Elisabetta R Brizzi Sulla punta di un respiro Lettere Animate I nuovi brevissimi 8 isbn: 978-88-6882-575-1 www.lettereanimate.com Copyright Lettere Animate 2015
"Amare è così breve, e dimenticare così lungo." (Pablo Neruda)
Sulla punta di un respiro
L'estate sta arrivando, la riconosco dal profumo dell'aria, quello della mia infanzia, quando correvo lungo il fiume, a piedi nudi, incurante della terra che mi graffiava la pianta dei piedi. Una fragranza di gelsomini, molto simile al miele e alle torte di mamma lasciate a raffreddare sul davanzale. Dal portico, anche se sono seduta sul dondolo, riesco a scorgere la linea incurvata e irregolare del fiume e le forme dolci delle colline, la mia amata quercia, la terra che è stata di mio nonno e che ora è di mio padre con le distese di grano pronto ad essere raccolto. Campi di un giallo violento che si stagliano contro un cielo topazio. Niente sembra essere mutato. Tutto pare uguale a se stesso, immobile e imprigionato in un ato incapace di trascolorare nel presente e di trasformarsi in futuro. Ho cercato di tracciare uno spazio bianco tra me e il mondo. Uno spazio di sicurezza, dove trovare una ragione per restare aggrappata ai miei sogni, ma è una lotta inutile e vana. Continuo a perdere e a cadere, a rialzarmi e a cadere di nuovo, in un eterno ripetersi di gesti e momenti uguali. Mio padre dice che mi erà, che prima o poi imparerò a convivere con questa realtà. In fondo, mi ripete ogni santo giorno, la vita è una somma di felicità e tristezze, un'altalena di emozioni a cui non possiamo sottrarci perché se lo fimo non potremmo considerarci vivi, ma solo dei fantasmi o dei pesci in un'ampolla di vetro. Qualcosa di asettico e di inutile. Io, però, preferirei essere questo. Vorrei, voglio smettere di sentire. Il dolore è una scheggia conficcata nel petto. A ogni respiro, scende più giù e si aggrappa a quel che resta di me. Ho diciannove anni. Non dovrei averli certi pensieri. Dovrei solo pensare a cosa farò a settembre, in quale università iscrivermi. Eppure, non posso liberarmene. Sono un pozzo nero. Un temporale. Una parentesi in un periodo pieno di errori e di frasi accidentate. Rumore di i. Una porta si apre. Mio padre si affaccia dalla soglia di casa, so che è lui senza neanche bisogno di voltarmi. Riconosco il suo modo di strusciare le scarpe sul pavimento e il suo
respiro sul punto di spezzarsi. «Ester, ti va un gelato?» Scuoto la testa, non ho fame, non ho voglia di andare in città e di vedere le facce allegre della gente e quelle contrite di chi mi conosce e si sente in dovere di avvicinarsi e di lasciarmi un abbraccio fugace. Quasi si pentisse di essere salvo dalla mia eterna notte. Papà sospira e si siede accanto a me. Mi prende una mano e la stringe con forza. «Ti fa male stare qui da sola.» «Non so dove altro andare.» «Potremmo, che ne so, fare un giro al centro commerciale.» Rimango di nuovo in silenzio. Un grumo di pianto mi sale alla gola e mi chiude lo stomaco. Ho sassi nella pancia e catrame nei polmoni. Papà mi mette un braccio intorno alle spalle e mi accosta a sé, dandomi un bacio sulla fronte. Io mi limito ad appoggiare la testa sulla sua spalla, con gli occhi rivolti al pontile. Una barca è attraccata là e ondeggia piano. Mi aspetto sempre di vederli arrivare come un tempo, salutandomi con un sorriso e un ampio movimento delle braccia. Mi aspetto di vedere arrivare Claudia e Jacopo, con i loro occhi blu oltremare e i capelli bruni, spettinati dal vento. Mi aspetto di vedere arrivare Riccardo con la chitarra sulla schiena e il suo sorriso, il suo bellissimo sorriso con i denti bianchi e perfetti. Ma nessuno arriverà più da quel pontile. Un brivido mi percorre la schiena, mentre la vista si annebbia e la bocca si storce nella sofferenza. Mi porto una mano alla bocca, stringendomi nelle spalle e chiudo gli occhi, consentendo alle lacrime di bagnarmi il volto. Mio padre mi avvicina di più a sé. Vorrebbe proteggermi da tutto questo dolore ma non può farlo. Devo affrontarlo da sola. Mi scanso e dopo avergli dato un bacio sulla guancia, rientro in casa e salgo al piano di sopra. Mamma si affaccia dalla sua stanza con i panni in mano e mi osserva mentre mi chiudo dentro. Il suo sguardo è impotente, proprio come quello di papà.
