Seminoles: Wild West 7 5ok70

STAGIONE 2 VOLUME 2

Stefano Di Marino

Seminoles

Racconto lungo

Prima edizione febbraio 2016 ISBN 9788865305928 © 2016 Stefano Di Marino Edizione ebook © 2016 Delos Digital srl Piazza Bonomelli 6/6 20139 Milano Versione: 1.0 Font Stardon Stencil Bold by Vernon Adams, SIL Open Font Licence 1.1

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Indice

Il libro

L'autore

Seminoles

Nella puntata precedente

Capitolo 1

Capitolo 2

Capitolo 3

Capitolo 4

Capitolo 5

Capitolo 6

Capitolo 7

Capitolo 8

Capitolo 9

Capitolo 10

Capitolo 11

Capitolo 12

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Il libro

Bucanieri e indiani ostili tra le paludi della Florida. Una missione per l’Esercito, ma anche una vendetta personale per Wild Bill e i suoi amici.

Wild Bill, Grissom e Kinnock arrivano a New Orleans per indagare su un traffico d’armi, ma presto incrociano la strada di vecchie conoscenze che possono portarli all’Oro di Coronado. Comincia una battaglia spietata tra paludi, indiani e locali notturni.

L'autore

Stefano Di Marino è uno dei più prolifici e amati narratori italiani. Viaggiatore, fotografo, cultore di arti marziali da anni si dedica alla narrativa popolare scrivendo romanzi e racconti di spy-story, gialli, avventurosi e horror. Ha scritto saggi sul cinema popolare e curato numerose collane di dvd e vhs dedicate alla fiction di intrattenimento. Per Delos Digital cura e scrive la collana Dream Force. È autore della prima stagione di Wild West.

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Nella puntata precedente

Wild Bill Hancock ingaggia un mortale duello con tre sicari pagati da Brigham Norton, l’uomo al quale ha ucciso il figlio in duello. Dopo una battaglia in una città mineraria abbandonata arrivano due vecchi amici per proporgli una missione che lo porterà lontano.

1

Lago Okeechobee, regione delle Everglades, Florida

La piroga filava tra acque limacciose, isolotti coperti di cipressi, mangrovie e canneti. I tre uomini ai remi pagaiavano senza apparente sforzo, guidati unicamente dal riflesso della luce lunare negli stagni. La notte era fonda e, dalle pozze, salivano velami di nebbia d’argento. Era diffuso un odore selvatico, misto di uste di animali e vegetazione in decomposizione. Di tanto in tanto, dalla macchia si levava un verso. Impossibile stabilire su fosse il richiamo di una fiera o un segnale umano. L’uomo seduto a poppa non si dava pena di remare. Accucciato in una posizione scomoda, controllava la natura circostante. A causa di una malattia che lo rendeva particolarmente sensibile alla luce forte del giorno, quel territorio tenebroso gli appariva, al contrario, un luogo adatto a lui. Anche se era ospite in un ambiente ostile non aveva paura. Raramente Max Donovan, l’Albino, provava una tale sensazione. Donovan era un assassino nato. La sua non era stata un’esistenza facile, ma lui l’aveva presa per la gola con la spavalda sicurezza di sapersi imporre con la violenza in ogni circostanza. L’infanzia da bambino affetto da una malattia che nessuno sapeva spiegare che gli rendeva la pelle pallida, i capelli precocemente bianchi e gli occhi piccoli e rossi, facilmente offesi dalla luce del giorno, lo avevano reso un personaggio impopolare nel Kansas dove era nato, quarant’anni prima. Rifiutato dai suoi stessi genitori, era cresciuto tra orfanotrofi e istituti religiosi dove aveva imparato quanta ferocia si può annidare nei luoghi dove esteriormente si prega e si pratica la carità cristiana. Da sempre era stato il bersaglio dei bulli, di quelli più grossi di lui, degli educatori viziosi che lo avevano considerato una facile preda. Tutti sbagliavano perché Max Donovan non era una “facile preda”. Era un cacciatore. Aveva ucciso il suo primo uomo a dodici anni con una pistola a pietra focaia, poi era scappato verso ovest unendosi a un circo nel quale aveva appreso come cavalcare, lanciare coltelli e sparare. Era fuggito con la cassa dopo aver sgozzato il capocomico. Durante la Guerra Civile era diventato ufficiale di una

milizia irregolare nordista che, con la giustificazione dell’Unione, aveva massacrato e saccheggiato lungo il confine. In quell’occasione aveva bruciato la fattoria di Hancock uccidendo le figlie e stuprando sua moglie prima di spararle un colpo in testa. Non per lussuria perché a Max Donovan non piacevano le donne. Per spregio. In seguito aveva girato lungo la Frontiera sino a farsi arruolare nelle scarne guarnigioni dell’Ovest. Qui aveva messo a segno un colpo formidabile rubando con una banda di rinnegati messicani e apaches un carico di d’oro destinato alle paghe delle guarnigioni del Texas. Ma anche in quel caso la sua strada si era incrociata con quella di Wild Bill. Si era salvato per miracolo all’assalto al Castillo del bandito che chiamavano il Monaco. Ma, da quella sfortunata avventura, Max Donovan aveva ricavato informazioni che intendeva sfruttare. Un’antica leggenda, le Città dell’Oro cercate con ossessiva determinazione nel 1520 da Esteban de Coronado su verso le regioni più impervie del Nuovo Mondo. Un tesoro favoloso del quale solo una piccola porzione era finita nelle mani del Monaco. C’era una traccia, un indicazione nascosta in un cilindro di vetro che la donna chiamata Raquel Dubois, la vedova Stoner, era riuscita a sottrarre al Castillo. Tutto ciò faceva parte di un complicato piano che si andava a intrecciare con gli affari pericolosi che Max Donovan era venuto a trattare in Florida. Assorto in quei pensieri, Donovan quasi non si accorse che uno dei tre neri che pagaiavano davanti a lui cercava di attirare la sua attenzione. Donovan si destò dai suoi sogni di ricchezza e si protese in avanti stringendo l’involto di panno che proteggeva i tre fucili a ripetizione che aveva portato con sé come campionario della sua mercanzia. Il marinaio più vicino, un creolo con la testa ricciuta annodata con fili di perline e conchiglie, indicò qualcosa sulla sponda a destra, a una decina di metri dalla loro posizione. Un fuoco. Poco più di una brace ma, nella notte scura delle Everglades, riluceva come un faro. Un sussurro atterrito ò tra i marinai. I remi furono tratti in secco e venne poi inferto un solo colpo di timone per cambiare la traiettoria della piroga. Una corrente quasi impercettibile spinse l’imbarcazione verso l’isolotto occupato da alti canneti. Qui, intorno a un piccolo ma scoppiettante fuoco, erano fermi due uomini. Al riflesso fosco delle fiamme sembravano diavoli. Erano massicci anche se di altezza inferiore dalla media degli uomini bianchi e dei “maroon”, gli

schiavi neri fuggirti dalle piantagioni nelle paludi. Indossavano larghe camice colorate serrate da fasce di stoffa cartucciere e gilet di pelle e raso. Al collo portavano medaglioni di metallo e conchiglie. Sul capo turbanti con piume di struzzo. Erano armati di mazze, machere e di vecchi fucili Long River, un modello Colt prodotto decadi prima stranamente simile a una pistola allungata. Funzionava a tamburo ed era stata l’arma migliore degli eserciti americani che si erano impegnati in una lunga guerriglia in quelle paludi tra malaria, alligatori e trappole. Dopo due guerre sanguinose iniziate durante i conflitti tra Americani, spagnoli e inglesi, i nativi di quella regione erano rimasti poche centinaia. Ma nessuno era riuscito a sottometterli. Donovan sapeva che tra la gente erano noti come Seminoles, che non indicava un gruppo etnico a sé ma un insieme di tribù che era fuggito negli anni del territorio della Florida formando un unico popolo che viveva in simbiosi con quelle acque morte. Con il tempo avevano assorbito anche gruppi di schiavi neri in fuga dalle piantagioni adottando tutti costumi e usanze simili. Tra loro si chiamavano “gli irriducibili”. La piroga accostò alla battigia sino a incastrarsi nella rena. Donovan e la sua scorta scesero con cautela, le mani sulle armi e lo sguardo attento a cogliere segnali di pericolo. Con il buio potevano essere in agguato decine di guerrieri. Donovan con il suo fardello tra le mani avanzò sino a portarsi di fronte al capo dei guerrieri, un tipo muscoloso con una cicatrice che scendeva sulla guancia destra, – Salute a te, Mikko – disse alzando la mano destra. – Salute, occhi rossi – fece l’altro con quel tono di vago timore che sempre l’aspetto dell’albino suscitava negli indiani che consideravano qualsiasi anomalia un dono degli spirti del male, da temere e rispettare. – Hai quello che hai promesso? Donovan sogghignò. Era ovvio che l’altro avesse occhieggiato il suo “pacco” sin dal momento in cui era sceso dalla piroga. – Certo. – Bene, seguimi. Il padrone ti vuole vedere.

