class="center">Deborah Soni class="center">Sick Heart class="center">Lettere Animate Editore
Isbn: 978-88-6882-320-7
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class="right">A SICK. class="right">A JACOPO. class="right">E A TUTTE LE PERSONE CHE MI HANNO DATO LA POSSIBILITA’ DI SOFFRIRE, CAPIRE, CRESCERE, DIVENTARE CIO’ CHE SONO.
MONKEY MAN
Ingabbiata in uno dei suoi tanti viaggi mentali, camminava con il solito o da scimpanzé asociale per le vie di una città che ormai non le riservava più alcuna sorpresa. Sguardo fisso sul grigio di un asfalto disseminato di cacate canine e sputi di vecchi alcolizzati inebetiti dalla quotidianità. Pensava. A come sarebbe stata più semplice la vita se fosse riuscita a guardarla dal pianoterra invece che da sei metri più in su. A come sarebbe stato indolore esistere accettando le cose per quelle che sono, senza idealizzare. Senza sognare, forse. Alzò per un secondo gli occhi, giusto per essere sicura di non schiantarsi contro qualsivoglia creatura di umane sembianze. Furono i suoi occhi, invece, a schiantarsi. Un ragazzetto – avrà avuto vent’anni – stava camminando con lo stesso o da scimpanzé asociale nella sua direzione. Viso simpatico, occhi dolci e classica rasata con basettoni alla skinhead. ‘Alla skinhead?’, si chiese Deb improvvisamente. Certo, guardandolo meglio….cazzo, aveva i jeans col risvolto, boots neri e lacci gialli. Com’era quella teoria sui lacci dei Doc. Martens? Bianchi = nazi, rossi = comunisti, blu = contro la polizia, gialli =…. O era rossi = nazi, gialli =…. ‘Merda’ pensò, ‘andassero tutti affanculo, con le loro teorie sui lacci colorati!’ Il piccolo skin, giunto alla sua altezza, fissò rapidamente la toppa S.H.A.R.P. ( Skinhead Against Racial Prejudism) sulla giacca di lei. ‘Fa che non sia un nazi, dio bono, o sono nella merda’ pensò Deb. Lui la guardò.
‘E’ un nazi! Lo sento, lo sento….mi vuole picchiare.’ Lo skin sollevò un pugno chiuso in aria e, corrugando le sopracciglia in modo buffo, le disse: “ Oi!”. ‘Oi ?’ pensò lei, ‘ha detto Oi! Oi e pugno chiuso? E’ uno skin antifascista? Ma esistono skins in questo buco di culo di paese? Non è possibile. E io non ne ero a conoscenza? Creature simili….no, non ci credo!’ Solo dopo 20 secondi abbondanti l’idiota pensò che, forse, era buona educazione rispondere ad un ‘Oi!’ gridato per la strada. E solo allora si rese conto che il piccolo skin era già 40 metri più in là. “Oi!” gli urlò, ben cosciente che lui non avrebbe sentito, perso com’era tra insulsi rumori metropolitani. Pensò di rincorrerlo ma, considerata l’andatura da animale inferocito, abbandonò l’idea in meno di un nanosecondo. ‘Che cogliona!! Uno skin. Uno vero. Uno che cammina pure più veloce di me. Chissà se lo rivedrò. Cogliona!’ Era talmente incazzata che provò a sputare in terra. Si era completamente dimenticata della sua totale estraneità all’arte dello sputo liberatorio. I risultati furono i medesimi di tutte le altre (quattro) volte che tentò l’operazione: si riempì la bocca di bava, e chiazze schiumose la sbeffeggiarono dal nero degli anfibi. “Fanculo!” ringhiò al marciapiede.
SUBURBAN REBELS
Era proprio lui. Gli si avvicinò per guardarlo meglio. Il sugo gli colava ai lati della bocca e del naso, fino ad arrivare alla candida scritta ANTIFA HOOLIGAN che spiccava sulla maglia nera. Le guance gonfie e strapiene nell’atto della masticazione quasi gli modificavano i connotati, rendendolo simile ad un criceto sovrappeso. Ma era lui. Deb non aveva dubbi, anche se non lo ricordava così basso. Ora anche il piccolo skin la stava guardando. Come in un fermo-immagine, rimase immobile per qualche secondo interrompendo il movimento mandibolare, con il pugno stracolmo di pasta affogato nel piatto. Aprì la bocca, nell’intento di dirle qualcosa, mentre pezzetti di cibo gli rotolavano dalle guance a criceto fino al pavimento. Deb lo guardò porgerle la mano piena mentre, sputacchiando, pronunciò la sua prima parola….. “Vuoi?” Lei ricambiò lo sguardo intenso. Il battito del suo cuore accelerò fino a raggiungere il ritmo della batteria del gruppo punk che stava già dandoci dentro sul palco. Gli sorrise, dicendo:” No, grazie, ho già mangiato. Ma perché non provi a chiedere alle mie amiche, lì?” Non se lo fece ripetere due volte, il piccolo skin: girò per tutto il circolo, tentando di elargire manciate di generosità ad individui troppo immersi nel loro atteggiarsi, per apprezzare quel gesto di genuina bontà. Una volta ripulito il piatto (ma non le mani), ronzò di conoscente in conoscente, tirando energiche pacche sulle spalle in segno di saluto. Deb, a quel punto, era già piegata in due sulla sedia, intenta a contrarre tutti i muscoli facciali in un susseguirsi di risa violente. Già gli voleva bene a quella creatura!
Lo fissava dalla sedia a fianco. Osservava la sua instabile quiete. Come un
animale selvatico all’erta. “Io mi chiamo Deb.” “Io Brillo. Ciao”. Allungò la mano, questa volta ripulita. “Brillo nel senso di ubriaco?” “Eh già. Certi soprannomi te li guadagni e non riesci più a levarteli dalle palle!” “Ma cosa ci fai qui?” “Guardo il concerto. Tu no?” “Più che altro sono venuta a trovare un paio di amici. Ci sono rimasta male l’altro giorno, quando mi hai detto ‘Oi!’: non pensavo esistessero skins a Verbania. Per un attimo ho anche creduto che tu fossi un nazi.” “Minchia no!!! …..BUUUUURRPP…” Dopo 45 secondi di conversazione, già ruttava. Che esserino adorabile! “Aspetta, ho una cosa per te.” disse Deb. Lui la contemplò con aria interrogativa. “Ecco. La mia fanzine”. Tirò fuori una trentina di fogli fotocopiati tutti spiegazzati. “La tua che?” “Non dirmi che non sai cosa è una fanzine. È una specie di rivista con interviste, recensioni, opinioni, in ambito ska, punk, Oi!, hardcore. Ma è molto più casalinga di una rivista. Prodotta in proprio, fotocopiata alla cazzo di cane. La faccio circolare nei concerti.” Lui la fissò per un attimo, tra le sue mani, come fosse un oggetto assolutamente sconosciuto al genere umano. Materiale cartaceo alieno, all’incirca. “ESCREMENTI” grugnì lui inarcando all’insù gli angoli della bocca, “Perché l’hai chiamata così?” “E’ una storia lunga ma, in sintesi, c’è il pensiero di un mio amico che racchiude
l’esatto significato: ‘Per fortuna c’è la merda, che almeno è sempre quel che sembra’ .” “Eh???” “Insomma, in un mondo di plastica, falso e ipocrita, per fortuna c’è ancora qualcosa di vero e genuino (anche se puzza e fa pure un po’ schifo)” “Ah…..oh aspetta che ti presento un amico…Rabbooooooooo” urlò, “vieni qua bastardoooo!” Uno spilungone biondo, coi capelli sparati in aria, si avvicinò. Deb aveva già visto (e rincorso) anche lui, per le vie di quel buco di culo di paese. Lo aveva scambiato per un punk crucco, in realtà: talmente chiaro -di capelli, occhi e pelle- da sembrare quasi albino. Pantaloni militari infilati negli anfibi (lacci rossi eh!!), cinturone borchiato, chiodo con logo dei Wretched. Le venne da ridere appena lo guardò. La squadrava dall’alto dei suoi 190 e più centimetri, con quella faccia ebete. Occhi annacquati di birra ed annebbiati dal fumo. “Ciao, sono Rabbo. Se hai bisogno di qualcuno da stuprare mi offro volontario”. Deb sorrise. ‘Ecco il solito punkettino coglioncello’, pensò. Sembrava molto giovane: pelle liscia, senza ombra di barba, lineamenti quasi infantili. Assomigliava a un CICCIOBELLO, uno di quelli che i nonni le regalavano sempre per natale, da bambina. “Da stuprare?” gli disse, “dipende quanti anni hai.” “Quasi 18” “Cazzo, se sei minorenne non si può” “Ma sono consenziente!” “Sì, ma io potrei essere tua madre.”
“Che cazzate! Quanti anni hai?” “30” “Ma vai a cagare. Non ci credo” “Vuoi che ti mostri la carta d’identità?” “Senti, se proprio non ti piaccio basta dirlo!” Lo guardò per qualche secondo. Era proprio un gran bel pezzo di gnocco, nonostante il viso da bambino. “No, no, veramente sei molto….carino” “Carino? Carino come un pelouche?” “Ehm….sì” “Un pelouche di gommapiuma?” “S…sssì!” Rabbo, con un gesto rapido e traballante, roteò su sé stesso, salutando. Lei lo scrutò per qualche minuto ancora, giusto il tempo di vederlo avvicinarsi buffamente ad un gruppo di ragazze e di dire loro:” Ciao, sono un pelouche di gommapiuma. Se avete bisogno di qualcuno da stuprare mi offro volontario.” Deb e Brillo si misero a ridere, scuotendo la testa in segno di rassegnazione.
Li ritrovò entrambi seduti all’esterno, sul prato, finito il concerto. “Ma a te ti conosco” disse, rivolta al punkabbestia sdraiato al loro fianco. “Davidino!” “Ciao, dèh, quanto tempo… Però chiamami Davs. Sai, ho già 27 anni e una reputazione da difendere!” Deb stava ricordando la prima volta che lo vide in città. Fu quasi uno shock, per
lei: il primo vero punk mai conosciuto. Non era cambiato di una virgola: a parte i capelli più rasati ai lati, stesso abbigliamento caotico (sembrava un quadro di Picasso), stesso quintale e mezzo di metallo a penzolargli da vari squarci di pelle, stesso sguardo profondo. “Ma che fine hai fatto? Non ti ho più visto!” esclamò Deb, interrompendo la linea malinconica dei suoi ricordi. “Ho vissuto un paio di anni al Cavalcavia di Novara” “Il centro sociale?” “Sì. E te? Che fine ha fatto Giuliano?” “Ci siamo lasciati quasi un anno fa” “Non ci credo. Era una vita che convivevate, no?” “Sì. Ormai è ata, dai. Ma che ci fai qui?” “Con Rabbo a vedere il concerto. Ma lo conosci?” le chiese, indicando il coglioncello punk collassato nell’erba. “Sì” “Eh sì che mi conosce” resuscitò il bimbo. “Sono il suo pelouche di gommapiuma!”
“Ha ricominciato a piovere?” chiese Deb. “Mah…non sembra” disse Rabbo. “Io però l’ombrello lo prendo, tanto non è nemmeno mio. L’ho rubato oggi a scuola”. S’incamminarono tutti assieme lungo il canale, diretti verso l’unico pub ancora aperto a quell’ora. Brillo, Rabbo, Davs, Deb ed un paio di sue amiche, barcollavano sbraitando al cielo cupo. L’euforia si era ormai impossessata dei loro solitari neuroni, sopravvissuti ad
un’altra notte di sfascio. Una delle ragazze, senza nessun apparente motivo se non la pura pazzia, si scaraventò su Rabbo, afferrandogli l’ombrello e gettandolo nel canale. “Nooooooo!” gridò Brillo, osservando la scena e mettendosi le mani nei noncapelli. “Noooo, mia mamma mi ammazza se non glielo riporto a casa!” Tutti si guardarono preoccupati tra loro, mentre il piccolo skin si arrampicò sulla ringhiera che separava la strada sterrata dal fiume. Scavalcò e saltò un paio di metri di vuoto, recuperando l’ombrello da alcuni sassi in cui si era incagliato. Riprese fiato per placare il respiro ed i muscoli indolenziti dallo sforzo. Sollevò in aria l’oggetto, come fosse un bottino prezioso, e lo fissò intensamente. Fu allora che la sua espressione cambiò, si sciolse in una grottesca meraviglia stampata su quelle guance da criceto. “Ma” disse, “Questo….non è il mio ombrello……io…..non ce l’avevo neanche l’ombrello!!” Etiliche risate rimbombarono nel silenzio, riempito solo –oltre che da quei grugniti- da qualche ‘Cristosantoubriaconidimmmerda!” e da un paio di persiane sbattute in faccia a quell’allegra ciurma di cerebrolesi.
FINALMENTE VI ODIO DAVVERO
Li vide da lontano, quando ancora sembravano piccoli puntini colorati, come smarties sparsi sul pavimento. Li stava cercando. Strano che li incontrasse proprio lì, quasi per pura coincidenza. Di solito punks e creature simili non portavano le loro chiappette in giro per il paese durante le ore diurne. Temevano i borghesi (di cui Verbania pullulava) e la luce solare, un po’ come i vampiri. Ed un po’ come i vampiri si ritrovarono per caso, forse guidati dall’odore (puzza?) differente del loro sangue, forse da una strana telepatia di cui non erano nemmeno a conoscenza. Bastò uno sguardo, quando furono a distanza ravvicinata, per capire che quella giornata l’avrebbero trascorsa assieme, come animali che si fanno compagnia e si proteggono l’un l’altro in una terra ostile. “Ciao” disse Davs, fiancheggiato da Rabbo e da uno strano e ciondolante individuo. “Che fai?” “Niente” rispose Deb, “Venivo a cercare voi.” In realtà cercava, più che altro, il piccolo skin. Ma anche loro potevano bastare. Ricordò di nuovo la prima volta che vide, 10 anni indietro, quel punkabbestia dagli occhi strani. Ammirazione. Fu la prima cosa che le ò dentro. Lo ammirava per come portava in giro, con fierezza tra i ‘regolari’, i suoi dreads sporchi, le sue braccia tatuate, i suoi vestiti che-solo ad annusarli- sembrava indossare da circa un lustro (e poteva anche essere), i piercings che quasi deformavano quel viso da bambino. Strano che quel volto non fosse mai cambiato, in tutto questo tempo. E strano
che, in tanti anni di conoscenza, non si fossero mai scambiati più di due parole ad ogni loro incontro. Lei lo ricordava più che altro come ‘il punkabbestia sempre sbronzo’ a cui regalava le sue fanzines (che lui, puntualmente, perdeva). ‘Rollopunk’ lo chiamava, quando ancora non sapeva il suo vero nome. Chissà cosa avrebbe detto lui, se lo avesse saputo. “Vieni in giro con noi? Stiamo andando a cercare Brillo a casa.” “Ok”. Deb tenne dentro un sorriso a 64 denti che avrebbe fatto capire troppe cose. Senza aggiungere altro, si incamminarono. Davs lanciò una delle sue occhiate disintegranti ad una vecchia che lo guardò con aria schifata. Era questa provocazione innata che, probabilmente, Deb aveva sempre apprezzato in quell’essere così diverso da lei ma in fondo così vicino. Questo guardare il mondo sapendo di fargli ribrezzo, continuando ad essere orgogliosi di sé stessi. Molti della loro ‘specie’ esternavano questa provocazione anche esteticamente, con abiti strambi, inopportuni, fastidiosi, orrendi (naturalmente per il buon senso comune). A Deb quei vestiti, quelle spille, quei colori scombinati, quei boots sproporzionati non sembravano altro che stupende barriere, tra i punks ed il resto del mondo, per sondare la superficialità degli ‘altri’. Chi superava lo schifo e andava oltre la barriera esteriore, poteva entrare a fare parte (anche solo per poco, volendo) del loro ‘piccolo universo’. Deb non era come quei punks che odiavano qualsiasi cosa fosse differente. Cercava di comprendere e far comprendere; cercava compromessi che le permettessero di restare sempre e comunque sé stessa; cercava proprio sé stessa, forse. Amava la provocazione, ma quella puramente estetica l’aveva superata anni prima, al contrario di Davs (che, anche in quel preciso momento, indossava una maglietta con scritto ‘FINALMENTE VI ODIO DAVVERO’). La provocazione di lei stava nello sguardo, nel far sentire a disagio la gente con domande fuori luogo, con discorsi taglienti, carichi di interrogativi e differenti punti di vista che
molti stentavano a capire. La provocazione stava nel suo modo di parlare, di intervenire a sproposito, scavalcando –in maniera sottile- le regole della buona educazione. Non che fosse sempre stata così: anni e anni di pratica e di scrupolosa osservazione la portarono ad essere l’elemento che si presentava ora al mondo. Ci furono tempi in cui la gente si chiedeva cosa non andasse in quella ragazza: non parlava, non reagiva, non partecipava, non socializzava. Era forse ritardata? Autistica? In realtà lei cercava solo di capire perché fosse tutto così sbagliato, così falso, costruito secondo canoni che non si era scelta. Ma arrivò il giorno che decise: tutto questo non le stava più bene. E allora parlò. E parlò così tanto che per nessuno fu più la stessa Deb. Questa era la vera Deb. Qualcosa del genere doveva essere successa anche a Davs, e magari anche a quel piccolo punk biondo. Invece quel ‘coso’ ciondolante di sesso maschile che li seguiva blaterando frasi incomprensibili e sballottando la testa di lato in stile ‘Charlie Brown’….bèh, forse (pensò lei, dopo avere appurato che il coso aveva un nome e che quel nome era Simo) ne aveva ate pure di peggio, povero cristo!
Arrivarono di fronte a casa di Brillo e suonarono. Si affacciò un tipo piuttosto grigio e dall’aria severa (il padre, probabilmente). Parlò Davs. “C’è…..c’è….” Si guardarono tutti in faccia e, quasi telepaticamente, si resero conto che nessuno di loro ricordava il vero nome di Brillo. Il grigio rispose comunque. “No, è andato a Laveno.” “Ok, grazie.” Ricominciarono la loro camminata storta: non c’era uno di loro che si muovesse in maniera normale. Sembravano fumetti disegnati da un artista ubriaco. Il punkabbestia scheletrico, il punk lungo lungo incazzato col mondo, la vecchia
skingirl con la sindrome di Peter Pan e lo psicotico ciondolante. Comprensibile che i comuni mortali a eggio per le vie della città si scansassero al loro aggio. Rabbo ruppe il silenzio per nulla pesante che delimitava il loro spazio. “E’ vero, Brillo doveva andare alla festa di un suo amico. Forse stava là a dormire, anche.” Questa volta Deb si lasciò scappare un ‘Peccato!!’ un po’ troppo sentito. Davs la guardò con aria interrogativa. “Ti piace Brillo?” Come poteva mentire a quegli occhioni, che sembravano quelli di Candy Candy con dentro le stelline dell’amore? Preferì non dire niente ma sorrise, e fu abbastanza. “Aaahhh, mi pareva…eh già, ma ti piace solo perché è uno skin…” “Non c’entra un cazzo, Davs. Mi è simpatico. Stop.” “Ma anche Rabbo. Guardalo, sembra un bimbo. Hai presente quello che mettevano sulle scatole delle barrette Kinder? Era lui da piccolo….l’anno scorso!” “Oh, cazzo volete da me?” intervenne il punk. “Stai zitto! E’ un discorso tra me e Deb.” “Si, anche Rabbo è bello, ma è davvero un bimbo” continuò lei. “Guarda che ha solo un anno meno di Brillo. Quanti anni hai, bimbo kinder?” “Quasi 18, e vai affanculo!” “Cazzo, sono una pedofila!” “Ma cosa te ne frega. Guardati, sembri una ragazzina” “Anche tu non scherzi, punkabbestia che non sei altro!”
“Oh non chiamarmi punkabbestia!” “Perché?” “Lo ero. Ma sono successe tante cose da allora. Ho girato tutti i centri sociali d’Italia, ho provato ad ammazzarmi più di una volta, ho picchiato mia mamma, ho cercato di mangiarmi una sedia…” “Eh??” “Sì. Ero sotto l’effetto di qualche droga strana.” “Ah!” “So che adesso ti farò schifo ma te lo devo dire. Non mi piace are per quello che non sono… Mi faccio ancora di eroina, ogni tanto. In vena.” Deb fissò la strada davanti a sé e non disse niente. Non se lo aspettava. Sembrava così indifeso e fragile, Davs. “Ti faccio schifo, eh? Lo sapevo, non dovevo dirlo. Gli altri lo sanno già. E sono anche in cura psichiatrica: soggetto borderline affetto da personalità multiple. Mi disprezzerai, adesso?” “No, per me sei sempre lo stesso. Solo che mi fa male sapere che ti fai.” “Perché?” “Perché so che non potrò mai affezionarmi troppo a te. Come amica, intendo. So quanto possa fare male una dipendenza, e non solo a chi c’è dentro. Ho convissuto 6 anni con uno che aveva dipendenze da gioco e alcool. Mi ha fatta a pezzi, psicologicamente.” “So come succede: io ho fatto a pezzi mia madre, in quel modo. E mi faccio schifo ogni singolo giorno della mia vita.” Borderline. Deb ricordava di aver letto qualcosa in un libro. Una malattia, autolesionismo, impossibilità di essere normale e di adeguarsi… Forse un po’ lo era anche lei,
pensò, magari nel suo modo di amare così nichilista, così malato. Spesso non lo ammetteva, nemmeno a sé stessa, ma era convinta di amare in maniera sbagliata, disperatamente e con avidità, come per riempire una voragine buia e senza fondo. Ricordò l’autrice del libro. “Ho letto una cosa che parlava di borderline. Valentina Colombari. Diceva che abusava di tutto, che aveva una bassissima autostima e un’impulsività eccessiva, un continuo bisogno di riempire quel vuoto dentro, con qualsiasi cosa.” “Hai dimenticato nichilismo e piacere per la sofferenza, anche. Ma io non ho mai capito perché sono così. L’ho accettato e basta. Li vedi questi tagli?” Davs sollevò la maglietta e mostrò una bella collezione di cicatrici biancastre sparse su tutto il petto e sulle braccia. “Queste me le faccio ogni volta che sto per scoppiare, che il dolore dentro è troppo e devo farlo uscire, in qualche modo. Non so come spiegartelo. A volte lo faccio per sentirmi ‘vivo’..” “Io non riesco a capire l’autolesionismo. Ma riempire il vuoto con qualsiasi cosa, quello lo faccio anche io, spesso. Mi riempio di cibo (anche se non sono mai stata anoressica o bulimica) fino alla nausea, fino a sentirmi in colpa. A volte faccio lo stesso con l’amore.” “Ah, sei una ninfomane!” “No no. Non intendo sesso, ma proprio amore. Ho sempre bisogno di conferme, di essere amata. E terrore di essere abbandonata o tradita.” “Ma a parte questo non hai altri problemi, mi pare.” “Non ho dipendenze vere e proprie, dato che sono astemia, non fumo, non mi drogo, non faccio sesso con chiunque capiti. Ma credo di essere abbastanza instabile. Per un anno sono andata anche da una psicologa.” “Bèh ma tutti noi ci siamo stati! Anche Rabbo che non è ancora maggiorenne. Vero?”
“Sì” rispose lui con aria disinteressata, da 10 i più avanti. “Almeno tu non sei mai stata in psichiatria” riprese Davs. “Ci sono andata vicino. Quando il mio ex beveva diventava violento, spaccava le cose. Una volta mi ha anche presa un po’ a botte.” “Bastardo!” “Sì ma io lo picchiavo molto più spesso. Ogni volta che mi raccontava palle. Ed era più o meno una volta al giorno. Per quasi 6 anni!” “Secondo me tu sei molto forte, caratterialmente” “So di esserlo abbastanza, ma quando m’innamoro mi perdo. A volte non mi riconosco più.” “No, tu sei forte, si vede! Hai avuto una vita difficile, un po’ come me che in pratica non ho quasi avuto un padre, però hai reagito diversamente. Io sono solo un punkabbestia di merda!” “Ma non dicevi che non sei più un punkabbestia?” “Tecnicamente no, perché adesso lavoro: faccio il giardiniere. E sono tornato ad abitare con mia madre.” “Ma se non sei un punkabbestia (e lo sembri), cosa sei?” “Sono Davs.” “E poi?” “Sono un…..umpalumpa. Anzi, un umpalumpabbestia!” “Perfetto: un umpalumpabbestia, un bimbo kinder, una skunkedge.” “Cazzo è una skunkedge?” “Un incrocio tra una skin, una punk e una straight edge. Penso di essere la prima in Italia.”
