un’idea di Marta Zacchigna
Questo libro è dedicato a tutti coloro che hanno creduto in questo progetto e lo hanno reso possibile.
INDICE
Racconti
Marta Zacchigna – Nonostante tutto
Lucia Longo – Precarietà indeterminata Gabriele Gimmelli – Autoritratto del critico cinematografico da giovane Alessandra Guadagnin – Prostrarsi Anna Antonini – Precaria di lusso Angela Pierucci – Apprendista magazziniere Daniela Della Valle – Precari si nasce Gianpaolo Sarti – Lei dunque capirà sca di Maro – Nenia di mare Lucia Castrataro – Egregio direttore David Picciarelli – Sogni di detergente Massimo Masi – Tendenzialmente Lorenzo Salimbeni – Phd in alta montagna Fabio Marson – Nonna Mappamondo
Contributi
Introduzione Daniela Scotto di Fasano – California Dreaming
Luigi Gaudino – La terza legge della stupidità Sara Zambotti – Miti di aggio Maria Antonietta Confalonieri – Piccolo viaggio nelle riforme mancate Gabriella Grasso – Need a job? Invent it Lucia Cosmetico – Affondati
Postfazione Marco Balzano – Pronti a tutte le partenze
RACCONTI
Nonostante tutto
Introduzione di Marta Zacchigna
Era l’inverno del 2012. Pensavo alla scadenza del mio contratto di lavoro. Terminava a dicembre e non sarebbe stato rinnovato, l’affitto del monolocale invece sì, veniva rinnovato eccome, e anche la mia stanchezza si rinnovava all’idea di rimettermi alla ricerca di un’occupazione. Accadde così, semplicemente: mi venne l’idea di raccogliere le storie degli altri. Forse per sincerarmi del fatto che non ero sola, o forse perché avevo bisogno di sapere che qualcuno stava peggio di me, e magari se la cavava comunque; o forse perché volevo sapere una cosa: ma dov’è questa mia generazione? Questo “popolo sommerso” che non parla, non si vede, non reagisce, non fa uscire la rabbia? Sfògati. La tua storia ha trovato un posto fisso.
L’iniziativa parte dal mio blog microclismi.com e all’inizio raccoglie biografie autentiche e storie di precariato giovanile in tutte le nuance: cinismo, disillusione, sfogo, disperazione, trasfigurazione, narrazioni in terza persona. Arrivano racconti anonimi e persino ballate in rima. C’è Lorenzo ricercatore in Storia senza borsa di studio che si ritira in un rifugio altoatesino per fare il barman quattro mesi l’anno, o Gabriele che vuole fare il critico cinematografico ma nel mentre lavora in un birrificio, Lucia, tra call center e assistenza sociale che rincorre il sogno di una bella casa per la convivenza col fidanzato…
Insomma, oggi, dopo due anni, il progetto Sfògati conta 60 presenze: ci sono le storie dei “ragazzi”, provenienti da diverse città italiane (in questo libro una
selezione di 13 racconti), e ci sono gli interventi di alcune persone invitate e coordinate dalla dott.ssa psicoanalista Daniela Scotto di Fasano, che ha creduto nel progetto sin dalla sua origine. Ci sono artisti, scrittori, giornalisti, e un team di 12 persone che ha lavorato intensamente per rendere questo progetto concreto, reale, possibile.
Tutti hanno partecipato a Sfògati credendo unicamente nella forza di questa idea e lo hanno diffuso spontaneamente anche quando era solo una “timida chiamata alle armi”. Mi sono chiesta molte volte chi siamo. Chi sono queste persone che mi hanno scritto? chi sono gli Sfogati?
Non sono probabilmente il popolo lagnone e rassegnato e non sono nemmeno quelli dell’entusiasmo americanoide per “le giovani start-up”, non sono i figli di papà, né i raccomandati annoiati. Non sono quelli del “dai, rimbocchiamoci le maniche” e neanche quelli del paternalismo stucchevole “In fondo è la nostra Italia”. Gli “Sfogati” non vogliono o forse non possono andare all’Estero, non dialogano con le Istituzioni perché hanno capito che la politica è ormai uno stagno di corruzione insanabile, cresciuti con le categorie di una generazione (quella dei genitori) che non sono più applicabili allo scenario presente; soli, a loro modo, spaesati, con una quotidianità faticosa e un futuro fosco e interrogativo.
Questi sono gli “Sfogati”: i funamboli, gli eroi dietro le quinte: camaleontici, adattivi, quelli che si muovono tra slancio e delusione, blocco e ripartenza, perdita e reinvenzione, malinconia e sdrammatizzazione, angoscia e creatività, lutto e resilienza.
Ma qual era in fondo la mia missione? l’urgenza di quell’inverno difficile? forse solo un’operazione simbolica: rimetterci insieme in qualche modo. Assumere storie a tempo indeterminato per ricordare e ricordarmi che il posto fisso più importante non è quello del lavoro ma quello dell’identità, del riconoscimento, del rispetto per la propria storia e per quella degli altri, il posto fisso delle
relazioni importanti, degli affetti, delle continuità e delle eredità forti in cui crediamo.
Ma non era ancora tutto. C’è stato qualcos’altro che è andato perdendo via via il suo posto fisso: l’ordine costituzionale. Queste storie in effetti non sembrano aderire a quelli che dovrebbero essere i più alti e nobili princìpi dello Stato Italiano. E allora mi sono chiesta, cosa è successo? quando abbiamo smesso di vigilare su cose così importanti come il diritto al lavoro, alla realizzazione della persona, alla possibilità di una vita dignitosa?
Mi piacerebbe che questo libretto funzionasse come una sorta di piccola catarsi collettiva: continuiamo a scrivere la nostra storia, abbandonando forse anche questo termine che suona come una malattia incurabile – “precariato” –, e tentiamo insieme di abbracciare invece dei “nuovi provvisori” nella speranza che domani possano portare qualcosa di buono e perché no, di luminoso.
Sull’idea di “posto fisso” come luogo inviolabile e implementabile di “riscrittura” collettiva è stato allestito il sito: su sfogati.net potranno confluire non solo le storie di chiunque voglia dire la propria ma anche alcuni interventi autorevoli con lo scopo di riaccendere il dialogo, il confronto e perché no anche lo “scontro” (inteso come conflitto evolutivo) tra persone di generazioni e formazioni diverse.
L’avventura Sfògati inizia qui – in queste pagine – ed è la prova che siamo vivi, nonostante tutto; vivi e giovani, o perlomeno, non ancora così vecchi da permetterci di poter dire “è andata così”.
Marta Zacchigna
Precarietà indeterminata
Ho conseguito una laurea triennale in Storia dell’Arte con un voto dignitoso e in tempi altrettanto dignitosi. In effetti credevo ingenuamente che in un Paese che detiene il 70 percento di tutte le opere d’arte mondiale, i musei avrebbero fatto a gara per assumermi; ma dopo i primi tentennamenti e i “Le faremo sapere...”, ho capito che l’unica possibilità era quella di battere una strada più “creativa”. Durante gli anni dell’università svolgevo diversi lavori, ma la loro natura precaria all’epoca non mi disturbava perché mi consentiva di vivere ancora in quell’atmosfera sospesa che tanto amavo. Dopo qualche tempo però, questo papiro minaccioso che mi proclamava “Dottoressa” pretendeva che mi comportassi da adulta. Per prima cosa, mi sono soffermata sull’annuncio di un’agenzia interinale che cercava “giovani dinamici e spigliati” da inserire come promoter presso un’azienda che vendeva buoni pasto ai pubblici esercenti. Avrei dovuto capire subito che i giovani in questione dovevano avere la caratteristica di essere disperati e pronti a divenire schiavi. Infatti l’incarico consisteva nel girare per bar e ristoranti 8 ore al giorno con una divisa improbabile e recitare inesorabilmente uno script, che sembrava una sorta di isterico monologo teatrale. Ho imparato a conoscere tutti i tipi di esercenti: da quello che firma subito, a quello che, dopo 30 secondi, ti mette alla porta di un locale desolatamente vuoto dicendoti: “scusi, adesso ho gente!”. Dopo aver girovagato per 20 giorni in lungo e in largo e aver realizzato meno della metà degli impossibili obiettivi previsti, ho smesso la mia “dinamica e spigliata divisa” e ho stabilito che non volevo più vendere niente a nessuno. Sono approdata quindi al mondo dei sondaggi telefonici. Solo chi ha lavorato in un call center sa che si tratta di un inquietante ménage a quattro: da una parte i tuoi 40 colleghi che blaterano incessantemente le stesse cose ma con diverse sfumature di disperazione; dall’altra, l’intervistato che può risponderti con degnazione, fastidio e più raramente simpatia. Tu, intervistatore, che ti chiedi perchè torturare le persone con domande personalissime e mal
poste, e infine Lei la cuffia, dotata di microfono, che spesso non funziona e ripropone la tua voce come se venisse dalle profondità di una fogna intasata. All’epoca abitavo con il mio ragazzo in una sorta di monolocale arredato in legno e muffa, dove pagavamo una cifra mostruosa. Per andare in bagno, oggetto di contesa legale tra il nostro padrone e la vicina, dovevamo uscire dall’appartamento. Come se non bastasse il bucato non si asciugava per giorni, e le uniche due finestre davano su un’enorme finta palma che copriva ogni possibilità di luce, così per scoprire se pioveva o splendeva il sole dovevo uscire sulla strada. Inoltre avevamo ereditato dalla precedente inquilina un tenace e affezionato strato di grasso sui mobili della cucina. L’odore di umidità penetrava inesorabile nel mio guardaroba, nei miei capelli e nella mia anima. Credo che per vagheggiare la vita bohèmienne si debba essere completamente privi di olfatto... Benché il mio fidanzato vantasse una laurea in materie scientifiche, ciò non è stato sufficiente a garantirgli condizioni lavorative migliori delle mie, poichè per i lavori in cui inciampavamo, non erano richieste particolari qualifiche se non l’imminente morte per inedia. Avevamo concertato uno stratagemma invincibile: ci dividevamo gli scarsi e poco appetibili annunci di lavoro, ognuno dei due andava ad un colloquio, e se l’occasione era vagamente interessante metteva una buona parola per l’altro. Una simile romanticheria dovrebbe sostituire le mielose frasi d’amore scritte sulle carte dei cioccolatini. Mentre mi abituavo di buon grado alla mal retribuita ma pur tranquilla routine da intervistatrice, la Società per cui lavoravo ha cominciato ad avere dei problemi e così ho dovuto trasportare la mia cuffia e la mia voce flautata in un altro call center. Dopo aver analizzato con paternalismo il mio curriculum e aver screditato sottilmente ogni mia precedente esperienza di lavoro, un cinquantenne, ato anche lui attraverso la carriera di intervistatore negli anni d’oro dell’azienda, mi ha ammesso ad un corso di formazione.
Anche il mio ragazzo, che ovviamente avevo estratto dal cilindro a fine colloquio è stato invitato alla formazione e due giorni dopo è iniziata la nostra ulteriore, fallimentare carriera.
Il luogo si presentava bene: c’era un’ampia sala luminosa piena di giovani e meno giovani, uniti, a dire del capo, da un profondo spirito di squadra. “Qui c’è lavoro per tutti!”, sentenziava il cinquantenne. A posteriori non stento a crederlo, visto che ogni sondaggio era pagato pochi centesimi e potevano are ore senza che un’anima pietosa si sottoponesse all’intervista. Ogni mattina io e il mio fidanzato prendevamo diligentemente un autobus strapieno di colleghi, donne delle pulizie, operai e diseredati, e scendevamo nella zona industriale della città, per essere poi inghiottiti dall’enorme edificio che il call center divideva con un’altra azienda. C’era anche una mensa dove, con un po’ di rassegnazione, ci sedevamo sfiniti da una mattinata infruttuosa. Prendevamo in due l’intero menù e poi lo dividevamo. Non ricordo bene quali prelibatezze servissero: so solo che il mio stomaco non era preparato ad accoglierle. Certi giorni ci divertivamo a ridere dei nostri commensali. Altre volte calcolavamo con amara precisione che il guadagno dell’intera mattinata era sfumato in quel pranzo ingiustificatamente esoso, ma perlopiù, come due galeotti, parlavamo di come evadere da lì. I computer si guastavano con una consuetudine sospetta. I supervisori – un gruppo di giovinastri tabagisti e inetti – si risentivano non appena veniva chiesto loro un piccolo aiuto. La prima busta paga ci era servita a malapena per l’affitto dell’antro immondo in cui abitavamo. Ricordo che in quel tempo abbiamo escogitato qualsiasi modo per arrotondare: partivamo al mattino con borse di libri che vendevamo a cinquanta centesimi l’uno, o ci sottoponevamo a esperimenti psicologici in un centro di ricerca, in cambio di un esiguo rimborso spese. Proprio sotto casa, inoltre, sorgeva un allegro negozio dove si potevano vendere oggetti di ogni sorta guadagnando una misera percentuale. Nei dieci mesi che abbiamo abitato lì ho sviluppato un senso degli affari che mai avrei creduto di possedere. Vi portavo oggettini che mi regalava mia madre, bigiotteria, cancelleria e addirittura una chitarra classica.
Ogni settimana scendevo a controllare se erano stati venduti e se ci fossero, ad aspettarmi, dei guadagni succulenti. Entravo speranzosa e me ne uscivo con pochi euro per i biglietti dell’autobus e lo stomaco sottosopra per i contrasti che avevo con la proprietaria. Le cose non potevano continuare così. Decidemmo entrambi di rigettarci nella mischia e rivendere la nostra professionalità. Ricordo le file interminabili al centro impiego al mattino presto assieme ai rassegnati, agli arrabbiati, ai disperati, e la frustrazione impotente di fronte all’ottusità degli impiegati, che affermavano di voler incrociare domanda e offerta, mentre, in realtà, quello che continuavo a incrociare sul mio cammino di vita erano solo impieghi sempre più indegni. Sono cresciuta imparando che nessun lavoro è disdicevole, ma alcuni colloqui di quel periodo hanno notevolmente rivoluzionato la mia visione della vita. Cercando sempre di restare nell’ambito dal call center mi sono presentata a una selezione per telefoniste presso un’associazione culturale. La figura ricercata doveva vendere biglietti teatrali per telefono, per sei ore al giorno. Il pagamento consisteva nel 5 per cento sul prezzo del biglietto, sempre nel caso che si riuscisse a piazzarne qualcuno. Il colloquio era tenuto da una bionda ossigenata sui sessanta, che mi aveva accolto in una nuvola di fumo e aveva esordito con un lungo panegirico sulle finalità umanitarie e filantropiche dell’associazione: ricordo l’orrore e lo sdegno sul suo viso alla mia domanda diretta sulla possibilità di ottenere un minimo di compenso fisso orario visto che, in caso contrario si sarebbe trattato di lavorare sei ore al giorno guadagnando sì e no quindici euro. Per riprendermi momentaneamente dal costante mal di testa da cuffia e dalla raucedine ormai cronica, decisi di rispondere a un’offerta per receptionist di albergo. Mi ritrovai così a consegnare il mio variopinto curriculum nelle mani sudice e continuamente solcate da banconote del titolare di una pensione di quart’ordine che mi fece firmare un contratto a tempo indeterminato
intermittente. Non saprò mai in cosa consistesse l’intermittenza, visto che stavo lì da lunedì a domenica: per 5 euro all’ora mi occupavo dei check-in, soddisfacevo i più svariati capricci dei clienti, aiutavo la donna di servizio in perenne stato di dopo sbornia, tenevo pulita la Reception e stavo dietro ai conti che, come si sa, non tornano mai. Ricordo una bellissima domenica estiva in cui, ando vigorosamente un panno sul lurido pavimento mosaicato, ascoltavo la radio. Il mio lercio padrone mi raccomandava accoratamente di lasciarla sempre accesa per solleticare le delicate orecchie degli ospiti. La voce di John Lennon quel giorno esplose chiara come un monito: “...life is very short and there’s no time...”. Quell’amara verità mi fece riflettere sul fatto che avo lì, per pochi euro, molto tempo della mia vita che nessuno sportello dei reclami mi avrebbe fatto riavere indietro. Cosi, rassegnai le dimissioni. Ci sono state altre esperienze: una scuola di lingue, in cui una rossa permanentata, per 3 euro all’ora, pretendeva che le procurassi continuamente clienti a cui proporre corsi scadenti per un prezzo spropositato e, ogni volta che reclamavo lo stipendio, scoprivo che era confluito in buona parte nella sua acconciatura per il weekend. È stata poi la volta della cooperativa sociale in cui il mio ruolo consisteva nel trasportare otto vecchietti con un enorme furgone scassato, tenerli svegli cantando, pulire regolarmente il vomito che producevano a causa delle curve e bagnarmi fino al midollo per riaccompagnarli a casa, a uno a uno, proteggendo le loro teste imbiancate con l’ombrello sotto qualche temporale capriccioso, come la mia vita lavorativa. Non nomino altre esperienze perché sarebbe troppo lungo e perché credo che ormai sia chiaro come si siano svolte le cose in questi anni. Ricordo una mattina di luglio, due anni fa. Non ne potevamo più del nostro sudicio monolocale ed eravamo disposti a tutto: siamo andati a vedere un appartamento che avevo trovato sul giornale locale. È bastato entrare e vedere la luce che si irradiava dalla porta finestra della cucina. Ci siamo guardati e,
all’istante, abbiamo detto di sì, senza neanche lasciare che i padroni finissero di illustrare il resto. Siamo lì da due anni, e da allora, devo dire che ho vissuto meglio anche le vicende lavorative. A volte basta poco, si deve solo spostare qualcosa, far entrare un po’ di luce e ci si sente già meno poveri, meno affaticati, meno esposti a questo bizzarro, infinito periodo di crisi. Non so se sia stato il primo lavoro sfortunato ad avviare questa catena di impieghi grotteschi e inimmaginabili, o se sia stata io a commettere l’errore di pensare che ogni esperienza vada presa e vissuta, anche quando non sarebbe stato necessario, o se, semplicemente, viviamo in un periodo storico in cui per sopravvivere non bastano più la laurea e la voglia di fare ma bisogna mettere in campo un coraggio da leoni e la capacità di adattarsi senza crollare. Ho imparato molte cose in questi lavori, ho conosciuto persone uniche, mi sono arrabbiata. A volte, ho riso. Marilyn Monroe, a un certo punto della sua vita, disse che non mirava più a essere felice ma che le bastava almeno essere di buon umore. Non ho risolto le mie peripezie nella ricerca di un impiego e non pretendo più di andare al lavoro felice ma almeno cerco di trarre da una giornata di insensato lavoro full time, eseguito a buon mercato, una visione leggera; tento di sdrammatizzare, laddove possibile, gli aspetti più surreali e grotteschi di questo confuso presente.
