Shoulder Blade 12d1h

Chiara Agresti

SHOULDER

BLADE

EDITRICE GDS

Chiara Agresti “Shoulder blade”©EDITRICE GDS

EDITRICE GDS

di Iolanda Massa

Via G. Matteotti, 23

20069 Vaprio d’Adda (MI)

tel. 02 9094203

e-mail: [email protected]

Collana ©AKTORIS

Illustrazione in copertina di ©Bryan Mazzini

TUTTI I DIRITTI RISERVATI.

Il presente romanzo è frutto della fantasia dell’Autrice. ogni riferimento a persone, cose, luoghi e fatti realmente esistenti e/o esistiti è puramente casuale.

A Marzia.

PREFAZIONE

Ho vissuto nell’illusione di un mondo perfetto per molto tempo.

Mi guardavo intorno e avevo esattamente quello che volevo: una famiglia che mi amava, un’amica fedele e sincera; a scuola poi ero sempre stata brava.

Avevo una vita semplice: piena di gioia e amore, un amore che ho faticato tanto a ritrovare.

Varie volte mi sono chiesta come mai tutto sia svanito all’improvviso. Ho provato persino a darmi delle risposte. Non ne ho trovate.

Sono stata privata di tutto e la sola cosa che mi restava era il dolore. Ho convissuto con lui a lungo, dimenticandomi di ogni cosa.

«Ricorda chi sei veramente»ripeteva sempre mia madre.

Il problema è che io non l’ho mai saputo davvero.

CAPITOLO 1 - Risveglio

Il sole illuminava l’intera stanza. Con gli occhi ancora chiusi emisi un lungo respiro: non avevo voglia di alzarmi.

Oggi, proprio non ne avevo la forza.

A farmi cambiare idea fu l’ondata di calore che mi colpì il viso. L’estate non era ancora arrivata e già il caldo si faceva sentire. Inspirai profondamente e iniziai a vestirmi con lo sguardo fisso sul calendario posto a lato della scrivania.

24 maggio 2008.

Il giorno in cui la mia famiglia era scomparsa. Quando i miei genitori e mia sorella maggiore morirono in un incidente d’auto, avevo tredici anni e da allora ne erano ati quattro.

La sorella di mia madre, la zia Crystal, e suo marito Anthony erano gli unici parenti rimasti, mia madre li chiamava “nomadi”. Sono cuochi e spesso vengono contattati da qualche albergo o ristorante famoso: non si fermano nello stesso posto per più di un anno. Secondo i servizi sociali non era una buona idea che restassi con loro: avevo subito un trauma e mi serviva stabilità ed essi non potevano darmela. Sono stata affidata a una casa famiglia e quando credevo che tutto fosse perduto ho conosciuto i Sullivan. Mi hanno adottato legalmente l’anno successivo.

La signora Sullivan aveva desiderato per tutta la vita, più di ogni altra cosa, avere dei figli ma la sua sterilità glielo aveva impedito. Quando mi adottò, divenni il surrogato di quel figlio che aveva sempre voluto avere. Mi trattò come tale fin dall’inizio.

Mi fece sentire amata. Assieme a suo marito costruì una stanza apposta per me con un enorme letto lillà e le pareti bianche. Adorai quella stanza all’istante e ben presto divenne un luogo sicuro.

Il mio luogo sicuro. Nulla poteva toccarmi dentro quelle quattro mura,mi sentivoprotetta. Al riparo. Mi recai in cucina sorridente. Ero talmente abituata a fingere che a volte finivo per crederci anch’io.

David era seduto di fronte a una tazza di caffè fumante mordicchiando una brioche mentre leggeva il giornale.

«Robe da pazzi!» esclamò alzando lo sguardo dall’articolo che aveva attirato la sua attenzione.

«Che cosa succede?» domandòLudmilla incuriosita.

«La polizia ha trovato altri due cadaveri nel Michigan, stesso modus operandi di quelli trovati in Ohio due settimane fa: sgozzati e poi fatti a pezzi».

«È davvero assurdo » disse mia madre «chi farebbe una cosa del genere?».

«Un pazzo probabilmente»rispose secco mio padre.

«Scusate ma devo andare. Faccio tardi al lavoro. Zara?»si voltò verso di me «Cerca di prenderlo in tempo l’autobus questa volta».

Mi diede un bacio sulla fronte e dopo aver salutato mia madre, uscì.

Mio padre era sempre così: un po’sfuggente.

Divorai la colazione a base di pancake e succo d’arancia in un secondo.

L’autista suonò il clacson due volte.

Afferrai di corsa lo zaino che avevo appoggiato sul divano e uscii da casa.

Salii in autobus appena in tempo.

«Sempre al pelo nonè vero biondina?» George portava un cappello con la visiera e due occhiali tondi che gli davano un’aria un po’buffa.

Era un uomo sulla cinquantina, grassottello e con il pizzetto. Prendevo il suo autobus fin dalle medie e ormai mi conosceva bene.

«Scusami George».

«Ho una cosa per te». Dalla tasca dei pantaloni estrasse un quadrifoglio e me lo porse «Un giorno la fortuna girerà dalla tua. Ne sono sicuro».

Ogni anno nella ricorrenza della morte dei miei, George mi regalava qualcosa. La prima volta che presi l’autobus dopo il funerale mi regalò un peluche. Era qualcosa di automatico per lui, conosceva i miei genitori e sapeva quanto ci fossi legata. Il suo era un modo per farmi sentire meno triste. Mi diressi verso l’ultima fila, nel posto accanto al finestrino, ascoltando l’mp3 come facevo sempre. Accanto a me un ragazzo leggeva il giornale nello stesso modo assorto di mio padre.

«Davvero una brutta storia, vero?»

«Oh, scusa. È solo che l’ha letto anche mio padre questa mattina»dissi togliendomi l’mp3 dalle orecchie.

«Fa davvero paura. Non c’è proprio limite alla follia umana».

«Come dici?»

«Mi riferivo agli omicidi. Come si può sgozzare una persona e poi avere ancora voglia di torturarla? Lo chiamano l’Indemoniato perchéuccide con una brutalità mai vista prima. A quanto pare però, la cosa davvero strana sono le cicatrici

trovate sui corpi».

«Cos’hanno di particolare?»

«Sono circondate da un alone nero e i medici non sanno cosa sia. Non si è mai visto niente del genere prima».

«Questa strage va avanti da mesi»affermai.

«Hai idea di come ci si possa sentire? A perdere di colpo ogni cosa? La famiglia. Gli amici. Ogni cosa spazzata via nel giro di pochi secondi. Hai idea di come ci si possa sentire? Ti consiglio di tenere gli occhi aperti fatina».

«A dire il vero sì»risposi prima di scendere dall’autobus «So come ci si sente».

Odiavo il lunedì mattina. Chiunque all’interno di quell’edificio dalle pareti scrostate lo odiava, persino le pareti stesse. Mi diressi verso il mio armadietto con andatura cascante nel vano tentativo di non scontrarmi con nessuno.

«È stato fico, sai? Il modo in cui abbiamo ato la serata ieri. Davvero fico». La voce squillante di Alexa mi fece sobbalzare.

Conoscevo Alexa Mc Person da quando avevo tre anni. Mi era sempre stata accanto, soprattutto dopo la morte della mia famiglia, ciò nonostante non la definivo mia amica. Per me era solo un grosso peso. Ogni cosa lo era.

«Alexa, pizza e film a casa mia non èper niente fico».

«Hai ragione. È stato originale. Saresti potuta andare con Laura, però non l’hai fatto».

«Le discoteche non fanno per me. Lo sai».

«Esatto. È proprio di questo che sto parlando. Sei nella squadra di pallavolo dunque sei una specie di celebrità, eppure preferisci startene in casa a guardare un film piuttosto che sballarti in discoteca. È originale, sai?»

«Se lo dici tu. A me sembra solo di andare contro tendenza».

«Forse è per questo che piaci tanto» disse indicandomi un gruppo di ragazzi che mi squadravano famelici.

La camla trillò sfondandomi i timpani.

«Ci vediamo in mensa»rispose Alexa sorridendo.

Annuii dirigendomi verso la mia aula.

La signora Backster entrò in classe annunciando che avrebbe interrogato. Non c’era da stupirsi: lo faceva sempre.

Il primo ragazzo che chiamò non spiccicò nemmeno una parola, rimase imbambolato a fissarla con il terrore dipinto negli occhi per cinque minuti.

Lo rispedì a posto con una bella F. Ne chiamò un altro ma nemmeno questo dimostrò di aver studiato granché. Quando venne il mio turno, mi stavo rigirando il quadrifoglio di George tra le dita “ Bella fortuna” pensai. Venire a scuola era stato un suicidio. Nei corridoi e nelle aule echeggiavano schiamazzi e risate che mi provocavano un gran mal di testa. Quando suonò l’intervallo, ringraziai Dio…non che ci credessi ovviamente. C’era un unico posto in cui volevo andare e non aveva niente a che fare con il giardino. La scuola ne possedeva uno immenso: era lì che stavano tutti quanti durante la pausa. Ma non io.

«Ehi tu!» un paio di braccia sottili mi circondarono la vita.

«Laura» sussultai. Laura faceva parte della squadra di pallavolo: aveva due grandi occhi marroni sempre stracolmi di mascara e lunghi capelli neri.

Il suo sogno fin da bambina era di diventare una modella ma mi aveva confessato che anche stare nella squadra non le dispiaceva.

A parte la pallavolo non avevamo nulla in comune ma andavamo comunque d’accordo. Alexa invece non la sopportava.

«Accompagnami in biblioteca» disse trascinandomi con lei.

Uno dei miei posti preferiti, dopo la palestra, era la biblioteca.

Avrei voluto arci la pausa da sola ma dire di no a Laura era impossibile, specie se ti coglieva alla sprovvista. Il preside aveva fatto ristrutturare la biblioteca un anno fa: era spaziosa, piena di scaffali, colma di libri e ricca di tavoli dove poter studiare. L’unico difetto di quel luogo incantato era l’assistente del professor Nicklas.

«Professor Nicklas?» la voce di Laura risuonò nell’intera biblioteca.

«Forse è ancora a lezione» dissi.

«Come mai non sei venuta ieri sera?» mi chiese con tono di stizza.

«Non mi sentivo tanto bene».

«Ma ora sì, vero? Ti ricordo che domani alla quarta ora dobbiamo battere la squadra di Justin».

Justin Allen era un ragazzo del penultimo anno, il che significava che il prossimo sarebbe andato al college. Non ci avevo mai parlato, era un tipo riservato e a dirla tutta un po’ m’intimoriva.

«Pensi di restare concentrata?»

Laura arrossì come una bambina. Aveva una bella cotta per lui, come tutte le altre ragazze del resto.

Io non ero interessata a questo genere di cose.

«Davvero ti emozioni alla mia vista?» Dal bancone della reception comparve un ragazzo dai capelli castani che ci sorrise maliziosamente.

«Nemmeno per sogno Matt».

Matt Lee, l’assistente del professor Nicklas.

A volte capitava che il professore, amante apionato dei libri, fosse troppo occupato a causa d’interrogazioni e compiti di storia da correggere, allora il suo prezioso gioiello era affidato a Matt.

Ancora non ero riuscita a capire come mai avesse incaricato lui d’occuparsene. Ogni studente possedeva una tessera che dava la possibilità di prendere solo un certo numero di libri dalla durata di tempo variabile.

«Il professor Nicklas?» chiesi appoggiandomi al bancone.

«Non hai voglia di vedermi?»

«Dio! Matt sei sempre il solito e finiscila una buona volta» rispose Laura rotolandosi i capelli tra le dita.

Il ragazzo puntò il suo sguardo ammaliatore su di lei. Alcuni riccioli castani gli caddero sul viso.

Matt li spostòcon la mano. Laura sorrise.

Matt aveva un fascino tutto suo e a scuola era conosciuto per il suo lato da seduttore. Non faceva il filo proprio a tutte ma era attirato dalle ragazze della squadra di pallavolo come api alla vista del miele. A detta di molte ragazze era anche un bel tipo: alto, slanciato e dal fisico scolpito.

«Non essere gelosa. Lo sai che il mio cuore batte solo per te» rispose senza staccarle gli occhi di dosso.

«Certo, certo» Laura abbassò lo sguardo. Si morse il labbro inferiore mentre la sua bocca disegnava un sorrisetto chiaramente compiaciuto. Matt non se ne accorse. Io sì.

«Allora, in cosa posso esserti utile bellezza?»chiese Matt spostando la sua attenzione su di me.

Estrassi la tessera «Mi serve “Per chi suona la campana” di Hemingway».

«Un gruppo di partigiani repubblicani che agivano dietro le linee fasciste tra El Escorial e Segovia, nelle zone boscose della Sierra de Guadaramma in Spagna. Lettura interessante».

«Mi serve per il compito di storia».

Matt frugò in uno scaffale dietro di lui poi tornò con un libro in mano.

«Non sei la prima a chiedermelo» disse «Ma sei la prima cui posso dare ripetizioni».

«Ne faròa meno» risposi dandogli la tessera che mi timbrò «Posso tenerlo per due settimane, giusto?» Laura tossì.

«Di cosa hai bisogno?»

«Canti di Castel Vecchio, voglio tutta la raccolta di poesie se è possibile»Matt batté le palpebre «È Pascoli».

«Oh, chiaro. Lingua inglese?»

«Lingua originale».

Matt consultò il computer nel quale erano classificati tutti i libri secondo genere e autore.

Scorse nella lista dei poeti italiani.

«Te lo prendo subito».

Si avviò nella sezione dedicata alla poesia italiana, poi tornò con in mano un raccoglitore in cui erano inserite tutte le poesie.

«E da quando leggi poesie?» le chiesi stupita.

«Vuoi scherzare! Io non leggo poesie. È per mia sorella. Questa estate vuole andare a trovare i miei nonni in Italia e vuole essere preparata».

«Ci andrai anche tu?»

Laura sorrise «Mi piacerebbe ma ho altri progetti».

«Sono divise in ordine cronologico».

«Grazie» Laura gli porse la tessera.

«A volte scordo le tue origini italiane» disse Matt timbrandogliela.

«A volte scordi persino la testa».

«Perché penso sempre a te».

«Ruffiano».

«E tu sei bellissima».

L’elettricità sprigionata dai loro sguardi era tale da far andare in corto circuito la scuola. La camla trillò.

«Ci vediamo»dissi strattonando Laura.

«Quant’èfastidioso!» borbottò lei.

«Beh io vado in classe».

«Ricordati della partita di domani»

Percorsi il corridoio che portava alla mia aula.

Era deserto.

L’unico momento della giornata in cui finalmente regnava il silenzio.

Per terra, in un angolo accanto al cestino della spazzatura, l’articolo in prima pagina sulle morti del Michigan mi paralizzò. Lo raccolsi. Lasciai scorrere le dita sul profilo del ragazzo. Si chiamava Joshua, non ne potevo essere sicura però. Tutto divenne confuso.

Urla.

Feriti.

Sangue.

Cicatrici.

Morti.

Le immagini si accavallavano nella mente senza un ordine logico.

Flash su flash.

La testa iniziò a pulsarmi, la sentivo scoppiare. Iniziò a girare e il viso di Joshua divenne sempre piùindistinto.

Vedevo solo i volti dei ragazzi del Michigan.

Poi niente.

Non so per quanto tempo rimasi svenuta. Quando mi svegliai due grandi occhi verdi mi fissavano preoccupati. Erano gli occhi più belli che avessi mai visto: scuri e profondi.

«Ti senti bene?»

«Sto bene» dissi alzandomi. Mi guardai intorno. Il corridoio era vuoto. «Cos’è successo?» non credevo di aver rivolto la mia domanda proprio a lui.

«Sei svenuta» rispose Justin osservandomi bene «Stavo andando in aula e ti ho trovato. Ti gira la testa per caso?»

«Sto bene». Il volto di Joshua riaffiorò nella mia mente facendomi venire la pelle d’oca. «Non ho fatto colazione questa mattina» mi affrettai ad aggiungere «andavo di fretta».

«Vuoi che ti accompagni in aula?»

«Faccio da sola».

Nel dirlo sentii le gambe cedere. Il braccio di Justin scivolò con delicatezza attorno al mio fianco. Non gli ero mai stata così vicina. Fui invasa da un odore fresco e delicato.

«Grazie» risposi scostandomi da lui. Le gambe continuavano a tremarmi ma non avevano nulla a che fare con lo svenimento.

Un brivido mi attraversò la spina dorsale costringendomi ad allontanarmi da lui. Justin, accanto a me, sorrideva incerto. Sul suo viso dai lineamenti regolari comparvero due fossette ai lati delle guance.

I capelli castani tutti spettinati gli davano un’aria ribelle; portava una maglietta a maniche corte e un paio di jeans strappati, sulle braccia nude risaltavano le venature, verdi come i suoi occhi, in contrasto con la pelle chiara. Quegli occhi così profondi m’inquietavano, avevo l’impressione che potesse leggermi dentro,

fino all’anima.

«Ti offro un tè» disse «Hai bisogno di zuccheri».

«Davvero. Non è necessario. È stato solo un capogiro» .

Ma prima che potessi impedirglielo si era già recato alla macchinetta.

Mi avvicinai a lui con cautela; ogni o era calcolato per essere il più preciso possibile, pronto alla fuga se era necessario.

«Limone o pesca?»

«Limone».

«Sta attenta. Scotta».

«Grazie».

«Sediamoci».

Ci sedemmo su una panchina di legno e per i primi cinque minuti nessuno dei due disse nulla. A spezzare quel silenzio fu Justin.

«Ti chiami Zara, vero?» Annuii stringendo il tè caldo tra le mani «Ti ho vista giocare a pallavolo. Sei forte».

Avevo lo sguardo fisso sul bicchiere di tè e non avevo alcuna intenzione di staccarlo.

«Dovresti berlo» mi disse «Altrimenti si raffredda».

Appoggiai le labbra contro il bordo del bicchiere. L’odore fresco e delicato che avevo sentito prima mi entrò nelle narici. Basilico. Ecco cos’era.

«Io sono Justin».

Il tèmi bagnò le labbra riscaldandomi tutto il corpo.

«Sei al penultimo anno».

«Già. Non credevo che sarebbe arrivato così in fretta. Non voglio andarmene. Non ancora».

Mi portai nuovamente il tè alle labbra. «Non è male. Andarsene».

«Tu lo faresti? Se fossi al mio posto, lo faresti?»

Alzai lentamente lo sguardo verso di lui. Era proteso in avanti con i gomiti sulle ginocchia; i miei occhi si scontrarono con i suoi, così scuri che ebbi quasi l’impressione che fossero privi di pupilla. Il brivido che mi aveva attraversato la schiena la prima volta tornò. Distolsi lo sguardo da lui.

«Sì. Se potessi andarmene lo farei».

«E dove andresti?»

«Non ha importanza dove. Basta che non sia qui».

«Io voglio restare. Non posso andarmene, non posso farlo».

La sua voce era calma e pacata con qualche nota triste e malinconica. Avevo lo sguardo fisso sulle piastrelle color crema del pavimento e continuavo a ripetermi che era stato uno sbaglio. Sarei dovuta rimanere a casa a crogiolarmi nel mio patetico e solitario dolore.

La testa mi sembrava più leggera ma non potevo dire lo stesso del cuore. Avevo l’impressione che la parete vascolare che lo circondava si stringesse sempre di più attorno a lui, sotto la gabbia toracica. Lo sentivo farsi sempre più piccolo,

come se volesse nascondersi per non farsi trovare mai più. La pressione delle pareti aumentò, comprimendolo, schiacciandolo quasi.

Mi mancava il respiro.

Appoggiai il bicchiere di tè sulla panchina e mi portai la mano destra al cuore. Uno squarcio letale e violento m’attraversò il petto facendomi gridare.

«Zara?» La voce di Justin era un sottofondo smarrito e sordo.

Mi piegai sulle ginocchia pregando che il dolore svanisse ma non faceva altro che aumentare.

Lo squarcio divampò opprimendomi.

Alla fine, il dolore incrostato per anni, sepolto in ogni angolo buio, lasciato solo e abbandonato a se stesso aveva proliferato. Aveva infranto le robuste pareti dei vasi sanguigni ed era pronto a essere liberato.

Aveva ceduto. Se ne sarebbe andato per sempre ed io con lui.

«Zara? Zara ti prego parlami» La voce di Justin era limpida e chiara, piena di preoccupazione e terrore. Un rumore assordante mi perforò i timpani.

Era metallico e brusco. Lo isolai.

Non fu difficile: c’era un altro suono che mi attraeva, più delicato e caldo.

Mi concentrai su quello e tutto il dolore svanì.

«Zara? Dimmi qualcosa ti prego».

Mi tirai su a fatica «È ato» sussurrai «È tutto ato adesso».

Il corridoio s’era riempito di un vociare confuso e caotico e accanto al cestino della spazzatura il volto di Joshua veniva calpestato più volte senza alcun ritegno, senza alcuna pietà.

«Zara…».

«È ato» lo interruppi «Ora sto bene». Justin mi lanciò uno sguardo di disapprovazione. Aveva i muscoli contratti e sul suo viso persisteva un’espressione sgomenta. «Devo andare inaula adesso».

«Stai scherzando vero?»

Mi alzai di scatto e nel farlo il bicchiere di tè si rovesciòsul

pavimento. «Dovresti andare a casa» i suoi occhi verdi si fecero seri «Dovresti riposare».

«Sì, dovrei farlo». Grida, profonde e sonore rimbombarono nella mia testa. Mi allontanai senza voltarmi indietro. Volevo andarmene.

Volevo il mio posto sicuro.

«Dove stai andando?» Alexa mi afferrò il braccio con decisione «Stavi parlando con Justin? Cavolo Zara, questo è il tuo giorno fortunato».

«Come hai detto scusa?»

«Che è il tuo giorno fortunato».

La fissai negli occhi sconvolta «Già. Fortunatissimo» dissi oltreandola.

«Non era quello che volevo dire».

La voce di Alexa che dal fondo del corridoio chiedeva di perdonarla mi dava sui nervi.

La ignorai continuando a camminare dritto fino a quando non raggiunsi l’uscita.

Una folata d’aria calda mi scompigliò i capelli. Respirai a fondo. Odiavo il caldo. Mi sentivo obbligata a essere felice ed io non lo ero.

«Ehi» la voce di Justin mi paralizzò. Mi si avvicinò cauto, quasi mi temesse. «Ti ho vista andartene. Ti serve un aggio?»

«Devi tornare in classe» dissi senza guardarlo «Ti ho fatto perdere già troppo tempo».

Fece un o in avanti «Posso accompagnarti a casa».

«Aspetterò l’autobus».

«Ti faccio compagnia».

«Non voglio che tu lo faccia». Le parole mi uscirono dalla bocca così velocemente che non ebbi il tempo di elaborarle. «Mi dispiace, io…Non volevo dire questo. Posso cavarmela da sola. Ecco tutto».

«Sì» rispose «Immagino che tu possa farcela».

Stava accadendo di nuovo. La fitta che mi aveva lacerato il cuore era tornata.

Repressi il desiderio di gridare e resistetti alle lacrime che minacciavano di scendere.

«Aspetta» respirai a fondo «Protesti restare. Fino a quando non arriva l’autobus».

«Okay» disse «Resto. Fino a quando non arriva l’autobus».

Mi rivolse un sorriso rassicurante e per quanto mi fu possibile cercai di ricambiarlo. Il mio cuore si fece più grande, liberato dall’opprimente giogo che lo affliggeva, tornò a scandire battiti lenti e un po’ insicuri. Restammo ad aspettare l’autobus per dieci minuti. Il cielo iniziava a farsi nuvoloso, tra un paio d’ore sarebbe iniziato a piovere. Justin se ne stava accanto a me con le mani in tasca, sobbalzò quando gli vibrò il cellulare.

Lo estrasse e se lo rinfilò in tasca.

«Se… Se devi andare, vai pure. Arriverà tra qualche secondo ne sono sicura».

«Non è niente. Posso restare se non ti da fastidio».

«Nessun fastidio» Mi sorpresi per quanto fossi stata sincera.

Avevo smesso di tollerare la gente molto tempo fa, avevo smesso di fingermi carina per piacere a qualcuno nonostante tutti fero a gara per essermi amici. Il telefono di Justin vibrò ancora.

«Dovresti rispondere. Potrebbe essere importante».

«Non loèfidati.È solo un gran seccatura».

«Indonesia».

«Come?»

«Se dovessi scegliere un posto per andarmene, sceglierei l’Indonesia».

«È bellissima» disse «E anche molto lontana».

«Per questo la sceglierei».

«Sembri proprio decisa a lasciare Eureka».

«È un’idea che mi alletta molto. Solo che per il momento non posso fare nulla».

Il sole gli colpì il viso illuminandoglielo. Non avevo mai fatto caso alla sua bellezza prima d’ora. Mi sorrise e per la prima volta non ebbi alcun timore nel ricambiarlo. L’inquietudine che sentivo verso di lui svaniva solo fino a quando non incrociavo i suoi occhi. Erano belli, anzi stupendi, c’era però qualcosa in essi che mi terrorizzava. Non sapevo dire cosa fosse ma ne avevo paura.

«Non ho mai pensato di abbandonare Eureka» la sua voce mi riscosse dai miei pensieri. «Sono nato qui. È difficile lasciare questo posto».

«Questo vuol dire che non hai ancora idea di quale college frequentare?».

«Esatto. Diciamo che non è il mio obiettivo principale».

«Allora qualè?»

«Per adesso? Solo riuscire a batterti domani».

«Sarà dura vincere contro un capitano sofferente come me».

«Mi auguro che domani le tue condizioni siano migliori. Mi piace vincere ad armi pari».

«Quindi ti piace vincere».

«A chi non piace».

«A me» Justin mi fissò dritto negli occhi «Voglio dire…».

«Tranquilla. Dimmi quello che pensi. Lo voglio sapere».

«Vincere non ha senso. Cinque minuti di gloria. È questo quello che si vince. Fama e popolarità sono solo conseguenze. La vera vittoria sono quei cinque minuti di gloria in cui credi di aver cambiato il mondo. Non ha senso. Vincere non ne ha». Distolsi lo sguardo da lui «Questo è quello che penso».

«Perché hai iniziato a giocare a pallavolo allora?».

L’autobus si fermò a un metro da me.

«Devo andare a casa. Grazie per la compagnia».

«Ci vediamo domani».

Salii in fretta sull’autobus. Mentre l’immagine di Justin si faceva sempre più piccola ebbi la sensazione di sentirmi un po’ più leggera.

Mi portai la mano al petto.

Quel dolore era stato così forte da farmi desiderare di strapparmi il cuore.

Dopo quattro anni soffrivo ancora come un cane, avrei sofferto sempre e ogni anno sarebbe stato più devastante del precedente.

L’autobus fece una sosta davanti al cimitero. Non ci avevo mai messo piede. Mai. Mi ero dimenticata di quel posto il giorno in cui la mia famiglia era stata seppellita sotto cumuli di terra. L’avevo trovato un gesto orribile, privo di tatto e di rimorso. Ci avevano separati per sempre. Ma il vero colpevole di tutta questa storia era quel pazzo ubriaco che gli era andato addosso. Avevo provato molta rabbia per lui, lo avevo maledetto non so quante volte, adesso invece non provavo nulla. Né rabbia, néodio. Niente.

«Ragazzina» mi voltai verso la voce dura e fredda che aveva parlato.

Nel sedile di fronte al mio era seduta una donna sulla quarantina magra e dalla pelle diafana, leggere sfumature arancioni spuntavano qua e là tra i capelli rosso fuoco tirati indietro in tante piccole treccine che s’univano poi in un’unica grande treccia che le arrivava a metàdel busto.

Indossava un vestito rosa, lungo fino alle ginocchia, sulla vita portava una spessa cintura di cuoio e gli stivali le arrivavano a metà delle lunghissime gambe lasciandone scoperta solo una piccola parte.

I suoi piccoli occhi scuri mi fissarono minacciosi.

«Sì?»

«Ti ha chiesto perché non scendi» disse indicandomi George.

Non mi ero resa conto di essere arrivata a casa.

Scesi rapida dall’autobus e m’incamminai sul vialetto. A un tratto mi fermai. Avevo come la sensazione di essere osservata. D’istinto mi voltai.

Attraverso il finestrino dell’autobus la donna dai capelli rossi mi fissava.

CAPITOLO 2 - Tensione

Urla.

Città in fiamme.

Corpi smembrati e volti tumefatti.

Ancora grida.

Fiumi di sangue. Una donna si copre il viso con le mani insanguinate.

Morte. Morte. Morte.

Voci indistinte sussurrano morte. Lentamente la donna scopre il suo volto. Gli occhi piangono sangue. Figure ormai decomposte mi osservano.

Le loro labbra si muovono lente, scandiscono piano parole mute. Sussurrano qualcosa che non capisco.

La donna compare di nuovo.

Le voci che proclamano la sentenza di morte si fanno più insistenti. Silenzio.

D’un tratto dall’oscurità si leva un grido.

Mi svegliai di soprassalto con il cuore che batteva all’impazzata.

Diedi uno sguardo veloce alla sveglia. Segnava le due e mezzo di notte.

Mi asciugai la fronte imperlata di sudore mentre cercavo di riprendermi dall’incubo appena avuto.

A catturare la mia attenzione fu un rumore stridulo e agghiacciante che proveniva da fuori. Scesi piano dal letto e cautamente mi avvicinai alla finestra. Spostai le tendine color lilla per capire meglio di cosa si trattasse.

Nel buio della notte due grandi occhi verdi brillavano.

Spalancai la finestra e lo vidi lì, accucciato su un ramo dell’albero che si trovava a pochi centimetri.

Un gatto bianco, bellissimo e dal pelo folto.

«Come ci sei arrivato fin qui?» gli domandai allungando le braccia per prenderlo. Sapevo che i gatti erano agili e veloci ma quell’albero doveva essere alto almeno dieci metri ed era pazzesco che si fosse arrampicato così in alto. Mi fissò con gli enormi occhi verdi e dilatando le fauci mi mostrò i suoi piccoli denti appuntiti. Li digrignò quando feci il gesto di riportarlo sull’albero.

«E va bene ti terrò con me, ma solo per questa notte» dissi richiudendo la finestra. Mi sedetti sul letto e scese dalle mie braccia mettendosi diritto in un angolo. Soltanto allora notai che attorno al collo portava un sottile nastrino rosso con in mezzo un fiocchetto anch’esso rosso dal quale pendeva un sonaglino d’oro: su entrambi i lati vi erano degli strani simboli, tutti attorcigliati e molto complessi.

Mi ritrassi rapidamente quando sentii Ludmilla appoggiare la mano sulla maniglia per aprire la porta.

Fu un secondo: il gatto che prima si trovava sul letto fece un salto agile e veloce e balzò per terra nascondendosi.

«Tutto bene tesoro?»

«Tutto sotto controllo» risposi infilandomi sotto le lenzuola.

«Okay, cerca di dormire allora ».

«Notte» le dissi mentre la guardavo chiudere delicatamente la porta per non fare

rumore. Diedi un’occhiata in giro e di colpo me lo ritrovai davanti. Mi osservò un instante poi si accucciò in fondo al letto; aprì la bocca quasi in uno sbadiglio poi, piano piano chiuse i suoi grandi occhi.

Rimasi imbambolata a fissare il soffitto. Per riaddormentarmi dopo l’ incubo che avevo avuto feci una fatica enorme. Mi giravo e rigiravo nel letto spostando le lenzuola da una parte all’altra. Quando finalmente riuscii a prendere sonno qualcosa di umido mi lavò la faccia. Aprii gli occhi che si scontrarono con quelli del gatto.

Si ritrasse non appena m’alzai bruscamente dal letto, scese immediatamente e si sistemò di fianco al mio zaino leccandosi le zampe.

Dopo essermi preparata mi diressi verso lo specchio per sistemarmi meglio. Per un momento il volto scorticato d’un ragazzo si riflesse in esso.

Le sue labbra sussurravano qualcosa che non riuscivo a decifrare.

Soffocai un grido.

Tremando, distolsi rapida lo sguardo.

Il gatto con un balzo arrivò sul davanzale della finestra e con un altro più lieve si sistemò sul ramo dove lo avevo visto la sera prima.

Scesi lentamente le scale facendo un profondo respiro prima di entrare in cucina. David doveva già essere andato al lavoro e Ludmilla non era nei paraggi, quindi in punta di piedi attraversai la stanza e aprii la porta. Dovevo uscire da quella casa il più in fretta possibile.

Durante le lezioni la mia concentrazione non fu delle migliori. Non prestai attenzione quasi a niente nemmeno alla camla che suonava.

Ero completamente assente.

«Cavolo!» esclamai quando mi scontrai violentemente contro un ragazzo.

«Guarda dove vai!» strillò lui dileguandosi tra la folla.

«Accidenti» sussurrai piegandomi a raccogliere l’ mp3 che nello scontro mi era caduto dallo zaino

«É ridotto proprio male, mi dispiace».

Alzai lo sguardo e mi ritrovai davanti Justin. Raccolse alcuni pezzi dell’mp3 e me lo porse.

«Grazie» risposi oltreandolo.

«Ti senti bene?»

Mi bloccai di colpo «Sì. Smettila di chiedermelo».

Ancora una volta le parole mi uscirono senza controllo.

Non avevo idea del perché il suo interesse per la mia salute mi urtasse tanto.

Doveva smetterla di trattarmi come se non sapessi badare a me stessa, lo sapevo fare benissimo.

Feci un lungo respiro prima di chiedergli scusa.

«Fa niente. Peccato per l’mp3».

«Non importa. Era vecchio».

Quell’mp3 aveva quattro anni o forse più, apparteneva a mia sorella e dentro c’erano le sue canzoni. C’era la parte di lei che non se n’era andata. «Ti senti pronta? Per la partita» mi guardò negli occhi come per assicurarsi che non mentissi.

«Ho solo dormito poco. Sai, ansia da prestazione».

Justin non sembrava per nulla convinto però non mi fece altre domande. Cominciava a intuire che non ero molto socievole. Di sicuro non ero l’idolo della scuola che si aspettava.

«Non mi hai risposto ieri» disse all’improvviso

«Come mai giochi a pallavolo se non ti piace vincere?».

«La Dickenson mi ha vista giocare. Ha detto che ero brava e mi ha presa in squadra».

Non so esattamente cosa rispose Justin, forse disse qualcosa di sfuggita o forse nulla, in ogni caso non lo ascoltai e al suono della camla mi recai in mensa. Mentre attraversavo il corridoio qualcosa mi schizzò rapido davanti agli occhi. Non feci in tempo a capire cosa fosse ma poi ci arrivai. Due grandi occhi verdi brillavano in fondo al corridoio.

Il gatto miagolò. Mi chiesi se fosse vero oppure no.

Ultimamente non riuscivo più a distinguere cosa fosse reale e cosa no, ma poi capii che lo era.

«Ehi».

«Ciao Alexa».

«Non avrei dovuto dire quelle cose ieri. Sono stata stupida».

Non le risposi «Io e mamma siamo ate al cimitero. Abbiamo lasciato delle rose bianche».

«Grazie».

«Mi dispiace tanto».

Una lacrima si preparava a scendere con forza. La ricacciai indietro.

«Perdonata».

«Davvero?».

«Sì, certo».

Non potevo fare altro che perdonarla. Non avevo molte possibilità.

Alexa diventava insistente quando veniva ignorata. Non dava alcuna tregua. Era meglio perdonarla subito, anche se non avrei mai voluto farlo. Mi sentivo un mostro ma a volte, molto spesso a dire il vero, desideravo tanto che non esistesse.

Ci avviammo verso la mensa senza dire nulla.

Le chiacchiere rumorose degli studenti alleviarono un po’ la tensione che s’era instaurata tra me e Alexa.

In fondo al suo cuore credo che sapesse che non c’era alcuna speranza per noi, non avevamo possibilità d’essere amiche ma non mollava e la cosa m’irritava.

Il gatto non c’era più. Avrei voluto essere come lui: solitario e indipendente invece ero bloccata qui, in un posto che non mi offriva nulla se non una ragione per odiarlo. Mi bloccai di colpo. Un fremito mi penetrò nelle ossa.

«Ho scordato una cosa in classe».

«Ti aspetto in mensa».

Una figura si mosse rapida. Non avevo idea di cosa fosse. Poteva essere il gatto ma non ero certa.

La figura mi schizzò davanti.

Era veloce e tutto quello che riuscivo a vedere era una sagoma nera che sfrecciava da una parte all’altra del corridoio. Non ne ero sicura ma giurai che mi stesse invitando a seguirla.

Nel corridoio non c’era nessuno. Nessuno che potesse testimoniare le mie allucinazioni, nessuno che potesse dirmi come stavano davvero le cose.

I battiti del mio cuore accelerarono.

Un armadietto di metallo era stato del tutto sradicato e adesso giaceva a terra in mille pezzi con libri e fogli sparsi ovunque. Lo sportello d’un altro armadietto s’aprì all’improvviso. Iniziarono a volare libri e dizionari a una velocità spaventosa e per scansarli dovetti abbassarmi.

Qualunque cosa fosse, si stava arrabbiando.

«Okay ti seguo» dissi. La mia voce rimbombò nel corridoio «Ti seguo».

Non accadde nulla. Nessun rumore, niente. Cominciavo a sentirmi davvero una cretina. Rimasi immobile per qualche secondo poi la figura si mosse. Si spostava rapida e prima di capire dove mi stesse conducendo ci impiegai del tempo. Quando arrivai davanti alla porta della palestra avevo il fiatone. Nell’aria echeggiòun sussurro.

«Dove sei?» non mi resi conto che stavo urlando «Dove diavolo sei finita?» La

figura non si vide.

Tutto allora nella mia mente acquisì un senso.

Me l’ ero immaginata perché intorno a me non c’era nessuno.Girai i tacchi decisa ad andarmene. Feci un o, uno soltanto, quello fatale probabilmente, perché di colpo mi sentii attirare da una forza bruta. Si sprigionò un’immensa ondata d’aria che mi fece arretrare di qualche centimetro.

Era come se di colpo si fosse aperto un varco da qualche parte ed io mi trovassi proprio nel mirino del suo vortice, pronta a essere risucchiata.

Mi aggrappai al muro nel vano tentativo di contrastare quella forza disumana. Mi schiacciai contro di esso, le mani stavano per cedere ma tentai di resistere. Qualcosa mi sfiorò la schiena. In un primo momento non capii di cosa si trattasse, con tutto quel vento era difficile avere una visuale chiara. Quando in lontananza vidi la porta della palestra, gridai.

Le mani diventarono sempre più deboli fino a quando non persi del tutto la presa che avevo sul muro. Chiusi gli occhi e mi coprii il viso.

Fui scaraventata con forza. Sentivo tutta l’aria che mi veniva addosso. Sapevo che i miei piedi non stavano più toccando terra. Poi accadde, toccai il pavimento. L’impatto tra il mio corpo e la superficie dura sulla quale sbattei fu così forte da farmi perdere i sensi. Aprii gli occhi.

Riconobbi il lampadario e il soffitto scrostato della palestra. Alzandomi a fatica mi accorsi che ero proprio al centro esatto di essa. La figura mi sfrecciò davanti.

«Chi sei?» Nessuna risposta. «Cosa vuoi da me?»

Un rumore di i mi fece voltare, solo che intorno a me non c’era nessuno. “Okay”pensai “ Adesso è definitivo. Sto impazzendo”.

Sarebbe stato di sicuro più facile pensarla così, credere che stessi diventando matta, che era a questo che il dolore mi aveva portato.

Eppure le figure che avanzano verso di me mi parevano reali.

Non mi mossi. Era meglio non fare mosse azzardate.

Da lontano le sagome si facevano sempre più nitide. Al centro vi era una donna e ai lati quattro ragazzi. Mi portai la mano alla bocca.

La donna era la stessa dell’incubo che avevo avuto questa notte. Com’era possibile che continuassi a vederli? Non avevo idea di chi fossero o del perché fossero morti. La loro morte era la sola certezza che avevo ma non sapevo per quale motivo mi tormentasse.

Avevo il cuore in gola. Non riuscivo a pensare a niente. Vuoto.

La donna era giunta a pochi centimetri da me. Le gambe mi tremavano senza sosta, da un momento all’altro avrebbero ceduto. Le labbra di uno dei ragazzi si mossero. Era difficile capire che età avessero, il loro stato di decomposizione era troppo avanzato, dovevano essere morti da più di una decina d’anni. Ancora una volta non riuscii a comprendere il suo messaggio. La donna m’indicò. Non sembrava volesse farmi del male ma per sicurezza indietreggiai. Si levò un grido. Proprio come nell’incubo. Era un grido stridulo e agghiacciante. Premetti con forza le mani sulle orecchie. Rimasi così fino a quando il grido non cessò.

La donna era sparita. Era rimasto soltanto un ragazzo che poco dopo svanì.

Corsi. Senza pensarci corsi fuori dalla palestra.

Non mi voltai indietro neanche per un secondo.

«Ehi stai attenta» Quasi barcollai quando mi scontrai contro Matt Lee. «Scusa» alzai piano lo sguardo su di lui. Sorrideva, visibilmente compiaciuto dello scontro dei nostri corpi. Una ciocca di ricci gli copriva il viso e quando la scostò impallidii.

«Ma che cosa ti è successo?»

«Oh, questo» disse indicando il grosso taglio che aveva sulla fronte «Nulla di preoccupante».

«Matt stai sanguinando. Come te lo sei fatto?»

Matt rise«Se vuoi saperlo dovresti occuparti di me. Mi fa tanto male».

Non c’era alcun accenno di dolore nelle sue parole. Aveva il sorriso stampato sulla faccia e mi osservava beffardamente.

Quando scoppiò a ridere m’irritai parecchio. «Sai, dovresti vedere la tua faccia. Sembra che tu abbia appena visto un fantasma».

Non un fantasma ma un morto. Anzi cinque, per la precisione.

«Non sembra che ti faccia male. Puoi cavartela anche senza di me».

Matt mi afferrò il braccio. «Eddai. Mi fa male sul serio».

Ruotai gli occhi al cielo e lo accompagnai in infermeria.

«Non c’ènessuno» affermò con le mani in tasca. Una goccia di sangue gli colò sul viso sporcandogli la guancia. «Faccio paura, vero?»

«Siamo in pausa pranzo. L’infermiera sarà in mensa».

«Allora dovrai occupartene tu».

«Mettiti seduto».

«Adoro le donne forti».

Presi una pezza e vi ci gettai il disinfettante. Con forza gliela premetti sulla ferita.

«Adesso sì che mi fa male» si lamentò lui.

«Come te lo sei fatto?»

«Stavo sistemando dei libri in biblioteca e mi è caduto uno scaffale addosso. Nicklas mi ha spedito subito in infermeria».

«Ho visto con quanta rapiditàci sei andato».

«Era una nota di preoccupazione quella?» chiese Matt ridendo.

Premetti ancora di più sulla ferita. «Va bene. Ho capito. Sto zitto».

«Ti ci vuole un cerotto» gliene presi uno dall’armadietto e glielo appiccicai in fronte. Adesso Matt mi era vicinissimo.

Le sue mani afferrarono il mio viso e le sue labbra premettero con forza sulle mie. Mi staccai subito da lui.

«Ma che diavolo fai?»

Matt rise«Mi sembrava giusto ringraziarti».

Gli mollai uno schiaffo dritto sulla faccia. «Non farlo mai più».

A lui non sembrava molto importare avermi fatto arrabbiare.

Continuava a fissarmi ridendo. Uscii dall’infermeria sbattendo la porta.

Tra i morti dei miei incubi e Matt, avrei scelto i morti mille volte.

La quarta ora arrivò in fretta. Nel campetto dietro la scuola, la classe di Justin si stava già riscaldando. Il campetto non era altro che una lastra di cemento piuttosto larga con una rete da pallavolo al centro, una panchina e un canestro fuori dal campo con qualche pallone sparso. Lo usavamo per allenarci solo quando fuori era bel tempo. Justin mi salutò con un rapido cenno della testa che

ricambiai a malapena. Laura mi venne incontro sorridendo. I suoi occhi oltre ad essere pieni di mascara come al solito, erano truccati con eyeliner e ombretto.

«Sei piuttosto in tiro per un’amichevole di pallavolo».

«Tutta tattica. Se si concentra su di me, non penserà alla palla».

Non potei fare a meno di ridere. «Non ti smentisci mai».

«Sono trucchi del mestiere cara».

Respirai a fondo prima di dirle quello che era accaduto con Matt in infermeria «Matt mi ha baciata».

Laura mi guardò perplessa «Oh».

«Ascolta… Gli ho mollato uno schiaffo in piena faccia» Laura scoppiò a ridere «Davvero a me Matt non piace per niente».

«Stavo solo pensando alla sua espressione. Se lo meritava».

«Dovevo dirtelo… Sai per quello che…».

Laura m’interruppe bruscamente «Non c’è stato niente tra me e Matt. Niente».

«Monthgomery!»

«Sì, coach Dickenson».

«Hai visto chi c’è in campo?» mi chiese indicandomi Justin.

«Ho visto».

«Le tue compagne sembrano tutte andate» lanciò un’occhiata di rimprovero a Laura «Ti prego, dimmi che non ti lascerai ingannare anche tu da quel bel faccino».

«Assolutamente no».

«Molto bene. Allora fagli vedere di che pasta sei fatta».

Mi disposi in fondo al campo preparandomi a battere. Quando il coach Dickenson fischiò il via alla partita schiacciai la palla con tutta la forza che avevo. Oltreò la rete e con un leggero tonfo si modellò tra le mani di Justin che, con delicatezza, la spinse in alto. I nostri compagni ci avano la palla ed esultavano a ogni punto fatto. Eravamo quattro pari e, se avessi vinto, la

Dickenson sarebbe stata sicuramente orgogliosa di me. Toccava di nuovo a Justin battere. La palla sfrecciò veloce e oltreò la rete in un secondo. Mi affrettai a raggiungerla ma non feci nemmeno in tempo a sfiorarla che quella rimbalzò per terra, poi iniziò a rotolare sparendo nel folto della foresta.

«Maledizione!» esclamòla Dickenson«Bel lavoro lo stesso, Monthgomery».

I compagni di Justin esultarono. Avvicinandosi alla rete disse «Sono due minuti. Il momento di gloria dura due minuti».

«Sembra di più visto da fuori».

Le sue mani erano aggrappate ai buchi della rete «Hai ragione sai? Vincere non ha senso».

Mi guardai intorno «Forse per qualcuno ne ha».

«Se così fosse la tua teoria sarebbe sbagliata» .

«Ho detto che per me non ha senso. Non ho mai parlato per gli altri». Un compagno di classe di Justin si avvicinò alla rete. I suoi occhi erano braci ardenti. «Sei stata bravissima. Avresti bisogno di uscire con qualcuno degno della tua bellezza».

«Vado a recuperare la palla».

In lontananza sentivo la Dickenson urlarmi di stare attenta. Non ero mai entrata dentro la foresta prima d’ora, era immensa e pareva scrutarti dall’alto per poi inghiottirti a tua insaputa.

A un tratto una serie di sussurri indistinti irruppero nel silenzio.

In un primo momento non ci feci caso, poi divennero più insistenti. Cercai di capire da dove provenissero ma sembrava che giungessero da ogni angolo della foresta. Rabbrividii e mi misi a cercare la palla il più in fretta possibile. Una forte folata di vento mi scompigliò i capelli e per un attimo non vidi nulla. Quando il vento cessò in lontananza mi sembrò di vedere qualcosa.

Una figura indistinta e scura. Di colpo il silenzio della foresta fu nuovamente squarciato. Vidi la palla sfrecciare a una velocità supersonica. Mi voltai nella direzione in cui era arrivata la palla, alzai immediatamente le mani e la fermai. Iniziai a tremare, ordinai alle mie gambe di muoversi, di correre, ma loro sembravano completamente saldate a terra. Una risata malvagia risuonò per l’intera foresta costringendomi a scappare.

«Ehi Zara».

«Sì, coach Dickenson».

«Allen ti ha offerto la possibilità di una rivincita. Vuoi accettare?»

«Certamente coach. Sono pronta»

Mi preparai a battere. Respirai a fondo. Alzai in aria la palla.

Il cadavere d’un ragazzo mi comparve d’innanzi facendomi sbagliare direzione.

«Due volte Zara. Ben due volte! Com’è possibile che abbiamo perso due volte di seguito?» Laura mi aveva posto la stessa domanda almeno dieci volte da quando eravamo uscite da scuola. Salutai distrattamente George quando salii sul pullman mentre Laura continuava a gracchiarmi nelle orecchie. La famiglia di Laura non aveva alcun problema di tipo economico, anzi i Fellinswhart erano messi piuttosto bene, ma ultimamente le sue spese eccessive a base di borse e abiti firmati le erano costati il ritiro della macchina. Una Ford Fiesta cui era molto affezionata.

Ci sedemmo tra le prime file; Laura scattò dritta verso il posto accanto al finestrino soffiandomelo per un pelo.

«Devi darmi una spiegazione» disse estraendo l’ipod dalle orecchie.

«Non ne avevi comprato uno lo scorso week-end?».

«Non cambiare argomento. Dimmi come diavolo hai fatto a sbagliare quel tiro».

«Non lo so».

«Non lo sai?» Laura batté le ciglia colme di mascara «Mi prendi in giro vero?».

«No. Non ti prendo in giro. Ho sbagliato, tutto qui. Era solo un’amichevole».

«Un’amichevole che ci preparava al torneo»disse Laura sbuffando.

Rimase un attimo in silenzio «Non ti sarai mica fatta distrarre da Justin Allen?».

Alzai gli occhi al cielo «No».

«Vi ho visti parlare» scoppiò a ridere «Matt potrebbe essere geloso».

«Laura…»

«Sì, lo so. Non t’interessa. A te non interessa nessuno» disse infilandosi l’ipod alle orecchie. Appoggiai la testa allo schienale e chiusi gli occhi.

«Ehi. Mi è venuta un’idea» Percepivo la voce di Laura chiaramente solo che cercavo di ignorarla.

«Dannazione mi rispondi!» Continuai a tenere gli occhi chiusi. Poco dopo li aprii di scatto. Mi portai le mani sulla coscia e la strinsi forte. Sentivo un dolore lancinante estendersi in tutta la gamba. Si era formato un livido perfettamente circolare proprio nel punto in cui Laura mi aveva colpito con il suo tacco dodici.

La guardai sconcertata e lei fece spallucce «Vuoi sentire la mia idea?».

«Sentiamola» dissi massaggiandomi la coscia.

«Dobbiamo svagarci. Il torneo scolastico di pallavolo è tra due settimane. È l’evento che decreta la fine dell’anno e otterremo crediti se lo vinciamo, inoltre ci darà più popolarità».

«Come se non avessimo già abbastanza».

Laura mi lanciò un’occhiataccia «Non sappiamo ancora chi saranno le nostre avversarie ma in ogni caso voglio mettere fuori gioco quelle stronzette». Abbozzai un sorriso. Quando si arrabbiava o si concentrava la faccia si tirava tutta e sembrava appena uscita dal chirurgo plastico. Prese a guardarsi la manicure. «Propongo di uscire stasera. Discoteca. E tu devi esserci. Almeno una volta nella vita devi mettere piede in quel posto».

«Sai… io non credo»provai a dire. Ma Laura mi zittì di colpo.

«Verrai punto. Il capitano deve modernizzarsi un po’. Non puoi startene chiusa in casa come una nonna. Sei ridicola».

L’autobus si fermò davanti all’edicola. Laura si tolse le cuffie già pronta a insultare il povero George per la brusca frenata quando s’accorse di un grande manifesto accanto all’edicola.

«Questa sera andremo lì» disse «C’è l’inaugurazione di una nuova discoteca e le ragazze entrano gratis entro la mezzanotte».

«David e Ludmilla non mi faranno fare così tardi».

«Non devono sapere dove andiamo» disse come se fosse la cosa più normale del mondo. «Dì loro che resti a dormire dalla tua amichetta… come si chiama?».

«Alexa».

«Esatto. Quella ragazza dovrà pur rendersi utile in qualche modo».

«Non lo so».

Laura premette il pulsante per chiamare la fermata. La prossima era la sua.

George frenòbruscamente.

«Dio! George vuoi stare attento con questo coso!» gli gridò Laura infastidita.

«Scusa Fellinswhart!»

«Ah» disse prendendo lo zaino «Questi stupidi autobus».

«Forse ti troveresti meglio senza tacchi».

«Non dire sciocchezze Zara! I tacchi mi slanciano».

«Sei arrivata al castello principessa» disse George guardando Laura dallo specchietto retro visore.

«Ti o a prendere alle undici».

«E con quale macchina?»

«La mia ovvio» disse scendendo dall’autobus.

«Sarà una serata lunga, eh biondina?»

«SìGeorge. Non sai nemmeno quanto»

La Ford Fiesta di Laura era parcheggiata sul vialetto davanti casa. Erano le undici in punto e la mia voglia di andare in discoteca straripava da tutti i pori. Sì, come no. Mi guardavo allo specchio e mi trovavo davvero ridicola. Avevo provato a mettermi quella specie di matita liquida che Laura si metteva sempre, eyeliner mi pare che si chiamasse, e mi ero impiastricciata tutte le palpebre. Per fare una linea decente e non troppo volgare ci avevo impiegato una buona mezz’ora. L’ombretto e tutti quegli altri prodotti per il viso me li ero risparmiati. Non mi ero messa neppure il mascara e questo Laura me l’avrebbe fatto pagare. David e Ludmilla erano a letto da un pezzo.

Avevo cercato di fare meno rumore possibile, soprattutto con quegli aggeggi ai piedi che Laura chiamava tacchi.

Mi aveva praticamente imposto di mettermeli e non ero riuscita a farle cambiare idea. Se c’era una cosa che aveva in comune con Alexa era l’insistenza. Aveva anche voluto che mi vestissi in modo sexy il che mi aveva fatto accapponare la pelle. Non ero sexy, non sapevo neppure che cosa volesse dire esserlo. Avevo optato per l’unica cosa più o meno trasgressiva che avevo: un vestito a tubino nero non troppo scollato né davanti né dietro. Non ero affatto fiera di come mi ero conciata. Presi il giubbotto di jeans e scesi le scale. Non so come arrivai in macchina intera.

«Accidenti Zara! Sembri un tirannosauro».

«Grazie del complimento Laura. Come fai ad averla?» domandai entrando in macchina.

Il contatto con il sedile mi ripugnò. Le auto non mi piacevano, mi davano il voltastomaco, ecco perché a diciassette anni non ne avevo ancora una.

Agli occhi di Laura era un’altra cosa che mi rendeva ridicola.

«I miei non sanno che l’ho presa. Fatti guardare» disse voltandosi verso di me. Mi squadrò da capo a piedi poi disse «Ti avevo detto di vestirti sexy non da animale imbalsamato».

«Non sono cose che fanno per me. In più questi tacchi mi stanno uccidendo i piedi».

«Dove li ha presi? Forse sono l’unica cosa che puòandare».

«Erano di Layla».

«Tua sorella aveva buon gusto» la vidi trafficare dentro la borsa griffata di LiuJo. «Per fortuna ho pensato io a te» disse estraendo un vestito rosso. «Questo sì, che è sexy. Infilalo forza. Poi bisogna rifarti il trucco»

Rimasi a guardare il vestito che Laura mi aveva dato tenendolo tra le mani come se potesse esplodere da un momento all’altro. Era aderente e a maniche corte, arrivava fino alle ginocchia e in basso era contornato da pizzo. Dietro aveva un’enorme scollo che arrivava fino a metàschiena.

Laura guardò l’orologio «Dobbiamo muoverci» disse tirando fuori dalla borsa la trousse di trucchi. Con lo struccante mi levò l’eyeliner che avevo messo con tanta fatica per poi rimetterlo in un secondo. Mi mise un ombretto opaco e un po’ di fard sulle guance.

Di mascara ovviamente ne mise a quintalate. Erano diventate così nere che si ponevano in contrasto con le sopracciglia bionde. Mi mise anche il lip-gloss poi spinse il piede con forza sull’acceleratore.

Davanti alla discoteca c’era una marea di gente che attendeva d’entrare.

Mi sentivo davvero a disagio con quel vestito addosso e di certo i fischi di apprezzamento non rendevano la cosa più facile. Laura mi trascinò subito al bar e ordinò un mojito, io non presi nulla. La musica era talmente alta da spaccarmi i timpani ma alla gente sembrava piacere. Ragazzi e ragazze erano in pista a ballare con bicchieri d’alcool in mano e sigarette alla bocca.

Visto da fuori non sembrava male come mondo ma non avevo nessuna voglia di entrarci.

«Oh cielo!» esclamò Jeremy venendoci incontro «La fatina si è vestita di rosso» Jeremy ed io frequentavamo lo stesso corso di filosofia con la Backster. Era un ragazzo biondo dagli occhi chiari, abbastanza simpatico ma parecchio insistente.

«Hai visto? Tutto merito mio» disse Laura abbracciandolo.

«Fellinswhart sei uno schianto stasera».

«Nemmeno tu sei male» rispose Laura civettando.

Jeremy estrasse dalla tasca dei pantaloni una sigaretta e l’offrì.

«No grazie» rispose subito Laura «Ho appena bevuto se mi metto a fumare mi gira la testa».

«Come vuoi. Ci vediamo in pista».

«Andiamo» disse Laura trascinandomi nella mischia.

Dovemmo spingerci tra la folla a fatica ma alla fine riuscimmo a trovare un pezzo di pista non del tutto intasato. Il dee-jay diede il via alla serata.

Emozionante. Il volume della musica aumentò e tutti presero a ballare in preda all’euforia. Le luci psichedeliche della discoteca mi facevano perdere di vista Laura di tanto in tanto, disorientandomi. Non avevo davvero la più pallida idea di dove mi trovassi. Ero circondata da volti che non conoscevo e che mi fissavano senza però guardarmi davvero. C’era odore di fumo ovunque. Se Ludmilla avesse saputo dov’ero finita mi avrebbe uccisa. Laura si stava divertendo alla grande, era nel suo regno del resto. I capelli neri le oscillavano a ogni movimento e il suo corpo si muoveva sinuoso a ritmo di musica. Io dovevo assomigliare più a una specie di palo conficcato a terra.

«Ehi Laura» Jeremy le arrivò da dietro afferrandola per i fianchi. Le schioccò un bacio sulla guancia e lei sorrise.

«Guardate chi altro è venuto al party stasera» esclamò Jeremy «Avanti Lee, lascia le tue fan e fatti vedere».

«Sei venuto con Matt?» Laura si staccò immediatamente da Jeremy.

«Buona sera splendori»Matt mi lanciò un occhiata divertito «E che splendori».

«Ehi Laura… Credo che andrò a sedermi un po’. Mi fanno male i tacchi»

«Oh aspetta!» disse Matt «Sono appena arrivato».

Lo ignorai e cominciai a farmi largo tra la folla.

«Non dirmi che sei ancora arrabbiata con me?».

Mi sedetti su un divanetto e mi tolsi i tacchi. «Direi di sì».

«Ho seguito l’impulso. Sono un uomo».

«Non farlo mai più».

«Va bene. Va bene» disse osservando la pista.

Laura e Jeremy stavano ballando.

«Potremmo… tornare in pista».

«Tu va pure. Io resto qui».

«Non è sicuro che tu stia qui da sola. Vieni a ballare con me».

I suoi occhi castani si scontrarono con i miei. Si avvicinòlentamente a me«Puzzi d’alcool» dissi scostandomi da lui.

«Hai ragione. Scusa. Prometto che non berrò più se balli con me».

La voce di Matt era profonda e sicura di sé. Distolsi lo sguardo da lui.

In mezzo alla pista il volto della donna comparve. Sbarrai gli occhi.

Mi alzai di scatto. La donna era scomparsa insieme al fumo che si era propagato nella pista.

«Hai cambiato idea» disse afferrandomi per mano.

M’infilai in fretta i tacchi. «Dì a Laura che mi dispiace ma vado a casa».

«Se vuoi ti accompagniamo noi» un gruppo di ragazzi rise alle mie spalle.

«No, leiècon me» Sbarrai gli occhi quando vidi Justin piombargli alle spalle.

Accanto a lui c’erano due ragazze dai capelli castani che non gli staccavano gli occhi di dosso.

Se le levò di torno e mi salutò con un cenno del capo.

«Vuoi andare a casa?» mi chiese. Anche lui non sembrava felice del posto in cui era capitato.

«Sì» dissi senza pensarci su due volte.

Matt mi afferrò il polso «Dai un solo ballo. Noi due insieme a Laura e Jeremy. Pare che si stiano divertendo. Possiamo farlo anche noi, no?»

Il tono di voce di Matt mi faceva paura. Era così deciso, i suoi occhi erano braci ardenti.

«Lei viene con me» disse Justin facendomi cenno di seguirlo.

Una volta usciti dal locale respirai a pieni polmoni l’aria fresca. L’odore di fumo aveva impregnato il vestito e i tacchi mi avevano distrutto i piedi.

«Salvata appena in tempo»disse sorridendo.

«Le discoteche non fanno per me. L’esperimento di Laura è fallito».

«Già. Ti capisco».

«Le ragazze con cui sei venuto come tornano a casa?» chiesi timidamente.

«Non sono venute con me. Le ho incontrate lì e sai…»

«Certo».

«Non mi lasciavano in pace. È una fortuna averti incontrato» Mi guardò per un

lungo istante e non avevo alcuna idea di cosa stesse pensando. Avrei voluto saperlo. Batté forte gli occhi e abbozzò un sorriso.

«Che c’è?» gli chiesi.

Prima che potesse rispondermi un gruppo di ragazzi mi urlò che ero bellissima. Ero troppo imbarazzata per guardarlo in faccia così presi a fissarmi i piedi.

«Hanno ragione» disse «Sei bella. Non dovresti vergognartene».

Alzai piano lo sguardo su di lui «Io non mi vergogno».

«Sei una pessima bugiarda».

«Hai ragione».

Restammo lì in silenzio fino a quando Laura non uscì dalla discoteca insieme a Jeremy e Matt. La figura che avevo visto mi balzò di nuovo davanti poi sparì. Laura mi trascinò in macchina e mi riaccompagnò a casa.

Erano quasi le due e la serata non era stata poi così orribile.

CAPITOLO 3 - La visita

Da un paio di giorni avevo smesso di avere gli incubi.

Il gatto continuava a farmi visita quasi tutte le sere e cominciavo decisamente ad apprezzare la sua compagnia.

«Non ti sei fatta vedere per un po’. Iniziavo a preoccuparmi» disse all’improvviso Justin mentre sistemavo i libri nell’armadietto.

«Avevo bisogno di riposarmi».

«Mi è venuta un’ idea. Potremmo allenarci insieme!»

«No» risposi senza pensare e questa volta non me ne pentii.

«Ma ti ho battuta. Due volte»

«Non ero in forma»

«È per questo che voglio aiutarti. Per migliorarti in vista del torneo» disse

porgendomi il volantino dove si annunciava il torneo scolastico di pallavolo.

«È tra due settimane».

«Lo so quand’è» risposi chiudendo bruscamente l’armadietto. Justin m’ignorò e rimase in silenzio a fissarmi in attesa che dicessi qualcosa. «Dimmi tu cosa ci guadagneresti?»

«Voglio solo aiutarti» Sembrava davvero sincero. «Soltanto questo».

«Di solito mi alleno con la squadra e poi ci sono i compiti».

«Facciamo così: dopo la scuola ti aspetto al campetto. Se dovessi ripensarci sai dove trovarmi».

Dopo la scuola non mi presentai. Non avevo voglia di vederlo e di are altro tempo con lui sforzandomi di essere gentile quando non volevo esserlo affatto.

Un po’ mi dispiaceva mollarlo lì senza dirgli nulla ma in fondo era meglio così. Justin Allen non era nei miei pensieri.

Sarei andata a Seattle dai miei zii questo week-end.

Non ce l’avevo mai avuta con loro per avermi affidato ai servizi sociali; sapevo che avevano fatto il possibile ma se le cose non fossero andate in quel modo, non avrei mai conosciuto i Sullivan. I miei zii avevano chiamato due giorni prima dicendo che avevano voglia di vedermi e per l’occasione ci avrebbero mostrato il nuovo ristorante che avevano aperto nel bel mezzo di Seattle. Fino ad ora gli zii non avevano mai pensato di aprire un ristorante, questo significava che forse, per la prima volta, avevano trovato un posto fisso dove rimanere per più di un anno. Avrei rivisto i miei cugini Agnes, Liam e Josh. Non li vedevo da Natale e in questo momento stavano sicuramente lodando il Signore per avergli dato la tregua che aspettavano da anni. All’improvviso il cellulare, che si trovava sulla scrivania, incominciò a vibrare e la schermata s’illuminò.

Lo presi un istante prima che cadesse, poi lessi il numero: sconosciuto.

Mia madre entrò bruscamente in camera facendomi sobbalzare.

«Zara dobbiamo andare, sbrigati» Prese le mie valigie e mi fece cenno di scendere.

«Arrivo».

Il cellulare continuava a vibrare. Per un paio di volte fui tentata di rispondere ma alla fine non lo feci poiché David, al piano di sotto, iniziava a spazientirsi.

«Avanti Zara! Perdiamo l’aereo».

Ignorai la chiamata e sbuffando mi precipitai giù dalle scale. Arrivata al piano di sotto aiutai mia madre a caricare le valigie in macchina e dopo aver chiuso a chiave la porta di casa ci dirigemmo verso l’aeroporto.

Mio padre guidava la macchina in silenzio. Da quando ero stata adottata soltanto mia madre aveva conosciuto i miei zii. Mio padre non ne aveva mai avuto l’occasione. Guidava con le braccia tese sul volante e non faceva altro che controllare lo specchietto retrovisore. Ludmilla si era portata dietro due valige e due beauty e adesso stava riempiendo la testa a mio padre su quanto fossero carini i miei zii. Con le chiacchiere di mia madre come sottofondo fu un miracolo arrivare vivi all’aeroporto. David si era lasciato distrarre un paio di volte, rischiando un incidente. Ringraziai il cielo quando vidi l’aeroporto. Da Eureka, la mia città nella parte settentrionale della California, fino a Seattle ci vogliono circa tre ore e mezza. Una volta saliti sull’aereo mi sedetti accanto al finestrino mentre David e Ludmilla si sistemarono al mio fianco.

«Questa è l’ultima volta che prendiamo l’aereo» disse David, irritato.

«Allora la prossima volta prenderemo la macchina» rispose Ludmilla nel tono più calmo possibile.

«E chi te lo dice che ci sarà una prossima volta?».

«David, cerca almeno di fare uno sforzo. Scommetto che piacerai moltissimo a Crystal e Anthony».

David scosse la testa.

«Cosa c’è?» chiese mia madre guardandolo di traverso.

«Non mi convincono, ecco cosa c’è».

«Sono brave persone, fidati».

«Certo. L’hanno abbandonata».

«Questo non è vero».

«Tesoro, trovo davvero ridicolo che non abbiano potuto lasciare il loro lavoro per stare con la propria nipote. Per me non si sono sforzati abbastanza».

M’infilai alle orecchie l’mp3 che Ludmilla mi aveva comprato in sostituzione a quello rotto. Ascoltare David mi faceva male.

Non conosceva gli zii e nemmeno le ragioni per le quali non mi avevano tenuta con loro, ma di sicuro dovevano essere buone o almeno, io continuavo a credere che fosse così. Non aveva il diritto di giudicarli.

Non aveva il diritto di farmi sentire sola.

Mia madre interruppe quella conversazione quando s’accorse che mio padre era sbiancato di colpo. La situazione non migliorò quando dall’altoparlante risuonò in tutto il velivolo la voce del pilota che ne annunciava il decollo. David s’irrigidì, afferrò con le mani il bracciolo del sedile e la sua faccia disegnò un espressione che era un misto tra orrore e nausea. Stabilita la rotta di volo dell’aereo si tranquillizzò un poco, mollando la presa sui braccioli. Gli ò di fianco un hostess che vedendolo gli chiese se andasse tutto bene.

«Signore è tutto okay? Posso portarle qualcosa?»

«Un bicchiere d’acqua se non le dispiace» rispose Ludmilla contraddicendo David che stava facendo cenno di no con la testa. L’hostess tornò con un bicchiere d’acqua che mio padre bevve tutto d’ un fiato.

«Adesso va meglio signore?» chiese preoccupata dall’espressione che stazionava sulla sua faccia.

«Un po’».

Ludmilla a bassa voce disse «Senti, io lo accompagno dalla hostess. Torno subito okay?»

«Vai pure».

Ludmilla si alzò e seguì mio padre che si stava avviando verso la hostess. Appoggiai la testa al finestrino e chiusi gli occhi. Grida. Tuoni. Grida.

Lampi. Grida. Sangue. Grida. Morti. Grida. Il volto di mia madre. Mi risvegliai dall’incubo. Avevo il cuore che batteva all’impazzata.

Ludmilla arrivò annunciando che David stava meglio e che tra dieci minuti saremo arrivati. Una volta scesi dall’aereo mio padre si riprese e riuscì a guidare fino a casa degli zii.

Ci aprì una cameriera cicciottella con il tipico grembiule bianco e nero che sorrise facendoci cenno di darle i cappotti e di seguirla per il lungo corridoio che doveva portare alla sala.

Lo stile della casa era un po’ antico, forse ottocentesco e tutt’intorno aleggiava una fragranza alla lavanda che dava un senso di freschezza e ospitalità tipico delle sorelle Monthgomery.

Alle bianche pareti vi erano numerosi specchi di forme differenti ma soprattutto quadri, quadri dalle cornici massicce e argentee che raffiguravano le più strane specie di fiori affiancate da piccoli angioletti. L’intero corridoio era illuminato da piccole luci che si riflettevano nel pavimento di marmo e al fianco delle pareti vi erano dei tavolini in legno di piccole dimensioni adornati con dei centrini in pizzo su cui erano posti vasi con fiori tropicali.

Poco prima della fine del corridoio la cameriera aprì una porta, probabilmente quella della cucina e ci fece cenno di entrare nella sala.

«Vi stanno aspettando» disse.

La sala non era grandissima ma abbastanza spaziosa, infatti, vi erano un televisore al plasma nuovo di zecca, un divano in pelle che doveva essere leggermente più grande del nostro e uno scaffale dietro il quale era appeso l’imponente quadro di famiglia.

Gli zii, insieme ai cugini, stavano chiacchierando seduti sul divano.

Ad accorgersi della nostra presenza fu mia cugina Agnes.

Si alzò dal divano e mi gettò le braccia al collo stringendomi forte.

Riuscivo a stento a respirare.

«Mi sei mancata» mi sussurrò all’orecchio continuando ad abbracciarmi.

«Ehi lasciala andare. Non sei l’unica che vuole abbracciare la sua cuginetta preferita» disse Liam costringendola ad abbandonare la sua stretta affettuosa. Crystal si voltò in direzione dei miei genitori adottivi.

«Ludmilla, è bello rivederti. E tu» si rivolse a mio padre «devi essere David. Avanti venite».

David ci seguì un po’ scombussolato, probabilmente dalla bellezza di mia zia,

poi prese posto accanto a Josh e allo zio Anthony.

«Io sono David Sullivan» disse con tono moderato, rivolgendosi a mia zia.

«È un piacere incontrarvi».

Mia zia ricambiò con un saluto. La cameriera arrivò dalla cucina portando un vassoio con dei bicchieri pieni di scotch.

«Desiderate?»

«Oh certo. David, Ludmilla prendete».

I miei genitori esitarono un po’ ma alla fine cedettero.

«È arrivato anche il giornale» disse la cameriera.

«Perfetto».

La cameriera pose a mia zia il giornale poi se ne andò salutando. Crystal diede una rapida occhiata alla prima pagina poi disse: «Terribile. Quello che sta facendo quell’assassino è terribile».

«Speriamo che la polizia lo prenda» rispose Ludmilla «nel frattempo raccomando sempre a Zara di non camminare mai da sola. Non si sa quello che può succedere».

«Mamma, non accadrà nulla. Eureka è sicura».

«Sono sicura che lo pensassero anche quei ragazzi della loro città, ma così non è stato» rispose mia zia seria. Per un attimo nella stanza cadde il silenzio. Silenzio che fu interrotto da mio zio.

«Adesso basta parlare di queste cose. Avete fatto un lungo viaggio, sarete stanchi. Josh perché non mostri ai nostri ospiti le loro stanze».

«Seguitemi».

Lo seguimmo per la stretta scala a chiocciola che portava al piano di sopra. «Eccoci qui, questa è la camera degli ospiti» Indicò una stanzetta con la porta in legno massiccio.

«David e Ludmilla dormiranno qui. Mentre Zara dormirà con mia sorella».

Annuendo mi diressi nella stanza adiacente a quella degli ospiti. Riconobbi che era di mia cugina per l’enorme scritta con il suo nome impressa sulla porta.

«Ehi Zara quando hai finito di disfare le valige scendi, mamma vuole fare i biscotti. Ci dai una mano, vero?»Mia cugina entrò in camera saltellando. Capelli neri, corti, occhi di ghiaccio leggermente a mandorla. Il corpo snello. Mi ricordava tanto una di quelle vallette della TV, solo che lei non sapeva ballare.

«Mi sei mancata molto ». Mi lasciai cullare da quell’abbraccio così caloroso e stranamente familiare.

«Anche tu mi sei mancata».

Sciolsi l’abbraccio a fatica e i nostri sguardi s’incontrarono.

A differenza dei suoi fratelli gemelli Liam e Josh, Agnes assomigliava a suo padre e i suoi tratti erano così diversi dai miei che a volte non sembravamo neppure parenti. La osservai per un istante poi m’accorsi di una cosa.

«Ti sei fatta il piercing al naso». Nel momento in cui lo dissi sentii una lacrima rigarmi il viso. Abbassai lo sguardo. Lei non disse una parola e asciugò la lacrima con la punta delle dita, mi mise le mani sotto il mento costringendomi ad alzare il viso.

«Ora sono maggiorenne, è l’unica cosa che mi hanno permesso di fare. Avresti dovuto vedere la faccia di Crystal quando me l’ha visto».

Mi prese la mano e mi condusse in cucina.

«Beh finalmente» disse Josh cercando di rompere l’uovo che Liam gli aveva dato.

«Siete delle frane»disse Agnes ridendo.

Liam e Josh non le diedero retta e continuarono a sporcarsi la faccia con la farina mentre io e mia cugina cercavamo invano di amalgamare la pasta che si appiccicava alle mani. Crystal era l’unica che sapeva cucinare decentemente.

«C’è qualcosa che fa rumore» disse Liam a un tratto.

Mi accorsi che proveniva dalla tasca dei miei pantaloni. Estrassi il telefono ma non ebbi nemmeno il tempo di vedere di chi si trattasse che mia cugina me lo strappò dalle mani.

«Ridammelo Agnes».

«Voglio vedere chi è. Il tuo ragazzo forse?»

«Smettila. Ridammelo».

Agnes continuò a ignorarmi e lesse ad alta voce: «Sconosciuto».

Mi morsi il labbro inferiore nervosamente.

«È già la seconda volta che chiama. Non so che cosa voglia».

«Hai mai risposto?»

«No».

«Allora lo farò io»

«Cosa? No, Agnes non farlo».

«Perché? Almeno scopri chi è».

Agnes accettò la chiamata. Si mise il telefono all’orecchio e con voce da civetta disse «Pronto sono Zara. Chi parla?»

«Io non parlo così!» la rimproverai cercando di afferrarle il telefono. Tentativo del tutto inutile perché era parecchio più alta di me.

«Sì sono Zara. Tu chi sei?» continuò mia cugina civettando. Poco dopo mi porse il telefono

«Allora? Perché hai riattaccato?»

«Non sono stata io. È stato lui».

«Lui?»

«Era un ragazzo. Mi ha chiesto se eri tu e poi ha messo giù».

Rimasi per un istante a pensare chi fosse ma non mi venne in mente nessuno.

«Davvero non hai un ragazzo?» chiese mia cugina seria.

«No, nessuno. Non sono cose che m’interessano».

«Zara?»

«È vero. Non ècosì importante».

«Lo è invece» rispose voltandosi verso di me «È molto importante».

Immersi le mani nell’impasto senza guardarla «Non per me. Te l’ho detto».

«Forse il tizio che ha chiamato voleva chiederti di uscire» insistette mia cugina.

«Non sarebbe il primo a farlo» mi lasciai sfuggire.

«Allora perché non hai risposto?»

«Possiamo cambiare argomento?»

Agnes mi afferrò il polso con decisione. La sua stretta era forte come una morsa d’acciaio alla quale non si poteva fuggire. Non ricordavo che avesse così tanta forza.

«Agnes mi fai male».

Mia cugina lasciò subito la presa «Scusa. A volte bisogna usare le maniere forti con te ».

Tolsi le mani dall’impasto «Cosa vuoi sapere?».

«Come ti vanno le cose. E come mai non dai a nessuno una possibilità».

«Le cose vanno bene» risposi incrociando appena il suo sguardo.

«Tutto qui. Non ci vediamo da una vita e mi dici solo questo».

«Non c’è molto da dire».

«Ci sarebbe. Se ti sforzassi un po’».

Inspirai. «Sono stupidi. I ragazzi della mia scuola sono degli idioti per questo non do loro una possibilità. Non ne vale la pena» .

«Li hai mai conosciuti?»

«Sì. Alcuni».

«Alcuni. E gli altri? Come fai a sapere che tra loro non c’è qualcuno di interessante? Qualcuno per cui vale la pena».

«Agnes, conosco i ragazzi della mia scuola. A loro importa solo della popolarità. Se non giocassi a pallavolo non saprebbero neppure che esisto» .

«Io non credo che sia così».

«Ah giusto. Ci guardano molto sai? All’aspetto estetico »

«Non mi riferivo a questo».

«Dicono che sono una fata» le dissi con disprezzo. Il viso di mia cugina si fece dolce «Lo sei. Sei bellissima».

«Odio quando me lo dicono. È questo che gli interessa. Sono bella lo so ma a volte vorrei solo avere una bellezza comune. Vorrei che tutti quanti non fero a gara per essere miei amici solo perché ho un paio di occhi azzurri e lunghi capelli biondi».

Agnes mi spostò i capelli dietro le orecchie «Non potrai mai essere comune. Sei una Monthgomery: comune non è nel nostro vocabolario ».

«Ti sei mai chiesta come mai abbiamo il cognome delle nostre madri?».

Le domandai d’un tratto.

«Te l’ho appena detto» rispose andosi le mani tra i capelli «Comune non è nel nostro vocabolario».

«Tu… l’hai trovato?» le chiesi dopo un po’ «Hai trovato qualcuno?».

«Alleluia Zara! Era ora che me lo chiedessi».

Sorrisi «Allora chi è?»

«Beh ecco…».

«Oh ti prego non dirmi che le stai parlando di quell’idiota».

«Fatti gli affari tuoi Liam»Agnes lanciò uno sguardo torvo verso il fratello.

«Però ha ragione» disse Josh «Quel tipo è davvero un’idiota».

«Vuoi un consiglio ?» Liam mi piombò alle spalle rubandomi un po’ d’impasto «Non metterti mai con un idiota o finirai come mia sorella».

«Liam, Josh lasciatele in pace» la voce di mia zia li riportò all’ordine.

«Di chi stavano parlando?» le chiesi curiosa.

«Dunque» disse mia cugina elettrizzata «Ci siamo conosciuti un po’ di tempo fa e adesso ci stiamo frequentando».

«Lui… ti piace?»

«Questo è ancora da vedere» fece un pausa poi puntò i suoi occhi su di me «Per il momento gli sto dando una possibilità. Dovresti farlo anche tu» .

«Magari più avanti».

«Così va meglio».

Scelsi con accuratezza ogni parola prima di parlare «Se… per caso questo ragazzo ne valesse la pena… Cosa faresti?».

«Beh… Suppongo che farei di tutto per stare con lui».

«E se non dovesse piacere alla tua famiglia?».

«Proverei a fargli cambiare idea ma… perché non dovrebbe piacergli?».

«Era solo un’ipotesi. Devi sempre calcolare l’eventualità che niente è perfetto» .

Agnes mi guardò perplessa «Va bene. Lo ricorderò. Ma tu smettila con questa negatività» disse facendomi un sorriso che ricambiai.

«Beh avete finito» mia zia ci venne incontro entusiasta «Finisco io qui, andate pure di là».

«Liam, Josh andiamo! Apparecchiamo la tavola» disse mia cugina trascinandomi in salotto.

«Aspetta» le dissi accorgendomi di aver dimenticato il telefono in cucina.

«Che c’è?»

«Vado a prendere il telefono. L’ho lasciato sul tavolo».

Tornai indietro e feci per entrare in cucina ma qualcosa mi bloccò. Udii mia zia parlare con qualcuno. Mi sporsi un po’ in avanti e la vidi di schiena che parlava al telefono.

«Digli di smettere di telefonare. È tutto sotto controllo. Sto facendo come mi hai chiesto».