Resto con la schiena contro la porta e il fiato corto. La camera è un disastro. Ci sono fogli sparsi ovunque, disegni mai finiti, altri stracciati e colori sparpagliati sul pavimento. Mi accuccio a terra e afferro la metà di un foglio. Percorro con le dita i volti impressi con gli acquerelli: io e Riccardo. Sull'altro pezzo di carta ci sono incise le facce di Claudia e di Jacopo. Un singhiozzo corre alla gola e si spegne subito. È tutto sbagliato. A fatica torno dritta e mi stendo sul letto con le braccia piegate sul ventre e lo sguardo al soffitto. Lo squillo del cellulare mi fa sobbalzare. Mi volto al comodino ed esito perché non vorrei rispondere, preferirei proseguire ad annullarmi e a fingere che la mia vita possa finire da un momento all'altro liberandomi dalla mia colpa. La chiamata prosegue e alla fine cedo. «Pronto?» Dall'altra parte c'è un lunghissimo momento di silenzio e poi una voce. La voce che non avrei mai pensato di riascoltare, almeno non fino a domani. «Ciao...» Riccardo parla a fatica e il suo tono è fragile come un temporale in una notte d'estate. «Ciao.» «Ho sentito Jacopo, prima». «Come sta?» dico ma mi pento subito di quella domanda. È stupida e inutile. Per fortuna Riccardo la ignora. «Non vuole che vieni al funerale». Quell'affermazione mi lascia senza fiato. «Ma... ma...» «Scusa, Ester, ho provato a farlo desistere ma è stato irremovibile». «Io non volevo che succedesse, te lo giuro. Te ne volevo anche parlare prima del
falò...» Riccardo emette un sospiro, non ama rievocare quella notte, non ama che io trovi giustificazioni a quello che ho fatto e in fondo ha ragione. Non ne ho alcun diritto. «Mi dispiace, Ester. Ma credimi, è meglio così.» Non ho la forza di controbattere, di chiedere una stupida possibilità. Di capirmi. Chiudo gli occhi. Bruciano a causa delle lacrime. «Va bene» mi limito a rispondere e riaggancio. Immobile, statua di cera, fisso il telefonino. I ricordi sono tagli sulla pelle.
«Cioè, non ci posso credere! Settanta! Settanta!» Jacopo ha le mani sulla testa e la faccia stralunata, di chi stenta a rendersi conto di quanto ha appena letto. Davanti a lui, i quadri scolastici, quelli con i voti del diploma. Claudia lo abbraccia saltellando emozionata. «Grande, grande! Lo sapevo io che li facevi neri!» «Claudia, mi strozzi così!» «Be’ almeno muori felice?!» Ester e Riccardo, alle loro spalle, non possono evitare di ridere e i loro visi si riflettono sul vetro della bacheca. Il novanta di Ester brilla subito dopo il cento di Riccardo e di Claudia. Non riesce ancora a credere di aver terminato gli studi superiori e di essere pronta ad andare all’accademia d’arte. Con la coda dell’occhio spia Riccardo, la sua espressione accigliata mentre Claudia gli arruffa i capelli scherzando. Il modo pacato che ha di rimetterli in ordine e di dirle di smetterla di essere così fastidiosa. Lei arriccia il naso all’insù e, incrociando le braccia al petto, si finge offesa. La mano di Ester trema, mentre un’ombra di tristezza le cancella il sorriso dal volto. La stringe a pugno e s’incammina verso l’uscita senza dire niente.