Autoritratto del critico cinematografico da giovane
A cosa servono a un uomo i pensieri e le idee, se ha, come me, la sensazione di non saper cosa farsene? (Robert Walser, Jakob von Gunten)
E dopo?
Da quanto tempo è che mi ronza nel cervello questa domanda? Sforzandomi un poco, credo che risalga pressappoco a questa primavera, in concomitanza con la preparazione dell’ultimo esame prima dell’agognata laurea. E sì che di roba su cui riflettere ce n’era a sufficienza! Per quanto abbia tentato di rimuovere ogni cosa, ritornare con la mente all’esame di filosofia del linguaggio (titolo: “Credenze: un rompicapo per i filosofi”), mi provoca un caratteristico senso di nausea: nemmeno il fatto di averlo rimandato per due anni e mezzo aveva attenuato l’impatto. E in mezzo al furibondo tentativo di venire a capo di Frege, di Russell, di Kripke e di Putnam, riusciva comunque a farsi strada la domanda.
E dopo?
Il “dopo” si riferiva naturalmente a tutto ciò che sarebbe accaduto in seguito all’ambito traguardo di quattro anni e mezzo di studi. Quattro anni e mezzo: troppi per un triennalista di filosofia? Ma è così che succede quando si è troppo esigenti con se stessi per accettare un 27, ma si è al contempo troppo indolenti da impegnarsi a fondo per un 30 sicuro. Una volta un amico mi disse: “L’unico ostacolo per te può essere il perfezionismo”. Aveva ragione? in fondo, perché pretendere l’eccellenza? dovevo forse dimostrare qualcosa? E a chi, soprattutto?
Sì, ma dopo?
Dopo c’è stata la proclamazione. Mi sono laureato il 28 giugno 2012, l’anniversario dell’attentato di Sarajevo, l’evento che portò l’Europa del 1914 alla Grande Guerra. Una settimana prima della cerimonia, uno studente di giurisprudenza virtualmente fuori corso, nonché mio grande amico, rifletteva: “Pensare che Princip [l’attentatore] abbia fatto scoppiare la Prima Guerra Mondiale quando aveva ben quattro anni meno di noi mi fa sentire immensamente stronzo”. Se poi aggiungiamo che il suo nome di battesimo, Gavrilo, è il corrispettivo bosniaco del mio, non posso non sorridere pensando che davvero, marxianamente, la tragedia della Storia finisce per ripresentarsi come farsa. Del giorno della mia laurea ricordo soprattutto il caldo: pare che si trattasse di “una delle settimane più calde del secolo”, come amano dire i gazzettieri quando sono a corto di notizie. Come che fosse, io sudavo copiosamente nel mio completo giacca – pantalone di lino blu, con tanto di cravatta, acquistato e riadattato alle mie striminzite misure a tempo di record. Ricordo il senso di disagio, il timore di non aver sbrigato a dovere le ridicole formalità burocratiche riguardo alla consegna della tesi, l’attesa trepidante della relatrice (in ritardo). Ricordo mia madre, che piangeva come una fontana, abbracciarsi con la relatrice, piangente pure lei (scena edipica). Ricordo le foto di rito, il salto della siepe nel cortile del Filarete, le due coche gelate bevute al bar nei pressi dell’università con gli amici.
E dopo?
Dopo è finalmente arrivato il “dopo”, ovvero il momento della consapevolezza: quattro anni e mezzo di filosofia, una laurea da 110 e lode, e non saper che fare. In realtà quella consapevolezza l’avevo sempre avuta, almeno da quando, ottenuta la maturità, avevo deciso di iscrivermi a una facoltà umanistica. Le reazioni furono di questo tenore:
“Ma non potevi scegliere qualcosa di più intelligente?” “Ma che lavoro pensi di fare?” “Che contributo darai alla società?”.
All’epoca mi capitava di rispondere con un’alzata di spalle. E anche se mi sembrava d’aver preso una cantonata madornale, di quelle con cui un ragazzo si gioca definitivamente l’avvenire, davanti agli altri mi trinceravo dietro il mio bravo “razzismo intellettuale”.
Citavo Eraclito: “Rispetto a tutte le altre una sola cosa preferiscono i migliori: la gloria eterna rispetto alle cose caduche; i più invece pensano solo a saziarsi come bestie” (dimenticando accuratamente che Eraclito diceva anche: “Sapere molte cose non insegna ad avere intelligenza”).
Man mano che ava il tempo tutta questa sicumera venne meno, anche a causa dell’insofferenza che verso il secondo anno di studi cominciai a provare (salvo eccezioni) nei confronti della filosofia accademica. Mi resi conto che rischiavo di rimanere confinato in un mondo iperuranico di idee e concetti scollati dalla vita: e credo non fu estraneo a questa nuova coscienza il fatto di aver intrecciato una relazione con una studentessa del Politecnico, di qualche anno più grande, ma soprattutto molto più pragmatica di quanto non lo fossi io – almeno in quel momento. Insomma, il problema del “dopo” covava sotto la cenere già da un po’ di tempo, e l’agognato traguardo non aveva fatto altro che dargli nuovo respiro.
D’accordo, ma dopo?
Parlavo con gli amici. Al bar, dopo il cinema, al biliardo, durante lunghe telefonate: che farò dopo la laurea? Proseguirò con gli studi, con altri due anni di specialistica? Farò un master? È meglio che mi trovi un qualche lavoro, nel frattempo? Dietro queste domande si nascondeva, temo, il panico di chi, non abituato com’è al mondo – per dirla con Gramsci – “grande e terribile”, ha una paura maledetta di buttarvisi. Non importa se col paracadute o senza: tutto quello che c’è al di fuori del percorso casa-università-cinema-biliardo è un buco nero da cui bisogna tenersi lontani.
Va bene, e quindi?
Al liceo pensavo che sarei diventato un cineasta. Era un sogno che covavo sin da quando, nell’ottobre del 2001, avevo visto La febbre dell’oro di Chaplin. Il sogno era stato poi corroborato dai film di Keaton (luglio 2003), di Woody Allen (settembre 2003-aprile 2006), dei fratelli Coen (aprile 2005-aprile 2006), per trovare infine la propria definitiva epifania con la visione de L’infernale Quinlan, di Orson Welles (conservo ancora il biglietto: 29 aprile 2006). Il cinema era più che un hobby: era una ione, un vizio, una bulimia. In quel periodo guardavo due film al giorno, e pensavo che guardandoli e riguardandoli, un giorno, avrei anche imparato a farli: grossolano errore di calcolo, probabilmente. Qualche anno più tardi, dopo aver messo in piedi un breve documentario la cui realizzazione mi perseguita da allora, venni a patti con la realtà: fare film non è il gesto spontaneo di un artista-creatore, ma un mestiere complesso, che richiede non solo grandi capacità intellettuali, ma anche manualità, capacità organizzative e carisma. Soprattutto, non si può creare un film standosene chiusi nella propria stanza, con la raccolta delle interviste a Welles da una parte e la monografia su Keaton dall’altra: “Non esiste la cultura cinematografica, solo un enorme mucchio di film. Bisogna tenersi aggiornati, naturale, ma con tutto il vasto mondo, non solo con i film”, diceva proprio Welles all’amico Peter
Bogdanovich. Ho avuto paura di quel vasto mondo. Sono diventato critico cinematografico.
E dopo?
Dopo alcuni pezzi pubblicati qua e là, ho cominciato a scrivere su un trimestrale online (Filmidee), di cui sono diventato anche redattore. Un’esperienza umanamente splendida, ma poco o nulla remunerativa. Inoltre, vivevo e vivo ancora oggi il mio lavoro di critico con un senso d’inadeguatezza. Non solo perché mi sembra di essere assai più limitato dei miei colleghi (come conoscenze, apertura mentale, profondità di analisi ecc.), ma anche perché ho cominciato a trovare questo mestiere una sorta di surrogato delle mie ambizioni liceali, un po’ come – chiedo scusa – la masturbazione per l’amore fisico: il divertimento non manca, per carità, ma non riesce a colmare quello spiacevole senso di vuoto. Inoltre, la critica cinematografica non risolve il problema. Chiuso in camera davanti al computer a battere articoli e saggi, oppure in un cinema a guardare un film, il confronto con la realtà viene costantemente rimandato.
E allora?
Ho iniziato a lavorare. Mia madre avrebbe voluto che dessi qualche ripetizione, o che mi inserissi in graduatoria per lavorare nella biblioteca dell’università. Fortunatamente, il solito amico, che con due soci aveva da poco messo in piedi un piccolo birrificio artigianale, mi ha chiesto se avevo intenzione di dare loro una mano, in caso di bisogno, alla cifra di otto euro all’ora. Sono diventato imbottigliatore di birra. È ironico, presumo, che il diciannovenne tutto preso nelle sue speculazioni filosofiche, l’Orson Welles in sedicesimo che voleva girare il Grande Film, alla fine abbia trovato una (precaria) tranquillità dividendosi fra la scrittura critica, lo studio (quello del biennio specialistico) e, di quando in quando, la produzione
artigianale di birra. Non troppo tempo fa incontro un altro amico “storico” e mio compagno di studi alla facoltà di filosofia. Di famiglia benestante egli riusciva, a differenza di me, a tenere insieme il più sprezzante razzismo intellettuale con la militanza politica nelle file della sinistra extraparlamentare – ancorché del tipo più dottrinario e idealistico. Voleva diventare scrittore, teneva un blog di “critica letteraria” e criticava duramente tutti coloro che, terminato il triennio di filosofia, riparavano in qualche corso specialistico “per trovare lavoro”. Io condividevo (almeno in parte) la forza delle sue convinzioni, e mi sentivo quasi a disagio al suo fianco, forse perché lo trovavo tanto più intelligente di me, o forse perché sembrava così sicuro di quel che diceva. Come dicevo, poco tempo fa ci siamo rivisti: mi dice che dopo aver seguito un corso d’inglese a Oxford (con tanto di certificazione), si sarebbe iscritto a un master Publitalia in marketing e comunicazione d’impresa, “di quelli che ti danno un lavoro decente e ti prendono anche se esci da filosofia”. Mentre lo ascoltavo basito, mi dice ridendo che “Il sistema si distrugge dall’interno” e che del resto non può sostenere “Lotta comunista” ogni mese, se non ha soldi. Ogni tanto, quando lo leggo attaccare l’attuale governo sulla sua bacheca di Facebook, proprio sotto una foto nella quale, sorridente in giacca e cravatta, posa insieme ad altri ragazzi e altre ragazze sotto il logo “Publitalia ’80”, mi coglie un senso di vertigine, e mi ritrovo a pensare che la caricatura ha preso il sopravvento sulla realtà. O forse non è che, ancora una volta, ha ragione lui?
Prostrarsi
Potrei parlare per giorni. Potrei raccontare di me e della mia esperienza di mamma single. Single per non dire sola che poi mi intristisco. Con un ex compagno, padre del bambino, che perde un lavoro al mese e che di volta in volta decide di sua iniziativa a quanto deve ammontare l’assegno di mantenimento.
E io? mentre aspetto da tre mesi una riconferma per un lavoro che parte a ottobre e finisce a giugno, mentre aspetto e mi “barcameno” a racimolare ogni minuscolo lavoretto freelance, spesso mortificante per i miei quindici anni di esperienza, corro dietro a quattrocento euro che arrivano dopo sette mesi.
Ho preso un diploma di Grafica Pubblicitaria Integrata nel lontano 1996 e sono stata sufficientemente intraprendente da andare a propormi al mercato milanese. Per svariati anni sono stata apprezzata e ricompensata e ho fatto la mia piccola carriera o dopo o. Poi, col tempo, tutto è andato degenerando: da docente in una prestigiosa Accademia d’Arte privata sono ata ad assistente, poi a tutor. Alla fine dei quattro anni mi chiedevano se potevo fare il giro del campus per spegnere le luci dei cessi!
Nel frattempo, tanto per mantenermi in esercizio con il sacrificio, mi sono laureata in Scenografia: una laurea di primo livello, quindi una di quelle che non contano assolutamente niente, se non fosse per il 110 e lode, che se non altro ha gratificato i miei 3 anni di totale e assoluto eremitaggio...
Il mio orario di lezioni da studente/assistente/docente/tutor è stato per tre anni interi: Nove-ventuno, dal lunedì al venerdì. La sera progettazioni e lavori su commissione fino al mattino. Sabato ripetizioni private, perché i soldi non mi bastavano per arrivare alla fine del mese. Domenica studio. Tre anni di enorme fatica.
Risultato: un bel foglio di carta che ho incorniciato con grande affetto ma che pare mi debba vergognare a mostrare.
Intanto le performance pirotecniche per riuscire ad agguantare qualche lavoro di grafica sono andate avanti. Quante settimane, quanti mesi di lavoro, sempre meno pagati, sempre più rovinati (perché nemmeno il rispetto per la professionalità è rimasto).
E oggi mi ritrovo a vivere in un microscopico villaggio di 30 anime (galline e pannocchie incluse), sola, con un bambino di 26 mesi, in attesa costante di qualche “breakthrough” (se mi si perdona l’inglesismo), che mi possa garantire un minimo di sicurezza, se non per me, almeno per mio figlio.
Non parliamo nemmeno di quante porte mi sono state sbattute in faccia, o anzi meglio ancora, non mi sono state neanche aperte: in primis, quando – incinta e disoccupata – ho fatto il giro di enti, associazioni, comune, regione, per poter avere un minimo di assistenza finanziaria.
Nessun assegno di maternità, niente assegni familiari, niente casa popolare, niente disoccupazione, nulla.
Io, una delle tante persone con un’educazione discreta, una professione e una professionalità alle spalle, una buona manciata di anni di esperienza nel settore e non pochi anni di contributi versati, non ho avuto diritto a nulla.
Nulla.
Sfortunata? Parliamo di mia sorella. Laureata in Scienze Naturali. Anni di studio vero, quello sano di una volta, che prevedeva 6/7 grossi esami all’anno (tomi da 10-12 cm di spessore scritti in font corpo 5) da preparare tutti insieme a giugno, con due sole date possibili. Quanti sacrifici in famiglia per permettere a due figlie l’università.
E dopo? il nulla. Non si trova.
Un anno intero dentro un negozietto di prodotti per animali, svuotando scatoloni e riempiendo le scansie, perché “è nuova e non ha esperienza”, e quindi non può avvicinarsi né ai clienti né alla cassa.
Ma arriva un’opportunità: una borsa lavoro! Sei mesi, 670 euro al mese per 6
mesi, in previsione di un contratto serio al termine dell’esperienza.
Finiti i sei mesi, anziché migliorare, la situazione si deteriora. Al termine della borsa lavoro, le viene offerto un contratto a chiamata. Il peggiore fra quelli attualmente previsti.
Ogni mattina la sveglia suona alle 7, perché potrebbero avvisarla all’ultimo minuto. E poi si aspetta. Si aspetta. Questa settimana solo due giorni di lavoro: anzi, due mezze giornate. 8 ore totali a 6,50 euro all’ora. 52 euro a settimana.