Non mi piaceva quello che stavo facendo. Origliare le conversazioni altrui non

era da me ma non volevo interrompere mia zia.

«Adesso devo andare. Ma tu sbrigati a fare quello che devi».

Crystal riattaccò bruscamente il telefono. Entrai in cucina come se niente fosse.

«Zara? Che ci fai qui?»

«Avevo scordato il telefono».

«Già che ci sei, perché non estrai l’ultima teglia di biscotti dal forno e poi li porti in tavola?».

Annuii mentre mia zia usciva dalla stanza portando con sé la mousse al cioccolato. Mi infilai le presine poi estrassi la teglia dal forno e lo appoggiai sul tavolo. Nel tentativo di togliermi la presina, che mi andava maledettamente stretta, il dorso della mia mano urtò la teglia bollente. Soffocai un grido. Posai lo sguardo sulla mano e ne rimasi stupefatta.

A contatto con il calore si era formata una vescica che stava scomparendo piano piano. La mia pelle non era affatto bollente. Era tiepida. Guardai la vescica che ormai era scomparsa del tutto senza lasciare alcuna traccia della sua presenza. Non mi ero bruciata. Avevo percepito solo un tiepido calore ma niente di più. Il punto in cui mi ero bruciata adesso era freddo. Mi chiamarono dalla sala da pranzo.

«Arrivo» Presi la teglia con la presina e la portai in sala.

«Hanno un aspetto delizioso» disse Ludmilla.

Crystal fece tintinnare il coltello contro il bicchiere «Adesso che ci siamo tutti propongo di fare un brindisi» sollevò in aria il bicchiere «A Ludmila, che non vedevamo da tanto tempo e a David che abbiamo avuto il piacere di conoscere» si voltò verso di me «E a mia nipote Zara. Ci sei mancata molto».

«Allora cominciamo?» domandò Anthony.

«Cominciamo» rispose David.

Sembravamo una famiglia. Una di quelle vere.

Erano tutti in armonia, parlavano del più e del meno e persino mio padre si stava adattando. Non mi sentivo felice. Non eravamo una famiglia. Vedevo i miei zii una volta all’anno o anche meno e David e Ludmilla non erano i miei veri genitori. Mi avevano salvata dalla solitudine della casa famiglia che non era altro che una casa senza alcun legame familiare.

Dovevo essere riconoscente nei loro confronti per quello che avevano fatto e in parte lo ero. Tenevo la mano sinistra sotto il tavolo, la tenevo nascosta quasi fosse un pericolo. David e Anthony stavano discutendo di qualche programma sportivo, Ludmilla e Crystal della palestra e dello yoga. Liam e Josh litigavano con Agnes. Con timore portai la mano che mi ero ustionata sul tavolo. Rimasi a

fissarla come se non fosse un pezzo del mio corpo. Era davanti ai miei occhi ma non sembrava reale. Ero certa d’essermi bruciata. L’avevo sentito sulla mia pelle. Ma come gli incubi che mi tormentavano, doveva essere un altro segno della mia pazzia. Sì. Stavo dando di matto. Era la sola spiegazione plausibile. Scacciai ogni pensiero. Non ero venuta qua per tormentarmi. Aiutai mia zia a sparecchiare. Ripetevano tutti che era stata una bella cena. Ripetevano tutti che erano contenti. Io e mia zia eravamo in cucina, stavamo lavando gli ultimi piatti mentre i miei genitori erano in salotto con Anthony e i cugini.

Crystal aprì la finestra che dava sul balcone «Lascia stare. Andiamo fuori» .

Ci appoggiammo alla ringhiera in ferro. La temperatura era leggermente più bassa ma si poteva stare lo stesso a maniche corte.

«Non credevo che ci fossero cosìtante stelle a Seattle» dissi osservandone il cielo.

«Nemmeno io. Ma c’è una prima volta per tutto no?»

«Immagino di sì».

«Hai ancora il medaglione di tua madre» disse notando che me lo stavo rigirando tra le mani.

«Non riesco a separarmene».

«Non dovresti mai farlo» disse guardando il cielo pensierosa «Sai, c’era un gioco che io e tua madre facevamo sempre da ragazzine».

«Quale?»

«Ci mettevamo a guardare le stelle nel tentativo di contarle tutte».

«È una cosa impossibile».

Crystal sorrise. «Lo facevamo per questo». Fece una pausa.«Ricordo che una volta c’eravamo stese in giardino ed eravamo rimaste tutta la notte a contare le stelle. Quella notte il cielo ne era pieno, erano così tante che non si potevano contare. A un tratto io chiusi gli occhi, ero stanca e volevo riposare un po’. Tua madre credeva che dormissi ma ero sveglia e sentii tutto quello che mi disse».

«Cosa disse?»

Crystal si strinse nelle spalle «Disse che il bene che mi voleva era come le stelle: incalcolabile».

Mi avvicinai a lei e l’abbracciai. Mi fece uno strano effetto.

Non l’abbracciavo da anni.

Mi strinse forte a sé e avvicinandomi le labbra all’orecchio disse «Aveva ragione. Il bene che ci volevamo non si poteva calcolare».

CAPITOLO 4 - Curiosità

Il profumo di pane appena sfornato risvegliò i miei sensi intorpiditi. Mi ero alzata per ultima: avevo dormito come un sasso per tutta la notte, nessun volto morto o grida mi avevano tormentato. La sveglia non l’avevo sentita neppure suonare. Al piano di sotto tutti stavano facendo colazione.

«Ti sei svegliata finalmente» disse mia zia mentre mi sistemavo a tavola.

«Dormito bene?» domandò Agnes.

Il sottofondo televisivo attirò di colpo la mia attenzione. Presi il telecomando e alzai il volume.

“Il killer Indemoniato ha colpito ancora. Appena due ore fa i corpi di quattro ragazzi sono stati ritrovati in mezzo ad un parco nel Nebraska. La polizia si è subito recata sul luogo del delitto e sta cercando di individuare l’assassino. È molto pericoloso e brutale, e secondo l’ FBI potrebbe non uccidere da solo. I suoi movimenti sono imprevedibili, pertanto si raccomanda di fare attenzione e di non girare mai da soli…”

La televisione si spense di colpo. Crystal aveva il telecomando in mano e se lo rigirava nervosamente.

«Ma com’è possibile?» Guardai mia zia in cerca di risposte, anche se non poteva

darmele.

«Cosa?»

«Come fa a spostarsi così velocemente? Dall’ultimo omicidio è ata appena una settimana».

«Forse è un corriere» azzardòDavid«Questo spiega il perché di viaggi così lunghi in poco tempo».

Lo sguardo di mia zia era fisso in un punto indistinto.

Anthony mi òla marmellata sorridendo.«Comunque non sta a noi preoccuparci. Ci stanno già pensando la polizia e l’FBI».

Terminai la colazione senza dire nulla.

Crystal spiegò ai miei genitori quanto tempo avessero impiegato a costruire il ristorante e Anthony aveva specificato che ci avevano messo tempo a dipingerlo a causa dell’indecisione di mia zia sul colore delle pareti. Avevano parlato anche di altro, credo. Non partecipavo molto alle conversazioni, non sapevo mai cosa dire, quindi me ne stavo zitta.

Ma a quanto pare questo locale doveva essere davvero fantastico visto il modo in cui Agnes me lo stava descrivendo. Stavamo percorrendo la scala a chiocciola

che portava al piano di sopra – dopo la notizia al telegiornale mi era ata la fame - ed ero certa che avesse ripetuto la parola “straordinario” almeno una dozzina di volte. Alla fine delle scale ci separammo: Agnes andò dritta in camera e iniziò a frugare nell’armadio, io invece optai per il bagno. Iniziai a lavarmi la faccia con cura.

Guardai la mia immagine allo specchio tamponandomi la fronte bagnata con l’asciugamano. Fui sollevata quando non vidi riflesso alcun volto scorticato o morto. L’ansia tornò ad assalirmi nel momento in cui lo sguardo cadde sul dorso della mano. Ricordavo la temperatura della mia pelle. Calda. Tiepida. Fredda. Esattamente in quest’ordine.

«Ti sistemo i capelli?» chiese Ludmilla appoggiata all’uscio.

«No, grazie» La mia madre biologica mi acconciava sempre i capelli da piccola: andavo in giro per casa con trecce, code e boccoli. Era divertente, mi faceva sentire una principessa delle fiabe. La prima volta che Ludmilla volle tagliarmi i capelli piansi. Mi ricordava troppo mia madre.

Ora non ci facevo caso.

Non facevo più caso a molte cose.

Il ristorante aveva un non so che di familiare. Mia zia era così elettrizzata all’idea di mostrarcelo che non ci aveva dato molto tempo per prepararci. Camminavo nell’atrio rigirandomi il medaglione di mia madre tra le dita. Alle pareti arancio erano appesi quadri dalle cornici dorate e sopra ogni tavolo erano sistemati dei piccoli vasetti in ceramica con orchidee, girasoli e margherite. Il

pavimento in mattoni ricordava tanto quei casolari di una volta, in effetti, lo stile non era moderno ma più rustico e antiquato, molto diverso da quello della casa.

«Ho come l’impressione di esserci già stata» dissi guardandomi attorno.

«Ho avuto anch’io la stessa impressione la prima volta che ci sono entrato» affermòLiam al mio fianco«Mia madre si è basata sulla sua casa d’infanzia. I quadri sono gli stessi che le regalò la nonna quando si sposò».

Non avevo mai conosciuto mia nonna se non nelle vecchie foto di mia madre. Mi era stata descritta come una donna dal carattere forte e irascibile, una di quelle che si facevano intendere insomma. Di lei o di mio nonno non si parlava molto, sapevo solo che erano state brave persone con un destino parecchio ingiusto. La mia vecchia casa aveva uno stile identico a questo e adesso capivo da dove derivava. Mia madre si era portata un pezzo della sua casa quando aveva deciso di mettere su famiglia e mia zia aveva fatto lo stesso con il ristorante, ecco perché mi era sembrato così familiare. Mi rigiravo con nervosismo il medaglione tra le mani e sbottai quando si ruppe. Il mio primo pensiero fu quello di trovare un negozio dove poterlo aggiustare. Non mi interessava altro ma mi sembrava un impresa un po’ impossibile dal momento che la domenica tutti i negozi sono chiusi.

Percorremmo una stradina che portava in centro; tutti erano interessati alle vetrine che esponevano i completi di fine stagione, tranne Liam. Camminava dietro Anthony con lo sguardo fisso sulla catenina che tenevo stretta in mano.

«Non credo che troverai un negozio aperto» disse all’improvviso.

«Devo provarci almeno».

«Potremmo aggiustarla a casa» rispose quasi irritato.

«Avete uno di quei ganci che si usano per riallacciarla?» domandai in modo provocatorio.

Liam alzò gli occhi dal pavimento «Non puoi comprartene uno nuovo?».

«No» risposi secca.

«Perché?»

«Era di mia madre».

Liam non disse nulla. Sorrise debolmente poi fece cenno con la testa di voltarmi. In fondo alla strada a sinistra c’era un vicolo cieco dove una signora stava appendendo un cartello alla porta del negozio.

«Grazie, Liam».

«Non metterci molto però».

Mi affrettai a raggiungere la signora, andandole incontro correndo.

«Devo chiederle un favore» ansimai non appena la raggiunsi.

«Tutto bene?»

«Mi serve il suo aiuto».

La signora sorrise. «Di cosa hai bisogno?»

Tirai fuori la catenina dalla tasca e gliela mostrai. «Si è rotto il gancio. Potrebbe aggiustarmelo?»

«Non posso scusa. Sto chiudendo»

«È una cosa importante».

«Il regalo del fidanzato?»

«No, non esattamente» risposi abbassando lo sguardo.

«Va bene entra».

Infilò la chiave nella serratura e la girò. Entrò nel negozio facendomi segno di seguirla ma ero rimasta completamente affascinata dalle decorazioni intagliate nell’insegna di legno, proprio sopra la porta d’ingresso. Mi sembrava di averle già viste da qualche parte ma non mi ricordavo dove. «Avanti vieni».

La donna mi condusse a un bancone di legno e cominciò ad armeggiare con delle perline colorate.

«Vado a cercare il gancio giusto per la tua collana, aspetta qui».

Posai il ciondolo sul tavolo e rimasi a guardarlo.

«A proposito, io sono Melanie» disse uscendo dallo sgabuzzino dietro al bancone nel quale si era recata. Tra le mani aveva un piccolo gancio di metallo.

«Io sono Zara. Posso farti una domanda?»

«Certo».

«Cosa sono quelle incisioni nella trave di legno sopra la porta d’ingresso?».

«È un iscrizione».

«Cosa vuol dire?»

«Ferramenta».

Esitai un istante poi chiesi: «Un iscrizione. E in che lingua è?»

«Una lingua molto antica».

Alzai lo sguardo e la vidi analizzare il gancio.

«E i tuoi clienti capiscono quello che c’è scritto?».

«No, ma di solito nessuno ci fa caso».

Si bloccò di colpo e osservò il ciondolo che stava tenendo tra le mani.

«È strano, dovresti conoscerla anche tu. Ci sono le stesse incisioni sul tuo medaglione».

Melanie mi fece cenno di andare dietro al bancone così mi alzai e la raggiunsi. Nel centro della piccola pietra di quarzo vi erano degli insoliti ghirigori posti a mo’ di filastrocca.

«Sai cosa c’è scritto?» le domandai infine.

«Purtroppo no, io non ne capisco molto».

Tornai davanti al bancone, senza dire nulla.

«Credi che ci sia un qualche significato?» le chiesi dopo un po’.

«Non so dirtelo. Ma so che questa lingua apparteneva a una tribù che è nata più meno con la creazione del mondo. Questo è quello che dicono i libri».

«Era di mia madre. È tutto quello che ho di lei».

Melanie sorrise. «Di questi ciondoli se ne vedono moltissimi nelle bancarelle. I gadget di tribù mistiche affascinano molto».

«Quindi la tua insegna l’hai comprata in una bancarella?».

«No, me l’ha regalata mio marito qualche anno fa. Lui sì, che se ne intendeva di queste cose. Era un archeologo e amava scoprire i segreti delle civiltà vissute prima di noi».

Melanie tornò a posare lo sguardo sul gancio. Prese una pinzetta e iniziò a stringerlo al laccetto di cuoio.

«Ci vuole un po’» disse.

In attesa che Melanie terminasse il lavoro iniziai a gironzolare per il negozio. Non aveva l’aspetto di una ferramenta, sembrava una specie di mercatino dell’usato.

C’erano cenci sparsi ovunque, maschere africane attaccate alle pareti, e sugli scaffali miliardi e miliardi di oggetti impolverati: tazze, bambole di ceramica e portachiavi. Nel negozio si respirava profumo di incenso. Avanzando sbucai in quello che doveva essere una specie di retrobottega, anche se la somiglianza con il resto del negozio era a dir poco spaventosa. Pure qui vi erano cumuli di roba sparsa e mensole tutte impolverate. Fui attratta da una vetrinetta che conteneva al suo interno una collezione di piccole fate, gnomi e troll. Erano buffi e straordinariamente belli. Accanto alla vetrinetta c’era un tavolino sul quale si trovava un libro dalla copertina in cuoio.

«Sono secoli che dico di dover sistemare questo posto».

La voce di Melanie alle mie spalle mi fece sobbalzare.

«Che cos’è tutta questa roba?»

«Sono tutte cose di mio marito. Ogni volta che tornava da un viaggio mi portava qualche souvenir del luogo in cui era stato».

«Viaggiava parecchio».

«A volte stava via anche mesi».

Aprii il libro e iniziai a sfogliarne alcune pagine.

«Che libro è?»

«Racconta della nascita dell’umanità facendo riferimento a una storia un po’ particolare. Per molti archeologi era il punto d’inizio che avrebbe portato alla scoperta di nuove civiltà. Ma ormai non ha più alcun valore. Il mondo va avanti e nessuno si fida più di un libro scritto nell’ottocento».

Lasciai scorrere le mie dita su quelle pagine ingiallite.

«Ma tuo marito ci credeva» affermai.

«Lui sì».

«Ti andrebbe di leggermene un pezzo?»

Ci sedemmo su un vecchio divanetto ricoperto di cellofan «Ti piacciano i miti?».

«Li adoro».

«Allora è una storia che ti piacerà» disse Melanie. «All’origine del mondo vi erano popolazioni inviate dagli dei per proteggere la nuova specie che presto lo avrebbe abitato: quella umana. Si riteneva che avessero sembianze divine, questo può essere testimoniato dalle grotte ritrovate di recente nelle quali venivano raffigurati sul monte Olimpo alla destra di Giove. Pertanto si credette che fossero d’origine greca ma in seguito furono trovate altre grotte nelle quali erano raffigurati al fianco degli dei, su un monte situato in Scandinavia. Dunque vi erano dei legami divini e queste popolazioni discendevano da due diverse divinità: gli uomini da quelle greche e le donne da quelle scandinave. Queste popolazioni possedevano poteri sovrannaturali e quando giunsero tra gli uomini mostrarono ai mortali i loro poteri ed essi chiesero il loro aiuto. I mortali li chiamarono “divini”. I divini aiutarono gli uomini e con i loro poteri fecero piovere nei periodi di siccità, con un solo soffio ridiedero vita a tutto ciò che era morto e curarono i malati con le pratiche magiche di cui erano a conoscenza. Per parecchi secoli i “divini” e i mortali vissero in pace e armonia ma con il tempo essi s’approfittarono del loro aiuto, iniziando a sfruttarli. In risposta a tale comportamento i “divini” li abbandonarono per spostarsi altrove. I mortali li maledissero».

Nella pagina successiva era raffigurata l’immagine di uno dei “divini”: aveva gli occhi cerulei, le orecchie un po’ a punta e al collo portava un medaglione come il mio.

«Che cosa ne è stato poi dei “divini”?»

«Si sono estinti, probabilmente per colpa dell’evoluzione dell’uomo e dell’ambiente».

Melanie richiuse il libro sorridendo tristemente.

«Comunque sono solo storie. Sai, mio marito si era apionato talmente tanto che diceva di averli visti. Ovviamente l’hanno preso tutti per pazzo, poi... è morto in circostanze misteriose».

«Mi dispiace».

Melanie non disse nulla; tornammo al bancone e senza dire una parola pagai il ciondolo e me ne andai ringraziandola. Istintivamente però mi voltai a dare un occhiata a quell’insegna particolare.

«Si può sapere dove diavolo sei stata?» mi rimproverò Liam non appena mi vide arrivare.

«Ho aggiustato il ciondolo» dissi mostrandoglielo.

«Bene» rispose lui secco «ma non dire che l’hai fatto riparare».

«Perché non dovrei?»

«Non voglio finire nei guai per averti coperto. David iniziava a farmi pressione».

«Scusa per mio padre. Si preoccupa troppo».

Liam non rispose e si voltò senza guardarmi. Certe volte non lo capivo, ma del resto come potevo se lo vedevo una volta ogni tanto? Girammo per Seattle quasi tutto il pomeriggio e intorno alle sette tornammo a casa. Avevamo il volo alle nove, perciò a malincuore dovetti salutare i miei parenti. Salutare mia cugina fu la cosa più dura. Lei era l’unica che mi sarebbe mancata davvero, l’unica che sentivo realmente parte della famiglia. Il viaggio in aereo fu breve, o almeno così mi parve.

Arrivammo a casa intorno a mezzanotte. Mi buttai sul letto distrutta senza nemmeno accendere la luce. Un miagolio sottile risuonò per la stanza.

Affondai la faccia nel cuscino. Il miagolio continuò. Mi venne da ridere quando percepii un solletico alle gambe poi alle braccia. Le lenzuola accanto a me furono schiacciate da un peso. Misi una mano sotto il cuscino e con l’altra accarezzai la testa del gatto augurandogli la buona notte.

«Com’è andata dai tuoi zii?» mi chiese distrattamente Alexa.

Era appoggiata all’armadietto accanto al mio e leggeva un libro del tutto assorta.

«Bene».

«Forte» rispose con tono assente.

«Che libro stai leggendo?»

Alexa non rispose. Chiusi il mio armadietto con forza, facendola sobbalzare.

Alexa mi guardò senza capire.

«Cosa stai leggendo?» ripetei. Alexa chiuse il libro mostrandomi la copertina.

«Sono in mezzo a noi di Ronald Douglas. Il libro che abbiamo preso insieme».

«Esatto. Secondo quest’archeologo intorno a noi esistono creature mistiche che ignoriamo».

«E tu ci credi davvero?»

«Perché no? Se esistono gli alieni è possibile che nell’Universo ci siano altre razze».

«Degli alieni ci sono testimonianze riguardo la loro esistenza. Ma... di queste creature?»

Alexa aprì immediatamente il libro e iniziò a sfogliarlo. Si fermò di colpo e mi mostrò un disegno molto simile a quello che Melanie mi aveva mostrato. L’uomo al collo portava lo stesso medaglione che avevo io. Rimasi senza fiato, completamente immobile.

«Che cos’è?»

«Una delle creature di Douglas, per lui avevano queste sembianze. Sosteneva che in uno dei suoi viaggi le aveva persino incontrate».

Istintivamente mi portai la mano al ciondolo lasciando scorrere le dita sul ruvido retro della pietra.

«Ma cos’è? Una specie di alieno?»

«Veramente non lo dice. Ha scritto questo libro solo per dimostrare che non era pazzo».

«La gente pensava che lo fosse…».

«Già. È stato ricoverato in manicomio per due anni poi si èsuicidato». La camla suonò. Alexa infilò il libro nello zaino.

«Ci vediamo dopo alla partita».

Continuavo a far scorrere le dita sulla quella superficie ruvida chiedendomi che cosa ci fosse scritto; se avesse almeno un qualche significato. Gli altri studenti intorno a me s’accalcavano per entrare in classe. Avrei voluto seguirli ma sembrava che i miei piedi fossero saldati a terra.

«Pensavo saresti venuta». Percepii la voce di Justin come un sibilo lontano. Mi porse un paio di libri abbozzando un sorriso.

«Ti sono caduti» disse in tono freddo. Solo adesso realizzai ciò che mi aveva detto.

«Mi dispiace è solo che... ho avuto gli allenamenti con la squadra».

Justin annuì mettendosi le mani nelle tasche.

Si morse nervosamente il labbro guardando in basso. Eccolo che tornava, quel maledetto squarcio che m’incendiava il petto fino a corrodermelo. Ecco che tornava la sensazione di oppressione e di dolore.

«Ho sentito dire che il punto di forza delle avversarie è il capitano. Se fossi in te la terrei per ultima e cercherei di colpire in basso» disse distaccato. Senza aggiungere altro mi oltreò e il suo profumo al basilico mi entrò nelle narici.

«Aspetta».

Justin si bloccò di colpo ma non si voltò.

«Ti andrebbe di venire a vedere la partita dopo?».

«Sei sicura?» chiese senza voltarsi «sei sicura di volermi?».

«Certo» E stranamente era così. «Devo farmi perdonare».

Justin si voltò lentamente e i suoi grandi occhi verde scuro si posarono su di me.

«Allora ci vediamo dopo». Il tono della sua voce era dolce e caloroso.

Di colpo mi ritrovai Jeremy accanto, mi puntò gli occhi addosso ma prima che potesse dire qualsiasi cosa le dita di Justin scivolarono tra le mie. Sorammo Jeremy che ci guardò confuso.

«Immagino che te la saresti cavata benissimo lo stesso anche senza il mio aiuto» disse fermandosi. Osservai le nostre mani ancora intrecciate.

C’era qualcosa di bello in quel contatto, qualcosa di puro e spontaneo che non avevo mai provato. Non ero abituata a tollerare le affettuosità della gente, ogni volta che Laura mi abbracciava era come avere una spina nel fianco. Non avevo mai nessun contatto di tipo fisico neppure con David e Ludmilla. Faticavo a ricevere calore e faticavo di piùa darne.

Volevo starmene per i fatti miei ecco tutto, solo che questa volta era diverso. Mi piaceva sentire il calore delle sue mani e mi piaceva che mi avesse trascinata via da Jeremy. Alzai lentamente lo sguardo su di lui.

«Sei stato carino» dissi piano. Justin mi lasciò la mano.

Sorrise e sulle sue guance comparvero le fossette.

«Devo andare in classe».

«Giusto. Devo andarci anch’io».

«Fata» disse piano «Non ti piace come soprannome?».

«Non proprio».

«Me lo ricorderò. Anch’io ti avrei chiamata così».

CAPITOLO 5 - Il torneo

Mi trascinai verso la mia aula continuando a sfregare le dita contro il medaglione. Mi massaggiavo le tempie fissando il pavimento mentre la professoressa spiegava. Joshua, il ragazzo del Michigan. L’Indemoniato.

I volti tumefatti e ormai decomposti. Il medaglione, l’iscrizione sul retro. Il racconto di Melanie sul divino. Ogni cosa attraversava il mio cervello e poi si bloccava. Scorrevano immagini vaghe che poi si stoppavano come se qualcuno avesse impostato il blocco schermo. Avvertivo un turbamento improvviso. Non riuscivo a spiegarmi a cosa fosse dovuto, ma lo percepivo e cercavo di non dargli peso.

Mi ero abituata ad andare avanti così, con le emozioni spente.

Durante la ricreazione mi recai in biblioteca per restituire il libro che avevo preso in prestito per il compito di storia. Quando entrai la biblioteca era deserta. Solo, al bancone dell’ingresso, c’era il professor Nicklas che leggeva un libro di epica.

«Professore».

Un uomo dai capelli biondi brizzolati sobbalzò al suono della mia voce. Si sistemò gli occhiali poi disse: «Oh Zara, dimmi».

«Sono venuta a restituirle il libro».

«Grazie. Avresti potuto darmelo anche domani».

«Comunque in ogni caso sarei ata»Nicklas annuì appoggiando il libro sullo scaffale. Lasciai il mio professore alle letture epiche mentre mi recavo nella zona che corrispondeva a quelle si. ai in rassegna tutti i romanzi situati sullo scaffale e alla fine ne estrassi uno che non avevo ancora avuto il piacere di leggere. Il vantaggio di una libreria vuota era che potevo esprimermi senza alcuna vergogna.

Le mie dita seguirono il disegno della copertina in preda ad una sorta di frenesia. Potevo sentire sotto i polpastrelli il contorno del titolo scritto in grassetto. Aprii il libro all’incirca a metà e mi lasciai sopraffare dal più delizioso profumo del mondo. Mi portai il libro sul viso, lasciando che tutto l’odore delle sue pagine entrasse nelle mie narici.

Chiusi gli occhi gustandomi quel momento nei minimi dettagli, secondo per secondo. L’aroma dell’inchiostro era talmente nitido, talmente vivo che pareva che il libro fosse stato stampato da poco e la carta sfregava sulla mia pelle accarezzandomi in modo dolce e gentile. Mi venne da ridere. Carta. Stavo tenendo tra le mie mani, nient’altro che carta, eppure potevo sentirne il calore e la vita come se fosse una persona reale.

Quando riaprii gli occhi Nicklas era ancora assorto nel suo libro.

Chiusi il romanzo e proseguii, attratta da un richiamo cui era impossibile non rispondere, verso il resto degli scaffali. Arrivai nella zona dei romanzi rosa. Non

proprio il mio genere. Ma comunque non resistetti e alla vista di tutti quei volumi e mi venne voglia d’assaporarne un altro. Avida come non mai, presi un libro e ne annusai l’essenza. Quei testi fatti solo d’inchiostro e immaginazione erano il mio punto debole. La mia qualità di eroina preferita. Avrei potuto drogarmi di loro per tutta la vita. Abbandonai quelle zone della biblioteca per sedermi in un tavolino accanto alla finestra.

Fuori tutta la scuola prendeva il sole nel cortile. Una figura alta e dal fisico asciutto si sedette d’innanzi a me con un buffo sorriso sulle labbra.

«Non vai fuori con gli altri?» mi chiese il professor Nicklas. «È una bella giornata».

«Troppo rumore» risposi. Il cortile era intriso di urla e schiamazzi che risuonavano come echi lontani all’interno della biblioteca.

«Sai, sei forse l’unica studentessa che legge romanzi si mentre fuori c’èun bel sole. Perché? Non è la prima volta che lo fai».

«Non c’è un perché. Mi piace stare qui».

Volse lo sguardo al cortile poi disse: «Al colloquio probabilmente dirò che sei asociale e pregherò i tuoi genitori affinché non ti cambino».

«Dirà questo?» Quasi mi venne da ridere.

«Esattamente. Un altro complimento che si aggiunge alla tua lista».

«Di solito... essere asociali non èpositivo».

«Hai detto bene, di solito».

«Perché questa volta dovrebbe essere diverso?».

Nicklas sospirò «Perché sei tu a renderlo diverso».

«E lei professore? Non è un po’ asociale anche lei?»

«Indubbiamente»disse ridendo«ne sono un perfetto esemplare. Ma sai, amo esserlo».

Restammo per un attimo in silenzio.

«Professore? C’è una cosa cui penso spesso. Crede che io sia diversa?»

Il professore si sporse in avanti. Gli occhi castani brillavano. «Beh, sei asociale» rispose ridendo. Risi con lui «Ma essere diversi non significa essere sbagliati».

«Sa professore, quando leggo, questo non accade. Mi sento normale».

«I libri sono da benedire. Le decisioni più importanti della mia vita le ho prese leggendo libri».

«Credo che il suo posto sia questo. Non mi fraintenda, lei è un bravo insegnante ma credo che è qui che vorrebbe stare ».

«Amare un libro èsicuramente più facile che amare un essere umano» Si sporse in avanti. «Vuoi sapere quello che penso?».

«Assolutamente».

«Credo, Zara Monthgomery, che tu sia straordinariamente inadatta per questo mondo. Credo anche che per quanto la tua vita sia stata difficile e dolorosa e per quanto tu possa sentirti sbagliata, sei l’eccezione che aspettavo da tanto».

La camla suonò. «Prima di andartene c’è una cosa che vorrei farti vedere».

Il professore si allontanò un attimo poi tornò con in mano un libro. «Dovresti leggere questo».

«Un fantasy? Non è roba per me».

«Credimi Zara, il fantasy è più di quello che immagini. Racconta delle cose, anche se non sembra. Ti aiuterà. Vedrai il mondo sotto un’ottica diversa».

«Grazie, professore. Sa, lei è l’unico adulto con il quale riesco a parlare».

«Se ti serve qualcosa, sai dove trovarmi».

Il resto delle lezioni ò velocemente e terminata la sesta ora giunse il momento del torneo.

Mentre attraversavo il corridoio che portava alla minuscola stanza che era la nostra palestra, mi ripromisi di concentrarmi al massimo. Quando arrivai le mie compagne di squadra si erano già cambiate e si stavano allenando. Con loro c’era anche la professoressa Dickenson.

«Monthgomery» Strillò non appena mi vide entrare nella palestra.

«Hai idea di che ore sono?»

«L’una e trentacinque». Azzardai guardando la donna alta e magra dai capelli arruffati che mi stava davanti. «L’una e quarantacinque. Sei in ritardo di venti minuti!»

Urlòcosì forte che temetti le scoppiassero le vene del collo.

«Quando dico l’una e venticinque deve essere l’una e venticinque chiaro?».

«Mi scusi».

«Non importa. Vatti a cambiare e sbrigati».

Annuii e corsi nello spogliatoio.

«Allora sei tu Zara Monthgomery».

Una voce fredda e dura mi fece accapponare la pelle. Quando mi voltai mi ritrovai davanti ad una ragazzona dai capelli e la carnagione scuri con gli occhi a mandorla. Doveva essere il doppio di me, muscolosa e con degli addominali da far paura. Io al confronto ero magra come un grissino e ovviamente se ne accorse.

«Mi avevano detto che eri magra» continuò squadrandomi «ma non credevo che fossi così sottile. Meglio. Sarà più facile annientarti». Sul suo viso dai lineamenti duri si stampò un sorriso maligno

«Cosa ti fa pensare che riuscirete a batterci?».

«Siamo le migliori. Io sono la migliore».

«Buon per te».

La ragazza non era certamente abituata a essere ignorata

«Ehi, guardami bene in faccia. Giuro che ti farò a pezzi Monthgomery. Rimpiangerai di non essere andata all’aldilà con la tua famiglia».

La fissai con le lacrime agli occhi. «Non appena ho saputo che mi sarei dovuta battere contro voi di Eureka mi sono subito messa a fare ricerche sul capitano ed è venuto fuori che sei orfana. Beh preparati a esserlo anche per il tuo titolo di capitano» e cosìdicendo sbatté violentemente la porta dello spogliatoio. Respirai a fondo poi mi diressi verso lo specchio. Il mio volto riflesso aveva disegnata un’espressione che non mi ero mai vista prima. Una forza brutale e animalesca iniziò a invadermi, i battiti del mio cuore accelerarono e ripensando alle parole di quella ragazza mi sentivo pervadere dalla rabbia.

Digrignai i denti.

Lo specchio riflesse un volto cattivo. Malvagio.

Sentivo il sangue caldo pulsare nelle vene.

Percorreva tutto il mio corpo. Dalle gambe, al ventre, alle braccia e alle mani fino ad arrivare alle tempie. Ero talmente arrabbiata che desiderai farla a pezzi. Digrignai nuovamente i denti e dal fondo della gola uscì un ringhio cupo e tetro.

Il ringhio d’un animale.

Sotto le mie mani ebbi l’impressione che qualcosa si stesse sgretolando.

Mi allontanai di colpo. Il lavandino in ceramica aveva delle crepature ai lati. Esitai un istante poi mi sporsi in avanti sicura che prima non c’erano. La coach Dickenson lo aveva fatto ricomprare nuovo la scorsa settimana perché si era intasato tutto di calcare e nessuno avrebbe mai potuto ridurlo in quello stato. Avanzai ancora. Sul bordo del lavandino erano appena visibili delle leggere crepe. Le sfiorai con le dita. Pensieri violenti iniziarono a rimbombarmi nella testa. Erano pensieri carichi di odio, vendetta, rabbia. E la voce che li pronunciava era la mia. Stentai a riconoscermi. Ero diversa, un’altra persona. Mi spaventai. Lo specchio riflesse la mia immagine. Non ero io quella. Mi somigliava ma non ero io. Quegli occhi iniettati di sangue non erano i miei, non potevano esserlo.

E quel sorriso...sembrava quello d’un assassino. Sentii di nuovo la rabbia entrarmi in corpo e una forza disumana invadermi tutta. Qualcosa sotto la pressione delle mie mani iniziò a frantumarsi. Feci un o indietro sconvolta. Ero stata io. Io avevo fatto crepare il lavandino. Io avevo avuto pensieri così forti. Io. Lo specchio ora rifletteva una ragazzina impaurita con gli occhi colmi di lacrime. Quella sì che ero io. Dal fondo della palestra la Dickenson urlòil mio nome.

Mi asciugai gli occhi e la raggiunsi chiudendomi alle spalle la porta dello spogliatoio, sperando di dimenticare quanto appena successo.

«Un’altra volta in ritardo eh?»

Laura, mi ò la palla e sorrise divertita. «È nel mio stile» riposi.

Il riscaldamento durò un paio di minuti, poi io e la mia squadra ci incamminammo verso una palestra che si trovava di fianco alla nostra scuola. La maggior parte degli studenti avevano già preso posto a sedere e mi meravigliai quando mi accorsi che ad assistere alla partita c’era anche il preside. Le avversarie erano già pronte a giocare. In lontananza intravidi Alexa e pochi posti più indietro Justin. Mi salutò con un cenno del capo.

«Sono forti Zara e sono nell’under18» disse Laura avvicinandosi preoccupata. «E non ci sono nemmeno maschi da poter distrarre».

Mi guardai attorno. Altra gente entrò nella palestra e vidi anche David e Ludmilla.

«Sono pronte Laura e lo sei anche tu».

«Non credo. Guarda cosa mi è successo alla mano».

«Cosa dovrei vedere?»

«Mi si è rotta un unghia».

«Succede, se ti metti quelle lunghe tre chilometri per giocare».

«Oh cavolo! » esclamò a un tratto Laura.

«Che c’è?» domandai preoccupata.

«Sai chi è quella?» disse indicandomi la ragazzona alta che stava venendo nella nostra direzione. «È Rachel Osborn, il capitano della squadra avversaria. È la campionessa di pallavolo della sua scuola, una come te solo un po’ troppo cresciuta. Ho sentito dire che lancia delle schiacciate micidiali».

«Ho già avuto il piacere d’incontrarla. Sai da dove viene?»

«Da Montreal».

«Non giocano tanto bene là». Laura sgranò gli occhi.

A Montreal giocavano piuttosto bene invece. Lo sapevamo entrambe. Rachel si posizionò sotto la rete proprio davanti a me.

Sorrise. La ignorai e aspettai che Laura battesse. La palla sfiorò la rete e Rachel la parò facendo muro, poi la schiacciò con una potenza sorprendente verso di me. Ci mancò poco che non mi arrivasse la palla in faccia ma la afferrai in tempo e schiacciai con tutta la potenza che avevo. La palla sfiorò le mani di Rachel e oltreò un altro paio di ragazze che si erano precipitate a prenderla, infine andò fuori dalla linea del campo. Il segna punti diede un punto alla mia squadra. La palestra risuonò di grida e di urla. Una strana energia m’invase. Rachel

rimase sbigottita e la sua faccia divenne ancora più rossa. Laura schiacciò nuovamente la palla che però questa volta andò a finire direttamente contro la rete. Rachel rise.

Il primo set finì con la vittoria della squadra di Rachel mentre al secondo set vinse la mia squadra. Adesso ci trovavamo al terzo set e mancava un punto solo per vincere. Per tutta la partita ebbi l’impressione di aver schiacciato la palla con una forza non umana.

Non avevo idea di quanto mi stesse accadendo ma non m’importava. Volevo solo battere Rachel. Mi posi sulla linea di base andomi una mano sulla fronte imperlata di sudore. Palleggiai una due, tre volte. Alzai la palla in aria, caricai la potenza sulle gambe e mi diedi la spinta, quindi mi preparai a schiacciare. Mi sollevai in aria alzando il braccio che doveva colpire la palla. Una scarica di energia pervase il mio corpo, rilasciai i muscoli contratti e concentrai tutta la potenza in un unico punto. Una potenza incredibile liberò la sua energia quando schiacciai la palla.

Quella sfrecciò a una velocità assurda, era quasi invisibile. Volò sopra la rete. Una ragazza si sporse per prenderla ma avevo lanciato la palla in basso apposta. Erano tutte ragazze alte e nessuna avrebbe mai previsto un lancio così basso. Justin aveva avuto ragione.

La palla andò fuori campo e il segnapunti diede un altro punto alla mia squadra. 22 a 25.

Avevamo vinto.

Le urla, le grida di gioia della gente si mescolarono alla felicità delle mie compagne e della mia prof. di Educazione Fisica. Rimasi lì immobile mentre tutto intorno a me risuonava all’infinito. Nell’aria c’era uno strano odore.

Quasi di bruciato. Mi avvicinai alla rete. Si era bruciata appena.

La palla si trovava a pochi metri da me, la presi ed era calda.

L’odore di gomma combusta mi fece girare la testa.

Ero stata l’ultima a tirare.

«Ehi non so se ti sei fatta di adrenalina o cosa ma... sei stata fortissima. Nemmeno le creature descritte da Douglas sono forti come te».

Alexa era elettrizzata. «Senti vado un secondo in bagno. Mi aspetti?»

«Certo».

Appoggiò lo zaino semiaperto su una sedia in prima fila.

Da una parte sbucava il suo libro. Diedi un occhiata alle ultime file.

Justin se ne era andato. Dall’altra parte della palestra Rachel mi fulminò con lo sguardo poi si ritirò insieme alle sue compagne. Senza essere vista feci una cosa di cui non andai molto fiera. Rubai il libro di Alexa e lo infilai nella borsa di pallavolo.

«Rachelè davvero infuriata» disse mettendosi lo zaino in spalla.

«Se l’è cercata» risposi e Alexa concordòcon me.

Quando arrivai a casa David e Ludmilla si congratularono con me.

Tagliai corto la conversazione dicendo che ero stanca.

Mi chiusi in camera mia, disfai la borsa di pallavolo ed estrassi il libro che avevo preso, anzi rubato, ad Alexa. Sfregai le dita sulla copertina e mi sentii sporca. Fui sul punto di rimetterlo nella borsa senza nemmeno guardarlo ma alla fine mi decisi ad aprirlo. Non molto contenta di ciò che stavo facendo. Le prime pagine parlavano dei viaggi di Douglas, descriveva le cose che aveva visto, le persone che aveva conosciuto e ciò che era stato rinvenuto sotto la polvere. Sfogliai ancora il libro. Mi fermai. In una pagina erano elencati una serie di punti scritti a mo’ di lista della spesa.

Punto 1: Le creature mistiche non vogliono che gli umani sappiamo della loro esistenza, per questo motivo hanno escogitato modi per are inosservati all’occhio umano. Se qualche creatura venisse a contatto con un essere umano, la loro legge vuole che l’umano venga ucciso. La punizione per la creatura invece

sarà l’esilio dalla Bianca Terra della Pace.

Punto 2: Per motivi di sicurezza le creature magiche non danno mai spettacolo dei loro poteri in pubblico. L’uso della “magie” è severamente vietato. Magie è una parola se, viene generalmente attribuita a creature come le streghe con l’espressione: “Jeter un charme”. Manifestazioni di super-velocità o super-forza sono severamente proibite. Tali caratteristiche sono insite nella loro natura e se non controllate, possono causare danni di proporzioni gigantesche.

Punto 3: Tali creature sono confinate all’interno della Bianca Terra della Pace, l’unico posto nel quale sono al sicuro e dove non possono oltreare il confine. Chi vi mette piede, verrà imprigionato nelle Terre Nere. Douglas procedeva spiegando altre regole di queste creature. Mi soffermai al punto 2. «Caratteristiche come la super-forza o la super-velocità sono insite nella loro natura» ripetei a bassa voce.

Ripensai a quanto mi era successo oggi. Al lavandino dello spogliatoio pieno di crepe. Alla palla che per la potenza con cui l’avevo tirata, aveva finito per bruciare la rete. Non si era trattato di adrenalina come aveva pensato Alexa. Era qualcos’altro. Qualcosa che mi faceva paura. Chiusi il libro. La mia testa iniziò a pulsare di domande alle quali non sapevo dare alcuna risposta. Cosa mi sta succedendo? Chi ero io? Ero pazza? O mi sto lasciando influenzare da questo stupido libro? Premetti le mani contro le orecchie per non sentire. Ero arrabbiata. Le mie domande rimbombavano come un eco lontano nella mia testa. Soffocai un grido di rabbia. Piangendo chiusi gli occhi.

Tutto intorno a me si fece buio.

I miei pensieri s’interruppero.

L’unico suono che percepivo era il rumore degli scaffali che si muovevano. Il letto sotto di me iniziò a vibrare. Aprii gli occhi e vidi il lampadario oscillare. Le pareti iniziarono a

creparsi mentre tutto si muoveva violentemente.

Avevo procurato una scossa di terremoto.

CAPITOLO 6 - Rosa rossa

«Hai sentito la scossa ieri sera?»

«Accidenti. Non se n’è mai sentita una così forte».

In fondo all’autobus le chiacchiere di un gruppo di ragazzi mi risuonavano nelle orecchie come un fastidioso ronzio.

«Ci sono stati dei feriti?»

Una ragazza dai capelli rossi fissò un ragazzo alto e snello che sembrava essere molto informato su quanto successo.

«Mio padre fa il paramedico. È andato nei luoghi in cui le scosse sono state maggiori, nessun morto. Ci sono stati circa una ventina di feriti, nulla di grave però».

Mi infilai l’ mp3 alle orecchie premendo forte. Avrei voluto perforarmi il timpano, diventare del tutto sorda pur di non sentire che cosa avevo causato. Perché la colpa di tutto questo era mia.

Che cosa mi stava succedendo? Com’era possibile che fossi riuscita a scatenare

un terremoto?

Mi portai le labbra alla bocca ricacciando indietro le lacrime. Era davvero questo quello che stavo diventando? Pericolosa? Per i miei genitori, per Alexa, per chiunque mi stesse intorno?

Ero davvero così orribile? Doveva esserci una spiegazione. Non era possibile che fossi stata io.

Si era sicuramente trattato di una coincidenza. Doveva essersi trattato di una coincidenza.

Quando arrivai a scuola pregai di essere ignorata ma tutti non facevano che complimentarsi con me per aver battuto la squadra di Rachel.

Di fatto non è che il torneo avesse decretato la fine della scuola, per quello ci voleva ancora una settimana, ma era stato comunque un buon modo di chiudere l’anno scolastico. Sembrava che a nessuno importasse della scossa e non sapevo se questo fosse un bene o un male.

«Grazie» Ringraziai l’ultimo gruppo di ragazzi appostato davanti al mio armadietto e sospirai. In quel momento Justin mi ò davanti salutandomi distrattamente.

«Ehi».

Si bloccò di colpo. «Sì?»

«Abbiamo vinto».

Mi venne incontro sorridendo appena. «Lo so. Brava. Ma te l’avranno già detto».

Rimasi per un attimo a fissarlo in silenzio chiedendomi se fosse ancora arrabbiato con me.

«Ho seguito il tuo consiglio» dissi piano.

«Mi fa piacere. Ti sono stato utile».

«Sei ancora arrabbiato con me?» Chiesi pur non volendo che mi rispondesse.

«No. È tutto okay».

Dal fondo del corridoio Laura mi venne incontro saltellando allegramente.

«Oggi pomeriggio festeggiamo. Ci sei vero?»

«Ah... Devo aiutare mia madre... a correggere alcuni compiti».

«Non può farlo da sola? Insegna in una scuola elementare non in un liceo».

«Glielo avevo promesso».

Laura roteò gli occhi pieni di mascara al cielo poi se ne andò facendo oscillare i capelli raccolti in una coda di cavallo.

Una scia di profumo aleggiò per tutto il corridoio mentre il rumore dei suoi tacchetti faceva eco nell’edificio.

«Non... ti piace molto uscire vero?» Stranamente il tono in cui lo disse non sembrò affatto un offesa. Anzi mi era sembrato quasi un complimento.

«Devo davvero aiutare mia madre» Mentii. Non volevo che mi credesse una sfigata. Anche se, di fatto, un po’ lo ero. Abbozzò un sorriso poi disse: «Non ti piace uscire con loro o con nessuno in generale?» prese a fissare il pavimento «te lo chiedo perché so che hai dato buca a parecchi ragazzi».

«Tu hai fatto lo stesso» risposi sulla difensiva.

«Già. Il fatto è che mi sento fuori posto».

«Anch’io».

Alzò piano lo sguardo verso di me. Mi sembrò che i suoi occhi fossero di un verde piùintenso del solito. Esitò un attimo poi chiese: «Ti... ti andrebbe se festeggiassimo insieme?».

Rimasi con la bocca aperta a mezz’aria riflettendo su quanto mi aveva appena proposto.

«Non credo sia il caso». Chiusi il mio armadietto e lo oltreai.

Mi sentivo malissimo. E non mi capitava di sentire tanto male dal funerale dei miei. Pensavo di essere diventata apatica ma era evidente che c’era ancora qualcosa di vivo in me. Avevo preso la decisione giusta però.

Se si fosse accorto che qualcosa in me non andava? Non credo che mi avrebbe parlato ancora. Justin mi guardò incuriosito e ignorando la mia affermazione disse: «Dove ti piacerebbe andare?».

«Non lo so. Non mi piace festeggiare».

Lui mi fissòsorridendo.«Nemmeno il tuo compleanno?»

«Certo quello sì. Solo che... ».

«Non c’è un posto che vorresti visitare? Guarda che ti ci porto io, per me non è un problema».

L’espressione del suo viso era rilassata e serena, sembrava calmo. Ma le sue mani non facevano che sfregarsi incessantemente contro i jeans.

«Mi piacerebbe pattinare» dissi infine.

«Mi sembra una buona idea. Non so come si faccia ma va bene».

«Possiamo andare da un’ altra parte».

Justin rise incrociando le braccia sul petto. «No va benissimo. Quindi... uscirai con me?»

«Non sapevo fosse un appuntamento». Iniziai a fare come sempre, quand’ero nel panico. Mordermi il labbro. La maggior parte delle persone lo trovava fastidioso e mi diceva di smettere ma Justin non ci dava alcuna importanza.

«Una specie. Basta che non mi dai buca».

«No. Mi hai aiutato a vincere... Grazie».

Abbozzai un sorriso mentre il mio sguardo cadeva sulla sua tracolla verde militare mezza aperta dalla quale sporgevano un mucchio di fogli.

«Dovresti chiuderla» dissi indicandogli la tracolla. Justin la aprì e iniziò a sistemarla.

Uno di quei fogli cadde per terra, vicino ai miei piedi. Lo raccolsi. Era un volantino sul quale era stampata la foto di un gatto bianco dagli occhi verdi. Sotto la foto c’era scritto un numero di telefono da chiamare in caso qualcuno l’avesse ritrovato.

«Di chi è?» chiesi dandogli il volantino.

«Di mia zia. È scappato di casa da alcuni giorni e vorrebbe ritrovarlo».

«Quel gatto... si aggira sempre intorno a casa mia. Non so il perché ma se è di tua zia glielo riporto».

«Sarebbe fantastico. Verrà a prendermi dopo la scuola. Potresti parlare con lei».

Annuii mentre la camla suonava l’inizio delle lezioni. Justin mi salutò con un cenno del capo. Mi diressi in classe e mi sedetti in ultima fila accanto ad Alexa. Il suo viso era cupo come se le fosse accaduto qualcosa di brutto.

«Che hai?»

«È successa una cosa terribile».

Impallidii. Pregai Dio che qualche suo conoscente non fosse rimasto ferito dalla scossa.

«Non trovo piùil mio libro».

Feci un sospiro di sollievo. «Quale? Se è quello di geografia l’hai dato a me».

«No. Intendo quello scritto da Douglas. Te l’ho mostrato ieri».

La sensazione di sollievo svanì in un secondo. Mi sentivo una criminale, una persona pessima.

Avrei dovuto restituirle il suo libro, anzi non avrei mai dovuto prenderglielo, però mi affascinava.

Aveva qualcosa che non sapevo spiegarmi. Qualcosa di strano.

«Forse me l’hanno preso in palestra o l’ho messo da qualche parte e non ricordo. Cavolo».

«Vedrai che lo troverai» dissi senza guardarla negli occhi. Io e Alexa ci conoscevamo da tanto tempo ma con lei faticavo sempre a parlare, c’era sempre qualcosa che mi bloccava come se temessi che non riuscisse mai a capirmi. Quando aveva circa sette anni i suoi genitori divorziarono e per lei fu una cosa devastante. Io fui la prima persona a cui lo disse. I genitori non vollero rivelarle il reale motivo della loro scelta, le dissero le classiche cose come «Non andiamo più d’accordo» oppure «Siamo stanchi di litigare in continuazione».

Con il tempo però Alexa si fece un idea tutta sua di cosa era successo: aveva preso in considerazione l’ipotesi che il padre avesse tradito sua madre.

A tredici anni provò a chiedere a sua madre la ragione del divorzio ma lei rispose che non erano cose di cui doveva interessarsi e che tutto sarebbe andato per il meglio.

«È colpa di papà non è vero?».

«Ascolta Alexa, ne abbiamo già parlato. Si sistemerà tutto».

«Ed io dove starò?»

«Con me tesoro. Tu starai con me».

«E papà quando lo vedrò?»

«Lo vedrai.È tuo padre...sei costretta a vederlo».

«Quindi ècolpa sua».

«Alexandra! Ora basta».

Dopo quella discussione non avevano mai più toccato l’argomento. Io divenni il suo punto di riferimento, un modo per dimenticare tutti i suoi problemi.

«Tu chi credi che sia?»

Io e Alexa eravamo sedute su una panchina ad aspettare il mio autobus e il nostro sguardo era caduto su una donna alta e magra dai capelli rosso fuoco, appoggiata a un albero. Era la stessa donna che avevo incontrato sull’autobus.

«Non l’ho mai vista in giro. Dev’essere una nuova» disse Alexa scrutandola. «Cavolo, è molto bella»Lasciò cadere lo sguardo dalla donna all’orologio poi disse: «Io vado. Il tuo autobus è troppo lento».

«Ci vediamo domani».

«Fammelo sapere se scopri qualcosa su di lei» rispose accennando con la testa alla donna. Alexa si diresse verso la sua macchina salutandomi con la mano.

Roteai lo sguardo verso la donna e incontrati i suoi piccoli occhi scuri che mi fissavano

«Ehi».

La voce di Justin mi distolse da lei.

«Allora, mia zia è venuta a prendermi. Vuoi parlarle?»

«Certamente».

Justin sorrise. «Okay. È quella appoggiata all’albero».

Spalancai gli occhi. «Quella è tua zia? Quella dai capelli rossi?»

Lui annuì facendomi cenno di seguirlo.

«Zia, leiè Zara. Ha trovato Helan» disse Justin dopo averla abbracciata. La donna fece un sorriso tirato.

«Potresti ridarmelo?»

«Certo, è a casa mia».

«erò più tardi a prenderlo» disse in tono freddo. Il suo sguardo gelido mi era addosso.

«Okay» Le scrissi il mio indirizzo in un biglietto e glielo porsi. Se ne andò senza nemmeno salutare.

«Scusa per mia zia. Non è molto brava con le persone».

«Fa niente».

«Allora ci vediamo dopo. Che ne dici se ci incontriamo al parco? Da lì conosco una strada che porta in un bel posto. Ti piacerà».

«Va bene».

«Ci vediamo alle quattro»disse salutando con la mano.

Alcuni ragazzi gridarono l’arrivo dell’autobus. Vi salii in fretta guardando Justin e sua zia che s’allontanavano.

«Carino quel tipo» disse George mentre mi mettevo a sedere «Come si

chiama?».

«George, se non la pianti vado in ultima fila».

«Su, su biondina non fare così. Ero solo curioso. Credo che tu gli piaccia».

«Non dire scemenze» dissi ridendo.

«Dico solo quello che vedo. Hai con te il quadrifoglio?» Lo estrassi dalla tasca e glielo mostrai.

«Perfetto. Ricordi cosa ti ho detto?»

«La fortuna un giorno girerà dalla mia».

«Esatto. Se arriva però… devi coglierla».

Quando arrivai a casa iniziai a prepararmi subito dopo aver terminato di studiare.

Ludmilla entrò in camera bussando.

«Stai uscendo?»

«Sì, vado a fare un giro con Alexa»

«Bene. Non fare tardi».

Scesi al piano di sotto, presi le chiavi di casa e uscii. Quando arrivai al parco Justin era già lì che mi aspettava appoggiato alla sua macchina

«Ciao».

«Allora, dove mi porti?»

«Vedrai» Mi prese per mano e al tocco della sua pelle mi sentii bruciare. Dai meandri più remoti del mio cuore avvizzito qualcosa risuonò forte nel petto. Un battito. Così forte che istintivamente mi portai la mano sul cuore.

«Adesso però chiudi gli occhi».

Mi lasciai guidare da lui e dopo un po’ disse: «Eccoci, siamo arrivati. Ora puoi aprirli».

Aprii gli occhi e mi ritrovai davanti ad una pista di pattinaggio all’aperto.

«Avevi detto che non sapevi pattinare» dissi guardandolo stupita.

«Infatti, non lo so fare, ma spero di imparare».

Ci sedemmo in una panchina dove un signore ci chiese che numero di scarpe avessimo.

«Io ho un 41» Rispose Justin.

«E la sua fidanzata?» Mi voltai verso Justin rossa come un peperone e lui sorrise divertito.

«Veramente io non sono la sua…» Cercai di dire prima che Justin intervenisse.

«Per lei un 37» disse Justin perfettamente a suo agio. Io abbassai lo sguardo rossa di vergogna.

Il signore se ne andò per poi ritornare con i nostri pattini.

«Ti avverto che non sono molto bravo. Non vorrei rischiare di ucciderti» disse Justin dopo esserseli infilati.

«Non preoccuparti sopravvivrò. Non puoi essere tanto male».

Lo accompagni sulla pista cercando di farlo stare in equilibrio.

«Però…sei bravo» dissi dopo un po’. Lui fece un mezzo sorrisetto soddisfatto. Lasciai la sua mano e cominciai a volteggiare per la pista esibendomi in acrobazie complicate che non sapevo neppure di aver mai fatto, poi tornai da lui.

«Ci sai fare sui pattini» mi disse quando tornammo a sederci sulla panchina. Non so per quanto tempo eravamo rimasti in pista ma doveva essere ata almeno un’ora.

«Ho iniziato a pattinare a 4 anni. Era da un po’ che non lo facevo».

«Perché hai smesso?»

Non risposi subito. «Mi sono dedicata alla pallavolo» dissi infine.

Justin si tolse i pattini e mi fissò sorridendo. Aveva un’espressione così calma. In un certo senso lo invidiavo. I lineamenti del suo viso erano regolari, le labbra sottili e i capelli castani scompigliati sul viso. E poi quegli occhi. Quegli incredibili occhi verde scuro che avevano un ascendente su tutti.

Per quanto uno si potesse sforzare, ignorarli era impossibile.

«Pensavo fossi diverso» gli dissi dopo un po’.

«Diverso come?»

«Credevo non parlassi molto con le persone. Se devo essere sincera tutto questo mi sorprende. »

Justin corrugò la fronte. «In positivo o in negativo?»

«Oddio... non saprei. Suppongo in positivo ma non si sa mai».

«Che vuoi dire?»

«Che sì... non escludo una delusione».

«Lo credi davvero?» mi guardò sorpreso e incuriosito.

«Sì».

«Mi spiacerebbe molto deluderti. Non vorrei mai che accadesse».

«Succede sempre alla fine».

«Probabilmente ècosì».

«Perdonami, sto dicendo un sacco di stupidaggini » tenevo lo sguardo basso. Non volevo incontrare i suoi occhi.

«Non è che tu dica cose stupide, solo diverse da quelle della maggior parte della gente. Mi piace. Non mi fa sentire il solo».

«Il solo?»

«A essere un po’ strano. Insomma, cosa credi che farebbero due normali ragazzi che escono per la prima volta adesso?».

«Parlerebbero, per conoscersi meglio».

«Non è esattamente ciò che stiamo facendo».

«Già. Forse dovresti dirmi qual è il tuo colore preferito o che marca di jeans indossi».

Justin si limitò a sorridere. Lo fissai con la coda dell’occhio. Era rivolto verso la pista di pattinaggio. I raggi del sole lo colpivano in faccia facendo risplendere il suo viso perfetto.

«Non sembri di questo mondo» gli dissi. Justin s’irrigidì. Mi affrettai ad aggiungere «Hai qualcosa di... differente. Non sei come i ragazzi che ho conosciuto fino adesso».

Si voltò lentamente verso di me, rilassando i muscoli della schiena si lasciò cadere sulla panchina.

«Peccato che non abbiamo avuto occasione di parlare prima. La scuola è grande, incroci persone nei corridoi ma di loro non sai niente. Davvero ridicola come cosa».

«Tante cose sono ridicole a questo mondo».

«Non è una bella cosa».

«A volte quando sono in mezzo alla gente mi manca il respiro. Mi sa che soffro d’agorafobia».

«Senti come il bisogno d’avere una bombola d’ossigeno a portata di mano».

«Sì, ècosì che mi sento» risposi un po’ turbata. Parlare con lui mi veniva così

facile.

La mia bocca si muoveva senza che il cervello glielo ordinasse, fluivano pensieri tenuti nascosti per il timore d’essere respinti, fluivano parole e frasi che avevo solo sognato di poter confidare a qualcuno. Era tutto naturale senza costrizione o altro.

Justin mi guardò con i suoi profondissimi occhi verdi. «Siamo proprio strani» disse infine. Ero a pochi centimetri di distanza da lui e mi sentivo tranquilla e in pace con me stessa. Dimenticai quello che mi era successo negli ultimi giorni. Per un attimo ebbi paura di dimenticare anche il mio nome. Ce ne stavamo lì, uno vicino all’altra a riflettere su quanto fossimo diversi dal resto del mondo e per la prima volta dopo tanto tempo non mi sentivo sola. Un rumore profondo mi rimbombò nel petto. Un altro battito. Il segno di un cuore che si risveglia.

«Posso confessarti una cosa?»

Justin ci pensò su prima di rispondere. «Posso sapere prima il perché?»

«Perché voglio confidartela?»

«Sì. Pensavo non dessi confidenza alla gente».

Ci pensai su e, di fatto, aveva ragione. Non mi aprivo completamente con qualcuno da tanto, troppo tempo, forse mi ero addirittura dimenticata come si fe. La cosa insolita era che sentivo di volermi confidare con un ragazzo con

cui avevo iniziato a parlare solo negli ultimi giorni, invece che con i miei genitori o con Alexa. Non mi era mai successo nulla del genere.

«Sento che posso fidarmi di te. Perché posso... vero?»

Accennò appena un sorriso. «Dovresti mettermi alla prova. Rischiare».

Non era una cosa che facevo spesso. Rischiare. Scommettere su qualcuno. Per cosa poi? Restare ferita? Mi morsi nervosamente il labbro e con una convinzione che non sapevo neppure di avere annunciai: «Voglio rischiare».

«Ti ascolto».

Respirai a fondo poi dissi: «Non esco solo perché mi sento strana. Non lo faccio perché non mi ricordo come si fa. Da quando la mia famiglia è morta, non so più cosa significa... alzarsi e avere uno scopo nella vita. Mi sono dimenticata di tutto».

Feci dondolare le gambe avanti e indietro mentre guardavo oltre la pista di pattinaggio dove il cielo stava diventando di colore rosa. «È successo quattro anni fa. Ero a casa di Alexa e i miei genitori e mia sorella erano usciti a fare la spesa e... non sono più tornati. La madre di Alexa provò a chiamare la mia al cellulare ma lei non rispose. Quella sera stessa a casa di Alexa venne la polizia e le disse che c’era stato un incidente automobilistico e che la mia famiglia ne era rimasta coinvolta. La madre di Alexa chiamò immediatamente i miei zii e loro vennero a prendermi. Inizialmente volevano tenermi con loro ma a causa del lavoro, che li costringe sempre a spostarsi, il legale disse che non era la cosa migliore per me…visto il trauma che avevo subìto. Quindi mi misero in una

casa-famiglia e i Sullivan mi adottarono ». Non credevo che sarebbe stato così difficile raccontare a qualcuno quello che mi era successo. I ricordi di quella sera si accalcarono nella mia mente: i pianti della madre di Alexa, le urla, il terrore nello sguardo di mia zia e la confusione di una ragazza di tredici anni che chiedeva dov’erano i suoi genitori. Quella ragazza ero io, ma le mie domande erano state tutte vane. Stranamente non piansi. Anzi, mi sentii sollevata. Liberata da un peso che portavo da tanto. Justin pose la sua mano sopra la mia. Con un piccolo sorriso, mi voltai verso di lui.

«Mi piacerebbe fare qualcosa... ma non so... ».

«Hai già fatto più di quanto potresti immaginare».

«Sai» disse dopo un po’ «anch’io voglio rischiare. Ti conosco da poco ma... parlare con te mi viene quasi naturale» Sospirò, andosi una mano tra i capelli. «Abbiamo delle cose in comune. A scuola non credo che lo sappia nessuno ma... mia madre morì quand’ero piccolo e mio padre... sparì poco dopo» Fece una smorfia di disgusto. «A crescermiè stato mio fratello. Lui è stato tutto per me. A volte mi chiedo come abbia fatto a sopportarmi».

«Non sapevo avessi un fratello. Che tipo è?»

«Una persona sempre allegra. Ride. Scherza. Non ci sono mai problemi per lui. Immaginati un attore comico: ecco lui ècosì solo che è molto più bravo perché la sua parte la sa recitare alla perfezione. All’inizio credevo che fosse la persona più solare che esistesse sulla faccia della terra… poi ho capito che lo faceva per non farmi sentire infelice… lo fa ancora adesso. Ha sempre dato il massimo affinché la mia adolescenza non fosse un totale disastro e ci è riuscito… se non fosse stato per lui ora non sarei quello che sono. Non lo da a vedere ma… ha sofferto molto, si è trovato in una situazione più grande di lui però l’ha gestita

bene… almeno credo».

La sua voce era pacata, nostalgica a volte interrotta come un pozzo di dolore senza fine.

«Vivi con lui?»

«Ci ho vissuto, ma adesso non più. È partito per lavoro e ora sto con nostra zia».

Restammo per un secondo in silenzio a riflettere su quanto ci eravamo appena confessati, contemplando il cielo dalle sfumature rossastre e rosa. Non mi ero mai sentita così libera in vita mia e per Justin doveva essere lo stesso. C’eravamo appena conosciuti e già ci fidavamo l’uno dell’altra come se ci conoscessimo da una vita.

Se prima avrei potuto scansarlo, come avrei potuto fare con chiunque, ora mi era impossibile. Si era creato un legame, qualcosa d’intenso che non poteva essere ignorato e che non volevo ignorare.

Una fitta dolorosissima mi colpì al cuore. Soffocai un gridolino e con la coda dell’occhio osservai Justin. Il suo volto era spento. La fitta al cuore aumentò. Poi s’alzòradioso.

«Ti riporto a casa».

Mi sentivo come una bambina al parco giochi. Poi realizzai che sarei dovuta entrare in macchina. Ero già salita sul quella di Laura, non ne potevo tollerare un’altra.

«Ah... credo che andrò a piedi». Mi guardò sorpreso. «È che... non mi piacciono le macchine». Mi affrettai ad aggiungere.

«Oh» Abbassò lo sguardo come se si sentisse in colpa.

«Ci salgo sulle auto» dissi in fretta «solo che non mi piacciono molto. Mi danno il voltastomaco a dire il vero. Salire in quella di Laura è stato faticoso».

«Non ti lascio andare a casa da sola» disse piano.

Deglutii. I suoi occhi verde scuro mi davano sicurezza. Senza rendermene conto aprii la portiera e m’infilai rapida in macchina. Lasciai aderire la mia schiena ai sedili in pelle. Mi sentivo tranquilla. Per un attimo ebbi un flash sull’incidente. Vidi mia sorella con il volto scorticato e il sangue che le colava dalla testa. Ma tutto sparì all’improvviso quando la mia pelle fredda venne a contatto con quella calda di Justin.

«Tutto bene?»

Annuii appoggiando la testa al finestrino. Durante il viaggio in macchina non parlammo molto, a parte quando gli davo qualche indicazione su quale strada prendere.

Credo che entrambi dovessimo meditare a fondo sul nostro ato, su ciò che ci aveva fatto soffrire e trovare un rimedio per andare avanti. Giungemmo davanti a casa mia e nemmeno m’accorsi di esserci arrivata in macchina.

«Allora, a domani Ginevra» mi disse mentre uscivo dall’auto.

«Ginevra?» domandai spalancando gli occhi.

«Poiché fata non ti piace, ti ho trovato un altro soprannome».

«È solo che non sono una principessa».

«Ma posso chiamarti così?»

«Okay, se ti fa piacere. Solo che non è esattamente... »

«… il nome con cui ti chiamerebbe la gente» disse terminando la frase al posto mio.

«Esatto».

«Ciao» disse mentre chiudevo la portiera.

«Ciao» sussurrai guardandolo andare via. Un tonfo sonoro risuonò nel corpo facendomi venire i brividi. Una serie di battiti inarrestabili cominciarono a diffondersi nel mio petto. Il cuore putrido e stanco si risvegliò dal sonno in cui era caduto, sconvolgendomi. Non appena i raggi del sole colpirono il mio viso, chiusi gli occhi per assaporare meglio quella nuova sensazione che stavo provando. Mi sentivo leggera. Come i petali d’una rosa rossa che volteggiano nell’aria senza una meta quando il vento soffia forte.

CAPITOLO 7 - Con il fiato sul collo

Infilai la chiave nella serratura e la girai. Ad accogliermi fu mia madre con uno strano sorrisetto sulla faccia.

«Tutto bene con Alexa?»

«Sì certo. Come mai sei così felice?»

Ludmilla si voltò mostrandomi lo stufato. «Non l’ho bruciato».

«Sono contenta» le dissi mentre appoggiavo il giubbotto sul divano.

«Ah, di sopra c’è una persona per te».

«Davvero?»

«È la proprietaria del gatto. Le ho detto di aspettarti in camera tua perché di solito è lì che se ne sta».

«Da quanto tempo è arrivata?»

Ludmilla buttò un occhio all’orologio che aveva al polso poi disse: «Circa mezz’ora».

Annuii salendo di corsa le scale. Quando arrivai davanti alla mia camera la porta della stanza era chiusa. La aprii lentamente e mi porsi in avanti sbirciando all’interno. Feci un o avanti e rimasi sorpresa nell’accorgermi che non c’era nessuno.

«Tutto bene con mio nipote?» Una voce pungente e melodica al tempo stesso mi fece sobbalzare. Entrai decisa e trovai la zia di Justin seduta alla scrivania con le gambe distese che si stava limando le unghie laccate di nero. I lunghi capelli rosso fuoco, raccolti in una treccia, lasciavano cadere qualche ciocca sul viso candido. Era una donna dalla bellezza mozzafiato.

«Vi siete trattenuti a lungo» disse accennando un sorriso «mi avete fatto aspettare».

«Oh...ah...scusi... ».

«Sai perché sono qui, vero?» chiese alzandosi lentamente. Si fermò un secondo poi iniziò a scrutarmi come un avvoltoio con la sua preda.

«Per il gatto».

Fissava la mia stanza con attenzione, scrutando ogni dettaglio: dalle pareti

scrostate ai cumuli di polvere agli angoli del letto. Il suo sguardo gelido si posava di tanto in tanto su di me facendomi rabbrividire.

«Lo rivoglio» disse in tono brusco «ora». Stavo per dirle che lo avrebbe riavuto subito ma lei continuòdicendo«Tua madre mia ha detto che l’avrei trovato qui. Non c’è».

«Le assicuro che non le sto facendo perdere tempo. Il gatto l’ho davvero, solo... non so dove si sia cacciato adesso».

La zia di Justin alzò un sopracciglio. Mia madre entrò nella stanza prima che potesse dire qualcosa. «Temo che sia uscito. L’ho cercato in garage e in giardino ma non c’è. Tra un po’ faràbuio e torneràa casa. Torna sempre».

«Già».

«Le andrebbe di aspettare ancora un po’?».

«Certo» rispose rassegnata. Alzò gli occhi al cielo poi sulle sue labbra si disegnò quello che avrebbe dovuto essere un sorriso. Molto tirato però.

«Allora vi lascio sole. Il gatto... ».

«Si chiama Helan».

«Sì, certo. Helan entra sempre dalla finestra della stanza di Zara. Avrete tempo per parlare un po’ ». Mia madre sorrise in modo caloroso, avrei voluto fare altrettanto anch’io ma l’espressione rigida sulla faccia di quella donna mi fece congelare il sangue nelle vene.

«Ti chiami Zara eh?» chiese non appena mia madre se ne fu andata.

«Sì, ècosì».

«Io sono Kindra».

La osservai mentre posava la sua attenzione sulla mia libreria personale, nella quale i miei libri preferiti si mescolavano a quelli noiosi della scuola.

«Non assomigli molto a Justin» le dissi dopo un po’.

«Nemmeno tu a tua madre».

«Lei non è proprio mia madre».

Kindra si voltò verso di me e notai che in mano aveva la foto nella quale io abbracciavo Jylien Monthgomery. La mia vera madre.

«Tua madre è questa?»

Annuii.

«Vi somigliate molto».

«Grazie».

«Io e mia sorella eravamo molto diverse, sotto tutti i punti di vista».

«Justin mi ha detto che sua madre è morta quando era piccolo».

Kindra spostò lo sguardo dalla foto a me. Sembrava sorpresa da quanto aveva appena sentito.

«Da quanto vi conoscete esattamente?»

«Poco tempo».

Sorrise senza togliermi lo sguardo di dosso. Appoggiò la foto al suo posto.

«Non ne ha mai parlato con nessuno. Ma lo ha fatto con te. Helan è sempre tornato da me. Non si fida di nessuno. Ma lo ha fatto, con te. Cosa c’è di così speciale che attrae tutti verso Zara?».

Restò a guardarmi come se quello che aveva appena detto le fosse uscito dalla bocca senza alcun controllo.

Come se un pensiero nella sua testa fosse fluito liscio come l’olio dalle sue labbra senza rendersene conto. Per un attimo ci fu silenzio.

Kindra non mi staccava gli occhi di dosso e per un istante ebbi l’impressione che in me avesse visto qualcosa di strano. Diverso. Non speciale ma solo orribile.

«Non... non saprei» balbettai in cerca di una risposta plausibile da dare.

«Fa niente. Immagino che Justin mi darà risposte».

«Oh... ecco... lo conosco da poco e lui conosce poco me, perciò... » Lasciai cadere il discorso quando mi accorsi che era talmente presa dai miei libri che nemmeno stava prestando attenzione. Ne estrasse uno piuttosto vecchio, un po’ impolverato e prese a sfogliarlo ignorando le nuvole di polvere che ne uscivano pagina dopo pagina.

«Chimica eh?»

«Era di mia sorella».

Kindra s’interruppe un secondo e tenendo gli occhi su una pagina chiese: «È la ragazza della foto? Quella sul tuo comodino?»

«Sì è lei».

Chiuse bruscamente il libro e lo rimise al suo posto.

«Sai cosa vedo in questa stanza?»

«Pareti scrostate e scaffali pieni di libri».

«Dolore. Questa stanza è un pozzo di dolore senza fine. Mi viene la nausea».

Quelle parole risuonarono nella mia testa più volte. Cercai di controllare la rabbia che pulsava nelle vene ma non riuscii a trattenermi. Chiusi le mani in un pugno mentre i muscoli del collo e delle braccia si contraevano. Kindra era voltata di spalle. Sfogliava i miei libri come se fosse a casa sua, toccava le foto di mia madre come se le appartenessero e parlava.

Dio quanto parlava! Volevo che la smettesse. Subito.

«Da quanto tempo sono morti?» chiese voltandosi. Mi ci volle un grande sforzo per tornare rilassata e tenere a freno la mia collera distruttiva. Era evidente che non ero ancora in grado di controllarla ma dovevo sforzarmi il più possibile, se avessi commesso anche un solo errore sarebbe stata la fine…

«Quattro anni».

Kindra sospirò. «Mia sorella è morta quando Justin aveva appena un anno. L’ho superato. Dovresti farlo anche tu».

«Ah... Non sono brava a dimenticare».

«Non si tratta di questo ma solo di andare avanti». I suoi piccoli occhi scuri si fissarono su di me. «Mentre ti commiseravi per loro, il mondo è cambiato. Non in meglio. Bisogna darsi una mossa, rialzarsi e guardare avanti». Rimise al suo posto il libro che aveva preso poi tornò a sedersi sulla scrivania giocherellando con il ciondolo che aveva al collo. Il suo sguardo era ghiaccio così come il tono della sua voce. Era nella stanza, di fronte a me ma era come se non ci fosse.

Come se fosse finta, un ologramma. Non sorrideva mai e quando lo faceva non era spontanea, si muoveva in modo così lento da non sembrare umana e la sua voce era tagliante come il più affilato dei coltelli. E quegli occhi. Bastava un suo sguardo per ridurre chiunque in polvere. Non era una donna. Era una statua. In lei non trasudava alcuna emozione. Eppure nel sentire quelle parole tutta la mia ira cessò all’improvviso. In fondo aveva ragione. Dovevo andare avanti ma non avevo mai trovato qualcosa che mi spingesse a farlo. Aveva ragione anche sulla stanza: non era quella d’una adolescente ma una specie di camera funebre mascherata da camera da letto.

Mi sentii un po’ ridicola. Kindra non mi piaceva ma aveva ragione su di me. La sua voce glaciale mi riscosse dai miei pensieri.

«Ci sono cose peggiori di quello che ti è capitato».

«Cosa può esserci di peggio? Non ho una famiglia. Justin ha un fratello ha te... Io? Nessuno».

Kindra si guardò le unghie laccate di nero e con disinvoltura disse: «Per te famiglia è solo ciò che è legame di sangue giusto?».

Ci pensai un attimo. «Sì».

«Beh allora pensala così. Fai parte delle tua famiglia».

«Non ti seguo».

«Nel tuo sangue scorre quello di tua madre e tuo padre. Il sangue di una Monthgomery. Loro non ci sono ma tu sì. Li hai persi. Non perdere anche te o della tua famiglia non resteràniente».

Rimasi per un secondo in silenzio senza dire nulla riflettendo su quanto aveva appena detto.

Il suo ragionamento non faceva una piega e forse era così che lei aveva superato la morte di sua sorella ma io ero un po’ più lenta. Mi lasciai sprofondare sul letto e nel farlo mi scontrai contro qualcosa di duro e appuntito. Mi girai di scatto e presi il libro che avevo rubato ad Alexa.

L’avevo nascosto sotto il cuscino, un posto che ritenevo sicuro, in attesa di farmi coraggio e restituirglielo.

«Sono in mezzo a noi. È questo quello che vi fanno leggere a scuola?».

«Me l’ha dato un amica».

«E di cosa parla?»

«Non lo so» mentii «devo ancora iniziare a leggerlo».

Kindra distolse lo sguardo da me. Diede un rapido sguardo alla finestra poi disse: «Ora basta. Rivoglio Helan».

«Arriverà. Tra qualche minuto».

Kindra alzò gli occhi al cielo. Iniziava a spazientirsi. Non so perché ma ebbi l’impressione che fosse una donna abituata ad avere tutto e subito.

«Ha notato che Helan ha un sonaglino molto insolito?».

«Ah sì? Perché?»

Come aveva potuto non notare quelle iscrizioni strambe sul medaglione?

«Ci sono delle iscrizioni. Strano no? Gliele ha fatte lei?»

«Non ho mai fatto caso a cosa portasse al collo, per me è solo una pallina dorata ma se tu ci vedi delle iscrizioni buon per te. Helan l’ho trovato quando era piccolo. Mi sono presa cura di lui perché era diventato appiccicoso, mi seguiva sempre così sai... gli ho permesso di stare con me».

«E non è mai scappato?»

«Non per cosìtanto tempo».

«Come sapeva dove abitavo?»

«Tua madre cucina?»

Sbattei le palpebre. Rispondeva alle mie domande ponendomene altre che non c’entravano nulla?

«No, è un disastro».

«Avete un giardino però».

«Sì. Ma questo cosa centra?»

«È ben curato il giardino?»

Mi grattai la testa cercando di capire a che diavolo di gioco stavamo giocando.

«Mio padre se ne occupa nel week-end».

«Allora è messo abbastanza bene da rovinarlo».

Scoppiai in una risata fragorosa. «Si è fissato con il mio giardino?» Non riuscivo a smettere di ridere. Kindra mi fissava come se fosse una cosa del tutto normale.

«Si vede che non hai mai avuto un animale».

«No, in effetti, no».

«Beh io rivoglio il mio però».

Nell’istante in cui lo disse Helan comparve sul davanzale e con un salto agile piombò tra le braccia della padrona. Le si strofinò addosso e per un nano secondo mi parve di cogliere un sorriso sincero sul viso di Kindra.

«Cosa mi hai portato?» chiese Kindra rivolta al felino dagli occhi verdi scuro. Helan abbassò la testa e mostrò alla padrona quello che aveva trovato.

«Rose bianche. Ecco perché ti piace questo posto».

«Quelle sono di mio padre».

«Adesso non più».

Kindra si alzò in piedi tenendo Helan in braccio come un bambino. «Dobbiamo andare». Helan miagolò in segno di saluto. «Ricorda quello che ti ho detto. Il mondo è cambiato. Hai un compito e non è quello di piangerti addosso».

Rimasi un istante a pensare alle parole di Kindra. Un compito? Quale compito? Quello di andare avanti? Di buttarmi il ato alle spalle? Scesi al piano di sotto in tutta fretta cercando di raggiungere la zia di Justin prima che se ne andasse.

«Mamma hai visto la zia di Justin?»

«Se n’è appena andata» disse mia madre mentre apparecchiava la tavola.

«Perché siamo in quattro?»

«Alexa. Mi avevi detto che c’era anche lei stasera».

«Giusto» Mi avviai al piano di sopra «Chiamami quando arriva».

Quanto rientrai in camera mi sembrò di vederla per la prima volta per quello che era davvero. Mi sdraiai sul letto e iniziai a cercare qualche cosa di interessante nel libro di Alexa. Qualcosa che mi desse spiegazioni.

“ Il mondo sta cambiando. Noi crediamo che la razza umana sia la sola a popolare l’Universo ma non ècosì. La Terraè piena di misteri e loro sono in mezzo a noi. Sono astuti e non vogliono essere scoperti perché temono il peggio. L’uomo non capirebbe. Ma io sì. Ho capito che sono creature diverse ma non malvagie... non tutte almeno. A volte credo che siano più umani loro di quanto non lo siamo noi. Il mondo sta cambiando. Hanno bisogno d’aiuto. Ognuno di noi ha un compito: il mio è quello di non lasciarli morire nel dimenticatoio. Eppure questo non basta... Ci manca un tassello, il pezzo finale per completare il puzzle. C’è ancora qualcuno che non ha preso parte al proprio compito... ".