2

In viaggio verso New Orléans

A Wild Bill Hancock i viaggi in treno non piacevano particolarmente. Per la verità le sue esperienze in merito si limitavano a tragitti su scomodi carri bestiame o vagone con dure panche di legno in compagnia di variopinti e puzzolenti emigranti diretti all’Ovest. Quella sera, però, doveva ammettere che le condizioni di viaggio erano completamente differenti. Viaggiavano su un treno di lusso con vagoni riccamente arredati, illuminati da lampade a gas coperte da elaborati paraluce di vetro verde. C’era persino un vagone ristorante frequentato da uomini d’affari con le loro eleganti accompagnatrici. Persino Kinnock, che di solito indossava abiti di tela e luridi ponchos, aveva scelto una camicia pulita, una giacca di tessuto se non pregiato di buona fattura. Anche Mike Grissom, benché in civile apparisse ad Hancock sempre un po’ fuori luogo, ricordava un damerino dell’Est. Non al punto da dimenticare la pistola, però. Si sedettero a un tavolo del vagone ristorante. Un cameriere nero in marsina servì loro ottime bistecche al sangue con salsa di piselli e patate fritte. Wild Bill declinò l’offerta del vino preferendo un boccale di birra. Si concesse qualche minuto per godersi il dolce rollio del treno nella pianura e assaggiò la prima fetta di carne. – Eccellente – ammise. – Adesso spiegatemi cosa è questa storia. Ho l’impressione che tanto lusso trovi la sua giustificazione in una situazione spinosa. – Che cosa ne sai della Florida? – domandò Grissom versandosi da bere. Lui preferiva il vino.

– Paludi, piantagioni e alligatori – replicò Hancock con noncuranza. – Più o meno hai un quadro completo. Ma anche una serie di porti e centri commerciali che ci permettono di trafficare con i Caraibi. Una terra che, in prospettiva, diventerà ricca. – Per questo il presidente Jackson si è accanito con una serie di guerre sanguinose per liberarla dai nativi? – insinuò Wild Bill. – Possiamo anche metterla così. I tempi di Jackson, del generale Zachary Taylor e del capo Osceola sono trascorsi da decenni. Erano anni di guerre contro gli spagnoli e gli inglesi che sobillavano le tribù locali contro gli americani. Giusta o sbagliata, la politica del Removal Act ha creato una nazione in via di sviluppo, come tutto il Sud degli Stati. Hancock non amava le lezioni di storia. Scambiò uno sguardo dubbioso con Kinnock e preferì tagliare una fetta di carne intingendola nel suo saporito condimento. Erano davvero mesi che non gustava un pasto del genere, tanto valeva approfittarne. Compreso che i discorsi patriottici non avevano presa sul suo amico, Grissom venne subito al punto. – Naturalmente, nel corso di questi anni, la situazione si è abbastanza normalizzata, ma ci sono due cose che devi sapere. I seminoles non hanno mai formalmente firmato un trattato con l’Unione e, malgrado siano ridotti a poche centinaia di guerrieri, hanno il controllo totale sulle paludi anche perché a loro si uniscono continuamente gruppi di Creek, di Tuscarola e Shawnee e altre tribù che fuggono dal Nord, mentre dal Sud, arrivano molti neri che non si sono adattati alla nuova vita dopo la guerra. Li chiamano i Seminole neri. Sono un formidabile esercito di bucanieri che conoscono perfettamente la loro regione di caccia. – Finché ci rimangono, non credo che facciano grosso danno. Ho l’impressione che il governo federale spenderebbe di più per bonificare le Everglades che a lasciare loro quella regione. – Esatto, ma recentemente le cose stanno cambiando. Malgrado inglesi e spagnoli abbiano lasciato il territorio ormai da decenni e tutto il Sud se sia stato ceduto all’Unione, sono rimasti attivi numerosi gruppi di mercanti creoli di

pochi scrupoli. Gente che fa affari con i nostalgici del Sud, con le potenze straniere e, più semplicemente, cercano il guadagno facile attraverso vie illegali. Recentemente il Comando ha registrato un aumento delle attività di guerriglia, di assalti alle fattorie ad opera dei Seminoles ma anche dei loro alleati bucanieri oltre i confini delle Everglades. E la cosa più preoccupante è che, a quanto pare, questi gruppi di guerra sono sempre meglio armati. – E qui veniamo al punto – intervenne il mulattiere con al bocca piena. Hancock riservò uno sguardo interrogativo al tenente Grissom. Questi si prese il tempo di terminare il boccone che stava masticando poi si pulì le labbra con un tovagliolo di lino. – Nel corso di un paio di raid durante i quali i razziatori si sono scontrati con i Marine di stanza a Fort Benning abbiamo avuto l’occasione di scoprire che questi banditi sono armati meglio cdi quanto ci aspettavamo. Di solito portano moschetti, mazze, lance e qualche raro fucile a ripetizione del modello che Colt fornì all’esercito quindici anni fa con un tamburo simile a quello delle pistole. – Ricordo di averne visti durante la guerra. – In effetti prima del conflitto ci furono alcuni piantatori della Louisiana che cercarono di armare bande di Seminoles contro l’Unione fornendo loro questo genere di armi. Ma da allora i tempi sono ati e l’armamento dei predoni risulta oggi primitivo. – Non è più così? – domandò Wild Bill inumidendosi le labbra con la birra. – No – fece Grissom. – Questi banditi dispongono di Colt Us Army, moschetti e carabine Spencer e Springfield e a volte fucili a ripetizione Henry. Oltre a ciò sembrano disporre di informazioni precise che li guidano verso i bottini più ricchi e indifesi. – In pratica c’è qualcuno che li arma e rifornisce. – E quel qualcuno probabilmente si nasconde sotto una specchiata identità di un mercante altolocato con amicizie al governo. – La solita vecchia storia. Avete già un nome?

– No purtroppo, ma ci sono diversi indizi che ci preoccupano – disse cupo Grissom. – Il primo è un furto di trecento fucili avvenuto a Fort Bliss in Louisiana. E non si tratta di carabine dismesse dall’esercito, ma un lotto di armi moderne che saranno in commercio solo l’anno prossimo. Dei prototipi del Winchester ’73, un fucile a retrocarica capace di venticinque colpi decisamente più preciso e potente di qualsiasi altro modello in commercio attualmente. Potenza di fuoco e precisione. Erano stati affidati alla guarnigione di Fort Bliss per effettuare dei test. Purtroppo non sono mai arrivati a destinazione. Sembra che le casse siano sparite durante il viaggio sul fiume dal rifornitore di New Orléans, un tale Bill Talbot, il solito pezzo grosso con amicizie aderenti che ha già cominciato a sbraitare in alto loco addossando tutta la colpa al governo. Wild Bill conosceva la canzone e sapeva leggere nello sguardo del suo amico. – Lo sospettate di averci qualcosa a che fare? Grissom decise di accendersi una sigaretta che rollò con cura. – Può darsi, ma dobbiamo muoverci con i piedi di piombo. Quel tipo ha un sacco di amici influenti e può scatenare una guerra contro il Dipartimento della Difesa. Resta il fatto che i fucili sono spariti e non abbiamo molte piste. – Qualcuna però sì – azzardò Wild Bill avvertendo un brivido familiare lungo la schiena. – Sì – ammise Grissom. – Da un’indagine portata avanti da un agente Pinkerton abbiamo appreso che le operazioni di trasporto dalla fabbrica a Fort Bliss erano affidate a un uomo di fiducia di Talbot, una persona che abbiamo faticato un po’ a identificare ma che, alla fine, l’agente Pinkerton ha indicato con sicurezza come un albino. Max Donovan. Wild Bill si sforzò di restare imibile. Accese a sua volta un mezzo sigaro e guardò il suo amico negli occhi. – Ne sei sicuro? – Disgraziatamente no. Lawrence Wellman, l’agente Pinkerton, ne ha seguite le tracce sino a un locale di Algiers, un quartiere poco raccomandabile di New Orléans, ma è stato ritrovato con la gola tagliata in fondo al canale. – Il che potrebbe essere già un indizio.

