereo per l’Austria, dove sono stata cinque giorni completamente sola a camminare nella neve». Lo guardai sorridendo. Lui aveva la bocca aperta. «Adesso però sono felice» puntualizzai. «Sono tornata dall’Austria e ho deciso che dovevo crescere. E non facendo sesso con un completo estraneo gay». Risi. «Senza offesa».

«Nessuna offesa» mi assicurò Eros. «Mi sono tagliata i capelli e li ho tinti. Sarà sciocco, ma mi fa sentire diversa. Adesso la mia ex collega mi ha procurato un colloquio di lavoro, mia cugina si è sposata e sono qui per questo, e sono sicura che potrò farmi nuovi amici se smetto di essere timida e introversa. E magari potrei anche vestirmi un pochino meglio e truccarmi» lo guardai in cerca di conferma. Eros annuì. «Di tanto in tanto» dissi poi. Eros si mise a ridere. «E una dieta?» Stronzo. «Adesso non esageriamo!» lo ripresi. «Pardon» mi sorrise. «Bè, certo che se ti ci metti, sai essere tutt’altro che timida e introversa, eh?» mi disse. «Già». Eros rimase in silenzio per un po’. «Hai ragione, sai? Devo lasciar andare Elisa. Tra amici si fa così». Io gli diedi una pacca d’incoraggiamento. «Bravo ragazzo!» «Magari potrei partire anche io per l’Austria» propose. «Gli austriaci sono un sacco carini, no?» Io risi. «Se vuoi ti do il nome dell’albergo dove sono stata. C’era un cameriere niente male».

«No, scherzavo. E poi adesso sono fidanzato!» mi annunciò. «Davvero? Complimentissimi! È un ragazzo, o sono così sexy da averti fatto cambiare registro da quella sera?» «Indubbiamente sei molto sexy». Gli diedi uno schiaffo sul braccio fingendomi offesa. «Ma no. È un ragazzo. Mi ha portato a Parigi e mi ha chiesto se volevo mettermi con lui sotto la Torre Eiffel». «Stucchevole». «Vero» rise di nuovo Eros. «Ma molto romantico. Effettivamente l’unica cosa brutta della vacanza è stato dover dormire con la gente che ava fuori dalla stanza a qualsiasi ora del giorno e della notte» commentò pensieroso. «In che senso, scusa?» «Siamo stati ospiti dalla zia di Raffaele. Raffaele è il mio ragazzo. E lei abita in una grandissima palazzina bohémienne, dove tutti vivono senza portoni di casa» spiegò. «Cosa? Oh cielo!» Pensai a come doveva essere non poter girare per casa in biancheria, per non essere perennemente visti. Ma poi pensai anche che, se erano hippy, probabilmente vedersi in biancheria intima era l’ultima delle cose che avrebbe potuto scandalizzarli. Magari era quello che mi ci voleva, invece. Totale libertà. Allargare i miei orizzonti. Ma poi pensai che se avessero visto me nuda, avrebbero finito per chiamare la forestale denunciando un ippopotamo che scorrazzava libero per casa! Meglio di no, va. Dal piano di sopra ci arrivò il suono di una musica famigliare. Io ed Eros ci guardammo e scoppiammo a ridere, mentre Raffaella Carrà cantava che se fosse caduto il mondo, lei si sarebbe spostata un po’ più in là.

«La nostra canzone!» mi abbracciò Eros. «Però ti prego, non chiedermi di fare di nuovo l’amore con te» gli dissi. «No tranquilla. Adesso sono a posto!» mi fece l’occhiolino. Strano a dirsi, ma quella serata si stava concludendo nel migliore dei modi: bloccata dentro una cantina con Eros che tamburellava il dito sul ginocchio a ritmo di musica. «Che faresti se per caso cadesse il mondo?» gli chiesi sorridendo. Anche lui sorrise. «Afferrerei Raffaele e lo terrei stretto» mi disse lui stiracchiandosi sulla sedia. «Tu invece cosa faresti se per caso cadesse il mon…» Non finì la frase, perché fummo interrotti dal suono della porta che si aprì facendo entrare due camerieri, seguiti da un ragazzo piuttosto attraente e Giacomo, il marito di mia cugina. «Eccovi!» esclamò concitato il ragazzo attraente. «Calma Raffaele. È tutto ok» disse Eros. Così quello era il suo ragazzo. Santa Madre! Insieme erano una coppia bellissima. Tutti e due alti ed eleganti. Ma perché io non posso trovarne uno che assomigli anche solo alla metà di uno di loro due? «Va tutto bene?» mi chiese Giacomo apprensivo. «Ma sì, è tutto ok». Raccontammo come eravamo finiti lì sotto. «La porta è rotta. Non usiamo più da un po’ questa cantina. Del resto non abbiamo pensato di mettere un cartello per avvisare» disse un cameriere, avendo

il buon gusto di tralasciare che io ed Eros non saremmo dovuti essere lì. «Ok, adesso andiamo a casa. Che ne dici?» propose Raffaele a Eros. «Benissimo» gli sorrise lui adorante. «Andiamo via anche noi? Caterina inizia ad accusare la fatica. E non le fa bene stancarsi così al sesto mese di gravidanza» disse Giacomo. «Hai ragione. Andiamo». Percorremmo il dedalo di corridoi, porte e salimmo le scale, fino a tornare nella sala da ballo, dove c’era meno gente. Mi voltai per salutare Eros, ma guardandoci non ci fu bisogno di parole. Ci sorridemmo. Io mi voltai per andare via, ma lui si avvicinò e mi chiese piano all’orecchio: «Allora che faresti se per caso cadesse il mondo?» Io mi voltai, e risposi sicura: «Resterei esattamente dove sono».

IL VENTO SOFFIA DA SOLO

Un romanzo di Lorenzo Di Silvestre

(CIESSE Edizioni 2011)

Danilo è arrivato a un punto in cui può dire di avere tutto quello che ha sempre desiderato nella sua vita: un lavoro che gli piace e che ha sempre voluto, una bella famiglia unita, a volte anche fin troppo, e un’amica dalla quale non si separa praticamente mai. Tutto sembra andare per il verso giusto quando incontra Rocco, un ragazzo gentile ed educato, che si innamora di lui. A volte però, ci diamo letteralmente la zappa sui piedi, e ben presto Danilo dovrà fare i conti con le conseguenze delle sue azioni. Un racconto allegro, vivace e ironico sulla normale vita di un normale ragazzo, che, forse, deve ancora crescere.

Copyright © 2013 CIESSE Edizioni SE CADESSE IL MONDO

di Lorenzo Di Silvestre

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