Udii la voce di Ludmilla chiamarmi dal fondo delle scale. Alexa doveva essere

arrivata. Infilai il libro sotto il cuscino e scesi al piano di sotto con la testa che rimbombava di pensieri.

«Ehi» trillò Alexa non appena mi vide. «Siediti accanto a me» disse «ho una grande notizia da darti».

Mi sedetti accanto a lei mentre David e Ludmilla prendevano posto davanti a noi.

«Sarebbe?» chiesi alzandomi.

«Zara che fai?»

«Il pane. Non l’hai messo. Ci penso io» risposi aprendo il cassetto dei coltelli per cercare quello del pane.

«Mia madre ha pulito la mia stanza oggi».

«Forte» dissi mentre affettavo il pane «e che c’è di grande in questo?».

«Ha ritrovato il mio libro».

Mi fermai di colpo lasciando a metà la fetta di pane che stavo tagliando. Deglutii

poi le chiesi: «Quale libro?»

«Quello di Ronald Douglas. Era sotto il mio letto». Alexa masticava lo stufato con estrema tranquillità come se fosse una cosa normale. Ma io sapevo che non era così. Il libro l’avevo preso io ed era in camera mia adesso. O almeno c’era fino a tre secondi fa...

«Ah!» cercai di soffocare un gridolino quando il coltello mi scivolò dalle mani lacerandomi l’indice. Un piccolo taglietto sulla superficie del polpastrello. Non avevo percepito alcun dolore, solo la lama fredda del coltello che mi squarciava la pelle... Ma di dolore neanche l’ombra.

Una piccola goccia di sangue colò sul tagliere.

«Zara! Ti sei fatta male».

Mi madre accorse immediatamente.

«Non è nulla. Dammi un tovagliolo, faccio pressione». Si trattava di tutta una messa in scena.

La ferita si sarebbe rimarginata entro tre secondi ma per un istante mi sentii di nuovo normale.

Strinsi il tovagliolo attorno al dito poi mi concentrai sulla notizia appena

comparsa in televisione.

David alzò il volume.

“Altre due vittime sono state ritrovate nel Colorado. L’FBI sta continuando le indagini ed è arrivato alla conclusione che il Killer Indemoniato potrebbe avere uno o più complici. Pattuglie della polizia sono state chiamate in ogni posto di blocco per... ".

David cambiò canale. «Mi chiedo quando finirà questa follia» disse masticando con gusto un pezzo di stufato.

Già. Quando sarebbe finito tutto questo? Il Killer Indemoniato iniziava a mettermi paura perché ogni volta che si trattava di lui avevo quelle visioni orribili. Mi bastò solo pensarle e arrivarono. I volti insanguinati delle due ragazze uccise nel Colorado .

«Vado di sopra. Mi metto un cerotto» dissi correndo più in fretta che potei.

Corsi in bagno e mi posizionai di fronte allo specchio.

Una ragazza bionda e una mora con gli occhi color del mare si riflessero sul vetro opaco.

«Jules» sussurrò la ragazza mora «il suo nome è Jules» disse indicando la

ragazza affianco a lei. Si tenevano per mano. Erano amiche. Era la prima volta che una di quelle vittime mi diceva il proprio nome. Jules si protrasse per dire qualcosa ma dalla sua voce non uscì nulla.

O meglio, non uscirono parole ma solo sangue. Nero sangue che colava dalla sua bocca. «Aiuto» disse la ragazza mora. Piccole goccioline scure iniziarono a sporcarle la mano, se la portò al naso e capì che era da lì che provenivano. I loro esili corpi erano dilaniati come quelli degli altri ragazzi. I loro occhi chiedevano giustizia. La testa iniziò a pulsarmi ferocemente quando altri visi si accavallarono l’ uno sull’altro.

Grida. Quelle maledette grida mi facevano impazzire.

«Non so come aiutarvi» dissi fissando quei volti che non conoscevo ma che chiamavano me, volevano me, speravano in me. Bocche scorticate si mossero in sincrono pronunciando due semplici parole.

«Tu puoi».

Chiusi le palpebre e strinsi forte in modo che l’unica cosa che vedessi fosse l’oscurità. Il buio.

Quando riaprii gli occhi era tutto svanito, mal di testa compreso. La ferita si era rimarginata. Dopo essermi lavata la faccia uscii dal bagno. Mi accorsi solo allora che camera mia era stata messa a soqquadro.

I cassetti dell’armadio aperti, i libri a terra, le foto della mia faglia strappate in tanti piccoli pezzi...

Mi mancò l’aria al solo vedere com’era stato ridotto l’unico posto che ritenevo sicuro.

La mia ultima fonte di sicurezza era appena stata violata nel modo più brutale del mondo.

L’ occhio mi cadde subito sul letto dove, sotto il cuscino, avevo riposto il libro di Alexa prima di scendere. Spostai il cuscino con rabbia. Non c’era più. Il libro non c’era più. Mi aggirai per la stanza per controllare che non mancasse nulla. La mia paghetta mensile era stata dimezzata e alcuni dei miei bracciali erano spariti. Non era normale che un ladro rubasse un libro. Non aveva senso.

Ok i soldi e i bracciali si erano accorti che alcuni erano di valore ma... il libro? La finestra della mia camera era stata scassinata. Chiunque si fosse introdotto doveva essere piuttosto agile. Non riuscivo a capire. Com’era possibile che Alexa avesse ritrovato il suo libro se si trovava in camera fino a qualche minuto fa?

Estrassi dalla tasca il cellulare e digitai il numero della polizia.

«Polizia?»

«Sì».

«Dovete venire subito».

«Cos’è successo?»

Mi avvicinai al davanzale. Qualcosa d’indistinto si mosse. Non era il vento.

«Qualcuno è entrato in camera mia».

CAPITOLO 8 - Segreto

«Allora avete trovato qualcosa?» Non avevo mai sentito la voce di Ludmilla così allarmata.

«Si è trattata di una semplice effrazione. La ragazza ha detto che mancano alcuni soldi e gioielli, tipici furtarelli che avvengono in città. I miei uomini sorveglieranno la zona per oggi, ma dubito che il ladro tornerà».

«Ne è sicuro?»

«Una volta colpita un’ abitazione non tornano mai nello stesso posto se non si tratta di una villa o roba simile. Non è il vostro caso. Faremo il possibile per capire chi è stato, sa... ultimamente questi furti sono aumentati».

«La ringrazio molto agente» disse Ludmilla stringendogli forte la mano.

«Si figuri».

Non appena l’agente uscì di casa seguito dagli altri poliziotti David parlò per la prima volta da quando avevo chiamato la polizia.

«Credo... sia meglio che rimani a casa oggi. Resta con tua madre. Io vado al

lavoro e per qualsiasi cosa chiamatemi».

«Okay».

David si sporse verso di me «Stai bene?» chiese con tono estremamente premuroso.

«Tutto bene» risposi abbracciandolo forte. Si staccò da me a fatica e dopo aver salutato Ludmilla uscì di casa con un espressione preoccupata in volto.

«Allora... vogliamo fare qualcosa?» chiese mia madre per risollevarmi il morale.

«No grazie, penso che andrò a fare i compiti».

«Sicura che non ti vuoi rilassare?»

«Ho bisogno di non pensare».

Mia madre non disse nulla e silenziosamente attaccò il ferro da stiro. Io salii al piano di sopra con un peso enorme sullo stomaco. Quando arrivai davanti alla mia camera per poco non mi mancò il fiato. Non la riconoscevo più. Non era più mia. Ancora non riuscivo a capire che fine avesse fatto il libro, la mia unica possibilità, se pur assurda, di trovare qualche risposta a quello che mi stava succedendo. Rimasi a fissare quel caos, che ricordava perfettamente quello che avevo in testa, quando a un tratto sul davanzale intravidi due occhi gialli che mi

scrutavano dall’altro lato della stanza. Mi sporsi in avanti. Ma ciò che avevo visto si rivelò essere solo un gioco di luce tra le foglie degli alberi. Il cellulare sulla scrivania iniziò a squillare. Attraversai la stanza a i decisi e afferrai il telefono senza nemmeno guardare chi mi stesse chiamando.

«Pronto?»

«Ehi Zara, sono Alexa».

Diedi un occhiata all’orologio. «Non dovresti entrare in classe?»

«Sì, beh... volevo sapere come stavi».

«Tutto a posto. Oggi resto a casa però».

«Okay, senti c’è qualcun altro che vorrebbe parlarti. Adesso te lo o».

Dall’altro capo del telefono una voce dolce e preoccupata al tempo stesso mi fece formicolare tutto il corpo.

«Sono Justin. Alexa mi ha detto quello che è successo».

«Oh cielo... non è successo nulla».

«Nulla?» Il tono della sua voce cambiò. Sembrava agitato. «Ma tu stai bene?»

«Si certo. Non mi sono fatta niente».

«Davvero? Me lo giuri?»

Rimasi per un attimo in silenzio. La sua voce tremava. Era seriamente preoccupato per me. Involontariamente un piccolo sorriso spuntò sulle mie labbra.

«Te lo giuro».

«Bene. Dopo la scuola io e Alexa veniamo a trovarti».

«Okay».

Riattaccai il telefono mentre l’enorme peso che avevo sullo stomaco si dissolveva lentamente.

«Zara!» la voce di mia madre dal fondo delle scale rimbombò per tutta la casa. «Mi vai a prendere la macchina per fare la pasta?».

Spalancai gli occhi. «Ma tu non la sai fare la pasta!»

«Portami giù quella cosa! Ho trovato un programma in TV dove insegnano a farla».

«Dov’è?» le gridai senza porle altre domande alle quali non mi avrebbe risposto.

«Soffitta!»

Sbuffando mi recai verso le scale che portavano alla soffitta. Aprii la porta e mi resi conto che non vi ero mai stata. La soffitta non era altro che una grande stanza tutta impolverata dove c’erano scaffali e scatoloni. La mia attenzione fu catturata da un carillon tutto impolverato nell’angolo di uno scaffale. Ci soffiai sopra per cercare di togliere la polvere e girai la manovella per attivarlo.

Dal carillon uscirono due ballerini che cominciarono a danzare sulle note di una canzone.

Li guardai meglio: non erano ballerini ma fate. Due imponenti ali bianche spuntavano da dietro le loro schiene sottili all’altezza delle scapole. La melodia assomigliava a una ninna nanna dal suono melodico e ipnotico, ne rimasi incantata. La musica cessò e il carillon si richiuse. Assomigliava a una specie di piccolo baule antico, tutt’intorno era decorato con incisioni dorate che ne mettevano in risalto il color marrone antico. Rimisi il carillon al suo posto e mi voltai quando udii un tonfo risuonare in tutta la soffitta. Uno scatolone era caduto da una mensola non molto alta. Lo raccolsi.

La scatola era stata sigillata con il nastro adesivo e ci volle un po’ per riuscire ad aprirla.

«Forse la macchina per la pasta è qui ».

Aprii la scatola. La macchina della pasta non c’era. Al suo posto però vi erano un mucchio di ricordi che pesavano come macigni sull’anima. C’era la mia infanzia. La mia vecchia vita.

Tutti oggetti di famiglia che avevo deciso di portare con me quando avevo traslocato per andare a vivere con David e Ludmilla. Era incredibile quante cose ci fossero e quanto fe male riportale a galla. C’erano i libri di storia e di letteratura di Layla insieme alle foto che aveva scattato quando era andata in gita con le sue amiche, gli smalti, i gioielli, lo stereo e tutti i cd preferiti di papà, i miei vecchi pattini e poi quel profumo… quello di mia madre che invadeva la scatola.

Mi si strozzò il respiro in gola. Il cuore iniziò a battere senza sosta, mi girava la testa, le ginocchia iniziarono a tremare. Mi mancava il respiro.

No, a mancarmi era lei. Terribilmente.

Mi massaggiai piano le tempie mentre cercavo di calmarmi.

Ma il profumo di mia madre, il suo odore, erano impressi nella mia mente, un’immagine così reale che quasi mi sembrava di averla accanto. Tutte le cose

erano rimaste esattamente uguali a come le avevo sistemate quando avevo preparato la scatola. Layla era venuta bene, era sempre stata molto fotogenica. La mia “sorellina” maggiore. Avrei dato qualsiasi cosa per abbracciarla, anche una volta soltanto, per abbracciare ognuno di loro avrei dato volentieri la vita. Mentre guardavo le immagini notai che non c’erano solo quelle della gita ma anche quelle che avevamo fatto il Natale precedente. L’ultimo che avevo ato in compagnia della mia famiglia. Erano buffe, non me le ricordavo così allegre, ma forse era solo la nostalgia di quei momenti che me li faceva sembrare ancora più belli di quanto non lo fossero stati allora. Mio padre aveva quell’assurdo cappello da Babbo Natale in testa ed io e mia sorella giocavamo a fare i pupazzi di neve. Io facevo sempre quello più bello, Layla s’innervosiva perché non riusciva a battermi, così cominciava la nostra battaglia a palle di neve. Nella mia mente vedevo tutte quelle immagini e il dolore che provavo era così grande che credevo di collassare da un momento all’altro. Era un bruciore fortissimo al petto, come se mi stessi ustionando e questa volta non si erano formate vesciche che poi sarebbero scomparse, questa volta il bruciore non se ne sarebbe andato via tanto facilmente. I ricordi non smettevano di assalirmi: a mia madre non piaceva molto essere presa a palle di neve, lei preferiva fare l’orma dell’angelo, perché una volta mio padre le aveva detto che lei vi somigliava. E, infatti, era vero, era un angelo bellissimo.

Così lei, per farlo felice, lo faceva sempre in modo tale da non potersi scordare il complimento che le aveva fatto.

Una lacrima rotolò lungo le mie guance. Lasciai scorrere le dita sul volto di mia madre e di mio padre che nella foto stavano ridendo mentre mio padre teneva me e mia sorella sulle spalle. I miei genitori si erano amati molto. Stavano sempre dalla stessa parte e raramente litigavano. Ricordo che mia sorella si divertiva a prenderli in giro perché diceva che assomigliavano a due adolescenti un po’ troppo cresciuti.

«Giuro che se dovessi sposarmi non mi comporterò mai così, è sdolcinato»diceva sempre Layla.

«Scusa ma non è lo stesso che fate anche tu e Reed?» domandava mia madre e lei sorrideva pensando a lui. Layla aveva sempre avuto molti pretendenti ma Reed era stato l’unico che aveva amato. Dopo la sua morte era sparito, distrutto dal dolore. Eravamo tutti convinti che si sarebbero sposati… che sarebbero stati insieme per sempre… ma il destino aveva disintegrato il loro sogno e Reed non aveva più trovato una ragione per vivere. Ero piccola quando loro due erano fidanzati e vedere mia sorella così felice con lui mi faceva credere che le favole esistessero davvero… non avevo ancora visto niente della morte e del dolore. Comunque i miei genitori sostenevano che i loro comportamenti erano romantici, ed io restavo a guardare quando si abbracciavano o si mettevano a ballare. Lo trovavo dolce, era il segno del loro amore. Layla invece si divertiva a fare delle smorfie che innervosivano mio padre, il quale poi si vendicava prendendola a cuscinate sul divano. Non era mai stata una sentimentalista e aveva sempre odiato i film romantici ma credeva nell’amore, anche se non in quello eterno.

Lei credeva che bisogna vivere ogni attimo della vita, senza rimpianti, senza paura. Altro ricordo. Altra sofferenza. Altra lacrima a rigare il mio viso e una ferita profonda a spaccare in due il mio petto.

Raccolsi tutto il mio coraggio e frugai ancora nello scatolone e trovai il peluche preferito di mia sorella: un orsacchiotto marrone che le avevo regalato per il suo compleanno quando avevo 4 anni. Lo presi e lo strinsi al petto mentre lasciavo che le mie guance si bagnassero di lacrime di dolore. Anche nel peluche riconobbi l’odore di mia sorella, diverso da quella di mia madre, più allegro e spensierato. Ebbi l’impressione, così reale, che fosse ancora viva e che lo stesse abbracciando proprio come aveva fatto la prima volta che lo aveva visto. Ma era solo una stupida illusione.

Mi asciugai le lacrime con il dorso della mano e appoggiai il peluche per terra. Frugai in fondo allo scatolone dove trovai una cosa alla quale non avevo mai fatto caso: il diario di mia madre.

Lo presi e cominciai a rigirarmelo tra le mani. Il diario era avvolto in una custodia di cuoio, la sfilai e rimasi colpita dai suoi colori: in mezzo al diario c’era uno strano simbolo, una specie di rombo color rubino circondato da quei ghirigori argentati e agli angoli c’erano altri rombi bianchi più piccoli, tutto era di un verde acqua molto chiaro. Le pagine erano ingiallite per via del tempo e la scrittura raffinata di mia madre gli dava un tocco più antico. In qualche pagina c’era anche un disegno. Mia madre era davvero brava a disegnare.

Sfogliai un altro paio di pagine e trovai il ritratto di mio padre. Victor O’ Connors c’era scritto a fianco del disegno che lo raffigurava di profilo. Nella pagina successiva c’era il mio ritratto e quello di mia sorella. Layla e Zara Monthgomery aveva scritto in basso a destra. Io e mia sorella eravamo raffigurate mentre ci abbracciavamo.

Nell’altra pagina c’era invece il suo ritratto: si era raffigurata mentre disegnava. Jylien Monthgomery c’era scritto in basso alla fine della pagina. Continuai a sfogliare il diario e vi trovai alcuni disegni che rappresentavano delle formule chimiche, questi doveva averli lasciati mia sorella: erano più che altro schemi di formule oppure appunti che, chissà per quale strana ragione, erano conservati nel diario segreto di mia madre. Ma all’interno del diario c’erano anche disegni che ritraevano degli angeli, rappresentazioni bellissime che mia madre aveva curato nei minimi dettagli, ma non erano angeli normali: avevano le ali nere, i vestiti lunghi e bianchi con i bordi sfilacciati, gioielli dorati alle braccia e cavigliere ai piedi, il trucco pesante e le labbra rosse, le orecchie a punta e canini insanguinati che splendevano dai loro sorrisi tetri. Ed erano tutte donne. Erano creature dannate, che mia madre aveva rappresentato mentre fissavano la luna o mentre sguainavo la spada. Molte di loro, infatti, erano ferite e avevano i vestiti del tutto stracciati che davano loro un aspetto dark. Appoggiai il diario per terra pensando che non era molto carino leggere ciò che aveva scritto mia madre, magari erano cose personali.

Lo fissai, poi decisi di aprirlo. Con il cuore che batteva all’impazzata cominciai

nuovamente a sfogliare le pagine una a una con una velocità assurda. A un tratto mi cadde tra le mani una cosa della quale prima non mi ero accorta. La presi e mi accorsi che si trattava di una lettera. La rigirai un po’ prima di decidermi a leggerla poi con coraggio diedi un’occhiata alla data per vedere quando era stata scritta: corrispondeva alla mia data di nascita. Riconobbi che la lettera era stata scritta da mia madre.

Eureka, 5 agosto 1991

“Cara Zara,

Ho scelto per te questo nome perché nella nostra lingua significa “Miracolo”. Quando leggerai questo diario e questa lettera troverai verità che da tempo ti erano state nascoste, ma spero comprenderai che una madre non può mettere a rischio la vita della propria figlia rivelandole subito la verità. Non odiarmi per questo, ho fatto solo la cosa che ritenevo più giusta per te. Tu non sei come tutte le altre ragazze e non crescerai come una di loro, tu sei speciale e crescerai con qualcosa di speciale che ben presto diventerà la tua segreta ossessione ma anche parte della tua vita. La nostra gente è antica, potente, ma ormai è priva di speranza. Tu forse, insieme alle nuove generazioni sarai il Miracolo che farà risplendere il nostro mondo. Figlia mia, tu non sei umana è importante che tu lo sappia; probabilmente adesso stai leggendo questa lettera e forse avrai già notato che qualcosa in te è cambiato profondamente.

Mi piange il cuore al pensiero che dovrai affrontare questa “ trasformazione” da sola. Quando nascerai nessuno saprà della tua esistenza tranne tuo padre e tua sorella, è la cosa migliore da fare per proteggerti. Crescerai con noi, in questa città, andrai a scuola, parteciperai ai pic-nic che la scuola organizzerà, giocherai con le tue amiche, condurrai una vita normale. Ma non sarà normalità, sarà solo apparenza. È la cosa più saggia da fare, tu non puoi sapere fin dall’inizio chi sei realmente, sarebbe troppo pericoloso; loro ti cercherebbero e ti ucciderebbero, come ben presto faranno con tutti i saggi del Consiglio, come

faranno con noi. Prima che io ti sveli chi sei veramente voglio che tu mi prometta una cosa: dopo aver letto questa lettera devi assolutamente cercare una persona.

Ti ho fatto un suo ritratto, in modo che tu possa riconoscerla subito. Lei è l’unica che può aiutarti, ti spiegherà ciò che io non sono riuscita a spiegarti in questa lettera. Ti prego, non odiarmi per averti tenuto all’oscuro di tutto. Sono sicura che saprai fare buon uso di tutto quello che noi ti abbiamo insegnato. Adesso devo andare… il male è sempre più vicino…stai attenta e non fidarti di nessuno. Credi sempre in te stessa, figlia mia.”

Jylien.

Appoggiai la lettera per terra con le lacrime agli occhi. Beh adesso avevo tutte le risposte.

Sapevo chi ero o meglio cosa non ero. Non ero umana. Facevo cose strane e nel libro di Douglas c’era scritto che creature diverse da quelle umane erano in mezzo a noi. I miei zii dunque?

Mia madre non gli aveva detto nulla? Loro erano umani? Era possibile che Jylien e Crystal fossero sorelle adottive... Mia madre mi aveva protetto per così tanti anni da qualcosa ed io non sapevo nemmeno da cosa. Aveva scritto che dopo aver letto la lettera dovevo cercare una persona, magari avrei potuto farlo e capire come poteva conoscere mia madre così mi avrebbe aiutato.

«Non sono umana» sussurrai «ma allora... cosa diavolo sono?».

Dovevo trovare quella persona. Cercai tra le pagine del diario il suo ritratto e trovai un foglio piegato a metà, lo aprii e non riuscii a credere ai miei occhi: la zia di Justin, Kindra. Era lei la persona a cui dovevo chiedere aiuto? Era del tutto assurdo... E Justin? Lui era a conoscenza di questa storia o viveva all’oscuro di tutto come me?

Mia madre aveva scritto che della mia nascita nessuno avrebbe saputo l’ esistenza.

Ma Kindra sapeva qualcosa? Cosa esattamente? Dovevo assolutamente parlare con lei. In fondo era stato anche il consiglio che mi aveva dato mia madre. Ripresi il diario e cominciai a leggere quello che aveva scritto per cercare di capire se mi dava altre spiegazioni riguardo a quello che avrei dovuto fare, magari avevo una missione da svolgere, mi sarebbe andato bene qualsiasi cosa. L’importante era dare un senso a questa situazione. Presi una pagina a caso e lessi quello che c’era scritto.

Eureka, 3 aprile 1991

Caro Diario,

Siamo giunti in questa terra che loro chiamano “della Pace”, ma ho paura che il terrore sia arrivato anche qui. Non so se riuscirò a proteggere la mia famiglia. La figlia che porto in grembo nascerà tra poco. Devo provare a salvare il nostro mondo e a sconfiggere questo Nemico… forse non ècosì grande come sembra… Insieme riusciremo a dominare sulle tenebre.

Eureka, 14 maggio 1991

Il terrore prevale: Il Consiglio è nel panico, non sappiamo come reagire. I Sicari avanzano e massacrano la nostra gente. Oggi sono giunti e hanno distrutto le nostre case, hanno bruciato la foresta… pezzo dopo pezzo questo mondo crollerà e resterà solo fumo e cenere…è un giorno cupo, tutti i giorni lo sono del resto ma oggi lo è più del solito e la causa non sono solo gli incendi: Mirro è morto. Uno dei più saggi e potenti del Consiglio ci ha lasciati. Riesco ancora a sentire le urla, i pianti… tutto questo deve finire…

Eureka, 26 giugno 1991

Oggi c’è stata speranza: Kindra ha messo da parte l’orgoglio e ha sacrificato la cosa alla quale teneva di più per la sua gente. Ha lottato contro ciò che amava, anche se lei sostiene che è un amore finito perché le cose sono cambiate. A Kindra non piace parlare di quest’argomento, perché ora è solo un Nemico. L’ho pregata di non ucciderlo, ma lei non mi ha dato retta.

È andata in guerra con il solo scopo di affrontarlo e lui non ha reagito. Si è ritirato. Ma tornerà. Non avrà pace fino a quando non avrà vendicato lo Stregone Nero.

Eureka, 20 luglio 1991

La mia gente non esiste più. Sta morendo. Ogni giorno è uguale all’altro: morte. Ovunque mi giro vedo cadere giovani, vecchi, bambini alcuni di essi hanno anche perso la mamma.

Riuscire a dormire è diventato impossibile: continuo ad avere incubi, volti che chiedono aiuto, gente ferita e grida… tante grida che implorano di non essere uccisi. Bambini che si domandano dov’è il loro papà, fratelli grandi che si occupano di quelli piccoli perché i genitori non ci sono più… di Eureka non è rimasto nulla e la nostra magia non è sufficiente. Anche le Angel Dark sono deboli. Kindra spera in un miracolo… ma molti hanno smesso di sperare. Lei pensa che potranno salvarci solo le future generazioni; lei non sa che sto portando in grembo l’unica salvezza.

Vorrei fare qualcosa ma non riesco a reagire… basta con tutto questo dolore… la Bianca Terra della Pace è diventata la Terra del Terrore ed io non so cosa fare.

Richiusi bruscamente il diario. Mi voltai verso gli scaffali e notai una scatola che aveva il marchio della macchina per la pasta stampato in un angolo.

Rimisi a posto il primo scatolone e uscii dalla soffitta portando con me il diario di mia madre e la scatola. Nascosi il diario dentro lo zaino di scuola e scesi al piano di sotto.

«L’ho trovata».

«Bene».

La pasta di Ludmilla non fu un totale disastro ma non riuscivo a godermela. La mia testa era presa da quello che avevo trovato in soffitta. Nel pomeriggio Alexa

e Justin erano venuti a farmi visita ma avevo preferito non vederli. Avevo bisogno di stare da sola.

Dopo cena mi recai subito nella camera adiacente alla mia, quella degli ospiti, che, vista la situazione, avevo assunto come di mia proprietà. Prima di andare a letto decisi di fare qualche ricerca su questa Bianca Terra della Pace per cercare di capirci qualcosa. Entrai in un sito di mitologia antica dove un professore esponeva alcuni punti di un codice che gli antichi greci utilizzavano per individuare creature mistiche. Uno dei punti diceva: “Le creature mistiche si nascondo tra noi esseri umani si spostano come nomadi alla ricerca di luoghi sicuri in cui non essere scovati. Solitamente stabiliscono un loro territorio, lo delimitano e poi vi danno un nome di cui solo loro sono a conoscenza. Questo territorio li protegge, li tiene al sicuro e permette loro di sopravvivere”. Ci riflettei su un secondo. Stabiliscono un territorio. Lo delimitano. Vi danno un nome di cui solo loro sono a conoscenza. Bianca Terra della Pace. Ecco cos’era: Eureka. Mia madre doveva essere giunta a Eureka per cercare rifugio dagli umani solo che le cose non erano andate come previsto...

Cercare di prendere sonno divenne un impresa impossibile: mi giravo e rigiravo nel letto come una pazza scalmanata. Allora mi venne in mente una cosa. Mi vestii in fretta e facendo attenzione a non svegliare David e Ludmilla uscii di casa chiudendo piano la porta. Portai con me l’ombrello e la borsa e iniziai a correre sotto la pioggia. Corsi fino ad arrivare al cimitero. L’interno di quel luogo, non era decisamente il massimo era una specie di giardino gigante dove l’erba non cresceva mai e dove c’erano solo un sacco di tombe prive di fiori. L’aspetto di quel cimitero mi ricordava molto uno di quei luoghi perfetti per un film dell’orrore. Era la prima volta che ci venivo. Mi recai nella zona ovest del cimitero, davanti alla tomba dei miei genitori.

Lì i fiori c’erano; più precisamente c’era un mazzo di rose bianche. Il mazzo era fresco, qualcuno doveva averlo messo da poco. Che fosse stata Kindra?

Guardai le foto della mia famiglia da sotto l’ombrello, ma questa volta non piansi.

«Non preoccuparti mamma, scoprirò la verità».

«Quello che ti è successo è stato davvero terribile». Laura se ne stava appoggiata al mio armadietto con lo sguardo fisso sul bracciale d’oro che le era stato comprato come premio per aver vinto il torneo.

«Hanno rubato metà della mia paghetta».

Matt arrivò dal fondo del corridoio con in mano un mucchio di libri «Nicklas vuole che li porti in biblioteca e li cataloghi tutti».

«Un lavoraccio, immagino» rispose Laura facendo una smorfia.

«Oh che carino, Jeremy ti ha comprato un braccialetto» disse lui schernendola. Appoggiò i libri a terra e rivolse il suo sguardo su di me.

Prese a toccarmi i capelli, rigirandoseli tra le mani.

«Non ha mica bisogno che le fai i bigodini» sbottòLaura fulminandolo.

«Che c’è? Jeremy non ti ha comprato il bracciale che volevi?» domandò lui ironico. Quei due potevano negarlo quanto volevano mai si piacevano. Avevano avuto una specie di relazione qualche mese prima, poi Laura aveva deciso di lasciarlo per via del suo atteggiamento da cascamorto. Mi aveva detto che non le interessava più ma era ovvio che non era così.

«Non è un regalo di Jeremy» sbottò lei «Me l’hanno regalato i miei».

«E come mai il piccolo Jeremy non ti ha fatto un regalo?» lo sguardo di Laura saettò verso Matt. Mi trovavo al centro di un conflitto apocalittico tra due stupidi che non riuscivano a dirsi quanto l’uno tenesse all’altra.

Avevo una gran voglia di andarmene. Jeremy arrivò con il sorriso stampato sulla faccia. Si avvicinò a Laura prendendola per i fianchi. Lanciai un rapido sguardo a Matt.

«Allora» esortò Jeremy «Che si dice di bello?».

«Dei ladri hanno rubato a casa di Zara» rispose Laura.

«Cavolo…Che farà la polizia adesso?» domandò Jeremy.

«Sorveglieranno casa mia. Credono che non torneranno più, comunque».

«Che storia» disse Jeremy fissando lo schermo del telefono.

«Magari potremmo uscire di nuovo per tirarti su il morale». Fulminai Laura con lo sguardo «Vedrai questa volta andremo in un locale molto più bello».

«Un’ottima idea»Matt sorrise«Così Zara potrebbe finalmente concedermi quel famoso ballo».

«Per quello credo che dovrai aspettare mio caro. È già impegnata».

Laura strabuzzò gli occhi «E con chi?»

«Con Allen» rispose Jeremy facendo spallucce.

«Davvero?» Laura mi puntò i suoi occhi castani addosso «E da quando?».

«Noi non stiamo insieme» risposi bruscamente.

Matt rise«Come potresti stare con lui quando puoi avere me».

«Oh sei solo invidioso perché nessuna ti si fila»disse Laura. Mi afferrò il polso «Non mi hai detto niente! Che razza di amica sei!»

«Non sto con lui» sbottai liberandomi dalla sua presa. «E per la discoteca…non contate su di me» dissi oltreandoli.

«Cavolo, devo portare questi in biblioteca» disse Matt al suono della camla. Diede una rapida occhiata a Laura e Jeremy, ancora mano nella mano poi se ne andò.

«Vado anch’io. Diritto se mi aspetta» Jeremy diede un leggero bacio sulle labbra di Laura prima di andarsene.

«Ehi frena! Dove pensi di andare? Dobbiamo parlare».

«Vado un secondo in bagno» le dissi «Vieni con me?».

«Assolutamente! Ho un mucchio di cose da dirti».

Aprii bruscamente la porta del bagno e mi fiondai davanti allo specchio. Laura tirò fuori dalla sua borsetta un rossetto rosa chiaro e un paio di ombretti.

«Tu verrai» disse in tono che non ammetteva repliche.

«Laura, abbiamo già appurato che le discoteche e i locali non fanno per me».

«Non ti sei divertita la volta scorsa?» Prima che potessi risponderle continuòdicendo«Lo so. È per colpa di Matt. Non fa altro che girarti attorno. Èfastidioso, lo capisco» Nella sua voce c’era una nota di gelosia che non ò inosservata.

«Non è per quello. E comunque lui lo fa solo per innervosirti».

Laura mollò il mascara che aveva in mano «Tu credi?».

«Sì, penso proprio di sì».

«Può darsi» si ò un velo di mascara sulle ciglia «La cosa comunque non m’interessa. C’èJeremy adesso».

«È di lui che volevi parlarmi?»

«Piùo meno». Io e Laura non avevamo mai avuto conversazioni molto profonde.

Non ero in grado di dare consigli alla gente e Laura non era decisamente capace di sostenere argomenti che non fossero shopping e centri di bellezza. Si bloccò un secondo poi mi chiese: «Che ne pensi di Jeremy?».

«Che vuoi dire?»

«Credi che sia… uno a posto?»

Ci riflettei su un momento. Jeremy Louis Miller. Alto, occhi chiari, capelli biondi, giocatore di football, cascamorto patentato.

«Devo essere sincera?» lei annuì «Assomiglia molto a Matt».

«Che?» Laura scoppiò a ridere «Non assomiglia a Matt».

«Okay, allora mi sarò sbagliata».

«Certo, ècosì. Jeremy sa essere intelligente, a volte».

«Mi sembra stupendo».

Laura aprì il tappo del rossetto con decisione. Il rumore echeggiònel bagno. Respirò a fondo poi richiuse il rossetto.

«Forse hai ragione. Si assomigliano, anzi sono uguali».

«Identici direi».

«Com’è possibile che mi vado a beccare proprio quelli più… più…».

«Idioti» dissi terminando la frase al posto suo.

«Già.»

Feci una pausa. «Provi ancora qualcosa per Matt?» le chiesi quasi in un sussurro.

Laura scosse la testa. Respirò a fondo. «Non lo so» ammise «Non ci capisco niente».

Fissai la mia immagine allo specchio cercando di trovare qualcosa da dire ma dalla bocca non mi usciva alcun suono.

A riprendere il discorso fu Laura «Sono confusa. Maledizione! Lo diceva mia madre che innamorarsi è un fregatura».

«Quindi… eri innamorata di Matt?»

«Accidenti! Sì. Forse. Non lo so».

«Hai detto sì».

«Eh?» Laura mi guardò perplessa «La prima risposta che mi hai dato è stato sì».

«Oh… Non sono sicura che conti» disse voltandosi verso lo specchio.

«Magari invece conta».

«Dici? Scusa, ma cosa ne sai dell’amore? Insomma… l’hai mai avuto un ragazzo? Da quando ti conosco non credo che tu ne abbia avuto uno».

«Pensavo dovessimo parlare di te non di me» risposi irritata.

«Giusto, ma è un argomento che dovremmo affrontare ogni tanto».

«No, non dobbiamo. Non per forza».

«Okay. Era solo un’idea».

Inspirai a fondo «Esattamente di cosa volevi parlarmi?».

«Jeremy vuole che mi metta con lui».

«Tu no?»

«Non lo so. Forse no».

«Allora…».

«Non credo funzionerebbe».

«Non gli hai dato nessuna risposta?»

«No. Dovrò farlo prima o poi».

«Sei innamorata di Matt. Si vede» Laura non disse nulla. Mi vennero in mente i consigli di mia cugina sul dare le possibilità e mi sembrò opportuno usarlo «Dagli una possibilità».

«A Matt? Non funzionerà. Ci abbiamo già provato».

«Se gli dici quello che provi, le cose andranno diversamente».

«Ho l’impressione che non sia del tutto capace di amare. Credo che non riesca

ad affezionarsi intensamente a qualcuno. Si tratta di un gioco per lui. Una ragazza vale l’altra. Non è in grado di amarne una con tutto il suo cuore. Non gli riesce, forse non sa nemmeno come si fa».

«Cosa pensi di fare? Se Jeremy non ti piace così tanto non dovresti stare con lui. Puoi sempre aspettare e vedere come va».

«Sei diventata molto saggia sai» disse Laura mettendosi il rossetto «Vedrò come vanno le cose».

«Una buona scelta».

«Credi che esista il vero amore? Sì, ho fatto una domanda profonda. Aiuto, cadrò nel baratro».

Risi alla sua battuta ma non le risposi. Non sapevo neppure cos’era l’amore. Non ero sicura che esistesse.

«Secondo me esiste. Da qualche parte. Gli piace farsi trovare. È un giocherellone».

«Può darsi. Io non ci credo».

«Tu e Justin allora?»

«Non c’è niente tra me e lui».

«Ma Jeremy ha detto…».

«Lascia perdere. Io sto bene senza nessuno tra i piedi».

«Ne sei sicura?»

«Sicurissima».

«Sei troppo dura con te stessa».

«Be’ io…».

«Dovresti darti un’occasione. Io la coglierei, salterei addosso a Justin all’istante» rise «Seriamente Zara, hai davvero così tanta paura di innamorarti? Fa male, ne hai l’esempio vivente davanti agli occhi, però è anche molto bello». Laura ci credeva davvero. Credeva davvero che innamorarsi fosse bello nonostante stesse soffrendo per Matt. Era un lato di lei che non avevo visto, quello da coraggiosa e romantica. Se avevo rischiato con Justin avrei potuto farlo anche con lei. Con prudenza ma avrei potuto rischiare.

«L’amore mi fa paura ma non è solo questo. Ho il terrore di donarmi. Quando ci

si dona agli altri si cedela parte più importante che si possiede: se stessi. È come dire all’altro che deve compiere una missione, quella di prendersi cura di te e, se per qualche motivo la missione fallisce, sono io a rimetterci. Agli altri non importa nulla di ferirti o di deluderti. Se la missione fallisce mi sarò ceduta inutilmente e non potrò tornare indietro. Ho paura di donarmi perché ho il cuore troppo fragile e non può subire altre violenze».

«Ti capisco» rispose con tenerezza. «Ma come dice il nostro autista preferito George. La ruota gira».

«Un giorno girerà dalla tua».

Ripensai alle sensazioni che avevo provato stando con Justin. I battiti del mio cuore, riemersi dopo tanto tempo e la serenità che avevo provato.

Forse quel giorno si stava avvicinando.

CAPITOLO 9 - All’improvviso

Una ragazza incappucciata sorrise.

Portava una lunga veste celeste e un paio di sandali di cuoio che si attorcigliavano alle caviglie, era seduta su un prato e leggeva. A un tratto si tolse il cappuccio mostrando un viso pallido dai tratti delicati; riuscivo a vedere solamente un paio di occhi azzurri, il resto del volto era coperto da una maschera argentata. Provai ad avvicinarmi a lei ma non mi vide, come se fossi una spettatrice all’interno del mio stesso sogno. Continuò a leggere fino a quando non le si avvicinò un’altra ragazza anche lei incappucciata. Chiamò la ragazza che stava leggendo e quella sorrise alzando gli occhi dal libro. Si levò in piedi. Erano una di fronte all’altra.

Si voltarono contemporaneamente verso di me.

La ragazza incappucciata si tolse il cappuccio e nello stesso istante l’altra ragazza si levò la maschera argentata. Jylien e Kindra sorrisero. Mi svegliai di soprassalto e nello stessomomentola sveglia suonò. Mi alzai a fatica, la testa che mi girava terribilmente. Dopo essermi vestita in fretta lanciai una breve occhiata al mio zaino. Estrassi il diario di mia madre, lo aprii e il ritratto di Kindra mi cadde tra le mani. Come faceva a conoscere mia madre? M’infilai il disegno in tasca ancora indecisa sul da farsi. Era meglio non commettere errori e valutare bene la situazione prima di agire. Dovevo assolutamente trovare qualche informazione sulla zia di Justin perciò, per quanto mi dispie, dovevo indagare anche su di lui. Decisi che lo avrei fatto durante l’ora d’informatica. Inspirai profondamente poi scesi al piano di sotto.

Quando arrivai a scuola Alexa mi aspettava davanti alle scale principali.

«Ci sono novità» dichiarò con un largo sorriso sulle labbra.

«E cioè?»

«Questa mattina è arrivato un nuovo gruppo di studenti in visita al liceo».

«Siamo alla fine del semestre... Che sono venuti a fare?».

«Non ne ho idea ma ci sono ragazzi stupendi e... anche delle belle ragazze. Se fossi in te mi terrei Justin ben stretto».

Impallidii.

«Oh... no ti stai sbagliando di grosso. Davvero... io e Justin siamo... ».

«Non dire che siete solo amici».

«Ma è vero».

«Avresti dovuto vederlo al telefono, la sua non era di certo preoccupazione da semplice amico».

«Ti ricordo che hanno rubato in casa mia».

Alexa inarcò un sopracciglio.

«Ci sta. Allora come mai hai detto a tua madre che uscivi con me quando non ti ho vista per niente?».

Aprii la bocca per parlare ma non riuscii a emettere alcun suono.

«Tranquilla, ti ho coperto».

«Mm... Grazie».

Alexa mi lanciò un occhiata di traverso.

«Oh andiamo Alexa! Non ti ho detto nulla perché non c’è nulla da dire».

«Sei uscita con Justin Allen».

«Abbassa la voce».

«Non mi dire che ti vergogni di uscire con lui».

«Non è questo ». Risposi in un tono che non ammetteva repliche.

Non avevo proprio voglia che la mia vita venisse sbandierata ai quattro venti e volevo che Alexa ne stesse fuori il più possibile. Sapevo che il mio atteggiamento la feriva ma non potevo fare altrimenti. C’erano cose più importanti di cui occuparsi.

«Non sei venuta in macchina» dissi cambiando completamente argomento «chi ti ha portato a scuola?».

Lei si morsicò il labbro inferiore.

«Mi ha accompagnata mio padre».

«Tua madre glielo ha permesso?»

«Sai come stanno le cose… lo vedo poco e quando a a trovarmi vuole accompagnarmi. Dice che se non fosse per mia madre sarebbe più presente ma sappiamo entrambe che non cambierebbe nulla. Ha una sua vita adesso».

«Che intendi dire?»

Alexa mi fissò un attimo e poi disse: «Lui si è… risposato».

«Cosa? Quando? Non me l’avevi detto».

«Si è sposato qualche mese fa. Sono mancata per tre giorni... ricordi? Mi sembrava di avertene parlato».

Restai a fissarla senza dire nulla.

«Comunque ora è felice» disse Alexa rompendo l’imbarazzante silenzio che s’era creato tra noi «e non litiga più con mia madre».

«Allora andiamo?»

Alexa annuì seguendomi mentre entravo a scuola a o spedito.

«Ci vediamo a pranzo» disse dirigendosi all’ora di se.

Feci cenno di sì con la testa sbuffando un secondo prima di entrare in classe. Justin era seduto accanto al mio banco.

«Ehi».

«Ciao. Che ci fai qui?»

«Il professore è assente perciò mi hanno spedito qui».

«Allen» Matt, seduto dietro di noi, gli picchiettò sulla schiena facendolo voltare «la sai la novità?».

«Matt, non ti ho visto in giro».

«Sono stato in biblioteca a svolgere alcune faccende».

Justin soffocò una risata. «Sei tornato tra i comuni mortali»

Matt scoppiò in una risata fragorosa facendo l’occhiolino a Justin. Rimasi a osservare quella scena incredula. Justin non aveva mai dato confidenza a nessuno dall’inizio del liceo e adesso improvvisamente venivo a scoprire che lui e Matt Lee si conoscevano e dal modo in cui si parlavano sembravano quasi... amici? Non riuscivo proprio a capire cosa avessero in comune quei due.

«Allora la sai la novità?» chiese Matt tutto eccitato.

«Dimmela» rispose Justin rassegnato.

«Pare che oggi venga a farci visita un gruppo di studenti che l’anno prossimo probabilmente studieranno in questo liceo e sai qual è la cosa forte? Ci sono delle ragazze da paura!»

Justin inarcò un sopracciglio come se non fosse del tutto convinto.

«Certo, nessuno puòcompetere con te Monthgomery» disse guardandomi dritto negli occhi.

«O con Laura» risposi ricambiando il sorrisino compiaciuto che aveva sulla faccia.

«Laura. È una storia chiusa quella» disse lasciandosi cadere sulla sedia con noncuranza.

«Non sapevo questa notizia».

«Allen, mi chiedo dove tu abbia la testa. Arriveranno tra poco, comunque».

Io e Justin ci voltammo in avanti quando la professoressa Backster fece il suo ingresso in classe.

«Corso di biochimica» disse Justin rispondendo alla domanda mentale che mi ero posta.

Dove si erano conosciuti?

«È uno a posto. Strano, ma a posto. Mi trovo bene con lui».

«Oh... non devi darmi spiegazioni, sul serio. Solo... credevo non parlassi con nessuno».

«Siamo compagni di banco e Matt è un tipo difficile da ignorare».

I suoi grandi occhi verde scuro si puntarono su di me. Era una cosa sublime: mi spaventava eppure non riuscivo a staccare gli occhi da lui.

«Anche tu sei difficile da ignorare» disse dopo un po’. Mi sorrise, inconsapevole dell’effetto che quella frase aveva avuto su di me. Sentivo il mio corpo bruciare. Un battito forte e prepotente risuonò al centro del petto costringendomi ad abbassare lo sguardo che ormai non riuscivo più a sostenere.

«Buongiorno ragazzi» la voce profonda del preside pervase l’intera stanza costringendo tutta la classe al silenzio più assoluto.

«Questa mattina un gruppo di studenti è venuto ad assistere alle nostre lezioni, vi prego di essere civili e di non spaventare troppo i miei futuri alunni. Avanti ragazzi entrate!»

Dalla porta entrò un gruppo di otto ragazzi accompagnati da un bidello.

«Questo è il primo gruppo, preside. Il secondo sta assistendo all’ora di algebra» dichiarò il bidello con fierezza.

«Molto bene. Professoressa Backster li affido a lei» disse il preside uscendo dall’aula.

La Backster fece accomodare i ragazzi in prima fila e iniziò a presentarli alla classe.

«… e infine loro sono Darline, Aimee e Cassandra Granith».

Quando le tre sorelle si voltarono per salutare nella stanza cadde un silenzio tombale. Matt non aveva affatto esagerato definendole “da paura”. Erano le uniche femmine del gruppo e gli occhi erano puntati su di loro e sulla loro infinita bellezza. Una bellezzatalechefaceva paura sul serio. I lineamenti dei loro volti erano regolari, precisi. Si guardavano attorno come se venissero a contatto con il mondo per la prima volta ma non si sentissero per nulla fuori posto.

Sorrisero in segno di saluto e sulle facce dei miei compagni si disegnò un espressione da ebete.

«Hai visto? Sono uno schianto. La mia preferita è quella dai capelli arancioni» sibilò Matt studiandole a fondo.

«Niente male» ammise Justin dopo aver scarabocchiato qualcosa sul banco. Di colpo un energia incontrollata s’impossessò di me.

La biro che tenevo stretta nella mani si accartocciò sotto la potente pressione che esse esercitarono. L’impronta delle mie dita aderiva perfettamente alle profonde concavità createsi sulla superficie della biro. Avevo i muscoli facciali contratti in una smorfia di disgusto. Un rantolo profondo e cupo uscì lieve dalla mia gola. I miei occhi saettarono verso le sorelle Granith e mi accorsi solo dopo che la causa del mio mutamento era causa loro. I battiti cardiaci accelerarono vertiginosamente pensando alla loro bellezza e ai commenti che Justin avrebbe potuto fare su di essa.

Ero... gelosa? Sì. Lo ero decisamente. E non era da me. Distolsi lo sguardo dalla ragazze sbattendo rapidamente le palpebre sperando di riprendere il controllo di me. Funzionò.

«Bene credo che adesso si possa iniziare la lezione» disse la Backster.

«Dio, ho una maledetta voglia di conoscere la tipa dai capelli arancioni».

Justin si voltò rapido verso Matt. «Sei incontrollabile».

«Penso si chiami Darline» Lo sguardo di Matt era preso dalla ragazza al centro della prima fila «a te chi piace?».

Sentivo l’energia attraversare il mio corpo. Ebbi un sussulto. Justin guardò Matt un istante poi si voltò ridendo. Rimase ad ascoltare la lezione per cinque minuti scarsi poi l’attenzione si spostò su una delle sorelle: quella seduta alla destra di Darline. Mi pare che si chiamasse Cassandra.

«Se continui a fissarla la consumerai» mi resi conto solo dopo che quello che avevo pensato era fluito dalle mie labbra e arrivato all’orecchio attento di Justin. Sorrise lievemente poi si voltò verso di me.

«Dev’essere Matt... m’influenza».

«No... loro sono molto belle» Decisamente troppo belle. Era normale che Justin le guardasse.

«Quindi... ti piace Cassandra» dissi mordendomi nervosamente il labbro. Justin mi fissòsorpreso«non hai risposto alla domanda di Matt» mi affrettai ad aggiungere.

«Pensavo che non ti dovessi dare spiegazioni» rispose con un sorriso beffardo sulle labbra.

«Infatti» Mi girai di scatto. “Idiota. Ecco cosa sei Zara: una perfetta idiota”. Mi ai nervosamente una mano tra i capelli e senza volerlo mi ritrovai anch’io a

osservare quelle tre ragazze in prima fila. Celestiali. Ecco qual era la parola giusta per descriverle.

Non potevo competere. Terminata la lezione di filosofia andai a quella di informatica. Per la testa avevo ancora la mia reazione al commento di Justin sulle ragazze. Ero davvero gelosa?

«Scusa è occupato?» Una voce delicata mi costrinse a distogliermi dai miei pensieri. Mi voltai rapida. Due grandi occhi blu metallico mi fissavano sorridenti.

«No, fai pure» risposi facendo sedere Darline Granith accanto a me.

“Justin. Devo cercare qualcosa su sua zia. Cavolo, me ne stavo dimenticando”Non so esattamente come feci ma nel giro di pochi secondi riuscii a entrare nel computer della segreteria: quello nel quale erano registrati tutti i dati anagrafici degli studenti. Cercai tra gli alunni del terzo anno e trovai la cartella che conteneva le informazioni su Justin. Un po’ incerta la aprii. All’interno vi erano la sua data di nascita, l’anno di frequentazione ma nulla di più. Sulla sua famiglia non c’era molto. Abitava con il fratello maggiore, diventato il suo tutore legale da circa un anno e i suoi genitori risultavano essere morti entrambi. Uscii dalla sua cartella e tornai a fissare il desktop.

Il computer si spense di colpo.

«Professore. Si è spento».

«Devi cambiare postazione».

Mentre mi spostavo in un altro computer avevo la sensazione di essere osservata. Per entrare nel computer dovetti utilizzare l’ di chi vi era stato prima dal momento che entrare con il mio sembrava impossibile. Sbiancai quando trovai salvata una cartella con scritto “Albero Genealogico, Justin Allen”. Era un progetto dell’inizio dell’anno che tutti gli alunni avevano dovuto fare.

Lì avrei trovato qualche informazione. Cliccai sulla cartella. Il progetto non consisteva nel classico Albero Genealogico schematizzato ma era più che altro un test. La mia attenzione si focalizzò sulla settimana domanda: “Tua madre ha fratelli o sorelle?”

La risposta che Justin aveva dato era no.

Al suono della camla spensi di corsa il computer. Se Kindra non era sua zia…Chi diavolo era? Come mai mia madre la conosceva?

«Penso che verrò qua l’anno prossimo».

«Oh... Sei Darline giusto?»

«Esatto. M’interessano questi corsi».

Le sorrisi mentre i suoi incantevoli occhi blu metallico mi fissavano. I corti

capelli arancioni dalle sfumature gialle le ricadevano, tutti scompigliati, a metà del collo; la pelle candida e le labbra sottili le davano un aria docile ma c’era qualcosa in lei che mi dava l’impressione che fosse tutto il contrario. Forte. Una tosta. Gentile ma tosta. A un tratto i libri che aveva in mano le caddero e un ragazzo si precipitò immediatamente ad aiutarla. La aiutai anch’io.

«Grazie sei molto gentile» disse Darline con voce seducente al ragazzo puntandogli addosso i suoi occhi elettrici.

Il ragazzo per tutta risposta balbettò qualcosa di incomprensibile. Aiutai Darline a raccogliere gli ultimi libri che erano rimasti a terra.

«Tu sei Zara Monthgomery? La campionessa di pallavolo della scuola? Ho sentito molto parlare di te».

«Si sono io. Anche la notizia del vostro arrivo non è ata di certo inosservata » risposi indicandole la strada per andare alla lezione di matematica.

«Ci vediamo dopo a pranzo»disse sorridendo.

Annuii e mi diressi a biologia. Durante la quale non smisi di pensare a quello che avevo scoperto su Justin. Perché mi aveva mentito? Mi sbrigai a mettere i libri nello zaino quando la camla di biologia suonò. La lezione di fisica fu molto breve o almeno così mi parve perché ascoltai soltanto metà di ciò che venne spiegato, l’altra metà l’avevo spesa a osservare Aimee che era seduta due banchi più avanti. Non si era accorta che l’avevo osservata per quasi tutta la lezione. Aimee e Darline erano diversissime, era davvero strano che fossero sorelle. Aimee aveva due bellissimi occhi viola, una corporatura esile e la pelle chiara. I

lunghissimi capelli castani le arrivavano un po’ più su del fondo schiena ed erano raccolti in una lunga coda che lasciava scoperto il viso pallido dai tratti leggeri. Il suo portamento aggraziato in contrasto con quello quasi aggressivo della sorella. Quando la camla suonò Aimee si precipitò fuori dalla classe seguita da una mandria di ragazzi impazziti come se fosse una rock star famosa. Sorrisi a quella scena così buffa e mi diressi verso il mio armadietto dove appoggiai i libri e presi il pranzo.

«Carini no? I ragazzi che frequenteranno la nostra scuola promettono bene» disse Alexa sorridendo mentre sistemava i libri nel suo armadietto.

«Già... Sapevi che Justin e Matt sono amici?» Alexa si ‘accigliò.

«Matt Lee? Il seduttore?» Rise «ma non hanno nulla in comune».

«A parte il fatto che sono entrambi presi dalle sorelle Granith» mi lasciai sfuggire con un filo di rabbia.

«I miei compagni non la smettevano di fissarle. Davvero prevedibili i maschi. Però devo ammettere che mi piacerebbe essere come loro... ma tu non puoi capire. Vado a cercare il professore di trigonometria. Mi aspetti al tavolo?»

«Cosa vuol dire che non posso capirti?»

«Occhi azzurri, capelli lunghi tre chilometri. Zara sei bellissima ed io non sono di certo la tua fotocopia».

Alexa si voltò di scatto senza lasciarmi il tempo di controbattere. La vidi trotterellare in fondo al corridoio. Aveva l’aria spensierata come al solito ma per la prima volta mi resi conto che mentiva.

Arrivata alla mensa mi sedetti al tavolo e iniziai a tirare fuori il pranzo. Mi guardai attorno e scorsi Justin in un tavolo isolato da tutti gli altri che mi fissava.

«Oh andiamo!» Laura batté il vassoio sul tavolo con forza «Non sono mica poi così belle. Giusto?» mi stava fissando ma non ero sicura che la domanda fosse rivolta a me.

«Beh, di fatto lo sono» commentò Jeremy sedendosi accanto a lei.

«Darline Granith» disse Matt sistemandosi al fianco di Jeremy «Devo chiederle di uscire».

«Certo, sai fare solo quello» commentò Laura inforcando l’insalata con rabbia.

«Tranquilla, nessuna è bella come te» disse Jeremy rivolgendole un sorriso.

«Scusa, sono liberi questi posti?» disse una voce sottile e vellutata. Mi voltai e mi ritrovai davanti alle tre sorelle Granith che sorrisero entusiaste.

Tutte tranne Cassandra: una ragazza dai capelli neri e mossi con gli occhi che viravano dal viola al blu e una carnagione pallida come le sorelle. Il loro modo di vestire era diverso da quello di qualsiasi ragazza della scuola: Darline portava un paio di pantaloncini corti di jeans, una maglietta a mezze maniche nera che lasciava scoperta la spalla sinistra, scarpe da ginnastica con sopra un paio di scaldamuscoli neri. Al collo portava diverse collane d’argento e i suoi polsi erano pieni di bracciali.

Il look di Cassandra invece, era più scolastico: stivali neri che arrivavano fino al ginocchio, una minigonna di stoffa a quadri rossa e nera e una camicetta bianca. Non portava gioielli solo un polsino nero con le borchie a entrambi i polsi. Aimee invece era la più elegante di tutte: portava un lungo vestito di seta viola scuro con le spalline e un paio di sandali marroni da schiavo romano. Al polso sinistro due spessi bracciali dorati, al collo una collana di cuoio e un paio di Swarovski anch’essi viola scuro. Avevano tutte uno stile piuttosto cupo, anche se l’apparenza poteva ingannare. Cassandra mi fissò per un attimo con un espressione di disgusto sulle labbra.

«No, sedetevi pure» dissi dando un’occhiata in giro per vedere se era arrivata Alexa. Il tentativo fu vano, di Alexa non c’era ancora traccia. Si sedettero davanti a me e cominciarono a tirare fuori dagli zaini il loro pranzo. Matt e Jeremy le fissavano con la coda dell’occhio. Laura le fulminava di continuo.

«Ragazze voglio presentarvi Zara» disse Darline presentandomi alle sue sorelle. Aimee mi porse una mano, Cassandra non lo fece. Darline la guardò di sbieco e lei mi tese una mano guardandomi in cagnesco.

«Loro sono Matt, Jeremy e Laura» dissi indicando loro i ragazzi seduti accanto a me.

«Piacere» disse Aimee porgendo la mano a ognuno di loro.

Quando arrivò il turno di Laura temetti che potesse dire qualcosa di non appropriato ma infine commentò dicendo: «Davvero morbide le tue mani».

«Tu e Zara vi conoscete già? » chiese Aimee fissandomi alla sorella.

«Ci siamo conosciute in corridoio» rispose Darline.

«Verrete a studiare anche voi qui l’anno prossimo?» domandò Jeremy stranamente composto.

«Stai scherzando! Questa scuola è un disastro, pullula di ragazzi appiccicosi e ragazze incapaci. Due cose che non sopporto» rispose bruscamente Cassandra.

«Simpatia portami via» disse Laura infilzando una foglia d’insalata.

Matt si trattene dallo scoppiare a ridere.

«Tu» disse Cassandra rivolta a Laura «hai detto qualcosa?».

«Scusate nostra sorella» rispose in fretta Darline «Non le è mai piaciuta molto la scuola».

«Allora ragazze» chiese Matt avvicinandosi a Darline «Da dove venite?».

«Dalla Danimarca» rispose Aimee «Ci siamo trasferite da poco».

Jeremy e Matt iniziarono a fare domande a destra e a manca. Laura si limitava a fissarli e a commentare il modo in cui le sorelle erano vestite apprezzandone i prodotti per capelli.

«Devo toccare quei capelli» mi sussurrò.

«Cosa?»

«Sono troppo morbidi per essere veri».

Soffocai una risata e diedi un morso al panino. Non appena lo addentai sentii uno strano sapore in bocca: il prosciutto era più salato del solito, il pane molle, la salsa che Ludmilla ci aveva messo mi faceva venire il voltastomaco. Avevo la nausea. La mia percezione dei gusti era diventata incredibilmente fine.

Fui sul punto di sputare tutto ma mi trattenni.

«C’è qualcosa che non va?» chiese Aimee preoccupata dalla mia espressione di disgusto.

«Il prosciutto è troppo salato» dissi e presi dallo zaino una bottiglietta d’acqua. Ma che cosa succedeva? Il sapore rancido della salsa mischiato al prosciutto salato permanevano nella mia bocca a tal punto che non riuscii più a mangiare. Sperai che le sorelle Granith non mi avessero presa per pazza, ma sembravano tutte rilassate, tutte tranne Cassandra che mi puntò i suoi occhi viola-blu addosso con freddezza.

«Posso sedermi?» disse una voce che non mi era di certo sconosciuta.

Il cuore aumentò i battiti come preso da una frenesia. Alzai lo sguardo e vidi Justin sorridere. Feci cenno di sì con la testa e lui si sedette accanto a me e guardò prima Darline e Aimee poi Cassandra. Matt e Jeremy salutarono Justin con un cenno della testa mentre Laura sorrise con gli occhi che le brillavano.

«Noi siamo Darline, Aimee e Cassandra Granith» disse Darline.

«Sì lo so chi siete. Io sono Justin. Che ne pensate della scuola?»

«Stupenda» disse Cassandra puntandogli gli occhi addosso «magari se l’anno prossimo ho bisogno d’aiuto so a chi chiedere». Inarcai un sopracciglio contrariata mentre il sangue mi ribolliva nelle vene. Justin accennò un piccolo sorriso.

«E così siete più piccole di noi? Non sembra. A dire il vero sembra proprio che abbiate la nostra età» disse Justin fissandole una a una con uno sguardo che non gli avevo mai visto. Appariva infastidito.

«Ehi Allen!» lo rimproveròMatt«Non è questo il modo di parlare alle nostre ospiti».

«L’apparenza inganna» rispose Aimee ridendo.

«Già» Il tono di Justin non era molto amichevole, ma forse era solo una mia impressione.

«Ehi Ginevra, oggi pomeriggio hai da fare?» mi chiese distogliendo lo sguardo dalle ragazze.

«Eh chi diavolo è Ginevra?» domandò di colpo Jeremy fissandoci stupito.

«Veramente no» risposi piano.

«Lo sapevo io che stavano insieme» disse Jeremy lanciando una gomitata a Matt.

«Ti va di andare al campetto?» mi chiese dolcemente, i suoi occhi verde scuro erano più accesi che mai. Non la smetteva di fissarmi ed io m’immersi in quello sguardo così profondo e al tempo stesso misterioso.

«Scusate?» disse Cassandra tirando un calcio nelle caviglie di Justin.

Justin non le diede retta e continuò a guardarmi.

Laura mi trascinò a sé «La ruota! Quella cosa che George diceva sarebbe girata, sta girando! Se non esci con lui subito ti pianto i tacchi nel piede».

«Non ho nulla da fare quindi… direi di si» risposi abbassando lo sguardo che non riuscivo più a sostenere. Poteva essere un buona occasione per scoprire perché mi aveva mentito.

Cassandra sbuffò. «Mi viene da vomitare» annunciò, si alzò di scatto lanciando un’occhiataccia prima a me e poi a Justin.

«Scusatela, di solito non ècosì» rispose Aimee.

«Vado anch’io, ci vediamo oggi pomeriggio» disse Justin sorridendomi con un velo di stanchezza dipinto sul viso.

«È stato un piacere conoscerti Zara ma adesso dobbiamo andare. La lezione comincia tra poco» fece cenno a Darline di sbrigarsi. Darline mi sorrise poi se ne andò.

«Quella Cassandra èuna tosta» commentò Jeremy.

«Molto tosta» gli fece eco Matt.

«Oh cielo! Se la smetteste di fissarle il fondo schiena vi accorgereste che èuna gran stronza» disse Laura impugnando il coltello.

«Wow! Che ci vuoi fare con quello?» le chiese Jeremy sbiancando.

«Ci taglio il pane, cretino» rispose lei.

Matt si alzò di scatto dicendo che sarebbe andato in classe e poco dopo lo seguirono anche Jeremy e Laura. Rimasi con lo sguardo fisso sul panino.

Alexa non la sentii neppure arrivare.

«Ehi ma che ti è successo?» le domandai guardandola mentre si sedeva.

«Cercare il professore di trigonometria è stato piuttosto difficile» disse ansimando.

«Già, si vede».

«Hai conosciuto le sorelle Granith, come sono?».

«Simpatiche» Avrei voluto dirle che lo erano tutte tranne una ma alla fine mi fermai alla prima parola. «Cosa volevi dire prima? Quando hai detto che non sei la mia fotocopia?».

Alexa abbassò lo sguardo «Nulla di che. Era solo un commento».

«Sicura che si tratti solo di questo?»

«Certo» rispose infilandosi una tartina di gamberi in bocca. «Non lo finisci?» chiese indicandomi il panino.

Lo presi e lo addentai. Il viscido del grasso del prosciutto mi scivolò nella gola facendomi venire i brividi. Deglutii a fatica. Il pane era duro come il marmo e quell’orribile salsa che Ludmilla ci aveva messo mi ripugnava. Sentii il tozzo di pane salirmi alla gola. Mi alzai di scatto e corsi verso il bagno. Mi precipitai nel gabinetto e vomitai tutto. Tossii. Il sapore di marcio persisteva. Vomitai ancora. Pensai davvero che Ludmilla ci avesse messo qualcosa di scaduto ma poi mi ricordai che la salsa e il prosciutto li aveva comprati ieri.

Il prosciutto lo avevamo finito la sera e nessuno aveva avuto problemi a digerirlo mentre la salsa scadeva tra un mese. Che avessi davvero un senso del gusto così fine? Mi pareva strano ma non era una possibilità da escludere. L’odore acre di vomito e succhi gastrici mi entrò nelle narici. Tirai lo sciacquone e mi lavai la bocca con l’acqua fredda. Respirai a lungo. Non credo che avrei toccato altro cibo per il momento.

«Ehi»Alexa entrò in bagno pulendosi la bocca con la mano «Che ti è preso?».

«Credo che la salsa di Ludmilla fosse scaduta».

«Vuoi una tartina di granchio? Ne ho ancora sai».

«Credo che erò».

Udimmo un rumore. Proveniva da fuori.

«L’hai sentito? Viene da fuori» chiese Alexa.

«È un miagolio» dissi.

Alexa salì sulla toilette e aprì la finestra. Quando tornò il gatto bianco era accovacciato tra le sue braccia.

«Guarda quant’è bello» Alexa gli grattò le orecchie «Gli do una tortina di granchio».

«Si chiama Helan» dissi «È della zia di Justin. Sai la donna dai capelli rossi».

«Quella è sua zia?»

«Già».

«Non è che si somiglino molto».

Helan miagolò. Scese dalle braccia di Alexa e si strofinò contro le mie caviglie.

Dovevo sapere chi era quella donna. Dovevo scoprirlo a tutti i costi.

CAPITOLO 10 - Accettazione

Finite le lezioni mi diressi al campetto dimenticandomi di avvisare Alexa.

Justin non era ancora arrivato.

«Bel lancio» esclamò a un tratto dopo che la palla che avevo lanciato finì dritta dentro il canestro.

«Chissà magari potresti avere una rivale nel basket » dissi mordendomi il labbro inferiore.

«Ti va di fare un giro nella foresta?»

Seguii Justin che s’inoltrava nella foresta con in testa un unico pensiero: mi doveva delle spiegazioni.

«Dove stiamo andando?»

«Voglio farti vedere un posto».

Continuammo a camminare e per un po’ nessuno dei due disse nulla. Al mio fianco Justin proseguiva lentamente, il suo sguardo era fisso verso la strada che mi stava mostrando e di tanto in tanto con la coda dell’occhio mi fissava come per scrutare che espressione avessi.

«Scusa ma dove stiamo andando?» domandai fermandomi nel bel mezzo della foresta.

«Se te lo dico non è piùuna sorpresa» rispose, poi aggiunse «comunque siamo quasi arrivati».

Percorremmo un altro paio di metri e alla fine ci ritrovammo d’innanzi ad un immenso parco tutto illuminato dal sole; l’unico posto all’ombra era sotto una quercia. Il quel luogo c’era vita: le farfalle volavano da un fiore all’altro e una di esse si poggiò sulla mia spalla. Era situato sulla parte più alta della foresta ed era possibile vedere il tramonto che faceva da cornice a quel paradiso terrestre.

Tutto era calmo e innocuo, il posto perfetto per essere se stessi.

«È stupendo» sussurrai.

«Ti piace?»

«Moltissimo. Non sapevo esistesse un luogo simile»

«Nemmeno io».

Restammo un attimo a fissare quel paradiso di colori e sfumature. Piccoli insetti si muovevano liberi nell’aria senza alcuna preoccupazione facendo giravolte, incuranti della nostra presenza. Un leggero soffio d’aria mi scompigliò i capelli e in quell’attimo l’odore di Justin mi entrò nelle narici come il profumo più delizioso del mondo. Alzò cautamente il braccio e mi sistemò i capelli mettendomeli dietro le orecchie, mi sfiorò la guancia con le nocche. Aveva lo sguardo triste. Iniziavo a credere che ci fosse un motivo se mi aveva chiesto di uscire e avevo la sensazione che non avesse nulla a che fare con il parco.

«Zara... ».

«Tu e tua zia non vi somigliate affatto» dissi interrompendolo. Justin alzò lo sguardo verso di me «siete talmente diversi che non sembrate parenti» Justin abbozzò un piccolo sorriso.

«C’è qualcosa che devi dirmi? Per questo siamo qui?»

«Ecco... ».

«Tua madre non aveva sorelle, quindi a meno che tu non abbia parenti di cui non conosci l’esistenza, direi che mi hai mentito. Perché?»

«Ascolta. È vero, Kindra non è mia zia ma posso spiegarti tutto».

«Davvero?» chiesi inarcando un sopracciglio. Justin avanzò verso di me. Feci un o indietro. Emise un respiro profondo.

«Lei è...più di quello che credi. Non potevo dirti chi era in realtà, non mi avresti creduto».

«Come l’hai conosciuta?»

«Non vuoi sapere chi è?»

«Certo. Certo che lo voglio» una fitta mi colpì al cuore.

«Ti ho mentito sul conto di Kindra perché è una cosa un po’ complessa... ».

«Cioè?»

«Non te ne ho parlato prima perché... lei conosceva... » Justin si fermò di colpo. I suoi occhi verde scuro erano puntati su di me. Non so perché ma temevo la fine della frase. «...tua madre».

Lo sussurrò appena. Il significato di quelle parole si mosse libero nel vento come le farfalle che avevo intorno. Il diario. Il ritratto. Tutto confermava i miei sospetti ma non chiariva i miei dubbi.

«Mia... madre» non mi resi conto di quello che aveva detto fino a quando non incrociai nuovamente il suo sguardo. La fitta al cuore aumentòcosì forte che la sfruttai come scusa per alzarmi e scappare. Kindra conosceva mia madre. Justin conosceva Kindra. E adesso entrambi conoscevano me. Ma io di loro non sapevo nulla. Com’era successo? Com’ero finita in tutto questo? Situazioni e pensieri dell’ultimo mese si accavallavano nella mia mente. Era tutto confuso.

Mi ritrovai a correre senza una meta, a schivare rami di alberi e pregare che esistesse una via di fuga. Mi sentivo una nullità. Anzi a dire la verità non mi sentivo affatto. Ero di colpo diventata vuota e insensibile. L’unica cosa che volevo era andarmene il più lontano possibile da tutto e da tutti. Mi fermai di colpo. Non sapendo da che parte andare mi guardai nervosamente attorno.

Un colpo di vento sollevò da terra un cumulo di polvere. Ecco cos’ero. Polvere. Nient’altro che polvere, sollevata dal vento e portata chissà dove. Senza meta. Senza destinazione. Inconsapevole di ciò che ne sarebbe stato di me.

Avrei voluto odiare mia madre per avermi scritto una lettera diciassette anni fa nella quale si era limitata a dire che sarei cresciuta come un umana, anche se non ero tale, senza spigarmi chi fossi davvero.

Avrei voluto odiarla per avermi lasciato, prima di dirmi tutta la verità e avrei voluto odiare Justin perché anche lui, in qualche modo, c’era dentro fino al collo. Mi sarebbe piaciuto odiare, distruggere, devastare ma non ne avevo la forza.

Mi servivano risposte. La fitta al cuore aumentò nuovamente. Questa volta fu come se una spada incandescente mi avesse attraversato il petto. Non avevo mai provato un dolore simile nella mia vita. Pareva che muscoli e vene mi venissero tirati da parti opposte. Il dolore continuò a tal punto che mi accasciai per terra piegandomi su me stessa. Mi portai una mano sul cuore. Batteva a ritmi

irregolari e la mia pelle bruciava. Era bollente, come se stessi facendo un bagno nel fuoco. A un tratto qualcuno mi afferrò il braccio, il mio primo istinto fu quello di gridare ma la voce mi si spezzò in gola quando vidi Justin. Abbozzò un sorriso nel tentativo di rassicurarmi. Vedevo in lui il mio riflesso e il terrore s’impossessò di me impedendo alle mie gambe di muoversi.

«Lasciami» dissi districandomi dalla sua presa. Era una stretta forte e decisa però non mi faceva sentire alcun male.

«Mi devi ascoltare».

«Lasciami andare subito» i miei occhi erano fissi nei suoi: tristi, malinconici, angosciati. La fitta al cuore aumentò incendiandomi il petto. Lui mollòla presa.

«Hai male?» Non risposi. «So come ti senti».

«Io non credo che tu lo sappia» Justin s’inginocchiò davanti a me. «Mi dirai tutta la verità?»

«Tutta» rispose incerto. Lo guardai di sottecchi «Sono pronto a qualsiasi tua reazione, sia positiva sia negativa». Non sarebbe stata una conversazione facile.

«Tu racconta poi se proprio vado fuori di testa, mi metto a correre ».

«Per poi perderti?»

«Giusto» corrugai un sopracciglio ma prima che potessi dire qualcosa Justin ribatté: «Puoi sfogarti contro di me se vuoi».

«Lo prenderò in considerazione» risposi per niente convinta. Lui mi lanciò una breve occhiata poi fissò dritto davanti a sé e con voce profonda e intensa disse: «Avanti, spara tutto quello che hai da chiedermi» La fitta al cuore s’acquietò.

«Sarà una specie di terzo grado, lo sai?».

«Ne sono consapevole».

Inspirai profondamente. «Tu chi sei esattamente e che cosa vuoi da me?».

«Non ti ho mentito su tutto. Le cose che ti ho detto su mia madre e mio padre sono vere. Ma ho omesso alcune informazioni».

«Bene, allora sentiamole».

«Conosco Kindra perché lei si è occupata di me e mio fratello dopo la scomparsa di mio padre».

«Allora tuo fratello è reale?» La mia nota ironica non gli ò inosservata.

«Sì, è reale».

«Come mai Kindra conosceva mia madre?»

«Erano amiche».

«Non ho mai sentito parlare di lei».

«Ci sono tante cose di cui non hai sentito parlare».

Rimasi un secondo in silenzio poi dissi: «Ho trovato una lettera di mia madre... diceva che Kindra poteva aiutarmi. Può farlo?»

«Certo. Sa più cose di me, se dopo questa conversazione avrai ancora dei dubbi è da lei che devi andare».

«Tu... conoscevi i miei genitori?»

«No, non li conoscevo… in effetti, sapevo molto poco di te quando ho iniziato a cercarti».

«Scusa, ma non ti seguo. Da quanto tempo mi cercavi? E perché?»

Justin non rispose alle mie domande, invece con voce dura e fredda disse: «Io so cosa è successo alla tua famiglia» Le mani iniziarono a tremarmi.

«Hanno avuto un’incidente».

«Non si è trattato di un’incidente. Il motivo per cui ho iniziato a cercarti è questo».

«Cosa... Io non capisco».

«Sono stati… uccisi dal Nemico».

«Ne ho sentito parlare... nel diario di mia madre. Devi dirmi cos’è successo alla mia famiglia. Dimmelo».

«Tutto quello che so, è ciò che mi ha detto Kindra».

«Allora dimmi tutto quello che sai »

Justin si morse il labbro inferiore. Quando iniziò a parlare la sua voce era pacata e piatta e non incontrò il mio sguardo fino alla fine del racconto.

«Quando i tuoi genitori e tua sorella ti dissero che sarebbero andati a fare la spesa, in realtà andarono a combattere contro il Nemico. Da quello che mi ha detto Kindra, Layla era riuscita a scappare e, prima di… morire… le ha rivelato la tua esistenza. All’epoca avevi 13 anni quindi Kindra iniziò a cercarti per tutte le scuole medie della città, poi si spinse fuori dall’America, andò persino in Francia e in Italia ma di te non c’era traccia. Così chiese il mio aiuto, mi disse che ne aveva bisogno per cercare una persona. E quella persona eri tu. Kindra mi ha chiesto di cercarti perché è ciò che aveva promesso a tua sorella».

Riflettei su quanto mi aveva appena detto poi gli chiesi: «Chi è il Nemico? Una specie di assassino? »

«Diciamo di sì ma è... più complesso».

«Le stragi che avvengono da mesi sono opera sua? Cos’è? Uno psicopatico? Perché la polizia a distanza d’anni non l’ha ancora preso?».

«Te l’ho detto è più... ».

«… complesso» dissi quasi sbuffando. «Sai qualcos’altro su Kindra?»

«So un paio di cose».

«Tipo?» Lui si voltò di scatto.

«È stata Kindra a occuparsi di me e mio fratello. Ci ha cresciuto fino a quando io ho raggiunto l’età di sedici anni, mio fratello ne aveva venti, poi lei cambiò. Le era accaduto qualcosa che l’aveva profondamente turbata, non sapevo di cosa si trattasse e non lo so ancora ora. L’unica cosa che so è che non è più tornata quella di prima. Sono tre anni ormai che è diventata un’altra. Però è stata comunque una specie di madre per me. Forse l’unica figura femminile che posso riconoscere come tale».

«Non hai proprio idea di cosa potrebbe esserle successo?».

«Kindra non parla del suo ato».

Inspirai profondamente massaggiandomi le tempie. C’erano ancora così tante cose che dovevo chiedergli...

«Ti sei ferita» disse Justin all’improvviso. Il mio sguardo si posò sulla gamba destra dove i jeans che indossavo si erano lacerati. Il graffio era abbastanza profondo. Dovevo essermelo fatto durante il mio tentativodi fuga. A un tratto il taglio, come per magia, iniziò a rimarginarsi: piano piano la pelle lacerata sirichiuse,come se qualcuno la stesse ricucendo. Justin alzò lo sguardo verso di me. «Da quanto tempo lo sai?»

La mia voce era un misto tra terrore e orrore. «Io... avevo intuito che c’era qualcosa di... diverso in me, ma direi che la certezza l’ho avuta adesso».

Silenzio. «Io... non potevo dirtelo. Ti saresti spaventato, proprio come adesso».

Justin alzò lentamente lo sguardo su di me «Ma io non sono spaventato, sono preoccupato».

«Che ti faccia del male?»

«No, non quello. So come siamo fatti».

Strabuzzai gli occhi. «Tu non capisci. Sono diversa, noi siamo diversi».

Di colpo mi guardò con occhi più ardenti che mai. «Abbiamo due braccia, due occhi, due gambe, una bocca e un naso. Non siamo poi così diversi».

«Non mi riferivo a questo ma a quello» risposi accennandogli alla mia gamba «forse sono... no è impossibile».

«A cosa stai pensando?»

«Sciocchezze. Ho pensato che forse sono tipo... immortale».

«Sicuro che lo sei».

«La cosa non ti spaventa?» Rimase un attimo in silenzio, poi senza smettere di fissarmi, con voce profonda disse: «Se ti dicessi che sono come te, ti spaventeresti?» Lo fissai, cercando di capire il senso di quelle parole.

«Ma io cosa sono?»

«Un elfo».

“Elfo. Io sono un elfo.”

«Zara?»

«Un elfo? Ma è impossibile. Insomma gli elfi hanno le orecchie a punta».

«Fan di Tolkien?»

«Avevo un debole per Legolas».

«Lo immaginavo»disse sorridendo«ma quella è solo invenzione. La verità è tutt’altra».

«E quale sarebbe?»

«Una volta esisteva una razza di elfi privilegiata, creata dal dio Odino in persona per proteggere gli esseri umani. Era composta da cinque ragazze ma esse disobbedirono agli ordini del dio e la razza fu spezzata. Ci furono delle conseguenze poiché il Nemico decise di sterminare tutti gli elfi che discendevano da quella stirpe. Tua madre era una di esse».

«Il Nemico?»

«Lui è un assassino ma non di razza umana. La polizia non l’ha preso per questo» sorrise «è simile a noi».

«Che cosa avevano fatto di male quelle ragazze?»

«Si erano innamorate degli esseri umani, cosa che non avrebbero dovuto fare e, infatti, ne pagarono le conseguenze» Aspettai qualche secondo prima di porgli la mia domanda.

«Cosa gli hanno fatto?»

«Le hanno uccise, ma era troppo tardi. E così eccoci qua. Gli elfi sono nati così».

Alzai lo sguardo verso di lui. «Quindi sono un elfo».

«È una cosa tanto brutta?»

Corrugai le sopracciglia. «Non saprei. Siamo... pericolosi?»

«No. Cerchiamo di essere il più normale possibile».

«Lo sono anche i miei zii allora… e i miei cugini».