Questo è quello con cui dobbiamo convivere. Senza calcolare che spesso, se non sempre, ti devi PROSTRARE oltre che ringraziare umilmente perché ti fanno ripulire i cestini per 4 euro all’ora.
Il lavoro di ciascuno di noi non ha più valore, la nostra esperienza non ha più valore, la nostra professionalità non ha più valore, il nostro bagaglio e la fatica fatta per costruirlo, tutto buttato al vento.
Nessuno ci rispetta più, anzi, la tendenza è quella di farci sentire sempre in debito, per il grande dono e l’enorme concessione di avere un lavoro.
Lavoro? Lo vogliamo chiamare così?
Io e mia sorella siamo solo due. Se non dovessi andare a riprendere mio figlio adesso, potrei raccontare anche di tutti gli altri conoscenti, amici, colleghi.
Precaria di lusso
Sono una precaria di lusso, ma al contrario di altre professioni di lusso le prestazioni intellettuali d’alto bordo hanno un infimo riscontro economico, sebbene riempiano la bocca: professore a contratto!
Dieci anni di insegnamento precario universitario, in due sedi distaccate di due università diverse, in due Facoltà diverse, con tre insegnamenti diversi.
In dieci anni sono stata co.co.co (e mi sono sentita una gallina) e co.co.pro (e mi sono sentita vagamente disgustosa e imbarazzante), ma sono stata fortunata: fin qui non ho dovuto aprire una partita iva, evitando così di sentirmi una commercialista.
La mia condizione precaria è stata determinata da scelte precise, di cui sono perfettamente consapevole e di cui mi attribuisco tutta la responsabilità. Se bastasse questo per non essere precari ci si potrebbe contare sulle dita dei piedi e delle mani e saremmo tutti più sereni. Invece il precariato universitario esula spesso dalla volontà di chi lo subisce o lo accetta. E la denominazione di precario non è nemmeno la peggiore perché nella gerarchia universitaria ci sono parole di pessimo gusto: ordinario (che in altri contesti non è mai stato un complimento), associato (che conserva sempre un’eco malavitosa) e poi strutturato, incardinato, stabilizzato.
Mi sono sempre chiesta come fosse possibile per degli intellettuali (intesi nel senso di individui che dall’asilo alla tomba trovano il proprio posto nella società usando l’intelletto pratico o più spesso astratto) accettare di essere definiti con parole tanto sgraziate.
L’armonia di una parola che suona gradevole oltre che esaustiva non dovrebbe essere esclusivo appannaggio dei poeti.
Siccome chi vive di parole non può prescindere da esse forse è meglio essere uno “straordinario precario” che due volte ordinario ma all’atto di pagare il mutuo, la differenza si vede, eccome. Per il resto, un docente a contratto fa tutto quello che fa uno strutturato/incardinato/stabilizzato (lezioni, esami, ricevimenti, tesi) tranne partecipare ai Consigli di corso di laurea o ai Consigli di Facoltà, perché tanto non ha diritto di voto.
Se il precariato all’università fosse un’eccezione, uno scalino “inevitabile” della carriera, non varrebbe nemmeno la pena di parlarne. Ma provate a prendere il corpo docenti di un’università medio - grande e fate il conto di quanti contrattisti (o supplenti, ovvero titolari di cattedra che svolgono l’insegnamento di colleghi che non sono stati sostituiti per mancanza di turn over) sono arruolati non solo per i corsi facoltativi ma anche per i fondamentali.
E la segretaria malmostosa, l’usciere nervoso, gli impiegati amministrativi piacevoli come un riccio nei pantaloni? Sono così irritabili perché opportunamente selezionati?
Tutti questi dipendenti sono precari, precari da anni, almeno quarantenni con case, famiglie e rate da onorare al seguito. Gente che sa che perdendo questa aleatoria possibilità sarà troppo vecchia per averne un’altra e si troverà a lottare contro gente che prova ad avere una possibilità ma ha già dubbi in partenza.
Cosa mi auguro? Mi piacerebbe essere assunta, non stabilizzata come un infartuato in terapia intensiva. Mi piacerebbe seguire le tesi senza pronunciare
frasi da malato terminale del tipo: “Spero di esserci ancora il giorno della sua laurea”. Mi piacerebbe davvero! Ma se tutto questo lo dovessi ottenere non in base ai titoli e all’esperienza, ma in base alla mia capacità di manifestare supina obbedienza anche davanti all’assurdità e allo spreco di risorse (umane, economiche, intellettuali), allora meglio precari a vita che incardinati a una porta che non gira.
Apprendista magazziniere
Ennesima agenzia interinale. Ricerca disperata di un lavoro. Vado, ostinatamente, di nuovo, dopo sei mesi, all’assalto del mio centro di smistamento-collocamento. Mentre cammino sul marciapiede alla ricerca del civico, intercetto una vetrinetta opaca che trasuda condensa piena di cartelli appiccicati con lo scotch. Eccola. L’agenzia interinale. Mi avvicino cautamente e leggo gli avvisi sparsi pronti a rincuorare tutti i freschi laureati di oggi: saldocarpentiere, apprendista magazziniere, programmatore, escavatorista.
La parola interinale mi annienta. Non lo so perché. Sa di asettico e spersonalizzante. Sa di malattia.
“Che cos’ho dottore?” “Mmm... è qualcosa di interinale!” “E quindi? non ho speranze?”
Una volta entrata guardo avanti a me e vedo due giovani ragazze, una bionda e una mora, che con aria serissima e fintamente professionale fissano lo schermo del computer in un’atmosfera da gelo aziendale. C’è una sorta di bancone serpentina che divide il laureato medio dal sogno della possibilità. L’intera classe politica dovrebbe essere messa in questo luogo a pensare alle riforme sul lavoro. Dico “Buongiorno” con una voce che ormai non mi appartiene più. Accenno un sorriso: la mora alza la testa lentamente e mi guarda con aria interrogativa mentre l’altra fa un sussulto e poi sgrana gli occhi come se fossi entrata là dentro con dei tappeti sul dorso dicendo: “volete comprare?”
“È possibile avere un colloquio con voi?” “Un colloquioooo?!?”
Mah, uno che entra in un ortofrutta dicendo voglio delle pere solitamente non si sente rispondere “delle pere?!?”
Le due cominciano a ticchettare furiosamente sui tasti. Io le guardo ieratica con il mio cv plasticato in mano. Il cv formato europeo inserito in un foglio di plastica coi buchi è l’immagine più desolante e deprimente di un disoccupato in cerca di lavoro. Mi faceva male al cuore vedermi dall’esterno in quell’immagine di richiesta confusa.
“Nome scusi?” “Angela“ “Ma lo ha compilato il modulo lei?!?” “Quale modulo?”
La mora fa un sospirone di stizza incontenibile e mi vomita addosso un sfilza di parole, entra come in trance:
“...no perché non è nel nostro database e noi non possiamo fare il colloquio se non è nel database... deve prima compilare il modulo e poi.. ma solo dopo! fa il colloquio! perché non è davvero possibile altrimenti... questa è la regola … mi dispiace...”
Pronunciate queste parole il donnino si spegne tipo automa e mi consegna il modulozzo, mentre la bionda si alza e sparisce dietro una porta dopo aver dato un caloroso segno di assenso-consenso alla collega. A quel punto mi metto disciplinatamente a compilare la scheda in tutte le sue parti senza fare domande in quest’atmosfera dimessa piena di raccoglitori divisi per annate. Migliaia di vite raccolte e archiviate in dei fascicoli polverosi e stantii. Nomi, cognomi, date di nascita, scuole frequentate, indirizzi, iscrizioni, diplomi, attestati, firme, sogni abdicati.
Finisco anch’io la mia compilazione. Mi alzo. Consegno il foglio alla mora avvicinandomi con la massima discrezione al banco, lei lo arpiona, lo scrolla e va con gli occhi alla ricerca spasmodica dei miei dati.
“Bene, la sua richiesta sarà inoltrata e messa nel nostro database. Sarà contattata qualora la riterremo idonea per una qualche proposta. Arrivederci.”
Non sono riuscita ad articolare parola e mi sono sentita come un senegalese con i braccialetti in corda colorata in attesa dell’euro. Sono uscita facendo spallucce e mi sono fermata di nuovo davanti alla vetrinetta piena di condensa: saldocarpentiere, apprendista magazziniere, programmatore, escavatorista.
Mi sentii come se avessi appena vissuto una piccola morte nel sentire quella voce meccanica pronunciare parole senz’anima: “database”, “idonea”, qualora”.
Qualcosa mi stava ando davanti. Dopo mesi di ricerca infruttuosa e umiliante mi ritrovai in piedi ferma a un semaforo, semplicemente, a risfogliare ricordi:
... la mamma che mi accompagna al mio primo giorno di scuola, i quaderni, le lettere, la maestra, i compagni, le interrogazioni, i disegni, l’ora di musica, l’ora di religione, le medie, la gita scolastica, la nota sul diario, un voto orribile che non mi aspettavo al compito di matematica, mio padre che vuole che faccia il liceo classico, il greco, il latino, Catullo, de rerum natura, il suggerimento del compagno, la copiatura di un tema, la maturità, la cena della maturità, la scelta dell’università, l’odore del libretto universitario, immatricolazioni, case, affitti, feste, litigate, esami andati bene, esami andati male, tirocini, professori importanti, professori inutili, professori per caso, quella volta che, il giorno in cui, la prima parola alla commissione, la vergogna, il giorno della laurea, il vestito della laurea, costosissimo, i cugini che non vedevo mai ma c’erano il giorno della laurea, strette di mano, cravatte, la commozione di mio padre, mia madre che mi aggiusta la giacca, la corona di alloro, l’alloro, l’alloro di allora, 110, la lode, baci accademici, risate, fiori, champagne, progetti, arrivi, partenze, curriculum, compilazioni, possibilità, sogni...
Sogni.
“Lo ha compilato il modulo? Bene, la sua richiesta sarà messa nel nostro database. Sarà contattata qualora la riterremo idonea per una qualche proposta”.
Precari si nasce
Sognare una vita che sia equilibrata non è certamente una scelta obbligata, ma forse l’amore, la casa, i bambini non sono da dirsi pensieri cretini. Noi pretendiamo dei lussi sfrenati, gioielli, orologi da troppi carati? Uscire ogni sera, la casa, la moto? Se già a fine mese si affaccia l’ignoto!
Del fare un programma di qui a pochi mesi non ce lo sogniamo: ci siamo già arresi, perché il tempo a, ma tutto d’un tratto scopriamo che non si rinnova il contratto! Non è un grande onore che abbian coniato per noi questo termine: “determinato”, né ci fa ridere il nuovo concetto che tutti chiamiamo “contratto a progetto”.
Se solo sapesse, signora guardinga, qual è la ragione che invero mi spinga a mangiare in autobus, senza sedermi preferirebbe nemmeno vedermi, perché sto volando ai due capi del mondo e durante la pausa non spreco un secondo: ho appena il tempo di fare il tragitto. Che vita di merda, ma pago l’affitto!
E che non si prenda la mia esternazione per una polemica: è generazione. Abbiam la sfortuna di essere nati che tutti i soldi eran stati scialati. Gestione politica, governo scaltro? Che importa la causa se non c’è più altro possibile mezzo di sostentamento? Nemmeno pensiamo a chi c'è in Parlamento...
Non vuol, questa mia, fare alcun qualunquismo: rimango al mio posto e beato ottimismo mi dico che in fondo sarà un periodaccio,
che un giorno si scioglierà, come il ghiaccio. Chissà quell’ondata chi vedrà coinvolti, se indistintamente verremo travolti o se solo noi, quasi elitari, più giù affonderemo, essendo precari?
Ma adesso io parlo alla vostra coscienza: finora ignorate la nostra presenza, però siamo qui, siamo in ogni città, parliamo un po’ di responsabilità? Siamo già adulti, non più adolescenti, ma guardate avanti, pensateci, attenti: vedete quei bimbi che stanno lì in fasce? Chi glielo dirà che precari si nasce?
Lei dunque capirà
Lei dunque capirà. Eh? Non cominciamo bene. No, perché cosa dovrei capire? Basta, si fermi. Si adatti. Si adegui. Insomma, si cerchi un lavoro normale... La solita storia. La storia di chi non capisce. Di chi non sa. Piano... ma... che ne dice, ci diamo del tu? Vabbé, ci sto. Allora, vediamo... Gianpaolo Sarti, 29 anni, 30 a novembre. Dico bene? Sì. Professione giornalista. Precario. Arrivi subito al sodo tu... Già. Mi spiego meglio: sogno, aspiro a diventare un giornalista. Anzi già lo sono: ho una laurea, ho un po’ di esperienza e ho fatto un esame di Stato. Quindi qual è il problema? Che oggi lavoro, domani non so. Beh, non abbatterti. In fondo in questi anni un po’ di strada ne hai fatta: la tv, i tg, i programmi... ora il giornale, qualche lavoro su testate nazionali... a proposito com’è andata con l’inchiesta sull’Espresso? Sì, quella che tu hai proposto e che poi ti hanno commissionato. Ed eri felicissimo... hai lavorato tre domeniche di fila, nel tuo tempo libero.
Mai pubblicata. Perché? Non so, non mi rispondono più nemmeno al telefono, alle email, agli sms. Scritta a gennaio: siamo in agosto. Anzi a giugno mi hanno pure chiamato: “Ascolta, taglia il pezzo a metà che abbiamo uno spazio sul prossimo numero”. Ho rifatto il lavoro e ho rimandato. Ci credevo. Poi l’hanno pubblicata? No. Perché? Mistero. Si dimenticano, a il tempo... se ne fregano. Beh, ti pagheranno. Mi prendi in giro? Cioè, lavori e non ti pagano? Esatto. E come campi? Perché se non sbaglio vivi da solo? Sì, da quando avevo diciott’anni. Ora collaboro per un giornale, seguo la politica. Ah sì: mi hanno appena assunto in cronaca. Per la prima volta in vita mia mi hanno assunto. Ti rendi conto? Però, complimenti. Per un mese e mezzo. Scherzi? No, dico sul serio: un mese e mezzo. A me sembra un lusso: mille cinquecento euro al mese, più straordinari. Cioè le domeniche. Tutte, o quasi. Mai visti tanti soldi insieme.
E poi? Poi tornerò a fare il “collaboratore”. Poi si vedrà. Collaboratore? Sì, 20 euro lordi a pezzo da conquistare ogni giorno. 10 se gli articoli sono più brevi. Ma c’è gente messa peggio. Molto peggio: 5 euro ad articolo, 3 a volte. E quanto porti a casa tu al mese? 800 euro se va bene, ma seguivo anche un ufficio stampa e arrivavo ai mille e due. Ma il “contrattino” al giornale (così lo chiamano) sta per finire. Quindi chiuso il mese e mezzo punto a capo. Anzi, scusa, punto avanti. Eh? Sì perché ci credo. Ci credo, cazzo. A cosa? Che vale la pena combattere. Spaccarsi, tuffarsi. Cercare, provare. Chiedere, proporre... bussare in punta di piedi... e sgomitare. Farsi un po’ del male... io ci trovo molto senso. Ci trovo molto senso a provare felicità per quello che faccio. Io cerco questa felicità. La inseguo. E se poi non è proprio felicità è pienezza. È essere se stessi fino in fondo. È toccare con mano la propria autenticità. Guarda, io non vedo buio nel futuro. Proprio no. Sicuro? E fare altro? Insomma, trovati un lavoro normale. Uno stipendio normale, un contratto vero... cose vere, tranquille, sicure. Chi te lo fa fare a sbatterti così? No, non posso. Non riesco. Sento qualcosa dentro. Andrei fuori di testa a stare su una scrivania e timbrare il cartellino. L’ho fatto, in un’azienda e poi in un’assicurazione. Mi sono licenziato dopo due mesi e ho iniziato a lavorare, anzi a “collaborare”, per una tv locale. Dieci euro (lordi) a servizio. Ma ero felice. Perché a me piace stare in strada, vedere la gente, parlare, raccontare. Scrivere. Talvolta si aiuta la gente anche così: mi è capitato. Mi è capitato che scrivere qualcosa di scomodo potesse far del bene a qualcuno. Impagabile.
