Fabrizio Fortino
U-666
Titolo dell’opera: U-666 Autore: Fabrizio Fortino Copyright © DarkZone Editing: Tracce d'inchiostro - Servizi editoriali Questo libro è un’opera di fantasia. La sua pubblicazione non lede i diritti di terzi. Personaggi e luoghi citati sono invenzioni dell’autore e hanno lo scopo di conferire veridicità alla narrazione. Qualsiasi analogia con fatti, luoghi e persone, vive o scomparse, è assolutamente casuale.
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Indice dei contenuti
U-666
Note dell’autore
Prologo
Capitolo 1
Capitolo 2
Capitolo 3
Capitolo 4
Capitolo 5
Capitolo 6
Capitolo 7
Capitolo 8
Capitolo 9
Capitolo 10
Capitolo 11
Capitolo 12
Capitolo 13
Capitolo 14
Capitolo 15
Capitolo 16
Capitolo 17
Capitolo 18
Capitolo 19
Capitolo 20
Capitolo 21
Capitolo 22
Capitolo 23
Capitolo 24
Capitolo 25
Capitolo 26
Capitolo 27
Capitolo 28
Capitolo 29
Epilogo
Ringraziamenti
Note
U-666
Fabrizio Fortino
Note dell’autore
Il materiale necessario alla stesura di questo romanzo è stato raccolto durante due lunghi anni di ricerca e archivio. Ripensandoci, non riesco ancora a capacitarmi del perché mi sia imbarcato (atemi il termine) in quest’impresa. Mia madre direbbe che se avessi messo tale impegno nello studio… Ma del resto, come darle torto. Un grande della letteratura mondiale, un tizio che porta il nome di Stephen King, una volta disse una cosa saggia. In realtà ne disse tante, ma questa era più saggia delle altre, o magari a me colpì più delle altre: «Scrivi di quello che conosci!» Ecco. Io di sommergibili, fino a qualche anno fa, non ne sapevo proprio un bel niente. Se non quello che avevo imparato dalla canzoncina dei Beatles. Ma in quel caso erano piccoli e gialli (e soprattutto erano sottomarini e non sommergibili. C’è una bella differenza, sapete?) e non quei mostri d’acciaio di cui in seguito scoprii l’esistenza. Proprio così, mi capitò di vedere un documentario sui «branchi di lupi», come erano soliti essere chiamati i gruppi di sommergibili a caccia di convogli nell’atlantico e, da quel momento, fu amore a prima vista. Fu così che, seguendo alla lettera il consiglio di Stephen, (ricordate? «Scrivi di quello che conosci») decisi che avrei scritto un romanzo sugli U-boot e a quel tempo, che di U-boot non ne sapessi un bel niente, non era un gran problema. Questo per dire che metto le mani avanti fin da subito se qualche purista del genere dovesse riscontrare qualche errore tecnico. Mi perdonino gli apionati di sommergibili della Seconda Guerra Mondiale se qua e là posso aver seminato il romanzo con qualche piccola inesattezza. Io ce l’ho messa davvero tutta. Voglio precisare, inoltre, che i personaggi di questo romanzo sono nella loro quasi totalità inventati come, del resto, la maggior parte delle loro azioni. A ogni modo, essendo un romanzo ambientato in un ben determinato periodo storico, alcuni personaggi di secondo piano sono realmente esistiti. Le loro parole, i loro pensieri, le loro azioni, sono frutto di fantasia e non riflettono le loro vere personalità o ideali politici.
Studiare la storia mi ha fatto comprendere il grande senso dell’onore che animava questi uomini e, anche se le loro azioni o i loro ideali possono apparire sbagliati (e in molti casi lo erano davvero), non posso che nutrire un profondo rispetto per il loro coraggio e la loro integrità morale. Questo libro è dedicato a tutti quei ragazzi (di entrambe le parti) che riposano sul fondo del mare e che hanno immolato le proprie vite per quegli ideali. Giusti o sbagliati che fossero.
Prologo
«Non potrò mai dimenticare il senso di spavento e di ammirazione che provai guardandomi intorno.» Anatoliy portò la mano alla bocca nel tentativo di soffocare uno sbadiglio. Ebbe solo il risultato di respirare il suo stesso alito. Storse il naso e tornò con lo sguardo a quel curioso brano. Aveva afferrato il primo libro che gli era capitato a tiro cominciando a sfogliarne le pagine senza troppo interesse. «Il battello pareva sospeso come per incanto a mezzo della discesa sulla superficie interna di un imbuto di circonferenza molto vasta e di una profondità prodigiosa, le cui pareti, perfettamente lisce, avrebbero potuto esser prese per ebano, se non fosse stata l’abbagliante rapidità con la quale giravano su se stesse.» Strizzò gli occhi e si grattò la nuca, proprio dietro l’orecchio sinistro. Non era sicuro di aver afferrato quello che aveva appena letto. «Scendevano in un fiume di luce dorata lungo le nere pareti, penetrando sino nelle più intime profondità dell’abisso.» Anatoliy richiuse il libro con uno scatto secco, spezzando quel senso d’intorpidimento che il cupo ronzio della strumentazione di bordo, al pari del continuo rollio dell’imbarcazione, aveva contribuito a creare. La stanza, illuminata solo dalle luci soffuse dei monitor e da quelle fluorescenti delle apparecchiature di rilevamento, creava una sensazione di estraniamento dalla realtà. Forse complici anche gli odori, che stuzzicavano le narici con le loro sfumature contrastanti: l’impianto climatizzato con il suo sapore metallico, la moquette blu che puzzava di umidità, i monitor che esalavano una calda essenza di plastica bruciata e l’odore della salsedine che sembrava permeare ogni cosa. Il monotono blip dello scandaglio, uno dei tanti strumenti disposti in buon ordine sul tavolo della sala di controllo remoto, intrappolava i sensi, imprigionandoli in un quieto dormiveglia. Ogni elemento nella stanza componeva quell’ordine
meticoloso e ovattato interrotto solo dal lieve tonfo del libro richiuso. All’esterno, appena fuori della nave oceanografica russa Nadezhda, la temperatura si era mantenuta costante da almeno una settimana, stabilendosi intorno ai meno quattordici gradi. Tuttavia, i freddi venti catabatici scendendo di quota all’altezza delle coste provocavano di continuo bruschi e improvvisi abbassamenti della temperatura. Anna reclinò la testa. Immersa nella contemplazione dei dati elaborati dal computer sembrava a proprio agio in quella anomala e silenziosa immobilità. Si accorse appena delle parole che il suo compagno aveva appena letto con voce sommessa e impostata. «Il gran turbine del Maelstrom!» La voce, volutamente inquietante, scandì ogni parola, mentre gli occhi, spalancati in una smorfia teatrale, cercavano di attirare l’attenzione della collega. «Entri nel vortice e ne vieni risucchiato, e ti ritrovi in Cina o chissà in quale pozzo oscuro in culo al mondo.» Ondeggiando i lunghi capelli ricci, Anatoliy gettò il libro sul tavolo senza troppa attenzione. Si alzò rumoreggiando e lanciando occhiate ad Anna, cercandone ancora l’attenzione, poi aprì il frigorifero. Afferrò una bibita dal colore scuro e ne esaminò il contenuto con un sopracciglio alzato. «Robaccia americana» disse, fingendosi disgustato. Il tappo di metallo saltò con un pop sordo. Una densa schiuma marroncina fuoriuscì, colando sul vetro della bottiglia come una lumaca senza guscio. Prese per lo schienale una delle sedie girevoli e si lasciò cadere; compiendo un giro completo, si ritrovò in asse con la sua postazione monitor. «Comunque sempre meglio di qui» disse sbadigliando a bocca aperta. Nonostante l’indifferenza della compagna, Anatoliy pareva deciso a continuare quel monologo di frasi scomposte, probabilmente più per tedio che per reale interesse al dialogo.
«Quantomeno nel grande vortice puoi sperare in una morte rapida e singolare. A noi, invece, ci tocca una morte lenta. Tra cinquecento anni ci troveranno ibernati e dichiareranno la morte naturale per noia.» Prese un lungo sorso dalla bottiglia e, quasi per dispetto, la lumaca marrone gli colò sui pantaloni. Si limitò a tamponare con la mano. «Fa’ attenzione a non innaffiarmi la consolle.» La voce sottile di Anna riportò Anatoliy all’intento iniziale di creare un qualche tipo di diversivo. «Tranquilla, baby» rispose il ragazzone, attaccandosi ancora alla bottiglia e ingoiando in un solo sorso il resto della bibita. Seguì un verso di soddisfazione e un sonoro rutto che ruppero definitivamente quell’intorpidimento dei sensi. «Sei un animale, Anatoliy.» Il tono di quelle poche parole era piatto; difficile capire se stesse tentando di ignorare quelle costanti seccature o se fosse immersa in quel lavoro abitudinario e metodico che si addiceva al suo carattere introverso di giovane studiosa. «E questo è solo il preludio, credimi. Ora ti becchi tutta la sinfonia. Da giovane mi chiamavano il Čajkovskij del rutto!» Con la mano sinistra, Anatoliy si massaggiò il ventre flaccido, quasi a voler agevolare la ricarica prima di sparare una nuova bordata. La donna cercò di ignorarlo, armeggiando con delicatezza sul mouse del computer, socchiudendo gli occhi per seguire meglio l’andamento della mappatura sul monitor. «Ma sì, dai, alla fine non è male qui, no?» Incalzò Anatoliy, con l’intenzione di interrompere la concentrazione della collega. Inclinò lo schienale della sedia, portando le braccia dietro la testa, e riprese il suo monologo anche se Anna non accennava a staccare gli occhi dal monitor. «Vita tranquilla, cibo scadente, clima fresco. Una serena crociera nel nulla cosmico del cazzo.» Anna si limitò a tirargli uno sguardo di sottecchi, ma stavolta non poté fare a meno di rispondere a tono. «Potevi rimanertene a Novolazarevskaja, nessuno ti ha costretto.» Non voleva darlo a vedere, ma quel continuo e inutile ciarlare cominciava a
darle sui nervi. Amava godere del silenzio glaciale di quella missione, di quei lunghi momenti di quiete in cui ogni molecola del suo corpo poteva concentrarsi soltanto su un preciso e ripetitivo obiettivo segnato dai suoi monitor, quel tempo scandito solo dal rollio della nave che la aiutava a sentirsi in pace col mondo. La noia, in fondo, per lei era un toccasana. Non sentiva il bisogno di condividere il silenzio con nessuno, tanto meno con quell’imbarazzante compagno di lavoro. «In quel ricovero di mummie e pinguini? E magari lasciarti tutta la gloria di scoprire qualcosa su questo buco di culo antartico? No, seriamente, da’ retta a me, gioca pure con quell’arnese quanto vuoi, ma oltre a qualche pesce e inutili fondali marini, troverai ben poco.» «Siamo qui per questo, se non te ne fossi reso conto.» «Naaa, tu sei qui per questo, cara la mia guardona. Come ci si sente a spiare i calamari? O magari preferisci i crostacei o che ne so io, avrai le tue perversioni in fatto di molluschi o di fottuto krill del cazzo. Ora che ci penso, non so neanche se qualcosa possa sopravvivere là sotto.» Anatoliy si stirò, facendo scricchiolare la sedia. «No, io sono qui per i crediti e, finito questo periodo di galera glaciale, ho dei piani ben più interessanti.» «Sarebbero?» Anna rispose più per un automatismo che per vero interesse. Si chiese se, magari, dando un po’ di spago ad Anatoliy, avrebbe posto fine a quella continua invadenza. Teneva ancora la mano stretta sul mouse, gli occhi intenti a visionare i dati trasmessi dell’AUV, il Veicolo Autonomo Sottomarino che, con estrema lentezza ed efficacia, stava mappando il fondale marino a circa un miglio nautico dalla costa. Una delle tante missioni partite dalla stazione artica di Novolazarevskaja, nella terra della regina Maud. «C’è un localetto vicino Rostov, sai, uno di quelli con le ragazze mezze… sì, insomma, hai capito di che parlo. Ecco, lì lo sanno apprezzare per davvero un chimico con le palle. Ma non si può far smettere questo rollio del cazzo? Ma che stanno facendo in plancia?» Anatoliy si sporse indietro con la testa, le mani ancora incrociate sulla nuca. Il ventre gonfio fuoriuscì dalla felpa dei New York Yankees, mettendo in mostra il grosso ombelico, come un enorme Maelstrom in un oceano di adipe. «Ehi lassù, lo vogliamo tenere questo timone? Stiamo cercando di lavorare se non ve ne foste accorti.» La voce si era fatta quasi stridula, a sottolineare la
seccatura e darsi una parvenza di dignità agli occhi di Anna. «Ecco fatto, cosa stavo dicendo?» Anna scosse le spalle, alzando allo stesso tempo il labbro inferiore. «Ok, ok, non hai voglia di chiacchiere. Tornatene pure ai tuoi dati.» Anatoliy si alzò, spingendo a fatica con i grossi avambracci sui braccioli della sedia. «Noiosa» aggiunse sottovoce, salvo poi tirare uno sguardo contrito alle sue spalle. Il tempo trascorreva lento a bordo della Nadezhda. Troppo lento per Anatoliy. La regolare verifica della salinità marina era alienante quanto noiosa. Fu più o meno in quel momento che sentì il suono. L’idrofono dell’AUV stava trasmettendo un segnale audio. Anatoliy si spostò verso la consolle, dove Anna, che aveva sentito quel rumore prima di lui, stava già aprendo la schermata relativa all’audio del veicolo sottomarino. «Lo sapevo!» disse lui con un sorriso stampato sul grosso faccione. «Lo sapevo!» «Cosa?» chiese lei aggrottando le sopracciglia. «Metallica! Ai calamari piace il fottuto heavy metal» e prese a mimare un assolo di chitarra. Lei emise un lungo soffio d’aria, arricciando le labbra. Alzò il volume dell’idrofono del veicolo sottomarino e rimase in ascolto. «O forse sono i Megadeth…» «Vuoi piantarla?» Questa volta, lo sguardo di Anna non ammetteva repliche e Anatoliy non obiettò. Il diagramma audio rimase costante per alcuni interminabili secondi, poi uno scroscio confuso li fece saltare entrambi sul posto. «Vuoi abbassare quel coso? Per poco ci rimanevo secco!»
«L’hai sentito?» «Certo, non sono mica sordo. L’avranno sentito fino a Novolazarevskaja.» «E?» «E cosa?» «Che ne pensi?» Anna stava per perdere la pazienza. «Pesci» disse Anatoliy in un sospiro. «Pesci?» rispose lei con tono smarrito. Lui indicò lo scandaglio: una macchia luminosa, di un verde brillante, era appena apparsa nel monitor. «Banchi di pesce. Hai presente? Pesce... quella cosa viscida e puzzolente che nuota nell’acqua.» «Sì, lo so cos’è un pesce.» «Cos’altro dovrebbe esserci là sotto?» chiese Anatoly, tirandosi il maglione sotto la cinta. «Siamo nel fottuto sud del mondo, a due i dal buco del culo di Satana in persona. Sarei già grato se ci fosse ancora qualche forma di vita oltre a noi.» Anatoliy si voltò verso Anna che stava scuotendo la testa senza togliere gli occhi dal monitor. «Che c’è? Non ti piace più il pesce? Preferisci i calamari? Probabilmente stanno cercando un contatto. Ecco, mi sembra di sentirli. Annaaaaa. Li senti? Annaaaaa…» «Sta’ zitto» disse lei secca. «Dai davvero, mi fai spaventare. Perché sei così seria?» Anatoliy ritirò su lo schienale con la destra, mentre la sinistra non smetteva di allungare la felpa. Anna cambiò schermata, girando il monitor verso di lui. La mappatura del fondale procedeva al o del veicolo AUV che scansionava un’area ampia circa venti metri, avanzando lento in direzione est. I colori sul monitor mostravano le diverse profondità del fondale, ando da un blu scuro per le aree più profonde, a colori più caldi per i rilievi. Nel centro del monitor, proprio
dove l’AUV stava transitando in quel momento, a circa cinquantacinque metri di profondità, una sagoma lunga e affusolata iniziava a delinearsi. «Porcaccia merda!» esclamò Anatoliy. Incollò gli occhi al monitor che Anna non smetteva di fissare. Sullo schermo, il lento procedere del veicolo subacqueo rivelava nuovi particolari del fondale marino, qualcosa di inaspettato, qualcosa che finalmente tolse ad Anatoliy la voglia di scherzare. «Che cos’è quel coso?» «Mentirei se ti dicessi che lo so.» Le mani di Anna erano sollevate dalla tastiera e dal mouse. Osservava i nuovi dati che via via venivano elaborati, incapace di fare altro, ando mentalmente in rassegna tutte le possibilità di comprendere cosa si stavano trovando di fronte. I suoi occhi vibravano eccitati sotto la frangetta scura. «Sembra… la prua di una nave. Forse un relitto.» A quel punto il volto di Anatoliy s’illuminò. «Per la vergine di Kazan, Anna! Sapevo che non dovevo lasciarti sola, baby!» Il suono distorto e metallico, proveniente dalle profondità marine, tornò a farsi sentire. Stavolta più lungo. Poi s’interruppe di nuovo. «Dobbiamo chiamare Novolazarevskaja via radio.» Anna parlava sottovoce, come se in quella stanza ci fosse solo lei. Man mano che la mappatura continuava, la forma affusolata del relitto si mostrava in tutta la sua magnificenza.
Capitolo 1
Fuori pioveva. Una di quelle piogge grigie e tediose, capaci di continuare per ore senza l’aspettativa di una tregua. Un po’ come la guerra, si disse Josef. Era rimasto lì, a fissare le gocce scivolare sul vetro della finestra del terzo piano dell’hotel Atlantic, lasciando che i suoi pensieri vagassero quieti. Il panorama, attraverso la fitta cortina di pioggia, era meno edificante rispetto alle belle giornate di sole di cui Amburgo aveva goduto in quei giorni. Osservando attentamente si potevano intravedere le grandi ville che circondavano il lago Alster, vanto della città insieme al fiume Elba. Josef si era spesso ritrovato, dopo un ricevimento organizzato in suo onore, a eggiare per i viali alberati del lungolago. Era il luogo ideale dove riposare la mente e are qualche ora lontano da quei bell’imbusti dell’OKW o, peggio, da quei delatori del seguito del Führer. L’OKW, l’Alto Comando Supremo delle Forze Armate, era diventato la sua famiglia; un’adozione forzata che gli aveva cambiato la vita, soffocando i suoi sogni e i suoi ideali per troppo tempo. Josef aguzzò lo sguardo nel tentativo di penetrare il grigio muro liquido, ma le gocce sul vetro gli impedivano la vista, travisando le più elementari forme geometriche. Fu tentato di spalancare la finestra, aveva bisogno d’aria, forse persino di essere annaffiato da una raffica di quel liquido freddo. Il ricordo dei giorni in alto mare si ripresentò forte e doloroso nei suoi pensieri. Si era da sempre ritenuto un marinaio, ben lontano dalla vita cui era costretto nelle lunghe giornate di quel novembre del 1942. Millenovecentoquarantadue, un anno che avrebbe ricordato per sempre. L’efficiente propaganda nazista gli aveva messo gli occhi addosso fin da subito, sin dal momento in cui, sporco e maleodorante, con la barba di sei settimane, aveva fatto ritorno al porto di Saint-Nazaire con un ricco bottino. Il suo U-56 aveva affondato, al largo dell’Islanda, la corazzata Resolution, classe Renown e, con essa, metà del suo equipaggio. Werwolf, l’uomo lupo, così lo chiamavano per via di quella barba incolta. Non
aveva ancora messo piede sulla erella che già quel nome gli si era appiccicato addosso come miele, mentre gli uomini di Goebbels gli stringevano la mano scortandolo in una lussuosa limousine. Da quel momento, Josef Lüth aveva potuto provare sulla sua pelle quanto fosse irritante e sgradevole stare al centro delle attenzioni del Ministero della Propaganda e dei suoi lacchè. Il ricordo di quei giorni gli fece storcere la bocca. Le dita si strinsero sulla maniglia dell’ampia finestra. Il freddo metallo lo richiamò alla realtà: si voltò e vide la camera da letto. Fastosa e imponente, con la scrivania di legno scuro che ne dominava lo spazio. Tra libri e chincaglierie, ancora in bella vista le pagine imbrattate d’inchiostro del discorso che avrebbe dovuto tenere l’indomani all’acciaieria Krupp: tirare su il morale degli operai era di vitale importanza, dicevano, e Josef continuava a chiedersi il senso di quelle parole scritte e imparate a memoria. Il suo sguardo corse rapido al mobile con lo specchio ovale, dal quale gli giunse il riflesso del letto ancora disfatto e del corpo nudo che vi giaceva immobile. Osservò quei riccioli biondi che sfuggivano come oro liquido all’abbraccio del lenzuolo e s’incupì. La bocca si piegò in una smorfia disgustata. Odiava tutto questo e ancor di più odiava se stesso per essersi sottomesso a quello stile di vita così in antitesi con tutto ciò che era stata la sua esistenza prima di quel novembre. Percepì sulle labbra il sapore della salsedine, ben sapendo che il mare era troppo lontano oltre quella finestra per poterne godere. Distolse lo sguardo dalla bionda sconosciuta e tornò al panorama buio e uggioso, dove certe sporadiche luci di auto in movimento tracciavano curiosi riflessi bianchi sul vetro bagnato. La furiosa voce del mare gli impediva di smettere di ragionare sul fatto che quella donna, come altre forse prima di lei, era finita nel suo letto trovando estremamente eccitante la facilità con cui Josef aveva condannato a morte decine di marinai inglesi, quella perversa linea di potere scandita dalle semplici parole di un ordine. Josef aveva imparato velocemente che quei racconti di guerra e odio, talvolta, erano più convincenti di un invito galante o di certe parole sussurrate che neanche ricordava più. Ingoiò un moto di rabbia e preferì distogliere i pensieri da quella donna che, quasi avesse percepito le sue emozioni e avvertito le sue occhiate, cominciava a muoversi nel letto. Fu in quel momento che udì dei rumori provenire dalla strada. Due Mercedes
W142 avevano appena svoltato dal Lombardsbrüke verso il lungolago per fermarsi all’incrocio con la Holzdamm. Dal momento in cui le vide, con quelle linee tondeggianti, capì che non si trattava di auto comuni. I dubbi si dissiparono quando ne uscirono quattro individui chiusi in pesanti cappotti scuri. Nell’esatto istante in cui salirono la scalinata dell’hotel, Josef seppe che erano lì per lui. Senza scomporsi, attento a non svegliare quella compagna di una notte, s’infilò i pantaloni dell’uniforme blu di Marina e sistemò i lembi della camicia sotto la cintola. Quando dovette chiudere la cinta, ebbe l’impressione che le mani gli tremassero, tuttavia si sentiva calmo. Inghiottì quel sapore amaro che gli era salito alla bocca e cercò di ignorare quella sensazione. Infilò la giacca, dove i tre galloni dorati facevano bella mostra sulle maniche, poi sistemò con eccessiva cura la Croce di Ferro al collo. Afferrò il cappello bianco dalla scrivania e si soffermò a rimirare l’immagine riflessa nello specchio ovale. Solo un leggero alone scuro, sotto gli occhi azzurri, tradiva il ricordo di quella notte ata in bianco. Socchiuse gli occhi, quasi a voler sfidare quel volto così familiare che lo fissava dall’altra parte: un perfetto Kapitanleutnant della Kriegsmarine, la Marina da guerra tedesca. Troppo perfetto per i suoi standard. Tre colpi secchi alla porta. Josef non li fece attendere a lungo, anche se tutto il suo essere gridava di temporeggiare, di dare la possibilità a quelle canaglie della SD, il servizio di sicurezza delle SS, di valutare la possibilità di un ripensamento. Infine calzò il berretto floscio da capitano e aprì. «Desiderano?» chiese Josef con tono pacato. La dissimulata calma di un uomo qualunque, piuttosto che l’ambiziosa alterigia di un capitano di sommergibile. La donna decise che quel baccano era troppo. «Che succede, tesoro?» disse con voce squillante. L’uomo in nero si piegò su se stesso quel tanto che bastava per scrutare l’interno della stanza. «Perdoni l’intrusione, signora» disse alzando il cappello civile. «Il Kapitanleutnant Josef Lüth, suppongo.» Piegò il capo in un cenno d’assenso.
«Molto bene, signore. Se potesse seguirci, saremmo lieti di accompagnarla.» Fece strada con la mano indicando il lungo corridoio del terzo piano. Josef rimase dov’era. «Il motivo di questa improvvisata in piena notte?» L’uomo alzò le spalle. «Non ne so molto, capitano. Sono solo un postino, se mi a il paragone. Arrivo, prelevo, consegno. Il resto non è affar mio.» «Destinazione?» insistette Josef, non disposto a cedere facilmente. Non aveva mai sopportato la spocchia degli uomini del Sicherheitsdienst, così come non sopportava i loro diretti cugini della Gestapo. Tanti Siegh Heil e poco altro. «Oh, questo posso rivelarglielo. L’Alto Comando della Flotta desidera vederla in privato. Temo che dovrà disdire il suo intervento di domani, Herr Lüth.» Con un tremolio impercettibile, le spalle di Josef si rilassarono un poco. L’Alto Comando. Se l’ammiraglio Donitz voleva incontrarlo in privato, non aveva nulla da temere. Non era certo la prima volta e non sarebbe stata l’ultima, si disse. «Non vorrai lasciarmi così!» disse piccata la donna, mentre tentava di coprirsi il corpo nudo con il lenzuolo. «Permettete, signori?» chiese Josef. Fece pochi rapidi i nella camera, estrasse due banconote da venti marchi e le lanciò sul letto. Senza indugiare oltre, afferrò il cappotto dalla sedia e uscì dalla stanza, scortato dai tre uomini.
*
Due ore dopo le Mercedes nere percorrevano la via che, dalla stazione ferroviaria dell’arsenale di Kiel, giungeva alle palazzine del Comando dei Sommergibili. Con una leggera frenata, le auto si fermarono una davanti l’altra, proprio di fronte all’ingresso della palazzina A. L’uomo al volante scese per primo e, facendo il giro sul lato posteriore dell’auto, si affrettò ad aprire lo sportello di Josef. Ora che si trovavano nel regno della Kriegsmarine il loro atteggiamento
sembrava quasi cambiato. Per tutto il viaggio i due uomini si erano limitati a poche chiacchiere, tenendolo fuori persino da quelle. Probabilmente, mantenere un certo distacco con i loro ospiti, se tali si potevano considerare i clienti delle SD, era alla base del loro protocollo di comportamento. Josef Lüth si calzò con cura il berretto prima di scendere. Quello che doveva essere il loro capo si limitò a un inchino appena accennato di commiato. Josef salutò senza entusiasmo e mise quanta più strada possibile tra lui e quegli individui. Gli uomini di guardia all’ingresso, difeso da una postazione di sacchi di sabbia dietro la quale spiccava una mitragliatrice MG-42, si misero sull’attenti e, dopo aver esaminato i suoi documenti ed essersi scambiati occhiate di assenso, lo fecero are. Non appena ebbe varcato la soglia del comando, un guardiamarina lo accolse con un caloroso saluto, un largo sorriso stampato sul volto e una poderosa stretta di mano. Quel gesto gli ricordò che, in fin dei conti, in quel luogo era ancora una celebrità. Una croce di ferro di prima classe non si regalava al primo sprovveduto e gli alti gradi della Marina, tra tutte le forze armate, erano i più restii a promuovere i loro sottoposti se non per meriti reali. Meriti in cui Josef indubbiamente eccelleva. Josef si mise due i dietro il ragazzetto dall’uniforme impeccabile e si lasciò condurre attraverso una serie di corridoi dalle pareti verniciate di fresco sino ad una stanza dalle ampie finestre che davano sull’arsenale. Un anziano capitano era intento a firmare dei fascicoli che depose in una fila ordinata su un lato della scrivania non appena lo vide. L’ufficiale lo osservò da sotto gli spessi occhiali, controllò i suoi documenti e, senza aggiungere altro, si alzò dalla scrivania facendogli strada. Bussò vigorosamente a una porta laccata di bianco. «Signore, il kapitänleutnant Lüth è qui.» «Lo faccia entrare» sentenziò una voce che Josef riconobbe subito. Il capitano si fece da parte e lo lasciò are.
Josef si sfilò il berretto mettendolo sotto l’ascella ed entrò nella stanza. Donitz era alla sua scrivania. Un disordine familiare regnava sul tavolo di mogano, l’abituale mole di lavoro giornaliera del Comando Supremo dei Sommergibilisti: faldoni aperti, carte topografiche arrotolate in disordine, fogli di ogni genere e due tazzine di caffè ormai vuote. L’Ammiraglio, dietro quella confusa massa di scartoffie, sembrava quasi parte della scrivania. Profonde occhiaie comprovavano le numerose notti insonni a cui doveva essere stato costretto. Tuttavia, quell’uomo dall’aspetto così comune, magro, di media altezza e dai piccoli occhi espressivi, possedeva una personalità talmente dominante da intimidire chiunque all’interno della Kriegsmarine. Non a caso era arrivato a ricoprire quel ruolo pur non essendo un asso nella difficile arte di governare un sommergibile: era in grado di sprigionare una fiducia indiscussa in chiunque e questa, senza ombra di dubbio, spiccava tra le capacità essenziali per un comandante. Josef si mise sugli attenti, cercando il suo saluto migliore. Petto in fuori, testa leggermente reclinata all’indietro e un sonoro sbattere di tacchi. Tentennò solo quando, alzato il braccio nel rituale saluto nazista, fu tentato di soprassedere per un ben più idoneo saluto alla visiera. Era cosa tollerata in Marina il non badare troppo alle apparenze, soprattutto quando queste riguardavano il partito nazista e i suoi riti. La tolleranza, che gli alti gradi della Marina concedevano ai loro sottoposti, in altre unità dell’esercito era talmente inesistente da punire gravemente qualsiasi insolente distacco dalle formalità militari. Sul volto di Donitz si aprì un caloroso sorriso quando vide Josef rigido sull’ingresso. «Comodo, Lüth» disse aggirando faldoni e carteggi e portandosi a un o da lui. Gli porse la mano, senza mai smettere di mostrare quel sorriso gentile. Josef gliela strinse e la tensione sparì. Quegli occhi avevano tutto il calore, quasi paterno, di cui un uomo aveva bisogno per scegliere di sacrificare la sua vita per un ideale, per la propria patria, per il proprio comandante. «Prima di tutto voglio congratularmi con lei per la sua eccellente impresa. Era dai tempi felici di Scapa Flow che non mettevamo in cassaforte una vittoria così. Immagino che in questo momento Prien si stia rodendo il fegato» l’ammiraglio s’interruppe solo per lasciarsi andare a una pacata risata. «Un po’ di sana
competizione tra voi Assi non farà certo male alla Marina. Perbacco, Lüth, che colpo, voglio che mi racconti tutto per filo e per segno! Una corazzata inglese non è cosa che possa essere liquidata con poche parole, si sieda, prego.» Josef si accomodò su una delle due sedie di fronte alla scrivania. Cercò di mostrarsi rasserenato, cosa che non gli riuscì molto difficile. La presenza di quell’uomo lo metteva di buon umore. «A proposito, fatto buon viaggio?» disse Donitz senza nascondere un ghigno ironico e un velato riferimento alla scorta delle SD. «Ottimo, direi. Non posso dire altrettanto della compagnia.» «Voglio che sappia che non è stata una mia idea. Diciamo solo che qualcuno» l’indice della mano destra puntò verso l’alto, «ha predisposto questo trattamento, come dire… inconsueto. Converrà con me, dopo aver ascoltato quanto ho da dirle, che i modi possono trovare una parvenza di giustificazione.» «Sono qui per questo, signore.» «Aspetti, Lüth.» Con uno scatto, Donitz si alzò in piedi. Aprì un cassetto e ne estrasse un cofanetto di metallo che pose sulla scrivania davanti a Josef. «Perdoni la mia scortesia, ne prenda, non faccia complimenti.» Josef sorrise affabilmente e prese un sigaro. Dopo averlo annusato lo infilò nel taschino dell’uniforme. «Dispiace se lo tengo per i prossimi festeggiamenti?» Donitz alzò le sopracciglia, quasi volesse mostrare un’espressione incredula. «Eccoli i miei capitani. Spavaldi e ottimisti!» Gli diede una pacca sulla spalla e si rimise seduto dietro la scrivania. Il racconto degli eventi che portarono all’affondamento della Resolution andò avanti per qualche minuto. Alla fine, Donitz sembrò più che soddisfatto di quanto aveva sentito e si lasciò andare contro lo schienale della sedia. «Sa bene quanto consideri importante il vostro operato, Lüth. I nostri sommergibili sono l’arma più efficace in questa guerra. Non dia ascolto ai
vaniloqui di Göring e della sua Luftwaffe, solo noi sappiamo la verità su quale sarà il mezzo più veloce che porterà la Germania fuori da questo conflitto, non è vero?» Josef annuì, sapendo benissimo dove l’ammiraglio voleva andare a parare. Era cosa risaputa che Donitz fosse fermamente convinto che l’unico modo per vincere la guerra fosse quello di implementare la flotta sottomarina, l’unica in grado di bloccare lo strapotere navale degli Alleati. Considerava il sommergibile l’arma più efficace contro i convogli che rifornivano di materie prime e armi l’odiata Inghilterra e, di sicuro, non sbagliava. Donitz colpì con un pugno un mucchio di carteggi. «Per questo motivo odio privarmi di uno dei miei comandanti migliori.» Josef trasalì, cogliendo tutta la preoccupazione in quelle parole che non promettevano nulla di buono. «Sto per chiederle un grosso sacrificio, Lüth…» «Sono qui per questo, ammiraglio.» Donitz interruppe quel filo che li univa, staccando gli occhi dai suoi. Si alzò con slancio e andò a un mobile di mogano sopra il quale regnava un quadro a olio raffigurante un veliero tra le onde. Lo tolse senza troppi complimenti, mettendo in mostra una cassaforte a muro. L’aprì e prese dal fondo una busta gialla sigillata. Se la rigirò tra le mani, la soppesò e la ò a Josef. «Questi sono i suoi ordini personali, Lüth. Li aprirà solo quando le verrà comunicato e comunque quando sarà lontano da qui.» Josef annuì. Attese un istante, sperando in qualche altra parola di spiegazione, ma quando capì che non c’era altro, non poté trattenersi. «Di cosa si tratta, ammiraglio?» «Una diavoleria del Reich. I sommergibili sono fatti per la guerra a mio ben vedere, a ogni modo, qualche sicofante agli ordini di Himmler ritiene che possano essere usati anche come taxi. Non mi guardi a quel modo, Lüth! Non è certo una mia idea, le pare? Fosse per me ora sarebbe nell’Atlantico a braccare i
convogli inglesi, non certo a fare il postino per il Führer.» Josef cercò di celare quel senso di apprensione che gli stava attanagliando lo stomaco ormai da qualche minuto. Avrebbe voluto mostrarsi imibile, ma sapeva che l’occhio esperto dell’ammiraglio era in grado di cogliere quella malcelata tensione, frutto dell’inaspettata svolta che la loro conversazione aveva preso. Una tale sceneggiata, che aveva visto coinvolte persino le SD, non poteva ridursi a un semplice servizio di scorta. Liquidò la tentazione di stringere la Croce di Ferro che faceva bella mostra di sé intorno al colletto dell’uniforme quasi fosse un talismano protettivo. Quello era il segno del suo valore, un pezzo di metallo che aveva tutta la potenza simbolica per esonerarlo da qualsiasi compito che non fosse quello di riprendere il mare con il suo U-56 e dimostrarsi degno di tale onore a suon di siluri. «Chiedo il permesso di poter parlare con tutta franchezza, signore» disse infine, incapace di trattenersi. Strinse i pugni, mantenendo le mani in mezzo alle gambe, al riparo della vista dell’ammiraglio. A Donitz non piacevano i capitani con scarsa capacità di autocontrollo. «Non ce ne sarà bisogno, Lüth. So benissimo dove andrà a parare. Crede forse che i suoi pensieri non siano anche i miei?» «No, signore.» Non era saggio giocare con la pazienza dei superiori, soprattutto quando si aveva di fronte il comandante della Flotta Sottomarina. «Mi è stato chiesto di fare il nome di uno dei migliori ufficiali a mia disposizione e io non ho fatto altro che eseguire un ordine, esattamente come farà lei.» «Signorsì» disse Josef, reclinando in avanti il capo in un inchino appena accennato. «Bene.» L’ammiraglio si alzò in piedi e aggirò la scrivania, porgendogli la mano. Josef si alzò e gliela strinse a sua volta con vigore. Si fissarono lungamente negli occhi, ciascuno cercando di trasmettere all’altro tutta la stima e la fermezza delle proprie intenzioni. «Anche se per il momento è all’oscuro di tutto, penso sia inutile ricordarle che il Führer ripone in lei la massima fiducia e che la segretezza di questa missione è a
livelli prioritari. Tutti a bordo, dagli ufficiali ai comuni, saranno all’oscuro dello scopo della sua missione e soggetti alle prescrizioni sulla normativa di sicurezza. Nessuno avrà il permesso di divulgare giorno e ora della partenza ad amici o parenti. Nessuno!» «Provvederò a tal fine, signore.» «In bocca al lupo, Lüth.» «Grazie, Herr iral.» Josef s’impettì e portò la mano alla visiera. Questa volta trascurò il saluto nazista. Fece un rapido dietrofront e s’incamminò nella stanza dove il vecchio capitano stava sbattendo una pila di fogli sul tavolino per sistemarli in buon ordine. Prese il cappotto da un attaccapanni alla parete e, dopo un breve saluto, sparì nel corridoio. Non appena fu sulla scalinata, fuori dalla palazzina, si concesse una lunga boccata d’aria. Finalmente i polmoni ripresero il loro normale ritmo e le mani il loro colore. Ripose la busta con gli ordini per la missione sotto il cappotto all’altezza del cuore, tenendola stretta con la destra. A pochi metri dalla scalinata, le due Mercedes delle SD erano ancora parcheggiate, in attesa. I quattro uomini aprirono contemporaneamente gli sportelli, aspettando. Josef si calzò meglio che poté il cappello e s’incamminò verso l’auto con lo sportello posteriore spalancato. Scambiò un cenno d’intesa con il capo scorta e salì a bordo, lasciando che quello glielo richiudesse.
Capitolo 2
La vecchia Opel Kadett di colore rosso percorreva a o lento il viale alberato. Il paesaggio della Renania settentrionale si mostrava avaro di distrazioni e la fitta nebbia non dava cenno di volersi dissipare. Un novembre come tanti altri prima di quello, dove la neve, caduta copiosa per tutta la notte, aveva ricoperto strade e campi col suo soffice tappeto bianco. L’auto sbandò appena quando le gomme slittarono su una lastra di ghiaccio. Eno non vi badò più del necessario. Quella carriola l’aveva abituato già da tempo a certe scarse prestazioni sulle fredde strade della Vestfalia; si concentrò sul panorama in attesa di giungere nei pressi di Buren. Sulla vasta pianura si allungavano le ombre imperfette delle nubi, segno inequivocabile di un acquazzone imminente. La strada si sarebbe ben presto trasformata in un pantano inaccessibile per la Kadett ed Eno si trovò a pregare in silenzio che il suo autista fosse preparato a quell’evenienza. Si concentrò sul lento mutare del paesaggio che scorreva dal finestrino. Per pochi istanti ancora avrebbe goduto di quei momenti di rara bellezza che poteva intravedere tra gli spicchi di cielo e le cime innevate. Non appena imboccarono il viale che dalla pianura conduceva al castello di Wewelsburg, l’auto rallentò, fermandosi nello spiazzo antistante al ponte che conduceva all’interno dell’imponente edificio di pietra. Eno ne rimase da subito catturato. Conosceva bene la storia di quel luogo e, ancora meglio, la sua architettura. Si diceva sorgesse dove un tempo si estendeva la foresta di Teutoburgo, luogo della mitica battaglia in cui le tribù germaniche avevano sconfitto le legioni romane di Varo. Ovviamente si trattava solo di supposizioni, ma Eno sapeva bene che per Himmler, che aveva acquistato il castello otto anni prima, quelle pietre possedevano un enorme potere mistico, al punto da convincerlo a trasformare
quelle mura seicentesche nel centro di culto segreto di un misterioso ordine. La dolcezza del paesaggio innevato della Vestfalia ora si trasformava in una imponente opera dell’ingegno umano, ma Eno ne era altrettanto rapito. Il suo interesse per la storia superava di gran lunga l’ammirazione per il creato, sebbene non potesse prescindere, nei suoi studi, dall’apprezzare la potenza del sovrannaturale in ogni singolo geroglifico e runa che aveva decifrato. Come ogni studioso, anch’egli conservava una buona parte di superstizione che lo aveva spinto ad approfondire certi aspetti inquietanti di quell’ordine segreto. Scese dall’auto e le fitte alla schiena gli ricordarono che non era più in grado di sopportare lunghe permanenze in un abitacolo stretto e angusto. Sollevando lo sguardo non poté far a meno di ammirare la magnificenza di quel luogo. Complice il cielo che sembrava voler onorare l’aura di misticismo di Wewelsburg, quella struttura di solida pietra sembrava trasudare un oscuro potere. Il castello era orientato a nord e la sua atipica forma a freccia aveva colpito l’immaginazione di Himmler al punto da convincerlo che quello fosse l’indicatore della terra di Thule, l’Eden ariano. Quando il terzo Reich avrebbe finalmente governato sulla terra, il castello di Wewelsburg sarebbe divenuto il centro del mondo. Farneticazioni di un folle, avrebbe detto chiunque, ma Eno era un archeologo ed era tenuto a dar credito a qualsiasi leggenda, racconto mitologico o persino favola. Proprio quella sua ossessione per le leggende lo aveva spinto in terra ellenica alla ricerca di manufatti ormai perduti nel mito. Il ricordo di quei giorni sembrava più vivido ora, di fronte a quell’incredibile castello. Come se le sue mura potessero svelare l’intricato labirinto di ipotesi che lo aveva condotto da una parte all’altra dell’Europa, toccando lidi apparentemente distanti, ma parte unica di un labirinto di leggende ove il Reich affondava le motivazioni o, meglio, giustificazioni di una potenza che trascendeva l’umana realtà. Eno era tornato da quel lungo viaggio riportando qualcosa di ben più concreto che una semplice favola per bambini. L’autista della Kadett gli si fece accanto e lo condusse senza tante cerimonie all’interno della struttura. Un attendente gli venne incontro e, dando il cambio all’uomo scorbutico con cui aveva condiviso il viaggio, lo precedette verso il
cortile triangolare. «Buonasera, Herr Sartori.» Pronunciò il nome con un forte accento tedesco che a Eno suonò alquanto ridicolo. Era una lingua dura, non proprio adatta alla musicalità dei nomi italiani a cui era abituato, così ricchi di vocali. «Buonasera». Eno si trascinò dietro una valigia che l’autista aveva provveduto a consegnargli, prima di sparire dall’arco dell’ingresso. «Lasci a me, prego» disse il giovane prendendo il bagaglio. Eno non rifiutò e si lasciò condurre attraverso una stanza al piano terra e da lì in un’altra che era stata riservata apposta per lui. «Per qualsiasi necessità sono al suo servizio, Herr Sartori.» Ringraziò, indeciso su quale atteggiamento tenere con quel ragazzo. I militari avevano strane abitudini, a suo avviso, e non lo facevano sentire a proprio agio; difficile stabilire come comportarsi in loro presenza, probabilmente non si sarebbe mai abituato ai toni di formalità e reverenza che mostravano nei suoi confronti. Si limitò a un cenno di saluto e finse di dedicarsi al suo bagaglio, lasciando che il giovane uscisse dalla stanza. Non appena l’attendente si chiuse la porta alle spalle, si avvicinò alla finestra, una di quelle esterne che dava sulla pianura sottostante, a pochi i dalla torre nord. Da lì poteva godere di un panorama decisamente affascinante. La piana era punteggiata, fino a dove l’occhio potesse spaziare, dalle cime innevate degli abeti. Da quella cortina candida s’innalzavano sporadiche volute di fumo grigio lì dove un tetto ricoperto di neve spuntava tra la vegetazione. La dolcezza del paesaggio, che Eno ammirava oltre i vetri della finestra, contrastava del tutto con l’aspetto spartano della stanza che gli avevano assegnato. Di nuovo, la natura e il castello si contrapponevano, dando vita a un’immagine di forza e potenza che ben si confaceva ai dettami del Reich. Ogni forma era essenziale, di un ordine studiato per rendere l’ambiente privo di qualsivoglia distrazione, quasi si volesse spingere l’ospite ad assaporare meglio l’energia mistica che pareva aleggiare su ogni cosa. Un’energia oscura e potente. Le tende di lino nero, la pietra grezza e fredda e lo stesso mobilio in noce scuro
sembravano tutti parte di un locale studiato per irradiare la sensazione di sacro. Ovunque nella roccia, di cui erano fatte le pareti, rune incise rappresentavano gli antichi simboli appartenuti a civiltà ormai dimenticate. Non per i nazisti. Non per Himmler. Il riflesso del vetro gli mostrò la sagoma squadrata del letto. Si voltò, lanciandogli un’occhiata avida, ma si rese conto che lasciarsi andare alla stanchezza sarebbe stato inadeguato, soprattutto a così breve distanza dalla cena. Si allontanò dalla finestra, lasciando correre i pensieri, concentrando lo sguardo sulle punte delle scarpe mentre muoveva qualche o sulle lisce mattonelle di pietra. I ricordi tornarono al suo primo incontro con il Reichsführer Heinrich Himmler. In quell’occasione, solo un anno prima, era di ritorno da una delle sue numerose missioni di ricerca sul monte Elicone in Grecia. Il 1941 aveva rappresentato l’anno del riscatto per Eno Sartori, l’anno in cui quelle che gli altri chiamavano fantasticherie erano divenute certezze. Proprio durante una di quelle spedizioni aveva compreso quanto i tedeschi tenessero in gran conto le sue ricerche: lo avevano circuito finanziando i suoi viaggi, mai troppo palesemente ma sempre celati dietro al buon nome del SAIA, la Scuola Archeologica Italiana di Atene, l’ente che sovrintendeva alle ricerche archeologiche in territorio ellenico. Eno aveva beneficiato di quei fondi senza troppi convenevoli, ritenendo giustificato, in nome della scienza, l’aiuto finanziario persino di quegli aspiranti stregoni dei nazisti. Quello che non sapeva però, era che le sue ricerche e infine le sue scoperte sarebbero poi state reclamate dal Führer, proprio in nome di quei finanziamenti. Gli eventi si erano svolti troppo velocemente per dargli il tempo di riflettere sulle conseguenze di quei giorni. Si considerava solo un archeologo che aveva incassato un colpo di fortuna. Non poteva immaginare quanto lontana fosse quella sua supposizione dalla realtà ben poco dorata che gli si stava parando davanti. Aveva incontrato Himmler durante un convegno a Berlino. Ricordava bene quell’uomo magro, dai piccoli occhi furbi. Gli aveva da subito dato l’impressione di un uomo garbato e cortese, ma facile al disappunto se il discorso intrapreso non era di suo gradimento. Il numero due del Reich preferiva arrivare dritto al nocciolo della questione senza troppi preamboli o noiose perdite di tempo, un’abitudine che, tutto sommato, Eno poteva apprezzare. Non
amava le conversazioni troppo ampollose, i contatti umani troppo prolungati, a meno che non si trattasse di raccontare qualcosa che appartenesse ai suoi studi di storico e archeologo, quando l’enfasi e la ione prendevano il sopravvento sul suo carattere mite e a tratti schivo. Mai, durante i loro sporadici scambi colloquiali quella sera, aveva percepito la sensazione di suscitare qualche tipo di interesse in quell’uomo. Almeno finché non si era toccato l’argomento dei suoi studi in Grecia. Era stato proprio Himmler a sottrarlo alla compagnia dei suoi colleghi; tenendolo per un braccio lo aveva condotto verso un angolo riservato del salone. Dopo qualche breve convenevole, in cui aveva dimostrato un grosso interesse per i suoi studi, il Reichsführer aveva ripreso l’argomento Grecia e, in un istante, si era fatto serio e i suoi occhi si erano tramutati in calamite. Quello fu il solo incontro che ebbe con Himmler e, per quanto potesse sperare, si era augurato fosse anche l’ultimo. Evidentemente era lontano dall’aver ragione. Qualcuno bussò alla porta. «Herr Sartori, sono qui per accompagnarla.» Riconobbe la voce del giovane attendente e, senza troppa convinzione, aprì la porta. Il ragazzo era rigido, tanto da far sembrare che non avesse mai conosciuto la parola sorriso in vita sua. «Se ora vuole seguirmi. Avrà modo di riposare quanto prima.» Eno chiuse la porta della sua camera e si lasciò guidare dal giovane nel cortile, ammirando la torre nord illuminata da una serie di fiaccole posizionate ai due lati del portone d’ingresso. «Meravigliosa» disse, cercando un dialogo che rendesse meno imbarazzante quel silenzio. Ne aveva avuto abbastanza di crucchi musoni per quel giorno. «Quella, Herr Sartori, è la Obergruppenführersaal, la sala dei dodici. Vuole visitarla?» «Sì, ci terrei davvero.»