“Mah, secondo me tu sei solo Deb, come io sono solo Davs” “Ovviamente, ma cercavo di dare una definizione di noi perché gli altri ci possano etichettare, così stanno in pace con sé stessi.” “Capito. Allora Simo come lo etichettiamo?” “Boh…Simo, perché non parli?” disse Deb guardanddo la sua testa ciondolante. “Sssmnmm smbsssbbs bsss”. Probabilmente pronunciò qualche parola, ma nessuno capì se si trattasse di qualcosa di senso compiuto oppure no. “Ok, Simo è Lo Psicotico” disse Davs. “Ma lo sai che una volta ti chiamavo Rollopunk, Davs?” “Che cazzo di nome è?” “Non lo so, suonava bene! A proposito, parlavi di personalità multiple, ma io ti ho sempre visto così tranquillo; non riesco a immaginarti violento o aggressivo o pazzo o…” “Non mi hai mai conosciuto, Deb. Credimi. Io invece pensavo: perché non siamo mai usciti tutti assieme? Perché ci siamo sempre salutati a malapena? Eppure…” “Già. Eppure.” Eppure era come se si conoscessero da una vita, come se il loro sangue fosse identico, in ogni sua molecola, come se fossero stati per anni rette parallele e ad un certo punto, grazie a qualche strana coincidenza (non chiamiamolo destino, perché probabilmente nessuno di questi 4 personaggi da fumetto crede nel destino!), si fossero incrociati, ritrovati sullo stesso punto. “Perché non usciamo tutti assieme questa sera?” chiese l’umpalumpa. Non ci fu nemmeno bisogno di una risposta, sostituita da un incrocio di sguardi e da una tacita miscela di complicità e approvazione.
Si ritrovarono sugli scalini del supermercato a pronunciare frasi sconnesse del tipo “Ma come potevano i puffi riprodursi se avevano a disposizione una sola donna?” “Eh ma era molto zoccola” “Ma il grande puffo se la faceva pure lui?” “Boh comunque la puffetta era una grande zoccola!”. Si ava da stronzate a discorsi impegnativi con la stessa naturalezza di un rutto di rabbo ( e anche quelli abbondavano!). “Deb, ma tu perché non bevi?” chiese Davs. “Mi vedi? Secondo te ho bisogno di bere? Senti quante cazzate sparo? Sinceramente non ne ho mai sentito il bisogno, per divertirmi. Forse è anche paura di perdere il controllo. E forse è che io riempio il mio vuoto in altri modi. Perché è questo che fate voi, bevendo, no? Riempite un vuoto, o almeno ci provate. Ma quanto dura? Una volta che vomitate fuori anche l’anima, insieme a tutto quell’alcol, cosa vi resta? Un buco, un vuoto anche più grande di prima?” “Ci stai giudicando.” “No, giuro che non è una critica. Del resto io non sono meglio di voi, ho solo altri metodi per riempire il vuoto. Non giudico nemmeno la maniera in cui uno decide di distruggersi. Io giudico solo chi non mi rispetta e chi non sa pensare con la propria testa.” “Tu sei come me, Deb” “Più o meno, solo che io sono straight edge:” Proprio in quel preciso istante una vecchina, forse la stessa di prima, ò sulle scale. Guardò in giù, verso i 4 emarginati pensierosi, ed il suo volto si contrasse in una smorfia così grottesca che sembrò stesse per riempire quelle testoline di vomito. Fu proprio a Deb che lanciò l’occhiata peggiore, alle sue calze a rete che, in effetti, erano l’unica cosa appariscente nel suo abbigliamento da skingirl. La vecchina si assicurò di essere sufficientemente lontana dal gruppo, abbastanza da non correre pericoli e da assicurarsi una via di fuga. Poi pronunciò
ad alta voce una parola, in dialetto locale. Una sola parola che tutta la gente, nel raggio di un chilometro, sentì e capì, dato il tono leggermente elevato della signora. “DRUGAAAAA’!!!” Il gruppo scoppiò in una risata collettiva che durò circa 15 minuti. Persino la voce di Simo si udiva, mentre bisbigliava qualcosa tra le risa. Non si capiva un cazzo ma si sentiva. Erano appena stati accusati di essere dei tossicodipendenti di fronte a tutta la piazza, eppure si stavano pisciando nelle mutande per quanto si stavano divertendo. C’era davvero qualcosa di strano. E di speciale.
TUTTI PAZZI
Davs, Deb e Rabbo erano sul prato di fronte al forum. Simo era tornato a casa per cena. Si ingozzavano di tramezzini avariati presi al discount: il tonno sapeva di capperi ed il salmone di melone. Misteri della chimica alimentare! Il rumore di un messaggio riempì il cellulare di Deb. Era Brillo. Lo lesse ad alta voce, in diretta nazionale: “E se adesso entrasse un orso dalla porta? Moriremmo tutti?” Ci fu un’altra risata di gruppo, con tanto di grugniti e rotolamenti sull’erba. “Cazzo sta dicendo? Ha bevuto?” disse lei, interrotta subito da un altro BIP BIP. “Rieccolo. Dice ‘Ma stasera vai a vedere gli Avar…..Avararsia Gros?’ “ A quel punto Rabbo sputò brandelli di tramezzino per mezzo chilometro, continuando a sganasciarsi. Capì che Brillo voleva dire Atarassia Grop ma, per l’appunto, forse era troppo ‘brillo’ per sapere cosa stavano digitando le sue dita sul telefono. “A proposito” aggiunse Deb “perché non andiamo a trovare Sicio e dopo, magari, al Trash? Stasera ci suonano un paio di gruppi”.
Stava fissando quel bel pezzo di skinheaddone circondato da piccole barbie troppo truccate, quando Davs le disse: “Ti piace Sicio?” “Ma si vede così tanto?” “Un po’…” “Avevo una cotta colossale per lui, qualche mese fa, ma ci ho rinunciato. E poi guarda quante bavosette gli ronzano attorno. Ha solo da scegliere” “Ma sono sciacquette; tu sei molto meglio, sei più interessante”
“Che, ci stai provando con lei?” disse Rabbo, accostandosi a loro. “Bèh, sei geloso, bimbo kinder di stamminchia?” “No, ma se ci provi te ci provo pure io!” Deb si mise a ridere ed aggiunse: “Andiamo, sta diventando tardi”.
La frankenstein grigia del ’90, tappezzata di adesivi punk sul retro, se la cavava ancora bene in superstrada, nonostante la marmitta se ne stesse andando affanculo . Scivolavano via sui 120, stereo a manetta ( un cd dei Negazione scelto dalla maggioranza hardcoredipendente), mentre Deb cercava di guidare e, contemporaneamente, tapparsi le orecchie. “Cazzoooo, ridatemi il mio ska!!” urlò lei. “Te lo do io lo ska….”. Rabbo si slacciò la cintura di sicurezza. Lo vide, con la coda dell’occhio, mentre si metteva in ginocchio sul sedile, abbassando il finestrino davanti. “Ma cosa fai?” “Piscio” rispose lui, quasi sorpreso dalla sua domanda. “Ma siamo in superstrada. A 120 all’ora!” “Embè? Mi scappa.” Troppo tardi per fermarlo. Ce l’aveva già fuori dai pantaloni. Si misero a ridere, mentre all’esterno del finestrino una scia di goccioline liquide brillava al chiaro di luna.
La luce di quel locale era particolare, non troppo artificiale e nemmeno cupa: non stuprava i contorni delle persone e non li oscurava nemmeno confondendone le caratteristiche. Deb ci si sentiva dentro in modo naturale. Le capitava spesso di amare un luogo
solamente per la luce che lo illuminava oppure, per lo stesso motivo, odiarlo. Così come odiava Milano: ogni angolo di quella città era avvolto da una luce offuscata, come se una patina pesante rendesse tutto sfumato. Quando arrivarono all’entrata, il locale era già pieno di perfetti sconosciuti, e le casse saturavano l’aria di accordi troppo studiati, decisamente metallari. Decisero di sedersi sulle panchine all’esterno. Davs occupò il posto più libero, tra un paio di ragazzi che chiacchieravano tra loro, e Rabbo appoggiò il suo culo borchiato sull’unico posto rimasto. Quando vide che Deb si guardava attorno dubbiosa, in cerca di una pausa per le sue natiche stanche, la prese per un polso e se la tirò in braccio. “Ti da fastidio?” le chiese. “No, ma tieni le mani a posto eh?!” “Ok. E la lingua?” “Pure quella” “Allora darò la mia saliva a Davs, se non ti spiace” Srotolò un buon 10 centimetri di papille gustative e guardò Davs con complicità. L’umpalumpa lo imitò e, in meno di due secondi, i coglioni si stavano reciprocamente sbavando addosso, lingua contro lingua, tra lo schifo dei presenti. Lei si alzò di scatto ma non fu particolarmente sorpresa da quel gesto: sapeva che la loro ione per la provocazione sarebbe presto degenerato in qualcosa di simile. Rise e disse: “Ahò, stronzi, quando avete finito ci sarei anche io qui, eh?!” “Giusto, adesso tocca a te….” Davs allungò quella lingua a lucertola verso di lei. “No no, te lo scordi!” rispose Deb.
“Ti vergogni? Tanto prima di andare a casa ci limoni tutti e due. E se proprio non vuoi, basta che baci solo me!” “Stronzooooo” urlò Rabbo, sparandogli dritta in fronte una sputata giallognola che diede il via ad una vera e propria guerra allo sputo. Raffiche di bava e catarro svolazzavano da sinistra a destra mentre lei, disgustata ma divertita, se la rideva di gusto osservando gli sguardi terrorizzati dei anti. Solo un ragazzo dall’aria piuttosto rassegnata rimase seduto sulla panchina e, come previsto, un bel grumo schiumoso gli si posò delicatamente sulla guancia. “Ops” sussurrò bimbo kinder con una vocina innocente, sgranando gli occhioni. Ma il ragazzo se n’era già andato ancora prima di aggiungere una sillaba. Ricominciarono le risa.
Quando Deb tornò fuori con un bicchiere di succo all’ananas in mano, trovò Davs collassato sulla panchina, con un paio di enormi occhiali da sole poggiati sul naso e la solita compagna di viaggio (una bottiglia di lambrusco presa al discount) stretta tra le braccia. Rabbo era seduto e ripulito dagli sputi, ma piuttosto ubriaco. Si tirò su e la prese in braccio, sollevandola e facendole rovesciare metà del succo in terra. “Vedete questa qui con le calze a rete?” si mise a urlare. “Questa qui mi ispira tanto sesso. Piccola, compatta e con le calze a rete….proprio come piacciono a me!” “Scemo, mettimi giù che mi si vedono le mutande!” “Ah, ok.”. Si misero a sedere, lei di nuovo con le gambe su quelle di lui, sul suo cinturone borchiato che le aveva già bucato le calze in 5 o 6 punti diversi. “Ecco. 10 euro di calze andate affanculo!” gli disse. “Ma così sono più belle”. Le infilò il dito indice in una smagliatura e l’allargò di parecchi centimetri.
Deb cominciò a tirargli pugni in testa, mentre lui le faceva il solletico; si picchiavano come due bimbi stupidi. “Non credevo che avessi i capelli così morbidi” disse lei, accarezzandogli la testa con i polpastrelli che quasi sussultavano di goduria. Non era solo la sensazione tattile: il suo viso la riempiva di tenerezza. Avrebbe continuato per ore ad arruffargli i capelli, e la cosa sembrava non dispiacere affatto a lui, che ricambiò il gesto. Poco dopo le prese le mani tra le sue. Deb si accorse che erano molto grandi ma delicate. “Allora, quando mi baci?” chiese Rabbo sorridendo. “Mah, vedremo” rispose, alzandosi e smagliandosi per l’ennesima volta le calze. “Dai, prometti che prima di arrivare a casa mi baci.” “Mmh, forse. Prova a svegliare Davs, così andiamo”
Erano vicini alla frankenstein di Deb. L’umpalumpa camminava davanti a loro, con gli occhiali da sole storti sul viso ed un o sbilenco da zombie. Era decisamente comico soprattutto quando, mugugnando qualcosa di incomprensibile, si rigirò più volte su sé stesso come in cerca di qualcosa. Probabilmente aveva perso il senso dell’orientamento. Gli altri due si guardarono e, contemporaneamente, scoppiarono in una risata rumorosa. “Cazzo ridete?” bisbigliò Davs, con una voce talmente roca che sembrava provenisse da uno dei racconti della cripta. Deb e Rabbo erano ormai piegati in due, trafitti da ripetuti dolori addominali. Lei si stese sul prato, con la testa rivolta al cielo. Tutto appariva improvvisamente così trasparente e privo di gravità. Non ricordava nemmeno quanto tempo fosse trascorso dall’ultima volta che si era sentita così leggera.
Guardò nello specchietto retrovisore: Davs dormiva di gusto e Rabbo, al suo fianco, non era da meno. Accostò proprio vicino al sentiero e, per un po’, osservò quel viso sonnacchioso, incerta sul da farsi. Non sapeva come svegliarlo. Optò per le maniere dolci: gli accarezzò una guancia e, un po’ tesa, disse: “Rabbo, sei a casa” “Mmh….si si, scendo.” La fissò con gli occhi annebbiati di chi non è ben consapevole di come e perché si trovi in un determinato luogo. “Ssssci, ma…la promessaaah?” sbiascicò. Deb capì e, un po’ in imbarazzo, si avvicinò a quel bimbo sbronzo. Lo baciò in fretta, quasi per scherzo, e fu una cosa un po’ troppo umidiccia per i suoi gusti. Era così buffo, con quell’espressione da Homer Simpson bavoso. “Almeno ho sshhcoperto che mantieni le promessscee. Notte” “Notte. Ci sentiamo domani. Vado a portare Davs”
KIDS ON THE STREETS
La luce del giorno l’accecava e la riscaldava. Con lo sguardo rivolto in aria e la testa appoggiata sulla gamba di Rabbo (mentre sull’altra gamba c’era il cranio di Davs), fissava gli occhi di quel bimbo troppo cresciuto: sembravano ancora più azzurri e trasparenti, al sole. Sul suo viso sbarbato c’erano una manciata di puntini, come piccole lentiggini biancastre. Lo guardava e si sentiva stranamente sollevata, come quando osservava la neve cadere in grossi fiocchi. Purezza era una parola che le sembrava ridicola, eppure era ciò che esprimeva quel volto. Rabbo accarezzava i capelli ad entrambi. Nessuno parlava, persi com’erano nel cielo sopra a quella silenziosa chiesa sconsacrata. Era tutto così spontaneo, tra loro, che nessuno sentiva l’esigenza di riempire forzatamente quel vuoto privo di suoni. Forse perché, in fondo, non era poi così vuoto. “Con voi sto bene. Come se fossi libera di essere sempre me stessa, senza trattenermi in nessun modo.” Un sonoro rumore di scurreggia rimbalzò nell’aria, mentre Deb si sganasciò dalle risate. “E si sente!” dissero in coro gli altri due. “Anche a te piace leggere?” le chiese Davs, ruotando la testa in modo da poterla intravedere. “Non posso vivere senza! E scrivo pure. Racconti più che altro” “Io scrivo poesie e racconti, ma sono abbastanza ermetici. Ne ricordo un pezzo che dice ‘Mi voglio così bene da sapere che qui non è posto per me. Sono caduto dentro i miei occhi. Ho innaffiato d’ammoniaca e candeggina le mie radici. Niente si è ripulito. Solo residui tossici. Che schifo. Campo dei miei consigli,
muoio dei miei consigli. .Piangere non mi riesce, lo faccio solo dentro….’ Poi non la ricordo più” “Bella, cazzo! I miei sono più terra terra” “Me li porti da leggere?” intervenne Rabbo. “Certo. Ma anche a te piace leggere?” disse lei. “Bèh, per chi mi hai preso? Io leggo molto, soprattutto a scuola; ma mai cose che riguardano i miei studi. Forse per questo mi hanno già bocciato 2 volte!” “Bravo!!” “Non è colpa mia se la scuola è una prigione. Vogliono impormi le loro idee, i loro fottuti punti di vista. Vogliono riempirmi la testa di cazzate borghesi e pensieri ‘giusti’. Non posso sopportarlo!” “Trovati un lavoro, allora” “Per arricchire quei fottuti padroni che decidono come devono funzionare le cose? No, grazie!” “Sei proprio un bimbo…Un giorno troverai il tuo modo personale di fregarli senza che se ne accorgano. Se vuoi vivere devi scendere a compromessi. Ma puoi farlo in modo intelligente, non piegandoti né rinunciando a ciò che sei. Non è facile ma si può.” “Hai letto ‘1984’ di Orwell?” “Si” “Ecco, io il mondo lo vedo così: ogni pensiero, gesto, parola. Tutto controllato dall’alto. Niente libertà.” “La libertà è come l’anarchia: utopia! Possono esistere, ma solo dentro la tua testa. Solo dentro di te puoi essere davvero libero, perché fuori non te lo permetteranno mai veramente” “Bèh io ci voglio provare. Voglio vivere a modo mio”
“Sotto un ponte?” “Perché no! Davs l’ha fatto per molto tempo…” “Bèh” disse l’umpalumpa “più che altro ho patito il freddo e la fame al cavalcavia di Novara. Ma non mi pentirò mai della vita che ho fatto in questi anni” “E’ giusto che ognuno faccia le proprie esperienze” ribatté lei “ma arriva il momento in cui capisci che è ora di fermarti a pensare” “Infatti ora sono tornato a casa” “Però continui a farti le pere! Non mi sembra una scelta coraggiosa” “Forse ho più coraggio io di te, che ne sai? Di sicuro ho vissuto più io di voi due” “Bèh, sicuramente più di bimbo kinder!” “Oh, la smetti di chiamarmi bimbo, cazzo? Bimbi son quei coglioni vuoti in classe con me, che stanno tutto il giorno a parlare di telefonini e figa” “A proposito, bello come sei non è possibile che le compagne di classe non ci provino con te….” “Penso di far loro un po’ paura, e forse anche schifo, dato che durante le lezioni mi scaccolo e rutto ripetutamente” “Che schizzinose!” “Già. E pure stupide. Sono così vuote. Insignificanti.” Uno squillo acuto di sms ingombrò lo spazio tra loro. “Eccone una” disse Rabbo “Saretta: mi chiede cosa faccio stasera. Come faccio a levarmela dalle palle senza sforzarmi troppo?” “Dammi il telefono!”. Deb gli sfilò il cellulare dalle mani e iniziò a schiacciare i tasti.
“Cosa scrivi?” “Te lo leggo: ‘smrghhjsdlgnam prot skj prrrmmg’ “ “Bello. Chissà che risponde”. Non dovettero aspettare molto. “Ecco: ‘quando la smetterai di essere così infantile?’. Ora le rispondo ‘ssggnmommmdhdh’!” “Ok, penso che non si farà sentire per un po’. Grazie Deb. “Ma ragazzi…ci siamo dimenticati di Brillo!” squittì l’umpalumpa. Vero. Deb si rese conto che, nelle sue cellule cerebrali, non c’era stato nemmeno un angolino dove posizionare l’immagine del piccolo skin, nelle ultime ore. “Brillo mi ha mandato un messaggio questa mattina” intervenne Rabbo. “Alla festa ha conosciuto una tipa e se l’è trombata. Mi spiace Deb, dovevi provarci prima con lui” “Bèh, mi rimane sempre Sicio” disse lei, per niente rattristata dalle ultime notizie. “Oppure Rabbo” rise Davs. “E’ troppo vecchia per me” disse il punkettino .“E poi, sinceramente, baci meglio te di lei, Davs!” “Brutti stronziiii, quand’è che vi siete baciati?” ribatté l’umpalumpa. “Boh, non ricordo” dissero entrambi, con un mezzo sorriso di traverso su quelle faccine colpevoli.
SKIN E PUNK
Quel ‘solo rumore’ si stava espandendo sopra le loro teste, sopra il vociare allegro e un po’ demenziale della gente seduta sul prato di fronte al circolo. “Mamma, vieni qua. Voglio le coccole!” disse bimbo kinder a Deb, intenta ad osservare il mondo dalla sua bolla di sapone. “E perché dovrei coccolarti?” ribatté lei. “Perché altrimenti…faccio questo!” La prese per le caviglie, sollevandola a testa in giù, non rendendosi conto che i fuseaux neri le si stavano sfilando. In meno di uno sputo Deb si ritrovò senza pantaloni, culo all’aria e faccia sull’erba, di fronte a tutta quella gente. Si rialzò veloce, risistemandosi, e ringraziando Jah, Dio, Budda e KuntaKinte di essersi messa, come sempre, anche la gonna sopra. Rabbo rise. “Nooooo” urlò Davs, da due metri più in là. “Non si è visto niente!! Minchia, perché ti metti sempre sia la gonna che i pantaloni?” “Vuoi proprio saperlo?” rispose lei. “Dai..” “Per vedere quanta gente si fa i cazzi suoi!” “Cosa? Vuoi vedere i cazzi miei? Bèh, ne ho solo uno ma se ti accontenti…” Eccolo lì, già pronto a sfoderare la sua provocazione e non solo quella: il cazzetto moscio sbucò tra le sue mani, e Davs cominciò a mostrarlo generosamente al pubblico mentre lo faceva roteare su sé stesso. Deb gli si avvicinò, per niente a disagio e, come se stesse prestando assistenza ad un fratellino down, tirandogli l’elastico dei pantaloni fin sopra al pelo pubico,
disse pacatamente: “Rimettilo dentro, dai, che le ragazze qui si stanno scandalizzando” “Oh” intervenne il bimbo “cosa fai? Tocchi Davs? Guarda che sono geloso eh?!!” “Scemo, non l’ho toccato! Potrebbe essere mio fratello, lui.” “Io no, però!” “Già, tu potresti essere mio figlio! E sei già fortunato se non ti sculaccio davanti a tutti per la figura di merda che mi hai fatto fare”. Si immerse per qualche secondo nei suoi pensieri, dopo di che sbottò: “Oddio, spero che non mi abbia vista Sicio!” “No, tranquilla. E’ arrivato giusto adesso. Lo vedi là?”. Indicò le scale in lontananza. “Come potrei non vederlo? Guarda com’è bello!” Gli occhi le si accesero come illuminazioni natalizie. “Sei proprio cotta, eh?” intervenne Rabbo, pizzicandole una guancia. “Ma tu sei la mia mamma e non ti lascerò al Sicio cattivo” La abbracciò comprimendola come fosse pongo. “Non è cattivo” disse lei liberandosi “E’ lo skin più buono e allegro che io conosca. Per questo mi piace!” “Glielo hai mai detto?” “Che mi piace? Gliel’ ho fatto capire chiaramente qualche mese fa. Ma sembra che io non sia il suo tipo” “Potresti sventolargliela sotto il naso. Vedrai che non si tira indietro”
“Non è quello che voglio! Non voglio una scopata e via, né con lui né con altri” “Tutte uguali voi ragazze. Non accettate il fatto che possa esistere anche sesso senza amore” “Esiste si, ma non fa per me!” “Le occasioni vanno colte al volo, te lo dico io! La vita fa già schifo, quindi bisogna prendere il più possibile e fottersene di principi morali e stronzate del genere” “Secondo me la vita non fa schifo ed è giusto agire secondo i propri ideali” “Il mio ideale è l’odio!” Deb lo squadrò dal basso dei suoi 160 centimetri scarsi e, sorridendo, disse: “Se sei bravo e la smetti di fare in bambino nichilista, ti prometto che per il tuo diciottesimo compleanno ti regalo la mia collezione di lombrichi” “Mmmh…solo se ci aggiungi anche quella di cacche” “Va bene” sospirò lei “per questa volta. Solo perché i 18 sono speciali!”
Erano seduti mano nella mano ad osservare Davs che, ubriaco come sempre, dormiva in terra ripiegato su sé stesso. Come un animaletto strambo, emetteva rantolii simili a guaiti di cucciolo; sembrava così indifeso. Deb e Rabbo lo guardarono senza parlare, fino a quando bimbo kinder ruppe quello strato vischioso di silenzio. “E Brillo? Perché non ci provi con lui?” La coglieva impreparata, questa volta. “Perché…perché….ma perché cerchi a tutti i costi di farmi accoppiare, eh?” “Bèh, mi manca un papà”
“E ti ci vedi a chiamare Brillo ‘papino’?” Si guardarono per circa mezzo secondo, scoppiando in un sonoro e contemporaneo “Nooooo!” “Bèh” aggiunse lui “però Sicio si…ah, eccolo che arriva!” Puntava proprio dritto verso Deb, con quel suo o alcolico un po’ sbilanciato in avanti. Quando la baciò sul collo salutandola, tra un brivido e l’altro, lei sentì anche lo srotolarsi del suo alito birroso. Deb si rese improvvisamente conto di non aver mai visto Sicio abbastanza lucido da poter guidare la sua automobile. Sapeva che ne possedeva una, ma era una specie di fantasma, una leggenda metropolitana. “Ciao” disse quel bel pezzo di skinhead. “Ti posso parlare un attimo, Deb?” “Certo che si!” Lo seguì sul lato più isolato del prato.