C’è un po’ di protagonismo in tutto questo? Sì. Questo lavoro ti fa vivere le cose. Sei dentro alle cose. Ne fai parte. Hai un ruolo. Sei tu. Un’identità. Sento dentro di me queste cose. È come una vocazione, mi capisci? È la risposta a qualcosa che senti dentro. Mi emoziona, mi sfoga. Andiamo un po’ oltre a un lavoro... all’idea di lavoro. Già. È vivere. È bellissimo. Credo che bisogna osare, provare, sbatterci la testa. C’è una differenza, come dice qualcuno, tra vivere e sopravvivere. Insomma, adesso sei felice. Sereno almeno. No, quello è troppo. Perché? Beh, non c’è solo il “lavoro”... che poi va collocato al posto giusto: non credo nel “Dio lavoro”. No, poi stringi stringi cerco altro. Mi identifico, sì, con quello che faccio. Ma non permetto al lavoro di appropriarsi di me. Perché, come tutti credo, sono fatto di cuore. Ed è questo che cerco. Ecco, vivo un difficile equilibrio tra razionalità e ione. Anche quando scrivo. Lo faccio con rabbia. Ma cerco altro. Fammi indovinare: sei innamorato. No, amo. È diverso. Quindi sei felice. No, oggi mi manca il terreno sotto i piedi. Perché un rapporto ha bisogno di volontà. I sentimenti non bastano. E queste sicurezze che cerchi le troverai? Se Dio vuole.
Dio? Sì, ci credo. Anche questo è bellissimo. È dolce. Ma tu che puoi fare? Posso volere bene. Perché l’amore, con la “a” maiuscola, va sopra a tutto. Davvero. Spero, almeno. Poi credo che, alla fine, ripeto, tutti cerchiamo una cosa sola: amare ed essere amati. Il resto conta, ma meno. Intanto? Soffro per questo. Precario anche lì. Precarietà esistenziale. Datemi una storia da raccontare, di qualcun altro. Così non penso.
Nenia di mare
Formia (LT), Italia, 7 luglio 1985. Caterina fissava l’onda morbida del mare scivolare sulla sabbia dorata, rapita dalla tenacia di quel movimento che si annunciava eterno. Abbandonata al mite tepore del tramonto, raccoglieva con la mano mucchietti di sabbia tiepida che lasciava cadere attraverso le dita allargate. I granelli di sabbia liberati solleticavano la pelle delicata delle sue mani da adolescente, e quella corsa le rammentava il movimentato futuro che si stendeva davanti ai suoi piedi. Fissava assorta il mare, mentre il mare fissava la luce intensa che brillava nei suoi occhi: libera, ecco come si sentiva.
Ecco come si sentiva davanti a quell’orizzonte sconfinato e in quell’istante miliardi di impulsi neuronali le attraversavano il cervello, disegnando nella sua mente vagabonda tutte le strade che da quel momento in poi avrebbe potuto percorrere. L’avvenire le si parava davanti come una porta aperta che non doveva far altro che varcare e tutto il resto (gli esami, i docenti, gli infantili compagni) era solo un ricordo, che pur se lontano soltanto dieci giorni, sembrava appartenere a un ato ormai più che remoto. Ora una nuova vita l’attendeva: il liceo era vicino, l’università poco più distante e tutto l’impegno che ci avrebbe messo avrebbe reso inevitabile l’avvento di una carriera brillante e di un radioso futuro. Tanto era a portata di mano il suo destino che quasi le pareva di sentirne sulla lingua il retrogusto dolce. Aveva progettato nel dettaglio ogni decennio, senza lasciare nulla al caso, mossa da quella sicurezza figlia di un’indomabile forza di volontà.
Studiare, imparare, applicare, lavorare… lavorare, lavorare, lavorare… sperimentare, costruire, insegnare, delegare… godersi il successo. E poi c’era da pensare alla famiglia, cinque figli almeno, le piacevano le proli numerose. Non sarebbe stato facile, certo; ma, cominciando a sfornarli a 27 anni circa, e con l’aiuto di una tata che avrebbe pagato profumatamente… “Beh facciamo tre” disse tra sè immaginando il suo ventre gonfiarsi e sgonfiarsi per così tante volte. Doveva essere realista per ottenere tutto quanto. Ce l’avrebbe fatta, non v’era dubbio, e tale sicurezza non derivava da un’insensata spavalderia, piuttosto da quel lato del suo carattere che condivideva con il mare, entrambi così insistentemente mossi da una spinta inesauribile. Tutto questo sognava Caterina, quando la notte si preparava a inghiottire il giorno, e mentre il cerchio infuocato del sole scendeva a spegnersi nell’orizzonte nitido, un raggio dorato disegnò sulle sue labbra vibranti un meraviglioso sorriso.
Milano, Italia, 9 maggio 2014 I visi tremanti degli altri candidati apparivano spavaldi e saccenti agli occhi di Enrico. Quella visione distorta della realtà derivava di certo dalla difficile condizione economica della sua famiglia, che aveva reso inevitabilmente complesso il suo percorso di studi. Sebbene quel latente senso di impotenza avesse incrementato negli anni il suo impegno, d’altro canto aveva reso quasi naturale l’insorgere di pregiudizi verso tutti coloro che partivano da una condizione più comoda della sua. Eppure adesso era lì, al quindicesimo piano di una delle multinazionali più importanti d’Europa, e la sua figura incellofanata in un abito grigio topo, non appariva affatto diversa da quella dei fortunati figli di papà che gli sedevano di fronte. Lui guardava davanti a testa alta, proprio come gli aveva insegnato sua madre, e non rilassava mai i muscoli del collo per il timore che il viso, ammorbidito, sembrasse meno fiero. “Ferranti.”
Si lanciò svelto verso la porta aperta, incrociando, appena prima di entrare, il sorriso sornione del biondino timbrato Armani che aveva sostenuto il colloquio prima di lui. Entrò. Un viso inaspettatamente insignificante gli sorrideva da dietro una scrivania. “Si accomodi pure.” gli disse.
L’uomo teneva il suo curriculum nella mano sinistra, mentre con la destra tamburellava sul legno sordo della scrivania, dando voce ad un rumore fastidioso.
“Dunque, signor Ferranti. Le dico subito che non amo le raccomandazioni.” “In che senso mi scusi?” rispose Enrico con stupore. “Lei, come ben saprà, è qui perché abbiamo ricevuto una lettera dal suo professore universitario, che l’ha indicata come un soggetto meritevole, ed essendo il suo professore un amico del direttore marketing, non abbiamo potuto fare a meno di chiamarla.” “Sì ma, non è una raccomandazione, ha solo scritto una lettera di referenze.”
L’intervistatore restò un attimo in silenzio con lo sguardo vagante.
“Bene, andiamo avanti. Vediamo un po’ – riprese scorrendo col dito lungo le pagine del suo curriculum – laureato col massimo dei voti, stage di tre mesi presso il dipartimento di informatica dell’università…! Non male, però vedo che ha ventotto anni, posso chiederle come mai ha finito così tardi gli studi?” “Beh, vede, purtroppo i primi anni sono stato costretto anche a lavorare per dare
una mano ai miei e pagarmi l’università, quindi sono rimasto un po’ indietro con gli esami.” L’uomo lo guardò perplesso. “...in ogni caso ho cercato di recuperare il tempo perso iniziando fin da subito a fare lavoretti come freelance. Ho ideato parecchi siti per i piccoli commercianti locali e mi sono dato da fare per restare al o con i continui balzi in avanti della Digital Communication degli ultimi anni.” “Capisco, Signor Ferranti, ma come lei ben sa noi cerchiamo qualcuno in grado di seguire i vari processi della comunicazione digital dell’azienda, non solo il sito.” Enrico annuì. “Lei non ha seguito nessun corso di specializzazione, dico bene?” “No, nessuno.” “Posso chiederle come mai? Veda, i candidati che si stanno presentando hanno un livello di specializzazione molto più alto. Il ragazzo che ha sostenuto il colloquio prima di lei, ad esempio, ha frequentato un master ad Oxford.” Enrico ricordò il viso presuntuoso del biondino e per un attimo gli sembrò così detestabile. “Beh – riprese nervosamente – non ho frequentato altri corsi perché come le spiegavo ho finito tardi gli studi, e quindi ho preferito lanciarmi subito nel mondo del lavoro." Inspirò e rimase fermo in attesa della domanda successiva. “Lei abita qui in zona? Le spiego, gli orari di lavoro qui sono molto critici ed è importante che non ci siano problemi legati al rientro a casa.” “In realtà abito in un paese limitrofo, però le assicuro che per me gli orari non sono affatto un problema.” L’uomo lo guardò interrogativo.
“Come mai non affitta un appartamento in centro?” Enrico sospirò, incerto se sentirsi offeso o incredulo, e abbandonandosi sulla sedia rispose: “Sempre per lo stesso motivo. La questione economica.” L’altro lo guardò ancora una volta con aria interrogativa, come se gli sembrasse difficile credere che esistessero individui impossibilitati a spendere 400 euro al mese in affitto. “Lei ha fratelli o sorelle?” chiese all’improvviso. “Come scusi?” disse Enrico sorpreso. “Le ho chiesto se ha fratelli.” “N-no – balbettò – sono figlio unico. Perché me lo chiede?” “Sa, il lavoro in team è importante e i primi insegnamenti in tal senso si hanno nei rapporti familiari, quindi più la famiglia è numerosa… mi segue?” L’uomo intuì i suoi pensieri e come se niente fosse gli tese la mano. Lui la fissò, ancora una volta sbalordito. “Molto bene Signor Ferranti, le faremo senz’altro sapere.” Senza dire una parola Enrico si alzò e uscì dalla stanza. Vagò per alcuni interminabili chilometri, trascinando sull’asfalto arido le gambe tese. Appariva rilassato, come gli era stato insegnato, ma dentro sentiva la rabbia corrodergli lo stomaco come una fiamma ossidrica. Non riusciva a capire quanto di reale ci fosse stato in quell’assurdo colloquio, e per un attimo gli venne il sospetto di essere davvero lui l’incompetente. I pensieri gli consumavano l’anima, ma non poteva lasciare che questa vagasse disperata alla deriva, senza aver prima svolto uno dei compiti per lui più ardui, quello di figlio. Compose il numero sulla tastiera senza neppure pensare. “Ciao mamma, sono io.”
Dall’altro capo di un filo immaginario sentì la dolce voce di sua madre domandargli solo: “Come stai?” “Tutto bene, sono in giro in centro. Tu, piuttosto, come ti senti?” Comprensiva e delicata sua madre lo confortò, fingendosi in perfetta forma. La consapevolezza di quella menzogna rendeva il cuore di Enrico pesante e vecchio, ma quel tacito accordo era il loro modo per non rammentare l’uno all’altro le fatiche vissute ogni giorno, sempre in attesa di quella ricompensa che da troppo tempo ormai tardava ad arrivare. Lei gli chiese se aveva mangiato, ricordandosi poi, un attimo dopo, del fastidio che sentiva quando da ragazzina quella domanda veniva fatta a lei. “Sì mamma ho mangiato, e non temere, anche oggi non deperirò” rispose sorridente, e avvolto da quel debole accenno d’affetto il cuore di lei scricchiolò. Le frustrazioni di Enrico si depositavano sul petto di sua madre come fogli di piombo, e il loro peso le schiacciava lo sterno in maniera talmente reale da apparirle quasi fisica. Uno a uno i ricordi dei ati fallimenti si avventarono sulla sua mente come predatori affamati, nutrendosi di quel poco di buon umore che ancora le restava. Ma non era la sua condizione a ferirla. Troppi insuccessi aveva ingoiato per farsi sconfiggere da quell’insignificante mal di schiena che a sessantasette anni già la tediava ogni giorno, o dall’insonnia, o dalla consapevolezza del consumarsi della vita. Lei che aveva sempre proseguito a testa alta, lei che neppure il licenziamento a cinquantacinque anni l’aveva piegata, lei che con saltuari lavoretti aveva per dodici anni mandato avanti la sua famiglia. No, nulla di tutto questo poteva scalfirla, ma la sua anima si frantumava in mille invisibili frammenti di fronte all’enorme mucchio di possibilità che aveva negato a suo figlio, e che ora le si parava davanti come un ostacolo troppo grande da superare. I master che non aveva potuto pagargli, gli stage non retribuiti che lui era stato costretto a rifiutare, uno ad uno tutti questi piccoli elementi si ricomposero dinanzi a lei come piccole parti di un puzzle dell’orrore, e a ogni pezzetto aggiunto vedeva le possibilità di Enrico svanire e la tristezza impossessarsi del suo dolce viso da trentenne, che ormai si avviava ad abbandonare ogni traccia di
spensierata giovinezza. Questa sua impotenza l’appesantiva al punto da renderla ogni ora più vecchia di un anno, ma a sconfiggerla definitivamente era quel velo di disinteresse che entrambi avevano alzato per rendere meno dolorosa la realtà. Così tirò un lungo respiro e prese a raccontargli degli incontri fatti quel mattino al mercato, della vicina di casa che girava svestita con le finestre spalancate, dei lamenti del loro cane e di tante altre simili assurdità, talmente irrilevanti da far dimenticare per un attimo l’ennesimo colloquio fallito.
“Dai, vado. Tarderò, non aspettarmi sveglia.” “Ok tesoro, fai il bravo e mangia.” Risero entrambi, poi lui agganciò. Dall’altro capo del telefono, nascosta dall’ombra della sera che si faceva strada dalla finestra aperta, Caterina restò qualche istante immobile, provando a ricordare sé stessa cinquant’anni prima, quando la scintilla brillava viva nei suoi occhi. Ma ora i granelli che le scivolavano tra le dita ossute non erano più briciole di speranze future, ma segni inconfutabili dello scorrere del tempo inclemente. E quando fu certa di essere completamente sola in quell’angolo buio, ancora una volta, in silenzio, pianse.
Egregio direttore
Egregio direttore,
mi dimetto da questo impiego a posto fisso, che oggi come oggi sembra un dono, se non fosse che Lei non conosce il mio nome e neppure quello che per contratto dovrei fare. Sente solo le voci di corridoio, ché negli ambienti piccoli nessuno può scampare. Sa che vivo in una stanza in affitto, che ho adottato un gatto, sa che torno a casa di sera e sono sola col mio gatto. E forse le fa comodo e un po’ se ne approfitta.
Egregio direttore, mi dimetto e strappo il mio rinnovo a indeterminato, perché se un “tempo indeterminato” coincide col tempo della vita, a me pare che la vita sia perduta. Dov’è il sogno? Lo slancio? Questa morte quotidiana non può essere considerata un trionfo.
Tanto che se incontri una persona realizzata la consideri un alieno perché ormai non si usa più. Non si usa più, in effetti, pensare di valere qualche cosa, pensare che c’è un posto adatto a me, dove poter fare ciò per cui sono portata, che ho studiato e che lei nemmeno sa, egregio direttore; mentre nell’ufficio del personale mi proponevano un compenso ridicolo perché rilevante era sopra-atutto la promessa di assunzione.
Ci sono cascata, sono caduta, devo avere rotto qualche pezzo, forse qualcosa che avevo dentro, perché dentro, da allora, non mi muovo più. Ma oggi ho deciso di dimettermi, dal mio sguardo basso quando Lei entra al mattino e saluta o non saluta a seconda dell’umore, dal sorriso imbronciato che scodello in ufficio, dalla voce annoiata con cui rispondo al telefono, da mansioni svilenti che una laurea
davvero non conta niente, che bisogna buttar giù di tutto perché mi ripetono: “Stringi i denti, hai un impiego a posto fisso!”.
Egregio direttore, sono stufa. Domani resto a casa col mio gatto, se esco vado a caccia di emozioni, o almeno avrò il tempo di sfogliare il giornale. Pensavo di vedere quella mostra che chiude ogni giorno alle 18 e dove non riuscivo mai ad andare perché alle 18 timbravo il cartellino. Stasera preparo una torta e compro uno spumante millesimato, domani li porterò ai colleghi per salutare, poi faccio un giro in centro per negozi. Magari spendo tutto lo stipendio, che tanto non ci vuole molto impegno.
Liberi di considerarmi una pazza o una pezzente, ma non mi sentirò più uno straccio come adesso. Non avvertirò più questa stanchezza nelle gambe quando salgo le scale e il fiato corto ogni mattina quando corro a prendere il treno. Non starò più a questo gioco al ribasso, per cui ogni volta mi si rifila qualcosa di peggio, il compito che nessuno vuole fare.
Perché c’è un abisso, egregio direttore, tra chi è stato assunto quando il lavoro c’era e non sposterebbe una penna senza chiedere un aumento di stipendio, e chi è arrivato adesso che sembra di cercare l’Isola che non c’è; e ti ritrovi a fare fotocopie e caffè e sai che fino alla pensione (se mai ci arriverai) farai fotocopie e caffè, perché questo di te il mercato del lavoro può assorbire. E dove ogni crisi economica è un nuovo inganno, per perpetuare l’inganno, uno spauracchio per farci stare buoni in questo fango. Proprio come perle ai porci, tutta energia dispersa.
Racconto finalista al Festival delle lettere 2011
Sogni di detergente
“Guarda, dovresti ritenerti così fortunato ad avere questo lavoro che mi stupisce tu parli di un aumento. Lo sai che fuori c’è una coda di persone che pagherebbe per avere il tuo posto?”
Ricordo bene quell’espressione di sincero, paradossale, stupore sul volto della mia responsabile quando osai chiederle, dopo nove mesi di stage a 300 euro, se potevo contare su un piccolo ritocco della mia busta paga.