Justin non rispose. Avrei affrontato quest’argomento più avanti.

«Quelle ragazze erano come noi?»

«Non esattamente. Erano meno umane; bravissime nella lotta e nel combattimento. Una creazione di Odino: letali e dotate di super poteri».

«Tipo i personaggi dei fumetti?»

Justin soffocò una risata.

«Non la stai prendendo sul serio. Ti darò una piccola dimostrazione» disse prendendo un ramo che si trovava davanti a lui. «Spezzalo». Non mi mossi.

«Avanti, spezza il ramo» m’incitò notando che non ero affatto convinta di quello che stavo per fare. Lo assecondai spezzando il ramo e rimasi a fissarlo con un espressione di ovvietà stampata in faccia.

«Che cosa dovrebbe succedere adesso?»

Alzò la mano destra sul ramo spezzato e dopo aver bisbigliato qualcosa di incomprensibile si riunì come se le due metà fossero attratte l’una all’altra da una calamita. Afferrò il ramo e alzando lo sguardo verso di me disse: «Niente trucco. Tutto vero».

Rimasi con la bocca aperta a mezz’aria del tutto sbalordita. Un’ondata di terrore invase il mio corpo facendomi rizzare i peli delle braccia mentre un brivido gelido mi percorreva la schiena. Un brivido di paura che calzava a pennello con il mio sguardo terrorizzato. Feci per scivolare indietro e allontanarmi da lui ma Justin mi afferrò il braccio.

«Che cos’hai fatto?»

«Quello è il mio potere, ogni elfo ne ha uno. I poteri si acquistano durante il percorso di vita e sono loro che “decidono” quando saltare fuori. Quando un elfo ne ha bisogno, loro si impossessano di te, si mescolano con te tanto da diventare un tutt’uno. Alcuni elfi scoprono di avere i poteri quando ormai sono vecchi, è una cosa positiva sotto una certa prospettiva perché significa che non si sono trovati in situazioni particolarmente rischiose».

«Il tuo in cosa consiste?»

«Nel riassemblare qualsiasi oggetto che sia in mille pezzi o anche solo scheggiato, posso farlo ritornare esattamente come prima». Involontariamente lo sguardo mi cadde sul ramo che Justin aveva spezzato.

«Sembra una cosa forte».

«Stai bene?» Era preoccupato, nonostante il suo tono di voce volesse dimostrare il contrario.

Presi un filo d’erba e iniziai a giocherellarci con le dita «Ce ne sono altri?».

«Darline ha la possibilità di mutare il corso del tempo. Lo può rallentare ma non per troppo. Se ciò accadesse, l’intero equilibrio spazio-temporale verrebbe distrutto. Certe volte la invidio, anche a me piacerebbe fermare il tempo».

«Darline?»

«È un elfo anche lei e lo sono anche Aimee e Cassandra. Sono discendenti della stessa stirpe di cui faceva parte tua madre».

«Quindi... questo... nemico... sta cercando anche loro» Justin si limitò ad annuire.

«Ma chi è veramente? E quanti elfi ci sono? Sono solo qui o sparsi nel mondo? E... ».

«Piano. Una domanda alla volta» Sorrise poggiando la sua mano sulla mia. A quel contatto il mio cuore ebbe un sussulto. Le tensioni che stavo accumulando si sciolsero. I nostri sguardi s’incrociarono e di colpo non avevo piùcosì tanta paura. Mi avevano mentito, l’avevano fatto per proteggermi eppure non riuscivo a smettere di pensare che fino adesso la mia vita era stata tutta una gigantesca menzogna. Non ero chi credevo di essere e la cosa mi spaventava. Non sapevo più chi ero. Zara Monthgomery esisteva ancora? Non lo sapevo più. Per quanto mi riguardava potevo dire che oggi la Zara Monthgomery che avevo sempre creduto di essere era morta. La domanda era: ne sarebbe nata una nuova?

Quando guardavo Justin negli occhi però tutte le mie paure, per un istante, sparivano. C’era qualcosa in lui che mi dava una sicurezza inaudita. Il suo sguardo era l’abbraccio più profondo che avessi mai ricevuto.

«Dunque. Un tempo il Nemico era un elfo poi gli accadde qualcosa e cambiò. Le stragi che intercorrono da mesi sono opera sua. O meglio dei suoi Sicari. Ci stanno cercando. Per quanto riguarda gli elfi, ne sono rimasti pochi.

Il Nemico ha sterminato intere famiglie e chi si è salvato è scappato. Potrebbero essere ovunque ma non qui. A Eureka ci siamo solo noi».

Ritrasse indietro la mano mordendosi il labbro inferiore. D’istinto gli afferrai il polso.

«Pensavo avessi paura».

«Parlami delle sorelle Granith».

«Prima di tutto non sono sorelle. Darline Kruger, Aimee Stevenson e Cassandra Olivares. Questi sono i loro veri nomi » Fece un piccolo sorriso «Le conosco fin da quando ero bambino. Fino a qualche secolo fa gli elfi vivevano nella foresta dove avevano le loro case ed era tutto bellissimo. Io abitavo in una casa che non era molto distante da quella di Darline e così giocavamo molto spesso insieme, poi un giorno lei mi presentò le sue amiche: Aimee e Cassandra. Quel giorno era venuto a giocare con me anche mio fratello e quando ha visto Aimee se n’è innamorato subito. Stavano sempre insieme; erano diventati praticamente inseparabili. Da quel giorno siamo stati molto uniti. Qualche tempo dopo Cassandra ci presentò suo fratello Alan e divenne il migliore amico mio e di mio fratello. In pratica sono cresciuto con loro. Dopo l’inizio della guerra non rividi piùnessuno».

«Hai ritrovato da poco tuo fratello?»

«Sì, non sapevo dove fosse. Lui era tutto quello che avevo e credevo di averlo perso per sempre. Ho provato a cercarlo, ma è stato inutile. In tutto questo tempo sono stato solo, poi ho incontrato Kindra e con lei anche le ragazze... ». La sua voce aveva assunto un tono nostalgico, doloroso. Mi fece un sorriso che nascondeva la sofferenza di tanta solitudine. Non so cosa fu a spingermi, forse il dolore prepotente d’un altra fitta o più semplicemente il desiderio di toccarlo, fatto sta che gli accarezzai il viso, sfregando le nocche contro le guance.

Gli occhi verde scuro, limpidi e smarriti.

Abbozzai un sorriso mentre le mie mani si spostavano sulla sua bocca

sfiorandogli le labbra. Justin rimase a guardarmi stupito.

«Scusa... io... non so cosa m’è preso» mi affrettai a dire imbarazzata. Lui rimase a fissarmi senza dire nulla e per un lunghissimo istante mi sentii una idiota totale.

«Vorrei che tu fi una cosa» disse dopo un po’.

«Cosa?»

«Mi puoi abbracciare?» chiese senza staccare lo sguardo da me.

«Certamente» I nostri corpi vennero immediatamente a contatto l’uno con l’altro. Sotto la maglietta a maniche corte percepivo il suo cuore battere allo stesso ritmo del mio. Appoggiò le testa sulla mia spalla, io feci lo stesso. Una brezza fresca soffiò tra i rami degli alberi facendomi venire la pelle d’oca. Mi strinsi a lui nello stesso modo in cui la bambina si stringe al suo papà. Le sue mani sfregarono delicatamente la mia schiena facendomi venire i brividi. Quando ci staccammo dall’abbraccio non sentivo alcun tipo d’imbarazzo. Era come se qualcuno m’avesse appena iniettato nelle vene una possente dose di felicità. Mi percepivo. Mi sentivo. Forse non ero morta.

«Grazie».

«Credo che abbia fatto più bene a me che a te» Justin si ò una mano tra i capelli scompigliati dal vento.

«Ho una domanda da farti » dissi piano.

«Voglio sentirla Ginevra, sul serio».

«Non sai che cosa accadde agli altri?»

«No, ma immagino che trovarono un modo per cavarsela. Mio fratello mi ha raccontato che fu il periodo più brutto di tutta la sua vita. Non riusciva a togliersi Aimee dalla testa, era diventata come un’ossessione».

«Hai detto che Odino creò cinque ragazze ma finora ne hai citate solo quattro compresa me».

«C’è un altra ragazza. Si chiama Joslin Mc Dylan. La sua storia è un po’ diversa dalle nostre. Del suo ato sappiamo molto poco, sicuramente sua madre era una delle discendenti poiché Joslin porta lo stesso medaglione che hai tu; non si sa altro però. Lei del resto non si ricorda, ha provato a sforzarsi ma è stato inutile. Quando siamo tornati a Eureka io e Kindra l’abbiamo trovata per strada in fin di vita. Era tutta insanguinata e con delle gravi ferite in diverse parti del corpo, i suo vestiti erano stracciati. Probabilmente si era imbattuta in qualche Sicario e l’aveva combattuto da sola. Dopo averla curata, si è occupato di lei il nonno di Darline e da allora Joslin è rimasta con loro. Per lei essere quello che siamo è probabilmente la cosa più difficile. Non sa nulla di sé e del suo ato, non è semplice da mandare giù. Darline cerca sempre di vedere il lato positivo delle cose, ma questa volta ci ha rinunciato». Sorrideva quando nominava il nome di quella ragazza dai capelli arancioni tutti scompigliati.

«Credo che Joslin si senta smarrita».

«Ci sentiamo tutti così, forse alcuni più di altri ma dobbiamo lottare per salvare quello che ci resta. Non abbiamo altra scelta. Non avere paura» disse «Se hai una domanda, falla».

«Ti sei avvicinato a me per scoprire se ero la figlia di Jylien?».

«Sì». Ammise.

«Ma ti sei avvicinato solo adesso... ».

«Già. Di solito riconosciamo quelli della nostra razza ma con te è stato un po’ diverso».

«Che vuoi dire?»

«Non so spiegartelo. Credo che ci fosse qualcosa che m’impediva di sentire la tua energia. Ècosì che ci riconosciamo».

«Ora che succede? Il Nemico continuerà a uccidere fino a quando non ci troverà?»

Justin si limitò semplicemente ad annuire.

«Come mai mi chiami Ginevra? Ha un qualche significato da elfo?»

«In effetti sì. Vuol dire “ elfo luminoso”».

«Penso di aver terminato con le domande», annunciai portandomi le ginocchia al petto.

«Adesso vuoi sfogarti contro di me?» Dall’angolo sinistro della mia bocca partì un piccolo sorriso.

«No, certo che no».

«Ora l’avrei io una domanda. Come stai?»

«Bene» mentii. Mi sentivo tutto tranne che bene: ero disorientata, smarrita, impaurita, una parte di me era anche inorridita da ciò che ero, l’altra invece era più coraggiosa e si faceva forza dicendo che avrei superato anche quest’ostacolo. Chissà se il mio coraggio sarebbe stato abbastanza grande da portarmi faccia a faccia con un assassino. Per adesso preferivo credere che fosse tutto un sogno, anche se sapevo che non era così. Il mio sguardo si spostò su Justin. Lui aveva qualcosa di diverso dal resto del mondo. Qualcosa che dava un senso di protezione. Quello che sentivo mi faceva paura eppure non riuscivo a controllarlo. Sbucava fuori dal nulla come la più amara delle sorprese.

«Non guardarmi così» disse all’improvviso riscuotendomi dai miei pensieri.

«Così come?»

«Con quello sguardo. Mi fai paura» Ammise.

«Cosa ti spaventa?»

«Ciò che potresti vedere. Gli occhi sono lo specchio dell’anima» la sua voce era delicata, come se avesse paura di ferire qualcuno con le sue parole. «La mia potrebbe non piacerti».

«Perché dici questo?»

«Non lo so. Ti guardo e mi sembra di averti rovinato la vita».

«Hai fatto quello che dovevi. Era giusto così».

«Sei fin troppo buona».

«La tua anima è delicata». Justin strabuzzò gli occhi per la sorpresa.

«Sì certo, come una farfalla».

«No, molto di più».

Scoppiò in una risata nervosa «Allora come una nuvola?».

«Direi che è più come il vento».

«Il vento... quello sì che è delicato. Fino a quando non soffia troppo forte».

«Non so perché fai così»».

«Così come?»

«Ti comporti come se fossi orribile».

«Magari lo sono».

«Non è vero».

«Questo è solo quello che vuoi vedere».

«No. È quello che è».

Il rumore del suo cuore che batteva, mi risuonava nelle orecchie come la più dolce delle musiche. Justin mi strinse a sécosì forte che quasi faticai a respirare.

«Non ti lascerò affrontare tutto questo da sola» mi sussurrò all’orecchio «mi occuperò di te».

Mi sciolsi dall’abbraccio e sistemandomi un po’ i capelli dissi: «Grazie. Lo apprezzo molto».

«Lo so che hai paura ma nessuno ti farà male» Le sue parole erano confortanti e delicate. In quello che diceva ci credeva davvero. Avrei voluto credergli anch’io, ma una parte di me non si fidava ancora.

«Ti porto alla villa».

«La villa?»

«Qui nella foresta furono costruite molte ville ma la maggior parte vennero distrutte. Io sto lì con Kindra e gli altri. Su alzati». Mi aggrappai alla mano che mi aveva teso e lo seguii. Mi accorsi che stavamo tornando al parco tutto illuminato. Justin camminava veloce ed io cercavo di stargli dietro ma non era così semplice perché era molto più agile di me. Continuava a prendere scorciatoie e mi aiutava a scavalcare tutti gli enormi tronchi che intralciavano la

strada. Quella foresta assomigliava a un campo di battaglia e forse lo era stato davvero.

«Quanto manca per arrivare alla villa?»

«L’abbiamo di fronte» Alzai lo sguardo. Sopra a una imponente rupe era situata una villa dalle proporzioni enormi.

«Dobbiamo percorrere quella scalinata e poi siamo arrivati».

Camminammo un altro po’ , poi arrivammo alla scalinata che consisteva in una specie di scala a chiocciola in legno molto simile a quella che avevano lo zio Anthony e la zia Crystal in casa. Proseguimmo la scalinata fino a quando non arrivammo davanti al cancello della villa. Dopo averlo aperto, entrammo. L’interno era tutto buio ma quando Justin accese la luce mi ritrovai davanti ad un corridoio lunghissimo con un’infinità di colonne di marmo. Alla mia destra c’era il soggiorno dove erano situati una tavola piuttosto grande, un camino in stile antico e un divano.

«Io vado a cercare gli altri, se ti va puoi fare un giro della villa».

«Ma da che parte devo andare?»

«Segui il corridoio, ti porterà alla sala da ballo».

«Mm... ».

«Non avere paura Ginevra. Ci vediamo dopo».

«Okay» dissi e prendendo coraggio a due mani mi preparai a percorrere quell’immenso corridoio dalle pareti scure che mi davano l’idea di essere osservata.

CAPITOLO 11 - Macabre realtà

Attraversai il lussuoso corridoio mordendomi nervosamente il labbro inferiore. Alle pareti erano appesi diversi quadri che rappresentavano creature demoniache che combattevano; le tende erano di velluto rosso e i vetri delle finestre appannati. Ai lati del corridoio c’erano varie porte, istoriate in legno dorato antico e chiuse a chiave. L’intero aspetto di quella parte della villa metteva i brividi: non c’era molta luce, solo qualche raggio di sole che attraversava le finestre e rifletteva i muri color panna.

Le colonne di marmo proseguirono per tutto il corridoio e si fermarono quando giunsi davanti ad una porta aperta. Attaccato alla maniglia c’era un cartellino con scritto “Sala da ballo”.

La sala era immensa, con le pareti dorate e piene di specchi; vi erano dei tavolini con delle sedie in stile ottocento, apparecchiati, con tazzine da tè e piattini. All’angolo della stanza c’era un organo e, vicino a esso, una lunga tavolata ricca di pietanze, vasi di rose bianche e garofani, candele e candelabri, tutto posizionato alla perfezione accanto all’argenteria.

Sul pavimento lucido vi era il riflesso del lampadario di cristallo. Oltre che sala da ballo, doveva essere anche la stanza dei ricevimenti e delle feste. Osservai meglio l’organo e fui colpita dal quadro che vi era appeso accanto. Raffigurava cinque ragazze dagli occhi elettrici, le labbra sottili e rosse, la pelle pallidissima. Avevano le orecchie leggermente appuntite e dietro la loro schiena spuntavano un paio di ali nere, non da angelo ma più simili a quelle dei pipistrelli. Erano in posizione d’attacco; le candide mani impugnavano possenti spade da guerra dalla lama istoriata con incisioni, probabilmente elfiche. Al collo portavano lo stesso medaglione che avevo io.

Somigliavo in modo strano alla ragazza posta in posizione di difesa davanti alle altre. La fissai attentamente e mi accorsi che portava il mio medaglione. Era proprio quello, non c’erano dubbi. Alcuni tratti del suo viso mi ricordavano mia madre, solo in una versione più cupa e oscura. Indossavano abiti neri e viola stracciati; in particolare la bretella del vestito lasciava scoperta la loro bianca spalla sinistra evidenziandone le cicatrici e in alcuni casi anche una piccola parte delle ossa. Per quanto fossero belle il loro aspetto era come consumato. Gli sguardi erano carichi di odio e le labbra disegnavano sorrisi agghiaccianti che mostravano i piccoli denti appuntiti. Il quadro era così realistico che ebbi l’impressione che si muovessero. Notai con disgusto che tra i denti di una ragazza c’era un pezzo di carne, mentre sulle lame delle spade e accanto ai loro piedi, macchie di sangue nero come petrolio. Le braccia e le gambe delle ragazze erano piene di lividi e cicatrici, attorno alle quali vi erano delle insolite sfumature nere che ne facevano risaltare le vene. Mi venne il volta stomaco quando mi accorsi che la ragazza alla quale somigliavo teneva in mano un cuore marcio, quasi nero dal quale strisciavano fuori dei vermi.

La sua mano era sporca del sangue di quel cuore, ma lei non sembrava preoccuparsene. Era tra le sue mani come un gioiello prezioso sta al dito di una donna avida. La luce del sole filtrò attraverso la finestra della sala e illuminando il quadro rese le ragazze incredibilmente simili a degli angeli. Angeli dannati, tormentati. Angeli oscuri. Le mie dita, come attratte da loro, iniziarono a sfiorarne i volti e i miei occhi, imprigionati dal loro fascino, ne seguirono il percorso.

«Sono belle vero?» domandò Kindra con voce serpeggiante piombandomi alle spalle.

Feci un o indietro, spaventata, e immediatamente distolsi lo sguardo dal quadro.

«Stavo solo…».

«Sì lo so» disse lei macabra «non volevo spaventarti. E così ora sai chi sei»

Mi limitai semplicemente ad annuire.

«Chi sono?» chiesi accennando al quadro.

«Sono le Shoulder Blade» annunciò con aria solenne e divertita al tempo stesso «Non lasciarti ingannare dalla loro bellezza però, chi l’ha fatto ne ha pagato le conseguenze».

«Che cos’ hanno a che fare loro con noi?».

«Loro hanno creato quello che siamo, sono il ato che si riflette nel presente e nel futuro». Kindra premette il tasto del registratore che si trovava su un tavolino in legno. L’unico oggetto moderno di quella stanza. Partì una musica potente e melodica.

«Wagner» dissi per niente stupita.

«Questa era la loro marcia. Veniva suonata prima della guerra e dopo la vittoria».

«Non hanno mai perso una battaglia?»La melodia cessò.

«Nemmeno una poi però quelle stupide hanno rovinato tutto».

«Justin ha detto che si sono innamorate…» Una smorfia di disgusto si disegnò sul volto di Kindra.

«Già. Avevano tutto quello che potevano desiderare: gloria, potere, rispetto, venerazione… Avevano capacitàimmense, un’abilità e una forza che nemmeno gli dei della Grecia possedevano e hanno sprecato tutto, per amore».

Tornai a posare lo sguardo sul quadro e per un attimo vidi nei loro occhi, non solo odio, ma anche solitudine e un disperato bisogno di essere amate.

«Gli elfi discendono da loro?»

«Questa che vedi nel quadro è la prima generazione, chiamata anche la razza pura. La prima creazione di Odino. Beh, in effetti, ècosì, ma i legittimi discendenti di questa stirpe, quelli che hanno il sangue delle Shoulder Blade che scorre nelle vene, siete tu e le ragazze. Noi altri siamo semplici elfi».

«Come si chiamano?» chiesi indicando il quadro.

Kindra si voltò verso di esso. «Sono Tiara, Celeste, Bryce, Jenna e Alomi. Questa invece» disse estraendo un libro dalla sua sacca «è la seconda

generazione. Il secondo esperimento di Odino dopo che uccise le altre ragazze» Mi mostrò una foto in cui erano raffigurate altre ragazze.«L’ultima a sinistra è Kim Stevenson, Aimee discende dalla sua casata, l’ultima a destra invece è Kaibi Kruger, da cui discende Darline. Quella alla destra della ragazza al centro è Fiamma Olivares dalla quale proviene Cassandra, mentre quella alla sinistra è Sasha Mc Dylan, da cui discende Joslin».

«E … la ragazza al centro?» Domandai immaginandomi già la risposta.

«Keia Monthgomery».

«Da cui discendo io».

«Esatto».

«Ora capisco la somiglianza» sussurrai, guardandola.

«Dopo la seconda generazione Odino rinunciò e da qui si ebbero solo le discendenti. Ecco ora ti faccio vedere». La pagina successiva che Kindra mi mostrò rappresentava gli alberi genealogici di ogni Shoulder Blade. Mi soffermai su quello della mia casata e sussultai quando vidi comparire il nome Jylien.

«Mia madre».

«Esatto. Faceva parte della discendenza della seconda generazione. Quella alla

sua destra è Azzurra la madre di Cassandra, l’unica rimasta in vita. Le altre sono Electra, madre di Darline e Sophia, madre di Aimee» .

«Sono solo quattro. Dov’èla quinta?»

«Eccola»disse voltando pagina.

«Il disegno è a metà».

«Questo è tutto ciò che abbiamo. Il medaglione indica che era una Shoulder Blade ma c’è molto mistero intorno a lei. Non ha mai combattuto al fianco delle sue compagne».

«La madre di Cassandra non l’ha mai vista?».

«Questa cosa è davvero buffa. Azzurra si ricorda addirittura di quante volte uno va in bagno ma su di lei» disse indicando il disegno «Nulla».

«Nulla?»

«Nulla. Nada de nada. Come se non l’avessero mai vista. Strano vero?»

«Direi». Kindra chiuse bruscamente il libro facendo spallucce e se lo rinfilò

nella sacca.

«Come hai conosciuto mia madre?»

«Era una vestale al tempio di Odino ed io ero una sacerdotessa. Ci siamo conosciute quando avevamo sedici anni, riconobbi dal suo medaglione che era una discendente della stirpe e inizialmente ebbi paura di lei. Poi però diventò la mia migliore amica».

«Tempio? Nella foresta?»

«Prima qui c’era di tutto».

«Le volevi molto bene».

«Era la mia famiglia» rispose brusca e corrugando le sopracciglia.

Ci fu un minuto di silenzio nel quale cercai di capire i pensieri di Kindra senza alcun risultato.

Improvvisamente mi domandò: «Conosci la leggenda del dio Odino?».

«Sì, certo. Ne abbiamo parlato a scuola». Kindra rise.

«La vera leggenda di Odino»precisò con tono di superiorità.

«È il nostro creatore, giusto?»

«Sì, ma c’ è molto di più». Guardandosi le unghie laccate di viola scuro iniziòdicendo«A quanto pare, secondo la leggenda della nascita dell’Universo, inizialmente non esisteva che un immenso vuoto, Ginnungagap, dal termine “géna” ovvero “baratro spalancato” o “ginn”cioè “magia”. Il primo a essere creato fu il mondo della Morte, situato a nord di Ginnungagap, chiamato Niflheimr “la casa della nebbia”, la regione dei ghiacci eterni, dominata dal gelo e da una nebbia fittissima. Al centro del Niflheimr, si trovava un gigantesco pozzo, Hvergelmir che significa “caldaia tonante”, dal quale scaturivano undici fiumi; enormi masse d’acqua che raggiungevano temperature molto alte e che bollivano e rimbombavano paurosamente senza sosta. Nello Elivagar, “flutti tempestosi”, si infrangevano delle enormi onde ghiacciate portatrici di una malefica spuma, che condensandosi, ricopriva tutto il Ginnungagap di una spessa coltre di ghiaccio. A sud del mondo si trova Muspell “la casa dei distruttori del mondo” da dove arrivava il calore provocato da altissime fiamme che lo divorano incessantemente. In questa regione regnava incontrastata la forza primordiale e terrificante del fuoco selvaggio, non ancora addomesticato dalla civiltà. Per l’azione del ghiaccio sul fuoco di Muspell si formarono delle gocce di gelo fuso: da queste piccole particelle di un caos in fermento nacque Ymir, un gigante che fu un progenitore delle forze del male, “I Giganti del Gelo”. Ymir era considerato padre e madre dei giganti, era enorme, tanto che disteso ricopriva tutta la terra.

Nelle smisurate cavità del suo corpo, celava un fuoco potentissimo che faceva sì che questo avesse una temperatura altissima, da qui deriva, infatti, un suo appellativo: Aurgelmir, “colui che fa bollire il fango”. Ma anche il gigante di fango e di terra aveva i suoi momenti di stanchezza durante i quali giaceva spossato sulla stessa materia che lo aveva generato. In uno di questi momenti di riposo, il gigante diede alla luce le sue prime creature mostruose: mentre

dormiva cominciò a sudare e da alcune gocce di sudore depositate nell’incavo della mano sinistra nacque la prima coppia di esseri giganteschi. Analogamente dalla sue gambe nacque un gigante a sei teste, Thrudhgelmir, “il gigante che rumoreggia con forza”, padre di Belgermir, il colosso che ha salvato dall’estinzione i suoi simili. Ogni goccia di sudore del gigante portava in sé il germe di una vita di un gigante, cosicché, tra miasmi e fetide esalazioni, nacque una moltitudine di esseri giganteschi dalle orrende sembianze, signori della malvagità. Dalla spuma creata dalla fusione del ghiaccio era nata anche Adhumula, “la nutrice”, un’enorme vacca da cui Ymir traeva nutrimento. La bestia, infatti, si nutriva leccando solo le cime delle maestose montagne di ghiaccio poste sullo sfondo del gelido orizzonte. Da questi ghiacci perenni la vacca estraeva una sostanza salata ricchissima, a quanto pare, di elementi nutritivi e fecondanti. Un giorno modellò i capelli di un essere dalle fattezze umane, il giorno dopo, seguendo gli oscuri dettami del suo istinto materno, scolpì un volto; il terzo giorno infine completò la sua opera e si distinse un uomo: Buri, “il generante”. Non si era mai visto nulla di simile: nella sua maestosità Buri era bellissimo e forte. Ma da soli e in un mondo come quello, non si poteva stare e un giorno Buri fece nascere un figlio a sua immagine e somiglianza: Bor, “il generato”.

Bor però non volle seguire le orme del padre e si unì a Bestla, la figlia del gigante Bölthorn, “spina del male”. Essi ebbero tre figli destinati a rivoluzionare l’ordine delle cose: Odino, Vili e Vé, esseri dotati di intelligenza oltre che di forza. I figli di Bor, avidi di potere, ingaggiarono una lotta furiosa con Ymir. Contro la loro astuzia il gigante nato dalla terra non poté fare molto e alla fine morì, colpito violentemente alla testa. Il sangue schizzò fuori a fiotti copiosi, provocando un vero e proprio diluvio rutilante, che inondò e travolse ogni cosa. La marea rossa condannò a una morte atroce tutti i giganti, tranne Belgermir che insieme alla moglie riuscì a salvarsi, aggrappandosi a un tronco cavo. La carcassa di Ymir precipitò nell’abisso degli abissi (Ginnungagap), macabra testimonianza della vittoria dei tre fratelli. Tra i resti in putrefazione si agitavano delle larve, germi inconsapevoli di nuove vite. Odino e i suoi fratelli info loro l’intelligenza e la coscienza: da quell’informe brulichio nacquero i primi gnomi, esseri di statura minuscola, progenitori dei nani e degli Elfi. Poco dopo i tre fratelli presero il cranio di Ymir e ne fecero la volta celeste. A sostenere l’enorme cupola ellittica posero quattro nani: Austri, Vestri, Nordhi e Sudhri. I loro nomi indicano i quattro punti cardinali. Alcuni frammenti incandescenti che

giungevano come meteoriti da Muspell precipitarono nei meandri oscuri del grande abisso e da allora, come fari, proiettano la loro luce sulla terra: sono gli astri, il sole e la luna. Ma lo scempio del mastodontico cadavere non finì qui: lo scheletro fu utilizzato per plasmare le catene montuose che attraversano la crosta terrestre. Il sangue fornì il liquido necessario per riempire le cavità della terra, dando luogo a laghi e mari. I capelli, nodosi e spinosi, servirono a creare quelle foreste così fitte che la luce del giorno a stento riesce a penetrare.

E con un gesto di inusitata violenza, il cervello fu spappolato e ridotto in frammenti che furono scagliati contro la volta ellittica: sono le nuvole.

La terra, sferica e cinta dall’anello acqueo dell’oceano, il mare più profondo e azzurro di tutti, fu sollevata, così come è, dagli abissi marini. Alle sue estremità i tre fratelli crearono il territorio destinato ai giganti, lo Jötunheim. Al centro della terra, per difenderli dalla furia devastatrice dei colossi, utilizzando le folte e irte sopracciglia di Ymir, eressero una muraglia grandissima che delimitava il territorio assegnato agli uomini, il Midhgard “il regno di mezzo”. Ora non rimaneva che creare gli uomini. I tre figli di Bor mentre eggiavano su una spiaggia raccolsero due tronchi trasportati dalla corrente: li tagliarono, modellandoli fino a farne delle forme umane. Odino infuse loro l’anima e la vita; Vili l’intelligenza e Vé i sensi. I primi esseri umani ricevettero dei vestiti e dei nomi: l’uomo fu chiamato Askr, “frassino” mentre la donna Embla “olmo o vite”. Askr e la sua compagna andarono ad abitare nel Midhgard e da loro si originò la razza umana. Ma Odino in segreto dai suoi fratelli aveva generato cinque ragazze dall’aspetto e sembianze divini che mandò sulla Terra per proteggere gli uomini dalle forze maligne che incombevano. Dotò queste ragazze di abilità sovrannaturali: una straordinaria capacità nella lotta, un’attività mentale più sviluppata e l’immortalità. Non avevano punti deboli e l’unico che poteva ucciderle era Odino stesso. Egli voleva che le sue creature proteggessero gli uomini senza la forza fisica, preferiva che utilizzassero le loro doti mentali. Con il are del tempo le sommosse popolari e le ingiustizie dei sovrani avidi di potere costrinsero Odino a ordinare alle sue creature di uccidere chiunque non le rispettasse e vi si opponesse. In qualsiasi battaglia combattessero ne uscivano sempre vittoriose.

Il loro stile di combattimento era veloce, imprevedibile e letale. Quando furono create Odino decise di non dare loro la capacità di provare emozioni perché le voleva fredde e spietate. Desiderava che il loro unico scopo fosse la protezione della razza alla quale era tanto affezionato e quindi non gradiva distrazioni. Ma con il are del tempo le ragazze della prima generazione desideravano sempre di più mescolarsi con gli umani e anelavano a provare emozioni. Così Alomi, la preferita di Odino nonché leader delle ragazze, chiese al dio di dotare lei e le sue compagne di sentimenti: ma il dio rifiutò severamente la proposta e giurò che le avrebbe uccise se avessero fatto ancora una volta una proposta simile. Un giorno trasgredendo le sacre regole della gerarchia divina, Freyir si sistemò sul trono di Odino e, da quello scanno fatato, poté contemplare ciò che accadeva sulla Terra. Splendide visioni attirarono la curiosità del dio, immerso nel caleidoscopico turbinio di migliaia di scene provenienti da quella terra lontana. Ma gli occhi divini furono ammaliati da uno spettacolo dalla bellezza incredibile: a settentrione, sulla Baia di Humboldt proprio dove era situata Eureka, scorse una fanciulla che si recava in un podere. Aveva i capelli biondi e lunghi, le labbra carnose e gli occhi intensi color marrone. Attirato dalla purezza dei lineamenti della ragazza, Freyr seguì con crescente interesse i i della donna, spiandone i delicati movimenti. E quando lei pose la candida mano sulla maniglia d’una porta, si diffuse tutt’intorno una luce soave, bianchissima, e subito dopo la fanciulla sparì dietro l’uscio e quell’incanto celestiale, quell’atmosfera di sogno creata dalla sua sola presenza, si dissolse nel nulla, lasciando Freyr nella disperazione. Il signore dell’abbondanza, l’amante sospirato da tanti cuori femminili, fu rapito da quelle immagini di splendore e in breve tempo divenne preda della più esaltante e dolorosa ione amorosa.

Forse fu proprio quella la punizione per il suo peccato di presunzione. Freyr, infatti, ritornato nei suoi possedimenti, fu preso dallo sconforto che colpisce gli innamorati in pena. Egli custodiva gelosamente il suo amore e non aveva voglia di bere, di mangiare, di dormire e di parlare: i suoi gesti mimavano l’apatica indifferenza dei cadaveri. Pallido e denutrito, il dio sedeva in un angolo, corrucciato e triste, rimanendo immobile per ore, con lo sguardo perennemente rivolto a nord, contemplando figure visibili solo a lui. Njdrdhr, vedendo il figlio deperire giorno dopo giorno, chiamò Skirnir, l’amico e servitore fedele di Freyr, pregandolo di parlare con il giovane e di scoprire l’origine dei suoi tormenti

interiori. Freyr, rivedendo il compagno di tante avventure, si sentì risollevato e con voce tremula gli raccontò del suo amore: gli parlò della fanciulla come della donna che aveva sempre inseguito nei sogni, senza però riuscire a raggiungerla nella vita. Ora il sole poteva sorgere per altri mille giorni: per lui sarebbe sempre stata notte fonda se non avesse potuto abbracciare la leggiadra ragazza. Skirnir, da amico sincero, rincuorò Freyr e lo spinse a raccontargli i particolari della scena a cui aveva assistito. Apprese così che si trattava di una delle creature che aveva generato Odino per proteggere gli uomini, Alomi, la cui bellezza era già stata magnificata da molti. Con l’animo sollevato dalla confessione, Freyr chiese al suo amico di recarsi nella Baia di Humboldt, luogo dove è situata tuttora Eureka, per chiedere la mano della ragazza, offrendole in cambio qualsiasi cosa desiderasse. Ma il fedele Skirnir, immaginando le insidie celate in una simile missione, chiese al dio di poter avere un cavallo all’altezza della situazione. Intravedendo finalmente uno spiraglio di speranza nelle tenebre che lo avvolgevano ormai da giorni, Freyr acconsentì volentieri alle richieste dell’amico e lo pregò di affrettarsi a compiere la sua missione.

Alcuni narravano che, non appena saputo dei desideri di Freyr, Alomi accettò la lusinghiera proposta di matrimonio senza alcuna esitazione. Ma gli antichi nordici raccontavano un’altra versione: ci volle tutto il coraggio di Skirnir per superare gli ostacoli posti sulla strada del matrimonio del suo signore con la bella Alomi. Ma tutto questo non bastò a contrastare la vendetta che Alomi aveva in serbo. Lei desiderava più di ogni altra cosa avere dei sentimenti per poter finalmente amare Manuel, un giovane da cui Alomi si sentiva fortemente attratta. Per giorni e notti intere il fedele servitore cavalcò, attraversando terre sconosciute, prima di giungere alla Baia dove si trovava la ragazza. Ella quando lo vide gli domandò, se per caso, non era un dio. Il messaggero divino le svelò subito le ragioni del suo viaggio e le offrì undici pomi d’oro, prezioso pegno d’amore per riscattare la sua libertà. Ma la fanciulla rifiutò sdegnata l’aureo dono, respingendo la proposta di matrimonio. Poi però si convinse che questa era la sua occasione, accettò la proposta e pronunciò la formula di rito, quel “salute a te” che annunziava nell’antica cultura nordica l’assenso alle nozze. Skirnir chiese alla donna di fissare la data delle nozze, Alomi gli parlò di un lago vicino alla radura nella foresta chiamato Keruk: lì, tra nove giorni, avrebbe concesso il suo amore al figlio di Njórdhr. Montato in groppa al suo cavallo il giovane galoppò veloce verso Asgardh, felice d’aver dissolto le pene d’amore del suo signore e amico. Naturalmente Freyr lo attendeva sulla soglia della sua dimora e,

senza attendere che scendesse da cavallo, gli chiese notizie. Conosciuta la data e il luogo del sospirato convegno amoroso, donò la sua spada al fido Skirnir. Ma poco dopo si udì il canto angosciato di Freyr che esprimeva la sua impazienza: come avrebbe potuto attendere nove notti ancora? Come poteva sopravvivere al desiderio struggente?

D’altra parte se il giovane dio non fosse stato così preso dal suo desiderio verso Alomi, si sarebbe accorto che la fanciulla non ricambiava il suo sentimento. ati i nove giorni venne finalmente il giorno del matrimonio e Alomi fu impeccabile: recitò alla perfezione la parte della ragazza innamorata tanto che Freyr desiderò restare al più presto solo con lei. La prima notte di nozze il dio dichiarò alla ragazza tutto il suo amore e le chiese se anche lei provava lo stesso per lui. Alomi allorasfoderò la sua arma vincente, la sensualità e disse al dio che se avesse provato dei sentimenti lo avrebbe amato per tutta la vita. Freyr allora accontentò la richiesta della sua amata e diede a lei e alle sue compagne la capacità di provare emozioni. Alomi però scomparve il giorno dopo e non si fece vedere per una settimana gettando nuovamente il dio in una profonda depressione. Freyr cercò la sua sposa per giorni e giorni.

Un giorno decise di cercarla alla Baita, dove aveva i suoi possedimenti, e la trovò lì; ma la gioia per aver finalmente ritrovato la sua sposa si tramutò in odio quando la vide tra le braccia di Manuel. Allora il dio consumato dal desiderio di vendetta e dalla delusione decise di confessare tutto a Odino. Andò dal dio e gli raccontò di come aveva segretamente sposato Alomi e di come aveva dotato le sue creature di sentimenti. Odino per poco non esplose dalla rabbia e ordinò a Freyr di chiamare immediatamente le ragazze. Ma il dio deciso a vendicarsi, organizzò le sue truppe e si scagliò con violenza sugli esseri umani. Ci fu una terribile battaglia tra le ragazze e il dio, nel quale le ragazze fecero tutto il possibile per proteggere gli umani. Durante la battaglia Freyr si trovò faccia a faccia con Alomi ma ancora fortemente innamorato di lei fu incapace di ucciderla, decise allora di cercare la sua vera ragione di vendetta: Manuel. Lo trovò nascosto dietro un cespuglio che soccorreva un amico ferito: quando il dio lo vide fu accecato dall’odio e lo pugnalò alle spalle.

Quando Alomi seppe ciò che era accaduto al suo amato la sua furia e il suo dolore furono incontenibili e sbaragliòchiunque le sitrovasse di fronte. In poco tempo le ragazze vinsero la battaglia. Poi arrivò Odino e, infuriato quanto dispiaciuto, punì le ragazze per la loro disobbedienza. Uccise prima i loro amati, decapitandoli, poi uccise le ragazze dopo averle frustate a sangue. Freyr chiese a Odino di risparmiare Alomi ma il dio non accettò la richiesta e la uccise davanti a lui. In seguito Odino punì anche Freyr condannandolo a diventare lo schiavo di qualsiasi donna lo desiderasse». Kindra alzò lo sguardo dalle sue unghie e mi fissòun momento.

«Tutto questo ha dell’incredibile» Kindra non sembrava affatto sorpresa. «E le valchirie allora?»

«Oh loro... Loro non era combattenti, si limitavano soltanto a raccogliere gli eroi morti in guerra e a portarli a Odino. Lui però voleva di più, per questo dopo il tradimento di Brunilde se ne sbarazzò».

«E diede vita alle Shoulder Blade».

«Già. Erano incredibili, la stessa Brunilde era nulla in confronto a loro».

«Caspita».

«C’è anche un’altra leggenda che ci riguarda. È la leggenda di Tyr, il signore delle battaglie. La vuoi sentire?» Annuii.

«La leggenda narra che negli attimi precedenti la battaglia, gli intrepidi guerrieri si muovessero nervosamente, stringendo con malcelata angoscia le luccicanti spade. In quei momenti carichi di tensione essi rivolgevano i loro ultimi pensieri a Tyr, il signore delle battaglie, nume tutelare della giusta vittoria. E, quasi a voler esorcizzare il pericolo di una morte incombente, incidevano sulle else delle spade e delle lance le rune del nome divino: segni indecifrabili, ma dotati di un potere immenso.

Su quelle armi i guerrieri, animati dal più profondo rispetto, si chinavano pronunciando tre volte il nome di Tyr, invocando la sua protezione e la vittoria. Tyr, però, non era il signore dello scontro sanguinario, della violenza esasperata e dell’efferatezza bellica: egli era il supremo protettore della guerra intesa come estrema soluzione di una contesa tra due parti. Dio della guerra, quindi, ma anche dio dei diritto. Come in un tribunale, i litiganti nei loro combattimenti seguivano delle precise regole, fissando luogo e data della battaglia. Perciò le guerre erano spesso definite “duello giudiziario”: i litiganti s’impegnavano a rispettare l’esito della disputa, chi vinceva era dalla parte della ragione, della giustizia. Gli antichi, per dimostrare il coraggio e l’ abnegazione del dio, raccontavano come egli avesse perso la mano destra, divenendo monco. Infatti, al pari di Odino, Tyr aveva dovuto pagare la sua eccezionalità con una parte del suo corpo, mutilandosi senza il minimo lamento. Accadde che, agli inizi dei tempi, Loki, il dio degli inganni, generò con la gigantessa Angrbodha, la sinistra “apportatrice di male”, lo spaventoso lupo Fenrir, feroce bestia dalle fauci micidiali. Nei primi tempi il lupo si aggirava nella cittadina divina, terrorizzando gli abitanti di Asgardh. E naturalmente nessuno aveva il coraggio di portargli da mangiare: solo Tyr, intrepido e incurante del pericolo, si azzardava ad allungargli ricchi bocconi. E così, in brevissimo tempo, Fenrir assunse dimensioni gigantesche, divenendo sempre di più fonte di panico per gli dei. Inoltre, sinistre profezie circolavano sul suo conto: si diceva che alla fine dei tempi avrebbe sbranato Odino e dilaniato altre divinità. Preoccupati e temendo per la propria sorte, gli dei si riunirono in consiglio e deliberarono di legare strettamente il lupo e di esiliarlo in una remota località, quanto più lontano possibile dai territori divini.

Odino in persona si occupò della faccenda e, senza perdere attimi preziosi, fece

fabbricare una catena robustissima, con maglie di ferro spesse e pesanti. Allora gli dei portando la catena, che chiamarono Loedhingr, si recarono da Fenrir e lo convinsero a farsi legare, dicendogli che volevano mettere alla prova la sua forza. Quando gli dei videro l’animale avvolto nelle spire metalliche, pensarono di essersi finalmente liberati di lui. Ma con sommo stupore videro Fenrir liberarsi dalla sua momentanea prigionia con un unico piccolo strattone. Dimenando la coda e digrignando le zanne candide, quasi a voler atteggiare il suo muso in un ghigno beffardo, il lupo allontanò Loedhingr con le zampe posteriori e riprese, fiero di sé, a terrorizzare gli dei. Essi, offesi e sempre più impauriti, commissionarono ai fabbri una seconda catena, più pesante e spessa della prima. Questa seconda catena poteva ben dirsi un capolavoro di solidità, con anelli simili a macigni bucati, finemente forgiati dai migliori fabbri. Sicuri che un tale ferreo vincolo avrebbe immobilizzato per l’eternità l’immonda bestia, gli dei si recarono nuovamente da Fenrir. Mostrandogli Dromi, questo il nome della nuova catena, lo sfidarono a dimostrare su tale impegnativo banco di prova la sua forza e il suo coraggio. Il lupo, osservando Dromi, si rese conto della consistenza dei pesanti anelli metallici e, temendo una sconfitta, pensò in un primo momento di non sottoporsi alla prova. Ma stuzzicato dalle battute degli dei che lo accusavano di codardia e, confidando nella sua accresciuta potenza muscolare, Fenrir accettò la sfida. Questa volta il lupo, che ansimava vistosamente sotto il peso di Dromi, sembrava definitivamente sconfitto: l’abilità dei fabbri aveva avuto la meglio sulla forza bruta della belva, imbrigliandola in un inestricabile groviglio in una trappola metallica senza scampo.

Fenrir, però, non sidiedeper vinto e, raccogliendo tutte le sue energie e incanalando la sua rabbia in uno sforzo estremo, si scosse con incredibile violenza: la catena si spezzò. I pesanti frammenti, veri macigni metallici, volarono tutt’intorno, cadendo al suolo accompagnati da fragorosi boati e scavando profonde cavità. La bestia malefica, dando fondo alle sue forze, si era liberata sia da Loedhingr sia da Dromi. Sembrava che nulla e nessuno potesse fermare il lupo che continuava ad aggirarsi minaccioso nella dimora degli dei in tutta la sua imponenza. Odino, conoscitore della somma sapienza misterica, decise di ricorrere alle più sottili ma efficaci, arti magiche. Inviò un suo messo nello Svartalfheim, il regno degli Elfi scuri, gli gnomi abitatori delle viscere della terra. Qui, uno gnomo esperto di sortilegi confezionò Gleipnir, un laccio apparentemente fragilissimo, soffice e liscio come seta frusciante. Gìeipnir, così raccontano gli antichi, era composto di sei elementi: il rumore del o di un

gatto, i peli della barba di una donna, le radici di una montagna, i tendini di un orso, il respiro di un pesce e, per finire, lo sputo di un uccello. Erano tutti ingredienti impossibili da trovare, ma carichi di potenza magica, capaci di stregare chiunque, anche l’essere piùforte poiché agivano sulle insondabili profondità dell’animo. A quel tempo la belva si aggirava sull’isola Lyngi, proprio al centro del lago Amsvatnir, regnando incontrastata nella ricca brughiera. Gli dei, ben conoscendo la segreta malia celata in Gleipnir, si avvicinarono ancora una volta al lupo, riproponendogli la sfida. Fenrir, che intanto era cresciuto e divenuto più scaltro e astuto, degno figlio di Loki, osservando la fragilità apparente di Gleipnir, intuì il tranello. Il lupo, infatti, pensò che se il laccio era veramente così fragile come sembrava allora non sarebbe stato certo un vanto per lui averlo spezzato; d’altro canto se si trattava di una magia non avrebbe avuto scampo.

In entrambi i casi non avrebbe dovuto accettare la sfida. Per non essere accusato di vigliaccheria, il figlio di Loki escogitò un piano per far uscire allo scoperto gli dei: disse che avrebbe accettato la sfida solo se uno degli dei, a mo’ di pegno, avesse messo una mano tra le sue fauci mentre veniva incatenato. Gli dei si guardarono in viso e, sentendosi ancora una volta beffati, pensarono che la bestia infame era diventata maledettamente furba. Ma Tyr, del quale era già noto il coraggio, si fece avanti e senza indugiare pose la sua mano destra in bocca al lupo: garantiva con quel gesto la buonafede divina. E questa volta a nulla servì la furia devastante di Fenrir: il laccio fatato gli impediva ogni movimento, facendo fallire miseramente i suoi tentativi di liberarsi. Unica vittima della rabbia di Fenrir fu la mano di Tyr che sparì, troncata di netto, nella possenti mandibole. Vedendo dimenarsi senza posa la bestia, gli dei proruppero in una fragorosa e liberatoria risata, indice del ato pericolo e della riconquistata tranquillità. Solo Tyr non rideva. Gli dei completarono la loro opera legando l’animale a una roccia che, con un martello enorme, conficcarono nelle profondità della terra. Tra le sue mandibole misero, come morso crudele, una spada affilatissima, cosicché, dimenandosi, emetteva continuamente sangue e bava, copiosi e putridi liquidi che alimentano il fiume sotterraneo Von. Immobilizzato alla roccia, Fenrir patì un orribile sofferenza fino alla fine dei tempi quando, con uno sforzo immane e aiutato dalle malefiche potenze di Muspell, riuscì a liberarsi, divorando nella battaglia finale Odino. Tyr, già martoriato dal lupo, fu vittima di Garmr, l’orrendo cane posto a guardia degli inferi. Le Shoulder Blade hanno ereditato il coraggio di Tyr. E tuttora anche nelle vene delle loro discendenti

scorre la forza di questo grande dio. Ecco perché voi riuscirete a sconfiggere il Nemico».

Kindra mi fissò aspettando una mia reazione ma riuscii solo a dire «Se non ci sono riuscite nemmeno mia madre e le altre, come puoi pensare che noi riusciremo a sconfiggere il Nemico?».

«Beh a dire il vero non credo che ce la farete, siete troppo mosci e sfaticati. Ci vuole qualcuno di più agguerrito per abbatterlo ma visto che non c’è nessun altro, mi dovrò accontentare di voi».

La sua faccia disegnò un’espressione rassegnata. Cercando di dimenticare quanto fosse dannatamente odiosa dissi «Che intendi dire?».

«Io mi dovrò occupare di voi, allenarvi per la grande battaglia» rispose scocciata «Voi non resistereste nemmeno un giorno senza di me. Siete nulla». Scandì bene le lettere dell’ultima parola. La sua considerazione nei miei confronti e in quella delle ragazze era davvero scarsa. Non sopportavo l’idea che, una donna simile, ci trattasse come zerbini. Non la sopportavo e avrei tanto desiderato mia madre al mio fianco. Dopo avermi oltreata andò a sedersi su una sedia di uno dei tavolini e con noncuranza si versò il tè nella tazzina.

«Ne vuoi?» disse invitandomi a sedere. Controvoglia mi sedetti davanti a lei e la osservai mentre gustava il suo tè. Alzò un sopracciglio quando si accorse che la fissavo.

«Niente tè?» Scossi la testa in segno di no. «Peccato, è una delizia divina» rispose, poi continuò «Allora spara, scommetto che hai delle cose da chiedere».

«Come facciamo a nutrirci dello stesso cibo degli umani?» Appoggiò la tazzina sul piattino.

«I nostri sensi sono più sviluppati di quelli degli esseri umani quindi riusciamo a percepire con maggiore chiarezza se una cosa èdolce o salata.

A volte può capitare però che il sapore sia troppo forte e per noi diventa molto fastidioso. Questa cosa accade soprattutto all’inizio quando un elfo inizia il suo processo di “trasformazione”, ma si tratta solo di attimi poi di norma la nostra percezione torna com’era all’inizio». Questo spiegava perché mi era capitato di sentire il sapore amplificato del sale nel prosciutto del mio panino.

«È il tuo destino» disse lei tagliente.

«A cosa ti riferisci?»

«A tutto questo. Le storie che ti ho raccontato prima, tu ne fai parte. Sei una parte importante in questo mondo, un altro tassello che si aggiunge al puzzle; quando tutto sarà in ordine saremo pronti a scrivere il finale di questa storia e questa volta saremo noi a vincere. Tutto quello che imparerai, le cose che scoprirai, tutto, ogni cosa, ti servirà per capire chi sei. Non ti è permesso arrenderti e tanto meno rinnegare ciò che sei. Noi stiamo lottando per salvare quel poco che resta e tu, piccola Zara, fino a quando respirerai lotterai con noi». Kindra parlava lentamente in modo che capissi perfettamente ogni singola parola. Il suo non era un consiglio o un modo per rassicurarmi, era più che altro un ordine. Allora era questo che dovevo fare. Salvare la mia gente, il mio mondo… Non potevo tirarmi indietro ma d’altra parte non sapevo neanche che cosa fare, come agire, non sapevo nulla. Non ero sicura di voler accettare la

realtà, preferivo continuare a credere che fosse un sogno, anzi un incubo. Mi terrorizzava la sola idea di avere dei poteri, mi disgustava l’idea di dover uccidere. Pregai che, una volta tornata a casa mi sarei svegliata e avrei realizzato di avere immaginato tutto. Justin non era un elfo, Kindra non mi aveva raccontato storie omicide ed io ero come tutte le altre. Sì, sarebbe stato bello se al mio risveglio fosse stata tutta un’invenzione della mia mente.

Mi sentivo intrappolata in una scatola di vetro, se qualcuno non mi avesse tirata fuori sarei soffocata.

«Dunqueè a questo che ti riferivi. Quando hai detto che avevo un compito. Io… non credo di essere all’altezza della cosa» sussurrai.

«Nessuno è all’altezza, ma questo non vuol dire che tu non abbia del talento».

«Tu non credi in me Kindra, non credi in nessuno».

«Io credo in me stessa, ed è quello che dovrebbe fare ognuno di voi».

«È una cosa difficile».

«Tutto è difficile, per questo sta a noi renderlo facile».

«Come?»

«Sei così ingenua che quasi mi ricordi tua madre» feci un mezzo sorriso e incrociai il suo sguardo per la prima volta sereno. «Era un complimento» disse con tono calmo continuando a fissarmi, quasi incuriosita. Restammo un attimo in silenzio poi mi decisi a porle il dubbio che da un po’ aveva iniziato ad assillarmi.

«Perché mia madre non ha detto a nessuno che io esistevo? Perché ha nascosto la mia immortalità?»

«Se avessi saputo la tua vera natura saresti stata in pericolo. I Sicari ti avrebbero cercata e trovata e probabilmente uccisa, Jylien non avrebbe mai rischiato così tanto per sua figlia. Così ha preferito non dirti nulla, ha evitato che ti trovassi in pericolo in modo che non scoprissi la tua immortalità. Ed è stata davvero brava a proteggerti per tredici anni nascondendoti questo segreto. Ha approfittato del fatto che l’evoluzione di un elfo inizia a compiersi generalmente verso i diciassette anni, in alcuni casi anche molto più tardi, ma sono pochi.

Questo di solito è il periodo in cui un elfo comincia a scoprire chi è: sviluppa la super forza, la super velocità, i sensi amplificati esattamente come è capitato a te, quindi è normale che tu non ti sia mai accorta di nulla».

Volevo la mia famiglia accanto a me, adesso. Mi mancavano.

«Justin... mi ha detto che cosa è accaduto davvero ai miei genitori. Glielo hai detto tu, vero?» Lei non rispose subito, si bloccò di colpo come se le mancasse il respiro.

«Io… sono tornata a Eureka e ho saputo della tua famiglia e ho iniziato a fare quello che mi aveva chiesto una volta tua madre. Ho cominciato a cercarti, Layla non era riuscita a comunicarmi molte informazioni ma mi aveva detto che eri molto simile a Jylien. Trovarti è stato difficile lo stesso. Quando ho incontrato Justin gli ho raccontato l’accaduto e… lui si è messo all’opera» la sua voce era agitata, tesa. I suoi occhi smisero di incontrare i miei. Kindra rimase un istante in silenzio a fissare il vuoto come in uno stato di trance poi si alzò di scatto. «Bene. Ora ci sono un paio di cose di cui mi devo occupare. Continua a fare il tuo giro, ti servirà per schiarirti le idee».

«E da che parte vado?»

«Quella che vuoi» rispose, prima di sparire nel nulla. Uscii dalla stanza incerta su quale direzione prendere. Svoltai a destra e percorsi un altro pezzo di corridoio, poi mi fermai di fronte ad un’imponente scalinata ottocentesca e lussuosa che doveva portare al piano di sopra. Il secondo piano era un completo labirinto di stanze. Tra camere da letto, bagni e studi dovevano essercene almeno una ventina. Camminavo guardandomi attorno sempre più sconvolta dall’eleganza di quel posto. A un tratto mi ritrovai di fronte ad una piccola stanzetta che doveva essere la soffitta.

La stanza era decisamente squallida: le pareti erano tutte sverniciate e il pavimento era in legno antico anziché in marmo come nel resto della villa. Le tende di tulle erano piene di buchi e i vetri delle finestre impolverati, ai bordi degli scaffali vi era la muffa. L’odore acre di quella stanza mi fece girare la testa e la troppa polvere mi fece starnutire. Quasi imprecai quando diedi una forte botta contro l’enorme armadio in stile barocco. Cautamente ne aprii un’anta e la mia immagine si riflesse nello specchio.

«Ah sì. Quelli sono gli occhi della speranza». Alle mie spalle comparve la figura d’un ragazzo dai capelli e gli occhi color marrone scuro. Alcuni degli innumerevoli ricci gli ricadevano sul viso e le fossette ai lati delle guance

rendevano la sua aria spavalda molto più simile a quella d’un bambino.

«Matt? Non mi dire che... » Dall’angolo destro della sua bocca spuntò un sorriso.

«E così Justin te l’ha detto. Era ora, non se ne poteva più d’aspettare».

«Aspettare cosa?»

«Che tu scoprissi la verità. Non hai idea di quanto abbiamo faticato per trovarti»Matt avanzò verso di me. «Sai, gli elfi hanno caratteristiche molto particolari ma il colore dei nostri occhi è di gran lunga una delle più interessanti perché è la cosa che ci distingue un po’ dagli umani, a volte è la causa per la quale veniamo scoperti ed è anche il motivo per cui alcuni di noi indossano lenti a contatto. I colori dei nostri occhi sono particolari e nessuno è in grado di possedere le nostre combinazioni, ce ne sono di diversi tipi e sono tutte bellissime però ecco… c’è un colore che supera tutti gli altri per la sua unicità».

«E quale sarebbe?»

«Il tuo» mi voltai verso di lui.

«L’azzurro?»

Rise. «Girati. Com’è possibile che chi vive nel mondo umano non vada mai oltre

il palmo della sua mano?».

Stavo per rispondere alla sua domanda ma lui m’interruppe dicendo «I tuoi occhi sono glauchi. Azzurri ma con una leggera sfumatura verde. Aspetta un attimo, ora ti faccio vedere». Poco dopo un raggio solare illuminò lo specchio e fui in grado di notare nella mia immagine riflessa, una leggera sfumatura verde. Rimasi senza fiato, letteralmente.

«Dovresti respirare adesso».

«Già…credo che dovrei» risposi stringendomi nelle spalle. Il fatto che anche Matt fosse un elfo chiariva il mio dubbio su cosa avesse in comune con Justin. Rimase a fissarmi in silenzio scrutandomi da capo a piedi. Sentii una sorta di formicolio in tutto il corpo, qualcosa di irritante come se mi fossi beccata l’orticaria.

«Ti faccio paura?» domandò con uno strano sorriso sul viso.

«Non l’avrei mai detto. Tu... un elfo?»

«Nemmeno io avrei mai creduto che tu potessi essere la figlia di Jylien. Tua madre era il mio idolo». Estrasse dalla tasca una fotografia e me la mostrò. Raffigurava il volto di mia madre. «Sono un suo grande fan, che ci vuoi fare».

«Quando seguivi Laura in realtà cercavi me». Ciò che credevo di aver solo pensato era fluito dalle mie labbra facendomene pentire all’istante.

«Più o meno. Il compito era di Justin ma lui mi ha chiesto una mano. Ne ho approfittato per conoscere qualche bella ragazza». Matt inspirò profondamente. Aveva le mani nelle tasche dei jeans, rigorosamente strappati, una maglietta bianca a maniche corte che metteva in evidenza il muscoli dell’addome e un paio di scarpe da ginnastica tutte sfasciate. Il suo portamento era quello classico d’un ribelle che se ne infischia delle regole eppure in lui c’era anche una certa serietà.

Continuava a squadrarmi e la cosa m’infastidiva. I suoi occhi erano diversi da quelli profondi e tormentati di Justin. Brillavano e si intonavo all’espressione maliziosa che stazionava sul suo viso. Si sporse oltre la mia spalla per specchiarsi per bene. Si sistemò i capelli e rimase a osservarsi come un perfetto narcisista. Avevo come l’impressione che non ci fosse nulla che lo potesse danneggiare. Trasalii quando Justin entrò nella stanza.

«Ah siete qui».

«Scendiamo subito» rispose Matt facendomi l’occhiolino.

Mentre camminavamo per tornare al piano di sotto fui completamente rapita da una meravigliosa melodia suonata con l’arpa. Rimasi in ascolto chiedendomi chi potesse realizzare una musica così bella.

CAPITOLO 12 - Qui, dove batte il cuore

Aimee era seduta su una sedia vicino alla finestra. Portava una tunica argentata con il cappuccio e stava suonando una bellissima melodia con l’arpa; le mani scorrevano veloci e delicate sulle corde che vibravano un poco ogni volta che le sfiorava. Guardava fuori dalla finestra come attratta dalle sfumature del cielo, con l’aria assente. Provai ad avvicinarmi a lei incuriosita.

Aveva la carnagione pallida ma a sorprendermi furono i suoi occhi: non erano del viola scuro che ricordavo ma di un azzurro opaco e del tutto privi di pupilla.

Le toccai la spalla. Non si mosse. Continuò a suonare. Le sue dita continuarono a sfiorare le corde dell’arpa fino a quando la melodia non cessò. Aimee si girò verso di me. I suoi occhi erano tornati del loro colore. La stanza in cui ci trovavamo doveva essere la sua. Le pareti di un rosa chiaro erano decorate con una serie di rose nere intrecciate e altri fiori tropicali. In fondo alla stanza l’immenso letto a baldacchino, davanti ad esso un angolo da trucco come quelli professionali. Era perfettamente in ordine, non tutta incasinata come la mia.

C’era una scrivania con il computer, scaffali dorati nei quali erano sistemati tutti i libri di scuola e a fianco, una piccola biblioteca personale dove, in ordine alfabetico erano suddivisi tutti i libri di lettura in base al genere.

Amava decisamente i romanzi rosa.

«Come mai quella faccia?» disse levandosi il cappuccio che aveva in testa.

«I tuoi occhi erano diversi».

«Non preoccuparti. Accade quando siamo concentrati. Gli occhi cambiano colore, entriamo in un universo parallelo ma ti ho sentita entrare lo stesso».

Sotto la tunica argentata Aimee indossava un abito celeste lungo fino al ginocchio, questa volta senza spalline e un paio di ballerine blu. Alla caviglia aveva un tatuaggio in bianco e nero: una E maiuscola decorata con roselline.

«Volevo sapere da dove provenisse la musica» dissi. Sentivo il bisogno di darle spiegazioni. «Ti ho interrotta?»

«È tutto a posto».

«Quello che stavi suonando…Cos’era?»

«Una vecchia melodia. La cantava mia madre per farmi dormire. Non ho mai amato l’arpa ma a lei piaceva».

«Era una musicista?»

«Una specie. Suonava prima di un combattimento. L’aiutava a rilassarsi».

«Hai paura? Quando devi combattere».

Aimee fece un respiro profondo«Ne ho eccome. Vengo sopraffatta dall’ansia ogni minuto, prima di una battaglia. C’è sempre un rischio quando si lotta: quello di perdere. Non mi riferisco solo alla battaglia, ma in generale. Perdere ogni cosa, anche la vita a volte. Tutto allora inizia a scorrerti davanti così rapidamente che daresti qualsiasi cosa per afferrare almeno uno di quei ricordi e tenertelo stretto».

«Perché lo fate? Perché combattete?»

Si voltò verso di me «Se non lo facciamo tutto quello che abbiamo perso sarà stato inutile. Migliaia di morti per niente. Non ècosì che deve essere. Mi hanno insegnato che nessuna morte è vana, che ogni cosa accade per una ragione. Combatto perché se non lo fi non potrei avere alcun futuro. Combatto perché è la mia terra, il mio popolo e me l’hanno portato via».

Aimee parlava con chiarezza, come chi non si sarebbe mai data per vinta. Nemmeno Justin l’avrebbe fatto. Erano decisi a lottare e l’avrebbero fatto fino alla fine. Io non la vedevo così. Avevo smesso di combattere tempo fa e non volevo far parte di questa lotta anche se Kindra mi aveva espresso chiaramente che non potevo farne a meno. Aimee era serena. Il suo sguardo era ancora su di me e non pareva avesse intenzione di distoglierlo. Credo che si stesse domando a cosa stavo pensando.

Pensavo alla sua tranquillità. Sia Justin sia Matt avevano il suo stesso atteggiamento tranquillo e rilassato. Non era una cosa che ci si sarebbe aspettati da chi, come loro, aveva vissuto nella guerra. Non riuscivo a comprenderli.

Mi sembrava improbabile essere una di loro.

«Sei arrivata da poco in città» dissi «Quella di oggi è stata tutta una messa in scena. Justin mi ha detto delle sorelle Granith».

«Dovevamo capire se eri davvero tu. Era necessario incontrarti».

«Sembra che ogni cosa dipendesse da me».

«In un certo senso era così. Kindra ti aveva cercato per parecchio tempo. Quando sono arrivata Justin era già in missione».

«Quindi è stato tutto programmato?»

«Non tutto. Il vostro incontro sì però. Matt aveva intuito qualcosa su di te ma non ne era certo. Quando ha saputo che il tuo cognome era Monthgomery lo ha riferito a Kindra. Non potevano essere sicuri che fossi proprio quella Monthgomery così hanno dovuto accertarsene».

«Tutto questo solo perché non sapevo chi ero. Assurdo».

«Presto tutto ti sarà chiaro».

«Ne dubito». Aimee fece roteare le caviglie «Cosa significa quel tatuaggio?».

Sul visetto candido si disegnò un sorriso «Edzard. Il fratello di Justin».

«Sì, mi ha parlato di lui».

Aimee arrossì «Ero una bambina quando l’ho conosciuto e me ne sono innamorata subito»fece una pausa«Dopo l’ultimo attacco dei Sicari venne distrutta ogni cosa, così io e la mia famiglia ce ne andammo. Avevo una sorella, più piccola, si chiamava Agnes, ricordo che stavamo mangiando quando i Sicari hanno fatto irruzione in casa nostra. Mio padre afferrò subito Agnes per un braccio e la strinse a sé. Era chiaro che volevano noi. Il Sicario si scagliò su mio padre e lo ferì al volto. Cadde a terra svenuto.

Mia madre mi fece scudo con il suo corpo e gridò al Sicario di andarsene. Usò i suoi poteri ma furono inutili. Allora il Sicario afferrò Agnes per i capelli. La sollevò da terra e le strappò il cuore dal petto. Bruciarono la nostra casa e non potei nemmeno salvarne il corpo. Mio padre uccise il Sicario, più volte anche da morto continuava a infierire sul suo cadavere. Ce ne andammo. Attraversammo la frontiera che delimitava la Bianca Terra della Pace e arrivammo in Svizzera. Sono rimasta lì per quattro anni. Quattro anni in cui non facevo altro che avere incubi. Non era vita quella».

«Mi dispiace» Fu l’unica cosa che riuscii a dire. Mi si era gelato il sangue nelle vene. Aimee aveva vissuto il mio stesso dolore, forse anche qualcosa di più.

«Ero spesso in pensiero per Edzard in quel periodo» disse «Le comunicazioni mentali non erano delle migliori. Avevo perso del tutto la testa».

«Comunicazioni mentali?»

«Possiamo leggere nel pensiero»spiegò «Solo che non è una cosa che avviene contemporaneamente. Ognuno può far leggere i propri pensieri solo a chi vuole; inoltre questo funziona solo se entrambi sanno leggere nel pensiero. A volte possono esserci delle complicazioni e non riusciamo a far leggere i nostri pensieri a nessuno».

«Che tipo di complicazioni?»

«Può capitare che nel momento in cui uno decida di mettersi in contatto con qualcuno, quella persona abbia altri pensieri oppure non percepisca il segnale. In quel caso non è in grado di far leggere i suoi pensieri e nemmeno di leggere quelli dell’altro».

«Sembra una cosa complicata».

«Non cosìtanto».

Restammo un secondo in silenzio. Il suo tono di voce era pacato e alle volte lento. I magnetici occhi viola avevano preso a fissare nuovamente oltre il vetro della finestra. Erano occhi che parlavano, quelli, raccontavano un mucchio di cose.

Aveva il dolore dipinto addosso ma se l’era aggiustato su misura, rendendolo quasi piacevole.

Non portava nessun rancore. Nessuna rabbia. Avrei giurato che avessimo qualcosa in comune, che anche lei, come me, avesse spento ogni emozione per andare avanti. Però non era così. Poteva essere afflitta e distrutta quanto voleva ma era ancora viva lei, c’era qualcosa che la faceva andare avanti ed io volevo sapere cos’era. Per un istante credetti che fosse l’amore di Edzard a darle la forza di continuare ma poi mi resi conto che si trattava d’altro. Per quanto l’amore che provava potesse essere forte, c’era di sicuro dell’altro.

Scrutavo il suo viso in cerca di qualche indizio, speravo di arrivare in fretta alla soluzione dell’enigma. Il sole le colpì il viso e l’iride violacea risaltò luminosa. Fu allora che capii l’enorme differenza tra me e lei. Aimee aveva speranza. Gliela si leggeva negli occhi, nei sorrisi a volte solo appena accennati e nella voce, melodica come la sua arpa. Aveva speranza, ma non una qualsiasi, una forte e radicata nel suo cuore, una fede incrollabile e indelebile come l’inchiostro. Io non ero così. Avevo rinunciato all’amore, alla speranza e alla fede. Mi ero lasciata inghiottire, invece di lottare per tornare a galla. Mi chiedevo se ci fosse possibilità di riemergere. Se sarei stata in grado di coglierla. Ècosì che va a finire, le emozioni sono il nostro motore e quando le spegniamo smettiamo di vivere poco a poco.

«Justin mi ha parlato dei vostri poteri» dissi «Qual è il tuo?».

«Posso entrare nei sogni della gente».

«C’è una spiegazione in questo?»

«Secondo Kindra dipende dal momento in cui siamo stati in pericolo e abbiamo sentito il bisogno di difenderci».

«A teè capitato durante un sogno?»

«Sì. Un incubo a dire il vero. Mi sembrava di soffocare. Ho desiderato essere da un’altra parte e di colpo mi sono ritrovata nel sogno di mia madre».

«Non ho mai creduto negli elfi. Nemmeno nei vampiri o roba del genere. Il fantasy non mi è mai piaciuto».

«Una strana ironia»disse Aimee accennando un sorriso.

Mi vennero in mente le parole di professor Nicklas «Il fantasy cambierà il tuo punto di vista sul mondo» Non aveva idea di quanto avesse ragione.

«Dobbiamo andare» annunciòAimee«Kindra vuole parlarci».

«È successo qualcosa?»

«Non l’ha detto. Non sarà nulla di grave, vedrai».

Mi limitai a seguire Aimee al piano di sotto. Mi condusse nell’atrio della villa

nel quale vi era un immenso tavolo e un divano a isola vicino al caminetto. Justin era seduto sul divano pensieroso. Guardava il camino spento e non pareva essersi accorto del nostro arrivo.

«Cosa vuole Kindra?» domandò Aimee sedendosi accanto a lui e facendomi cenno di seguirla.

«Igh na’im» Avevo riconosciuto la voce di Matt fin dal corridoio ma di quello che aveva detto non avevo compreso una parola.

«Gheeta naymm Darline?» Guardai Aimee senza capire.

«Ut ghaiila mec Edzard jee Kindra» rispose Matt.

Tossii «Stiamo ancora parlando di Kindra?».

Aimee sorrise«Scusaci, ci viene cosìnaturale usarla».

«L’antica lingua degli elfi» si affrettò ad aggiungere Justin.

«Cosa vi siete detti?»

«Aimee ha chiesto dov’era Darline e ho risposto che stava arrivando con Edzard

e Kindra» rispose Matt appoggiato al muro. Si rivolse ad Aimee «Emozionata? Edzard il grande arriverà tra tre… due… uno».

Il collo di Aimee fu avvolto delle braccia di un ragazzo dalla pelle e gli occhi chiari.

Quando il ragazzo le schioccò un bacio affettuoso sulla guancia, sorrise.

Era spaventosamente identico a Justin. Avevano gli stessi lineamenti del viso: leggeri e precisi. La sola cosa che li distingueva era la corporatura un po’ più muscolosa di Edzard ma per il resto, avevano gli stessi capelli castano chiaro e il sorriso allegro e seducente.

«È tuo fratello?»

«Sì, è proprio lui».

«Ti somiglia moltissimo».

Justin sorrise «No, lui è meglio di me».

«Mi sembra impossibile crederlo».

Incrociai lo sguardo del ragazzo: gli occhi giallo-verdi erano intensi come quelli di Justin e mi mettevano a disagio. Distolse lo sguardo da me e le sue labbra si posarono su quelle di Aimee.

Matt fece un o in avanti «Ehi, a me non lo dai un bacio?».

Edzard sollevò lo sguardo verso di lui e venendogli incontro disse: «Dio, quanto tempoè ato?».

«Troppo amico» Matt gli diede un pugno sulla spalla «Davvero troppo».

«Ma guarda un po’ chi ètornato!» mi voltai verso la voce elegante che aveva parlato. Appoggiato a una colonna, un ragazzo dagli occhi azzurri ci fissava allegro.

Edzard gli si piombò addosso.

«Chi è quello?»

«Lui è Alan» rispose Justin sorridendo «è il fratello di Cassandra».

Lo sguardo di Edzard si posò su Justin. Fece un respiro profondo. Justin gli andò incontro e l’abbracciò.

«Devo presentarti una persona» disse Justin sciogliendosi dall’abbraccio «Lei è Zara. Zara Monthgomery».

«L’ultima delle Shoulder Blade. Benvenuta in famiglia».

«Grazie».

«Ti abbiamo cercata parecchio, sai?»

«Sì, ne sono al corrente».

Edzard sorrise «Ti divertirai un mucchio con noi. Sicari, poteri magici… Roba forte».

«Dalle tempo Edzard» disse Justin «Zara deve ancora ambientarsi».

Matt si materializzò al mio fianco così in fretta che non me ne accorsi «Per questo le do una mano io». I suo occhi marroni si posarono su di me. Il senso di disagio tornò ad assalirmi.

«Ehi ragazzi!» una voce squillante e armoniosa risuonò nella stanza.

Proveniva da un piccolo balconcino con la ringhiera che si trovava al secondo

piano della villa. Darline, seduta sulla ringhiera con le gambe a penzoloni, stava mangiando una mela. Edzard si voltò verso di lei e tutto avvenne in un attimo: Darline scagliò la mela nella direzione di Edzard, lui alzò immediatamente il braccio, distese il palmo della mano e afferrò la mela. Darline salì a piedi uniti sulla ringhiera, saltò giù atterrando a quattro zampe e si diresse verso di noi con un sorriso soddisfatto in volto.

«Potevi anche scendere dalle scale invece di fare tutta questa esibizione» commentò Edzard lanciando la mela nel camino.

«Lo so, solo che non sarebbe stato altrettanto teatrale» rispose lei ridendo.

«E così sei tornato tra i comuni mortali?».

«Ti sono mancato?»

«Può essere» rispose lei «A Kindra di sicuro».

Edzard scoppiò a ridere «È bello essere a casa».

«Se continueremo a perdere tempo non l’avremo piùuna casa» la voce dura e fredda di Kindra risuonò nella stanza. Si sedette sul tavolo; Cassandra, Alan e Joslin dietro di lei si sistemarono sul divano.

«Come mai ci hai fatto chiamare?» chiese Justin.

«Ci sono delle novità» rispose Darline.

Matt la fissòincuriosito«Tu sai di cosa si tratta?».

«È la cocca di Kindra» rispose Cassandra con una smorfia «Lei sa sempre tutto».

Ignorando il suo commento Darline disse: «La cosa riguarda principalmente Zara».

«Di che si tratta?» domandòAimee.

«Il Consiglio ha preparato il test» rispose Kindra con naturalezza.

«Il test?»Alan era confuso«Quello che verifica il livello di preparazione di un elfo?».

«Proprio quello» rispose Kindra.

«Hai detto che a prepararlo è il Consiglio. Com’è possibile?» Justin lanciò un occhiata furtiva a Darline poi rivolse il suo sguardo su Kindra.

«Che ti aspettavi! Avere il nonnino tra i membri del Consiglio ha i suoi vantaggi, giusto Darline?».

«Hai parlato con tuo nonno?» le chiese Matt. Lei annuì «Pensavo che non volessero più parlarci dopo quello che è successo».

«Cos’è accaduto?» domandai.

«Trovarti non è stato facile e abbiamo commesso un errore» disse Justin «Quando Kindra ha saputo della tua esistenza lo ha subito riferito al Consiglio e loro le hanno ordinato di trovarti. Ècosì che tutto ha avuto inizio, ècosì che abbiamo iniziato a ricongiungerci».

«Quando dici che è stato commesso un errore che cosa intendi?».

«Abbiamo preso la ragazza sbagliata» disse Kindra.

«Come?»

«Non sapevo niente di te. Non avevo idea di come fossi fatta così mi sono affidata all’istinto».

«Ci siamo affidati all’istinto»la corresse Justin«Trovare quelli della nostra specie è facile, siamo svelti a riconoscerci ma quando c’è di mezzo la magia è tutto più difficile».

«Magia?»

«È la fonte dei nostri poteri»disse Aimee.

«Che cos’ha a che fare la magia con me?»guardavo Justin a malapena.

«Tua madre la praticò su di te. Fece un incantesimo di occultamento per evitare che il Nemico ti trovasse ma in questo modo impedì anche a noi di farlo»disse Kindra«Ci ho riflettuto ed è la sola spiegazione possibile. L’occultamento blocca la magia, impedisce a essa di manifestarsi e non permette che avvenga la trasformazione».

«Gli elfi non nascono con i poteri»disse Cassandra«le cose avvengono gradualmente. Per il primo periodo della nostra vita siamo esattamente uguali agli umani, sappiamo di essere diversi solo che ancora non lo siamo».

«Ma con l’adolescenza la magia inizia a svilupparsi nel nostro corpo e comincia la trasformazione. Iniziamo a manifestare la super velocità e la super forza e infine il nostro potere» finì Alan.

«L’occultamento ha bloccato tutto questo e ci ha impedito di trovarti. Ai nostri occhi eri una ragazza normale. Non percepivamo la tua magia » Justin mi guardò negli occhi «Credevamo di aver trovato una ragazza che potesse essere te ma non fu così. L’abbiamo esposta a un rischio molto alto ed è morta».

«La morte di un innocente va contro ogni principio morale del Consiglio, per questo ci dissero di non cercarti più».

Kindra si guardò le unghie «Ma io ho fatto di testa mia e adesso ti abbiamo trovata il che ci riporta al problema iniziale».

«Convincere mio nonno non è stato facile»spiegò Darline «Alla fine però si sono fidati di me. Ci hanno dato un’altra possibilità per dimostrargli che abbiamo trovato la figlia di Victor e Jylien solo che vogliono accertarsene personalmente».

«Cosa vuol dire che vogliono accertarsene personalmente?» chiese Edzard.

«Avevano intenzione di venire immediatamente a Eureka ma dovevamo ancora sbrigare delle cose alla Rocca Forte, perciò hanno deciso che a sottoporre il test a Zara sarò io» rispose Kindra con voce piatta continuando a guardarsi le unghie.

«Se ci pensate non è male come idea» intervenne Darline «Per loro ci vuole tempo per arrivare fin qui, quello necessario affinché Zara si alleni per combattere».

«Cos’è la Rocca Forte?» domandai.

«È il luogo in cui si è formato il primo Consiglio ed è vietato ai membri che ne fanno parte lasciarlo incustodito. Vi sono i più grandi segreti che ci riguardano e deve essere assolutamente protetto. Anche se ci siamo spostati molto negli ultimi

tempi la Rocca Forte è rimasta sempre nel luogo in cui venne fondata: nell’Helena West Side nella Contea di Lewis e Clark» rispose Aimee con un tono di voce apparentemente calmo.

«In ogni caso vogliono facilitarci le cose e ci manderanno un regalino» disse Kindra.

«Di cosa si tratta?» domandò Justin.

Darline sorrise «Syla».

Ero davvero confusa «Chi è Syla?»

Matt rise«Non è una persona. Syla in elfico significa sfera. Nei tempi antichi veniva usata come mezzo premonitore per le battaglie».

«Manderanno un membro del Consiglio a consegnarcela» lo sguardo di Kindra si posò su di me «Così potranno vederti con i loro occhi».

«Quante sono le prove che Zara deve superare?» chiese Alan.

«Tre» disse Darline con una nota di nervosismo nella voce. Per un attimo nella stanza cadde il silenzio. Mi chiedevo che cosa sarebbe successo e che cosa avrei dovuto affrontare. Mi ripetevo che ero coraggiosa, che dovevo esserlo, ma non facevo altro che mentire a me stessa. Non ero mai stata coraggiosa. Helan entrò

nella stanza miagolando, balzò sul tavolo vicino a Darline che gli accarezzò le orecchie con delicatezza.

«Sarà meglio cominciare il tuo addestramento» affermòKindra«Non abbiamo molto tempo. Dobbiamo muoverci. Vieni con me».

Quando arrivammo nella foresta Kindra mi puntò i suoi occhi di fuoco addosso «Abbiamo molto lavoro da fare, seguimi e non distrarmi. Oggi emo la magia».