Al volante della rugginosa frankenstein, Deb ascoltava solo il rumore della notte fuori dai finestrini semiaperti. Lo sguardo molle e fisso di Rabbo, seduto come sempre di fianco a lei, si perdeva nel vuoto. Brillo e Simo dormivano. “Ti ha baciata?” chiese Davs da dietro. “si” rispose lei. “E tu?” “Io niente” “Ma non era quello che aspettavi?” “Forse…ma era ubriaco!” “E allora?” continuò l’umpalumpa, incuriosito.
“Allora non è quello che volevo. Mi sono sentita…non lo so…presa in giro. Usata. Non è nemmeno questo: mi sono sentita come…..” “Come?” “Sai quando aspetti con ansia un concerto, per mesi, e poi ti accorgi, quando sei lì di fronte al palco, che non era poi così importante esserci?” “Mmmmh” “Non mi ha lasciato dentro niente. Vuoto. E mi sento così strana. Come se mi fossi illusa per mesi di provare qualcosa per lui. Qualcosa che si è volatilizzato. Sparito.” “Come sei complicata” la interruppe Davs. “Io direi bambina, invece” intervenne Rabbo, continuando a fissare un punto invisibile davanti a sé. “Perché bambina?” chiese lei. “Perché non sai nemmeno tu quello che vuoi! Vivi di sogni e credi che la vita sia una favoletta. Io sarò anche un pelouche di gommapiuma, ma tu sembri più infantile di me!” Lo disse quasi come se fosse deluso. Non la guardò in viso nemmeno una volta. Quelle parole la ferirono, e l'improvviso cambiamento di umore del bimbo la fece sprofondare in una melmosa sensazione di malinconia. Eppure non ne avrebbe avuto motivo. Non riusciva a comprendere il significato di quel suo senso di inquietudine, né del aggio di Rabbo da uno stato di euforia a quello di immobile apatia. Oppure stava cominciando a capire, ed era questo il problema.
BAD BRAIN
“Fermo, fermo…cadiamo!” Si sentiva così piccola, sulle spalle di quello spilungone punk. “No, non mettermi le mani sugli occhi. Non vedo più.” Disse Rabbo sballonzolando qua e là, con lei in equilibrio precario. Eccoli a terra, come da copione. A rotolarsi sull’erba. A ridere come coglioni. “Ma non avevi detto ‘stai tranquilla che non ti faccio cadere’?” “E’ colpa tua!” “Non è vero” “E allora di chi è?” Pochi secondi di silenzio. “Davs!!”. Scandirono assieme quel nome, ricominciando a grugnire di gusto. L’ umpalumpa non era nemmeno con loro. Sarebbe arrivato più tardi. Si rialzarono e camminarono verso il fiume. Lui inciampò nella stringa dell’anfibio ed una sonora bestemmia si levò al cielo. “Perché offendi Dio, se non ci credi?” chiese Deb. “Non offendo Dio. Offendo la religione cristiana e tutte le pecore che ci credono” “In effetti, se esistesse qualcosa ‘di là’ , perché dovrebbe chiamarsi proprio Dio? Perché non Pasquale o Ermenegilda o Pino?” Deb si tolse la felpa, restando con la t-shirt dei Cockney Rejects. Quella dove il
tipo mostra, oltre alla sua brutta faccia, pure due dita sollevate nel tipico gesto inglese del ‘fuck you’. “Bella questa maglietta. Ma è più bella la pancia” disse lui , solleticando quei due centimetri di pallida pelle scoperta, appena sopra la gonna. “Mi ispira tanto sesso!” “Coglione, ti ho già detto che sono troppo vecchia per te!” “Ma gallina vecchia fa buon brodo” aggiunse, mentre una scurreggia movimentò l’aria. “Ecco, mi rubi pure la parola” disse Deb. “In effetti, da quando ho conosciuto te e Davs, scurreggio molto di più, sai?” “E’ la tua voce interiore. Dice che hai finalmente trovato la tua dimensione spirituale……BUUUURP!” “Eccolo, rutta pure, il porco!” “Do libero sfogo alle emozioni, semplicemente. Le ho trattenute per troppo tempo. Ti avevo mai detto che per due anni non sono praticamente uscito di casa?” “No” “Avevo 16 anni circa. Dopo un incidente in moto ho picchiato la testa” “Ecco che si spiega tutto!” “No, veramente! Mi sono chiuso tantissimo in quel periodo. Sono cambiato e, se non fosse stato per i libri….Ho cominciato a leggere e a vedere la vita in modo diverso” “Leggere ti fa sempre percepire le cose in modo diverso. Ti apre la mente” “Hai letto ‘Uto’ di Andrea De Carlo?” “E’ stato uno dei miei primi. E ‘Costretti a sanguinare’ di Philopat? Ha cambiato la mia idea sul punk.”
“Lo sto leggendo ora. Comunque anche certi film hanno lo stesso effetto. Non dico i comici o quelle stupide commedie superficiali…” “Non parlarmi di stupide commedie. Quelle schifezze sentimentali americane a lieto fine mi hanno bruciato i neuroni fin da quand’ero piccola. Hanno danneggiato la mia salute mentale precaria e mi hanno fatta diventare l’ingenua decerebrata che sono!” “Ingenua decerebrata?” “Già. La mia parte razionale è putrefatta” “Ho letto i tuoi racconti. A me sembri solo molto sensibile. E profonda. Ti sento molto simile in questo” Deb sorrise. “Allora anche tu sei un ingenuo decerebrato!!” Rabbo la prese per la vita e la capovolse a testa in giù. “Chi è l’ingenuo decerebrato adesso?” “Io, io. Giurooo!” urlò lei, mentre il sangue le scorreva troppo rapidamente in quella spappolata materia grigia.
ANARCHY IN THE U.K.
Eccola di nuovo quell’inspiegabile onda di energia, quella sensazione di leggerezza e spensieratezza e allegria e libertà che le dava il ballare ska con altra gente di fronte ad un palco. Era una fottuta festa di paese per alcolisti e fancazzisti, con vecchi ubriaconi sdraiati sulle panchine, bambini starnazzanti intenti a torturare creature canine e qualche punk e skin a ciondolare di fronte al gruppo. Ma gli Askers ci stavano dando dentro di brutto. Persino Rabbo, ubriaco come sempre, era coinvolto in uno scoordinato tentativo di skankin’ sulla cover di ‘Sally Brown’. Si fermò solo per rotolare un po’ addosso a Deb, che perse l’equilibrio cadendo addosso a Davs. “Oh, cazzo fate?” urlò l’umpalumpa dalla panca di legno. “Non vedi? Balliamo!” continuò bimbo kinder, avvicinandosi di nuovo a lei e leccandole la faccia. “Stronzo! Non voglio la tua bava!!” “Si invece.” La leccò di nuovo, poi continuò a skankeggiare mentre lei si sedette accanto a Davs. “Mi piace, anche se a volte è un coglioncello!” gli disse. “Secondo me ti piace solo per il fatto che è un punk” “Ancora con questa storia? Se lo credi davvero, di me non hai capito un cazzo! E’ che lui è diverso. Da tutti quelli della sua età, e dai punks che ho sempre conosciuto. E’ più sensibile. Ma so che non potrà mai esserci qualcosa” “Perché?” “13 anni di differenza sono davvero troppi. Non è nemmeno tanto per l’età,
quanto una questione di maturità, esperienze… Lui ha ancora tanto da scoprire, conoscere.” “Invece penso che potrebbe nascere una bella storia tra voi, se vi accettate per quello che siete” “Mmmh, non so. Forse lui vuole solo divertirsi. Io voglio di più”. Il punk traballante tornò alla carica. “Vieni con me” le disse, mentre la strattonava per un braccio. “Cosa vuoi?” “Ti porto a vedere una cosa” “Devo preoccuparmi?”
Dopo 4 minuti di instabile camminata, giunsero a quello che doveva essere il ‘luogo prescelto’. Una silenziosa distesa di luci cittadina si srotolava sotto i loro occhi. Era tutto così lontano, eppure Deb lo sentiva quasi sotto pelle, quel momento. “Questo dovevi farmi vedere?” “Si, e anche questo…” Le si avvicinò ciondolante e le diede una specie di goffo bacio in bocca. “Bèh, per farmi vedere questo non c’era bisogno di portarmi fino qui” disse lei ridendo.
Erano sulla via del ritorno, tutti e tre con la loro andatura da fumetto. 3 del mattino. Davs stava cantando, sulla base di qualche sconosciuta canzone hardcore, ‘skin & punk & topolin. Topolin is dead’!
Gli altri due cazzoni si aggiunsero ai cori, sbraitando demenzialità di pari livello e, probabilmente, svegliando parecchi rispettabili cittadini. A nessuno di loro sembrava importare davvero, tranne quando Davs cominciò a sollevare sacchi dell’immondizia ammucchiati ai lati delle case ed a lanciarli per strada. “Che cazzo fai?” ringhiò Deb. “Secondo te? Do fastidio ai piccoli borghesi! Caooos. Anarchiaaaa!” Non fece nemmeno in tempo a terminare che Rabbo stava già staccando a pugni lo stemma metallico di una mercedes parcheggiata. “Allora? La smettete?? Cazzo!” Se ne andò a o spedito in macchina e ci restò finché non fu raggiunta dagli altri. Sapeva quanto fossero ubriachi e sapeva che quella non era la loro reale concezione di ciò che la parola ‘anarchia’ rappresentava, ma si incazzò ugualmente per quegli atti di vandalismo fine a sé stesso. “Te la sei presa?” chiese l’umpalumpa, appena entrato. “Si” “Vuoi farci la predica?” Non rispose. Rabbo non disse una sola parola e rimasero tutti quanti in silenzio per il resto del viaggio.
GOING DOWN
“Dove stiamo andando?” chiese Deb, mentre camminavano al buio, nel sentiero dietro il cimitero. “Davs deve farsi una cosa. Lo accompagno” rispose Rabbo a bassa voce. “Deve…farsi? Cazzo ma proprio adesso?” “Dice che ne ha bisogno” Raggiunsero lui che, già seduto ai lati della strada, si stava preparando la dose. Lei preferì starsene in disparte, tra le ombre pesanti della sera. Aspettava. Solo per un secondo girò lo sguardo verso di loro. Frammenti di immagini, come ritagli di giornale: Rabbo che gli teneva il braccio. Una siringa. La sua testa all’indietro. Gli occhi chiusi. ‘Non pensarci, non pensarci’ continuava a ripetersi Deb. Sentiva già l’ansia crescerle dentro, divorando come una larva la sua parte razionale. Angoscia, paura. ‘Perché si fa del male? E perché permette che lui lo veda e lo aiuti?...Non pensare, non pensare….’ “Andiamo, Deb?” Si rese conto che aveva ricominciato a respirare. Di nuovo. “Ok” disse “Dove?” “A casa mia. Ci guardiamo qualche film” rispose Rabbo.
Fissava Davs, raggomitolato sul divano. Cercava di capire cosa gli scorresse dentro, a parte quella roba nelle vene. Gli altri, Simo e Brillo compresi, erano tutti in cucina a prepararsi da mangiare. Voleva vedergli attraverso, capire cosa provava. “Cosa senti, Davs?” “Eh?” “Quando ti fai.” “Pace. Tutta quella che non ho mai avuto. E silenzio” “Rabbo ti ha mai chiesto di provare?” “Una volta, ma gli ho detto di no. So che lui ha provato la coca, una volta, e qualche pasticca. Ma eroina mai. E non voglio nemmeno che inizi, cazzo! E’ curioso. Troppo. Assorbe tutto troppo in fretta, vuole vivere ogni cosa, provare… A volte in lui vedo me stesso” “Mi prometti una cosa? Non glielo permettere mai, ok?” “Promesso. Io gli voglio bene” “Anche io”
Davs si stava grattando la faccia fino a sanguinare. L’eroina in vena faceva quell’effetto, dopo un po’. Lei allontanò di nuovo pensieri pesanti. Si concentrò su quello che Simo stava cercando di dire. “Ma….ssbssssmhserss….secondo voi….sbsss…” Capì solo ‘scurreggia’, ‘si incendia’, ‘culo’ e ‘pecora gonfiabile’. Tutti quanti, quando lo psicotico parlava, annuivano fingendo di capire. Poi si guardavano di sbieco e ridevano, coscienti di non avere capito un cazzo tra quei deliri bisbigliati.
“Brillo” intervenne Rabbo “Tu come hai fatto a trombarti la tipa appena conosciuta?” “L’ho guardata dritta negli occhi e le ho detto…ABAU!” “E questo l’ha distratta dai tuoi 11 centimetri di minchia??” La casa, alle 2 di notte, rimbombò come se fosse stata invasa da un branco di jene ridens in calore. Per fortuna non c’era nessuno, a parte loro, nel raggio di un chilometro. Proseguirono nei loro cazzeggiamenti. Deb stava pensando che formavano davvero un bel gruppo, ma sapeva che il cuore di quello strano agglomerato erano loro tre. Il filo che li univa – Deb, rabbo e Davs – era qualcosa di sottile e invisibile. Non sapeva quanto avrebbe retto, per quanto tempo sarebbero stati legati così stretti, in perfetta sincronia mentale. Ma c’era, quel filo, ed era cosciente che anche loro potevano sentirlo.
Rabbo le stava accarezzando la testa, appoggiata sulla sua pancia, mentre lei si lasciava trasportare al confine del sonno, senza opporre resistenza. Ovunque stesse andando, sentiva che la dolcezza di lui la stava accompagnando. Questo la faceva sentire al sicuro. Lui le si avvicinò e la baciò. Una due tre….dieci volte? Deb perse il conto e perse anche sé stessa. Come se stesse galleggiando, in acque immobili come il tempo. O forse no. Ma non importava. Il confine. Eccolo. “Vuoi andare a dormire?”. Il sussurro la riportò da questa parte. “Mmmmh, forse è meglio.”
Rabbo la portò in camera sua. “Puoi stare qui. E’ comodo. Io scendo ancora” Il lettone, in effetti, era grande abbastanza per perdercisi dentro, con tutti i propri pensieri e sogni. “Ma tu dove dormi?” chiese lei all’improvviso. “Nel letto di là. E poi c’è quello dei miei, per i ragazzi. Notte” “Notte” Spense la luce. C’era un filo di delusione che correva tra i suoi neuroni, in questo momento. Avrebbe voluto che lui stesse lì. Un qualsiasi altro ragazzo di quell’età avrebbe colto l’occasione al volo, ma non lui. Perché? Paura? Rispetto? O, forse, semplicemente non era come un qualsiasi altro ragazzo? Vorrebbe entrargli sotto pelle, scavare, guardare. E’ il sonno, invece, ad entrarle sotto pelle. Di nuovo.
Il filo era ancora lì. Tutti e tre abbracciati sul prato, pancia all’aria, a parlare di anarchia, ideali, amore. Che immagine da diabete!! “Vi voglio bene” disse lei. “Ma perché tu e Rabbo non vi fidanzate?” squittì il punkabbestia. Il bimbo la guardò e disse: “Vedremo” “Dai, fidanzatevi. Le vuoi bene, no?” “Si, molto” “E tu?”
“Si, Davs…ma sembri un prete che ci sta sposando, cazzo!” “Dai dai!! Io vi dichiaro….no no, non rilascio dichiarazioni! Comunque se avrete un figlio dovrete dargli il mio nome” “E se è una femmina?” chiese Deb. “Pasquale!!” rispose Rabbo. “Ok, allora quando ci fidanziamo?” continuò lei. Lui sorrise ma non rispose. L’idea sfiorò la colonna vertebrale di Deb e la fece rabbrividire per un secondo. Sarebbe stato bello, ma terribilmente complicato: sapeva che i problemi legati alla differenza di età le sarebbero piovuti addosso, schiacciandola. Mentre naufragava tra interrogativi e possibili futuri, gli altri si erano messi seduti al centro del cortile, sotto il sole. Entrambi a petto nudo, si preparavano al rituale della rasata; Rabbo aveva appoggiato il rasoio elettrico sulla parte sinistra del cranio di Davs, che continuava a ripetere ‘mi raccomando, non tagliarmi la cresta! Non toccarmi i dreads’. Lei li guardava, così belli e stupendamente asociali,così unici nella loro diversità. Scarti. Rifiuti. Emarginati senza domani. Ma in quel presente erano così perfetti. Il filo si vedeva, anche adesso. Deb si tatuò dentro quell’immagine. Un ricordo troppo pieno di sfumature, troppo prezioso perché andasse perso. Erano così perfetti…..
SICK BOY
“Voglio scrivere un racconto. Oppure un romanzo. Ci ho già provato tante volte: ho 100 inizi ma neanche un finale, perché ci ho sempre rinunciato, mi sono persa per strada. Ma per questo nuovo ho già pensato a un titolo, quindi sono a buon punto!” “Come lo vuoi intitolare?” “Sick heart” “Cuore malato. Perché?” “Perché ho un cuore malato!” “Ma un cuore malato può guarire” “Naaa; può migliorare ma mai guarire completamente. Puoi ascoltarlo battere in modo sbagliato per tutta la vita, e accettarlo… Avrei voluto farti conoscere un mio amico, Sick, ma è troppo tardi: è morto qualche anno fa in un incidente stradale. Il suo cuore era come il mio ma lui ha dovuto sopportarlo solo per 26 anni. Mi manca. Abitava lontano e ci si scriveva, e le sue lettere erano tristi e disilluse, ma in un certo senso mi facevano stare bene, sentire che non ero sola.” “Neanche ora lo sei. Io….”. Si interruppe, sollevò la testa e si raggomitolò contro la ringhiera. Deb, seduta sul pavimento accanto a lui, aspettava. “…Io ti sento dentro sempre di più, sai?” La guardò e lei si accorse che uno strano miscuglio di ansia e dolcezza le stava esplodendo dentro, facendole vibrare ogni cellula. Rabbo continuò. “Io vorrei rischiare. Però ho paura. Se non funzionasse? Se andasse tutto storto e
rovinassimo il nostro gruppo? E l’età, e le tue aspettative, ad esempio? Tu hai vissuto molto più di me, hai una convivenza alle spalle. Io non posso darti…..non so” Lei sorrise, guardando i suoi occhi. “Mi sto innamorando di te” gli disse. “Anche io. E ho paura” “Io ho le tue stesse paure, credo” “Non so. Io….ecco…io non ho mai….ho avuto diverse ragazze, ma non ho….tutti sono convinti di si ma….” “Ma?” “…Non ho mai fatto sesso!” Deb scoppiò a ridere. “Scusa, scusa. Non sto ridendo di te”. Grugnì ancora per qualche secondo. “Ascolta, quanti uomini credi che io abbia avuto?” Lui alzò le spalle con aria interrogativa. “Uno, bimbo bello. Uno solo. Per 6 anni ma ho avuto solo lui. E un'altra cosa: con me non farai sesso, mai!” “Ma….” “Non sarà sesso!” Lui la baciò e disse: “Allora siamo assieme?” “4 maggio. Ricordatelo!”
DISTRUGGI LE ILLUSIONI
“Ho iniziato a prendere dei sonniferi” Deb, mentre camminava al suo fianco, annusava l’aria tiepida captando piccoli particolari; era come se proprio l’aria si stesse trasformando in qualcosa di diverso, di più leggero. Qualcosa che la faceva stare bene. “E’ un po’ che non riesco a dormire” disse lei. “Come mai?” “Forse penso troppo” “A cosa?” ribatté lui, fermandosi al centro della strada e frugandosi nelle tasche. “A noi, più che altro” “A me e te?” continuò Rabbo, prendendo tra le dita una piccola cosa che lei non riuscì a decifrare, e rigirandola fra le mani. “Si, a noi. Non riesco a superare certe paure. Non è tanto la differenza di età. Quella è solo una convenzione. Ma il nostro modo di essere?” “Cioè?” “E’ come se io fossi musica ska, piena di energia, positività, allegria, e tu…..tu hardcore, duro e disilluso” “Io sono disilluso perché in caso contrario la vita ti schiaccia. ‘Distruggi le illusioni’, come cantano i Rappresaglia” “Ma le illusioni, i sogni…. Aiutano a vivere” “Non lo so. Secondo me aiutano solamente a farsi male. Prendi la religione, ad esempio, creata dagli uomini per avere una stronzata in più a cui credere. Dopo
la morte non c’è nulla. Ti ho detto come la penso.” “Può essere, ma come puoi vivere sereno pensando questo?” “Accettazione. La vita è una merda e va vissuta al meglio. Dopo c’è il nulla. Stop, fine del dolore.” “E’ triste” “E’ reale, per quanto può essere crudo. Come l’hardcore. Hai mai letto testi di Negazione, Declino, Nerorgasmo?” “Si, e mi piacciono. Niente a che vedere con la superficialità di certi testi Oi! o ska. Ma allo stesso tempo mi rendono malinconica, come se mi togliessero ogni punto di riferimento. Mi lasciano senza difese” “Ho capito cosa intendi. Come quando uno perde la testa per amore.” “Più o meno. Anche l’amore, comunque, potrebbe essere un’illusione, dal tuo punto di vista” “Non saprei. Amare ti fa stare bene ma quasi sempre ti uccide, perché prima o poi finisce. Come tutto.” “Non credi che l’amore possa durare?” “Non so. Le cose cambiano, continuamente, anche senza volerlo.” “Se non credi che sia giusto avere illusioni, allora perché ti piace così tanto leggere? In fondo anche i libri alimentano i sogni” “Dipende da cosa leggi. ‘1984’ di Orwell, ad esempio, è un romanzo che non lascia spazio alle speranze” “Mmmh…hai già letto ‘Cowboys & indians’ di O’ Connor?” “No, di cosa parla?” “E’ la storia d’amore tra un punk e una ragazza troppo sensibile. A pensarci bene, neanche questo da molto spazio alle illusioni. Se vuoi te lo presto. Anzi, mi è venuto in mente che ce l’ho qui perché lo stavo leggendo prima”
Rivoltò lo zaino, fino a quando fece comparire il libro nelle mani di Rabbo. “Ok, grazie, lo leggo volentieri” “Comunque continuo a chiedermi: lo ska e l’hardcore possono stare bene assieme? Possono coesistere?” “Boh….al limite c’è sempre lo ska-core!” “Ma fa schifo!” “Già, non ha molto senso come musica” Si rigirò ancora un po’ tra le mani il piccolo oggetto che aveva estratto dalle tasche, poi lo mise sul dito anulare di Deb, che lo fissò con aria interrogativa. Era una guarnizione di quelle che usava lui per i dilatatori dei lobi, un cerchio di gomma che le stava giusto giusto al dito. “Cos’è?” gli chiese. “L’anello di fidanzamento. Dato che ieri mi hai regalato il bracciale borchiato, dovevo ripagarti.” “Ah, bello. Ma i diamanti?” disse sorridendo. “Materialista!! “ rispose lui, facendola saltare per aria con un abile scatto di solletico.
‘Le cose cambiano, continuamente, anche senza volerlo’. Il pensiero le ronzava di continuo nel cervello, come se qualcuno avesse schiacciato il tasto REPEAT su una canzone che non le piaceva per niente e lei fosse obbligata ad ascoltarla fino al limite della sopportazione. Niente punti fermi. Solo paura e voglia di volare. Ma più in altro vai più ti fai male cadendo. Ed è inevitabile cadere. Deb lo sapeva. Spezzò in due la pastiglia bianca, la ingoiò e si rannicchiò sotto le coperte,
aspettando che il nulla rendesse tutto più semplice.