– Sì, ma dobbiamo muoverci con cautela per stabilire un eventuale legame tra Talbot, l’uomo che pensiamo essere Donovan e i Seminoles. – Da dove cominciamo? Visibilmente sollevato che Hancock avesse deciso di unirsi a loro in quell’indagine, Grissom tirò una boccata di sigaretta. – Per prima cosa prenderemo contatto con il nostro corrispondente del servizio informazioni della difesa. Anche lui lavora per la Pinkerton. Si chiama Spade, poi andremo a dare un occhiata a quel locale, la Casa Roja.

3

Everglades

Max Donovan fu scortato attraverso una serie di aggi scavati nella pietra all’interno dei bastioni della veccia fortezza spagnola. La base si trovava in una zona remota del lago circondata da un ampio fossato e da una serie di acquitrini e foreste che la rendevano praticamente invisibile a chi non esplorasse la regione con una guida esperta. La vecchia strada utilizzata dagli spagnoli era andata distrutta, sepolta sotto bacini artificiali, vegetazione selvatica e marcite. La natura aveva ripreso il dominio della zona. Il forte però era solido e ben difeso. Una pianta esagonale con vari livelli di fortificazioni intorno a un blocco di costruzioni di pietra scura che i bucanieri rifornivano e rafforzavano con regolarità. Era la seconda volta che Donovan vi faceva visita e un po’ lo intimoriva. Non per le leggende e i simboli di morte che neri e Seminole avevano piantato tutto intorno per tenere lontani gli intrusi con la minaccia degli spiriti malvagi. C’era qualcosa di antico, feroce, ostile verso il mondo esterno che costringeva anche lui alla cautela. Alla fine fu introdotto in una stanza buia con i muri spioventi e solo tre feritoie lunghe e strette come finestre. Decine di candele ardevano diffondendo un riflesso fosco, arancione che deformava i volti delle persone. Dappertutto bauli, mobili, forzieri traboccanti di tessuti, di merci depredate, candelieri, gioielli, cuscini sfondati, tappeti e armi di ogni tipo. Il rifugio di un pirata. E un pirata l’uomo che dominava quel forte lo era veramente. Il suo nome era Cane Nero e non si sapeva esattamente da dove venisse anche se molto giuravano che fosse un discendente dei famigerati pirati di Barataria del capitano Lafitte. Era un pezzo d’uomo con la barba grigia, una camicia rossa e un bolero scuro. Portava larghi pantaloni da marinaio negli stivali alti sino al polpaccio. In

casa sua non portava armi ma si sentiva ben protetto da due Seminole neri alti come statue e altrettanto uguali e privi di espressività. Loro erano armati di draghinasse, pistole e carabine. Accanto a Cane Nero, al tavolo c’era il capo seminole che Donovan aveva già incontrato la volta precedente. Tustenugge, il Coccodrillo, un guerriero feroce che aveva adornato la camicia larga a quadri rossi e neri con la mandibola disseccata di un coccodrillo. Il viso era piatto e segnato da pitture di guerra blu e gialle. – Donovan! – lo apostrofò calorosamente Cane Nero. – Vieni a sederti e a bere. La notte è fredda. Max Donovan fece del suo meglio per non lasciarsi impressionare. Per prima cosa guardò negli occhi i suoi ospiti facendo capire che non era in posizione di sottomissione. Poi posò sul tavolo il suo pacco che produsse un rumore metallico che rimbombò in tutta la sala. Gli occhi avidi di Cane Nero e di Tustenugge seguirono le canne che uscivano dall’involto. Donovan prese la fiasca racchiusa in una guaina di vimini e si versò una brocca. Bevve d’un fiato e rimosse il telo mostrando i fucili. Al riflesso delle candele l’acciaio cromato mandava riflessi ammalianti. – Winchester 73. Non saranno in produzione sino al prossimo anno. Questi sono prototipi destinati a Fort Bliss. Posso procurarvene duecento, per il momento. Con relative munizioni. Intuendo l’avidità dei suoi ospiti Donovan si rilassò: li aveva in pugno. Il Seminole borbottò qualcosa nel suo dialetto. Cane Nero lo placò con un gesto e rivolse un’occhiata diretta al suo interlocutore. – E che cosa vuoi in cambio? – Un prezzo giusto per il mio capo – rispose Donovan.– E una informazione per me. Dove si trova il tesoro di Coronado?

4

– E tu cosa ne sai di Coronado? La domanda fu espressa con voce rauca, ammiccante. Un segreto pericoloso che da solo evocava complicità e nefandezze. Erano usciti sui bastioni della fortezza attraverso uno stretto aggio nella pietra. All’esterno solo la luce lunare rischiarava le mura biancastre coperte sino a metà altezza da una fitta e scura distesa di rampicanti. La palude circostante era buia e impenetrabile. Donovan notò che, nei punti strategici c’erano uomini amarti, colubrine e cannoni di stazza maggiore disposti nelle torrette di legno. Nessuna luce artificiale per non offrire bersaglio. Quelli che si potevano definire soldati, un’accozzaglia di marinai senza un’uniforme precisa con abiti ampi, sporchi in alcuni casi e sgargianti quando venivano da indumenti rubati a soldati e viaggiatori, erano attenti e bene armati. La maggior parte imbracciava moschetti ad avancarica con baionette inastate, qualcuno possedeva una carabina Spencer, ma nessuno era in possesso di fucili a ripetizione. Per il resto portavano armi bianche. In un angolo del bastione sul quale erano usciti erano radunati una decina di guerrieri seminole, riconoscibili peri camicioni lunghi come gonne sino alle ginocchia e i turbanti ornati di piume. Anche per loro c’erano solo mazze e vecchi fucili. Donovan sorrise. Quella gente aveva bisogno delle sue armi. Lo sapevano che prima o poi i soldati blu sarebbero venuti a stanarli e qualche vecchio cannone e le solide mura spagnole non sarebbero bastate. La domanda di Cane Nero rimase a echeggiare nell’aria della notte ancora per qualche istante, il tempo che Donovan impiegò ad accendersi un sigaro e a soffiare una boccata che si perse nella notte come un drago d’argento. – Un’ossessione – disse con una voce lontana. – Nel 1521 quando Cortès conquistò la città di Montezuma cominciarono a circolare voci. Storie che parlavano di sette città molto più ricche, le capitali del regno di Cibola, le cui