Deglutii «È complicata da usare?»

«Diciamo che è molto pericolosa. Per imparare a gestirla ci vuole tempo e non ne abbiamo».

«Che devo fare?»

«Tutto quello che ti dico io».

«Okay».

«Dunque, la magiaè uno strumento molto prezioso e importante ma deve essere usato con cautela. Fa parte della nostra razza, è un dono che abbiamo da quando siamo nati ma bisogna saperlo gestire. Molti sostengo che la magia sia qualcosa di astratto e quindi modificarla risulterebbe impossibile, ma non ècosì: se così

fosse sarebbero astratti anche i nostri poteri ma è ovvio che sono concreti».

«Aspetta… Hai detto modificarla? È possibile farlo?»

«Sì è possibile ma l’uso che se ne fa non è per niente nobile. Richiede un grande sforzo energetico e gli effetti che porta con sé sono devastanti»fece una pausa«Al di fuori della Bianca Terra della Pace ci sono le Terre Nere, territori maledetti conosciuti con il nome di Ghalox. Gli antichi li avevano definiti “ il luogo del sacrificio alla luna” perché ogni notte, quando la luna era alta nel cielo, urla terrificanti provenienti da quei territori squarciavano il silenzio della foresta. All’inizio si credeva si trattasse di qualche animale selvaggio ma una notte un giovane esploratore decise di addentrarsi in quei territori con l’intento di scoprire che cosa accadesse realmente. Quando arrivò al confine con i Ghalox la luna era già alta nel cielo, così si affrettò e, guidato dalle urla laceranti si diresse nel luogo “sacro”. Appena arrivato assistette a uno spettacolo raccapricciante: un gruppo di elfi incappucciati scuoiava viva una sacerdotessa del tempio di Odino. La stavano sacrificando convinti che in cambio la luna avrebbe donato loro il potere di distruggere le Shoulder Blade. Il ragazzo ne rimase paralizzato. La leggenda narra che tornò indietro per avvertire il popolo ma il suo destino fu alquanto crudele. Egli s’imbatté in una fanciulla dallo sguardo ipnotico e il canto melodioso. Bastò una semplice nota cantata dalla sua voce per porre fine alla vita del giovane esploratore. Da allora i Ghalox sono maledetti e nessuno della nostra specie vi ha più messo piede».

«È lì che viene modificata la magia?»

«Esatto».

«Chi mai potrebbe fare cose tanto orribili?».

Kindra incrociò a malapena il mio sguardo «I Draken».

«Chi sono?»

«Un clan di elfi. Sono sempre stati convinti che Eureka gli appartenesse e hanno mosso numerosi attacchi contro le Shoulder Blade. Quando il Nemico ha iniziato a fare stragi se ne sono andati. Ma adesso basta parlare, abbiamo altro di cui occuparci!» mi lanciò una breve occhiata «Per quanto riguarda la magia, ognuno di noi ha un fisico diverso in grado di sopportarla o no, se il fisico dovesse cedere potresti anche morire». Kindra puntò i suoi occhietti scuri su di me «Tanto per sapere» iniziò corrugando la fronte «ti imbottisci di flebo farmacologiche oppure sei anche in grado di mangiare e di mettere su un paio di chili?».

«È la mia costituzione» risposi guardandomi i polsi «non sono così magra».

«Spero soltanto che tu non sparisca nelle fessure del pavimento mentre ci alleniamo»disse ridendo.

«Tranquilla so gestire qualche tavola di legno».

Il suo sguardo si fece serio «Se il fisico non riesce a sopportare la magia che hai in circolo non puoi farcela. Sei finita».

«Pensavo che non avessimo questo tipo di problemi, insomma, noi siamo

immortali no?».

«Be’ non esattamente».

«Che vuol dire non esattamente?»

«Spesso quella parola viene fraintesa: l’immortale è colui che non è mortale cioè non umano. Siamo immuni al genere di cose che possono uccidere un essere umano come un’incidente d’auto, una malattia, un colpo di pistola ma non per questo siamo invincibili».

«E qualè… il nostro punto debole?»

«La magia nera»Kindra spostòlo sguardo da me«Ti insegnerò alcune parole nella lingua antica e a schivare alcuni attacchi. Sono le cose base quindi non devi scordartele».

«Perché è un assassino e noi dobbiamo difendere la nostra terra» rispose fredda «Il mio obiettivo è quello di rendere la tua mente e il tuo corpo abbastanza forti da essere in grado di respingere la sua magia».

Feci un respiro profondo. «Ci sono».

«Ripeti quello che dico io. Kalistar !»

«Che vuol dire?»

«Significa Fuoco. Avanti ripeti».

Sentii una morsa afferrarmi lo stomaco e sgretolarmelo «Kalistar!».

Nel medesimo istante in cui lo pronunciai le mie mani generarono due sfere infuocate. Feci un o indietro, temendo di brucarmi. Ma ciò non accadde.

Le sfere fluttuavano sopra il palmo della mano producendo un calore piacevole. Non riuscivo davvero a capire se fossero reali oppure no. Strinse le mani in un pugno ed esse svanirono. La testa divenne pesante.

Alzai gli occhi verso Kindra «Cos’erano quelle?».

Le sue labbra disegnarono un sorriso «Hai appena comandato la magia» la guardai senza capire «Essa si basa sui quattro elementi: Fuoco, Acqua, Terra, Aria. Se riesci a comandarli, puoi comandare la magia» Mi guardò di sottecchi «Adesso vediamo se ne sei in grado. Quando pronunci Kalistar lancia le sfere verso di me».

«Kalistar» ripetei e nello stesso istante in cui lo feci le mie mani generarono nuovamente due sfere infuocate. Mi concentrai e le diressi verso Kindra.

«High» La massa infuocata che poco prima stava sfrecciando nell’aria si tramutò in ghiaccio schiantandosi al suolo «High vuol dire acqua e serve a comandarla. Rifallo».

Mi sentivo la testa pesante e le gambe molli. Avevo come la sensazione di essermi ubriacata tanto al punto di svenire. Kindra gridava di ripetere l’esercizio. Provai a concentrarmi e a fare quello che diceva lei. A ogni lancio mi sentivo sempre più fiacca.

«Adesso iamo alla Terra. Zataki».

Invocai la Terra ed ella venne a me. Il terreno sotto i miei piedi iniziò a tremare. Nelle profondità più remote del mondo qualcosa si mosse. Potevo sentire il suolo agitarsi con forza, potevo sentire la sua potenza immensa che si risvegliava dalle viscere della terra. La Terra si manifestò in tutta la sua grandezza provocando un’enorme spaccatura proprio d’innanzi ai miei occhi: era profonda e minacciosa e avevo paura che m’inghiottisse, le radici degli alberi si sradicarono dal sottosuolo.

La vista si fece annebbiata.

«Comandale» disse Kindra.

«Ma non so cosa devo fare».

«È attraverso le tue mani che scorre la magia. Non devi fare altro che usarle».

Alzai la mano destra di qualche centimetro. Incredibilmente la radice fece lo stesso quasi attratta da una forza suprema.

«Non la senti» mi sussurròKindra all’orecchio. Deglutii. Non riuscivo ancora ad abituarmi ai suoi spostamenti veloci e improvvisi «Proprio qui, dove batte il cuore. L’energia che si propaga in ogni cellula del corpo, la morsa che ti afferra lo stomaco fino a toglierti il respiro, i peli delle braccia che si rizzano al solo pensiero di poter dominare ogni cosa. Una scarica di adrenalina» Kindra mi pose la mano sul cuore. Era strano averla così vicina.

Sentivo il suo fiato caldo sul collo e il profumo al gelsomino aleggiava nell’aria.

La mano, posta ancora sul petto, era ferma e decisa e sotto di essa il cuore iniziò a battere all’impazzata. Kindra aveva ragione. Lo sentivo. Sentivo un flusso d’energia scorrermi dentro, sentivo la morsa allo stomaco e il formicolio alle gambe e alle mani e alla schiena. Non era solo la consapevolezza di possedere un potere enorme nelle mani, era qualcosa di più. La magia risvegliava i miei sensi più nascosti facendomi riscoprire me stessa.

Mi rendeva forte e padrona del mio corpo. Ero intoccabile, immune a qualsiasi cosa, invincibile. Niente poteva ferirmi. Mi bastava un cenno della mano per scaraventare la radice lontano, da qualche parte nella foresta.

La mano di Kindra scivolò via dal mio petto. Mi sarei aspettata di provare sollievo e invece mi sentivo svuotata. È dura andare avanti con il cuore scoperto, specialmente dopo che è stato protetto con cura e determinazione. È dura, davvero molto dura, bisogna calibrare ogni singola mossa.

«Dunque» disse scostandosi da me «iamo all’ultimo elemento: l’Aria».

La mano si fece debole. L’abbassai subito e la radice fece lo stesso.

Mi sentii schiacciata da un enorme peso, come se stessi affogando e non riuscissi più a tornare a galla. La magia scorreva impetuosa e forte, forse troppo forte per me.

«L’Aria è il più difficile da comandare tra gli elementi quindi presta attenzione. Ighor» Una folata di vento arrivò nella mia direzione. Era così forte che arretrai di qualche o. I capelli, raccolti in una coda, oscillarono al vento «Con Ighor puoi comandare il cielo. Puoi far nascere una bufera, un tornado e così via. Potresti spazzare via un’intera città, se lo volessi» Abbassò lo sguardo «Ora prova a fare questo».

Invocò Ighor e un piccolo tornando arrivò nella nostra direzione. Evocò l’Acqua e con essa congelò il tornado, con Kalistar invece, lo distrusse.

«Ti aspetti davvero che ci riesca?»

«Mi aspetto che tu faccia collaborare gli elementi».

«High» lo sussurrai appena, quasi temessi il suo arrivo. Fra le mie mani si materializzò una sfera d’acqua bollente. Soffocai un grido e lasciai cadere la sfera. La voce di Kindra risuonava fastidiosa e martellante. Respirai a fondo e

invocai il Fuoco. L’energia mi attraversò tutto il corpo con prepotenza.

Il respiro si fece affannato. La magia navigava dentro di me, si agitava come il mare in tempesta procurandomi dolore e disorientamento. Sotto il peso del mio corpo, le gambe cedettero. Provai a gridare ma non ci riuscii allora mi portai una mano alla gola e mi resi conto che non sentivo l’aria attraversarla. I miei occhi cercarono Kindra ma tutto era offuscato e scuro. La magia si muoveva dentro di me privandomi di ogni energia mentre un odore acro e pungente mi entrava nelle narici. Non riuscivo a muovermi, ero paralizzata. Il mio corpo era la mia stessa prigione. La sola cosa che vedevo era un colore caldo e lucente: il rosso, mischiato all’arancione e a un po’ di giallo. S’estendeva per tutta la foresta come se un pittore l’avesse schizzato con rabbia sulla tela, si allargava sempre di più divorando ogni cosa. D’un tratto l’odore acre si fece più intenso.

Il rosso che mi avvolgeva e che dapprima mi sembrava lucente iniziò a farsi spento e buio. Dentro di me, urlavo. Mi guardavo attorno in cerca di Kindra, mi chiedevo dove fosse e per quale motivo non mi stesse aiutando. Nel frattempo il rosso, l’arancione e il giallo sparirono. L’aroma acre scomparve e intorno a me rimase soltanto uno strano calore e un odore di terra bruciata.

«State tutti bene?» la voce di Kindra non sembrava tranquilla, tuttavia non potevo esserne certa, era tutto confuso.

«Stiamo bene. Dobbiamo portarla alla villa».

Ci fu un vociare sommesso e distaccato.

Vedevo delle figure muoversi attorno a me ma non avevo idea di chi fossero.

Non c’era più aria nei miei polmoni, erano troppo leggeri.

CAPITOLO 13 - Sempre più vicini

«Ti sei ripresa» disse una voce che percepii a malapena.

Qualcuno mi stava asciugando la fronte con una pezza bagnata. Aprii gli occhi e mi ritrovai in un enorme letto a baldacchino. Riconobbi la stanza ordinata e luminosa di Aimee. Provai ad alzarmi anche se la testa mi girava ancora ma lei mi rigettò nel letto. «Sei ancora debole Zara» disse con voce armoniosa «devi riposare un altro po’».

«Cos’è successo?»

«Sei svenuta» rispose sedendosi accanto a me. Sorrise dolcemente con lo sguardo sereno e tranquillo. Le mani delicate e candide di Aimee sfiorarono il mio viso; mi sistemò i capelli dietro le orecchie mentre con cura tamponava la fronte. Con lei accanto sembrava d’essere tornata bambina. Si occupava di me come se mi conoscesse da una vita, come se fossi la sua migliore amica. Il suo tocco era estremamente delicato, quasi avesse paura di farmi male, ma una come lei non avrebbe mai potuto farmene. Tutto l’opposto. La osservai mentre prendeva la bacinella sul comodino, se l’appoggiò sulle gambe e vi inzuppò alcune pezze di stoffa. Mi posai una mano sulla fronte. Scottavo. Avevo la febbre.

«Sto bene Aimee, sul serio, non è necessario che tu faccia tutto questo» le dissi mentre mi mettevo a sedere. Lei abbozzò un sorriso e rimettendo la bacinella sul comodino rispose: «Invece credo che lo sia».

«Non è niente davvero. Sicuramente avrai altre cose da fare, posso farcela da sola» Si voltò di scatto. I suoi occhi viola mi fissarono come non aveva mai fatto.

«Hai ragione, ho tantissime altre cose da fare ma al momento tu sei la mia priorità».

«Sono solo svenuta e ho la febbre, non sono in punto di morte».

«C’eri molto vicino però».

Sospirai. Grandioso. Davvero grandioso. Faccio bruciare una foresta, rischio di uccidermi... Sono proprio un disastro.

«Posso entrare?» la voce di Justin mi riscosse dalle mie riflessioni. Aimee gli fece cenno di sì. «Come stai?» Si sedette accanto a me con un piccolo sorriso sul viso.

«Meglio» E nel momento stesso in cui lo dissi realizzai che era proprio così.

«Dunque, dunque, dunque sei in grado di controllare la magia ma il tuo corpo è troppo debole per sopportarla. Dovremmo calcare di più sul lato fisico» Della presenza di Kindra all’interno della stanza non mi ero neanche accorta. Dopo poco arrivarono anche Darline e Cassandra.

«Oh andiamo, non si regge in piedi» disse Cassandra appoggiandosi al muro.

«Non è pratica di queste cose» rispose Darline «Dobbiamo aiutarla».

«Ci vorrà tempo ma ce la farai» Justin mi rivolse uno sguardo colmo di speranza.

«Questa cosa è patetica! Non c’è tempo! Non possiamo starle dietro».

«Cassandra...».

«No Aimee, non mi farai stare zitta. Sai che ho ragione, lo sapete tutti solo che non volete mai ascoltarmi».

«Cassandra, Zara ha bisogno di noi. Imparerà. È una tipa sveglia» disse Darline guardandomi.

Kindra rimase in silenzio.

«Dio! Ma siete tutti ciechi! Un Elfo che è consapevole di esserlo ci impiega anni prima di dosare la magia, di scoprire il suo potere... Lei... non è come noi. Ci siamo sbagliati di nuovo!»

«Non ci siamo sbagliati» disse Justin «discende dalle Shoulder Blade come te».

Cassandra roteò gli occhi al cielo «Ostinatevi pure a fare come vi pare, ma non contate su di me».

«Non ècosì che agiamo, lo sai bene» disse Aimee con tono dispiaciuto.

«Sinceramente me ne frego».

«Cosa? Stai forse rinnegando uno dei nostri principi fondamentali?» Per quanto si sforzasse Darline non riusciva a stare tranquilla. Cassandra doveva aver toccato il tasto sbagliato.

«No, Darline non rinnego nulla. Non farei mai un torto alla nipote di Carlos» rispose lei in tono provocatorio. Darline esplose.

«Non è a me che fai un torto sciocca! Ma a tutto quello in cui crediamo. Solidarietà, fedeltà verso il proprio popolo... Oltre al combattimento e alla guerra c’è anche questo. L’hai scordato?»

«No» rispose Cassandra dura «non l’ho dimenticato».

«Carlos lotta per questo ed io porto avanti il suo lavoro».

Cassandra si morse il labbro fulminandomi.

«Cassidy?»Kindra guardòCassandra ridendo.

«Non chiamarmi così».

«Va a farti un giro» il tono di Kindra era severo «hai dato abbastanza spettacolo oggi».

«Al diavolo»Cassandra uscì dalla stanza sbattendo violentemente la porta.

«Darline?»

«SìKindra?» Anche se non voleva darlo a vedere Darline era ancora visibilmente turbata.

«Va dagli altri, sai cosa fare» lei annuì. «Darline?» la ragazza si bloccò di colpo «Non alterarti ma più in questo modo davanti a me. Non sopporto queste scenate».

Darline le dava le spalle. «Ti fanno venire l’emicrania?»

«Esatto» Darline si voltò di scatto verso di lei. Le sorrise e Kindra ricambiò.

«Sono anticonformista. Cassandra è solo fastidiosa»

Darline rise. «Mio nonno ha scelto la persona adatta per questo incarico».

«Fila via» le rispose Kindra in tono quasi scherzoso. Darline uscì all’istante.

Kindra si rivolse a me «Rimettiti in fretta, abbiamo del lavoro da fare oggi» Uscì dalla stanza seguita da Aimee.

«Caspita».

«Vedrai che a Cassandra erà» disse Justin porgendomi un bicchiere d’acqua «la febbre ti è ata?».

«Sì» affermai constatando che non mi scottava più la fronte. «Voglio riprendere l’allenamento con Kindra».

Justin corrugò le sopracciglia. «Non credo che sia una buona idea».

«È necessario. In questo modo prendere coscienza di chi sono sarà più semplice».

«Okay, allora ti accompagno».

Dopo essermi sistemata per bene, ci dirigemmo nello stesso posto dove eravamo stati il giorno precedente ad allenarci.

«Come mai andiamo proprio lì?»

«Quello è l’unico posto da cui è possibile controllare l’intera foresta».

«Ma che senso ha nascondervi nella foresta se volete sembrare come gli esseri umani?» Justin sorrise appena.

«Questo è l’unico modo in cui possiamo allenarci e tenere lontano i Sicari, loro non attaccherebbero ma i luoghi pubblici. Il loro scopo non è quello di farsi notare, anzi, è esattamente il contrario» Lo fissai senza capire. «Vediamo come posso fartelo capire meglio. In altre parole sono un po’ come i vampiri: si fanno vedere solo di notte perché sensibili alla luce del sole, noi e la foresta siamo la notte, la città è la loro luce del sole».

«Allora è solo gli elfi che vogliono. Gli umani sono al sicuro».

«Non sarei così ottimista. Finora hanno dato la caccia a noi ma solo perché siamo il primo ostacolo che hanno incontrato».

«Quindi David, Ludmilla e Alexa sono in pericolo?» Justin non rispose. Chi tace acconsente.

«Ascolta» disse dopo un po’ «li sorveglieremo. Alan e Aimee si occuperanno dei tuoi genitori e Matt di Alexa poi ci alterneremo».

«Aspetta? Matt e Alexa?»

Il volto di Justin dipinse un espressione turbata. «Qual è il problema? Non vuoi che si occupi di lei?»

«Spero solo che la prenda seriamente».

«Matt non ècosì idiota come sembra. Non mi preoccuperei se fossi in te. Credo sia interessato a qualcun’ altro».

Mi bloccai di colpo. Justin fece lo stesso. «Guarda che non è come credi».

«Non mi devi delle spiegazioni» Dall’angolo destro della sua bocca spuntò un sorriso compiaciuto. «Ma mi fa piacere».

«Posso chiederti perché?» Temevo il modo in cui avrebbe potuto rispondermi.

Se m’avesse dato una risposta come la si darebbe a un amica non credo che ne sarei stata felice, nel profondo speravo fortemente che la risposta fosse d’altro tipo.

«Quando parlo con te mi sento vivo per la prima volta».

Mi attraversò un uragano del tutto indescrivibile. Mi sfregai le mani sudate sui jeans.

«A me capita la stessa cosa».

«Con Matt non succede?»

Gli mollai un pugno sulla spalla. Respirai a fondo «L’incantesimo che mi ha fatto mia madre, come si è spezzato?».

«Sai, la mia prima ragazza si chiamava Stella, avevo 14 anni quando mi sono fidanzato con lei. Era alta con gli occhi marroni e i capelli castano chiaro. Aveva le labbra sottili e le gote sempre rosee. Era dolcissima e molto buona, forse troppo. Ricordo che si preoccupava sempre per me e controllava che io non stessi via troppo a lungo, come se avesse paura che io potessi andarmene o che mi potesse capitare qualcosa. Ma fu l’opposto: fu Stella ad andarsene. Per sempre. Morì durante la guerra. La cosa più strana fu che non provai nulla. Ero sempre stato felice con lei, o almeno così credevo. Nel momento in cui mi resi conto che non c’era più non mi sentii solo o abbandonato ma compresi che la mia storia con Stella si era basata su un sentimento più amichevole. Non so come spiegartelo: c’era un legame tra di noi ma non quel tipo di legame che si ha quando si è innamorati. Mi sentii vuoto. Volevo che quel vuoto fosse riempito e soffrire sembrava l’unica cosa in grado di farlo. Ma non succedeva nulla. Ero muto. Completamente. La ricerca di questo vuoto da completare forse è stato anche uno dei motivi per cui mi sono messo con Grace. Feci uno sbaglio enorme però, di cui mi pento ancora e che non rifarei mai più. Grace era bellissima, ma

la sua bellezza era sempre stata inquietante: aveva gli occhi marroni con delle sfumature verdi, i capelli corti e rossi, la carnagione olivastra, le labbra carnose. Aveva un portamento sexy e seducente. Avrei dovuto capirlo subito che c’era qualcosa in lei che non andava. Ma ero da solo, c’era appena stato l’ultimo attacco del Nemico e avevo perso tutto. Avevo 17 anni. All’inizio andò tutto bene poi mi accorsi che lei non era come l’avevo sempre vista. Era aggressiva e ammaliatrice, decisamente troppo ammaliatrice. Arrivò il momento in cui dovetti ritornare a casa. Avevamo programmato questo momento, lei sarebbe tornata a Eureka con me. Ma quando le dissi che era arrivata l’ora lei rispose che non voleva venire. Insistette affinché io restassi con lei, cercò di sedurmi e fu in quell’istante che capii chi era davvero. Grace era una Draken».

Justin raccontava ogni cosa nei minimi dettagli come se stesse ricordando tutti quei momenti. Provai una sorta di gelosia verso quelle ragazze.

«Kindra mi ha raccontato di loro».

«Allora saprai già con chi ho avuto a che fare. Spiegai a Grace che Eureka era la mia terra e lei disse che la terra dei Draken poteva diventare mia se l’avessi voluto. Rifiutai la sua offerta e tentò di uccidermi. Non so se mi abbia mai amato e adesso che ci penso non so nemmeno se io l’abbia mai amata».

«Perché mi racconti queste cose?»

«Noi elfi siamo fatti di legami. La storia dell’anima gemella per noi non è affatto un mito, esiste davvero. Lei è l’unica e la sola che conterà per sempre. Le altre lasceranno sempre un vuoto inspiegabile. Puoi stare con chiunque ti pare ma l’anima gemella è la sola con cui ti sentirai davvero vivo».

Mi guardò negli occhi «Mi hai chiesto come si è spezzato l’incantesimo dell’occultamento, be’, è stata l’anima gemella a romperlo».

«E come si fa a trovare la propria anima gemella?».

«Se lo chiedono tutti all’inizio ma per noi è abbastanza semplice come cosa. Due elfi capiscono subito se sono fatti l’uno per l’altra, sentono una specie di fitta al cuore, in un certo senso sta a indicare che sono in grado di percepire le emozioni l’uno dell’altro».

«Questo legame lo percepiscono entrambi? Se una persona percepisce le fitte automaticamente lo percepisce anche la sua metà?».

«Sì. Il legame tra due anime gemelle è in grado di far ritornare in circolo la magia spezzando l’incantesimo, in questo modo la tua trasformazione ha ricominciato a procedere».

Mi era capitato di avvertire una fitta una volta. Adesso che ci pensavo accadeva sempre quando Justin mi era accanto. Credevo che fosse dovuto al dolore che provavo per la mia famiglia. E se invece... No, era assolutamente impossibile.

«Come fai a sapere chi è l’altra metà?»

«Solitamente te ne rendi conto».

«In pratica per voi c’è sempre un lieto fine» dissi in tono sarcastico.

«Questo non so dirtelo, forse percepiamo solo le cose in modo diverso».

«Con Stella e Grace non hai mai sentito le fitte?» Fece segno di no con la testa. «Immagino che quando accadrà te ne renderai conto».

Mi morsi nervosamente il labbro inferiore fino a farmelo sanguinare. Tutto quello che sentivo per lui non era immaginazione, erano sentimenti veri. Tenermeli per me non mi dispiaceva affatto; mi piaceva fantasticare su una vita futura con lui, immaginavo come doveva essere il contatto con le sue labbra, l’odore della sua pelle.

Un po’ mi sentivo sciocca, discorsi del genere non mi erano mai ati nemmeno per l’anticamera del cervello ma lui sconvolgeva ogni equilibrio, ogni razionalità. Il mio baricentro si spostava se si parlava di lui, venivo attratta da una forza superiore a quella gravitazionale, una forza che mi spingeva a essere migliore. Non potevo sapere se ero la sua anima gemella, ma che importanza poteva mai avere? C’era qualcosa in quello che provavo che non poteva essere spiegato né con miti nécon teorie.

«In quali occasioni si sentono le fitte?».

«Generalmente quando il proprio compagno soffre. I legami che stringiamo sono così forti che è possibile anche percepire il dolore della persona amata, come fosse il proprio. Ci piace pensare che si tratti d’una sorta d’amore eterno».

«L’amore eterno non esiste, è solo un’utopia» Quei profondissimi occhi verdi ruotarono su di me.

«Può darsi».

«Tu ci credi?»

«Nell’amore eterno? Non saprei».

«Laura mi ha detto una cosa riguardo a Matt» dissi «Lei crede che non sia del tutto in grado di amare. È perché lui è un elfo e lei no?»

«Possiamo provare questo tipo di legame solo con chi è come noi. Elfi e umani non dovrebbero mai mischiarsi. La legge lo vieta».

«Farete del male a Laura?»

«No. Ma per il suo bene non deve avvicinarsi a Matt».

Il sole fece capolino da dietro le nuvole. L’espressione che aveva in volto era estremamente riflessiva, sapere quello che gli stava ando nella mente in questo momento non mi dispiaceva affatto. Sentivo una morsa allo stomaco e il cuore sussultare di tanto in tanto. Rimasi in silenzio a guardarlo, mentre il sole, sempre più prepotente, si addentrava nella foresta.

Gli illuminò il viso. Sotto quella luce, i lineamenti del suo corpo risultavano scolpiti, le vene apparivano più evidenti e potevo solo immaginare quale flusso di vita vi scorresse. Mi si mozzò il fiato in gola quando mi resi conto che mi stava osservando nello stesso modo in cui facevo io. Mi riflettevo nei suoi occhi e non credevo d’essere io.

Il vento mi scompigliava i capelli e normalmente sarei sembrata una pazza, invece in quegli occhi ero tutt’altro: sicura, consapevole di me stessa, piena di fiducia e speranza nella vita. Quegli occhi mi facevano bella, bella perché non mi vergognavo di niente, bella perché forse effettivamente lo ero. Mi chiedevo se era così che mi vedeva Justin, se mi considerasse almeno un po’ attraente. L’aria mi fluì dalla bocca come se fossi stata in apnea per chissà quanto tempo. Eppure stavo respirando in modo del tutto normale. Il respiro di Justin mi colpì dritto in faccia e allora capii.

Quello che stava trattenendo il fiato era lui. Si era incantato a fissarmi.

Il forte calore del sole mi colpì in viso mischiandosi a quello che sentivo alle guance. Improvvisamente qualcosa squarciò il silenzio della foresta. Un grido. Vidi cadere un grosso albero alle spalle di Justin .

Gli era pericolosamente vicino. Una voce involontaria nella mia mente come controllata da qualcuno gridò “Sollevalo. Solleva l’albero”.

L’albero che un secondo prima stava per schiantarsi contro Justin rimase sospeso a mezz’aria. “Spostati” pensò la voce. Con uno sforzo che mi richiese un energia enorme, riuscii a spostare la direzione dell’albero. Stremata, la voce nella mia testa cessò. L’albero cadde precipitosamente a circa un metro di distanza da

Justin con un tonfo sonoro che rimbombò per l’intera foresta. La vista mi si annebbiò. Justin davanti a me mi guardava con gli occhi spalancati.

«State bene?» gridò un uomo oltreando l’imponente tronco.

«Tutto a posto» risposi. Un boscaiolo dagli enormi baffi neri si fece strada verso di noi.

«Scusateci. Io e il mio collega stiamo abbattendo alcuni alberi malati. Non vi è arrivata la comunicazione che non si poteva stare nella foresta oggi?».

«Ci dispiace» rispose Justin.

«A dire il vero in questa foresta non ci dovrebbe mettere piede nessuno. Ha qualcosa di strano, non vi sembra?»

Un rumore, dapprima lontano, divenne sempre più intenso man mano che un grosso camion avanzò verso di noi. Al comando vi era un ometto grassottello.

«Tutto a posto Bob!» gridò l’uomo. Il compagno si sporse dal finestrino.

«La gru sta arrivando, dobbiamo portarlo via!».

«Perfetto!» si rivolse verso di noi «Su andate via, abbiamo del lavoro da fare. Tornate a casa».

«Per quanto ne avete ancora?» chiese Justin preoccupato.

«Circa un’ora. Per fortuna non tutti gli alberi sono messi male come questo».

«Andiamo via» disse Justin strattonandomi. Corremmo il più veloce possibile verso la parte più interna della foresta.

«Sanno che siete qui?»

«No, non è la prima volta che c’imbattiamo in cose del genere. La Bianca Terra della Pace è degli umani adesso ma per fortuna sappiamo ancora nasconderci bene. Non ci hanno mai trovato ma questo renderà più difficile allenarsi».

«Cos’è successo?»

«Devi dirmelo tu».

«Ho sentito una specie di voce nella mia testa, è comparsa dal nulla. Mi ha detto di sollevare l’albero e... l’ho fatto» risposi ancora incredula.

«Credo proprio che tu abbia appena scoperto il tuo potere» disse Justin.

«È una cosa che è avvenuta involontariamente, io non ci ho neanche pensato».

«I poteri sono involontari».

«Cosa facciamo adesso?»

«Andiamo da Kindra».

«Lei può aiutarti a gestirlo» disse Justin mentre avanzava spedito davanti a me.

«Dove si trova?»

«Non lo so. La cosa migliore da fare è raggiungere gli altri, vicino alle cascate».

Ci muovemmo abbastanza rapidi tra gli alberi e arrivammo alle cascate in poco tempo. All’improvviso sentii uno strano rumore, qualcosa che rotolava nell’aria a una velocità sorprendente. Una palla era stata appena lanciata, ma non era una palla normale: era di ghiaccio.

Proveniva dalla direzione in cui stava andando Justin, se si fosse avvicinato ancora l’avrebbe sicuramente colpito. Di nuovo quella bizzarra voce entrò nella

mia testa e mi ordinò di distruggere la palla. “Distruggila!” pensai e nel medesimo istante la palla cadde ai piedi di Justin in mille pezzi di ghiaccio.

«Questa è la seconda volta che mi salvi la vita in un giorno» disse fissando quel che restava della palla di ghiaccio. «Andiamo, siamo vicini al gruppo».

«Come fai a saperlo?»

«Quella sfera era di Cassandra».

Attraversammo la foresta per un altro paio di metri poi finalmente, arrivammo alle cascate. Erano tre, disposte a semicerchio. Le loro sorgenti si trovavano in cima a tre montagne ripide e l’acqua scorreva perpendicolare a esse, sfociavano in tre piccoli laghetti collegati tra loro da piccoli ponti in pietra. Cassandra se ne stava seduta su uno di quei piccoli ponti. Immergeva la mano nell’acqua e quando la tirava fuori sul suo palmo vi era una sfera. Non appena ci soffiò sopra,la sfera si congelò, poi la scagliò contro il tronco di un albero.

«Dove sono gli altri?» chiese Justin andandole incontro.

«Non lo so. A me hanno detto di venire qua».

«Non hai ancora sbollito la rabbia?»

«Lascia perdere».

«Allora sei pronta Monthgomery?» Kindra mi si parò davanti.

«Sì».

«Mettiti in posizione» Mentre mi sistemavo m’accorsi che accanto ad un albero era seduta una figura tutta incappucciata. Sollevò appena la testa a da sotto il cappuccio nero che le copriva metà del viso scorsi due penetranti occhi color rame che mi fissarono minacciosi.

«Lascia perdere Joslin, è sempre su di giri perché non sopporta gli addestramenti» disse Alan piombandomi alla spalle. Mi girai verso Justin.

«È Joslin quella?» egli annuì.

«Non vorrete mica cominciare senza di me?» domandò Darline arrivando dal limitare della foresta e sedendosi su un tronco di un albero che si trovava a terra.

«Qual è la situazione?» chiese Edzard arrivando insieme ad Aimee e Matt.

«Tutto sotto controllo per il momento. I boscaioli se ne andranno tra poco. Qui siamo al sicuro».

Aimee si sedette accanto a lei, mentre Edzard e Justin si sedettero sui ponticelli

di pietra. Matt s’appoggiò all’albero dove si trovava Joslin.

«Da oggi cara mia, comincerai a sostenere il tuo test a partire dalla prima prova».

«Ho iniziato ad allenarmi nemmeno due ore fa».

Kindra tirò fuori dalla sua bisaccia un sacchetto di cuoio.

«Come avrai capito andiamo di fretta. Dobbiamo capire se sei in grado di combattere oppure no».

«In questo modo il Consiglio non potrà vedere se èuna combattente valida» osservò Matt.

«Ho trovato un rimedio anche per questo. Nel caso in cui non riuscissero a portare Syla in tempo».

«Che cosa c’è nel sacchetto?» chiesi curiosa. Svuotò il contenuto sul palmo della sua mano mostrandomi tre palline di vetro di colore nero.

«Ti presento le Shakaar. Sono palline magiche con il potere di riconoscere la verità e la menzogna. Ci serviranno per capire se sei in grado di combattere».

«Come si usano?»

«In pratica quando avrai terminato la prova se una delle palline è diventata bianca significa che l’hai superata se invece resta nera no» disse Alan mentre strofinava con cura il suo arco argentato e la sua faretra.

«Accidenti si può sapere dove diavolo trovi tutti questi oggetti? Sembri avere con te la borsa di Mary Poppins» Edzard lanciò un occhiata veloce a Matt che non si trattenne dal ridere.

«Fate pure gli spiritosi, ma quando uno dei Sicari vi avrà immobilizzato con la magia nera vedremo che cosa rimarrà di voi e della vostra voglia di scherzare» rispose Kindra fulminandoli con lo sguardo.

«Che devo fare?»

«Tiro con l’arco. Hai una buona mira Monthgomery?»

«Diciamo... ».

«Alan!» Kindra fece segno ad Alan di avvicinarsi. «Il nostro caro amico ti insegnerà. Farai dieci lanci, così capiremo se hai mira e quando avrai finito ti batterai con lui».

Deglutii.

«Alan è il nostro migliore arciere, se la sa cavare e tu dovrai imparare da lui» disse Aimee, nel tentativo vano di rassicurarmi.

«Si accettano scommesse: punto 10 che vince Alan. Senza offesa per Zara» rispose Edzard facendo dondolare le gambe avanti e indietro.

«Ti piace vincere facile non èvero? Io punto 20 su Zara» affermò Darline con decisione.

«Matt? Partecipi?»

«Principessa se la caverà».

Justin s’irrigidì ed io sussultai.

«Okay Darline, ci sto».

«Siete sempre i soliti» commentò Alan.

«E se lo colpissi?» chiesi rivolta verso Kindra.

«Non gli accadrebbe nulla perché è immortale. Adesso fa come ti dice» rispose Kindra scocciata. Alan si pose a una distanza di almeno due chilometri da un albero ed io mi sistemai vicino a lui.

«Devi tenere la corda ben tesa in modo che, quando fai partire la freccia, questa abbia abbastanza potenza, così. La direzione della freccia la decidi tu, puntando l’arco nella direzione che vuoi. Adesso ti faccio vedere come colpisco il centro di quel tronco laggiù».

Prese dalla sua faretra una freccia e ne accarezzòla piuma celeste, la sistemò nella corda dell’arco che teneva ben tesa come mi aveva detto e, al segnale di Kindra, la freccia schizzò a una velocità assurda e si conficcò proprio al centro dell’albero che avevamo davanti.

«Adesso prova tu».

«Non è un po’ lontano?»

Alan scoppiò a ridere «Due chilometri non èniente!».

«Ora parte il tuo primo lancio» annunciòKindra.

«Forse questo lo azzecca» disse Edzard. Justin gli lanciò una gomitata tra le costole. Feci come aveva detto Alan e la freccia si conficcò dritta nel terreno. «Mi sa che mi sono sbagliato».

La seconda e la terza freccia che scoccai si conficcarono molto più in alto di quella di Alan, mentre la quarta, la quinta e la sesta un po’ più a destra; la settima, l’ottava e la nona un po’ più a sinistra.

Sembrava che beccare il centro fosse impossibile.

«Sto decisamente vincendo» canticchiò Edzard.

«Edzard ci riuscirò, ci scommetto 30 dollari» dissi voltandomi verso di lui. Edzard strizzò gli occhi. Matt mi lanciòun sorrisino inquietante.

«Un po’ alta come scommessa, non credi?» Non risposi «Staremo a vedere».

Scoccai la decima freccia che spaccò a metà quella di Alan.

«L’avevo detto io» Matt si materializzò in un secondo al fianco di Darline. La ragazza alzò gli occhi al cielo quando l’elfo dagli occhi castani le avvolse il braccio intorno al collo.

«Mi state prendendo in giro? Che diavolo era quella roba?» ringhiò Kindra fissandomi negli occhi. Helan, apparso dal nulla, miagolò.

«Fallo di nuovo! 1 su 10 ti sembra un buon risultato?»

Senza farmelo ripetere di nuovo tentai nuovamente. Non so per quante volte ripetei l’esercizio ma quando per la centesima volta riuscii a fare 10 su 10 Kindra decise che ero pronta. Ero sfinita.

Le braccia e le mani mi facevano un male tremendo.

«Bene ora potete combattere» annunciòKindra«e ricordate che potete usare anche la magia».

Fissai le mie mani sofferenti. Mi erano venute delle piccole macchie scure sulle dita probabilmente dovute alla forza con cui avevo stretto l’arco. Poco dopo sparirono lasciandomi però un formicolio a entrambe le mani. Kindra insistette affinché fossi io a incominciare quindi, come prima mossa, decisi di continuare con le frecce e ne scoccai una che Alan schivò con una agilità sorprendente. Alan contraccambiò l’attacco invocando l’elemento della Terra che io distrussi con Kalistar. Aveva i riflessi davvero pronti, schivava ogni mio attacco e ogni mia freccia ma la cosa peggiore era che prevedeva le mie mosse. Sapeva che avrei usato un certo tipo di magia perché consapevole che io ero a conoscenza solo di quella, eppure c’era una cosa che Alan non aveva previsto: il mio potere. Alan era pronto a scoccare la sua freccia, mi concentrai al massimo e lo fissai negli occhi.

Il mio potere poteva distruggere le cose quindi avrei aspettato che la freccia mi fosse arrivata abbastanza vicina per poi poterla distruggere. Alan scoccò la sua freccia che partì nella mia direzione. Pensai nella mia mente la parola “Distruggi” ma un’altra voce nella mia testa disse “Sollevalo!” E nel momento in cui lo disse Alan si trovava per aria mentre la sua freccia, frantumata in mille pezzi, era sotto di lui. Invocai Ighor e le radici afferrarono Alan portandolo a terra.

Era stato tutto involontario, non riuscivo ancora a capire che cosa fosse successo.

«Quindi hai scoperto il tuo potere?» chiese Kindra incrociando le braccia sul petto

«L’ ho scoperto oggi».

«I poteri non emergono a caso» disse Cassandra all’improvviso.

«Questo è vero» affermò Alan.

«Vi è successo qualcosa prima?» domandòAimee.

«Ha così importanza?» Ma dal modo in cui tutti erano interessati direi che lo aveva.

«Un albero stava per cadermi addosso» rispose Justin avvicinandosi a me «Zara l’ha lasciato sospeso a mezz’aria».

«Forte» Matt si strinse a Darline guardandomi con intensità.

«Bene, così abbiamo un problema in meno» Sul palmo della mano di Kindra una delle palline nere si levò. Sprigionò una luce simile a quella d’una stella che

brilla alta nel cielo e piano piano il suo colore, da nero inchiostro mutò in un bianco opaco come il colore delle perle. La Shakaar se ne stava ancora sospesa a mezz’aria e luccicava. D’un tratto sulla sua superficie liscia comparve una scritta.

«Alìtheia » Lessi ad alta voce.

«Sei portatrice di verità» disse Darline «Hai superato la prima prova».

«Come ha fatto a diventare bianca?»

«Le Shakaar hanno una speciale caratteristica: attraverso i loro campi magnetici sono in grado di registrare tutta l’energia che si sprigiona intorno a loro. Funzionano come dei computer in grado di ricevere informazioni e di immagazzinarle. Inoltre possono riprodurre o o qualsiasi attività o semplice movimento che le circonda.

Sono dotate di sensori uditivi e termici che permettono di individuare il livello energetico di ogni persona» rispose Matt.

«Vengono anche utilizzate per prendere decisioni importanti. Sono una specie di bussola, indicano sempre la strada che porta alla verità»disse Aimee guardandole affascinata.

«Ma sono anche estremamente delicate» terminò Justin.

«Infatti» disse Kindra. La Shakaar scese lentamente verso il palmo di Kindra e vi si poggiò smettendo di brillare. La ripose dentro il sacchetto di cuoio con delicatezza e se l’infilò nella bisaccia. «Nell’ultimo attacco i Sicari cercarono di portaci via oggetti come questi. Sono pezzi importanti del nostro ato che vengono custoditi con cura dalle vestali. Il loro posto prima era il tempio ma adesso le tengo io».

«Ci sono altre vestali rimaste in vita?» chiesi.

«Non che io sappia».

«Se strumenti del genere cadessero nelle mani dei Sicari, il Nemico le ebbe per scopi non nobili, li contaminerebbe con la magia nera. È di vitale importanza che restino al sicuro» affermò Darline.

«Chi sono esattamente i Sicari?»

«Non chi sono, cosa sono» disse Alan mentre Helan gli saltava in braccio.

«I Sicari sono pericolosi Zara. Sono quel che resta di un esperimento mal riuscito progettato da una mente malata come quella del Nemico. Sono per lo più ibridi: mezzi elfi e mezzi umani. Gli ibridi sono elfi impuri, incroci tra elfi e donne umane, vennero perseguitati e uccisi per secoli perché si riteneva che sporcassero la nostra razza. Quando la furia del Nemico esplose molti si schierarono dalla sua parte per cercare protezione.

Il Nemico fece esperimenti su di loro e divennero il suo esercito, strumento di conquista e tortura. Hanno le nostre stesse caratteristiche solo con un concentrato di magia nera, possono essere sconfitti con la magia oppure tagliandogli la gola perché è l’unica parte umana che hanno» Justin parlò con un tono di voce così profondo che tutti rimasero ad ascoltarlo.

«Mi sa che mi devi venti dollari Edzard» disse Darline voltandosi verso di lui.

«Ecco i tuoi venti dollari».

«Aspetta un attimo, ne devi trenta anche a Zara».

«Cavolo, finirai in bolletta amico» rispose Alan ridendo e dando una pacca sulla spalla di Edzard. Lui estrasse trenta dollari dal portafoglio e me li tese.

«Non avrei dovuto dubitare di te».

«Sei giàperdonato» risposi intascandomi i soldi «Devo tornare a casa adesso».

Salutai i ragazzi e diedi uno sguardo a Joslin che mi fissò da sotto il suo cappuccio nero. Justin mi accompagnò alla macchina e mi aprì la portiera. Quando arrivammo davanti a casa mia dalla finestra intravidi Ludmilla che guardava la televisione. David entrò nella stanza e le diede una bacio sulla fronte.

«Immagino che una volta varcata la soglia di casa, dovrò mentire».

«Immagino di sì».

«È per il loro bene».

«Già» Justin mi lanciò uno sguardo preoccupato.

«Sto bene» risposi. In un certo era così. Piùo meno.«Ci vediamo domani».

«Va bene».

Mi volati e lo vidi andare via. Mi pervase uno strano senso di vuoto. Sentii una parte di me andarsene nello stesso istante in cui lo fece Justin.

Helan si trovava sul mio letto. La finestra era aperta e allora capii.

«Sei venuto a farmi compagnia?» Il gatto miagolò. Diedi una rapida occhiata ai libri sulla scrivania e decisi che non avevo minimamente voglia di aprirli. Mi cambiai in fretta e m’infilai sotto il lenzuolo. Helan s’avvicinò e s’accucciò accanto a me facendo le fusa.

La marea di pensieri che avevo in testa si acquietò solo quando volsi lo sguardo

al cielo. Di un blu così intenso da farmi sentire piccola, ma bello da trasmettere fascino e protezione. Era da qualche tempo che non lo vedevo così pieno di stelle. Lucenti, splendevano fiere accanto alla loro amica luna anch’essa di una bellezza mozzafiato. Adoravo la sera più di qualsiasi altro momento. Adoravo il non dover pensare, agire, soffrire. Amavo l’idea di perdermi in un momento tutto mio, che non poteva essere violato da nessuno. In quell’istante sentii una grande pace nel cuore, una calma che mi fece sorridere. Circondata dalla tranquillità della sera, ero del tutto intoccabile. Per la prima volta mi accorsi del fresco venticello che mi sussurrava la buona notte, un sussurro tenue filtrato attraverso i rami dei suoi fratelli alberi. Mi resi conto che non era lo stesso che avevo sentito durante il giorno. Più sereno e docile, accompagnava beatamente al sonno,incitando a un riposo tranquillo. Chiusi gli occhi. L’unico rumore all’interno della stanza era dato dalle unghiette di Helan che giocherellavano con il lenzuolo. Un solo lieve respiro.

Nel momento stesso in cui m’addormentai credetti di sentire la canzone che mia madre mi cantava da piccola per conciliarmi il sonno.

La sensazione d’essere viva e di vedere a occhi chiusi una realtà diversa mi fece sentire libera.

La temperatura corporea s’abbassò. I muscoli, stanchi dal duro lavoro s’adagiarono e preparandosi al riposo, lentamente si rilassarono. Lo stato di coscienza si sospese. Le sinapsi si ripristinarono e il cervello, non più incatenato da pensieri e turbamenti, iniziò a rigenerarsi.

Due grandi occhi. Profondi. Intensi. Labbra sottili. Capelli ribelli sparsi su un viso angelico. Dolcezza nel cuore. Sorrisi spenti. Battiti cardiaci rimbombano come tamburi. Producono gioia e timore. Son prepotenti.

La cassa toracica è scossa. Scorre nel corpo una nuova energia.

Respiri esalati senza fare rumore. Vite che s’intrecciano, senza un destino, senza un perché. Vite che soffrono. Vite che amano. Vite che scorrono. Sbocciano le rose. Sbocciano le primule. Sbocciano i gigli. Sboccia l’amore e sboccia il coraggio.

È primavera. Iridi dai mille colori dipingono la vita come un arcobaleno.

CAPITOLO 14 - Imprevisto

Non notare Laura che si sbracciava dall’altro lato della strada era impossibile. Si era seduta su un muretto a fianco del porta biciclette con l’ipod alle orecchie e le gambe penzolanti.

«Ti ho coperta ieri all’allenamento sai» disse in tono quasi accusatorio. Non ne avevo mai saltato uno prima.

«Grazie».

«Devi dirmi com’è andata con Justin» Scese dal muretto, si mise lo zaino in spalla e si voltò senza guardarmi. Per raggiungerla all’interno della scuola dovetti fare una corsa.

«Bene».

«Tutto qui?»

«Sì, insomma. Nulla di particolare».

«Ho detto a Jeremy che non voglio mettermi con lui» annunciò fiera.

«Come l’ha presa?»

«C’è rimasto un po’ male ma se ne farà una ragione».

«Hai fatto la scelta giusta».

«Allora mi racconti cos’è successo con Justin?».

Respirai a fondo «Abbiamo pattinato».

Laura mi lanciò un occhiata furtiva «Adesso devo andare ma prima o poi ne riparleremo» disse dirigendosi verso la sua classe. Mi fermai davanti al mio armadietto alla ricerca dei libri di filosofia.

«Alexa si sta domandando dove fossi finita ieri» Justin si appoggiò all’armadietto accanto al mio. Per un mezzo secondo il volto d’un ragazzo si rifletté nello specchio del mio armadietto. Sbattei le palpebre velocemente per farlo sparire.

«Qualcosa non va?»

«Justin» alzai timidamente lo sguardo verso di lui «fai mai brutti sogni?».

Lui annuì. «Che cosa sogni?»

«Non sono sogni... più visioni. Vedo... ».

«... gente morta» concluse.

«Esatto. È da un po’ che mi succede».

«Si tratta della nostra memoria» disse piano.

«Spiegati meglio».

«Possediamo una sorta di memoria collettiva. Tutto ciò che accade, tutto quello che viviamo viene immagazzinato e permane per sempre. I nostri ricordi sono un anime. Vengono trasferiti di generazione in generazione».

«Com’è possibile?»

«Non lo so. Ma quello che vedi sono ricordi del ato, di tua madre o addirittura di tua nonna. Ogni ricordo vissuto viene trasmesso».

Non dissi nulla. Mi bastò guardare Justin per capire in quale orrore avesse vissuto la mia famiglia.

«Allora li vedi anche tu?»

«Li vediamo tutti. Alcuni più di altri» prese a guardare il pavimento muovendo nervosamente le mani attorno alla bretella della tracolla.

«Ehi che fine hai fatto ieri?» la voce di Alexa ci riscosse da tutti i brutti pensieri.

«Devo andare» Justin s’allontanò con un espressione turbata in volto.

«Impegni con mia madre».

«Correggere i compiti dev’essere divertente».

Alexa era diventata talmente abituata alle mie bugie che ormai le confondeva per verità. Riuscivo quasi a parlare di più con Laura che con lei e la cosa era piuttosto strana.

Non sapevo spiegarmelo ma quando avevo davanti Alexa ogni segreto o pensiero che mi riguardasse si bloccava. La camla suonò.

Quando arrivai in classe vedere Nicklas fu una sorpresa.

«Oggi abbiamo filosofia».

«Oh Zara, ben arrivata. Sostituisco la Backster, èammalata» disse mentre sistemava la grande quantità di fogli, tutti sparsi sulla cattedra.

«Saranno tutti felici».

Nicklas accennò un sorriso. Presi posto in prima fila mentre il professore scriveva alla lavagna a grandi lettere l’argomento del quale avrebbe voluto parlarci. Le sue ore di supplenza erano altamente istruttive. Normalmente con gli altri professori ci facevamo i fatti nostri ma non con lui. Aveva un modo tutto suo di approfondire argomenti che inevitabilmente veniva voglia di ascoltarlo.

«Professore!» Come previsto i miei compagni esultarono alla vista del loro idolo.

«Prendeteposto ragazzi».

«Il mito?» un ragazzo fissòNicklas stupito.

«Esatto. Voglio parlarvi di un mito che mi piace molto».

«Ma professore, non si stanca mai di raccontarli?».

Nicklas sorrise. Volse poi lo sguardo verso due ragazze in ultima fila che stavano guardando fuori dalla finestra.

«Si può sapere che cosa c’è di così interessante là fuori?».

Una delle ragazze si voltò di scatto e disse «Oh nulla».

«Nulla?» chiese Nicklas contrariato. «Emmalynn».

«Sì professore» rispose l’altra ragazza.

«Dimmi che cosa vedi».

Emmalynn prese a guardare di nuovo fuori dalla finestra poi disse «La natura. I fiori, il sole».

«Un bel paesaggio insomma?» domandò Nicklas mettendosi a sedere sulla cattedra. Emmalynn annuì.

«Molto bene, è di questo che voglio parlarvi oggi».

«Della natura?» chiese un ragazzo quasi ridendo. Nicklas gli sorrise.

«Conoscete Venere e Adone?»

La classe annuì. «Molto bene, loro saranno i protagonisti della nostra lezione» Si sistemò gli occhiali poi disse «Venere, la più bella e sorridente fra le bellissime dee, fu adorata in tutto il mondo greco-romano come dea dell’amore. Su un cocchio trainato da cigni e colombe, incoronata di mirto e di rose, percorreva lietamente le terre e i cieli seguita dal suo folto corteggio. Per sedurre, le bastava sciogliere il cinto d’oro che tratteneva la sua veste, affinché dalla sua persona si emanasse una soave fragranza d’ambrosia che ammaliava infallibilmente uomini e divinità». Nicklas parlava come se Venere gli fosse davanti, con una luce negli occhi alla quale la dea dell’amore non avrebbe potuto resistere. «Fra i suoi numerosi amanti il più adorato fu Adone, simbolo della gioventù e della bellezza maschile. Figlio di Cinira, re di Cipro, e di sua figlia Mirra, nacque dal corpo della madre, trasformata in albero di mirra dopo l’incesto. Famoso per la grande bellezza, Adone fu amato da Venere ma durante una battuta di caccia venne ucciso da un cinghiale inviato dal geloso Apollo, amante della dea. Dal sangue del giovane morente crebbero gli anemoni; il sangue della dea invece, ferita dai rovi nella corsa per soccorrerlo, macchiò le rose nate dalle gocce d’acqua scivolate a terra dalla sua pelle mentre usciva grondante dal mare di Citera. Da bianche divennero rosse, eterna testimonianza della ione amorosa.

Giove fu commosso dalla disperazione di Venere: Persefone, regina dell’Ade, non voleva restituire il giovane alla vita. Eletto ad arbitro fra le due innamorate, il padre degli dei stabilì che Adone vivesse quattro mesi nel regno degli Inferi, quattro sulla Terra e quattro in un luogo a sua scelta: Adone scelse la Terra, in compagnia della divina amante Venere».

«Cosa sono gli anemoni?» domandò un ragazzo.

«Speravo in questa domanda» disse Nicklas scendendo dalla cattedra. Prese un gesso e iniziò a scrivere dicendo «Il termine Anemone deriva dal greco “anemos” che significa vento, per questo veniva anche detto fiore del vento. Per la sua caducità simboleggia i sentimenti effimeri, il senso di abbandono e l’amore tradito, ma anche la speranza e l’attesa. Il mirto e le rose di cui era adornata Venere sono invece simbolo della fecondità della natura»Nicklas si voltò verso la classe «Cosa pensate voglia dirci questo mito?».

Dall’ultima fila si udì una risposta «Spiega come è nata la Primavera».

«Sì, infatti. Credete che sia importante?»

Nessuno rispose. Nicklas allora sorrise «Cosa pensate che sia la Primavera?».

«Una stagione» rispondemmo tutti all’unisono.

«Solo questo?»

«Un momento in cui si risveglia la natura» disse una ragazza.

«Ci siamo quasi. La Primavera ragazzi è più di una stagione. Il mito di Venere e Adone ci mostra la morte e la vita, o meglio, una vita nuova. Oltre a spiegare la nascita di una stagione spiega anche qualcos’altro. Sapete dirmi cosa?»

«La rinascita».

«Proprio questo. Vedete, la vita non è facile: si incappa continuamente in errori, difficoltà e ci sono momenti in cui tutto sembra perduto.

Ricordate questa parola: Rinascita. Ricordatevela sempre, specie quando penserete di non farcela più. Rinascete, questo è il compito che vi do da fare. Rinascete ogni volta che ne avete la possibilità, ogni volta che fallite». La camla suonò. Nicklas sistemò le sue cose e uscì dall’aula ed io feci lo stesso ma prima, mi soffermai davanti alla finestra.

Un bocciolo divenne una rosa davanti ai miei occhi, uno spettacolo simile era paragonabile alla bellezza della trasformazione d’una crisalide in farfalla.

Alexa si era portata il pranzo da casa e se lo stava gustando, io invece dovetti recarmi in fondo ad una lunga fila di ragazzi davanti al bancone del self-service. Qualcuno mi afferrò il braccio. Seguii lo sconosciuto che mi portò dritto in corridoio chiedendomi cosa stesse succedendo. Quando lo sconosciuto mollò la presa, scorsi due occhi castani che mi fissarono divertiti.

«Matt?»

«Sono venuto a prenderti principessa».

Alzai gli occhi al cielo «Matt, non è divertente. Torno in mensa».

«No» mi afferrò nuovamente il braccio «non puoi andare».

«E perché?»

Matt s’incupì «Siamo nei guai».

«Cosa? Dov’è Justin?»

«Ci sta aspettando al campetto».

«Che succede?»

«Siamo nei guai fino al collo. Finite le lezioni dobbiamo raggiungere Justin».

«Okay».

«Ci vediamo dopo» Matt scomparve subito. Ritornai in mensa turbata. Se Justin se ne era andato via senza dire nulla doveva trattarsi di una cosa grave.

«Ehi, Laura ti cercava» disse Alexa quando mi sedetti al tavolo.

«È per me?» chiesi notando che aveva lasciato il suo pranzo a metà.

«Panino con insalata, pomodori e mozzarella. Tutta roba genuina».

«È tutto mio» dissi afferrandolo.

«Ti ricordi? È una cosa che abbiamo sempre fatto, quella di dividere il pranzo»Alexa sorrise.

Cercai di ricambiare ma un pensiero ostile me lo impediva. Ripensai per un istante a com’era la mia vita prima di tutto questo, a com’era il mio rapporto con Alexa. Non mi sentii una bella persona. Per quale motivo c’era un muro tra noi? Perché non facevo che sentirmi sempre piùdistante da lei?

Un giorno o l’altro mi sarebbe piaciuto trovare una risposta ma non adesso. Avevo altro di cui occuparmi. Alla fine delle lezioni mi recai al campetto come mi aveva detto Matt e lo trovai che discuteva con Justin.

«Volete dirmi che succede?»

«Vieni» disse Justin «te lo spieghiamo mentre andiamo alla villa».

Matt mi fece cenno di seguirli.

«Il punto è questo» disse Justin senza troppi giri di parole «ci hanno già consegnato la Sfera».

«Questa mattina è arrivata Azzurra la madre di Cassandra e Alan, lei oltre a discendere dalle Shoulder Blade è anche una dei membri del Consiglio Elfico» concluse Matt infilandosi le mani in tasca.

«Non ho ancora finito di allenarmi».

Matt e Justin si lanciarono uno sguardo d’intesa.

«Ascolta Zara non ti devi preoccupare, dovremo solo darci una mossa a finire il tuo addestramento. Andrà tutto bene» disse Justin nel vano tentativo di rassicurarmi.

«Su non facciamo quelle facce da zombie. C’è anche una bella notizia, in tutto questo» esclamò Matt.

«Ah sì?»

«Sì Zara. Avanti Justin perché non glielo dici».

«Se proprio insisti».

Mi voltai verso Justin «Allora?»

«Edzard vuole sposare Aimee».

Strabuzzai gli occhi «Sposare? Ma non sono troppo giovani?»

«Andiamo principessa, questo è un discorso da vecchi»Matt mi mollò un pugno sulla spalla. «Penso che dovremmo spiegarle qualcosa».

«Sembra proprio che un anno umano per noi corrisponda a cento» disse Justin.

«Quindi io dovrei avere piùo meno… mille e settecento anni»riflettei.

«Sei vecchia» disse Matt «ma mi piaci lo stesso».

Justin tossì, andosi la mano tra i capelli con nervosismo.

«E tu quanti anni hai?» gli chiesi. Si schiarì la voce poi disse: «Ufficialmente ne ho mille e novecento. A scuola però credono che io sia un diciassettenne».

«E Aimee e Edzard?»

«Edzard ne ha due mila e trecento mentre Aimee ne ha due mila e cento».

«Beh Kindra ne ha circa quattro mila... li porta bene la ragazza»Matt scoppiò a ridere e Justin non riuscii a trattenersi.

D’un tratto Matt si bloccò.«La senti?» domandò guardando Justin.

Lui annuì.

«Quando la ragazza chiama, Matt risponde»Sfrecciò nella foresta diretto alla villa.

«Kindra ci sta chiamando»spiegò Justin «dobbiamo andare».

«Justin?»

«Sì?»

«Imparerò mai a fare quello che fate voi? Comunicare in questo modo?» Lui mi sorrise. Si avvicinò a me e guardandomi dritto negli occhi disse: «Certo, lo imparerai presto».

Accadde tutto in meno d’un secondo. Justin si sporse in avanti ed io, come

metallo attratto dalla calamita, feci lo stesso. Nel momento in cui le nostre labbra si sfiorarono, realizzai che sarebbe stato meglio di quanto mi ero immaginata. Unimmo i nostri respiri in uno unico e ci ritrovammo a condividere lo stesso ossigeno. Ossigeno buono, ossigeno puro ed incontaminato così come i nostri sentimenti. Brividi mi percorsero la pelle, scariche elettriche si dipartirono dalla punta dei capelli a quella dei piedi. Mi pervase uno strano senso di freddo, un gelo s’insediò sottile nelle mie membra fino a penetrarmi nelle ossa. Poi di colpo caldo. Un calore così forte che sembrava mi fossi fusa con il sole. Il cuore scalpitava come un cavallo imbizzarrito, il sangue ribolliva e scorreva fluido. Scottavo.

Se mi avessero misurato la febbre il termometro sarebbe esploso all’istante. Ma non ero l’unica a produrre quel calore. Le labbra di Justin erano fiamme delicate che, brucianti, si muovevano sinuose a ritmo delle mie. Intrecciai le mani nei suoi capelli morbidi, mi attirò a sé. La nostra pelle a contatto s’incendiò, come due fuochi che unendosi danno vita a uno più grande capace di divorare tutto ciò che lo circonda. Eravamo petto contro petto, cuore contro cuore, anima contro anima. Sentivo i suoi battiti forti e decisi sotto la cassa toracica: erano tutti per me.

Justin era dolcezza infinita ed io non volevo staccarmi da quel senso d’amore e protezione che mi faceva sentire accolta.

Avevo appena ritrovato casa. Saremmo potuti restare così per sempre: a nutrirci dell’affetto, del bene, ad assaporarci le labbra e a gioire per la nostra disumana felicità. Ci staccammo a fatica. Mi stavo iniziando ad abituare al suo respiro. Mi accarezzò la guancia con le nocche. Non dicemmo nulla perché non c’era nulla da dire. Tutto ava attraverso il nostro sguardo, la nostra più grande fonte di comunicazione.

«Sei stato tu» dissi «Hai rotto tu l’incantesimo dell’occultamento».

«Siamo stati noi».

«Lo sapevi? Sapevi di essere la mia anima gemella?»

«All’inizio non lo sapevo ma poi l’ho capito».

«Perché non me l’hai detto?»

Fece spallucce «Dovevi capirlo da sola. Se te l’avessi detto avresti potuto non credermi o peggio ancora ti saresti lasciata condizionare. Dovevi sentirlo, solo così l’avresti capito».

Mi prese per mano e ci recammo alla villa.

«Sono arrivati Justin e Zara. Possiamo cominciare» disse Darline quando ci vide entrare. Kindra era in piedi davanti al tavolo e fissava un’enorme sfera di cristallo molto simile a quelle usate dalle chiromanti per predire il futuro. La sfera brillava di luce propria e assomigliava a una stella rotonda.

«Questa è Syla?» chiesi affascinata. La superficie della sfera era liscia e perfetta, sembrava quasi opaca ed era posta su un cuscinetto di velluto nero. La luce che sprigionava iniziò ad affievolirsi.

«Sì, ma bisogna ripararla al più presto. Sta morendo» disse Kindra, per la prima volta con un tono davvero dispiaciuto.

«Sta morendo?»

«Syla non è un oggetto qualunque. È viva e dotata di anima, sente dolore come lo sentiamo noi. Dobbiamo salvarla»Kindra sfiorò delicatamente la sfera. Quella tremò un poco; la sua luce si spense ancora.

«Se si spegne del tutto è la fine» disse Justin. Kindra gli lanciò un occhiata «Vado subito».

«Cosa gli hai detto?»

«Di andare a chiamare Edzard. Non possiamo cominciare senza di lui».

«A cosa serve Edzard?»

«A farla ripartire. Ci abbiamo provato anche prima ma non ha funzionato e il signorino si è stancato subito e ha pensato bene di andarsene. Syla deve sopravvivere, è di vitale importanza».

«È stata la madre di Cassandra a portarcela, giusto?».

«E allora?»

«Non sa cosa fare per farla... vivere?» Kindra scoppiò a ridere.

«Azzurra non saprebbe aggiustarsi nemmeno un’unghia spezzata. Quella donna ècosì insignificante che mi domando perché ci abbiamo mandato proprio lei. Preferisco riprovare altre mille volte piuttosto che lasciarla nelle sue mani» rispose picchiettando le sue unghie affilate sul tavolo con un espressione cupa in volto.

«Direi che non ti sta molto simpatica».

«Preferisco una sanguisuga».

«Si può sapere cosa vuoi ancora?» domandò Edzard entrando nella stanza accompagnato da Justin.

«Che mi aiuti. Darline!»

«Darline è uscita» rispose Aimee entrando nella stanza e sedendosi sul divano.

«E dove diavolo è andata?» chiese Kindra tirando un pugno sul tavolo.

«Alan e Cassandra avevano bisogno di lei. Hanno notato qualcosa di sospetto al confine e sono andati a controllare. Matt è andato con loro».

«E si può sapere dove diavolo era Joslin?» domandò Kindra voltandosi verso Aimee.

«Non ne ho idea» disse Aimee rassegnata.

«Forse è andata ad allenarsi alle cascate»suggerì Justin.

«Non ci posso credere! Abbiamo i Sicari a un palmo dal naso, Syla sta morendo e come se non bastasse Lui potrebbe essere a tanto così da scoprirci e lei cosa fa…Niente! Non fa un bel niente!»

Kindra era furiosa, rivolgendosi ad Aimee disse: «Vai a cercarla, portamela qui e già che ci sei vedi come sono messi gli altri».

Aimee si alzò di scatto e sparì dopo pochi secondi.

«Che potere ha Joslin?»

«Ha il potere di guarire» rispose Kindra continuando a guardare la sfera poi disse rivolta verso di me «ma prima che tu ti esalti di gioia per lei devi sapere che fin ora non ha guarito un gran che, anzi, tutto quello che ha guarito è morto poco dopo. Per questo motivo non vuole combattere, i suoi poteri non sono

perfetti quindi preferisce non usarli» guardai Justin e Edzard che confermarono annuendo. Dalla finestra sbucò Helan che con la sua solita agilità si posizionò sul divano miagolando.

«Vuole che tu ti sieda» disse Kindra, lanciai un’occhiata a Justin che mi fece cenno di fare come aveva detto Kindra e mi sedetti accanto al gatto che poi si accucciò sulle mia ginocchia facendo le fusa.

«E non potete aiutarla in qualche modo?»

«Per aiutarla lei dovrebbe provare a far guarire qualcos’altro ma si rifiuta quindi…» rispose Edzard.

Nella stanza entrò un donna dal portamento altezzoso. Indossava un vestito lungo di colore blu scuro aderente, un paio di tacchi argentati e una collana di perle. Aveva i capelli mossi e neri, gli occhi azzurri come quelli di Alan.

«Oh no, tu no!» esclamò Kindra quando la vide.

«Vedo che non sei cambiata affatto Kindra» rispose la donna squadrandola.

«Nemmeno tu tesoro».

«Sai Kindra sono lieta che il Consiglio abbia mandato me a occuparmi di questa situazione. Il Nemico è alle porte e l’esperienza di persone competenti può

aiutare, non credi?» Il tono di voce della donna era fermo, deciso ed estremamente altezzoso.

Improvvisamente mi ricordai di ciò che mi aveva detto prima Matt: avevano mandato la mamma di Cassandra e Alan a consegnarci Syla e lei faceva anche parte del Consiglio Elfico. Realizzai con stupore che mi trovavo davanti ad Azzurra.

«Penso che a volte l’unico motivo per cui il Consiglio offre l’occasione di missioni importanti è per il semplice fatto che la presenza di alcuni individui ècosì irritante che preferisce allontanarli il più possibile fregandosene delle conseguenze che tale scelta può causare» rispose Kindra con un’acida eleganza. Edzard e Justin soffocarono una risata fissando la donna che tuttavia non si scompose.

«La responsabilità di questa missione è mia. Perciò allenerò io i ragazzi da adesso in poi» dichiarò Azzurra andandole incontro.

«Io credo invece che ti comporterai come un bravo cagnolino e te ne starai zitta e buona» ribadìKindra sorridendo.

«Non credo» disse lei «Kindra, questa è stata una scelta del Consiglio e tu non la puoi mettere in discussione».

«E perché non posso farlo scusa? Siamo in un paese libero no?»

«Lo sai bene che le regole sono diverse per noi. Andare contro il Consiglio è un sacrilegio».

«Farmi venire un emicrania è un sacrilegio!»Kindra alzò lo sguardo verso Azzurra. Cercava di mantenersi composta ma era sul punto di esplodere. «Non hai cose più importanti da fare che dare aria a quella tua boccaccia?» continuòKindra. Azzurra la guardò senza capire. «Tipo andare a trovare i tuoi figli? Sai sono quei due marmocchi che hai messo al mondo con due gambe, due braccia e una testolina completamente vuota».

«Ovviamente, non mi sono dimenticata di loro».

«Syla sta morendo».

Azzurra si avvicinò alla sfera. «Esiste una formula specifica che deve essere pronunciata dalla discendente del membro del Consiglio più anziano. Ma da sola non basta, c’è bisogno di qualcuno esperto in questo campo. Mi hanno detto che Edzard Allen conosce tutte le magie e i loro vari usi. Non è forse così?» Azzurra rivolse una breve occhiata a Edzard.

«Si è vero, è molto qualificato in questo campo ma non abbastanza. Se il nostro topo di biblioteca fosse davvero così bravo non saremmo ancora qui adesso, non credi?» rispose Kindra tra i denti.

«Se Syla muore, non c’è più speranza. Siamo indifesi»disse Azzurra.

«Lo so, la salveremo» rispose lei con fermezza.

Sia Kindra che Azzurra avevano un espressione pensierosa e preoccupata.

«Posso sapere quali tipologie di magie avete provato fino ad ora?» chiese a un tratto Azzurra.

«Abbiamo provato alcune magie antiche e alcune più moderne, ma sembra che nessuna vada bene» rispose Edzard.

«Cosa intendi per antiche?»

«Quelle che risalgono al diciassettesimo secolo»disse Aimee.

«Dovete provare con quelle ancora piùindietro» annunciò Azzurra.

«Quella tipologia di magia è molto difficile da eseguire» intervenne Kindra.

«È l’unica soluzione. Syla è stata costruita nel tredicesimo secolo quindi bisognerebbe provare con magie risalenti a quell’epoca. Non c’è altro modo per farla sopravvivere».

«Dove possiamo trovare magie di quell’epoca?» domandai.

«Forse potremmo consultare il Libro Proibito. Una volta sono andato in biblioteca per fare delle ricerche riguardo ai diversi tipi di magia e ho trovato uno strano libro nella sezione proibita. Le magie che conteneva risalivano al tredicesimo secolo» disse Edzard evitando lo sguardo di Kindra come un bambino spaventato.

«Sei stato nella sezione proibita?» chiese Kindra cercando di mantenere la calma.

«La cosa non ha importanza. Puoi andare a prendere quel libro? Credo che ci sarà di aiuto» disse Azzurra con un sorriso.

«Non ha importanza? Certo che ne ha! È vietata quella sezione della biblioteca, sei diventato analfabeta?» I piccoli occhi scuri di Kindra erano fissi in quelli giallo-verdi di Edzard.

«È un espressione preoccupata quella che vedo sulla tua faccia?» domandò lui abbozzando un sorriso.

«È forse un occhio nero quello che vedo sulla tua?».

«Cosa c’è nella sezione proibita?» intervenni all’improvviso nel tentativo di calmare la situazione.

«Le magie più antiche e oscure che risalgono a tempi non molto felici di cui è

meglio scordarsi» rispose in fretta Justin.

«Vai a prendere quel libro» disse Kindra a Edzard fissandolo come se fosse una preda da sbranare.

«Questo vuol dire che non sei arrabbiata con me?» chiese Edzard.

«Vai a prendere quel dannatissimo libro!» ordinò Kindra urlando. Edzard sparì in un secondo.

«Dobbiamo avvertire Darline. Vuoi che vada a chiamarla?»

«Ci vado io» disse subito Azzurra. Un secondo dopo se ne era già andata.

«Ho trovato il libro» disse Edzard entrando nella stanza con un immenso volume in mano. Kindra gli fece cenno di poggiarlo sul tavolo. Lanciai un occhiata alla sfera. La sua luce era sempre più debole. Si sarebbe spenta di lì a poco.

«Diamoci da fare» Aprì il volume guardando Edzard torvo. Justin si sedette accanto a me sul divano e iniziò ad accarezzare la testa di Helan con un sorriso triste.

«La formula deve essere all’inizio».

«Ma bene! Non solo sei andato nella sezione proibita della biblioteca e hai preso un libro, ma ne hai anche letto il contenuto!» esclamò Kindra digrignando i denti.

Kindra e Edzard iniziarono a cercare la formula mentre io e Justin restammo sul divano ad accarezzare Helan fino a quando nella stanza piombarono Alan e Darline con il fiatone.

«La situazione è sotto controllo» disse Alan sedendosi accanto a Justin e appoggiando l’arco per terra con estrema cura.

«Nulla al confine?» chiese Kindra con gli occhi fissi sul libro.

«Non per il momento ma... credo che si stiano avvicinando» rispose Darline. Guardò la sfera. «Non resisterà a lungo».

«Forse abbiamo trovato quello che serve per salvarla, quindi tu mi servi qui. Gli altri?»

«Stanno arrivando» disse Darline. Kindra le fece vedere la pagina dove probabilmente c’era la formula. Darline e Edzard annuirono guardandosi negli occhi.

«Dovete sbrigarvi» disse Kindra.

«Non preoccuparti Syla, ti salveremo» sussurrò Darline.

Insieme a Edzard iniziò a ripete le parole della formula e dopo qualche istante dalla sfera iniziò a uscire del fumo. Kindra diede un leggero colpetto contro Syla e in un primo momento non accade nulla. Pochi secondi dopo Syla sprigionò un bagliore accecante che ci costrinse a riparaci gli occhi con le braccia. Quando la luce si fece un po’ più flebile, rimasi incantata. Syla si sollevò a mezz’aria, brillava proprio come una stella e il fascio di luce che emanava era caleidoscopico. La superficie liscia risplendeva, la vita era tornata in lei. Ci sporgemmo verso Syla ed era quasi impossibile credere che dentro quella palla di cristallo ci fosse l’immagine di tre uomini anziani che indossavano dei possenti mantelli neri. Kindra fece cenno di allontanarci dalla sfera.

«Kindra» Una voce profonda risuonò nella stanza.

«Carlos» rispose lei con il suo solito atteggiamento menefreghista.

«L’avete salvata» continuò la voce proveniente dalla sfera.

«Come ben sai siamo pieni di risorse» disse lei.

«Molto bene. Adesso vogliamo vedere la ragazza, abbiamo aspettato a lungo questo momento» intervenne un’altra voce.

«Perfetto. Porteremo Syla fuori, in questo modo vedranno che Zara è un elfo. Finita la prova Syla tornerà al suo posto insieme ad Azzurra» disse Kindra.

«Kindra! Azzurra e gli altri ci aspettano alle cascate» disse a un tratto Justin. Probabilmente Azzurra doveva averglielo detto telepaticamente.

«Su muovetevi!» esclamò a un tratto Kindra dandomi un colpetto sulla spalla e facendo cenno a Justin di seguirla. Quando arrivammo alle cascate Darline, Cassandra, Aimee, Azzurra, Joslin e Matt ci aspettavano sui ponticelli. Cassandra mi squadrò da cima a fondo con un sorrisetto maligno sul viso mentre Joslin alla vista di Kindra si sistemò dietro un albero senza dire una parola.

«Possiamo appoggiarla qui» Edzard poggiò Syla per terra con estrema cura. Edzard e Alan si misero per terra con le gambe in crociate mentre Justin rimase al fianco di Kindra.

«Azzurra, vieni qua» disse Carlos dalla sfera. Lei avanzò verso di essa con un altezzosa eleganza poi si inginocchiò davanti alla sfera.

«Sì, Carlos. Ho eseguito la missione che mi avevi affidato e come puoi notare Syla è perfettamente funzionante e ci permette un’ ottima comunicazione ma io resto comunque ai tuoi ordini. » Azzurra parlava con un tono di voce diverso da quello che aveva usato poco prima. Era molto rispettoso e raffinato ma possedeva anche alcuni accenni di superbia, tipici di chi pretendeva di essere il migliore in tutto e per tutto. Carlos, un uomo anziano dai capelli brizzolati, gli occhi azzurri e il volto scarno, sorrise. Aveva un’aria e un tono di voce calmo e pacato. La sua corporatura, come quella degli altri due signori al suo fianco, non era robusta anzi sembrava che il loro corpo fosse sul punto di sgretolarsi. Li potevo vedere attraverso quella sfera ricurvi su un tavolo con le braccia conserte, avvolti in neri mantelli e non potei fare a meno di provare un brivido perché avevo come l’impressione che mi stessero osservando.

«Hai fatto un ottimo lavoro, te ne siamo immensamente grati. Adesso però vogliamo vedere la ragazza» Kindra mi diede un colpetto sulle spalle e mi sussurrò all’orecchio.

«Mi raccomando non fare domande a questi cadaveri non piace essere interrotti e ricorda, parla solo quando te lo dicono loro. Tutto okay? Perfetto. Andrai benissimo vedrai».

Azzurra si spostò di lato lanciandomi uno strano sorriso. Con il panico che mi scorreva nelle vene mi inginocchiai. Lo sguardo dei membri del Consiglio si accese quando mi videro.

«È davvero lei?» bisbigliò quello alla destra di Carlos.

«Si Fabio è lei. L’ abbiamo trovata finalmente» disse quello alla sinistra di Carlos. I membri del Consiglio non mi staccavano lo sguardo di dosso, mi scrutavano come se cercassero una qualche somiglianza con mia madre. Carlos restava immobile, mentre gli altri due continuavano a bisbigliare tra loro, anche nell’antica lingua. Mi sembrava di sentirli vicini a me, anche se a separarci c’erano una sfera e molti chilometri di distanza. Presa dall’angoscia della situazione scordai tutto quello che mi aveva detto Kindra e velocemente mi presentai.

«Beh si ecco… io sono Zara Monthgomery… la figlia di Jylien e Victor Monthgomery. Ho da poco scoperto di essere un elfo e… ecco… non riesco ancora a credere che voi…».

«Silenzio!» tuonò Fabio. Rimasi pietrificata. Udii Kindra sbuffare

«Dannazione ma che cos’ha il prosciutto nelle orecchie? Le avevo detto di non parlare a sproposito, è un concetto così difficile? Cavolo, adesso chi li sente questi».

Il mio sguardo restò fisso sulla sfera. «Mi…mi dispiace…» sussurrai.

«Carlos non ti ha autorizzato a parlare!» tuonò di nuovo Fabio puntandomi gli occhi addosso ma Carlos lo interruppe dicendo: «Non essere così duro con lei Fabio. Per Zara è tutto nuovo, è normale che si senta spaesata e questo può portarla a commettere errori che sono sicuro non si ripeteranno»Carlos mi sorrise.

Un sorriso che credo dovesse essere di conforto ma che ebbe su di me un effetto contrario.

«Mi… dispiace moltissimo, io… io non so davvero cosa mi sia preso».

«Ha la stessa umiltà di sua madre» disse a un tratto Carlos come se si fosse perso in qualche ricordo lontano.

«Vediamo se possiede anche le stesse doti di suo padre» intervenne Fabio, nel suo tono c’era una leggera sfumatura che alludeva a una sfida.

Era piuttosto chiaro che a Fabio non piacevo, anzi credo proprio che mi considerasse un insolente, ma dovevo dimostrare ai membri del Consiglio le mie

capacità e non mi sarei certamente fatta distrarre da un simile pensiero. O almeno ci avrei provato.

«Allora direi che possiamo cominciare» disse Kindra sbuffando. Mi alzai lanciando un’occhiata alla sfera e seguii Kindra. «Oggi ti insegnerò come fanno gli elfi a comunicare ».

«La lettura del pensiero» risposi eccitata e spaventata al tempo stesso.