Jacopo la rincorre. «Ester! Ester, aspetta!» Riccardo e Claudia si voltano all’istante nella loro direzione. Ester non si ferma, varca la soglia dell’edificio e raggiunge la strada. «Ester!» Jacopo riesce ad acciuffarla per il manico della borsa, costringendola a fermarsi. «Perché te ne vai via così?» Ester si morde un labbro in difficoltà, scuote la testa. «Niente.» «Non è vero, hai cambiato faccia.» «Senti, torna da tua sorella e da Riccardo, io devo andare, ho un impegno.» Il giovane dà un’occhiata dietro di sé. Claudia e Riccardo sono quasi da loro. Si rivolta. In mezzo alla fronte si fa spazio una ruga d’espressione, un velo di fastidio. «Ci conosciamo fin da piccoli noi tre.» «Lo so.» «Non esiste solo lui.» Ester sobbalza, ammutolita. Posa lo sguardo su Jacopo e all’improvviso, come se le piovesse addosso l’inverno, capisce quello che si era sempre rifiutata di vedere nell’arco dei cinque anni di scuola. Manda giù un grumo di saliva. Jacopo distoglie l’attenzione da lei, a disagio. Non avrebbe voluto mettersi a nudo ma stanno per prendere strade diverse, lui se ne andrà a Milano a studiare alla Bocconi, lei in qualche accademia d'arte. Sputare la verità gli è venuto naturale.
«E poi…» dice e non prosegue. Riccardo è vicino a loro e la sua sola presenza lo azzittisce. L’amico sfiora una mano di Ester e la incrocia nella sua. «Ti va se ti accompagno a casa?» Ester solleva di scatto lo sguardo su di lui. Fatica a respirare. Sposta l’attenzione su Claudia, rimasta indietro. I suoi occhi s’incastrano in quelli di lei. La compagna si stringe nelle spalle, le sue iridi brillano di un dolore muto. «Sì, va bene» risponde Ester, accostandosi di più al ragazzo. Riccardo sorride e si rivolge agli altri due amici. «Ci vediamo al mare per le nove, allora?» Jacopo serra per un momento le labbra irritato, poi annuisce. «Sì, al terzo chiosco.» Si avvicina alla gemella e le prende una mano. Claudia non reagisce, proiettata su Ester ma soprattutto su Riccardo. Muove le dita per salutarlo ma il movimento resta incompiuto, una virgola in un periodo dove non sarebbe dovuta stare. Il ragazzo si allontana con Ester al fianco lungo il viale ombreggiato dai platani e arso dal sole.
«Ester, che fai?» La voce di mio padre mi costringe a tornare presente a me stessa e a voltarmi in direzione dell'entrata. «Niente...» «La cena è quasi pronta.»