strade erano lastricate d’oro e i giardini intagliati di rubini. Ponti d’avorio e rifiniture d’argento. Illusioni probabilmente ma per i disperati che avevano attraversato il mare in cerca di fortuna bastò. Le ricchezze di Teotihuacan non erano sufficienti a compensarli del calore, della ferocia degli indigeni, delle malattie. Per primo partì Francisco de Orellana con una guardia di dieci conquistadores e cento guerrieri toltechi. Partirono verso Nord ma furono massacrati nella barrancha del Cobre prima di poter trovare un solo indizio dell’esistenza delle città di Cibola. Poi partì Esteban de Coronado con un esercito di cento conquistadores, cinquanta cavalli, cento muli e duecento indigeni, mercenari toltechi e huavuspai. Combatterono con i Tarahumara della Sierra Madre e risalirono su fino alle terre degli Hopi e dei Pueblo. Massacrarono villaggio dopo villaggio, ma le acque infette, i guerrieri con le lance avvelenate, le malattie e il sole li decimarono. Un vecchio prete dominicano che li accompagnava tenne un diario che fu conservato sino a qualche anno fa nella missione di San Antonio. Nessuno gli credette ma la leggenda che Cornado avesse raggiuto le sette città dell’oro di Cibola si diffuse. Storie da soldati o verità? Nessuno lo ha mai saputo. Ma io, l’anno scorso, sono stato in una missione nel Deserto di Quarzo dove regnava un prete spretato che si chiamava il Monaco, discendente di un ordine che aveva seguito Cornado. Aveva parte del tesoro. Ma non tutto. E così mi sono messo alla sua ricerca, ando da monastero a convento, da cimitero e biblioteca sinché non ho trovato una traccia – si interruppe per un attimo.– Le voci vogliono che sul finire del 1530, Coronado avesse realmente trovato le Città dell’Oro, L’Eldorado, ma non potendo portare tutte le ricchezze con sé le divise. Alcune tornarono a sud verso la Sierra Madre, e finirono nel Castillo del Monaco, come ti ho detto. Ma altre, trasportate da Coronado stesso che non voleva dividerle con i grandi di Spagna viaggiarono verso Est. Sino a qui. Tacque con il sigaro serrato tra i denti. Cane Nero e Tustenugge lo fissarono interessati. Donovan compì un paio di i pesanti sul bastione. Il cuoio degli stivali cigolò rumorosamente. Gettò il sigaro che disegnò u narco luminoso nella notte prima di sparire. – Le leggende dicono che Coronado morì qui, con il suo tesoro. Voi sapete dov’è. Cane Nero scambiò un sogghigno con il capo seminole. – E credi che non ce lo saremmo già presto?

– Forse, se aveste la chiave per arrivare alla camera segreta. Ma non l’avete. Forse, però conoscete, il posto. Un lampo di avidità scintillò negli occhi del bucaniere. – Tu sai dov’è la maledetta chiave? – So chi ce l’ha. Una donna che, per un caso ne è entrata in possesso al Castillo e che, nella confusione che è seguita, se ne è impadronita. Ma senza mezzi, ignorando dove si può trovare il tesoro non è in grado di tentare alcunché. Ora, si da il caso che io sappia dove si trova quella donna e possa metterle le mani addosso. Una scimmia emise uno stridere lontano, terrificante nel buio assoluto della palude. – Io vi offro duecento fucili Winchester e le minzioni necessarie a respingere un attacco dei soldati – disse Donovan.– Pagherete la cifra che il signor Talbot vi chiederà. Ma con i fucili vi porterò anche quella donna e la chiave. Così andremo al tesoro di Coronado e avremo accesso alla cripta. Divideremo a metà. Con quel denaro il vostro rifugio di tagliagole diventerà un regno. Che cosa ne pensate? Cane Nero trasse una lunga pipa di canna e l’accese prima di rispondere. Tustenugge sembrava combattuto tra avidità e superstizione. C’era qualcosa che ancora Donovan non sapeva riguarda al rifugio di Coronado, ma che presto avrebbe scoperto. Era certo di averli in pugno. – E se noi non rispettassimo i patti, albino? – provocò il bucaniere. Donovan se lo aspettava. Reagì con calma, ponendo la mano sul calcio della Colt Navy che teneva alla cintura.– Nessuno è sopravvissuto per raccontare di avermi tradito. Chi mi frega e non mi uccide, non ha capito niente di me.

5

New Orléans

Raquel Dubois, vedova Stoner, non era una donna da biblioteche e monasteri. Se lo ripeté appoggiando delicatamente il piedino inguainato in una scarpetta se con un tacco oltraggiosamente alto per l’epoca. La bella gamba tornita era fasciata da una calza nero fumo che la giovane donna tirò su sino al gancio del bustino. Terminata l’operazione lasciò ricadere l’ampia gonna del vestito rosso, nero e bianco che la stringeva nei punti giusti, permettendo alle curve generose di emergere per la dannazione degli uomini. Era tornata alla fine, alle sue origini. Ballerina di cafè chantant di Saint Louis, conosceva bene anche New Orléans ed era soddisfatta di doversi muovere in quella città spumeggiante, risuonante di musiche allegre, di risate, di tappi di bottiglie che esplodevano lasciando schizzare fiumi di bollicine. Aveva provato a fare la brava moglie di Barrington Stoner, l’uomo che con la sua ricchezza l’aveva abbagliata e comprata. La famiglia del vecchio avventuriero diventato allevatore l’aveva sempre odiata. Quando aveva lasciato la loro tenuta a Val Verde, Raquel lo aveva fatto senza rimpianti. E con un segreto, un gioiello che sperava l’avrebbe portata a un favoloso tesoro del quale suo marito le aveva parlato in punto di morte. In seguito c’era stata quella pazzesca avventura nel deserto. Ricordava gli Apaches, i messicani, quel pistolero che chiamavano Dito del Diavolo e, soprattutto, l’assassino albino che le aveva conteso un misterioso oggetto nascosto al Castillo. Una sorta di chiave celata in un cilindro di vetro e metallo che aprire era stato difficile e rischioso. Rachel aveva trovato un orologiaio di San Antonio che era riuscito a estrarre sia una lunga chiave di argento che una mappa incartapecorita in grado di rivelarle un segreto. L’ubicazione del tesoro di Coronado. L’oro delle sette citta di Cibola. Disgraziatamente l’aria e il tempo avevano distrutto la mappa in pochi minuti. Raquel era stata in grado solo di leggere parte della mappa. Senza esitazioni

aveva individuato una zona delle Everglades, le impenetrabili paludi della Florida. Era plausibile che Coronado fosse arrivato sin là per nascondere il suo tesoro dall’avidità dei grandi di Spagna. Ma entrare in quel territorio infestato da alligatori e indiani feroci era un problema. Malgrado ciò Raquel non voleva demordere. Lei aveva la chiave per aprire… aprire cosa? Un forziere o una cripta? doveva saperne di più. Da lì aveva seguito una labile traccia leggendo, chiedendo presso antichi monasteri. Sino a quando non aveva fatto una scoperta sconvolgente. L’albino chiamato Max Donovan che a sua volta cercava il tesoro, era a New Orléans. Non poteva essere un caso. E quella notte sarebbe stato alla Casa Roja, uno dei locali di lusso ma anche malfamati di Algiers. Perciò, considerato che era una ragazza prudente, Raquel controllò di avere con sé la Derringer damaschinata a due colpi, tipica dei tavoli da gioco e facilmente occultabile nella borsetta e uno stiletto lungi e affilato che, nella guaina era perfettamente celato lungo la coscia dalla giarrettiera. Si guardò dopo essersi aspersa di un costoso profumo se. Un bel viso assertivo, capelli rossi, occhi ardenti e labbra pine di promesse. Aggiunse un vezzoso cappellino proveniente da Boston e si disse che, con gli uomini la sua arma più efficace era la sua avvenenza. Era abituata a trattarli e anche se a Donovan le donne non piacevano, lo interessava l’oro. Avrebbe trovato un modo di accordarsi con lui. Dopotutto aveva quella chiave che tanto gli premeva.

6

Samuel Spade, l’uomo dell’agenzia Pinkerton, era un omaccione di città. Un po’ a disagio con la giacca, il panciotto e la camicia bianca, portava la pistola d’ordinanza al fianco, stretta in vita. Posizione forse non perfetta se avesse dovuto estrarre e sparare rapidamente ma era un poliziotto e non un pistolero. Aveva accolto Grissom e i sui compagni all’uscita dell’hotel Alameida e, a bordo di una carrozza a due cavalli guidata da un vetturino nero, li aveva condotti dall’altra parte del fiume, nel sobborgo di Algiers. Erano lontani dal Vieux Carrè e dal quartiere dei neri, ma anche qui le vecchie case spagnole con i davanzali in ferro battuto, le insegne sgargianti e la musica lasciavano intendere che il quartiere non era un tranquillo ambiente residenziale. C’erano, infatti, saloon e case di piacere e da gioco a ogni angolo. Sulle strada suonatori improvvisavano concertini accompagnati da ragazzini che ballavano in modo straordinariamente abile con le claquettes. Agli occhi di Wild Bill era uno spettacolo molto differente dalle città dell’Ovest dove tutto era più sporco e sordido. Qui anche le prostitute, e ce n’erano a decine, affacciate sulle camere nelle strade, ai davanzali o anche semplicemente sui marciapiedi, parevano eleganti e profumate. Poche pistole in giro ma brutti ceffi. Bombette e giacche. Davanti ai locali c’erano energumeni di ogni razza e colore, non erano amarti se non da manici d’accetta ma, a giudicare dai muscoli, sembravano in grado di mantenere l’ordine. Un cinese gigantesco con il cranio tatuato e liscio come una palla da biliardo, sbatté fuori un gambler da un locale prendendolo per il collo e la cinta. Il poveretto, probabilmente scoperto a barare, rotolò sulla strada fangosa inzaccherandosi il suo bel vestito elegante. – Se ti fai rivedere un’altra volta, ti riempiamo di pece e di piume prima d’impiccarti – sbraitò il cinese puntando il dito grosso come la punta di un bastone. Tra le risate e i lazzi il giocatore si affrettò a rimettersi in piedi e a sfuggire. – Il signor Talbot è molto severo in fatto di disciplina – affermò Spade. – Tre