Non dico per essere autonomo, con i miei 26 anni suonati, ma almeno per avere l’impressione di non lavorare per un euro all’ora. E invece, come mi veniva detto con due occhioni sgranati accompagnati a un fiato rancido di troppi caffè, dovevo sentirmi un privilegiato.
Sì, perché lavorare in pubblicità, fare “il creativo”, svolgere una professione “artistica” era comunque un lavoro da privilegiati. Questo almeno secondo lei, la grossa, grassa e falsamente materna senior copywriter che mi trovavo ad assistere. Una che prendeva 2800 euro al mese per are metà della giornata su Facebook e l’altra a rifilarmi i lavori che lei non voleva fare.
Leggete per caso dell’astio in queste parole? Beh, esattamente di quello si tratta in effetti: per me quella prima esperienza di stage sottopagato fu accompagnata da un sottile, crescente, moto d’odio nei confronti di chi avrebbe dovuto rappresentare il mio riferimento più alto, una “arrivata”, come diceva mia zia Anna con un lessico da telenovela di Rete4.
Forse per capire dove volevo arrivare io, è necessario riavvolgere la pellicola fino alla prima scena: quando, dopo un costosissimo master, mi apprestavo a entrare in un mondo di scioglievolezze, fruttolosità e morbistenze. Un mondo che nella mia testa era ancora legato ai modelli di yuppismo vanziniano anni ’80 e che nulla aveva a che vedere con la realtà delle cose. Tra l’altro, con un tempismo record, ero riuscito a fare i primi colloqui in agenzia giusto in tempo per l’inizio della crisi economica del 2007. Insomma, lo scenario che mi si era presentato davanti agli occhi era il seguente: sei mesi di stage a 300 euro in cui avrei dovuto dimostrare tutto il mio talento, entusiasmo, stakanovismo per poter poi, forse, vediamo, ambire a un contratto a progetto da 800 euro. Una somma da nababbi, in una città in cui l’affitto base era di 450 euro per una stanza singola e una pizza Margherita costava setto euro.
Come da copione i sei mesi erano stati seguiti da altri 3 a condizioni invariate, perché con la crisi in corso, caro mio, c’era poco da accampare pretese.
E ora ero lì, a sperare di are da schiavo sottosottopagato a schiavo sottopagato. Lo sguardo della capessa era però riuscito in un istante a farmi are ogni ambizione di sushi e champagne (al caviale ormai avevo rinunciato da tempo) e a farmi tornare alla scrivania più frustrato di prima.
Poi, per dirla tutta, questo mio atteggiamento non era ben visto neanche dagli altri miei compagni di sventura, che mi chiamavano “il sindacalista”, come se a loro guadagnare il giusto non interessasse.
Vivevano forse d’aria? No, semplicemente avevo capito da tempo che quello era davvero un lavoro d’élite, nel senso che se non facevi parte di una famiglia benestante in grado di mantenerti a vita non avresti mai potuto sopravvivere. E questo non faceva che aumentare il mio senso di frustrazione. Come quando a tavola li sentivo parlare del viaggio che volevano organizzare a giugno per andare al festival della pubblicità di Cannes ignorando che lì si era appena svolto uno spettacolo di tutt’altro livello artistico. Io, a differenza loro, a quei sogni di
gloria avevo già rinunciato, schiacciato tra la bolletta Fastweb e quella del gas.
Mi misi a sedere guardando fuori dalla finestra il sole che tramontava specchiandosi nel palazzone della banca di fronte. Lì le luci erano già spente da un pezzo e iniziavano ad aggirarsi silenziosi branchi di donne delle pulizie sudamericane. Loro, che rappresentavano il grado zero della catena lavorativa in cui mi trovavo, guadagnavano comunque più di me. Mi fermai un attimo a fantasticare su come sarebbe stato preoccuparmi solo di scegliere il detergente giusto per pulire i monitor dei PC o di riordinare le scorte di carta igienica.
Mi sorpresi a maledire il grado di istruzione che mi aveva spinto a cercare una professione più “adatta al mio livello socioculturale”.
Ora quella professione ce l’avevo, ma ero sottopagato, frustrato e, soprattutto, appeso al filo di un futuro incerto, in cui il mio numero poteva essere estratto ogni giorno nella Grande Lotteria dei Licenziati.
Presi la borsa e scesi in strada. Cominciai a pedalare in bici, più forte che potevo, con le braccia stese a tagliare l’aria, mi sentii di nuovo vivo per un istante.
Fu un attimo, in cui chiusi gli occhi, e mi immaginai dentro a una bolla, lontano dalle fatiche del quotidiano, dalle umiliazioni e dalle paure. Poi si sa, anche quelle scoppiano, e ti aspetta un altro giorno.
Tendenzialmente
Il mio capo aveva una ione irrefrenabile per gli avverbi: orientativamente, in linea di massima, grosso modo. Sì, aveva proprio un amore smisurato per questa parte del discorso, invariabile e modificatrice del senso. Era per lui un tempo vacuo – tendenzialmente –, un tempo senza colore, un intercalare che buttava lì per difendersi dal suo stesso imbarazzo, dalla sua ignoranza, dalla sua innata malafede.
Io, che amo e rispetto la lingua italiana, detesto chi abusa degli avverbi. Chi li tratta come se fossero delle prostitute grammaticali, pronte a darsi ogni volta che non si vuole andare dritti al punto. Ogni sua parafrasi era contagiata da questo strano morbo. E la purulenza della cosa peggiorava sempre quando si parlava di soldi e, specialmente (piccola concessione), dei miei soldi. Alla sottoscrizione del contratto, dopo aver elogiato il mio curriculum ed essersi complimentato per la mia sicuramente formativa esperienza, s’incupì improvvisamente. Dovevamo parlare del mio compenso. Un’ombra scura calò sul suo occhio verde speranza (quella di pagarmi il meno possibile ovviamente), le spalle si irrigidirono, la bocca si strinse componendo una lunga ruga ad esse. Devo ancora capire perché in questo Paese, di questi tempi, se chiedi un onesto e calibrato compenso per un lavoro che svolgi, sei trattato come un estorsore o un mafioso che viene a reclamare un pizzo indegno. Emani l’odore della truffa capito? del furto e dell’appropriazione. L’omone cominciò a parlare con una fatica che mi parve persino comica: “Io tendenzialmente avrei pensato a una cifra che si aggira intorno ai 1000 euro al mese. È un compenso di ingresso, giusto per conoscerCI. Orientativamente sarei persuaso ad alzarla eh, questa cifra, ma al momento non posso francamente permettermi di più di questo. Spero caldamente che tu possa comprendere. Ad ogni modo potremo riparlarne serenamente in futuro”.
Tutte quelle -menti sovrapposte mi avevano confuso e ammorbato l’anima. L’abuso di avverbi ha l’effetto di uno stupefacente. Quello che mi proponeva era un contratto a progetto di sei mesi a seimila euro. Sul momento mi parve una cifra interessante, poi mi resi conto che il mio affitto era di 500 euro, e che quindi il mio stipendietto di 1000 euro al mese era dimezzato. Non avevo alternative. Dieci minuti dopo, immaginandomi nella condizione di uno sfratto imminente, firmai il contratto. Mi fu comunicato che il mio orario di lavoro era ORIENTATIVAMENTE dalle nove alle diciotto con un’ora di pausa pranzo dalle tredici alle quattordici.
Eravamo in cinque. Il capo e quattro collaboratori. Il giorno dopo mi presentai in ufficio alle ore nove come un sano dipendente con tredicesima quattordicesima, malattia e ferie pagate e mi sedetti alla mia postazione. Il mio nuovo collega che ha venticinque anni ma ne dimostra sessantasei, con gran naturalezza devo dire, mi iniziò a tutta una serie di mansioni di cui in fase di colloquio nessuno mi aveva parlato come rispondere al telefono, arieggiare gli ambienti all’entrata e all’uscita, sostituire i rotoli di cartaigienica in cesso, ordinare la cancelleria, andare in posta a spedire le raccomandate del capo. Ero un grafico segretarietta delle pulizie in pratica. Quattro dipendenti in un solo co.co.pro. Benissimo penso io. La chiamano flessibilità. Al dieci del mese io sul mio conto non vedo una lira. Allora vado a reclamare quello che mi spetta, il quale mi dice che grosso modo, grosso modo, la paga arriva tra il 5 e il 10 del mese. Dico va bene. E penso a questa scena: “Ehi quando mi paghi l’affitto?” “Orientativamente tra il 5 e il 10 del mese”
“Benissimo. Tendenzialmente domani porti fuori il culo di qua perché io voglio essere pagato puntualmente”. Perché anche quello a cui pago l’affitto, usa gli avverbi, quando s’incazza. Dopo tre mesi che lavoro da dipendente senza essere dipendente, colleziono quasi 90 giorni di lavoro continuativo nove-venti e nessuno mi dice “grazie”, “ehi”, “bravo ragazzo” che regali ore e disponibilità a destra e a manca. Per altro vorrei evidenziare questo semplice paradosso: se lavori a co.co.pro. non hai ferie perché non sei tenuto a prestare servizio in loco, se sei dipendente hai le ferie regolamentate che ammontano a 2,5 giorni al mese. Se sei un dipendente co.co.pro. NON HAI FERIE e presti otto ore di servizio in loco. Allora tu dici, beh, non ho le ferie ma ho la malattia. Benissimo. Allora un giorno mi becco un virus intestinale. Chiamo e dico che non posso andare a lavorare perché vomito. Mi dicono che siccome sono a casa mi mandano il lavoro a casa (e divento di nuovo un co.co.pro.!). Capito? A seconda delle loro esigenze io cambio da modalità progetto a modalità subordinata. Quando chiudo le finestre e metto la carta igienica sono “quel bravo ragazzo del Massimo"... quando ho un virus intestinale sono “quel fottuto collaboratore che non ci smazza il lavoro…”. Insomma lavoro come uno schiavo per tutti i sei mesi perché sono ossessionato dalla parola “rinnovo”. Speriamo che ti rinnovino… Lo sai se ti rinnovano? Chiedi in anticipo se ti rinnovano… Ti rinnovano? E se poi non ti rinnovano? E più pensavo al mio rinnovo e più mi sentivo invecchiare dentro.
Alla fine sapete cosa? non è successo. Non mi hanno rinnovato il contratto. E perché? Perché, che ho messo pure la carta igienica? Perché, che il compenso mi arrivava in ritardo e io non ho nemmeno fiatato? Perché, che arieggiavo anche le finestre? Allora ho pensato che probabilmente era perché avevo fatto tutte queste cose. Spesso ci si guadagna di più a non farle le cose, che a farle. Ma in realtà, scoprii più tardi, non mi avevano fatto “il rinnovo” perché avevano trovato un grafico che si sparava tutte le mie mansioni a 800 euro al mese anziché a 1000. Il suo affitto era molto più basso del mio, o forse non l’aveva, o forse stiamo tutti diventando deficienti? Probabile. Mi sono spesso chiesto se la causa di tutto questo fosse la meschinità del mio datore di lavoro, la mia vigliaccheria, o la disperazione di colui che mi sostituì. Non lo so. Però penso che se io e il ragazzo degli 800 euro, e insieme a noi tutti gli altri ragazzi in cerca di lavoro, avessero detto, senza tanti avverbi di mezzo: noi sotto questa cifra non lavoriamo, ci avremmo guadagnato tutti.
Ma per avere un linguaggio privo di avverbi, bisogna essere sicuri di sé, forti, piantati, e bisogna avere delle alternative. Ma la forza, la sicurezza, l’alternativa sono esattamente le cose che ci hanno tolto. Ed è per questo che oggi dico sì al decimo illegale rinnovo consecutivo. Spero davvero che prima o poi qualcuno si renda davvero conto di quello che ci è stato inflitto, e di cui non saremo mai risarciti.
PhD in alta montagna
“Ma cosa vieni a fare quassù con questo curriculum?” Questa la risposta alla mia domanda di assunzione.
“Ecco, siamo alle solite” pensai, anche qua sovraqualificato, ma devo essere convincente, non posso perdere pure questa occasione!
Erano mesi che campavo alla giornata, di lì a poco sarei dovuto are alla Segreteria dell’università per ritirare il mio sudato pezzo di carta, finalmente stampato ed impreziosito dalla firma del Magnifico Rettore a suggello di un magniloquente 110 e lode in Storia Contemporanea, Facoltà di Scienze Politiche.
Sì, lo so, è solamente grazie all’esistenza di Scienze della Comunicazione che questa Laurea in “tutto e niente” conserva ancora un briciolo di prestigio, ma, vivaddio, siamo o non siamo nel migliore dei mondi possibili? uno potrà laurearsi studiando le materie che più gli piacciono e lo apionano?
Certo, quando entrai in quella Facoltà sfogliavo i giornali e vedevo ancora Concorsi Pubblici (specie in via di estinzione, forse in qualche riserva naturale a me ignota ne esiste ancora qualche esemplare) aperti ai laureati nella triade Economia - Giurisprudenza - Scienze Politiche, ma, ata la sbornia per i festeggiamenti della Laurea: tabula rasa.
Tentai la carriera dell’imprenditore di me stesso, cercando di vendere mutui: in un fantozziano corso di formazione mi trovai in mezzo a gente che osannava il
sogno americano perché negli USA si potevano fare mutui a vita, trasmissibili di generazione in generazione, erogabili a pezzenti e a precari senza problemi.
A volte mi dicono che sono complottista e catastrofista, ma simili manifestazioni di giubilo mi apparvero subito demenziali e infondate: cercai di calarmi nella parte. I mutui erano il core business, ma avevamo “licenza di uccidere” anche con quei prodotti assicurativi in cui, se le cose vanno male, il cliente se la prende in quel posto, invece a te (e soprattutto alla banca) qualcosa in tasca resta: per fare un portafoglio clienti ci venne suggerito di rifilare siffatti prodotti innanzitutto ad amici e parenti. Dopo mesi in cui non piazzai neppure un mutuo per comprare un prefabbricato a Vicolo Stretto, una sera mi trovai al cinema nell’ambito di una rassegna di film d’essai. Davano I diari della motocicletta: non so se fu per la mia innata simpatia guevarista o per le birre che mi bevetti sulla via del ritorno verso casa, ma la mattina dopo rassegnai le dimissioni dal lavoro.
Nelle settimane seguenti scoprii che, essendomi dovuto aprire la partita Iva, anche se avevo fatturato “zero”, ricadevo comunque nello scaglione contributivo più basso e così dovetti pagarmi i contributi: quindi la mia prima esperienza lavorativa concludeva in un meraviglioso buco di bilancio.
Per carità, prima esperienza per modo di dire! Già prima di laurearmi avevo fatto i classici lavoretti di chi vuol mettere da parte qualche soldo e poi se lo beve nel weekend: portinaio, giornalista, compilatore di certificati fiscali e alla fine barista di una società dilettantistica di calcio, che era un’ottima copertura per un ritrovo di robusti bevitori. Non mi ero fatto mancare nulla prima di salutare il mondo dell’università e lanciarmi in maniera baldanzosa in quello del lavoro. Rifeci l’angosciante via crucis delle agenzie interinali: una mattina di marzo mi trovai in fila con uno dei peggiori camerieri di uno dei peggiori bar che avessi mai frequentato (e non per proporre un mutuo al titolare).
Due sensazioni si combattevano in me: da una parte il mio angioletto borghese si disperava: “Guarda con chi ti tocca contenderti la pagnotta”, dall’altra il mio diavoletto nazionalpopolare sentenziava:“La crisi sta cominciando, la gente si conforterà sempre di più nei bar, gettando soldi nei videopoker e bevendo per consolarsi, quello del barista è un lavoro che non fallirà mai”.
Quella sera ero di turno per l’appunto al bar della mia squadra di calcio, restò a farmi compagnia il Presidente, da noi dirigenti affettuosamente chiamato il “Subcomandante” per via dei suoi progetti palingenetici del mondo che sarebbero dovuti partire da quel campetto di periferia in cui davamo uno sfogo ai giovani del quartiere. Come spesso capitava, mi disse una dozzina di volte “Ancora un giro di birre e poi ti saluto…”. Dopo aver tracciato il ventesimo progetto rivoluzionario comunitarista che doveva partire da lì, rimasi finalmente solo con i miei pensieri e il mio mal di testa, mentre un manipolo di ragazzini spensierati concludevano le loro evoluzioni su quel misero rettangolo di gioco vicino al quale correva la ferrovia.
In quel periodo riuscivo a campare grazie a delle lezioni che tenevo a un corso di formazione professionale e agli introiti della mia attività di barista; ero andato col capo chino dal Prof. con cui mi ero laureato a chiedergli se c’era qualche chance all’interno dell’università e mi era stato prospettato un Dottorato di Ricerca in Storia. Il concorso però si sarebbe svolto a ottobre, il corso che tenevo sarebbe finito a maggio, come sarei sopravvissuto nel frattempo? Ebbi la folgorazione: in mezzo cascava l’estate e avrei potuto far leva sulle mie competenze al banco (da una parte e dell’altra) per farmi la stagione in guisa di barista in qualche amena località vacanziera.