«Esatto. È molto semplice: devi tenere la mente aperta, liberarla da ogni pensiero e devi darmi la possibilità di entrare nella tua mente. Stai pronta, l’impatto può essere doloroso».

Cercai di fare come mi aveva suggerito Kindra. Liberai la mente da ogni pensiero; era una sensazione strana. Mi faceva sembrare estremamente vuota, priva dell’anima ma non del corpo. Era bello sentirsi così leggeri, senza nessun peso da portare ma semplicemente padroni di se stessi e del proprio corpo. A un tratto qualcosa di violento piombò nella mia mente, come se fossi caduta dal motorino e avessi battuto violentemente la testa. Le vene pulsavano e rimbombavano nella mia testa, era tutto confuso e un rumore assordante mi fece gridare. Era terribile ma cercai di resistere.

Avevo l’impressione che ci fosse un martello nella mia testa che sbatteva e ribatteva sopra a un’incudine con un monotono e straziante ritmo martellante.

“Zara? Puoi sentirmi?”Una voce, anzi un bisbiglio, mi stava chiamando; era una voce familiare molto dolce e melodica che rimbombava come se fossi sotto l’effetto dell’alcool.

“Chi sei?”domandai. Ero sicura di averlo detto ad alta voce eppure dalla mia bocca non era uscito alcun suono.

“Justin”

Adesso era molto più facile per me comprendere il modo in cui comunicavano. Potevano comunicare senza parlare, bastava pensare. Loro liberavano la mente in modo tale che nessuno potesse scoprire i segreti più intimi ma si limitavano solamente a pensare quello che dovevano dirsi. In questo modo era possibile escogitare dei piani di attacco e di difesa.

“Esattamente. Hai visto te la stai cavando bene”

Aveva ascoltato quello che avevo pensato. A un tratto la voce di Justin sparì dalla mia mente e sentii la mia testa più leggera e libera.

«Cos’è successo?» chiesi guardando Kindra.

«Justin ti ha fatto vedere come comunichiamo e tu te la sei cavata discretamente, solo che poi ha deciso di tornare nella sua mente. Ti ha fatto vedere come si interrompe una comunicazione».

«È riuscito a sentire quello che pensavo?».

«Solamente quando hai capito come comunichiamo. Il resto no. Non ti conviene pensare quando comunichi con qualcuno».

«Okay» dissi massaggiandomi le tempie. Avevo un mal di testa assurdo.

«Però cara la mia piccola Zara, i duelli mentali non sono certo una eggiata come questo» disse Kindra con un sorriso.

«Che intendi dire?»

«Vedi Zara per quanto ti possa sembrare strano la mente è la cosa più terribile e inerme che esiste. È debole, facile da distruggere e sai perché? Perché non ha difese. Noi possiamo proteggere il nostro corpo parando i colpi che ci vengono inflitti o attaccando prima che questi ci feriscano, ma la mente? Lei non la possiamo proteggere perché è lei stessa che a volte ci attacca senza una ragione. Ci fa ricordare quello che vorremmo dimenticare e ci fa dimenticare quello che vorremmo ricordare e noi non possiamo difendere chi in primis è nostro nemico, giusto? Beh purtroppo non ècosì.

Per quanto la nostra mente sia crudele con noi è anche l’unica che, se conosciuta bene, può salvarci. Ma per conoscerla bene è fondamentale diventarne prima amico, e quale cosa migliore della protezione si offre a un amico? Prima impari a difendere la tua mente e i tuoi pensieri e prima diventerete alleate».

«Alleate? Come faccio?»

«La devi difendere. Non devi permettere a nessuno di entrare nella tua testa e frugarci dentro, quello che hai lì dentro è tuo e nessuno te lo può togliere. Adesso faremo una dimostrazione pratica» Un brivido mi percorse schiena. «Proverò a entrare nella tua testa e dovrai fare in modo che io non vi penetri. Se per caso dovessi trovare qualche ricordo imbarazzante sappi che non esiterò a spiattellarlo ai quattro venti » disse Kindra con un’inquietante luce negli occhi. Pensai che volesse solo mettermi paura ma conoscendola, non avrebbe certamente esitato a mettermi in ridicolo. «Ah, questa volta non ti diròquando entrerò nella tua testa, lo devi capire da sola».

Dall’angolo sinistrò della bocca di Kindra spuntò un sorriso, il suo sguardo era fisso su di me. Dovevo concentrarmi, impedire che entrasse nella mia mente.

Conoscevo bene Kindra e sapevo che avrebbe attaccato proprio quando non me lo sarei aspettata, sapevo che avrebbe fatto di tutto per mettermi in difficoltà, mi avrebbe spinto al limite e non avrebbe avuto pietà nel caso si fosse impossessata dei miei ricordi. arono cinque minuti e Kindra non attaccò, restava semplicemente ferma davanti a me. Ne arono dieci. Poi quindici. Poi venti. Kindra non attaccava ancora. Avevo capito dove voleva arrivare. Voleva che io fossi stanca in modo da entrare più facilmente ma non glielo avrei permesso. arono altri dieci minuti. Il suo piano stava quasi funzionando. Mi sentivo stanca e avevo le gambe formicolanti.

Non so per quanto tempo avrei ancora mantenuto la concentrazione. Kindra sorrideva già convinta del fatto che avrei ceduto. Pensavo che non gliel’avrei mai data vinta fino a quando all’improvviso piombò Helan che miagolando mi tolse la concentrazione. Fu un secondo o forse anche meno: Kindra approfittò del mio momento di distrazione e piombò nella mia mente con violenza. La sentii entrare come se avesse appena sfondato una porta, sentivo ancora quel dolore straziante e le vene che pulsavano.

“Sapevo che ci saresti cascata” disse Kindra ridendo. La sua voce rimbombava

più forte. La sua presenza era opprimente, avevo paura che sarei impazzita dal dolore.

«Sei stata scorretta!» Urlai ma non nella mia testa, urlai davvero. Il dolore e la forza che opprimevano la mia mente erano terrificanti. Gridai portandomi le mani sulle tempie.

“Ho solo colto l’occasione” rispose lei nella mia mente, divertita. Per lei era un gioco, per me un suicidio mentale. Era peggio di qualsiasi dolore fisico. Era qualcosa che colpiva nell’intimità, che strisciava nei ricordi come un serpente.

«Bugiarda!» urlai ancora. Le cose che le dicevo non mi limitavo a pensarle ma il dolore che sentivo mi spingeva a gridare.

Lei rise. Sentii la sua risata rimbombare dentro di me.

“Vediamo cosa c’è nella testa di Zara” canticchiò ancora lei divertita. Con la violenza di un terremoto impazzito Kindra iniziò a frugare nella mia testa. L’impatto fu così violento che persi l’equilibrio e caddi a terra. Intanto Kindra si muoveva libera dentro la mia testa, dentro i miei ricordi, dentro me stessa.

“Non pensavo che la tua mente fosse così… debole” disse mentre cercava qualche ricordo che le sarebbe interessato. Gridai ancora. Lottai contro l’oppressione che Kindra esercitava sui miei pensieri.

“Quello che hai lì dentro è tuo e nessuno te lo può togliere.” Kindra aveva detto

così e non le avrei di certo permesso di continuare a frugare tre i mie pensieri. Raccolsi tutto il coraggio, tutta la forza che non sapevo nemmeno di avere e provai a respingere Kindra proprio nel momento in cui stava per scegliere un ricordo. Il controllo che Kindra aveva su di me non cedette. Riprovai con una forza maggiore a difendere la mia mente, innalzai una barriera sperando di avere la forza necessaria a controllarla. Anche Kindra spinse con un’ulteriore forza per abbattere la barriera che avevo appena innalzato e si impossessò di un mio ricordo. Quello di mia madre.

«No!» gridai. No, non lo avrebbe preso. Nessuno poteva prendersi il suo ricordo, nessuno si doveva permettere di toccare i ricordi che riguardavano la mia famiglia. Sentii un’energia scorrere nelle mie vene, nel mio sangue. Con tutta la forza che avevo in corpo respinsi la barriera di Kindra. Questa volta a urlare fu lei. L’avevo distrutta. Kindra uscì dalla mia mente di colpo come se fosse stata risucchiata da qualcosa. La mia testa si fece leggera. Era finalmente libera. Finalmente ero di nuovo padrona di me stessa. Respirai godendo dell’aria che entrava beata nei mie polmoni e mi sfuggì un sorriso.

«Stai bene?» chiese Justin preoccupato.

«Sì, tutto a posto» dissi abbracciandolo. Il suo cuore batteva fortissimo, nel suo sguardo tracce di dolore. «Mi hai sentito vero?» lui fece un piccolo sorriso.

«Ho sentito quello che provavi. Non posso farne a meno».

Cercai con lo sguardo Kindra e la trovai che si massaggiava le tempie vicino ad Aimee.

Mi diressi verso di lei «Che cosa ti è venuto in mente? Non sei stata corretta!» lei mi guardòsorpresa.

«Oh scusami tanto allora! Andiamo Zara non essere patetica, ti avevo detto che sarei entrata all’improvviso. Il Nemico non ti chiede mica il permesso, lui entra e basta» disse lei continuando a massaggiarsi le tempie.

«Ammetterai che usare Helan per distrarmi è stato scorretto!» esclamai. Non riuscivo a credere che non gliene importasse nulla del fatto che aveva giocato sporco.

«Non è colpa mia se ha miagolato» disse lei alzando le spalle. Quella donna mi facevaandarefuori di testa. Helan arrivò nel momento giusto e miagolando iniziò a strofinarsi nelle mie caviglie.

«Non penserai di cavartela in questo modo?» gli dissi prendendolo in braccio. Lui mi leccò la guancia. Gli accarezzai le orecchie dicendo «E va bene ti perdono» poi fissai Kindra. «Non credevo che saresti stata capace di questo» lei scrollò le spalle infastidita.

«Zara, ti accadrà anche di peggio e devi saperti difendere sempre, quindi non farmi della ramanzina inutile perché finisci solo per annoiarmi».

«Sì, hai ragione» ammisi accarezzando le orecchie di Helan che fece le fusa. «Non toccare mia madre».

Lei si voltò rapida verso di me «Sapevo che avresti reagito. Quello è il tuo ricordo più forte devi fare in modo che nessuno vi arrivi» rispose fredda. Il suo atteggiamento cambiava quando si parlava di mia madre. Aimee scese dal ponticello di pietra «Guardate! Zara ha superato la prova» e così dicendo estrasse dalla tasca della sua tunica il sacchetto che conteneva le palline della verità e mi mostrò la seconda pallina. Era bianca. Edzard ci venne incontro con Syla in mano.

«Ben fatto Zara»disse Carlos«ma sappi che questo non basta, hai ancora molta strada da fare».

«Ti sembra che abbia le qualità di suo padre?» domandò il signore alla sinistra di Carlos rivolto a Fabio.

«No, non ha le stesse doti di Victor. Lei ne ha di migliori» rispose Fabio.

Kindra mi afferrò per una spalla «Lascia che io ti sveli un piccolo segreto. La nostra mente è molto diversa da quella umana. Essa è fragile e quando arriva a uccidere gli altri in realtà vorrebbe uccidere se stessa. Quando la nostra mente ci spinge a uccidere è perché qualcuno ci ha fatto veramente arrabbiare. Goditi questo momento di gloria. Da oggi in poi sarai il loro giocattolo preferito».

«Il Nemico deve essere molto arrabbiato allora».

«Credimi io lo sono di più».

CAPITOLO 15 - Zombie

«Cosa stai facendo?» La voce del professor Nicklas mi appare flebile come un sussurro. Mi guardo attorno e non capisco dove sono.

«Professore?»Nicklasè seduto su una sedia davanti a me. Sorride.

«Andiamo Zara, davvero non sai dove siamo?».

Aguzzò la vista, cerco di mettere a fuoco qualcosa che mi possa dare un qualche indizio. Tutto intorno a me è bianco. Niente male come primo indizio. Guardo Nicklas. Annuisce, invitandomi a osservare ancora. Un odore di fresco mi entra nelle narici. Si tratta di qualcosa di chimico, una sostanza dall’odore inebriante e allegro. Pittura. Appena ata su una superficie che vedo dipinta d’un giallo pallido. Pareti, con affianco finestre.

Faccio un o avanti. In lontananza c’ è qualcosa. Un muro alto, anzi altissimo. Osservo Nicklas senza capire.

«Guarda meglio» dice lui con il tono più naturale possibile.

Punto il mio sguardo sul muro. Mi accovaccio su me stessa tappandomi le orecchie quando me lo vedo venire addosso a una velocitàassurda.

Apro gli occhi. Realizzo che non si tratta di un muro. Davanti a me c’èun enorme scaffale di legno. Mi alzo e i miei occhi brillano attratti da quello spettacolo. Mi volto a destra e poi a sinistra. Lo scaffale continua come se non finissime mai: imponente e maestosoè pieno, ricco di vite ancora tutte da sfogliare. La biblioteca. Ecco dove siamo.

«Cosa ci facciamo qui?»Nicklasè ancora seduto sulla sedia. Il suo volto è triste. «Qualcosa non va professore?»

«Nulla. Solo che non pensavo fosse così difficile».

«Cosa?» Faccio per avvicinarmi ma Nicklas mi fa cenno di no con la testa. Non capisco perché ma torno al mio posto.

«Non è ancora il momento».

«Momento per cosa?»

«Lo capirai presto».

«Perché siamo in biblioteca?» chiedo guardandomi attorno.

«È qui che tutto è iniziato ed è qui che tutto deve finire».

«Non capisco. Cosa deve finire?»

«Non c’è più spazio per me in questa scuola».

Strabuzzo gli occhi. «E questo che cosa vorrebbe dire?»

«Che è ora che io mi dedichi a ciò che amo davvero».

«Ciò che lei ama sono i libri e loro sono qui».

«Non tutti. Hai idea di quanti altri ce ne sono in giro? Voglio leggerli tutti».

«Continuo a non capire».

«Me ne vado, Zara».

«Va via dalla scuola?» nel domandarlo la voce mi si spezza in gola.

«È giusto così».

«No, non lo è» Avanzo verso Nicklas, anche se lui continua a farmi segno di no

con la testa. Lo raggiungo. Sono ad un o da lui «La prego non se ne vada. Perché vuole farlo?»

«Non posso più stare qui».

«Non mi lasci la prego» Mi avvicino ancora e gli afferro la mano. Non sento nulla. Niente pelle calda, niente ossa, nessun tipo di consistenza materiale. Alzo lo sguardo verso Nicklas. La luce del sole penetra attraverso le finestre ma non lo colpisce. Lo attraversa come se non esistesse. Sposto lo sguardo sul pavimento e mi accorgo che c’è solo un ombra: la mia.

«Ora è giunto il momento» Si sistema gli occhiali sul viso. «Non essere triste».

«Professore, che cosa sta succedendo?»

«Oh Zara, lo sai cos’ è successo. Sai perché non posso più stare qui».

«Le giuro che non lo so».

Nicklas piega il collo di lato. Un grosso taglio va dalla giugulare alla spalla. È profondo e ancora sanguinante. Ai piedi del professore compaiono chiazze di nero sangue. Soffoco un grido.

«Sono morto, è il brutto d’essere uomini. Non sai come invidio i libri... loro vivono in eterno. Presto li raggiungerò, sarò con loro. Non essere triste perché

andrò in pace».

«Mi dica che è uno scherzo».

«Mi mancherai molto Zara» la sua voce è seria e profonda. Scoppio a piangere. Afferro un libro e me lo stringo al petto.

«Anche lei professore».

«Se hai bisogno di me cercami in un libro perché sarò la frase che stai cercando. Non avere timore di disturbarmi, cercami Zara, non smettere di farlo. Cercami e non saremo soli».

Nicklas mi sorride nel modo più dolce e affettuoso che essere umano possa fare. Mi sorride e capisco che è ora di lasciarlo andare. Non voglio ma non mi posso opporre. Ricorderò il professor Nicklas come un padre che si è preso cura di me e per nulla al mondo mi scorderò i suoi insegnamenti. Ma più di ogni altra cosa continuerò a leggere, nel modo più sfrontato che posso. Leggerò fino ad avere gli occhi stanchi. Leggerò perché in questo modo Nicklas non morirà ma continuerà a vivere dove ha sempre voluto: in mezzo ai libri.

Dalla morte del professor Nicklas erano ati due giorni. L’avevo sognato spesso e continuavo a farlo. Era stato trovato morto nel suo appartamento.

Ucciso con lo stesso modus operandi delle ragazze in Nebraska.

Per tutti quanti il Killer Indemoniato, questo spietato assassino affamato di sangue, era giunto in città. Ma per noi elfi era chiaro che i Sicari avevano raggiunto la Bianca Terra della Pace e avevano tutta l’intenzione di scoprire dove eravamo per consegnarci al loro padrone. Dopo l’uccisione di Nicklas la polizia aveva immediatamente divulgato una direttiva secondo la quale non era possibile uscire dopo le otto di sera. Dovevamo starcene tutti zitti e buoni nelle nostre case, di giorno non girare mai da soli ma sempre accompagnati, possibilmente da adulti. Si cercava di condurre una vita normale ma come poteva esserlo sapendo che correvamo tutti un pericolo?

Il sospetto e la paura si erano diffusi ovunque. Kindra mandava i ragazzi a setacciare la zona ogni giorno. Facevano a turno e sorvegliavano, per quanto era loro possibile, ogni angolo della città. Proteggere Eureka e i suoi abitanti era diventata una priorità. Avrei volentieri dato una mano ma non ero nelle condizioni giuste per farlo. Non parlavo con nessuno.

La scuola sarebbe finita il giorno successivo e per l’occasione ci sarebbe stata una commemorazione in onore del professor Nicklas. Alexa e Laura mi avevano chiesto se sarei andata, ma non avevo dato loro alcuna risposta. Me ne stavo tutto il giorno a letto a fissare il soffitto. Ogni tanto piangevo e gridavo. Mi arrabbiavo, tiravo calci e pugni contro il cuscino. Poi tornavo di nuovo in silenzio a guardare il soffitto. Mi chiedevo che senso avesse la vita, se era giusto venire al mondo per poi soffrire così tanto. Ludmilla mi aveva comprato un libro. Sapeva che mi tiravo un po’ su leggendo. Era di uno dei miei autori preferiti, Ernest Hemingway. Non so cosa mi spinse a farlo ma lo afferrai, aprii una pagina a caso e tra tutte le mille parole scritte, l’occhio mi cadde su quelle che componevano la seguente frase: “Ma sapevi che ci sarebbe sempre stata una primavera”. Avevo trovato Nicklas. Era rimasto con me. Tutto iniziava ad acquisire un senso.

Sfide da affrontare, ferite da curare e cuori sanguinanti da riparare.

Bisognava rinascere. Avevo già lasciato una volta che il dolore mi devastasse fino a farmi diventare del tutto apatica. Questa volta sarebbe stato diverso. Dentro di me, per la prima volta, iniziai a maturare quanto fosse importante essere una discendente delle Shoulder Blade, quanto fosse significativo il compito di salvare la mia specie e quella umana.

Mia madre entrò in camera, avevo deciso di tornarci subito dopo aver saputo quello che era successo a Nicklas. Mi ci ero fiondata dentro. Avevo pensato a un posto sicuro e mi era venuto in mente quello.

«Tutto bene?»

«Certo».

«So che è stato doloroso perdere il signor Nicklas, però è ora che torni a scuola».

«Sono pronta» dissi inspirando. Il che era vero.

«Andrai alla commemorazione domani?»

«Forse. Credo di sì».

Uscii in fretta di casa. Mi sedetti nell’ultima fila dell’autobus accennando a George un piccolo sorriso. Qualche fila più avanti c’era un gruppo di ragazzi che chiacchieravano tra loro. Un ragazzo del gruppo si girò a guardarmi. Non mi

staccava gli occhi di dosso. Mi voltai verso il finestrino e misi l’mp3 alle orecchie. Le nuvole assumevano le forme più stravaganti e gli alberi sfrecciavano ad alta velocità. A un tratto qualcosa catturò la mia attenzione. Una macchia scura e indistinta si muoveva a una velocità pazzesca da un albero all’altro ed ero piuttosto sicura che stesse seguendo il mio autobus. Non mi sembrava nessuno dei ragazzi e di certo non si trattava di Kindra. Doveva essere qualcun altro e forse sapevo chi. Sicari.

La prima cosa che mi venne in mente fu quella di scendere dall’autobus: se i Sicari avessero attaccato avrei messo a rischio la vita di persone innocenti e dovevo assolutamente evitarlo. Tolsi l’mp3 dalle orecchie e lo infilai in fretta e furia nello zaino, mi alzai di scatto guardano fuori dal finestrino.

La macchia scura continuava a inseguirmi. Oltreai il gruppo di ragazzi e mi diressi verso George.

«Devo scendere dall’autobus» dissi con voce tremante.

«Non posso farti scendere Zara. Siamo in mezzo alla strada».

«È una cosa urgente» ribadii agitata.

«Ti senti male per caso?»

«No, io devo solo scendere dall’autobus».

«Siamo quasi vicino alla scuola»disse George sorridendo.

Ruotai lo sguardo fuori dal finestrino. Il Sicario era ancora li. «Quanto manca?»

«Quattro kilometri, all’incirca».

Una volta arrivati a scuola forse non avrebbe attaccato, non davanti a così tanta gente ma non avrebbe smesso di cercarmi, non ero sicura che ce ne fosse uno solo anzi con tutte le probabilità ce ne erano molti di più.

«Io devo scendere».

«Manca poco alla scuola. Scenderai lì».

«Ascoltami George, devi assolutamente fermare l’autobus e farmi scendere!».

George mi guardò dallo specchietto e dopo aver alzato un sopracciglio fermò l’autobus.

«Sei sicura che…».

Scesi di colpo e mi fermai a osservare gli alberi, vidi la macchia scura appostata su un ramo che mi fissava. Gettai lo zaino per terra e la raggiunsi correndo il più

forte possibile.

Il Sicario si muoveva veloce e quando finalmente riuscii a raggiungerlo sparì. Mi fermai nel centro esatto della foresta, la scrutai con attenzione ma del Sicario non c’era più traccia come se fosse sparito nel nulla. A un tratto una risata proveniente dal fondo della foresta squarciò il silenzio, pensai subito che si trattasse del Sicario ma mi sbagliavo: era una risata allegra e spensierata come quella di un bambino. D’impulso seguii il suono della risata fino a ritrovarmi nella distesa floreale dove avevo appreso la mia natura. In mezzo a quella moltitudine di fiori, seduta, c’era una bambina che faceva ghirlande con le margherite e rideva. In un primo momento quando si accorse della mia presenza si mise a fissarmi curiosa poi tornò a concentrarsi sulle ghirlande. Era una bambina di circa sei anni, gli occhi azzurri allegri e gioiosi, il viso paffutello con le guancette rosse, i capelli biondi, corti con i boccoli; indossava un vestitino rosso e delle scarpette bianche. Mi avvicinai a lei cercando di non spaventarla ma sembrava tranquilla, perfettamente a suo agio.

«Sai, tu non mi fai paura» disse la bambina strappando una margherita. Alzò lo sguardo verso di me e sorrise. «Mi sei simpatica» aggiunse.

«Che cosa ci fai qui? Può essere pericoloso» le dissi cercando di non trasmetterle la mia paura. Il Sicario doveva essere qui in giro.

«Perché un posto così bello dovrebbe essere pericoloso?» chiese. Bella domanda. Che cosa potevo rispondere a una bambina così piccola?

«Non lo so, ma stare qui non è sicuro».

«C’è qualcosa che ti spaventa? Perché sembri terrorizzata…Se mi aiuti a fare le ghirlande forse la paura va via» disse con dolcezza. La mia angoscia cresceva ogni minuto che parlavo con quella bambina. Mi guardavo attorno nervosa, ero consapevole che il Sicario poteva comparire da un momento all’altro. “Devo trovare il modo di portare via questa bambina da qui. Mi domando come mai il Sicario non l’abbia vista”.

«Ascoltami sei qui da sola?»

«No, ci sei tu con me» rispose sorridendo. Sul visetto paffuto comparvero due fossette ai lati delle guance.

«Dov’è la tua mamma? Lo sai?»

«No» rispose «Ma adesso ci sei tu con me. Come ti chiami?»

Cercando di controllare la mia voce tremante le dissi

«Zara. Il mio nome … è Zara. Tu come ti chiami?»

«Anja» rispose dopo aver completato un’altra ghirlanda.

«Ascoltami Anja, noi adesso dobbiamo andare via da qui. Possiamo finire le ghirlande un altro giorno».

«Mi piace stare qui, non me ne voglio andare».

«Ci torneremo» le dissi cercando di rassicurarla. Mi guardai attorno. Tra gli alberi si muoveva qualcosa.

«Ti prego Zara restiamo qui. Guarda, ho fatto una ghirlanda anche per te» disse porgendomene una. Nel darmi la ghirlanda sfiorai le sue piccole dite e rimasi pietrificata. Non era una bambina in carne ed ossa forse era per questo che il Sicario non poteva vederla; Anja era uno spirito.

Mi fissò allegra, ruotai lo sguardo sulla ghirlanda che mi aveva dato senza capire. Dopo pochi secondi la ghirlanda svanì. Guardai immediatamente Anja confusa ma il terrore di ciò che vidi mi bloccò a tal punto che non riuscii nemmeno a gridare. Dietro a Anja c’era un Sicario, potente e minaccioso. Anja sorrise ma non si mosse. Sparì subito dopo, come la ghirlanda che avevo in mano. Il Sicario era alto circa un metro e ottanta, gli occhi bianchi senza pupilla, la corporatura massiccia e robusta. Ricoperto di cicatrici. Sulle braccia. Sul petto. Sul viso e nelle gambe. Indossava solo un paio di pantaloncini di stoffa corti e alla cintura erano legate diverse armi mentre dalle spalle spuntavano due corni appuntiti. Era l’essere più mostruoso che avessi mai visto. I suoi occhi mi fissavano minacciosi.

Sorrise mostrandomi i denti marci e consumati.

Avanzò verso di me agitando la spada possente con decisione.

Senza pensarci due volte iniziai a correre sperando di trovare la giusta strada per uscire dalla foresta. Il Sicario mi seguiva con una velocità sorprendente nonostante cercassi di andare il più veloce possibile.

A un tratto ebbi l’impressione di averlo seminato: mi voltai indietro per averne la certezza e quando mi voltai una seconda volta mi scontrai con Justin. Tirai un sospiro di sollievo e lo abbracciai.

«Oh Justin, per fortuna stai bene! Dobbiamo andarcene da qui, sono inseguita da un Sicario» esclami con il fiatone. Mi guardai attorno ma di lui sembrava non esserci traccia.

«Zara, ma che ti prende? Va tutto bene? Che cosa ci fai qui?» chiese Justin guardandomi confuso.

«C’è un Sicario nella foresta, dobbiamo andarcene» ripetei.

«Zara calmati, non c’è nessun Sicario».

«Credimi, c’è. Sono sicura di quello che ho visto».

Afferrandomi per mano Justin scrutò a fondo la foresta. «Senti... Sei sicura di stare bene?»

«Sto bene».

«Se c’è era un Sicario, ora se ne è andato» lasciò sfregare il pollice sul dorso della mia mano «Mi dispiace di non essere stato molto presente».

«Non fa nulla, non ero di buona compagnia».

«E ora?»

«Ora va meglio».

«Che cosa ci facevi qui nella foresta da sola?».

«Avevo visto un Sicario che mi seguiva quand’ero sull’autobus, non volevo mettere in pericolo nessuno così l’ho seguito».

Lui mi attirò a sé.

«È sta un idea un po’ stupida».

«Come hai fatto ha trovarmi?»

«Stavo venendo a scuola in macchina, ero fermo al semaforo e ho visto il tuo

zaino. Sono venuto subito a cercarti, pensavo fossi in pericolo» Justin si sporse in avanti e mi baciò. Le sue labbra erano morbide e delicate sulle mie.

«Mi dispiace» sussurrai. Dolcemente fece sfregare le sue nocche sulle guance. Accennò un piccolo sorriso poi mi baciò di nuovo.

«Ora direi che possiamo andare» disse porgendomi lo zaino. Uscimmo dalla foresta e Justin mi accompagnò in macchina fino a scuola. Non avevamo parlato molto, ero ancora sconvolta per quello che avevo visto e credo che lui fosse seriamente preoccupato anche se non voleva farlo vedere.

«Ehi» Alexa ci salutò con un piccolo sorriso. «Sono contenta che sei tornata».

«Mi sono persa qualcosa?»

«Il preside ha fatto chiudere la biblioteca»Alexa parlò di altro, credo. Non che le prestassi molta attenzione, a dire il vero. Mi preoccupava quello che era accaduto nella foresta. Temevo che i Sicari fossero più vicini di quanto pensassimo. Respirai a pieni polmoni solo quando misi piede fuori dall’aula di biologia, dopo il suo della camla. C’era un unico posto nel quale volevo andare. Mi recai al mio armadietto e sistemai i libri.

«Che ci fai qui?» Matt era a circa tre metri di distanza da me. Il volto di solito allegro era cupo, così come il tono della sua voce.

«Stavo andando in mensa».

«È dall’altra parte» disse sorandomi.

«Come stai?»

Matt non rispose. Di colpo sentii rimbombare qualcosa nella mia testa. Un vociare confuso e disorganizzato.

A fare rumore però non erano i miei pensieri.

“Devo andarci. Devo andarci. È inutile fare finta di niente. Se non vado in biblioteca esplodo”

«Ci stavo pensando anche io» dissi ad alta voce. I suoi occhi castani mi osservarono a lungo.

«Mi hai letto nella mente».

«Scusa».

Non disse nulla e iniziò a camminare. «Non vieni?» chiese voltandosi appena.

«Certo».

Justin comparve al mio fianco. «Quando sei tornato?»

«Oggi».

«Cosa significa? Te ne eri andato?» chiesi ando il mio sguardo da Justin a Matt.

«Sono andato in Nebraska. Avevo bisogno di cambiare aria» rispose Matt prima di voltarci del tutto le spalle. Capivo come si sentiva Matt, vederlo così chiuso in se stesso mi spaventava.

«L’hanno chiusa» disse Justin quando arrivammo davanti alla porta della biblioteca.

«Con un lucchetto bello grosso» disse Matt «Perché?».

«Il preside non vuole che ci entri nessuno».

«Rompilo» mi disse Matt lanciandomi uno sguardo rapido. «Avanti, puoi distruggere le cose. Rompilo»

«Non parlarle così» disse Justin.

«Non contraddirmi».

La tensione nell’aria era palpabile.

«Basta. Romperò il lucchetto» dissi e nello stesso istante il lucchetto si ruppe.

Il primo a entrare fu Matt, seguito a ruota da me e infine Justin.

«Cosa stai cercando?» chiesi, osservando Matt che si guardava attorno.

«Qualcosa».

«Tipo cosa?»

«Ci ha lasciato qualcosa» affermò Matt.

«Di che stai parlando?» domandò Justin scrutandolo. Matt iniziò a frugare tra la marea di libri che si trovavano sul bancone della biblioteca.

«Diceva che le persone non se ne vanno, senza lasciare qualche indizio».

«Non ha molto senso» obiettò Justin «Nicklas non sapeva quello che sarebbe successo».

«Però credo che fosse consapevole che c’era qualcosa che non andava» dissi ripensando a quell’uomo e alle parolepronunciatenel mio sogno.

«Cerchiamo in giro, qualcosa troveremo» disse Matt.

Io e Justin facemmo come aveva suggerito, senza controbattere. Non credo Justin riuscisse a capire fino in fondo quello che Matt stava cercando. Io forse sì. Credo che stesse cercando solo un modo per dire addio al professor Nicklas. Io avevo avuto la fortuna di vederlo almeno un’ ultima volta prima che venisse ucciso. Matt no. Controllammo la biblioteca da cima a fondo. Non c’era nulla. Non c’era vita.

«Se continuiamo a girare a vuoto, non troveremoniente» disse Justin dubbioso.

Matt lo ignorò. In meno di un secondo prese un gruppo di libri da uno scaffale e li gettò per terra con rabbia. «Deve esserci qualcosa».

«Non puoi continuare a piangerti addosso» Justin piombò alle spalle di Matt e lo costrinse a guardarlo in faccia. Il ragazzo dagli occhi castani aveva i riccioli che gli ricadevano sul viso, le labbra serrate e il corpo teso.

Matt era fuori controllo e non avrebbe esitato ad attaccare Justin.

«Le risposte che cerchiamo» dissi a un tratto «le possiamo trovare solo nei libri».

Justin si voltò rapido. Il suo pensiero penetrò brusco nella mia mente.

“Vorresti controllare tutti i libri della biblioteca? Non sappiamo nemmeno cosa stiamo cercando”

“Ti prego. So che è una cosa da pazzi ma è importante”.

“Non credevo che ci fosse tanto affezionato”.

“Io non credevo nemmeno che fosse in grado di soffrire”.

“Ci siamo proprio sbagliati”.

“Decisamente”.

Justin uscì dalla mia mente e iniziò a controllare alcuni volumi della sezione gialli. Matt si occupò dei romanzi rosa. Mi bloccai di colpo pensando che tra tutti i tipi di romanzi, quello che sembrava il più insignificante poteva invece fornirci le risposte che cercavamo.

«Smettetela di cercare. Andiamo nella zona fantasy».

Matt strabuzzò gli occhi «E perché?»

«Seguimi e basta».

Appena giunti nella sezione fantasy continuammo a cercare. La nostra ricerca fu interrotta da Justin che annunciò di aver trovato qualcosa. Ci indicò un libro in alto, senza titolo e senza autore.

«Non ci avevo mai fatto caso» disse Matt.

«Dobbiamo prenderlo» Salii sulla scala e raggiunsi il ripiano nel quale si trovava il libro. Lo afferrai. Era estremamente leggero.

«Non credo si tratti d’un libro» dissi scendendo dalla scala.

«Che vuoi dire?» domandò Justin.

«Guarda. Ha la forma di un libro ma non lo è. Le pagine sono finte».

Matt mi strappò l’oggetto dalle mani. «Un altro lucchetto» disse guardandomi.

«Ho capito, lo rompo» Presi il libro dalle mani di Matt e ruppi il lucchetto. All’interno vi erano dei fogli sparsi. C’erano le mie foto. I miei dati anagrafici e tutti gli appunti di Douglas. C’erano anni di ricerche sul sovrannaturale. Il professor Nicklas stava cercando di scoprire se esistessero davvero creature più veloci del vento e forti più d’un uragano. Ci stava cercando. In fondo al libro, sotto mucchi di fogli, c’era una foto: il professor Nicklas si trovava accanto ad un uomo e a giudicare dal luogo in cui erano, doveva trattarsi di qualche zona remota del mondo.

«Ronald Douglas e Erik Nicklas. Luglio 1983» lessi a bassa voce.

Il mio professore conosceva lo scrittore che sosteneva l’esistenza di creature mistiche. Non poteva essere una coincidenza che i Sicari avessero ucciso proprio lui. Cosa sapeva Nicklas riguardo alla nostra esistenza?

Presi la foto e la infilai in tasca senza farmi vedere.

«Trovato qualcosa?» chiese Matt.

«Nulla» dissi appoggiando il libro al suo posto. Gli occhi duri e gelati di Matt si ammorbidirono un poco solo quando nella stanza entrò Laura.

«Come avete fatto a entrare?» chiese con il groppo in gola. Prima che potessimo dare una qualche spiegazione, Laura scoppiò in lacrime. Matt le si avvicinò e

l’abbracciò.

“Guai in vista, mi serve aiuto”La voce di Edzard perforò nelle nostre menti come un trapano impazzito.

“Qual è il problema Ed?”

“Sicari fratellino. Si aggirano nel retro della scuola”.

“Maledizione!”

“Stanno muovendosi verso il teatro”.

“Dobbiamo andare là subito”dissi guardando Justin.

Lui si voltò verso Matt e Laura ancora abbracciati.

«Matt?» la voce di Laura era spezzata. Si asciugò gli occhi con il dorso della mano poi disse: «Ti andrebbe di restare un po’ con me?».

“Io non vengo”.

“Abbiamo bisogno di te. Edzard ne ha bisogno”Justin era chiaramente contrariato dalla sua scelta.

“Può farcela, è in gamba e presto arriveranno gli altri. Resterò qui. Sorveglierò la biblioteca”.

“Ne sei sicuro?”

Matt strinse Laura al petto e lei vi affondò la faccia. Si voltò verso di me.

“Ne sono sicuro”.

«Che cosa facciamo adesso?»

«Dobbiamo trovare mio fratello e allontanare i Sicari dalla scuola».

Arrivati a teatro ci guardammo intorno.

«Non c’ènessuno» lo dissi con un filo così sottile di voce che anche Justin lo percepì a malapena. A un tratto da dietro le quinte si sentì un rumore assordante, un grido che mi fece accapponare la pelle.

«Dobbiamo nasconderci» sussurrò Justin.

Ci nascondemmo dietro una fila di sedie, cercando di intravedere quel che stava succedendo. Da dietro le quinte sbucarono fuori due Sicari, orrendi e spaventosi, che stavano brontolando qualcosa in una lingua del tutto incomprensibile.

«Riesci a capire quello che dicono?» bisbigliai a Justin ma lui mi fece cenno di no con la testa. Poco dopo dalle quinte uscì un altro Sicario e aveva Alexa tra le braccia, svenuta. Soffocai un urlo.

«Dobbiamo salvarla!»

«Sì, ma non possiamo farlo adesso. Dobbiamo aspettare per lo meno che arrivi Edzard».

«Io non posso aspettare, Justin».

Justin mi afferrò il braccio. «Non ora» sussurrò puntandomi i suoi occhi intensi addosso. La paura si era oramai insidiata nel mio corpo ma decisi comunque di dargli retta. Mi fidavo di lui. Il Sicario che teneva Alexa in braccio la poggiò sul palco, poi emise un gridò terrificante.

«Questa non è quella che cerchiamo! Razza di idioti! Avete preso la ragazza sbagliata».

«Sono tutte uguali».

«Una vale l’altra, no?»

«E invece ti sei sbagliato pezzo di idiota!» tuonò il Sicario che dopo averli fissati un attimo si chinò su Alexa e disse: «Trovatela!».

«E di questa? Che ne facciamo?»

«Questa? Questa la tengo per me… È da qualche tempo che non mangio carne fresca» disse il Sicario esplodendo in una macabra risata. Voltai lo sguardo verso Justin e la mia angoscia si rifletté nei suoi occhi.

«Edzard sta arrivando» sussurrò «ci sono anche gli altri con lui. Riusciremo a salvarla».

«E gli altri? Dobbiamo mettere al sicuro anche loro».

«A quello ci penserà Kindra. Adesso bisogna solo aspettare che gli altri due Sicari se ne vadano».

«Andate a cercarla! Su idioti muovetevi!» disse il Sicario.

Questi eseguirono l’ordine dato. Il Sicario rimase a fissare Alexa con l’idea di pregustarne il corpo.

«Ora» bisbigliò Justin.

Uscimmo velocemente dal nostro nascondiglio. Il Sicario si accorse di noi ed emise un grido spaventoso, saltò giù dal palco dirigendosi verso me e Justin; subito dopo arrivarono anche gli altri due Sicari.

«Uccideteli!» urlò il loro capo. I Sicari avanzarono verso di noi, imponenti e minacciosi. Justin si precipitò verso uno di loro ma venne scaraventato verso il fondo del teatro con una potenza mai vista. L’altro mostro si avvicinò a me con un sorriso divertito sul viso deformato. Immediatamente cercai di concentrare tutte le mie energie per utilizzare la magia in modo da poter generare un getto d’acqua che fosse abbastanza potente. Non so come, ma ci riuscii e lo diressi subito contro il Sicario che indietreggiò di qualche centimetro. Il mostro sorrise.

«Lo sai, mi hai fatto il solletico» disse avanzando ancora.

Ero impietrita e non avevo la minima idea di cosa fare. Non riuscivo né a riflettere, né a pensare con lucidità. Il mostro allungò il suo braccio massiccio e mi afferrò per il collo, sollevandomi da terra. Iniziai ad ansimare. La sua stretta su di me era potente ed ero quasi certa che mi avrebbe spezzato l’osso del collo. Guardai negli occhi quell’essere maligno e per un secondo vi vidi riflesso il volto del professor Nicklas. Per lo meno, l’avrei raggiunto presto.

«Ehi! Razza di armadio a sei ante, mettila giù!» la voce di Edzard era inconfondibile. Il Sicario mi lasciò cadere mentre si preparava ad affrontare Edzard che lo eliminò senza troppi problemi.

«Grazie» gli dissi facendo dei respiri profondi.

«Figurati».

«Monthgomery che fa lì impalata vieni a darci una mano» esclamò Kindra dall’altra parte del teatro. Mi precipitai subito da lei e la aiutai contro un Sicario che stava cercando di soffocarla.

«Dove sono i miei compagni?»

«Sono tornati a scuola».

«Come hai fatto a convincerli?»

«Semplice. Ho fatto scattare l’allarme antincendio».

«E Alexa?» ruotai subito lo sguardo verso il palco e di lei non vi era più traccia. «Dov’ è? Dove l’hanno portata?»

«Sta calma,è al sicuro con Aimee che si sta occupando di lei»Kindra mi lanciò una breve occhiata.

«Allora? Come sta andando?» chiese Darline piombandomi davanti agli occhi

dopo aver fatto fuori un altro di quei mostri. Per lei era una cosa del tutto naturale.

«Beh, hanno cercato di uccidermi».

«Si è capitato anche a me» Il suo volto s’ impietrì.

«Darline?»

«Ingsna Im».

«Che cosa hai detto?»

«Abbassati!» Urlò lei. Mi voltai e l’imponente stazza di un Sicario mi era d’innanzi. Gli occhi bianchi e senza pupilla era incollati su di me. Darline pronunciò qualcosa nell’antica lingua, estrasse dalla tasca dei pantaloni un coltellino svizzero e lo conficcò dritto nella gola del Sicario.

«Ti devo la vita».

«No, ma puoi comunque pagarmi da bere se vuoi».

«Ti ho trovata finalmente!» la voce cupa di uno di quei terribili Sicari mi fece

venire la pelle d’oca. Davanti a me avevo il capo «Ora ti porto dal mio padrone»disse e quando parlò dalla sua bocca uscì un fetido odore di marcio.

«Non credo proprio!» risposi. Poi mi concentrai e pensai “Solleva!”. In poco tempo il Sicario era in aria ed io lo scaraventai dall’altra parte del teatro.

«Gli umani arriveranno da un momento all’altro» esclamò Alan voltandosi di scatto dopo aver conficcato una freccia dritta nella gola di un Sicario che stava tentando di rialzarsi.

«Dobbiamo portarli via immediatamente, bisognerà anche risistemare il teatro» disse Kindra fissando Justin. «Ovviamente questo è compito tuo».

«Su diamoci una mossa!» esclamò Edzard.

Justin si avvicinò a me «Sapevo che ce l’avresti fatta»mi sollevò il mento con il dito e inclinò il viso. Era vicinissimo a sfiorare le mie labbra.

«Nemmeno un centinaio di torte alla crema farebbero venire un diabete del genere. Allen mettiti al lavoro, ora!»Kindra mi fissò sorridente mentre Justin si allontanò.

«Non fare quella faccia, avrete tempo più tardi per la vostra privacy».

Aimee mi chiamòa gran voce«Alexa si è svegliata, va da lei, ci pensiamo noi

qui». Annuii e mi precipitai fuori dal teatro chiudendo la porta. Alexa era distesa su una brandina vicino alle scale.

«Ehi, tutto bene?» le chiesi correndo subito da lei.

«Si sto bene, ma credo che mi sia venuto un bernoccolo. Che cos’è successo?»

«Sei scivolata, non ti sei accorta che la bidella aveva appena ato lo straccio?».

Fu la prima scusa plausibile che mi venne in mente.

«Andavo di fretta, non me ne sono accorta. Dove sono gli altri?»

Proprio in quel preciso momento arrivarono la professoressa e gli altri studenti. «Eccoli qui». Non sapevo se essere felice o triste.

«Monthgomery, Mc Person che vi è successo? Vi siete perse la prova di sfollamento».

«Alexa non si è sentita molto bene ma ora è tutto a posto».

«Torniamo in classe, forza» ordinòla Backster.

«Su, muoviti» disse Alexa massaggiandosi la testa «Se non la seguiamo inizia a dare i numeri».

Alexa seguì gli altri ragazzi verso la scuola. Stavo per farlo anche io quando intravidi Justin appoggiato a una colonna.

«Che cosa ci fai ancora qui? Dove sono gli altri?» chiesi venendogli incontro.

«Sono tornati alla villa. Io però non potevo di certo andarmene».

«E perché no? Voglio dire, io adesso devo…».

«Abbiamo una cosa in sospeso o sbaglio?»

«Ma di cosa…» rapidamente mi prese il viso tra le mani e mi baciò.

Un bacio intenso e dolce allo stesso tempo.

«Ora…devo andare» dissi cercando di riprendermi da quella piacevole sensazione di felicità.

«Sì, mi sa proprio che devi. Ci vediamo dopo alla villa».

«Non vedo l’ora».

CAPITOLO 16 - Ombre dal ato

Per raggiungere la villa ci misi un attimo. La sensazione di potermi spostare da un posto all’altro in meno di un secondo era ineguagliabile: guardare tutto scorrere veloce, il vento tra i capelli, l’idea di poter essere ovunque in qualsiasi momento. Quando arrivai i ragazzi erano nel soggiorno che discutevano animatamente. Matt non c’era. Non si accorsero subito della mia presenza ma quando Edzard mi notò, mi salutò calorosamente.

«Qualcuno si è accorto di qualcosa?»

«Tutto perfettamente a posto. Nessuno sospetta nulla».

«Mi sembra perfetto» esclamò Alan, seduto accanto a Cassandra e Aimee.

«Perfetto? Perfetto un corno! Siamo appena stati attaccati dai Sicari e abbiamo rischiato di farci scoprire dagli umani, secondo te è perfetto? »Kindra lo fulminò con lo sguardo.

«I Sicari vi hanno attaccato altre volte e ve la siete sempre cavata».

«Questo non è stato un attacco come gli altri» Justin parlò con un tono di voce profondo.

«L’hanno fatto di giorno e questo non era mai successo prima. I Sicari non si fanno mai vedere alla luce del sole: è ciò che da sempre temono di più» rispose Darline, cercando in qualche modo di capire i ragionamenti logici dei Sicari.

«Questo cosa vi fa pensare?» intervenne Azzurra.

«Sicuramente niente di buono» rispose in fretta Aimee.

«Il Nemico non può più aspettare. Ha perso definitivamente la pazienza e deve essere piuttosto vicino, dal momento che ha deciso dimandarei suoi Sicari a farci una visitina». Helan miagolò e Kindra gli accarezzò le orecchie preoccupata.

«Ci ha appena mandato un avvertimento» disse Alan.

«Se non saremo noi a trovarlo, sarà lui a farlo» le parole di Edzard rimasero sospese nell’aria. Nessuno voleva prenderle in considerazione perché la sola idea di essere scovati appariva fastidiosa e irritante.

«Credo che sia abbastanza chiaro chi dei due troverà per primo l’altro» Azzurra interruppebruscamenteil silenzio che s’era creato. Kindra ci fissò un momento, accarezzando il pelo morbido di Helan, accovacciato sulle sue ginocchia, poi scandì bene quattro semplici parole che bastarono a congelare l’intera stanza. «Il Nemico è vicino».

Ci fissammo gli uni con gli altri. Immobili. Impietriti. L’ unico suono nella stanza era il sottofondo musicale proveniente dall’arpa di Joslin. Helan miagolò

di nuovo.

«Temo proprio che dovremmo darci una mossa allora» disse Darline alzandosi con decisione dal divano. Kindra annuì.

«Ma prima di metterci al lavoro, non dimentichiamo che abbiamo una cosa per cui festeggiare»disse Azzurra.

«E cosa sarebbe?» chiesi stupita.

«Aimee, falle vedere».

Aimee mi venne incontro ed estrasse dal sacchetto di velluto la terza pallina della verità.

«È bianca» sussurrai. «Com’ è possibile? Non mi hai sottoposto a nessuna prova» dissi rivolgendomi a Kindra.

«Quello che hai fatto oggi a teatro, si può considerare una prova più che valida».

«Ma guardate, il figliol prodigo ètornato» disse Kindra velenosa come una vipera.

«Non ora Kindra» rispose Matt entrando nella stanza senza guardare in faccia a nessuno.

Kindra gli si parò davanti.«Si può sapere che ti è preso?»

Matt la guardò un secondo. «Lasciami stare».

«Oh no, adesso mi ascolti bene»lo afferrò per il braccio «Hai lasciato i tuoi compagni nei guai».

«Se la sono cavata anche senza di me».

«E questo che significa? Guardami. Li hai mollati per un’umana».

I piccoli occhietti scuri dell’elfo dai capelli rosso fuoco erano puntati addosso a quelli di Matt che per tutta risposta li abbassò. Kindra scosse la testa. «Guardami in faccia» gli afferrò il viso e lo costrinse a guardarla «Esigo una spiegazione. Quello che hai fatto va contro le nostre leggi».

«Lo so» rispose Matt «Aveva bisogno di me».

«Dannazione Matt! Lo sai quanto è pericoloso legarsi agli umani?».

«Sì Kindra, lo so» rispose Matt piano.

Kindra mollò la presa su di lui. «Devi smetterla di giocare, smetterla di fare il deficiente. Il tuo popolo è stato massacrato, non hai una famiglia, ci siamo solo noi. Vuoi lasciarci morire?»

«No».

«Allora mettiamoci al lavoro» Kindra iniziò subito a dettare ordini e Matt, dopo aver respirato a fondo, la seguì attentamente. «Edzard, Justin e Matt controllate la parte ovest della foresta e subito dopo esservi accertati che siamo al sicuro, andate alle cascate e iniziate l’allenamento. Darline e Aimee fate la stessa cosa ma controllate la parte est. Cassandra e Alan andranno con Azzurra e si alleneranno per conto loro. Io supervisionerò il resto della foresta. Tutto chiaro?»

«Ed io?»

«Per te ho un compito davvero speciale».

«Resterai con me a pulire la soffitta» disse all’improvviso Joslin togliendosi l’mp3 dalle orecchie. Era la prima volta che sentivo il suono della sua voce. Era distante e al tempo stesso vicina. Mi fece uno strano effetto.

«Devo pulire la soffitta?»

«Sì mia cara, devi pulire la soffitta. Come avrai notato è parecchio in disordine e maleodorante ed io voglio che diventi splendente».

«Ma... ».

«Non ti sembra di aver rischiato abbastanza per oggi?» Non le risposi. Kindra continuò dicendo: «In soffitta tra gli scatoloni e gli acari della polvere, ci sono armi molto antiche e importanti che al nostro ritorno, voglio trovare linde e pulite. Capito?»

«Sì, certo».

«Ho già spiegato tutto a Joslin, lei sa cosa dovete cercare».

«Torneremo tra due ore» annunciò Darline. Justin mi diede un leggero bacio sulla guancia.

«Cerca di non morire dalla noia» disse Edzard ridendo.

«Ci proverò».

Dopo un breve saluto i ragazzi scomparvero.

«Zara» Kindra si voltò verso di me prima di andarsene «se per caso non dovessi trovare le armi perfettamente intatte, vi strappo le budella e ci faccio una collana. Non scherzo»

«Non fare caso a ciò che ha detto. Per sbudellarci dovrebbe sporcarsi le mani e Kindra non rischierebbe mai di rovinarsi la manicure» disse Joslin sarcastica. Mi voltai verso di lei ma era sparita. Helan miagolò.

«Lo so, lo so. È andata in soffitta».

Quando arrivai al piano si sopra la trovai in ginocchio che frugava tra gli scatoloni. Di fianco a lei c’erano spugne, stracci e prodotti per pulire.

«Kindra ci ha rifornito bene» le dissi avvicinandomi.

«È stata previdente, tipico» rispose senza voltarsi. Nella stanza calò subito il silenzio. Helan mi graffiò il polpaccio come per incoraggiarmi a iniziare una conversazione. Decisi di presentarmi.

«Io sono... ».

«Lo so chi sei» Il suo tono era gelido, praticamente identico a quello di Kindra.

«Okay. E tu sei?»

«Joslin» rispose secca lanciandomi uno straccio «Inizia a pulire i vetri, io cercherò di fare ordine tra questi scatoloni».

Iniziai a pulire i vetri sentendomi lo sguardo di Joslin addosso.

«Li ho quasi finiti. C’è altro che devo fare dopo?»

Si voltò verso di me. I suoi occhi dorati, simili a quelli di un felino, mi scrutarono e i miei fecero lo stesso. I lunghissimi capelli castani dai riflessi ramati erano raccolti in una coda, la pelle rosea e le labbra sottili. Era di statura più bassa degli altri, forse un 1,50 di altezza. Il fisico minuto e sottile, doveva essere anche la più piccola del gruppo: uno o due anni in meno di me. I suoi occhi erano spenti, tristi, impauriti, quasi come se fossero alla ricerca di calore e conforto. Il modo in cui aveva comunicato invece, mi era apparso sicuro di sé, distante e freddo. In qualche modo stava rinnegando l’aiuto che i suoi occhi urlavano silenziosamente. Joslin abbassò improvvisamente lo sguardo e indicando un angolo della soffitta disse: «Bisogna controllare quegli scatoloni, potrebbe esserci qualcosa».

Improvvisamente mi ricordai tutto ciò che mi aveva detto Justin a proposito di quella ragazzina: lui e Kindra l’avevano trovata in mezzo alla strada, completamente sola e in fin di vita. Piena di ferite e con gli abiti stracciati.

Justin sosteneva che Joslin non stava facendo nulla per proteggere Eureka, questo era evidente dal fatto che non prendeva mai parte a un allenamento oppure dalla sua costante assenza nelle situazioni di pericolo, come oggi a teatro. Helan mi piombò davanti facendomi sobbalzare.

«Okay, va bene adesso mi metto a lavorare».

Iniziai a controllare gli scatoloni e rimasi sorpresa dalla quantità di oggetti che vi erano contenuti. Alcuni erano davvero strani, simili a provette o ad altre cose utilizzate in laboratorio, altri invece erano decisamente più “normali”: assomigliavano a clessidre, bussole e ad altre cose che per Kindra dovevano avere un significato importante o quanto meno utile.

Nel mezzo di tutti quegli oggetti assurdi riuscii a trovare qualcosa di sorprendentemente bello. Un quadretto: piccolo e con la cornice di legno, incisa nell’antica lingua elfica. La foto che conteneva era in bianco e nero, abbastanza sbiadita ai lati ma i soggetti della foto erano ancora nettamente visibili. Si trattava della precedente dinastia elfica, quella alla quale apparteneva mia madre. C’era la madre di Darline, quella di Cassandra e ovviamente quella di Aimee. Ne mancava una.

«Hai trovato qualcosa?»

«Ho trovato un quadro».

«Scommetto che c’è tua madre».

«Infatti».

«Buttalo via, è inutile».

Joslin si sbagliava. Quel quadro, come qualsiasi altra cosa avremmo trovato, era tutto fuorché inutile. Ricordava il ato. Ma per lei doveva essere difficile da capire.

«Credo che lo terrò».

«Non èun arma. Nonè ciò che Kindra ci ha chiesto di trovare» rispose lei continuando a frugare nella sua parte di scatoloni impolverati.

«Beh, voglio tenerlo comunque».

«Perché?»

«Mi fa ricordare».

«Non credi che sia inutile pensare a qualcosa che è già successo? Bisogna essere masochisti per continuare a farlo».

«Forse. Ci sono cose però, che vale la pena rievocare perché in fondo, fanno parte di noi. Io credo che i ricordi ci permettano di avere controllo su noi stessi, ci danno la possibilità di essere noi stessi, ci mettono in guardia sulle nostre scelte».

Cercai di incrociare lo sguardo di Joslin ma non ci riuscii. Mi resi subito conto che non aveva senso parlare del ato con lei. Lei, l’unica a non averne uno. Quella ragazzina non aveva punti di riferimento, ogni situazione nuova era una scoperta, qualcosa che andava compiuto con calma poiché non vi era nessun confronto da fare siccome non c’era mai alcuna situazione che lei avesse già vissuto. Poggiai il quadretto per terra senza dire niente. Notai che Joslin lo stava fissando.

A un tratto si alzò, avanzò verso di me, poi vi si sedette davanti a gambe incrociate.

«Che cosa vedi?»

«Un gruppo di ragazze».

«E quante ne vedi?»

«Quattro».

Joslin annuì. «Esatto sono solo in quattro» Rimase un secondo in silenzio. «È buffo, questo medaglione dovrebbe dirmi chi sono ma non sa spigarmelo. È incompleto, come il resto della mia vita».

«Non ricordi proprio nulla?»

Joslin scosse la tesa.

«A volte vorrei non ricordare» ammisi.

«Prima hai detto che è importante».

«Lo so. Infatti, lo è, solo che ci sono volte in cui preferirei non aver alcun ricordo piuttosto che averne tanti orribili e dolorosi. Per lo meno le tue notti non sono costellateda incubi».

Joslin rimase in silenzio, si accovacciò su se stessa prendendosi le ginocchia tra le braccia.

«A cosa stai pensando?»

«Nulla».

«Sai, una volta una persona molto speciale mi ha detto che bisogna rinascere per sentirsi un po’ più vivi».

Joslin alzò un sopracciglio. «Questa persona aveva mai sofferto?»

«Temo di sì».

«C’ è riuscita?» chiese Joslin, quasi con timidezza «È riuscita a rinascere?».

Abbassai lo sguardo. «Non le è stata data la possibilità, ma senza dubbio ci sarebbe riuscita».

La ragazzina si morse il labbro inferiore «È una cosa difficile... » rifletté «forse non sarò mai in grado di farlo».

«Hai tutto il tempo per pensarci».

Gli occhi dorati apparvero più rilassati, le labbra accennarono un piccolo sorriso. «Dovremo cercare le armi».

«Giusto».

Avevamo meno di un’ora. Sotto la moltitudine di scatoloni vidi qualcosa. Una luce intensa, luminosa e brillante. Scavai in profondità scostando le varie scatole fino a raggiungere quel bagliore folgorante. Avvolta in quel fascio di luce trovai la custodia di una spada, sbiadita e tutta impolverata. Decisi d’estrarla dalla custodia. Subitoun lampoaccecante si manifestò in tutta la stanza, costringendomi a coprirmi gli occhi con il dorso della mano.

La spada era fredda e come Syla,scintillavacome una stella.

Al centro della lama vi erano delle iscrizioni in lingua elfica mentre i bordi erano tempestati di piccoli diamanti. La punta era tanto affilata che la mia pelle al suo contatto si lacerò. Sul pavimento cadde un goccia color cremisi. L’elsa di cuoio splendeva, irradiando la sua luce come il sole sulla Terra. Vi erano incise due lettere: la S e la B e sotto di esse trionfava la frase: “Per Odino, per la tua patria e per la tua famiglia. Brandisci questa spada, oh mia figlia divina, poi va sulla Terra e porta il nome delle Shoulder Blade”.

«Non ci posso credere» sussurrò Joslin. Mi voltai verso di lei e la vidi osservare la spada meravigliata.

«È una delle armi di Kindra?»

«Questa è la Regina di tutte le armi».

«Che significa?»

«Davvero non lo sai?»

Feci segno di no con la testa. «Questa è Heltayner, la spada forgiata da Odino per le sue guerriere. Darline mi aveva detto che era andata perduta... » si fermò un secondo «Erano secoli che nessuno la impugnava» disse tutto d’un fiato.

«Forse dovrei rimetterla nella custodia».

«Sì, è meglio» rispose senza staccarle gli occhi di dosso. Heltayner era leggera nelle mie mani, come una farfalla. Osservai per un attimo il mio volto riflesso sulla lama. La spada tremò. Divenne calda e sprigionò una fiammella di fuoco. Eppure non mi scottai. Apparvero cinque ragazze dai lineamenti fini e leggeri. Portavano con sé delle armi e sui loro visi era dipinta un’ espressione bramosa di vittoria. Le loro labbra si curvarono in sorrisi arcigni, dalle loro schiene sottili spuntarono due piccole ali nere. Alzarono le spade a mezz’aria.

Heltayner tremò di nuovo, stavolta più forte. Si scontrarono lame affilate. Ci fu del sangue e una forza: una vita s’insediò nella mia pelle provocandomi un formicolio alla mano. Rimisi in fretta Heltayner nella sua custodia e il formicolio svanì. La posizionai accanto a me guardandola con sospetto e paura.

«Ho trovato qualcosa» Joslin mi mostrò un arco e delle frecce tutti argentati e ricamati in elfico antico. Alan avrebbe sicuramente fatto i salti di gioia. Dopo un po’ anche io trovai qualcosa.

«Eccone un’altra» dissi mostrando a Joslin un pugnale affilato.

«Non me l’aveva descritto così».

«L’ha fabbricato Odino?»

«Non lo so ma quello è il pugnale di Kindra».

«Lei combatteva con questo?»

Joslin lo fissò un secondo. «Mi aveva detto che era grande ma... questo assomiglia... ».

«... Alla zanna d’un elefante».

Mi sembrò di vedere Joslin sorridere «Abbiamo finito».

«Bene» Iniziarono a sentirsi alcuni mormorii provenienti dal piano di sotto.

«Sono tornati» annunciò Joslin «Dò una spolverata alle armi poi scendiamo».

Annuii distrattamente poiché qualcosa aveva attirato la mia attenzione. In mezzo a tutte quelle scartoffie di giornali uno mi colpii particolarmente. Presi il giornale e lessi l’articolo in prima pagina. Risaliva al 1968.

«Tragedia. Muore oggi il celebre archeologo Roland Daglous».

La polizia: è stata la sua pazzia a condurlo al suicidio.

Eureka, California- È stata diffusa questa mattina la notizia della morte del famoso archeologo Roland Daglous che, secondo il parere della polizia, si sarebbe suicidato a causa della sua follia. Da parecchio tempo l’archeologo dava segni di instabilità mentale sostenendo di aver avuto incontri ravvicinati

con strane creature. Secondo quanto diceva l’archeologo queste creature erano realmente esistenti e presenti intorno a noi «Dopo molte ricerche sono finalmente riuscito a trovare una prova dell’esistenza di antiche popolazioni dai poteri mistici. A malincuore, ho però scoperto che la loro esistenza è destinata a estinguersi... pare che ci sia un essere malvagio che li vuole distruggere... » L’archeologo proseguiva «Posso affermare con certezza la loro esistenza poiché io stesso ho avuto lo straordinario onore di incontrale. Sono creature molto particolari. In apparenza uguali a noi ma hanno dentro di loro un grande potere... Credo che il fatto di avere un aspetto identico al nostro sia un tipo di adattamento all’ambiente, tuttavia esse sono dotate di poteri paranormali... Hanno però bisogno d’aiuto ed io voglio aiutarli» Molti dei collaboratori del sig. Daglous non hanno preso seriamente in considerazione il risultato delle sue scoperte e di lì a poco l’archeologo è stato rinchiuso in manicomio. Ieri alle 23.30 di sera il sig. Daglous si è tolto la vita ponendo del tutto fine alla sua follia. La moglie Melanie Daglous piange dolorosamente la morte del suo caro marito.

Soffocai un grido quando vidi la foto del sig. Daglous e quella di sua moglie.

Melanie, la donna che a Seattle aggiustandomi il medaglione mi aveva fatto immergere nelle storie che il marito le raccontava, ora si trovava in una foto vecchia e sbiadita di quaranta anni fa ad abbracciare il marito tristemente deceduto. Di colpo mi venne in mente tutta la conversazione avuta con lei quel giorno a Seattle: “ Comunque sono solo storie. Sai, mio marito si era apionato talmente tanto che diceva di averli visti. Ovviamente lo hanno preso tutti per pazzo, poi... è morto in circostanze misteriose” Morto in circostanze misteriose. Come mai Melanie avrebbe dovuto affermare una cosa del genere? Mi infilai l’articolo di giornale in tasca, turbata. Spostai bruscamente il resto dei giornali. Avvolto in un involucro cartaceo “Sono in mezzo a noi” di Roland Daglous, trionfava.

Il libro sembrava più vecchio. Lo afferrai chiedendomi cosa ci fe lì. Poi ricordai che il giorno in cui Kindra era venuta a casa mia il libro era scomparso

per poi riapparire magicamente nella stanza di Alexa. Infilai il libro in uno zainetto in pelle che trovai lì affianco e uscii dalla soffitta.

«Dove stai andando?» chiese Joslin quando s’accorse che stavo voltando a destra invece che a sinistra come avrei dovuto fare per giungere in soggiorno.

«La bibliotecaè da questa parte, giusto?».

«Sì, ma che ci devi fare?»

«Devo andarci».

«Kindra vuole che ne stiamo alla larga».

«Ma Edzard c’è andato».

«Lui non ascolta mai nessuno».

«Nemmeno io» dissi svoltando del tutto a destra. Mi ritrovai in un altro corridoio, un po’ più corto e luminoso. Avanzai fino a quando non giunsi d’innanzi ad un enorme porta in mogano.

Incorniciata, a grandi lettere dorate, vi era la scritta “Biblioteca”.

Poggiai la mano sulla maniglia.

«Non farlo» Joslin aveva un espressione dura in volto.

«Devo».

Mi si piazzò davanti. «Tu non ti rendi conto».

«Nemmeno tu».

Ci fissammo negli occhi. Nessuna delle due avrebbe ceduto, poi Joslin si scansò di lato. «È incantata. I membri del Consiglio lanciarono un incantesimo potentissimo secoli fa, per proteggere i segreti della biblioteca. Bisogna fare attenzione».

«Come sai queste cose?»

«Darline. Quando stavo con lei e suo nonno mi raccontavano un sacco di storie per farmi tornare la memoria».

Inspirai profondamente. «Devo entrare».

«Cosa stai cercando?»

«Risposte» dissi abbassando la maniglia della porta. Freddo. Fu la prima cosa che percepii.

Un vento gelido m’accarezzò il viso.

«È caldo» dissi incredula «il vento, credevo fosse freddo invece è caldo».

«Dovremmo tornare indietro» Una folata di vento forte e prepotente ci fece arretrare di qualche o. La porta della biblioteca si chiuse rumorosamente alle nostre spalle.

«Non possiamo» Una gocciolina calda e bagnata mi cadde sul viso. Mi guardai attorno spaesata, vidi Joslin osservare il soffitto rapita. Guardai nella sua direzione. Fiocchi di neve argentati, candidi e delicati cadevano dal soffitto decorato con angeli e Santi. Mi voltai verso Joslin che stava giocherellando con uno di quei fiocchi.

«Strano» disse «questo non si scioglie».

«Cosa?»

«Sì, guarda» Toccò il fiocco di neve che iniziò a vibrare continuando a volteggiare nell’aria. Quasi attratta da quella meraviglia ghiacciata, mi avvicinai

e lo toccai. Era caldo, un calore che si sprigionò per tutto il corpo dandomi un energia mai provata prima. Il fiocco scese elegante e leggiadro sul palmo della mia mano. Vibrò, quasi mi volesse salutare.

Un venticello argentato lo fece oscillare un poco. «Zara» Il mio nome era stato pronunciato in modo armonico e melodico.

«Joslin» dissi voltandomi verso di lei. «L’ hai sentito?» Lei annuì.

«Joslin».

Questa volta non ero stata io. Il mio nome e quello di Joslin continuavano a risuonare nell’aria come la più dolce delle cantilene. Ci guardammo senza capire da dove provenissero quelle voci così armoniche. «Zara» Posai lo sguardo sul fiocco di neve. Stava diventando sempre più caldo e man mano cambiava colore. Da argento stava diventando rosa così come gli altri fiocchi che, imperterriti, continuavano a scendere a cascata. «Zara».

Capii allora che le voci provenivano dai fiocchi.

«Guarda» Mi voltai verso Joslin. Davanti a lei c’era una donnina minuta e sottile, grande come un pollice. Portava un vestitino azzurro e da dietro la schiena le spuntavano due ali tra l’azzurro e l’argento. Era uguale alle fate che avevo visto nel carillon della soffitta di casa mia.

«Sono fate» sussurrò Joslin «i fiocchi sono fate».

Il fiocco che avevo in mano s’accese d’una luce rosea intensa. Si ripiegò su stesso e attraverso il fascio di luce notai un viso. Un corpicino sottile e un viso sorridente mi osservarono incuriositi. Le due grandi ali rosa e argento si muovevano veloci rilasciando un aroma di rosa. La fatina si librò in aria. La seguii con lo sguardo. Il resto della biblioteca era tutto di ghiaccio. Non faceva freddo però.

Vi erano alberi innevati sui quali si poggiavano altri fiocchi di neve che poi si tramutavano in fate. Ce ne erano a migliaia. Nelle parti cave dei tronchi vi erano piccole lucine, simili a fuocherelli, attorno ai quali sedevano fatine.

«Che cos’è?» chiesi a Joslin.

«Un incantesimo. Queste cose non sono reali».

«Sicura? A me sembra il contrario».

Continuammo a guardarci attorno spaesate e incredule. Vi erano montagne innevate, stelle che brillavano e neve, tanta neve. Ci sentimmo nuovamente chiamare. La fatina dal vestito rosa tornò.

Mi guardò con quei suoi grandi occhi fucsia, intensi e così profondi che mi sentivo scrutata dentro, nel profondo, fino alle viscere.

«Chi sei?»

«Naїri, seguimi».

«Aspetta» le dissi. Naїri piegò l’esile collo da un lato. «Joslin viene con me?»

Lei annuì. «Avete entrambe dubbi che vi tormentano».

«Dove stiamo andando?» Joslin tremava. Le afferrai la mano per farle coraggio.

«A cercare le vostre risposte».

Naїri ci condusse per i corridoi della biblioteca, innevati ma caldi. A un tratto arrivammo d’innanzi ad un salice piangente. Intorno a lui, la neve non c’era. Naїri ci fece cenno d’avvicinarci, sbatté le ali e il salice dispiegò i suoi rami per farci strada. Un vento glaciale mi scompigliò i capelli.

«Fa freddo» disse Joslin stringendosi nelle spalle. Aveva ragione. Faceva freddo, sembrava d’essere al polo nord. Emisi un piccolo grido quando il vento affilato come la lama di un coltello mi graffiò il viso.

Mi toccai la guancia e sulle mie dita rimase impresso il mio sangue caldo.

«Dobbiamo ripararci» esclamò Joslin coprendosi il viso con le mani «Le ferite non riescono a rimarginarsi».

«Questo è impossibile» dissi. Il vento soffiò più forte, si fece piùgelido e più tagliente. Gridai. Un dolore lancinante alla gamba mi fece quasi perdere l’equilibrio. Di botto una potentissima fitta al cuore, così netta e precisa da fermarlo per sempre. Mi guardai la gamba destra. Non avevo ferite profonde. Solo graffi che sanguinavano. Mi voltai allora verso Joslin e la vidi ripiegata su se stessa.

«Joslin!» Mi precipitai verso di lei e cercai di proteggerla facendole scudo con il mio corpo. Subito la miapellesi lacerò in tanti tagli. Il vento s’era tramutato in una bufera.

«Naїri» La piccola fata apparve nel bel mezzo della bufera con un grazia quasi divina. Non aveva nessun graffio, era perfettamente integra, del tutto immune alla bufera che ci stava scorticando vive. Ci fece cenno di are in mezzo al salice. «La verità è dura» dichiarò «La verità è gelida. La verità fa male» e cosìdicendo sparì nel nulla. Immediatamente aiutai Joslin ad alzarsi. Gridò. Perdeva molto sangue. Quando attraversammo il salice ci ritrovammo all’interno d’una grotta. Strappai subito un lembo della maglia e fasciai la ferita di Joslin per fermarne l’emorragia.

«Zara... Ho male dappertutto» disse con voce sottile.

«Mi dispiace».

«Non possiamo uscire se prima non troviamo le risposte».

«Credo di no» dissi accostandomi a lei. Le sorrisi cercando di rassicurarla. «Sei piena di graffi. Dovresti essere arrabbiata con me».

«Sono troppo dolorante per essere arrabbiata» rispose in tono pacato «e comunque... anche io ci volevo venire».

«Davvero?»

«Devo scoprire qualcosa su mia madre».

«Già».

«Mi dici che cosa cerchi?»

Le mostrai il pezzo di giornale che avevo in tasca. «Devo sapere cos’è successo al sig. Daglous».

«Perché ècosì importante?»

«Lui voleva aiutare gli elfi».

«Lui era un pazzo».

«Forse. Ma aveva coraggio».

Joslin non disse nulla, pose lo sguardo sulla sua gamba pensierosa.

«Zara c’è una luce» disse dopo un po’. Mi voltai nella sua direzione. In fondo alla grotta c’era una luce abbagliante.

«Andiamo» dissi mettendomi il braccio di Joslin attorno al collo. La ragazzina barcollò. «Ci sei?» Lei annuì con decisione.

«Questa cosa» disse «credi che ci porterà davvero a ciò che cerchiamo?».

«Non lo so ma spero di sì. Lo spero davvero».

Cautamente ci avvicinammo a quella luce così folgorante che dovetti chiudere gli occhi. Quando li riaprii mi ritrovai in una biblioteca molto simile a quella della scuola.

«Ci siamo» disse Joslin guardandosi attorno incredula. Naїri si posò su uno scaffale «Ciò che cercate è in questa stanza».

«Mi servono informazioni» dissi «su esseri umani che sono venuti a contatto con gli elfi».

La fata mi indicò una sezione della biblioteca in cui era affisso il cartello: Violazione della legge.

Roland Daglous, in qualsiasi cosa si fosse immischiato, l’aveva sicuramente violata. Avanzai con andatura un po’ cascante con i piedi doloranti e il sangue che mi colava dal viso. Mi sentivo stanca e affaticata; un dolore straziante mi logorava le ossa impedendomi di accelerare i tempi. La prima cosa che feci quando raggiunsi la parte di biblioteca indicatami da Naїri fu quella di iniziare a sfogliare il Regolamento degli elfi, posto su un leggio. Il libro vecchio ma in buono stato era scritto in elfico antico. Continuai a sfogliarlo sicura che lì avrei trovato qualcosa. Verso le ultime pagine vi era un appunto scritto di fretta e furia. “ Il ricercatore sa troppe cose e questo è un problema. Ci sta aiutando è vero e fin’ ora si è comportato bene nei nostri confronti, ma degli umani non ci fidiamo. Non siamo assassini ma Lui sa troppe cose e questo è un problema per tutti noi”.

«Penso di aver trovato qualcosa» Chiusi il Regolamento e infilai il pezzo di carta in tasca.

«Joslin» La ragazzina dai lunghi capelli ramati se ne stava immobile di fronte a una parete sulla quale erano affissi due monumenti: uno rappresentava gli alberi genealogici delle cinque casate delle Shoulder Blade mentre l’altro era un monumento ai caduti di guerra.

«Mia madre è esistita» affermò Joslin con le lacrime agli occhi. Mi indicò l’albero genealogico della sua casata. «Si chiamava Sasha» disse «e mio padre si chiamava Kellan, è un caduto di guerra».

Seguii lo sguardo di Joslin che si spostò sul nome di suo padre. Fece scorrere le

sue piccole dita su quelle lettere profonde e aguzze, spigolose come un anima che non sa cos’è l’amore.

«Non c’è altro, se non un paio di nomi».

«È già qualcosa».

«C’ è il nome di mia madre ma non vi è il suo volto» rifletté posando nuovamente lo sguardo sul monumento alle dinastie.

«Credo che sia stato inciso appena è nata» guardai Joslin negli occhi «Se il suo nome non è tra i caduti potrebbe essere ancora viva».

«Oppure potrebbe essere morta e nessuno lo sa»disse Joslin.

«Che cosa facciamo adesso?» chiesi.

«Hai trovato quello che cercavi?»

«Sì e avrei voluto non trovare nulla».

«Io invece avrei voluto trovare di più».

Le poggiai una mano sulla spalla. Joslin si voltò con gli occhi colmi di lacrime. La attirai a me e la abbracciai. In quell’istante mi dedicai a trasmetterle tutto il mio affetto, dimenticandomi ogni cosa. Non c’era nulla di più importante delle sue lacrime e del suo cuoricino che, piccolo e fragile stava crollando come un castello di sabbia.

«Avete appreso la verità?» chiese Naїri sbucando dal nulla. Non ebbi il tempo di dire nulla che subito contro di noi si scagliò una bufera. Il vento tagliente iniziò a operare la sua missione omicida sul nostro corpo infliggendoci sul corpo tagli e sfregi. Tutto divenne offuscato dalla bufera. Sentivo sotto il mio corpo quello sottile di Joslin. Cercavo di proteggerla come meglio potevo.

Il turbinio della bufera si fece più brusco. Sentivo freddo dappertutto e non riuscivo a pensare.

«La verità è dura. La verità è gelida. La verità fa male».

CAPITOLO 17 - Faccia a faccia

Il soffitto era color crema. Le pareti bianche, color della neve mi fecero venire i brividi. Sotto di me, il pavimento non era mai stato così freddo. Mi trovavo nel corridoio proprio davanti alla biblioteca. Joslin era seduta accanto a me.

«Stai bene?» le chiesi avvicinandomi a lei.

«Tutto a posto. Le ferite sono scomparse».

Era vero. Non sentivo più alcun dolore da nessuna parte, dei graffi non vi era più nessun segno.

«Vi stavamo aspettando» la voce pungente di Kindra mi fece accapponare la pelle. Mi voltai verso di lei. Il suo sguardo si spostò da me a Joslin per poi tornare su di me.

«Alzatevi».

Eseguimmo il suo ordine senza proferire parola. La sua espressione era dura. Si voltò e iniziò a camminare a o spedito. Avrei giurato che ci avrebbe dato una bella lavata di testa, che ci avrebbe ripetuto quanto eravamo state stupide a entrare nella biblioteca, ma non disse nulla.

Dalla sua bocca non uscì alcun suono. Per stare al suo o io e Joslin quasi corremmo. Quando le fui accanto provai a scrutare la sua espressione ma mi fu impossibile: una ciocca di capelli rosso fuoco le copriva il viso. Non riuscivo a spiegare la fastidiosa sensazione di pesantezza che m’affliggeva. Il comportamento indifferente di Kindra mi mandava fuori di testa e l’angoscia che provavo aumentava fino a soffocarmi. Mi bloccai di colpo. Kindra continuò a camminare.

«Aspetta» le dissi con voce, per quanto mi fu possibile, ferma. Lei si fermò ma non si voltò.

“Che stai facendo?”Joslin si accostò vicino a me.

“Non trovi che sia strana?”

“Non lo so. Non m’interessa”.

“A me sì però”.

«Che c’è?» chiese Kindra senza voltarsi.

«Non dici nulla?»

«Cosa dovrei dire?»

«Non lo so... qualcosa».

«Se ti aspetti una ramanzina non te la farò».

Feci un o verso di lei. «Perché?»

«Molti al posto tuo sarebbero felici del mio sorprendente autocontrollo».

«Non vuoi nemmeno sapere perché ci sono entrata?».

«Se l’hai fatto evidentemente ritenevi che una conversazione fosse troppo banale» Kindra si voltò di scatto.

«Ronald Daglous. Cercavo notizie su di lui» dissi mostrandole l’articolo di giornale. «Ne hai mai sentito parlare?»

«Sì, è stato con noi per un po’ di tempo».

«Come vi ha trovato?»

«Per caso. Nessuno si fidava di lui all’inizio, sai ai membri del Consiglio non

piacciono questi incontri ravvicinati e sinceramente nemmeno a me».

«Poi si è guadagnato la vostra fiducia».

«Aveva delle intenzioni nobili. Ci voleva davvero aiutare».

Estrassi dallo zaino il libro. «Che cosa sai di questo?»

«Lo ha scritto Daglous e non avrebbe dovuto. Tutto ciò che ha scoperto stava per essere sbandierato ai quattro venti».

«Questo vi ha fatti arrabbiare?»

«Tu che dici? Il Consiglio si è fidato e il giorno dopo scopriamo che vuole pubblicare un libro su di noi».

«Che cosa... Che cosa avete fatto?»

«Abbiamo modificato il libro. Omesso alcune cose e inventate altre. Abbiamo agito per proteggerci».

«Quindi il libro che è in commercio adesso è... un falso?».

«Esattamente».

«Allora perché hai preso questo libro da casa mia? Perché l’hai rubato?»

«Il Consiglio scoprì che Daglous aveva scritto un altro libro e che lo aveva nascosto».

«Questa è l’altra copia?» chiesi fissando il libro che avevo tra le mani. Kindra annuì. «Com’è finita in libreria?»

«Può essere che qualche micione peloso ve l’abbia portato».

Aggrottai le sopracciglia confusa. «È stato Helan? Perché?»

«Faceva parte del piano».

«Quale piano?»

