Sortilegio D'aprile 2k4c34

Stefano Santarsiere

Sortilegio d’aprile

EEE-book

Stefano Santarsiere, Sortilegio d’aprile © Stefano Santarsiere

Collana “Fingerbooks”

Tutti i diritti riservati

www.edizioniesordienti.com

Prima edizione – 2011

ISBN 978-88-6690-009-2

In copertina: disegno a pennarello di Piera Rossotti

Un sussulto lo svegliò

Un sussulto lo svegliò. Ma non aprì gli occhi, respirò e avvertì un sentore pastoso nella bocca. Ebbe anche un rigurgito di immaginazione sospesa, un lampo onirico che svaniva dietro le palpebre chiuse. Piastrelle macchiate di scuro e un’eco stridula in lontananza: residui di un sogno che si dissolveva. Poi sua moglie venne a muovergli una spalla. “Ehi...” “Hmmm...” “Dai, pigrone. Sono in piedi da mezz’ora.” Stavolta aprì gli occhi. “E la sveglia?” Gli era venuta fuori una cosa tipo ‘elaèllia?’ “Suonata da un pezzo. Ma cos’hai stamattina?” Nik scostò le coperte. Avvertì un freddo inatteso in tutto il corpo e un lezzo di sudore venir fuori in una ventata. “Perché non mi hai svegliato?” esclamò scendendo dal letto. “Ho lezione alla prima ora.” “Come alla prima ora! Oggi è martedì.” “De Giorgi mi ha chiesto uno scambio per motivi personali. Mi sono dimenticato di dirtelo.” Le persiane erano socchiuse e lui le tirò su, la luce lattiginosa dilagò nella camera. Sentiva ancora freddo e non volle aprire la finestra.

“Stanotte ti sei agitato,” disse Susi. “Non sapevo se stavi facendo un brutto sogno o era ancora febbre. Perciò ti ho lasciato risposare.” “Mi dovevi svegliare.” “Magari se mi avverti dei tuoi cambi di orario…” Si era infilato i pantaloni e stava rovistando nell’armadio in cerca di una camicia. Poi vide sua moglie in piedi davanti allo specchio, alle prese con la crema idratante, e si rabbonì. “Ti ho disturbata stanotte?” “Ma no. Non deve essere durata troppo, altrimenti ti avrei svegliato.” Le si avvicinò e la prese per i fianchi, le appoggiò le labbra nell’incavo del collo. “Piantala.” “È che ho sempre voglia di sentire quel tuo profumo al mattino.” “Anche quando sei in ritardo?” gli rispose lei. “Scusa…” Lei si voltò. “Se si vede che hai dormito male…” Nik si guardò allo specchio. Era pallido, aveva occhiaie profonde. “Non sarà colpa del tuo sformato?” sussurrò in tono pensoso. Lei gli diede uno schiaffetto sul braccio. “Ehi! guarda che m’offendo. Lo sai quanto ci ho impiegato?” “Massì, lo so bene,” le baciò il collo godendosi il profumo. “Vado a buttarmi un po’ di acqua in faccia, almeno.”

Prima di uscire mandò giù caffè e plum-cake. Mise in moto la Toyota dieci minuti dopo il solito orario; aveva chiamato la segreteria dell’Istituto per

avvertire del leggero ritardo, quindi non si affannò durante i sei chilometri di statale che lo separavano da Santerio. Di solito ascoltava il giornale radio del mattino, ma a quell’ora era finito così infilò i Red Hot, una vecchia antologia che ogni tanto rispuntava fra i suoi cd. Il mattino non era così grigio. Il velo di nubi si andava diradando e il verde di tutti quegli alberi che tappezzavano la collina sembrava più vivo. Fra una curva e l’altra guizzavano le macchie color canarino delle ginestre in fiore, appena sopra il bordo della strada. Fra un paio di settimane sarebbero iniziati i caldi e quei rovinosi temporali di maggio. Davanti all’Istituto non c’era nessuno. Le auto degli insegnanti della prima ora erano già tutte nello spiazzo. Parcheggiò, prese la borsa e infilò l’ingresso a o svelto. Non si sentiva quasi niente, solo il brusio di qualche spiegazione dalle prime aule. Gli venne incontro il vecchio Giannini, il decano dei bidelli. Il camice blu gli ciondolava ai lati delle gambe (era l’unico che ne indossava ancora uno). “Professor Gregori.” “Sono in ritardo, Franco.” “Non molto.” Aveva un suo modo di alleggerire le cose. “Il preside le chiede di andare nel suo ufficio appena può.” Nik si irrigidì. Collegò la cosa al ritardo, ma solo per un istante, perché non gli capitava mai. “Chi mi sta sostituendo?” “La professoressa Bernini.” Raggiunse la sua classe, la II B, bussò e aprì. La Bernini era appoggiata sul bordo della cattedra, “Ah, eccolo.” I ragazzi erano belli arzilli a giudicare dal ’Buongiorno’ che venne fuori. “Buongiorno a voi e scusate il ritardo.” “Il professore ha fatto le ore piccole?” disse la Bernini, accennando uno di quei sorrisi per i quali andavano matti diversi colleghi e alcuni degli alunni più precoci. Da quando era arrivata nell’Istituto alla fine del primo quadrimestre, in

sostituzione della Coletti alle prese con un infortunio sugli sci, Nik aveva notato che perfino il legnoso professor Loprete arrivava a scuola meglio pettinato e con la giacca spazzolata dalla forfora. Tirò fuori dalla borsa il registro e i libri. “Non si sono strappati i capelli per l’assenza del prof?” “Puoi giurarci che no.” La Bernini si spostò su un lato della cattedra. “Oggi c’è una novità,” aggiunse. La guardò con una certa apprensione, in linea di principio non gli piacevano le novità. “Un nuovo arrivato,” e indicò il fondo dell’aula, l’angolo vicino alla finestra. “Forza Hamid, vieni a conoscere il professor Gregori. È il tuo insegnante di Diritto.” Il ragazzo si alzò spostando la sedia all’indietro. Era di colore, molto più alto di quasi tutti i compagni di classe. E aveva l’aria di non volerne sapere di andare alla cattedra. “Ah...” fece Nik, reggendo la stilo sul registro aperto. Cercò nella memoria se gli fosse stato annunciato l’arrivo di un nuovo alunno e per la verità ricordava qualcosa in proposito. “Ti chiami Hamid come?” “Hamid Ben Oumiad.” Aveva un vocione che faceva da contrappunto al suo volto da adolescente. “Da dove vieni?” “Brescia.” “Ah.” “E Torino, e poi Udine, e Firenze, e un’altra mezza dozzina di posti.” “E come mai hai girato tutti questi posti?”

“Lunga storia.” Nik guardò la Bernini, che gli rispose con un’alzata di spalle, poi tornò a guardare Hamid e solo adesso notò un leggerissimo sorriso sulle sue labbra. Senza ostentazione, quanto bastava per essere notato. “E adesso abiti a Santerio.” “Ci siamo sistemati qui, per adesso.” “Avete intenzione di ripartire presto?” Nik si chiese il perché di quella domanda. Certo che non avevano intezione di ripartire presto, altrimenti il ragazzo non sarebbe stato iscritto. Il sorriso di Hamid si fece più evidente. “Presto o tardi, ripartiremo.” Lo aveva detto con una certa solennità: Nik pensò a qualche forma di insofferenza legata al continuo arrivare e ripartire. Era tentato di chiedere di più ma decise che avrebbe scoperto il resto da solo. Magari in presidenza, dopo la lezione. “Va bene Hamid. Puoi accomodarti. E benvenuto in classe.” Il ragazzo si ricacciò la sedia sotto il sedere. “Ora che avete fatto le vostre conoscenze io vado,” si congedò la Bernini. Nik iniziò la lezione sui contratti. Di tanto in tanto sbirciava Hamid nel suo angolo sotto la finestra. Il ragazzo lo fissava con un’attenzione ben diversa dal resto degli alunni. Sembrava anche (e ciò non mancava di suscitargli un vago imbarazzo) che quel sorriso appena accennato fosse ancora lì, sulle labbra grosse e rosee.