Io, però, sono così: dopo tre scorribande balneari mi ritengo appagato, mentre sui monti riesco a realizzare il mio distacco dal mondo civile e a rilassarmi. Nelle giornate successive scandagliai perciò i siti internet degli sportelli del lavoro delle province italiane di montagna e spedì il mio curriculum a un bel po’ di posti che effettivamente erano alla ricerca di banconieri.
E giungiamo così alla mail che ricevetti in risposta da uno di questi recapiti ai quali mi ero rivolto. Siccome il mio interlocutore gestiva un rifugio altoatesino/sudtirolese, rispolverai fra l’altro tutto quel che avevo letto sui Wandervögel, studenti “teteschi ti Germania” che in età guglielmina se ne andavano in giro per i boschi teutonici inneggiando alla Patria e alla Natura. Alla fine riuscii a spiegare in maniera sufficientemente convincente che anche se potevo sembrare un topo da biblioteca per i miei risultati universitari, in realtà non mi spaventava la prospettiva di trascorrere 3 mesi in un rifugio a 2.450 metri d’altezza. Se le mie competenze scientifiche erano del tutto inutili, la mia esperienza di barista di quartiere si rivelò invece una risorsa spendibile.
Ripensai alle Medie. Nel momento in cui dovevo scegliere la lingua straniera i miei genitori mi dissero “Farai tedesco, perché è la lingua del futuro e ti servirà per trovare lavoro.”
Profezia avverata: dovendo propormi in un posto frequentato al 50% da tedescofoni, la riga del mio curriculum, che alla voce “Competenze linguistiche” descriveva la mia “buona” dimestichezza con l’idioma di Goethe, ebbe indubbiamente un suo peso.
Non si trattò di una eggiata. Cioè, di eggiate ne feci molte, belle e corroboranti, ma lavorai come un matto. Ero abituato ai quattro ragazzini che mi chiedevano un Gatorade al termine di un allenamento e ai sette falliti del calcio che si bevevano una birra commentando la loro prestazione calcistica come fosse stata la finale di Champions League. D’improvviso mi trovai a fronteggiare una pletora di alpinisti della domenica che esigevano un caffè in grado di ritemprarli e ben più compatti montanari indigeni o giù di lì che, oliati dalla ricca batteria di grappe a disposizione, intessevano le lodi delle mie colleghe esprimendosi nei gutturali dialetti delle valli limitrofe.
Il ritratto del Kaiser che mi guardava coi suoi bei baffoni sorridendo dalla parete della sala da pranzo, le Dolomiti rosee al tramonto e le pingui marmotte che correvano nei prati attorno al rifugio: sembravano tutti segni di buon auspicio per le conseguenze di quest’avventura lavorativa.
Scesi a valle ai primi di ottobre lautamente retribuito, festeggiai in varie serate il mio ritorno alla civiltà e detti l’ultima tirata di studio per il Concorso di Dottorato. Mi trovai nuovamente al punto di partenza: nella mail che scrissi al mio datore di lavoro estivo per fargli gli auguri di buon Natale, chiesi già di essere assunto anche l’estate seguente. Forte dell’esperienza maturata, l’impatto fu meno traumatico (anche con le grappe che i cuochi slovacchi si portavano da casa ed elargivano ai colleghi con singolare cameratismo). Trovandomi in mezzo a colleghe provenienti dalle vicine vallate tedescofone cominciai ad arricchire il mio vocabolario con termini dialettali. Le sere, quando si era finito di mettere in ordine il bar dopo aver spedito a dormire l’ultimo avvinazzato avventore, aveva un suo perché fumarsi una sigaretta guardando le montagne delinearsi nell’oscurità o emergere al chiaro di luna.
Di lì a poco ritentai il Dottorato. Fui più fortunato, ma solo un po’. Dentro, ma senza borsa di studio. In pratica avevo un bel progetto, il cui valore scientifico era indubbio, ma non c’erano soldi per finanziarlo. Wow! Al termine del triennio le mie ricerche avrebbero avuto l’imprimatur dell’ateneo, mi sarei potuto fregiare del titolo di PhD! Povero ma glorificato. Ricominciai così a lavorare nella cooperativa di portierato e sorveglianza in cui sbancavo il lunario ai tempi dei miei studi universitari, ma nel frattempo ebbi l’audace idea di replicare coi fatti a un vecchio ministro tecnocrate che aveva additato al pubblico ludibrio me ed i miei coetanei in guisa di bamboccioni: andai a stare da solo.
Far quadrare i conti divenne ancora più impegnativo, tanto più che a corredo della mancanza di borsa di studio vi era pure la sorpresa che dovevo pagare sostanziose tasse d’iscrizione al Dottorato. Successe quindi che per parecchi anni verso fine giugno sparivo dalla circolazione per riapparire dopo tre mesi ati a spillar birre e a lavar bicchieri in alta montagna.
Fu proprio un pomeriggio di settembre, mentre sciacquavo boccali di birra nella saponata prima di affidarli alla lavastoviglie, che consumai una piacevole rivincita. Il radio-giornale dell’unica emittente che si prendeva di lassù (una di quelle radio dove la Giovanna dedica al suo amore Armando la hit di 30 anni prima) mi informò che la bolla speculativa dei mutui di Wall Street era esplosa. Ripensai al corso di formazione per piazzare mutui: mi tracannai una grappa della casa.
Oggi, a Dottorato concluso, la mia vita non è che sia poi molto cambiata. Continuo ad arrabattarmi tra vari lavoretti e con annessi e connessi dell’agonizzante mondo della ricerca storica, laddove la mia carriera dirigenziale calcistica si è ovviamente impennata.
Son ato da viceallenatore dei Pulcini a guardalinee della prima squadra in Seconda Categoria, così adesso, oltre ai rettangoli di gioco cittadini, conosco pure i campi da calcio (e i relativi chioschi) dei paesetti dispersi nelle nebbie della Bassa.
Ogni estate però, puntualmente, mi ritiro come il Barbarossa sul mio Monte Kyffhä e metto da parte quei quattro soldi con cui migliorare la mia sopravvivenza per il resto dell’anno. E su tutto ciò ricamo autoironia e
umorismo: innanzitutto perché sono un inguaribile ottimista e sono convinto che anche dopo la notte più buia il sole sorgerà di nuovo, poi perché non voglio dare la soddisfazione ai grandi burattinai del complotto bancario che governa il mondo di vedermi inferocito; infine, perché i miei eremitaggi sono sempre stati accompagnati da qualche sana lettura che mi ha rinforzato lo spirito, partendo dalle “Meditazioni delle vette” di Julius Evola, per giungere alle recensioni dei viaggi in Tibet di Giuseppe Tucci, ando per “Il lupo della steppa” di Hermann Hesse.
Ascoltare gli Steppenwolf che urlano “Born to be wild” in effetti mi ha sempre galvanizzato, ma soprattutto in quel libro a un certo punto si consiglia:
“Vivere nel mondo come non fosse il mondo, rispettare la legge e stare tuttavia al di sopra della legge, possedere come se non si possedesse, rinunciare come non fosse rinuncia: tutte queste esigenze di un’alta saggezza di vita si possono realizzare unicamente con l’umorismo.”
Nonna Mappamondo
Thriller? Piano di sotto. Viaggi? Lì in fondo. L’ultimo di Faletti? L’orgia di domande rimbalza tra copertine plasticate e profumo di pagine nuove, distraendomi dalla condizione di stagista non pagato. Come distributore di informazioni me la cavo benino. Fuori mugghia ghiacciata la Bora, ma dentro la libreria pulsa di un calore che ricorda uno chalet di montagna. Con i colleghi, pazienti e sempre gentili, ci vado d'accordo. Fosse davvero una casa di montagna ci sarebbe una bottiglia di grappa su ogni scaffale. Natale è sempre più vicino e le idee per i regali sempre più striminzite. Succede a ogni vigilia: come i Persiani alle Termopili, le possibilità vanno tutte a incanalarsi nello stretto spazio di una libreria. È un pomeriggio precocemente annerito dal tempo, e il negozio viene preso d’assalto in modo assai vorace. I clienti in cerca d’aiuto sono una massa informe di ciàcole e colori, e noi siamo sempre troppo pochi per contenerla. Entrano e si lasciano avvolgere per qualche secondo dal tepore inaspettato, mentre mille piccoli brividi sgusciano dai loro vestiti per sciogliersi nel aria riscaldata. Si guardano intorno, annusano da soli piste editoriali e poi, sconfitti, si rivolgono al personale. Quasi sempre il libro che cercano è ormai già bello che andato, e devono inventarsi alla svelta un piano B: un titolo conosciuto, un nome interessante, un romanzo letto secoli prima, una copertina divertente per scucire un sorriso sotto l’albero. Sudo e mi fanno male le gambe. Il freddo di fuori, mischiato al caldo di dentro, mi distilla sulla schiena un vespaio di goccioline di sudore ghiacciate e infide. Scatto alla ricerca del titolo richiesto, e nel frattempo cerco di rispondere alle nuove domande che mi vengono poste. Do indicazioni sbagliate a decine di loro, ne sono certo. In questo formicaio di clienti, una vecchietta bassa e ingobbita mi prende di
mira. Avanza lenta alle mie spalle, come un cobra quando punta il topolino, sgusciando tra braccia affondate negli scaffali e schivando bambini esplosivi. Mi chiama stringendomi con forza il braccio, come fanno i Carabinieri. Vuole un mappamondo. Ci metto qualche secondo prima di risponderle. Sento il bisogno di assaporare un po’ quella parola che non sentivo da anni: mappamondo. Schiocco le labbra come un sommelier e le indico lo scaffale: l’ultimo all’angolo. Eccolì lassù i mappamondi, così in alto che quasi sfiorano il soffitto. Senza pensarci, torno a occuparmi delle altre richieste, sempre più dense. Dietro di me, la vecchietta è già approdata allo scaffale, e scruta i mappamondi con occhietti taglienti. Ci mette pochissimo per decidere che fare: gira il suo naso befanesco e mi richiama al suo cospetto. Vuole che le faccia scendere uno. Se Maometto non può andare alla montagna... Così comincia la ricerca. Mi arrampico, l'agguanto e le porgo il primo mappamondo, che lei studia in ogni particolare, tastandone le fattezze, controllando la presa, perdendosi in zone del globo le cui scritte che ne indicano i nomi superano le rispettive superfici di terra. Ci manca solo che provi ad addentarlo, cosa di cui, credo, un cliente abbia diritto. Alla fine scuote la testa. Niet. Allunga un dito che sembra di corteccia e lo punta su quello a fianco. Torno in cima alla scala e glielo prendo. Nel frattempo, gli altri clienti hanno scoperto quel mio nascondiglio temporaneo e mi raggiungono sotto la scala. I libri di cucina? L’ultimo di Faletti? Quando provo a farle capire che anche gli altri hanno diritto a essere serviti, la vecchietta corruga la fronte come se le avessi parlato in giapponese. Mastica qualche pezzo di pensiero che poi deglutisce come fosse mollica di pane. No, non c’è possibilità di discussione. Ogni volta che mi allontano per acchiappare l’ultimo romanzo (di Faletti?) o cambiare un libro dalle pagine rovinate, ecco che il suo sbuffare mi addenta le orecchie. Probabilmente se fossi uscito per strada l’avrei sentito ugualmente. Una tipa del genere è maestra nell'arte dello sbuffo. Dopo il terzo mappamondo che faccio scendere per poi rimetterlo a posto, mi tocca risponderle deciso: non posso davvero stare lì con lei, in esclusiva, mentre il resto della città aspetta alle mie spalle una parola di conforto (“sì, ce l'abbiamo
l'ultimo di Faletti!”). Mi allontano lentamente, perché magari mi dico che così non se ne accorge. E sbuffa. Qualche minuto dopo torno a vedere se l’arzilla signora sia ancora lì. Salgo le scale, svolto a destra, e uno sbuffo lontano, molto riconoscibile, deterge ogni mio dubbio: c’è eccome! Eccola, sotto la scala, le mani puntate sui fianchi come un vigile urbano, a scuotere la testa. Ai suoi piedi, come soldatini, una lunga fila di mappamondi scartati. Troppo colorati, poco colorati, le scritte piccole, le scritte grandi. In cima alla scala, una mia collega stringe tra le mani un altro mappamondo... ma quanti ne abbiamo?... l'ultimo. Senza un motivo, forse perché stordito da sbuffi, chiacchiere e luci natalizie, mi prendo una manciata di secondi per guardarmi intorno: tra me e i mappamondi, la fiumana di clienti in cerca di regali sta per straripare, inghiottita da pile di libri, persa in romanzi aperti a metà, nascosta da copertine extra lucide scontate del 10%. Nessuno di loro sa bene cosa cercare. La signora dei mappamondi, invece, lo sa benissimo. Impuntatasi su quel cimitero di mondi sconfitti, dopo aver messo ko anche la mia collega, non sembra avere la minima intenzione di lasciar perdere. E così, ergendosi alta come il colonnello Kurtz, impone una soluzione: vuole vedere i mappamondi del magazzino. Tutti. È a quel punto che comincio a vederla con occhi diversi. Come per una magia natalizia, quelle magie accompagnate da irritanti scamlii di slitte ikea, i suoi modi mussoliniani e il totale disinteresse verso la realtà dei fatti non mi infastidiscono più. Nell’era di Google e dei satelliti, dei gps e di Internet, imbattersi in una nonna in cerca di un mappamondo fatto bene, da regalare al nipotino, improvvisamente non mi sembra più una scena fuori tempo. Mi viene da pensare che se pure io, per ottenere ciò che voglio senza dubbi né pensieri, fossi capace di paralizzare due impiegati (di cui uno non pagato), per giunta sotto stress natalizio, forse sarei anche capace di affrontare sfide ben più impegnative nel corso della vita. Il mappamondo altro non è che l’insegnamento alla curiosità e alla scoperta; uno dei regali più importanti che un anziano possa fare a un giovane. E io, più la guardo, più mi accorgo che quella “nonna mappamondo” è fatta di una pasta
donchisciottesca che invidio parecchio. Se nel nostro Paese ce ne fosse la metà con la sua logica ludicidissima, forse anche la situazione dei precari potrebbe trarne giovamento. Lavorare senza contratto? Senza stipendio? Che stai dicendo? I mappamondi sono finiti. Siamo seri, chi diavolo ne tiene più di una decina in una libreria? Nel vociare dei clienti mescolato alla musica della radio, la sento riflettere sul da farsi. Alla fine, soddisfatta, ne agguanta uno dichiarando convinta, in italiano (non in dialetto): sì, lo voglio. È il primo mappamondo che le avevo fatto vedere.
CONTRIBUTI
Introduzione di
DANIELA SCOTTO DI FASANO
Psicologa, psicoanalista, membro ordinario della SPI
California Dreaming
Da molti anni collaboro con altri per scritti collettanei. Con le donne dell’Associazione Donne contro la violenza di Pavia; con i colleghi della SPI e con quelli dell’Università. Ma la storia sortita dall’incontro con Marta Zacchigna è particolare. Marta e io tuttora non ci siamo mai viste. Il primo contatto, a luglio del 2012, fu quando Marta mi propose, in una telefonata (e se la cosa mi fosse interessata) di scrivere la Prefazione a Sfògati. La tua storia ha trovato un posto fisso. Mi illustrò il progetto e mi invitò a guardare il suo blog Microclismi. Mi innamorai dell’idea: raccogliere materiale per così dire “in diretta” sul precariato, che, in quanto tale, condiziona non solo i giorni ma anche (soprattutto?) i sogni… Mi sembrò geniale ed etico offrire un posto fisso alla storia di chi è continuamente esposto a troppi forse, vedremo, chissà. Mi sembrò intelligente il gioco Sfigati-Sfogàti: Sfògati… Vi sentii la polisemia del lavoro onirico. Accettai la proposta di Marta e con vivo interesse iniziai a leggere i racconti degli Sfògati. Negli stessi giorni, leggevo il libro di Giuliana Pelli Grandini La casa del sonno. Un libro dove a un racconto dell’autrice corrisponde un “controcanto”; controcanti diversi, di persone diverse, ciascuno caratterizzato da un certo stile, da una certa professione, da una certa età: un bellissimo esempio di dialogo riuscito tra visioni del mondo ed esperienze lontane e differenti. Mi chiesi cosa sarebbe accaduto se anche alle storie degli Sfògati avessero risposto persone di età, professioni, esperienze diverse. Ne parlai con Marta, e pensammo che potevamo anche noi cercare chi interagisse con gli Sfògati.