Il giovane, che Eno scoprì chiamarsi Reinard, lo introdusse in una grande sala circolare rivestita di pietra scura, nella quale Himmler aveva voluto una tavola rotonda in stile arturiano con dodici scranni: uno per ciascuno dei prescelti tra gli alti ufficiali delle SS. Tutto intorno alle pareti, dodici colonne reggevano la struttura e al suo centro, sul pavimento di marmo, una ruota solare con dodici bracci che formavano la runa Siegh: vittoria. Qui, ma ancor di più nella cripta, che avrebbero visitato poco dopo, si svolgevano le riunioni segrete e i riti esoterici con cui l’ordine del Sole Nero cercava di propiziare l’ascesa del Führer nella sua scalata al potere. Senza dargli il tempo di assaporare l’aurea mistica di quel luogo, Reinard lo condusse lungo una rampa di scale che portava nella cripta. Un’altra sala circolare, anch’essa con dodici colonne di granito e un soffitto adornato da una grande svastica. Al centro della sala era stato ricavato un pozzo di pietra dove, su un braciere di metallo, ardeva una fiamma di un colore atipico. Questa volta Eno rimase senza fiato. Non era preparato a ciò che vide. Non cercò neanche di chiedersi cosa bruciasse in quel fuoco, lo avvertì subito come qualcosa di non terreno, qualcosa che gli ricordava i fuochi fatui dei racconti. Ai piedi del braciere, su dodici piedistalli, erano state sistemate delle urne cinerarie, una per ciascuno di essi. L’attenzione di Eno fu catturata da quei singolari recipienti che gli diedero la sensazione che al loro interno vi fosse qualcosa di attivo. Sotto un’onda sonora, che tuttavia non riusciva a percepire, come se la frequenza fosse troppo bassa per l’udito umano, il metallo sembrava vibrare di vita propria. Un ronzio gli riempì le orecchie e la testa si fece leggera. Non seppe spiegarsi cosa gli stava capitando, quale manipolazione della realtà stesse subendo, ma ne fu totalmente rapito. Imprigionato in quella litania silenziosa, Eno sentì le gambe mancargli. « La terra dei morti. Fa questo effetto le prime volte.» Il ragazzo piegò le labbra all’insù e per la prima volta Eno lo vide sorridere. Si ancorò a quell’immagine per tornare cosciente e padrone di sé. «In quelle urne sono contenute le ceneri dei nostri soldati più valorosi. Li glorifichiamo in questo modo.» Il giovane alzò un bracco a indicare il braciere al centro della stanza. «Lì mettiamo i loro Totenkopfring, gli anelli a testa di morto. La fiamma li purificherà in modo tale da poter essere assegnati ad altri soldati degni, così che l’essenza del vecchio proprietario i in battaglia quello
nuovo.» «Tutto ciò è… stupefacente» biascicò Eno. Persino nelle sue spedizioni più temerarie sui monti della Grecia, o nelle sacre rovine di Festòs o Priniàs, non era giunto così in fretta a un tale livello di empatia con i miti ancestrali che ne governavano i luoghi. «Lo è!» disse secco Reinard. «Ora, Herr Sartori, la prego di seguirmi, il Reichsführer non gradisce attendere i suoi ospiti.» La sala dove venne servita la cena non si discostava per stile e arredamento da quelle che aveva avuto modo di osservare fino a quel momento. Un mobilio sobrio e dai toni scuri. Il colore ricorrente era il tricolore rosso, bianco e nero tanto caro al regime. Persino la tovaglia portava ricamata, ai quattro lati, in un sottilissimo filo scarlatto, la runa Siegh di cui il castello era tappezzato in ogni suo anfratto più segreto. Gli venne servito del Sauerbraten dal sapore molto deciso e un’insalata di crauti e mele, il tutto accompagnato dall’ottimo Eiswein della Renania. Contrariamente a quanto si era aspettato, consumò la cena in perfetta solitudine. Gli era stato fatto intendere che Himmler non amava cenare in compagnia, preferendo l’intimità del suo alloggio, ed Eno aveva trovato decisamente conforto in quella notizia. Non si sentiva pronto a intraprendere una discussione con quell’uomo, almeno non durante un pasto. Si augurò che l’ora ormai tarda dissuadesse il Reichsführer dal volerlo ricevere quella sera stessa. Le sue speranze furono disattese ancora una volta. Dopo quel pasto consumato in un’atmosfera surreale, nel silenzio della grande sala comune di Wewelsburg, il giovane attendente si presentò puntuale per accompagnarlo nel braccio ovest, dove gli alti ufficiali delle SS avevano i loro alloggi privati. Venne a conoscenza che a ciascuno dei dodici prescelti era riservata una stanza che, nelle intenzioni di Himmler, si prefiggeva lo scopo di commemorare alcuni degli eroi della mitologia tedesca: da Enrico XII detto il Leone, a Re Artù, da Widukind a Svipdagr. La scelta di Himmler era caduta inequivocabilmente su Enrico I di Sassonia, detto l’Uccellatore, colui che aveva gettato le fondamenta del Sacro Romano Impero e di cui le dicerie volevano che Himmler si sentisse la reincarnazione. Ciascuna stanza disponeva di una piccola biblioteca con resoconti dettagliati sulla vita dell’eroe, dipinti e rune dedicate in suo onore. Un piccolo museo nel museo, si disse Eno. Un vezzo che, tuttavia, nascondeva un significato ben più
oscuro e tenebroso. L’attendente bussò alla porta e una voce, a suo modo stridula, rispose un secco: « Kommen Sie». Ci siamo, si disse Eno per farsi coraggio. Non sapeva bene cosa aspettarsi da quell’incontro. Gli era stata notificata solo la volontà del braccio destro del Führer di avere un colloquio in privato. Richiesta alla quale non aveva potuto tirarsi indietro. «Prego, caro Sartori, si accomodi qui accanto a me.» La voce dell’uomo, ora che non c’era più il pesante schermo di legno a fare da filtro, gli parve meno stridula di quanto avesse considerato. Il tono era pacato e gioviale. Eno preferì non indugiare ed entrò nella stanza. Un fuoco scoppiettante ardeva in un camino a parete, conferendo con i suoi toni rossastri un aspetto rassicurante all’ambiente. Come Eno ebbe a constatare, anche quella stanza era in perfetta sintonia con il resto del castello. Persino Himmler, seduto accanto al fuoco su una poltrona foderata di pelle nera, sembrava un’inquietante bambola di porcellana che, tuttavia, non stonava nella completezza dell’insieme. Magro, reso ancor più emaciato dalle luci fulgide delle braci ardenti, se ne stava immobile con una gamba accavallata sull’altra. In mano reggeva un bicchiere pieno per due dita di liquido ambrato. Appena un cenno, per indicare la poltrona davanti alla sua, diede a Eno la certezza che non si trattava di un manichino o di una di quelle statue di cera che si potevano ammirare nei musei londinesi. Eno si accomodò, sprofondando nella pelle nera. «Gradisce un brandy?» chiese Himmler, agitando il suo bicchiere, rimirando senza troppo interesse i cerchi che il liquido lasciava sul vetro. «No, grazie, non bevo alcolici prima di andare a letto.» «Certo, certo. Dovrei smettere anche io, sa? Ma le gioie della vita sono così fugaci. Ora ci siamo, ma domani…» Un sottinteso del genere, in bocca a un personaggio del suo calibro, avrebbe fatto tremare chiunque. Fortunatamente, Eno non era avvezzo a quel tipo di allusioni e non avevano granché suggestione su di lui.
«Si starà chiedendo perché l’ho fatta scomodare, Sartori.» Himmler pronunciò il suo nome con un accento perfetto. «Credo di indovinare se dico che c’è di mezzo un certo manufatto.» «Dice il giusto.» Himmler accennò a un sorriso. I baffetti si alzarono dandogli un’espressione amichevole, una di quelle che ti aspetti in un usciere o in un portinaio, non certo in un comandante del terzo Reich. Si tolse gli occhiali tondi e si strizzò gli occhi con il pollice e l’indice della mano sinistra. «Credo che io e lei entreremo subito in sintonia» disse, rimettendo a posto le lenti. «Vorrei tanto ascoltare i suoi racconti in merito al ritrovamento, ma affari urgenti mi obbligano a dedicare a questo incontro meno tempo di quanto meriti. Dovrà quindi perdonare le mie maniere sbrigative.» Eno piegò la testa da un lato in un cenno di assenso. Solo in quel momento, ebbe il tempo di soffermarsi meglio su quell’uomo. Indossava la divisa grigioverde dai larghi pantaloni alla cavallerizza. Non avrebbe saputo dare una lettura minuziosa della serie di onorificenze, galloni, spalline e mostrine argentate di cui era adorna, ma dalla quantità di chincaglieria di cui era decorata, chiunque si sarebbe mostrato sottomesso a tanto sfoggio di potere. Eno cercò, per quanto gli fu possibile, di non farsi intimidire. «Sto per chiederle qualcosa, Sartori. Qualcosa sulla quale gradirei riflettesse molto bene. Si tratta del futuro del Reich millenario, della nascita di una nuova società in cui edificare una nuova Germania epurata da ogni contagio straniero.» Era talmente preso dal suo delirio nazionalista, e i suoi occhi febbricitanti lo dimostravano ampiamente, che non si rese conto di avere uno di quegli stranieri seduto proprio dinanzi a lui. «Grazie anche alle recenti scoperte di cui lei si è reso artefice, ricostituiremo l’eredità ancestrale dei nostri avi, riportando al massimo splendore la purezza della razza germanica.» Himmler bevve un sorso dal suo bicchiere. Si sciacquò la bocca con il liquido tiepido e lo ingoiò chiudendo gli occhi. «Voglio che lei parta per una nuova spedizione» disse di getto. Lo stomaco di Eno si contrasse. «Partire? Per dove?» riuscì solo a dire, preso alla sprovvista da quella rivelazione così improvvisa.
Ancora quel sorriso. Complice il chiarore del fuoco, ebbe l’impressione di intravedere un ghigno satanico. «Una località segreta tra i ghiacci del Polo Sud. Quella che noi chiamiamo Base 211.» Poggiò il bicchiere sul tavolino e si lasciò scivolare sullo schienale della sua poltrona. «Voglio che lei sovrintenda al trasferimento del manufatto. Sarà gli occhi del Reich, con la benedizione del Führer.» Pronunciò l’ultima parola che, alle orecchie sconvolte di Eno, suonò come un addio. Una chiusura che non ammetteva repliche. Base 211 era un nome che a Eno non diceva molto, non più di tanti altri luoghi che il Reich aveva contribuito a rendere alla stessa stregua di miti e leggende. Quello stesso castello in cui si trovavano in quel momento era uno di quei luoghi che, per quanto volesse nascondere a se stesso, era fin troppo reale. «Ma… quando sarebbe questa partenza?» biascicò Eno. «Presto, molto prima di quanto immagina.» «Il SAIA conta su di me per coordinare le missioni per il prossimo anno accademico, io non credo che…» «Le ho dato l’impressione di voler trattare, Herr Sartori? Lei partirà senza esitazione, sappia che sia io che il Führer contiamo sul fatto che il carico arrivi a destinazione senza problemi.» Eno rimase impietrito. Le parole che gli affollavano la mente rimasero non dette; non era saggio giocare con quell’uomo. Alla fine si era dimostrato per ciò che era veramente: un mero manipolatore. Non si trattava con i nazisti, avrebbe dovuto saperlo prima di costruirsi false speranze. Aveva avuto tutto il tempo, nei giorni addietro, di abituarsi all’idea che quell’incontro avrebbe preso una piega che l’avrebbe visto perdente e che avrebbe dovuto rinunciare allo studio della sua scoperta in favore degli scienziati del Reich, pur mantenendone la paternità, ma mai avrebbe pensato di esserne coinvolto in prima persona. Non era altro che un semplice archeologo che con la guerra non aveva mai voluto avere nulla a che fare. Nella sua testa riecheggiavano le poche sillabe di
quella nuova destinazione: Polo Sud. Non si era mai allontanato per più di poche centinaia di chilometri da casa sua, il Polo Sud e l’Antartide erano fin troppo fuori della sua portata. Il solo ripetersi a mente quella parola gli faceva girare la testa, rievocando immagini fantasiose di ghiacciai e sconfinate distese innevate. «Sartori!» lo richiamò all’attenzione Himmler. «È tutto, può ritirarsi nei suoi alloggi. Il viaggio è stato lungo, avrà senz’altro bisogno di riposo.» Reinard, il giovane attendente, aprì la porta e rimase in attesa sull’uscio. «Accompagna pure il nostro ospite nella sua stanza» ordinò Himmler. Eno si alzò senza battere ciglio, le gambe si mossero in un automatismo vincolato da qualche legge fisica cui non seppe dare un nome. Il deambulare, con o strascicato, denotava tutto l’avvilimento con cui stava lottando in quel momento, in attesa che la mente offuscata metabolizzasse quegli eventi. Reinard rispose con un cenno del capo all’occhiata del suo superiore. Un ordine tacito che implicava una vigilanza strettissima sul prigioniero, perché tale doveva ritenersi a quel punto. Eno non trovò la forza di aggiungere altro a quanto già non avesse avuto il coraggio di dire. Si limitò a seguire Reinard fuori della stanza e infine lungo i corridoi fino alla sua camera.
Capitolo 3
La strada che conduceva al porto di Saint-Nazaire era costellata da detriti, relitti di auto annerite dalle fiamme, rottami e grovigli di filo spinato. Alcuni grossi cavalli di Frisia ostacolavano il transito ai veicoli appena più grandi di una berlina. Josef fu costretto più di una volta a fermare l’automobile per trovare un punto adatto alla manovra. Percorse tutta la strada che seguiva la linea costiera fino a raggiungere l’ingresso del porto. La pallida luce del mattino mostrava, già da parecchie centinaia di metri dai bacini di carenaggio, lo scenario di devastazione in cui erano ridotte le strutture portuali. Solo qualche mese prima, al fine di ridurre la capacità di manovra della Marina tedesca nell’Atlantico, gli inglesi avevano pianificato un’operazione suicida denominata Operazine Chariot. Il risultato di quell’incursione era ben visibile agli occhi di Josef. Dovunque guardasse, non vedeva altro che rovine. Edifici diroccati dall’azione congiunta dei bombardieri inglesi e dei commandos e i crateri delle bombe che punteggiavano la costa come grandi pustole in cui la nebbia ristagnava come minestra rafferma. Un cane solitario vagava tra le cataste di ferro addossate a una gru piegata dall’esplosivo ad alto potenziale. La ricostruzione era cominciata immediatamente, la Marina non si era fatta pregare per spazzare via la polvere e con essa i brutti ricordi, ma i lavori procedevano a rilento. Josef incrociò la prima postazione di guardia, dove scambiò qualche saluto con le sentinelle di turno davanti alla garitta. I loro volti erano nascosti dai baveri alzati a protezione dal freddo pungente di quella mattina di novembre. Con gli occhi lacrimanti, il piantone diede una rapida scorsa ai documenti, fece un frettoloso saluto e si affrettò a rientrare nella sicurezza della garitta di legno. Poco più avanti, una postazione antiaerea giaceva inservibile su un fianco del grosso affusto d’acciaio. Accanto a essa, la sua gemella era coperta da uno spesso telo mimetico. Ben presto Josef si trovò nella condizione di non poter più proseguire in auto. Fu
costretto a fermarsi al lato di un edificio dal tetto strappato via come fosse di carta. Incredibilmente le mura erano rimaste al loro posto, quasi il tetto non fosse mai stato costruito. Sopra la porta un’insegna dipinta con caratteri gotici indicava quell’edificio come magazzino per l’approvvigionamento. Proseguì a piedi fino alla grande spianata di cemento armato sulla quale poggiava l’imponente struttura del bunker nel quale trovavano ricovero gli Uboot della 6° e 7° Unterseebootsflottille, la flotta sottomarina di stanza a SaintNazaire. Scavalcò un binario sul quale un argano era immobile nella foschia mattutina. Da lontano, confusi nella nebbia, si potevano vedere i lampi dei saldatori al lavoro sulle lamiere contorte. Il puzzo di muffa e di pesce marcio, così familiare ai marinai, lo colse distratto, preso dal ricordo di quanto accaduto fino a quel momento. Dopo l’incontro a Kiel con l’Ammiraglio Donitz, aveva fatto ritorno alla sua solita vita di burattino nelle mani della propaganda, finché l’ordine tanto atteso non era giunto. Una mattina di fine novembre una telefonata del BDU Befehlshaber Der U-Boote, il Comando Supremo della flotta sottomarina, gli comunicò che era giunto il momento di aprire quella busta. Nella confusione di travi di legno sparse nel fango, per poco non cadde steso a terra. Seguendo il percorso delle rotaie, l’unica via sgombra da detriti, Josef tornò indietro con i ricordi a quella mattina. La busta era sul tavolo della sala da pranzo della mensa ufficiali dell’Arsenale, il sigillo di ceralacca spezzato e il nastro sciolto. Con aria assente, l’aveva aperta e tirato fuori un singolo foglio battuto a macchina. Gli occhi erano saettati rapidi da sinistra a destra, senza mai esitare. In fondo gli ordini erano brevi e concisi e non ammettevano interpretazioni: “Presentarsi presso il Comando della 7° flottiglia a Saint-Nazare il giorno 23 novembre. Seguiranno ulteriori ordini in loco”. La lettera continuava con altre brevi indicazioni. Poche parole. Troppo poche per Josef. Si era lasciato cadere sullo schienale della sedia, costringendosi a respirare profondamente e convincendosi che non poteva fare altro che aspettare. Alla fine il giorno era arrivato. Proseguì sul sentiero di traversine marcite dalla salsedine fino all’imponente muro di cemento che delineava il lato nord del mastodonte fortificato. Lì, il
vento si fece più intenso e Josef si calcò meglio il berretto in modo da nascondere il volto sotto la visiera. La sciarpa tirata su, fin sopra il naso, gli conferiva un aspetto ambiguo e misterioso. Camminava curvo in avanti in modo da poter vedere dove metteva i piedi, cadere in quel punto significava impantanarsi per bene. Seguì il muro di calcestruzzo per una cinquantina di metri prima di incontrare il portone con i suoi cancelli blindati. Un mostro di tale imponenza, con i suoi trecento metri di larghezza per diciotto di altezza, la massiccia armatura del tetto spesso sette metri sul quale erano state istallate postazioni antiaeree e mortai M19 da 50mm, lo rendevano inespugnabile a qualsiasi attacco aereo. Un o e fu dentro. Dovette tapparsi le orecchie quando il frastuono del cantiere si fece sentire in tutta la sua potenza. Il rombo delle rivettatrici, sempre all’opera, s’intervallava, con brevi pause, al sibilo cadenzato dei saldatori a filo continuo. La cacofonia era incredibile. Un’eterna penombra regnava all’interno del bunker, e solo le luci dei bruciatori ad acetilene e le azzurrine scintille dei cannelli per il taglio dell’acciaio fornivano quel poco di luce necessaria a non incappare in qualche ostacolo. Dai lunghi bacini, ricovero dei sommergibili in attesa di partire, o in manutenzione, filtrava un poco di luce mattutina. Una pallida foschia che contribuiva a rendere ancora più sinistra l’atmosfera. La struttura conteneva ben quattordici di quegli enormi bacini e alcuni, con i loro novantadue metri di lunghezza e undici di larghezza, erano in grado di ospitare fino a due U-boot. L’acqua scura, immobile, emanava un lezzo di nafta e pesce marcio che faceva venire il voltastomaco. Josef proseguì senza indugio sul corridoio di cemento che dal portone principale percorreva per la sua intera larghezza il bunker. Intravide nel bagliore la struttura dove erano state ricavate le numerose officine e, facendo attenzione al materiale che intasava ogni centimetro quadro, s’incamminò in quella direzione. Entrò senza troppi convenevoli in quella che, dal fracasso assordante e dal puzzo di bruciato, era di sicuro la carpenteria, il luogo giusto dove cercare. Scavalcando una grossa matassa di cavi di metallo, fermò il primo uomo che gli capitò a tiro. Quello, ricoperto di fuliggine e sudore, con la camicia aperta e le
maniche arrotolate persino a novembre, gli fece un saluto impacciato. «Sto cercando il sottotenente di vascello Hans Fleischmann» disse all’orecchio dell’uomo, cercando di sovrastare il frastuono. L’uomo rispose di non saperlo, ma indicò un uomo intento a scrivere degli appunti su un registro. Polvere, chiazze di nafta, pozze di qualche liquido misterioso nelle quali la luce dei bruciatori riverberava allegra, punteggiavano il pavimento dell’officina. Josef dovette stare attento a non ostacolare il continuo via vai di uomini, ma riuscì a guadagnare un posto tranquillo accanto al Bootsmann, il sottufficiale addetto alla catalogazione dei materiali. «Sto cercando il Sottotenente di vascello Hans Fleischmann» ripeté per la seconda volta. Il Capo sorrise. La fuliggine, il grasso dei motori e la polvere si erano depositati negli anfratti di ogni piega del suo volto. Una maschera degna delle migliori tragedie greche, si disse Josef. Il Capo indicò un punto in fondo al bacino di carenaggio numero quattro, quello adiacente all’officina e, senza aggiungere altro, si rimise a compilare il lungo elenco fatto di lettere e numeri. L’enorme grotta di Saint-Nazaire era il luogo preferito da Hans Fleischmann. Josef sapeva che non lo avrebbe trovato da nessun’altra parte se non lì. Persino il bar, messo a disposizione per gli ufficiali, non aveva la stessa attrattiva di quel luogo così caotico e rumoroso. Hans era il direttore di Macchina dell’U-56, responsabile di tutta la baracca e di ogni cosa a bordo che avesse a che fare con la propulsione, il governo del battello, l’aria, gli impianti oleodinamici, e quant’altro servisse per far navigare quella balena di metallo. Era alla sesta crociera al servizio di Josef e non c’era nessuno a bordo del sommergibile di cui lui si fidasse di più. «Ottima giornata per navigare» disse Josef, cogliendo l’altro di sorpresa. Tenne lo sguardo rivolto al mare che s’intravedeva attraverso l’apertura del bacino. «Ho visto di meglio. L’Atlantico sa essere più generoso di così.» Hans rispose senza distogliere lo sguardo dall’acqua scura pochi metri sotto la banchina. «Vorrà dire che offriremo in sacrificio agli Dei del mare qualche vergine.»
«Non se ne trovano qui in Francia, temo dovranno accontentarsi di qualche grassa maîtresse.» «E sia.» Hans si girò. Il volto, illuminato dalla luce azzurra di una saldatrice, era tutto un sorriso. «Ce l’hai fatta a trovare la strada di casa, finalmente. La compagnia di quei simpaticoni dei Nazionalsocialisti ti ha stancato così presto?» Una battuta del genere, fatta in un altro luogo, in un altro momento, sarebbe costata al Capitano del Genio Fleischmann dei bei grattacapi. Ma non quel giorno, non in compagnia di Josef. «Diciamo solo che il punch che servivano alle cerimonie non era di mio gradimento.» Hans ci rifletté su, poi diede una pacca sul braccio del suo Comandante, e gli porse la mano. «È bello rivederla, Capitano.» «È bello anche per me, Hans» rispose, stringendogliela calorosamente.
*
L’ufficio del Comando della 7° flottiglia era situato nell’area adiacente al porto, non lontano dal molo B, ma sufficientemente distante dal trambusto del cantiere. La recente incursione inglese aveva costretto a rivedere un po’ tutta la logistica e la disposizione degli accasermamenti, così erano state requisite delle strutture il cui uso era del tutto inadatto a ospitare il Comando. Alla sinistra delle palazzine, che contenevano più di centocinquanta tra uffici e dormitori, due locomotrici trasportavano una serie di vagoni sui quali erano stipati, in bell’ordine, gli argentei siluri coperti con dei teli. Il fischio acuto del
treno, che si avvicinava alla banchina, si mescolò allo sciabordare dell’acqua sugli scafi dei natanti ormeggiati; un’acqua gelida, schiumosa, dalla quale affioravano ancora i relitti delle imbarcazioni danneggiate dalle esplosioni. Sagome appena distinguibili nella foschia, ma dall’impatto avvilente. Hans fu il primo a salire sulla rampa che conduceva al Comando e salutò con un cenno le due guardie di piantone. Queste gli risposero allegramente, segno che il caro vecchio Hans era ben noto da quelle parti. A Josef toccò un saluto militare più formale, ma non se ne dispiacque. Era ora di tornare alle vecchie abitudini. Hans lo precedette fino all’ufficio del Comando dove, facendosi da parte, lasciò che fosse lui a bussare. «Io mi fermo qui, buona fortuna.» Josef annuì, tirò un respiro e bussò. Il Capitano di Corvetta Herbert Sohler lo accolse con calore nel suo ufficio. La prima cosa che Josef notò furono i suoi occhi, lo strano modo di chiuderli quando sorrideva. Provò subito simpatia per quell’uomo. Da parte sua Herbert si dimostrò un buon padrone di casa, facendolo accomodare e offrendogli del Kümmel che versò in due bicchierini di vetro. Josef accettò di buon grado il liquore aromatizzato con cumino e finocchio. Brindarono e bevvero quel liquido dolce e incolore. Herbert fu il primo a posare il bicchiere vuoto sulla scrivania e, dopo un sorriso dei suoi, si diresse alla cassaforte che teneva poggiata su un tavolo vicino la finestra. «Perdoni il disordine, ma siamo ospiti in questi alloggi e mi auguro che questa baraonda trovi presto una fine. Avrà avuto modo di dare uno sguardo a quanto accaduto qui a Sanit-Nazaire, Capitano. Ce la siamo vista brutta, mi creda.» «Penso che quanto rimasto a testimonianza non renda l’idea di cosa avete ato quaggiù, signore.» Il comandante della flottiglia rimase come inebetito per qualche secondo, perso nei suoi ricordi. Poi, aprì la cassaforte, ne trasse una busta sigillata e si rivolse al suo ospite. «Abbiamo perso molti bravi ragazzi. Non è stato facile comunicare alle loro
famiglie che i loro… quelle stupide lettere. ‘Venuto a mancare.’ Neanche il coraggio di dire le cose come stanno. La Marina non è mai incline a usare la parola morte. E come biasimarli del resto.» Alzò le spalle e sventolò la busta davanti a sé. «Ma veniamo a noi, piuttosto. Questi sono gli ordini di missione e i codici riservati.» Josef prese la busta dalle mani del suo superiore. La poggiò sulla scrivania come se fosse un bicchiere ormai vuoto e quindi privo di qualsiasi interesse. Tuttavia, dentro di sé, moriva dalla voglia di aprirla, anche se non era disposto a mostrarsi frettoloso. «La apra Lüth, credo che troverà curioso il contenuto.» Quando notò l’esitazione di Josef, sorrise. «Non esistono segreti in quest’ufficio. Sono informato della missione da qualche tempo, sa? Qualcuno doveva pur occuparsi dei preparativi e del carico del suo battello.» A quelle parole Josef prese la busta e la aprì. Come per i precedenti ordini, diede una rapida scorsa al primo foglio senza trovare grandi novità oltre quello che già sapeva. Fu quando voltò pagina che i suoi occhi si sbarrarono per la sorpresa. «Questo che significa?» chiese irritato, abbassando i fogli che teneva in mano. «Calma, capitano. C’è una risposta a tutto.» Herbert poggiò i gomiti sulla scrivania e congiunse le mai, portando poi i due indici alle labbra. «Il suo U-56 in questo momento si trova a Kiell, in buone mani, mi creda, ma ahimè inutilizzabile. I danni riportati dalla sua ultima crociera sono ben lungi dall’essere riparati. Ha riportato guasti strutturali ben più seri di quanto volevano farci intendere a un primo controllo. Il cilindro a pressione non è sicuro.» «Lo capisco, comandante, ma perché questo?» indicò col dito una singola parola tra le tante in quel foglio: U-666 «L’U-666 è un ottimo battello, non dubiti, e ha da poco perso il suo comando. Ancora non posso spiegarmi come sia possibile che abbia fatto ritorno in quelle condizioni fin qui. Quando rientrò in porto era appena un rottame galleggiante, ma la corazza di questo sommergibile è resistente. Se fosse un uomo, come lei Lüth, si direbbe che ha la pellaccia dura. È un duro a morire. Chissà, magari siete fatti l’uno per l’altro. Gli dia una possibilità.» «Conoscevo il suo comandante. Era un buon amico.»
«Comprendo le sue remore. Ma provi a vederla in questo modo: sarebbe stato un onore per il Kapitänleutnant Engell cederle il comando del suo sommergibile. Non crede che preferirebbe vederlo nelle sue mani piuttosto che sul fondo dell’oceano?» «Io… suppongo di sì.» Josef abbassò lo sguardo e continuò a leggere con il cuore pensante. Il ricordo della morte del suo compagno di corso era una ferita ancora aperta. «Come leggerà, la dotazione dei siluri sarà dimezzata. Avrete bisogno di tutto lo spazio disponibile per il vostro carico. Ma, del resto, non sarà una missione di guerra e il Comando supremo conta sul fatto che non dovrete farne uso, se non in strettissimo caso di necessità.» Josef non fu contento di quella notizia. Viaggiare con una dotazione dimezzata dell’unica arma in grado di proteggere se stesso e il suo equipaggio da un attacco a sorpresa non gli andava per niente a genio. Il suo sguardo s’incupì, ancora di più, quando lesse la destinazione. «Antartide? Cos’è uno scherzo? Il BDU vuole che faccia da postino per le SS fino in Antartide? Posso parlare liberamente, signore?» «Lo sta già facendo mi pare, capitano» disse Herbert, senza mai levarsi dalla faccia quel suo sorrisetto benevolo. «Mi chiedo perché abbiano scelto me. Insomma, ci saranno anche dei capitani che…» «Che non siano delle celebrità?» «Non volevo dare a intendere…» «No, no, non si giustifichi. Capisco il suo punto di vista. Lei è un combattente e questo lo apprezzo. Ma provi a vederla in questo modo.» Per la prima volta, da quando Josef era entrato nel suo ufficio, il comandante della 7° flottiglia si fece serio. «Se hanno scelto lei, se hanno volto il loro sguardo sull’uomo più in vista in questo periodo difficile, è proprio perché sono convinti di aver puntato sul cavallo migliore. Nessuno toglierà dalla testa a Himmler, o a chi si nasconde dietro questa storia, che hanno scelto l’uomo e il mezzo adatti ai loro scopi. Solo
un suo fallimento potrà convincerli del contrario. Lei ha intenzione di fallire, Lüth?» Josef rimase a fissare quell’uomo. Un sorriso si allargò sul suo volto. «Touché.» Anche Herbert socchiuse gli occhi in quel suo curioso modo. «Visto? Sapevo che lei era l’uomo giusto.» La conversazione proseguì a lungo, le dinamiche che anticipavano una nuova missione erano sempre complesse e ogni cosa doveva essere pianificata nei minimi dettagli. Stabilirono, inoltre, un punto di rifornimento per il carburante, viveri e siluri, nel caso ve ne fosse necessità. Il punto d’incontro era stato stimato nei pressi delle Isole di Capo Verde. «Solo un’ultima cosa» disse Herbert. «Come già saprà, l’U-666 ospiterà quattro eggeri oltre l’equipaggio. Si tratta dello Sturmbannfuhrer Hermann Kurtz e di tre soldati delle SS di scorta. Conosco quell’uomo, non è tipo da prendere alla leggera il compito che gli è stato affidato. Confido che gli sia data tutta la collaborazione possibile al fine di evitare malintesi o incidenti. Mi creda, non sottovaluti le mie parole, c’è sempre poco da scherzare con questi fanatici del Reich.» «Lo terrò a mente, signore.» «Credo che ci sia poco o niente da aggiungere, capitano. Domande?» «Nossignore.» «Bene dunque. Le faccio i miei più sinceri auguri per la missione e auspico di rivederla presto. Sperando solo di poterla accogliere in modo più degno.» Aprì le braccia, come a voler racchiudere quei pochi metri in cui era stato sistemato il Comando. «Farò di tutto per non deluderla.» «Faccia quello che sa fare. Sarà sufficiente.» Poco dopo Josef si chiuse la porta alle spalle e rimase con la fronte poggiata al legno. La mano stringeva ancora la maniglia di ottone, gli occhi chiusi, assorto
nei suoi pensieri. «È andata così male?» Si riebbe di colpo, voltandosi come fosse stato preso con le mani nel sacco. Quando vide Hans, poggiato con le spalle al muro nel corridoio, si tranquillizzò. «Peggio di quanto tu possa immaginare.» Prese il direttore di macchina per un braccio e lo trascinò fuori dall’edificio. Solo quando furono di nuovo sulla strada, che dal Comando portava al grande bunker, Josef si degnò di riprendere il discorso. «Sai cosa?» «Cosa?» «L’unico fatto che mi consola in questa faccenda è che non sarò il solo a prenderla nel culo.» Hans storse la testa. «Ci sarai anche tu nella merda glaciale insieme a me.» «Nella cosa? Aspetta un attimo… cosa vi siete detti lì dentro? Non fare il finto tonto con me! Aspettami!» Josef aveva aumentato il o. Ridendo sotto il bavero del cappotto, non poté fare a meno di pensare che, in fondo, aveva avuto quello che desiderava. E se giocare al postino con le SS era il prezzo da pagare per tornare in mare, allora ben venuti a bordo. Gli tornarono in mente le parole dell’uomo delle SD, solo qualche giorno prima: «Sono solo un postino. Arrivo, prelevo, consegno. Il resto non è affar mio». Fece sue quelle parole e lasciò che Hans lo raggiungesse.
*
Il frastuono assordante del cantiere all’interno del bunker si ripresentò puntuale.
arono su grosse lastre di metallo che scricchiolavano sotto il loro peso facendoli traballare quasi fossero su una barca. Alla parete sulla loro sinistra, dipinto in bianco sul calcestruzzo, un grosso toro, simbolo della 7° Unterseebootsflottille, faceva bella mostra di sé. Le narici sbuffanti e la posa rampante lo indicavano come simbolo di fierezza e potenza. Dopo l’impresa di Scapa Flow nell’ottobre del 39, dove Günther Prien, comandante dell’U-47, aveva affondato la corazzata Inglese HMS Royal Oak, il toro era divenuto l’emblema della 7° flottiglia. Prien era stato insignito dallo stesso Hitler della Croce di Cavaliere della Croce di Ferro, divenendo il primo uomo della Marina a ricevere quell’onorificenza. Dopo l’impresa, gli uomini gli avevano affibbiato il soprannome di Der Stier von Scapa Flow, il toro di Scapa Flow. Osservando quelle linee stilizzate, Josef si chiese se, un giorno, anche lui avrebbe ricevuto tale onore. Un Lupo Mannaro non era cosa poi tanto insolita tra i lupi. «Hai avuto modo di visionare il sommergibile?» chiese Josef, senza smettere di camminare. «Giusto un’occhiata distratta.» «Eh?» Josef sapeva che Hans aveva perlustrato il battello da cima a fondo. Nulla scappava al suo sguardo attento. «Il timone di profondità di poppa dava qualche noia. L’ho fatto smontare e sistemare, ora va come l’olio. Qualche altra piccola scocciatura, ma la ragazza si fa cavalcare.» «Ottimo.» Josef tentò di dissimulare interesse, ma dentro di sé non digeriva questo cambio di comando. Conosceva meglio delle sue tasche l’U-56, e dover comandare un battello differente dal suo gli torceva le budella. Per giunta, l’U-666 era un Typo VII C, non del tutto uguale al più moderno Typo IX. Si perse in argomenti tecnici per evitare il doloroso ricordo della perdita di Engell. La erella metallica finì dove iniziavano i bacini di raddobbo. In uno di essi lo scafo di un sommergibile giaceva solitario e mutilato. L’involucro esterno era stato tolto, come un enorme cetaceo spolpato dai predatori. Josef e Hans non badarono molto a quei resti in fase di smantellamento. Non era un bene osservare la carcassa di un sommergibile; l’immagine poteva rimanerti impressa per ore e ripresentarsi nei momenti più oscuri in cui lo stress si faceva più
pressante. Ce ne sarebbero stati di momenti così, Josef non aveva dubbi. L’inedia di un viaggio atlantico poteva agire in molti modi sulla psiche umana. Scacciò quei pensieri con una scrollata di spalle che finse fosse dovuta al freddo pungente. Hans lo prese per il braccio e gli indicò un punto nel bacino accanto a quello. «Che te ne pare?» «È il nostro?» Hans mostrò un ghigno beffardo. «La nostra ragazzona.» Josef espirò scacciando via ogni indugio. «Diamogli un’occhiata!» Il sistema di fioche luci fu appena sufficiente a mostrare le forme affusolate del sommergibile. L’acqua scura e oleosa del bacino lo copriva interamente, salvo lasciare la coperta emersa per quasi un metro. I paioli di legno, che formavano la coperta, si perdevano verso l’imboccatura del bacino per circa una sessantina di metri. A metà strada tra la poppa e la prua, la torretta si alzava slanciata per un paio di metri e alla sua sommità c’era la plancia della falsa torre dalla quale si accedeva, tramite un portello stagno, all’interno del sommergibile. Proprio dietro, era posizionato il giardino d’inverno, una struttura metallica sulla quale era montata l’antiaerea. Da qui i cavi d’acciaio dell’antenna, con gli isolatori di vetro, si stendevano dalla torretta verso prua e poppa. Ogni forma era sobria, elementare e tondeggiante, adatta come nessun’altra imbarcazione al mare. Lo scafo gonfio, come in tutti i Typo VII, proprio nel punto in cui erano saldate le casse d’immersione, emersione e i depositi di carburante, gli conferiva il classico aspetto panciuto. Josef non poté che ammirarne la forma elegante e slanciata. Un cilindro d’acciaio in grado di contenere la sala macchine diesel, quella dei motori elettrici, gli alloggi per l’equipaggio, e quanto serviva per le manovre e la navigazione. Tutto era stato concepito per sopportare la pressione dell’acqua: una macchina perfetta in grado di resistere alle impetuose tempeste Atlantiche, quanto alle tremende pressioni sottomarine.
La banchina era resa scivolosa da grosse pozze di nafta e ingombra di gomene, cime e funi, così dovettero fare attenzione per raggiungere la erella che accedeva alla coperta. Quando arrivarono davanti alla torretta, Josef si lasciò sfuggire un gemito di soddisfazione. «Che te ne pare?» chiese Hans. Gli occhi del capitano brillarono quando, sul lato della torretta, dipinta con vernice nera, vide la testa stilizzata di un grande lupo. «Il rosso era finito…» «È perfetto così.» «I ragazzi avrebbero preferito un diavolo, un Lucifero o qualcosa di più adatto… sai, quel numero…» «Il diavolo apparteneva a Engell. Il lupo andrà benissimo» disse, senza smettere di fissarlo. «Bene, sono contento ti piaccia. Il branco è tutto ciò che abbiamo. Il singolo che si adopera per il gruppo; se cade uno, cadono tutti.» «Se cade uno, cadono tutti» ripeté Josef. Dal portello per il carico dei siluri, posto tra i paioli divelti della sezione di prua, spuntò la testa di un ragazzo. Aveva non più di una ventina d’anni. La normalità per l’equipaggio di un U-boot, una normalità alla quale Josef si era ben presto abituato. Non era cosa insolita trovare dei veri e propri adolescenti a bordo, tutti volontari tra l’altro. Poco più che bambini in uniforme che davano più l’idea di una gita scolastica che di una crociera di guerra. Quando vide i due ufficiali, il ragazzo si affrettò a tirarsi su e mettersi sugli attenti. Accennò a un timido saluto che si perse nel fragore di qualche macchinario in lontananza. «Comodo, sergente» disse Hans, abbassando la mano come a voler scacciare un nugolo di mosche. «Il Mechanikersmaat Rolf Geiger, capo silurista» lo presentò
Hans. Josef annuì, tenendo le mani sui fianchi e la testa appena reclinata in avanti. «Sa smontare e rimontare un siluro a occhi chiusi in meno del tempo che impiego a pisciare in quella maledetta trappola là sotto.» «Dice il vero, sergente?» chiese Josef. Non conosceva nessuno di quei ragazzi. Non era il suo equipaggio, non quello dell’U-56, o almeno non ancora. «È la verità, signore!» rispose Geiger con più enfasi del necessario. «Molto bene. Mi auguro che questa tua incredibile dote ci torni utile un giorno o l’altro.» Il ragazzo alzò il mento e si lasciò sfuggire un sorrisetto compiaciuto. «Torna pure al tuo lavoro adesso» lo cacciò Hans, facendogli segno con la mano che il suo momento di gloria era terminato. «E fai emergere il capo equipaggio, il comandante vuole conoscere anche lui.» Un po’ di trambusto e un vociare sommesso, anticiparono l’arrivo dell’ Oberbootsmann Ernst Falkenmayer. Sbucò dal portello sulla falsa torre e scese agilmente i pioli d’acciaio, facendo attenzione all’umidità che ricopriva ogni parte metallica del battello. Saltò sul paiolato di legno e con due balzi fu sulla erella. L’uomo, non più un ragazzino, si presentò a voce alta, esibendosi in un perfetto saluto alla visiera. «Il nostromo, il nostro padreterno a bordo» lo apostrofò Josef, stringendogli la mano. Non gli sfuggì la stretta d’acciaio di quell’uomo indurito dal mare. «Signore, è tutto pronto per la partenza. I turni di guardia sono stati stabiliti, finiremo di caricare i viveri entro domani mattina.» Indicò una serie di casse di legno, sacchi di tela verde, ceste coperte da teloni cerati, cassette, barattoli e altro equipaggiamento che si perdeva lungo la banchina. «Ottimo lavoro, Capo» annuì Josef. Capo era l’appellativo del capo equipaggio; il sottufficiale più anziano a bordo. Svolgeva le funzioni del maresciallo nell’esercito e sopra di lui c’erano solo gli ufficiali. La disciplina a bordo era il suo pane quotidiano. La camicia, aperta sul petto, mostrava un fisico vigoroso. Il sudore scuriva il tessuto all’altezza del collo e dell’addome, segno che la
temperatura dell’aria nel sommergibile doveva essere ben al di sopra di quella rigida che si respirava lì fuori. «Se mi consente, capitano, ho fatto caricare otto tra i migliori siluri di SaintNazaire, anche se mi permetto di dissentire su questa scelta del Comando di caricare…» «Non è cosa che debba procurarle un cruccio. Si limiti a eseguire gli ordini al meglio, Capo.» Mantenersi sempre a quota periscopio con l’equipaggio era essenziale. Mai farsi trovare in emersione, mai farsi trovare troppo in profondità. «Otto basteranno.» Chiuse l’argomento porgendo la mano al Capo Falkenmayer, liberandolo. L’uomo fece dietrofront e, com’era arrivato sulla banchina, sparì nel ventre scuro del sommergibile con pochi, rapidi salti. «Basteranno?» chiese Hans senza distogliere lo sguardo dalla scura acqua densa e oleosa che sciabordava sui fianchi dell’U-666. Josef alzò le spalle. Rimasero in quella posizione per molto tempo; intenti a percorrere palmo per palmo ogni parte emersa del sommergibile. Quella sarebbe stata la loro casa per i giorni a venire e se le cose non fossero andate nel migliore dei modi, sarebbe divenuta anche la loro tomba.
Capitolo 4
La mattina seguente, alle sei in punto, Josef si presentò sulla banchina del bacino dov’era ormeggiato l’U-666. Aveva ato una notte tranquilla, sgombra dai soliti incubi; la vicinanza del mare era un toccasana per la sua anima. Fin da ragazzo, il mare, la brezza mattutina e l’aria carica di salsedine, avevano avuto su di lui quell’effetto calmante e benefico di chi torna nell’abbraccio della propria madre. Si era trasferito a Portsmuth per seguire i genitori e aveva scelto di are le estati sulla barca del padre in cerca dei banchi di pesce nelle acque incredibilmente gelide dello stretto di Solent. Ogni mattina respirava a pieni polmoni l’aria carica di salsedine, ascoltando quella delicata melodia marina, fatta del vociare dei pescatori e di onde che sbattevano violentemente su quell’angolo di costa inglese. Josef aveva ben presto capito di sentirsi più a proprio agio tra quelle onde, a volte nemiche, che sulla terraferma. Qualche anno dopo, all’età di ventuno anni, aveva deciso di consacrarsi in un certo senso al mare, conseguendo il brevetto di ufficiale della Marina Mercantile. Dopo l’adolescenza inglese, era tornato in Germania per arruolarsi nella Reichsmarin, prestando servizio come allievo ufficiale sull’incrociatore leggero Karlsruhe. Tutta la sua vita l’aveva ata in mare e solo le infinite distese blu continuavano ad avere la capacità di rimetterlo in pace con il suo animo inquieto. A quell’ora la banchina cominciava ad animarsi, Josef evitò una grossa gomena, imprecando tra sé contro quella matassa di cavi e scambiò un cenno di saluto con le sentinelle che effettuavano la consueta ronda mattutina. Nelle prime luci dell’alba, in quella semi oscurità che ancora ammantava la banchina, Josef faceva fatica a distinguere le facce dei suoi uomini che si agitavano intorno al sommergibile come amanti premurosi; i rumori sommessi degli attrezzi e i bisbiglii ancora assonnati tradivano già l’eccitazione della partenza. Il suo primo comando con l’U-666, un nuovo inizio. Avrebbe dovuto
ricominciare da capo, non solo per imparare a conoscere quella ferraglia desiderosa di navigare, ma anche per conquistare quegli uomini operosi, quelle facce indistinguibili che stavano per diventare il suo equipaggio. Josef sapeva che il compito più arduo sarebbe stato proprio cercare di inculcare loro il senso di fiducia: la capacità di affidarsi senza remore all’uomo che si aveva affianco era il primo boccone da mandar giù, quello più difficile da assimilare per trasformare quella massa di uomini in un equipaggio fidato, coeso, in una vera e propria famiglia. I nomi poi, li avrebbe imparati alla svelta. «Adunata! Tutti in riga, tutti in riga!» urlò qualcuno in mezzo a quel trambusto di casse, funi e attrezzatura. Josef riconobbe il capo Falkenmayer: si agitava come un pazzo, dispensando pacche poderose agli uomini che, affrettandosi sulla erella, guadagnavano la coperta di poppa. Tutto l’equipaggio si schierò in buon ordine in formazione serrata. Un vociare sommesso uscì dalla formazione, mentre gli uomini cercavano un po’ di spazio sul rivestimento di legno. «Silenzio!» urlò il capo, mentre con la mano colpiva le teste degli uomini nel tentativo di contarli. Un giovane, avvolto nella sua giacca di pelle grigia, osservava in silenzio. L’aspetto marziale e il volto austero ne delineavano il profilo alla luce delle lampade. Il capo gli fece un cenno d’assenso e, solo in quel momento, il giovane si avvicinò a Josef mettendosi sugli attenti. « Oberleutnant Karl Hollstein, capitano. L’equipaggio è al completo e schierato, signore» disse con voce impostata, cercando il tono più adatto alla situazione. «Molto bene.» Josef superò il primo ufficiale e si sporse sulla banchina per far in modo che tutti gli uomini in parata potessero vederlo. Le uniformi di pelle grigia, con i larghi pantaloni, gli stivali dalle spesse suole di sughero, e le bustine in testa, conferivano a quegli uomini un aspetto più impressionante di quanto fosse in realtà. «Buongiorno a tutti, ragazzi» disse a voce alta per sovrastare il rumore del cantiere, ormai in piena attività a quell’ora.