LAMBRUSCO KID
Stavano seduti in cima alla collina, con la schiena appoggiata ad un tronco. Una di quelle oscene orchestrine alla Raoul Casadei inquinava acusticamente la notte. “Mi chiedevo perché ad una festa delle ciliegie non ci sono le ciliegie” disse Deb, baciando Rabbo sulla fronte, stando attenta a non sfiorare quella stratosferica albina cresta tirata su col sapone di marsiglia. “E io” la interruppe lui “mi chiedevo come fai ad essere così stupenda” “Piantala, stronzo. Mi prendi in giro per questo brufolone sul naso?” “Perché pensi sempre che io stia scherzando?” “Bèh, guardami: con queste occhiaie, poi…” “Tu sei stupenda. Fuori e dentro. Non sei insulsa come quelle sciacquette aspiranti punk che mi stanno dietro. Sei una donna. E io sono innamorato di te” Deb sentì dentro il solito rimescolarsi di diverse sensazioni. “Ma di cosa sei innamorato?” “Io…ecco….come faccio a rispondere? E’ che sembri fatta apposta per me!” “E cosa succederà quando un giorno ti sveglierai e ti renderai conto che quella donna accanto a te è in realtà una vecchia rugosa scassacoglioni con il culo cadente?” “Veramente me ne sono già reso conto!” “Bastardo!” rise lei, tirandogli una finta sberla sulla guancia. “Si, e mi sono anche reso conto che c’è una fila di belle e giovani fighe che aspetta solo che io ti molli per scoparmi fino alla nausea”
“Se è per quello, puoi pure fartele mentre stai con me. Figurati se lo vengo a sapere!” Si alzò e divenne improvvisamente cupa. “Stupida! Stavo scherzando. Voglio te. Per ora so solo questo.” La baciò e lei si rese conto di quanto il suo alito sapesse di vino. Quando beveva non c’era traccia del suo nichilismo hardcore, come se l’alcol lo congelasse temporaneamente in lui. Lo sentiva più allegro, più espansivo e, forse, anche più vicino al suo modo di essere. Ma non durava mai troppo. Davs arrivò con la solita bottiglia di lambrusco al seguito ed un ghigno provocatorio in volto. “Aho!” disse “venite un attimo con me? Mi serve un palo.” Lei non capì ma vide Rabbo alzarsi e prenderla per mano, così li seguì. Quei due si stavano parlando a 5 centimetri dall’orecchio, non abbastanza ad alta voce perché anche lei – stordita dalla mazurka che infestava l’aria – sentisse. Giunti in una stradina isolata, piena solo di auto parcheggiate, Rabbo le disse: “Aspetta qui”. Li vide sgattaiolare nell’ombra e li perse, mentre un viscido presentimento le si insinuava tra i neuroni. L’orologio corse in avanti ma dei ragazzi nessun segno, tanto che Deb si stufò e decise di tornare sulla collina, in preda ad un accenno di incazzatura. Si sentiva di nuovo malinconica; trovava assordante quel vociare di gente ubriaca, quei canti allegri da sensi alterati. Sembrava tutto così maledettamente di plastica. Persa nei suoi pensieri, non si accorse dell’arrivo di lui. “Scusa” le disse “ho fatto una cazzata”. Lei sapeva già, più o meno, di cosa si trattasse.
“Sono andato con Davs a rubare in una macchina aperta, ma abbiamo trovato solo qualche cd e 10 euro. Voleva i soldi per farsi..” Deb sentì i muscoli del collo contrarsi, ma preferì ignorare quello spasmo di rabbia. Dopo qualche secondo di silenzio parlò, con un tono stranamente quieto. “Se Davs si buttasse da un ponte” gli disse “lo faresti anche tu?” “Ho capito cosa vuoi dire. So di avere sbagliato e non lo rifarò. Non mi sembra giusto; va contro al mio modo di essere. Ho capito. Grazie per non esserti incazzata.” “Mi fido di te” disse lei, con una punta di incertezza nella voce di cui non si accorse, persa com’era nel carezzargli i capelli.
QUESTI ANNI
Stava vomitandosi l’anima in un angolo del centro sociale, mentre Janz e Gigo lo fissavano quasi preoccupati. “Don’t worry, ragazzi” disse Deb “Gli capita ad ogni concerto” In realtà le spiaceva che gli altri lo vedessero sempre e comunque in quello stato o, al limite, in preda a deliri etilici. Le dispiaceva che pochi, al di fuori di lei e Davs, sapessero davvero quanto quel punk potesse essere intelligente e profondo. ‘BLEEEAAARG!’ era tutto ciò che Rabbo aveva da dire all’umanità in quel preciso istante. Senza dubbio fu molto sintetico. “Ehi, Impact, partiamo con l’intervista?”. Deb schiacciò il tasto REC sul mini registratore. “Prima domanda: in quale esatto momento, da pischelli quali eravate, siete diventati adulti, rendendovi conto che l’essere punk non significava solo scritte sul chiodo, creste colorate ecc.?” “Io sto ancora pensando a cosa farò da grande, nonostante i miei 42 anni” intervenne Janz. “Nella tua domanda ce n’è una implicita, in realtà: cosa significa essere punk?” continuò Gigo. “Il momento di cui tu parli (il momento in cui si smette il chiodo e si pensa a cosa significa l’essere punk) non l’ho mai vissuto davvero. Forse perché eravamo puro istinto, noi che vivevamo lontani dalla ‘scena’, senza essere condizionati da niente e da nessuno, nemmeno dall’idea di essere punk. Non conoscevamo altre realtà, oltre alla nostra. Interpretavamo a modo nostro cose di cui avevamo solo sentito parlare, le facevamo ‘nostre’. La maggior parte dei pezzi li abbiamo scritti in quel periodo. Abbiamo perso qualcosa nel momento in cui ci siamo aperti verso l’esterno, cominciando veramente a far parte del
circuito” “Faccio io una domanda” disse Davs. “A livelli di repressione, la situazione era peggiore o migliore negli anni ’80 rispetto ad oggi?” Gigo, dopo un attimo di silenzio, rispose. “Io credo che il livello di repressione attuale sia il più elevato mai visto dal periodo del fascismo di Mussolini in poi, anche se ora il fascismo ha una faccia completamente nuova. Il fatto è che, negli anni ’80, si viveva ancora un concetto antico di regime. Chi deteneva il potere proveniva da una certa cultura: gente che aveva ancora la mentalità del manganello vero e proprio, della repressione fisica e riconoscibile. Quel tipo di repressione creava una linea molto più definita tra chi stava da una parte della barricata e chi dall’altra. In seguito i sistemi si sono evoluti, con il mondo della comunicazione, con la tv…. La repressione si è fatta meno marcata ma sempre presente, attraverso un processo di manipolazione dell’opinione pubblica (tramite i media, appunto), attraverso una lenta, costante e sistematica intrusione nella vita quotidiana. Oggi come oggi, qualunque cosa non appare in tv non esiste! Questo è il sistema, ed è molto più efficace – a livello repressivo – del manganello” “Perché ti manganellano il cervello, non il corpo!” sbiascicò Rabbo, dando sporadici segni di vita dall’angolo sporco in cui stava semisdraiato. “E’ vivo!” si stupì Deb. “Ok, proseguiamo. Cosa credete di aver perso e trovato, lungo la strada, in tanti anni di onorata carriera?” Rispose Gigo, come sempre. “La vita secondo me è fatta di aggi, e se pensi che una cosa che non hai più è una cosa persa, hai una visione negativa, distruttiva. Le esperienze che fai nella vita diventano il tuo bagaglio personale.” “Secondo te gli Impact hanno lasciato un segno?” Fu di nuovo il bimbo ad intervenire. “Se c’è un coglione diciottenne come me che li ascolta ancora, vuol dire che un segno lo hanno lasciato”
“In effetti” proseguì Gigo “che gli Impact abbiano lasciato un segno me ne sto rendendo conto solo ora, grazie alle nuove generazioni. Forse non abbiamo nemmeno lasciato qualcosa, ma solo fatto delle cose in cui oggi i ragazzi si riconoscono. Tu che oggi ascolti gli Impact o altri gruppi hardcore simili, non sei una nostalgica: semplicemente ti riconosci in cose che noi abbiamo vissuto nella stessa maniera in cui tu le stai vivendo ora. Noi rappresentiamo un modo di vedere la vita non pessimistico, ma assolutamente realistico e drammaticamente attuale. Oggi, come 20 anni fa, è tornato alla ribalta in maniera violenta ed all’ennesima potenza un momento di incertezza, insicurezza, delirio, nichilismo. Sono ritornati i grandi interrogativi, le incognite… Se io fossi giovane adesso proverei le stesse cose che provavo allora: una totale disillusione nei confronti della giustizia sociale. Per questo nacque il punk allora e per questo sta rinascendo oggi” “Ma cosa c’era di così speciale nell’ hardcore degli anni ’80, che oggi tutti ne parlano e lo ricordano? E quello spirito, cosa ne è rimasto?” “Allora era una cosa nuova, mentre oggi è tutto un ripetersi di cose già sentite e viste. Credo sia solo questo. Per quanto riguarda lo spirito penso che, pur facendo esperienze nuove e smussando alcuni angoli, il tuo approccio alla vita rimane pressoché lo stesso negli anni. Qualcosa ti rimane dentro, comunque.” “BLEAAARRG!” L’umanità aveva di nuovo l’onore di assistere ad uno dei monologhi di Rabbo. “Scusate ragazzi, dato che l’intervista è più o meno finita, vado a soccorrerlo” Deb corse dal suo vomitoso amore, facendolo sdraiare sul prato. “Sono un coglioncello!” disse lui. “No, sei solo ubriaco”. Gli accarezzò i capelli, fino a quando il bimbo collassò in un sonno profondo. Cominciò a piovere fastidiosamente. Deb e Davs, non riuscendo nemmeno con la violenza a fare alzare Rabbo, si limitarono a metterlo seduto sull’erba, coprendogli la testa con un ombrello decisamente troppo piccolo.
“Ma come cazzo fa a stare immobile in quella posizione, mentre dorme?” disse l’umpalumpa. “Non chiederlo a me. Non finisce mai di stupirmi. Guardalo, sembra un fungo. Anzi, sembra uno dei sette nani…Sbronzolo!!” Rabbo non si mosse di un millimetro nemmeno ora che le loro risa isteriche rimbombarono attraverso le mura del centro sociale. Solo più tardi riuscirono, di forza, a trascinarlo in macchina e, solamente una volta arrivati a casa, dopo circa due ore, il bimbo pronunciò una frase di senso più o meno compiuto. “Ma….perché siamo a casa? E il concerto? E perché ho i pantaloni bagnati??”
NICE GUYS FINISH LAST
Deb stava osservando le chiazze giallastre sul soffitto. Quel bar cadeva a pezzi e, come al solito, era più vuoto del cervello di un truzzo. Lavorava lì da 4 anni ed aveva assistito, impotente, alla lenta decadenza di quel locale trascurato dal boss. Andrea se n’era appena andato, ed essendo i clienti merce assai rara, aveva talmente tanto vuoto da riempire di pensieri da non sapere cosa farsene. Le ritornava in mente la domanda di poco prima. Andrea, 36 anni. Il classico bell’ uomo che già al primo sguardo ispira fiducia e che ogni donna vorrebbe come marito e padre dei suoi figli. Andrea, proprio quello lì, le aveva chiesto ripetutamente (pur essendo a conoscenza del fatto che lei fosse impegnata) di uscire assieme. Lei aveva sempre rifiutato con la giustificazione che, anche se non ci fosse stato Rabbo (che invece c’era, eccome, inchiodato nei suoi neuroni), loro due erano decisamente troppo diversi perché potesse funzionare. “Ne sei convinta? Perché continui a dire di essere diversa? E in cosa, poi, pensi di esserlo?” 6 minuti. Era il tempo che, in media, impiegava Andrea per fare colazione, scambiare due parole e andare al lavoro. 6 minuti. Come avrebbe potuto in 6 minuti spiegare la sua diversità? Come avrebbe potuto spiegare che no, la sua diversità non era un capriccio ma un modo di essere? Come avrebbe potuto spiegare che la sua diversità non era in una gonna portata sopra ai pantaloni, né in una maglietta con disegnato un teschio, né in due spille
da balia fissate alla felpa o in una collana fatta di plettri? Non era nel suo vestire completamente di nero da più di 15 anni, anche se quel nero forse aveva un senso: perdersi e confondersi in un colore che racchiude qualsiasi sfumatura…tutto e niente. Come avrebbe potuto spiegare che la sua diversità era qualcosa di profondamente radicato in lei, fin da quando – ancora bambina- cercava di essere come tutti gli altri, per non venire emarginata? E la sua adolescenza vissuta nell’ombra, ponendosi domande sul proprio essere asociale e sul non riuscire a trovare un ruolo, uno scopo, fino alla scoperta più o meno casuale di un piccolo universo di persone simili a lei, e la consapevolezza di non essere più sola. Come avrebbe potuto spiegare ad Andrea, un uomo di sani principi, composto e perbene, che per lei un rutto non era nient’altro che l’esternazione di un bisogno corporale, di un lato fin troppo umano, di cui non c’era bisogno di vergognarsi, e non una mancanza di rispetto verso il prossimo? Migliaia di volte al giorno le persone avevano mancanze di rispetto ben più gravi di un rutto, e ciò che lui definiva ‘maleducazione’, per lei era solamente un modo di essere sé stessi, mentre la sua cara ‘educazione’ era niente di più che un insieme di regole e schemi prefissati, un accozzaglia di particolari che non avevano nessun peso sul valore personale di un essere umano. Per Deb mancanza di rispetto significava razzismo, violenza, superficialità, pregiudizio. Ma come avrebbe potuto spiegare tutto questo ad un ragazzo ‘normale’, per di più in soli 6 minuti? Sapeva che pochi avrebbero potuto comprendere il suo punto di vista; ne era consapevole e lo accettava. A Rabbo, invece, non avrebbe dovuto spiegare niente. Lui già lo sapeva, tutto questo, perché aveva vissuto le stesse cose. Aveva sentito sulla sua pelle la stessa diversità di Deb. Quella diversità che, a volte, ti fa sentire vulnerabile e solo. Quella diversità.
BARBED WIRE LOVE
Forse quel giorno sarebbe successo. Era un bel giorno, e si sentiva pronta. Emozionata, ansiosa come un’adolescente alla sua prima volta, ma comunque pronta. ‘Oggi non ci sono i miei, se vuoi a a trovarmi’. Il messaggio di Rabbo le sembrò inequivocabile, ingenuamente buttato lì in stile invito casuale. Le arrivò mentre stava preparando l’ennesimo cappuccino della giornata, ed il suo pensiero fu: ‘Evvai, mi sono anche depilata!!’ Non tardarono rigurgiti mentali dei suoi primi appuntamenti da teenager, con mammina ad accompagnarla in auto, sempre ad un o dal culo e pronta a commentare eventuali cozze di pretendenti. Questa volta mamma non c’era: solo lei, un bel quarto di bufalo biondo, una casa vuota e una tiepida giornata. Del resto doveva succedere, prima o poi. Avrebbe voluto fosse il giorno prima, come regalo per il diciottesimo compleanno di lui, ma Rabbo si era chiuso in casa per una delle sue frequenti emicranie. Non vederlo le era molto spiaciuto, anche perché il diciottesimo non era un compleanno qualsiasi, lo sapeva bene e ricordava ancora il suo: sembrava fossero ati secoli (e forse erano ati davvero!).
Arrivò sulla porta di casa e, quando vide la sua pelle così trasparente alla luce del sole, tutte le sue sicurezze ed i precari atteggiamenti da donna matura crollarono in mezzo secondo.
Rabbo la baciò e lei si sentì improvvisamente molliccia ed in stato confusionale: non era più sicura di essere pronta. E se l’avesse deluso, con la sua scarsa esperienza (nonostante i 30 anni)? Se l’avesse trovata brutta? Se l’avesse vista nuda e si fosse messo a ridere? Se lui non avesse avuto alcuna intenzione di farlo? Se…. Ecco, la tredicenne quattrocchi pelosa e insignificante in lei era tornata a farle visita, proprio quando doveva andarsene affanculo a chilometri di distanza. Paranoie. Salirono in camera dei suoi, dove lui stava usando il computer che si trovava nella stanza. La baciò ancora e lei, riacquistata la sobrietà, si accorse del buon sapore di dentifricio nella saliva di Rabbo. Si rese anche conto che i suoi capelli erano stati lavati da poco e che la sua pelle era profumata; non c’era dubbio, tutto questo faceva parte del ‘rituale’! Si sentì vagamente rassicurata, specialmente quando avvertì in lui, dai suoi gesti e movimenti goffi, la sua stessa ansia. La trascinò scherzando sul lettone e, alla luce troppo forte del pomeriggio, cominciarono a baciarsi, per un tempo troppo dilatato. Lei allungò piano una mano dietro la sua schiena liscia, tirandoselo contro, con il cuore tarantolato. Come una stupida, credeva che se gli fosse stata più vicino possibile, coprendogli la visuale, non gli avrebbe dato modo di fissare troppo il suo corpo, i suoi difetti, le cicatrici, la cellulite… Non sapeva che, in realtà, lui la vedeva comunque e che la vedeva bellissima. Successe, e non fu né doloroso né imbarazzante né pauroso né in mille altri modi in cui se l’era immaginato. Non aveva mai avuto un buon rapporto con il sesso, per via di quell’unico uomo che rovinò la sua prima volta con cattiveria (‘Non sei più vergine’ fu tutto quello che le disse, dopo di che se ne andò a guardare la tv in cucina), quell’uomo che la faceva sentire, ogni volta, una bambola gonfiabile o poco più.
Ma c’era qualcosa di nuovo, quel giorno. Era lasciarsi andare in una sensazione fluida e rassicurante, qualcosa che non poteva farle male né essere pericoloso; era un’emozione goffa, adolescenziale, ma senza limiti di spazio e di tempo. Quando tutto finì, i neuroni di Deb rimasero in stand-by per almeno 40 secondi. Era davvero tutto diverso. Rimasero a fissarsi ancora un po’. Lei pensò che non aveva mai visto un essere così schifosamente bello.
LOVE SUCKS
Era tutto immobile, un piccolo angolo di silenzio abbandonato al centro del caos cittadino. Una vecchia villa in rovina, tra macerie e piante che si snodavano, senza direzione, in un groviglio di verde. Uno di quei luoghi fuori dal tempo, in cui niente scorre secondo le regole urbane. Rabbo l’aveva portata lì per festeggiare il loro primo mesiversario e, tenendola per mano perché non inciame tra i pezzi di muro a terra, la condusse nella stanza più in alto, quella da cui si poteva vedere parte della città e del lago. Le persiane facevano filtrare molecole leggere di polvere, illuminate dal sole di giugno. Si sedettero sulla rete di quello che, una volta, doveva essere stato un letto matrimoniale. Non era nemmeno troppo malmessa, in confronto a ciò che la circondava: tutto cadeva a pezzi e c’erano brandelli di vita ata in ogni angolo. “Devo dirti una cosa” sospirò Deb, senza guardarlo negli occhi. “Ieri, quando lo abbiamo fatto…ecco…non ti ho chiesto di usare il preservativo perché sapevo che per te era la prima volta ma…” Si interruppe un attimo, mentre l’ultima frase riecheggiava nel suo cervello. Sentirsela dire era così strano. ’La prima volta’. Forse solo in quel momento capì l’importanza di quella cosa. Capì quanto stupendo fosse essere la prima volta per qualcuno. Non l’avrebbe mai potuta cancellare, sarebbe rimasta come un tatuaggio sotto pelle. Dentro. “Ecco, io non te l’ho chiesto, ma avremmo dovuto usarlo, perché io non prendo la pillola da mesi, ormai.” Continuava a fissare un punto sul pavimento, immobilizzata dalla tensione e dall’imbarazzo.
‘Che cogliona!’ pensava. “Ma perché non me l’hai detto?” chiese lui. “Perché…non so. Non ci pensavo, in quel momento. C’eri solo tu” sorrise. “Ma tu sei vera?” Eccolo, di nuovo, a riempirla di tenerezza e stupore. Incredibile come poche sillabe, pronunciate goffamente, la fero sentire, almeno per un minuto, stupendamente perfetta. “Io sono vera, e tu?” “Io sono solo un coglione!” “Tu sei il ‘mio’ coglione. Comunque questa sera devo andare in ospedale a farmi prescrivere la pillola del giorno dopo. Sono stata un’idiota.” “Siamo una bella coppia di coglioni, allora. Ci manca solo un pene” “Bèh, c’è Davs” “Quel cazzone!” dissero contemporaneamente, rotolandosi sulla rete ridendo. “Visto che stasera prenderai quella pillola, dobbiamo approfittarne ora: possiamo farlo anche tutto il giorno!” E così fu.
Gli sguardi accusatori di quei vecchi stronzi, al reparto ginecologia, le strisciavano addosso, quasi cercassero di guardarle dentro. Così odiosi nel loro involucro di sicurezze e verità assolute. Era una delle sensazioni peggiori che potesse provare in quel momento, specialmente quando il ginecologo le chiese qual’era il motivo della sua visita e lei si sentì pronunciare le quattro sgradevoli parole che, probabilmente, ogni buon cattolico dottore che si rispetti disprezzava: ‘pillola del giorno dopo’.
I suoi occhi. Sembrava che quell’uomo stesse cercando di raschiarle via dall’utero, con la sola forza del pensiero, una vita forse nemmeno concepita. La visitò, le mise in mano la ricetta e la salutò freddamente.
Era nella sua stanza, ora. Al sicuro, dove tutto era perfetto. Talmente perfetto che si guardò allo specchio mentre gocce acide le offuscavano la vista. Stava ingoiando quella compressa colorata come una caramella. Ricordi di infanzia. Un’infanzia ata. Forse una futura, che stava per essere cancellata da un gesto crudelmente semplice. Un’altra pastiglia, meno gradevole esteticamente, era sul comodino. In attesa di farsi un viaggio spedito giù, per il suo esofago, e poi su, fino ad annebbiare gli unici due neuroni rimasti. Si chiese perché mai, se tutto era così perfetto, aveva bisogno di affogare con sostanze chimiche la propria insonnia. Amare poteva essere un errore, soprattutto senza precauzioni e barriere. Barriere sentimentali, anche, di quelle che lei riusciva a far crollare così bene. Deb pensò che quello con la A maiuscola fosse il sentimento più instabile di tutti e che, se davvero voleva punti fermi, avrebbe dovuto cercarli oltre, dentro sé. Pensò che, in fondo, avrebbe dovuto sentirsi felice, perché quel suo animaletto biondo le aveva appena scritto ‘Ti amo’ in un messaggio. Il suo primo ‘ti amo’, buttato lì a caso tra una parola e l’altra, quasi avesse voluto nasconderlo per paura, tra un ‘buonanotte’ e un ‘stai tranquilla’. ‘Ti amo’. Eppure non sentiva niente, ora. Solo vuoto a scandire i fottuti secondi. Pianse.
Poco dopo, mentre ‘King of ska’ riempiva molecole d’aria, un altro messaggio illuminò il cellulare. Un amico la avvisava della morte di Desmond Dekker. Proprio lui, the king of ska; e Deb si sentì come se qualcuno le stesse rubando la gioventù, la spensieratezza. Come se qualcosa in lei si interrompesse; come se una nota, una strofa o un ritornello dell’immensa canzone ska dentro di lei sparisse, ingoiata da un’incognita, da un interrogativo troppo più grande di lei perché si soffermasse a pensarci senza venirne annullata. Si sentì come se un pezzo della sua allegria fosse scivolato giù per il suo intestino e ancora più giù, dritto nel cesso. ‘Ho cagato fuori la mia allegria’ pensò, ‘sempre meglio che cagare fuori l’anima!’
PUNK ROCK LOVE
Stavano abbracciati, nel silenzio della notte che non era proprio silenzio. Un sordo rimescolarsi di voci: quelle umane, quelle artificiali delle auto e le voci del mondo, quelle che esistono da sempre. Lui, con la solita buffa capacità di rendere tutto più semplice, disse: “La vita è come una canna, ecco cosa penso” “In che senso?” “Sai che finirà, perché tutto finisce. Ma sai anche che, proprio per questo, vale la pena gustarla fino in fondo. Anche quando ti farà male la gola o ti girerà la testa. Fino all’ultimo tiro.” “Anche l’amore è così” “Si”. Ancora silenzio. “Ti amo”. La guardò. “Perché?” chiese Deb. “Perché sei…non lo so. Io non so se questo è amore, ma so che una cosa così non l’ho mai neanche lontanamente provata. Non saprei come altro chiamarlo” “Io invece l’ho già provato. E ti amo”. Lo abbracciò più stretto. “Per questo ti dedico una delle mie più sonore scurregge di sempre” aggiunse, mentre le sue vibrazioni anali stavano già inquinando acusticamente l’aria. “Ah si? Stronza! Allora io ti dedico una delle più grosse caccole mai estratte dal mio naso”. Iniziò ad affondare l’indice esplorando quel delizioso naso a patata ma, quello che ne estrasse, non fu altrettanto delizioso.