Un preside monolitico

Il preside venne a cercarlo direttamente nella sua aula, un attimo dopo la fine della lezione. Era un uomo basso, monolitico come un juke-box, e con ogni probabilità altrettanto chiassoso. Si chiamava Alfredo Conero. Nik se lo ritrovò davanti alla porta circondato da un nugolo di colleghe, di quelle che lavoravano al primo piano dell’Istituto con le classi della sezione C. C’era anche la professoressa De Nigro, l’insegnante di diritto più anziana, con la capigliatura rigonfia come un covone di paglia. “Gregori, venga con noi in presidenza,” Conero gli piazzò una mano sulla spalla. “Di che discutiamo di interessante?” “Gruppo interdisciplinare sui nuovi diritti costituzionali. Come mai è mancato all’ultimo Consiglio di Circolo?” “Stavo male.” “È vero! La sua bronchite. Adesso come sta?” “Meglio, grazie.” Entrarono nella presidenza e si sistemarono intorno al grosso tavolo di noce. Oltre alla professoressa De Nigro c’erano tre colleghe del primo piano, la Melillo di storia e letteratura italiana, la Orengo di geografia e la Nadia Fortunati di statistica. Quest’ultima era la più gradita a Nik, perché non rideva come un’oca e non apriva bocca se non aveva qualcosa di utile da dire. Per il resto si chiese come mai lui fosse l’unico del piano terra a partecipare a quel dannato gruppo interdisciplinare. La risposta tuttavia gli venne semplice: perché era stato l’unico idiota a chiedere di parteciparvi. Lo aveva fatto in un vecchio Consiglio di Istituto, quando il progetto era stato proposto dalla De Nigro, il preside l’aveva approvato e lui si era sentito coinvolto come docente di Diritto e Economia. In seguito gli era ato di mente e all’ultimo Consiglio l’avevano

incastrato approfittando della sua assenza. La riunione era di quelle operative, dove si definiscono ruoli e tempi di un progetto che è stato già approvato in un consesso più altolocato. Nik notò con disappunto che ognuna delle colleghe aveva ben chiaro ciò di cui occuparsi e con quali modalità. A lui non restava che farsi carico delle lezioni storiche in collaborazione con la professoressa Melillo. La De Nigro gli suggerì di trattare con particolare attenzione il tema della tolleranza razziale e il preside Conero ammise che l’argomento era molto adatto alla circostanza, prima di aggiungere: “Come va con il nuovo arrivato in II B?” Al ricordo di Hamid sentì le dita contrarsi sul bracciolo della sedia. “Ancora non ho avuto modo di valutarlo, ho solo messo il suo nome sul registro. Ma da dove viene?” “La sua famiglia ha girato molto per via del lavoro del padre,” rispose il preside. “Fa il geometra per una grossa impresa di ricerche geologiche. Sa, il petrolio...” “Chi è venuto a iscriverlo? Il padre?” “No. Sua madre. Ma io non l’ho vista. L’iscrizione è stata presa in segreteria sabato scorso.” “Non sarebbe il caso di incontrare i suoi genitori? Vorrei sapere qualcosa di lui, del suo curriculum scolastico.” E nello stesso istante, Nik non poté fare a meno di chiedersi se stava mentendo, se era davvero il curriculum scolastico che gli interessava. “Potrà farlo al prossimo incontro scuola famiglia,” disse Conero. “Le convocazioni partono domani.”

“La zuppa ti fa schifo?” disse Susi. “Che?” “È un po’ che rimesti nel piatto, dico. Non hai fame?”

Nik si infilò mezzo cucchiaio fra i denti “Scotta ancora.” La televisione era accesa, ma a volume troppo basso perché potesse sostituire una conversazione. “Al lavoro ho incontrato la moglie del dottor Valenti” disse Susi. “Sono tornati da Ortona?” “Da tre giorni.” Restò in silenzio per qualche istante, poi aggiunse “Mi ha parlato della barca.” Nik la guardò da sopra una cucchiaiata di zuppa. “È una lancia, come si dice in gergo. L’anno pagata duemilacinquecento euro. Non mi sembra eccessivo.” “No, in effetti.” Lei mise in tavola il formaggio e i salumi, prese il pane scaldato nel forno e lo sistemò nel cestino, versò l’acqua minerale per sé e il marito. Nik capì che si preparava a insistere, ben sapendo che per lui la questione non era all’ordine del giorno. “Giulia dice che il costo della rimessa durante l’inverno non è esagerato. Duecentocinquanta, massimo trecento l’anno.” “Oggi è arrivato un ragazzo nuovo in II B,” cambiò discorso lui. “Un ragazzo di colore che si chiama Hamid. Hamid e qualcos’altro.” “E da dove viene? “ “Ancora non l’ho capito... Basta zuppa. Accidenti, non ho fame.” Allontanò il piatto quasi intero. Susi si accigliò. “Ma che ti prende?” “L’iscrizione di Hamid non l’ha ricevuta il preside. È strano, Conero vuole conoscere di persona i genitori di tutti gli alunni che si iscrivono. Figuriamoci se arriva uno nuovo. Ad aprile.” “E allora?” Già, e allora? Nik si guardò intorno, quasi a cercare un elemento che potesse

giustificare quello che sentiva, lo scricchiolio che avvertiva in fondo allo stomaco ogni volta che il pensiero di quel tipo si faceva strada nella sua mente. “Ho domandato in segreteria. L’applicato mi ha detto che l’iscrizione l’ha presa Giannini. Chiedo a Giannini, viene fuori che sabato scorso era in permesso e quindi lui non può averla presa. Mi dice di rivolgermi a Franti, il bidello più giovane. Ma Franti alza le mani e dichiara che si guarderebbe bene dal prendere un’iscrizione, che è atto che non gli compete. E ha ragione, in quale dannata scuola i bidelli prendono le iscrizioni?” Susi si era messa ad ascoltare la storia con un certo interesse, ma ancora non ne capiva il senso. “Ma il ragazzo c’è, è presente, no?” “Quanto è vero che ci sono io. Ho chiesto di guardare i fascicoli delle iscrizioni e in effetti la sua pratica esiste. Ho fatto una fotocopia della domanda.” “D’accordo,” disse Susi prendendosi una fetta di pane, “allora il mistero è risolto?” Nik assentì, per il solo motivo perché non gli veniva altro da dire. In effetti l’iscrizione qualcuno l’aveva presa, ma il problema non era quello. O almeno non era solo quello. Si prese anche lui del pane e si servì la sua razione di salumi e formaggi, sbirciando la moglie che cercava il modo di riprendere il discorso della barca.

Dopo aver sistemato in cucina, Susi andò a infilarsi nel letto per un riposino. Capiva quando il marito non era in vena e sapeva comportarsi di conseguenza. Nik rimase per un po’ davanti alla TV con un bicchiere di cognac in mano. Lo sorseggiava cautamente, la cosa gli favoriva un tipo di riflessione più profonda. La TV era sempre a volume molto basso. Di tanto in tanto lui cambiava canale, ma più per un riflesso meccanico che per reale volontà. Ripensò ai dieci minuti di ricreazione di quella mattina. Il solito sciame di voci, risate e i per i corridoi, e l’odore di tutti quei panini al prosciutto.

Aveva fatto lezione in una Quinta, dall’altra parte del corridoio, ma qualcosa l’aveva spinto verso la II B. I ragazzi che incrociava lo avevano salutato. Era fra gli insegnanti più graditi a quei piccoli manigoldi. Dipendeva dal suo atteggiamento nei confronti dei colleghi e di tutta la scuola, un approccio disinvolto, in certo modo perfino canzonatorio, che ai suoi pari non andava sempre giù ma che i ragazzi coglievano come un elemento di similarità. Gli era venuta voglia di fumarsi una sigaretta (non era permesso fumare a scuola ma lo facevano quasi tutti, compreso Conero) mentre si avvicinava alla porta spalancata della II B. Aveva tirato le prime boccate. Un collega lo aveva chiamato dal fondo del corridoio invitandolo nella sala professori. Lui aveva fatto un cenno. “Arrivo,” aveva risposto, prima di gettare un’occhiata nell’aula, dove aveva scorto Hamid nel suo angolo vicino alla finestra, tutto solo. Che lo guardava. E sorrideva, in quel suo modo di sorridere a fior di labbra. Come se coltivasse pensieri lontani anni luce dalla scuola, dal mondo intero. Pensieri che si preparava in qualche modo a portare da queste parti, sotto forma di azioni. Azioni imprevedibili. Nik era rimasto sulla porta con la sigaretta fra le dita e il fumo che gli usciva lentamente dal naso. Infine aveva detto: “Non fai ricreazione con gli altri?” “Oh, no,” aveva risposto il ragazzo. “A che serve? Qui è tutta una ricreazione.”

Prese la borsa e ne estrasse la fotocopia di quella domanda di iscrizione. La contemplò bevendo le ultime sorsate di cognac, raccogliendo le energie che gli occorrevano. Risultava che Hamid aveva sedici anni, non era dunque più anziano della maggior parte dei suoi compagni di classe. Era semplicemente più alto e ondeggiante di loro. Era nato in Mozambico, in un posto chiamato Egadou. Nik rifletté che non era frequente incontrare immigrati del Mozambico, almeno non quanto Marocchini o Tunisini. Posò il bicchiere, si infilò l’impermeabile e uscì.