L'affermazione mi stupisce. Di riflesso, mi volto alla campagna. La notte è arrivata ed è scura e profonda, un mare annegato nelle tenebre. Per quanto tempo sono rimasta in sospensione nel ato? Mi mordo un labbro e strappo via un lembo di pelle. Attorciglio con le dita una ciocca di capelli. «Papà...» Papà fa qualche o avanti. «Che c'è?» «Domani... domani non ci vado al funerale.» «Cosa? E perché? Non te la senti?» Non rispondo subito. Prima cerco dentro di me le parole giuste da dire, il modo in cui giustificare la mia assenza. «Ester?» «Lo preferisco.» Papà tace. So che vorrebbe dirmi qualcosa, chiedermi se è davvero una mia scelta ma non lo fa. «Tra cinque minuti, arrivo» aggiungo con un filo di voce. «Va bene.» Papà lascia la camera e io torno a fissare la terra, quell'oscurità dalla quale mi sento travolgere. Abbasso lo sguardo sul cellulare. In un impeto di ribellione cerco nella rubrica il numero di Jacopo e inoltro la chiamata ma un attimo dopo la interrompo. Mi prendo la testa tra le mani. Non c'è niente che possa fare per stare meglio. Niente che possa fare per recuperare me stessa e chi eravamo. Siamo tutti incastrati nel giuramento di un addio. Lo schermo del cellulare s'illumina e vibra. È Jacopo. Avverto un fremito nel
cuore. Tremo e quando rispondo mi sembra di affogare. «Che cosa vuoi?» «Scusa, io non volevo disturbarti.» «Ti ho detto cosa vuoi.» «Non ci vengo domani, io... ecco, te lo volevo solo dire.» «Me lo aveva già riferito Riccardo.» «Jacopo, ti prego, non odiarmi, io glielo volevo dire.» «Sì, immagino... magari tra una scopata e l'altra!» «No, no te lo giuro.» Le lacrime tornano a bagnarmi il volto e ho l'impressione che me lo vogliano scorticare. «Se solo avessi immaginato quello che Claudia sentiva per davvero... io ho sottovalutato...» Stringo un lembo della coperta, mentre lo sguardo si posa su un ritratto di Claudia, sul suo volto pulito e innocente, attraversato da una vena di acerba malinconia. «Hai parlato solo perché ho trovato il diario di Claudia.» «No, no io ero solo innamorata e non... non...» «Ciao, Ester!» Il saluto di Jacopo è lapidario, non mi lascia margini di scelta. Chiudo gli occhi e mi rannicchio tra le lenzuola.
«Ester! Ester vieni giù, c’è Claudia!»
Ester è sdraiata sul letto della sua stanza con il ventilatore e puntato sul viso. Il caldo non concede tregua in quel giorno di luglio e lei ha la sensazione di sciogliersi tra le lenzuola. Il richiamo di sua madre, però, la fa scattare seduta. A disagio, fissa l’entrata. «Ester, allora?» Fa un respiro profondo. Si alza ed esce dalla camera a piedi nudi. Scende al piano di sotto dove Claudia l’aspetta accomodata su una poltrona della sala. Quando la vede arrivare si mette subito in piedi, scansando una ciocca di capelli dietro un orecchio. «Ciao.» Ester si ferma poco oltre la scala, studiando l’amica in tutti quei dettagli che la rendono diversa da lei, a cominciare dall’altezza. Ha gambe lunghe Claudia, lunghe e perfette sotto un paio di short avana. La canottiera nera le delinea il seno piccolo e la vita da vespa. A quest’atto abituale, ne segue un altro. Ester spia, a occhi bassi, il suo corpo affusolato, appena visibile nella trasparenza del vestito bianco. «Ciao, come mai sei venuta?» «Ecco, io…» Claudia ha un momento d’incertezza. Ester gliela legge nello sguardo e nel modo in cui arrotola le dita intorno ai capelli. «Io volevo parlarti un attimo» conclude la ragazza. «E di cosa?» «Di Riccardo.» Ester non è stupita dall’affermazione. Sono cose che una donna capisce, anche a diciannove anni. «Lui ti piace, vero?» Claudia si volta alle vetrate affacciate sul giardino della villetta.