quarti dei locali sono suoi. Ci pensa lui a spennare i grulli, ma lo fa con discrezione. Gli indipendenti, come quel poveraccio, hanno vita difficile. I canali sono pieni di squali che vengono dal porto attirati dai rifiuti gettati in questa foce dove non si capisce se l’acqua è salata o dolce. – Un posticino invitante – commentò Wild Bill. – Lo vedremo stasera, questo signor Talbot? Spade e Grissom si lanciarono una occhiata perplessa. – Mi auguro di no. Talbot è un intoccabile, preferirei che ci avvicinassimo a lui tramite i suoi scagnozzi. – Donovan è in città? – domandò fremente il pistolero. Spade sospirò. – Difficile dirlo. Era partito circa una settimana fa e i miei informatori ancora non sanno dirlo. Ma venite, entriamo nel locale principale di Talbot, la Casa Roja. Forse faremo incontri interessanti.

7

Musiche, risate, dal palco principale rialzato un “ringmaster” con i baffoni, la tuba e un abito di strass annunciava strabilianti novità mentre intorno a lui una pattuglia di nani giocolieri si esibiva tra salti e movimenti acrobatici con palle e bastoni. Dal soffitto alto almeno dieci metri calavano tre grandi altalene, posizionate in modo da non urtare nei loro volteggi i lampadari di cristallo che illuminavano da sala. Decine di ragazze di ogni razza e colore, eleganti, discinte, tutte piume, pizzi e bustini, sgambettavano per la sala. Fumavano e bevevano, provocavano i clienti. La Casa Roja era un vero paradiso di perdizione con i suoi broccati cremisi, la zona del bar disposto a ferro di cavallo con le rifiniture in ottone e le grandi specchiere. C’era una zona riservata ai tavoli e una parte dove si praticavano tutti i giochi d’azzardo noti alla Frontiera, dal Poker, al Faraone. Wild Bill che aveva visto locali di lusso a Tombstone o a Dodge City era impressionato. Individuò subito le vie d’uscita e diede di gomito a Kinnock indicandogli tre trespoli che salivano a un metro e mezzo dal pavimento. Qui uomini piccoli con grosse tube e ancor più grossi fucili calibro 12, controllavano l’ordine in sala. Wild Bill era certo di aver notato almeno altri sei energumeni armati sotto le giacche eleganti tirate sui muscoli, che si aggiravano tra i tavoli. Erano presenti non meno di duecento persone tra clienti e personale e il fracasso quasi insostenibile. L’aria era pregna di fumo, liquore ed essenze a poco prezzo. – Un tavolo signori? – domandò una magnifica creola con un vestito verde smeraldo che le lasciava scoperte le spalle e parte del seno. – Compagnia? – Per il momento andrà bene un tavolo e una bottiglia di rye whisky di quello buono con quattro bicchieri. Poi vedremo – fece Spade con disinvoltura ficcandole una banconota da cinque dollari nella scollatura. Lei sbatté gli occhi, si agitò facendo le fusa in modo esagerato e li fece accomodare a un tavolo sul lato della sala. Sul palco i nani avevano terminato la loro esibizione lasciando posto a un

manipolo di sgambettanti ragazze che ci davano dentro con la musica. Il pubblico apprezzava. La bottiglia arrivò poco dopo servita da un cameriere in marsina. La creola tornò per assicurarsi che i clienti fossero soddisfatti. – Se desiderate compagnia non avete che da chiedere – disse indicando un gruppetto di ragazze tutte pizzi e piumini sedute in un divanetto circolare tra il bancone e la sala da gioco – Se invece volete tentare la fortuna qui il gioco è apionante e onesto. Parola del signor Talbot. – A proposito – intervenne Wild Bill. – È qui stasera? Lei si coprì le labbra con un ventaglio che celava ogni espressione. – Oh, il Signor Talbot è molto impegnato. Non riceve nessuno. Ma vi augura una piacevole serata. Di qualsiasi cosa abbiate bisogno io mi chiamo Miryam. – E sgusciò via tra la folla. Spade versò da bere per tutti, contrariato. – Credi che sia stata una mossa prudente, venire a smuovere le acque qui? Wild Bill si accese un sigaro e lo guardò attraverso una nuvola di fumo. – Perché siamo venuti, allora? – Un po’ di prudenza… è solo una ricognizione. – Ho già visto tutto ciò che c’era da vedere. Di posti come questi, più piccoli ma decisamente simili, ne ho già visti in Arizona e in Texas. Molti tempo fa – disse con una sfumatura cupa – quando portavo la stella. C’era un uomo ad Abilene che vendeva armi ai comanches. Aveva un paio di saloon proprio come questo e una società di trasporti. Un intoccabile rispettato da tutti. L’unico modo per smuoverlo fu andare a snidarlo nella sua tana e provocarlo. Spade si mosse a disagio sulla sedia. Lanciò uno sguardo a Grissom. Forse gli ò per la testa l’idea di rammentare a Wild Bill che la sua precipitazione un giorno lo aveva indotto a uccidere per sbaglio un suo vice. Ma la luce fredda che lesse nello sguardo del pistolero lo dissuase dal farlo. Fu un bene; Grissom e Kinnock trassero un sospiro di sollievo. Di problemi ne avevano già abbastanza. – Ma il tuo informatore che cosa aveva scoperto? – s’inserì Grissom per cambiare discorso. Spade comprese e assentì dopo aver vuotato un primo

bicchiere. – Lawrence aveva svolto un buon lavoro di ricognizione. Era riuscito a legare il furto dei fucili a Fort Bliss con la società di trasporti di Talbot. Si tratta di una serie di magazzini e di un paio di grandi chiatte che risalgono il fiume. Per la maggior parte i marinai sono cinesi, che potrebbe sembrare una stranezza ma qui non lo è. Tra le altre cose, Talbot è sospettato di essere in combutta con i ‘reclutatori’. Lo sapete cosa sono? Wild Bill fu costretto a confessare la sua ignoranza delle usanze dell’Est. L’argomento nuovo e la possibilità di affermare i suo ruolo parvero placare Spade. Indicò il locale e la confusione circostante con un gesto della mano. – Dopo una serata in un posto come questo capita che un uomo perda il senso dell’orientamento. Il fracasso, le ragazze, qualche bicchiere di troppo. Quando esce non trova facilmente la strada per l’albergo. Allora sbucano quattro cinesi armati di manganelli che gli danno una bella riata e lo imbarcano a forza su un battello in partenza il giorno dopo. I comandanti hanno sempre bisogno di braccia per governare le loro barche. E una volta in mare aperto, i disgraziati si riprendono dalla sbronza. Firmano a forza un contratto d’ingaggio da fame e sono costretti a restare in mare per sei mesi. Qualcuno ce la fa, altri muoiono, presto sostituiti da altri; qualcuno riesce pure ad apprezzare la vita del mare. Talbot dirige i cinesi che sono specializzati in questa attività e ci guadagna una parte. – E quale legame c’è tra questi reclutatori e il contrabbandò d’armi? – volle sapere Wild Bill, genuinamente interessato. – Lawrence ha trovato una pista che conduceva ai magazzini della società di trasporti marittimi e fluviali di Talbot. Disgraziatamente è morto pima di potermi comunicare quale fosse il legame tra la Casa Roja e quei depositi. – Quindi è da qui che bisogna cominciare – fece Wild Bill. – E forse prima di quanto possiamo immaginare. Il tono della voce fece sobbalzare tutti gli altri. Spade non capiva ma Kinnock e Grissom seguirono lo sguardo del pistolero sino all’ingresso della sala da gioco. Un magnifico esemplare di femmina con i capelli rossi e l’abito che era una sfida al pudore era comparsa in scena. – Chi è? – domandò l’agente della Pinkerton.