Sulla domanda c’erano i nomi dei genitori di Hamid, Yussuf e Marie Ben Oumiad, e l’indirizzo di residenza, che però risultava essere ancora a Brescia. Poi c’era l’elezione di domicilio: via dei Fabbri 13, a Santerio. Nik prese la macchina e ripercorse i suoi sei chilometri quotidiani, più i due che separavano l’Istituto dal centro del paese. In tutto l’anno in cui aveva avuto l’assegnazione provvisoria a Santerio non si era mai fatto un’idea precisa di quel posto, conosceva solo la piazza principale e il bar, dove andava a fare rifornimento di Chesterfield. Lui e Susi trascorrevano i mesi invernali come uccelli migratori che attendono il disgelo, rintanati nella casa presa in affitto e assimilando l’idea che mettere radici non aveva senso per due insegnanti precari. Posteggiò in piazza dove a quell’ora non c’era nessuno, lo accolse un vento freddo che calava da qualche montagna circostante. Entrò nel bar. Era piuttosto buio e si sentiva odore sovrapposto di sigaro e caffè. A un tavolo c’era un trio di vecchi che bevevano amaro e giocavano a carte, uno di loro sembrava lì lì per cascare addormentato. “Buongiorno. Qualcuno sa dov’è via dei Fabbri?” I tre si guardarono. “In paese non conosciamo le strade dai loro nomi.” “Via dei Fabbri è nella zona dell’Ursulana,” intervenne il ragazzo del bancone. “Allora è qui vicino,” assentì uno dei vecchi. Glielo spiegarono e Nik ringraziò. Ma non volle uscire subito, aveva bisogno di un caffè e di mettere in ordine le chiacchiere che si era preparato per i genitori di Hamid.

Marocchini

Percorreva una strada in salita verso via dei Fabbri, aveva il fiato corto quando la trovò. Al 13 c’era una scala esterna che portava davanti alla porta d’ingresso al primo piano e proseguiva fino al secondo. Salì e bussò. Cominciava a sentire freddo. Bussò di nuovo, e per tutta risposta si aprì la porta della casa di fronte. Ne uscì una donna grassa e giallastra con un tovagliolo in mano. “Chi cerca?” “Sto cercando i signori...” tirò fuori la fotocopia da una tasca esterna “Ben Oumiad.” “E chi sono?” “Quelli che si sono trasferiti in questa casa. La famiglia di stranieri.” “Si è sbagliato. La casa è vuota.” Nik riguardò il documento, controllò il numero civico: era proprio il 13. “Guardi che quella casa è di mia proprietà,” insisté la donna, con una vocina biliosa, “e le posso assicurare che non ci abita proprio nessuno.” “Ma questa è via dei Fabbri?” “Sì, ma le ripeto che quella casa è vuota.” Meccanicamente lui disse: “Ma è sicura?” “O bella!” esclamò la donna. “Lei è sicuro di chi abita in casa sua? In paese è arrivata gente nuova, ma non qui.”

“E dove?” “Vada in fondo alla strada e giri a destra. Ci sono delle case che hanno preso in affitto dei marocchini.”

Hamid non era magrebino, ma Nik decise di fare un tentativo (la gente indicava con il termine Marocchino qualunque straniero di colore). Non si spiegava per quale assurdo motivo l’indirizzo sulla domanda fosse sbagliato. Possibile che quei Ben Oumiad avessero dichiarato un domicilio falso? La zona che gli aveva indicato la signora era un rione sudicio di case scalcinate o incompiute. C’erano sacchi di calce ammonticchiati in un angolo e una polverina bianca ricopriva scale e ballatoi. Restò in mezzo al rione per diversi minuti, molto incerto sul da farsi. Poi si aprì una porta e venne fuori un uomo con una faccia che sembrava incisa nel mogano, con la stessa glabra lucentezza. Nik attirò la sua attenzione e gli chiese se conosceva la famiglia Ben Oumiad. L’uomo fece di no con la testa e si allontanò. Bussò e chiese in tre case diverse. Gli diedero tutti la stessa risposta.

Osservava la scena dall’esterno. Le voci erano un ruggito lento sotto la luce cinerina davanti alla Casa Municipale. Benché non lo vedesse, sapeva che in mezzo a tutti quei volti induriti c’era anche il suo. Era come un film montato in ralenti, sventolio lento di bandiere color pece, mani tese verso il cielo che salutavano grottescamente alla maniera dei vecchi gerarchi. E slogan biascicati, come dischi suonati al contrario. Di colpo si svegliò in un bagno di sudore. Susi lo stava scuotendo. “Svegliati... svegliati Nicola!” La luce era accesa e vide gli occhi di lei spalancati e febbrili. “Ti stavi

lamentando come un bambino. Facevi pena. Hai avuto un incubo?” “Credo di sì,” borbottò cercando di sollevarsi. Gli ultimi brandelli del sogno guizzarono come perline nel buco di un lavandino. “Ma è ato.” Susi lo fissava con quell’espressione che tirava fuori all’improvviso e che a Nik faceva venir voglia di nascondere le mani dietro la schiena. Poi gli toccò la fronte. “Sei gelido.” “Non preoccuparti. È ata,” si sistemò sotto le coperte e si girò dall’altra parte. “Sicuro di star bene?” “Sicuro. Notte.” Lei spense la luce e dopo qualche minuto dormiva di nuovo, mentre Nik si ritrovò a fissare il buio con una mano infilata sotto il guanciale. Aveva fatto lo stesso sogno della notte precedente. All’improvviso era come se qualcuno gli presentasse un conto che credeva prescritto, sepolto in qualche remota valle della sua mente come le scorie di una vecchia fabbrica. Rimase in quello stato per ore, fin quando non percepì un chiarore da sotto le persiane chiuse e decise di alzarsi. Lo fece con mille cautele per non svegliare la moglie. Si infilò le pantofole, si versò del cognac (rifletté che era la prima volta da tanti anni che beveva di primo mattino) e andò nel suo studio. Aprì la porta molto piano perché altrimenti faceva un rumore della malora. Bevve il cognac in tre sorsate, avvertì un brivido e gli sfuggì un’espirazione nel bicchiere che si appannò. Rimase lì dentro, in piedi, per un intero minuto. Sulla parete di fronte alla libreria c’erano la sua laurea, il certificato di abilitazione alla professione forense e un paio di diplomi di corsi di perfezionamento. Rifletté che quei pezzi di carta erano come i segnalibri nella sua biografia, semplici cartelli stradali fra una tappa e l’altra del viaggio. Ma di quello che c’era tutt’intorno, di ciò che aveva fatto e delle persone che aveva incontrato durante la strada, ricordava ben poco. Forse soltanto Susi. E i camerati del ’Gruppo Reich’, purtroppo. A volte dimenticare è una benedizione.

Aprì il cassetto della scrivania e tirò fuori una scatola imbottita color blu scuro. C’erano vecchie tessere del circolo scadute, vecchie carte d’identità, vecchie fototessere. E una chiave. La prese e posò la scatola. In mezzo alla libreria c’era un pannello chiuso con una piccola serratura. Il proprietario di casa gli aveva svelato quel nascondiglio, con una strizzatina d’occhio: “Qui può sistemare i gioielli di famiglia”. Vi infilò la chiave e aprì. Venne fuori un odore di polvere e tarli. Nik scostò i fascicoli che vi custodiva, con le ricevute dei premi dell’assicurazione sulla vita e altri documenti. Era certo che soltanto lui avesse accesso a quell’armadietto. Solo in un’occasione Susi gli aveva chiesto cosa ci fosse. Lui se l’era cavata dicendo che era praticamente vuoto e che intendeva utilizzarlo per le sue cose più delicate. La donna doveva aver recepito qualcosa come È il mio scrigno segreto. Vietato l’accesso... E aveva rispettato la consegna. In fondo all’armadietto c’era una busta per lettere sgualcita. La prese e ne tolse il mazzo di fotografie che conteneva. Tutto a un tratto sentiva più freddo e le gambe si irrigidirono. Andò a sedersi alla scrivania. Desiderava dell’altro cognac nel bicchiere, o addirittura la bottiglia a portata di mano, e gli venne da ridere riflettendo sulla sistematica coincidenza tra la voglia di bere e tutto quanto avesse a che fare con quelle foto. Al tempo in cui erano state scattate lui era praticamente un alcolizzato. Lo erano tutti. E forse nell’alcol c’erano gran parte delle ragioni che spingevano lui e il suo gruppo a riempire il covo di manifesti estremisti, di bandiere nere con le croci uncinate, di manganelli, di poster con Hitler e Mussolini nelle loro divise grigie e con i volti contratti in quelle mimiche mostruose. E a compiere le infamie che scolorivano nella sua memoria. E se l’alcol non c’entrava? si disse all’improvviso. Magari l’alcol era solo il pretesto al quale legare una tardiva e fin troppo comoda assoluzione, perché anche il bere, e tutta la smania di violenza che avevano addosso, dipendeva da qualcosa di più profondo e irriducibile. Qualcosa che resisteva ancora, magari, acquattato in fondo al cuore. Si morsicò le labbra e strinse il bicchiere vuoto, poi si mise a sfogliare le foto. Li rivide tutti, nelle stesse posizioni e espressioni degli ultimi venticinque anni. Il Vanni, Omar Ceretoli, i fratelli De Majo, Giuseppe Lavelli che era il più