«Buongiorno, comandante!» risposero come un sol uomo. «Dia pure il rompete le righe, Hollstein.» Il ragazzo, sorpreso del fatto che il comandante avesse già memorizzato il suo nome, esitò qualche secondo prima di urlare un sonoro rompete le righe. «Ci siamo» riprese la parola, dopo aver atteso che gli uomini si fossero sistemati per bene. L’equipaggio schiamazzava eccitato; qualcuno si mise a battere anche le mani, un altro fischiò come si faceva davanti a una bella ragazza nei locali parigini. «Voglio che sappiate che nessuno più di me è addolorato per la perdita del vostro comandante. Engell era un buon amico e un ottimo capitano. Sarà per me un privilegio onorare la sua memoria prendendomi cura di voi e dell’U-666.» Gli uomini annuirono, facendosi improvvisamente seri. «Tuttavia, l’U-666 è un ammasso di ferraglia; non ha ricordi, non ha preferenze. Ma di una cosa ha certamente bisogno…» «Di un nuovo comando» disse qualcuno tra le fila. Josef annuì con una smorfia a mezza bocca. «Esatto. Sono qui per questo e non permetterò a nessuno di ostacolare questo stato di cose. Voi…» abbracciò tutti loro con i palmi delle mani rivolti verso il gruppo, «voi siete il mio equipaggio e, in quanto tale, siete come figli per me. Compito di un buon padre è assicurarsi che i propri figli tornino sani e salvi a casa. E questo, ve lo prometto, sarà il mio pensiero e il mio dovere per tutta la durata della missione.» Qualcuno non resistette e gridò. «Tre urrà per il Vecchio!» «Urrà! Urrà! Urrà!» urlarono tutti in coro. Persino Hans, nella confusione generale, si ritrovò a gridare come un bambino. «Fissi!» li redarguì il capo Falkenmayer. «Lasci fare, Capo, li lasci sfogare. Tra poco non ne avranno più la possibilità. Saremo tutti chiusi tra quelle pareti d’acciaio.»
«Signorsì. Avete sentito il comandante? Datevi una mossa! Non fatemelo ripetere.» Falkenmayer spinse un marinaio, ultimo della fila che si accalcava sulla erella. Josef notò una luce diversa nel rude nostromo: gli occhi lucidi tradivano la sua indole burbera. «Un gran bel discorso, non c’è che dire. Hai fatto commuovere persino me» disse Hans. «Non ti credo. Il cuore l’hai perso in qualche bordello di Parigi.» «Sarà, comunque bel discorso.» «Signore?» Il primo ufficiale Hollstein chiese il permesso di parlare. «Il sommergibile è pronto a salpare al suo ordine, signore.» «Grazie sottotenente, aspetteremo ancora un po’, siamo in attesa di ospiti.» «Ospiti?» «Mi trovi Werner, devo parlarvi in privato.» Hollstein annuì e corse in cerca del secondo ufficiale, l’ultimo dei quattro che costituivano il quadrato all’interno del sommergibile. «Hai intenzione di rivelargli tutto?» chiese Hans, mettendosi davanti a lui in modo che nessuno potesse leggere loro il labiale. «Con te l’ho fatto.» «Non credo sia necessario. Non c’è bisogno che sappiano tutti i dettagli. Sono dei bravi ragazzi, eseguiranno comunque i tuoi ordini.» «Lo so, dannazione.» Josef arricciò le labbra in un moto d’irritazione. «Mi atterrò a riferire solo lo stretto necessario, contento?» «A me non interessa giocare alle spie. L’unica cosa di cui devo occuparmi è che quel rottame tenga il mare e non ci pianti qualche grana in immersione.» Josef rilassò le spalle. Il vecchio Hans sarebbe stato in grado di strappargli un
sorriso persino sotto un bombardamento di cariche di profondità. «Signore, guardiamarina Werner a rapporto!» Il nuovo arrivato era il Leutnant Ludwig Werner, secondo ufficiale sull’U-666, responsabile delle armi e munizioni. Un ragazzone della Renania, con i capelli biondi perfettamente pettinati da una parte e i lineamenti duri come la pietra. Un classico prodotto della Hitlerjugend. «Tutti gli ufficiali a rapporto, comandante» disse Hollstein. «Bene signori, se volete seguirmi.» Una Volkswagen Kübelwagen, con la tipica mimetica invernale e la cappottina telata color grigio cenere, si fermò all’imbocco della banchina. Appena dietro l’autovettura militare se ne affiancò un’altra identica. Gli autisti aprirono le portiere e ne discesero sei uomini. Tra loro c’era l’ammiraglio Herbert. Gli altri non erano della Marina. Quando furono a pochi i da lui, Josef li squadrò da capo a piedi e loro fecero altrettanto. Fu l’ammiraglio a rompere il silenzio. «Buona giornata, signori. Una splendida mattina per prendere il mare. Lüth, lasci che le presenti lo Sturmbannfuhrer Hermann Kurtz. Come le ho già detto, sarà imbarcato sull’U-666 come responsabile di missione e, con lui, tre uomini di scorta.» Il maggiore Kurtz non mosse un muscolo. Era un uomo imponente, quasi come il capo equipaggio. Sulle mascelle, perfettamente rasate, Josef notò appena un piccolo spasmo muscolare. Fosse impazienza o nervosismo, non avrebbe saputo dirlo. Gli occhi, di un celeste intenso, rendevano il suo sguardo del tutto simile a quello, fisso e penetrante, di un rapace. Un’occhiata fugace alla paccottiglia di decorazioni ammassate sull’uniforme diede subito a Josef la misura del valore dell’uomo che aveva di fronte. La Croce di Ferro di prima classe, l’Ordine militare della Croce Tedesca, conferito per il grande coraggio dimostrato sul campo e la fascetta cucita sulla manica con la scritta Das Reich, la seconda divisione Panzer SS, lo rendevano l’uomo più temibile di tutta Saint-Nazaire.
La mano di Kurtz scattò a stringere quella di Josef che l’accettò di buon grado. La stretta era ferrea e allo stesso tempo gentile. Niente a che vedere con la rude forza del nostromo. Tuttavia, Josef seppe di avere di fronte un combattente. «Le do il benvenuto a nome di tutto l’equipaggio sull’U-666. Non sarà un hotel a cinque stelle, ma procurerò che le venga assegnata una sistemazione dignitosa, maggiore.» «Non si preoccupi per me, qualsiasi sistemazione andrà benissimo. Piuttosto, dobbiamo sincerarci che il carico sia portato a bordo. Troveremo di comune accordo una sistemazione anche per questo.» Le tre SS del suo seguito e l’autista della loro vettura poggiarono a terra, una sull’altra, due robuste casse di legno. Kurtz vi ò la mano sopra, toccando con delicatezza lo stemma impresso a fuoco dell’aquila sovrastante la svastica nazista. «Queste hanno la priorità su ogni cosa.» Josef annuì. Aveva letto e riletto più volte gli ordini ma non si faceva menzione al contenuto del carico. Una priorità massima era tutto quello di cui il BDU riteneva si dovesse sapere a riguardo. «Avrà tutta la mia collaborazione e, ovviamente, quella del mio equipaggio.» A Josef bastò un cenno al capo equipaggio perché quello si desse da fare per farle caricare a bordo. Schioccando le dita, Falkenmayer ordinò ai suoi uomini di prendere in consegna le casse. Questi si fecero avanti ma furono subito intercettati dai tre militari di scorta. Chiusi nei loro smock mimetici, le mostrine con le due rune Siegh, tipiche dei reparti delle SS, ben visibili, quegli uomini sembravano pronti per un’operazione di guerriglia. Non che l’U-666 si apprestasse a partire per una gita di piacere, ma nessuno a bordo si aspettava di doversi cimentare in un conflitto a fuoco o in corpo a corpo. L’espressione e l’equipaggiamento di quei tre uomini, però, sembrava urlare l’esatto contrario. «Perdoni l’eccessivo zelo» disse Kurtz affabile. «Abbiamo ricevuto l’ordine di scortare il carico. Per questo effettueremo turni di vigilanza armata di quattro ore. Scelga pure un luogo adatto a questo scopo.» A un suo cenno, i tre si fecero da parte, lasciando spazio ai marinai per caricare le casse. Fu in quel momento che Josef poté osservare meglio l’ometto che si nascondeva
dietro i militari. Se ne stava in silenzio, con la testa china a fissare una pozza oleosa di nafta, quasi che tutto quello che gli ruotava attorno non gli appartenesse. Indossava abiti civili e una pesante giacca di panno, abbigliamento totalmente inadatto alla navigazione su un sommergibile. Che non fosse un militare lo si poteva dedurre con facilità dal suo sguardo smarrito e preoccupato. Aveva qualche anno in più di lui, e il fisico più adatto a un imbratta carte che a un uomo d’azione; tuttavia, Josef, provò subito una curiosa simpatia. Forse per via di quel volto cordiale e quegli occhi pieni di sincero sconforto. Le disposizioni sulla missione non facevano menzione di un civile a bordo, si limitavano al numero di eggeri. «Vedo che ha notato il nostro illustre ospite, Lüth.» Herbert lo colse assorto nei suoi pensieri e lo risvegliò dalle sue riflessioni. «Herr Sartori, è un archeologo d’indiscussa professionalità.» L’ometto, vincendo l’imbarazzo, fece qualche o avanti e porse la mano al comandante. «Eno Sartori, piacere di conoscerla.» «Piacere mio, Josef Lüth.» Non gli sfuggì l’accento italiano. Un archeologo, quindi. Le cose cominciavano a prendere forma nella sua testa. Se quegli stregoni delle SS si davano tanta pena per avere un archeologo a bordo, forse non stavano trasportando niente di così pericoloso. Le idee che si era fatto non trovavano più conferma ora che l’identità di quell’uomo era stata svelata. In qualche modo, questo lo rincuorò. Niente armi segrete o chissà quale altra diavoleria nazista. Probabilmente, Himmler stava solo aggiungendo qualche altra cianfrusaglia, dal dubbio valore, alla sua collezione. «Bene, non mi resta che augurarvi buon viaggio e buona fortuna.» Herbert, senza perdere il sorriso, si affrettò a stringere le mani a tutti gli ufficiali, poi tornò verso la sua macchina. Le due Kübelwagen fecero retromarcia e sparirono nella penombra dei bacini di carenaggio. «Se volete seguirmi, signori» fece strada Josef, «stavo giustappunto illustrando agli ufficiali gli ordini di missione e la nostra destinazione. Faremo il punto nel quadrato ufficiali una volta a bordo. Ma prima, occupiamoci del carico.» Salirono in fila indiana sulla erella traballante mettendo piede sul pagliolato della coperta, dove erano ancora stipati alla rinfusa parabordi, cime, sacchi, scatole contenenti lattine e materiali vari. Dal boccaporto di prua, due marinai
avano buste di carta con delle pagnotte appena sfornate a braccia invisibili. Una leggera condensa bianca fuoriusciva dal boccaporto e dalle bocche degli uomini quando i bagliori delle saldatrici li illuminavano in controluce. Il gruppo con in testa il primo ufficiale Hollstein salì i pioli umidi e scivolosi che si arrampicavano sulla torretta e, una volta lassù, al riparo della plancia, attraverso il boccaporto stagno, discese all’interno del sommergibile. Una ripida scaletta li introdusse nel ventre della balena, dove una confusione incredibile regnava frenetica. Un via vai continuo di uomini rendeva difficile il normale camminare anche a causa dello scarso spazio a disposizione. La camera di manovra, l’angusto locale di tre metri per quasi quattro e mezzo in cui discesero, era il centro nevralgico del sommergibile. Uno spazio ristretto tagliato a metà dal pozzetto d’acciaio del periscopio. Non appena vi mise piede, Josef si sentì rinvigorito. I ventilatori ronzavano piano e l’aria puzzava di cavoli marci e nafta, tuttavia, si sentì di nuovo a casa. Quell’odore era poca cosa se paragonato a quello della biancheria che avrebbero indossato al ritorno. In quell’intrico di valvole, tubature, condutture e cavi scoperti, si trovava la strumentazione per la navigazione, il sistema di puntamento e il rilevamento acustico dell’U-boot. Un vero incubo idraulico per chiunque non fosse abituato a quella visione. Si concesse un sorrisetto a mezza bocca, alla luce delle lampadine schermate, osservando di sottecchi le facce sconcertate degli uomini del maggiore Kurtz e dell’archeologo. Contrariamente a quanto si era aspettato, il maggiore non mostrò di esserne intimidito. «Questo è il cuore della bestia, signori, da qui si controllano il timone verticale e quelli di profondità, le valvole per l’allagamento delle casse e altre diavolerie che vi risparmio volentieri, almeno per il momento» disse Hans, orgoglioso di esserne parte. Quello era il suo regno, lo scienziato pazzo e la sua creatura. Quadranti bianchi, volani rossi, verdi e grigi, ripetitori di qualsiasi strumentazione ci fosse a bordo, erano i suoi strumenti da chirurgo. «Se non vi dispiace, io mi fermo qui, continuate pure il vostro giro istruttivo senza di me.» Hans diede uno sguardo all’orologio posto sopra il pozzetto del periscopio, salutò e si mise subito a controllare le valvole di allagamento, quasi stesse
cercando una scusa per staccarsi dal gruppo. Attraverso il portello emisferico, uscendo verso poppa, arono in un corridoio ingombro di casse di legno e scatoloni di cibo. Due marinai, dai bicipiti lucidi per il sudore, erano intenti a sistemare delle pagnotte sulle brande attaccate alla parete. File di salumi pendevano dal soffitto, dando l’idea di trovarsi in una cantina piuttosto che in un sommergibile. A metà tra i due ambienti, ancora chino sul portello, Josef si tirò uno sguardo alle spalle per controllare che tutti lo stessero seguendo. «Non ci giocherei con quello, signor Sartori!» Tutti si voltarono. Eno ritirò la mano non appena sentì il suo nome. Come uno scolaro sorpreso a disegnare durante una lezione, divenne rosso in viso. Aveva appena sfiorato la manopola del periscopio. «Quello è il periscopio, l’unico occhio a nostra disposizione quando siamo in immersione. Senza, siamo ciechi. Avrà modo di scoprire le meraviglie della Unterseewaffe più tardi, non dubiti.» L’ometto si affrettò a raggiungere il gruppo, quando il Capo posò lo sguardo su di lui. Il grosso capo equipaggio era alle prese con dei sacchi di patate e con le solite pacche e grida ai marinai fannulloni. «Gli alloggi dei sottufficiali» continuò Josef, quando tutti furono nello stretto budello. «Qui dormono i capi e i sottocapi. Parecchia gente, mi creda, ma troveremo una branda anche per lei. signor Sartori. Starà benone in loro compagnia.» Osservò l’uomo guardarsi attorno, incapace di figurarsi come, in quell’angusto corridoio, ci potessero dormire degli esseri umani. Quattro cuccette a destra e quattro a sinistra erano state ricavate addosso alle pareti e, avvitato al pavimento, in mezzo al corridoio, c’era un piccolo tavolo dai lati reclinabili. Forse l’ambiente meno accogliente a bordo, di sicuro non adatto a un ospite di riguardo per via del transito continuo dei cambi di guardia, ma almeno avrebbe avuto una branda tutta per sé. Josef gli risparmiò la scocciatura di dividerla con gli altri, come la consuetudine della branda calda voleva, evitandogli di sdraiarsi nel tanfo di qualcun altro.
Sartori fissò il soffitto con le traverse metalliche appena laccate di bianco. Osservò senza troppo interesse i prosciutti e i salami appesi con fili e ganci, e le pagnotte che riempivano le cuccette. Sembrava più interessato alle file di bulloni che vi correvano lungo tutta la lunghezza. Non faticò a immaginare cosa stava ando per la testa di quell’uomo. Gli lesse negli occhi il terrore che quelle giunture non tenessero alla pressione. Si sarebbe abituato presto, si disse. «I progettisti della Marina sono tra le persone più pratiche che io conosca» disse Josef, per stemperare la tensione che percepiva nei suoi ospiti. «Una volta piazzati i motori diesel, quelli elettrici e i tubi lancia siluri, quel poco spazio che rimane è destinato all’equipaggio. Se dovessero inventare qualche altra diavoleria ci toccherebbe dormire in coperta, temo.» «Abbiamo lo stesso problema nei carri» rispose Kurtz, per niente impressionato da quanto aveva visto. «Immagino di sì» tagliò corto Josef. «Qui c’è la cucina, se così vogliamo chiamarla.» Tobias Rau, il cuoco di bordo, salutò allegramente senza smettere di mescolare, con un lungo cucchiaio di legno, una brodaglia scura che odorava di cavoli. Il volto del ragazzo appariva, alla luce delle lampade, dello stesso colore di quella zuppa odorosa. Sopra di lui, il boccaporto di emergenza era aperto e il fumo fuoriusciva verso l’alto in piccole volute bianche. La cucina era l’unica cosa, in quei pochi metri, in continua attività. La visita guidata proseguì attraverso la sala motori diesel. La paratia era aperta e l’effetto sorpresa fu parzialmente rovinato. La stanza era interamente occupata dai due enormi motori diesel per la propulsione in superficie, ora spenti e silenziosi. La puzza di nafta e olio lubrificante li costrinse a respirare con la bocca, segno che i motori erano stati avviati per testarne il funzionamento. Come in tutti gli ambienti che avevano visitato, anche questo sfruttava ogni centimetro quadro a disposizione tra i due mastodonti. Intrichi di condutture, pompe di circolazione per il raffreddamento, pompe dell’olio, e ancora manometri, telegrafi di bordo, pannelli per le temperature e le bombole per l’avviamento catturavano lo sguardo dando la sensazione di trovarsi in un ambiente quasi lugubre. Non per altro, i motoristi addetti ai diesel erano spesso chiamati, dal resto dell’equipaggio, spettri, costituendo una vera e propria casta. Un po’ per via del loro colorito pallido, un po’ perché difficilmente si allontanavano dal loro
regno, preferendo la compagnia di valvole e pistoni a quella degli altri membri dell’equipaggio. «I nostri muscoli» disse Josef colpendo il motore di dritta. «Ogni motore è a sei cilindri e insieme sviluppano duemilaottocento cavalli. Avrete presto modo di ammirarli all’opera.» Il capo motorista Nagelschmitz era indaffarato a controllare la pompa di mandata dell’olio. Le mani ceree, immerse tra i tubi, colavano liquido che scendendo sui polsi, senza troppe cerimonie, gocciolava a terra in piccole pozze brune. Il contrasto, tra lo scuro dell’olio e la pelle bianco latte del capo motorista, rendeva l’idea del perché gli uomini a bordo fossero soliti chiamarlo in quel modo. Lo spettro non badò più del dovuto al piccolo corteo che aveva invaso il suo territorio, salvo mostrare un’espressione rassegnata. Un solo cenno di saluto al comandante, toccandosi appena i capelli unti, e tornò a immergersi nel liquido viscoso. Lo sferragliare degli stivali, sulle erelle di metallo, riecheggiò tra le pareti finché il gruppo non si ritrovò nell’asettico ambiente del locale motori elettrici. Diviso da una paratia dalla cripta dei diesel, lo sterile vano contenente i due motori elettrici per la propulsione in immersione ebbe l’effetto di risollevare gli animi degli uomini del piccolo corteo. Gli sguardi di tutti roteavano in ogni direzione, osservando i freddi pannelli di metallo della piccola centrale elettrica. Dove nel regno degli spettri tutto era sporco, ingarbugliato e disordinato, qui regnava un ordine fuori dalla realtà. Anche il traffico di uomini e materiali era diminuito sensibilmente. «L’estrema poppa, signori. Qui finisce il nostro viaggio. Si è provveduto a sistemare il vostro bagaglio sotto la chiusura del tubo lanciasiluri di poppa che, per questa missione, non verrà utilizzato se non in estremi casi di emergenza e comunque in comune accordo col maggiore Kurtz.» Le due casse e le sacche contenenti gli effetti personali dei eggeri erano state disposte in buon ordine accanto al compressore d’aria di dritta. Lo spazio vitale era minimo e soggetto al via vai dei motoristi addetti ai motori elettrici, tuttavia, le guardie scelte delle SS avrebbero potuto vigilare senza troppi fastidi sul carico. Kurtz sembrò soddisfatto della sistemazione dei suoi uomini. «Quanto a lei, maggiore, le è stata riservata una cuccetta negli alloggi degli
ufficiali. Il direttore di macchina sarà felice di ospitarla nella branda sopra la sua.» Josef si avvicinò a Kurtz. «Un posto privilegiato, mi creda» disse sottovoce. «Almeno non dovrà disfare la branda durante il giorno come il povero Werner.» Lanciò un’occhiata ironica al secondo ufficiale, il quale sorrise remissivo. Kurtz piegò la testa di lato in un cenno di riconoscenza. «Andrà benissimo qualunque sistemazione. Qualsiasi cosa è meglio dei letti degli hotel si.» «Su questo non posso che darle ragione.» Josef si strofinò le mani annuendo. «Bene, vi lascio al sottotenente Werner, io sarò in plancia per le operazioni di partenza. Con permesso.» Prima di sparire nel vano motori diesel, accompagnato da suo primo ufficiale, Josef ebbe modo di osservare l’efficienza degli uomini di Kurtz. In men che non si dica, disposero le due casse in modo tale da evitare qualsiasi collisione indesiderata e le coprirono con un telo mimetico prelevato da una delle sacche. Un ragazzone dai capelli bruni e la pelle slavata si piazzò a guardia del carico. Josef finse di non notare l’oggetto lucido che gli spuntava da sotto lo smock. La canna di un MP40 brillava alle fioche lampadine schermate della camera di poppa. Qualunque cosa ci fosse in quelle casse, doveva possedere un enorme valore per gli uomini di Himmler, al punto da ritenere opportuno doverle proteggere ricorrendo all’uso di pistole mitragliatrici. Quando lo stivale dalla suola in sughero si posò sulla erella metallica del locale diesel, Josef incrociò lo sguardo di Eno Sartori. Fino a quel momento rimasto in un timido mutismo, ebbe l’impressione che il piccolo archeologo volesse gridargli la sua frustrazione a pieni polmoni. Quegli occhi marroni nascondevano una malcelata richiesta di aiuto che Josef fraintese. Non dubitava che quell’uomo fosse a bordo contro la sua volontà, ma vi lesse qualcos’altro che equivocò come semplice paura. I volontari della Unterseewaffe avevano fatto i conti con la morte già da tempo, fin dai primi giorni di corso. Era una compagna costante durante le missioni e poteva accoglierli, con il suo dolce abbraccio, in qualsiasi momento. Una presenza ingombrante a bordo, ancora più dei grandi motori diesel e, allo stesso modo, poteva assordare nei momenti di maggior sconforto. Si diceva che l’urlo della signora in nero fosse l’ultima cosa che un uomo potesse udire prima che il mare gli riempisse i polmoni e le sabbie dei fondali marini accogliessero la sua
anima. Eno Sartori, immaginò Josef, stava facendo i conti con quelle emozioni. Erano ancora ormeggiati nel bunker; cosa sarebbe accaduto alla psiche di quegli uomini, così estranei al mare, quando avrebbero risuonato le sirene d’immersione rapida? Quando gli scricchiolii della pressione sullo scafo di metallo avrebbero distrutto i loro nervi come a un bambino lasciato solo, al buio, in una casa piena di rumori? Josef alzò lo stivale e fu dall’altra parte dalla paratia. Hollstein era a un o da lui. Il cenno di saluto del capo Nagelschmitz, cui rispose in modo automatico, dissipò quei pensieri. Un rapido sguardo all’orologio sulla paratia del locale diesel gli diede la misura del tempo. Era giunta l’ora di salpare.
Capitolo 5
Josef risalì in plancia, un o misurato alla volta, senza fretta. Il freddo umido del bunker lo fece rabbrividire. Si coprì la bocca con la sciarpa rossa di cashmere che aveva portato nel bagaglio insieme alle altre poche cose, regalo della moglie di un ufficiale della propaganda. Una brava donna con cui Josef aveva trascorso qualche allegro sabato pomeriggio a giocare a Doppelkopft. Aveva nutrito il sospetto che lo lasciasse vincere pur di non rinunciare alla sua compagnia, definendola speciale. A Josef piaceva conversare con lei e a lei piaceva ascoltare i suoi racconti delle dure nottate di pesca durante il periodo inglese a Portsmouth. «Peccato non poterci andare ora» diceva lei in continuazione. «La guerra ha reso tutto più difficile, e quell’ubriacone di Churchill non ce la rende più piacevole.» Il profumo di quel tessuto, così morbido al tatto, gli fece ricordare la piacevole sensazione di ritrovarsi davanti a un caminetto . L’odore della legna bruciata, l’aroma del tè appena servito, le chiacchiere, le risate. Nulla di tutto questo apparve quando si affacciò alla murata: solo la prua del sommergibile e un via vai di uomini indaffarati nei loro compiti. «Si sta facendo tardi.» Hans sbucò alle sue spalle come un fantasma da una tomba. «E sia, dunque. Sottotenente Hollstein, dia l’ordine di salpare.» Come un fulmine, il ragazzo si sporse dalla murata e gridò ordini nella fredda aria mattutina. «Ritirare le erelle, mollare i traversini a prua.» Un marinaio urlò di rimando. «Mollati traversini a prua!» «Mollare a poppa!» disse ancora Hollstein.
Un altro marinaio afferrò il cavo di acciaio, che ora cadeva molle sul metallo del sommergibile. «Mollato tutto a poppa» urlò un sottufficiale. «Alare gli ormeggi, il primo turno di guardia ai posti di manovra!» Hollstein si rivolse a Josef. «Ormeggi staccati a prua e poppa, comandante, il primo turno di guardia è pronto.» «Perfetto, tenente» rispose soddisfatto. C’era allegria a bordo, gli uomini sorridevano e salutavano quei pochi venuti ad assistere alla partenza. Per lo più qualche militare di guardia e pochi meccanici curiosi. La partenza dell’U-666 doveva rimanere segreta ai più. Era pratica comune tra le spie si comunicare l’orario di partenza e rientro agli alleati. «Nemmeno la banda musicale, che irriconoscenti» Hans sembrò sinceramente deluso. Alzò le labbra e rilasciò i muscoli delle spalle. «Se credi, possiamo dare un colpo di sirena, così tutta la dannata RAF ci sarà alle costole prima di raggiungere il mare aperto.» «Lasciamo stare per questa volta, non credo che il maggiore, là sotto, approverebbe.» «Che ne pensi?» chiese Josef senza togliere gli occhi dalle operazioni che si stavano svolgendo sul pagliolato della coperta. «Di Kurtz?» Hans alzò le spalle. «Lo sai come sono fatti questi boche delle SS. Pochi sorrisi, troppi Siegh Heil. Non mi preoccuperei di lui, il primo mare grosso lo rimetterà con i piedi per terra. Tra le onde dell’Atlantico anche i leoni diventano agnelli.» «Fossi in te, abbasserei la voce. Non credo che gli piaccia essere chiamato a quel modo.» «Bah, sciocchezze. Piuttosto, preoccupati di quell’italiano… quel Sartori. È un pesce fuor d’acqua e prima o poi ci creerà problemi, te lo dico io.» Gli uomini sulla banchina avevano terminato di sciogliere gli ormeggi. Josef rimase quieto in attesa, quasi fosse un curioso capitato lì per caso.
«Ha qualcosa negli occhi che…» Un fischio prolungato e Hollstein si voltò verso di loro. «Comandante, pronti per scostare.» Josef prese una boccata d’aria fresca e la rilasciò facendo sgonfiare il petto. «Facciamo muovere questa carretta» disse, mentre cominciava a dare ordini attraverso il tubo comunicatore posto in plancia. «Attenzione ai telegrafi, motore di sinistra avanti adagio, motore di dritta indietro adagio.» Gli ordini attraversarono il tubo metallico e giunsero in camera di manovra. Si sporse più che poté dalla plancia per tenere d’occhio i paracolpi che iniziavano a raschiare contro la banchina con un suono simile a un grammofono rotto. «Entrambe le macchine stop. Timone al centro.» Mentre il sommergibile si staccava dalla banchina, gli uomini a terra iniziarono a salutare con grossi cenni delle braccia, cori e fischi. Qualcuno lanciò un mazzolino di fiori bianchi, imitando in falsetto una voce femminile. Tra le risate generali, un marinaio lo raccolse e l’offrì al sottocapo addetto al pezzo da 88. Questo, sghignazzando, lo infilò nella bocca del cannone. Il sommergibile si fece strada nelle acque scure come inchiostro spinto dall’abbrivio. Le eliche ripresero a girare e il sibilo dei motori elettrici conferì al freddo metallo una piacevole vibrazione. Josef la percepì attraverso il paravento della plancia e ne rimase entusiasta. Le oscillazioni aumentarono quando le macchine presero i giri e la prua s’incuneò nel bacino, dritta verso l’uscita del bunker. Una leggera foschia si alzò pigra dal mare. Piccoli sbuffi di ovatta attraverso i quali il sole illuminava il grigio metallo dell’U-666 tingendolo di un bel color ottone. Intravidero in quella fredda bruma delle sagome scure, relitti d’imbarcazioni colate a picco dai commando inglesi. Josef le osservò cambiare forma secondo i movimenti della nebbiolina. Provò una profonda tristezza per quello spettacolo così deprimente. «Avviare i diesel» disse nel comunicatore.
Aspettò che l’ordine fosse ripetuto dal secondo ufficiale giù in camera di manovra e, dopo qualche istante, una vibrazione ben più forte di quella percepita con gli elettromotori, diede il via ai muscoli del sommergibile. Sotto la spinta dei potenti motori diesel le eliche iniziarono a girare formando una scia di schiuma proprio dietro di loro. «Guarda.» Hans gli batté su una spalla, indicando un punto lontano sulla banchina del porto. «Cosa?» «Quelle donne laggiù, quel gruppetto. Quante saranno? Tre, quattro?» «Sono qui per te, immagino.» «Non me la faccio con le maquisard. Le partigiane si hanno il cazzo.» «Immagino tu sia abituato a ben altro.» «Immagini bene, ma non cambiare discorso. Quelle puzzano di resistenza, altrimenti cosa ci starebbero a fare a quest’ora in questo cimitero.» «Magari commemorano i mariti morti.» «Li hanno belli che dimenticati i mariti quelle là, lasciamelo dire» Hans sputò a mare in direzione delle donne. «Mi sembra di vedere i loro piccoli occhi che ci scrutano; i biglietti cifrati con l’ora della nostra partenza are di mano in mano. Se guardi bene puoi vedere l’odio stampato sui loro volti, ben presto avremo guai, me lo sento.» «Non cominciare con questi discorsi da menagramo o ordinerò a Falkenmayer di buttarti di peso in mare.» «Sì, sì, come ordinate, comandante.» Hans si accucciò contro il congegno di punteria, con il mento poggiato sull’incavo del gomito. Josef lo sentì borbottare qualcosa, ma sorvolò. L’aria dell’Atlantico s’insinuava in modo meschino sotto gli abiti. Josef si strinse il nodo della sciarpa e sciolse i muscoli contratti dal freddo facendo roteare le spalle.
Il sole fece capolino attraverso le nubi rosate, inondando con i suoi raggi le acque nere del porto che presero a brillare come una distesa di diamanti. Gli unici rumori venivano dalle accorate grida dei gabbiani che si lanciavano sulla scia del sommergibile in cerca di cibo. L’acqua iniziò a sciabordare contro le carene di metallo e alcune onde, più consistenti di altre, annaffiarono senza troppi complimenti i marinai. «Tenente, faccia sgombrare la coperta» ordino Josef. Hollstein diramò gli ordinativi e la coperta divenne un brulicare di uomini. «Macchine avanti mezza» disse nel comunicatore poi, rivolto a nessuno in particolare, aggiunse: «Vediamo come se la cava questa vecchia carretta». Non appena i motori aumentarono i giri, la prua prese a sobbalzare e l’acqua sciabordò attraverso le griglie in densi fiotti schiumosi. Il porto dietro di loro e i grandi frangiflutti cominciarono a rimpicciolirsi alla vista quando il sommergibile si allontanò sottocosta. Gli edifici, le imponenti gru, i relitti delle navi affondate e quelle in riparazione, il bunker e le postazioni dei pezzi dell’antiaerea, tutto divenne confuso in quel lattiginoso mattino di novembre. «Quelli sono qui per noi, spero» disse Hans, indicando una grossa imbarcazione dipinta con un’insolita mimetica. Istallata sulla coperta c’era una mitragliera antiaerea Flack da 2cm. «Voglio sperare di sì» rispose Josef, indicandone una seconda alla loro sinistra. «Come si è ridotta la Kriegsmarine. Dover convertire vecchi pescherecci si in motolance di scorta.» «Meglio di niente. Devono essersela vista davvero brutta quaggiù.» «Già, hanno fatto davvero un bel casino.» Hans osservò, attraverso il denso fumo nero delle due imbarcazioni di scorta, i relitti degli alberi delle navi da trasporto e dei rimorchiatori che affioravano a pelo d’acqua. «Andrà tutto per il meglio» disse Josef, quasi senza accorgersene, come se quella
frase fosse dettata dall’istinto. «Lo credo bene, e sarà meglio per te se mi riporti sano e salvo a casa, o dovrai renderne conto a metà dei bordelli di Berlino.» Hans si sollevò dal sostegno del puntatore e, senza aggiungere altro, scese la scaletta e sparì sottocoperta. Josef rimase a fissare la costa in lontananza. Appena cinque miglia più a sud, sul promontorio di Prefàilles, s’intravedeva il faro di La Pointe Saint-Gildas. A nord, la grande insenatura di La Baule ferveva di vita anche in quel periodo così terribile. Un’ora più tardi le due imbarcazioni di scorta si disimpegnarono, tornando rapidamente in porto. L’eccessiva premura con cui li abbandonarono al loro destino era giustificata: il Golfo di Biscaglia era luogo di agguati da parte dei caccia inglesi. Gli attacchi si erano fatti tanto frequenti, da indurre molti a pensare che Churchill sapesse esattamente l’ora in cui gli U-boot lasciavano o rientravano in porto. Un’onda investì il sommergibile facendo sparire per un attimo la prua. L’acqua schiumosa frizzò sulla coperta, poi si ritirò velocemente restituendo la prua alla superficie. Il sommergibile s’inclinò e si risollevò al ritmo delle onde e ogni volta schizzi d’acqua salata investivano la torretta, bagnando gli uomini di guardia su di essa. Josef non si lasciò intimidire dai marosi e sorrise leccandosi le labbra. Quel sapore di salsedine era ancora più eccitante di quanto ricordasse. Diede un colpo secco sul metallo della murata e arricciò le labbra. «È ora di fare il bagnetto.» Il cielo era chiazzato da pennellate casuali di bianco, dove piccole nubi filtravano la luce solare. La giornata si preannunciava buona e il mare iniziava ad assumere il suo caratteristico colore blu scuro, lasciando a casa il ricordo delle acque verdi e melmose del porto. «Hollstein, tra dieci minuti voglio una prova d’immersione. È ora di vedere come se la cava questa carretta con la pressione. Verificare le pompe di sentina, la permeabilità dei portelli e la velocità d’immersione.» Josef si chinò e mise il piede sul primo piolo della scaletta che spariva nel boccaporto, poi si fermò e alzò la testa verso il primo ufficiale. «Ripensandoci, sarebbe meglio che fosse una prova d’allarme. Vediamo come se la cavano là sotto, che ne dice?»
Hollstein ridacchiò. Il volto quasi interamente coperto dal binocolo. «Una prova d’allarme tra dieci minuti, certo comandante. Ci sarà da divertirsi senza meno.» «Facciamoli divertire, allora» rispose Josef, prima di scendere la scaletta. Il primo ufficiale rimase a sghignazzare con gli altri quattro uomini del primo turno di guardia. Fortunatamente, in quel momento, le nubi avevano deciso di lasciare il campo all’immensa calotta azzurra e la visuale era talmente ampia da prevenire attacchi inaspettati dall’alto. Josef toccò con i piedi la lastra di metallo sotto il boccaporto e diede un’ultima occhiata al celeste del cielo. «Ci tocca stare in guardia?» gli sussurrò Hans vicino all’orecchio. Josef storse la bocca e si allontanò verso il tavolo di carteggio, dove l’ufficiale di rotta Karl Zielinski era chino sul portolano. Quell’Hans riusciva sempre a rovinargli la festa. Aveva la capacità di leggergli la mente, senza dubbio. O magari erano semplicemente amici da troppo tempo e le intenzioni dell’uno erano chiare nella mente dell’altro. Avrebbe trovato il modo di sorprenderlo prima o poi. Fissò le lancette del suo orologio, un Alpina KM 592, regalatogli dalla Marina al suo primo comando. Mancavano solo pochi secondi a mezzogiorno. Un urlo fin troppo vero diede il via al panico a bordo. «Allarmeee!»
*
Eno Sartori se ne stava seduto sulla sua cuccetta, intento a fissare le gocce d’acqua che scendevano lungo la parete vicino all’involucro metallico dell’altoparlante. Era concentrato sul far naufragare i pensieri per non dover
affrontare la dura realtà, quando la luce rossa si accese e il finimondo sembrò scoppiare a bordo. La sirena iniziò a strillare con un fragore che lo costrinse a tapparsi le orecchie. Il cuore prese a pompargli più forte per quel senso d’urgenza che non sapeva come contrastare. Era poco più che un eggero a bordo e non aveva esperienza in fatto di navigazione. Per quanto lo riguardava, stavano per colare a picco e quelli erano gli ultimi respiri che il buon Dio gli concedeva. A interrompere il suo supplizio fu l’avvertimento del nostromo. Il vocione di Falkenmayer iniziò a rombare per tutto il sommergibile. Sembrava quasi stesse intonando un’opera lirica, tanto era fomentato. Le sue parole giungevano senza senso alle orecchie di Eno. Poco dopo si tramutarono in un frastuono di stivali e piedi nudi che calpestavano il pavimento dell’alloggio sottufficiali dove Eno era stato sistemato. Una fila di uomini, come una mandria impazzita, si scapicollava accalcandosi verso la prua del sommergibile. arono di filata sotto gli occhi inebetiti di Eno. Uno cadde e interruppe il flusso continuo, ma subito le urla e le spinte di Falkenmayer ridiedero slancio alla corsa, finché tutti gli uomini, senza un compito attivo, non furono ammassati nel locale di prua. Solo in quel momento, Eno trovò il coraggio di scendere dalla sua cuccetta. A i indecisi attraversò il portello emisferico che dava nella camera di manovra. «Chiudere tutte le valvole» sentì urlare quello che ricordava essere il direttore di macchina. Hans qualcosa, non aveva ancora memorizzato tutti i nomi di quegli sconosciuti. Gli uomini, in quello spazio semibuio e angusto, risposero con voci squillanti. «Una chiusa! Tre e cinque chiuse!» «Valvole chiuse, comandante» disse il direttore. «Bene, allagare.» Stavolta fu il comandante a parlare. Se ne stava tranquillo appoggiato a un tavolo dove erano sistemati dei rotoli di carta. Osservava il suo orologio senza mai staccare gli occhi dalle lancette. «Allagare!» Il direttore ripeté l’ordine diretto ai suoi uomini. Due marinai si misero a girare freneticamente dei volantini e un sibilo, seguito da un rombo, invase tutta la stanza.
«Stia tranquillo, è tutto sotto controllo. Il Vecchio sa il fatto suo.» La voce provenne da sinistra. Solo in quel momento, Eno si rese conto di essersi spinto fin quasi sotto il boccaporto stagno. Si voltò con gli occhi sbarrati in un’espressione che doveva apparire di puro terrore. «È la normale procedura di allarme, ci farà l’abitudine, vedrà» disse Werner, quello che Eno ricordò essere il secondo ufficiale a bordo. «Il Vecchio?» farfugliò. «È solo il modo con cui chiamiamo a bordo il capitano. Un nomignolo affettuoso, se mi a il termine.» «E questi rumori?» chiese sottovoce, per paura di distrarre qualcuno, qualunque cosa stesse facendo in quel momento. «Questi sibili? È solo l’aria che esce dagli sfiatatoi in cima ai cassoni.» Rendendosi conto dell’espressione incerta del suo interlocutore, proseguì. «Le casse ci sostengono in superficie come dei cuscini d’aria, se togliamo l’aria, permettiamo all’acqua di allagare le casse attraverso le valvole di allagamento e così la spinta di galleggiamento si annulla e noi affondiamo.» «Affondiamo?» «Ci immergiamo sarebbe più corretto.» Il ragazzone si lisciò i capelli biondi e fece l’occhiolino al primo ufficiale che si trovava davanti a un complesso intrico di valvole colorate. Eno fu costretto a reggersi a un tubo per non cadere. Il sommergibile si era appruato sensibilmente, ma il semplice rimanere eretto sembrava fosse difficile solo per lui; gli altri erano perfettamente a loro agio in quella situazione. Un nuovo rombo e poi più nulla. Eno percepì una sensazione di silenzio quasi tangibile, come se stesse galleggiando in un mare di ovatta. «Siamo sotto» disse Werner piegandosi verso di lui. «Timoni dieci in alto a prora, dieci in alto a poppa» comandò il direttore di macchina ai due uomini seduti davanti a quelli che, agli occhi inesperti di Eno, apparvero come due volanti.
Il sommergibile, con estrema lentezza, tornò nella posizione di stabilità. Solo allora Eno si accorse di essere ancora attaccato al tubo. Le nocche bianche gli diedero la misura di quanto si fosse tenuto stretto a quel delicato pezzo di metallo. «Chiudere gli sfiatatoi. Sommergibile stabile e bilanciato, comandante!» «Bene, signor Fleischmann. E ora vediamo di scendere un po’.» Il comandante alzò gli occhi dal suo orologio e, da sotto il berretto bianco, osservò la serie di quadranti e manometri posti davanti ai timonieri. Anche il direttore tenne gli occhi fissi sull’indicatore di profondità, un largo quadrante bianco che riportava, a tacche di dieci metri fino a un massimo di duecento, la profondità del battello. «Quindici a poppa in alto» ordinò ancora il direttore. Il marinaio agì sul comando elettrico e il timone di poppa si alzò di altri cinque gradi. «Trenta metri» disse con voce sicura. Eno percepì per la prima volta una sensazione nuova. Non del tutto spiacevole, ma l’idea di trovarsi tra quelle pareti di metallo, sotto trenta metri d’acqua, lo sconvolse più di quanto fosse disposto ad ammettere. Senza neanche accorgersene mosse un o, poi un altro e in breve tempo si ritrovò aggrappato alla scaletta che portava all’esterno. «Curioso come il primo pensiero di chi si trova per la prima volta in un sommergibile sia quello di cercare di uscirne il prima possibile.» A parlare, stavolta, fu il comandante. Eno si accorse che lo stava fissando, tuttavia i suoi pensieri erano altrove. «Ho sentito storie» continuò, «di battelli affondati e in seguito recuperati. Sembra che l’ultimo pensiero di quegli uomini, prima che il mare si prendesse le loro vite, fosse di doversi trovare proprio sotto il portello stagno. Non è sicuramente il miglior posto per morire da eroi quando si è sul fondo dell’oceano.»
Eno, rispondendo a un comando meccanico, tornò vicino ai servomotori dei periscopi, dove lo attendeva il sorriso sornione del secondo ufficiale. «Adesso sentirà che sinfonia.» Quasi in risposta alle parole di Werner, uno scricchiolio metallico suonò sinistro in quel silenzio di tomba. «Cinquanta metri» disse il direttore. «Scendiamo ancora» ordinò il comandante. «Sessanta… settanta…» Un fremito investì il sommergibile. Ancora quel frastuono tra le paratie. «Sembra una casa di fantasmi, eh?» disse Werner che sembrava provarci gusto. Eno pensò che non ne poteva più ed era deciso a far valere le sue ragioni, quando dalla paratia di prua sgusciò la sagoma dello Sturmbannfuhrer Hermann Kurtz. «Cosa sta succedendo, comandante?» disse con voce seccata, quasi tutto quel trambusto avesse infastidito il suo sonno. «Normale amministrazione, maggiore. Nient’altro che un’esercitazione per testare i nervi di questi uomini e dare una sgrassata a questa bella ragazza» rispose Lüth. Molti nella sala manovra tirarono un sospiro di sollievo a quelle parole. Un allarme non era mai preso con leggerezza, anche se i comandanti erano soliti organizzare esercitazioni per testare il grado di lucidità dell’equipaggio. «Capisco. Spero che la prossima volta voglia concordare con me le esercitazioni. Non lo dimentichi, la missione che ci è stata affidata è di primaria importanza su tutto il resto.» «Non lo dimenticherò, maggiore. Voglia scusare questo trambusto: a volte a bordo di un sottomarino tendiamo a essere alquanto bruschi, non si ripeterà. Non prima che ne sia stato informato, ovviamente.»
Eno ebbe l’impressione che a Kurtz non fosse sfuggita la vena ironica del comandante. Lo vide aggrottare le sopracciglia, poi, come era arrivato, sparì attraverso il boccaporto tornando dai suoi uomini a poppa. «Dovremmo avvertire gli inglesi di mandarci un messaggio radio prima di attaccarci?» Il direttore di macchina sputò quelle parole senza distogliere gli occhi dalla bolla dello strumento a fluido che indicava l’assetto del battello. «Faccia silenzio, Fleischman!» rombò il comandante. Tutti tacquero in camera di manovra. Eno lo osservò togliersi il berretto, lisciarsi i capelli e poi ricalzarlo con un solo fluido gesto. Il comandante doveva essere parecchio turbato dalla presenza di quell’uomo a bordo. Lui stesso ne era spaventato. Le SS non erano persone con cui scambiare convenevoli e Kurtz sembrava il prodotto più oscuro della fabbrica dei soldati nazisti. «Potremmo non sentire il messaggio degli inglesi» aggiunse il comandante. «Lo faccia risalire, signor Fleischman.» Poi si diresse verso il suo alloggio.