Lei rimase per un attimo a fissarlo, indecisa se vomitare o no, mentre il coglione si ficcava l’intero dito giallognolo in bocca. “Minchia, che schifo! Come cazzo fai a mangiare le tue caccole?” “Volendo mangio anche le tue. Sai, è un’abitudine che non sono mai riuscito a perdere negli anni. E non ho nessuna intenzione di smettere! In realtà faccio così schifo solo per mettere alla prova il tuo amore, credo” “E a quale conclusione sei arrivato?” “Bèh, finora mi hai visto vomitare, rotolarmi nel fango, mangiarmi le caccole, limonare Davs, scurreggiare, ruttare. E sei ancora qui. Si, mi ami!” Deb lo baciò di nuovo, dimenticandosi completamente di ciò che era appena ato su quella lingua umidiccia.
ANGELS WITH DIRTY FACES
“E’ solo una scritta” disse lui “me l’ha fatta una mia amica ieri sera, alla festa della scuola”. ANGELO TRASFIGURATO. Macchie di pennarello rosso sul suo torace. Nient’altro. ‘Stai tranquilla, non è niente’ continuava a ripetersi Deb. “Ma perché angelo trasfigurato?” “Non lo so. Me l’ha anche spiegato il significato, ma ero troppo ubriaco per capire!” “Non ti sembra di stare esagerando un po’, con il bere? Ormai esci tutte le sere e…” “Potresti uscire anche tu con me, se volessi” “Io lavoro, amore bello, te lo sei dimenticato? In più soffro di insonnia” “E allora non rompermi il cazzo perché esco!” Autocontrollo. Deb respirò a fondo e cercò di ristabilire la calma nel suo cervello in ebollizione. “Non ti rompo il cazzo” disse “Sono solo preoccupata per te. Non so mai dove sei, cosa fai, cosa pensi. Non parli mai con me di quello che hai dentro. Non rispondi ai miei sms. Io sono talmente gonfia di ansia che mi sto riempiendo di gocce di EN per dormire”. “Quindi ora è colpa mia se soffri di insonnia?”
“Non sto dicendo…” “Possibile che non riesci a fidarti di me?” “Io non…” “Probabilmente mi reputi un coglione, vero? Incapace di vivere. E hai ragione: sono un coglione e la mia vita fa schifo!” “Aspetta…”. Ma Rabbo era già corso via. Non riusciva mai ad afferrarlo. E non riusciva mai a dirgli che per lei non era un coglione. Solo un ragazzo stupendo che stava attraversando un periodo di merda. Deb lo sentiva suo, profondamente. ‘E quando non lo sarà più?’ si chiese. Ora vorrebbe essere piena di niente, piuttosto che di ansia e sentimenti malati. Vorrebbe leggerezza. Vuoto.
IF THE KIDS ARE UNITED
Il corteo procedeva lento, come i suoi pensieri. Deb si muoveva ai margini, al limite della strada, proprio dietro lo striscione degli skins antifascisti. Aveva scelto a fatica dove piazzarsi: c’erano decine di furgoni e realtà diverse in piazza Duomo, alla partenza. Comunisti, anarchici, skinheads e punks provenienti da ogni parte d’ Italia. Due sole cose in comune: l’antifascismo e l’ingenuo bisogno di un mondo non necessariamente migliore, ma comunque più giusto. Le stesse cose che aveva dentro lei, da sempre. Ci fosse stata gente conosciuta, per lo meno, si sarebbe accollata a loro; dove cazzo erano tutti gli skins che vedeva di solito ai concerti, quelli di Brescia, Bergamo, Milano e dintorni? Solo volti sconosciuti, familiari unicamente per quella divisa vista ormai così tante volte, sotto i palchi e nelle strade. Una divisa, perché esattamente quello era, nonostante molti – lei compresa – storcessero il naso solo a sentirla, quella parola. Un segno di riconoscimento, un modo per ritrovarsi simili ma anche una maniera di uniformarsi, adeguarsi ad un modello. Tutto questo avrebbe dovuto appartenere al mondo là fuori, non alla loro sottocultura. Eppure, evidentemente, il conformismo faceva parte anche del modo di essere di skins e punks. A sentire loro era tutta una questione di stile. Nonostante tutto le piacevano, quegli esseri in uniforme schierati di fianco a lei. Avanzavano lentamente, urlando cori e slogan, calpestando con anfibi e Doc Martens l’intera metropoli, dando un’idea di forza e compattezza che molti comuni cittadini temevano.
Era questo, la paura, che creava diffidenza e pregiudizi nella gente. Deb, in fondo, capiva anche loro. Quelli che, al aggio del corteo, si scansavano con aria preoccupata: non fosse stato per le scritte antirazziste sulle magliette, quella mandria di crani rasati, tatuati e muscolosi avrebbe potuto tranquillamente essere scambiata per un gregge di naziskins. Solamente le idee li differenziavano da quei coglioni marci di arroganza ed estremismo di destra. Nonostante si trovasse, forse, nella zona più a rischio della manifestazione (quelle più tranquille erano la testa, guidata dai genitori dei ragazzi in carcere, e la coda), Deb si sentiva al sicuro tra quei massicci skinheads romani e, soprattutto, non si sentiva sola pur essendolo. Avrebbe voluto fare amicizia, scambiare almeno due parole, ma sembravano tutti così presi dalla loro marcia, impegnati in qualcosa di più importante, che non riguardava sé stessi come individui ma come collettività. Le bastava camminare accanto a loro. Quasi non si accorse di essere arrivata di fronte a San Vittore, dove si trovavano i ragazzi arrestati l’ 11 marzo. Arrestati per avere manifestato – in un paese in teoria libero ed in cui il fascismo dovrebbe essere considerato reato – contro il corteo di Fiamma Tricolore; arrestati perché scomodi, o solo per il fatto di essere antifascisti. Certo, avevano fatto un po’ di casino quell’ 11 marzo 2006: avevano manifestato in una maniera che lei non condivideva, ma questo non spiegava come potessero essere ancora in carcere e come potessero correre il rischio di finire reclusi anche per parecchi anni! In quella calda giornata di giugno, per fortuna, le cose andarono diversamente. Deb si guardò attorno: migliaia di persone circondavano San Vittore, decine di furgoni sparavano musiche a tutto volume, note che si fondevano in un unico suono allegro, un lampo di spensieratezza in regalo agli arrestati. Qualcuno ballava, qualcuno cantava, qualcuno dipingeva graffiti sui muri; quasi tutti fissavano quelle finestre, in alto, da cui minuscole figure si affacciavano salutando.
Anche lei guardò. Sentì un brivido correrle lungo la schiena, fino ad arrivarle dentro. Si sentiva parte di qualcosa più grande di lei, qualcosa che le apparteneva allo stesso modo in cui apparteneva a loro. In quell’attimo non le importava più niente di tutte le stronzate che le tormentavano il cervello poche ore prima. Niente del suo ragazzo che la faceva sentire sempre più fottutamente sola. Niente della sua insonnia. Niente di quell’idiota del bar che, da un paio di giorni, continuava a ripeterle che la doveva smettere di fare l’adolescente e trovare una dimensione adatta a ‘una della sua età’. Deb sapeva bene cosa intendesse il tizio per ‘dimensione adatta’: una tranquilla e normale esistenza soffocata da abitudini, mutui, pannolini e doveri coniugali. Questa. Questa che aveva davanti agli occhi era la sua dimensione. Chi non le era mai appartenuto, chi non aveva mai vissuto nelle viscere del suo mondo,non avrebbe mai potuto comprenderlo. Era una realtà come altre, né migliore né peggiore. Solo diversa. Deb aveva imparato a non idealizzarla, perché in troppe occasioni ci aveva scoperto dentro la stessa merda, falsità, superficialità che c’era là fuori. Ma ogni volta che questo succedeva, ogni volta che restava delusa e schifata ai margini, in equilibrio instabile, sentiva comunque un filo…. Ogni volta qualcosa la riportava, prepotentemente, ad una realtà che sapeva comunque sua.
DEATH COMES RIPPIN’
Davs era chino sulla tomba di Sparky. Aveva in mano una bottiglia di vino rosso e stava rovesciando parte del contenuto a terra, mentre osservava la foto dell’amico morto suicida due anni prima. Un rito, un gesto di offerta che ripeteva ogni volta che gli faceva visita. La sua bocca non si muoveva di un millimetro ma Deb, seduta nell’angolo con Rabbo, sapeva che Davs stava parlando, in quel preciso istante. Sentiva i suoi pensieri, come se si materializzassero nell’aria. E sentiva anche i pensieri del suo bimbo, che guardava quella tomba con una tristezza, con una tale pesantezza dentro che sembrava stesse vedendo sé stesso, in un futuro non troppo lontano, chino sulla terra. Sulla foto di Davs. Tutti sapevano che, se avesse perseverato nelle sue manie autodistruttive e nei suoi ossessivi pensieri di morte, sarebbe presto diventato concime. Lei avrebbe voluto proteggere Rabbo da tutto questo. Anche dall’oscurità di Davs, che aveva così tanta influenza su di lui. Era come se lei fosse luce e Davs fosse ombra. Rabbo perfettamente nel mezzo, ad oscillare da un estremo all’altro. Se uno dei due avesse prevalso, l’equilibrio si sarebbe rotto, e non aveva la minima idea di quali conseguenze questo avrebbe comportato. “Mi faccio una canna” disse il bimbo. “Ma qui, al cimitero?” ribatté Deb. “Allora? E’ proibito?” “No, ma…”
“Ok ok, ho capito…il coglione se ne va!” Si alzò e si diresse al cancello. La ghiaia scricchiolava rumorosamente sotto i suoi anfibi, mentre lei lo fissava allontanarsi. Cominciò a piovere.
NIHILISM
Come una spugna. Rabbo assorbiva tutte le emozioni, gli stati d’animo, gli umori altrui. Per questo stare vicino a Davs ora gli faceva così male. E che stava male glielo si poteva leggere negli occhi, come sempre: era così trasparente. Da giorni Davs aveva rispolverato quel suo vecchio spirito nichilista e distruttivo che tanto adorava: auricolari spinti fin quasi nel cervello, i Negazione a bombardargli costantemente gli unici due neuroni rimasti. ‘Tutti pazziiii, tutti mortiiii!’ urlava per le strade, a ripetizione; dava quasi la nausea, a sentirlo. Vino da due soldi perennemente in circolo, nelle vene, spesso accompagnato da qualche milligrammo di psicofarmaco o altre sostanze tossiche che lo avrebbero presto cancellato da questo assurdo universo, così come lui voleva. Era così cambiato, così diverso dalla persona che avevano conosciuto. Faceva di tutto pur di isolarsi, pur di litigare, farsi odiare. Era instabilità pura, capace di mandarti affanculo e, 30 secondi dopo, abbracciarti e dirti che ti voleva bene. Impossibile capire cosa volesse davvero. Essere salvato? Annientarsi definitivamente? Forse non lo sapeva nemmeno lui. E due persone già fin troppo instabili e sensibili, come avrebbero potuto aiutarlo? Ovviamente, tutto ciò che facevano era assorbire, ognuno a modo suo e con diversi gradi di intensità, la negatività che Davs buttava loro addosso. Uscirono dall’internet café già circondati da un’aura pesante. “Deb, prestami 5 euro” disse l’umpalumpa. “Ancora?!”
“Dai, cazzo, lo sai che poi te li restituisco”. Lei, per evitare altre discussioni, tirò fuori una banconota da 5. Davs la prese, entrò di nuovo al bar e ordinò il suo dodicesimo Montenegro. “Cazzo, siamo già in ritardo per il concerto!” “Oh, non rompere Deb, ci metto un secondo…” Uscì con il bicchiere in mano e, con la solita arroganza da stronzo a cui tutto è dovuto, prese una sigaretta dal pacchetto d Rabbo, che lo guardò piuttosto incazzato. Continuò con la sua scena madre (ormai tutti erano abituati ai suoi spettacoli eccessivi, spesso senza senso), scatarrando a terra e gracchiando qualcosa del tipo ‘Ho voglia di litigare!’. Prese un sorso, l’ultimo, si guardò intorno con occhi strafatti e sputò il Montenegro in faccia a Rabbo. Tutti fecero finta di niente. Deb guardò la scena preoccupata, annusando nell’aria ciò che stava per accadere. Rabbo spinse violentemente l’umpalumpa, che barcollò e quasi rotolò sui suoi sputi. “Calmati, stavo scherzando” disse quell’idiota ubriaco, “come se non ti avessi mai sputato addosso.” “Calmati un cazzo. Mi hai rotto, non ti sopporto più”. Si mise a camminare con o lungo verso la macchina, seguito da Deb che doveva quasi correre, per reggere il suo ritmo. Anche Davs si mise a correre e, una volta lì, spintonò Rabbo urlando: “Sei un ragazzino di merda, devi portare rispetto per uno come me, uno che ha girato le strade, i centri sociali...uno che ha vissuto!” “Tu vuoi rispetto da tutti. Stronzo. Ti credi superiore? Perché non inizi tu a rispettare gli altri?” “Io non posso portare rispetto per uno che non vale niente, un punkaffashion
vuoto e idiota come te!” Deb osservò il viso del suo bimbo, quegli occhi...qualcosa cambiò, si spezzò. Rabbo non parlò più, mentre Davs continuava la sua sceneggiata pietosa. “Stai zitto, eh? Perché sai che ho ragione. Quasi quasi ti riempio di botte. Dai, spingimi ancora, che ti pianto un coltello in gola. Pensi che non ne avrei il coraggio?” Salirono in macchina. Tutto proseguì come da copione. Davs, seduto sul sedile posteriore, disse: “Devo are da casa un attimo, prima di andare al concerto.” “Ok” rispose lei. Cercava di mantenere la calma ma le tremavano le mani. Voleva ammazzarlo di botte, mentre guardava Rabbo di fianco a sé. Occhi persi nel vuoto. Nessuna espressione. Dovettero fermarsi lungo la strada, su richiesta dello stronzo, che scese e cominciò a vomitare liquido rosso. Ancora. Ancora. Sembrava volesse vomitarsi ogni cosa avesse dentro, persino gli organi. Persino l'anima, se ancora gliene restava una. Lo guardò e tutto quel che provò fu rabbia e pena. Rotolò quasi in mezzo alla strada, oltre che nel suo vomito. Rabbo provò a sollevarlo ma Davs lo spinse via, respirando a fatica. Si alzò, lentamente, e ritornò in macchina. Ripartirono e interruppero di nuovo il viaggio davanti alla casa di lui, senza che nessuno pronunciasse una parola. “Arrivo subito” disse, zoppicando fuori dall'auto. Deb e Rabbo si guardarono. Le ò un lampo veloce sul volto. Accese il motore, sgommò e partì. Non aveva nessuna intenzione di tornare indietro. Non arono nemmeno cinque minuti che squillò il cellulare di Rabbo. Ovviamente era quel pezzo di merda. Deb sentì Rabbo urlare. “No che non torniamo indietro. Fottiti!”
Riattaccò. La cosa si ripeté altre cinque o sei volte, dopo di che lui spense il telefono. Iniziò a suonare il suo. Rispose, sempre continuando a guidare. Davs parlava affannosamente, forse stava anche piangendo. “Tornate qui. Non potete lasciarmi a casa...Spacco tutto, spacco tutto!” “No. Dovevi pensarci prima.” “Ti prego, non potete.” “No.” “Fottiti. Puttana di merda. Spero che tu muoia di AIDS!” Deb riattaccò. Stranamente quelle parole non la offesero, anzi, la fecero ridere, perché lei sapeva esattamente (e anche Davs lo sapeva) di essere quanto più lontano da una puttana ci si potesse immaginare. Rabbo disse: “Perché ridi?”: E lei rispose, sempre con quel sorriso ebete stampato: “Perché ha detto che sono una puttana e mi augura di morire di AIDS”. Lui non rise, anzi, sembrava veramente incazzato. Il cellulare squillò ancora un paio di volte, e lei lo spense.
Sapeva che quel coglione non sarebbe riuscito a rovinarle la serata. Era riuscita a creare una specie di 'barriera' contro la negatività di Davs. Un meccanismo di difesa, un modo per non soffrire, per illudersi, forse. Si era autoconvinta che il Davs che conosceva e amava – quello che, quando dormiva, aveva gli occhi da bambino indifeso,quello sempre pronto ad ascoltare – ed il Davs che aveva visto questa sera, erano due persone differenti. Sapeva perfettamente che questa barriera era qualcosa di molto precario, pronta a crollare da un momento all'altro, ma per ora reggeva.
Si sarebbe divertita, al concerto, anche perché lo aspettava da molto. Per lei gli Atarassia Grop, riscoperti quasi per caso dopo anni di non-ascolto, erano un po' come quelle piccole cose preziose di cui ti accorgi non subito, ma nel momento in cui cambia il tuo modo di vedere, di osservare. Come quelle minuscole cose che, una volta ritrovate, non abbandoni più. Quando ritornò dal suo viaggio mentale, Deb osservò Rabbo seduto accanto a lei, sulla panchina. Il solito sguardo nel vuoto. “Dai, amore, non facciamoci appesantire la serata da quello stronzo” gli disse, sorridendo. Come in un fermo-immagine, il viso di lui non si mosse di un millimetro, finché non rispose: “Non me ne frega un cazzo di questo concerto. Né dei tuoi amici del cazzo, né di niente.” Si sentì ferita, come mille altre volte, ma rimase imibile, immobile nel suo finto star bene. Stava di nuovo pensando di lasciar perdere tutto quanto; di nuovo a quanto la fe sentire sola; stava di nuovo pensando di mandarlo affanculo e andarsene. Ma lo guardò. Vide di nuovo nei suoi occhi quella strana ombra, come se qualcosa si fosse rotto. E, riempiendo di stupore il suo ego, fece un gesto che mai si sarebbe aspettata da sé stessa: lo abbracciò. Fu allora che lui iniziò a piangere, un pianto violento e senza freni. Quando ebbe finito si abbracciarono di nuovo, e quell’ombra era sparita. In quel preciso momento, Deb si rese conto che non si era minimamente offesa per ciò che Davs le aveva detto, mentre una fitta di dolore l’aveva ata da parte a parte quando aveva visto lo sguardo spento di Rabbo. Si rese conto che aveva profondamente odiato Davs, e che mai più gli avrebbe
permesso di fare del male al suo ragazzo. Si rese conto che le insicurezze e i dubbi si erano dissolti, come ingoiati da una luce troppo intensa. Ora era certa di volerlo amare, quel piccolo punk troppo fragile. E, infine, si rese conto che il filo sottile –quello che legava in modo strano ed impercettibile loro tre- era rotto. Forse per sempre.
NON SI PUO’ FERMARE IL VENTO
Rabbo sorrise, quando Filippo degli Atarassia Grop gli disse: “Stavo quasi per venire a riempirti di sberle quando, al concerto di Brescia, le eri caduto addosso. Pensavo le stessi facendo qualcosa di male…” Si riferiva a quella sera in cui Rabbo era talmente sbronzo da non reggersi in piedi, continuando a rotolarle addosso. “Stai tranquillo, Filippo. Lui (indicando l’animaletto biondo) mi vuole bene, ed è innocuo, specialmente dopo il collasso!” Risero, consapevoli che tutta Brescia si sarebbe ricordata di Rabbo come “il coglione collassato sul prato”. Filippo le mise tra le mani un foglio, quello che lei gli aveva chiesto per la fanzine. “Grazie, ora lo leggo. Ci vediamo dopo” Lo lessero assieme, lei e Rabbo.
‘Deby mi ha chiesto di scrivere due parole sul punk. Io, che non sono uno scrittore di saggi di sociologia ma –molto più modestamente- uno scribacchino di canzoni, non saprei fare un’ analisi “sociale” della questione. Perciò non vi racconto quello che c’è “fuori”, ma quello che c’è “dentro”. SPARA, JURIJ, SPARA! Era il 1993 ed avevo 16 anni. Una canzone dei CC usciva dal mangiacassette di un amico, ed in quel momento rinacqui una seconda volta. Prima di allora avevo sentito parlare di punk, ma non mi era mai entrato così prepotentemente nelle vene, lasciandomi in bocca il sapore splendido della provocazione, negli occhi la luce del ferro rovente, nel cuore un nido di sogni in fasce.
In quel periodo iniziai a suonare con gli amici, formando il gruppo con il quale ancora oggi calpesto autostrade e palchi. Quel grido di delirante filosovietismo emiliano mi buttò una chitarra fra le braccia, che qualche settimana dopo capii da che parte imbracciare. Benché mi stupisse il fatto che da sola non suonasse e che quindi dovevo attaccarla ad un amplificatore, l’ho amata da subito. Non perché fosse un bello strumento, ma perché era il mio biglietto di sola andata per SPARA JURIJ, località dove germogliava la mia rabbia post-adolescenziale. Ero, anzi, eravamo punk? Da morire! Chiunque apprenda che il mondo scorre sulla linea del “produci/consuma/crepa” è punk. Con le scarpe lustrate, con gli anfibi o con gli infradito, con la camicia stirata o a torso nudo, chiunque cammini “in direzione ostinata e contraria” è punk. E’ strano, ma proprio nella canzone di un anarchico genovese, che con la musica punk aveva a che fare meno di quanto Pino Rauti abbia a che fare con la democrazia, trovo ora l’essenza del punk. Noi che con il nostro “marchio speciale di speciale disperazione” verso il vomito dei respinti muoveremo gli ultimi i, per consegnare alla morte “l’ultima goccia di splendore”, noi siamo punk. Questo perché per me –e per gli amici con cui suono- “punk” vuol dire sconfitta, una sconfitta cercata ed amata fino all’ultimo istante, come una vocazione. Non Londra ma Sesto San Giovanni, non skateboard ma bicicletta modello “graziella”, tanto per rendere l’idea. Ho sentito un amico, Marino Severini dei Gang, concludere un concerto dicendo: “noi siamo bellissimi, sono gli altri che sono brutti”. Infatti è così. Siamo bellissimi. Perché chi abita a SPARA JURIJ è bellissimo. Chi ci va non indossa niente che non siano i suoi desideri: come potrebbe essere brutto? Questo è il punk, è la voglia di non essere nessuno e di trovare in ogni piccolo niente la più grande ricchezza, la più struggente delle bellezze. Siamo davvero una goccia di splendore che illumina la notte globale, fatta di
egoismi laceranti, di celebrità comprate, di futili priorità. E davvero mi dispiace che al punk venga spesso data una valenza estetica, perché secondo me non ne ha o, meglio, non ne ha più. Nel ’77 serviva per perfezionare la provocazione ma oggi, che il senso estetico è un dovere imposto, serve solo il giusto atteggiamento verso la vita. Di questi tempi, vivere a misura di sogni è la più grande provocazione che possiamo comporre. Tornando a Ferretti e soci, questa volta, per smentirli, punk non è “colorati i capelli/riempiti di borchie/rompiti le palle/rasati i capelli/crepa”. Punk è sapersi in prestito al lavoro, in prestito ai vestiti che indossiamo, in prestito alla vita perché –come dice una nostra canzone- “siamo polvere di stelle”: andiamo dove vogliamo perché non siamo fatti di carne, ma di ione e di sogni. In quest’epoca di verbi “avere”, noi sappiamo ESSERE. Siamo punks, siamo skinheads, siamo quello che volete voi. In ogni caso, siamo bellissimi.’
Si guardarono negli occhi. “Bello” disse lui. Per lei era molto più che bello. Capì che quelle parole, assieme alle canzoni degli Atarassia ed a tante altre cose, rappresentavano il significato profondo di ciò che lei intendeva per punk; il senso dell’essere dentro a qualcosa più grande di sé, qualcosa di cui non aveva ancora chiari i confini ma che era sua. Sentendo le prime note all’interno del locale, si alzarono ed andarono verso quel muro di suono.
Rabbo e Sicio erano così belli, lucidi di sudore, mentre pogavano e si abbracciavano cantando in coro di fronte al palco. “skins e punks”, proprio come in quelle vecchie canzoni di Nabat, Los Fastidios, Klasse Kriminale. Skins e punks. Così perfetti nella loro stupidità alcolica. Deb li avrebbe voluti abbracciare entrambi, ma sapeva che Rabbo sarebbe stato geloso. Inutilmente geloso. Corse da lui, tirandolo a sé, fottendosene della scia di sudore che stava ormai diventando un lago, sul suo vestito. Lo baciò, lui la sballottò un po’ da una parte all’altra, dicendole in un orecchio: “Tu sei stata il mio primo e unico grande amore, lo sai?” Lei sorrise. Osservò quella faccia da coglioncello ubriaco e, per dare un tocco in più alla sua aria da tenero idiota, tirò fuori dallo zaino un naso da porco in gomma. Glielo mise e gli fece una foto, mentre lui rideva. Sapeva di essere il suo primo amore, ma una consapevolezza tagliente si fece strada dentro lei: dopo il primo amore, quasi sempre ne segue un secondo….