«Il libro era un esca. Tutti gli elfi sono a conoscenza di quel manoscritto. La vicenda dell’essere umano che volle aiutare la nostra razza e poi finì col tradirci è ata alla storia» la voce di Matt irruppe dal fondo del corridoio. Kindra si voltò verso di lui.

«Ti avevo detto di aspettare».

«Io e i ragazzi ci stavamo annoiando».

«Arriviamo subito» disse Kindra sfrecciando verso il soggiorno.

«Zara, Naїri aveva ragione su una cosa: la verità fa male» mi disse Joslin afferrandomi per il braccio. La seguii in soggiorno pensierosa. I ragazzi si voltarono verso di me non appena mi videro.

«So che vuoi delle risposte» disse Kindra sedendosi sul tavolo e accavallando le gambe.

«Infatti».

«Ho trovato il libro in soffitta due anni fa. A Eureka c’eravamo solo io e Justin e gli confidai ciò che mi aveva detto Layla ovvero... che eri viva».

«Non sapevamo come trovarti» intervenne Justin. Il mio sguardo si spostò rapido su di lui «così decidemmo di usare il libro. Layla ci aveva detto che eri viva ma non era riuscita a dire a Kindra che non sapevi nulla della tua natura».

«Avete dato per scontato che lo sapessi».

Justin fece un o verso di me. «Già. Così abbiamo messo il libro in libreria convinti che prima o poi saresti riuscita a trovarlo».

«È rimasto in libreria per due anni e nessuno l’ha comprato?».

«Non siamo degli sprovveduti» disse Justin.

«E questo che vuol dire?»

«Magia. Soltanto chi era di razza elfica veniva attratto dal libro, ancora di più se si trattava di una discendente».

«Ma il libro l’ha trovato Alexa» feci notare.

«Quello è stato davvero un colpo di fortuna. Quando Alexa ha comprato il libro eri con lei».

«Avevo la sensazione che quel libro sapesse qualcosa» confessai poggiandolo sul tavolo.

«Bene. Ora che abbiamo risolto questo impiccio possiamo concentrarci sulle armi?».

«Cos’è accaduto a Ronald Daglous? L’avete ucciso?» Le mostrai il biglietto trovato nel Regolamento.

«A un certo punto non si è fatto più vedere» rispose Kindra con tono di stizza.

«Ma... ».

«Abbiamo dedicato anche troppo tempo ai tuoi dubbi. Ora occupiamoci di cose importanti» tagliò corto Kindra mostrando ai ragazzi le armi che Joslin le porse. Le poggiò sul tavolo scatenando la meraviglia dei ragazzi. In particolare Aimee, Darline e Cassandra erano del tutto rapite dalla spada nello stesso modo in cui lo eravamo io e Joslin in soffitta.

«L’avete trovata» sussurrò Darline.

«Cosa?» domandò Edzard senza capire.

«La spada di Odino» sussurrò ancora Darline.

Kindra, dopo essersi soffermata a osservare la lama, si mise un paio di guanti di pelle ed estraendola dalla custodia la impugnò.

«Vi presento Heltayner» annunciò «detta anche la Spada dei Mille Diamanti,

nominata cosìpoiché, come potete voi stessi notare, è costituita da ben mille piccolissimi diamanti saldati uno per uno a mano dal dio Odino in persona».

«Dunqueè importante».

«È la spada delle Shoulder Blade e questo dovrebbe bastarti».

«Non sembra poi tanto diversa dalle altre spade... lancia fasci di luce pazzeschi, ma tutte le spade elfiche lo fanno» commentò Alan.

«Presto vi accorgerete di quanto è speciale».

«La possiamo toccare?» chiese Matt.

«No, ve lo proibisco severamente» rispose Kindra acida. Edzard però non le diede retta e dopo qualche secondo si alzò di scatto e in un battibaleno impugnò la spada che Kindra aveva riappoggiato sul tavolo. Edzard lanciòun grido.«Ma che diavolo!» gettò subito la spada a terra, la lama era diventata rosso fuoco. Edzard gridò ancora, stringendosi forte la mano. Aimee si precipitò subito accanto a lui. «Joslin portami del ghiaccio subito!»Joslin obbedì all’istante.

«Cos’è successo?» chiese Alan parecchio sconvolto.

«Sembra che si sia ustionato la mano» disse Justin.

«Beh questo è molto strano. Quando l’ho impugnata io non mi è successo niente».

Kindra scoppiò a ridere. «Quando ho detto che è la spada delle Shoulder Blade avresti dovuto prendermi alla lettera perché non scherzavo affatto».

«Che cosa vuoi dire?» chiese Justin fissandola sbigottito.

«Heltayner è stata progettata per essere usata solo ed esclusivamente dalle Shoulder Blade e nessun altro. Cosa credevate? Che mi fossi messa i guanti perché sentivo freddo?».

«E se qualcuno che non appartiene alla stirpe s’impossessasse di un medaglione?» domandò ancora Justin.

«Te l’ho già detto, è stata progettata solo per le Shoulder Blade. Non si sa come, ma è impossibile ingannarla».

Joslin arrivò con il ghiaccio e lo posò sulla mano di Edzard.

«Oh quante storie! Tra pochi secondi la tua mano tornerà come prima» esclamò Kindra alzando gli occhi al cielo. Effettivamente nel giro di pochi secondi la mano di Edzard sembrava non essere mai venuta a contatto con un arma così potente e pericolosa.

«Temevo di doverla amputare» commentò Ed tornando al suo posto insieme ad Aimee.

«Esagerato» disse Cassandra trattenendo una risata maligna.

«Quindi con Heltayner siamo in netto vantaggio con il Nemico»Affermò Matt.

«Beh non esattamente» rispose Kindra «Odino fece costruire un’altra spada nel caso in cui la prima si perdesse. Questa seconda spada, di nome Frydreir, possedeva le medesime caratteristiche della prima ma era incompleta. Odino non riuscì a terminarla... poi andò perduta».

«E adesso non si sa niente di Frydreir?» domandò Darline che sembrava particolarmente presa dall’argomento.

Kindra inspirò profondamente poi dalla sua bocca uscì una risata isterica. «A volte è davvero buffo come la vita cerchi di ostacolarti in tutti i modi» Fece una pausa. Sulle sua labbra una nuova risata era in procinto di esplodere «Si dice che prevenire è meglio che curare ma datemi retta: non ècosì».

«Non posso crederci» Darline puntò i suoi occhi blu su Kindra che lentamente annuì. «Diamine!»

«Che... Che succede?» Alan si guardò attorno confuso.

«La spada»disse Aimee«Credo sia finita nelle mani sbagliate».

Per un istante che sembrò interminabile nessuno disse nulla. Non che ci fosse molto da dire, in fondo. Ogni volta che ci sentivamo più vicini alla nostra salvezza qualcosa ci ricordava che non lo eravamo affatto. Sembrava che per quanto faticassimo, per quanto ci sforzassimo di essere forti, tutto fosse contro di noi. Il mio sguardo ò in rassegna, uno a uno, il volto di quei ragazzi. Avrei potuto vedere di tutto in quegli occhi: la felicità di Aimee per essere tornata a casa o quella di Edzard per aver ritrovato l’amore della sua vita, l’eccitazione di Darline, la rabbia di Matt e le piccolo scintille di fuoco che Cassandra lanciava a suo fratello. Avrei potuto vedere tutto questo se solo i loro occhi me l’avessero comunicato. Il silenzio che si era creato nella stanza era diventato così gelido che si insinuava meschino in ogni parte di me, lo sentivo sotto la mia pelle fin dentro le ossa. Il primo a spezzarlo fu Matt. Incrociò le braccia al petto poi con disinvoltura disse: «Frydreir l’ha Lui».

«Quindi siamo punto e a capo» concluse Cassandra giocherellando con uno dei suoi boccoli.

«Dunque che si fa?» Darline rimase in attesa di una risposta. «Oh andiamo! È davvero questo quello che volete fare? Starvene lì impalati come se tutto fosse finito. Non ècosì che siamo cresciuti».

«Darline, questa guerra è persa».

«No Joslin, non lo è, ma di certo non mi aspetto che tu capisca».

Gli occhi di Darline erano incollati in quelli di Joslin. Erano occhi che parlavano, che dicevano di non arrendersi, erano occhi colmi di speranza e quella si sa, è l’ultima a morire. Darline era una vera leader, non credo che nessun altro al posto suo avesse così tanta forza per andare avanti. Joslin non disse nulla, forse davvero non riusciva a capire quanto tutto questo fosse importante.

All’inizio non lo avevo capito nemmeno io.

«Non siamo perduti come sembra» A parlare fu Kindra, con la sua voce gelida e distante «Dopo l’ultimo scontro con il Nemico si pensò che Heltayner fosse andata perduta per sempre. Io la nascosi nella villa cosicché nessuno potesse trovarla. Abbiamo un punto a nostro favore e l’unica cosa che ci resta da fare è insegnare alle sue legittime proprietarie a controllarla».

«Questo sarebbe una specie di effetto sorpresa?» chiese Cassandra ridendo. Kindra si limitò ad annuire. «È uno scherzo».

«Vuoi davvero che la impugniamo?»Aimee guardò la spada con ribrezzo. «Non viene usata da molto tempo... ».

«Non lasciare che la paura ti blocchi» le disse Kindra lanciandole un’occhiata severa. «Non voglio sentire né piagnistei né lamentele. Non voglio sentire nulla di nulla. Tutte voi imparerete a usarla e non si discute».

«E le altre armi?» chiese Justin.

«L’arco e le frecce sono di Alan».

«E il pugnale?» domandò Edzard eccitato.

«Dike è solo mio» rispose brusca Kindra. Matt si trattenne dallo scoppiare a ridere.

«E noi altri con che cosa dovremmo combattere?».

«Con l’arma più forte di tutte caro Edzard: l’intelligenza» gli rispose Kindra acida. Con occhi minacciosi e un sorriso macabro sul volto diafano e con un tono che non ammetteva repliche, annunciò: «L’addestramento per le ragazze inizierà tra venti minuti».

La stanza si rianimò all’istante come se tutti quanti si fossero appena ripresi da un brutto sogno. I ragazzi iniziarono a chiacchierare tra loro e ben presto tutto intorno a me divenne un brulicare di conversazioni che, tuttavia, mi apparivano lontane e indistinte, una specie di sottofondo troppo rumoroso e brusco.

«Cosa c’è che non va?» la voce di Justin fece sì che quel sottofondo diventasse qualcosa di sempre più nitido e intenso, riportandomi alla realtà.

«Niente» risposi con un sorriso tirato.

Lui non disse nulla. Si sistemò con calma facendo aderire la sua schiena al

divano. Respirò a fondo e prese a osservare il fuoco. Scossi la testa. «Stavo pensando a Ronald Daglous» sbottai.

Justin si girò verso di me.

«Devo capire cosa gli è successo».

«Perché ècosì importante?»

«Ho conosciuto sua moglie a Seattle. È stato un caso ma è lì che ho scoperto del medaglione e delle incisioni. Lei è convita che il lavoro di suo marito lo abbia portato alla morte. Dovrebbe sapere che non ècosì»

Incrociai appena lo sguardo di Justin e questo mi bastò per capire che non era d’accordo con me.

«E cosa vorresti fare esattamente? Dirle che ciò che aveva scoperto suo marito era vero? Vorresti dirle che non era pazzo perché gli elfi esistono davvero e tu sei una di loro? È questo quello che vorresti fare Zara?»

Per quanto si sforzasse di restare calmo la vena ironica nella sua voce non mi ò affatto inosservata e lui se ne accorse. Respirò a fondo «Ascolta. Dimenticati di questa storia. Per favore. Te lo chiedo per favore».

Lasciai scivolare la mia mano sulla sua. Piano alzai lo sguardo su di lui e i miei

occhi incontrarono i suoi, profondi e un po’ malinconici. Forse per loro era difficile comprendere per quale motivo mi importasse tanto di quell’archeologo, credo che per loro fosse difficile comprendere perché m’ importasse ancora degli umani. Avevo scoperto chi ero realmente ma non potevo tagliare i ponti con ciò che ero stata prima, con il mio ato e con la mia vita. Gli elfi erano molto diversi dagli esseri umani: raffinati ed eleganti. Coraggiosi e altruisti. Avevano tutte quelle meravigliose doti che li rendevano così rari, così belli, sia dentro sia fuori. Gli uomini in confronto non erano altro che dei minuscoli esserini, stupidi e senza coscienza.

Ma nonostante tutto ero cresciuta nel mondo umano e avevo ancora un legame con esso, avevo ancora una famiglia e, anche se ero una Shoulder Blade, una parte di me avrebbe sempre fatto parte di quel mondo. Non sarebbe potuto andare diversamente. Sarò sempre l’ elfo cresciuto tra gli umani e sarò sempre l’ umana diventata elfo.

«Va bene» gli dissi «Lascerò perdere questa storia».

Si alzò dal divano e sul suo viso si disegnò un espressione più rilassata.

«Devi andare» disse lasciandomi piano la mano. «Ti senti pronta?»

«Certo» Mentii. In cuor mio sapevo che non era affatto così.

«Okay» disse sorridendomi appena. Osservai la sua figura che si avvicinava a Edzard e Alan chiedendomi se un giorno la razza elfica avrebbe posto nuovamente fiducia in quella umana.

«Tu non lo farai vero?» Il sorriso compiaciuto sulla faccia di Kindra mi fece innervosire. «Non smetterai di farti domande su quel “nonnetto". Continuerai a tormentarti. Dio! Sei davvero un caso perso».

«Quel “nonnetto" voleva aiutarvi».

«Quel nonnetto ci ha traditi» I piccoli occhi scuri di Kindra si puntarono su di me con rabbia. Digrignò le labbra «Non fidarti mai degli umani» disse oltreandomi. Nel farlo mi diede una spallata che mi fece barcollare. «E adesso muoviti. Non abbiamo tutta la giornata».

Respirai a fondo prima di seguire Kindra e le ragazze fuori dalla villa. Kindra aveva deciso che i ragazzi sarebbero rimasti a sorvegliarla. Per questo tipo di allenamento non era prevista alcuna distrazione. Ci condusse in una zona della foresta isolata e molto ampia dove era possibile percorrere lunghe distanze senza incappare in qualche albero o in un cespuglio. Ci fece sistemare in riga una accanto all’altra e dopo averci squadrato da cima a fondo sguainò Heltayner dalla sua custodia.

«Darline» la fissò dritta negli occhi «Tu inizierai per prima».

L’elfo dai capelli arancioni avanzò verso Kindra. «Brandisci la spada e colpiscimi».

«Kindra...».

«Brandisci la spada» le ordinògelida. Darline annuì e impugnò Heltayner. Mentre Kindra arretrava di qualche metro Darline non riusciva a staccare gli occhi da quell’oggetto.

«Colpiscimi» la voce tagliente di Kindra la riportò alla realtà. Alzò rapida lo sguardo su di lei. «Fallo. Adesso».

Darline non ci pensò su due volte. Con decisione e grinta strinse l’ elsa di Heltayner scagliandosi su Kindra con una potenza che non le avevo mai visto prima. Affondava la spada con sicurezza come se sapesse esattamente in quale punto colpire.

Heltayner, ben salda nelle mani di Darline, brillava dopo ogni colpo che diveniva sempre più preciso di quello precedente.

Kindra fece segno a Darline di fermarsi. «Tutto okay?»

«Assolutamente».

«Heltayner è stata progettata per dare energia»disse Kindra«Ciò significa che serve a rinforzarvi, non a indebolirvi. Avete visto i colpi di Darline? Erano sempre più precisi. Se volete vincere sul vostro avversario dovete sapere dove colpire e per farlo dovete allenarvi molto. Va al tuo posto. Aimee, vieni tu».

Darline le porse la spada e al brevissimo contatto con essa, Aimee arretrò.

«Ricorda quello che ti ho detto»le disse Kindra«Non lasciare che la paura ti blocchi».

«Va bene».

«Lanciala più lontano che puoi».

Aimee chiuse gli occhi per concentrarsi poi lanciòla spada con forza.

«Valla a recuperare» le ordinò.

«La forestaèimmensa Kindra! Non la troverò mai» protestòAimee.

«Fa come ho detto».

La ragazza non disse nulla. Scattò nella direzione in cui era stata lanciata la spada per poi ritornare poco dopo. Aimee aveva lo sguardo fisso sulla spada. Lo spostò su Kindra in cerca di risposte. Potevo sentire il suo cuore scalpitare e il suo sangue pulsare veloce, sotto ogni vena. Non avevo mai visto Aimee così confusa e sconvolta per qualcosa.

«Come... Come ho fatto?» chiese sottovoce guardando Kindra.

La donna sorrise e accennò al suo medaglione. «Esiste una potente connessione tra voi e la spada. I vostri medaglioni furono creati con lo stesso materiale di cui è fatta Heltayner, per questo sono in grado di percepirne l’ essenza».

«Se i nostri medaglioni percepiscono Heltayner perché non ci siamo accorte che era in soffitta?» chiese Cassandra. Aveva le braccia conserte e non sembrava fidarsi molto delle parole di Kindra.

«La spada deve essere attivata, solo così si stabilisce la connessione con i medaglioni».

«Come si fa ad attivarla?» Aimee teneva stretta la spada tra le mani e ne osservava incuriosita la spada lucente.

«Può essere attivata solo da una Shoulder Blade» disse Kindra.

«Deve essere successo quando l’ ho estratta dalla custodia e l’ ho presa in mano» risposi, ripensando all’incredibile sensazione che avevo provato nel vedere quell’immenso fascio di luce illuminare l’intera stanza.

Aimee lasciò scorrere le dita sui diamanti «È incredibile» sussurrò.

Kindra le strattonò la spada dalle mani «Fila al tuo posto»Aimee eseguì senza farselo ripetere «Cassandra».

«Che c’è ?»

«Tocca a te».

L’elfo dai capelli neri, ondulati e ribelli s’alzò, dopo aver respirato a lungo. Avanzò piano verso Kindra e con diffidenza afferrò Heltayner. Gli occhi blu dalle sfumature viola fissavano quel gladio incandescente con terrore.

«Basta!» urlò Cassandra lasciando cadere la spada a terra.

Sconvolta pose il suo sguardo su di noi. Qualunque cosa le fosse successa l’aveva del tutto paralizzata.

«Che ti prende?» le chiese Darline.

Cassandra aprì la bocca quasi per rispondere ma non ci riuscì. Dalle sue labbra non uscì alcun suono. Gli occhi le si riempirono di lacrime. Non avevo mai visto Cassandra così vulnerabile.

«Cosa hai visto?» Kindra l’afferrò per le spalle e la costrinse a guardarla negli occhi.

Cassandra non reagì.

«Che cosa hai visto?» le chiese Kindra scuotendola con forza. «Dannazione! Dimmi subito cosa hai visto».

Cassandra sbatté le palpebre e con un filo di voce disse: «Le guerre... Ho visto le guerre».

Kindra mollò la presa su di lei. «Che tipo di guerre?»

«Cosa mi è successo? Perché ho visto quelle cose?» Cassandra si strinse nelle spalle.

«Hai visto le vostre antenate combattere?»Cassandra annuì. «La spada conserva il ricordo di chiunque l’abbia impugnata. È un po’ come se fosse il suo DNA e si trasmette di generazione in generazione. Può capitarvi, mentre combattete, che la spada vi mostri delle immagini. Non dovete dargli retta».

«Perché?» chiesi rapida. Avevo visto anche io le Shoulder Blade. Le avevo viste all’opera e non mi era piaciuto. Odino aveva creato una spada che difendeva a tutti i costi le sue guerriere, aveva dato vita alla spada più potente di tutte rendendo il nome delle Shoulder Blade eterno.

Come mai allora mi sentivo tutto tranne che difesa? Come mai avevamo così tanto paura di quella spada?

«Perché ciò che mostra non è bello» rispose Kindra raccogliendo la spada.

«Tutto... Tutto quello che è successo in ato, ogni singola battaglia combattuta dalle vostre antenate è incisa qui. È tutto qui dentro. Dentro questa lama» Si rigirò Heltayner tra le mani. «Questo è uno strumento potente e perciò bisogna usarlo con molta saggezza».

«Che cosa stai cercando di dirci?» domandò Darline.

«Dovete fare attenzione quando combattete. In ato fu usata con molta violenza, con molto odio e con molta rabbia. Questa lama si macchiò di sangue e ora quando viene impugnata quel sangue ribolle più forte che mai e il desiderio di vincere ad ogni costo si fa sempre più intenso. Tra voi e la spada c’ è un forte legame, segue le vostre emozioni per questo non dovete mai dimenticarvi per che cosa combattete».

«Heltayner potrebbe distruggerci» dissi guardando Kindra.

«Esatto» rispose «Potrebbe farvi a pezzi».

«Aspetta un momento» la voce di Cassandra era gelida e distante «Sapevi quanto fosse pericoloso per noi usarla?».

«Su andiamo! Nonè il caso di farne una tragedia» sbottòKindra.

«Non ti sembra il caso eh?» Cassandra scattò addosso a Kindra con una velocitàa dir poco impressionante.«Non mi piace essere presa in giro!» L’elfo dai capelli neri con sguardo agghiacciante fece un ghigno. Kindra sorrise come per

prendersi gioco di lei. Cassandra doveva sapere quanto Kindra amasse le sfide e soprattutto quando amasse vincerle. L’elsa di Heltayner era ben salda nelle mani dell’elfo, l’ insicurezza prima esercitata si era trasformata in una pericolosa determinazione. Negli occhi della ragazza balenò una luce selvaggia. Il ferro incandescente della spada si scontrò con violenza contro la pelle diafana di Kindra.

«Mettila giù ragazzina» le ordinò Kindra con un tono che non ammetteva repliche.

«Non credo che tu sia nella posizione in cui puoi dirmi ciò che devo o non devo fare» rispose Cassandra dura.

«Cassandra che diavolo stai facendo?» Darline era sul punto di scattare verso di lei ma Aimee la trattenne afferrandola per un braccio.

«Temo che questa sia una cosa tra loro due».

«Cosa?»Darline la guardò senza capire. «Se non la fermiamo subito si farà ammazzare».

«Darline ha ragione» dissi stringendomi nelle spalle. Piccoli e fastidiosi brividi s’insinuarono meschini sotto la mia pelle, facendomi rabbrividire. In un primo momento non capii a cosa era dovuta quella reazione ma poi mi bastò guardare Cassandra. Nei suoi occhi lampeggiava una luce perfida e furente, una luce violenta e assassina. Fissava Kindra come se ne stesse progettando la morte, scrutava nei minimi dettagli ogni sua movenza facendole capire che non aveva nessuna via di scampo. Quanto grande può essere la rabbia che è dentro di noi?

E come facciamo a spegnerla? Come facciamo a impedire che essa ci trasformi? Il volto di Kindra era inespressivo: i suoi occhietti scuri osservavano Cassandra come se volessero beffarsi di lei. Ogni tanto l’angolo sinistro della sua bocca s’alzava, come per accennare un lieve sorriso. A parte questo movimento del tutto impercettibile a un occhio umano non c’era nessuna emozione scolpita sul suo viso, nessun muscolo che si muovesse, niente. I brividi, che dapprima erano penetrati nella mia pelle ora li sentivo scendere sempre più in profondità, li sentivo strisciare come vermi in ogni parte del mio corpo, fino a raggiungermi le ossa e man mano che essi invadevano ogni mia singola cellula, la paura che sentivo dentro cresceva.

«Cassandra fermati» la voce mi fluì dalla bocca senza rendermene conto.

«Sta zitta Zara, sta zitta» rispose lei dura.

«Che cosa speri di ottenere?» le chiesi «Pensi davvero che puntandole Heltayner alla gola smetterà di prenderci in giro? Sai che non ècosì. Non smetterà mai. Questo è il suo divertimento».

Kindra sorrise e con gli occhi ancora incollati a quelli di Cassandra rispose.

«Oh, ha ragione. E quando avremo finito con questa pagliacciata prenderti in giro sarà ancora piùdivertente».

Cassandra premette con forza la lama «Questa spada è stata progettata per le Shoulder Blade e per tua sfortuna io sono una di loro» Fece un ghigno «Comando io la spada adesso».

«Cassidy!» urlò Darline «Lascia perdere».

«No, no Darline. Non lasceròperdere».

Kindra scoppiò in una risata fragorosa.

«Ma che diavolo fa? » chiese Aimee stupita.

«Si sta gustando la scena» risposi.

«In questo momento non so chi delle due sia più fuori di testa» ammise Aimee visibilmente preoccupata.

«Io punterei su Cassandra» rispose Darline «Sfidare Kindra non è stata una bella mossa».

«Credi che le faràdel male?» le chiese Aimee.

«No, ma gliela faràpagare».

«C’è una cosa che proprio non riesco a capire» dissi «Perché questa reazione?

Okay, Kindra non ci ha detto della pericolosità della spada ma… questa reazione… è esagerata».

«Forse si è sentita tradita» azzardòAimee.

«Impossibile. L’unica cosa che interessa a Cassandra è dimostrare di essere la più forte» Darline aveva lo sguardo fisso sulle due donne. Si voltò rapida verso di noi e, mettendosi a sedere disse «È inutile che stiamo qui a scervellarci. È soltanto un’altra delle sue scenate».

«Perciò come pensate di fermarla?» La voce di Joslin apparve come un sussurro.

«Beh ecco…».

«Credo che Zara abbia avuto un intuizione giusta» disse piano la ragazza.

«Cosa vuoi dire?» le chiese Aimee.

«Darline ha ragione. Cassandra vuole dimostrare di essere la migliore ma alla fine fa sempre quello che le dice Kindra. Come mai questa volta si è ribellata?»

«Qualcosa deve averla fatta scattare…» rifletté Darline.

«Sì, ma cosa? Non riesco a capire»disse Aimee nervosa.

«Credo che abbia a che fare con quello che ha visto» affermai.

«Che intendi dire?» Darline scattò in piedi come una molla. Aimee e Joslin la seguirono incrociando il mio sguardo in attesa di risposta.

Io e Cassandra eravamo state le uniche ad avere delle visioni sulle battaglie delle nostre antenate dopo aver impugnato Heltayner: a Darline e Aimee questo non era accaduto e Joslin non aveva ancora usato la spada. Eravamo state le sole ad aver visto le Shoulder Blade per quello che erano veramente: combattenti spietate e crudeli. Avevamo visto di cosa erano state capaci. Eravamo state testimoni della loro rabbia e della loro violenza. Combattevano per scopi nobili, su questo non c’era dubbio, ma esistono modi meno barbarici per proteggere il proprio popolo. Probabilmente loro non erano a conoscenza.

Qualunque cosa avesse fatto scattare Cassandra ero più che sicura che aveva a che fare con quelle visioni. Respirai a fondo «Se… Se ha visto le battaglie delle nostre antenate» dissi massaggiandomi il collo per allentare la tensione «È probabile che abbia visto qualcosa. Qualcosa che non le è piaciuto».

«Cosa può essere stato?»

La domanda di Joslin rimase sospesa nell’aria. Nella foresta si propagòun grido feroce.

Il nostro primo pensiero fu Cassandra, ci voltammo rapide nella sua direzione: la situazione si era capovolta. Questa volta la lama lucente di Heltayner era a un centimetro dalla gola di Cassandra, stesa a terra. Sopra di lei la figura di Kindra si ergeva vittoriosa.

«Non provare mai più a sfidarmi»la intimòKindra.

Cassandra cercò invano di dimenarsi ma la presa che Kindra aveva su di lei le impediva qualsiasi movimento «Come ci sei riuscita?».

«Vedi, c’è una cosa che dovete sapere riguardo alla spada» alzò la voce in modo che la potessimo sentire «È un arma di difesa. Significa che funziona solo se venite attaccate».

Sul viso della donna si disegnò un ghigno «Dunque questa tua presa di posizione»disse Kindra ridendo«non ha fatto altro che renderti ridicola».

Cassandra tentò nuovamente di dimenarsi «Lasciami andare».

«Oh stanne certa che lo farò. Ma prima… Sai cosa devi dire».

«Mai e poi mai Kindra».

«Cassandra? Dì quelle semplici parole e ti lasceròandare».

Gli occhi dell’elfo si fecero più miti, come se ogni forma di rabbia fosse svanita, all’improvviso. Cassandra conficcò le unghie nel terreno e con un filo di voce disse «Mi dispiace Kindra».

«L’allenamento per oggi finisce qui» rispose Kindra dura «Non farlo mai più».

Darline e Aimee si precipitarono verso Cassandra. Kindra rinfoderò Heltayner in silenzio.

Mi avvicinai a lei decisa a chiederle dei chiarimenti su quanto era accaduto.

«Te ne stai andando?»

«Non hai sentito Monthgomery? L’allenamento per oggi è finito».

«Ma io e Joslin non abbiamo ancora provato la spada».

«Lo farete domani. A meno che tu non voglia provarla adesso contro la tua gola».

«Fermati» le afferrai piano il braccio. Il suo sguardo di ghiaccio mi paralizzò.

Lasciai la presa «Anche io ho visto le battaglie».

Kindra mi oltreò senza dire nulla.

«E adesso che cosa le prende?» Non mi ero accorta della presenza di Joslin al mio fianco.

«Non lo so» risposi guardando la figura di Kindra che lentamente veniva inghiottita nella foresta. «Non lo so davvero».

Joslin mi fece cenno di seguirla. Raggiungemmo Darline e Aimee che nel frattempo si erano assicurate che Cassandra stesse bene.

«Tutto a posto?» chiesi, pur sapendo che non era affatto così.

«A meraviglia» rispose brusca Cassandra.

Darline mi si avvicinò «Deve sbollire la rabbia. Lasciala perdere».

«Dove va?» domandai osservando Cassandra incamminarsi da sola.

«Credo che torni a casa. È la cosa migliore per lei».

«Cassandra!»

La ragazza si bloccò di colpo. «Cosa vuoi?»

«So quello che hai visto»

«Davvero?» domandò in tono macabro senza voltarsi.

«Le battaglie… Le ho viste anche io. Posso aiutarti».

Per un attimo cadde il silenzio. Quando parlò scandì ogni parola con tono lento e duro «Tu. Non hai la più pallida idea di ciò che ho visto».

Non ebbi il tempo di risponderle. Non me lo diede. Si dileguò nel nulla mentre il suono di quelle parole continuava a risuonare nella foresta come un eco tormentato e sordo che non riusciva a trovare pace.

CAPITOLO 18 - Ossa rotte

Ci fingiamo forti, ci copriamo di una pelle che non è la nostra, innalziamo barriere che non ci appartengono. Mentiamo. Continuamente. La sola cosa che vorremmo è guardarci allo specchio e sperare di avere ragione anche se in fondo sappiamo che non ècosì. È una farsa. Noi siamo una farsa. Siamo fragili. A ricordarmelo era stato lo sguardo di Cassandra, scolpito nella mia mente come un ricordo indelebile. Un attimo prima afferrava con decisione Heltayner e un secondo dopo, di quella decisione, non c’era più traccia. Continuavo a chiedermi che cosa potesse aver visto, cosa fosse stato in grado di farla scattare in quel modo.

«Non hai la più pallida idea di ciò che ho visto» mi aveva detto e probabilmente aveva ragione. Le nostre antenate sembravano avere più segreti di quanto pensassi: erano state dipinte come delle eroine, delle salvatrici ma anche questa era una farsa. D’ altro canto la colpa non era nemmeno tutta loro, avevano uno scopo preciso e non facevano altro che portarlo a termine. La loro intera esistenza si basava sul proteggere la specie umana e preservare quella elfica. Erano state create per questo. Erano state plasmate. Era sempre stato così: di generazione in generazione, ogni Shoulder Blade trasmetteva un messaggio di pace, rispetto e onore verso il dio Odino e verso la propria terra. Tralasciando il piccolissimo dettaglio che ogni mezzo era lecito per adempiere al loro destino. La morte sembrava essere quello più necessario, il più infallibile, il più crudele. Una delle tante cose che non mi erano state dette, un’altra nozione omessa, lasciata in un angolo in attesa di essere scovata.

Cercavo di guardare oltre la superfice, mi convincevo che tutto aveva un senso anche se per il momento, non riuscivo a trovarne uno e per quanto mi sforzassi il risultato era sempre lo stesso. Delusione. Mi sentivo dannatamente ingannata, tradita e presa in giro. Non avevo previsto questo per la mia vita. Questa non era la mia vita.

«Siamo arrivati» la voce di Justin mi riscosse dai pensieri.

Non gli avevo rivolto la parola per tutto il viaggio.

«Hai sentito quello che ho detto?» Mi limitai ad annuire. «Okay, adesso mi dici che sta succedendo?».

Inspirai a fondo. «Non voglio farlo» dissi «Non voglio allenarmi».

«Cosa? Hai la stragrande fortuna di poter combattere con Heltayner e non vuoi allenarti?»

Mi voltai verso il finestrino. «Portami a casa».

«Sai che non posso farlo» rispose pacatamente.

Aprii la portiera dell’auto e uscii.

«Zara! Dove stai andando?»

«A casa».

«Cosa? Ma perché? Kindra ci sta aspettando».

Rapidamente mi voltai verso di lui. Eravamo a un metro di distanza l’uno dall’altra e potevo scorgere benissimo la sua espressione confusa.

«Impugnare Heltayner non èuna fortuna» dissi con voce ferma. «Quella spada è una rovina».

«Non ti capisco. Ogni elfo pagherebbe oro per poterla anche solo toccare, come puoi dire che è una rovina?» Justin fece un o avanti.

«Tu non capisci».

«Spiegami allora».

«Sai cos’è successo ieri a Cassandra?» Justin annuì. «È stata colpa della spada».

«Non credo che sia stata una spada a dire a Cassandra di rivoltarsi contro Kindra».

Feci un o verso di lui. Avevo il magone e mi bruciavano gli occhi «Heltayner può mostrare le guerre combattute da tutte le Shoulder Blade che l’hanno impugnata».

Justin aggrottò la fronte. «Credi che abbia visto una guerra?»

«Ne sono sicura. Le ho viste anche io. Ho visto di cosa erano capaci».

Al solo pensiero mi vennero i brividi.

«Questo però non giustifica il suo atteggiamento. Insomma, non è stata colpa di Kindra».

«Lei l’ ha tenuto nascosto! Non si è nemmeno preoccupata dell’effetto che avrebbe avuto su di noi.» Ero furiosa, con Kindra, con tutti quanti. Soprattutto con mia madre.

«L’avrà fatto per non agitarvi».

Strabuzzai gli occhi. «Sul serio, la stai difendendo?»

«I mezzi di Kindra non sono sempre nobili ma non farebbe mai nulla che possa mettervi in pericolo».

«Stavolta l’ha fatto».

«Andiamo Zara, non puoi crederlo davvero.» Era chiaramente confuso dalla mia reazione, glielo leggevo in faccia.

«Invece lo credo. Da quando sono finita in tutto questo casino, non ho fatto altro che scoprire il peggio del peggio.» Il mio sguardo si fece rabbioso. «Sono stata ingannata fin dall’inizio. Tutto quello in cui credevo si è trasformato in un cumulo di bugie e ho dovuto accettarlo, ho dovuto accettare le menzogne della mia famiglia, “sono per il mio bene” mi ripetevo. E ci ho creduto, ho creduto davvero che fosse per il mio bene.

Ho dovuto accettare di essere perseguitata dallo stesso mostro che ha ucciso la mia famiglia e che adesso vuole uccidere anche me, ho dovuto mentire, agli altri e a me stessa. Ogni o che ho fatto verso questo mondo mi ha allontanata dalla realtà e trascinata in un vortice di oscurità che non avrà mai fine. Sono stanca».

«Credi che sia questo il casino?» Si ò le mani nei capelli «Il vero casino è essere costretti a lasciare la propria casa, la propria famiglia, essere costretti a vedere la morte giorno dopo giorno. Questo è il vero casino. Vivere nella paura, nell’ombra…Perdere ogni cosa. Accettare una realtà diversa dalla nostra è difficile ma non riuscire nemmeno a poter vivere la propria è anche peggio».

Lo sguardo di Justin era distante, lui stesso era distante. Era davanti a me ma non stava realmente con me. Nessuno dei due era davvero con l’altro. Come se per la prima volta ci vedessimo davvero ed entrambi realizzassimo che quello in cui avevamo creduto in questi giorni, il nostro amore, fosse stato solo un bellissimo sogno da cui ormai bisognava svegliarsi.

«Non sei l’unica ad aver sofferto. Credevo… credevo che l’avessi superato. Arrivati a questo punto pensavo che ti fossi convinta di chi sei veramente ma è

ovvio che non ècosì».

«Non voglio essere come loro, Justin. Non voglio essere ricordata per aver impugnato una spada che ha versato così tanto sangue da essere temuta dalla sue stesse proprietarie».

Justin incrociò il mio sguardo. «Le prime Shoulder Blade non avevano sentimenti e si sono battute per questo. Si sono battute per provare rimorso, per provare amore. Sono anche state punite per questo. Qui non c’entrano le Shoulder Blade».

I suoi occhi verde scuro erano puntanti su di me, più profondi che mai. «Non hai ancora accettato chi sei e fino a quando non lo farai continuerai a trovare scuse, continuerai a vedere il peggio senza accorgerti che c’è qualcosa di buono in tutto questo».

«Ad esempio cosa?»

«Noi».

Il cuore iniziò a battere. Mi sembròcosì strano sentirlo dimenarsi con forza nel mio petto che, per un secondo, restai ad ascoltarlo. Quell’organo dalla forma somigliante a un pugno era così pieno da poter scoppiare. Ogni battito si faceva sempre più intenso e profondo, come se volesse rimproverarmi per averlo trascurato, negandogli la possibilità di esprimersi.

Così adesso si faceva sentire a gran voce, urlava e scalpitava con tutta la forza che aveva cosicché potessi finalmente prestargli attenzione. Non avrei potuto ignorarlo nemmeno se l’avessi voluto perché il messaggio che mi stava mandando era piuttosto chiaro: amavo quel ragazzo e adesso più che mai volevo essere tra le sue braccia. Mi sentii avvolgere da un calore confortante e familiare. L’odore di Justin era così buono, averlo vicino era così bello. Avevo sempre preferito gli abbracci ai baci, mi sembravano qualcosa di unico e magico. Ogni volta che abbracciavo qualcuno venivo a contatto con la sua pelle, la sua carne. Non erano solo due corpi a unirsi, ma due anime, in un legamechesperavo non si sarebbe mai spezzato. Justin mi stringeva così forte da farmi mancare il respiro, era senza dubbio il modo migliore per restare senza fiato.

«Andrà tutto bene» disse baciandomi i capelli.

«Non lo so… Sono ancora convinta che Heltayner sia pericolosa» risposi staccandomi da lui.

«Non devi temere una spada. Puoi gestirla».

«Come puoi esserne sicuro? Cosa ti fa pensare che io e le ragazze non ci faremo prendere la mano? In fondo, siamo tutte arrabbiate, abbiamo tutte dei motivi validi per usare quella spada senza alcun ritegno».

«Perché voi avete quello che Alomi e le altre ragazze non avevano. Voi non siete dei burattini, avete la capacità di scegliere e so che farete la scelta giusta».

«Sì, forse è come dici tu».

«Ascolta, quello che sei non dipende dal nome che ti viene dato. Elfo, Shoulder Blade o in qualunque altro modo tu venga chiamata, non definisce chi sei davvero. Rimarrai sempre te stessa, non ti perderai, se è di questo che hai paura, tu sei tu e questo non cambierà. Potrai soltanto migliorarlo».

«Sei sempre stato cosìfiducioso?» gli chiesi, fissandolo negli occhi.

Invidiavo tutta quella sicurezza perché io non ne avevo nemmeno un po’.

«La fiduciaè tutto quello che mi resta. Su, adesso andiamo».

Quando arrivammo alla villa, il soggiorno era completamente avvolto nel silenzio. Era tutto buio e pareva che non ci fosse nessuno. Helan mi piombò davanti facendomi sobbalzare. Accesi la luce e trovammo tutti i ragazzi seduti sul divano. Si voltarono verso di noi. I loro volti erano pietrificati.

«Ragazzi, cosa sta succedendo?» domandai.

«Perché non vi state allenando?» mi fece eco Justin.

«Ragazzi» gli esortai «Potete parlare per favore? Mi state facendo venire l’ansia».

«Ci sono delle novità…» disse piano Joslin.

«… che non sono tanto belle» concluse Alan.

«Di cosa si tratta?» chiesi.

«Del Nemico e dei suoi Sicari» rispose Darline.

«Quando siamo tornati Syla ha iniziato a muoversi, come se ci fosse un terremoto. Non capivamo cosa stesse accadendo, non l’aveva mai fatto prima» disse Aimee ancora visibilmente scossa.

«Ma il bello arriva adesso» la voce di Matt ruppe la pacatezza della stanza. «Sono comparsi i membri del Consiglio».

«Il momento è giunto»disse Azzurra.

Edzard si morse il labbro così forte da farselo sanguinare «Syla ha visto il Nemico avvicinarsi ».

«Quando?» domandai. Non credevo di voler sapere davvero la risposta.

«Domani» Bastò quell’unica parola pronunciata da Kindra a far calare il gelo in

tutta la stanza.

«Siamo in pochi contro molti… È morte certa» Credetti di averlo solo pensato invece mi resi conto solo dopo di averlo detto ad alta voce.

«Direi che oggi siamo molto astuti» disse Cassandra lanciandomi uno sguardo di fuoco.

Qualunque fosse il suo problema non potevo occuparmene adesso.

Azzurra sbuffò. «Non possiamo perdere altro tempo. Il Consiglio arriverà presto e noi dobbiamo essere pronti».

«Voi pensate veramente di batterli? » Ci voltammo tutti verso Joslin.

«Ci siamo allenati per questo» rispose Alan.

«Questa è la nostra occasione » Aimee le lanciò uno sguardo rassicurante.

«Se vogliamo sopravvivere dobbiamo batterli».

«Dico solo che è impossibile, Darline» Joslin alzò gli occhi su di lei.

La tasca dei Jeans vibrò. Era un messaggio di Alexa.

«Certo per te, tutto lo è. Non ci sei mai stata d’aiuto. Il tuo parere non ci interessa».

«Non parlarle così Matt!» il tono di Alan si fece profondo. Matt sogghignò.

«Oh ma la volete piantare? Tutto questo è davvero ridicolo! Voi siete ridicoli!» urlòKindra.

Azzurra sospirò. «Bel lavoro. Io li avrei preparati meglio ma… un ottimo lavoro. Davvero».

«Non ti ci mettere anche tu!» tuonòKindra«Qui si fa quello che dico io. Adesso tutti quanti voi andrete ad allenarvi e lo farete al meglio perché non ho sprecato il mio tempo inutilmente. Le ragazze proveranno Heltayner. Lo farete senza discutere. Lo farete perché ve lo sto ordinando. Voi ragazzi andrete di pattuglia. Perlustrerete la zona e poi vi allenerete. Io e Azzurra abbiamo del lavoro da fare perciò non vogliamo distrazioni».

Sfrecciammo fuori dalla porta.

«Come mai Cassandra non è venuta con noi?» chiesi notando la sua assenza.

«È per via di quello che è successo ieri»mi spiegòAimee«Kindra le ha imposto un allenamento extra».

«Ragazzi, perlustrate la zona. Io e le ragazze cominceremo con Heltayner».

«Sì, capo» rispose Matt lanciando un sorriso malizioso a Darline che per tutta risposta si mise a ridere.

«Faccio solo quello che mi dice Kindra» rispose lei ridendo «Muoviti».

«Certo, certo mi muovo».

«Perciò… dovremmo usarla» disse Joslin indicando la spada che l’elfo dai capelli arancioni teneva tra le mani.

«Esatto. Non dovete averne paura. Noi possiamo gestirla» rispose Darline.

Le stesse parole di Justin pronunciate con la medesima fiducia. Faticavo davvero a credere che esistesse una fede tanto grande, forse perché io non ne avevo mai avuta una.

«Forza Joslin, tocca a te. Non l’hai ancora provata»la incitòDarline porgendole la spada.

«Che cosa dovrei farci con questa? Non mi sono mai allenata» rispose Joslin perplessa.

«Come non ti sei mai allenata?»

«Non ho mai voluto farlo» confessò Joslin incrociando appena il mio sguardo.

«Kindra ha insistito all’inizio ma visto che non c’era nulla da fare ha lasciato perdere» rispose Aimee.

Joslin si morse il labbro inferiore «Non sentivo alcuna necessità di combattere. Quindi… perché farlo?»

«E adesso cos’ècambiato?» le chiesi.

«Adesso mi importa».

«Molto bene. Allora cominciamo» disse Darline.

La voce di Edzard risuonò nella mia testa «Abbiamo perlustrato la zona. È tutto sotto controllo»

“Ci è venuta in mente un’idea”s’intromise subito Alan.

“Sarebbe?”la voce di Darline si aggiunse a quella dei ragazzi, allora capii che si erano messi in comunicazione con tutte noi.

“Pensavamo di allenarci in un posto nuovo”spiegò Matt.

“La Scogliera Alata. Kindra ci ha portati lì la prima volta che ci siamo allenati”disse Justin.

“Sì, è un buon posto per allenarsi”affermò Darline «Finiremo dove tutto ha avuto inizio».

Improvvisamente sentii la testa più leggera. La comunicazione era finita o almeno una parte di essa. C’era ancora qualcuno che persisteva, qualcuno dalla voce calda e gentile.

«Allora Justin, cos’è questo posto?»

«Lo vedrai presto e sono sicuro che ti piacerà».

Quando arrivammo alla Scogliera Alata rimasi senza fiato. Si ergeva sul punto più alto della foresta e sotto di essa un lago dalle acque bluastre pareva inghiottire chiunque vi si immergesse.

Al di là del lago si estendeva un immensa vallata, oltre c’era la città con tutti i suoi palazzi, le auto e il caos. Visto da lassù sembrava solo un enorme nuvola fatta di nebbia scura e fumosa, nessuno avrebbe mai detto che sotto strati e strati di smog potesse esserci la vita. A volte quel mondo era così lontano che non ricordavo nemmeno di averne mai fatto parte, altre invece era così vicino da soffocarmi. Cominciavo a capire perché a quel posto era stato affibbiato il soprannome “Alata”: la forma della scogliera ricordava molto due ali e vista nel complesso, la geografia di quel luogo assomigliava a una grande aquila.

«Su Joslin, la spada» Darline mi risvegliò dai miei pensieri. «Colpisci».

La stretta di Joslin sull’elsa di Heltayner si fece più salda e con decisione sferrò un colpo contro la corteccia di un albero.

«Bel colpo» disse Darline fiera «Continua a lavorarci. Io starò qui con te»

«Dove sono i ragazzi?» chiesi.

Aimee sorrise«Guarda sotto».

Mi sporsi leggermente verso il bordo della scogliera. «Stanno forse facendo un bagno?»

«No»disse Aimee ridendo«Combattere in acqua serve a potenziare i muscoli di tutto il corpo. La prima volta che Kindra ci ha fatto provare una cosa del genere credevo di morire. Andiamo, ti allenerai con me oggi».

Aimee si mise in posizione di combattimento. «Pronta?»

«Pronta».

Non so esattamente per quanto tempo ci allenammo. Potevano essere ate un paio d’ore oppure di più. Ogni singola parte del corpo mi faceva un male tremendo.

«Quando ti alleni per tanto tempo con Kindra impari a essere brutale»mi spiegò Aimee mentre riprendevo fiato «I suoi metodi sono duri ma efficaci. Impari ad acquisire sicurezza ma soprattutto impari a sopravvivere. Questi sono solo allenamenti Zara, le battaglie vere sono un’altra cosa».

«Non hai mai paura di… farti prendere la mano?».

«No. Fin da piccoli ci vengono insegnati il rispetto, l’onore, l’amicizia e l’amore. Ci viene insegnato come vivere onestamente e tradire questi valori sarebbe come tradire tutto quello in cui crediamo».

«Però il Nemico l’ha fatto. Vi ha traditi».

«Abbiamo tutti una scelta, Zara. Alcuni fanno quella sbagliata».

Darline si avvicinòa noi sorridendo«La nostra piccola Joslin è stata bravissima. Ottima tecnica».

«Grazie» rispose piano Joslin.

Di colpo una freccia proveniente dal fondo della foresta si infranse con violenza contro un albero sfiorando la spalla di Darline. L’elfo dai capelli arancioni strattonò con forza Joslin e insieme si buttarono dalla scogliera. Io e Aimee facemmo lo stesso.

Una pioggia infinita di frecce s’abbatté su di noi.

«Al riparo!» gridò Matt.

Ci immergemmo sott’acqua nel tentativo di evitare le frecce e la loro lama intinta di magia nera, ma era chiaro che non potevamo stare lì sotto per sempre. Edzard emerse per primo dall’acqua e lo seguimmo. Alzammo gli occhi verso la cima della scogliera. Una trentina di Sicari, forse anche di più, ci squadrava dall’alto con ghigni orrendi e beffardi sui visi deformi.

Il primo a parlare fu il capo «Ma guarda. Piccoli e sudici topi in trappola»

«Cosa aspettiamo capo?»

«Niente. Andate a prenderli».

Darline chiamò subito a sé Ighor, l’elemento del vento, impedendo ad alcuni Sicari di gettarsi dalla scogliera. Alan combatteva le frecce con le frecce. Mi concentrai a fondo e riuscii a sollevare alcuni Sicari e a scaraventarli via. Non era una cosa facile. Più li allontanavamo, più ne arrivavano altri.

«Non possiamo andare avanti così, sono troppi!» esclamò Matt impegnato a combattere con uno di quei mostri.

Immediatamente cercai di stabilire un contatto mentale con tutti.

“Ho trovato un modo per cavarcela”.

“Cosa pensi di fare?”chiese Alan. Dall’espressione dipinta sul suo viso si capiva chiaro e tondo che non era convinto che esistesse un modo per salvarci.

“Lasciate fare a me. Funzionerà”.

“Dimmi solo una cosa”disse Justin “Questo tuo piano è pericoloso?”

“Non preoccuparti. Dovete soltanto fidarvi di me”.

«Portatemi le ragazze!» tuonò il capo dei Sicari.

“Okay, non abbiamo molto tempo. Unitevi tutti in un punto, il più riparato possibile”.

“Zara tu non vieni con noi?”chiese Joslin.

“Aspettate il mio segnale”risposi ignorando la sua domanda.

“Cos’hai intenzione di fare Zara?”La voce allarmata di Justin risuonò nella mia testa.

Interruppi la conversazione. Osservai i Sicari che si avvicinarono avidi a loro.

«Sott’acqua! Subito!» gridai. I Sicari si voltarono verso di me.

«Andiamo a prenderla».

Avanzarono tutti nella mia direzione. Attesi. Respirai a fondo. Quando fu il momento adatto mi concentrai visualizzando davanti a me una grossa massa d’acqua.

“Solleva”pensai. Davanti a me si sollevò un’immensa massa d’acqua che inondò tutto trascinandomi con sé nelle profondità del lago.

Sott’acqua era tutto estremamente tranquillo. Mi stavo abbandonando a me stessa. Nessuno sarebbe mai riuscito ad arrivare così in fondo e non avevo alcuna paura. Sapere che gli altri stavano bene mi dava la forza necessaria per affrontare la mia fine. Quando davanti a me si materializzò il volto di mia madre, sorrisi. Stavo per raggiungerla. C’ero quasi. A un tratto però lei svanì. Quando mi accorsi che nei polmoni c’era ancora aria mi stupii. Aprii gli occhi e sputai fuori tutta l’acqua che avevo ingoiato. Non riuscivo a capire come, ma ero stata salvata.

«I Sicari…» Balbettai.

Mi rispose una voce dolce e armoniosa «Sta tranquilla, li abbiamo eliminati».

Ogni cosa era sfuocata. Dove mi trovavo? Mi sentivo la testa pesante. Tutto era confuso.

Prima che le cose cominciassero a essere nitide ò del tempo. Non so bene quanto.

Mi alzai a fatica. «Dove… Dove sono?»

«Siamo alla Scogliera. Sei svenuta per un paio d’ore. Eravamo preoccupati» la voce di Alan mi tranquillizzò. Erano vivi.

«Mi fa male la testa» borbottai.

«Devi aver sbattuto contro una roccia, quando Justin ti ha portato in superficie perdevi sangue» Darline parlava con tono pacato «Se fossi stata umana… saresti morta».

“Fantastico”pensai “Davvero fantastico”.

«Mi ha salvato…» riflettei massaggiandomi le tempie «… il mio essere elfo, mi ha salvato».

Lasciai scivolare la mano dietro la nuca. Non vi era segno di alcun taglio e non perdevo più sangue.

«C’è voluto un po’ ma alla fine si è rimarginata» disse Edzard aiutandomi ad alzarmi.

«Mi avevi detto che non sarebbe stato pericoloso» la voce dura di Justin mi fece gelare il sangue nelle vene.

«Era l’unico modo per salvarvi» risposi piano.

«Andiamo, ti porto a casa» Nel dirlo le sue mani scivolarono tra le mie.

La porta di casa era aperta.

«Non capisco…» dissi «Ludmilla chiude sempre la porta quando esce».

«C’è qualcuno» disse Justin «Non èumano».

Varcai la soglia con il cuore in gola.

Premetti subito il dito contro l’interruttore della luce e la sala s’illuminòmostrandomi cinque figure alquanto familiari.

«Zia Crystal? Zio… Anthony? Siete davvero voi?» Ero confusa ed eccitata nel sapere che ero venuti a Eureka e mi chiedevo cosa avesse potuto riportarli qui. Erano anni che non mettevano piedi in California.

«Ci dispiace per la porta. Abbiamo dovuto forzare la serratura» rispose mia zia venendomi in contro con un largo sorriso sul volto.

«Lui è Justin» dissi lasciandogli la mano.

«È un piacere» rispose lui.

«Il piacere è tutto nostro» la voce di mio zio risuonò in tutta la stanza.

«Che cosa ti è successo?» Josh mi fissòridendo.

«Ecco…».

«Già, raccontami cosa ti è successo Zara». Il tono pungente e sarcastico di Kindra mi fece sobbalzare.

Mi voltai rapida verso di lei «Cosa ci fai qui?».

«Oh, beh... ero di aggio» rispose lei guardandosi le unghie.

«Tu non sei mai di aggio Kindra» le dissi sconcertata. «Questa èKindra, un’amica di mia madre» dissi rivolgendomi ai miei zii.

«Le presentazioni non servono»disse Kindra«Ci conosciamo molto bene, vero Crystal?».

Il mio sguardo si spostò da mia zia a Kindra per poi tornare nuovamente su mia zia. «Vi conoscete?»

«Anche molto bene direi» intervenne Kindra.

Ignorando il commento di Kindra, fissai mia zia negli occhi «È la verità?».

«Conosco Kindra da molto tempo» confessò.

«C’è… altro?» le domandai confusa.

«La questione si fa interessante».

«Cosa vuoi dire? Avanti Kindra, cosa vuoi dire con questo?»

«Lascerò che sia Crystal ad avere questo onore» rispose lei beffardamente.

«Jylien…» iniziò mia zia.

«Mia madre? Cosa c’entra lei adesso? Cosa c’entra mia madre?»

«Non voleva che nessuno sapesse della tua esistenza, così mi chiese di non dirti nulla sulla tua… vera natura. Dopo la scomparsa dei tuoi genitori abbiamo dovuto prendere le distanze da te, il Nemico presto ti avrebbe trovato. Non abbiamo avuto altra scelta».

«Tu… Anzi, voi… Voi sapevate chi ero e non me lo avete detto…».

«Zara…» Anthony fece un o verso di me.

«Adesso ha tutto un senso… Hai ricevuto una chiamata a Seattle » alzai lo sguardo su mia zia «Era Kindra? E poi il ciondolo… non volevate che lo riparassi… e i vostri continui spostamenti… era per via del Nemico…».

Crystal aveva lo sguardo colmo di tristezza «Mi dispiace tanto» sussurrò. Il cuore mi batteva così forte che avrebbe potuto saltarmi fuori dal petto da un momento all’altro. Mi sembrava di essere ancora nelle profondità del lago pronta a dire addio a tutto, pronta a dimenticare ogni cosa. Chi mi avrebbe salvato adesso? Il respiro affannato mi impediva una respirazione regolare, sentivo l’aria mancarmi nei polmoni. Mi ai le mani tra i capelli con nervosismo. Il sale che mi bagnava le labbra umide scivolò con eleganza nella bocca, percorrendo un solco già rimarcato varie volte, scese ancora più giù fino a depositarsi tra le pareti dei vasi sanguigni, laddove le ferite erano più profonde e solo il sale poteva disinfettarle.

«Su, basta con tutti questi drammi familiari» tagliò corto Kindra «Cambiatevi e raggiungeteci alla villa».

Sfrecciai in camera senza degnare nessuno della mia famiglia di uno sguardo. Mi cambiai in fretta e diedi a Justin alcuni dei vestiti di David; quando arrivammo alla villa i membri del Consiglio ci aspettavano.

«Siamo venuti non appena Kindra ci ha informato della situazione» annunciòCarlos.«Syla ha previsto l’arrivo dei Sicari e del Nemico per domani quindi è necessario elaborare una strategia».

«Avete in mente qualcosa?» domandò Matt.

Kindra sorrise«I nonnetti vogliono combattere».

«Kindra, porta rispetto per i membri del Consiglio!» la rimproverò subito Azzurra.

«Lascia perdere Azzurra, siamo abituati all’impertinenza di Kindra» disse Carlos, poi rivolgendosi a lei «Mi fa piacere constatare che non sei cambiata affatto».

«Avete intenzione di combattere?» Darline sembrava preoccupata.

«Non siamo venuti qua in vacanza ma per dare una mano» rispose Fabio. Nella stanza erano presenti anche i miei zii. La rabbia mi salì in corpo, sotto i miei piedi il pavimento tremò.

«Zara» la voce profonda di Carlos mi bloccò. Mi voltai verso di lui e feci per inchinarmi.

«No, non farlo cara»fece una pausa«Sei uguale a tua madre. Non hai idea di quanto ti abbiamo cercato».

«Conoscervi èun onore».

Carlos mi poggiò la mano sulla spalla. I suoi occhi brillavano «Nella tua famiglia sono tutti abili combattenti, non mi sorprende che tu abbia ereditato le stesse qualità».

«Io non sono come la mia famiglia». Essere paragonata a loro mi disgustava.

«Per proteggere la nostra terra abbiamo bisogno d’aiuto» disse Kindra.

«Loro sono Anthony e Crystal Monthgomery, gli zii di Zara e questi sono i loro figli: Liam, Josh e Agnes. Ci aiuteranno nella battaglia».

«Per quale motivo?» chiesi guardando Kindra «Non abbiamo bisogno di loro. Ne abbiamo fatto a meno, ne avete fatto a meno. Avete combattuto senza di loro in questi mesi, avete rischiato mentre loro se ne stavano comodi a cucinare nei ristoranti. Perché dovrebbero combattere adesso?»

«Siamo numericamente inferiori Zara» disse Alan «il loro aiuto ci serve».

«No, loro non ci servono».

«Che diavolo sta succedendo?» domandò Edzard allarmato «Perché Syla si sta muovendo in quel modo?» La sfera tremava, pareva quasi che ci fosse un terremoto.

«Sta captando qualcosa» disse Azzurra attenta a ogni suo movimento.

Nella sfera comparve un esercito di Sicari. Procedevano verso una direzione ben precisa.

«Questo è… impossibile» sussurrò Fabio senza staccare gli occhi da Syla.

«Cosa succede?» chiese Anthony.

«I Nemico e i Sicari hanno cambiato i loro piani» rispose Azzurra.

«Hanno anticipato il loro arrivo»disse Carlos con voce dura.

«A quando?» domandòAimee.

Kindra fece una smorfia. «A questa sera».

CAPITOLO 19 - Cenere

Camminavo a o spedito facendomi largo tra la gente. Mancava un quarto alle sette eppure il piazzale davanti alla scuola era pieno zeppo. Riuscivo a intravedere i miei compagni in prima fila e il preside già pronto per iniziare il discorso. Diedi qualche spintone a destra e a manca e alla fine raggiunsi la prima fila. Laura se ne stava in un angolo. Niente tacchi e niente vestitini aderenti. Portava solo un paio di jeans attillati, scarpe da ginnastica e una maglietta nera. Non aveva (addosso) neanche un filo di trucco. Alexa era seduta accanto a lei e mi fece cenno di raggiungerle. Avevo lasciato la villa senza dire nulla. Kindra era stata molto chiara. Questa sera. Tutto sarebbe terminato questa sera. La resa dei conti, finalmente. Prima che ogni cosa potesse finire era fondamentale che venissi qua. Kindra e i membri del Consiglio si sarebbero occupati di come attaccare i Sicari e i ragazzi li avrebbero tenuti a bada fino al mio arrivo. L’entrata in scena del Nemico era un’incognita. Non sapevamo quando si sarebbe fatto vivo, eravamo solo sicuri che voleva distruggerci una volta per tutte. Una parte di me si sentiva pronta e determinata: nel momento in cui l’avrei avuto davanti tutta la rabbia sarebbe esplosa, non mi sarei risparmiata per nulla. L’altra invece era terrorizzata. L’assassino di mia madre, il mostro che aveva annientato la mia famiglia, l’avrei avuto proprio davanti agli occhi. Il vomito mi saliva fino alla gola. Lo ricacciai indietro. Qualunque fosse stata la mia reazione non c’erano dubbi sul fatto che avrei combattuto. Mi ero preparata per questo. Non avevo previsto che sarei stata faccia a faccia con la morte, nessuno immagina cose del genere, ma era successo. Non c’era più spazio per il turbamento, niente più indecisioni o lamentele. Era arrivato il momento di prendere una decisione ed io avevo già preso la mia.

Mi sedetti accanto a Laura. Sussultò appena quando mi vide poi sorrise.

«Lui non viene» disse guardando un punto indistinto.

«Chi?» le chiesi.

«Matt» rispose «Quel bastardo non viene».

«Laura…»

«Era il suo assistente dannazione! Sono stati a contatto per tanto tempo, come può non venire alla sua commemorazione?».

Matt sarebbe voluto venire volentieri ma Kindra glielo aveva proibito categoricamente. Aveva già trasgredito una volta e se l’avesse fatto di nuovo, con il Consiglio a due i da lui, sarebbe stata la fine.

Non potevo spiegare a Laura quello che stava succedendo ma provai ugualmente a farla sentire meglio «Se avesse potuto, sarebbe venuto subito. Credimi».

«Justin non c’è?» mi chiese Alexa.

«Non l’ho sentito» le dissi «Non so se verrào meno».

Il preside picchiettò sul microfono «Salve a tutti. Siamo qui oggi per commemorare la scomparsa di un grande insegnante e soprattutto, di un grande uomo. Il professore Erik Nicklas» Accanto alla scalinata della scuola, avevano allestito un banchetto: la foto del professor Nicklas era al centro e attorno vi erano cesti di fiori e biglietti scritti dagli studenti.

«Conoscevo Erik da circa dieci anni» continuò il preside, gli occhi lucidi e l’ angoscia alla gola «Era un brav’uomo e un bravo collega. Ogni volta la mattina lui… mi salutava con il sorriso anche quando sapeva che era un giorno no. Lo capiva subito quando ero di cattivo umore e sapeva anche come rallegrarmi. Ci mettevamo a insultare i giocatori di basket…» fece un respiro profondo «Lui… non meritava quello che gli è stato fatto. Non lo meritava »

Fece un mezzo sorriso poi lasciòla parola alla Backster«Sono Teresa Backster. Io ed Erik non andavamo molto d’accordo, bisticciavamo sempre a dire il vero. Il fatto è che lo invidiavo. Invidiavo il suo modo di rapportarsi agli studenti perché sapeva come prenderli. Io no. Sono sempre severa, lui non lo era quasi mai. Una volta mi disse che si poteva insegnare anche senza il broncio dipinto sul viso» gli insegnanti sorrisero «Mi arrabbiai e lui rise. Era molto affezionato ai suoi studenti, so che alcuni di loro vogliono dire qualcosa, perciò li lascio liberi di esprimersi».

Presero la parola diversi ragazzi. Mi sembrava che tutto quello che dicessero fosse sbagliato, le parole che usavano non erano sufficienti per descrivere il professore. Mi pareva che ogni cosa non gli rendesse abbastanza giustizia. Non si poteva descrivere a parole la bontà di quell’uomo. Con loro avevano mazzi di fiori che poggiavano accanto alla foto di Nicklas, alcuni studenti avevano fatto dei cartelloni con disegnate frasi d’addio o citazioni dei libri preferiti del professore. Mi si spezzò il cuore quando il microfono lo prese in mano una bambina di sei anni, non disse molto «Papà» fu tutto quello che riuscì a dire prima che la madre prendesse il suo posto al microfono. Della vita privata del professore non si sapeva gran che, non portava la fede quindi avevo dato per scontato che non fosse sposato, non mi aveva mai parlato di sua figlia. Ma la Backster e gli altri docenti dovevano esserne a conoscenza dal modo in cui le prestavano attenzioni: la coccolavano quasi fosse figlia loro. Quella bambina era identica al padre e se ne stava accanto alla madre con un libriccino delle fiabe in mano. Proprio la degna figlia di Erik Nicklas.

«Penso che dovresti andare lì e dire qualcosa» mi disse Laura.

«Eri una delle sue studentesse preferite. Lo conoscevi bene»le fece eco Alexa«Davvero non vuoi dire nulla?».

«Non credo di riuscirci»

«La commemorazione sta quasi per finire» disse Laura «Avanti, vai a dire qualcosa».

Avevano ragione. Sarei dovuta andare là subito, solo che non avevo ancora realizzato che l’anno prossimo non l’avrei rivisto. Mi alzai e mi diressi verso il preside con un enorme peso sul cuore. Presi il microfono. Davanti ai miei occhi c’erano persone che non avevo mai visto. Erano davvero in tanti. Stringevano tra le mani dei lumini spenti e mi fissavano con i volti stanchi e afflitti. Un gruppo di ragazzi teneva in mano la foto di classe dell’anno prima con il professore al centro, altri avevano fatto degli striscioni. Mancava poco alla resa dei conti. Ancora qualche minuto e poi la battaglia, la sfida più grande di tutte. Sentivo che prima dovevo salutarlo, dovevo farlo nel modo giusto. Respirai a fondo. La sofferenza di questi anni mi aveva insegnato una cosa: ero forte, ero nata per esserlo.

«Il mio nome è Zara Monthgomery. Nella sua ultima lezione il professor Nicklas ci ha dato un compito. Ci ha detto di rinascere. Non capivo cosa volesse dire. Rinascere? In questo mondo dove lottiamo ogni giorno per la sopravvivenza? Era una cosa impossibile. Ma lui ci credeva e adesso che non c’è più ogni possibilità che avevo di iniziare a crederci è svanita. Ci sono rimasta male, è difficile non farlo… è un’impresa anche solo pensare di non soffrire eppure ho trovato un modo per uscirne» feci una pausa «Quando lo sento arrivare, quando sento che il dolore e la tristezza stanno venendo da me io chiudo gli occhi. Il più

delle volte li apro e ho le lacrime, ci sono tristezze così profonde da spaccarti l’anima, ma in quel piccolo lasso di tempo mi sento invincibile. In quel piccolissimo lasso di tempo, rinasco. Porto a termine il compito che il professore mi aveva assegnato e… spero solo di non deluderlo».

La compagna del professor Nicklas estrasse dalla tasca un’ accendino e accese il suo lume. ò la fiamma alla vicina. Dopo pochi secondi la folla davanti a me aveva i lumini accesi; si aprì in due lasciando spazio a un cumulo di libri. Posarono i lumini attorno ad essi poi gli dettero fuoco.

La commemorazione era finita. Il professor Nicklas era stato salutato nel modo giusto.

«Zara» una donna dai capelli scuri e gli occhi chiari mi si parò davanti mentre stavo per raggiungere Laura e Alexa. La folla iniziava a sparpagliarsi e trovarle mi era difficile. «Quello che hai detto è stato molto bello. Erik sarebbe orgoglioso di te».

«Lo sarebbe anche di lei e di sua figlia».

«Non sono mai stata una brava alunna. A scuola non facevo mai i compiti e quello che Erik vi ha dato da fare… non credo di riuscirci».

«Sono sicura che un giorno ci riuscirà».

«Vorrei» respirò a fondo «Vorrei soltanto che l’FBI lo prendesse. Ti sembra una

richiesta tanto assurda?»

«No, soltanto una richiesta legittima» dissi «Lo prenderanno».

Io lo prenderò. Lo prenderò e vi porrò fine una volta per tutte.

«Scusami» disse «Mi è arrivato un messaggio di Melanie, una mia amica. Suo marito è morto in circostanze misteriose, lui ed Erik erano molto amici. Si chiamava Ronald Douglas, ha scritto un libro».

«Su creature mistiche. L’ho letto». Non era una coincidenza che avessero ucciso Nicklas. Non lo era affatto. Douglas aveva scoperto chi erano gli elfi ma Nicklas? Cosa sapeva il professore di così prezioso da costargli addirittura la vita? Avevo bisogno di saperlo e non mi sarei fermata fino ad allora. «Come si sono conosciuti?»

«In aeronautica» sorrise «Erik era molto spericolato da ragazzo. Faceva cose folli e volare sugli aerei era una di queste. Ronald invece lo faceva per un altro motivo. Gli piaceva viaggiare e voleva visitare ogni angolo delle Terra su un aereo. Hanno fatto molti viaggi insieme».

«Ronald era un archeologo».

«Esatto. Erik era interessato ai miti e quando ha scoperto il lavoro di Ronald se n’è innamorato».

Ripensai alla foto che avevo trovato «Hanno viaggiato insieme?».

«Sì, un sacco di volte. Hanno collaborato a grandi scoperte».

«Una di queste riguardava le creature mistiche di Douglas?».

«Esatto. Ronald voleva scrivere un libro sulle scoperte ma Erik non voleva… credo che abbiano litigato. Non si sono più parlati da allora».

“Il Nemico è vicino alla foresta. Ci ha trovati. Devi venire subito da noi”.

L’impatto mentale fu forte. Pensavo di esserci abituata, invece la sensazione di stordimento persisteva tutte le volte. La voce all’apparenza moderata di Darline risuonò nella mia mente come un camlo d’allarme.

“Faccio più in fretta che posso. Justin e le ragazze dove sono?”

“Siamo tutti nella foresta e già in posizione. Helan ti farà da guida: ti mostrerà come arrivare senza farti vedere”La comunicazione s’interruppe bruscamente.

«Si è fatto tardi» dissi «Devo proprio andare a casa».

«Certo, certo» rispose la donna. La figlia le si avvicinò e le diede la mano.

«Non le ho ancora fatto le mie…».

«Grazie Zara. Sei una brava ragazza» Fece un sorriso poi si diresse verso un gruppo di persone che iniziarono a farle le condoglianze.

In lontananza un miagolio stridulo e familiare attirò la mia attenzione.

Mi feci largo tra la folla e alla fine lo vidi sul ramo di un albero.

Helan miagolò ancora. Lo seguii con il cuore che batteva all’impazzata.

Ogni o che facevo mi avvicinavo al mio destino.

Ero pronta.

Corsi il più veloce che potei. Sentivo il cuore pulsare come se fosse sul punto di esplodere. Il sangue mi fluiva nelle vene come un torrente impetuoso e sotto la pelle lo sentivo più vivo che mai. Seguire Helan attraverso strade nuove e scorciatoie non era affatto semplice: era un felino estremamente agile. Circumnavigammo l’intera area della foresta per poi sbucare in un sottoaggio che dava libero accesso al retro della villa.

Nascosti tra i cespugli vidi Edzard e i membri del Consiglio. Helan miagolò.

Schizzò vicino a un albero dove a pochi centimetri c’era un cespuglio. Mi avrebbe condotto da una sola persona. Kindra.

«Arriveranno tra poco» disse fredda. Il suo sguardo si posò su di me «Credi davvero di farcela?».

«Mi hai allenata per questo no?»

«Senti, abbiamo elaborato un piano. L’obiettivo del Nemico siete voi ma la vostra salvezza è la cosa più importante di tutte quindi combatterete per ultime. Io e il Consiglio terremo occupato il Nemico mentre i tuoi zii si occuperanno dei Sicari insieme ad Alan e Edzard. Soltanto al mio segnale, e ripeto, soltanto al mio segnale, interverrete con Heltayner. Tutto chiaro?»

«Chi ha la spada adesso?»

«Darline».

«Il Nemico ha fatto il suo ingresso nella foresta» Justin mi piombò accanto con il respiro affannato «Ci saranno circa un centinaio di Sicari con lui. Temo che potrebbero prendere d’assalto la città».

«No, non lo faranno»disse Kindra«Non prima di averci distrutto. Dobbiamo attenerci al piano».

Justin pose il suo sguardo su di me. I suoi occhi verde scuro tremavano. Eravamo vicini, alla fine. Sentivo l’esigenza di dirgli tutto quello che non ero mai riuscita a dirgli. Doveva sapere che lo amavo.

Non poteva andare incontro alla sorte senza sapere quanto lo amassi, quanto significasse per me. Avevo promesso a me stessa, anzi l’avevo giurato, che niente e nessuno mi avrebbe più ferito o sconvolto, ma il giorno in cui avevo incontrato i suoi occhi tutto era andato a farsi benedire.

Aveva fatto esplodere il mio cuore, l’aveva liberato dalla sua stessa prigionia. Mi aveva salvata. Justin era la mia anima gemella eppure sembrava che quella affermazione fosse troppo riduttiva per lui.

Non lo amavo per quello, se fosse stato un semplice essere umano l’avrei amato ugualmente, lo amavo nel modo più semplice e puro del termine. Amavo la sua diversità dal resto del mondo, il suo coraggio e il suo essere altro da me. Eravamo così differenti noi due: io ero quella testarda lui quello riflessivo,io ero fragile e lui forte come una roccia.

Non ci completavamo, ci arricchivamo. Per quanto il nostro ato ci avesse impoverito, distrutto, ferito e ucciso eravamo ricchi. Non era la mia anima gemella, non era mio, l’amore non è possesso. L’amore è bene, profondo e intenso. Un bene che si insinua nelle ossa, nel sangue, nella carne fino a renderti migliore. Lui era la parte migliore di me.

Lo guardai dritto negli occhi «Devo dirti una cosa importante» mi fissò un po’confuso«Io…».

«Non c’è tempo per le chiacchiere! Sono entrati nella foresta» Al suono di quelle parole pronunciate in tono sommesso da Kindra restammo in silenzio. Non potevamo pensare a questo. Non adesso. Justin tornò al suo posto. Mi morsi il labbro fino a farmelo sanguinare «Ti amo».

Furono le ultime parole belle che sentii. Un secondo dopo un brivido mi percorse la schiena. Prestai attenzione ai rumori lontani provenienti dal fondo della foresta. Ogni fibra del mio corpo s’irrigidì quando percepii i i profondi e marcati dei Sicari calpestare il suolo.

«Attieniti al piano e non fare sciocchezze» mi sussurròKindra all’orecchio. Annuii respirando a fondo. I i si fecero sempre più vicini. Ogni volta che i Sicari calpestavano il terreno una morsa mi stringeva lo stomaco. L’aria era intrisa del loro fetore, il suono di spade sguainate risuonava nell’intera foresta avvolta in un silenzio mortale. «Sono arrivati» bisbigliò Kindra scrutando la situazione attraverso il cespuglio. Feci la stessa cosa. Per la prima volta potevo vedere il Nemico dal vivo, guardare negli occhi l’assassino del mio popolo. I Sicari gli erano intorno a semicerchio quasi a fargli da scudo, lui se ne stava al centro guardandosi attorno. Sguainò il pugnale dalla fibbia di un Sicario poi disse: «A quanto pare amici miei, abbiamo fatto tanta strada per nulla. Venite fuori! Venite ad accogliere un vecchio amico».

Spostai qualche foglia e finalmente riuscii a vederlo. Portava un paio di pantaloni di jeans, una maglietta nera con sopra un giubbotto di pelle in stile motociclista. I capelli biondo chiaro erano raccolti in una coda e ne lasciavano scoperto il viso dalla pelle candida come neve, sul sopracciglio sinistro vi era una cicatrice. Doveva essere alto almeno un metro e ottanta, forse anche di più; il fisico asciutto e muscoloso. A guardarlo così sembrava una persona innocua ma se si prestava attenzione al suo sguardo tutto cambiava. Aveva l’iride iniettato di sangue. Il suo sguardo era cattivo, trasudava odio, rabbia, vendetta. Si morse le sottili labbra rosse. Uscì del sangue. Con la lingua se lo ò intorno alle labbra e l’assaporò come fosse miele. Sorrise mostrando i denti sporchi di sangue. Fui sul punto di vomitare. I suoi occhi stavano scrutando

minuziosamente l’intero posto. Sapeva che eravamo ad un o da lui, in trappola come topi e la cosa lo eccitava da morire.

Vedevo riflessi nel suo sguardo i volti delle persone che aveva massacrato con tanto gusto, vedevo il modo in cui le fissava. Con un odio incontrollato, come un fuoco che divampava divorando tutto. Temevo di sentire la sensazione di bruciato sulla pelle. Bruscamente, staccai gli occhi da lui.

S’udì un o, marcato e netto.

«Venite fuori!» Un urlo disumano si propagò nell’intera foresta«Sono venuto per voi, figlie di Odino! Venite ad affrontare colui che metterà fine a Eureka una volta per tutte».

«È il momento» disse Kindra voltandosi rapida verso di me «Io e il Consiglio dobbiamo andare. Tu. Rimani. Qui».

Alla vista dei membri del Consiglio il Nemico sorrise «E così siete voi a farmi gli onori di casa».

«Ti invitiamo ad andartene subito»disse Carlos.

Il Nemico scosse la testa «Non posso andarmene. Ho questioni in sospeso qui. Credo proprio che mi fermerò per un po’». La sua voce era lenta e macabra.

«Eureka non sarà mai tua» disse Fabio.

Il Nemico fece un o verso di lui. Dall’angolo sinistro della sua bocca spuntò un sorriso maligno «Eureka è già mia. Questa volta non sono venuto per lei. C’è un altro conto che devo regolare qui». I Sicari si dispersero nella foresta.

«Non le troverai»disse Carlos«Noi ti sconfiggeremo prima. Abbiamo distrutto lo Stregone e faremo lo stesso con te».

Tutto accadde in un secondo: il Nemico balzò su Carlos e lo scaraventò a terra con forza.

«Voi volete distruggermi?» gli si avvicinò e lo afferrò con rabbia «Ti spezzerò l’osso del collo» sorrise «E poi farò lo stesso ai tuoi amichetti».

Lo lasciòcadere«Tua nipote dovrebbe venire a salvarti. Sei tutto quello che le è rimasto no?»

Parlava a voce alta, scandendo ogni lettera: voleva che sentissimo. Carlos provò a rialzarsi ma un gruppo di Sicari si gettò su di lui, gli altri membri del Consiglio intervennero in suo aiuto. Arrivarono anche Anthony e Crystal con i miei cugini. La battaglia era cominciata. Il Nemico osservava lo scontro spazientito, scrutava la foresta e sorrideva in silenzio.

A un tratto però la sua espressione cambiò «Guarda chi si vede»disse. Kindra avanzò verso di lui senza dire nulla «È un piacere rivederti. Vedo che le entrate

teatrali sono ancora il tuo forte».

Kindra alzò lo sguardo su di lui. Sguainò Dikei e gli si precipitò addosso con una violenza che non le avevo mai visto prima. L’odio che aveva in corpo era tale da distruggere tutto, anche se stessa. Era fuori controllo.

Il Nemico non mosse un muscolo: aspettò che Kindra gli fosse abbastanza vicina, sguainò Frydreir e respinse il suo attacco catapultandola con violenza contro un albero. Kindra si rialzò all’istante. Aveva la testa insanguinata ma non le importava, era già pronta a colpire di nuovo.

«Non sei cambiata. Sempre così forte e decisa».

«E anche determinata a farti fuori» rispose Kindra.

Fu un secondo, sparì e si materializzò dietro il Nemico. Gli puntò Dikei alla gola. Nei suoi occhi c’era rabbia e sete di vendetta.

«Non abbiamo nemmeno iniziato e già vuoi farmi fuori?».

«Dal momento in cui ho sollevato Dikei contro di te avresti dovuto renderti conto che avevamo già iniziato» sibilòKindra.

«Davvero? È questo quello che vuoi?».

«Sì. Ti voglio morto». Kindra gli spinse il pugnale sulla gola. Non aveva intenzione di mollare la presa.

«Non ci vediamo da anni. Avresti almeno potuto salutare».

Se prima Kindra mi era sembrata forte ora lo era di sicuro. Se prima nel suo sguardo c’era rabbia adesso lei era la rabbia.

“Dobbiamo fermarla immediatamente”Di colpo la testa iniziò a pulsarmi violentemente.

“Darline, ha l’occasione di uccidere quel mostro e noi dobbiamo lasciarla fare”rispose Edzard.

“La ucciderà. Lo farà davanti ai nostri occhi. Non posso permetterlo. E mio nonno? Gli atri? Hanno bisogno d’aiuto”.