Capitolo 6
Kurtz aprì gli occhi di soprassalto. La mano istintivamente colpì l’orecchio destro, come se un fastidioso insetto gli stesse ronzando attorno. Il brusio continuò implacabile. Una parete di legno riempiva tutto il suo campo visivo e la sensazione di sentirsi chiuso in una bara si fece pressante, tanto da costringerlo a dimenarsi tra le coperte e alzare d’impeto le braccia per assicurarsi che il coperchio non fosse ancora stato chiuso. Le mani toccarono il nulla. Solo pochi palmi sopra di lui vide il freddo soffitto di metallo con i suoi intrichi di tubature. Si costrinse a respirare profondamente e a voltarsi dall’altro lato. La pallida luce bianca gli diede la dimensione di quel luogo. Non era in una bara, almeno non in una di quelle convenzionali che l’esercito riservava ai suoi caduti, ma in una ben più squallida e puzzolente. Sentì il russare sommesso di qualcuno a soli pochi metri da lui. Un ritmo costante, accompagnato dal leggero beccheggio del sommergibile. Cominciò a rivalutare la cortesia del comandante di riservargli una cuccetta personale. Il solo pensiero di doversi sdraiare tra le lenzuola di qualcun altro lo fece rabbrividire. Non che durante il servizio attivo non fosse sceso a compromessi con l’igiene personale, ma condividere l’intimità con altri uomini non era accettabile. A ogni modo, quello stretto corridoio che rappresentava l’alloggio riservato agli ufficiali poteva considerarsi sufficientemente tollerabile per quell’incarico. Il ronzio tornò ad attirare la sua attenzione e solo allora si accorse dell’altoparlante sopra la parete. « Mein Tag ist grau, dein Tag ist grau» blaterava una canzoncina. Kurtz la riconobbe immediatamente, ora che i suoi sensi iniziavano a riprendersi dall’intorpidimento del sonno. Una canzone da kabarett di Hollaender, una di quelle divenuta emblema dello spirito antibellico. Il Partito Nazionalsocialista aveva condannato e censurato quel genere di musica, al pari di quella composta ed eseguita dagli artisti ebrei. Kurtz si stupì di ascoltarla proprio lì, all’interno di un sommergibile del Reich. Avrebbe fatto le sue rimostranze al comandante in
seguito, per ora sentiva solo la necessità di mettere qualcosa sotto i denti e bere un caffè caldo. Si tirò su e, liberatosi della coperta, si mise seduto sulla branda. Con un solo fluido movimento si piegò per scendere ma, non appena pose i piedi a terra, un senso di nausea lo colse impreparato, tanto da doversi tenere contro il bordo della cuccetta. Poggiò la testa sul materasso e rimase in quella posizione per alcuni secondi. «Tutto bene, maggiore?» Kurtz si voltò di scatto, seccato che qualcuno avesse scelto proprio quel momento per farsi vivo. Odiava mostrare le sue debolezze pubblicamente. Riconobbe il direttore di macchina e lo salutò con un cenno della mano. «Quello che ci vuole è una bella tazza di sudore di negro» disse Hans mostrando un largo sorriso e, così dicendo, gli porse una tazza fumante. Hermann Kurtz l’afferrò e buttò un’occhiata distratta al suo contenuto. «È solo caffè, non si preoccupi, ma il nostro cuciniere riesce a dargli quel tocco speciale rendendolo una vera schifezza. Avrà modo di scoprire le doti culinarie di Tobias Rau. Ha la straordinaria capacità di trasformare qualsiasi cosa commestibile e vagamente saporita in un intruglio denso che sembra vomito di capra.» «Non vedo l’ora.» Diede solo un’annusata e poggiò la tazza sul tavolino ingombro di avanzi. «Oh, ci farà l’abitudine, mi creda» disse Hans, ridendo di gusto. «E dopo qualche giorno lo troverà sopportabile.» In quell’istante entrò il cuciniere, quasi fosse stato evocato dalle parole del direttore di macchina. «Giusto tu, porta qualcosa da mangiare al maggiore. Dobbiamo togliergli la nausea.» Tobias annuì e sparì verso la cucina.
Ripresosi da quel momento di sbandamento, si ricompose. Indossò gli stivali, lo smock mimetico e si calzò per bene il berretto di tessuto grezzo. Quei semplici gesti gli ridiedero il decoro necessario per tornare nei panni che più gli si addicevano, quell’uniforme da maggiore delle SS che ormai gli stava addosso come una seconda pelle. «Credo che farò un’ispezione al carico prima di consumare la colazione, voglia scusarmi. Buona giornata, tenente.» «A lei, maggiore, ma temo ci rivedremo molto prima che questa diventi una buona giornata. Gli spazi non sono così vasti qui dentro e si finisce per incrociarsi spesso.» Kurtz annuì e andogli accanto si allontanò verso poppa. Superò la cuccetta del comandante, un piccolo spazio solitario dietro la paratia emisferica della camera di manovra. Una tenda verde, ora aperta, conferiva quel poco di privacy necessaria e un piccolo scrittoio striminzito assolveva le funzioni di tavolo da lavoro per la compilazione del diario di bordo o per altre faccende a lui sconosciute. Il maggiore diede un’occhiata incuriosita nella cabina d’ascolto, proprio davanti a quella del comandante, trovandola stranamente vuota. Appresso a quella c’era il cubicolo del marconista: due sergenti erano seduti alle loro postazioni, uno dei due era poggiato con i gomiti al tavolino, la testa china come in preghiera; con un unico auricolare all’orecchio destro, sembrava addormentato e solo il movimento della mano sinistra, che armeggiava sulle frequenze della radio, dimostrava il contrario. L’altro, un ragazzone castano dai lineamenti marcati e dal naso aquilino, era intento a leggere un libro dalla copertina lisa e malandata. Kurtz tirò dritto e, scavalcando la paratia, si ritrovò nella penombra della camera di manovra. Diversamente dagli altri ambienti del sommergibile, in camera di manovra imperava una quiete aliena. Complice la luce schermata per evitare riflessi e il silenzio di tomba che vi regnava, Kurtz provò lo strano bisogno di fermarsi. Si concentrò sui movimenti delle mani del timoniere che, con piccoli aggiustamenti sui comandi del timone, teneva il battello sulla rotta stabilita. Al tavolo di carteggio, foderato di linoleum verde, il sottufficiale di rotta segnava minuscoli appunti su un reticolo quadrettato. Tutti erano assorti nei loro
compiti, nessuno parlava. Avrebbe voluto fermarsi e studiare quei gesti meccanici degli uomini di bordo, capirne il senso e la melodia silenziosa. C’era qualcosa di terribilmente affascinante nella precisione, apparentemente casuale, del governo di un sommergibile, ma prima di tutto doveva adempiere al proprio dovere, sincerandosi che il carico affidatogli fosse ancora integro, custodito dai suoi fidati subalterni. Affrettò il o e proseguì verso poppa. Gli alloggi dei sottufficiali, la sala motori diesel e quella dei motori elettrici non si mostrarono molto diversi da come li ricordava: un trambusto assordante e puzza di nafta e olio, unite al via vai continuo di uomini, quasi fosse un cantiere a pieno regime. Kurtz, senza badare troppo a dove metteva i piedi e a chi intruppava per gli stretti pertugi, si fece largo tra quegli uomini sudati e sporchi di grasso, fino a ritrovarsi nell’asettico abbraccio della camera di poppa. «Heil Hitler!» urlò uno dei due piantoni a guardia delle casse, non appena lo vide arrivare. Kurtz annuì e ricambiò il saluto con il bracco teso. «Carico in perfetto ordine, signore. Niente da segnalare» continuò l’uomo, senza mostrare segni d’emozione sul volto. Tuttavia, a Kurtz non sfuggirono i segni violacei sotto gli occhi e il colorito ceruleo dell’uomo. Anche loro, d’altronde, soffrivano lo stesso mal di mare che pativa lui. Non erano marinai e su quel battello non potevano che considerarsi pesci fuor d’acqua. Il duro acciaio dei carri Tiger, quella era la loro postazione di lavoro, e il cannone da 8,8 cm il loro biglietto da visita. Sfortunatamente, i Tiger non potevano attraversare l’Atlantico. «Ispezione, sergente!» disse con tono perentorio. L’uomo si affrettò, aiutato da un suo compagno, a togliere la tela cerata che copriva le casse. Quando il carico fu visibile, Kurtz si piegò su un ginocchio e controllò che i lucchetti fossero chiusi a dovere. Lesse rapidamente il cartellino legato da un cordone alla cassa numero uno e ò alla due. I sigilli di ceralacca erano intatti. Le casse erano sigillate, esattamente come gli erano state affidate alla partenza. «Bene, sergente. Il suo turno termina tra un’ora, predisponga la turnazione e si assicuri che i sigilli siano controllati a ogni cambio di guardia.»
Il sergente si mise sugli attenti e, quando capì che era tutto, salutò nuovamente il suo superiore alla maniera nazista.
*
Kurtz percorse a ritroso i pochi metri fino alla camera di manovra. Un senso di malessere lo accompagnò per tutto il tragitto. Non era nausea questa volta, qualcosa di più subdolo stava affiorando. Una sorta di malinconica nostalgia che gli contorceva lo stomaco. Non era abituato a quel tipo di sentimenti, là sotto, chiuso in quella tomba galleggiante, provava disagio e anche il solo misurarsi con spazi diversi da quelli a lui familiari gli portava imbarazzo. Per l’uomo d’azione qual era, dover sottostare alle regole della vita di mare non era un cambiamento facile da accettare. In mare bisognava scendere a patti con l’incontrollabile e quel senso di sottomissione, quell’essere in balia di qualcosa che può essere distruttivo lo rendeva nervoso come non lo era mai stato in vita sua. Mentì a se stesso, incolpandosi per lo stomaco vuoto e si ripromise di mangiare qualcosa il prima possibile. Tuttavia, quel senso di oppressione sarebbe rimasto lì, in attesa di ripresentarsi nel momento meno opportuno. Quando il comando gli aveva proposto quella missione, aveva accettato senza remore, orgoglioso che fosse stato fatto il suo nome per quel compito così delicato. Le sviolinate e gli elogi del Reich lo avevano ammaliato a tal punto da non pensare a null’altro se non portare a termine l’incarico, nel modo più pratico e sicuro. Il calcolo dei rischi non era contemplato in quei felici momenti in cui Himmler gli aveva stretto la mano, encomiandolo per il suo coraggio e senso del dovere. Ora che i lustrini, le cerimonie e i battimani erano molto lontani, oltre il confine se, Kurtz si ritrovava solo. Non che la cosa fosse un problema per lui, da sempre era stato un uomo pratico, un combattente, tanto da essere decorato con la Ritterkreuz, la Croce di Cavaliere della Croce di Ferro, direttamente dal generale Lemmering ma, da sempre, aveva preferito scegliere il terreno sul quale combattere. Quei pochi metri a disposizione, ben presto, sarebbero divenuti un problema.
E poi c’era quel Lüth. Non metteva in dubbio la sua capacità di comandare un sommergibile, quanto quella di essere in grado di mantenere la disciplina a bordo. Non condivideva le pratiche, fin troppo comuni in Marina, di chiudere un occhio sull’insubordinazione dei sottoposti. Musica frivola, totale assenza di una dottrina gerarchica, troppa libertà secondo il suo punto di vista. Cieca obbedienza e totale abnegazione erano i punti saldi dei corpi d’élite dell’esercito tedesco, e le SS Panzer Grenadier Division avevano fatto di quei precetti il loro punto di forza. Era ancora immerso nei suoi pensieri quando una voce lo scosse. «Maggiore, venga a farci compagnia in plancia.» La voce era quella di Lüth. Poteva vedere il suo volto sorridente attraverso il portello stagno ora aperto. «Un po’ d’aria fresca le farà bene, le toglierà i cattivi pensieri dalla testa.» Kurtz si biasimò per essersi mostrato così trasparente agli occhi di quegli estranei. Quasi i suoi pensieri gli si potessero leggere in faccia. Si disse che quelle parole erano casuali e non avevano nulla a che vedere con quanto stava pensando in quel momento. Per non dare adito a fraintendimenti, mise i piedi sui pioli della scaletta e salì in plancia, dove gli uomini di guardia scrutavano il mare. L’aria fresca del mattino si rivelò un toccasana per la sua mente annebbiata. Il cielo era un immenso dipinto a olio di Caspar Friedrich. Una luce turchese diluiva le colorazioni rossastre che sembravano volersi sciogliere sull’acqua nel punto in cui la sfera del sole, che sorgeva lenta a oriente, faceva capolino dall’orizzonte lontano. Tutti i colori delle fiamme s’insinuarono tra le nuvole color tortora punteggiandole di magenta, rosa e violetto. Con la stessa velocità con cui le fiamme erano schizzate in cielo, piano piano si placarono quando il sole salì sopra il livello del mare. Le nuvole, ora inzuppate di color rosa pastello, mantennero ancora qualche istante quella tinta, poi tornarono a essere una lontana cortina grigia. I riflessi indugiarono sul freddo metallo della poppa, finché l’ultima scintilla non esplose sul tagliareti di prua per poi scomparire del tutto. «È una splendida mattinata, non trova?» Lüth teneva lo sguardo fisso sull’orizzonte a prua, quasi disinteressandosi dello spettacolo andato in scena alle sue spalle.
«Il mare sa come rendere tutto più sfarzoso» rispose Kurtz spostandosi verso il parapetto di dritta. «Lei mi stupisce, maggiore, non credevo che voi dell’esercito foste così sensibili alla meraviglia.» «I campi di battaglia nascondono ben altri spettacoli. Magnifici e terribili allo stesso tempo, tuttavia non è un buon motivo per non apprezzare una cosa bella quando la vedo.» Lüth sorrise e si portò il binocolo agli occhi. Lo tenne sollevato con le punte delle dita per evitare che le vibrazioni dei motori del sommergibile potessero alterarne la visione, gli oculari del binocolo, con i paraluce di gomma, tenuti ben premuti contro le arcate sopracciliari. Delicatamente lo abbassò. «In mare il concetto di bello viene stravolto. Se fossimo in una crociera di piacere ora staremmo osservando il sole che si fa largo tra le nuvole, discorrendo di quanto la natura sia magnifica se non fosse che proprio quelle nuvole e il sole che gli spunta dietro, in questo momento, sono il nostro peggior nemico.» Kurtz si voltò. Tenendo le mani poggiate contro l’orlo del parapetto, dove gli ugelli antivento curvavano il metallo, si mise in attesa del resto. Osservò attentamente gli uomini del turno di guardia, coperti dalle spesse giacche di pelle, completamente assorti nell’esaminare l’orizzonte. Ogni turno di guardia era composto da un ufficiale e da quattro marinai. Questo era il turno del secondo ufficiale, Werner se non ricordava male. Se ne stavano con i cannocchiali puntati nella direzione a loro assegnata, scrutando uno spicchio di mare e cielo di novanta gradi alla ricerca di un’eventuale traccia del nemico. «Con questo tempo la visibilità è di circa dodici miglia. Sufficiente ad avvistare un convoglio prima di essere visti a nostra volta. Ma non posso dire altrettanto degli aerei.» «Quelli ti sono addosso quando sei ancora con le braghe calate» esclamò Freund, uno dei marinai di guardia in plancia. «È annoiato, Freund?» lo redarguì il Vecchio.
«No, signore.» «Allora faccia silenzio e ci risparmi il suo sarcasmo fuori luogo.» «Sì, signore». Il comune di prima classe Freund sembrò non essere impensierito dal rimprovero. Continuò a masticarsi un labbro mentre scrutava il mare come se nulla fosse accaduto. «Possono sfruttare le nubi e i riflessi del sole per piombarti addosso» continuò il Vecchio, «lasciandoti appena il tempo di renderti conto di essere spacciato. In effetti, ti colgono a braghe calate, né più né meno.» «Il direttore di macchina è convinto che il caro vecchio Churchill sappia esattamente quando usciamo e rientriamo dal porto.» Questa volta a parlare fu il guardiamarina Werner. «Dice che a Saint-Nazaire ci sono più spie che…» «Sì, so bene come la pensa il tenente Fleischmann riguardo alle prostitute si» lo interruppe il Vecchio. «A ogni modo, com’è che lo chiamano? Vecchio ubriacone? Dovrebbero servire più alcool nelle nostre mense se è questo il risultato. I suoi piloti ci stanno rendendo la vita difficile ultimamente.» Kurtz si sollevò dal parapetto, come se quelle parole lo avessero punto sul vivo. «Non trovo sensato provare deferenza per il nemico, comandante» disse, cercando il tono più aspro che poté. «E perché mai? La RAF ce le sta suonando con tutti gli onori e proprio adesso un qualche aereo inglese potrebbe piombarci addosso senza che la nostra aviazione abbia anche solo mosso un muscolo per evitarlo.» Kurtz tacque. Si sentiva irritato da quelle parole e, ancor di più, per averle sentite pronunciare da un comandante decorato con la Croce di Ferro. Fu tentato di scendere sottocoperta ma s’impose di non mostrarsi astioso, il viaggio fino al Polo Sud era ancora lungo e sarebbe stato controproducente creare dissidi personali fin dalla partenza. Finì per ritrovarsi sulla struttura di metallo del giardino d’inverno. «Allora dovremmo affidarci a tutte le sue qualità per evitarlo» disse con tono forzatamente compiacente mentre si appoggiava con i gomiti sul amano di metallo. Diede un’occhiata distratta alla mitragliatrice antiaerea Flack da 20mm,
montata proprio al centro della piattaforma di metallo del giardino d’inverno. «O magari a questo gioiellino.» I minuti arono mentre il sole filtrava i suoi timidi raggi dalla cortina di nubi che coprivano il cielo a est. Il vento aveva cominciato a far sentire la voce grossa e ogni tanto un’onda più audace delle altre s’infrangeva sul sommergibile, innaffiando i suoi occupanti con una mitragliata di schizzi gelati. Erano ancora ostaggi del golfo di Biscaglia, ad appena centonovantadue miglia marine da Saint-Nazaire, uno dei luoghi più pericolosi a causa dei numerosi e temerari attacchi aerei della RAF. Del resto, senza un’adeguata copertura aerea, gli U-boot erano alla mercé del nemico e spesso significava doversi immergere di giorno per evitare di essere sorpresi in mare aperto. Questo stato di cose costringeva gli equipaggi a un’insensata perdita di giorni di navigazione solo per giocare al gatto e al topo con i piloti inglesi, prima di allontanarsi abbastanza dal golfo tanto da sentirsi al sicuro. «Dovremmo proprio premurarci di trovare un abbigliamento adatto al nostro ospite, signor Werner» disse il Vecchio. «Il mare non sarà sempre così clemente e gli abiti tendono a inumidirsi facilmente anche sottocoperta. Non dimentichi degli stivali idonei, quelli che indossa sono comodi, ma poco pratici su un sommergibile.» «Sarà fatto, comandante.» «Molto bene. A ufficiale di guardia, rotta per due cinque cinque» ordinò il comandante. Werner ripeté l’ordine attraverso il tubo portavoce, direttamente al timoniere giù in camera di manovra. Come un’eco, arrivò la risposta da sotto. Solo la bianca scia schiumosa rimase a conferma del piccolo spostamento di rotta verso ovest-sud-ovest. Kurtz si piegò in avanti quando l’ennesimo spruzzo minacciò di innaffiarlo. Decise di averne abbastanza per quella mattina e si rintanò nella momentanea copertura della plancia. Gli uomini di guardia erano ancora intenti a scandagliare il cielo. Ogni tanto qualcuno abbassava il binocolo per proteggerlo dagli schizzi, per poi riportarlo agli occhi immediatamente dopo.
«Allarme! Aereo a dritta!» Il grido dell’uomo alla sua sinistra giunse all’improvviso. Tutti si voltarono nella sua direzione e per una frazione di secondo gli parve d’intravedere qualcosa sullo sfondo di nubi. Appena una macchiolina scura. Un uccello forse, o magari davvero un aereo. Impossibile stabilirlo a quella distanza e a occhi nudi. Come se fosse stata lanciata una granata in quel piccolo spazio vitale, chiuso da spesse pareti di metallo, gli uomini si diedero alla fuga nell’unica direzione possibile: giù dal portello stagno. Il turno di Kurtz arrivò subito dopo quello del guardiamarina Werner, più esperto e più agile di lui: si era infilato nel buco come un coniglio nella tana, sparendo nelle tenebre del sommergibile in pochi secondi. Kurtz fu scaraventato dentro senza molti riguardi e colpì duramente il pavimento della camera di torretta. Qualcuno gli cadde addosso e senza molte cerimonie continuò la discesa attraverso il portello che dava in camera di manovra. Kurtz rimase accasciato al suolo, con una mano si tenne il fianco dolorante, mentre con l’altra cercò un appoggio per rialzarsi. In quel momento vide Lüth ancora arrampicato sui pioli della scaletta, intento a sigillare la leva del portello stagno. «Allagare!» lo sentì urlare mentre, dolorante, si rialzava continuando la sua discesa in camera di manovra. Da quel momento fu un trambusto infernale. Per prima cosa si sentì il rombo dell’aria che fuoriusciva dai cassoni quando le valvole furono aperte. «Tutti gli uomini a prua!» gridò il direttore di macchina mentre poggiava le mani sulle spalle dei due caporali addetti ai timoni di profondità. Il trambusto sembrò peggiorare quando, sotto le minacce del nostromo, tutti i marinai senza una mansione si scapicollarono verso il locale di prua. Una pratica comune nei sottomarini. Kurtz ricordò quanto appreso durante l’esercitazione: aumentare il peso a prora favoriva l’appruamento del sommergibile e il conseguente inabissamento risultava più veloce. Secondi preziosi che potevano fare la differenza. Il via vai di uomini pareva una danza indemoniata, si spingevano, incespicavano l’uno sull’altro cercando di mantenere l’equilibrio in quella che stava diventando una corsa in discesa. Kurtz ne scartò uno appena in tempo, evitando l’impatto per un soffio, ma
dovette reggersi a un macchinario di cui non conosceva l’esatto utilizzo per non cadere a terra. Udì il frastuono quando alcune casse di legno caddero pesantemente al suolo sparpagliando limoni per tutta la camera di manovra. «Timoni a scendere» ordinò il direttore di macchina ai timonieri. I due fecero una leggera pressione sui pulsanti che trasmisero elettricamente il comando ai timoni. Kurtz ritrovò finalmente la posizione eretta. Si rese conto di essere a pochi i dal boccaporto, sotto il quale il Vecchio era rimasto con un piede sulla scaletta a fissare in alto. Il sommergibile si appruò sensibilmente sotto la spinta dei timoni di profondità, finché tutto non divenne quieto. Le vibrazioni dei diesel lasciarono spazio al più dolce ronzio dei motori elettrici e il trambusto, che solo fino a pochi secondi prima aveva invaso il battello in tutta la sua lunghezza, ora era sparito. «Dieci metri» disse con tono pacato Hans Fleischmann. «Chiudere gli sfiatatoi.» Subito due uomini si diedero da fare coi volanti e le ultime bolle uscirono dai cassoni ora sigillati. «Venti metri» continuò il direttore di macchina, senza togliere lo sguardo dall’indicatore di profondità. «Trenta.» Kurtz sentì ancora quella morsa allo stomaco. Capì ben presto che avrebbe dovuto convivere con quella sensazione sgradevole per il resto della crociera. Solo in quel momento si rese conto che non aveva messo niente nello stomaco dal giorno precedente. Il suo pensiero si spostò sul carico e sui suoi uomini che dovevano essere all’oscuro di quanto accaduto. Probabilmente, fatta eccezione per gli addetti ai motori elettrici, gli unici dell’equipaggio ancora a poppa. Si ripromise di fargli visita non appena le condizioni fossero state più favorevoli. «Dieci in alto a prua, dieci in alto a prora» disse Fleischmann senza mai togliere lo suardo dalla strumentazione. Il sommergibile sembrò modificare il suo assetto. La sensazione di camminare in salita piano piano sparì e il suolo tornò a essere stabile e alla sua giusta angolazione.
«Sommergibile bilanciato, comandante!» Un grido, del tutto innaturale, s’insinuò lungo tutto il sommergibile. Lo stridore del metallo sottoposto a pressione. Kurtz si guardò attorno, ma nessuno sembrava preoccupato da quel gemito. Meglio così, pensò tra sé. «Ci avrà visti?» chiese sottovoce il direttore di machina. «Chi lo sa» rispose il Vecchio, senza togliere lo sguardo dal boccaporto, come se si aspettasse che qualcuno venisse a bussare. «Si fanno ogni giorno più sfrontati. Tra un po’ ce li ritroveremo a planare tra le lenzuola dei bordelli, quei cani.» «Comincio a pensare che le tue teorie abbiano un fondamento, Hans. O magari sei solo tu che ti trascini dietro la iattura da quando abbiamo lasciato il porto.» Il Vecchio sorrise, per evitare che un’affermazione come quella desse adito a chiacchiere a bordo. I marinai erano suscettibili a parole come scaramanzia, scongiuro o maleficio. «Sarà, ma speriamo di non trovarci in mezzo a una caccia alla volpe. Quei maledetti, quando ti fiutano, ti stanno col fiato sul collo fino all’ultimo gallone di nafta. Non mi stupirei se qualcuno, pur di non mollare l’osso, se l’è dovuta fare a nuoto fino a Dover.» Gli uomini sorrisero, il che era un bene in una situazione di stress. Tuttavia, sarebbe stato doveroso mettere a tacere i licenziosi sproloqui del direttore ma lui si limitò a sorridere, con grande sdegno di Kurtz. «Timoni al centro. Motori pari avanti tutta.» Ordinò il direttore, stringendo più forte la presa sulle spalle dei timonieri. «È sceso col sole alle spalle, troppo difficile da avvistare.» A parlare fu il secondo ufficiale Werner. Kurtz lo guardò come se quell’uomo provenisse da chissà quale altro luogo lontano, materializzatosi a bordo all’improvviso. «Prego?» rispose, socchiudendo gli occhi per metterlo meglio a fuoco.
«Sanno il fatto loro. Ti prendono di sorpresa, sperando che la luce del sole li nasconda per il tempo necessario a piombarti addosso.» «Capisco» disse distaccato Kurtz. «Siamo stati abbastanza rapidi a immergerci, scommetterei che non abbiamo superato i quaranta secondi, ma…» Kurtz non aveva voglia di ascoltare le vanterie di quell’uomo, non in una situazione che non lo faceva sentire a suo agio. Eppure, forse per galanteria, forse per un intimo desiderio di saperne di più, incitò l’uomo a proseguire. «Ma…?» «Vede, maggiore» Werner mimò con le mani un cerchio, «nel punto in cui ci immergiamo si forma un vortice schiumoso. Il sommergibile è in immersione e invisibile dall’alto, ma il vortice, quello no. Quello rimane per parecchi minuti e un buon pilota sa che deve sganciare le sue cariche in prossimità di quel vortice.» «La smetta di spaventare il maggiore, signor Werner» disse il Vecchio, che ora si era spostato accanto all’ufficiale di rotta, poggiando la schiena contro il tavolo da carteggio. «Sì, signore, stavo solo…» «Temo ci voglia ben altro per spaventarmi.» Kurtz si impettì, cercando l’equilibrio ora che il sommergibile si era stabilizzato. «Non intendevo offenderla, maggiore, ma il nostro secondo tende a provare piacere nel mettere a disagio le presone.» «Nessun problema, lo lasci pure finire.» Werner parve imbarazzato. «Non ho altro da dire, maggiore. Mi scuso per…» «Non deve scusarsi con me, tenente. Non è la prima volta che ho a che fare con questi… come li chiamate voi della Marina? Assi dell’aria?» Kurtz si rianimò. Una scintilla apparve nell’azzurro glaciale dei suoi occhi. «Sappia, tenente, che non attaccano solo i sommergibili. Saremmo tutti ben contenti se si limitassero a questo ma, sfortunatamente, prendono di mira qualsiasi cosa provi a muoversi
anche sulla terraferma.» Kurtz ritrovò la sua determinazione e si spostò di qualche o, proprio vicino al periscopio, in modo che tutti potessero sentirlo. Cominciò a ricordare e narrare una delle imprese che più, credeva, avrebbero sconvolto gli animi di quella gente di mare. «Eravamo nei pressi di Jelnja sul fronte russo, era il luglio dell’anno scorso. La nostra colonna di carri si estendeva su un fronte lungo parecchi chilometri di pianura fangosa. Ci era stato ordinato di costituire la testa di un plotone esplorante di Panzergrenadier dotato di autoblindo e semicingolati. I primi giorni di marcia arono veloci, lasciandoci sperare nel meglio. L’invasione stava procedendo nel migliore dei modi e senza grossi intoppi. Fu la mattina del terzo giorno che avvistammo uno stormo di aerei verso nord. La nostra lunga scia di uomini e mezzi era un invito a nozze per i monomotori da attacco al suolo russi, così diedero il via al banchetto senza troppi convenevoli. «Già dopo i primi aggi, alte colonne di fumo puntellavano tutta la colonna. Le urla degli uomini, i fischi delle mitragliatrici 7,62 e l’odore acre del fumo riempivano l’aria fresca di quella mattinata. Fortunatamente per noi, gli Shturmovik ad ala bassa russi montavano un cannone da 20mm ShVAK, insufficiente per creare grossi problemi alla corazza dei nostri Panzer IV, ma i Panzergranatier e i loro mezzi furono carne da macello. Solo dopo il quarto aggio si misero in azione i cingolati che montavano i cannoni quadrinati da 20mm Flakvierling e, solo in quel momento, i russi ebbero un assaggio della forza distruttrice del piombo tedesco. Con un vortice di fuoco e traccianti, le carlinghe dei tre Shturmovik furono crivellate per bene, potevamo sentire l’impatto dei proiettili contro il metallo, come una gragnola di sassolini su una lamiera e i gemiti degli Ivan quando le loro carni venivano perforate dai 20mm.» Kurtz si assicurò che la platea fosse ben attenta alle sue parole e continuò. Solo il Vecchio sembrava perso nei suoi pensieri. Aveva le mani infilate nelle tasche della giacca e apriva e chiudeva la bocca come a voler parlare, ma senza suoni. «Andammo in cerca dei velivoli abbattuti, seguendo i pennacchi di fumo, addentrandoci con i carri nel fitto del bosco che costeggiava la strada. Quello che trovammo fu uno spettacolo degno del tavolo di un macellaio. I due piloti erano ancora legati con le cinture di sicurezza ai loro seggiolini, il sangue era dappertutto e ricopriva quel poco vetro rimasto intatto. Il pilota, o quello che ne
rimaneva, aveva la testa staccata di netto. Parti del suo cervello si erano fuse insieme con il metallo slabbrato dell’abitacolo. Lo stomaco era una caverna aperta, priva del suo contenuto. Doveva averlo perso nella picchiata, magari volato via da qualche buco nella fusoliera. Il mitragliere non era messo meglio. Le mani erano ancora attaccate alla mitragliatrice, solo che le braccia non erano più attaccate al busto. Pendevano inerti sulle ginocchia di quel povero diavolo. La cassa toracica era aperta e le costole fuoriuscivano come una tagliola bianca e lucida di sangue. Probabilmente era stato lo stesso proiettile che aveva scavato lo stomaco del pilota ed era uscito, in una linea ascendente, dal petto del suo compagno. Incredibile a dirsi, la testa era al suo posto. L’espressione era beata e in perfetto contrasto con la scena di morte che ci si parava davanti.» Il silenzio in camera di manovra era assoluto, sembrava che anche lo stridio del metallo sotto pressione si fosse preso una pausa per ascoltare la voce del maggiore. Werner fece un o indietro e gonfiò le guance. Un conato gli salì repentino dallo stomaco e per poco non innaffiò il pavimento con i resti della colazione. Tewes e Dietze, i due addetti ai timoni di profondità, poco più che ragazzini, se ne stavano con il capo chino, rincuorati dalla stretta del direttore di macchina. Solo il Vecchio azzardò un movimento. Solo un accenno, che Kurtz interpretò come una perdita di controllo, la voglia irrefrenabile di metterlo a tacere. Se ne compiacque. «Così spaventa gli uomini, maggiore!» disse sgarbato Fleischmann, togliendo per la prima volta gli occhi dagli strumenti di profondità. «Non era mia intenzione, mi creda. Ho solo voluto dimostrare che per quanto siano audaci, i piloti muoiono esattamente come tutti gli altri. La morte siede al loro fianco, come a ciascun altro soldato.» «Lei sta dimenticando l’onore.» Continuò Fleischmann. «Morire per un ideale, per la propria patria è per loro e per noi un onore. Non conta come si muore, ma il perché si è morti. Per questo, noi della Marina, non possiamo che provare rispetto e misericordia per il nemico.» «Onore dice? La guerra non ha nulla a che vedere con l’onore. Non è un atto d’onore, ma di carneficina, di annientamento. Ora, se volete scusarmi, devo assicurarmi che il carico sia intatto dopo questo trambusto.» Kurtz si diresse impettito verso il portello emisferico di poppa. ando davanti
al tenente Werner, gli poggiò una mano sulla spalla e gli sorrise meschino, poi sparì alla vista.
Capitolo 7
Eno era già sveglio quando risuonò l’allarme per tutto il sommergibile. Se ne stava rintanato nella sua cuccetta, con le braccia conserte in cerca di calore e conforto. Da circa una mezz’ora, i suoi compagni di camera sghignazzavano appresso a una storiella di dubbio gusto che qualcuno stava raccontando con dovizia di particolari. Eno ascoltava dietro la tendina verde che lo isolava da quel momento di cameratismo gioviale. Non erano suoi compagni e temeva non lo avrebbero mai considerato tale. Quelli con cui divideva un rapporto così a stretto contatto erano sottufficiali della Marina, gente specializzata in mansioni a cui lui non sapeva dare un significato ben preciso. Non ancora almeno. Contava di provare a imparare presto qualcosa sul funzionamento del sommergibile, fosse solo per cercare un’integrazione con quelli che sarebbero stati, per tutta la durata di quella crociera forzata, i suoi compagni di viaggio. Riconobbe la voce del sergente Otto Löble, un ragazzo mingherlino con i capelli neri che assomigliava più a un rapace che a un essere umano. Forse per questa somiglianza i suoi compagni lo avevano soprannominato Krähe, corvo. Li aveva sentiti schiamazzare, la sera prima, sulla sciagura di dover condividere la branda con un uccellaccio del malaugurio. Löble li aveva ignorati, lasciandoli a sbellicarsi dalle risate, quando era uscito per il suo turno ai motori elettrici. Qualcuno mollò un peto. «Porco di un sassone, la prossima volta ti butto a mare se non te la pianti di scoreggiare. È tutta la notte che ci dai giù come un panzer.» «Ho solo profumato l’aria, datti una calmata, Geiger.» «Lascialo stare, Rolf, ormai è marcio dentro. Al prossimo turno di guardia lo leghiamo al tagliareti e lasciamo che siano i gabbiani a finirlo» disse Löble. In tutta risposta un altro rombo saturò l’aria.
«Beccatevi questo siluro, yankee bastardi!» Tutti scoppiarono a ridere. Tranne Eno, poco avvezzo a questo genere di cameratismo. Le cripte in cui era entrato, profanate per la prima volta dopo migliaia di anni, puzzavano meno di quel luogo. Decise che era giunto il momento di alzarsi e provare a prendere una boccata d’aria che non sapesse di cavoli marci, limoni ammuffiti e dell’odore acre della nafta. Tirò la tenda e, come se avesse aperto il sipario di un qualche teatro d’avanguardia, il pubblico ammutolì. «Guarda guarda cosa abbiamo qui» disse incuriosito Rolf Geiger, che Eno ricordava fosse il capo-silurista. Eno si sporse dalla branda e, in completo imbarazzo, cercò il suolo con la punta del piede. Solo allora si accorse che proprio sotto di lui c’era un tavolino ingombro da piatti e tazze mezze vuote. Dei listelli di legno impedivano ai piatti di muoversi sul ripiano, evitando che rovesciassero il loro contenuto. Prestando la massima attenzione, scese a terra. «Con permesso» disse, mentre sfilava da una parte, cercando di evitare qualsiasi contatto con il tavolino e gli uomini seduti davanti. Proprio in quel momento, suonò l’allarme. La marea umana si riversò attraverso lo stretto locale con la violenza di un fiume in piena. Il tavolino, che ostruiva il aggio, fece da argine contro il quale s’infranse la prima ondata. Con una bestemmia qualcuno pestò duro il ginocchio contro lo spigolo, solo per essere trascinato avanti zoppicante dai suoi compagni. Piatti e bicchieri finirono in frantumi. Le urla del nostromo non fecero altro che peggiorare la situazione. Eno trovò riparo in una delle brande di sotto, appena in tempo per non essere travolto dalla mandria che correva verso prua. Geiger, Löble e il terzo sergente erano spariti, trascinati via dalla corrente. Qualcosa di pesante cadde a terra in un punto imprecisato, quando il pavimento sembrò cedere. Dapprima Eno percepì un leggero cambio di inclinazione, appena avvertibile ora che era sdraiato su una delle cuccette, ma ben presto la pendenza aumentò ed Eno rabbrividì dal terrore.
Com’era cominciata, la lunga fuga verso prua terminò. Da quel momento, il silenzio fu rotto solo dagli scricchiolii metallici e dai sibili dell’aria che usciva dai cassoni appena dietro quei pochi centimetri di metallo che lo separavano dalle casse d’immersione. Le vibrazioni dei diesel e il loro frastuono erano spariti, lasciandone solo il ricordo nell’acre puzza di nafta e olio combusto. arono parecchi minuti prima che i battiti del cuore riprendessero il normale ritmo e l’aria rifluisse con regolarità dai polmoni. Eno lasciò che il sommergibile ritrovasse il suo assetto prima di azzardare un’occhiata verso prua. Il portello, che dava accesso alla camera di manovra, era aperto e la figura del nostromo Falkenmayer vi si stagliava davanti coprendone la vista. Eno rimase in ascolto. Percepì solo brandelli di conversazione. Una voce, fin troppo familiare, era impegnata in un monologo di cui non colse tutti gli elementi. Parlava di aerei abbattuti, di sangue e morte. Eno decise che, per come si erano messe le cose, si sarebbe astenuto dall’ascoltare oltre. Era fin troppo spaventato per sentir solo nominare la parola «morte». Poggiò le scarpe a terra e, tenendosi con le braccia al montante della branda superiore, si mise in piedi. In quel momento, qualcuno si piegò per are attraverso il portello emisferico della camera di manovra. Il maggiore Kurtz lo fulminò con lo sguardo. I suoi occhi freddi come i ghiacci dell’Artide lo scrutarono. Quando vide che Eno non aveva nessuna intenzione di proferire parola, tirò dritto, andogli accanto senza un cenno. Eno si voltò, più per accertarsi che Kurtz se ne stesse davvero andando che per cercare un dialogo, e quando vide che il maggiore era già sparito nella sala motori diesel, si concesse un lungo sospiro. Nonostante la sua poca esperienza in fatto di uomini, abituato com’era a stare rintanato tra ruderi e scartoffie, anche Eno poteva facilmente comprendere che genere di uomo si celasse dietro quegli occhi cristallini. Quell’espressione predatoria mostrava senza reticenza l’eccitazione della sfida, una sfida che un uomo come Kurtz aveva tutte le intenzioni di vincere, quale che fosse la posta in gioco. Eno fece pochi i e si affacciò alla camera di manovra. Da sopra il portello, Falkenmayer lo osservò, con tutta probabilità temendo il ritorno di qualcuno più pericoloso di un umile archeologo italiano.
«Chiedo il permesso di entrare se non sono d’intralcio» disse, tirandosi un’occhiata alle spalle. «Venga, signor Sartori, ci faccia l’onore della sua presenza.» A rispondere fu il Vecchio, lo sguardo concentrato verso l’obiettivo, come richiesto a ogni buon comandante di sommergibile. Solo che l’obiettivo si trovava all’interno dell’U666. Lo sguardo, fino a pochi secondi prima puntato contro le spalle di Kurtz, ora si era spostato sul volto di Eno. Eno scavalcò la paratia e si mise in un angolo, attento a non ostacolare il lavoro di nessuno di quegli uomini. «Riposato bene?» chiese Lüth. «È una domanda a cui non saprei rispondere, comandante» disse, toccandosi i capelli. Solo in quel momento si accorse di quanto fossero umidi e unti. Si guardò la mano trovandola coperta da una leggera patina oleosa. Che fossero i residui di carburante che filtravano dal locale motori? Lüth rise. «È l’unica risposta che mi aspettavo di sentire. La prima notte su un sommergibile la si a in bianco, o a pregare. Eppure il suo colorito mi sembra buono, migliore di quello del maggiore, almeno.» Eno sorrise a quell’immagine. Anche se il colorito di Kurtz gli era parso più alterato per la rabbia repressa che per il mal di mare. «Che ci crediate o no, comandante, ho sopportato di peggio nei lunghi anni di ricerca. Gli archivi dei musei possono essere luogo ben più pericoloso. La polvere e le pulci sanno come metterti alla prova» provò a sdrammatizzare. La leggerezza tornò in quei pochi metri quadri. «Venga, si accomodi qui vicino a me» disse il primo ufficiale con un sorriso. Eno fece un cenno di gratitudine e si avvicinò al tavolo da carteggio sul quale era seduto il tenente Hollstein. Si mise lì accanto, cercando di interpretare quanto stava accadendo in quel luogo. Il direttore di macchina Fleischmann gli dava le spalle, intento a fissare un quadrante bianco dove una lancetta indicava i trenta metri. I due addetti ai timoni, o almeno così era convinto di ricordare, si lanciavano occhiate turbate in attesa di ordini. Sembravano tutti in sospensione, speranzosi che la situazione si sbloccasse da sé.
Da quando aveva aperto gli occhi, era stato spettatore di quella frenesia già vissuta durante la prima esercitazione, e ora si chiedeva cosa stesse davvero accadendo e perché quell’immobilismo avrebbe dovuto fare in modo che le cose migliorassero. L’inesperienza, il sentirsi superfluo se non addirittura di ostacolo, gli fece provare l’impulso di rannicchiarsi il più possibile nel suo cantuccio, quasi a voler diventare invisibile. «Quindici minuti, comandante» disse infine Hollstein con un filo di voce. Il Vecchio annuì. Rimase ancora qualche secondo in ascolto, poi si ò una mano sugli occhi, fermandosi con l’indice e il pollice sull’attaccatura del naso. «Proseguiamo in immersione, macchine avanti mezza.» «Macchine avanti mezza» ripeté il timoniere, mentre trasmetteva alla sala motori elettrici il nuovo ordine. «Non è il caso di rischiare oltre per oggi, aspetteremo che faccia buio per emergere.» Il Vecchio annuì tra sé, come per convincersi che fosse la scelta giusta. «Zielinsky, seguendo questa rotta in quanto ne saremo fuori?» Facendosi largo tra Eno e Hollstein, Zielinsky, il sottufficiale di rotta, si mise al tavolo di carteggio. Armeggiò con due squadrette e una matita su una carta nautica. Eno riuscì a leggere un numero di riferimento – il trecentosei – sul quale il sottufficiale di rotta stava tracciando dei segni e piccole cifre. Le labbra di quell’uomo si aprivano e chiudevano come se stesse facendo dei calcoli mentali oscuri e macchinosi. Poi la bocca cessò di muoversi e Zielinsky poggiò la matita sul ripiano di linoleum. «Per quando farà buio saremo a circa quaranta miglia marine dalla costa di San Cibrao, a poco più di cinquanta miglia da dove ci troviamo ora. Col favore della notte, per l’alba di domattina dovremmo essere fuori dal golfo di Biscaglia, proprio sulla punta occidentale della Galizia.» «Molto bene dunque. Proseguiamo su questa rotta.» Eno tirò un’occhiata curiosa alla carta nautica proprio accanto a lui. Le linee tracciate dal sottufficiale di rotta mostravano il probabile tragitto che il sommergibile avrebbe dovuto compiere in quelle prossime ore. Si lasciò prendere dallo sconforto quando vide che, in fondo, non avevano percorso molta
strada da quando erano salpati da Saint-Nazaire. Colpa del ritardo dovuto al viaggiare in immersione che li costringeva a ridurre la velocità di un quarto in quelle acque così pericolose. «Se ne intende di carte nautiche, signor Sartori?» chiese il primo ufficiale. «No, non direi proprio. Credo che mi rimanga più semplice leggere i geroglifici egizi.» «Se crede, posso rispondere alle sue curiosità. Immagino che non debba essere piacevole starsene con le mani in mano in un luogo dove tutti hanno un compito ben preciso.» «Gliene sarei davvero riconoscente.» Gli porse la mano, sollevato che qualcuno si fosse accorto del suo disagio. Hollstein gliela strinse con un largo sorriso. Aveva un volto piacevole e benevolo, uno di quelli che non ti aspetteresti di vedere in un primo ufficiale della Marina tedesca. Eppure, quel ragazzo, era in grado di suscitare simpatia ed Eno immaginò che anche il resto dell’equipaggio doveva pensarla come lui. Forse era proprio quella la qualità dell’ufficiale. Un giorno avrebbe comandato un suo sommergibile e quel sorriso, magari, sarebbe sparito, ma il senso di comprensione e clemenza che quel volto suscitava sarebbe stato sicuramente il suo punto di forza. «Guardiamarina, il diario di bordo, se non le dispiace.» A interrompere i pensieri di Eno fu il Vecchio. «Subito comandante!» rispose pronto Hollstein e sparì di corsa verso prua. «Il tenente Hollstein ha ragione» disse il Vecchio stiracchiandosi. «Dovrebbe imparare i rudimenti della navigazione e qualche nozione di meccanica e idraulica. Il viaggio è lungo e, chissà, magari un giorno avremo bisogno anche del suo aiuto. Sarà bene che quel giorno sia pronto, signor Sartori.» «Con piacere, comandante. Sarà un interessante diversivo.» «Molto bene» rispose soddisfatto il Vecchio.