anziano e si considerava l’ideologo del gruppo. Non aveva saputo più nulla di loro. Era a conoscenza della brutta fine che aveva fatto il Ceretoli pochi anni dopo l’epoca delle foto, mentre confezionava un ordigno in fondo allo scantinato che s’era preso in affitto a Roma. Di Lavelli sapeva si era trascinato fra i guai personali e giudiziari durante tutti gli anni ottanta. E rivide anche Grazia Paolini. Nik si sforzava di capire ciò che provava davanti a quella foto, e ogni volta sentiva un vago rimando a piaceri lontani e colpevoli. Grazia era stata la prima donna con cui avesse fatto sesso. Gli tornò alla mente un riflusso di piacere misto a dolore, echi di quel primo e remoto orgasmo che gli fecero mandar giù un grumo che sapeva di cognac. Infine vide l’unica foto in cui appariva anche lui. Era il più giovane del gruppo ma in tutta franchezza riconosceva di essere stato anche il più pericoloso. Perlopiù a causa dei suoi maledetti e incoscienti sedici anni. Gli altri lo chiamavano ’Cobra’ e lui ne andava fiero. Utilizzavano la sua foga per gli incarichi peggiori. Aizzavano la sua ferocia senza alcuno scrupolo, come un cane da lotta. Si rendeva conto che molto di ciò che aveva combinato in quegli anni insieme ai dieci, quindici camerati del ’Gruppo Reich’ era riuscito a dimenticarlo. Sapeva di non ricordare più gran parte degli episodi di intolleranza di cui si erano macchiati e anche delle umiliazioni che avevano subito da giovani estremisti di colore opposto, o dagli agenti di polizia. La salvezza era venuta dalla decisione dei suoi genitori di allontanarlo dalla città e di spedirlo a studiare a Urbino. Non aveva mai parlato di quel ato a Susi e non voleva farlo. Apparteneva a una giovinezza peccaminosa e lontana che non aveva più nulla a che vedere con l’oggi, con la vita che conduceva. A quel punto infilò le fotografie nella busta e tornò a nasconderle nell’armadietto, e una voce roca dentro la sua testa offrì la solita riconciliazione: Perché diavolo non ti sbarazzi di queste foto, ormai? Non seppe rispondere. Probabilmente dipendeva dal fatto che in tanti anni di sbirciatine nascoste, le foto erano diventate una specie di memento di quello che Nik era stato capace di fare. Un grottesco e indiretto insegnamento su ciò che significa una vita dignitosa, malgrado le tante rimozioni della sua memoria.

Chiuse l’armadietto e si asciugò la fronte dal sudore.

“Sei sicuro che la via era giusta?” chiese la Bernini. Nik sospirò, appoggiandosi allo schienale della sedia. Lei sorrise e agitò un indice “Ah, ah... non lo sei, vero? Per un momento siamo certi di aver visto o fatto qualcosa, il momento dopo non lo siamo più. E bam, tutto torna a posto.” “See, a posto,” fece lui di rimando, “certo che sei un bel tipo, tu,” restituendole il sorriso; scoprì di apprezzare molto il maglioncino nero a girocollo, le metteva in risalto quei capelli rosso scuro che le precipitavano sulle spalle. E quanti anni aveva? Trentaquattro, trentacinque? Era di sicuro una delle più giovani dell’istituto. La più affascinante. La sala professori era deserta. Gli altri colleghi non si erano ancora fatti vivi. La Bernini arrivava sempre per prima, apriva la scuola insieme ai bidelli e a volte compariva anche più presto. Approfittava della tranquillità per preparare le lezioni e correggere compiti in classe di ragioneria. Nik era uscito di casa più presto del solito. “Può darsi che sia questa la spiegazione. Ho sbagliato strada. È l’unica soluzione possibile in effetti.” Si chinò verso la Bernini. “Però non è così. La donna che abita di fronte mi ha confermato che era via dei Fabbri.” “E allora controlleremo. Ma tu perché sei andato a cercarli?” “Volevo solo conoscerli. Arriva un nuovo alunno che quasi non risponde alle domande che gli fai, e ti viene voglia di andare a conoscere la sua famiglia.” La collega si accese una Gauloise. Poi guardò Nik con diffidenza, almeno così parve a lui. “Non ci credi?” disse lui.

“Ci credo. Anzi, hai fatto bene. Solo che...” “Che?” “Non ti facevo tipo da certe iniziative...” sorrise, ma stavolta in modo forzato. “Non offenderti, però.” “Non preoccuparti. So bene di sembrare un menefreghista. È che trovo più salutare farmi gli affari miei.” “Di questo ti do atto,” ammise lei. “Qui sei l’unico.” Guardò verso la porta nel timore di aver parlato a voce troppo alta. Scosse la cenere e disse: “Ne parlerai con Conero?” “Non so. Tu che ne dici?” “Fossi in te non lo farei. Aspettiamo l’incontro con le famiglie, se i genitori di Hamid non verranno avremo un pretesto per controllare l’indirizzo.”

Le lezioni del progetto interdisciplinare si tenevano in una delle aule più grandi, di pomeriggio, al di fuori dell’orario normale. Coinvolgevano soprattutto i ragazzi delle ultime classi per via dei crediti legati alle attività extracurricolari. Quelli che puntavano a un buon voto all’esame di maturità si presentavano freschi e pettinati come alle otto di mattina. Gli altri arrivavano in ritardo, oppure senza quaderni per gli appunti. I più svogliati erano capaci di addormentarsi in aula. A volte partecipavano anche ragazzi delle classi inferiori. Perlopiù si trattava di quelli più pervicaci nell’accaparrarsi la stima dei professori in vista dei voti di fine anno. Ma non per Hamid. Lui si era sistemato nel solito angolino sotto la finestra, senza libri o quaderni. Nik lo notò appena mise piede in aula e trasalì come se vedesse uno spettro nero, con i labbroni e i capelli ricci. Che cavolo è venuto a fare? si chiese. Forse non aveva niente di meglio da fare in un paese dove era appena arrivato e non conosceva nessuno.

Era appena terminata la lezione della De Nigro, che aveva spiegato le finalità del progetto. Nik era accompagnato dalla professoressa Melillo alla quale toccò una breve introduzione storica sulla Convenzione Europea per la Salvaguardia dei Diritti Umani. Mentre la collega disquisiva con una voce acuminata che rimbalzava sulle pareti dell’aula, Nik se ne stava su un lato della cattedra, a gambe accavallate, e gettava occhiate neanche troppo discrete verso il famoso angolo. Aveva mangiato troppo in fretta e avvertiva un sentore di peperoni salire attraverso il naso. Durante il tragitto per ritornare all’istituto aveva temuto di addormentarsi, ma adesso trovava assurdo anche solo pensarlo. Doveva vigilare, invece. C’era qualcosa di incomprensibile nella presenza di quel tipo anche durante le soporifere lezioni facoltative del pomeriggio. Venne il suo turno di spiegare. La professoressa Melillo lo introdusse con enfasi, in fondo gli toccava la parte più importante del progetto. Cominciò la sua brava lezione sui nuovi diritti legati alla tutela della dignità dell’uomo. Parlò di mutamenti sociali, di nuovi scenari legati alla tecnologia e all’immigrazione, nel frattempo avvertiva una sensazione sgradevole sulla nuca, come se ci fosse una fogliolina bagnata incollata sopra. Notava che Hamid non gli staccava gli occhi da dosso. Lui parlava, gesticolava e gironzolava fra la cattedra e la prima fila, e quelle pupille color nocciola si spostavano insieme a lui, calamitate sulla sua figura. A un tratto ne ebbe abbastanza. “Hamid, vuoi ripetere le ultime cose dette?” chiese all’improvviso. Vediamo quanto sei bravo. Hamid si raddrizzò sulla sedia. Gli altri ragazzi si erano voltati verso di lui e alcuni si erano messi a sogghignare con una certa perfidia. Il ragazzo incrociò le braccia, sbatté le palpebre e cominciò a parlare. Ripeté tutto quello che Nik aveva spiegato negli ultimi minuti, parola per parola. Utilizzò le stesse espressioni che aveva usato lui, le stesse parole, mise la pause negli stessi punti, alzò la voce per dare enfasi alle stesse parti che aveva scelto di enfatizzare Nik e l’abbassò dove lui aveva scelto una dissolvenza: era come un rewind di quanto era stato spiegato. E in tutto questo c’era anche un risvolto comico, perché Hamid stava imitando Nik.