– Il diavolo mi strafulmini se non è Raquel Stoner – esclamò il mulattiere che aveva partecipato alla razzia al Castillo. – Credevo che dopo quella avventura si fosse trasferita all’Est. – Magari ci sono cose che non sappiamo. Di certo è stata parecchio a contatto con Donovan e magari qualcosa in più di noi la sa – sussurrò Wild Bill nel momento preciso in cui, quasi per caso. Raquel Dubois vedova Stoner, volgeva lo sguardo nella sua direzione e trasaliva, riconoscendolo. Il pistolero ebbe la netta sensazione che la sua presenza alla Casa Roja non fosse un caso.

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Al piano superiore della Casa Roja il signor Talbot disponeva di uno studio elegante che sapeva di cuoio e di legno vecchio mescolati con l’aroma del whisky irlandese e i sigari di Cuba. Senza che nessuno lo potesse notare un grande specchio a due facce gli permetteva di controllare l’intero salone. In quel momento stava osservando il girotondo di colori e costumi nella sala sottostante. Nulla di anormale se non fosse stato per l’avvertimento che Miryam, l’entraineuse creola, era venuta a riferirgli. – Ecco, padrone – disse lei rispettosamente – sono seduti a quel tavolo. Hanno chiesto di lei e ho pensato bene di riferirglielo. Talbot, un uomo sulla cinquantina, pingue e ben vestito, trasse dal taschino una mazzetta di dollari e lap orse alla ragazza. – Hai fatto bene. Adesso torna giù e riferiscimi tutto ciò che fanno. – Forse – disse l’uomo nascosto nell’angolo buio dello studio.– Bisognerebbe fare qualcosa di più. La giovane creola rimase come paralizzata. Conosceva l’albino e le metteva i brividi. Talbot morse il sigaro con una smorfia. – Non voglio grane nel mio locale migliore – disse caparbiamente. – Allora – fece l’albino avvicinandosi alla luce quel tento che bastava per rivelarle le mani guantate posate sul calcio delle pistole che in città portava con il calcio rivoltato verso l’esterno secondo una moda di certi pistoleri del Midwest – facciamoli venire fuori. Li conosco. Quello con il cappello nero è Wild Bill Hancock, e gli altri due erano con lui nel deserto. Quello con la bombetta non so… ma puzza di sbirro. Non sono qui per caso e il fatto he abbiano chiesto di te, lo dimostra. Penso sia il caso di fare quattro chiacchiere con loro, in un luogo appartato.

Talbot sembrò rifletterci per qualche istante, poi borbottò qualcosa e disse :– D’accordo, Miryam, avverti Salomon e i suoi. Ma non voglio grane in sala. – Sarà fatto, padrone – disse lei arretrando senza girare le spalle ai due uomini mentre usciva.

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Dopo un primo momento di imbarazzo Raquel Stoner era stata rapida a girare la testa, indirizzando lo sguardo verso i tavoli da gioco. Un istante dopo si era già mescolata con la variopinta clientela del locale. Wild Bill e i suoi compagni erano sorpresi e l’agente della Pinkerton fu rapido ad accorgersene. – Ma che diavolo vi è successo? – domandò – avete visto un fantasma? – Più o meno – spiegò Grissom. – La donna che si è appena infilata nella sala da gioco è rimasta coinvolta l’anno ato nella missione in Messico che ci ha portato sulle tracce di Donovan. Rapidamente l’ufficiale della Cavalleria mise al corrente il poliziotto di quanto era avvenuto nel Deserto di Quarzo e della parte che la vedova Stoner aveva avuto in tutta la vicenda. – C’è sempre stato qualcosa che non mi ha convinto in quella donna – disse Wild Bill ragionando sul ato. Indubbiamente Raquel Stoner non era una persona comune alla Frontiera. Prima di tutto non era una di quelle donne che, pur dotate di una certa bellezza, nel giro di pochi anni di vita durissima si trasformavano in orrende megere segnate dalle sofferenze. Era una donna di classe. Pericolosa e capace di sopravvivere incolume a situazioni disperate. Uscire viva dall’ordalia che da Val Verde l’aveva portata la Castillo era già un fatto eccezionale. Al termine di quella avventura era scomparsa, ma Wild Bill aveva sempre avuto il sospetto che, dell’ultimo confronto che aveva portato alla fine del Monaco e alla fuga di Donovan qualcosa sfuggisse. Informazioni che solo lei poteva avere. – Quella è una donna da locali notturni – sentenziò Kinnock con cinismo. – Non mi sorprende trovarla qui. Può essere un caso. – O forse no – commentò pensosamente il pistolero appoggiandosi allo schienale della sedia.

Sul palco era iniziato un nuovo, fragoroso numero di varietà. L’orchestrina in un angolo ci dava dentro per la gioia dei clienti affollati intorno alla pedana rialzata. Quasi per caso Wild Bill notò un nero alto con un’unica striscia di capelli crespi al centro della fronte che avanzava verso di loro. Reggeva un vassoio con un grande cestello del ghiaccio e due bottiglie. – Con gli omaggi della casa – disse con un pesante accento se. – Non abbiamo ordinato nulla di tutto questo – protestò Spade. – È un omaggio – fece il nero scoprendo una chiostra di denti candidi – e un invito. Vi prego di alzarvi senza fare clamore e di seguirmi. – E se non ci andasse? – replicò spavaldo Grissom. Salomon, l’uomo di fiducia di Talbot, si limitò a fulminarlo con lo sguardo. Alzò il cane della pistola con un schiocco che si udì anche con tutto il clamore del locale. – Temo che non abbiate troppa scelta. Fu in quel momento che Wild Bill si rese conto che erano circondati. Senza darlo troppo a vedere cinque uomini erano emersi dalla folla e si erano posti a semicerchio intorno al loro tavolo. Bianchi e neri, indossavano camice strette su muscoli poderosi. A capo scopeto o con le bombette erano una minaccia evidente. Con disinvoltura impugnavano manici d’ascia, blackjack (un manganello molto in uso nei locali notturni della costa, composta da una manopola di cuoio con due biglie d’acciaio all’interno) uno aveva persino un mazzuolo da carpentiere. – Vi prego di seguirmi senza fare storie – disse Salomon tenendoli sempre sotto mira con la pistola impugnata sotto il vassoio. – Qualcuno potrebbe farsi male. Vogliamo o solo scambiare qualche parola. E tenetele mani lontane dalle pistole. A quel punto non restava molto da fare. Con lentezza Wild Bill si alzò tenendo le mani bene in vista. I suoi compagni lo imitarono e, posato il secchiello del ghiaccio sul tavolo, il gruppo si mosse verso una uscita laterale. Ballerine e camerieri si fecero da parte abbassando lo sguardo. Certe scene non dovevano poi essere così inusuali alla Casa Roja.

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All’esterno, sulla ragnatela di moli e palafitte che conduceva al fiume l’aria era umida e calda. Dai ciuffi di vegetazione che salivano dalle rive si levavano stormi di grossi insetti ronzanti. Un odore misto di decomposizione, sporcizia e umori del fiume ammorbava l’aria, bloccando il respiro. – Non ci piacciono i curiosi – disse Salomon quando i prigionieri furono radunati su una piattaforma di assi scalcinate in riva al fiume. Silenziosi i cerberi montavano la guardia. – Noi non siamo curiosi – fece Wild Bill con un tono fintamente conciliante – volevamo solo bere un bicchiere. – Coincidenza fortunata che io fossi qui – disse una voce dal buio. Wild Bill si sentì gelare il sudore sulla schiena. Non poteva essercene certo ma l’uomo che aveva parlato veniva dal suo ato. Con un cigolio sulle assi, Donovan si fece avanti. Stava tra l’ombra e la luce. Dalla loro posizione i quattro prigionieri riuscivano a veder solo la punta degli stivali, i pantaloni e parte dello spolverino. Il viso rimaneva in ombra. Ma Grissom era in grado di riconoscere la voce. In un tempo lontano di erano incontrati a una riunione dello stato maggiore di Fort Davies. – Max Donovan – disse a mezza voce. – In persona, tenente Grissom. E visto che non porta l’uniforme, suppongo che non sia in servizio attivo. Un po’ lontano per una serata di libera uscita. Del resto la presenza di Kinnock e di Wild Bill mi suggerisce che non si tratti di una rimpatriata. Quanto al vostro amico… – Quello è un Pinkerton – disse uno degli energumeni. – Li riconosco a occhio. – Hank ha un fiuto particolare per gli sbirri della Pinkerton – osservò Donovan