*
Le ore che seguirono all’avvistamento dell’aereo arono pigre. Eno, come di consuetudine, si tenne in disparte, al sicuro nella sua cuccetta. La tenda grigioverde lo isolava dal resto dell’equipaggio, ma non tanto dal sentire i loro continui vaniloqui. «Avete capito qualcosa di dove stiamo andando a cacciare il naso?» chiese sottovoce qualcuno. «Che te ne frega, l’importante che ci siano bordelli aperti tutta la notte, dico io.» «Non credo che qualcuno abbia avuto l’idea di aprirne uno in mezzo all’Atlantico.» «Tu sei un cazzo di genio, Sifilide!» Ci fu un trambusto e qualcuno si lasciò scappare un risolino sguaiato. «Mi chiamo Siffling, idiota!» «Sì, sì, come vuoi Sifilide, ma la tua rimane un’idea brillante, non ne dovresti parlare ad alta voce. Qualche maîtresse se potrebbe rubartela.» «Smettila con queste cazzate, Garrn, lasciaci riposare.» Eno riconobbe la voce di Löble. «Fammi capire, Otto, l’amichetto qui ha avuto l’idea del secolo, di quelle che potrebbero far smettere questa cazzo di guerra anche domani, con buona pace di Adolfo, e tu pensi a dormire? Io già me lo vedo. Convogli interi, carichi di soldati, all’ancora davanti al… come si chiama il tuo bordello galleggiante, Sifilide?» «E che ne so, mica l’ho pensato un nome.» «Beh, allora lo trovo io.» Rimase a pensare qualche istante. « Die Sirene! Sì, è
perfetto.» Eno non poté far altro che apprezzare la fantasia del ragazzo. La pronuncia tedesca sembrava strizzare l’occhio alla parola inglese desire, desiderio. «E sia dunque. Quando lo avvisti, facci un fischio. Ora tappati la bocca e lasciaci dormire.» «Stupidi baciapile dal cazzo moscio. Non si può avere una conversazione decente in questo cesso di alloggio. Fanculo, me ne vado.» Garrn si alzò e uscì dal portello, diretto verso la sala motori. «Ecco bravo, togliti dalle palle nano ebete!» lo rimbrottò Löble. Eno sogghignò dietro la tenda. In effetti quel Garrn era davvero di bassa statura, e la testa eccessivamente grande lo faceva assomigliare a uno di quei nani da circo. Erano ate da poco le diciassette, il sole doveva essere già tramontato, ma il comandante aveva preferito attendere ancora un po’ in immersione. La sicurezza non era mai abbastanza in quel tratto di mare. L’ora di bordo faceva riferimento a quella di Saint-Nazaire, per non incorrere in ripetuti cambi di orario durante il aggio tra i vari fusi. Un’espediente necessario per non dover modificare i turni di guardia e di servizio a bordo. Alle venti ci sarebbe stato il cambio di turno di guardia, e il secondo ufficiale avrebbe lasciato il posto al sottufficiale di rotta, responsabile del terzo turno. Il vero trambusto però ci sarebbe stato a mezzanotte, quando due turni, quello della guardia e degli addetti ai motori, smontavano tutti insieme. Allora sì che il sommergibile avrebbe ripreso vita, con il solito via vai di uomini con le giacche cerate per coprirsi dall’umidità e dal freddo che intasavano l’unico gabinetto per svuotare la vescica gonfia o che, semplicemente, cercavano un giaciglio sul quale riposare prima di iniziare un nuovo turno. A quell’ora sarebbe stata servita la cena. Eno era sicuro che si sarebbe abituato al mal di mare, alla sensazione di claustrofobica oppressione, ma mai a cenare a quell’ora. Era solito consumare il pasto serale verso le sette e quel cambiamento repentino sembrava affliggerlo più di tutto il resto. A ogni modo, subito dopo il pasto, aveva appuntamento con l’ Obermaschinist Hermann Nagelschmitz, responsabile dei motori diesel, il quale gli avrebbe illustrato a grandi linee il loro
funzionamento. Eno si sentiva emozionato come uno scolaretto. La ricerca costante della conoscenza era per lui ragione di vita. Solo attraverso la conoscenza si arrivava alla verità, e la conoscenza si otteneva solo attraverso l’apprendimento e l’esperienza. Qualunque tipo di esperienza, Eno ne era convinto, avrebbe aggiunto un tassello alla lunga strada verso la verità. La cena fu servita quando il via vai dei cambi turno ebbe lasciato sufficiente spazio e tranquillità. Uno stufato fumante di carne e patate galleggiava nei piatti. Eno tentò di mostrarsi soddisfatto di quanto vedeva, ma temeva che i suoi occhi rivelassero il contrario. «Allora, Sartori, in Italia ci sono maiali così grassi?» chiese Garrn mentre masticava un pezzo di carne. Eno immerse il cucchiaio nel piatto, rimestando quella brodaglia. «Se non lo mangia, io mi offro volontario» disse Siffling. «Non sarà il ristorante dell’Adlon Kempinski, ma il buon vecchio Tobias lo sa fare lo stufato» rispose Löble, inzuppando una fetta di pane nella salsa. «Mi ricorda quello che faceva mia madre» continuò Garrn, senza alzare gli occhi dal piatto, «e mia madre cucinava da schifo.» «Allora che lo mangi a fare? Da’ qua!» Löble cercò di levargli il piatto dalle mani e schizzi di salsa volarono ovunque. «Cazzo, guarda che hai combinato, stupido corvo!» «Se solo avessi mollato subito non sarebbe successo.» Eno abbassò lo sguardo e notò che la carne nel suo piatto era sparita. «La mangiava? No, ho visto che ci stava giocherellando e mia madre dice sempre che non si gioca col cibo» si giustificò Garrn. «Era mia, coglione! L’avevo chiesta per primo» si crucciò Siffling.
«La prossima volta sii più svelto, se ci riesci.» Eno si alzò in piedi, ansioso di togliersi di mezzo. «Vogliate scusarmi, ho un appuntamento con il capo Nagelschmitz.» Siffling e Garrn si alzarono per farlo are. Eno aprì il portello che dava nella sala motori. Il risucchio dei diesel non gli facilitò la cosa e dovette mettere molta forza per aprirlo. Una zaffata di nafta gli inondò i polmoni e il rombo assordante del diesel lo colse impreparato. «Le dispiace chiudere? Stiamo mangiando!» gli urlò dietro Garrn. Per la prima volta, Eno ebbe modo di osservare più da vicino il capo motorista. Alla luce delle lampade artificiali, il maresciallo Nagelschmitz, sembrava più vecchio di quello che era in realtà. La barba incolta di qualche settimana gli conferiva un aspetto più da guida spirituale che da addetto ai motori. Gli occhi incavati e il colorito ceruleo rafforzavano l’impressione di trovarsi al cospetto di un mistico. Il giudizio che Eno aveva avuto di lui non doveva essere poi così lontano dalla realtà. Nagelschmitz era un tutt’uno con l’ambiente in cui ava gran parte del suo tempo, una simbiosi perfetta tra l’uomo e la macchina. Quell’intrico di metallo, valvole, tubazioni e griglie d’areazione erano l’unico posto dove Hermann Nagelschmitz avrebbe voluto trovarsi e quell’aria ammorbata dai miasmi della nafta l’unico ossigeno che desiderava. Nel momento esatto in cui entrò e lo vide, Eno fu invaso dal desidero impellente di andarsene con una scusa. Solo una grande forza di volontà, legata alla curiosità che nutriva per quelle macchine così imponenti, lo trattenne in quel luogo. «È in ritardo.» «Come?» disse Eno, preso alla sprovvista. «È in ritardo di sette minuti. E dire che non ha dovuto neanche fare molta strada.» «Chiedo scusa, ma vede, sono stato trattenuto dall’esuberante…» «Non deve giustificarsi. Vede, signor Sartori» disse con uno sguardo benevolo, uno sguardo del tutto simile a quello che Eno aveva riscontrato negli asceti
siriani, «un sommergibile è come un orologio. Ingranaggi, molle, lancette sono tutte piccole parti che singolarmente hanno poca utilità, ma quando vengono assemblate insieme danno vita a un unico meraviglioso ingranaggio di precisione. La precisione, signor Sartori. A proposito, in questo locale le etichette non sono bene accette. Se devo rimproverare qualcuno, preferisco farlo con il suo nome.» «Sì, certo, può chiamarmi Eno.» «Molto bene, Eno. Cosa stavo dicendo?» continuò mentre si grattava un orecchio, lasciandovi sopra una striscia di lubrificante. «La precisione…?» «Ah sì, certo. La precisione è essenziale. Un minuto in più può fare la differenza tra la vita e l’essere spedito sul fondale a sfamare i pesci. Ha capito?» «Credo di sì.» «Molto bene. Allora mi segua.» Nagelschmitz fece qualche o sulla erella di metallo e si fermò davanti al motore di dritta. «Motore diesel di dritta» disse, dando una sonora pacca sul rivestimento di metallo. Eno ebbe la tentazione di tapparsi le orecchie. Anche con un solo motore , il frastuono era assordante. Ovviamente, il capo motorista sembrava non farci troppo caso. Lo vide inserire la mano tra i meccanismi in movimento, con fare esperto, quasi chirurgico. Toccò dei tubi e rimase in silenziosa attesa con gli occhi socchiusi. «Ottimo, la temperatura dell’olio c’è. Venga!» Il capo motorista gli ò accanto, sfiorando il motore di sinistra con fare esperto. «Qui teniamo sotto controllo i livelli della nafta e dell’olio» disse, indicando un pannello. «E qui i giri del motore». La lancetta si muoveva in preda alle convulsioni. «Il mare si sta ingrossando, vede come balla?»
Il motore di dritta andava una meraviglia, con i giunti dei bilancieri che si alternavano in un ritmo frenetico. All’improvviso, una camla risuonò nel locale. Un suono acuto che risaltò sul rombo dei diesel. Come fantasmi, due uomini comparvero dal fondo del locale motori. «Questi due pecoroni sono i macchinisti addetti al motore di sinistra, il sergente Jürgen Gehrts e il fuochista Eric Bruch.» Eno salutò con un cenno del capo. Aveva già avuto modo di conoscere Gehrt, il sergente che condivideva l’alloggio con lui e gli altri sottufficiali di bordo. Un tipo allegro, dal volto coperto di efelidi e una zazzera bionda e incolta che lo facevano sembrare uno scolaretto alle prime armi. «Facciamo vedere al nostro ospite come romba la ragazza!» esclamò il capo motorista battendo il pugno sul motore di sinistra. Bruch si piazzò davanti a un volantino rosso e lo afferrò con entrambe le mani. Quando cominciò a girarlo, il sibilo dell’aria compressa che entrava nei cilindri diede il via all’accensione del motore termico. Gehrts tirò la leva della mandata della nafta e, quasi fossero delle dita che tamburellavano sulla carena del sommergibile, dei ticchettii iniziarono a percorrere il motore in tutta la sua lunghezza, poi uno scoppio diede inizio al valzer degli stantuffi. Ben presto, il motore iniziò a girare e rombare al ritmo del suo gemello e la cacofonia divenne insopportabile. Eno si tappò le orecchie ma si ritrovò a sorridere insieme agli altri quando il motore si portò alla velocità stabilita. Nagelschmitz si prese la libertà di dargli una sonora pacca sulla spalla che per poco non lo fece sbattere contro il motore di dritta. Il resto del turno ò relativamente tranquillo. Erano appena ate le quattro, ed Eno aveva finito di ricontrollare i tubi dell’acqua di raffreddamento perché non si surriscaldassero, quando il telegrafo suonò di nuovo. «Macchine avanti tutta!» urlò Gehrts. Subito, il capo motorista si diede da fare insieme al sergente per adeguare la
velocità. «Finalmente sciogliamo le briglie» disse tutto raggiante. «Era ora che il Vecchio si decidesse a lanciarci al galoppo. Dobbiamo essere usciti da quel macello di golfo» ribadì Gehrts. «Proprio così. Forse la RAF ci lascerà in pace per stanotte.» Eno si ripulì le mani sporche di lubrificante con uno straccio e si ritrovò a riflettere sull’enormità della cosa. Avevano abbandonato la sicurezza della terraferma quindi. Il semplice conforto dato dal poter allungare lo sguardo verso la costa, anche se poteva apparire una misera consolazione, faceva sì che si sentisse al sicuro, che avesse la sciocca certezza di potersi aggrappare a qualcosa. Ora, nel pieno dell’Atlantico, non c’erano più appigli, non si poteva tornare semplicemente indietro. Eno, in quel momento, ebbe la certezza che l’unica ancora di salvezza risiedeva nel trovare il coraggio in se stesso. Si sedette su una cassetta di legno posta a poppavia del locale. Grondava di sudore e quando cercò di asciugare le goccioline che gli colavano sugli occhi, si lasciò una striscia scura di lubrificante su tutta la fronte. «Vada a riposare, per oggi ha fatto più del dovuto.» Nagelschmitz gli ò un panno pulito. Il capo motorista si poggiò contro il motore di dritta e incrociò le gambe. Da quell’angolazione, Eno ebbe l’impressione che stesse dormendo. Con sorpresa, il capo si voltò con gli occhi socchiusi in un’espressione concentrata. «Allora? Non glielo ripeterò un’altra volta.» «Grazie capo, ma credo che rimarrò ancora un poco qui.» Nagelschmitz sorrise mostrando la sua solita espressione benevola. «Forse faremo di lei un buon motorista. Qualsiasi altro dei miei ragazzi se la sarebbe data a gambe all’istante. Lei è rimasto. Questo mi fa supporre che non abbia un luogo dove andare e, se non ne ha uno, questo è l’unico in grado di scacciare i brutti pensieri, dico bene?» Eno alzò le spalle e sorrise. «Sarà questo fracasso infernale che non ti permette di pensare.»
«Fracasso? Questa è musica. Se tende l’orecchio e sa ascoltare, noterà i sottili cambi di o e il rumore che si trasforma in armonia.» «Comincio a capire perché vi chiamano spettri, sa?» Nagelschmitz rise di gusto. «Ascolti me, se desidera farsi cuocere la faccia dal vento dell’Atlantico su in plancia, beh, è affar suo.» «Non so ancora bene cosa desiderare» ripose Eno. Solo in quel momento si accorse che non aveva mai smesso di strofinarsi le mani col panno. «Ho imparato poco nella vita da chi era d’accordo con me, quindi, se la sbrogli lei, ma mi ascolti bene. È il caso che trovi il prima possibile il suo posto. Il suo angolino sicuro, se intende quello che voglio dire. A bordo si fa la pacchia, ma perdere la testa è un attimo, e una volta persa» scosse piano il capo da sinistra a destra, «non si torna indietro. Siamo intesi?» Eno non capì bene cosa volesse dire il capo motorista, ma annuì come mosso da una forza invisibile. Si fissarono per qualche istante, finché il camlo del telegrafo non attirò l’attenzione di tutti.
Capitolo 8
Il quarto giorno dopo la partenza da Saint-Nazaire, esattamente il 27 di novembre, il sommergibile navigava in immersione a una velocità di circa cinque nodi, a un centinaio di miglia marine dalla costa portoghese. Il tempo era peggiorato ma, per il momento, la navigazione sommersa garantiva una certa sicurezza e una protezione dalla violenza delle tempeste atlantiche. Josef Lüth, per tutti il Vecchio, era seduto accanto al direttore di macchina nel quadrato ufficiali, intento, insieme agli altri commensali, a consumare un pasto freddo. La cucina non lavorava in immersione, eccezione fatta per piatti precotti o, come in questo caso, freddi. Josef e Hans erano seduti in quello che, a bordo, veniva chiamato il «divano buono», il posto riservato al comandante, mentre il primo ufficiale e il maggiore Kurtz occupavano i posti sui lati stretti del tavolo. In quattro si stava comodi e nessuno avrebbe dovuto alzarsi per permettere il aggio in caso del solito via vai di bordo. Hans sembrava catturato da qualcosa sul pavimento o era semplicemente perso in chissà quali pensieri. Nessuno aveva molta voglia d’intavolare un discorso e ogni occasione era buona per sviare i tentativi del secondo ufficiale Hollstein di rendere allegra la cena. Fu il maggiore Kurtz a richiamare l’attenzione di tutti. Mentre era intento a sezionare minuziosamente un coscio di pollo, separando con particolare attenzione la carne dall’osso, posò le posate sul tavolo e si pulì la bocca con il tovagliolo. I modi e l’atteggiamento denotavano un’adeguata formazione d’accademia, notò Josef. «Le chiedo formalmente scusa per le mie parole fuori luogo, comandante» disse con tono placido. Come scosso da un sonno inquieto, Josef alzò la testa e incontrò gli occhi del maggiore. Notò solo allora una cicatrice che costringeva la palpebra sinistra
dell’uomo verso il basso, conferendogli un’espressione accigliata. «Sono stato informato, dal sottotenente Werner, della poca esperienza in fatto di combattimento ravvicinato che hanno i suoi uomini. Non era mia intenzione spaventarli, mi creda.» «La ringrazio, maggiore» riuscì solo a biascicare Josef. Era ancora furibondo per l’accaduto e non era del tutto convinto che quell’uomo fosse davvero sincero. Tuttavia, fece buon viso a cattivo gioco e decise di non creare ulteriori tensioni. «Della guerra sanno poco o niente, se non quello che la propaganda gli propina ogni giorno.» Josef tamburellò con le dita sul tavolo. «Per quanto pericoloso sia ritrovarsi con un cacciatorpediniere che ti morde la coda, è senz’altro meglio che marciare nel fango o patire la fame su qualche fronte estero, non crede?» Hans giocherellava con la mollica del pane. Ne faceva piccole palline che poi metteva in fila, quasi volesse farne una collana di perle da regalare a qualche bella conosciuta al suo rientro. «Capisco il suo punto di vista» disse Kurtz accondiscendente, «ma io sono un soldato, proprio uno di quelli a cui piace marciare nel fango.» «E io capisco lei, solo che qui a bordo non è bene mettere in testa a questi ragazzi visioni di morte violenta. Hanno già a che fare con la pressante angoscia di una fine prematura per annegamento, e mi creda se le dico che non è un bel modo di morire neanche quello.» «Su questo ci puoi giurare!» intervenne Hans. «Quando quei cani ti fiutano, ti si appiccicano addosso come le remore agli squali e non ti mollano finché non ti hanno colato a picco.» Hans smise di fabbricare palline di mollica. «Me lo ricordo bene, come fosse ora. Un giorno intero di caccia ininterrotta. Una bomba di profondità dopo l’altra, devono aver dato fondo a tutte le scorte di sua maestà quei maledetti.» «Hans…» disse calmo Josef. «Ci stavano incollati e non c’era verso di scrollarceli di dosso. Forse si saranno annoiati o forse avranno finito le cariche, fatto sta che a un certo punto, dopo quindici ore di festa, siamo riusciti a svignarcela proprio sotto il loro naso.»
«Hans, non credo che il maggiore sia interessato alle tue storie mentre cena.» «Oh, lo lasci finire, nessun problema per me» disse Kurtz, con un gesto del coltello. In quel momento entrò Karl Zielinski, il sottufficiale di rotta. Indossava pantaloni e giacca di pelle e un paio di pesanti stivali dalle suole di sughero. Al collo portava una sciarpa verde con la quale cercava di tamponare ogni possibile infiltrazione d’aria. «Terzo turno di guardia pronto, comandante! Attendiamo ordini per l’emersione.» Josef diede uno sguardo al suo orologio e annuì. «Tra cinque minuti emergiamo. Fleischmann, portiamolo a quota periscopio.» Il direttore partì verso la camera di manovra accompagnato da Zielinski. «Voglia scusarmi, maggiore, temo che tra poco si ballerà un bel po’.»
*
La colonnina dell’idrometro si abbassò una tacca alla volta. I due timonieri si diedero da fare con i timoni di profondità per tenere stabile il sommergibile, combattendo contro la tendenza di questo a salire e scendere. «Quattordici metri, periscopio fuori» disse Hans, facendo un cenno affermativo con il capo verso Josef. «Bene, diamo un’occhiata.» Josef s’incollò all’oculare del periscopio. Tutti rimasero in religioso silenzio in attesa. Solo i ronzii del motorino, mosso per scrutare l’orizzonte, interrompevano quella quiete che si era venuta a creare. «Centocinquanta litri a poppa» ordinò Hans. Qualcuno si affrettò a girare una valvola per bilanciare il sommergibile. Era una
fase delicata, se il periscopio emergeva troppo, rischiava di tradire la loro presenza, mentre se usciva troppo poco, il comandante rischiava di essere cieco nel momento del bisogno. Josef richiuse le maniglie con uno scatto deciso e fece scendere il periscopio. «Tutti pronti all’emersione. Turno di guardia pronto.» Il comando venne ripetuto al locale motori e Josef seppe che la nafta stava iniziando a pompare per poter riattivare i muscoli del sommergibile. «Molto bene, emergiamo!» ordinò. «Avete sentito il comandante? Emersione!» ripeté Hans con voce squillante, tradendo quella certa eccitazione che accompagnava ogni emersione, un misto di adrenalina e timore che salivano in circolo scandite dalle manovre di bordo. «Immettere aria, timone avanti dieci in alto, dietro cinque in basso!» Il sibilo dell’aria compressa che entrava nei cassoni servì da comando per Zielinski e gli uomini del terzo turno per arrampicarsi nella torretta. Tutti erano infagottati nelle pesanti cerate, con le sciarpe e gli asciugamani ben stretti al collo per impedire all’acqua di penetrare; in mano i binocoli pronti all’uso. «Sommergibile emerso completamente!» esclamò Hans a voce alta per farsi udire anche dai ragazzi in torretta. «Compensiamo la pressione.» Con un suono sordo, il portello venne aperto e una folata di aria fredda riempì il locale. I ventilatori partirono, risucchiando l’aria verso l’interno. Uno scroscio d’acqua precipitò a cascata dal portello e si perse nella sentina. L’unica fonte di luce proveniva dalle lampadine schermate per impedire che il sommergibile fosse avvistato dall’alto. «Innestare il diesel di dritta, avanti un terzo» disse Josef. Ora che il più era fatto si adagiò contro il tavolo da carteggio. «Cassoni vuoti, comandante» riferì Hans. «Molto bene. Elettromotore di sinistra fermo, innestare diesel di sinistra, avanti adagio. Ora si balla.»
Josef uscì dalla camera di manovra per ritrovarsi nel suo alloggio. Prese il maglione grigio e lo infilò con cura, pur sapendo che alla fine di quel viaggio sarebbe stato infeltrito e scolorito, uno straccio buono solo per pulire il gabinetto. Si legò al collo un asciugamano e indossò la giacca di pelle e, sopra di essa, la tuta cerata. Ripercorse i pochi i che lo separavano dalla scaletta e si infilò su per la torretta fino in plancia. Ad accoglierlo trovo una pioggia di schizzi salati. Il mare, così come lo ricordava solo il giorno precedente, non esisteva più. Al suo posto si era materializzata una distesa di nera pece densa e schiumosa. Il cielo era talmente buio che non sembrava esserci un confine con il mare sotto di lui. Solo le ribollenti creste delle onde davano la misura di dove la scura figura del sommergibile si trovasse in quel momento. Sballottato da destra e da sinistra dalla furia degli elementi sembrava un piccolo pezzo di sughero in balia delle onde; completamente alla loro mercé, tuttavia, inaffondabile. Nessuna nave era in grado di tenere il mare come un sommergibile. Il vento fischiava e gridava, generando un sibilo continuo quando si divertiva a pizzicare il cavo teso dell’antenna. A completare il quadro, una pioggia battente rendeva tutto più complicato; persino i normali movimenti erano ostacolati da quel muro d’acqua che cadeva senza sosta dal cielo. Pochi minuti dopo essere salito in plancia, Josef si ritrovò completamente zuppo dalla testa ai piedi. L’acqua si era insinuata fin dentro le mutande e agli stivali, prendendosi gioco delle tute cerate e di tutti gli accorgimenti presi. Una secchiata, particolarmente violenta, quasi gli strappò il cappuccio dalla testa. «Sembra che si stia dando da fare!» urlò, per contrastare la voce del vento. «Sì, signore, non è magnifico?» rispose Zielinski. «Magnifico? Ha uno strano concetto di magnificenza, Zielinski.» «Sono di Königsberg, sul Baltico; da noi questo è considerato poco più che un acquazzone!» Josef sorrise del sangue freddo del suo ufficiale di rotta. Un ragazzo a posto, con una mania per i numeri. «Sarà meglio che allacci la cintura, comandante!» disse, indicando il sostegno del congegno di punteria.
Josef annuì e, evitando un’altra violenta secchiata d’acqua, agganciò il moschettone della cintura di sicurezza, assicurandosi al duro metallo. La plancia non era studiata per proteggere gli uomini in caso di tempesta; gli stessi ugelli antivento erano pressoché inutili contro raffiche di tale intensità. Per non parlare dell’apertura che, verso poppa, dava sul giardino d’inverno. Su quel lato erano completamente esposti alla furia del mare. L’acqua riempiva la plancia a ogni ondata, per poi refluire in mare dagli ombrinali, in un circolo infinito. «Si balla niente male, signore!» continuò Zelinski, quando l’ennesimo saliscendi fece sparire dalla vista la prua. La parte anteriore del sommergibile era completamente sommersa dall’acqua schiumosa, tanto da far temere agli uomini di guardia che si stesse inabissando, e con esso le loro speranze di tornare a casa vivi. Con un sobbalzo che gli tolse il fiato, la prua riemerse e fu il turno della poppa di andare giù, imitando il movimento di certi cavalli a dondolo con cui giocavano i bambini. Gli sfiati dei motori diesel sparirono nel vortice d’acqua e per qualche istante il denso fumo grigio smise di uscire. A bordo le cose non dovevano andare molto meglio: la pressurizzazione dovuta ai motori, costretti a succhiare aria dall’interno, doveva essere un bel tormento per i macchinisti. Per non parlare di quel continuo beccheggio in grado di stendere anche il più navigato dei marinai. «Con questo tempo nessun pilota sarebbe tanto pazzo…» Zielinski coprì il cannocchiale mentre un’onda gli sferzava il viso. «Lo so, ma non possiamo trascurare nulla. Tenga gli uomini incollati a quei binocoli!» «Signorsì!» urlò il sottufficiale di rotta, prima di rimettersi gli oculari di gomma attaccati agli occhi. Josef sentì il volto bruciare per le sferzate del vento. Cercò riparo, tenendosi tra il parapetto e il pozzetto del periscopio, ma anche quell’umile protezione non impedì all’acqua di filtrargli ovunque. «Attenzione!» urlò la vedetta di tribordo, un secondo prima che un muro d’acqua colpisse la plancia di traverso. Le onde s’infransero contro la parete di metallo e per qualche secondo la vista di Josef si riempì di nero. Quando l’acqua iniziò a
defluire, in rapidi mulinelli che rischiavano di risucchiarlo via come tentacoli di un enorme polipo, riaprì gli occhi arrossati e lacrimanti, solo per doversi proteggere da un nuovo attacco. In quel momento, Josef decise di averne abbastanza. «Zielinski, manteniamo questa rotta. Massima attenzione.» «Signorsì!» ripeté il sottufficiale, mentre schivava agilmente un nuovo attacco, cercando di proteggere il cannocchiale. Josef ridiscese la scaletta sotto lo sguardo attonito degli uomini di turno in camera di manovra. Doveva avere un’espressione stravolta per suscitare tutti quegli sguardi preoccupati. «Tira una brezza niente male lassù» disse, mostrando un sorriso eccitato. «Davvero? Qui al coperto non ce ne siamo nemmeno accorti» lo schernì Hans, contravvenendo a una manciata di regole gerarchiche davanti agli uomini. «Si scaldi davanti al camino, comandante.» «Proseguiamo su due zero zero, e speriamo che la burrasca ci dia tregua.» Josef si tolse i guanti e si strofinò le mani per riattivare la circolazione. L’acqua era penetrata e la pelle era molto arrossata. «Come se la ano a prua?» «Al solito» rispose Hans, senza troppo interesse. Josef aprì il diario di bordo. Alitò sulle dita intorpidite e cominciò a scrivere. Nonostante le condizioni avverse proseguiamo in emersione. Scrisse qualche altra nota poi chiuse di botto il diario e lo lasciò sullo scrittoio. Si adagiò contro la parete di legno della sua cuccetta e tirò un lungo sospiro. Dall’abitacolo davanti al suo alloggio proveniva una flebile luce. L’idrofonista teneva i gomiti poggiati al banco e sembrava immerso nella lettura. Ora che erano in superficie le sue mansioni erano ridotte e si alternava con il marconista alla radio. «Cosa legge, Schäfer?» chiese incuriosito. Il ragazzo, come svegliato da un bel sogno, si voltò confuso. «Comandante?»
«Cosa sta leggendo?» ripeté Josef, indicando il libro dalla copertina consunta che il ragazzo teneva in mano. «Ah, questo. È un romanzo di Jules Verne.» «Mi lasci indovinare il titolo.» Lars Schäfer parve divertito. «Temo di essere abbastanza prevedibile.» «Ha a che fare con il mare, quindi.» Josef piegò la testa da un lato e a un tratto sorrise illuminato. « Ventimila leghe sotto i mari, posso presumere.» Schäfer alzò la copertina, mettendo in mostra il titolo del libro. «Come le avevo detto, sono prevedibile.» «Continui pure. Ma non si aspetti di fare incontri altrettanto fantasiosi su questa nave. Non siamo il Nautilus.» «No, non lo siamo» rispose Lars osservando il libro.
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Le onde si erano fatte talmente violente da rendere impossibile la navigazione in superficie. Precipitavano addosso al sommergibile come pareti di un edificio di tre piani, tormentando il suo equipaggio al punto che, a bordo, l’odore di vomito proveniente dalla sentina aveva superato quello della nafta e delle altre decine di effluvi che venivano da ogni dove. Il pungente lezzo dei limoni guasti, quello acre del sudore degli uomini accalcati nel locale di prora, lo stantio odore della nafta e dell’olio per motori, quello chimico delle tute cerate e degli stivali di gomma ammorbavano l’aria, dando l’impressione di trovarsi in una cloaca. Josef aveva preso la decisione di proseguire in immersione per dare un po’ di sollievo agli uomini provati dal continuo rollio e beccheggio dello scafo.
Ne aveva viste di tempeste durante le missioni nell’Atlantico e nessuna lo aveva sconvolto al punto da fargli temere il peggio. Perché il mare avrebbe dovuto reclamare un insignificante battello? Un piccolo sughero in balia delle forze della natura. A meno che, si disse, a meno che quell’inutile pezzo di metallo e carne non stesse giocando un ruolo chiave nello scacchiere di quella guerra dissennata. Josef ripensò al carico che stava scortando in uno dei posti più celati e inesplorati della terra. Scosse la testa per scacciare i cattivi presagi che gli affollavano la mente e si incamminò verso prua. Erano ate ormai quasi trentasei ore da quando si erano immersi e le batterie erano al limite. Ben presto sarebbero dovuti riemergere e con ogni probabilità, affrontare ancora il leviatano che si stava scatenando in superficie. Entrò nell’alloggio dei sottufficiali dove trovò un’accoglienza calorosa da parte dei sergenti dei turni di riposo che discutevano animatamente di argomenti frivoli. Josef captò solo poche parole prima che gli uomini si alzassero in piedi per salutarlo. Ovviamente la parola più gettonata era bordello. Rispose al saluto e si appoggiò al montante di una branda vuota. Vide Otto Löble, Maschinenmaat addetto al motore elettrico. «Quanta autonomia ci resta, sergente?» chiese più per conversare che per un vero e proprio interesse. Hans aveva provveduto ore prima a un rapporto dettagliato sull’argomento. «Tre, massimo quattro ore se rimaniamo sui quattro nodi. Forse meno» ripose il ragazzo. Josef si concentrò sul suo colorito. Sembrava appena uscito da una lunga malattia. Profonde linee blu gli circondavano gli occhi e una patina oleosa, simile a cera, gli ricopriva le guance e la fronte. «Molto bene.» Continuò a osservare gli occhi del giovane; una spossatezza che aveva riscontrato in molti altri uomini dell’equipaggio. Qualcuno si rigirò pesantemente nella sua cuccetta. Una testa fuoriuscì dalle coperte e aprì gli occhi a fessura. Quando vide il comandante, cercò di uscire dal suo giaciglio ma rimase impigliato coi piedi tra le lenzuola.
«Stia calmo, Thiel, o rischierà di aggrovigliarsi ancora di più» lo derise Josef. «Sissignore» rispose lui con la bocca impastata dal sonno. Sembrava appena resuscitato da una lunga morte «Continuate pure. Solo…» Josef si voltò in cerca di qualcosa. «Avete visto il signor Sartori ultimamente? Questa è la sua cuccetta, se non vado errato.» Tutti si scambiarono sorrisini beffardi. Alla fine fu Schäfer a parlare. «Credo che questo saliscendi non abbia giovato molto alla sua salute. Pare preferisca are il suo tempo in sala macchine che qui con noi.» «Magari ha qualche tipo di feticismo…» disse Löble, prima di essere azzittito da una gomitata di Geiger. «Mi aspetto collaborazione da parte vostra, signori. Il signor Sartori è un ospite, e come tale deve essere trattato. Tutto chiaro?» «Sissignore» dissero in coro. «Bene.» Josef annuì e, ando in mezzo agli uomini, attraversò l’alloggio per proseguire in sala macchine. L’odore in quel luogo era decisamente migliore, se paragonato alla puzza che aleggiava in tutto il sommergibile per via delle troppe ore senza ricambio di ossigeno. Fatta eccezione per i normali effluvi del carburante e dei refrigeranti, ovviamente. Tuttavia, i motori diesel erano spenti da ore e gli addetti se ne stavano seduti in attesa di ordini. «Hermann» salutò Josef, rivolto a un uomo barbuto che se ne stava appoggiato con la schiena al motore di dritta. «Comandante, benvenuto. Le offrirei una tazza di tè, ma temo dovrà attendere che la cameriera torni dalla licenza.» «Ne farò a meno allora. Come va?» Nagelschmitz alzò le spalle e le lasciò ricadere con uno sbuffo d’aria dalla bocca. «Siamo in attesa. Le ragazze scalpitano e quelli» indicò con un dito alle
sue spalle, dove Thomas Linke era alle prese con gli elettromotori, «se la prendono comoda. Sembra che siamo piantati nello stesso punto da ore.» Josef sorrise e diede una pacca sulla spalla al capo motorista. «Avrà molto presto il suo spazio, glielo prometto.» Con la coda dell’occhio intravide Sartori in fondo al locale. «Mi scusi un attimo, Hermann.» Fece qualche ò sulla erella, senza perdere di vista l’archeologo. «Capitano» disse Sartori, quando lo vide piantato davanti a lui. Se ne stava lì seduto su una cassetta di cibo in scatola, giocherellando con una chiave inglese. «Sartori, cominciavo a pensare si fosse volatilizzato» lo schernì Josef. Sartori mostrò i denti in un sorriso stanco. «Sto solo cercando il mio posticino tranquillo.» Dovette notare la sua espressione perplessa perché si affrettò ad aggiungere: «Casa è dove ti senti a casa». «Capisco. A ogni modo la trovo bene.» Diede uno sguardo attento all’uomo. I capelli erano spettinati e coperti da una patina oleosa che sembrava brillantina. La canottiera bianca era coperta da chiazze scure e da una striscia giallognola che dal collo scendeva sul petto. Gli occhi erano cerchiati e piccole venuzze cominciavano a diramarsi come una ragnatela cremisi. «Sto bene» disse Sartori, quando sentì il suo sguardo addosso. «Ha bisogno di una pausa, Eno. Quant’è che non riposa?» L’uomo alzò le spalle. «Qui il tempo scorre in modo differente che sulla terra ferma. Che importanza ha il movimento delle lancette? Quando arriva il cambio, sono ate otto ore.» «Lei deve riposare, è un ordine. Il fatto che sia un ospite non le consente di disobbedire a un ordine diretto; ma se preferisce ne discuterò col maggiore Kurtz» disse, alzando lo sguardo sul maggiore che, nel locale attiguo a quello, stava parlottando con i suoi uomini mentre controllava le casse sigillate. Sartori parve riprendersi e, come svegliato da un sogno a occhi aperti, mosse la testa lentamente cercando un appiglio per mettersi in piedi.
«Se è un ordine, obbedisco.» Fece un saluto alla visiera che gli lasciò sulla fonte una macchia marrone scuro e s’incamminò verso gli alloggi. Josef lo guardò sparire attraverso il portello. Rimase qualche altro istante a riflettere, poi proseguì il giro.
*
I comandi per l’emersione vennero impartiti alle venti in punto del 29 novembre, quinto giorno di navigazione. La solita procedura portò il sommergibile a quota periscopio e, quando Josef diede l’ordine di emersione, si ritrovarono nuovamente nella burrasca che sembrava aver preso forza. Le danze ripresero e con esse il supplizio per l’equipaggio. Un marinaio fu inviato a svegliare Zielinski una mezz’ora prima dell’emersione, di modo che potesse prepararsi al suo turno di guardia. Quando arrivò in camera di manovra, gli uomini del suo turno erano già pronti, imbacuccati come mummie nelle tute cerate. Qualcuno aveva preparato del caffè che tutti bevvero a piccoli sorsi per far durare il più a lungo possibile quel momento di grazia. Quando il portello si aprì, e una corrente gelida penetrò sciamando lungo ogni interstizio del sommergibile, gli uomini tirarono fuori i binocoli con le lenti Zeiss e salirono in plancia. Un fiume in piena venne giù dal boccaporto e finì dritto nella sentina. Le pompe si azionarono, risucchiando l’acqua. Le luci arono alla schermatura e il ventilatore si mise in moto. Josef e Hans rimasero in ascolto finché l’ultimo sibilo dell’aria compressa non svuotò del tutto i cassoni. A quel punto, Hans si dedicò ai timoni e Josef decise che era giunto il momento di un po’ di riposo anche per lui. Aveva appena tirato la tenda della cuccetta quando sentì il marconista scambiare alcune parole con il primo ufficiale. Immediatamente dopo udì il ticchettio dei tasti della macchina di decodifica.
Si alzò e tirò la tenda. Hollstein ava lo sguardo dal foglio di carta, sul quale erano scritte lettere senza senso apparente, ai tasti della macchina di decodifica Enigma chiusa nel suo contenitore di legno di pino. Sul tavolino del marconista, il libretto con i codici era aperto alla pagina del giorno. Il tic tic dei tasti sembrava infinito, mentre Hollstein batteva con un solo dito. Quando ebbe terminato, prese il foglietto rosa e trascrisse il contenuto su un quaderno che poi ò a Josef. Convoglio in quadrato BE 9591. Rotta quarantacinque gradi. Velocità circa otto nodi. Attacco di due ore con bombe di profondità. Continuo inseguimento. UL Josef schizzò verso la camera di manovra. Poggiò il foglietto sul tavolo e lo stese per bene, dopodiché prese un mozzicone di matita e cominciò a tracciare linee sulla carta nautica con l’aiuto di un como e di una squadra. Quando ebbe finito, poggiò delicatamente la matita accanto al foglietto e batté i pugni sul tavolo. «Maledizione! Sono troppo lontani. Due giorni di navigazione, forse.» «Comandante» disse piano Hollstein. Josef si voltò con ancora la collera stampata in faccia. Gli uomini lo stavano fissando. «Comandante, non ci riguarda, abbiamo…» «Lo so benissimo, cosa crede.» Si girò verso il tavolo e diede un ultimo sguardo al quadrante BE, situato ad appena trecentosettantacinque miglia marine dalla loro posizione. A denti stretti cercò di calmarsi. L’unico modo che trovò fu quello di mettere le mani in tasca e godere del torpore del contatto col calore delle sue gambe. «Lo so benissimo» aggiunse, prima di ritirarsi nel suo alloggio.
*
Zielinski rinunciò a pulire il binocolo. La pelle di daino era zuppa e inservibile con tutta l’acqua che gli veniva rovesciata contro. L’unico espediente possibile
era leccare le lenti nell’intervallo tra un’ondata e la successiva, ma anche questo, ormai, serviva a poco. «Che diavolo, perché non ci immergiamo di nuovo?» disse Hiller, un comune di prima classe, vincendo la furia del vento, mentre si afferrava al pozzetto del periscopio per proteggersi da uno scroscio d’acqua. «Fate silenzio e controllate le cinture!» urlò Zielinski di rimando. Diede uno strattone alla sua per accertarsi che fosse ben fissata. Quando si sentì più sicuro, si tolse i guanti ormai completamente bagnati e si strofinò gli occhi arrossati per lo sforzo. Il cavo dell’antenna sembrava un violino impazzito. ò velocemente una manica sulle lenti del binocolo per togliere almeno le gocce più grosse, ma fu costretto a nascondersi dietro il parapetto a causa di un’onda più aggressiva delle altre. «Quanto durerà quest’agonia?» chiese Biedermann, il sottocapo addetto al lato di babordo. «È un fronte esteso, originato da masse d’aria calda provenienti da ovest e aria fredda del nord. Se siamo fortunati si sposterà verso est, verso l’entroterra e riusciremo a svignarcela.» «Bell’idea quella di partire in questa stagione» mise il carico Kaymer, «qualunque sia il posto dove stiamo andando, è proprio una bella idea del cazzo!» «Piantala Kaymer, o preferisci finire il turno sulla postazione dell’antiaerea?» Il caporale mugugnò qualcosa ma se ne guardò bene di rispondere al suo superiore. La tensione venne lavata via da l’ennesimo muro d’acqua che li colpì su un lato. Il metallo frenò la violenza dell’onda che s’infranse come schiuma saponata per poi ricadere nel ribollire del’oceano. Ormai il mare sembrava una catena montuosa innevata. L’acqua appariva come un pentolone enorme in ebollizione e la pioggia una titanica mitraglia che non
smetteva di flagellare il sommergibile. Zielinski cadde preda dello sconforto. «Stiamo consumando carburante prezioso senza fare un o in avanti.» La sensazione di essere in balia di quelle montagne d’acqua, inermi e in attesa che la prossima onda fosse quella fatale, cominciava a prendere forma nella sua mente. Il cielo era una coltre grigia da cui non filtrava nulla. Non si percepiva neanche il veloce correre delle nubi trascinate dal forte vento. Zielinski sentì il bisogno urgente di urlare per scaricare i nervi. Tuttavia, rimase in silenzio con il cuore che gli batteva all’impazzata. Era un sottufficiale della Marina da guerra e non gli era consentito mostrare le sue debolezze davanti agli uomini sotto il suo comando. Si rintanò sotto il parapetto per sbollire la frustrazione. Fu in quel momento che lo vide: un lungo pezzo di stoffa inzuppata pendeva dal fianco del sostegno sul pozzetto del periscopio. Il moschettone ancora attaccato al duro acciaio. Zielinski si guardò attorno nella disperata ricerca dell’uomo privo di cintura di sicurezza. Vide a poco più di un metro da lui l’imbracatura di Lexau che pendeva con la cima strappata. «Attenzione!» gridò qualcuno. Zielinski guardò nella direzione verso la quale era puntato il braccio di Hiller. Un’enorme parete d’acqua si avvicinava da poppa. Il respiro gli si bloccò in gola e gli occhi quasi gli uscirono fuori dalle orbite per lo sconcerto. Il suo campo visivo era completamente oscurato da quella cortina grigio piombo che s’innalzava minacciosa e che stava per abbattersi su di loro. In un lampo di lucidità, si avventò contro Lexau, il più giovane a bordo, appena un marinaio, e lo afferrò per la vita, trattenendolo forte a sé. Incrociò il suo sguardo e vi lesse tutto lo stupore per quel gesto. Zielinski puntellò la schiena contro il parapetto, i piedi incollati al pozzetto del periscopio. Il ragazzo fece lo stesso; lo sguardo di entrambi fisso sul muro di quattro piani che, con lentezza estenuante, si avvicinava minacciosamente. Per prima investì la poppa. La sollevò come un fuscello, innalzandola come un ascensore verso il cielo nero.
Zielinski smise di respirare. Ogni muscolo teso nel disperato tentativo di tenersi saldo contro quella poca protezione che la plancia offriva. La poppa smise di salire. Per un breve istante tutto rimase congelato come in una foto in bianco e nero. Poi la schiuma prese a bollire sulla cresta dell’onda e la massa si abbatté con ferocia sulla plancia e sugli uomini dentro di essa. Risuonò con un tonfo del tutto simile all’esplosione di un proiettile d’artiglieria. Tutto il sommergibile fu scosso da violenti spasmi. Il metallo vibrava come una cassa di risonanza al ritmo del mare. Zielinski chiuse gli occhi un attimo prima dell’impatto. L’ultima immagine che vide fu quella dei suoi uomini che si tenevano stretti come meglio potevano contro qualsiasi appiglio disponibile. In cuor suo, ebbe il tempo di pregare che il sommergibile reggesse a tanta violenza. Poi l’acqua prese il sopravvento su tutto e, come un fiume in piena, lo sballottò contro il parapetto come una bambola di pezza. In apnea e con gli occhi serrati, Zielinski si lasciò trastullare dai capricci della corrente senza opporre resistenza. La torretta si piegò a babordo e l’acqua iniziò a defluire dagli ombrinali. Nessuno ebbe il coraggio di rialzarsi, spaventati a morte da quanto avevano appena ato. Il rollio la fece piegare a tribordo con un angolo innaturale. Zielinski trovò la forza di aprire gli occhi e si disse che se in quel momento un’altra onda avesse colpito il sommergibile, nessuno ce l’avrebbe fatta. Sarebbero morti tutti. Ma l’onda non arrivò. Il sommergibile tornò in posizione e finalmente gli uomini riuscirono a liberarsi dai mulinelli creati dall’acqua che defluiva in mare. Zielinski era stravolto. Le palpebre gonfie e il viso arrossato gli conferivano un aspetto quasi alieno. Il cappuccio della cerata pendeva sulla schiena con i lacci ancora ben saldi sotto il collo. Vide Hiller che apriva la bocca e cercava di urlargli qualcosa, ma non riusciva a sentire la sua voce. Finalmente seguì lo sguardo del caporale e le sue peggiori paure si materializzarono. La cintura di Lexau pendeva inerme dal sostegno e del ragazzo non c’era più traccia.
*
«Allarme, uomo in mare!» gridarono dalla plancia. Josef si affrettò a correre sotto il portellone e salì alcuni gradini, solo per essere ricacciato indietro da uno scroscio d’acqua che lo inzuppò. Un fagotto avvolto in una tuta cerata cadde immediatamente dopo, sbattendo l’osso sacro contro le grate di metallo. Con gli occhi spiritati, il giovane, che Josef riconobbe come Hiller, aprì e chiuse la bocca come inebetito. «Che diavolo succede lassù, caporale!» abbaiò Josef. «Lexau, signore. Uomo in mare…» «Portare una lampada, subito!» Ordinò Josef e Werner sparì come un lampo verso poppa. Hans si affrettò a porgergli una tuta cerata e lo aiutò a indossarla. Il tempo in quei casi era vitale. Un uomo in mare aveva poche possibilità di essere recuperato con un tempo simile, ma ritardare i soccorsi diminuiva drasticamente quelle possibilità. «Eccola, capitano.» Werner gli porse la lampada che lui afferrò con entrambe le mani. Si cacciò dentro la torretta saltando i pioli della scaletta due alla volta, ignorando la cascata continua d’acqua che gli piombava addosso. Quando fu fuori, gli bastò una rapida occhiata per capire in che guaio si erano cacciati. La tempesta che li stava tormentando da quasi tre giorni aveva raggiunto il suo culmine. «Dove?» chiese al sottufficiale di rotta. «Impossibile dirlo con queste onde.» Zielinski abbassò il volto, nascondendosi dietro al cappuccio. «Impossibile non è contemplato, mi dica dov’è caduto» insistette.
«Credo da poppa. L’onda non ci ha lasciato scampo e la sua cintura era… era rotta, comandante. Non ho avuto il tempo di aiutarlo.» Josef puntò la lampada sull’acqua schiumosa, ma il vento cambiò direzione e rischiò di strappargliela dalle mani. «Non c’è più nulla da fare ormai, è andato» disse Zielinski, poggiandogli una mano sulla spalla. Josef si guardò ancora un po’ attorno, in cerca di un segno, ma fu costretto ad abbassarsi quando il mare gli scaraventò addosso una nuova ondata. Josef e Zielinski si guardarono negli occhi, finché lui non decise che il sottufficiale aveva ragione. Era andato. Per quanto avessero potuto cercare e cercare ancora, il mare non gli avrebbe restituito il suo pegno. «Tutti sotto coperta, ci immergiamo.»