I sogghigni dei ragazzi si mutarono in smorfie di stupore. Le secchione della prima fila erano a bocca aperta e anche la professoressa Melillo era sbalordita. Nik invece era impietrito. Finito che ebbe il ragazzo, lui si ò la lingua sulle labbra, perché era sicuro che se avesse parlato subito avrebbe tartagliato penosamente e si sarebbe reso ancora più ridicolo. Poi scandì: “Vuoi prendermi per il culo, ragazzo?” Hamid non rispose. “Rispondi, hai deciso di prenderti gioco di me?” Silenzio. Nik sospirò e scosse la testa. Aveva deciso che conveniva riprendere la spiegazione, se per caso ci riusciva. “Non è come lo dici,” fece all’improvviso Hamid. “Eh? Non ho capito…” “La questione è se credi in quello che dici,” soggiunse il ragazzo. “E che vorrebbe significare?” Ma lui abbassò gli occhi e riprese la posizione precedente: braccia incrociate sul banco, mento appoggiato sopra. Si udirono gli scricchiolii della sedia sotto quel corpo allungato.

L’episodio generò un bel po’ di commenti. Perlopiù esprimevano una certa ammirazione nei confronti del ragazzo di colore, mentre Nik ne usciva come l’allocco della situazione: i colleghi più sagaci si davano di gomito quando lo vedevano are davanti alla sala professori. Lui invece trovava la faccenda ben più inquietante che disonorevole.

La professoressa Bernini gli raccontò di come un suo vecchio alunno che per otto mesi non aveva spiccicato una sola parola, proprio l’ultimo giorno si era alzato e aveva spiattellato tutta intera la ragioneria del primo anno. “Sono stranezze che capitano. Di solito questi qui sono un tantino più svegli di quello che crediamo.” Nik l’aveva guardata senza rispondere (indossava di nuovo il maglione che metteva in risalto i capelli serpentini), lei aveva soffiato il fumo della sua Gauloise e gli aveva sorriso. “Non sei d’accordo?” In genere sì, i ragazzi sembravano più svegli e scaltri che in ato. Ma anche lui era stato scaltro, e un bel po’. Poi gli era venuta voglia di starsene per conto suo prima che l’Istituto si riempisse di insegnanti e alunni rumorosi, così si era infilato nel bagno degli studenti. C’era l’odore acre delle tavolette rosa disinfettanti fissate negli orinatoi e diverse frasi scritte sui muri, molte delle quali recitavano sconcezze velate. Si rese conto di essere lì dentro perché, Dio sa per quale ragione, per un momento gli era venuto un impulso irrefrenabile di piangere. Temeva che se fosse entrato nei bagni dei prof, qualcuno lo avrebbe scoperto. Ma l’impulso era ato. Si limitò a farla in quei puzzolenti orinatoi a muro e rifletté che se un animo stressato poteva subire incubi e vicissitudini varie, almeno l’ultimo baluardo della regolarità vescicale era duro a cadere. E sorrise, senza allegria. In quell’istante entrò Hamid. Nik lo vide di sfuggita infilarsi in un gabinetto di quelli chiusi, proprio mentre terminava il suo servizio. Da fuori, il brusio degli studenti che si affollavano davanti all’ingresso dell’Istituto richiamò la sua attenzione. La camla non era ancora suonata ma quel ragazzo era già dentro. Brutto cagnaccio nero... come hai fatto a entrare? Sentì lo zampillo dell’urina e un sottile sospiro di sollievo. Nik si sciacquò le mani e uscì dal bagno. In quel momento un bidello fece suonare la camla; il portone d’ingresso si aprì e i ragazzi invasero l’Istituto. Nik rimase accanto alla porta del bagno a osservare il fiume di zaini scorrere per il corridoio e dividersi in tanti rivoli in direzione delle varie classi.

Hamid era ancora nel bagno. La Bernini era uscita dalla sala professori e anche lei guardava i ragazzi. Incrociò lo sguardo del collega, lui fece un cenno e guardò l’orologio. Erano trascorsi cinque minuti buoni da quando il ragazzo era entrato in bagno. Il fracasso degli studenti andava scemando. Alcuni insegnanti avevano già preso possesso delle aule dove avrebbero tenuto la lezione della prima ora e si erano chiusi dentro. La Bernini era ancora davanti alla sala professori, interessata allo strano comportamento di Nik. Era sempre lì, impalato davanti alla porta del bagno dei maschi, irrequieto. Decise di andare a fargli compagnia. “Stai aspettando il tuo turno?” disse con aria allegra. Nik provava un crescente imbarazzo e un po’ sapeva di lasciarlo trasparire. “Hamid è qui dentro.” “Oh, ma è un’ossessione!” “Voglio solo sapere chi lo ha fatto entrare prima della camla.” “Cosa c’è di male? Avrà avuto un’urgenza e avrà chiesto di andare al bagno.” Nik si morsicò le labbra. Adesso si sentiva abbastanza teso per rischiare di dire o fare qualche idiozia, e la sistematica lucidità della Bernini lo esasperava. “È ato un mucchio di tempo e ancora non esce.” “Entriamo allora. Forse il ragazzo si è sentito male...” Nik non se lo fece ripetere. Spalancò la porta. Nello stesso istante arrivarono due ragazzini di prima, tutti trafelati, dissero “Buongiorno” e lui li lasciò are. Uno dei due si infilò nello stesso gabinetto dove era entrato Hamid. Nik sgranò gli occhi. “Non c’è! Che mi venga un colpo se non l’ho visto infilarsi in quel cesso!” Stavolta la Bernini lo guardò turbata: “Ti senti bene?”

Lui si ò una mano sulla faccia, come se volesse scacciare una visione. “Ti dico che l’ho visto entrare lì dentro...” “Magari è uscito e non te nei sei accorto.” “Mi hai visto anche tu!” esclamò con un timbro isterico. “Non mi sono mosso da qui.” Lei alzò una mano “Va bene, tranquillo. Adesso va a fare lezione.” “Non ho lezione alla prima ora,” ribatté. “E allora andiamo a prendere un caffè, d’accordo?” Gli sistemò il collo della camicia. “Andiamo in paese a farci quattro chiacchiere e così non pensiamo al giovanotto di colore che sparisce attraverso la tazza del gabinetto.” Stava per risponderle ma si limitò a sbuffare.

Andarono a Santerio con la macchina della Bernini ma non si fermarono nel bar sulla piazza principale. Lei conosceva un posto più originale nella parte vecchia del paese, in una zona molto alta. Spinse la Renault fra stradine non più larghe di due metri. Il mattino era soleggiato e da quel punto si vedeva gran parte della campagna. Finalmente si fermarono in uno slargo bianco fra tre vicoli, all’ombra di un campanile. La Bernini fece strada e si infilarono in una specie di striminzita rosticceria dove si addensavano volute di fumo di sigaretta e di polli allo spiedo. Nik, che fino a quel momento era rimasto in silenzio, chiese come avesse scoperto quel posto e cosa ci trovasse di bello. “Me l’hanno insegnato i ragazzi.” Fece un cenno verso il fondo del locale, dove Nik intravide una coppietta; le facce gli erano note, erano studenti di quinta. Vicino al loro tavolo c’era un altro soggetto che non riusciva a distinguere. “Ecco cosa ci trovo di bello,” considerò la donna. “Qui i ragazzi hanno un posto tutto loro, dove possono marinare la scuola e nessuno può venirlo a sapere.”

Lui aggrottò la fronte. “Stai scherzando?” “Perché?” “Non dovresti assecondare comportamenti del genere.” La Bernini alzò le spalle con indifferenza. “I ragazzi si fidano di me. A volte mi invitano perfino a sedere con loro.” Il giovanotto che arrostiva polli venne a prendere le ordinazioni. Indossava un grembiule pieno di macchie e un cappellino bianco messo di traverso. Lei ordinò un bicchiere di vino rosso. Nik se ne stupì: assumere alcolici prima di fare lezione era inconcepibile per un insegnante. Ma nello stesso tempo si scoprì un fremito di invidia nei confronti di quella disinvoltura. Avrebbe preso volentieri un bicchiere anche lui. Ordinò un caffè. La donna si accese una sigaretta; poi salutò ancora i ragazzi che avevano marinato la scuola. Esibiva la condiscendenza di certi insegnanti che vogliono sembrare più vicini ai loro allievi, una delle cose che Nik detestava di più. “Allora,” disse in tono carezzevole, “cosa c’è che non va con quell’Hamid?” “Non mi va di parlarne.” “Andiamo...” allungò una mano, gli sfiorò il polso con il dorso delle dita. “Siamo un tantino razzisti?” Lui si ritrasse e lì per lì fece l’offeso. La Bernini aspirò qualche boccata della sua sigaretta; Nik vide gli occhi di lei scorrere febbrilmente sul suo volto; le osservò la mano sinistra e scoprì che mancava la fede nuziale. All’improvviso sentì un aroma gradevole mescolarsi con il fumo della Gauloise. Aspirò quell’odore in un gesto istintivo, incontrollabile, frutto di rituali giovanili consumati in segreto al buio dei vecchi covi. “Ne vuoi?” lo invitò la Bernini.