spostandosi di un mezzo o. Adesso un riflesso della lampada appesa a un gancio poco distante gettava uno scintillio malato sugli occhiali scuri. – Sapete, tempo fa uno sbirro della Pinkerton è venuto a ficcanasare da queste parti. Non lo hanno più trovato. Mi domando cosa ci troviate di così interessante in questi vicoli sul fiume. Si scivola e sono pericolosi. – Forse i traffici del tuo amico Talbot con i Seminoles – fece Wild Bill più per guadagnare tempo che nella vera speranza di poterci ricavare qualcosa. Donovan crollò il capo, sinceramente colpito. – Ma guarda… l’affare si infittisce. Da qui devo dedurre che siate venuti a New Orléans per mettere il naso dove non vi è permesso. Davvero una brutta situazione, ve lo assicuro. Avevo una mezza intenzione di farvi dare una spazzolata dai miei amici qui, ma adesso credo che saranno necessarie delle misure più drastiche. Salomon! Il nero che reggeva ancora in mano la sua pesante pistola a tamburo armò il cane producendo uno scatto che rimbombò sui moli. – Fermi! – chiamò una voce femminile conosciuta. Raquel Stoner.

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Wild Bill era stato in mezzo a cento sparatorie. Sapeva che il ragionamento era forse l’arma migliore per cavarsela ma era nemico del tempo. L’istinto, più spesso, suggeriva le soluzioni migliori. – A terra, Raquel – urlò mentre lui stesso si lasciava cadere sulle ginocchia ed estraeva la Dragoon, alzando il cane. Avrebbe voluto tirare su Donovan, ma sapeva che l’albino era troppo abile. Nel giro di un istante si era ritratto nel buio diventando una preda indistinguibile. Di certo non aveva intenzione di mostrarsi sparando. Salomon, invece, reagì d’impulso si voltò e tirò il grilletto verso la donna entrata inaspettatamente in scena. Wild Bill lo aveva davanti a sé, quasi in controluce, grande e grosso. Sparò un colpo che lo attraversò al petto. A quella distanza l’impatto del proiettile costrinse il nero a girare su se stesso. L’uomo sparò a vuoto e lasciò cadere la grossa pistola sulle assi. L’arma rotolò nel fiume sollevando una colonna di acqua. Gli altri erano consapevoli di non essere equipaggiati adeguatamente per una sparatoria. Grissom estrasse la Colt Us Army da sotto la giacca e tirò un colpo di avvertimento. –Tutti fermi! Misera consolazione. Il tipo chiamato Hank gli sventolò sul capo il manico d’ascia che teneva appoggiato alla spalla. L’urto fu violento. Per fortuna il ragazzo riuscì ad ammortizzarlo con la spalla. Fece comunque un bel botto, ma si limitò a scivolare a terra. Spade e Kinnock non erano rimasti inattivi. Il detective della Pinkerton aveva una piccola pistola a tamburo che comparve nella sua mano. Tirò un paio di proiettili che schioccarono come colpi di tosse. Più fumo che altro.

Il mulattiere, invece, aveva sotto la Giacca una starna arma che si impugnava come una vecchia pistola a pietra ma disponeva di un tamburo e di una canna a fiasco. Sparò fragorosamente innaffiando con una pioggia di pallini i buttafuori. Uno fu colto a una gamba. Urlò, cercò di ritrarsi nell’ombra e cadde tenendosi una gamba. Un brutto tutto nelle acque sporche. Wild Bill era già in piedi. Nessuna traccia dell’albino, naturalmente. – Rachel – chiamò. La ragazza emerse da un angolo dove si era rincantucciata. Aveva perso il suo bel cappellino, ma in mano aveva una Derringer pronta al fuoco. I loro sguardi s’incrociarono riallacciando un ponte che si era allungato tra loro molto tempo fa, prima che un odei due avesse il coraggio o la volontà di attraversarlo. – Grazie – disse lui – un intervento provvidenziale anche se un po’ azzardato. Lei sorrise con aria di sfida. – La mia vita è un azzardo. Posso chiedervi cosa ci fate qui? – Era la domanda che avevo in mente io. – Donovan – disse la donna fissandolo negli occhi. – Suppongo che non fosse solo una questione di vendetta per quanto è successo nel Deserto di Quarzo. – È più complicato di così – ammise lei. – Lo immagino. Dalla strada principale si udiva la campana del carro della polizia, un vociare agitato. Qualcuno aveva sentito gli spari. Benché Algiers fosse un quartiere turbolento le autorità ancora non permettevano sparatorie impunite. – Avremo tempo per discutere, madame – disse Spade avvicinandosi. Si toccò il

cappello con un gesto di rispetto che, in quei frangenti sembrava ridicolo ma lei sembrò apprezzare. – Meglio che ci togliamo da qui. – In questo caso – fece lei recuperando il suo cappellino da terra. – Posso offrivi ospitalità in un luogo discreto. Penso che abbiamo diverse cose da raccontarci. Grissom si stava rialzando con una spalla ammaccata. Kinnock ghignava. – Che magnifica avventura – sussurrò. Wild Bill non sapeva cosa dire. Guardò il corpo dell’uomo che aveva appena ucciso e poi le ombre dove era svanito Donovan. Ripose la pistola nella fondina con un sospiro. – Andiamo.

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Ranch Norton, Texas

Brigham Norton era un uomo della Frontiera. Da quando era arrivato sulle terre che costituivano ora i suoi possedimenti, acri e acri di pascoli, vallate, tre fiumi che irrigavano pozzi sufficienti ad abbeverare le mandrie di buoi e cavalli che costituivano la sua ricchezza, aveva combattuto. Contro i messicani, contro i Navajos e gli Apaches. Contro i Comanches che dalle Bad Lands erano scesi a compiere razzie su quei terreni ogni notte di luna piena. Sempre Brigham Norton aveva risposto con vigore, a fucilate, con la frusta e con i pugni. Quello che era suo se l’era guadagnato. Sua moglie non aveva resistito. Non tutti sono fatti per vivere alla Frontiera e pochi comprendevano che il privilegio e la ricchezza si guadagnavano con il sangue e il sacrificio. Anche suo figlio Billy Bob era stato un debole. Lui aveva cercato di educarlo come un vero Frontierman, ma il ragazzo si era riempito la testa di stupidaggini romantiche sui pistoleri e aveva voluto crearsi una fama d di duro invece di concentrarsi sugli affari di famiglia. Così aveva sfidato il grande Dito del Diavolo e aveva pagato il prezzo. Brigham Norton non ce l’aveva con Hancock. Nelle sue condizioni avrebbe agito come lui. Forse, se davvero era così bravo, avrebbe potuto ferire il ragazzo e non ucciderlo. Ma lui come si sarebbe comportato?