Il giorno seguente Davs incontrò entrambe. Era sobrio, finalmente. Non li guardò in faccia per parecchio tempo. Disse di sentirsi un coglione. Raccontò che, una volta tornato a casa, aveva cominciato a sfasciare un armadio ed a litigare con il compagno di sua madre. Disse anche che, probabilmente, arrivarono i carabinieri, ma non ne era sicuro. Aveva ricordi sbiaditi, sapeva di certo che, al mattino, si era risvegliato in psichiatria (quasi una seconda casa, per lui, ultimamente!). Chiese scusa, e la giornata cominciò come una fra tante, come se niente fosse cambiato….ma tutto era cambiato.
SHE
“Perché mi fissi?” Si accorse dello sguardo obliquo di lui. Uno sguardo in modalità “bimbo Kinder”, fermo sul suo viso. “Allora? Perché?” “Perché sei bella” disse, quasi bisbigliando. Deb, che si metteva sempre sulla difensiva ad ogni piccolo tentativo di complimento, rispose: “E’ bella anche la mia cellulite? E i peli? E le occhiaie? E il culone? E i brufoli?...” “E le dita dei piedi?” “Le dita dei piedi?” “Si. E’ l’unica cosa che non mi piace di te” “Cosa hanno le mie dita?” “Sono buffe. Piccole e buffe” “Ecco, mi hai creato pure il complesso delle dita dei piedi adesso….stronzo!!” “Bèh, ma tutto il resto è bellissimo” “Stronzo!” Lei si tolse un calzino e cominciò a fissarsi quelle minuscole estremità bianchicce. “Hai ragione, sono strane!”
Rabbo cominciò a sganasciarsi come una iena. “Cazzo hai da ridere?” Dopo aver ripreso fiato, le disse: “Perché sei stupenda! Vuoi la verità? Ogni giorno che a ti vedo sempre più bella. Non so come, ma ogni volta ti guardo e noto qualcosa a cui prima non avevo fatto caso. I tuoi lobi delle orecchie, ad esempio…” “Sono piccoli e buffi?” “Sono perfetti! Sono i lobi più belli che abbia mai visto”. Silenzio. Per due minuti buoni. “E’ strano come l’immagine che abbiamo di noi stessi cambi continuamente , a seconda del nostro stato d’animo” disse lei. “E come sia sempre diversa dall’immagine che gli altri hanno di noi. E’ sempre in movimento, in costante mutazione… Lo sai che, a volte, cerco di cogliere di sorpresa la mia immagine riflessa allo specchio, per capire come sono realmente?” “Ahahahahha. E ci riesci?” “No. Di solito quella nello specchio mi becca sempre prima che io la colga di sorpresa!” Altri tre minuti di silenzio. “Comunque, c’è un momento in cui mi sento davvero bella, in cui mi guardo allo specchio e mi sembro più….luminosa” “Quando?” “Appena dopo aver fatto l’amore con te”. Abbassò lo sguardo al pavimento. Come si sentiva stupida e sdolcinata, a volte. Lui continuò a fissarla. “Lo facciamo adesso? Voglio vedere se ti illumini!”
INSOMNIAC
Si rigirò per la 106esima volta nel suo letto sudato e appesantito dall’ansia di un’insonnia senza tregua. Sapeva quel che doveva fare. L’unica cosa possibile per avere un po’ di pace. Si alzò, prese il diario dal comodino e cominciò a scrivere.
‘Pensieri che urlano dentro, cercano di uccidersi ed uccidermi di rumore. Non un secondo di vuoto. Voci e bisbigli che vogliono fottermi il cervello. Iperattività nervosa scandita dallo scorrere di un tempo che non è più mio. Ritmi che non sono miei e che non riconosco, che distorcono una vita non più reale ma nemmeno immaginaria. Né sveglia né dormiente. In stato confusionale perenne, vivo in un labirinto annebbiato di cui non trovo l’uscita né i confini; non ricordo più quando e dove sono entrata. Ogni senso è intorpidito. Osservo dall’alto un corpo malato chiedendomi se sia il mio, quell’involucro pallido in cui ogni cellula sembra coinvolta in un percorso di inarrestabile autodistruzione. Organi interni collassati, battito cardiaco irregolare, sistema immunitario assente, alterazioni cerebrali e psichiche. Tutto ciò che vedo e sento potrebbe non essere ciò che sembra. Paranoie, paure, pensieri ossessivi. Dove posso trovare una mia dimensione, se non riesco nemmeno a trovare una via d’uscita? Paranoie, paure, pensieri ossessivi.
Chissà se riuscirò a dormire prima che la pazzia arrivi.’
Con un gesto nevrotico della mano, stracciò la pagina e la appallottolò, buttandola a terra, facendo svolazzare a mezz’aria lo strato lanoso di polvere depositata sul pavimento. Si rituffò nel sudore, sospirando. Come sempre mille pensieri spingevano per entrare, per tormentarla, non considerando lo spazio già limitato presente in quella scatola cranica. Deb pensava a Rabbo (non l’avreste mai detto, eh?); alla sua insicurezza, che lei fiutava (e che assorbiva, suo malgrado) a chilometri di distanza. Al suo essere così bambino, al suo rifiutare qualsiasi responsabilità e progetto per il futuro, quasi ne avesse paura. Deb, invece, temeva quel ‘non futuro’ che le offriva lui, ogni singolo giorno. Sapeva che era giusto così: cos’altro poteva pretendere da un 18enne? Lo sapeva da sempre. Era una storia destinata a non avere un domani, ma solo un ‘oggi’ e, al limite, un ‘ieri’. Oggi Rabbo la amava. Punto. Doveva solo imparare ad accettarlo. Credeva di esserci già riuscita ma, nei pochi momenti di lucidità mentale concessi dall’insonnia, si rendeva conto che non era così. Lei pensava, non faceva altro che pensare, e tutto quel pensare non le permetteva quasi più di vivere. Ora immaginava l’attimo esatto in cui Rabbo sarebbe diventato uomo: quanti anni sarebbero trascorsi? 8, 10, 40… due vite? Solo una consapevolezza strisciante: lei non ci sarebbe stata.
In quel momento, quello in cui lui avrebbe fatto delle scelte, quello in cui un lampo di sicurezza si sarebbe delineato nei suoi occhi, quello in cui, svegliandosi, avrebbe osservato la ragazza addormentata accanto a sé, ed avrebbe capito di esistere per vedere quel viso il giorno seguente, e quello dopo ancora…. Quello in cui avrebbe capito la gioia di pensare per due, di osservare il mondo da una nuova angolazione, con lo stupore di chi conosce tutto per la prima volta. Quello in cui avrebbe capito la dolcezza del perdersi nei piccoli gesti rituali di una coppia. Avrebbe capito. Sarebbe diventato uomo. E lei, pur amandolo e pur sapendo –oggi- di essere ricambiata, era certa che non ci sarebbe stata. Inutile dire che quella fu una lunga notte senza sogni.
EQUILIBRI INSTABILI
La prima volta che aveva assistito al suo risveglio era rimasta scossa da quel contrasto, dall’imprevedibilità del suo comportamento nei minuti appena successivi. Come se in lui sopravvivessero due personalità totalmente diverse. Subito dopo il sonno, affiorava il lato oscuro di Rabbo, quello che, in un certo senso, le faceva paura. Aveva sentito parlare di individui che, al risveglio, sono scontrosi ed aggressivi, ma in lui questo aspetto era estremamente accentuato. Sapeva, anche ora, di correre un rischio. Lo guardò: nella semioscurità della stanza poteva distinguere comunque la luce della sua pelle. Sembrava sereno, e la dolcezza della sua espressione le diede coraggio. Gli accarezzò una guancia e lo baciò. Per un attimo Rabbo la guardò come se non la vedesse affatto, come se cercasse disperatamente di restare aggrappato al mondo ‘di là’, a un’illusione soffice, senza spigoli, ad una dimensione senza spazio né tempo né dolore. Poi la osservò con rabbia, come se lei gli avesse rubato qualcosa di prezioso e solo suo, come se fosse arrivata da un mondo che sapeva di putrefazione, troppo grigio per poterlo guardare. Ed era così semplice non guardarlo: bastava chiudere gli occhi. Dormire. Erano sempre più numerose le ore in cui Rabbo preferiva ‘non vedere’, in effetti. Ed aveva altri modi per raggiungere lo stesso risultato: ubriacarsi, stordirsi di canne…
Da un po’ di tempo Deb non riusciva nemmeno più a fingere indifferenza, di fronte a questo suo ‘scappare’. Era preoccupata ma sapeva che, ad ogni tentativo di affrontarlo, lui si sarebbe alterato o chiuso in sé stesso. Per questo, spesso, lasciava perdere.
Era sveglio. Rimasero in silenzio, abbracciati. “Scendiamo a fare colazione?” gli disse. “Mmmmhh”, rispose lui. Voleva dire si.
I genitori di Rabbo si erano alzati presto per andare in montagna. A lei piaceva stare seduti assieme, nel torpore della domenica mattina. Affogare biscotti in tazze di tè caldo era una di quelle piccole abitudini a cui non avrebbe mai voluto rinunciare. “Lo sai che, esattamente 3 anni fa, è morto il mio amico Sick?” gli disse, mentre era intento a fumarsi una sigaretta accanto alla finestra. “Sick? Sick chi?” “Ricordi che te ne avevo parlato? Hai anche letto un pezzo del suo racconto “dentro al bianco”. Quel mio amico che scriveva la fanzine Bomb Site. Aveva provato a tagliarsi le vene quando la ragazza lo aveva lasciato. Non era riuscito ad ammazzarsi ma, dopo un po’, proprio mentre iniziava a stare meglio, aveva avuto un incidente stradale ed era morto. Come se la vita lo stesse prendendo per il culo, dicendogli ‘non puoi decidere tu come e quando levarti dalle palle’…” “Che cazzate!” “Cosa?” “Uccidersi per amore. Non esiste.” “Dipende da come una persona lo sente dentro, quell’amore. C’è chi avverte le
cose, soprattutto il dolore, più in profondità. Sick era molto simile a me. Era speciale: in ogni suo racconto, in ogni sua lettera, in ogni pagina di Bomb Site metteva un pezzo della sua anima. Ed entrava dentro a chi leggeva. Per questo credo di avere un pezzo di Sick dentro me.” “Te lo sei mangiato?” “Coglione!” Sorrise. Sapeva che comunque, Rabbo aveva capito. “Era come se tutti noi vedessimo le cose dal piano terra e lui le vedesse dal sesto piano. Sick era solo di aggio, forse lo avevo già capito prima che… si, lo avevo capito da come scriveva. Sai quella pagina sulla sua ultima fanzine, quella che ho messo anche su Escrementi? Aspetta, vado in camera a prenderla. Te la leggo.” “Dai, non mi inter…..” Ma, prima che finisse la frase, Deb era già a frugare nel cassetto della scrivania.
Tornò di corsa, con la fanzine tra le mani. “Ascolta. Da come scriveva appena prima che succedesse l’incidente, sembrava avesse già intuito...” Lesse ad alta voce.
‘Una pagina vuota. C’è sempre una pagina vuota da riempire, per quanto tu ti possa sforzare, per quanto ti ostini a ripetere conti che sembrano tornare…scopri sempre che rimane una pagina vuota. E allora ti guardi avanti, e non riesci a vedere nulla. E allora ti guardi indietro, e quello che vedi sembra così distante, nonostante sia ato solo poco tempo. E allora prendi a scrivere senza pensare, quasi come per tentare inutilmente di fissare qualcosa di te, della realtà, quando sai perfettamente che tutte queste cose cambiano, e domani, alla luce di un
nuovo giorno, niente sarà più come prima. Che l’amore è così carino, che la luce è così chiara ed il buio così scuro…che ciò che eri dimentichi, e ciò che sarai ignori…che domani hai ventisette anni, e ieri ne avevi diciassette, che forse in fondo sei sempre stato chi credevi di essere, o forse non ti importa granché, perché mentre fai andare i tasti stai solo imitando il mondo che continua a correre, e niente puoi fare per fermare gli istanti. Tenti di stare al o con te stesso, con quella palla matta, ma non ce la fai, perché tu sei sempre più forte di qualsiasi cosa…guardi la morte di un amico in faccia, guardi le persone entrare e uscire dalla tua vita, guardi te stesso in uno specchio che non dà risposte, guardi le tue morti e la tua vita, e non riesci a cavarne un ragno dal buco, non riesci a riempire una pagina vuota che forse andrebbe lasciata com’è, ma l’horror vacui non ti abbandona mai, e tu sei solo un uomo….non sei un nome, non sei un punk, un rapper, uno straight edge, non sei un ventiseienne, non sei un dodicenne, non sei un’età, non sei un artista, un operaio, un fioraio, non sei un amante, un solitario, un vincente, un perdente, non sei bello, brutto, normale o anormale, non sei la verità o la bugia….sei solo un uomo, e questo fa paura, e questo è quel che conta. Sai che non ti importa davvero molto di quel che hai scritto e fatto, se verrai inteso o meno, l’hai fatto in primis per vincere la paura, per riempire la tua vita con qualcosa che possa farti credere di appartenere a te stesso, per non stare fermo a farti delle domande, perché qualcosa devi sempre scegliere o rischi di impazzire, perché tu sei più forte di te stesso, ed è questa la tua croce, il tuo punto debole. Fai un quadro, scrivi delle cose, tagli l’erba, parli con qualcuno, fumi una sigaretta, mangi un panino, suoni uno strumento, lavori, studi, piangi, ridi….per riempire la tua vita….per riempire una pagina vuota che puntualmente ritorna, si presenta, fino alla fine dei tuoi giorni.’
“A me sembrano solo i deliri di un depresso” disse Rabbo dopo qualche secondo. Deb si sentì rivoltare dentro, come se non si stesse parlando di Sick ma di lei. Proprio di lei. Ci sentiva il disprezzo, dentro, come se Rabbo odiasse la sua ipersensibilità.
Non parlò più. Non ne aveva bisogno. “Bèh, cosa ho detto? Perché quella faccia?” Nessuna risposta. “Se non vuoi dirmelo sono cazzi tuoi. Fanculo!” Deb corse di nuovo su e si chiuse in camera. Come poteva non capire, ignorare ciò che per lei era così importante?
Piangeva silenziosamente, sdraiata sul letto, quando lui entrò. “Scusa, non volevo” le disse, baciandola sulla fronte. Il suo bimbo era tornato. Di nuovo. A volte le veniva voglia di scrivere, di spiegare al mondo intero come lui la fe sentire speciale, ma le parole avrebbero fatto sembrare tutto più vuoto e incompleto. Avrebbe dovuto, con fatica, inventarne di nuove, per non cadere nella banale sensazione del ‘tutto già detto e già scritto’. Ma le sue energie erano già totalmente proiettate nell’amare quel complicato groviglio di personalità che dormiva al suo fianco. Le bastava.
HEART OF GLASS
Un semplice elemento della natura. Forse qualcosa di più, per lei. Qualcosa che influiva inspiegabilmente sul suo stato psico-fisico. Acqua. Deb amava l’acqua: il movimento meccanico del nuotare ed il contatto fluido allontanavano in lei ogni pensiero in eccesso. Raccogliere idee, elaborarle e razionalizzarle sembrava allora così semplice. Tutto appariva in una forma chiara e leggera, come vedendolo dall’ alto. Amava l’acqua, sapeva che non sarebbe riuscita a rinunciarci, ad abbandonare quella sensazione di vita e forza. Ma era anche consapevole che, se non fosse stata più che attenta, le onde l’avrebbero travolta, trascinandola verso il basso, soffocandola. Aveva bisogno di aria, per non finire affogata dalla sua stessa ione. Respirare, per continuare ad amare quell’acqua. E Rabbo ora era acqua, per Deb. Era il suo mare.
Quando ritornò sulla spiaggia era sfinita, ma più serena. Ogni volta che aveva bisogno di stare sola tornava lì, a Savona, a casa del vecchio Giò, uno skinhead 40enne a cui era molto affezionata. Era stato suo compagno di viaggio durante la trasferta per il concerto dei Cockney Rejects. Poche ore le erano bastate a comprendere il mondo racchiuso nel dna del neanche troppo vecchio ma saggio Giò e a capire che, in meno di un giorno, quell’amicizia faceva già parte della sua esistenza.
Più tardi sarebbe rientrata a casa, ma ora c’era un altro posto che l’aspettava.
Saliva verso l’alto, camminando lentamente, ed altrettanto lentamente sentiva allontanarsi i rumori del traffico e della città. Stava distanziando sempre più il caos ed il peso dei suoi pensieri. o dopo o, il silenzio era sempre più vicino. Più leggero. La Fortezza di Savona era un luogo speciale, per Deb, uno di quegli angoli nascosti in profondità, in cui ci si addentra raramente, ma con la certezza di trovare ciò che si cerca. Era in cima, ora, e si sentiva come se la pace che non aveva dentro, fosse tutta là fuori. Tutto, di fronte a sé, dall’immobilità del mare al lento trascinarsi delle nuvole, sembrava essere in attesa delle sue emozioni. Le sarebbe piaciuto, pensò, essere lì con lui. Senza condizionamenti esterni, senza parole, senza paure. In silenzio, ad ascoltarsi dentro. Ebbe un mezzo sussulto, quando un suono acuto squarciò il suo stato di semicoma. Un sms. Lui. ‘Scusami. Sono stato uno stronzo, non pensavo davvero tutto quello che ho detto. Non so perché mi comporto così. Scusa.’ Nella sua mente schegge di immagini del giorno prima. Rabbo che urla; un posacenere di vetro scagliato contro il muro; porte sbattute; vibrazioni violente nell’aria; lacrime che scendono troppo veloci. E parole, troppe. ‘Non lo so se ti amo’, ‘Che cazzo significa poi? Sono solo
parole!’, ‘Cosa vuol dire che sei la mia vita? Tu non sei la mia vita, la mia vita sono io soltanto!’. Rabbia.
Non arono più di due minuti, forse tre, che lo chiamò. Gli disse che lo sapeva. Sapeva che non lo faceva di proposito. Parlarono per pochi secondi, ma le bastarono per sentirsi in pace; come un’eroinomane nell’attimo esatto in cui si inietta la dose. Gli disse di trovarsi da Giò, che sarebbe tornata il giorno successivo e che, per due settimane, i suoi sarebbero stati fuori per le ferie. Disse che, volendo, potevano stare tutti assieme, lei, lui e Davs, a casa sua. Dopo la telefonata scese rapidamente verso la città. Sentiva di non avere più bisogno della Fortezza perché, almeno per ora, l’aveva trovata dentro sé.
MISSING WORDS
Deb entrò in casa. La sua casa? Non ne era sicura. Vestiti a terra, lattine e bottiglie vuote, avanzi di cibo, cd e libri suoi ovunque (e lei era morbosamente affezionata a quegli oggetti!), piatti e pentole sporchi… Non sopportava più la mancanza di rispetto che Davs mostrava per le cose; ed in fondo era la stessa totale mancanza di rispetto che mostrava per le persone… tutte le persone, compreso sé stesso. Lo vide, seduto davanti a quel cazzo di PC, come al solito avvolto nel suo rumore assordante, in quel muro di hardcore sparato a tutto volume 24 ore al giorno che, ormai, era arrivata ad odiare. Stava per perdere il controllo dei nervi, quando lui sollevò lo sguardo. Deb non gli vide dentro la stanca rabbia schifata di sempre: i suoi occhi erano sereni, e non si ricordava da quanto non li vedeva più così. Ingoiò il suo odio, lo cacciò nello stomaco e gli disse: “Ciao, come va?” “Bene” disse lui, sorridendo. “Oggi ho scritto dei testi per il nuovo gruppo. Vuoi leggerli?” Deb si avvicinò allo schermo del portatile e lesse frasi sparse qua e là.
‘Paura di me stesso. Anche volendo essere diverso rimarrei uguale. Odio per me stesso. Trasformarmi in qualcosa di peggiore che non sappia pensare.
Uccidimi. Uccidimi adesso. Annulla la mia idea che è la mia sofferenza. Esorcizza me stesso dal me stesso peggiore. Istante vuoto, congelami il respiro. Questo istante vuoto farà nascere un sorriso che non durerà nemmeno un minuto, nemmeno uno sputo, nemmeno l’idea di essermi salvato.’
‘Sono sbagliato, sono sbagliato, la mia visione è paranoia. La mia realtà diventa pazzia, non so come sopportarvi senza distruggermi. L’unico modo di attenuare il mio odio, la vostra pazzia. Il vostro odio, la mia pazzia. A chi è facile capire, è difficile sopravvivere…’
‘Vortice nella testa, mi sento esplodere lo schifo intorno. E’ vuoto e ripetitivo, vuoto e faticoso. Mi rifugio in me ma ci trovo fantasmi, rabbia disillusa e buio. Il vostro fottuto modo di pensare mi ha preso dentro. L’ ho assorbito, e più assorbo e più mi fate schifo, più mi fate schifo e più sto male…’
‘Illusi di essere qualcosa di importante. Il mondo ti devia la mente. Ma serio, sul letto di morte, capisci di esser stato niente’
“Belli”, disse. “Tutto qui?” “Profondi. Ma c’è dentro così tanta autodistruzione…sembra quasi che tu scriva solo per farti del male” “Infatti. E’ questo che fanno gli scrittori veri. Io sono uno scrittore, tu sei solo una che fa della letteratura, con i tuoi racconti!” Lei stette in silenzio per qualche secondo, poi disse: “Può essere, ma può anche essere che i “veri” scrittori siano quelli che lo fanno per vomitare tutta la merda che li soffoca dentro. Scavare, oltre la pelle, oltre la carne, oltre il sangue, oltre l’osso… fino ad arrivare al punto più profondo, per strapparlo fuori da sé e fissarlo sulla pagina. Ecco cosa significa, per me” “Non per me!” “Sai cosa ti dico? Non mi interessa cosa significa. Quello che tu scrivi, probabilmente, resterà sempre inchiodato sullo schermo, mentre forse quello che scrivo io…. Forse, un giorno, qualcuno lo leggerà, e sentirà le stesse cose che….” “Stronzate! Sei proprio ingenua se credi che ti pubblicheranno mai. E in fondo, chi cazzo se ne frega…” Davs si allontanò dalla stanza. Il suo sguardo era di nuovo cambiato.
“Che cazzo vuol dire che speri io sparisca il prima possibile dalla faccia della terra?” “Eh?” Deb era assorta nei suoi pensieri, mentre preparava lo zaino per la piscina. Non capì subito cosa stava ando, di nuovo, nella mente storta di Davs.
“L’hai scritto qui, nero su bianco. Nel tuo diario… ‘A volte spero che Davs sparisca il prima possibile dalla faccia della terra, tanto è quello che vuole. Io e Rabbo soffriremmo meno, forse’ …. Allora?” “Vuol dire esattamente quello che ho scritto. Nei momenti di rabbia scrivo quello che mi a per la mente, per sfogarmi… e poi, scusa, anche tu mi hai detto che sono una puttana e che vorresti io morissi di a.i.d.s.” “Ma è diverso: io l’ho detto da ubriaco!” “E io l’ho scritto da incazzata. Per me non c’è molta differenza. Perché leggi il mio diario, se non vuoi sapere cosa penso veramente?” “Tu mi hai detto che potevo farlo!” “Appunto! Non ho niente da nascondere. La sincerità non è una cosa comune, dovresti apprezzarla!” “Fottiti!” “Ok” Voleva evitare di addentrarsi nel solito circolo vizioso fatto di liti e urla e insulti. Perciò decise di ignorarlo e andarsene in camera. Gli scrisse una lettera. Forse era l’unico modo di comunicare, in quel momento.
‘Ti sei attaccato ad una frase, un pensiero durato un secondo…. I miei giudizi oscillano in base al tuo umore e alle tue condizioni, capisci? In base alla tua ostilità, al tuo volerti distruggere. Sei così fragile, basta una parola per annientarti! Nel mio diario ho scritto anche molte cose belle: perché quelle non le hai considerate? Hanno forse un peso diverso? Molte volte ho scritto che, tra noi tre, c’è qualcosa di speciale ma, ultimamente, quella cosa è andata quasi persa.