Le labbra gli si distesero in un sorriso puerile. Scoprì che una sola boccata di quell’aroma gli aveva messo dentro un desiderio lancinante che si sovrapponeva a quello dell’alcool. Ci pensò, considerò di resistere. Ma quell’odore era più forte, perché non soltanto lo riportava a un ato licenzioso, a un epoca di sfrenatezze inaudite e di violenze: di più, lo riportava a lei, che aveva saputo arroventare il suo cuore più di ogni altra donna che avesse mai conosciuto. Grazia Paolini. Quello era il suo odore. “Andiamo, Nicola…” insisté la voce della Bernini. “Chi vuoi che venga a saperlo?” E improvvisamente era diventata un’altra voce. La voce di Grazia. Nello stesso tempo il bugigattolo in cui si trovava stava cambiando, proprio davanti ai suoi occhi stupiti. Le pareti si ricoprivano di piastrelle giallastre. Sui tavoli intorno si srotolavano volantini ciclostilati zeppi di croci celtiche e pugni chiusi. E quelle facce… le stesse delle foto, le facce nevrotiche dei suoi camerati sorgevano intorno a lui come lune da un firmamento senza stelle. Facce bianche che lo abbagliavano. Il Vanni, Ceretoli, i fratelli De Majo, il vecchio Giuseppe Lavelli. Gli rivolgevano i loro ghigni, a denti stretti. “Avanti Nicola…” “Avanti Cobra, avanti, avanti… fa’ vedere chi sei!” “Non ti spaventerai di una canna…” “Fa’ vedere chi sei…” Afferrò la sigaretta e aspirò. Un lungo, enorme tiro di spinello.

“Okay,” fece Nik socchiudendo gli occhi. “Okay, va bene. Va proprio bene…” Li riaprì, in un velo di lacrime che quasi gli impedì di vedere la faccia della Bernini

che lo guardava soddisfatta. “Ne hai una tutta per me?” “Quanti ne desideri piccioncino...” la donna tirò fuori un’altra sigaretta dalla borsa. Nik se la mise fra le labbra e lei gliela accese. Il giovanotto arrivò con il bicchiere e il caffè. Sorrise e assentì in modo eloquente lasciando lo scontrino sul tavolo. Nik aspirava, aspirava con una voluttà che aveva dimenticato... Tra le spire di quel fumo spesso e odoroso intravide la coppia che ogni tanto lo fissava, e lo stesso faceva il terzo soggetto, che non riconosceva. Aspirò due o tre boccate di fila, quasi senza prendere respiro. “Ehilà... vacci piano,” lo ammonì la Bernini con voce flautata. Ma alle orecchie di Nik quelle parole suonarono come un invito a continuare, invece. A darci dentro, una volta tanto, dopo anni e anni trascorsi a lavarsi di dosso l’odore del covo. Espirò il fumo, si sentiva contento. “Ooh, è roba da matti, cara mia.” “Visto?” ammiccò lei. E bevve il vino tutto d’un fiato. Nik rise, il suo caffè non l’aveva toccato e non ne aveva più voglia. “Sai,” disse scuotendo la testa, “pensavo che non mi avresti mai trattato così.” “In che senso?” “Nel senso che pensavo di non piacerti neanche un po’.” Gli venne ancora da ridere. Sghignazzò in modo roco e tossì prima di fare un altro tiro dalla Gauloise corretta alla marijuana. La Bernini prese un’aria attenta, di una fissità che Nik percepì come il segnale di una svolta. “Ti sbagliavi,” e fece un tiro anche lei. Lui la esaminò; aveva la sensazione che da sotto quel maglioncino lo scrutassero due pupille sporgenti. Qualcuno nella sua mente gli sussurrò Non porta reggiseno... E avvertì un languore profondo che richiamò vecchi timori, da adolescente inavvertito e succube.

La Bernini schiacciò la sigaretta nel posacenere, si chinò verso di lui e lo baciò lungamente. Nik riuscì solo a intravederli, quei due che osservavano la scena con sospesa meraviglia, e quell’altro... che era lì senza nessuna espressione.

Non ci sono. Si guardò di nuovo intorno. C’era almeno un genitore per ciascun alunno, a molti di loro aveva già parlato e li aveva liquidati tutti con poche parole, di rassicurazione o incoraggiamento. Ma per Hamid non c’era nessuno. Come al solito l’atmosfera era insopportabilmente caotica. Conero voleva che insegnanti e genitori discutessero tra di loro nell’aula magna, con libertà, senza attese davanti a una porta chiusa dove i primi avrebbero atteso i secondi. Nik trovava la cosa inutile e irritante. La Bernini stava discutendo con una madre dall’aria angustiata. Nik vide che il suo sguardo si levava per un attimo dalla sua parte: provò a farle cenno ma lei non gli badò. Lo avvicinò un genitore, chiedendo se sua figlia fosse migliorata dall’ultimo incontro. Lui cercò di dare una risposta soddisfacente in cui spiegava che un certo miglioramento c’era stato, ma il suo pensiero e i suoi sguardi andavano ancora alla porta dell’aula magna; ogni nuovo arrivato calamitava la sua attenzione, ma non era mai qualcuno di colore. La Melillo lo chiamò da un capannello di genitori. A lei piaceva tenere delle vere e proprie conferenze in mezzo a tutti quei padri e madri in apprensione per i loro figlioli. “Professor Gregori, questi sono i genitori di Alberti, Villa e Giovanardi. Sto giusto spiegando loro quanto i ragazzi si siano distinti alla prima lezione del progetto interdisciplinare. Non è vero che erano i più attenti, i più partecipi?” “Ma certo,” disse Nik. “Davvero i più partecipi.” Avvertiva l’attenzione con cui si erano messi ad ascoltarlo. Tre persone infilarono la porta dell’aula magna: nessuna di colore. “Una dimostrazione di responsabilità, di interesse a temi fondamentali nel mondo attuale.” La Melillo assentiva, mentre lui continuava. “Del resto i vostri figli hanno sempre seguito i nostri argomenti con dedizione e costanza, manifestando capacità di apprendimento e una forte attitudine...” si interruppe, perché gli venne in mente che Villa era in realtà uno dei più tardi

della classe e durante i compiti se ne stava chino sul foglio con una faccia come se spaccasse legna; in un’occasione l’aveva anche lasciato intendere a suo padre, che infatti adesso aveva una luce trionfale negli occhi. Nik guardò l’orologio e disse che voleva parlare con altri genitori. Il tempo previsto per l’incontro stava per scadere. ò davanti alla Bernini che continuava a discutere fittamente con un signore molto anziano: cosa mai poteva aver tanto da dire ogni volta, pensò lui. Uscì dall’aula magna e si diresse in segreteria. Il vecchio Giannini e il segretario De Robertis stavano chiacchierando con aria esausta dietro lo sportello di vetro. Nik li distrasse: “I genitori del nuovo arrivato, quell’Hamid vattelappesca, sono stati convocati?” “Tutti sono stati convocati, professor Gregori,” rispose De Robertis. “È che non si sono fati vivi. Ci tenevo a conoscerli. “ “Hanno mandato una lettera.” Giannini tirò fuori una busta da un grosso raccoglitore. Nik se la fece are. Era indirizzata al preside dell’Istituto. In poche righe si spiegava in tono cortese e rammaricato che nessuno dei genitori di Hamid poteva intervenire all’incontro scuola-famiglia per motivi di lavoro. “È la prima volta che mandano una lettera per dire che non verranno a un incontro,” commentò Giannini. “Al massimo fanno una telefonata, ma di solito non dicono proprio niente.” La lettera annunciava che nei prossimi giorni uno di loro si sarebbe recato all’istituto per incontrare i nuovi insegnanti di Hamid e discutere della sua carriera scolastica. Firmato Yussuf Ben Oumiad. C’era anche l’indirizzo: via dei Fabbri 13. Santerio. Nik riconsegnò la lettera. I genitori cominciavano a uscire.