Allo stesso modo. Non si lascia un nemico vivo. Per la stessa ragione, non per l’onore o per il desiderio di vendetta in sé, Brigham Young doveva avere la testa di Wild Bill Hancock, Hellfinger. Il Dito del Diavolo. Se voleva restare un “barone” del bestiame a sud del Pecos e a nord del Rio Grande, Brigham Norton doveva continuare a essere temuto. Nessuno poteva pensare sol odi sfidarlo. Perché così prima si sarebbero ribellati i piccoli proprietari cui ingiungeva pesanti tributi per accedere alle sue fonti, poi magari quei maledetti allevatori di pecore avrebbero preteso di far pascolar le loro greggi sui suoi campi e chissà cosa altro. Hancock doveva morire. Non che Young non avesse pensato di regolare la cosa personalmente. Subito dopo il “duello” in cui era morto Billy Bob aveva cercato di organizzare un linciaggio in paese, a Val Verde, ma si era messo di mezzo lo sceriffo Patterson e pure l’esercito. Poi c’era stata quella faccenda dei rinnegati fuggiti con le paghe dell’esercito in Messico e Wild Bill era diventato da pistolero, eroe dell’esercito. Adesso era ato in un altro stato dove non c’erano carichi pendenti contro di lui. Norton, che aveva da fare per mantenere la sua posizione, aveva pagato profumatamente pistoleri e bounty killer perché ritrovassero le sue tracce. Nessuno era mai tornato indietro. Gli ultimi tre, che pure avevano fama di essere uomini spietati e abili erano rimasti a disseccarsi tra le rovine di una città morta in Arizona. La notizia era appena arrivata. E anche quella volta Brigham Young era stato sul punto di partire personalmente alla caccia del suo nemico. Anche se il suo avvocato glielo aveva sconsigliato. La Frontiera non era più quella di vent’anni prima e un ricco allevatore che guida una “posse” sarebbe stato perseguitato dalla legge. Oltre a ciò un mese prima, durante una di quelle notti di luna piena che gli indiani chiamano Luna Comanche, un gruppo di razziatori aveva cercato di

fregarsi una mandria di cavalli giù a Soccorro e Norton aveva partecipato come sempre all’azione. Un’asta di freccia comanche gli si era piantata nella coscia e per poco la gamba non era adnata in cancrena. Un chirurgo di Tucson lo aveva salvato, ma Norton era costretto a camminare con il bastone e non poteva cavalcare. Quel giorno se ne stava alla sommità della vallata dove il suo magnifico ranch era costruito per dominare una fonte e ampi pascoli chiazzati dal pelame fulvo del suo bestiame. Era un paese immenso, magnifico. Era suo. Ma gli mancava qualcosa. Nervosamente Brigham Norton bevve da una fiasca di metallo una sorsata di whisky di segala amaro e forte senza trarne veramente piacere. La sua mente era percorsa da pensieri cupi. Abituato alla Fortiera, sentì da sopravento l’odore dei cavalli. Ne udì lo scalpiccio . ripose la fiasca e, con una mano sul bastone e l’altro sulla pistola si volse. Dalla strada principale due cavalieri salivano verso la sua posizione. Norton riconobbe subito Kearny, il suo capolavornate, un uomo avanti negli anni ma ancora forte, capace di uccidere un indiano a cento metri con la sua carabina. A lui Norton aveva affidato negli ultimi mesi l’organizzazione dei gruppi di cacciatori che avevano seguito le tacce di Hancock. Non era colpa sua se avevano fallito. Assieme a lui cavalcava un altro uomo. Norton conosceva il tipo. Abiti civili ma era come se indossasse una uniforme. Gambali di cuoio, camicia a quadri, un grande Stetson sul capo. Doppie pistole e un gilet di pelle scamosciata. Non aveva neanche bisogno di mostrare la stella per rivelarsi per quello che era. Un Ranger del Texas. Sin dall’indipendenza dal Messico e all’annessione agli Stati Uniti, il Texas aveva dettato regole sue. Non aveva un vero e proprio esercito, benché ormai le

truppe dell’Unione avessero libero accesso alle piste e avessero costruito forti ovunque. I Ranger erano una milizia volontaria dai tempi di Sam Huston. Gente durissima che aveva combattuto messicani e indiani sin dall’inizio del secolo. Uomini che non si facevano troppi scrupoli di appendere un uomo per il collo se aveva rubato un cavallo, o anche se era solo sospettato di averlo fatto. Temuti degli indiani e dai messicani, oltre il confine erano noti solo come i “tejanos”, i terribili cavalieri del Texas. Organizzati come una truppa irregolare erano capaci di braccare la loro preda per chilometri, sconfinando anche in altri stati pur di assicurare ladri e assassini alla giustizia. Ovviamente molti di loro traevano piacere e guadagno dalla loro attività erano tuti coraggiosi e brutali. Alcuni erano onesti, altri meno. Dipendeva tutto da quanto li si pagava. L’uomo che era venuto con Kearny si chiamava Sterling, era alto e grosso, la pelle cotta dal sole. Alla cintura portava uno scalpo indiano, un po’ per dimostrare il suo valore, un po’ per sfida. Se fosse caduto nelle mani di quei selvaggi quel trofeo gli avrebbe valso un giro al palo della tortura. Ma non sembrava curarsene. Arrestò il suo destriero e scese in una nuvola di polvere. – Signor Norton – disse tendendo la mano. Il ranchero gliela strinse vlautandolo con una occhiata. Si rivolse a Kearny. – Credi che possa esserci utile per la nostra ricerca? Kearny assentì, trasse di tasca tre lunghi sigari Kentucky e li distribuì. Con quel rito virile suggellarono una tregua. La polvere si era depositata e i cavalli accaldati e schiumanti brucavano pigramente. – Lei sta cercando Wild Bill Hancock – disse Sterling senza troppi preamboli. – Sa dove si trova? L’altro assentì. – Sì, ma non è questo il problema. – Dov’è? – chiese Norton a denti stretti.

– Le ultime notizie lo vogliono a New Orléans, ma pare che lavori per il governo assieme a quel suo amico ufficiale, Grissom. – Grissom – sibilò Norton. – Lo ricordo era in paese quel giorno he volevamo impiccare quell’assassino. Si mise tra noi e lui. Che cosa fanno? Sterling tirò una boccata di fumo. – Non lo so. Cose per il governo. Forse in Florida. Una storia di contrabbando d’armi. – Non mi interessa. Io volgio la testa di Hancock. Può portarmela? Il Ranger rise sommessamente, poi si aggiustò la falda del cappello. – Io? Noi come Rangers, intende? – Non sarebbe la prima volta. La paga sarebbe buona. Per un sitante udirono solo il fruscio del vento tra l’erba alta. Sterling sputò per terra. – No. Noi non possiamo far nulla di più che scoprire dove si trova, ma quell’uomo è protetto dal governo federale adesso. Brigham Norton ebbe un gesto nervoso. Piantò il bastone nel terreno, compì un o e rivolse uno sguardo astioso a Kearny. – Perché mi hai portato quest’uomo allora? – domandò irosamente. – Perché – intervenne il texano – adesso che sappiamo dov’è, possiamo incaricare una persona che lo uccida. – Ci hanno provato in molti. Sul viso del Ranger ò una brutta smorfia. – Ma non come quello che ho in mente io. Costerà parecchio, ma le assicuro che il risultato è garantito. – Davvero? Lo hanno detto anche quei tre rubagalline che ho assunto l’ultima volta e adesso sono morti in una città sperduta dell’Arizona. – Ma questo dovrà venirlo a prendere lei, signor Norton. All’inferno.

Interessato il ranchero fissò il Ranger con lo sguardo torvo. L’altro rise. – Non è mai stato al carcere di Yuma?

Continua in… Squali!

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in questa collana

Wild West

STAGIONE 1 Stefano Di Marino, Rinnegati Comincia la Prima Stagione di WILD WEST: un romanzo western tra Sergio Leone e Quentin Tarantino ISBN: 9788867759187 Stefano Di Marino, Assalto al treno Un colpo spettacolare messo a segno da una banda di rinnegati apaches e messicani. Il primo o di una caccia spietata vero il Messico ISBN: 9788867759293 Stefano Di Marino, Rio Bravo Una tempesta di sangue e morte accompagna i rinnegati di Donovan oltre il confine. Wild Bill e i suoi volontari li seguono in un territorio infido. ISBN: 9788867759385 Stefano Di Marino, Deserto di quarzo In un deserto infernale si profila la figura del Monaco, organizzatore di rapine e trafficante d’armi. ISBN: 9788867759422 Stefano Di Marino, El castillo La resa dei conti. Odio, vendetta e riscatto si consumano in una vecchia missione abbandonata. Il ato uccide… ISBN: 9788867759590

STAGIONE 2 Stefano Di Marino, Gold Town Un uomo solo braccato da tre killer. Ma la città fantasma può diventare un alleato ISBN: 9788865305874 Stefano Di Marino, Seminoles Bucanieri e indiani ostili tra le paludi della Florida. Una missione per l’Esercito, ma anche una vendetta personale per Wild Bill e i suoi amici. ISBN: 9788865305928

Gli ebook rapidi ed emozionanti

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Stefano Di Marino, Gold Town - Wild Westn. 1

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