«Da sempre, sa tutto di me, abbiamo condiviso una vita.» «Lo so, si vede. Insomma… vi conosco.» L’amica rimane in silenzio per qualche minuto. Poi, quando riprende a parlare, lo fa con la voce rotta da un pianto mal trattenuto. «Ho sempre creduto che saremmo finiti insieme io e lui.» Alza le spalle e si rivolta andosi le dita sotto gli occhi bagnati. «Ma a quanto pare non sarà così. » Ester si contorce le mani a disagio. Fatica a sostenere lo sguardo di Claudia, quell’espressione vacillante. «Va be’, volevo solo dirti che non ti ostacolerò in nessun modo.» «Claudia, senti io… mi dispiace, non…» «No, va bene, non preoccuparti.» Claudia fa un respiro profondo, si avvicina all’altra e le dà un abbraccio fugace, timido. «La nostra amicizia è importante per me.» Torna composta e si dirige a i veloci all’uscita. Esce sul portico. Ester non accenna a spostarsi. Poi, come se si risvegliasse da uno stordimento, corre fuori. «Claudia!» Ma l’amica è già sul vialetto d’ingresso, diretta al pontile. Vorrebbe chiamarla ancora per attirare la sua attenzione. Non lo fa, limitandosi ad osservarla andare via con quell’andatura simile a una danza.
C'è sempre uno strano silenzio ai funerali. Il silenzio e il profumo dell'incenso.
Una fragranza che resta nell'aria a lungo, aggrappata ai vestiti della gente e alle punte delle loro capigliature scomposte dal dolore. Tutto il paese è venuto a salutare Claudia e anche se non sarei dovuta venire, alla fine non ho potuto farne a meno. Dovevo congedarmi da lei, darle almeno un ultimo saluto. Mi sono fermata all'inizio della chiesa, sulla porta. Riccardo e soprattutto Jacopo non devono vedermi. La madre di Claudia ha il volto sfatto, si fa il segno della croce in continuazione e sebbene sia lontana, mi sembra che muova le labbra come per dire qualcosa. Il marito le stringe una spalla mentre con l'altra tiene la sciarpa preferita di Claudia. Riccardo è seduto accanto a Jacopo. Riesco a scorgere a malapena il suo profilo contratto, gli occhi, scuri come braci spente, sono velati di sofferenza e lacrime. Da quella notte, non credo abbia neanche più suonato. La sua musica se l'è portata via Claudia, come se fosse ingiusto che lui continuasse a creare qualcosa di bello senza di lei. Jacopo ha l'espressione rabbiosa, mi ricorda una tigre in gabbia. Agita una gamba su e giù e se sapesse che sono qui, non so cosa sarebbe capace di dirmi. Siamo tutti quanti spettri e di noi non è rimasta che una pallida ombra. La bara bianca è coperta di gigli e tulipani, i fiori amati da Claudia. Il parroco sale sul pulpito e benedice i presenti. D'istinto mi porto una mano sul petto, al crocifisso della mia catenina. «Nel nome del padre, del figlio e dello spirito santo, amen.» La sua voce è bassa e profonda, velluto. Mi ricorda il velluto. «Non è mai facile salutare una giovane vita, una creatura nel pieno della giovinezza...» Un tremore violento mi scuote la schiena e ruba l'aria. La testa gira, la chiesa ho la sensazione che sia intrappolata in un vortice. Sono costretta a reggermi a un banco per non crollare. Prendo ampie boccate d'ossigeno. Gocce di sudore freddo mi bagnano il viso. Una signora mi osserva perplessa, mi chiede che cos'ho, ma la sua domanda mi arriva ovattata. Posso solo abbozzare un sorriso e fingere di stare bene.
Il prete prosegue la sua predica, il profumo dell'incenso mi lacera e frastorna. L'abbacinante luce del sole scivola dai lucernari leggera.