Si è trasformata sempre più spesso in violenza, negatività, rancore. E’ diventata qualcosa di troppo pericoloso, tagliente, e credo sia tu l’elemento che ha cambiato l’ equilibrio tra noi. Non hai più nessun limite o autocontrollo. Sei una mina vagante. In te vivono due personalità opposte: una profonda e sensibile, l’altra immatura e violenta. Come possono coesistere? Ti spezzerai, prima o poi! Una delle due avrà il sopravvento, e ho paura di esserci, quando succederà. A volte mi chiedo quale mente malata possa aver messo su questo pianeta un’anima complicata e contraddittoria come la tua. Se non cambia qualcosa in te, sei destinato a distruggerti e distruggere chi ti sta intorno, lo capisci? Capisci perché ho paura per una persona ingenua come Rabbo, che ti si è legato così tanto? Ti rendi conto dell’influenza che hai su di lui e di quanto male potresti fargli? Per questo, a volte, spero tu sparisca. Ma sono pensieri che durano frazioni di secondo. Tu sai che ti voglio bene, nonostante tutto! Non sarei ancora qui a cercare di parlarti, se così non fosse.’
Lui era sul divano. Occhi serrati ed una smorfia vecchia e rugosa su quel volto da bambino sporco. Deb gli buttò la lettera tra le mani e ritornò in camera, senza dire una parola. Ma non tardarono ad arrivare, le parole. Quelle di Davs. Pesanti. Dure. “Tu fai del male a Rabbo almeno quanto gliene faccio io. Sei cambiata. Tutti ce ne siamo accorti, specialmente lui” “Cambiata? Forse è normale, dopo due mesi che non dormo quasi più!” “Sono quelle cazzo di gocce che prendi…”
“Sono le stesse gocce che mi stai rubando tu ogni giorno dal flacone!” “Ma io ci sono abituato. Ho sempre preso cose molto più forti… comunque sia, sei cambiata” “Anche tu” “Io sono sempre stato così, non te ne sei mai accorta? Non sei capace di accettarmi per quello che sono? Allora fottiti!” Se ne andò, sbattendo la porta e lasciando nell’aria –carica di parole non dette- la solita ombra cupa. Un’ombra che strisciò nella testa di Deb impossessandosi dei suoi pensieri, deformandoli.
‘Sono cambiata. Certo che sono cambiata, e so il perché, anche se non so esattamente quando… Non doveva succedere! Ho cercato di evitarlo, e ho fallito ancora. Ho perso il controllo. Era tutto così perfetto, prima. Mi divertivo, stavo bene con lui, niente paranoie, niente catene. Era la cosa più logica. La mia mente era lucida, ed ero così sicura di me…. Quando cazzo è successo? Perché non riesco ad amare in modo normale? Perché perdo sempre l’equilibrio, senza riuscire a restare esattamente dove vorrei? Questa cosa è troppo grande. Mi farà a pezzi. Sprofonderò di nuovo. Paura. Ecco perché. Risucchiata dal mio modo sbagliato di essere…’
Sbagliato, ma anche l’unico che conoscesse. Amare troppo. Significava correre, rischiare, vivere di paure, cadere, ferirsi e – praticamente sempre- fallire.
Niente più controllo.
WE MUST BLEED
“Voglio litigare. Rissaaaa!” Eccola di nuovo, quella scintilla negli occhi di Davs. Non ne aveva ancora abbastanza. Come se ci fosse un animale insaziabile, nelle sue viscere. Una guerra lenta e sanguinosa che reclamava sempre nuove vittime. Dentro lui. E stava per travolgerlo, ancora. Scese dall’auto, avvicinandosi allo sconosciuto palesemente in preda a sintomi da sbronza violenta (quel tipo urlava e minacciava chiunque!). Davs non disse niente ma, evidentemente, al tizio bastò il fatto che un punkabbestia si avvicinasse a lui con modi arroganti. Gli tirò un pugno che lo stese a terra come uno straccio sporco. Sul volto incredulo di Davs sbucò una smorfia di dolore. Rabbo era già di fronte al tizio. Non fece in tempo a dire “vedi di stare calmo” che già si era beccato uno spintone. Barcollò appena. Deb non osava scendere dalla macchina. In un tempo infinitamente breve, la notte si riempì di luci blu e sirene. Carabinieri. Successe quello che Deb temeva. I pinguini in divisa andarono subito da chi sembrava loro più “sospetto” e più meritevole di finire nella merda. Chiesero i documenti a Davs, che disse solamente “non rompete le palle!”,
alzandosi e andando tranquillamente a ordinarsi una birra al bar di fronte. Le successive due ore trascorsero tra Rabbo che tentava di convincere Davs a chiedere scusa ai coglioni blu, e Deb che cercava di convincere gli stessi coglioni del fatto che Davs –almeno per una volta- non aveva mosso un dito. Utilizzando un tono gentile, sottolineando il fatto che si trovavano di fronte ad una ragazza responsabile, sincera, e soprattutto astemia, e tirando in ballo discorsi sulla correttezza e sulla giustizia (o sull’ “ingiustizia del loro atteggiamento verso un ragazzo ubriaco, si, ma assolutamente innocente e vittima di un individuo violento”), riuscì –assieme alle quasi scuse di quel coglione- a dissuadere i pinguini dal fare are a Davs un tranquillo weekend di paura e di scuola di buone maniere (esattamente così dissero, quei fottuti!).
In qualche modo si ritrovarono di nuovo a casa, tra immondizia e oggetti sparsi. Caos, fuori e dentro. “Non avete fatto un cazzo per aiutarmi, quando quel coglione mi è venuto addosso!” “Sei tu che gli sei andato addosso!” disse Deb incazzata. “Ma non avete fatto niente. Non fate mai niente, per me.” “A parte salvarti il culo quasi pregando i carabinieri, tirarti su da terra ogni volta che ti rotoli nel vomito, sopportare le tue cattiverie, gli insulti, le crisi, darti da mangiare, da dormire, regalarti i miei ansiolitici, tirarti sempre fuori dai casini, sopportarti quando nessun altro è in grado di farlo…” “Non vuol dire un cazzo!!” urlò di nuovo. “Voi mi disprezzate. Volete che io finga di essere quello che non sono?” Con uno scatto andò in salotto e cominciò a buttare per terra ogni cosa che non lo fosse già. Quando lei sentì il rumore nell’altra stanza, lo raggiunse correndo , seguita da Rabbo, mentre qualcosa di incontrollabile le stava salendo fino al cervello,
impregnandolo di una nebbia densa che le impediva quasi di respirare. Rabbia pura. “Che cazzo fai?” gli disse, con un’estensione vocale tale da spaventare sia Rabbo che il cane, e da far ritornare in Davs quell’incredulità che gli vide addosso soltanto qualche ora prima, quando si trovava per terra di fronte al tizio. “Sto cercando le gocce” disse, quasi intimorito. “E come le cerchi, cristo, distruggendomi la casa?” “N…no, stavo solo guardando…” “Quella merda di gocce sono mie e non ho nessuna intenzione di dartele! Domani fai le valigie e te ne vai fuori dai coglioni, capito?” L’espressione di Davs cambiò nuovamente. “Ok, voltami le spalle come sempre!” “Non…” Rabbo provò a sillabare qualcosa, ma fu interrotto subito dalle urla di quello stronzo. “Anzi, sai cosa? Ora mi faccio qualche bel taglio nuovo. Mi apro, così siete tutti più felici!” Corse in cucina. Riscaldò il coltello più affilato sulla fiamma del gas e cominciò a tagliuzzarsi la pancia. Accanto a cicatrici biancastre, ognuna delle quali aveva certamente una storia da raccontare, ne comparvero di nuove. Deb lo fissava con tristezza, senza muoversi, come se stesse guardando un cadavere. A fatica le uscirono parole che, lo sapeva, non sarebbe stata in grado di tenere
dentro ancora a lungo. “Mi fai pena. Sei l’ombra di te stesso! Pensi che dai quei tagli uscirà tutto lo schifo che hai dentro? Pensi che usciranno i problemi, il dolore? Inutile. Tutto quello che fai è inutile!” Lui, quasi fosse stato privato di ogni energia, lasciò cadere il coltello a terra, e si mise in ginocchio in posizione fetale. “Deb, dammi le gocce. Per favore…..ne ho bisogno”. Ansimava, ma non piangeva. Lei lo guardò di nuovo, ora imibile e fredda. “Domani te ne vai” disse, voltandogli le spalle e raggiungendo Rabbo in camera.
BORN TO LOSE
“Posso venire lì al bar? Per favore….” Deb pensò a com’era riuscito a farla sentire, qualche sera prima. A come aveva distrutto tutto, nauseandola. “Ok, ma non voglio problemi sul lavoro!” Si odiava, in realtà, per come non riuscisse a dire ‘no’ a Davs. Si odiava perché gli permetteva sempre di farla sentire debole e smidollata. Forse anche per la sua fottuta ingenuità, il suo costante illudersi che, parlandogli, lui avrebbe potuto aprire gli occhi. Quando lo vide comprese, dal suo sguardo spento, quale sarebbe stata la prima frase da lui pronunciata. La stessa di ogni merdosa volta che ava di lì…. “Dammi un Montenegro”. Infatti. E capì di avere commesso un errore. Di nuovo.
Mandò un sms a Rabbo. ‘Davs è venuto al bar. Aveva bisogno di parlare. Oggi, se hai un minimo di voglia, vi lascio all’Internet cafè, così parlate anche voi, mentre io sistemo casa.’
Andarono a prendere Rabbo fuori dalla ditta in cui aveva trovato, provvisoriamente, lavoro per l’estate.
Restava mezzora abbondante di attesa, prima che uscisse. “Lo so che voi due mi disprezzate” disse, riempiendo il silenzio che si era creato per una sorta di comune accordo. “Sei tu che vuoi essere odiato. Anche tua madre….come pensi sia arrivata a questo punto? Dici che ti vorrebbe morto, ma si è solo arresa. Apri gli occhi!” “Li ho più aperti di voi. Io so che la vita è una merda, ne sono consapevole, perciò mi faccio del male” “Ma ne fai anche agli altri!” “Non obbligo nessuno a starmi vicino. Anzi, voglio solo che mi lasciate libero di distruggermi” “Come fai ad accettarlo? Come fai a stare lì tranquillo, mentre una persona a cui vuoi bene si ammazza lentamente?” “Dovete, cazzo!! Lasciatemi solo. Non rompetemi i coglioni!” Uscì sbattendo la portiera della macchina. Piangendo. Non voleva farsi vedere. Deb lo sapeva. Si sentiva esausta, impotente contro il suo nichilismo. Così concentrato sulla sua autodistruzione da non voler sentire nient’altro. Lo guardò nello specchio retrovisore, mentre si avvicinava. Rientrò. “Deb, non voglio perdervi: siete gli unici due amici che ho. Ho bisogno di voi. Posso anche smettere di bere, se volete, ma mi serve il vostro aiuto.” Per un attimo, troppo breve persino per ingannare sé stessi, lei si sentì meglio. Sorrise, coprendo con la sua maschera migliore il sottile dolore di chi è consapevole. Di chi ha sentito già troppe promesse.
Rabbo entrò. “Ciao amore” “Com’è andata?” “Non abbiamo parlato molto. Ha bevuto, ma solo una birra. Sembrava agitato…” “Forse se la smettesse con alcool e droga….tornerebbe a essere quello di prima” “Forse” rispose lui, con un tono distaccato, “comunque mi ha lasciato all’internet, dicendo che andava a cercare un po’ di roba, perché non ce la faceva più”. Deb non parlò. Si alzò lenta e, con aria imibile, andò in camera. Pianse. Pensava di essere tanto forte? Credeva che la sua barriera di autodifesa avrebbe retto per molto? Palle. Tutte palle.
THIS MAGIC MOMENT
Una di quelle sere in cui il tempo si dilata come olio sulla superficie piatta. La luce che illumina, senza prepotenza, due corpi nudi nascosti nel silenzio. Una di quelle sere che non dovrebbero finire, mentre un impercettibile mutamento di colore tra le persiane preme per farsi strada, per frantumare l’illusione. Presto la stupida carrozza tornerà ad essere una zucca, ed i cavalli di nuovo squallidi topi di fogna. Lei la sente, la profondità di questo momento che, forse, non tornerà mai. E la vede, in quelle pupille che non si staccano da lei, dal suo corpo così bianco nell’ombra del tramonto. Come se Rabbo stesse leggendo dentro, nelle sue viscere, per la prima volta. Come se la vedesse davvero. Così vicini da avere paura di perdersi. Raccontarsi sogni, ricordi, incubi, amori. Ore cadute nel vuoto, e timore di allontanarsi da quel letto…. da quel frammento di perfezione. Rabbo ruppe il silenzio. Doveva succedere: la notte era arrivata. “Ti farò soffrire. Ancora. Me lo sento”. Una coscienza comune irrigidì i loro corpi freddi, mentre fuori cominciò a
piovere. Il tempo riprese a muoversi.
SHE’S LOST CONTROL
“Perché no?” si era chiesta. Forse Rabbo non aveva tutti i torti. O forse si. Qualunque fosse la verità, quella sera sarebbe andata così. Voleva sapere come ci si sentiva; in che modo la sua percezione sarebbe mutata. Era già a metà: la bottiglia di lambrusco dondolava tra le sue mani, mentre gli altri fuori dal locale, così abituati a vederla assolutamente lucida, la fissavano divertiti. Avevano tutto il diritto di esserlo, visto che Deb si trascinava ciondolando, facendo a chiunque strani discorsi, riguardanti i vantaggi dell’utilizzo dell’anello vaginale ed il potere rilassante della peto-terapia. Rabbo e Davs la presero per mano e la trascinarono in macchina. Non oppose resistenza. Si sentiva incapace di imporre, in qualsiasi modo, la sua volontà, crogiolandosi tra sensazioni di euforia e quiete. Tutto scorreva in modo fluido e lei non sentiva il bisogno di interagire con il mondo fuori dalla sua testa. Accasciata sul sedile davanti, con il capo leggermente inclinato, tra ombre ed oggetti che roteavano in modo innaturale, scorse le due figure. Davs aveva in mano qualcosa che ò davanti, a Rabbo. Lui se lo portò al naso e sniffò. Fu un secondo. Tutto si fermò. Non voleva capire, ma il suo cervello fu più rapido di quanto lei sperasse.
Iniziò a tremare e, senza controllo, pianse tra violenti spasmi che le tolsero quasi il respiro. “Cosa c’è amore, cos’hai?” Lei continuava a singhiozzare. “Cos…cosa era que….quella merda c…che hai sn…sniffato?” “Chetamina” rispose quasi sorpreso, “ma non…” “Perché?” “Perché cosa?” “Perché devi riempirti di merda per…” Rabbo, annebbiato dall’alcool e dalla droga, sembrava confuso. Davs uscì dalla macchina. “Amore, smettila! Mi fai stare male, smettila di piangere!” Deb singhiozzò ancora più forte. “Basta! Il fatto che ho preso quella roba non influisce su quello che provo per te, lo capisci?” Lei non rispose. Sembrava un giocattolo rotto. Come se il suo equilibrio, già instabile, fosse stato incrinato da un elemento oscuro. Rabbo continuò. “Perché non posso mai fare quello che mi va senza ferirti? Non ce la faccio più!” Quando lui cominciò a piangere, stranamente Deb si calmò. Gli accarezzò una guancia. Rabbo sollevò lo sguardo annacquato.
“Non voglio più farti stare male. Ti giuro che non snifferò mai più” Deb cercò di sorridere. Tutte quelle promesse. E tutto quel vuoto. Si sentì soffocare.
IN THE END
GLAD TO SEE YOU GO
‘Settimana prossima parto. Vado a Cattolica, da un’amica. Forse mi troverò un lavoro. Non so quando tornerò. Se tornerò.’ Deb guardò il messaggio di Davs. Niente. Non provò niente. arono almeno dieci minuti prima che si svegliasse da quel letargo sensoriale, prima che si rendesse conto che non era una delle tante scene madre. Sarebbe partito. Sollievo. Fu la prima cosa che le si rigirò dentro. Pensò che ci sarebbe stata una lunga pausa per i suoi nervi. Il secondo pensiero fu che, finalmente, Davs aveva fatto un o, uno almeno, verso qualcosa che non fosse l’autodistruzione. Era euforica, anche se le riusciva difficile capirne il motivo.
arono altre tre ore, prima che provasse qualcos’altro. Era già tra le lenzuola, con lo sguardo nella penombra, tra un poster di joe strummer e la foto di una stupida smorfia di Sick, quando si accorse di avere ancora quel pensiero, incollato come una sanguisuga. Un’ inquietudine le impediva l’abbandono totale che precedeva l’assopirsi. Un fastidio persistente; una felicità colpevole. Dopo un tempo che le sembrò lunghissimo, ad accoglierla rimasero solo buio, silenzio, ed un sonno agitato.
Sognò Davs raggomitolato mentre dormiva; gli occhi chiusi su qualche altro mondo, il sorriso di un bambino che non aveva ancora conosciuto il dolore. Sognò ricordi confusi. Notti ate a ridere e a parlare di disillusioni, di teorie inverosimili sull’amore, sulla vita e sulla tecnica di riproduzione dei puffi. Sognò quello che era stato. Si ridestò in uno spazio ovattato, quasi fosse la continuazione del sogno. Ricordò e capì. Non era felicità, ciò che sentiva, ma speranza. Oppure conscio illudersi che, dopo il viaggio, forse sarebbe tornato, e sarebbe stato di nuovo ‘quel’ Davs. Qualsiasi nome cercasse di dare alle sue emozioni sapeva, nel profondo, che quello stronzo arrogante borderline le sarebbe mancato.
ANGEL’S WINGS
Stava per ingoiarsi quell’intero flacone di EN che, ancora, non aveva avuto il coraggio o la voglia di buttare via, nonostante i buoni propositi. Lo rigirava tra le dita, chiedendosi se davvero, come scritto nelle istruzioni, sarebbe stato un rischio per la sua vita. Un lampo ò rapido dalla materia cerebrale fin giù, dritto nella pancia. Un ricordo. Il racconto di Sick, ‘dentro al bianco’, quello che Rabbo non era riuscito a finire. Dentro al bianco di un reparto psichiatrico, dopo che Sick provò a tagliarsi le vene. Un purgatorio sterile e senza tempo. Troppo chiuso per un 26enne abituato al nero della strada. Quel bianco che non cancellò né paure né dolori, nemmeno quando ritornò a sguazzare nella notte sporca, nel suo metropolitano incubo rassicurante. Deb aveva già svitato il tappo quando, seduta sul letto, guardò la foto sbiadita di fronte a sé, lì dov’era sempre stata. Lacrime pesanti caddero sulle lenzuola macchiate di sperma. Appoggiò a terra il flacone ancora intatto e inziò a singhiozzare violentemente. “Che cosa sto facendo, Sick? Cosa devo fare?” disse, rivolgendosi alla fotografia. Si sentì pateticamente ridicola, in quell’istante. Riprese di nuovo la bottiglietta di vetro, ed il telefono squillò.
Chissà perché, per un attimo pensò fosse Sick.
“La tua sensibilità non sarà sempre una condanna, lo capirai” “Grazie, Giò, per tutto quello che hai detto.” “Ma figurati! E poi sono solo 48 minuti di telefonata, posso fare di meglio! A proposito, quando vieni a Savona?” “Presto. Ora vado a dormire: domani ho un mare di cose da fare” “Ok, ciao bimba!” “Notte, Giò”
Pensò di nuovo al bianco. Andò sul cesso, con il flacone tra le mani, e lo vuotò dentro. Tutto. Mise il contenitore sulla scrivania, tra la collezione di teschi e la bottiglia di spumante che lei Davs e Rabbo, forse perché non c’era mai stata un’occasione per festeggiare, forse perché se ne erano semplicemente dimenticati, non aprirono mai. Non voleva dimenticare.
STAY FREE
Chissà perché, ogni volta che la sua vita veniva attraversata da cambiamenti, c’era sempre di mezzo un treno. Ed un cielo incolore. Era stato così molte volte, ed era così oggi. Davs la fissava dalla porta ancora aperta dell’interregionale per Milano. Deb si sentiva strana, come un fascio di luce inconsistente soffocato da colori troppo forti, da un mondo di plastica. Avvertì qualcosa scivolare fuori da sé. Si sentiva dissolvere in una realtà troppo distorta per essere la sua. Non le importava: si stava lasciando scomparire. Senza opporre resistenza. Senza dolore. Fu richiamata dalle parole di Davs. “Una volta a Cattolica, cercherò anche una comunità di recupero.” Deb sorrise. Una strana tranquillità, dentro, come quando, da piccola, guardava dalla finestra la città ricoperta di neve. Silenzio. Un bianco perfetto, puro. E la paura che un elemento esterno intervenisse a modificare, anche di poco, quel paesaggio, quello stato di temporanea pace. Era così, ora. “Fatti sentire” gli disse. “Entro questa sera parlerò con Rabbo. Ciao Davs!” La porta si chiuse e il rumore del treno in partenza sommerse tutto, anche i
pensieri. “Ti voglio bene” urlò, dal basso. Ma lo sguardo di lui era già molto oltre. Era già in viaggio.
LAST CARESS
“Come diceva quel testo di Davs? … ‘gabbie invisibili. Nemmeno te ne accorgi ma sei chiuso dentro. Sono dentro te, miraggio di una vita libera, e non ci vuole molto a smascherare il tutto…’” “Bel testo, si” disse Rabbo. “Lo sai?” riprese lei, “i suoi testi sono così profondi ma, adesso che ci penso, non hanno mai un inizio e una fine. Sono dolorosi, nichilisti, disillusi, stupendi nella loro sofferenza. Potrebbe diventare qualcuno se solo volesse. Chissà se succederà mai…” Un inizio e una fine. La frase continuò a rimbombarle nel cervello. “Ti ho riportato il libro, dato che non so quando ci rivedremo” disse lui, porgendole ‘Cowboys & indians’. Le sfiorò la mano. Una carezza sospesa nel vuoto. “Ma non lo hai letto tutto…” “Non importa”. Si alzò e le diede le spalle. “Io vado, ciao”.
Una fine. Una delle tante. Aprì il libro e lesse la sua parte preferita. La conosceva quasi a memoria.
‘Lei era ipersensibile, era come una persona a cui avessero strappato uno strato di pelle. Diavolo, era come se non avesse affatto la pelle, solo carne e sangue e ossa. Tutto, dal dolore al piacere, tutto l’intero spettro, lei lo sentiva molto più in profondità di qualunque persona avesse mai conosciuto…’
Pianse. In silenzio. Sapeva già come sarebbe finito quel libro.
Un’altra scritta, muta e immobile, sull’ultima pagina, la 270. Una scrittura infantile, in penna blu, occupava uno spazio prima bianco. Una scritta che, forse, lei non avrebbe mai scoperto. Su una pagina che, probabilmente, non sarebbe mai più stata aperta.
“DOVUNQUE TU SIA, DOVUNQUE IO VADA, SAREMO SEMPRE UNICI” (NEGAZIONE)
LA CINQUECENTO GIALLA
Le mie ginocchia sbatacchiano qua e là, impossessate da uno strano tremito che, presumo, non sia dovuto semplicemente al vento freddo di questo autunno appena cominciato. Forse la solitudine che tenta di uscire, intrappolata nei tessuti di un corpo che quasi non sento più mio. Da troppo tempo ormai non avverto più la realtà. La percepisco appena, come un sogno sfumato, come un pensiero che tenti invano di recuperare sentendolo già lontano. Come appena sveglia dopo un'anestesia totale: lo stesso senso di vuoto. Panico da assenza di punti di riferimento. Esposta e fragile. Non pienamente cosciente di ciò che mi scorre attorno. Silenzio e buio. Osservo il fumo disegnare forme astratte di fronte ai miei occhi. Dentro i miei occhi. Merda. Non so bene come ma riesco sempre ad accecarmi con il fumo delle mie sigarette. Non che io sia una gran fumatrice; del resto ho iniziato ad infognare i miei polmoni da un paio di mesi soltanto. Credo sia per colpa della nuova creatura che sta crescendo nelle mie interiora, modificando il mio DNA e portandomi ad essere qualcosa di profondamente diverso da me stessa…dalla me stessa che conoscevo. La metamorfosi è in corso. Non so più chi sono. Cosa sono.