Capitolo 9
«Maresciallo Zielinski a rapporto, comandante.» Il sottufficiale di rotta si presentò qualche minuto dopo nell’alloggio del comandante. Mostrava sul volto i segni della recente sventura: le guance arrossate e la pelle, in alcuni larghi punti, sembrava quasi spellata. Un profondo taglio segnava l’attaccatura del naso e già un alone violaceo cominciava a formarsi nel punto della contusione. Gli occhi, apparentemente inespressivi, erano puntati sul pavimento. «Si metta comodo» disse Josef, accompagnando l’invito con un cenno della mano. «Venga, spostiamoci nel quadrato.» Josef fece accomodare Zielinski sul divano buono e lui rimase in piedi, appoggiato a uno degli armadietti di legno. «Capo!» chiamò. Un istante dopo, il capo Falkenmayer si presentò sull’attenti. «Comandi» disse impettito. «Ci dia qualche minuto in privato.» Falkenmayer annuì e corse in camera di manovra. Subito tornò con il sottocapo Glemnitz che si piazzò all’altro lato degli alloggi riservati agli ufficiali per impedire il via vai del personale di bordo. «Bene. Mi racconti cos’è accaduto» disse, andosi l’indice e il pollice sugli occhi. Zielinski parve imbambolato. Seduto, con le spalle completamente rilasciate, se ne stava a testa bassa, chiuso nella sua afflizione. «Maresciallo» lo incoraggiò Josef.
A quel punto il sottufficiale alzò la testa e tirò un sospiro profondo. «La cintura di sicurezza, comandante, era spezzata, non so, forse in seguito a uno strappo o forse era già lesionata, impossibile dirlo ora.» Zielinski raccolse le forze e proseguì. «È stato poco prima che quell’onda ci investisse in pieno. Non ne ho mai vista una così, parola mia. E dire che ne ho viste di tempeste, ma una così…» «Continui, prego.» «Ero chino per proteggere il binocolo dagli schizzi, quando ho visto l’estremità strappata della cintura di sicurezza di Lexau. Mi sono fiondato su di lui e l’ho stretto a me. L’ho stretto con tutte le mie forze. Mi sono puntellato contro il parapetto ma l’onda ci ha presi in pieno e l’ho perso, l’ho lasciato andare.» Josef serrò la mandibola e arricciò le labbra. Poteva immaginare lo stato d’animo di quell’uomo, il suo disarmo di fronte a quella sciagura. Non era raro che si finisse in mare durante un turno di guardia, aveva sentito di intere guardie franche strappate dalla plancia e finite in acqua, ma un conto era ascoltarli quei racconti, altro era viverli sulla propria pelle. «Credo che lei abbia fatto tutto il necessario per aiutarlo, Zielinski. Non poteva salvarlo, non da questo mare. Ora si prenda il resto della nottata e provi a riposare. È tutto, vada pure.» Zielinski salutò e senza dire nulla proseguì verso il suo alloggio. Solo quando ebbe raggiunto la cuccetta nell’alloggio dei capi di seconda, a pochi metri da quello del comandante, si voltò verso di lui. Sembrò voler dire qualcosa, poi con un salto si arrampicò e sparì alla vista. Josef rimase appoggiato contro l’armadietto, incapace di fare altro. La sua mente lavorava veloce e impartiva ordini muti che ben presto avrebbe dovuto condividere con i suoi ufficiali. Scosso da un’invisibile forza, chiamò Falkenmayer. Come un fantasma, il grosso nostromo apparve al suo fianco. «Proseguiamo in immersione su rotta corrente. Ho bisogno che mi faccia avere al più presto un rapporto su quanta autonomia delle batterie disponiamo.» Falkenmayer annuì ma, prima che potesse muoversi, Josef lo bloccò.
«Gli faccia medicare quel taglio» disse, indicando la cuccetta di Zielinski.
*
La mattina del 30 novembre il Vecchio diede l’ordine di emergere. Le batterie erano a secco e neanche l’espediente di spegnere tutte le luci non indispensabili era servito a molto. Che lì fuori ci fosse burrasca o meno, la priorità era ricaricare le batterie. Emergere di nuovo sotto il rullo compressore della tempesta aveva almeno il vantaggio di rendere il tragitto sicuro, eludendo le ricognizioni aeree. D’altro canto un mare più generoso avrebbe permesso al sommergibile di viaggiare a buon ritmo e ricaricare le batterie in circa sei o otto ore. Werner, il secondo ufficiale, si preparò sotto il boccaporto in camera di manovra e con lui il sergente Thielen, il comune di prima classe Goetzke e i caporali Freund e Holz. Tutti indossavano le tute cerate e i pesanti guanti con le maniche chiuse da lacci elastici, per impedire all’acqua di entrare. Al collo portavano gli immancabili binocoli. Eno socchiuse gli occhi e si concentrò sui rumori: i i degli uomini sui pioli di metallo mentre risalivano il condotto che portava in superfice. Il volantino del portello che girava e il solito pop quando questo venne aperto. Rimase in attesa di sentire il frastuono della tempesta e il gorgogliare dell’acqua giù nella sentina, ma rimase piacevolmente deluso. In compenso una fresca brezza gli riempì di nuovo i polmoni di aria pulita. «Sorpresa» gli disse a bassa voce il direttore di macchina. «Là fuori splende il sole.» «Ma… se solo fino a poche ore fa eravamo in balia del mare» disse aggrottando le sopracciglia incredulo. «L’Atlantico è capriccioso. Non ha notato che abbiamo smesso di ballare?» Eno assunse un’espressione perplessa. In effetti il sommergibile beccheggiava leggermente, ma nulla a che vedere con l’altalena vissuta poche ore prima. Il
viaggio in immersione aveva messo a tacere la potenza delle onde ed Eno aveva fatto in fretta a dimenticare le pene vissute. «Mi spiace per quel ragazzo» disse imbarazzato. «Non ho avuto neanche modo di scambiarci due parole e… era molto giovane?» «Il più giovane…» rispose all’istante Fleischmann. «… il più giovane a bordo.» «Ah, capisco. Non so davvero cosa dire.» «Allora non dica niente. Sono marinai e sono soldati. Noi sommergibilisti siamo volontari, non come certe altre donnette dell’esercito, ciascuno di questi ragazzi ha volutamente scelto di trovarsi qui e condivide un rapporto con la morte che oserei definire fatalista. È la sconsideratezza della gioventù, dicono. Ormai è il tempo dei poppanti, i vecchi lupi di mare riposano sul fondo dell’oceano. Li guardi. Li osservi bene. Non vede i loro volti carichi di belle speranze e fede incrollabile nel Führer?» «Fatalisti dice lei? Non credo che siano disposti ad accettare il corso degli eventi ivamente, senza provare a metterci mano.» «Avrà modo di valutare lei stesso le mie parole.» Eno cercò di cambiare argomento, spostando la conversazione su toni meno tetri. Si mise a guardare incuriosito la strumentazione di bordo, posando lo sguardo su uno strumento a bolla. Come se stesse aspettando quel momento da una vita, Fleischmann si gli avvicinò, osservandolo di sott’occhi. «Puro interesse accademico?» chiese con tono sornione. «Mentirei se le dicessi che non sono incuriosito dal funzionamento di un sommergibile. Ho letto qualcosa quando…» fece una pausa, il timore di rivelare troppo sui suoi trascorsi alla corte del numero due del Reich era fondato e, per il momento, preferiva mantenere il segreto come gli era stato ordinato. Bissò sull’argomento con un’alzata di spalle. «Non credo di essere molto ferrato in fatto d’ingegneria, me la cavo meglio con il piccone.» «Non si sottovaluti, Sartori. Chieda pure. Se fa una domanda potrà sembrare
sciocco per qualche minuto, ma se non ne fa rimarrà sciocco per sempre.» Eno piegò la testa da un lato, colpito dalle parole del direttore. «Se mi avessero detto che a bordo c’erano persone tanto erudite, non mi sarei fatto pregare a quel modo per essere imbarcato» disse infine. «Se mi avessero detto che avrei dovuto insegnare a governare un U-boot a un archeologo italiano, credo che avrei preteso una paga migliore.» Eno gli mostrò un largo sorriso e per un momento il malumore fu dimenticato. Fleischmann si stampò sul volto un’espressione da maestrino che ha a che fare con uno studente alle prime armi e incrociò le braccia, dandosi un tono autoritario. «Immagino che la procedura che porta il sommergibile ad annullare la spinta di galleggiamento e che lo fa immergere sia una sorta di arcana magia per lei, o sbaglio?» «No, non sbaglia. Credo di aver capito qualcosa ma non mi chieda di ripeterlo perché non saprei proprio da dove iniziare» disse Eno, mettendo le mani avanti. Le sue scarse nozioni in materia si limitavano a quel poco che aveva avuto modo di vedere in quei giorni. «Molto bene. È tutto molto semplice in realtà. Per immergerci apriamo le valvole in alto sulle casse zavorra, facendo uscire l’aria dagli sfiatatoi, in modo che l’acqua possa entrare dalle valvole di allagamento. Tutto chiaro fin qui?» Eno annuì, non del tutto sicuro di aver capito, ma preferì non far perdere al direttore il filo del discorso. «Oltre alla casse zavorra ci sono quelle di compensazione e di assetto. Tramite le pompe convogliamo l’acqua nelle prime per regolare la perfetta orizzontalità del sommergibile fino alla posizione zero, un po’ come si farebbe con una livella.» «Quindi se si appoppa basta immettere acqua a prua come con una bilancia?» chiese Eno. Fleischmann parve riflettere sulla domanda. «Esattamente! Molto semplificato,
ma il concetto è quello. Le casse di assetto invece servono per equilibrare il peso che il sommergibile perde giorno per giorno. Carburante, viveri, armamento, eccetera. Il peso del nostro sommergibile varia di continuo a causa di questi consumi e per questo è necessario immettere acqua di mare nelle casse di assetto per riequilibrarli.» Attese qualche secondo per permettere a Eno di assimilare le sue parole, poi riprese. «Purtroppo è più complesso di quanto sembri. Basta un fondale più profondo, una corrente maggiore o che lei si sposti verso prora per far sì che il sommergibile si apprui, capisce?» Eno socchiuse gli occhi, cercando di recepire i concetti base di quella spiegazione. «Assetto compensa i pesi. Compensazione mantengono il sommergibile orizzontale.» Fleischman si batté una mano sulla coscia. «L’avevo detto che sarebbe stato un ottimo sommergibilista, Sartori!» «Comunque sia, è quasi impossibile bilanciare il sommergibile, anche se il comandante non è dello stesso avviso. Abbiamo un bel da fare per tenerlo stabile quando siamo sotto.» «La ragazza non ne vuole sapere di essere cavalcata, signore» disse Tewes. «Già, scalpita e sgroppa come una puledra in calore!» continuò Dietze, l’altro caporale addetto al timone posteriore. «A proposito, signore, è un po’ che seguiamo rotta due zero zero» s’intromise Sievert, l’addetto al timone direzionale. «Non voglio metterla in allarme ma stiamo scendendo verso il profondo sud. Che l’ammiraglio Donitz abbia deciso di ricompensarci con una vacanza ai tropici?» I marinai sghignazzarono tra loro, lanciandosi occhiate d’intesa. «Stupide teste di legno che non siete altro. Non vedo Croci di Ferro sulle vostre uniformi. O siete tanto supponenti da sostituirvi al vostro comandante o siete tanto stupidi da non capire quando tenere la bocca chiusa.» Dopo la sfuriata del direttore, nessuno osò più aprire bocca. Il sarcasmo era tollerato a bordo, persino verso ufficiali di grado più alto, ma era bene ristabilire
i ruoli quando i marinai tiravano troppo la corda e questo Fleischmann lo sapeva bene. «Li perdoni, Sartori. Come le dicevo prima, hanno la testa piena di propaganda e…» «Allarme!» Il suono della sirena fu come un pugno allo stomaco. Accadde tutto in un attimo. Dal boccaporto precipitarono, uno dopo l’altro, gli uomini del turno di guardia. I volti tirati dall’urgenza e le bocche spalancate in un unico grido. «Aereo da est! Allarme!» Fleischmann non se lo fece ripetere. Già mentre il primo uomo toccava il pavimento della camera di manovra, il direttore aveva iniziato ad abbaiare ordini. «Chiudere le valvole! Allagare! Allagare!» disse senza scomporsi più del necessario. «Tutti gli uomini a prua!» «Valvole chiuse, allagare!» ripeté qualcuno. «Timoni a scendere» ordinò il direttore. In quel momento, mentre il sommergibile si appruava sensibilmente sotto il peso delle casse zavorra di prua, il guardiamarina Werner scese l’ultimo piolo della scaletta di ferro. «È spuntato da est dietro le nuvole, impossibile da vedere» disse rivolto al comandante che era sopraggiunto in quel momento. «Distanza?» chiese il Vecchio. «Un quadrimotore, forse un B-24. È sceso a volo radente tenendosi a una ventina di metri dal mare. Ha un angolo d’attacco di circa trenta gradi, ci sarà addosso molto in fretta» disse Werner ansimando, mentre si dava da fare per togliersi la tuta cerata. «Un B-24» disse disgustato Fleischmann. «È armato con cariche di profondità.
Temo ci darà dei bei grattacapi» Eno si tenne quanto più in disparte poté. o dopo o si ritrovò all’estremità di poppa, vicino alla pompa principale di sentina. Una serie di boati, profondi come quei fuochi d’artificio delle feste patronali, gli fecero rivoltare lo stomaco. Questa volta non era il rombo dell’acqua che riempiva i cassoni, ma qualcosa che afferrò il sommergibile e lo sballottò con violenza inaudita, facendolo sbandare a dritta. Il frastuono delle casse di viveri che si rovesciavano a terra, seguì ai boati. Una lampadina scoppiò e una bottiglia di succo di mela s’infranse spargendo il suo aroma in tutta la stanza. La luce si spense all’improvviso, subito si accesero le luci d’emergenza. Il Vecchio mostrò un sorriso a denti stretti. Eno si chiese cosa avesse da stare allegro a quel modo; quell’uomo sorrideva quando lui aveva solo voglia di gridare. Ancora due, tre colpi secchi. Questa volta però non erano cariche di profondità ma l’acqua che riempiva i vuoti provocati dalle esplosioni. «C’è andato vicino» disse il Vecchio mentre guardava il soffitto, continuando a sogghignare. Grosse gocce di condensa caddero a terra come una vera e propria doccia. «Hanno una pessima mira i Tommies, sempre detto» aggiunse Fleischmann. «Bombe di profondità da sessanta chili almeno. Scendiamo a novanta metri, meglio non rischiare.» Il Vecchio si appoggiò al tavolo da carteggio accanto a Zielinski, che aveva ancora la testa incassata nel colletto. «Timone avanti dieci in basso, dietro dieci in alto» ordinò il direttore di macchina ai timonieri Tewes e Dietze. «Scendiamo a novanta.» «Chiamatemi Kugler» disse il Vecchio al capo equipaggio affacciato alla paratia di poppa. «Voglio un rapporto sulle batterie, subito!» Falkenmayer si calzò il berretto sulla fronte sudata e corse verso la sala motori elettrici. Il citofono di bordo prese a gracchiare. «Sala motori diesel tutto in ordine!»
«Elettromotori a posto!» Eno si spostò accanto al pozzetto del periscopio di attacco per osservare meglio quanto stava accadendo. Memore della lezione impartita solo pochi minuti prima, si concentrò sulle azioni degli uomini al lavoro sulle strumentazioni. Il silenzio prese il posto del ruggito delle cariche esplosive. Eno polarizzò la sua attenzione sul lieve ronzio delle eliche spinte dai motori elettrici e sul tamburellare nervoso delle dita dell’ufficiale di rotta sopra il linoleum del tavolo da carteggio. I salumi, appesi al soffitto, mostravano l’angolazione con cui il sommergibile stava scendendo. L’appruamento era evidente ed Eno calcolò che dovevano essere circa una ventina di gradi. Era concentrato sull’oscillazione di un salame, quando altri due boati investirono il sommergibile. Perse l’appoggio e scivolò a terra. Questa volta lo spostamento fu più violento del primo e il sommergibile sembrò spostarsi come investito da una locomotiva. «Secondo aggio» disse il Vecchio con gli occhi fissi sul suo orologio da polso. Eno cercò di riportare alla memoria le parole scambiate qualche giorno prima con il primo ufficiale. «L’acqua ha la particolarità di propagare la pressione con più efficacia dell’aria» spiegava Hollstein. «Maggiore è la profondità e più questa regola viene meno. Per questo i sommergibili scendono a quote molto basse durante un bombardamento di cariche di profondità. Si cerca di rendere minimo il raggio fatale entro il quale una carica può risultare devastante.» Spesso non era necessario colpire direttamente il bersaglio, le esplosioni generavano un tale spostamento d’acqua da far saltare le saldature dei sommergibili anche a distanza. L’eco di uno scricchiolio provenne da un punto imprecisato sotto di lui. Sembrò propagarsi lungo tutta la chiglia per perdersi in un rimbombo lontano. Un suono simile all’agonia di un enorme cetaceo. «Sessanta metri» avvertì il direttore. «Procediamo, non possiamo rischiare che vedano la nostra sagoma da lassù.» Il Vecchio si stirò la schiena, comprimendosi le mani sui reni. «Settanta.»
Ancora un boato sordo. Del tutto simile ai precedenti, solo che stavolta sembrava più lontano. Il sommergibile reagì con uno stridio proveniente dalla paratia di dritta. La pressione, si disse Eno. È solo la pressione. Sott’acqua i rumori sono amplificati di cinque volte. L’istinto lo portò sotto il boccaporto. Delle gocce d’acqua gelida gli penetrarono nel collo della giacca e, seguendo la linea della schiena, fin dentro le mutande. Rabbrividì e solo allora decise di spostarsi accanto a Werner. Il secondo ufficiale se ne stava in silenzio, nascosto dalla penombra favorita dalla lampadina scoppiata. «Vie d’acqua in sala motori!» Gridarono da poppa. L’avvertimento si propagò di gola in gola, fino a giungere alle orecchie del Vecchio. «Dov’è Kugler, dannazione!» ringhiò il comandante. «Eccolo, signore». Falkenmayer si fece da parte e dalla paratia emerse il maresciallo Kugler. Un uomo magro dal colorito pallido. Non era lo stesso pallore di cui soffrivano tutti a bordo, principalmente dovuto ai giorni di mare grosso, piuttosto, sembrava parte integrante dell’ambiente in cui era solito prestare servizio: la sterile camera dei motori elettrici era il regno dell’ Obermaschinist Paul Kugler. «Rapporto» disse secco il Vecchio. «C’è una via d’acqua in sala motori diesel, Nagelschmitz sta provvedendo a tappare la falla. Niente che non possa tenere sotto controllo, comandante.» «Bene, che mi dice delle batterie? Di quanta autonomia disponiamo?» «Le batterie sono a secco. Non abbiamo avuto tempo sufficiente per ricaricare.» «Novanta metri, sommergibile bilanciato, comandante!» disse il direttore. «Nuova rotta uno otto zero, macchine pari avanti adagio» rispose il Vecchio mentre si toglieva il cappello bianco ormai afflosciato e macchiato. La concentrazione era massima, in pochi secondi doveva prendere decisioni che avrebbero potuto mettere a rischio la sua vita e quella dei suoi uomini. Questo carico emotivo cominciava a palesarsi sui suoi lineamenti contratti.
«Ho bisogno di sapere esattamente quanto tempo possono tenerci sotto, Kugler» disse infine, emergendo dai suoi pensieri. «A velocità contenuta, un paio d’ore al massimo.» «Dobbiamo farcele bastare allora. Chiamatemi il maggiore Kurtz, in fretta.»
Capitolo 10
Eno non trovò niente di meglio da fare che ritirarsi nella sua cuccetta. Salì a forza di braccia e richiuse la tenda appena fu dentro. Prese carta e penna dalla mensola alla parete e iniziò a segnare degli appunti. Era un’abitudine acquisita durante i numerosi viaggi in terra straniera, non lo faceva sentire meglio, o più utile, ma aveva la capacità di distrarlo dai pensieri scoraggianti che gli annebbiavano la mente. Non era bastata la perdita di un uomo dell’equipaggio, ora si trovavano sotto attacco aereo. Bombe vere, non quelle di cui aveva solo sentito parlare o letto sui giornali. Queste erano reali, distruttive. Si accorse solo in quel momento che le sue mani erano in preda al tremore. Vivere un’esperienza traumatica di quella portata aveva provocato una reazione del suo organismo dovuta alla tensione e allo stress trattenuto fino a quel momento. Posò carta e penna e si concentrò sulla respirazione per calmare i battiti del cuore. Lentamente tornarono alla normalità, ma il tremore agli arti sembrava non voler smettere. Chiuse gli occhi e cercò di immaginarsi in un altro luogo, in un altro tempo. La neve in quel periodo doveva aver imbiancato le colline intorno a casa sua. Si immaginò davanti al camino, seduto alla sua poltrona di broccato verde, con un buon libro e la compagnia del suo amato cane. Tutto gli parve così distante in quel momento, quasi appartenesse a un’altra vita. L’odore acre del battello, con i suoi effluvi penetranti, ebbe la meglio, rovinando l’immagine mentale che si era creato. Il portello si aprì e un gruppo di uomini entrò nell’alloggio. Il loro umore non doveva essere molto diverso dal suo, visto che i pochi brevi sussurri avevano preso il posto del solito chiacchiericcio. Il ronzio dei motori elettrici mandati al minimo, tuttavia, non era in grado di nascondere quelle poche parole buttate lì con disprezzo. «Che si fottano!» disse quello che Eno riconobbe come Thielen, un grosso bavarese dalla capigliatura color della paglia e dalle rotonde gote rosse.
«Piantala, Karl, ami quell’asciugamano, piuttosto.» «Ma solo a me questa storia puzza come le mutande di Otto?» «Non è puzza, bello mio, questo è profumo se. Tieni, odora» lo schernì Otto Thiel. Qualcosa colpì la tenda della cuccetta di Eno. Qualcuno rise e qualcun altro, probabilmente Thielen, imprecò. «Brutto porco! Non vi accorgete che sta succedendo qualcosa?» «Siamo in un sommergibile, qualcosa succede sempre» rispose Garrn, il nano dalla testa grossa. «No, sul serio. Io ero in plancia stamattina, stupidi idioti mangiacrauti. Ho visto con questi occhi il cambiamento.» «Di che parli?» chiese Löble incuriosito. «Da quando in qua una tempesta di quel genere scompare tutto d’un tratto, da un giorno all’altro? Dimmelo, Garrn, tu che di queste cagate te ne intendi.» «Siamo vicini alla terra ferma, le tempeste perdono forza e…» «Stronzate! E lo sai bene.» «Dove vuoi andare a parare allora?» chiese Löble. «Non ci arrivi, stupido corvo? Il mare ha preso il suo pegno, il sacrificio del più giovane a bordo e la tempesta si è placata» disse Thielen, con voce volutamente impostata per rendere l’effetto più drammatico. «Destatosi, sgridò il vento e disse al mare: taci, calmati! Il vento cessò e vi fu grande bonaccia. Marco quattro trentanove» enunciò Geiger, appena giunto nell’alloggio. «Ci mancava il baciapile» lo insultò Thielen. «Dico sul serio. Che diavolo è questa storia della rotta a sud? Höger mi ha detto che stiamo mantenendo i duecento da quando siamo usciti dal Golfo di Biscaglia.»
«Non ha tutti i torti però» rincarò la dose Löble. «Per non parlare della presenza a bordo di quel maggiore e i suoi uomini.» «E l’archeologo, allora?» sparò Thielen. Tutti tacquero. Eno non dovette faticare molto per immaginare quei volti rivolti verso la sua cuccetta. In quel momento, la stoffa della tenda sembrò tramutarsi in una solida parete di pietra. «Dico solo che è strano.» Cercò di recuperare l’uomo. «Non so cosa ci sia in quelle casse, ma questa non è una normale crociera. Scordatevi le medaglie e le crocerossine al rientro, signori. Ci aspetta qualcosa di ben diverso, ve lo dico io.» Il seme del dubbio era stato istillato ormai, pensò Eno. Quelle giovani menti erano come spugne pronte a riempirsi di qualunque cosa, soprattutto se infarcita di mistero e scaramanzia. Il portello di poppa si aprì di nuovo e un profumo acre, misto a carne arrostita, invase l’alloggio. «Era ora, Tobias!» gridò Geiger. «Giusto in tempo per interrompere le farneticazioni del nostro esperto in cospirazioni.» I tavolini furono alzati e l’allegria tornò a riempire il locale. Il profumo delle salsicce e dei crauti gli fece venire un crampo allo stomaco facendolo trasalire. Da quanto non metteva qualcosa sotto i denti? Ma il solo pensiero di uscire dalla sua cuccetta, sotto lo sguardo indagatore di quegli uomini, lo fece desistere.
*
Kurtz incrociò le braccia al petto. Reclinò il capo in avanti e socchiuse gli occhi. Aveva bisogno di riflettere e il via vai continuo del personale non favoriva la sua concentrazione. «Cosa ne pensa, maggiore?» chiese il Vecchio che si sfregava le mani all’altro
capo del tavolo del quadrato ufficiali. Kurtz non rispose subito. Preferì lasciar decantare le sue riflessioni ancora qualche istante. La sua irritazione era visibile e non fece nulla per nasconderla. Che vedessero pure il suo disgusto. Da quando erano partiti, le cose non avevano fatto altro che andare nel modo sbagliato e il fatto di trovarsi in un ambiente avverso e inospitale non migliorava il suo stato d’animo. Si rendeva benissimo conto che quello era l’unico modo per giungere con il carico a destinazione, ma la sua pazienza era messa alla prova di continuo. Non aveva mai nascosto il fatto che ritenesse l’U-boot un mezzo poco appropriato e insicuro per una missione così delicata; tuttavia, gli era stato imposto quel ruolo e, da buon soldato, aveva ubbidito senza protestare. Ora le sue preoccupazioni stavano prendendo forma tutte insieme, dandogli quella ragione che non gli fu di nessun conforto. Bisognava reagire e trovare una soluzione; ci sarebbe stato tempo per le divergenze e, soprattutto, per le rivincite. Kurtz si leccò il labbro superiore, pregustando il momento in cui, una volta giunti a destinazione, sarebbe tornato a dirigere le operazioni a modo suo. A quel punto, il comandante Lüth avrebbe dovuto rendere conto delle sue mancanze. «Maggiore» ripeté il Vecchio. Hermann Kurtz alzò lo sguardo. Puntò gli occhi azzurri in quelli del comandante senza trovarvi un cedimento, una resa. Il Vecchio era fin troppo sicuro del fatto suo. «Faremo a modo suo, Lüth» disse, senza distogliere lo sguardo. «Molto bene. È della massima importanza che le operazioni avvengano con tempismo perfetto.» Il tono era indulgente, quasi inaspettato. «I B-24 Liberator sono bombardieri pesanti. Hanno una corazza spessa e un armamento di tutto rispetto. Sono in grado di trasportare fino a sei bombe di profondità e, a Dio piacendo, non dovremmo più preoccuparcene. Per nostra fortuna i lanci sono finiti troppo lunghi rispetto al nostro vortice d’immersione.» «Non potrebbero aver semplicemente interrotto il contatto?» disse Kurtz, con una smorfia che gli contrasse il volto.
«Ne dubito, maggiore. Non mollano mai una preda con tanta facilità. Sono in grado di coprire grandi distanze a una velocità di duecento chilometri orari. Per loro siamo poco più che immobili. Nell’inseguimento degli U-boot, la RAF insegna ai suoi piloti la grande tradizione della caccia alle balene: una volta avvistato il grande cetaceo, i balenieri attendevano pazienti che riaffiorasse in superficie per fiocinarlo.» «Capisco. Allora cosa dobbiamo aspettarci lassù?» chiese Kurtz con tono composto, non mostrando alcun cenno di nervosismo. «Hanno un’autonomia estremamente lunga, possono volare persino di notte e molto lontani dalla loro base di partenza. Temo che non ci lasceranno fuggire tanto facilmente.» Il Vecchio sciolse le spalle roteandole diverse volte, per poi poggiarsi contro la parete. Accanto a lui, il secondo ufficiale addetto all’armamento di bordo annuiva con entusiasmo. «Probabilmente si rifarà vivo, scendendo a quota molto bassa per permettere alle sue mitragliatrici di perforare la nostra corazza. Sono teste calde quei Tommies.» «Messa così, suona ottimistica la cosa» disse il direttore, rimasto in piedi accanto a uno degli armadietti. «Tuttavia, è proprio questa tattica di attacco che mostra una falla che dovremmo sfruttare a nostro vantaggio. I B-24 sono aerei pesanti da manovrare, soprattutto a una quota così bassa. Se riuscissimo a causare un danno serio a quel quadrimotore, l’ammaraggio gli spezzerebbe la fusoliera.» «La loro corazza è dura da perforare con i nostri Flack» disse laconico Werner, il secondo ufficiale. «Dovremmo concentrare il fuoco sui motori.» «Se permette, vorrei contribuire alla copertura con la nostra MG-42» disse Kurtz con tono neutro. «Avete una mitragliatrice MG a bordo, maggiore?» chiese il Vecchio sorpreso. «Non ne sono stato informato.» «Così come non è informato sul contenuto dell’altra cassa, comandante. Gli ordini parlavano chiaro; il carico è soggetto a segreto militare, ordine del
Reichsführer in persona.» Il Vecchio annuì pensieroso. «Bene, un aiuto ci farà comodo.» Si sporse sul tavolo quasi volesse abbracciare tutti i partecipanti a quella piccola assemblea. «Cercherà di prenderci controluce, piombando giù con il sole alle spalle. Lasceremo che scenda di quota e si metta su un arco di attacco che presumo vada dai venti ai quaranta gradi rispetto alla nostra posizione, per poterci sorprendere frontalmente. Ma non ci troverà impreparati. Cambieremo rotta in modo da emergere dandogli meno sagoma possibile e in modo che la nostra contraerea non sia ostacolata dalla torretta e abbia un buon campo d’azione. A quel punto si tratterà solo di chi ha la mira migliore.» Tutti annuirono. Il piano era fin troppo semplice, tutto si risolveva con un classico confronto stile far west. Chi faceva fuoco per primo e con la mira più accurata aveva buone possibilità di portare a casa la pellaccia.
*
Kurtz non perse tempo. Appena la riunione fu sciolta, andò a grandi i verso la camera di poppa, dove i suoi uomini vigilavano sul carico. Saltando i convenevoli, diede l’ordine di aprire la cassa numero due, la sola di cui disponesse l’autorità per poterla aprire e la relativa chiave del lucchetto. L ’ SS-Unterscharführer Matthias Keppler, l’unico sottufficiale dei tre, afferrò le chiavi e si inginocchiò sulla cassa. Spezzò il sigillo di ceralacca e fece scattare il lucchetto. Attese un cenno d’assenso da parte del suo superiore, poi alzò il coperchio. Nastri di munizioni 7,92 mm arono di mano in mano e, finalmente, la pesante mitragliatrice venne estratta dall’alloggiamento di legno. «Signore?» disse Keppler una volta che ebbe terminato l’operazione. «Avrò bisogno che lei rimanga a vigilanza del carico, sergente. Quanto a voi» disse rivolgendosi ai due caporalmaggiori Tychsen e Baum, «prendete tutto e
seguitemi.» I due non esitarono un istante. Tychsen si occupò dei nastri delle munizioni, mentre Baum afferrò l’MG dalle mani del sergente e se la mise in spalla. Nessuno di loro fece domande, nessuno mostrò esitazione. Il piccolo corteo sfilò attraverso la sala degli elettromotori e da lì sino alla camera di manovra. I loro movimenti non arono certo inosservati; Kurtz percepì gli sguardi inquieti dei marinai quando, petto in fuori e o deciso, si fece largo tra loro per raggiungere la camera di manovra. Nell’alloggio dei sottufficiali fu costretto a interrompere la sua marcia per permettere agli occupanti di sgomberare il campo, pieno di piatti, bicchieri e avanzi di cibo. Kurtz diede un’occhiata distratta alla cuccetta superiore alla sua destra, dove la testa di Sartori era spuntata dalla tendina verde. Alla vista della mitragliatrice gli occhi dell’uomo parvero brillare di pura angoscia, poi sparì alla vista e Kurtz tirò dritto attraverso il portello emisferico. «Un gran bel giocattolino, non c’è che dire» lo accolse Werner con un’espressione rapita e un curioso luccichio negli occhi. «Un regalo della Ma e dell’industria bellica tedesca» rispose lui compiaciuto. «Trovo inqualificabile che il BDU abbia deciso di far sbarcare la nostra dotazione» continuò Werner. «C’è bisogno di un’arma del genere a bordo, fosse solo per tenere a bada le zattere dei naufraghi dopo ogni affondamento. Quei disgraziati ci vengono incontro come le api col miele. Come se a bordo avessimo tutto questo spazio a disposizione.» «Può bastare così, guardiamarina!» lo richiamò il Vecchio. Il suo sguardo era di puro disgusto malcelato. «Sì, signore» disse indolente Werner, abbassando lo sguardo. Immediatamente dopo, incrociò gli occhi di Kurtz e un sorriso d’intesa gli apparve all’angolo della bocca. Il Vecchio se ne stava acquattato sul tavolo da carteggio. Accanto a lui, Zielinski muoveva un como e tracciava alcuni punti su una carta nautica. I due sembravano intenti in un lavoro minuzioso. Il direttore di macchina era di fronte a loro, con gli occhi fissi sull’indicatore di profondità. La lancetta saliva
lentamente con solo l’ausilio dei timoni e delle eliche. «Profondità?» chiese il Vecchio senza voltarsi dalla sua posizione. «Trenta metri» rispose il direttore. Poi Kurtz lo sentì ordinare di immettere acqua nelle casse di poppa per bilanciare il sommergibile. «Saliamo a quota periscopio» disse il Vecchio, stirandosi la schiena. Con uno sguardo d’intesa con il sottufficiale di rotta, prese posizione dietro al direttore, in attesa che il periscopio salisse in superficie. Il direttore diede ordine ai timonieri di alzare il timone di poppa e subito la colonnina dell’idrometro cominciò ad abbassarsi. Nel frattempo Biedermann e Kaymer stavano trasportando sotto la torretta le pesanti munizioni dell’antiaerea. «Quindici metri! Periscopio fuori.» Kurtz rimase in silenzio a fissare la colonnina d’acqua dello strumento che ora si era stabilizzata sui quindici metri. Per un tacito accordo, nessuno, nella camera di manovra, emise un sibilo, in attesa che fosse il comandante a impartire gli ordini. Lüth incollò l’occhio destro all’oculare in gomma del periscopio e ispezionò l’orizzonte sopra di loro. Le mani troppo strette sulle manopole mostravano il nervosismo che il Vecchio tentava di dissimulare. A Kurtz non sfuggì quel dettaglio. Probabilmente, per quegli uomini così abituati a una guerra cieca, chiusi nei loro Hears, carro da morto, come gli inglesi erano soliti chiamare i sommergibili tedeschi, l’idea di uno scontro ravvicinato, faccia a faccia col nemico, doveva risultare complicata da digerire. Per quanto convivessero con la consapevolezza di una morte atroce, il concetto di corpo a corpo era loro totalmente estraneo. I pensieri di Kurtz furono interrotti dallo scatto delle manopole del periscopio. Il ronzio del motorino accompagnò la sua scomparsa nel vano sottostante il pavimento. «Emersione! Tutti ai posti di combattimento.»
«Emersione!» ripete il direttore. Gli uomini addetti all’antiaerea, sotto il comando del secondo ufficiale Werner, s’inerpicarono lungo il condotto della torretta. «Come avevamo previsto!» sorrise soddisfatto il Vecchio. «Viene giù con la luce alle spalle.» Tutti fissarono la bussola davanti a Sievert, l’addetto al timone direzionale. «Uno sette zero» disse il direttore di macchina a voce sommessa. Il sommergibile iniziò a beccheggiare. «Ci siamo, battello in superficie!» disse il direttore, indicando la torretta. Da quel momento fu tutto un trambusto. Kurtz e i suoi due uomini si misero in fila dietro quelli addetti alla Flak. Il solito colpo cupo annunciò che il portello stagno era stato aperto troppo in fretta, prima che la pressione fosse stata bilanciata. L’aria fresca del mattino penetrò come un’onda di piena e fischiò nel tubo della torretta, dove otto uomini erano intenti a salire gli scivolosi pioli di ferro che li separavano dalla superficie. Biedermann e Kaymer si fermarono accanto al portello, aspettando che tutti avessero conquistato la plancia, poi Kaymer ridiscese nella torretta, in attesa di are le munizioni al collega in una fluida catena umana. Kurtz non ebbe neanche il tempo di orientarsi che il grido di uno degli uomini gli indicò la direzione giusta verso cui guardare. Tutti si voltarono verso babordo. «Ai posti di combattimento» gridò Werner, con lo sguardo puntato verso est, dove un puntolino nero stava cabrando lentamente. Poco più che un volatile in lontananza ma tutti, in plancia, sapevano che era ben più di un semplice uccello. Quella era una fortezza volante con dieci mitragliatrici Browning da 12,7 mm. Il sergente Thielen si posizionò all’antiaerea e immediatamente il caporale Reuter inserì un caricatore da 20 mm nella bocca di alimentazione. Kurtz indicò un punto a babordo tra il pozzetto del periscopio e il congegno di
punteria. Tychsen e Baum s’incunearono al riparo della murata e posizionarono l’MG-42. Baum si sistemò il calcio dell’arma contro l’ascella destra e lo tenne saldo con la mano sinistra, pronto al fuoco. Seguendo un angolo d’attacco di una trentina di gradi, il B-24 scese di quota, pronto a scaricare una tempesta di fuoco sulla sagoma ormai ben visibile del sommergibile. Kurtz immaginò l’incredulità del pilota davanti a quell’inaspettato regalo appena emerso dal mare. Doveva essere davvero radioso mentre scendeva a circa venti metri, seguendo esattamente le previsioni di Lüth. Doveva rendergliene merito, il comandante sapeva il fatto suo, tuttavia si era dimostrato un ostacolo, e lui era abituato a demolire qualsiasi intralcio alle sue ambizioni. L’aereo si piantò proprio di fronte a loro, divenendo sempre più grande secondo dopo secondo, proseguendo la corsa a velocità sostenuta. A quell’andatura un aereo poteva coprire due chilometri in meno di mezzo minuto. Il rombo del quadrimotore divenne un ruggito. «Fuoco!» ordinò il secondo ufficiale Werner. Thielen fletté le braccia e tirò la manovella dell’armamento. La mitragliatrice entrò in azione e iniziò a vomitare una tempesta di proiettili da 20 mm contro l’aereo inglese. Allo stesso tempo il ruggito raschiante dell’MG-42 si unì alla cacofonia assordante. Una tempesta di bossoli incandescenti si riversò nella plancia, rimbalzando ovunque. Alcuni finirono giù nella torretta e si sentì l’eco del ticchettio metallico quando atterrarono in camera di manovra. Tychsen tese il nastro che si consumava rapidamente mentre la mitragliatrice segnava un arco di fuoco indicato dai proiettili traccianti. Kurtz ghignò mentre incassava la testa per puro istinto. A quella cadenza di fuoco, l’arma sembrava emettere un ringhio continuo che, nei teatri di guerra europei, le era valso il nome di Hitler’s buzzsaw, la motosega di Hitler. Nome meritatissimo, pensò Kurtz. Il B-24 non se lo fece ripetere due volte. Il sibilo dei proiettili calibro 12,7 diede l’impressione, agli uomini in plancia, di trovarsi in una vera e proprio burrasca. Capire l’esatta direzione del tiro inglese era impossibile, le uniche avvisaglie erano fornite dagli zampilli d’acqua che i proiettili alzavano quando colpivano la superficie del mare, avvicinandosi pericolosamente allo scafo. In quel momento, Kurtz poté solo immaginare lo stato d’animo di quegli uomini.
Lo sgomento dovuto a un conflitto a fuoco di tale portata doveva essere insopportabile per loro. D’altro canto, lui e i suoi uomini erano stati forgiati nel fuoco di numerose battaglie; non sarebbe stato un po’ di piombo inglese a fargli cedere i nervi. «Al riparo!» urlò Werner, quando la salva mortale raggiunse il sommergibile. Il frastuono divenne insostenibile e si udirono i primi tonfi del metallo sul metallo quando i proiettili si schiantarono contro il fasciame e i paglioli di prua. L’aereo, con un rombo simile a un treno in corsa, ò proprio sopra di loro. Kurtz e chiunque in plancia alzarono gli occhi quando la grande ombra del velivolo oscurò la luce del mattino. Da quella distanza, si poteva distinguere ogni dettaglio, ogni singolo rivetto della carlinga. Il grosso stemma tricolore dipinto sulla fiancata, la sigla d’identificazione e le canne delle mitragliatrici nella torretta a bolla posteriore. Le quattro grandi eliche sortirono l’effetto di una tormenta, talmente potente da costringere gli uomini ad accucciarsi nella protezione della plancia. Per qualche istante il volume di fuoco dell’antiaerea diminuì. Thielen sembrava disorientato, quasi incredulo di essere ancora vivo dopo quella pioggia di fuoco. Rincuorato e galvanizzato da quello stato di cose, girò la Flack di centottanta gradi e riprese a vomitare proiettili perforanti a un ritmo di quattrocento colpi al minuto. Lo stesso fece Baum, che senza aspettare che il compagno gli fosse dietro col nastro di munizioni, si spostò a tribordo e dopo aver trovato un appoggio, riprese il tiro. Approfittando della posizione sfavorevole dell’aereo nemico, che ora mostrava la coda con una sola mitragliatrice a protezione, gli sputò in corpo tutto il nastro delle munizioni. Kurtz ebbe il tempo di focalizzarsi sui danni ricevuti dal sommergibile. Scambiò un’occhiata con Werner, ma subito tornò a concentrarsi sui fori nei punti in cui i proiettili avevano perforato lo scafo. La vernice scura era saltata mostrando un curioso fiore d’argento dai bordi slabbrati. «Attenzione! Sta per fare un secondo aggio. Tenetevi pronti!» urlò Werner, per superare il rombo dell’antiaerea. Intanto Kaymer riprese a are caricatori a Biedermann che, tenendosi basso dietro la protezione del parapetto, li poggiava alla base dell’affusto
dell’antiaerea, dove il grosso bavarese dalle gote rosse sembrava iniziare a prenderci gusto. Werner si chinò sulla spalla di Thielen indicandogli il bersaglio che stava compiendo un’ampia virata sulla sinistra per rimettersi in traiettoria. I due si scambiarono qualche parola che però non giunse all’orecchio di Kurtz. L’ululato dei quadrimotori si stava facendo ancora una volta pericolosamente vicino. Kurtz si avvicinò ai suoi uomini per infondergli sicurezza. La mano destra di Baum era serrata sull’impugnatura dell’MG e le nocche erano bianche dalla tensione. Il volto dell’uomo era concentrato e fisso sull’evoluzione dell’aereo inglese. Tychsen si sfilò, come fosse una sciarpa, il nastro delle munizioni che teneva intorno al collo e lo inserì sul vassoio di alimentazione. Finita la procedura diede una pacca sulla spalla di Baum che tirò la manetta d’armamento. Il dito sul grilletto si contrasse e una nuova raffica di 7,92 mm partì dalla bocca di fuoco della mitragliatrice. La contraerea abbaiò ancora e ancora, rovesciando un fiume di bossoli nel cestello raccoglitore. L’ombra del B-24 Lieberator si allungò, ora che l’aereo viaggiava contro sole. Le mitragliere iniziarono la loro opera di demolizione con estrema puntualità e precisione. Gli schizzi d’acqua indicarono ancora una volta il percorso dei proiettili che fischiavano impazziti. Il B-24 sbandò leggermente, piegandosi verso destra per poi tornare subito in assetto. Un pennacchio di fumo uscì da uno dei motori di dritta. Werner non se lo fece sfuggire. «Concentrate il fuoco sui motori di dritta!» urlò esultante. Thielen e Baum spostarono la mira sull’ala destra del quadrimotore e ripresero a martellare senza sosta. Ogni volta che un caricatore si svuotava, i serventi provvedevano a sostituirlo con zelo e precisione, un’urgenza figlia di quel senso di conservazione e sopravvivenza che ogni soldato teneva in serbo per i momenti difficili. Il cappello bianco di Lüth apparve attraverso il boccaporto, il volto contratto
dall’ansia. «Stia giù, capitano!» urlò Biedermann quando il B-24 fece un aggio radente a pochissimi metri dalla torretta. Kurtz ebbe l’impressione di poter alzare un braccio e toccare la carlinga dell’aereo. La pioggia di proiettili sparata dalle Browning rimbalzò dappertutto con un suono simile al miagolio indemoniato di mille gatti. La contraerea compì un nuovo giro di centottanta gradi e riprese a sparare. Thielen aveva il braccio sinistro che pendeva inerte lungo il corpo, un rivolo di sangue colava sulla grata della piattaforma del giardino d’inverno, cadendo poi in grosse gocce sul pagliolato sottostante. Accanto a lui un corpo giaceva in un bagno di sangue. Abbattuto come un cumulo di stracci sporchi. L’aereo cabrò cercando di recuperare quota. Il ringhio nervoso dei motori rimasti illesi sembrò perforare i timpani degli uomini in plancia e per un istante tutti ebbero l’impressione che il grosso bombardiere stesse per cadere in mare. Con uno sforzo sovrumano, il pilota riuscì a tenere il suo velivolo ma non si arrischiò a compiere una nuova virata. Il B-24 proseguì la sua corsa verso est, allontanandosi verso le nuvole finché non divenne un puntolino indistinto. Nessuno osò emettere un gemito. Baum tolse il dito dal grilletto della sua MG ormai scarica. A terra una montagna di bossoli riempiva ogni spazio della plancia. «Uomo a terra!» abbaiò il Vecchio, riportando tutti allo stato vigile. Thielen si sciolse dall’imbracatura che lo teneva bloccato alle maniglie dell’antiaerea e cercò di afferrare il cumulo di stracci accanto a lui. Subito intervennero in suo aiuto Biedermann e Tychsen che si chinarono sull’uomo a terra in una pozza di sangue. Reuter era rivolto con la testa verso il basso e gemeva sofferente. Dalla spalla maciullata zampillava un fiotto di sangue rosso scarlatto che gli aveva inzuppato la tuta di pelle. La mano destra era ancora serrata su un caricatore vuoto, che il ragazzo stringeva quasi fosse la sua unica ancora di salvezza.