Leggera come i i di Claudia sulla sabbia. Investita dai raggi lunari, balla bevendo una bottiglia di vodka alla pesca senza neanche prendere fiato. La solleva in alto, ridacchiando. Un falò illumina i suoi movimenti. C’è solo Jacopo con lei. «Su fratellino, festeggia con me!» Il ragazzo cerca di sfilarle il liquore. «Claudia, basta. Stai esagerando.» La sorella prende la distanze. «No, lasciami stare!» Si asciuga la bocca con un polso. Fa qualche altro sorso. L’alcol le trasmette una sensazione di acuto stordimento e calore. La gola brucia ma non le dispiace. Gironzola ancora un po’, barcollando da una parte all’altra, e alla fine si blocca con lo sguardo alle dune ispessite dall’oscurità. Gli occhi lucidi lasciano spazio alle lacrime. «Io lo amo» bisbiglia. Jacopo serra i denti fino a farli stridere gli uni contro gli altri. Si gira agli zaini lasciati su una stola. Tra di essi, ci sono quelli di Ester e Riccardo. Li prende a calci. Claudia neanche se ne accorge, è concentrata a fissare la macchia mediterranea. «Perché non mi ha voluta?» Il fratello corre da lei, la volta verso di sé. «Ѐ un coglione, Claudia! Non devi più piangere per lui!»
La ragazza lascia cadere a terra la bottiglia. La vodka rimasta viene subito assorbita dal terreno. «Tu non capisci… non capisci… perché non gli sono mai bastata?» Jacopo non fiata. Le parole, le spiegazioni le ha finite tutte. Vorrebbe solo strappare via dalla gemella quell’amore infelice e storpio. Le stringe le spalle. Claudia rialza lo sguardo su di lui, ammutolita. Gli sfiora una guancia, come se lo toccasse per la prima volta. Si allontana. Un o dopo l’altro. Fino ad arrivare in acqua. Il Tirreno le circonda subito la vita. Jacopo non capisce subito. La osserva inebetito. Solo lo scroscio di un’onda sulla schiena della sorella riesce a rianimarlo. «Claudia, che cazzo fai? Esci fuori!» urla e poi corre nella sua direzione. Claudia non l’ascolta, indietreggia, sente il mare invischiarsi sulla sua pelle, avvinghiarle il collo, tirarla giù con sé, nel proprio ventre blu. «Claudia! Claudia!» Il fratello si getta in acqua, nuota contro i flutti, va giù cercando Claudia, risale senza averla trovata. «Claudia!» Si guarda intorno stravolto. Una luce, quella di una torcia elettrica, gli illumina la faccia. Proviene dalla riva. Sul bagnasciuga, scorge le sagome di Ester e di Riccardo. «Si è buttata! Si è buttata!» riferisce con voce strozzata. Ester impallidisce. Ha i capelli spettinati ed è avvolta in un asciugamano. Il
vestito lo tiene nella mano sinistra insieme alla lampada. Riccardo, con indosso solo un paio di boxer, senza pensare, senza parlare, si tuffa nel Tirreno e raggiunge Jacopo. La furia delle onde abbatte ogni respiro.
Il prete congeda i presenti. Jacopo e Riccardo insieme ad altri due compagni di classe si caricano la bara sulle spalle e, seguiti dal resto della famiglia, si avviano all'uscita della chiesa. Nessuno ha voglia di parlare. Il silenzio è diventato ancora più opprimente. Un'eclissi. Un giorno che muore. Il respiro è tornato regolare. Mi fermo dietro un gruppo di signore e aspetto che il feretro i vicino a noi. Quando arriva, allungo una mano e lo sfioro a occhi chiusi. Per un attimo, non so come, mi risale alle narici l'odore forte della salsedine e della vodka, lo stesso identico odore di quella notte. Forse è lo strano modo della mia testa di cristallizzare in ogni fibra di me, il ricordo di quanto accaduto. La bara viene messa in macchina. Io resto sul sagrato, mescolata al resto delle persone. C'è un bellissimo sole, oggi. Claudia avrebbe amato questa giornata, di sicuro sarebbe andata in bicicletta. Lentamente il corteo funebre si allontana. A me pare di scorgere Claudia sul primo gradino, intenta a fissarmi con quel suo sorriso finto, una piega delle labbra incisa su un volto logoro di dolore. I ricordi mi travolgono, sono un uragano. Mi aggrappo a una colonna dell'edificio, il cuore sembra intenzionato a esplodermi nel petto, a strapparmi di dosso anche l'ultima traccia di me. Scendo veloce la scalinata, le chiavi di papà tintinnano nella borsa. Raggiungo la macchina e salgo a bordo. Osservo il corteo pochi metri davanti a me. L'odore di vodka e salsedine lo sento ancora. Sui vestiti, nelle narici, tra le labbra, ovunque. È ovunque proprio come Claudia, la sua immagine è consistente quanto una goccia di rugiada sul viso. Siede di fianco a me e mi guarda nello stesso modo di qualche giorno fa, quando è venuta a casa mia a chiedermi di Riccardo.