Butto distrattamente uno sguardo alla strada. Per lo meno sono fuori, nel mondo, e non rinchiusa tra quattro mura. La metamorfosi mi ha resa anche schiava di una nuova forma di claustrofobia: non sopporto più di restare per troppo tempo in un luogo chiuso, soprattutto in quella che abitualmente chiamo "casa". Il senso di soffocamento me lo impedisce. Credo sia sempre per via della mia solitudine interiore: richiede di essere esposta a spazi più ampi, di riempirsi dei rumori e del caos cittadino, di perdersi e
confondersi nella folla, tra altre solitudini. Sto aspettando Mirna e Gaia, come ogni giorno, anche se oggi non è COME OGNI GIORNO. E' IL giorno. Quello.
La bottiglia di lambrusco è già ai miei piedi in attesa. Ed eccole sbucare, come due fumetti manga oversize. Mirna e Gaia. Le uniche amiche sopravvissute alla mia metamorfosi galoppante. Al mio essere così pateticamente debole e incoerente. Oggi mi ubriacherò. Niente di strano, se non fosse per il dettaglio che sono sempre stata un'astemia dura e pura (se si escludono le due sbronze isolate dell'anno scorso).
"Ciao" "Ciao baldraccone. Pronte a bere con me?" Il mio sguardo, già un po' annacquato dalla mezza bottiglia scolata in solitaria attesa, si posa sulle loro belle guanciotte da diciassettenni allegre. Non so mica se mi piacerebbero comunque, avessero un paio di quelle faccette smunte e tristi da anoressiche perennemente a dieta. Per fortuna il loro volto paffuto e sorridente è già entrato, rassicurante, nel mio annebbiato campo visivo. "Ma tu hai già bevuto, stronza!", mi apostrofa Mirna. "Eh..sai com'è…ma non preoccuparti. Guarda" le dico, tirando fuori dal sacchetto sotto la sedia un altro lambrusco amabile ancora intatto. Sempre controllando che il cinese del bar non scorga il sacrilegio, dato che le suddette bottiglie non provengono da questo buco di culo di locale, bensì dal più economico supermarket dietro l'angolo. "Dai, allora. Cantiamo tutti assieme", continua Mirna, "Bevono i nostri padri.
YEEE. Bevon le nostre madri. YEEE. E noi che figli siamo, beviamo beviamo e noi che figli siamo, beviamo in società". "Grande. L'Orietta Berti dei punk!!", dico io, ridendo. Sanno sempre come prendermi, queste due. Anche quando sto male. Anche quando mi si contorcono le budella dal dolore. Anche oggi, che è IL giorno. "Ehi, c'è Thomas di là", sento pronunciare dalla vocina di Gaia. E' bella davvero, Gaia: ha un viso luminoso e pulito che ti rimane impresso nei neuroni, ed ha anche il vantaggio di essere tanto abbondante da non poter assolutamente are inosservata. "Thomas?" dico io, sbiascicando un po'. "Oggi non ha niente di nuovo da raccontare?" Thomas è uno che, per attirare l'attenzione altrui, sarebbe disposto a fare e dire qualsiasi cosa. Rimanendo nell'ambito del "dire", ha già raccontato ad almeno 300 persone di essere stato rapito dagli alieni, essere stato stuprato a 11 anni, essere stato spiato dalla C.I.A., avere un cancro ai polmoni, avere una malattia che lo porterà a morire entro i 20 anni (ora ne ha 21), per via della cassa toracica troppo piccola. "Cosa potrebbe ancora raccontare…di essere incinto?", sorride Mirna, tra un sorso e l'altro. "Aspetta, glielo chiedo" dico, riempiendomi d'aria i polmoni, preparandomi a quella che credo sarà un'emissione vocale non indifferente. "Thoooomaaaaaaaas. Sei incintoooooo?....Mi avrà sentita??" Gaia ride. "credo ti abbiano sentito fino in Burundi". Infatti l'omino dallo sguardo satanico compare in tutta la sua sbilenca lunghezza da dietro il pilastro, dicendo:"Cazzo c'hai da urlare così, Deb, sei ubriaca?" "Appunto", sbiascico io. "Sei ubriaca davvero? Oh cazzo…non ti vedevo più così da quando ti sei lasciata con Rabbo. Cosa è successo?":
"La mamma di lui sta morendo. Forse oggi". Mirna e Gaia abbassano lo sguardo, silenziose, come se dovessero in qualche modo sentirsi in colpa.. "Per il tumore? Ma non stava guarendo?" "Si", prosegue Mirna, dato che la sottoscritta sembra caduta in uno stato catatonico irreversibile. "Ma settimana scorsa l'hanno portata d'urgenza in ospedale per un peggioramento. Metastasi. Non c'è più niente da fare". Osservo la strada, di nuovo. Aspetto che una cinquecento gialla degli anni '70 compaia all'orizzonte, buffa ed appariscente nel traffico ordinario delle cinque pomeridiane. Niente. Non succede niente. Guardo le labbra ipocrite dell'omino muoversi frenetiche ma afferro solo la parte finale del discorso… "Mi dispiace, ma la vita continua. Anche per Rabbo." "Conoscevi sua madre?", chiedo io nervosamente. "No". "Ecco". "Ma conosco Rabbo e so che….." "…Sai che si sta ammazzando di droghe e alcool? Sai delle bruciature da sigaretta sulle sue braccia? Sai…no, non sai un cazzo. Vattene, và…" "Ma io ho solo…" Gli sguardi taglienti di Mirna e Gaia lo zittiscono all'istante e lo spingono nell'angolo da cui era comparso. Nell'ombra, dove merita di trovarsi. Alzo i miei occhi cupi sui loro volti dispiaciuti. "Non capisco perché Dio permetta l'esistenza di questi individui, mentre persone stupende come Paola…quando litigavo con Rabbo lei era sempre lì, pronta ad aiutarmi. A consigliarmi. E spesso lo faceva meglio di mia madre. Se Dio
esistesse…ah ah, che idiota del cazzo sono!", dico sputacchiando saliva violastra sul pavimento. "Lo sanno tutti che Dio non esiste. Dio…" "Dioooooooo, te stai maleeee!!", urla allegramente Gaia, all'improvviso. Eh si, queste due sanno sempre come prendermi. Sollevo la bottiglia per regalare un'altra sorsata violastra alle mie interiora, ma risa isteriche mi sconquassano da dentro e impediscono al liquido di raggiungere la meta. Infatti sputo ripetutamente lambrusco sul marciapiede di fronte al locale. Ridiamo come dementi; assomigliamo più a tre protagonisti di South Park che a tre esseri umani. Mirna è la prima che riesce a sillabare una frase di senso più o meno compiuto. "Deb...attenta che non ti venga la sbornia perniciosa". "Eh?? La sborra perniciosa? No no, non deve venirmi. Anche perché tra poco devo mettermi al computer. Devo sentire Dode su msn e se non mi riprendo potrei scrivere cose di cui mi pentirò". "…Tipo?" "Eh…non so…tipo…GNEGNEGRRRVSSSS". Questa volta è Gaia a sputacchiare goccioline violastre sul marciapiede. Ridiamo di nuovo, ma veniamo interrotte da una presenza inquietante di fronte a noi. Non distinguo bene i suoi contorni ma sento che urla qualcosa nella nostra direzione. "Deb", dice Gaia pensierosa, "quello là ha chiamato 'cinghialuzza' una di noi." "Cinghialuzza? Chi cazzo è sto porco??". Il porco si avvicina rapidamente. E' già a tre metri da noi. Cerco di metterlo a fuoco ma la sua voce mi si infila fastidiosamente nei timpani prima ancora che io riesca nel tentativo. "Oh, cinghialuzza…ma non saluti più?"
CINGHIALUZZA…mi suona familiare…Oh, cazzo…è possibile non riconoscere una persona con cui hai convissuto sei anni? Devo essere proprio messa male. "Ciao,Giuliano", butto lì timidamente, mentre la voce di lui già mi sovrasta. "Cinghia, vuoi qualcosa da bere?" Tiro fuori il migliore dei miei sorrisi storti. Sguardo idiota quanto basta. Allungo la mano sulla bottiglia mezza vuota e cerco di ritornare padrona della mia lingua molliccia e penzolante, ma tutto ciò che mi esce è uno strano rotolare e sovrapporsi di vocali e consonanti… "Ss..too jjà…'even..doooo". "Cinghia, ma sei ubriaca?" "S…ssi" Silenzio. Imbarazzo. "Sei sicura di stare bene? Non bevevi quando stavi con me…" "Taaaanto tempo faaa", dico, alzando di due toni la voce. "Sei strana…non ti riconosco più!" "Neanche io mi riconosco. Forse perché sono sbr….onsaaa??". Il porco se ne va scuotendo la testa, senza ulteriori commenti. "Ehi ragasseee..tutti mi dicono che non mi riconoscono più. Ma sono così cambiata da quando non sto più con Rabbo? Si, forse si…quando stavo con lui ero quasi bella". "Eh?" "Sssi…io brillavo, giuro. Mi guardavo allo specchio molto più spesso perché ero luminosa. Bella. Non mi ero mai sentita c…cosìì. Io ero solo la bruttina sfigata, prima di conoscere lui."
"Forse vuoi dire che lui ti faceva sentire speciale?" "S…ssi, ma non s…solo. Ecco…non so come spiegarlo…voi mi avete vista c… cambiare?" Silenzio. "Cioè. Ora sono di nuovo quella di sempre. Mi sono illusa per un anno, ma la magia è finita. Sono di nuovo la nerd bruttina, quella che a inosservata; l'amica saggia simpatica e profonda. Amica di tutti e ragazza di nessuno. Quella che si dovrebbe accontentare di qualche sss…copata ogni tanto, di quello che a il convento. Fan…fanculo! Preferisco ress… tare da sss…sola! Ragasseeee, la Deb sfigata è tornata, pronta di nuovo a strafogarsi di cioccolato. Tanto non sarò mai bella…chi se ne fotte? Datemi il mio cioccolato… cioccolatooooooo. Cazzoooo, voglio il cioccolatoooo!". Le mie urla ubriache riempiono l'aria grigia di una città che mi sta sempre più stretta. Cieli bianchi e inespressivi come le mura della mia stanza. "Ragasseeee…mi manca l'aria". "Ma siamo all'aperto", esclama Mirna. "….Mi manca l'aria…" "Allora camminiamo verso la fermata dell'autobus, tanto tra un po' devo andare. Riesci a camminare, Deb?" "C…ci provo" Ci alziamo all'unisono. Barcollo ma non mollo. Mi trascino su strade troppo lunghe. Il vento freddo in faccia mi scuote le viscere e, finalmente, respiro di nuovo. "Ragazze..vorrei essere forte. Abbastanza forte da non avere dubbi" "Dubbi?" "..Sulla non esistenza di Dio. Paola non credeva…non crede in Dio. Crede solo in sé stessa. E gli altri credono in lei. Vorrei essere così…e invece, a volte, mi
scopro a parlare con qualcuno che non c'è, a chiedergli il perché delle cose….Ieri, in ospedale, l'ho vista." "Paola?" "Si, era incosciente". Vorrei dire loro che non è solo Paola, ciò che ho visto in quella stanza. La morte. Così vicina da sentire il suo alito sulla pelle. Così vicina da farmi sentire…viva! L'istante in cui intuisci quanto sia importante godersi ogni minuto intensamente. In cui ti rendi conto di quanta inutilità, quante paure ed angosce, quante cose superflue ci facciamo scivolare dentro ogni giorno. Dentro le nostre teste. Dentro le nostre esistenze. Mentre basterebbe soltanto imparare ad accettare la vita. Lasciarla scorrere. Vorrei dire loro tutto questo, ma ciò che esce dalla mia fottuta bocca è un misero "Dio non esiste. Cazzoooooooo!!!". "Deb, stai urlando". "Si..allora? Tanto Dio non esiste, cazzoooooooo!" Alcune vecchine si scansano, intimorite, al mio aggio. Le guardo divertita e, barcollando, mi siedo sulla panchina alla fermata dell'autobus. “Cazzooooooo!" "Deb, smettila", sorride Gaia imbarazzata. "Perchè, caaaa!!br0ken!! La lingua mi si ammoscia di botto, mentre il mio sguardo annebbiato scorge un puntino giallo avvicinarsi. Probabilmente un'allucinazione, penso. Ma il puntino giallo diventa sempre più netto, prende forma…la forma di una cinquecento gialla. E' ferma sulla scritta "AUTOBUS" di fronte ai nostri piedi. Quante volte l'ho vista materializzarsi su queste strade malate: uno sputo di
anacronistica allegria colorata che non a certo inosservata, in una città come questa. E non ho mai capito se l'euforia si impossessasse delle mie cellule cerebrali per via di quell'immagine strana, quasi da fumetto – uno spilungone biondo la cui testa finiva nell'esatto punto in cui iniziava il tettuccio giallo della macchina da cartone animato --, o per via del fatto che quell'immagine mi rassicurava, dandomi la certezza che LUI c'era, che era ancora in giro per questo zozzo paese, nonostante tutto.
"Deb, c'è Rabbo." "Sicura?" "Non lo vedi??" "Si. Non è un'allucinazione?" "No. Sta scendendo dalla cinquecento. Non avevi detto che oggi non voleva vederti?" "Così aveva detto lui. Non se la sentiva. 'Emotivamente'. ..". E invece è proprio lui. Ogni volta che lo vedo, in tutta la sua inquietante bellezza , con quel corpo da fotomodello punk e quel viso ancora un po' bambino, sento di dover ringraziare sua madre, solo per l'impegno che ci ha messo a cagarlo fuori così. Ascolto il rumore arrugginito della portiera-fumetto che si chiude dietro di lui. Lo stupendo punk-fumetto appare davanti a noi proprio mentre l'autobus accosta, vicinissimo al puntino giallo, per portarsi via le mie due amiche. Rimango sola con lui. "Ciao" ,mi dice, "sto andando a mangiare un kèbab. Vuoi venire?" "Sono sbronza", sottolineo io, chissà per quale motivo. "Ah…", sorride, "allora offro io".
Il kèbab mi fissa da davanti la sua bocca-fumetto. Io non mangio, per paura di rivedere il kèbab più tardi, sparso in tanti pezzettini violacei sui miei anfibi. "Come stai?". Domanda idiota. Come vuoi che stia uno la cui madre sta per morire? "Mi sembri tranquillo", tento inutilmente di aggiungere. Lo conosco più di quanto lui immagini: conosco ogni dettaglio della sua maschera fredda e imibile. La sua facciata da coglione superficiale, quella a portata di tutti, quella che nasconde ferite profonde, una dolcezza non comune ed una fottuta paura. Della vita, ma anche di sé stesso. Lui dimentica troppo spesso di avermi lasciata guardare, dietro quella maschera, una volta. "Si. Sembro tranquillo". Restiamo per un po' in silenzio, dopo di che il lambrusco torna ad impossessarsi dei miei neuroni e lo ringrazio infinitamente per questo. Per avermi dato il coraggio di dire cose che, altrimenti, non avrei mai potuto. "Sai, tua mamma era…è la persona più forte che io abbia mai conosciuto" "Lo so" "Tua nonna mi stava raccontando, ieri, di quando sono andate alla festa di raccolta fondi per l'oncologia" "Non ne so niente. Racconta" "Paola aveva appena avuto gli esiti degli esami e tua nonna continuava a chiederle cosa dicevano. Paola non aveva molta voglia di parlare ma alla fine le aveva detto del peggioramento e delle metastasi. E del fatto che, probabilmente, non c'era più nessuna cura…" Mi interrompo un secondo, per paura che sul volto di lui compaiano segni
evidenti di un dolore più che comprensibile. Ma nessun segno. Niente. "Comunque…tua nonna si era messa a piangere e Paola aveva detto: 'Dai, mamma, non vorrai mica rovinarti la serata per questa cosa, no? Ci mettiamo una pezza e andiamo avanti, come sempre…" "Non ne sapevo niente". "Io vorrei essere forte come lei…..cambiando discorso, hai sentito Marek?" "E' uno stronzo!" "Perché si è trombato Erika?" "No…non me ne frega più niente di lei. Erika è un'ipocrita. Usa le persone e poi le butta via." "Ti avevo detto che potevi avere molto di più di una come lei. Andava in giro a dire che voi non eravate assieme, ma intanto ti scopava. Come se fossi il suo giocattolo. E poi si va a trombare uno dei tuoi migliori amici…cazzo!" "Già" "Però tu ti eri affezionato a lei" "Già" "E Marek?" "Lei lo à e lo butterà via, come al solito. Ma con lui sono incazzato per un altro motivo. Settimana scorsa aveva promesso di farmi un tatuaggio" "Un tatuaggio?" "Si. Con il nome di mia madre. Volevo farlo vedere a lei, prima che…ma ormai…Lui ha trovato mille scuse per non farmi quel cazzo di tatoo" "Perché?" "Non lo so. Forse non aveva voglia"
"E…hai qualche altro amico che ti sta vicino, ora?" "Si…non so…boh!" Silenzio. "Ti spegni ancora le sigarette addosso?" Lo so. Ora so cosa significa. Quando il dolore che hai dentro diventa insopportabile, quando ti soffoca. Quando un 'piccolo' e 'sopportabile' dolore fisico –una bruciatura, un taglio- ti distrae e ti allontana, anche se per poco, dal male più grande…quello invisibile. Nel profondo. "No" è la sua risposta. "E le droghe?" Distoglie lo sguardo. So cosa significa. "Ogni tanto" So che quanto sto per dire è assolutamente inutile, ma lo dico comunque. "Cerca di non farti troppo male, ok?" "Ok". Nessun segno di dolore sulla sua pelle bianca.
"Andiamo all'internet?" "Va bene. Sono stata lì a bere tutto il giorno con Gaia e Mirna" "Scusa" "Di cosa?" "Se non ho voluto vederti oggi. Ero con Alex"
"Non fa niente. Posso capire.". Posso capire che preferisca circondarsi di gente con la profondità di una gallina da allevamento, di persone vuote che non gli permettano di pensare, di ricordare. Posso capire che non voglia accanto persone troppo emotive, persone che potrebbero smuovere qualcosa nella sua immobile e fragile facciata, persone in cui lui potrebbe riconoscere, come in uno specchio, la propria debolezza, la propria sensibilità. Posso capire la sua paura di guardarsi dentro e di affrontare la vita. Davvero, posso capire. Ma non posso spiegarglielo.
"Vuoi qualcosa da bere?" mi chiede lui, mentre dondolo sorridendo come un'ebete sulla sedia, costantemente osservata dal cinese alle mie spalle. So che non dovrei mettere i miei sudici anfibi sulla sua candida sedia. Ma me ne fotto. "Ok, un bicchiere di rosso". Sparisce per pochi secondi e ritorna con in mano la goccia che –lo sento- farà traboccare il vaso. Butto giù tutto quello schifoso liquido amarognolo. Ho sempre odiato bere, e ora ne ricordo il motivo. Guardo Rabbo. Credo abbia raggiunto la soglia. Il punto oltre al quale tutto inizia a confondersi, a farsi meno nitido. Lo vedo parlare sottovoce con un gruppo di marocchini-spacciatori. So cosa sta per succedere. Mi raggomitolo di nuovo in posizione fetale, con la testa sulle ginocchia e le braccia chiuse. Come se tutto questo potesse proteggermi dalla merda lì fuori.
"Deb, vado a fare un giro. Torno tra poco". Sento i loro i farsi sempre più piccoli, più lontani…
Il risveglio dopo un'anestesia è sempre traumatico. Ti senti solo, indifeso. Come se bastasse un soffio di vento a mandare in frantumi ogni tuo organo vitale. Buio. Silenzio. Paura. Panico. Bisogno disperato di un punto di riferimento. Di un volto conosciuto, di qualcuno che si prenda cura di te, qualcuno che ti porti fuori da quel sogno da cui non riesci a svegliarti. Che ti riporti alla vita Sono stata ferma su questa sedia per un tempo che non saprei quantificare, forse anche per l'alterazione sensoriale dovuta all'alcool. Sembra già un anno che sto qui a piangere senza potermi fermare. Sento gli occhi talmente gonfi da non riuscire quasi a tenerli aperti. Il muco ha già invaso vestiti e sedia…povera candida sedia! Riesco a stento a sollevare di poco la testa, di lato: il puntino giallo è ancora là parcheggiato. So che dovrei mettere assieme le poche forze rimaste e raggiungere la mia auto, poco distante dalla sua. So che dovrei smettere di spargere muco sulle mie ginocchia e andarmene a casa. Tanto lui non tornerà. Un'altra delle sue serate fuori casa. E sua madre sta morendo. Cazzo. Dovrei alzarmi. Dovrei. Ma tutto ciò che so fare è piangere. Lui aveva ragione. Almeno su questo.
"Deb…" E' Mirna. Cosa ci fa qui a quest'ora? "Deb…stai bene?" .C'è anche Gaia. Non sollevo la testa. Non reagisco.
"Abbiamo incrociato Rabbo .Ci ha detto che eri qui", sussurra Mirna, "sta arrivando". Altro muco corre via, assieme alle lacrime. Mi rendo conto all'improvviso che sto tremando, mentre sento la voce di lui. "Come stai?". Tremo più forte. "Deb…perché piangi?", mi chiede questo sbronzo angelo punk. Vorrei dirgli che piango per me, per lui, per Paola. Per la vita. Per tutto quello che sono stata costretta ad accettare. Ho accettato che i sentimenti cambiano e finiscono. Ho accettato che lui non sarà mai più mio, anche se si è portato via una parte di me che nessuno potrà più restituirmi. Ho accettato che avremo vite diverse, che lui si scoperà un'infinità di altre donne, spesso solo per riempire il suo vuoto. Ho accettato il suo tenermi distante, la sua rabbia, la sua indifferenza. Ho accettato la quasi vita che mi è rimasta dopo che lui se ne è andato e, ora, sto imparando ad accettare anche la morte, quella vera e tangibile. Non avrei mai creduto di poterci riuscire. Ma piango soprattutto perché c'è una cosa che non posso accettare. La sua autodistruzione. Il suo volersi fare male ed uccidersi dentro. La sua determinazione nel cancellare un po' del suo essere ogni minuto che a. Il suo costante allontanarsi da ciò che ha in profondità. Il suo tentare di perdersi, annullarsi, stordirsi, rendere sempre meno netti i confini tra il suo mondo e la realtà, farli sfumare ed immergersi nella nebbia, in quel mondo dove tutto è dolore. Ma un dolore senza forma, vago, attutito. Vorrei dirgli perché piango, davvero. Vorrei dirgli che piango perché non sono pronta. Perché non sono abbastanza forte. Perché non riesco a guardare chi amo mentre si perde per sempre.
Vorrei tanto poterlo spiegare.
Una mano mi carezza la testa. E' un calore che conosco bene. Vorrei poter credere che quella mano mi trascinerà fuori dall'incubo post-anestesia. Vorrei poter credere. Ma è un attimo, un solo lungo ed intenso attimo. Un attimo in cui il tempo si ferma ed i muri crollano. Lui non mi aveva più nemmeno sfiorata, da quando era uscito dalla mia vita. L'avevo voluta anche io, quella distanza tra noi. Necessaria, indispensabile per sopravvivere. Barriere. Che ora crollano. Per un solo fottutissimo attimo. Così vicini. Come se niente fosse mai successo. Come se tutto tra noi fosse ancora intatto. Puro. Un minuto. Un minuto in cui riesco a vedere dentro di lui, dentro a questo imperfetto ragazzo-fumetto così pieno di paure. Proprio come me. Un minuto in cui tutto è immobile, come l'aria prima di un fulmine. So perfettamente che non durerà. Ma per un solo lunghissimo attimo me ne dimentico.
"Ciao Alex". Non sollevo la testa nemmeno ora che la mano si allontana. Il muco ha preso una pausa di riflessione, ma resto immobile. "Ciao Rabbo. Deb sta male?"
"No no…è solo un po' sbronza" "Ah. Vieni con me in bagno un secondo?". La sua voce gracchiante si fa bisbiglio. "Ho un regalino per te". So cosa sta per succedere. Di nuovo. i lontani. Non piango più. Oggi è IL giorno. Questa notte Paola se ne andrà. Lo so. Domani toccherà a me.
Ripenso a quell'anacronistica cinquecento gialla, a quel puntino colorato e buffo. Mi mancherà. Non posso restare qui per sempre, ad aspettare che il suo allegro zigzagare porti un po' di vita nel grigio di una città senza anima. Non più. Respiro profondamente. Sono pronta ad andare. Sento il fischio del treno. E' vicino. Sono pericolosamente prossima alla linea gialla e continuo a respirare. Chiudo gli occhi.
Una nuova prospettiva. La vita osservata da un treno in movimento è così diversa…Tutto infinitamente più piccolo. Chissà come sembrerebbe una cinquecento gialla vista da qui….
Created with Writer2ePub by Luca Calcinai