Ne è venuta fuori un’opera polifonica, che conta 60 presenze: le storie in cerca di posto fisso, i controcanti prodotti da trentenni, quarantenni, cinquantenni, sessantenni, accademici e non, e le 12 persone dello staff, che silenziosamente, da dietro le quinte, hanno consentito a loro volta che questa bella opera polifonica venisse al mondo. Una testimonianza, da parte di tutte le 60 presenze, di come la solidarietà – oggi in troppe sfere della vita, pubblica e privata, del tutto assente – può ancora essere esperienza di legame tra generazioni e formazioni tra loro molto lontane e diverse.
È però possibile entrare in contatto con le altre presenze dell’opera complessiva nel sito sfogati.net dove, grazie ad un’altra ottima idea di Marta, potranno confluire nuove storie e nuovi controcanti, ancora di accademici e non. Siamo infatti entrambe convinte del fatto che nel sito potranno proseguire il dialogo, il confronto e, perché no?, lo scontro tra persone diverse: per età, garanzie, professioni, forme comunicative, che abbiamo visto realizzarsi finora e di cui Sfògati. La tua storia ha trovato un posto fisso è la testimonianza. Sfògati. La tua storia ha trovato un posto fisso rappresenta la possibilità che si possano realizzare imprevisti paradossi; si tratta infatti di un’opera di grandi coerenza e forza non solo nonostante ma, addirittura, proprio a causa della sua eclettica orchestrazione, di cui è testimonianza anche il rapporto che si è venuto in questi due anni costruendo tra Marta e me, che, senza essere amiche, colleghe o coetanee (tra noi ci sono trent’anni di differenza), abbiamo interagito guardando entrambe, a partire dalle nostre differenze, nella stessa direzione: favorire la buona realizzazione di sé (l’eu-daimonia dei Greci) e collaborare, come scrive Marta nell’Introduzione, all’abbandono di un termine – precariato – che ha assunto oggi la valenza di malattia incurabile. Ecco perché sia questo libretto che l’opera nel suo complesso offrono, a mio parere, un punto di vista “nuovo” sulla precarietà, altrimenti già abbondantemente esplorata. Un punto di vista lucido su una generazione nata e cresciuta in un mondo che sembra essersi assuefatto a cose terribili come fossero ovvie: l’ovvio della nientificazione dell’essere umano (Cavarero 2007); l’ovvio della precarietà come stato permanente (Butler 2004): la malattia incurabile.
La povertà è troppa. Il freddo non dà scampo. Bisogna partire. E la meta (il miraggio) si fa nome: California. Si raccoglie ogni residuo avere per pagare il viaggio che porterà in salvo: partono i bastimenti per terre assai lontane… Il mare. Per giorni. Ed ecco profilarsi terra all’orizzonte: California! Lontane, perdute, le Marche. Sbarcano. Oggi, molti turisti si chiedono la ragione dello strano nome della frazione che si incontra sull’Aurelia a circa cinque chilometri da Cecina procedendo verso sud: La California. Dove, chissà perché, risiedono tante persone dal cognome tipicamente marchigiano.
Non sono di oggi, lo sappiamo bene, furto, imbroglio, scorrettezza, slealtà. Di oggi è poterne parlare. Denunciare. Condividere. Credo che Sfògati. La tua storia ha trovato un posto fisso contribuirà a permettere di farlo.
Bibliografia Butler J. 2004, Vite precarie, Meltemi, Roma, 2004. Cavarero A., 2007, Orrorismo, Feltrinelli, Milano.
LUIGI GAUDINO
Professore associato di Diritto Privato Comparato presso il Dipartimento di Scienze Giuridiche dell’Università di Udine. Attualmente si occupa delle nuove frontiere dei diritti della persona
La terza legge della stupidità
Secondo la terza legge della stupidità – elaborata da Carlo M. Cipolla – “Una persona stupida è una persona che causa un danno ad un’altra persona o gruppo di persone senza nel contempo realizzare alcun vantaggio per sé o addirittura subendo una perdita”. Da un po’ di tempo a questa parte sembra che in Italia – nel mondo del lavoro e in quello dei politici e dei tecnici che dettano in questo campo le regole – si stia facendo a gara a chi riesce a farsi inquadrare con maggior precisione nella definizione proposta dal famoso storico dell’economia. L’obiettivo di chi fa lavorare qualcuno dovrebbe essere quello di far fruttare al meglio il suo investimento: non parliamo di bontà né di correttezza, bensì di semplici, gretti interessi. Nella catena di montaggio fordista, l’operaio è mera forza lavoro. Un limone da spremere: impiegabile in mansioni ripetitive; perfettamente sostituibile una volta che le sue energie si siano esaurire; rimpiazzabile magari da una macchina, se la tecnologia lo consente. Il classico “padrone” rientra perciò nella categoria dei “banditi” – cioè di coloro che danneggiano gli altri traendone un vantaggio (sempre secondo la definizione del nostro Autore) – non in quella degli stupidi. Quando però il lavoro diventa più complesso – è lo è persino nella moderna fabbrica metalmeccanica –, le persone contano. Preparazione, creatività, iniziativa, senso di appartenenza al gruppo, consapevolezza, soddisfazione nello svolgimento dei propri compiti: questi e altri fattori svolgono un ruolo fondamentale proprio in relazione a ciò che dovrebbe stare più a cuore al datore di lavoro: la produttività. È evidente che un lavoratore insicuro, frustrato, insoddisfatto, obbediente ma privo di speranze e di autostima, è una persona infelice che non “investe” in ciò che fa le proprie migliori energie. È un lavoratore che rende meno di quanto potrebbe; che non contribuisce allo sviluppo e al miglioramento dell’organizzazione nella quale opera ma si limita a svolgere i compiti che gli vengono affidati senza aggiungere nulla.
È infelice, quindi danneggiato; non rende quanto potrebbe: ed ecco il danno per il datore di lavoro che possiamo, a questo punto, definire tecnicamente “stupido”. La convinzione ormai diffusa che siano i diritti la causa della mancata ripresa economica e, in fondo, degli stessi problemi dei lavoratori non tiene conto di tutto questo. Le esperienze di lavoro dei giovani parlano di precarietà, di insoddisfazione: non tanto o non solo della paga ma, soprattutto, del lavoro svolto. Lo si percepisce dal lessico. Chi trova nel lavoro la propria collocazione nella società – qualunque essa sia – dice: “io sono (un operaio, un impiegato, un insegnante…)”. Oggi, sempre più, si dice: “io faccio…”. Se poi il singolo imprenditore può essere soddisfatto quanto si comporta come un “bandito” – e pensiamo ai tanti giovani sfruttati nel telemarketing –, il sistema Paese non può davvero permettersi di giocarsi il proprio futuro facendo lo stupido. Ed è davvero stupido lasciare che le energie, la fantasia, le competenze vadano perdute. È stupida – prima ancora che ingiusta – la società che, dopo aver investito in questi giovani, non cerca di ottenere un rientro dall’investimento utilizzandoli al meglio. Non è questione di essere choosy. La questione è che l’economia è fatta di persone. Qualunque allevatore sa che la mucca felice fa il latte più buono (pare addirittura che l’ascolto di Mozart provochi un significativo aumento della produttività). La pagina del sito UE dedicata alla legislazione sul “benessere degli animali” si apre con questa dichiarazione: “L’Unione europea riconosce che gli animali sono esseri senzienti e meritevoli di protezione. La normativa comunitaria stabilisce requisiti minimi volti a preservare gli animali da qualsiasi sofferenza inutile durante tre fasi principali: l’allevamento, il trasporto e l’abbattimento”. Sono interessi concreti – e non solo un apprezzabile aumento della sensibilità verso il mondo che ci circonda – a giustificare questa normativa. Non c’è una pagina sul “benessere del lavoratore”. Dovrebbe esserci. Dovrebbe mettere il lavoro al centro della politica, e la persona al centro del lavoro. Un approccio intelligente, definendosi tale quello che consente a chi compie un’azione di trarre un vantaggio e nello stesso tempo di procurare un vantaggio anche a chi da tale azione e coinvolto (grazie ancora a C.M.Cipolla).
SARA ZAMBOTTI
Docente a contratto di Antropologia dei Media presso l’Università di Milano Bicocca. Conduttrice di Caterpillar (RAI - Radio2)
Miti di aggio
Ogni società è definibile anche attraverso quelli che l’antropologo se Van Gennep ha definito riti di aggio, ovvero momenti fortemente ritualizzati in cui un individuo a da uno stato all’altro, evolve, assume un diverso ruolo nella società. Questi momenti variano da cultura a cultura, ogni società presenta momenti cardine diversi, per genere, età, identità. Nascita, morte, matrimonio, pensionamento, laurea sono alcuni dei riti di aggio fondamentali nella nostra società, ognuno di questi prevede un codice di comportamento, una cerimonia, che si ripete uguale per ogni persona, e questo carattere di fissità e ripetitività e ciò che costituisce l’entità del rituale.
Se i aggi di status sono diversi da società a società, ci sono tuttavia alcuni momenti universalmente riconosciuti come significativi; in tutte le società, infatti, esistono dei riti di aggio per integrare i giovani nella società detti riti di separazione e aggregazione. Il bambino/a diventa giovane e poi è destinato ad assumere ruoli di potere nella società al posto degli anziani. Spiega Van Gennep che, in alcune comunità, i "giovani" vengono mandati nella foresta per un periodo di allontanamento, devono sostenere una serie di prove, resistere al distacco dai genitori per tornare non più adolescenti ma adulti.
Il cerimoniale rassicura gli individui perché fornisce un copione di comportamento garantendo così la naturale evoluzione della società, quello che usiamo definire il ricambio generazionale. Da questo punto di vista, ottenere una laurea è stato per un lungo periodo considerato un o sufficiente e necessario per acquisire uno status diverso, per entrare a pieno titolo nella società degli adulti come soggetti formati.
Un altro antropologo, questa volta italiano e contemporaneo, Marino Niola, ha scritto recentemente che la giovinezza è diventato uno dei miti della nostra
società in modo contraddittorio: “siamo giovanilistici nell’apparenza e gerontocratici nella sostanza” in quanto sono gli adulti che diventano sempre più giovani nell’aspetto e nelle performances evitando così di are il testimone ai più giovani. Perché questa ritrosia? In questo mi sembra che entri in gioco il rapporto tra l’identità lavorativa e la costruzione della soggettività nella nostra società contemporanea. Il senso che attribuiamo a noi stessi, le nostre possibilità di costruire reti sociali, il nostro reddito con tutto quello che esso comporta per i nostri stili di vita, tutto questo dipende da quale lavoro facciamo. Per molti il lavoro è la risorsa principale che viene spesa nella quotidianità, è il modo in cui occupiamo gran parte del nostro tempo, ci fornisce un contesto di riferimento, delle relazioni, uno scopo, da senso alla nostra identità. È il fondamento dell’articolo 1 della nostra Costituzione e quando manca, perché siamo disoccupati, in pensione o precari diventiamo molto più fragili. Anche nella costruzione della soggettività oggi un giovane spesso deve mettere da parte un’aspettativa di coerenza tra il suo impegno universitario e il lavoro: deve ormai concepire quest’ultimo come fonte di autosostentamento economico ripensando quindi la formazione universitaria come un percorso di crescita personale e non di acquisizione di un accesso sicuro a un lavoro.
In una società così trasformata i riti di aggio non hanno più la stessa valenza strutturante di un tempo.
MARIA ANTONIETTA CONFALONIERI
Politologa e insegnante di Integrazione Europea e Politiche pubbliche al Dipartimento di Studi Politici e Sociali dell’Università di Pavia
Piccolo viaggio nelle riforme mancate
Tristezza e rabbia. Ecco come due decenni di riforme mal concepite e parziali delle politiche del lavoro e di sicurezza sociale abbiano minato le opportunità di vita di intere coorti di età, quelle affacciatesi al mercato del lavoro dalla metà degli anni Novanta.
Il “modello di sviluppo” italiano si connota per l’incapacità cronica, dopo gli anni Sessanta, di creare opportunità sufficienti di lavoro di buona qualità per tutti i cittadini, in particolare per quanto riguarda l’accesso al mercato del lavoro dei giovani e delle donne. All’inizio degli anni Novanta il mercato del lavoro italiano presenta in modo estremo una caratteristica comune ai sistemi di welfare di tipo continentale (Germania, Olanda ecc.): un accentuato dualismo tra i lavoratori “centrali”, che godono di tutele abbastanza robuste del lavoro e del reddito, e lavoratori e lavoratrici che stentano a inserirsi in un mercato del lavoro fortemente regolato, con elevati costi “non salariali” del lavoro per le imprese, a lungo relegati nella disoccupazione o nell’inattività. Tassi di occupazione bassi e dualismo tra insiders e outsiders sono tra i problemi dei sistemi di welfare europei da cui muove una riflessione sulle politiche del lavoro che si sviluppa a partire dalla fine degli anni Ottanta in sedi internazionali (OCSE e Unione Europea) per sortire ad un nuovo paradigma di politica del lavoro, ispirato da alcuni casi di successo (Danimarca, Olanda): quello della flexicurity.
La flexicurity è una strategia integrata di politica pubblica che persegue in modo deliberato e sincronico i fini di accrescere da un lato la flessibilità nella regolazione del lavoro e dall’altra la sicurezza del lavoro e la sicurezza sociale. Essa consiste in due inscindibili “pilastri”, due obiettivi strategici il cui perseguimento deve essere sincronizzato, flessibilità e sicurezza: proprio il fatto che nelle riforme del mercato del lavoro nel nostro paese i due obiettivi sono stati disgiunti e non sincronici ha generato quel deterioramento delle chances di vita.
Flessibilità e sicurezza sono entrambi obiettivi multidimensionali che rimandano ad una pluralità di interventi di politica pubblica. La flessibilità può riguardare la variazione del numero di lavoratori occupati (attraverso contratti a tempo determinato, liberalizzazione dei licenziamenti, contratti di somministrazione lavoro), le retribuzioni, l’organizzazione del lavoro quanto ai tempi (part-time, straordinari, atipicità degli orari, congedi e sabbatici, orari flessibili), gli spazi (telelavoro), le mansioni e le procedure di avviamento al lavoro (liberalizzazione e semplificazione amministrativa del collocamento): si tratta di misure di cui possono beneficiare le imprese o i lavoratori (per es. facilitando la conciliazione tra lavoro e cura o la formazione permanente) e una situazione di equità rispetto alle condizioni in cui è prestato il lavoro dipende dal loro bilanciamento.
La sicurezza può riguardare la possibilità di mantenere lo stesso posto di lavoro ma anche la continuità occupazionale in rapporti di lavoro diversi che si susseguono a breve distanza nel tempo; implica la percezione di un reddito da lavoro adeguato e l’accesso a un livello adeguato di protezione sociale, che sostenga la persona nei periodi di ricerca di una nuova occupazione o di ritiro dal lavoro (es. per compiti di cura); presuppone buone condizioni di lavoro, la possibilità di arricchire e valorizzare il proprio capitale umano, diritti sindacali, possibilità di conciliare lavoro e vita familiare.
Le riforme introdotte in Italia a partire dalla seconda metà degli anni Novanta (la flessibilità normata introdotta col “pacchetto Treu” del 1997, e la de-regolazione più accentuata della cosiddetta “legge Biagi” del 2003) hanno riguardato soprattutto alcuni aspetti della flessibilità, in particolare quella numerica (con l’introduzione di una pluralità di contratti “atipici”), degli orari e del collocamento, ma hanno mancato quasi del tutto di garantire un sistema di garanzie di sicurezza per i nuovi tipi di lavoratori “flessibili”.
L’introduzione di una pluralità di modalità di lavoro atipico ha prodotto negli anni di espansione una crescita dei tassi di occupazione, soprattutto femminili, ma ha risposto molto parzialmente all’aspettativa che il lavoro atipico costituisse
un “ponte” per transitare dall’inattività al lavoro standard con buoni livelli di tutela (la principale giustificazione della de-regolazione dei rapporti di lavoro); con la crisi di fine decennio ciò non è più avvenuto: tra il 2008 e il 2010 soltanto il 37% dei lavoratori atipici è ata a una forma di lavoro standard, mentre il 43,2 % è rimasto nella condizione di lavoratore atipico e il 20% è finito nell’area dei senza lavoro. La crisi ha inciso negativamente sul già modesto tasso di trasformazione dei lavori atipici in lavori tipici che è sceso di 9 punti rispetto al 2006-2008.
Per contro le misure per costruire l’altro pilastro, quello della sicurezza, sono mancate. In primo luogo una riforma della tutela del reddito che riducesse il dualismo della tutela tra lavoratori standard e atipici. Il sistema delle tutele dal rischio di disoccupazione (ma anche di maternità e malattia) resta ispirato a una logica assicurativa modellata sul lavoratore standard, per cui anche quando queste sono formalmente previste, l’accesso è subordinato a requisiti di anzianità sul lavoro e contributivi difficilmente raggiungibili per i lavoratori atipici.