«Perdonami...» Sbatto le mani sul volante. «Perdonami!» Irrompo in un pianto disperato, affondando il volto nelle mani. Se potessi mi taglierei ogni singolo lembo di pelle. Ogni vena e ogni osso. Non so come ho fatto a non capire quanto Claudia ritenesse Riccardo l'unico amore della sua vita, l'unica cosa che non era disposta a perdere. E per quanto provi a raccontarmi la storia di "avere appena diciannove anni" non riesco a sentirmi dispensata dalle mie responsabilità, a superare la sua morte e a continuare a credere che da oggi in avanti sarò la Ester di un tempo. Di quei giorni belli, quando vedevo arrivare dal fiume Claudia, Riccardo e Jacopo. Quando tutto pareva perfetto e i miei sogni a portata di mano, sulla punta di un respiro. Accendo il motore e lascio la chiesa, in direzione opposta a quella delle altre vetture. I palazzi sono sostituiti in fretta dai campi, distese brune e dorate, lambite dal soffio del caldo vento di luglio. Ho la vista scheggiata di lacrime. Quella notte sarà sempre con me.
L'ambulanza è ferma in cima alle dune. La luce rossa lampeggia muta. I paramedici caricano su una barella Claudia adagiata in un sacco di plastica nero. Jacopo tace, tremante, con la bocca ancora impastata di salsedine. Con lo sguardo percorre il viso cereo della gemella, le labbra serrate, i capelli appiccicati sulla fronte e sulle guance. Riccardo, accanto a lui, è paralizzato nell'incredulità di quel momento. Osserva Claudia e in un impeto di rabbia corre da lei, l'afferra per le spalle e la scuote, urlando. «Svegliati! Svegliati, Claudia!» Ester, dietro ai due ragazzi, sussulta. Ha la faccia stravolta di pianto. Si porta una mano sulla bocca. Un singhiozzo frattura quel grido, si mescola ad esso e si perde nel fragore del mare. Un paramedico allontana Riccardo da Claudia. Una pattuglia della polizia arriva sul posto. La barella viene caricata sull'ambulanza. I tre ragazzi trattengono il fiato, imbambolati e immobili sul ciglio dell'alba.
Varcare la soglia della mia proprietà mi restituisce un breve attimo di sollievo. Quasi come se i mostri non potessero oltreare l'ingresso ma è una sensazione che dura poco. Mi basta scendere dalla macchina e tutto ritorna, implode dentro di me. Entro in casa trascinandomi, getto le chiavi su un mobile e resto ferma come allora, come sempre. Mio padre avanza verso di me, adagia una mano sulla mia spalla e mi abbraccia, baciandomi sulla testa. Mi scosto da lui e mentre lo faccio vedo mamma avvicinarsi con aria contrita. Io li guardo, esito e alla fine parlo senza quasi rendermene conto. «Voglio andarmene, voglio andare via.» Più che una richiesta, la mia, somiglia a una supplica. Se restassi qui, in questa casa, finirei con il morire di nostalgia. Equivarrebbe a un'agonia di emozioni. Mio padre e mia madre si scambiano un'occhiata, poi annuiscono. Mi prendono per mano e insieme saliamo al piano di sopra ammutoliti in quel presente che sarebbe diventato una cicatrice sull'anima.