«L’abbiamo preso quel figlio di puttana?» disse in un sospiro, sputando sangue e saliva. «Sta calmo, non parlare» lo confortò Thielen. «Portatelo giù, presto!» disse il Vecchio. Kurtz vide il comandante accucciarsi sul ragazzo a terra. I suoi occhi saettavano veloci dalla ferita sanguinante al volto distorto da una smorfia di dolore. «È solo un graffio, ma ora dobbiamo portarti al sicuro. Hai fatto un ottimo lavoro, caporale. Un ottimo lavoro» lo confortò il Vecchio con tono paterno. Reuter cercò di dire qualcosa, allungando la mano verso il capitano. Gli occhi gli si riempirono di lacrime e cominciò a singhiozzare. Lo sguardo si fece vacuo e le labbra violacee si contrassero quando i denti presero a battere forte. I brividi squassarono il corpo del giovane artigliere, finché Kurtz non ruppe quel momento di stasi e, afferrato Tychsen per un braccio, non si chinò per sollevare con delicatezza Reuter. Il Vecchio annuì e si adoperò per fare largo in plancia in modo che potesse guadagnare il portello stagno. Il corpo di Reuter fu trascinato di mano in mano giù in sala comando e da lì nell’alloggio sottufficiali. Venne disteso su una branda e spogliato, tra i gemiti di dolore, della pesante tuta di pelle zuppa del suo sangue. «Chiamate Schäfer, presto!» disse qualcuno, facendo circolare la voce fino al locale radio e idrofono. «Lasciatemi!» urlava intanto Reuter in preda agli spasmi muscolari. «Lasciatemi stare!» Kurtz ebbe il suo bel da fare per tenerlo saldo sulla branda. Tenerlo per le spalle significava impregnarsi le mani del suo sangue e Kurtz maledisse il momento in cui aveva preso quella decisione. Il ragazzo era spacciato e tutta quella manfrina non serviva né a lui né all’equipaggio, costretto ad assistere a uno spettacolo del quale avrebbe fatto volentieri a meno. La guerra, improvvisamente, piombava tra quelle pareti di metallo con una violenza inaudita. Le contrazioni del ragazzo non facevano altro che far defluire il sangue fuori dal suo corpo e, se non si fosse
calmato, in poco tempo sarebbe morto dissanguato. In una situazione analoga, su un campo di battaglia, non ci sarebbe stato il tempo di soccorrere un uomo già morto. Non ne sarebbe valsa la pena. Probabilmente un colpo in fronte avrebbe messo fine alle sue sofferenze. Kurtz lo avrebbe ritenuto un atto caritatevole. Da prua giunse di corsa un ragazzo dai capelli castani e dal naso aquilino. «Che diavolo è successo?» chiese quello che Kurtz ricordava essere il sergente addetto all’idrofono. A quanto pareva assolveva anche la funzione di medico di bordo. Lars Schäfer si trovò davanti a una scena indescrivibile. Il sangue era dappertutto, al punto che non riusciva a capire chi, in quella stanza, fosse ferito e chi illeso. «Che ne pensa, sergente?» chiese inquieto il Vecchio. Schäfer parve spaesato, quasi incredulo che toccasse a lui rispondere a quella domanda. «Io… qui andiamo fuori dalle mie competenze, signore. Un corso di primo soccorso non può…» «Faccia silenzio!» lo zittì il Vecchio. «Ora riporterà alla mente ciò che ha imparato in quel maledettissimo corso e fermerà quest’emorragia, ha capito?» «Ma signore… la spalla è… è praticamente staccata dal resto…» Il Vecchio lo afferrò per il bavero della camicia grigio verde. I suoi occhi sembravano usciti fuori dalle orbite. Quando si rese conto di essere andato troppo oltre, si ricompose lasciando andare il colletto del sergente. «Per favore, Schäfer» disse ritrovando compostezza. «Faccia il possibile.» Kurtz lo osservò uscire dall’alloggio dei sottufficiali e approfittò della confusione per lasciarsi alle spalle quel luogo di morte.
Era tempo di tornare a concentrarsi sulla missione. «Rapporto danni?» chiese Lüth al direttore di macchina che durante tutto il tempo dell’attacco aereo non aveva abbandonato il posto in camera di manovra. «Stiamo ancora verificando l’entità del danno in coperta. Non ci sono state falle nello scafo resistente e le vie d’acqua in sala motori sono sotto controllo. Ha dell’incredibile» esclamò raggiante il direttore di macchina. «Questo dannato battello ha la pelle dura! Potremmo aver perso una cassa zavorra, ma considerato come si erano messe le cose, sarebbe una perdita più che accettabile.» «Lo stesso potremmo dire in vite umane» disse accigliato Kurtz. Il Vecchio si voltò di scatto verso di lui. I suoi occhi mostrarono l’entità del disprezzo che provava nei suoi confronti, ma il senso del dovere che lo legava ancora alle priorità della missione ebbe la meglio. «Non ho bisogno di ricordarle che il carico ha la precedenza su tutto. Su di me, su di lei, su ogni singolo uomo a bordo» disse Kurtz piantando gli occhi azzurri in quelli di Lüth. «Faccia in fretta la conta dei danni e dimentichiamo questa storia, sarà meglio per tutti.» Il Vecchio fece un o in avanti. Le mani serrate e la bocca distorta in un ghigno predatorio. In quel momento apparve dalla paratia di poppa il sergente Schäfer. Dietro di lui, in una lenta processione, venivano Thielen e altri uomini dell’equipaggio. I loro volti parlavano chiaro. Schäfer scosse la testa. «Non ce l’ha fatta. La ferita era troppo grave.» Il grosso bavarese, con una pesante fasciatura al braccio dove un largo fiore rosso si era formato nel punto in cui la ferita perdeva ancora sangue, tenne il capo chino. Ora che l’adrenalina del combattimento aveva esaurito il suo effetto eccitante, la realtà veniva a reclamare il suo carico di afflizione. Il Vecchio s’immobilizzò. Le mani si rilassarono. Sbatté le palpebre come uscito da un sogno a occhi aperti e lo fissò come se lo vedesse per la prima volta. I lineamenti contratti si ammorbidirono e annuì facendo ciondolare la testa.
«Mi faccia avere il rapporto sui danni appena possibile» disse con voce ferma rivolto al direttore di macchina. «Per il momento proseguiamo in emersione, nuova rotta due uno zero, macchine pari avanti tutta.» Per quanto dolorosa fosse quella notizia, aveva ancora sotto la sua responsabilità tutto il resto dell’equipaggio e un sommergibile da comandare. Si volse verso il primo ufficiale, puntandogli un dito contro. «Hollstein, prenda il blocco e la matita, devo dettarle un radiomessaggio.»
Capitolo 11
«Ore?» chiese Josef a nessuno in particolare. «Undici e ventotto» rispose Hollstein, chino sulla cassa nautica. Il volto stanco era parzialmente coperto dal cappello blu, s’intravedeva appena una leggera barba castana che iniziava a crescergli sul mento. «Quanto ci vuole per avere un rapporto?» chiese nervoso. «Devo farlo io stesso?» Josef mosse qualche o verso la scaletta, deciso a salire in plancia per verificare i danni subiti nell’attacco. Si fermò proprio sotto di essa e lasciò sbollire l’irritazione; doveva ritrovare l’equilibrio o le cose sarebbero solo peggiorate. Era molto probabile che il maggiore Kurtz non stesse aspettando altro per assumere il comando, oltre che della missione, anche del suo sommergibile. Si tolse il berretto bianco, ora chiazzato da alcuni puntini rossi. Il fregio iniziava a opacizzarsi e presto avrebbe assunto dei pallidi toni verdi. La salsedine non risparmiava nulla, si attaccava addosso come colla, indurendo i vestiti come fossero di zucchero. Il rumore metallico di i misurati provenienti dall’alto lo indussero a far spazio sotto il boccaporto. Hans scese lentamente. Il maglione di lana grigia era zuppo e gli ricadeva pesante lungo i fianchi. La sua espressione era neutra, quasi fosse appena ritornato da una eggiata distensiva. «Allora?» chiese cercando di mantenere la calma. Hans alzò le spalle, nella sua solita mimica disarmante. «Pare che ci sia andata di lusso» disse sorridente. «Quelle dannate mitragliere hanno fatto un macello
lassù, i paglioli di prua sono ridotti a segatura, sembra una dannata segheria.» «Le casse?» «Il pezzo da 88 per il momento ce lo siamo giocato. L’affusto ha subito danni e il brandeggio è impossibile.» «Le casse, Hans!» sbraitò seccato. «Sto tenendo solo il meglio per ultimo» rispose tranquillo Hans Fleischmann. «Le casse hanno retto. Non so come sia possibile con quella pioggia di proietti che ci hanno scaricato addosso, ma sono a posto. Certo, abbiamo una nuova mimetica a pois, ma direi che di questo non dovremmo preoccuparcene, almeno finché non faremo ritorno in Francia. Pois…» biascicò disgustato, «qualcosa di più virile sarebbe stato meglio.» Josef tirò un sospiro di sollievo. L’amico di sempre aveva la capacità di rendere divertenti le situazioni più serie. «Molto bene allora. Hollstein, blocco e matita, ho un nuovo radiomessaggio da dettare.» Il primo ufficiale, sentendo il suo nome, si alzò come imbambolato. Si voltò alla ricerca del materiale, trovando tutto sul tavolo nautico accanto al como. «Scriva» ordinò Josef. «‘Subito attacco aereo, rilevato danno al pezzo da 88. Perdite…» La frase rimase in sospeso per qualche secondo. «Comune di prima classe Bernhard Reuter. Procediamo con nuova rotta.’» Gli occhi di Hans parlavano da soli. Josef poteva sentire il flusso dei pensieri che usciva da quei profondi pozzi marroni ora cerchiati dalla stanchezza. Come tutti in quella sala, il direttore doveva essere rimasto colpito dalla sintetica descrizione appena udita. Tutto quello che avevano ato, l’angosciosa attesa durante l’attacco sotto il tamburellare dei colpi di mitragliatrice, il sangue che imbrattava come una lunga rossa striscia di lumaca il pavimento del sommergibile, la perdita di un altro bravo ragazzo tedesco, tutto si riduceva a uno striminzito messaggio da telegrafare al BDU, Befehlshaber der Underseeboote, il comando dei sommergibili. Poche parole che non davano la misura di quanto accaduto, che non avrebbero suscitato nessuna emozione in chi avrebbe raccolto il messaggio. La missione continuava, quella era l’unica vera cosa che importava loro. Josef decise che avrebbero avuto solo quello, tenendo la sofferenza e le apprensioni per sé e il suo equipaggio.
«Dovremmo occuparci della salma» disse Hans con tono grave. «Sì, dovremmo» rispose lui, «e sarebbe bene che fosse fatto subito. Prima che quelli si ripresentino con i rinforzi.» Le esequie furono celebrate a mezzogiorno. Tutti gli uomini dell’equipaggio avevano formato un lungo serpentone che, dalla camera di prua, proseguiva fino a quella di manovra, dove il feretro improvvisato sarebbe stato fatto salire in coperta e omaggiato con un tipico rito marinaresco. Il corpo di Reuter fu composto al meglio delle possibilità. Lo vestirono della tuta di pelle da marinaio e i suoi pochi oggetti personali furono deposti in un fagotto. La salma venne avvolta in una delle amache staccate dal soffitto della camera di prua e poi fatto are di mano in mano attraverso tutta la lunghezza del sommergibile, di modo che gli uomini potessero dargli un ultimo saluto. Quasi tutti si prestarono per permettere a Reuter di salire in superficie verso l’ultimo viaggio in mare. Gli unici a rimanere in disparte furono il maggiore Kurtz e i suoi uomini, confinati in camera di poppa, ed Eno Sartori. Al comandante però non sfuggirono gli occhi lucidi dell’archeologo, al aggio del feretro. Una volta in coperta, lo adagiarono sotto l’affusto del pezzo da 88, sopra il pagliolato smozzicato dai proiettili inglesi. La guardia in turno non perse di vista l’orizzonte neanche per un istante. Il pericolo di un nuovo attacco a sorpresa era troppo concreto per non rimanere vigili. Josef si sporse dalla balaustra dell’antiaerea quasi fosse un ministro di Dio in procinto di concedere una benedizione. Cercò qualche parola adatta all’occasione, ma si scoprì vuoto. Osservò il fardello disteso sul ponte di prua e non poté far altro che provare comione. Non per Reuter, in fondo lui aveva smesso di affannarsi in quella stupida guerra, ma per chi rimaneva. Per Thielen che aveva perso un amico e ora teneva lo sguardo fisso all’orizzonte per non dover fare i conti con il dolore. Alla fine strinse con forza le barre di ferro della balaustra e le parole uscirono da sole. «La morte di qualcuno cui siamo legati è un momento doloroso. Tuttavia, in questo dolore, dobbiamo trovare il coraggio e la forza di continuare a vivere e
lottare anche per chi non è più tra noi.» Fece una pausa quando si rese conto che Thielen lo stava fissando. «Il comune di prima classe Bernhard Reuter e il comune di seconda classe Gustav Lexau erano due bravi marinai e oggi vogliamo onorare la loro memoria.» Thielen annuì e a Josef non sfuggirono le lacrime che gli rigavano il volto stanco. Il ragazzone della Baviera si offrì di zavorrare il fagotto e, con un’ultima carezza sulla tela ruvida, spinse la salma in mare. Una sola salma cui dare l’ultimo saluto. Lexau era stato già reclamato dalle acque e il suo corpo aveva ormai trovato la pace. In pochi secondi la zavorra trascinò giù il ricordo del giovane Reuter. Il biancore della sagoma sparì alla vista nelle profondità dell’Atlantico. «Grazie, comandante» disse Thielen, quando fu il suo turno di scendere dal boccaporto. Josef gli sorrise a mezza bocca. Fu tentato di dargli una pacca sulla spalla, un semplice gesto di umano incoraggiamento, ma si sentì fuori luogo. Il suo grado, il suo ruolo a bordo gli imponevano un certo distacco dal resto dei comuni e forse per disagio, forse per riserbo, lasciò andare. Il sommergibile tirò avanti in emersione, su rotta due uno zero, fino alle prime ore del pomeriggio; le batterie avevano un urgente bisogno di essere ricaricate, così come l’aria compressa, poi, Josef diede l’ordine di immergersi. Avrebbero approfittato di quelle poche ore, fino alla mezzanotte, per riposarsi, mangiare e magari omaggiare i loro caduti alla maniera dei marinai tedeschi. Quella sera, decise, avrebbe concesso all’equipaggio una mezza bottiglia di birra a testa. Un evento più unico che raro a bordo, considerate le rigide regole sugli alcolici. Ma a Josef, in quel momento, non gliene importava più di quanto non gli importava cosa ne avrebbe pensato il maggiore Kurtz.
*
«Voglio mostrarle una cosa.» Josef attese all’imbocco del portello dell’alloggio
sottufficiali. Sartori si alzò da tavola con la rapidità di un marinaio chiamato a rispondere a un ordine diretto. Nel suo piatto rimase una buona porzione di maiale e patate dolci. «Se non lo mang…» «Serviti pure, Siffling» rispose l’archeologo senza neanche voltarsi. «Sempre il solito porco, Sifilide!» lo apostrofò con un ghigno Linke, il sergente addetto al motore elettrico. «Cosa vuoi, non è colpa mia se il signorino non finisce mai il rancio.» «Non dovresti essere di turno? Togliti di mezzo e facci un po’ di spazio» lo punzecchiò Thiel. «Ehi, bello! Se non te ne sei accorto, siamo sotto da un po’. Non ci sono radiomessaggi sott’acqua, ho parecchio tempo libero» rispose piccato Siffling, puntando la forchetta con un pezzo di carne infilzata all’indirizzo di Thiel. Quando si accorse dello sguardo torvo di Josef, accelerò la masticazione e tornò a occuparsi della sua cena. «Ma piantala e togliti di mezzo che stanno per smontare quelli del secondo turno, tra un po’ ci sarà un bordello qui dentro.» «Bordello? Chi ha detto bordello.» Sulle parole di Gehrts, Josef uscì, seguito a un o da Sartori. Quando furono in camera di manovra, l’archeologo trovò il coraggio di chiedergli cosa volesse mostrargli. «Ha avuto modo di perlustrare il sommergibile da cima a fondo?» chiese mostrando un certo interesse. «Ho fatto lunghe eggiate, ma ho l’impressione di non essermi spinto mai più in là di una ventina di metri a poppa e altrettanti a prua» rispose Sartori evidentemente stuzzicato dalla sua domanda.
«Allora venga, le mostro qualcosa che non si vede tutti i giorni a bordo di un sommergibile.» Josef fece strada attraverso la paratia emisferica che, dalla camera di manovra, conduceva nell’alloggio ufficiali. arono davanti al cubicolo dove Schäfer se ne stava accucciato in silenzio, con un auricolare nell’orecchio destro. Quando li vide are, accennò a un saluto scuotendo la testa. Josef rispose con uno di assenso. L’idrofono non rivelava nessuna presenza di unità nemiche nelle vicinanze. Proseguirono lungo gli alloggi degli ufficiali di seconda, dove quattro uomini disponevano dello spazio appena sufficiente a contenere le loro cuccette, due per ciascun lato, tre piccoli armadietti di legno e un tavolo a ribaltina. A babordo della paratia divisoria, era sistemata una toilette con doccia, mentre a tribordo un armadietto utilizzato come dispensa. Accanto all’armadietto, appoggiato con un gomito sopra il ripiano di legno, il capo Falkenmayer attendeva i suoi ospiti. «Comandante» disse in segno di saluto. «Se le sue eggiate non l’hanno spinta fin quaggiù» disse Josef rivolto all’archeologo, «il Capo le farà visitare la camera di lancio prodiera, regno dei Lords e della puzza di sudore e broccoli lessi.» Il Capo rise di gusto, poi afferrò la maniglia del portello e aprì. «Signor Sartori» disse cerimonioso, «benvenuto!» La prima cosa che notò furono le luci fioche, a malapena sufficienti a illuminare l’ambiente. Poi, il tanfo giunse alle narici. Un odore acre di sudore, acqua salmastra e indumenti bagnati da troppo tempo. Un miscuglio nauseabondo sprigionato come a comando all’apertura del portello. Josef sorrise, osservando le smorfie che Sartori stava facendo per dissimulare il disgusto. «Io l’avevo avvertita» disse Josef e con un elegante cenno della mano esortò l’uomo a entrare.
Il Capo fece gli onori di casa entrando per primo in modo da verificare che tutto fosse in ordine. Spettava al nostromo il compito di amministrare l’ordine a bordo prima che le questioni disciplinari giungessero all’attenzione del comandante. Si diceva che se il comandante di un U-boot avesse dovuto prendere personalmente dei provvedimenti verso un membro dell’equipaggio, significava che il nostromo non aveva svolto a dovere il suo compito. Gli uomini erano impegnati in un chiassoso banchetto. Alla vista del cappello bianco del comandante, scattarono sull’attenti, incerti sulla presenza di quel piccolo drappello. «Comodi!» disse fermo Josef. A quel punto molti ripresero posto ai tre tavolini alzati all’occorrenza per permettere agli uomini di consumare il pasto serale. Gli sguardi di tutti, però, rimasero puntati su di lui, in attesa. Qualcuno sbocconcellò da un piatto, un altro tossì, ma nessuno sembrò più aver voglia di riprendere la vivace conversazione. Ai lati delle pareti, sei per lato, erano ripiegate le dodici cuccette ribaltabili, tre sotto e tre sopra. Al soffitto erano legate quattro amache. Qui, spiegò sottovoce il Capo, dormiva gran parte dell’equipaggio, circa ventidue uomini che si alternavano nei turni di guardia e di servizio. Al momento ce n’erano molti meno, ma la sala sembrava più affollata di quanto la sua capienza potesse sostenere. La parte anteriore era dedicata ai quattro tubi lanciasiluri. Disposti in due batterie verticali, questi sporgevano per circa quattro metri all’interno del compartimento, rubando spazio prezioso agli uomini ammassati nel rimanente spazio disponibile. I serbatoi dell’aria compressa, grosse bombole lunghe due metri, erano sistemate ai lati di ciascun tubo. Per il resto, il locale era quanto più spoglio si potesse immaginare. Un ambiente insalubre, puzzolente e umido. Josef intercettò i pensieri dell’archeologo. Immaginava che per quell’uomo tutto ciò fosse una crudeltà verso quei ragazzi così giovani. Doveva risultargli inconcepibile che si potesse sopravvivere in quelle condizioni. «Qui, più che in ogni altro luogo a bordo, si sente l’effetto del rollio, dico bene?» chiese Josef a nessuno in particolare. «Ci può scommettere, comandante!» disse qualcuno seduto in fondo.
«Si balla notte e dì!» canticchiò qualcun altro. «Ma i nostri ragazzi sono ossi duri» riprese con un sorriso stampato sulle labbra, «È così che vive il marinar nel profondo cuor del sonante mar! Del nemico e dell’avversità…» «Se ne infischia perché sa che vincerà!» conclo tutti in coro i marinai. Urla e fischi di giubilo rimbombarono tra le pareti di metallo. «Silenzio cani!» sbraitò il Capo. «Volete che tutta la Royal Navy ci sia addosso?» «Li lasci sfogare, Capo, stasera nessuno ci verrà a disturbare. Abbiamo chi veglia su di noi» disse indicando con l’indice verso l’alto. Molti annuirono, altri ripresero a sghignazzare e a tirarsi pezzi di cibo. «Questa sera ho una bella sorpresa per voi.» La camera di prua piombò nel silenzio. Chi era in fondo si alzò in piedi per guardare meglio, chi era davanti si dispose a raggiera di fronte al comandante. «Stasera onoriamo la memoria dei nostri compagni. E questo significa… mezza razione di birra per tutti!» A quel punto le grida di euforia si fecero altissime e le possibilità che la Royal Navy potesse udirle anche a centinaia di miglia si fecero concretamente reali.
*
Nei giorni seguenti la situazione andò migliorando. Il tempo si mantenne perlopiù buono e le condizioni erano ideali per navigare tenendo d’occhio l’orizzonte in vista di nuovi possibili attacchi. Il cielo terso, sgombro da nuvole, permetteva di spingere lo sguardo sino a dodici miglia marine. Un ottimo vantaggio per non essere intercettati di sorpresa. La temperatura, sotto l’onda dei caldi venti africani, era piacevole e cominciava, via via che si scendeva verso
sud, a obbligare i turni di guardia in plancia a rivedere il loro abbigliamento. La tuta di pelle, in alcune occasioni, venne sostituita con una più leggera uniforme grigioverde. A ogni modo, la notte riservava ancora qualche insidia meteorologica, costringendo gli uomini a indossare le mantelle cerate per proteggersi dalla pioggia e dagli schizzi del mare agitato. Navigavano a poche miglia marine a est dell’arcipelago di Madera, proseguendo sulla rotta stabilita. Nel giro di qualche giorno avrebbero raggiunto le isole di Capo Verde, luogo dell’appuntamento con la nave appoggio, dove si sarebbero riforniti di carburante prezioso per il proseguo del viaggio e di derrate alimentari. Il clima aveva avuto effetti positivi sul morale dell’equipaggio: i cattivi pensieri sembravano quasi accantonati, così come le dicerie scaramantiche, spesso difficili da mettere a tacere. Troppo spesso, nel silenzio delle lunghe immersioni giornaliere, i marinai tendevano a oziare, scambiandosi pensieri su possibili congiure o malefici che gravavano sull’U-666. L’ozio era il nemico numero uno dei capitani di marina. Lasciare troppo tempo libero agli uomini li metteva nella condizione di dedicarsi al loro atempo preferito: pensare. Per questo, Josef organizzò, oltre ai normali turni di lavoro, delle esercitazioni di attacco a sorpresa a ipotetici convogli o allarmi improvvisi a qualsiasi ora del giorno. Di volta in volta ebbe la compiacenza di pianificare le esercitazioni con il maggiore, che non sembrò avere nulla in contrario, anzi, Josef ebbe l’impressione che quella dimostrazione di potere sul proprio equipaggio fosse pienamente condivisa da Kurtz. Il secondo giorno dopo l’attacco del B-24, Josef era alle prese con l’ennesimo radiomessaggio ricevuto dal BDU. Comunicava attraverso una trasmissione in onde corte, ricevibile anche in immersione a quota periscopio. Il messaggio KK, criptato in triplo codice per una maggiore sicurezza, venne decifrato dal primo ufficiale Hollstein. Alla luce soffusa della lampada, batteva con le lunghe dita sui tasti della macchina decifratrice Enigma. Un tasto dopo l’altro, una lettera dopo l’altra, il messaggio si mostrò ai suoi occhi. “Radiomessaggio riservato a ufficiale ”, riportava il foglietto di vergatino rosa. «Un radiomessaggio riservato, comandante» disse affacciandosi dal cubicolo
dell’operatore radio. Proprio davanti a lui, Josef se ne stava sdraiato nella sua branda, con la schiena poggiata contro la parete di legno, intento a compilare il giornale di bordo. La radio blaterava della solita trasmissione propagandistica. Josef alzò gli occhi incuriosito. Si mise seduto sul letto e aprì una delle mensole ricavate nella parete di legno. Ne tirò fuori un volumetto blu con il bordo appesantito da una barra di piombo. Il cifrario KK riportava i codici per decriptare i messaggi riservati al comandante e solo a lui. Le sue pagine erano solubili in acqua e la zavorra di cui era munito poteva, all’occorrenza, farlo immergere in pochi secondi. Era importante che alcuni documenti segreti a bordo degli U-boot non cadessero in mano nemica. Facendo forza con le mani sul materasso, si alzò e raggiunse Hollstein nel locale radio. Il sergente Siffling si fece da parte, lasciandogli un po’ di spazio al tavolino. «Signori, devo chiedervi di allontanarvi.» Nessuno fiatò. Il messaggio era chiaro. Josef aprì il cifrario alla pagina del giorno corrente e lesse il codice. La procedura portò via qualche minuto, ma alla fine ebbe accesso ai pochi dati sull’incontro con il mercantile Atlantis. Ora e luogo erano stati stabiliti mesi prima, quando ancora tutto era un progetto appena abbozzato. Quella nave non era altro che uno dei tanti mercantili acquistati in giro per il mondo dal governo tedesco. In previsione dello scoppio della guerra, il comando della Marina tedesca aveva stipulato accordi segreti con alcune compagnie di navigazione, affinché apportassero modifiche sostanziali ai progetti di costruzione delle loro navi. All’occorrenza, queste navi potevano essere riconvertire in incrociatori o, come in questo caso, in navi appoggio e rifornimento. «Novità, comandante?» chiese Hollstein che aveva atteso con trepidazione fuori dal cubicolo. «Abbiamo un punto d’incontro con l’Atlantis» rispose raggiante sventolando il foglietto. Entrambi si diressero al tavolo nautico dove Zielinski stava accovacciato sullo sgabello, con la punta del como piantata nel linoleum. Il reticolo quadrettato recava linee irregolari tracciate a matita, intervallate da annotazioni scritte in una
calligrafia minuta e precisa. Ciascuna di quelle linee corrispondeva alla tratta compiuta dal sommergibile ogni quattro ore. Josef e Hollstein rimasero a fissare quel lungo tracciato che percorreva con una traiettoria netta la distanza tra Saint-Naziare e il punto esatto in cui si trovavano in quel preciso momento. «Abbiamo il punto d’incontro!» disse euforico Hollstein al sottufficiale di rotta. «Davvero?» rispose il ragazzo, lasciando cadere la matita sul tavolo. Josef gli porse il foglietto, forse contravvenendo alla regola per la quale solo il comandante era tenuto a conoscerne il contenuto. Zielinski lesse attentamente e prese como e squadra. Armeggiò alcuni secondi e infine tracciò una linea e un punto alla sua fine. Si lisciò la barba ispida che gli cresceva sul mento e socchiuse gli occhi. Impegnato in un calcolo mentale, il sottufficiale di rotta rimase a fissare il reticolato come inebetito, poi si riebbe. «Proseguendo a questo ritmo, ce la dovremo fare in quattro giorni.» «Molto bene» disse allegro Josef, «il sei a quest’ora saremo a cena in una vera sala da pranzo tedesca!»
*
La mattina seguente, Josef supervisionò una delle esercitazioni a bordo. Approfittando della quiete regalata dai momenti in cui il sommergibile viaggiava in immersione, ordinò una manutenzione speciale dei quattro siluri a disposizione nei tubi di lancio di prora. «Venga, Sartori, questa non deve perdersela» disse cordiale, facendo spazio all’uomo dietro di lui. «È un momento essenziale della vita di bordo, sa? Dobbiamo essere certi che i nostri Eels non facciano cilecca proprio nel momento del bisogno.»
«Eels?» chiese Sartori interessato. «Solo un nomignolo affettuoso che i nostri marinai danno ai siluri» spiegò il capo silurista Rolf Geiger. «Capisco» disse l’archeologo. «Quando vuole, sergente.» Josef si fece da parte, togliendosi da sotto una delle taglie di sollevamento che presto sarebbe servita per movimentare uno dei siluri. Geiger non se lo fece ripetere due volte. A grandi i raggiunse i quattro tubi lanciasiluri e, dopo essersi avvinghiato con le sue lunghe braccia ai due più in alto, iniziò a sbraitare ordini. La camera di prua, in un batter d’occhio, si tramutò in un cantiere. Le cuccette vennero ripiegate contro la parete e gli uomini, con addosso solo canottiere o in alcuni casi a petto nudo, iniziarono a spostare il carrello scorrevole verso il tubo di lancio numero uno. Un marinaio aprì il portello e assicurò il siluro con un anello a tenuta a una delle taglie. Seguendo un gioco di squadra, assimilato alla perfezione in numerose esercitazioni, gli uomini estrassero il siluro dal tubo. Assicurato al carrello scorrevole, il grosso pesce luccicante venne spinto indietro fino a riempire l’intera lunghezza della camera di prua. Gli uomini faticavano e sudavano come bestie da soma, accompagnando ogni tiro della catena, assicurata alla taglia, con un sonoro «issa!» «Sono una meraviglia, non è vero?» chiese tutto eccitato Geiger avvicinandosi a Sartori. «Uno solo di questi pesciolini costa la bellezza di venticinquemila marchi. Una fortuna per noi poveri marinai.» «Direi una fortuna anche per quei poveri marinai che se lo vedranno arrivare addosso» ironizzò Sartori. Geiger parve turbato da quelle parole. Poi iniziò a ridere sguaiatamente e mollò una pacca all’archeologo, lasciandogli una chiazza di grasso sulla spalla. «L’ho detto io, un comico nato quello lì» disse rivolto agli uomini che, sbuffando e sudando, stavano tirando giù il pesante siluro da milleseicento chilogrammi per poter procedere alla manutenzione ordinaria.
Qualcuno sorrise, altri, troppo presi dallo sforzo, non mostrarono molto interesse. La presenza del comandante era cosa gradita. Ciascuno di loro poteva finalmente mostrare di cosa era capace direttamente all’ufficiale superiore. Quell’esercitazione diveniva quasi una gara di bravura tra i vari meccanici addetti ai siluri. Josef lo sapeva e, ovviamente, la cosa giocava a suo favore. «È un modello G7E, uno di quelli nuovi, concepito per rispondere al problema avuto con il 7A. Vede» disse fingendo che Sartori fosse interessato a quella lezioncina, «il vecchio modello aveva il problema della scia troppo visibile. I bersagli potevano vedere in anticipo il tragitto del siluro e magari adottare le precauzioni del caso per evitare l’impatto. Inoltre poteva rivelare la posizione del sommergibile, una scocciatura.» «Posso immaginare» rispose Sartori che, contrariamente a quanto ritenuto da Josef, si stava apionando allo spettacolo che andava in scena davanti ai suoi occhi. «Il G7E ha un propulsore elettrico alimentato a batterie, non più ad aria compressa, che muove due eliche bipala controrotanti. Una soluzione ben più idonea.» «Ogni tanto ne fanno una buona quelli lì» disse dalle profondità della camera di lancio Geiger. Una volta che il siluro fu assicurato, un nugolo di meccanici gli si piazzò addosso come delle remore attaccate al corpo di uno squalo. Ciascuno di loro aveva una posizione e un compito ben preciso. Geiger, il capo silurista, era l’unico adibito a mettere le mani sul meccanismo di propulsione: un insieme di delicati congegni di precisione, in grado di spingere il siluro per circa cinquemila metri alla velocità di trenta nodi. Il caporale Holz e il caporale Hiller si occuparono della trasmissione e dei timoni verticali. «Qui è tutto in ordine, comandante. Questo pesciolino filerà veloce come un fuso, dritto dritto nel…» «Abbiamo capito, Geiger! Ci risparmi i suoi commenti coloriti.»
Josef si voltò verso Sartori col sorriso sulle labbra. Scoprì con piacere che anche lui si stava divertendo; probabilmente quel diversivo lo aveva sottratto per un po’ alle sue riflessioni. Era quello lo scopo delle esercitazioni, in fondo: oltre a verificare il corretto funzionamento del materiale in dotazione, sostituiva la fatica alla noia, non lasciando molto tempo a disposizione per abbandonarsi ai cattivi pensieri. «Ora la parte migliore, Herr Sartori!» annunciò Geiger portando un secchio ricolmo di uno scuro materiale gelatinoso. «Lo lubrifichiamo per bene e via, di nuovo dentro!» disse mimando un rapporto sessuale con un marinaio intento a raccogliere uno straccio per asciugarsi il sudore. Josef salutò i suoi uomini e, scortato da Sartori, uscì dalla camera di prua mentre il siluro stava per essere rimesso al suo posto nel tubo di lancio. «Deve scusarli, hanno pochi momenti per rilassarsi come dovrebbero e tendiamo a lasciar correre sulla disciplina, se capisce cosa intendo.» «Nessun problema, comandante» rispose Sartori. «È stato, come dire, illuminante. Dico davvero, inizio a temere il peggio. È così strano che cominci a provare piacere in una vita di sacrifici e ristrettezze?» «Anche lei è rimasto vittima della sindrome dell’Hexanite, vedo.» «Come prego?» Josef sorrise dell’innocenza dell’archeologo. «L’Hexanite è l’esplosivo che viene usato per la detonazione dei siluri. Il G7E ne porta ben trecentoventi chilogrammi. Un potere distruttivo spaventoso, capace di dilaniare le carene di una nave. Vede, dicono che premere il grilletto di una pistola dia una sensazione intensa di potere, quel potere che si ha sulla vita altrui. Una pistola, tuttavia, può provocare solo danni minimi se paragonati a quelli di un siluro. Moltiplichi per trecentoventimila volte quel potere distruttivo e capirà perché avere l’autorità di ordinare il lancio di uno di questi strumenti di morte, spesso, provoca eccessi di onnipotenza.» «E lei? Lei ne è vittima?» gli chiese Sartori divenendo improvvisamente serio. Josef fissò i suoi occhi in quelli dell’uomo. «C’è molto che deve ancora apprendere su come funzionano le cose qui sotto prima di apionarsi troppo a
questa vita. Mi dia retta, le biblioteche non sono luoghi così malvagi, in fondo.»
Capitolo 12
«Prego Sartori, si serva pure.» Il Vecchio indicò il piatto al centro del piccolo tavolo nel quadrato ufficiali. Un tiepido vapore profumato fuoriusciva da una pila di spalle di maiale marinate. Mutzbraten, aveva spiegato il cuoco prima di sparire nella stanza delle magie culinarie. Eno si chiese come fosse possibile cucinare per così tante persone in uno spazio appena sufficiente a starci in piedi e, per giunta, con un solo fuoco. Ciò che quel ragazzo riusciva a comporre con il poco a disposizione aveva dell’incredibile. Chiese gentilmente permesso quando allungò il braccio per prendere un pezzo di carne. «Un piatto tipico della terra dei miei nonni» disse Kurtz mentre assaporava distratto la pietanza tipica della Sassonia. Impossibile decifrare dai suoi lineamenti se fosse di suo gradimento o no. «Ci dica qualcosa di lei, professore. Posso chiamarla così?» gli chiese il direttore di macchina, mentre sbocconcellava un pezzetto di carne. Il suo modo di masticare ricordava quello delle capre, con quei lenti movimenti orizzontali della mascella. «Eno andrà benissimo. O, se troppa confidenza le crea disturbo, può chiamarmi Sartori. Professore lasciamolo ai miei studenti» sembrò rifletterci su, dando una rapida occhiata al maggiore Kurtz, «ammesso che ne abbia ancora.» «Per me non fa differenza, Sartori andrà benissimo. Non vogliamo certo mettere in difficoltà i nostri commensali con troppa intimità tra noi gentiluomini.» Il secondo ufficiale rizzò la schiena. Sembrò sentirsi punto sul vivo, proprio lui che aveva fatto dell’etichetta e del decoro il cardine delle sue sicurezze. «Credo che mantenere un certo distacco sia essenziale a bordo. Dove finirebbe la Marina se si permettesse un’equità di rango?» disse piccato, rimanendo concentrato sulla sua cena.
«Concordo pienamente» intervenne Kurtz. Il Vecchio e il direttore se ne stavano con le spalle curve, lo sguardo basso sul loro piatto, quasi quelle parole provenissero da un altro luogo e un altro tempo. «D’accordo, ma la domanda resta» insistette il direttore. «Ci dica qualcosa di lei, di certo avrà aneddoti interessanti che riguardano i suoi viaggi. La prego, Sartori, rallegri questo banchetto.» Eno rimase immobile. Non era imbarazzo, gli era sempre piaciuto parlare del suo lavoro e lo faceva con trasporto, ma questa volta era diverso. Nelle parole del direttore Fleischmann, vi lesse una trappola. Che stesse cercando di carpire qualche informazione sulla sua presenza a bordo? Il problema era che aveva scelto il momento meno opportuno per farlo; il maggiore Kurtz fingeva noncuranza, ma Eno era sicuro che stesse ascoltando attentamente la conversazione in attesa d’intervenire. «Non credo troverà così interessanti le mie storie. Spesso tutto si riduce a togliere terra da un punto per poi ricoprire senza grosse soddisfazioni. Anzi, ora che ci penso, le delusioni hanno avuto il ruolo di protagonista fin troppo spesso.» «Sì, ma avrà trovato qualcosa a un certo punto della sua carriera, no? Altrimenti quest’interesse del partito nei suoi confronti sarebbe ingiustificato.» Questa volta fu Werner a parlare. Il giovane ufficiale sembrava stesse conducendo il gioco in combutta con il direttore. O forse erano tutte paranoie senza senso? Eno capì che non avrebbe potuto tergiversare a lungo. «Lo scorso luglio, mi trovavo ad Atene per assumere la reggenza del SAIA, la Scuola Archeologica Italiana. È l’ente che dirige e coordina le missioni archeologiche in territorio greco su promozione delle Università e degli istituti di ricerca italiani.» Eno gesticolò durante la sua spiegazione, sperando che quel fiume di nomi e titoli stancasse presto i suoi interlocutori al tavolo. «Per me si prospettava una grande possibilità per ricevere un titolo onorifico molto ambito nel nostro mestiere, ma soprattutto si apriva l’opportunità di dedicare sforzi e risorse a un sito che avevo individuato anni prima.» Come spesso accadeva quando la lingua prendeva il sopravvento sul cervello, cominciò a parlare a briglia sciolta.
«L’Eliconia!» disse con un sorriso stampato sul volto. «L’ Helikon o monte tortuoso dalla traduzione in greco. È un monte situato nella regione di Tespie che con i suoi millesettecentoquarantotto metri è la vetta più alta della regione.» «Aspetti, ne ho già sentito parlare da qualche parte» disse il Vecchio, intento a pulirsi le labbra col tovagliolo, «non ha forse a che fare con la mitologia greca?» «Assolutamente!» rispose esultante, puntando l’indice verso il Vecchio. «Vede, l’Eliconia è stato reso celebre proprio dalla mitologia greca per via delle sue due sorgenti sacre alle Muse Aganippe e Ippocrene, reputate in grado di fornire ispirazione a coloro che si fossero dissetati in quelle fonti. Come avrete notato, entrambi i nomi delle due Muse possiedono la radice hippo, ovvero cavallo.» «Ah sì, io lo avevo notato subito» disse Werner. Le occhiatacce severe degli altri lo costrinsero ad abbassare lo sguardo senza però perdere quel sorrisetto sardonico che lo contraddistingueva. «Molto bene, mio caro Werner! La tradizione vuole che le fonti abbiano preso a zampillare quando Pegaso, il cavallo alato, le colpì con lo zoccolo. Da quelle fonti si svilupparono poi i fiumi Olmeios e Permessos.» «Tuttavia, rimaniamo nell’ambito del mito» lo interruppe il maggiore. La sua voce era calma e pacata, un chiaro avvertimento a chiudere in fretta il discorso. «No, cioè sì, rimaniamo nel mito…» «Lo faccia continuare, maggiore» lo interruppe il Vecchio. «Il povero Sartori non deve avere una gran platea nell’alloggio sottufficiali. Trovo che un uomo della sua caratura dovrebbe avere più spazio per esporre i suoi pensieri. Continui, prego.» «Non c’è molto altro da aggiungere, se non annoiarvi con racconti di giorni interi ati a scavare in cerca di qualcosa che, effettivamente, viene relegato alla pura mitologia.» «Quindi non ha trovato ciò che cercava?» chiese Werner deluso che il racconto fosse finito così presto e senza colpi di scena. «Esattamente. Niente di niente.» Eno poggiò le posate sul tavolino e quando fu
sicuro che nessuno lo stesse guardando, lanciò un’occhiata al maggiore. Kurtz da parte sua, non mostrava emozioni. L’ufficiale delle SS avrebbe avuto una brillante carriera come frequentatore di casinò, se non fosse stato arruolato dal Partito Nazionalsocialista. «Che mi dice riguardo l’incontro con il B-24, capitano?» chiese bruscamente Kurtz per cambiare discorso. «Sono curioso di sapere la sua opinione in merito. Solo un caso o c’è qualcosa di cui dovremmo preoccuparci?» Il Vecchio si sfregò le mani e piegò la testa di lato come era solito fare quando qualcosa lo infastidiva. Eno aveva notato più volte questo suo atteggiamento e sempre in presenza di Kurtz. «Ci sono diverse cose su cui riflettere. Un bombardiere a lungo raggio è insolito in queste acque. Sono per lo più tutti impegnati nell’Atlantico occidentale come cacciatori di sommergibili. C’è anche da dire che potrebbe essere di scorta a qualche convoglio attivo lungo le coste del Marocco. C’è una base a Port Lyautey utilizzata per sorvegliare lo stretto di Gibilterra e per agevolare l’avvio dell’attuale campagna in Tunisia degli Alleati.» «Escludendo così qualunque possibile fuga di notizie?» chiese il direttore di macchina. «Si spieghi» lo incoraggiò Kurtz. «È solo un’ipotesi» si affrettò a giustificare il Vecchio. «Lo lasci finire» chiese gentilmente Kurtz. Il Vecchio respirò a fondo e si fece indietro con la schiena, fino a poggiarsi contro lo schienale del divano. «Solo una suggestione. Ma potremmo supporre che ci sia stata una fuga di notizie. È da quando siamo partiti che ho questa sensazione sottopelle, gli Alleati potrebbero essere a conoscenza della nostra missione segreta, qualunque essa sia.» A Eno non sfuggì l’occhiata di traverso al maggiore. Il fatto di non sapere quale fosse il vero scopo del loro incarico doveva essere frustrante per quegli uomini. «Ne prendo atto» disse solo Kurtz.
«Per non parlare poi di quei nuovi apparecchi che i Tommies stanno installando sugli aerei» disse Werner. «Si dice che possano rilevare il nostro periscopio a fior d’acqua da una distanza di otto miglia.» «Che diavolerie vai dicendo?» lo redarguì il direttore. «Radar!» annunciò Werner come se la parola gli fosse giunta in suggerimento da un angoletto nascosto del suo cervello. «Pare che siano riusciti a renderli tanto piccoli da farli entrare nelle carlinghe dei loro aerei.» «Ne ho sentito parlare anch’io» si affrettò a dire Hollstein. «Se così fosse, significa che quel dannato Churchill ne sa una più del diavolo!» sbraitò il direttore. In quell’istante entrò un inserviente. Il marinaio prese dal vassoio una coppetta di vetro che servì a ciascuno dei sei uomini al tavolo. «Una rivisitazione della bavarese con ingredienti di bordo, con i complimenti del cuoco» disse il biondino con tono stentato. Doveva aver ripetuto quella frase a memoria per tutto il tragitto, per paura di dimenticarla. «Ringrazia Tobias da parte nostra» lo dispensò il Vecchio. Eno immerse il suo cucchiaino nella crema morbida e assaggiò. Lasciò che il composto sprigionasse un delicato profumo di vaniglia nel suo palato. «Niente male» disse, accompagnando l’esclamazione con un cenno della testa. «Niente male davvero» rincarò il direttore mentre ne prendeva un’altra cucchiaiata. «Se solo imparasse a fare il caffè come fa la bavarese!» ironizzò Werner. «Quello proprio non gli riesce, ma bisogna sapersi accontentare.» «Comandante in plancia!» urlò qualcuno. Il richiamo venne ritrasmesso a voce dal timoniere e poi dal sergente Schäfer dalla stanza idrofono.
«Che succede?» chiese a nessuno in particolare il Vecchio mentre si alzava dal divano buono. Il direttore si affrettò a fargli spazio e lo seguì in camera di manovra. Eno, seguendo l’esempio dei due guardiamarina, si mise in coda al gruppo, proprio dietro il maggiore Kurtz. La sala manovra non sembrava molto diversa dal solito. Quell’allarme improvviso, ammesso che fosse un allarme, non aveva agitato nessuno. Il tavolo del sottufficiale di rotta, ora impegnato nel turno di guardia in plancia, era utilizzato come ripiano per pelare patate. Il timoniere di turno, un ragazzo alto dai capelli castani pettinati all’indietro, sembrava catturato dalla bussola. Per il resto tutti si comportavano come nulla fosse accaduto. Questo tranquillizzò un pochino Eno. Si era abituato, ormai, a prendere qualsiasi richiamo, o tono di voce appena più alto del solito, come un possibile allarme e il suo fisico iniziava a comportarsi di conseguenza. Percepì un irrigidimento dei muscoli addominali e della mascella. «Il comandante in plancia!» ripeté la voce dall’alto della torretta. Il Vecchio s’inerpicò agilmente sui pioli. Appresso a lui seguirono il primo ufficiale Hollstein e Kurtz. Werner e il direttore Fleischmann si posizionarono ai loro posti in attesa di ordini. Anche loro erano coscienti della possibilità che l’allarme poteva scattare rapido e senza preavviso, quindi meglio stare allerta. Eno si avvicinò al portello e tese una mano su uno dei pioli in ferro. Senza riflettere poggiò il piede sul primo e si tirò su. La curiosità lo spinse fuori all’aria aperta. Il vento gli sferzò la faccia, lasciandogli una piacevole sensazione sulla pelle. Il cielo era di un bel blu scuro con pochi veli di nuvole a coprire le stelle. All’orizzonte, una massa plumbea si stava addensando a ovest: compatta e nera dove toccava la superficie del mare, più sfilacciata e grigiastra verso l’alto. Si chiese se non fosse un nuovo fronte temporalesco. Nessuno badò a lui quando emerse nella stretta vasca di metallo che era la plancia. Tutti erano impegnati a scrutare il mare verso poppa.