Gli gnocchi di Susi

Susi era rincasata verso le cinque del pomeriggio, dopo la riunione del corpo insegnanti alla scuola elementare dove lavorava, e si era messa a preparare gli gnocchi di patate. Cucinava sempre dei manicaretti quando avvertiva qualcosa che non andava nell’umore del marito. Era il suo modo di lavorare al problema. Un’ora dopo udì la porta d’ingresso che si apriva. Mise su un’espressione contenta e si preparò a fare domande opportunamente frivole. Udì i i nel corridoio, un sospiro e un fruscio davanti all’appendiabiti. Poi i i si diressero dalla parte dello studio: Susi vide un’ombra attraversare il muro davanti alla porta della cucina. “Amore?” Udì la porta dello studio aprirsi con il solito cigolio e un trafficare di cassetti che venivano aperti e chiavi che si infilavano in piccole serrature. Lei smise di sorridere, abbandonò la paletta per tagliare gli gnocchi. Prese lo strofinaccio e uscì dalla cucina. La luce dello studio era accesa e illuminava il fondo del corridoio. “Ma non vieni neanche a salutarmi? Vieni un po’ a vedere cosa ti sto preparando!” Nessuna risposta. Contemporaneamente avvertì sbattere la porta dell’ingresso. Trasalì e guardò l’appendiabiti: l’impermeabile di Nik non c’era. Si precipitò all’ingresso, aprì la porta e uscì nel viale dove respirò in un vento teso e freddo come una lama di rasoio. Si guardò intorno ma non vide nessuno; sentiva il rottweiler della casa di fronte che abbaiava a tutto spiano. Ritornò in casa, dove c’era una strana oscurità alla quale i suoi occhi faticarono ad adattarsi.

La porta dello studio era spalancata. Susi vi entrò avvertendo una sgradevole secchezza alle labbra e un freddo glaciale sulle guance. Sulla scrivania c’era un bicchiere vuoto e una scatola aperta con un mucchio di vecchie tessere e carte d’identità sparse intorno. E di fronte, l’armadietto della libreria era aperto. Posò lo straccio sulla scrivania e guardò dentro. Davanti a tutto il resto c’era un mazzo di foto poggiato su una vecchia busta per lettere. Foto di cui non si ricordava. Le prese e le guardò, una dopo l’altra, davanti a quell’armadietto spalancato. All’ultima si mise una mano davanti alla bocca, lasciandole cadere sul pavimento.

Gli insegnanti che avevano parlato con tutti i genitori erano andati via e nell’aula magna erano rimasti in tre o quattro. Anche Nik aveva finito i colloqui ma non aveva ancora voglia di partire. Si sorprese ad attendere la Bernini e per un po’ il respiro gli si accorciò. Il preside Conero si attardava a salutare gli ultimi genitori e raccomandava a tutti di partecipare sempre agli incontri. A Nik sembrava un cerimoniere alla fine del ballo di corte. Venti minuti dopo, la collega venne fuori dall’aula magna con un’aria stanca. “La prendi troppo di petto,” le disse Nik cercando di incrociare il suo sguardo. Lei era distratta; si ravvivò i capelli e tirò fuori una Gauloise. Gettò un’occhiata verso la porta d’ingresso e disse qualcosa a proposito della primavera che non voleva arrivare. Poi sembrò accorgersi di Nik. “Che ci fai ancora qui?” Lui si sforzò di conservare l’espressione tranquilla, ma la domanda non gli era piaciuta. “I genitori di Hamid non sono venuti.”

La Bernini lo guardò in modo inespressivo, espirando fumo. “Ah, già. La faccenda del ragazzo nero.” “Hanno inviato una lettera. Evidentemente avevi ragione tu, forse l’altro giorno non era via dei Fabbri o più probabilmente ho bussato alla porta sbagliata.” Per tutta risposta lei gettò la sigaretta quasi intera in un posacenere da pavimento e andò a prendersi il soprabito. Nik non la seguì. Quando gli ò davanti le chiese “Ma che diavolo hai?” La donna gli rivolse uno sguardo freddo. Spingendo la porta a vetri dell’istituto disse: “Va a casa, Nicola. Laggiù i tuoi ormoni troveranno le risposte che cercano.” Restò davanti a quella porta con un misto di incredulità e vaga autoironia. Uscì dall’edificio, osservò il cielo terso dei primi di aprile e gli venne in mente un ricordo molto chiaro: si era prestata più o meno a tutti, non solo a lui. Credevi che volesse te perché eri il più giovane? In realtà sei stato l’ultimo. Il primo è stato il Ceretoli. La macchina della Bernini era già molto lontana ma lui avvertì una specie di ubriachezza montargli alla testa, prese tutto il fiato che poteva e urlò “Puttana!” Lo urlò diverse volte “Puttana... puttana, puttanaaaaa” ridendo oscenamente in mezzo al parcheggio e alle ultime macchine che erano ancora lì, compresa l’Alfa 166 di quel pallone gonfiato di Conero. Urlava pensando alla Paolini, alla Bernini, a tutte le stronze sostenute che avevano fatto le furbe con lui. Poi s’infilò nella Toyota e si allontanò dall’istituto.

Entrò nel soggiorno e subito capì che qualcosa non andava. Benché avesse la mente piuttosto in disordine e sentisse di aver fatto una stronzata in quel parcheggio, proprio sotto gli occhi di Conero e di almeno un paio di colleghi, si rendeva conto che Susanna aveva a dir poco la luna storta. Lo stava aspettando in poltrona, ma non era appoggiata allo schienale, e si nascondeva le mani fra le gambe.

“Che c’è?” le chiese. La donna gli rivolse uno sguardo che faceva paura, la faccia era una maschera livida e tesa. “Beh?” insisté lui. Susi si alzò scagliandogli qualcosa contro. Una parte delle foto lo centrò e altre si sparpagliarono alle sue spalle. “Sei un maiale...” urlò con voce rotta. Nik trasalì. “Voglio che te ne vada...” disse lei, sforzandosi di mantenere le parole su un registro comprensibile “stasera stessa, intesi?” Le lacrime le scorrevano copiose. Le foto. Nik si chinò e ne prese alcune. Al primo sguardo non capì; i suoi occhi e la sua mente non riuscivano a sintonizzarsi su quelle immagini. Si vedevano due persone in controluce al tavolo di un bar. Ne raccolse altre, mentre sua moglie ripeteva che era un maiale e non gliel’avrebbe mai perdonata e che sua madre aveva ragione a dubitare di lui, a dire che era un poco di buono e uno spaccone. In una foto si vedeva anche il giovanotto che li aveva serviti. Lei beve vino prima di fare lezione. In un’altra si ravvivava i capelli e aveva un’espressione trasognata, con la sua sigaretta all’erba tra le dita. Anche lui aveva un’aria beata con la sua brava canna all’altezza delle labbra. Ne raccolse cinque o sei ma sul pavimento ce n’erano altre. Poi vide la peggiore. La luce che proveniva dalla porta del locale era eclissata dalle due facce a contatto di labbra. “Porco!” ripeteva Susi, ed era chiaro che stava esplodendo in una crisi isterica. I pensieri di lui si arenarono sui propri occhi nella foto. Erano socchiusi. Per un

attimo si domandò se anche la Bernini avesse provato lo stesso piacere, perché lei invece li aveva aperti. “Non dici niente?” gemé lei, avvicinandosi. “Non riesci neanche a dire un cazzo di niente?” Alzò una mano per schiaffeggiarlo ma lui evitò il colpo. A quel punto gli si scagliò con furia disarticolata e Nik dovette schivarla e allontanarla con forza, afferrandola per i polsi. Rischiò di scivolare su una delle foto ancora sul pavimento. “Piantala!” le urlò. Susi gli rivolse uno sguardo che ribolliva d’odio. “Vai via! Esci immediatamente da questa casa!” Nik si ò una mano sulla faccia, si scoprì bagnato di sudore. Voleva dire qualcosa ma non poteva... non capiva niente di quello che stava accadendo. Agli occhi di lei quel suo sguardo inespressivo appariva cinico, e allora gli urlò ingiurie e oscenità che finirono per spingerlo fuori di casa più delle aggressioni fisiche. Nik afferrò il soprabito e le chiavi dell’auto, uscì in una confusione di pensieri illogici e urla che gli venivano vomitate alle spalle. Notò appena il tizio che si era affacciato dalla casa di fronte.

Più ci pensava e meglio se ne convinceva. Ricordava che in quel locale c’erano tre ragazzi. Aveva fatto schizzare la Toyota dal vialetto di casa e stava risalendo verso Santerio. Due di quei ragazzi li conosceva e li aveva visti abbastanza bene. Non avevano macchine fotografiche, erano troppo impegnati a scambiarsi smancerie. Quanto alla Bernini non gli sembrava possibile che avesse delle colpe, anche se era stata proprio lei a condurlo in quel bar.