Per valutare quanto sia lacunoso il nostro sistema di tutela dal rischio di rimanere senza lavoro basta riferirsi all’indice sintetico del grado di accessibilità al trattamento di disoccupazione dei lavoratori elaborato da OCSE e Unione Europea, che varia tra 1 (massima accessibilità) a 5 (minima accessibilità): il valore per l’Italia è 4,5 per il 2011 (con un deterioramento rispetto al 4,00 del 2004), contro 3,2 della media UE; il più basso (col Portogallo) tra tutti gli stati membri, che contrasta col 2,8 dei paesi nordici e anglosassoni e il 2,9 dei paesi dell’Europa Continentale. Insomma mentre i paesi europei hanno adeguato il proprio sistema di tutela del reddito dei disoccupati ai nuovi rischi di un mercato del lavoro più incerto e flessibile, il nostro paese non l’ha fatto, e un’intera generazione si è trovata esposta ai rischi della precarietà e della povertà. Per di più non esiste una misura di tipo universalistico di tutela dalla povertà: il reddito minimo di inserimento, varato in via sperimentale dai governi di centrosinistra nel 1998, è stato archiviato dai governi di centrodestra successivi, tra le proposte dei “saggi” insediati da Napolitano.
Quanto al diritto alla valorizzazione del proprio capitale umano e a forme efficaci di avviamento al lavoro, le riforme degli anni Novanta hanno cercato di trasformare le vecchie strutture burocratiche del collocamento in strutture (i centri per l’impiego) con compiti di progettazione di misure di politica attiva del lavoro per favorire l’occupabilità dei lavoratori. Ma queste nuove strutture hanno dimostrato capacità molto diverse di rispondere a tali nuovi compiti. Quanto al capitale umano, ecco un’altra anomalia italiana: nella maggior parte dei paesi sviluppati il aggio da un’economia di tipo “fordista” ad una economia “postfordista”, centrata sui servizi, si è accompagnato ad un accentuato vantaggio in termini occupazionali e salariali dei lavoratori più istruiti, soprattutto laureati con una formazione di tipo “generalista” che fornisce competenze che facilitano l’apprendimento di nuove modalità di lavoro e di organizzazione, meno soggette ad obsolescenza di quelle di natura specialistica; questo cambiamento non si è verificato in Italia. Se il rischio di disoccupazione dei laureati è minore di quello dei giovani privi di titolo di studio, nel corso del tempo il rendimento dell’istruzione superiore (misurato dal divario tra i salari dei laureati e quello dei lavoratori con titoli di studio basso o medio) si è drasticamente ridotto (di 26,4 punti percentuali dal 1993 al 2006), e questa penalizzazione ha riguardato in particolare i laureati con lauree di tipo generalista. Il poco innovativo sistema delle imprese non è stato capace di assorbire i lavoratori con titolo di studio elevato, o li ha inseriti in misura crescente in posti di lavoro per i quali basterebbero qualifiche basse e medie, mentre i posti di lavoro di qualità tendono a essere occupati dai lavoratori con più esperienza lavorativa ma livelli di istruzione più bassi, in quanto le progressioni di carriera continuano a premiare soprattutto l’anzianità sul lavoro. Si crea così un duplice skill-mismatch (incongruenza tra qualifiche e mansioni): da una parte lavoratori laureati sovraqualificati per le mansioni che svolgono (che talvolta proprio per questo vengono lasciati a casa), dall’altro persone in posizioni di responsabilità con livelli di istruzione inadeguati. Una situazione umiliante per chi ha investito in formazione, inefficiente per il sistema paese.
Insomma riforme mal concepite hanno generato una situazione che combina iniquità ed inefficienza, e un’intera generazione ne ha fatto le spese.
GABRIELLA GRASSO
Giornalista, lavora presso la redazione del mensile Cosmopolitan
Need a job? Invent it
La narrazione del precariato contemporaneo comincia dieci anni fa. Siamo nel 2004 e Giorgio Falco arriva in libreria con Pausa Caffè (Sironi). L’anno dopo Andrea Bajani scrive per Einaudi Cordiali Saluti. Arriviamo al 2006 e il fenomeno della “letteratura del precariato” esplode: Aldo Nove pubblica Mi chiamo Roberta, ho 40 anni, guadagno 250 euro al mese (Einaudi), Bajani torna con Mi spezzo ma non mi impiego (sempre Einaudi), Mario Desiati riprende la tematica in Vita precaria e amore eterno (Mondadori), Michela Murgia firma un libro/reportage dall’inequivocabile titolo Il mondo deve sapere (Einaudi), Alessandro Rimassa e Antonio Incorvaia fanno conoscere la Generazione Mille Euro (Rizzoli).
A questo punto il precariato è ampiamente diventato materiale narrativo. È un magazzino inesauribile nel quale scovare storie che commuovono, indignano, raccontano l’aria del tempo. Storie che tracciano l’identikit di una generazione smarrita e di un mondo del lavoro che sta cambiando irreversibilmente. ato il fermento narrativo del 2006, di precariato si continua a scrivere: ma si tratta di onde anomale che investono il mercato editoriale con cadenza irregolare. Potrei dimenticarne qualcuno ma, tra le uscite più recenti, ci sono: Diario semiserio di una redattrice a progetto (Mondadori) di Sara Lorenzini nel 2010; Alice senza niente (Terre di Mezzo) di Pietro De Viola nel 2011, Diario di un precario (sentimentale) (Ediesse) di Maria Antonia Fama e Aria Precaria (Cairo) di Sara Root nel 2012.
Cos’è cambiato in dieci anni? Parecchie cose. Il precariato ha smesso di essere materiale attraente per gli scrittori: alla fine, le storie si somigliano tutte. Il precariato ha smesso di essere una novità: are da un contratto a progetto a un contratto a termine, senza garanzie per il futuro, è ormai la regola. Infine il precariato è stato fagocitato dalla Crisi. Che riguarda tutti: trentenni, quarantenni, pure cinquantenni che dopo una carriera, magari prestigiosa,
vengono messi alla porta.
Eppure bisogna continuare a narrare, denunciare, far sapere al mondo (per riprendere la Murgia) che non poter contare su un lavoro significa mettere in stand-by il proprio futuro come esseri umani e come cittadini. Ma questo diritto/dovere di denuncia non esclude un’altra possibilità. Quale? Facendo il resoconto di quanto è stato scritto in questi anni, mi è saltata all’occhio un’apparente anomalia nel percorso editoriale di Alessandro Rimassa: l’autore di Generazione Mille Euro ha pubblicato nel 2013 l’ebook gratuito Personal Jobbing, che contiene consigli creativi su come avvicinarsi al nuovo mondo del lavoro. Nel frattempo, ha anche curato sul canale satellitare La3 il programma Generazione S, dove si raccontavano storie di ragazzi che sono riusciti a inventarsi un mestiere. E un futuro. Mi sono ricordata, allora, che nel 2007 qualcuno aveva già fatto un’operazione simile: Angela Padrone nel libro Precari e Contenti (Marsilio) aveva dato voce a giovani che avevano trasformato il precariato da debolezza in opportunità.
E allora? E allora spero che ci siano sempre più giovani (aspiranti) lavoratori che, lottando contro la mancanza di mezzi, e soprattutto di speranza, riescano a inventarsi un futuro (non a caso sul NY Times è uscito un articolo, nel marzo 2013, intitolato “Need a job? Invent it”) e che abbiano voglia di narrarlo. Anche in un romanzo. Trasformando quindi non solo il loro destino, ma anche la letteratura: dopo quella del precariato, quella dell’invenzione, dell’innovazione, del cambiamento.
Perché, come mi ha detto proprio Rimassa: “C’è bisogno di una narrazione diversa, che metta in evidenza le storie di successo. Perché se credi che intorno a te ci sia solo schifo, non penserai mai che le cose possano cambiare”.
LUCIA COSMETICO
Giornalista free-lance, autrice e conduttrice
Affondati
L’Italia è una Repubblica democratica, affondata sul lavoro. Scusate l’ardire, cari padri costituenti, ma mi è venuto spontaneo dopo aver letto l’ennesimo articolo di giornale con le regole per “aiutare i giovani a trovare lavoro”. E giù di soft skills, e attitudini multitasking, e competency centre, e una serie di altre parole anglo-insignificanti condite da consigli di questo tipo: studia Lettere ma nel frattempo fai corsi di informatica, lingue e programmazione sul web, poi cerca un impiego temporaneo, magari come promoter, per imparare a stare a contatto con il pubblico, e non trascurare sport come canottaggio e trekking in cordata, perché affinano la capacità decisionale il talento nel problem solving." E ogni tanto respira, giovane, perché a forza di leggere articoli come questi tu rischi di vivere in apnea.
Eccolo, il moderno cercatore di lavoro-polipo con mille mani e fili in testa eternamente collegati con il “mondo del lavoro”. Con il “mercato del lavoro”. Come se il lavoro fosse soltanto mercato, economia, soldi, guadagno. Come se il lavoro fosse un “mondo” staccato da tutto il resto, con regole proprie. Una giungla a parte, impacchettata dentro ad uffici dove bisogna sforzarsi di entrare, possibilmente vestiti ed acconciati in modo adeguato. Ehi! Entra anche tu nel mondo del lavoro! Sei pronto?
Cari padri costituenti, a quale lavoro pensavate quando avete deciso di scrivere
quel primo principio fondamentale della nostra Costituzione che ogni tanto ci pesa come un macigno sulle spalle? Il lavoro-capolavoro di Michelangelo nella Cappella Sistina? Il lavoro-operaio? Il lavoro-atipico, tipico di un’epoca che ama dare etichette nuove a lavori vecchi per tutelare le aziende e sempre meno i lavoratori? Il lavoro-che non lo trovo mai come piace a me? Il lavoro-che ho studiato tanto e guarda cosa mi ritrovo a fare? Il lavoro-che sei sprecato per quel lavoro lì?
Ma voi, intrepidi padri costituenti, avete voluto andare più e fondo ed avete precisato nel quarto principio fondamentale: “Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, una attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”. Bum. Colpito e affondato. Non è questione di posto fisso o labile. È in gioco qualcosa di più destabilizzante. Che ci decentra da noi e dal nostro ego sempre più asfittico. Contribuiamo con la nostra fatica quotidiana al bene comune, che inizia dai rapporti umani tra colleghi all’interno di uno stesso “posto di lavoro”?
Simone Weil, tra le poche a parlare di spiritualità del lavoro nel Novecento, ha scritto: “Una moglie, dei bambini, una casa, un giardino che gli fornisca gran parte del suo nutrimento, un lavoro che lo leghi ad un’azienda, che gli piaccia, di cui sia fiero, che sia per lui una finestra aperta sul mondo, ecco quanto basta alla felicità terrestre di un essere umano”.
Lungo silenzio sovrumano. E profondissima quiete.
Postfazione di
MARCO BALZANO
Insegnante e scrittore
Pronti a tutte le partenze
All’inizio il titolo che avevo dato al romanzo era Mi è ata la voglia. I primi capitoli, infatti, li ho scritti in uno stato di prostrazione acuta, con la netta sensazione che davvero è sempre più difficile trasformare le proprie aspirazioni e i propri sacrifici in moneta spendibile per costruire e, finalmente, evadere dalla situazione di figlio, di giovane, di dipendente. Poi è successo che ho riflettuto meglio sull’etimologia della parola “precario” e ho scoperto che non vuol dire soltanto “colui che prega” perché gli è stato indebitamente sottratto un diritto – e dunque ha subìto violenza – ma significa anche “colui che prega” perché si è fatto sottrarre un diritto per la sua poca cura nel sorvegliarlo – e dunque se l’è anche un po’ cercata. Insomma mi è parso sempre più evidente che quelli della mia generazione, oltre che diventare adulti in una società malconcia, vecchia e individualista, sono spesso incappati in un errore di calcolo evidente: hanno dato per scontato i diritti e hanno smesso di considerarli come un giardino, che va quotidianamente coltivato e lavorato per tenere lontane le erbacce, il sole torrido, la troppa pioggia… Dunque mi è sembrato più originale e sincero non aggiungere, alle tante già raccontate, un’altra storia con approssimative analisi sociologiche, in cui si narra di quanto un trentenne bravo e capace viene frustrato e maltrattato da questo sistema e da tutta una serie di annessi e connessi che possiamo, generalizzando, rubricare sotto la voce “politica” o “crisi”. È così macroscopico il malfunzionamento delle cose che scrivere una storia in cui si punta il dito contro i soliti bersagli mi sembrava quanto meno scontato, se non addirittura abusato. Mi è sembrato più interessante, invece, parlare di un trentenne che oltre a essere vittima realizza che deve drizzare meglio le antenne, smetterla di farsi scivolare le cose di dosso e, insomma, cercare di capire da dove ripartire e quale posto abitare. Quello che sceglierà sarà il luogo in cui dovrà imparare a puntare i piedi per evitare di essere precario nella seconda accezione. Ne è uscito un personaggio secondo me più vero e vivo, in cui un bel po’ di lettori mi hanno confidato di rispecchiarsi, chi in qualche suo pregio, chi in qualche suo difetto. Così a questo Giuseppe, detto dagli amici Giusè, non stava più bene il titolo Mi è ata la voglia, ma gli è calzato meglio un verso di Ungaretti, “Fui pronto a tutte le partenze” (Il capitano), che poi ho trasformato in Pronti a tutte le partenze, che mi pareva rendere bene la condizione esistenziale – come tutte le ferite sottopelle più dolorosa di quanto sembri - in cui molti di noi si trovano: sradicarsi continuamente, continuamente spostarsi e ripartire: ogni
volta in un posto diverso, ogni volta daccapo: fino a data da destinarsi. E così quando Marta Zacchigna, al tavolino di un bar dell’università di Milano, mi ha proposto di collaborare a un progetto che raccogliesse storie precarie io ho detto sì subito perché mi sembrava che avesse colto alcuni punti nevralgici della storia di Giusè, e quindi della mia. Mi è sembrata una bella idea quella di dare voce a chi vuole ripartire dalla parola per trovare una connessione con gli altri. Un punto di partenza per reagire e non cedere al cinismo.
A questo progetto hanno partecipato 60 persone*. Questo ebook contiene una selezione di 13 racconti e 5 contributi.
I partecipanti al progetto Sfògati hanno scritto il loro contributo oppure hanno collaborato alla realizzazione di questo libro a titolo gratuito credendo unicamente nell’idea di questo progetto.
GRAZIE A
Mariarosaria Acconcia, Anna Antonini, Monica Bernich, Lucia Castrataro, Michela Cembran, Mariacristina Della Pietra, Daniela Della Valle, sca Di Maro, Eva Dolcemascolo, Dario Fabbri, Gabriele Gimmelli, Alessandra Guadagnin, Valentina Hrovatin, Heiko H Caimi, Lucia Longo, Antonio Omar, Fabio Marson, Enrico Miniati, Franco Naglein, David Picciarelli, Aimone Pignattelli, Angela Pierucci, Giulio Prosperi Lorenzo Salimbeni, Gianpaolo Sarti, Stefano Vattovani, Giovanna della Villa, Marta Vitale.
Kaha Aden, Guido Affini, Laura Atria, Marco Balzano, Claudia Beschi, Annarita Calabrò, Alberto Camandola, Emanuela Camponovo, Maria Antonietta Confalonieri, Lucia Cosmetico, Roberto Figazzolo, Marco sconi, Camilla Francisci, Luigi Gaudino, Maria Antonietta Genova, Gabriella Grasso, Daniela Messina, Sara Micotti, Stefano Moroni, Paola Mo, Paride Pelli, Giuliana Pelli Grandini, Ugo Pierri, Stefano Rossi, Eleonora Salvadori, Valentina Trespi, Sara Zambotti.
*I racconti e gli interventi degli altri autori non presenti nell’ebook sono pubblicati sul sito
www.sfogati.net
Sfògati è un progetto sociale, aperto e in evoluzione. Se vuoi lasciare anche tu la tua traccia puoi scrivere a
[email protected]
Altrimenti consiglia questo libro ai precari che conosci! Si sentiranno meno soli.
I proventi derivanti dalla vendita di questo ebook verranno reinvestiti nel progetto.
Team
Supervisione e coordinamento Marta Zacchigna
Coordinamento autori dei contributi Daniela Scotto di Fasano
Liberi ritratti degli autori Susanna Tosatti
Stesura delle liberatorie per gli autori Andrea Favaro
Progettazione grafica Guendalina Garlato
Ideazione e creazione logo Benedetta Villa
o e consulenza legale Luigi Gaudino
Impaginazione e realizzazione ebook Alice Braut
Editing e correzione bozze ebook Lucia Longo
o pubblicazione digitale Viviana Amendola
Realizzazione sito Silvia Paruta
Casting voci per gli spot Stefano Vattovani
Produzione Video Fantastificio s.r.l