“Kindra ha detto di non intervenire fino al suo segnale”disse Aimee.

La testa mi scoppiava. Mi portai le mani sulle tempie e premetti forte. Le voce di ragazzi continuavo ad accavallarsi l’una sull’altra.

“Vediamo cosa succede. Se non ci ha ancora fatto alcun segnale vuol dire che

non le serviamo”affermò Justin.

“Vuoi che si faccia ammazzare prima di darci il segnale?”Nonostante la sua preoccupazione Darline cercava di mantenere un tono di voce calmo. La invidiavo. Non sarei mai stata in grado di essere decisa e moderata come lei.

“Facciamo come ha detto. Devono vedersela loro due adesso”disse Matt ponendo fine alla conversazione. Aveva ragione lui, intervenire adesso avrebbe peggiorato le cose. Gli occhi di Kindra erano infuocati, il suo viso divenne rosso, il sangue le salì al cervello. La presa di Dikei sulla gola del Nemico si fece più intensa.

«Sei di poche parole» le disse «I tuoi amici stanno cedendo. Le figlie di Odino si nascondono. Siamo soli. Tu ed io. Proprio non vuoi parlarmi?»

«Finiscila cane! Se dici un’altra parola ti taglio la gola» lo minacciò Kindra. Ma la sua voce non era ferma e decisa. Tremava.

Il mostro rise «Oh questo sì che è un bel déjà-vu».

«Sta zitto».

«È davvero difficile dimenticarsi di quel giorno».

«Ti ho detto di stare zitto!»

«Dikei era sulla mia gola e tu eri decisa a uccidermi» il tono del Nemico si fece riflessivo «A un tratto però hai esitato, mi hai guardato negli occhi e hai lasciato posare le tue labbra sulle mie». Gli occhi del mostro si fecero carichi di odio. Dikei cadde a terra. Kindra s’accasciò.

Il Nemico la fissò un secondo. Sorrise. Gettò Frydreir a terra e le girò intorno come un avvoltoio sulla preda in attesa di attaccarla. Kindra alzò lo sguardo su di lui. Si guardavano a vicenda senza dire nulla.

«Alzati» disse il Nemico. Il sibilo della sua voce mi risuonava nelle orecchie. Kindra distolse lo sguardo da lui. Con rabbia le diede un calcio al ginocchio «Avanti, alzati!». Kindra rimase immobile. Il mostro le si avvicinò e con forza le sollevò il mento costringendola a guardarlo negli occhi. «Dov’è finita la tua determinazione? »

Kindra sorrise. Di colpo afferrò Dikei e si scaraventò su di lui. Il Nemico, colto alla sprovvista, balzò dall’altra parte della foresta. In un secondo si materializzò alle spalle di Kindra e le puntò Frydreir alla gola.

«Ottima mossa» sibilò «Davvero brava».

«Pensavi che bastasse una piccola frase a farmi crollare? No, sono molto più forte di così».

«Oh lo sento. Sento la magia che ti scorre nelle vene, la tua forza e la collera che ti divora. Eppure… avresti già dovuto tagliarmi la gola no? Pare che la

situazione si sia invertita».

«Giuro che ti stacco le corde vocali con le mie mani» rispose Kindra digrignando i denti. Il mostro le poggiò le labbra sulla guancia e premette Frydreir contro il suo collo. Kindra gridò. Strinse le mani in un pugno e ruotò gli occhi al cielo.

«Schhh…» il Nemico le baciò la spalla. Il respiro di Kindra si fece affannato. Le labbra del Nemico si muovevano sinuose e decise sulla pelle di Kindra. All’iniziò si dimenava, adesso si lasciava andare a ogni tocco, lasciava che quel verme la consumasse. Nel punto in cui Frydreir l’aveva toccata s’era formata una vescica circondata da un alone nero. Lo stesso alone ritrovato sui corpi dei ragazzi. Era la magia nera a provocarlo. Kindra respirava affannosamente. Le mani ancora strette in un pugno tremavano.

Potevo sentire il suo cuore battere, pompare sangue a un ritmo irregolare e sovrumano. Sentivo il suo terrore come fosse il mio. La fitta arrivò brutale e barbarica. Mi squarciò in due e tutta la sofferenza di Kindra divenne la mia. Il Nemico la teneva stretta nella sua morsa. La fissava con brama pronto a gustarsi ogni centimetro della sua carne, c’era desiderio nei suoi occhi: voleva Kindra, la voleva per sé. Pretendeva che fosse sua e di nessun altro. Le mani del mostro cercarono quelle di Kindra, le sussurrò qualcosa all’orecchio, qualcosa di così impercettibile che non capii. Il mostro le baciò i capelli. Non sentivo più la fitta, si era dissolta nel nulla. Credevo che Kindra stesse soffrendo ma in realtà lo stavo facendo io.

Lei non era in pena o triste. Se ne stava tra le braccia del mostro, lasciava che il suo veleno la contaminasse e sembrava quasi… tranquilla. Non lo temeva e le sue attenzioni non le dispiacevano. Il mostro le scostò i capelli dal viso «Non capisco perché mi odi tanto. Sono così gentile con te».

«Gentile? Tu non sai cosa sia la gentilezza».

«Magari hai ragione. Dopo tutto ho ucciso molte persone».

«Hai massacrato un popolo intero» lo corresse Kindra. La sua voce si fece gelida.

«Eppure ho la sensazione che ci sia qualcosa di più in questo tuo affronto». Il Nemico sapeva toccare i punti giusti. Con Kindra pareva che fosse così. Sapeva farla scattare.

Non riuscivo ancora a capire quale fosse il suo piano ma sicuramente al centro della sua attenzione adesso c’era lei.

«Abbiamo un conto in sospeso noi due» disse Kindra liberandosi dalla sua presa troppo facilmente. Erano di nuovo faccia a faccia, occhi contro occhi, cuore contro cuore. Sì, perché adesso il cuore del Nemico batteva. Fino ad allora avevo percepito solo il battito di Kindra ma ora quello del suo avversario palpitava più che mai. Era forte, impetuoso e distruttivo, come il suo padrone.

«Ah sì? Quale sarebbe?» chiese ridendo. Kindra non rispose. Si scaraventò nuovamente su di lui con tutta la collera che aveva in corpo.

Il Nemico parò il colpo con Frydreir. Gli occhi di Kindra trasudavano odio e quelli del suo avversario eccitazione. Le lame di Frydreir e Dikei s’incontrarono ancora. Kindra attaccava, il Nemico parava. Kindra lo afferrò per la gola. Era sul

punto di conficcargli Dikei nella giugulare quando il Nemico riuscì a liberarsi dalla presa. Fu un lampo: Kindra si ritrovò nella morsa fatale del Nemico. Non aveva scampo.

«Se non sei in grado di uccidermi lo farò io».

Soffocai un grido. Vidi Justin scaraventarsi contro il Nemico. Era piombato all’improvviso. Kindra si liberò dalla presa. «Che stai facendo ragazzino?» gli gridò. La testa iniziò a farmi male. Le voci dei ragazzi s’accavallavano freneticamente. Troppo rumore, non riuscivo a pensare.

“Kindra non ha dato il segnale!”Aimee era terrorizzata.

“Maledizione”disse Darline.

“Perché ha fatto una cosa così irresponsabile senza dirci nulla? Ora incasinerà solo le cose”Cassandra era fuori di sé.

“L’ha fatto per proteggerla”rispose Edzard.

«Levati di torno!» gridò ancora Kindra «Questa faccenda non ti riguarda. Justin? Hai sentito quello che ho detto? Vattene!».

Ma Justin non la stava ascoltando: restava in silenzio e osservava il Nemico.

«A quanto pare Kindra, abbiamo un prode salvatore».

«Si tratta di un ragazzino».

Gli occhi del Nemico si posarono su Justin «Dove sono? Voglio le ragazze. Dove sono? Dove si sono nascoste?»

«Non sono qui per questo» rispose Justin duro.

Il mostro abbozzò un sorriso «Ah no? E allora come mai sei qui?»

«Te ne devi andare».

«Non mi hanno fermato i membri del Consiglio e pensi di farlo tu?».

«Te ne devi andare» ripeté Justin.

«Vedi, ho un conto in sospeso qui» il mostro ruotòlo sguardo su Kindra.

«Non ti avvicinare» disse Justin «Non devi più avvicinarti a lei».

«Smettila. Justin levati di torno» lo intimòKindra.

Il Nemico sorrise «Chi diavolo sei tu?»

«Sono suo figlio».

«Figlio?» Il Nemico guardòsubito Kindra.«Ah certo. Ora è tutto chiaro. Mi ricordo di te» rise «Sei quel moccioso che girava sempre in casa di Kindra. Ogni volta che vi mettevo piede tu e quel…Eravate sempre in mezzo. Sei cresciuto, Justin».

Justin rimase immobile «Mi conosci?»

«Oh Justin caro» rispose il Nemico stringendo Frydreir «So benissimo chi sei».

Il mostro alzò Frydreir pronto a colpirlo. Kindra scattò in sua difesa parando il colpo. Mi alzai di scatto. Non riuscivo a pensare a niente.

C’era qualcosa in me, qualcosa che andava oltre l’istinto di autoconservazione, anzi, a dirla tutta ci andava proprio contro.

Infrangeva ogni barriera, logica o convenzione.

Non seguiva alcuna regola. Era un impulso, forte e prepotente che andava oltre l’immaginazione. L’avrei salvato, non aveva importanza il prezzo che avrei pagato. Accanto al Nemico c’era un grosso masso: pensai di sollevarlo e il masso si alzò.

«So che siete qui! Venite fuori!» urlò il Nemico con una rabbia che mi fece accapponare la pelle.

Kindra gli balzò al collo ma lui la respinse con violenza.

«Dovrei risparmiarti» disse il mostro fissando Justin «Dopotutto sei cresciuto in casa mia».

«Quella casa non era tua» disse Justin.

«Il fatto che non ci stessi molto non significa che non fosse mia. Oh capisco, Kindra non te l’ha detto».

«Detto cosa?»

«Eravamo legati, io e lei».

«Stai mentendo» Justin strinse i pugni «Stai mentendo!».

Un’armata di Sicari si diresse verso il Nemico: avevano le ragazze con loro.

«Le abbiamo trovate».

«Ci stavi cercando?» la voce sicura di Darline era inconfondibile «Eccoci qua!» Si liberò dalla presa del Sicario e lo ferì con Heltayner.

«Si comincia».

Le ragazze si liberarono dalle prese dei Sicari. I mostri le colpirono e loro cercarono di fermarli. I membri del Consiglio e i mie zii arrivarono in loro aiuto. Era uno scontro senza esclusione di colpi.

Justin alzò lo sguardo verso il Nemico «Quelle che racconti sono bugie».

Il mostro scattò verso di lui e lo colpì al petto. Soffocai un grido prima di piombare d’innanzi a Justin.

«E tu sei…».

«Sono l’ultima delle figlie di Odino. L’ultima delle Shoulder Blade».

Gli occhi fiammeggianti del Nemico si posarono su di me «E quale nome porta l’ultima figlia di Odino?».

«Mi chiamo Zara. Discendo dalla casata dei Monthgomery. Alomi e Keia sono mie antenate».

«La figlia di Jylien».

«Esatto».

«Tua madre è riuscita a ingannarmi. Era una donna astuta» la nota di disprezzo nella sua voce non ò inosservata «Ti ha nascosta, ti ha… lasciata nell’ombra ma questo non basta. Non basta affatto per sfuggirmi. Non lo puoi fare. Nessuno può. Vedi, anche i più oscuri segreti, per quanto siano tali, vengono a galla. È un dato di fatto. La coscienza non può sopportare la menzogna, i segreti che accumuliamo ci trascinano nell’abisso e allora tutto ciò che desideriamo è un salvagente, un appiglio, qualcosa a cui aggrapparci. Nessun segreto resta segreto e adesso tu sei allo scoperto».

«Zara spostati!» Justin stava lottando contro un Sicario. La sua voce allarmata mi fece voltare. Una lama viaggiava a forte velocità nella mia direzione “Distruggi”. Non funzionò. Mi abbassai e nel farlo persi l’equilibrio. Il capo dei Sicari si avvicinò a me. Estrasse dalla sua guaina un coltello e me lo scaraventò addosso. La lama affilata mi colpì il viso lacerandomi la guancia. Il mostro si avvicinava. Mi portai la mano alla guancia: la ferita si stava rimarginando. Afferrai il coltello decisa a scagliarlo contro il Sicario: le mani mi tremavano terribilmente, il nodo alla gola mi impediva di respirare, sentivo l’aria comprimermi il petto fino a schiacciarmi. Con le lacrime agli occhi mollai il coltello. Arretrai di qualche o, scivolando sull’erba. D’innanzi a me si paròCassandra. Digrignò i denti e si lanciò contro il Sicario uccidendolo.

«Prendi Heltayner!» disse lanciandomi la spada «Aiuta Aimee, qui ci penso io!».

«Devo trovare Justin!»

«Mi prenderò io cura di lui. Te lo prometto. Adesso vai! Sbrigati!»

Tenevo stretta l’elsa di Heltayner e tutta la sua forza ed energia mi attraversavano come un uragano. Aimee aveva un Sicario alle spalle e due davanti. Era ferita alla gamba sinistra. Mi parai d’innanzi a lei e affrontai i mostri senza alcuna esitazione.

«Aimee!»

«Sto bene. La ferita è superficiale. Cos’è quella?» Accanto a me c’era un freccia «Non è di Alan e nemmeno dei Sicari».

Conficcato nella freccia c’era un pezzo di carta. «Sono tornato».

Una figura si mosse velocemente tra gli alberi. Strinsi Heltayner con maggior forza e seguii la figura che con velocità s’addentrava nella parte ovest della foresta, lontano dalla battaglia. Non sapevo esattamente a cosa stavo andando incontro, forse alla mia morte, eppure non avevo paura. Heltayner mi dava coraggio. Sfrecciavo veloce nella foresta, levandomi di torno i rami che ne ostacolavano la visuale. Sentii miagolare. Helan era al mio fianco. Mi sfiorò il pensiero che forse l’avesse mandato Kindra per proteggermi. Mi bloccai. Ero

finita in una zona della foresta che non conoscevo, una zona buia in cui l’orientamento era difficile: c’erano troppi alberi, fitti e intricati.

«Ci siamo perse Zara?» il sangue mi si congelò nelle vene. La voce del Nemico era sottile, un sibilo fastidioso che risuonava nelle orecchie.

«Ti sei chiamato fuori dalla battaglia. Perché?»

«Chiamato fuori? Questo mai. Ci sono dentro fino al collo».

«Fatti vedere. Su, mostrati».

«Ogni tuo desiderio è un ordine».

Il Nemico comparve. L’iride fiammeggiante e il sorriso arcigno.

Sollevai Heltayner davanti a me.

«La Spada dei Mille Diamanti, pensavo fosse andata perduta».

«Kindra sa essere molto imprevedibile».

Si mosse così rapidamente che non me ne accorsi «Frydreir non vedeva l’ora di scontrarsi con sua sorella» Me lo ritrovai davanti e prima che potessi anche solo pensare di colpirlo, mi sbatté furiosamente contro un albero. La pelle si lacerò sotto la corteccia. Mi afferròe mi sollevò da terra. Ai miei piedi si creò una piccola pozza di sangue. La sua mano scivolò sul mio collo. Alcune ossa scricchiolarono. Aumentò la stretta, la corteccia ruvida si conficcò nella carne facendomi urlare.

«Guardati. Persino una gallina si merita una morte migliore della tua.» Mi sferrò un pugno violento allo stomaco. Non riuscivo a respirare.

Il sangue mi salì alla bocca fino a fluire fuori da essa, colò lungo il mento e raggiunse la mano del mostro. Fu libidine per i suoi occhi. Il sangue gli piaceva, molto. Avevo il respiro sempre più corto, il cuore batteva forte e sentivo i polmoni farsi sempre più pesanti. Il dolore allo stomaco era così forte che mi vennero le lacrime agli occhi.

«Anche tua madre si mise a piangere. Le puntavo la spada alla gola e lei fissava il cadavere di tuo padre mentre tua sorella agonizzava in silenzio».

Sapevo quello che stava cercando di fare. Indebolirmi, rendermi fragile e vulnerabile ma non c’era bisogno che sprecasse energie. Ero già debole, lo ero da molto tempo.

«So cosa ti aspetti da me. Vuoi rabbia, odio e vendetta. Non avrai nulla di tutto questo. Puoi torturami quanto vuoi sulla morte dei miei genitori, non soffro più per quello ormai».

«Bene. Allora proverò con qualcosa di più attuale».

Gli afferrai il polso e mi liberai dalla sua presa.

Presi Heltayner e lo attaccai.

Lui si battécon Frydreir.

Le due spade avevano la stessa forza, la stessa lama affilata e la stessa totale incapacità nel distruggersi l’un l’altra.

«Possiamo andare avanti così in eterno» Non era stanco. Io invece avevo un male tremendo alle mani e alle braccia. «Sei in pena per i tuoi amici? Sentire le loro voci ti farà stare meglio».

La testa mi pulsò in maniera impressionante. Sentii le urla di Alan, quelle di Cassandra e del Consiglio. Risuonavano nella mia testa, sfondandomi il cranio. Urlai. Il dolore che provavo al centro del petto era fortissimo. Sentivo le loro grida come se fossero ad un o da me, anche se erano a metri di distanza, ma non era solo questo. Riuscivo a vederli.

Il combattimento, il cuore che batteva all’impazzata, il sangue che scorreva velocemente e le grida. I miei incubi erano tornati, più reali e vivi che mai.

La testa iniziò a girarmi. Era tutto confuso e sfuocato.

Un Sicario colpì Justin all’addome stracciandogli la maglia. Dalla ferita colò sangue. La lama che l’aveva colpito era intrisa nella magia nera.

Chiusi gli occhi portandomi la mano nel punto in cui era stato ferito in fondo, in un certo senso, era come se fossi stata ferita anche io.

Heltayner mi scivolò dalle mani. La testa mi scoppiava. Mi portai le mani nei capelli gridando. Il respiro si faceva sempre più affannato e ogni battito mi lacerava il cuore. Bruciavo.

Il dolore di Justin mi invase per tutto il corpo fino a penetrarmi dentro le ossa, fino a consumarle. Aprii gli occhi gridando. Lo feci ancora e ancora e ancora. Gridavo fino a non avere più fiato nei polmoni. Le budella s’aggrovigliarono tra loro in una morsa fatale, fu allora che il dolore divenne insostenibile. Fu allora che arrivò la fitta.

CAPITOLO 20 - Tempesta

Riaprii gli occhi.

Il Nemico era dietro di me. Mi afferrò le braccia e le mise dietro la schiena.

«Se la stanno cavando bene no?» Non riuscivo a parlare. «Peccato per Justin. Le sue probabilità di sopravvivenza sono alquanto ridotte.» Avvicinò le sue fetide labbra all’orecchio «Il veleno scorre veloce nel sangue, specialmente se ci si muove. Arriverà al suo cuore in pochi minuti.Sai qual è il bello di un elfo innamorato? Paghi uno. Prendi due» la sua presa su di me aumentò «Il dolore di Justin ti indebolisce. Siete anime gemelle, niente di più deliziosamente affascinante per me».

«Ma cosa…»

«Sai cosa succede a un anima quando l’altra sta male? Soffre anche l’altra».

«Lascialo fuori… da questa storia» ogni parola pesava come un macigno, ogni sillaba era difficile da pronunciare «Lui… lui non... ».

«Non ti interessa? È questo quello che vuoi dire? Allora scommetto che non avrai alcuna reazione se faccio questo».

Justin si portò la mano sul cuore: il legame che ci univa lo portava a provare il mio stesso dolore e questo lo condizionava. I suoi movimenti erano lenti e scontati, parava i colpia malapena. L’unico conforto che avevo era sapere che non era solo, Cassandra aveva mantenuto la sua promessa e gliene sarei stata grata per sempre.

«Non mi ucciderai» dissi in un sussurro «Non ci ucciderai mai».

«Non sperarci troppo. Ho appena iniziato, non hai idea di quello che ho in mente per te. Ti faròcosì male che il tuo cuore non riuscirà a reggere la pressione di tanto dolore. Collasserai e porterai il tuo amato con te. L’ultimo pensiero che avrai prima di morire è quello di averlo ucciso».

Conoscevo il dolore meglio di quanto credesse. Il mio cuore ne aveva sopportato tanto per molto tempo, credevo che questo l’avesse indebolito invece era il contrario. Qualunque cosa mi avrebbe fatto l’avrei affrontata: ero, anzi sono, una veterana e il dolore è il mio pane quotidiano.

Il Nemico piombò nella mia testa. Iniziò a frugare tra i miei ricordi con ferocia e raggiunse quelli in cui c’erano Alexa, Laura e il professor Nicklas.

«Umani» disse con disprezzo «Si sono presi tutto. Calpestano questa terra come se fosse loro. Stupidi. Cani rognosi. Vermi.» Scorse avanti tra i ricordi e si soffermò sull’immagine di Melanie e sul momento in cui avevo trovato la notizia della morte di Douglas.

«La testimonianza della stupiditàumana».

«Hai conosciuto Douglas?»

«Oh sì, un tipo molto interessante».

«Cosa… cosa gli è successo?»

La risposta alla mia domanda arrivòsubito. Una figura s’addentra in una stanza, sembra quella di un ospedale. Quando l’immagine si fa nitida, sono sicura si tratti di quello. Le pareti sono bianche e la stanza è fredda. La finestra è aperta. Sul letto, un signore dorme. La figura si avvicina, gli stringe le mani intorno al collo così forte che l’uomo non può emettere alcun grido. Il collo si spezza. Una corda intorno al collo rende l’omicidio un perfetto suicidio.

«L’hai ucciso».

«Volevi sapere cosa gli è accaduto. Ora lo sai».

«Lui voleva aiutarci!»

«Voleva farmi fuori. Un umano contro uno come me? Troppo ambizioso per i miei gusti».

Scavò ancora nei miei ricordi. La testa mi faceva malissimo. Trovò i miei

momenti con Justin: gli sguardi, i sorrisi, il primo bacio.

Si concentrò sulla sua sofferenza e sulle volte in cui avevo percepito la fitta. Ci marciòsu, pesantemente.Gridai. Il dolore era disumano, impressionante. Cercavo di non guardare ma mi era impossibile.

La ferita di Justin bruciava e pulsava più che mai. Le sue grida mi risuonavano nella testa come un’eco infinito. Mi accasciai a terra, contorcendomi come in preda alle convulsioni. Quando il dolore si fece più acuto conficcai le unghie nel terreno inarcando la schiena.

«Smettila!»

«Musica per lei mie orecchie».

Il battito cardiaco aumentò di colpo. Justin si piegò in due, mettendo la testa tra le ginocchia. Non riuscivo a smettere di gridare. Le ossa mi facevano male, il respiro si faceva sempre più affannato, lo sterno mi comprimeva. Non avevo ossigeno. La vista si fece annebbiata.

Il Nemico si avvicinò, mi afferrò la mano «Questo è per te, figliolo».

La lama di Frydreir mi squarciò il palmo della mano. L’odore di carne bruciata mi entrò nelle narici, facendo girare la testa. L’acido iniziò a corrodermi la pelle. Strinsi i pugni mentre piangevo dal dolore, poi smisi di dimenarmi. Un liquido denso mi bagnò la nuca e il viso.

Ogni immagine sparì. Non vidi più nulla.

Il respiro era tornato regolare e mi sentivo leggera. Era tutto finito, o almeno così credevo. La testa mi faceva malissimo, ero debole e stanca.

Gli occhi rossi del Nemico mi scrutavano dall’alto, era pronto a sferrare il colpo decisivo. Ma non andòcosì: qualcuno gli piombò addosso, lo afferrò per la maglia e gli puntò un coltello al collo. Tutto era confuso eppure ebbi l’impressione di vedere una lunga treccia rosso fuoco.

«Addio Morgan».

«Addio».

Il Nemico cadde a terra.

La cenere venne portata via dal vento.

Il dolore alla mano sparì.

L’acido raggiunse il cuore.

Tutto si fece buio.

I ricordi erano confusi e non avevo idea di dove mi trovassi. Aprii gli occhi e mi massaggiai le tempie.

«Sembra che tu non abbia ancora capito cosa sia il riposo».

«Kindra sei tu?»

«Sarò il tuo incubo per tutta la vita».

«Non ricordo niente».

«Tornerà presto. A volte la nostra memoria va e viene».

«Dove sono?»

«Alla villa e prima che tu lo chieda stiamo tutti bene. Nessun morto».

Posai lo sguardo su di lei «Eri tu. Sono quasi certa che fossi tu».

«A fare cosa?»

«L’hai fermato. Voleva uccidermi e tu l’hai fermato».

«Non sono stata io».

«No, sei stata tu! Ti… ti ho vista».

«Gli ho soltanto piantato Frydreir nel cuore ma non l’ho abbattuto io».

«Abbattuto?»

«Era già stato colpito da una freccia».

Posai lo sguardo su di lei «Chi è Morgan?».

«Come?»

«Morgan è il nome che ho sentito prima di svenire, credo. Chi è?»

«Nessuno».

«Come sarebbe a dire nessuno? Voglio saperlo. Almeno questo me lo devi».

Fece un lungo respiro. «Conobbi Morgan quando avevo più o meno la tua stessa età. Era un bel ragazzo, fiero e sicuro di sé. A quel tempo si stava allenando per entrare a far parte del Consiglio Elfico ed io ero da poco diventata una sacerdotessa del tempio. Quello fu il periodo nel quale conobbi tua madre e, quando le dissi di Morgan, mi suggerì di dargli una possibilità. Iniziammo a uscire e man mano che il tempo ava capii che lui era la mia anima gemella. Quando diventammo adulti però le cose cambiarono, iniziarono le guerre da parte dei Draken per la conquista di Eureka, paura e terrore cominciarono a diffondersi. Un giorno trovai fuori dalla porta del tempio due bambini, uno era ancora in fasce e l’altro doveva avere al massimo due o tre anni. Si chiamavano Justin e Edzard Allen ed io li adottai. Li portai a casa con me, avevo molto spazio e poi Morgan non era mai a casa. Era cambiato: usciva tardi la notte ed era diventato sempre più scontroso e attaccato al denaro. Non capivo cosa stesse succedendo fino a quando non si sparse la voce che lo Stregone Nero era tornato. Era diventato uno dei membri del Consiglio ma l’avevano cacciato poiché aveva cominciato a praticare la magia oscura. La magia nera èopera sua» si fermò un attimo per prendere fiato «Lo Stregone Nero era in cerca di vendetta e Morgan era perfetto per i suoi scopi. Lo plasmò a sua immagine e somiglianza. Iniziarono guerre cruenti per mano sua, io sopportavo in silenzio tutto il dolore che causava, ma quando uccise Jylien persi tutto quello che avevo».

«Dunque Morganè … il Nemico».

«Morgan è il suo vero nome».

«Non l’hai ucciso per il nostro popolo. L’hai fatto per mia madre».

«L’amicizia Zara, è una cosa seria. Legarsi a qualcuno non è un gioco ma un sacrificio. Se non sei disposta a sacrificarti, non provarci nemmeno a legarti a qualcuno. Sprecheresti solo il tuo tempo».

Darline entrò nella stanza «Ringrazio il cielo che tu sia viva» disse venendomi incontro.

Scesi dal letto e la raggiunsi «Credevo che non ti avrei più rivista».

«Questo mai. Staremo insieme per sempre».

«È una promessa?»

«È per sempre» mi sistemò i capelli dietro le orecchie «Pronta per andare a trovare Justin?».

«Cosa gli è successo?»

«Il veleno aveva già raggiunto il cuore. C’è voluto un po’ per guarirlo ma Joslin c’è riuscita».

«I suoi… poteri funzionano?»

«Quando si tratta di un amico non ci facciamo molti scrupoli per aiutarlo, anche se questo significa superare i nostri limiti».

Darline mi accompagnò alla porta.

«Kindra» dissi prima di varcare la soglia della stanza «Tu non vieni?».

«Per adesso no».

Chiusi la porta della stanza e mi diressi verso quella di Justin.

Kindra rimase dentro quelle quattro mura.

Aveva bisogno di stare sola. Aveva bisogno di tempo.

Le finestre erano aperte, i raggi del sole filtravano illuminando l’intera stanza. Justin dormiva.

Chiusi la porta cercando di non fare rumore e mi avvicinai a lui.

Ad ogni o mi tremavano le gambe, il cuore prese a battere fortissimo mentre le mani sudavano. Il mio autocontrollo stavavacillando: volevo abbracciarlo e stringerlo forte, volevo rivedere i suoi occhi.

Mi sedetti accanto a lui. Aveva i capelli scompigliati sul viso, la bocca socchiusa e la pelle fredda. Con un gesto del tutto involontario lo accarezzai e lasciai che il dito delineasse i contorni del suo viso: il naso, le labbra morbide e il mento. Mi sdraiai accanto a lui. La prima persona che avrebbe visto appena sveglio sarei stata io.

Rimasi distesa accanto a lui per un’ora forse. Il sole mi colpì il viso ed io aprii gli occhi.

«Buon giorno».

«Cosa?» mi alzai confusa. Justin rise «Mi sono addormentata?»

Mi sistemò i capelli dietro le orecchie «Non importa».

«Da quanto sei sveglio?»

«Venti minuti al massimo».

«Mi… mi dispiace. Io volevo che la cosa fosse un po’ più… romantica».

«Va benissimo così».

Incrociai gli occhi scuri di Justin e non resistetti. Nessuno di noi due lo fece. Alcuni la chiamano chimica, la sintonia che si instaura tra due persone è per molti un fattore biologico. Si mettono in moto atomi e molecole quando ci innamoriamo, secondo altri l’amore è come una droga.

Non dico che queste ipotesi siano errate, ma l’amore non è scienza.

L’amore è qualcosa di più, che non si può etichettare e in alcun modo può essere vincolato da semplici convenzioni. È un sentimento astratto, e proprio perché è astratto è libero, senza regole o limiti.

Justin mi attirò a sé «Stringimi. Stringimi più forte che puoi».

Lo feci. Rabbrividii quando la sua pelleincontrò la mia. Gli ai le mani attorno alla nuca, ogni tocco diventava sempre più deciso e sicuro, le sue mani mi sfioravano la schiena. Sentivo i battiti del suo cuore battere lo stesso ritmo frenetico del mio, percepivo la sua gioia. Mi baciò i capelli ed io mi strinsi ancora di più a lui. Dalla sua bocca uscì un rantolo sommesso.

Feci per staccarmi da lui ma me lo impedì.

«Cos’hai?»

«Nulla».

«È la ferita?»

«Lascia perdere. Non staccarti da me».

«Ti farò male».

«Continua a stringermi forte».

Non obiettai. Gli presi il viso tra le mani e lo baciai.

«Buon giorno» ripeté.

Abbozzai un sorriso e lasciai scorrere le mani sull’addome.

«Non ècosì grave come sembra» disse Justin.

«Il veleno era già arrivato al cuore…».

«Lo so».

«Vedevo ogni cosa. Sentivo il tuo dolore e… ».

«Joslin ci ha salvato».

Guardai la ferita che avevo alla mano «Come ha fatto?».

«I poteri sono parte di noi e seguono il nostro volere. Non vedeva alcuna necessità nel difendere il suo popolo e i poteri hanno reagito con un blocco».

«Ma quando ti ha visto in pericolo il suo desiderio di aiutarti è stato così grande da farle superare i suoi limiti». Proprio come aveva detto Darline.

«Non saresti dovuta intervenire. Dovevi rimanere nascosta».

«Morgan ti avrebbe torturato».

«Morgan?»

«Il Nemico. Il suo nome è Morgan».

«Te l’ha detto Kindra?»

«Erano anime gemelle. Lo saranno per sempre».

«Kindra non lo farebbe mai. Non starebbe con un uomo del genere».

«Non era così prima. Lui era buono, lo Stregone Nero l’ha cambiato».

Il tono di Justin si fece serio «Non si cambia dall’oggi al domani Zara, c’era già qualcosa di oscuro in lui».

«Allora nemmeno gli elfi hanno un lieto fine».

Mi prese le mani. «Credo che non l’abbia nessuno. Dipende da noi, da quanto siamo disposti a rischiare e a sacrificarci per gli altri».

«Il sacrificio può portare rimpianti».

«Non se è per una giusta causa» rispose sorridendo.

«Quanto tempo ci vorrà perché guarisca del tutto?».

Le sue dita sfregarono sul palmo della mia mano nel punto in cui ero stata ferita «Non guariranno mai del tutto. La cicatrice non se ne andrà. La magia rimuove solo il veleno, il resto rimarrà per sempre».

Abbozzai un sorriso «Suppongo mi dia un’aria combattiva.»Justin mi guardò di traverso «Era solo per dire».

Il suo sguardo s’ammorbidì «Ti da più un’aria coraggiosa, a dire il vero».

«Sai, quasi quasi ti amo Justin Allen».

«Davvero?»

«Non pensavo di averlo detto ad alta voce».

Rise. «Quasi quasi ti amo anch’io. Zara Monthgomery».

Posò delicatamente le sue labbra sulle mie. Il suo profumo mi entrò nelle narici. Dio, avrei potuto non sentirlo più.

«Devi riposare sai?»

«Resti con me?» domandò.

«Certo» poggiai la testa sul suo petto «Devo trovare un modo per scacciare gli

incubi. Quando andranno via?» Justin non rispose «Non lo faranno, vero?».

«No. Credo di no».

«Dovrò conviverci per tutta la vita. Non posso fargli questo».

«Di cosa stai parlando?»

«Chi verrà dopo di me, vedrà le cose che ho visto. Non è giusto, un… bambino non può vedere queste cose».

«Bambino?»

Arrossii dall’imbarazzo. «Ehm…No. cioè… Non che io parli di figli o di altro… è solo che…».

Justin mi zittìcon un bacio«Ho capito, ho capito. Tranquilla».

Appoggiai la testa sul suo petto. Il respiro di Justin si fece caldo. Sussultò un paio di volte poi s’addormentò. Bussarono alla porta.

«Come sta?» Darline mi guardò con aria preoccupata.

Mi chiusi la porta alle spalle. «Ha bisogno di riposo, ma sta bene».

«E tu?» chiese Edzard. Lui e i ragazzi erano a pochi metri di distanza da Darline.

«Bene».

«Ti sei battuta bene» disse Matt «Ci dispiace di non essere stati lì».

«Eravamo insieme, anche se non fisicamente».

Aimee mi venne incontro e m’abbracciò «Sono così orgogliosa di te» mi puntò i suoi occhi viola addosso. «Ti proteggeremo sempre, sappilo».

Le presi la mano «Lo so. So che lo farete. Siamo una cosa sola. Siamo una famiglia. Tutti quanti, nessuno escluso» Il mio sguardo si posò su Joslin «Se c’è una persona che ha reso possibile tutto questo, quella è Joslin».

«Ci hai salvati» le disse Darline.

«Avrei voluto fare di più» rispose lei timidamente «Siete tutto quello che ho. Lo siete sempre stati e mi dispiace di non averlo capito prima» lanciò uno sguardo ad Alan «Perdonami. Non sono riuscita a salvarti».

«Che ti è successo Alan?» chiesi.

Il ragazzo si fece largo. Era avvolto in un mantello e aveva un’espressione alquanto sofferente. Lasciò cadere il mantello: il braccio destro era tutto fasciato.

«I Sicari mi hanno ferito» disse «Joslin ha rimosso il veleno ma le ferite si sono infettate. Non… non posso più muoverlo».

«Alan…».

«Non ci sono altri rimedi Zara. Non potrò più usare l’arco».

«Mi dispiace» sussurrai. Alan guardava il braccio senza dire nulla. Una scintilla di odio gli balenò negli occhi.

«Zara» mi bloccai di colpo quando sentii la voce di mia zia alle spalle. Mi voltai verso di lei «Crystal».

«Posso parlarti?»

«Non qui. Non voglio svegliare Justin».

Crystal mi condusse al piano di sopra, nella stanza adiacente alla soffitta, era molto semplice: un letto matrimoniale, un armadio e un comodino.

«Come sta Justin?»

«Si riprenderà».

«È un bravo ragazzo».

«Sì lo è».

«Zara…».

«David e Ludmilla mi staranno aspettando. Ho ato la notte fuori e saranno preoccupati».

«Ci ho pensato. Ho detto loro del nostro arrivo e che la notte saresti rimasta con noi».

«Trovi sempre un buon modo per mentire».

Crystal respirò a fondo «Non sanno chi sei e non devono saperlo. Li esporresti a un pericolo troppo grande».

«So quello che devo fare. Me la so cavare».

Crystal si avvicinò a me. Arretrai «So di averti delusa non dicendoti la verità ma l’avevo promesso a tua madre» dalla tasca posteriore dei Jeans estrasse una foto e me la porse. Raffigurava una bambino appena nato. «Questa sei tu. Me la diedi Jylien. L’ho guardata per tutti questi anni ripetendomi che ciò che avevo fatto era per il tuo bene. Potrai odiarmi, non volermi più vedere ma ora stai bene e sei diventata forte. Questo è proprio quello che avrebbe voluto mia sorella».

Strofinai le dita sulla foto «Mi dispiace di aver detto delle cose orribili».

«Lo so».

«Cosa farete adesso?»

«Kindra ci ha proposto di restare a Eureka».

«E il ristorante?»

«Vogliamo farne uno qui. Non voglio più lasciarti sola».

«Sembra una bella idea».

«Questa volta non ti deluderemo».

Mia zia mi accompagnò al piano di sotto.

«Vuoi che ti porti a casa?»

«No. Penso che farò due i».

Camminavo a i lenti. Lo sguardo fisso sul terreno. Quello stesso terreno sul quale poche ore prima giacevo insanguinata. Un flash sulla battaglia mi colpì all’improvviso.

«Te ne vai in giro tutta sola?»

«Non ci sono più pericoli ormai».

«Come sei ingenua. Per noi ci saranno sempre pericoli».

Mi bloccai «Come mai non sei rimasta con gli altri?».

Cassandra si fece seria «Non mi andava».

«Mi dispiace molto per Alan».

«A volte succede».

«Mi hai salvato la vita. Grazie per averlo fatto».

«Non l’ho fatto per te. Volevo stare lontano da Heltayner il più possibile».

Respirai a fondo prima di porgerle la domanda «Cosa hai visto? Quando l’hai presa in mano, che cosa hai visto?».

«Cambiamo argomento».

«Io ho visto la guerra».

«L’hai già detto»disse sbuffando«Ho visto di peggio».

«Cosa?»

«Mia madre» rispose «Ho visto mia madre uccidere».

«Un Sicario?»

«No».

«Chi allora?»

«Mio padre» Il silenzio fu spezzato dalla voce dura e fredda di Cassandra «Azzurra non ha mai voluto avere dei figli ma ogni Shoulder Blade deve avere una discendente femmina, è la legge. È sempre stato mio padre a prendersi cura di me e Alan. Mia madre era troppo interessata al prestigio e a farsi bella con il Consiglio. Bisognava essere i migliori».

«Non sapevo di tuo padre. Credevo fosse morto in qualche combattimento».

«Oh, l’ho pensato anche io. Era quello che aveva detto Azzurra e la sua parola era legge»fece una pausa«Quando l’ho vista conficcargli una freccia nel cuore ho capito che non l’ha mai amato. Non credo che sappia provare amore. Per lei sono solo la sua stirpe e Alan è un’incidente di percorso, un peso. Non siamo figli per lei».

«Mi dispiace ».

Rimase un attimo in silenzio poi mi chiese: «I tuoi genitori si amavamo molto, non è vero?».

«Sì ècosì».

«Deve essere bello. Io non so farlo. Il mio elemento è il ghiaccio, freddo e duro proprio come me».

«Se fossi così fredda e dura come dici, non mi avresti salvata».

«Smettila di pensare che l’ho fatto per te. Non ècosì.» Restammo in silenzio. Cassandra fissava un punto indistinto al di là della foresta immersa nei suoi pensieri. Non le feci altre domande e non parlammo per un po’. Camminavamo in silenzio. Il cuore mi faceva male. La sofferenza di Cassandra era anche la mia. Eravamo tutti collegati e sentire il suo dolore non mi dispiaceva. A ferirmi era il suo atteggiamento, mi tagliava fuori e non avrei voluto che lo fe. Però la capivo, quando si prova dolore per tanto tempo è difficile liberarsene.

Cassandra si bloccò di colpo «C’è qualcuno».

Da dietro un cespuglio si fece largo una figura. Veniva sempre più vicina, con determinazione.

«Alexa?» dissi sorpresa «Che ci fai qui?».

Alexa non rispose. Si avvicinò a me con lentezza. Quando mi fu a un palmo dal naso mi guardò dritta negli occhi. I miei piedi fecero un o indietro senza che glielo avessi ordinato.

«Alexa che ti prende?»

Non rispose. Sul viso le si disegnò un sorrisetto macabro. Prima che potessi fare qualcosa mi afferrò il braccio. La sua presa era forte e decisa. Sentii le ossa scricchiolare.

«Lasciala andare»disse Cassandra dura.

Alexa si voltò verso di lei ma non rispose.

«Lasciala andare » ripetéCassandra.

«Alexa mi fai male» le dissi dimenandomi dalla sua presa. Il suo sguardo su di me si fece cattivo. Un brivido mi percorse la schiena. Cos’aveva Alexa? Come mai era così strana?

Cassandra estrasse un coltello dalla tasca dei jeans. Alexa si mosse rapida, le afferrò il coltello e la scaraventò contro un albero. Non riuscivo a credere ai miei occhi.

«Alexa».

Alexa mi guardò dritta negli occhi. L’iride castano divenne completamente nero.

Mi si gettò addosso. Con una forza disumana mi buttò a terra facendomi sbattere la testa. Dal fondo della gola le uscì un ringhio cupo.

Avevo il coltello puntato al collo. La pressione che esercitava sul mio corpo era forte e possente. Non riuscivo a muovermi. Mi osservava. Prese a scrutare ogni centimetro del mio corpo: si soffermò sulla ferita che avevo alla mano. Fece un sorriso cupo.

«Alexa che diavolo stai facendo?» Ero terrorizzata.

Mi afferrò la mano e conficcò i canini appuntiti proprio al centro della ferita. Urlai. La mano iniziò a bruciarmi terribilmente. Mi piegai su me stessa. Alexa mi fissava. Gli occhi scuri emanavano eccitazione. Adesso se ne stava a quattro zampe con la bocca sporca di sangue. Cassandra mi si parò davanti. Si tolse il medaglione che aveva al collo e lo mostrò ad Alexa.

Una luce incandescente mi costrinse a chiudere gli occhi.

Cassandra pronunciò qualcosa in elfico antico. Aprii gli occhi e vidi Alexa ringhiarle contro.

«Kasira!» gridòCassandra.

La luce si affievolì. Lo sguardo agghiacciante di Alexa si puntò su di me.

Non vedevo alcun tipo di emozione in lei. Aveva i capelli spettinati, il viso teso e i muscoli del collo contratti. Se ne stava a quattro zampe pronta ad attaccare, con la bocca sporca di sangue. Chi era quella? Cos’era successo alla mia amica?

Un ringhio cupo e macabro mi perforò i timpani. Gli occhi neri e oscuri di Alexa furono l’ultima cosa che vidi prima che scomparisse nella foresta.

La mano bruciava terribilmente. Cassandra mi afferrò il polso. Creò una sfera di ghiaccio e la mise sopra la ferita.

«Attenuerà il dolore » disse.

Guardai nella direzione in cui era andata Alexa «Non capisco cosa le sia preso. Non sembrava nemmeno lei».

«Perché non era lei».

«Cosa vuoi dire? Quella era Alexa, la conosco da quando avevo tre anni».

«La Alexa che conoscevi non esiste più» disse mettendosi il ciondolo al collo.

«Ma che stai dicendo?»

«Quello era un Canai».

Mi massaggiai la mano «Cos’è un Canai?»

«Uno schiavo. Vengono creati con l’unico scopo di uccidere e da allora diventano schiavi del loro padrone».

«Questo è impossibile. Perché Alexa sarebbe diventata schiava? E di chi poi?»

«Non so chi l’abbia creata. Potrebbe essere stato il Nemico».

«E quando l’avrebbe fatto?»

«Direi da molto tempo».

«No. Mi rifiuto di credere a una cosa simile».

«Puoi rifiutarti quanto vuoi ma è la verità. Un Canai viene creato sulla base di sentimenti negativi come odio o rabbia. Per caso Alexa era particolarmente arrabbiata per qualche motivo?».

«Non lo so. Non credo».

«Non hai mai notato nulla di strano in lei?».

«Non lo so».

«C’è qualcosa che sai su di lei? Non la conoscevi da quando avevi tre anni?».

Inspirai a fondo «Noi siamo mai state molto unite. Non sono mai riuscita a fidarmi di lei, come se ci fosse un blocco da parte mia».

«Un blocco?»

«Sì. Ultimamente non riuscivo a dirle nulla».

«Si chiama istinto di autoconservazione. Gli elfi ne hanno uno parecchio sviluppato. Quando compare un blocco non è un caso, significa che qualcosa non va e il nostro istinto lo percepisce».

Riflettei un istante «Se i Canai sono schiavi dei propri padroni quando essi muoiono il Canai è libero».

«Ai Canai vieni iniettata della magia per aumentare il legame con il padrone. Quando esso muore il Canai si impadronisce del corpo che lo ospita e agisce sulla base dei sentimenti dal quale è stato creato».

«Che sentimento è stato usato per Alexa?».

«Da come si muoveva direi…Vendetta».

«Come possiamo salvarla?»

«Non possiamo. Non puoi. Non si torna indietro quando si è un Canai».

«Cosa ne sarà di Alexa?»

«Dovremmo darle la caccia. Non hai idea di quello che possono fare i Canai».

«Darle la caccia? La vuoi braccare come un’animale?»

«Alexa non esiste più»Cassandra mi fissò dritta negli occhi «Mettitelo bene in testa Zara, non ci sono più speranze per lei».

CAPITOLO 21 - Una nuova vita

Aprii la finestra della stanza lasciandomi pervadere dalla fresca brezza mattutina. Mi ero alzata prestissimo nonostante non avessi dormito tutta notte. Da quando avevamo sconfitto Morgan erano ate due settimane. La scuola era terminata e si preparava l’inizio delle vacanze.

Tutto sembrava essere tornato alla normalità.

I ragazzi si erano impegnati a sistemare la foresta provvedendo a sbarazzarsi delle carcasse dei Sicari, i miei zii si erano sistemati nella villa, avevano comprato un vecchio locale malandato e lo stavano ristrutturando.

Justin era guarito, non completamente ma ormai non si serviva più delle stampelle come nei primi giorni. Joslin aveva ricominciato a usare la magia. Azzurra e i membri del Consiglio se n’erano andati.

Pensavo spesso ad Alexa. L’avevo chiamata, avevo fatto ricerche sui Canai e non avevo trovato alcun modo per liberarla dalla maledizione che l’aveva resa schiava. Non sapevo dov’era né cosa ne sarebbe stato di lei.

Era colpa mia. Me lo sentivo, sapevo che la sua rabbia e la sua vendetta erano verso di me. Come potevo darle torto del resto? L’avevo ferita e trascurata e ora lei non c’era più. Justin e Matt avevano provato a rintracciarla ma non c’erano riusciti. I Canai si muovono in fretta e, se non vogliono farsi trovare, fanno in modo che questo non avvenga, era così che mi aveva detto Justin. Ma non mi davo per vinta. Avrei trovato Alexa e l’avrei riportata a casa. Pensavo che Kindra

mi avrebbe aiutata, ma non fu così. Non si faceva vedere più come prima: all’inizio spariva per ore poi per giornate intere. Qualcosa mi diceva che presto avrei perso anche lei.

Il fresco sulla pelle mi fece rizzare i peli delle braccia. Era giugno.

Tra qualche ora il caldo sarebbe diventato insostenibile.

Le ultime due settimane le avevo ate insonni, con incubi ricorrenti e pianti soffocati. Avevo sognato spesso mia madre.

Mi prepari con calma, avevo appuntamento con i ragazzi nella foresta due ore. Uscii di casa e mi avviai verso la foresta. Davanti all’edicola un signore aveva appena comprato il giornale. Mi fermai e lo presi anche io. In prima pagina si annunciava la fine delle stragi dell’Indemoniato.

“ La cittàtorna a vivere”.

Quando arrivai i membri del Consiglio e i ragazzi si trovavano davanti alle cascate, attorno al fuoco.

«Cosa stanno facendo?» domandai a Kindra che se ne stava in disparte dal resto del gruppo.

«Un tipico rito delle Shoulder Blade, consiste nell’incidere i medaglioni».

«Zara, vieni qua!» La voce di Carlos era profonda e decisa. Mi metteva sempre un po’ d’agitazione quell’uomo. «Molto bene figlie di Odino, sistematevi attorno al fuoco».

Le ragazze avanzarono subito. Fissai Darline senza capire e lei mi strattonò al suo fianco «Finalmente saremo riconosciute come delle vere Shoulder Blade» sussurròeccitata.

«Prima non lo eravamo?»

«Sì, ma non ufficialmente. L’incisione del medaglione è un o importante che ti consacra come protettrice della Bianca Terra della Pace».

«Un nuovo tassello che si aggiunge alla tua casata conferendogli onore e rispetto» disse Aimee emozionata.

«Una gran perdita di tempo» sbottòCassandra«Insommaè impossibile che tutti quelli che verranno dopo di me potranno essere incisi su questa pietra. È troppo piccola».

«Porta rispetto» la rimproverò Darline «È un rito molto antico».

Joslin non disse nulla. Si rigirava il ciondolo tra le mani, probabilmente, chiedendosi che fine avesse fatto sua madre.

«Darline, vieni avanti».

Darline inspirò profondamente e si diresse verso suo nonno eccitata.

Si inginocchiò. Carlos estrasse Heltayner e pronunciò qualcosa nell’antica lingua.

«Cos’ha detto?» domandai ad Aimee.

«Ha pregato Odino di vegliare sulla discendenza di Darline. Farà lo stesso con tutte noi».

Carlos tolse poi dall’elsa di Heltayner un diamante «Non vorrà mica incidere il medaglione con quello?».

«Certamente» rispose come se fosse la cosa più naturale del mondo.

«Aimee,è un diamante. Non può incidere il quarzo».

«Può farlo invece».

Carlos prese il medaglione di Darline, lo incise con il diamante e lo gettò nel fuoco. Vi immerse la mano e tirò fuori il ciondolo. Brillava.

«L’ha gettato nel fuoco per eliminare le imperfezioni e rendere più liscia la pietra»mi spiegòCassandra«Una cosa da veri perfezionisti.»

«Cassandra» sua madre la chiamò. Avanzò contro voglia verso di lei.

Carlos ripeté il rituale anche con me, Joslin e Aimee.

«Non sembri particolarmente entusiasta dell’incisione» la voce di Carlos mi fece rabbrividire «Devi andarne fiera. Ogni Shoulder Blade ha partecipato a questo rito».

«Oh, certo. Sono molto contenta dell’incisione».

«Non prenderti gioco di me Zara, sono anziano ma non stupido».

«Mi scusi. Non era mia intenzione mancarle di rispetto».

«Allora vuoi dirmi cosa ti turba?»

«Be’ non è nulla di importante».

Carlos mi lanciò uno sguardo torvo «Ho capito. Non ti fidi. Se ti andasse di parlarne puoi farlo prima della mia partenza».

«Ve ne andate?»

«Il nostro lavoro qui è finito. Dobbiamo tornare, la Rocca Forte ha bisogno di noi. Siete in buone mani».

«Carlos».

«Dimmi Zara».

Respirai a fondo «Cosa sapete sui Canai?».

Carlos si ò una mano tra i capelli grigi «Sono stato informato di quanto è accaduto alla tua amica e mi dispiace. I Canai vanno eliminati. Sono un pericolo».

«Ma potrebbe esserci una cura».

«Non esistono cure»disse Carlos duro«Dimenticati di lei perché quando la troveranno la uccideranno».

«Ma…».

«Questa è la nostra legge. Ti è assolutamente proibito violarla» mi guardò dritto negli occhi «Non sei più una ragazzina adesso, sei una Shoulder Blade. Non dimenticarlo».

«Certo».

«Un ultima cosa» si bloccò di colpo «Per nessuna ragione ti è permesso oltreare il confine. La Bianca Terra della Pace è l’unico posto in cui siete al sicuro. Conosci la punizione per chi vìola questa regola?».

«L’esilio».

«È tempo di andare» disse Fabio. Azzurra, al suo fianco, teneva Syla tra le mani.

«Un momento»Carlos avanzò verso Darline, le portò le mani sulle spalle poi disse: «Sono molto orgoglioso di te, sappilo».

«Faccio del mio meglio per non deludervi».

Carlos le diede un bacio sulla fronte poi lui e il Consiglio lasciarono la foresta.

La tasca dei pantaloni vibrò. Justin si avvicinò a me.

«È Laura. Le avevo promesso che ci saremo viste».

«Vai pure. Ci vediamo più tardi?» Annuii dandogli un bacio.

Il cellulare continuava a squillare. «Sì, Laura sto arrivando».

«Ho una cosa urgente da dirti. Muoviti».

«Dove sei?»

«Al centro commerciale».

«Arrivo subito».

Quando arrivai al centro commerciale Laura mi aspettava all’entrata. Aveva il braccio sinistro fasciato.

«Che ti è successo?»

Batté le ciglia piene di mascara «La tua amicaè una pazza».

«Di chi stai parlando?»

«Dell’unica amica che hai oltre a me!» Si diresse verso le scali mobili senza degnarmi di uno sguardo.

«Stai parlando di Alexa? Cosa ti ha fatto?»

«Mi è venuta addosso e con le sue stupide unghie mi ha graffiata».

«Quindi l’hai vista? Quanto tempo fa è accaduto?»

«Circa un’ora fa».

«E perché non mi hai chiamata prima?»

«Pronto? Mi ha graffiata. Siamo in piena estate non posso andare in giro con la pelle rovinata».

Mi ai le mani sulle tempie «Per quanto devi tenere le bende?».

«Fino a quando quegli stupidi segnacci non vanno via. La tua amica mi ha rovinato la vacanza! E non mi ha nemmeno chiesto scusa»

Si diresse verso il negozio di bikini «Deve avere qualche problema quella!».

«Fammi vedere» le dissi indicandole il braccio.

Laura alzò gli occhi al cielo «Sta attenta, mi brucia».

Sfilai piano le bende «Sono solo due graffi».

«Due graffi che rovinano la mia pelle» rispose lei in tono di stizza.

Le afferrai il polso e diedi un’occhiata, erano profondi.

Le lacerazioni erano state fatte con forza e precisione. Non era stato un’incidente. Non che avessi mai fatto caso alla lunghezza delle unghie di Alexa ma ero certa che questo avesse a che fare con il Canai.

«I tuoi progetti per le vacanze?» mi domandò Laura mentre ammirava i bikini come fossero opere d’arte.

«Nessuno».

«Nessuno?»

«Per il momento».

«Io andrò in crociera alle Hawaii» rispose entusiasta.

«Me lo avrai ripetuto almeno un milione di volte».

«Sì sì, una volta in più non guasta».

«Starai via un mese giusto?»

«Sì, parto a Luglio. Finalmente starò lontana da questa assurda città, piena di gente stupida e idiota».

«I riferimenti a Matt sono puramente casuali?».

Laura mi lanciò addosso un bikini e si diresse verso i camerini. S’infilò dentro uno di essi «È sparito nel nulla. Idiota».

«Pensavo che…».

«Non bisogna fidarsi delle persone. Non bisogna fidarsi di nessuno».

«Non è sempre così».

Scostò bruscamente la tendina e le lanciai il bikini.

«Magari hai ragione. Forse non tutti mentono».

«A volte si cerca solo di proteggere chi si ama».

«Oh Zara! Sono cavolate! Come può una bugia proteggere qualcuno?».

«In certi casi può farlo».

«Sono balle» disse uscendo dal camerino «Balle con la “b” maiuscola. Il tuo grado di popolarità a scuola ti sarà pur servito a qualcosa no?».

«Non pensavo di avere un grado di popolarità».

«Be’ c’è l’ hai ed è piuttosto evidente. Siamo giocatrici di pallavolo, abbiamo successo, tutti vorrebbero essere noi solo che non possono esserlo e allora fingono. Fanno finta di essere nostri amici e cose del genere».

«Sì, su questo hai ragione».

«Ho ragione su molto altro. Ad esempio sul fatto che questo bikini mi sta una favola!».

Risi. are del tempo con Laura mi faceva dimenticare tutto ciò che non fosse normale. Era così facile starle accanto e non pensare a nulla, guardarla mentre si provava bikini e scarpe con il tacco e altre cose inutili, sentirla blaterare di cose che nemmeno capivo. Era bello preoccuparsi per un secondo solo di cose stupide e senza senso. Volevo che Laura fosse al sicuro, non ero stata in grado di proteggere Alexa e non avrei mai permesso che accadesse lo stesso anche a lei.

«Mi mancherai» le dissi.

«Mi stai abbracciando?»

«Sì».

«Oh. Non sono pratica di queste cose».

«Non fa niente».

«Non sarai mica incinta?»

«No» dissi ridendo «È solo che mi mancherai».

Sentii le sottili braccia di Laura avvolgermi «Sì be’, ci terremo in contatto immagino».

«Promettimi che starai attenta» le dissi.

Laura annuì e mi trascinò fuori dal centro commerciale.

«Ti do uno strappo a casa?»

«Vado a piedi».

«A presto Monthgomery ».

«Ciao».

Mi incamminai verso casa. Faceva un caldo tremendo e lo detestavo.

Mi rigiravo il medaglione di mia madre tra le dita.

«Ti ho cercata dappertutto» la voce di Agnes era allegra.

Non ci parlavamo da un po’. Avevo chiarito le cose con mia zia ma con il resto della famiglia non avevo parlato.

«Ehi».

«Che ci fai in giro tutta sola?»

«Sono stata un po’con un amica».

«E come ti sei sentita?»

«Umana».

Agnes sorrise «Eureka è bellissima».

«Scusa ma credo che Seattle sia decisamente meglio».

«Può darsi. Però è qui che sono nata».

Camminavo con la sguardo basso e sentivo lo sguardo di mia cugina addosso. «Sono contenta che tu e mia madre abbiate chiarito».

«Anch’io».

«Ti devo delle scuse».

«Non è necessario».

Mi afferrò il polso costringendomi a guardarla negli occhi «Sì, invece. Ti fidavi di me ed io ho tradito la tua fiducia. Mi dispiace».

«Facevi quello che era giusto».

«Quando sei venuta a Seattle avrei tanto voluto vederti felice ma sapevo che non lo eri. Mi sarebbe piaciuto dirti la verità so che…».

«Non potevi… Lo so».

«Io ti voglio bene Zara».

«Ti voglio bene anch’io».

«Stavi andando da qualche parte?» mi chiese sorridendo.

Scossi la testa «Camminavo e basta».

«Possiamo andare alla foresta».

«Sì, è una bella idea» feci una pausa «Sai qualcosa dei medaglioni?».

Mi fece cenno di seguirla. Arrivammo alla foresta in un lampo. Mentre percorrevamo la strada che portava alla villa, Agnes mi spiegò tutto quello che sapeva sui medaglioni «Mia madre mi ha detto che furono forgiati da Odino come segno di riconoscimento, poi sono stati tramandati di generazione in generazione».

«Perché Crystal non ne ha uno allora?»

«I medaglioni posso portarli sono le Shoulder Blade».

«Come mai mia madre era uno di loro e Crystal no?».

«Da quello che ho capito, le Shoulder Blade si scelgono».

«Che vuoi dire?»

«La legge vuole che le Shoulder Blade siano solo femmine. Nel caso in cui una precedente Shoulder Blade abbia dei figli la scelta dell’eredeè molto delicata: se ha una sola figlia femmina non è un problema ma se ha due figlie femmine sta alla madre decidere chi delle due sarà la sua discendente».

«Come fa a fare questa scelta?»

Agnes si fermò un attimo «È qualcosa che sente dentro. Quando nostra nonna era una Shoulder Blade credo che sapesse fin da subito che sarebbe stata Jylien la sua erede».

«A tua madreè mai dispiaciuto di non essere stata scelta?».

«Non lo so. Forse, all’inizio magari. Il fatto è che non si può andare contro il volere di una Shoulder Blade. Una volta decisa chi sarà la sua erede non si può tornare indietro».

Rimasi in silenzio.

«A cosa stai pensando?»

«Vorrei sapere perché mia madre ha scelto me».

Agnes sorrise «Forse non c’è una ragione precisa. Sapeva che eri destinata a fare grandi cose e aveva ragione» mi guardò negli occhi «Ho visto quello di cui sei capace. Sono molto orgogliosa di te. Ce l’hai fatta».

«Lo so».

«Se avessi dei figli maschi sarebbe un problema?».

Agnes scoppiò a ridere «Pensi già ai figli?».

«No» risposi imbarazzata «Hai detto che l’erede deve essere femmina quindi mi stavo chiedendo cosa accadrebbe se nascessero figli maschi».

«Non so dirtelo. L’erede deve essere femmina. Immagino che tu e Justin ci lavorerete… un giorno» rispose ridendo.

«Non credo che accadrà».

«Non vergognarti,è una cosa naturale» Agnes affrontava l’argomento in modo

tranquillo e rilassato mentre io non desideravo altro che seppellirmi per l’imbarazzo. Mia cugina mi diede una gomitata «Alla fine sembra che tu abbia dato una possibilità a qualcuno».

«Ho seguito il tuo consiglio».

«Ne èvalsa la pena?»

«Sì, direi di sì».

«Siamo arrivate alla cascate» disse Agnes.

Ci avvicinammo di qualche o e scorgemmo Justin, Edzard, Alan e Matt.

«Cosa sta succedendo?» domandò mia cugina.

Matt piombòdietro Agnes e l’afferrò per la vita «Lascia che te lo spieghi».

«Io» disse Edzard «voglio chiedere ad Aimee di sposarmi».

«Davvero?»

Edzard annuì. Justin gli si avvicinò «Dirà di sì».

«Speriamo» disse Alan.

«Sarà qui a momenti» rispose Edzard «Sono davvero nel panico».

Mi avvicinai a lui e gli presi la mano «Andrà tutto bene. Non ho mai visto nessuno amarsi per cosìtanto tempo».

«Lei è la mia anima» disse Edzard

«E tu sei la sua».

«È arrivata» sussurrò Alan.

Aimee arrivò insieme a Joslin, Cassandra e Darline.

«Abbiamo fatto un giro in città » disse Darline.

Justin mollò una gomitata a suo fratello.

«Com’è stato?» chiese Edzard.

«Bello. Da quando siamo arrivati qua non avevamo avuto tempo di visitare la città» rispose Aimee.

«Sono cambiate molte cose»disse Cassandra.

«E molte altre cambieranno» le fece eco Matt.

«Cosa vuoi dire?» chiese Aimee.

Gli occhi giallo-verdi di Edzard si puntarono su Aimee «Devo dirti una cosa». Aimee lo guardò confusa «Non dire niente. Ascolta solo quello che ho da dire.»

Edzard s’inginocchiò ed estrasse un anello di diamanti «Quando ti ho conosciuta avevamo all’incirca sei anni e ho subito pensato che fossi la bambina più bella che avessi mai visto. È ato del tempo da allora ma io continuo a credere che tu sia la ragazza più bella di tutte. Hai gli occhi più sinceri e onesti che abbia mai visto e riesci a rendermi una persona migliore. Sei la mia anima gemella e non sarei quello che sono se tu non fossi al mio fianco. Ecco, vorrei continuare ad averti al mio fianco ed io vorrei essere al tuo, giorno dopo giorno, fino alla fine. Sono pieno di difetti e sono un totale disastro però, nonostante questo… Aimee Stevenson, vuoi diventare mia moglie?».

Cadde il silenzio. Trattenevamo tutti il respiro in attesa della risposta di Aimee. Lei, immobile, non staccava lo sguardo da Edzard. A un tratto i suoi occhi si

spostarono sull’anello. Lo fissò un momento poi s’abbassò all’altezza di Edzard. Gli sollevò il mento e lo guardò negli occhi «Se non me l’avessi chiesto tu, l’avrei fatto io. Te lo giuro» rise «Hai idea di quanto tempo c’hai messo per chiedermelo?».

Edzard le infilò l’anello al dito e la baciò. Si strinsero forte l’uno all’altra. Aimee pianse dall’emozione mentre accarezzava il viso del suo futuro marito. C’era così tanto amore nei loro occhi e nei loro gesti e nelle loro parole che era impossibile non augurargli il meglio. I ragazzi applaudirono per la gioia. Non li avevo mai visti così felici e quasi mi vennero le lacrime agli occhi. La mano di Justin scivolò tra la mie. Edzard e Aimee avrebbero presto iniziato la loro nuova vita insieme. Un giorno forse sarebbe capitato anche a noi, ma non adesso.

ammo le due settimane successive a organizzare il matrimonio sotto le direttive di Edzard che sembrava avere già in mente questo momento da parecchio tempo. Ogni cosa era già stata progettata nei minimi dettagli: la cerimonia si sarebbe tenuta nella sala da ballo della villa, poi tutto si sarebbe spostato nella foresta che io e le ragazze stavamo allestendo per il rinfresco. Aimee non doveva sapere nulla del suo matrimonio così mia zia si era offerta di portarla in giro in cerca dell’abito da indossare.

«Hai mandato gli inviti?» Edzard mi piombò addosso all’improvviso mentre mi recavo al piano superiore della villa con gli abiti delle damigelle.

«Sì, Edzard me lo hai già chiesto tre volte questa mattina».

«Ah okay… perfetto. E il catering è arrivato?»

«Arriverà a momenti».

«Hai detto agli invitati di essere puntuali?».

Respirai profondamente «Edzard, il tuo abito te lo sei provato?».

«Diamine! Lo sentivo che c’era ancora qualcosa da fare».

«Ecco, appunto. Allora lascia che Zara faccia il suo lavoro, mi occuperò io di te» disse Alan afferrandolo e trascinandolo al piano di sotto.

«Posso entrare?» chiesi bussando alla porta della camera di Aimee che Darline aveva chiuso a chiave per evitare che qualche ospite indesiderato entrasse.

«Oh sono i nostri abiti!» esclamò strattonandomi dentro.

Non ebbi nemmeno il tempo di poggiarli sul letto che mi sparirono dalle mani. Joslin e Darline li scrutavano eccitate.

«Sono bellissimi» affermò Joslin infilandosi subito il suo.

«Com’è possibile che un uomo abbia scelto abiti del genere?»Cassandra scrutò il suo vestito con attenzione.

«Infatti li ho scelti io. Okay, Edzard se la sta cavando alla grande ma per certe cose ci vuole un tocco femminile» rispose Darline orgogliosa. «Su avanti Zara, indossa il tuo. Quando arriverà Aimee ci concentreremo interamente su di lei».

«Come farà a entrare senza notare nulla? Ci sono camerieri e fiorai dappertutto» chiesi perplessa. Un istante dopo mia zia arrivò in camera entrando dalla finestra. Aimee era bendata. Darline prese il vestito da sposa che Crystal aveva scelto per Aimee e lo poggiò sul letto.

«Posso togliermi la benda adesso?»

«Sì, certo» rispose Crystal.

«Siete stupende» disse Aimee osservando i nostri abiti da damigella.

«Sì sì, lo sappiamo ma non c’è tempo da perdere. Su cambiati, fra meno di due ore ti sposi.» Joslin le pose il suo abito.

«Noi andiamo a supervisionare il resto delle cose. Zara resteràcon te» disse Darline.

«Ci vediamo dopo».

Non appena mia zia e le ragazze uscirono Aimee prese il vestito e lo indossò: era un classico abito a sirena bianco che aderiva perfettamente al suo corpo sottile.

«Ti piace?» le chiesi.

Si diresse verso lo specchio e si squadrò «Non riesco a credere che sto per sposarmi».

«Nervosa?»

«No, è quello che ho sempre desiderato. Sono piuttosto tranquilla, a dire il vero».

«Allora cosa c’è che ti preoccupa?»

«Nulla davvero. Sono emozionata. Oggi rivedrò la mia famiglia» la guardai senza capire «Non sono pazza» disse «Lo so che loro sono morti ma c’è un’antica leggenda elfica che dice che il giorno delle nozze se l’amore tra i due elfi è sincero e puro, alla sposa compariranno tutti i suoi antenati. Io sono sicura dell’amore di Edzard e quindi so che li rivedrò».

Non l’avevo mai vista così felice.

«Vieni, ti sistemo i capelli e se ci riesco, ti trucco. Non sono brava in queste cose».

«Farai un buon lavoro».

Per sistemarle i capelli impiegai un’ora buona, quando le ragazze entrarono in camera con il bouquet, rimasero allibite dal mio lavoro sui capelli di Aimee e vollero che fi qualcosa anche a loro. Al trucco però ci pensòDarline poiché non era decisamente il mio campo. Una volta pronta mi recai al piano di sotto per vedere come se la stavano cavando i ragazzi. Erano in soggiorno e Matt si trovava alle prese con la cravatta di Edzard che faceva fatica a sistemare.

«Senti è da tre ore che combatti con questa cosa, forse è il caso che io non la metta».

«Ma andiamo, ci sono quasi riuscito!» esclamò Matt.

Justin si sistemava la sua da solo.

«Perché lui ci riesce e tu no?» sbottò Edzard mettendosi le mani nei capelli. Alan scoppiò a ridere.

«Okay» disse Matt «se sei così bravo perché non gliela metti tu quella cosa».

«Lo farei volentieri ma non posso muovere il braccio» rispose Alan trattenendosi dalle risate.

«Se continui a ridere, ti rompo anche l’altro» ringhiò Matt.

«Lascia fare a me» disse Justin. Si avvicinò a Edzard e iniziò a sistemargli la cravatta.

«Dove hai imparato?» gli chiese Edzard.

«Be’, sapevo che questo giorno sarebbe arrivato prima o poi così mi sono allenato».

«Sei partito avvantaggiato».

«Sì, diciamo di sì» Justin sorrise «Ecco, adesso sei a posto».

«Senti, c’è una cosa che ti volevo dire».

«Dimmi pure».

«Ascolta, questo matrimonio non cambierà le cose. Cioè, le cambierà ma non così tanto. Non ti abbandonerò» Justin si voltò verso il fratello «Puoi sempre contare su di me perché non smetterò di occuparmi di te».

«So che lo farai ma non devi preoccuparti. Questo è il tuo giorno e voglio solo

che tu sia felice».

«Sei un bravo fratello».

«Anche tu non sei male».

Bussai alla porta «Siete pronti?»

Justin si voltò verso di me. I suoi grandi occhi verde scuro mi fissarono, la bocca aperta a mezz’aria come per trattenere un respiro.

Mi avvicinai lentamente «Non so camminare sui tacchi. Credo che non imparerò mai».

«Sei bellissima» sussurrò.

«Che c’è?»

«Nienteè solo che nessuno mi aveva mai detto una cosa simile».

Justin storse il naso «Non credo sia così».

Mi corressi «Nessuno l’aveva mai fatto nel modo in cui lo fai tu».

Justin annuì prendendomi la mano.

«Come sto?» chiese Edzard nervoso.

«Stai benissimo» risposi.

«Bene» inspirò a fondo «Devo chiederti una cosa. Hai visto Aimee?»

«Sì».

«Lei com’è?»

«Resterai a bocca aperta».

Scortammo Edzard nella sala da ballo. Edzard si sistemò davanti al prete, Justin al suo fianco. Quando arrivò Aimee, sentii i battiti del cuore di Edzard rimbalzarmi nel petto. Gli invitati rimasero a bocca aperta ad ogni o che faceva. Era bellissima. Camminava dritta con gli occhi luccicanti senza alcun timore. A un tratto si fermò. La vidi fissare un punto oltre il prete. Sorrise e avanzò di nuovo fino a raggiungere Edzard.

Doveva aver visto la sua famiglia perchécosì tanta gioia si può provare solo nel rivederla. Forse alcune leggende celano dentro di sé qualcosa di vero. Mi vennero i brividi quando si scambiarono le fedi: non erano d’oro ma d’argento e avevano inciso su di esse una promessa di matrimonio in stile elfico.

Kindra se ne stava in un angolo con in braccio Helan. Il matrimonio era finito e la cerimonia si stava svolgendo nella foresta.

«Non ti unisci alla festa?» le chiesi avvicinandomi a lei.

«Davvero riesci a camminare su quei cosi?».

«No, a dire il vero no».

«I matrimoni fanno schifo. Ti rovinano solo il trucco».

«Non dirmi che ti sei commossa?»Kindra mi lanciò un’occhiataccia «Non ti ho visto durante la cerimonia».

«Ti ho detto che i matrimoni fanno schifo».

Ignorando la sua affermazione dissi: «Credo che Aimee abbia visto i suoi antenati. Dunque è una cosa vera?»

Sospirò poi disse: «Rivedere i defunti il giorno del proprio matrimonio èda masochisti… ma ad alcuni da speranza. Inoltre per la nostra cultura è un buon segno».

«È mai capitato che qualche sposa non li abbia visti?».

L’espressione sul viso di Kindra divenne dura e fredda «Sì».

«Be’…».

«Non cercare parole confortevoli perché non ce ne sono. La cosa è molto semplice. Non tutti hanno un lieto fine».

«Tu sai quand’è successo?»

«Mi viene in mente qualche esempio».

«Tipo?»

«Al mio matrimonio».

«Mi dispiace. Avrei dovuto farmi gli affari miei».

«Sì, ogni tanto dovresti».

Feci un o verso di lei.

«Non ti azzardare a compatirmi».

«No, certo» dissi voltandomi.

«Dove vai?»

«Torno al matrimonio» in lontananza scorsi Justin «Mi stanno aspettando».

Helan miagolò quando vide Justin arrivare.

«Dobbiamo parlare» disse Kindra.

«Lo faremo appena finito il matrimonio» risposi lanciando un’occhiata a Justin.

«No» rispose lei dura «Dobbiamo farlo ora».

«Senti se non vuoi partecipare per quello che ti è successo, lo capisco…».

«Non c’entra quello» disse «Me ne vado».

«No. No… tu… tu non puoi andare via. Perché mi fai questo?»

«Me ne vado, Zara» ripeté fissandomi negli occhi.

«Non puoi farlo».

«Lo sto già facendo».

«E quando pensi di andartene?» Kindra non rispose «Tu… vuoi andartene adesso?».

«È la cosa giusta da fare».

«Perché vuoi andare via?»

«Perché tutte queste domande?»

«C’è n’è solo una di domanda!» sbottai con le lacrime agli occhi «Perché vuoi andartene?».

«Pensavo che avresti festeggiato».

«Non hai risposto alla mia domanda».

«Non ho più nulla qui. Ho fatto quello che dovevo fare» il suo tono di voce era stranamente calmo e pacato. Notai allora che aveva uno zaino sulle spalle.

«Te ne vai per Morgan? »

«Ho saldato tutti i conti con il mio ato e ora devo solo andare avanti».

«Potresti farlo qui».

«Non sono una donna di legami».

«Avresti una famiglia» dissi «Potresti essere di nuovo la persona che mia madre ha amato per tutta la sua vita».

«Ma io non sono più quella persona» rispose alzando la voce.

Respirai a fondo «L’hai già detto ai ragazzi?».

«Lo sapevano già. Lo sapevano fin dall’inizio».

Ruotai lo sguardo verso Justin «Questo che significa?».

«Non ha importanza» rispose subito Kindra «Tu dovevi saperlo da me».

«Almeno su una cosa siamo d’accordo».

Kindra estrasse dallo zaino il diario di mia madre e me lo porse «Devi tenerlo tu. È tuo».

«Non posso».

«Avanti prendilo» insistette Kindra.

«Ho detto di no!»

«Prendi questo maledetto diario, dannazione!».

«Se lo prendessi, significherebbe che sono d’accordo con la tua scelta ed io non lo sono».

Kindra non poteva andarsene. Non poteva farmi questo, non adesso che avevo bisogno di lei più che mai. Come avrei salvato Alexa senza il suo aiuto? Cosa avrei fatto senza di lei? L’avevo odiata così tanto che mi ero dimenticata quanto l’amore e l’odio fossero legati, quanto bastasse poco ad affezionarsi a qualcuno. Mi aveva distrutto fin dall’inizio, mi aveva abbattuto come nessuno aveva mai fatto eppure non aveva fatto altro che aiutarmi. Mi rendevo conto soltanto adesso di quanto avesse fatto per me e l’idea che anche lei mi abbandonasse mi uccideva. Era come perdere mia madre una seconda volta e proprio come la prima, non potevo fare nulla per impedirlo. Dovevo lasciarla andare, era il suo volere e non sarei mai riuscita a farle cambiare idea. Kindra era uno spirito libero e in questi ultimi anni aveva vissuto in gabbia troppo a lungo.

Rimise il libro nello zaino, poi disse: «Dite ad Aimee che Helan odia il cibo per gatti, che non le venga in mente di comprarlo. Gli piacciono le carezze ma solo quando gli vanno e…be’ non ha orari, entra ed esce quando vuole».

«Lo lasci ad Aimee?» Se aveva deciso di lasciare Helan voleva dire che forse non sarebbe più tornata.

«Diciamo che è un regalo di nozze. Ne ho uno anche per te» mi lanciò un mazzo di chiavi.

«È nel tuo garage. Così magari la pianti di girare in autobus».

«A me piace l’autobus».

«Non dire idiozie».

«Non so come lo spiegherò ai miei».

«Ora vado»disse salutando Helan.

«Aspetta» mi avvicinai a lei e la abbracciai. Sentii il suo cuore battere allo stesso ritmo del mio. «Mia madre sarebbe fiera di te».

«No. Sarebbe fiera di noi» rispose. Il suo sguardo cadde su Justin.

Lui s’avvicinò e l’abbracciò. Come presa dalla sindrome di Stendhal rimasi a osservare in silenzio quell’abbraccio idilliaco. Era forse una delle cose più belle che avessi mai visto, l’amore di una madre per un figlio, nato da un grembo che non era il suo.

«Salutami Edzard e… Justin?»

«Sì?»

«Resterai sempre mio figlio».

«Ci rivedremo presto mamma».

Kindra fece un sorriso tirato e prima che potessi dirle addio, scomparve nella foresta. Mi sarebbe mancata, ma lei mi aveva reso forte abbastanza da superare anche questa distanza. Aveva calcolato tutto, sin dal principio.

Mi avvicinai a Justin, lui mi prese per i fianchi, mi spostò i capelli dal viso e dolcemente mi baciò.

«Vuoi tornare alla festa?»

«Veramente vorrei vedere la mia macchina».

In un nano secondo ci ritrovammo davanti al mio garage e rimasi sbalordita dall’enorme macchina che mi aveva regalato. Salii al volante e sul cruscotto trovai un mazzo di rose bianche con un biglietto: “Questi sono per te. Io sono già ata al cimitero e l’ho salutata. La macchina è una bomba, se le fai anche solo un graffio ti squarto con il pensiero".

Abbozzai un sorriso e chiesi a Justin di guidare «Mi porti in un posto?».

«Dove dobbiamo andare?»

«Al cimitero».

Quando fummo davanti al cimitero, iniziò a piovere. Pensai che a Edzard fosse venuto un colpo ma che Aimee avesse trovato sicuramente il modo di far divertire lo stesso tutti, magari ballando sotto la pioggia.

«Vuoi che venga anch’io?»

«Ci metto un secondo».

Misi il coprispalle in testa e corsi verso i miei genitori. Sulla tomba di mia madre c’era un’orchidea e accanto ad essa un incisione elfica. Fissai il viso di mia madre e poggiai i fiori.

«Ho mantenuto la promessa. Ora sto meglio, non devi più essere in pensiero per me».

Mi voltai di colpo e al mio fianco c’era Justin con un ombrello in mano «Sono testardo» disse tirandomi sotto l’ombrello.

Mi accoccolai accanto a lui e fissando il volto di mia madre sussurrai «Buon compleanno mamma».

Table of Contents

PREFAZIONE CAPITOLO 1 - Risveglio CAPITOLO 2 - Tensione CAPITOLO 3 - La visita CAPITOLO 4 - Curiosità CAPITOLO 5 - Il torneo CAPITOLO 6 - Rosa rossa CAPITOLO 7 - Con il fiato sul collo CAPITOLO 8 - Segreto CAPITOLO 9 - All’improvviso CAPITOLO 10 - Accettazione CAPITOLO 11 - Macabre realtà CAPITOLO 12 - Qui, dove batte il cuore CAPITOLO 13 - Sempre più vicini CAPITOLO 14 - Imprevisto CAPITOLO 15 - Zombie CAPITOLO 16 - Ombre dal ato CAPITOLO 17 - Faccia a faccia

CAPITOLO 18 - Ossa rotte CAPITOLO 19 - Cenere CAPITOLO 20 - Tempesta CAPITOLO 21 - Una nuova vita