No, caro mio, si diceva guidando come un pazzo fra le curve già troppo buie. Doveva essere l’altro, quello in ombra. Dietro una cresta apparve una falce di luna color arancio. Rischiò di sbandare. La strada uscì per un istante dalla direzione e le ruote stridettero ferocemente, ma non rallentò. Aveva intravisto quel tipo più volte mentre tirava la sua canna e gli era sembrato parecchio interessato alla coppietta di insegnanti. Ed eri tu, non è vero? Accelerò su un tratto in rettilineo. La Toyota si avventò fra due ali di vegetazione rigogliosa. Ora vedremo se era proprio via dei Fabbri... Sulla destra apparve l’istituto, sembrava una bianca caserma abbandonata. Anche se il parcheggio era deserto e il cielo si stava tingendo di una tonalità che ava dal viola al blu scuro, lui intravide qualcosa... un bagliore, e una massa scura a una finestra. Schiacciò il pedale del freno con entrambi piedi facendo stridere le gomme, innestò la retromarcia e tornò indietro per una ventina di metri. Guardò meglio. Non c’era più niente, ma ormai sapeva che era lì. Entrò nel parcheggio. Uscì dalla macchina scoprendosi il respiro corto e tirò fuori il suo mazzo di chiavi. Raramente si era trovato ad aprire l’istituto. C’era un portone di legno e poi la porta a vetri e impiegò un po’ prima di riuscirci. Anche perché le mani gli tremavano orribilmente. Alla fine entrò e si sentì come una specie di profanatore. Si trattava dello stesso corridoio, con le stesse porte in cui si ogni mattina si riversava lo stesso maledetto sciame di sbarbatelli. Eppure in quelle tenebre che si addensavano come mantelli neri non c’era proprio nulla di quotidiano, di familiare. C’era piuttosto una sorta di minacciosa animalità, come se nella notte che avanzava qualcuno avesse stabilito che non c’era più posto per risate e baccano; per ogni notte, era vietato l’accesso all’istruzione e alle dottrine. Nik avanzò. Il chiarore che segnalava la porta a vetri era ancora alle sue spalle,

ma lui non volle guardarlo. Temeva che sarebbe stato spinto a fuggire. Vagò fra le aule le cui porte erano tutte chiuse. La premura di Giannini non lasciava scampo. Poi intravide la porta della II B. Quella invece era aperta.

Il professor Gregori sorrise, un’espressione da grottesca resa dei conti. Si avvicinò e vide un lucore innaturale provenire dall’interno dell’aula. Cautamente, come se entrasse in una camera ardente, si spinse oltre la soglia. E lo vide seduto nel suo angolo. Finalmente provò paura. Solo per un attimo, abbastanza da inchiodarlo appena oltre la porta. Ma avvertiva anche una lancinante necessità di risposte, e così stava per dire qualcosa, anche solo per convincersi di trovarsi realmente in quel posto, a quell’ora. Ma fu Hamid a parlare per primo. Circondato da quella fluorescenza spettrale che si irradiava in tutta l’aula. “Il capolinea arriva... prima o poi.” Nik si bagnò le labbra, come aveva fatto dopo che quello stesso personaggio gli aveva ripetuto pari pari dieci minuti di spiegazione sul diritto alla dignità. “Che cazzo vuoi dire?” Hamid si alzò, portando con sé la luce. “Che è giunto il tempo di vedere quanto hai imparato dalle tue stesse lezioni, professore,” abbandonò la sedia e fece un o. “Perché l’assoluzione non te la puoi dare da solo, come sanno bene quelli che i conti li pagano davvero.” Ancora un o, a Nik prese a battere forte il cuore. “Il viaggio è continuato lungo la sua strada per tutto questo tempo, sai? Anche se non te ne accorgevi. Anche se te ne stavi rintanato in fondo al vialetto insieme all’ignara mogliettina.” Il chiarore si fece più intenso, come se quella sorta di aura presentisse l’arrivo di un oscuro momento della verità. “E ora siamo al capolinea, proprio quando non te

l’aspettavi più, vero professore?” E con un gesto Hamid si sollevò la maglietta fino all’altezza del petto. Nik sobbalzò. Si coprì la bocca sgranando gli occhi. E ricordò, ricordò tutto. Guardò il ghigno disperato e trionfale di quel ragazzo e ricordò ogni cosa, fino in fondo. Sulla pancia di Hamid c’era uno squarcio orizzontale, da fianco a fianco. Appariva come la bocca di uno squalo, senza i denti. Ne colava una putredine nera e densa come sanguinaccio. Come aveva potuto dimenticare? Come aveva potuto rimuovere proprio quella cosa? La peggiore, la più infame. Nonostante le foto, nonostante i memento l’aveva rimossa così profondamente da non ricordarsene nemmeno quando Hamid era comparso nella sua classe. “Non… non puoi essere tu” gemé, “è successo da troppo tempo... troppo tempo!” “Venticinque anni,” disse la figura. “Ma ora sei arrivato al capolinea. Contento?” L’orrore lo piegò sulle ginocchia. Cadde pesantemente carponi mentre la figura gli si avvicinava, fino ad averlo proprio all’altezza della ferita. Nik non voleva guardare, proprio come venticinque anni prima, in compagnia di Ceretoli e della Paolini. Adesso nel delirio della memoria li vedeva bene, il Ceretoli con i suoi occhi piccoli e neri come semi di cocomero, e la Paolini, con la sua faccia livida da cocainomane alcolizzata che si vantava di deflorare i nuovi arrivati del Gruppo. Lui aveva tirato fuori il coltello, il muso nero che avevano preso in castagna in un vicolo aveva l’aria di una cane randagio terrorizzato. Lo avevano portato al covo a forza di botte e minacce. Il Ceretoli e la Paolini lo incitavano: “Avanti Cobra, avanti, avanti… fa’ vedere chi sei!” Reclamavano una prova definitiva di coraggio. Tenevano quel ragazzo spalle al muro, immobile contro le piastrelle sudice. Lui aveva quello sguardo così terrorizzato, oh, così sconvolto dalla certezza di ciò che stava per subire da

quel mostruoso coetaneo bianco che gli si parava armato di coltello a serramanico; lo sguardo di un agnello consapevole del suo destino sacrificale. Ed era tutta lì la ragione per cui la sua mente aveva rimosso il ricordo, era tutta in quegli occhi sporgenti e neri come pietre laviche ficcate nella testa del ragazzo. Erano insostenibili, quegli occhi. Così lui l’aveva fatto, incurante delle grida, delle lacrime. In un gesto repentino. Grande... grande Cobra… Senza avere il coraggio di guardare. Ancora. Quegli occhi che si spegnevano.

“Mi ucciderai?” chiese tra i singhiozzi. “Oh no. Ti farò qualcosa di meglio. Questo è un capolinea speciale. È un capolinea che dura più della corsa…” La figura lo accarezzò. Lui piangeva più forte. Infine, delicatamente, senza che Nik opponesse alcuna resistenza, gli spinse la faccia sulla ferita. Si ritrovò a respirare nello squarcio e l’odore era come il sudore del suo corpo al risveglio dagli incubi.

Fissava perennemente lo spazio tra una plafoniera e la griglia metallica dell’aria condizionata. A volte sospirava e gemeva, altre volte assumeva un’espressione truce come se inghiottisse fiele. La sua vecchia moglie non veniva mai a fargli visita. Si diceva che non lo amasse più, per fatti antecedenti la malattia. Una grassa infermiera premurosa gli si era affezionata; pensava meritasse più affetto, e ogni volta che aveva un po’ di tempo gli restava accanto. Si curava personalmente di cambiargli il pigiama e svuotargli il pitale. E lo imboccava tre volte al giorno. Certe volte lui sbatteva le palpebre e sembrava sorridere come se volesse

ringraziare quella donna, ma più spesso non sembrava neanche accorgersi di lei. Quando calava il buio, puntualmente cominciava ad agitarsi, soprattutto se c’era la luna. Si contorceva nel letto, il suo volto si riempiva di orrore e cercava di dire qualcosa... qualcosa che aveva a che fare con la luce, con le porte aperte. L’infermiera grassa provava a tranquillizzarlo ma non ci riusciva mai. Quasi sempre dovevano somministrargli i tranquillanti.

Poi la notte arrivava davvero. E arrivava la figura. Con la sua luce, il suo sorriso. Si metteva di fronte al letto, si scopriva quello squarcio e rimaneva lì, finché la luna restava alta nel cielo. “Coraggio professore,” diceva, “Siamo soltanto all’inizio...”

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Sortilegio d’aprile

Un sussulto lo svegliò

Un preside monolitico

Marocchini

Gli gnocchi di Susi

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