«Da quella parte!» disse Zielinski, indicando freneticamente con la mano. Il Vecchio si incollò al binocolo e per alcuni secondi non disse nulla. Rimase immobile come fosse di pietra, mantenendosi appoggiato con il bacino al parapetto. «La vedo» disse dopo un tempo che sembrò infinito. Si voltò verso Hollstein e gli ò il binocolo. «Lei che ha occhi migliori dei miei.» Anche il primo ufficiale si attaccò i gommini alle orbite e strizzò gli occhi per vedere meglio a quella distanza. Kurtz afferrò il binocolo della guardia di tribordo e si mise a scrutare il punto indicato. Eno si sentì fuori dai giochi. Sarebbe stato disposto a barattare un binocolo con quello che aveva di più caro a bordo. Su un sommergibile, non avere il dono della vista ti rendeva inutile, e probabilmente così dovevano sentirsi tutti quelli là sotto in attesa di una rassicurazione o di un segnale di allarme. «Prenda». Un caporale accanto a lui, fermo davanti al ripetitore del timone, gli porse il suo binocolo. Eno lo guardò colmo di gratitudine. Individuare il punto esatto non fu facile, dovette spaziare a destra e a sinistra prima di abbassare il binocolo in segno di resa. Il caporale gli indicò il punto preciso con la mano messa a paletta ed Eno riprovò. Trattenne il fiato per qualche secondo, finché non scorse una sagoma. Appena un accenno più scuro nell’orizzonte lontano. Pensò di essersi sbagliato, di averlo solo immaginato, così serrò il cannocchiale ben stretto e si concentrò. La macchia rimase dov’era. «È un cacciatorpediniere, comandante!» esclamò Hollstein. «Come immaginavo, dunque.» Il Vecchio tirò un lungo respiro. Anche Kurtz doveva averlo visto ormai, ma il massiccio maggiore non diede segno di preoccupazione. «Ci immergiamo, non si sa mai con quelli lì.» Il Vecchio lasciò il binocolo al primo ufficiale e indicò il portello. «In buon ordine e senza fretta» aggiunse mantenendo un’espressione volutamente tranquilla. Probabile che quell’incontro fosse fortuito e gli uomini a bordo del cacciatorpediniere non si aspettavano
certo di incontrare un U-boot in quelle acque. Quindi meglio, immaginò Eno, fare le cose senza dare troppo nell’occhio e con la massima calma e cura. La lunga fila di uomini ridiscese la scaletta. Solo il Vecchio, che seguì per ultimo, si fermò sotto il boccaporto. Si assicurò che fosse sigillato e rimase nella torretta in attesa. «Pronti con l’immersione» ordinò imibile. Gli ordinativi in sala comando partirono rapidi. «Prepararsi all’immersione» disse il direttore agli uomini già ai loro posti di combattimento. La risposta fu immediata. «Sfoghi d’aria pronti.» «Sfoghi d’aria pronti, comandante!» avvertì il direttore all’indirizzo della torretta. Allagare, ripeté a mente Eno. «Allagare» disse il Vecchio, facendolo sorridere tre sé. Cominciava a familiarizzare con i comandi. Le valvole degli sfiatatoi vennero aperte e con il solito rombo le casse d’immersione si riempirono d’acqua di mare. «Ci porti a quota periscopio, Fleischmann» ordinò il Vecchio. Il direttore arrestò la discesa e diede compito ai timonieri di bilanciare il sommergibile. «Duecento litri a poppa» disse sottovoce, concentrato sulla colonnina dell’idrometro. «Vai così. Alza di cinque.» Eno sentì che l’appruamento si era fermato e il pavimento tornava in asse. Ora che quei movimenti, quei rituali, non gli erano più così oscuri, cominciava a guardare quegli uomini con occhi diversi, come spesso accade quando si scopre il trucco di un bravo prestigiatore. «Lo tenga così» disse il Vecchio. Si sentì il ronzio del periscopio che si alzava, emergendo dalle onde. «Rilevamento idrofono!» ordinò subito dopo.
La testa di Schäfer fece capolino dal portello emisferico della camera di manovra. Teneva la cuffia sull’orecchio sinistro e l’altro libero per ascoltare gli ordini di bordo. Gli occhi fissavano il vuoto, segno che aveva bisogno di molta concentrazione per trovare una traccia udibile. «Rilevamento duecentosettanta gradi… in avvicinamento da prua.» In avvicinamento? Deve essere solo un caso, si disse Eno. Siamo capitati per puro caso sulla rotta di un cacciatorpediniere. Niente di più. «Vai per centoquaranta, motori a mezza.» Ordinò il Vecchio dalla torretta. «Centoquaranta gradi» ripeté il direttore al timoniere. «Gli sfileremo a tribordo senza che se ne accorga» ridacchiò il Vecchio. «Eliche in avvicinamento» disse Schäfer. Il secondo ufficiale ripeté il messaggio in torretta. «Lo vedo, è ancora fuori raggio, non può vederci per ora» rispose il comandante. «Dannazione a queste onde, lo tenga fermo, Fleischmann!» Il direttore strinse le mani intorno al collo dei due timonieri e Dietze per richiamarli all’attenzione. La colonnina dell’idrometro tornò stabile sui quattordici metri. «Macchine a tutta forza!» Ordinò con voce ferma il Vecchio. Eno fece qualche o, avvicinandosi alle scalette. Sbirciò nella torretta dove vide il Vecchio seduto sul suo seggiolino, le gambe strette attorno al tubo del periscopio d’attacco. Era concentrato nello scrutare il mare dalla lente, l’unico occhio sull’esterno a loro disposizione. «Comandante! Rumori in avvicinamento a trecentosessanta gradi!» strepitò l’idrofonista. Kurtz si fece inquieto. Gli si poteva leggere in volto l’apprensione per una situazione che non poteva controllare. Le labbra si muovevano come se volesse gridare un ordine che sapeva di non poter dare. Anche lui era cieco come tutti gli
altri. «Immersione, immersione!» A quel grido, il cuore gli si fermò per un tempo che sembrò lungo una vita. La camera di manovra piombò sotto una cortina di ghiaccio che congelò la scena per un’interminabile frazione di secondo. «Tutti a prua!» gridò il direttore Fleischmann. Come in un film già visto, la mandria scalmanata di uomini si ripresentò puntuale, correndo e scalciando per arrivare all’altro capo del sommergibile nel minor tempo possibile. Eno fu colpito da qualcuno che, senza fermarsi, si perse nel lungo via vai. Il fianco destro gli mandò un’acuta fitta di dolore. Dovette tenersi a uno dei pioli d’acciaio per non cadere. «Quaranta metri!» disse il direttore senza staccarsi dalla sua postazione. «Cinquanta.» «Che sta succedendo?» sbottò Kurtz guardandosi a sinistra e a destra in cerca di qualcuno che potesse fornire delle risposte. Non trovò nessuno in grado o che avesse voglia di rispondere, anche se quello che stava accadendo là fuori lo si poteva immaginare. «È impossibile» sibilò il Vecchio mentre scendeva dalla torretta. «Impossibile che siano riusciti a vederci.» «Siamo stati individuati?» chiese Kurtz in un ringhio. «Hanno accostato di venti gradi, puntandoci dritti addosso, non c’è dubbio che ci abbiano visti. Devono avere qualcuno con gli occhi maledettamente buoni lassù, anche con questo buio, o forse…» Eccoli di nuovo, pensò Eno mentre assisteva impietrito alla scena. I dubbi. Il sospetto che gli inglesi sapessero dove cercare e cosa cercare. «Devono aver attivato il radar, perché non ci ha portato giù subito, comandante?» chiese fermo Kurtz.
«Non c’era nessuna urgenza d’immergersi. Lì fuori è buio e il mare increspato nasconde la scia del periscopio, per non parlare della distanza.» Si giustificò il Vecchio, anche se la sua espressione gridava a gran voce che non era nella posizione di doverlo fare. «Tuttavia…» lasciò intendere Kurtz. «Le ho già spiegato che la missione è prioritaria su qualsiasi altra cosa. Lei non ascolta o non vuole farlo?» Stavolta Kurtz era infuriato. I due si fissarono come due pistoleri pronti al duello. «Eliche…» La voce di Schäfer sembrò interrompere quel confronto. Il Vecchio si avvicinò in fretta al radiofonista e si sedette sulla paratia aperta. Il ragazzo dal naso aquilino gli ò una cuffia. Come impegnati ad ascoltare una musica soave, i due rimasero con gli occhi semichiusi per alcuni secondi. «Sono vicini» disse in un sussurro il Vecchio. Il giovane annuì. «Da questo momento in poi, silenzio assoluto» sibilò all’indirizzo di tutti gli uomini in camera di manovra. I suoi occhi si soffermarono qualche istante in più in quelli del maggiore che ingoiò fiele, ma ubbidì. Il duello era solo rimandato, pensò Eno. «Spegnere le luci non necessarie, Fleischmann, ci porti a novanta metri.» Il Vecchio si massaggiò la fronte, tipico di chi stava cercando di concentrarsi. «Motori al minimo, vai per duecentosettanta.» Il timoniere, il sergente Sievert, ripeté l’ordine attivando il telegrafo di macchina. Subito dopo, una camla avrebbe suonato nella sala motori elettrici, avvertendo i meccanici di ridurre al minimo i giri dei motori. Il rischio di essere uditi anche in superficie, a un’andatura maggiore, era troppo alto. In risposta il sommergibile ebbe un leggero contraccolpo e il ronzio dei motori si attenuò.
«Tra poco sapremo se ci hanno visti oppure no. Rimandiamo a dopo i dubbi sul perché e il percome.» Il Vecchio rimase seduto sulla paratia, in modo da tenere sotto controllo sia l’idrofono che i timoni. Così si pilotava un sommergibile: udito e muscoli. «Siamo a novanta metri» sibilò il direttore. «Molto bene, lo lasci andare così.» Eno si sistemò meglio che poté. Non trovò posto al tavolo di carteggio, dove Hollstein e Zielinski avevano occupato tutto lo spazio disponibile per sedersi. Anche Werner si scelse un posto sicuro accanto a Kurtz, vicino al pozzetto della girobussola. A lui toccò sistemarsi, come al solito, accanto alla pompa di sentina, cercando di non ostacolare il marinaio addetto al suo funzionamento. «Sommergibile bilanciato, comandante.» «Tonfi in acqua» disse Schäfer, sbarrando gli occhi. Due possenti colpi percossero come un ariete la corazza di dritta. Nessuno si aspettava un colpo orizzontale, considerando che quasi tutti nella sala caddero a terra. Eno si trovò gambe all’aria, con la testa incastrata tra due leve di metallo. Un rigoletto di sangue gli colò dalla tempia, ma il dolore non si fece udire. Al contrario, si fecero sentire altre due esplosioni, stavolta da sinistra. Meno profonde delle prime, ma l’ariete colpì duro lo stesso e le lastre del pavimento vibrarono sotto di loro. I primi scricchiolii iniziarono ad annebbiargli la mente con le loro promesse di morte. Le paratie sembravano volersi aprire, per permettere all’acqua ad alta pressione d’inondare il sommergibile. Poi cessarono e i fantasmi si acquietarono. «Troppo lontani» sibilò il Vecchio guardando gli uomini che lentamente si rimettevano in posizione. Ora aveva inizio il gioco di nervi, quella lenta agonia fatta di attesa e paura. Era un po’ come trovarsi in una stanza al buio con una belva feroce; nessuno sapeva quando e da dove sarebbe arrivato l’attacco, non si avevano armi con cui difendersi o voce con cui chiamare aiuto. L’unica cosa possibile era affidarsi alle sensazioni del Vecchio e pregare. Tre esplosioni, talmente rapide da sembrare un’unica gigantesca mazzata,
scossero il metallo in maniera tanto violenta che le luci si spensero di botto. Qualche lampadina esplose, le altre, semplicemente, smisero di funzionare tutte insieme. Il buio contribuì a togliere quel barlume di speranza che Eno ancora nutriva. Un piccolo scintillio sopra la sua testa e la luce si riaccese come per miracolo. Eno si guardò intorno alla ricerca di spiegazioni, anche solo un cenno scambiato tra i marinai, qualcosa a cui potesse aggrapparsi per sperare. «Mantenete la calma» disse il Vecchio placido. «Questo è solo il preludio. Ora arriva la sinfonia. Timone a dritta, tutto, vai per centocinquanta, scendiamo a centotrenta metri.» «Timone a prora dieci in alto» ordinò il direttore al caporale Tewes. Il sommergibile iniziò una lenta discesa spinto dalla sola forza delle eliche e dei timoni di profondità. Il Vecchio stava cercando di compiere una manovra elusiva che potesse confondere i loro inseguitori. Cambiava direzione e altitudine continuamente, in modo da non offrire mai un bersaglio facile da scovare. Un’esplosione scosse tutti dal torpore. Di seguito ne arrivarono altre. Una cacofonia che parve senza fine: il rombo delle bombe di profondità e subito dopo il roco risucchio dell’acqua nei vuoti provocati dalle esplosioni. Un bombardamento a tappeto che non dava tregua e toglieva letteralmente il respiro. Eno sentì un dolore lancinante alla mascella e solo in quel momento si rese conto di averla contratta al punto da poter sentire i denti che scricchiolavano per la pressione esercitata. Cercò di rilassare i muscoli facciali, ma l’ennesima esplosione rese tutto vano. Incassò la testa e si contrasse, cercando di attutire i contraccolpi con cui le cariche esplosive da duecento chilogrammi stavano tempestando il sommergibile. Dietro di lui, qualcuno si affacciò al portello di poppa, ma non cercò di capire chi fosse e perché stesse lì piantato. Forse, come accaduto in precedenza, la camera di manovra diveniva un po’ come l’ultimo posto sicuro, un luogo sacro, dove la presenza rasserenatrice del Vecchio poteva infondere fiducia e speranza nelle menti sotto shock degli uomini. Il Vecchio, in quella circostanza, diveniva il pastore che rassicurava il suo gregge, il padre che con uno sguardo infonde fiducia nella sua prole.
Eno ricercò quello sguardo. Il Vecchio se ne stava lì, seduto con una gamba accavallata sull’altra, concentrato sull’indicatore di profondità. Per qualche minuto fu il silenzio il vero padrone del sommergibile. L’unica nota di rumore era data dai motori elettrici che viaggiavano a basso regime. Eno si chiese se fosse sufficiente quel ronzio per farli individuare dal caccia in superficie. Che diavolerie stavano architettando lassù? «Rilevamento settantacinque gradi, si avvicina» disse sommesso Schäfer. Il silenzio fu rotto da un rumore nuovo. Qualcosa di appiccicoso che a Eno ricordò lo sbattere della forchetta nell’uovo fresco quando si prepara una frittata. Sorrise all’idea che qualcuno a bordo si stesse preoccupando di pensare al cibo anche in quel momento così gravoso. Il suono divenne sempre più forte. «Eliche» suggerì Werner. Lo sguardo del ragazzo non era più così spavaldo come nelle altre occasioni. Cambiò repentino quando si accorse che Kurtz li stava osservando. Le gote gli si fecero rosse e distolse lo sguardo. «Cariche di profondità!» esclamò Schäfer. Altri tre, quattro, cinque colpi di martello e tutto precipitò in un vortice di confusione. Le luci si spensero di nuovo. Subito qualcuno accese delle torce e i fasci iniziarono a danzare dappertutto in cerca di perdite o feriti. Eno si ritrovò a terra, seduto accanto alla pompa di sentina ausiliaria. Decise di rimanere in quella posizione che gli permetteva di rilassare i muscoli delle gambe, anche se aveva l’impressione di non sentirle più. «Via d’acqua nel locale diesel» dissero dal citofono. Eno riconobbe la voce del capo Nagelschmitz. «Locale elettromotori, in ordine.» «Anche a prua...» «Tappate quelle falle e fate rapporto» ordinò il Vecchio. «Reggerà» disse calmo il direttore. «Ha visto di peggio questo rottame.»
«Non mi preoccupo di lui, ma di loro.» Il Vecchio puntò la torcia verso poppa e mise in mostra i volti di tutti gli uomini stipati in quel luogo. Molti erano a terra, qualcuno si teneva le ginocchia attaccate al petto. Gli unici che ancora mantenevano un aspetto formale erano gli ufficiali e il maggiore Kurtz. Quell’uomo aveva la serenità di uno che stesse facendo una eggiata su un tram lungo l’ Unter den Linden a Berlino. L’espressione era rilassata, quasi fosse a suo agio. Gli occhi, probabilmente, avrebbero rivelato il contrario ma Eno, dalla sua posizione e con quella luce, non poteva vederli. Qualcuno si diede da fare per sostituire le lampadine esplose e iniziò ad armeggiare con le valvole di ricambio. Ben presto la luce di emergenza si accese, ridando una parvenza di decoro agli uomini che si rimisero velocemente in posizione di combattimento. «Motori pari avanti tutta, vai per duecentotrenta. Vediamo di togliercelo di mezzo.» «Pari avanti tutta» ripeté il timoniere. «Ci risiamo» disse l’idrofonista. «Rilevamento trenta gradi.» I suoi occhi aperti in una posizione innaturale parlavano per lui sull’entità del bombardamento in arrivo. «Un grappolo.» Tutti incassarono la testa nelle spalle. «Scendiamo a centottanta metri» ordinò il Vecchio con una nota d’urgenza. Subito i comandi elettrici dei timoni di profondità azionarono il meccanismo e il sommergibile si appruò leggermente. Le esplosioni si susseguirono una dopo l’altra. Questa volta lo spostamento dell’acqua fu più violento e rumori di cose che s’infrangevano giunsero da ogni angolo del battello. La testa iniziò a dolergli, quasi avesse ricevuto troppi pugni da un pugile professionista. Il rumore assordante delle esplosioni, unito alla pressione esercitata sullo scafo, stavano per fargli scoppiare il cervello nella scatola cranica. Aprire la bocca, per evitare che la pressione incidesse sui timpani, non
servì a molto. Il dolore alla testa non si attenuò. «Acqua nel locale diesel!» «Via d’acqua a prua!» Urlarono dal citofono i capi dalle loro posizioni. «Quella dei diesel mi preoccupa un po’» disse Fleischmann al Vecchio. «Gli scarichi dei diesel sono un tallone d’Achille e continuano a perdere sotto pressione.» «Vai a dare un’occhiata» lo tranquillizzò il Vecchio, conscio del bisogno del direttore di controllare il danno con i suoi occhi. Fleischmann annuì e schizzò verso poppa saltando gli uomini che gli si paravano davanti, compreso lui. Il suo posto fu preso momentaneamente da Hollstein che si fece avanti, tenendosi attaccato alla schiena dei timonieri. «Finché non troveranno il modo di tirarcele sulla testa, non accadrà nulla, state tranquilli» li confortò il Vecchio. «A questa profondità devono avere la mira di Lefty Gomez per fregarci.» «Ma Lefty è mancino» disse sorridendo Sievert. «Meglio, più possibilità per noi.» «È anche americano se è per questo» s’intromise Kurtz con tono disgustato. «Un altro punto a nostro favore, allora.» Il Vecchio si voltò verso l’idrofonista. «Rilevamento?» Schäfer scosse la testa. Forse non riceveva suoni o forse non capiva da che parte stessero arrivando. Eno cominciava a non pensare più lucidamente. «Niente?» insistette il Vecchio. «Niente al momento.» I volti di tutti s’illuminarono. Che fosse davvero finita? «Calma, signori. Potrebbero aver spento i motori. Non sono principianti quelli lassù. anno tutti i trucchi per stanarci e noi non dobbiamo avere fretta.»
In quel momento tornò il direttore tutto trafelato. «La falla è bloccata, ma c’è troppa acqua, dobbiamo attivare la pompa.» Si guardò attorno e poi alzò gli occhi al cielo. «Che succede? Hanno smesso? Mandateci qualche carica, stupidi Tommies, ho bisogno di accendere la pompa!» disse con voce misurata. Il rischio di essere uditi era ancora alto e la pompa di sentina era molto, molto rumorosa. Eno aveva imparato che poteva essere attivata solo durante le esplosioni, per essere disattivata immediatamente dopo il risucchio dei vuoti nell’acqua, in modo da non essere individuata. Sfortunatamente, la sfida del direttore fu accettata dagli inglesi sopra di loro. «Rilevamento centoventi gradi, ancora lontano, ma si avvicina.» Schäfer girò la manopola dell’idrofono, facendogli compiere piccoli tratti per ristringere il campo di ascolto. «È più vicino ora, da prua a centotrenta.» «Vai per centoventi» ordinò il Vecchio. Centoventi? Aveva intenzione di corrergli incontro? Voleva argli sotto le gambe? Ancora quel rumore, ancora un’altra frittata in preparazione in superficie. «Timone tutto a dritta, ora!» Il timoniere ubbidì all’istante. Il sommergibile rispose scartando a destra, togliendosi dalla rotta del caccia all’ultimo istante, come un duello a chi si butta per primo. Il Vecchio si era buttato per primo, ma non per codardia, per furbizia. Le esplosioni arrivarono puntuali, ma meno violente. Alcune giunsero più attutite e lontane. «Azionare la pompa!» ordinò il direttore. «Ventidue, ventitré…» contò Hollstein a ogni scoppio. «Ventiquattro. Finite!» «Spegnere la pompa.» Durante tutta la manovra, Kurtz non si era mosso di un centimetro e Werner, accanto a lui, si nutriva del coraggio di quell’uomo, rimanendo impettito al suo
fianco. Anche Eno avrebbe voluto mostrare un po’ d’orgoglio, ma i muscoli non gli rispondevano. Impossibilitato ad alzarsi, rimase seduto sulla grata a losanghe di acciaio. Il respiro si fece meno violento e ricominciò a inalare aria con più controllo. «Andiamo per quarantacinque gradi, macchine al minimo» disse il Vecchio all’improvviso. «Non si aspetterà di trovarci lì.» «Cosa intende» chiese Kurtz inespressivo. Eno pensò che fosse in corso un gioco di nervi tra lui e il comandante. Una sfida a chi li aveva più saldi. Nessuno era disposto a cedere terreno e mostrare timore davanti all’altro. Forse i loro occhi potevano smentire questa loro risolutezza, ma esteriormente sembravano due giganti. Ettore e Achille impegnati in una sfida dai grandi risvolti storici. «Comincio davvero a pensare che ci stessero aspettando. Conoscevano la nostra rotta. Li ho visti lì in attesa a sbarrarci la strada. Quindi si aspettano che proseguiamo sulla nostra rotta e ci cercheranno proprio lì.» «Ma noi ce ne andiamo dalla parte opposta, alla chetichella» aggiunse il direttore. «A volte il loro orgoglio e la loro frenesia di ucciderci li rendeno stupidi.» «Speriamo lo siano davvero. Anche se è presto per giudicare.» Il Vecchio poggiò la schiena contro la paratia emisferica e chiuse gli occhi. «Per ora proseguiamo con questa rotta e vediamo.» I minuti arono senza che l’idrofonista rilevasse qualcosa. L’ultimo rapporto indicava che il cacciatorpediniere scadeva di poppa a centottanta gradi. Quindi, con la velocità di una lumaca, il sommergibile si stava svincolando dalla stretta del loro raggio di caccia. La pressione sui muscoli indolenziti diminuì minuto dopo minuto, quando la speranza si riaffacciò nella mente stanca di Eno. Tirò un grande respiro e rilasciò le braccia. Sentì il sangue riprendere il suo normale flusso, dal collo fin giù alle braccia, e il sollievo fu immediato. Cominciò a pensare di potersi alzare e ci provò. Si tenne a uno dei tubi sulla parete e ritrovò la posizione eretta. «Ore?» chiese il Vecchio.
«Le ventidue e quaranta, comandante» rispose Hollstein. «Però, ce ne hanno rubato di tempo. Werner, prenda appunti per un radiomessaggio; appena possibile informeremo il BDU dell’accaduto. È giunto il momento che sappiano che hanno una talpa all’interno.»
Capitolo 13
«È impossibile le dico!» Kurtz era paonazzo. L’ipotesi, sostenuta da Lüth, che ci fossero fughe di notizie dall’alto comando, lo faceva imbestialire. Dal momento in cui aveva scelto di indossare quell’uniforme, circa otto anni prima, aveva nutrito una profonda e incrollabile fiducia verso i suoi superiori e una quasi totale abnegazione verso il suo Reichsfurer Heinrich Himmler. Doveva proprio a lui l’onore della responsabilità di quella missione così cara al Reich. Ed era a lui che guardava come a un modello da seguire, un chiaro esempio di come dovesse essere un ufficiale delle Shutzstaffel. Quello era stato da sempre il suo cruccio fisso. Kurtz era nato e cresciuto a Wuetzburg, una città della Baviera. Quarto figlio di un impiegato delle poste e di una casalinga, aveva da subito dovuto fare i conti con le prospettive poco rosee di essere inserito nel mondo del lavoro senza un’adeguata educazione scolastica. I soldi necessari a mantenere i due fratelli maggiori all’università consumavano il già esiguo patrimonio famigliare. Per lui e suo fratello Leopold, non rimaneva che la possibilità di trovare un buon posto in una delle acciaierie della zona. Ma Kurtz la vedeva diversamente. Nel 1928 si era iscritto al Partito Nazionalsocialista dei Lavoratori, seguendo da vicino l’ascesa di colui che, cavalcando l’orgoglio ferito del popolo tedesco dopo la sconfitta della prima guerra mondiale, ne era divenuto il leader. L’insoddisfazione aveva preso ben presto possesso del suo cuore. A ventisei anni compiuti, aveva deciso che era giunta l’ora di dare una svolta alla sua vita e seguire le sue aspirazioni e ideali. Appartenere alla classe media, la classe operaia, non faceva per lui; così, nel luglio 1934, si era unito alle Allgemeine-SS, nella 1./56.SS-Standarte di Wuerzburg. La carriera nelle SS era stata rapida e felice. La sua totale abnegazione ai dettami del Nazionalsocialismo e il suo senso dell’onore, farcito da uno sprezzo del pericolo senza uguali, lo avevano spinto fino alle più alte cariche dell’esercito. Nel luglio del 1940 era stato promosso Huptsturmfuhrer e decorato con la Croce di Ferro di Prima Classe. L’anno successivo la sua divisione aveva assunto il
nome di SS-division Reich ed era stata spedita nei Balcani. Anche qui Kurtz aveva dimostrato il suo valore, meritandosi la Croce Germanica d’oro per i combattimenti sostenuti nell’area di Jelnja, durante i quali la mitragliatrice del suo plotone d’assalto aveva sparato oltre ventimila colpi in un solo giorno. Il 20 ottobre dello stesso anno, era stato promosso Sturmbannfuhrer della 2nd SS Panzer Division “Das Reich”. La sua casa, la sua unica famiglia. «Eppure non vedo altre spiegazioni» ribatté Lüth. «Sciocchezze. Non posso e non voglio credere a tali insinuazioni. Trattasi di pura coincidenza, signori. Solo pura e sfortunata coincidenza. Siamo intesi?» Fece scorrere lo sguardo sugli uomini seduti intorno al tavolino nel quadrato ufficiali. Lüth e Fleischmann lo fissavano senza dire nulla. Poteva però scorgere una piega all’angolo della bocca del comandante, segno inequivocabile della sua ostilità. Werner annuiva spocchioso, mentre Hollstein era poggiato con un gomito sul tavolo e si sorreggeva la testa come se quelle affermazioni lo avessero sconvolto. «Se gli uomini iniziassero a sospettare che la missione è compromessa, allora sarebbe la fine del nostro controllo, la disciplina cederebbe il posto all’anarchia. Non possiamo permetterlo.» «Ci sta suggerendo di rassegnarci e fingere che sia tutto a posto?» chiese Lüth con tono pacato. Quel tono, Kurtz lo decifrò come una conferma ai suoi sospetti. Il comandante aveva in mente qualcosa, di questo ne era sicuro. «Le sto ordinando di proseguire la missione come stabilito, comandante. Niente di più, niente di meno.» «E sia dunque.» Lüth si alzò dal suo posto e sparì in camera di manovra, rapido come una saetta. Gli fece seguito il direttore Fleischmann che si dileguò con una scusa. Il primo ufficiale tirò un lungo sospiro e, alzandosi, si congedò con un saluto. «Lei cosa ne pensa, Werner?» chiese Kurtz al giovane ufficiale.
«La penso esattamente come lei, maggiore» rispose tirando un’occhiata alla paratia della camera di manovra. Quando fu sicuro che nessuno stava prestando orecchio, continuò. «Dico solo che è sconveniente che un ufficiale si mostri debole davanti al suo equipaggio. Instillare il sospetto che i propri fallimenti siano dovuti a fattori esterni, o peggio» fece una smorfia di disgusto, «a un complotto ordito nei nostri uffici di comando, mi permetta, ma lo trovo oltraggioso.» Kurtz sorrise. Provava qualcosa di simile alla simpatia per quel ragazzo, era ispirato dai principi del Nazionalsocialismo come lo era stato lui da giovane e forgiato in qualche ottima accademia militare. Tuttavia era uno sciocco e, come tale, manovrabile a piacimento. Gli avrebbe fatto comodo averlo dalla sua parte. «Coraggio adesso, non doveva mandare quel radiomessaggio?» «Sì, certo» disse Werner come se se ne fosse dimenticato. «Con permesso.» «Mi chiedevo» lo fermò lui, trattenendolo per un braccio, «se non fosse il caso di sorvolare su questa spiacevole discussione. Sì, insomma, edulcorare un po’ il messaggio al BDU.» Werner spalancò gli occhi. Forse quel che gli stava chiedendo era troppo anche per lui. Poi il volto del ragazzo assunse un’espressione complice. «Sono io a capo di questa missione, Werner. È compito mio portarvi sani e salvi a destinazione. Ovviamente ci saranno delle onorificenze, e magari il comando di un sommergibile, chissà.» Gli occhi del giovane brillarono di avidità. A quanto pareva, essere il secondo ufficiale era un po’ come essere il quarto figlio di un postino della Baviera. Werner annuì, fece dietrofront e uscì dagli alloggi. Kurtz si disse soddisfatto. Era tempo di dare un’occhiata al carico. Poco dopo si soffermò a curiosare nella sala motori diesel. Il mastodonte di dritta era spento, lasciando l’onere del lavoro al suo gemello di sinistra. Come ogni volta in cui era obbligato ad attraversare la stretta erella tra i due motori, il frastuono metallico, lo stantuffare del diesel, l’odore della
nafta e dell’olio lubrificante lo trasportarono indietro con gli anni. Il ricordo dei giorni trascorsi a bordo del suo Panzer IV, in una condizione del tutto simile a quella attuale, lo fece sorridere. Certo, al contrario dei delicati Uboot, i Panzer tedeschi non avevano rivali sul campo di battaglia e la loro superiorità era dimostrata in termini di vittorie schiaccianti. Era irritante dover concedere così tanti fondi alla Kriegsmarine per la costruzione di nuovi sommergibili per rimpiazzare le numerose perdite, quando si potevano investire quei marchi sull’acciaio delle corazze e dei cannoni dei Panzer. La Polonia non era certo stata conquistata con gli U-boot, e l’operazione Barbarossa aveva richiesto un quantitativo sempre maggiore di mezzi pesanti, che erano in continuo ritardo a causa della dispersione dei fondi non più così illimitati del Terzo Reich. A ogni modo, Kurtz respirò quell’aria malsana, intrisa di effluvi maleodoranti, come fosse un balsamo raro e una punta di nostalgia lo colse impreparato. Fece qualche o sulla erella e, attraversando il portello, entrò nel locale degli elettromotori. Lì la situazione era ben differente. L’aria densa, creata dai gas di scarico, aveva lasciato spazio a quella più inconsistente, carica di elettricità statica. I due motori elettrici, progettati per funzionare a corrente continua fornita dalle batterie di bordo, erano apparati navali standard realizzati dalla Siemens. Tarati a 500 hp ciascuno, riuscivano a fornire al battello duecentottanta giri al minuto a 228 V e 720 A. Ciascuno di questi motori era collegato mediante un giunto a frizione all’albero motore diesel, immediatamente a proravia, mentre a poppavia era collegato all’asse portaelica. «Che diavolo succede qui!» disse, camminando a grandi i verso l’estrema poppa del sommergibile. Non appena lo videro arrivare, i suoi uomini scattarono sugli attenti. Gli sguardi colpevoli erano nascosti dalle visiere dei loro berretti di tessuto grezzo M43. Insieme a loro, tre dei meccanici addetti agli elettromotori si affrettarono ad alzarsi in piedi, ma non con la stessa solerzia delle SS. Uno di loro, il sottocapo Behrendt fece leva su una delle casse per alzarsi. «Sergente Keppler!» sbraitò. «Le lascio l’incarico di vigilare sul carico e lei lo trasforma in un bancone da osteria?» Le casse, impilate una sull’altra, erano state utilizzate come ripiano per poggiare
gli avanzi della cena. Alcuni piatti, posate e bicchieri mezzi vuoti erano ammonticchiati sopra il telo mimetico utilizzato come tovaglia. «Come se non bastasse, vi trovo qui impegnati in frivole chiacchiere. Lo trovo fuori luogo oltre che deplorevole.» Il tono si fece più calmo. Aveva imparato che non era il volume della voce a incutere timore nei suoi uomini, quanto il disprezzo infuso nelle sue parole. La bocca assunse una piega di disgusto per accentuare il suo biasimo. «Signore…» provò a giustificarsi Keppler. «Niente scuse, sergente» disse avanzando verso il carico. Con una possente manata rovesciò a terra le stoviglie che s’infransero sul pavimento metallico con un rumore che echeggiò per tutto il locale. «Mi aspetto una condotta ben diversa da questo momento in avanti. Siete uomini della Das Reich, non semplici marinai, da voi esigo un atteggiamento consono al buon nome della vostra Divisione. Sono stato abbastanza chiaro?» «Signorsì!» dissero in coro i tre uomini, cercando una postura quanto più adatta alla circostanza. Anche Löble, il magrolino sergente che tutti chiamavano «Corvo», si lasciò scappare un signorsì. Kurtz si voltò verso di lui, fulminandolo con lo sguardo. La gomitata di Kugler, il maresciallo responsabile degli elettromotori, mise a tacere il giovane. «Quanto a voi, signori, confido che le vostre visite siano limitate ai soli scopi di servizio» disse in tono severo. «Eravamo qui proprio per questo, signore» si giustificò Kugler. «Il compressore elettrico deve essere revisionato ora che siamo in immersione e…» «Fate ciò che dovete, dunque.» «Sì, signore.» Kugler diede di gomito a Löble che si affrettò a darsi da fare con il compressore. Intanto i due si ritirarono al sicuro dei motori loro affidati, togliendosi di torno. Quando anche il giovane Corvo ebbe finito, Kurtz tornò ai suoi uomini.
«Ispezione!» disse con tono solenne. Il controllo delle casse portò via il tempo necessario alla verifica dei sigilli e la solita procedura fu completata in pochi minuti. Kurtz si diede un’occhiata intorno, assicurandosi che non ci fossero ulteriori problemi. «Verrà qualcuno a ripulire. Quanto a voi, occhi aperti. Non tollererò altre mancanze, sergente. Ha capito?» «Sì, signore. Perfettamente!» «Molto bene.»
*
Kurtz tornò nell’alloggio ufficiali che era ormai notte fonda. Il sommergibile navigava placido trasmettendo una dolce vibrazione a tutta la struttura. La si poteva percepire meglio poggiando il palmo della mano sulla parete foderata di rovere del cilindro a pressione. Rimase qualche secondo in quella posizione, beandosi del piacevole tremore, almeno quanto della consapevolezza della sua autorità. Dare sfoggio di potere gli dava una perversa carica inebriante. Era sempre stato una sorta di gioco al gatto e al topo, in cui il ruolo del felino predatore gli riusciva del tutto naturale. Kurtz aprì lo sportello dell’armadietto dove erano stipati i suoi pochi indumenti e prese una piccola cassetta di metallo. La poggiò sulla sua branda, assicurandosi che non ci fossero occhi indiscreti in agguato. Davanti a lui, il direttore di macchina dormiva serenamente nella sua cuccetta. Fleischmann era un tipo in gamba, uno di quelli di cui potersi fidare in caso di necessità. I suoi unici difetti erano la lingua troppo tagliente e la sua eccessiva devozione per Lüth. Questo faceva di lui un avversario. Peccato, pensò, gli avrebbe fatto comodo un uomo della sua esperienza per il viaggio di ritorno. Inserì la chiavetta nella serratura della cassetta di sicurezza e aprì il coperchio. L’interno era foderato in velluto nero e, in un alloggiamento ricreato ad arte,
giaceva una sagoma di metallo brunito. Kurtz impugnò la sua Walther P38. La soppesò qualche istante, godendo della piacevole frescura che il metallo trasmetteva sulla pelle. Afferrò il caricatore e lo osservò attentamente: i proiettili in ottone scintillavano alla fioca luce della lampada. Fece per inserire il caricatore ma un rumore alle sue spalle lo costrinse a fermarsi. Coprì tutto con la coperta e si voltò di scatto. «Gradisce del caffè, maggiore?» chiese sottovoce un marinaio. Su un vassoio improvvisato teneva una decina di tazze di metallo. Kurtz annuì e ne afferrò una. Non aveva voglia di quella brodaglia, ma gli sembrò il modo più rapido per liberarsi di quello scocciatore. Il ragazzo salutò sorridente e si allontanò verso gli alloggi dei capi di seconda. Poggiò la tazza fumante sul letto, cercando di tenerla in equilibrio sulle coperte e ripose la pistola e il caricatore nella scatola di metallo. Chiuse la serratura e la nascose nell’armadietto sotto la camicia di ricambio. Tirò uno sguardo di sbieco alla tazza e l’afferrò. Ne prese un sorso e utilizzò quel liquido caldo per fare dei gargarismi. Immediatamente un grumo di catarro si sciolse, andando a posarsi sul palato. Kurtz si guardò intorno alla ricerca di qualcosa in cui espellere quel disgustoso ammasso viscido. Trovò un bicchiere semivuoto sul tavolino dove, poco prima, si erano raccolti in riunione e vi sputò dentro. Un denso grumo nero si allargò sul fondo. I depositi del carburante e di quell’aria viziata, inalati per tutto quel tempo, intasavano le vie respiratorie come cemento. Represse un moto di disgusto e abbandonò il bicchiere sul tavolino. Dei bisbigli nell’attiguo locale riservato ai capi di seconda attirarono la sua attenzione. Kurtz si sedette sulla branda sotto la sua e sorseggiò il caffè dal dubbio sapore. Gli occhi puntati sul fagotto che era il direttore di macchina ancora addormentato e le orecchie tese nel catturare la conversazione che stava avvenendo a pochi metri da lui. «Anche fosse, non mi riguarda. Io sono qui per mantenere l’ordine tra questi animali, il resto lo lascio a voi intelligentoni.» A parlare era il capo Falkenmayer. Il robusto nostromo sembrava poco interessato alle parole dei suoi compagni.
«Da’ retta, stavolta c’è qualcosa che ci viene nascosto di proposito» «Da quando un sergente deve essere a conoscenza dei piani del comandante? Non mi pare di averti mai visto pranzare nel quadrato, Thielen» lo schernì quello che Kurtz riconobbe come il sottufficiale di rotta Zielinski. «Da quando viene messa in pericolo la mia vita e quella di tutto l’equipaggio» rispose lui piccato. «Thielen ha ragione.» Rizzò le orecchie al suono di quella voce. A quanto pareva il capo Kugler si era allontanato dalla sua postazione ai motori elettrici per fare visita ai suoi colleghi. «Ha ragione da vendere» insistette Kugler. «C’è qualcosa che non mi quadra in questa missione, a partire dalla rotta che ci sta trascinando a sud, quando dovremmo essere nel mezzo dell’Atlantico a caccia di convogli. E poi c’è quel Kurtz.» «Parla piano» lo ammonì Zielinski. «L’ho visto andare a prua, starà ficcando il naso in qualcosa che non dovrebbe neanche riguardargli, e invece ce lo ritroviamo come responsabile di missione, capite? Una SS a bordo del nostro battello. Il BDU deve essersi bevuto il cervello se permette ai quei nazisti di venire a dare ordini persino qui.» «Ti ho detto di parlare piano o sei sordo?» Kugler tacque. «Tanto che me ne frega? Che ascolti pure» aggiunse dopo qualche secondo. «Che la missione sia toccata dalla malasorte è innegabile» disse il capo in tono placido. «Parliamoci chiaro, ho perso il conto delle crociere a cui ho partecipato e mai me ne è capitata una tanto sventurata già dalla partenza.» «Le persone muoiono, signori. Non scambiate la fatalità per malasorte» disse Zielinski. «Fatalità la chiami?» Kugler alzò la voce senza rendersene conto. «Hai visto le casse.»
«Le ho viste, sì, e allora?» «E allora? Quei sigilli e quelle rune naziste non mi piacciono per niente. Non mi fido delle loro diavolerie e, credetemi, vista la cura con cui montano la guardia al carico, devono nascondere qualcosa di davvero oscuro.» «… o magari prezioso» intervenne Falkenmayer. «Prezioso per loro, di sicuro.» «Non lo so, Paul» continuò Zielinski, «io non do troppo peso a queste sciocchezze da marinai di altri tempi.» «Come me la spieghi la tempesta, allora?» Thielen intervenne con un tono che mise a tacere tutti. In quelle poche parole aveva infuso una nota di mistero e sospetto. «La tempesta?» «Sì, quella in cui è morto Lexau. Ho sentito dire che Gustav Lexau fosse solito fischiare un motivetto durante le ore di guardia.» «Un motivetto?» chiese Falkenmayer. «Sì, una canzoncina, sai come, si mettono le labbra così e si fischia.» «Idiota, lo so cosa significa fischiare, cosa credi?» Si sentì un trambusto e qualche risatina sommessa. «Insomma, fischiettava, capite?» «Non proprio» rispose Zielinski. «Credo che si riferisca al fatto che fischiare a bordo possa attirare gli spiriti del mare» spiegò Kugler. «Doveva fischiare piuttosto male, allora» scherzò Falkenmayer. «Si dice che fischiare al mare attiri gli spiriti, convinti che il marinaio voglia misurarsi con il vento sfidandolo a duello» continuò la spiegazione Kugler. «Io
ci credo.» «Ma che sciocchezza è mai questa, dai Paul. Non ti ci facevo così superstizioso.» «Eppure è accaduto esattamente quello per cui stai ridendo. Il vento se l’è preso» intervenne Thielen mettendo tutti a tacere. Il silenzio sembrò durare minuti interi, finché qualcuno riprese. «Quelle casse hanno a che fare con quanto sta accadendo» riprese Thielen. «Prima Lexau, poi Reuter. Ora ci si è messo quel cacciatorpediniere, e chi sa cos’altro ci aspetta ancora.» «Non lo so, ti giuro che non so cosa pensare» disse Zielinski. «Capisco le vostre preoccupazioni, ma non me ne farei un cruccio. I morti sono morti, pensiamo ai vivi piuttosto e a come farli rimanere tali il più a lungo possibile.» «È proprio quello di cui sto parlando se non te ne fossi accorto» lo rimbrottò Thielen. «Sergente, un po’ di rispetto per un sottufficiale di grado maggiore, e che diamine!» Falkenmayer intervenne a placare la situazione. «Dove andremo a finire se un mamelucco come te si può permettere di rivolgersi a un suo superiore in questi toni?» «Chiedo scusa» finse di scusarsi Thielen. «Ma il problema rimane, e sarebbe bene che qualcuno di voi, ufficiali superiori, ne parlasse al comandante, prima che quel Kurtz ci faccia fare una brutta fine a tutti.» Kurtz poggiò la tazza ormai vuota sul letto e rimase a fissare la parete di fronte. La penombra nascondeva le forme, celandolo alla vista. Un marinaio entrò da prua e si avvicinò al fagotto di coperte che era il direttore Fleischmann. «Signore, sono le tre meno un quarto» disse, scuotendo la spalla dell’uomo addormentato. Fleischmann si girò verso di lui schermandosi gli occhi con la mano. «Arrivo subito» rispose, prima di fare un cenno di commiato al giovane. Con estrema lentezza si mise a sedere e si ritrovarono faccia a faccia.
«Buongiorno maggiore, ben svegliato» disse, stiracchiandosi allargando le braccia. A quelle parole, il silenzio negli alloggi accanto ai loro si fece di tomba. «Devo ancora coricarmi» disse lui con tono allegro. «Ero qui in meditazione. Non sa quante cose si apprendono semplicemente standosene seduti a riflettere.» Il direttore annuì senza interesse e si alzò sbadigliando. «Le auguro una buona giornata» disse lui, issandosi nella sua cuccetta. Tirò la tendina e di colpo la sua espressione mutò. Il sorriso forzato si tramutò in un ghigno rabbioso. La mascella si serrò facendogli scricchiolare i molari. Quegli sciocchi credevano di poter contagiare tutto l’equipaggio con i loro veleni scaramantici. Un’infezione di quella portata doveva essere epurata drasticamente e nel minor tempo possibile. Non poteva tollerare che gli uomini sospettassero, anche solo per sentito dire, che quanto accaduto fosse da imputare alla presenza del carico. Doveva agire quanto prima. Quel Thielen e quel Kugler erano le sue principali fonti di preoccupazione, al momento. La missione veniva prima di tutto, e se quei due avevano scelto di ostacolare il suo cammino, allora non avrebbe avuto freni a schiacciarli sotto i cingoli della sua determinazione.
Capitolo 14
Una leggera nebbia era calata da occidente coprendo con i suoi filamenti lattiginosi gli ultimi raggi di sole. La grossa palla infuocata si era rintanata dietro l’orizzonte e già a est la notte aveva preso possesso del cielo. La luce del sole si affievolì fino a scomparire, lasciando un riverbero verdastro che durò un battito di ciglia; appena un’illusione sulla linea dell’orizzonte. Le onde sciabordavano placide sulle fiancate, arrampicandosi sui cassoni con un ribollire di schiuma bianca. Il sommergibile navigava in emersione da pochi minuti, rischiando di mostrarsi all’ultima luce del giorno, quasi a voler sfidare la sorte. Sorte che, fino a quel momento, non aveva mostrato di essere favorevole agli uomini dell’U-boot 666. Le vedette se ne stavano silenziose, ciascuna intenta a perlustrare il suo quadrante. I binocoli puntati verso il mare alla ricerca di un segnale. Dopo due giorni relativamente tranquilli, in cui avevano avvistato poco altro che un branco di delfini, finalmente erano giunti in prossimità del luogo dove, secondo la comunicazione dell’alto comando, doveva trovarsi la nave appoggio. A turno, una delle vedette abbassava il binocolo per dare un’occhiata al cielo e riposare gli occhi. Per fortuna gli aerei nemici non si erano più fatti vivi e una pace irreale era calata all’interno del sommergibile. Nessuno a bordo era convinto che il pericolo fosse cessato, piuttosto quella silenziosa monotonia veniva interpretata come presagio di qualcosa di sinistro. Forse gli aneddoti marinareschi su come bisognasse aspettarsi sempre il peggio. se si voleva sopravvivere in mare, non erano poi così tanto infondati, pensò Eno. Aveva chiesto al comandante di poter effettuare un turno di guardia in plancia, o almeno di prendere una boccata d’aria fresca durante le ore di emersione. Il ventre di metallo cominciava a stargli stretto e le continue maldicenze sulla presenza a bordo di un menagramo iniziavano a spaventarlo. Da subito aveva avuto l’impressione di non essere molto gradito ai suoi compagni di stanza, non a tutti almeno. Non gli sfuggivano le occhiate di traverso che gli venivano lanciate quando pensavano che non stesse osservando, così come non gli
sfuggivano i gesti scaramantici che alcuni facevano al suo aggio. Il dubbio aveva preso possesso del loro cuore, soprattutto quello di Thielen, il grosso bavarese, ed era impossibile, a quel punto, dire o fare qualcosa per fargli cambiare idea a riguardo. L’alone di mistero sul carico e sulla presenza di un archeologo a bordo, unito al suo carattere introverso, aveva fatto il resto. A nord, un piccolo gruppo di gabbiani accompagnava il sommergibile come se volesse tenerlo d’occhio. Le ali battevano al ritmo del vento che sferzava il volto degli uomini in plancia. Che fossero spie degli inglesi? Fantasticò Eno. Magari avevano trovato il modo di usare i volatili come pattugliatori, un po’ come si faceva con i piccioni usati come postini. Aveva sentito storie su delfini addestrati a recuperare oggetti dai fondali, o su più fantasiosi piccioni bomba, cosa impediva al nemico di ammaestrare dei gabbiani a quello scopo? «Sta cambiando» disse Werner mentre osservava il cielo col binocolo. «Prego?» esclamò Eno, ritornando sulla terra dopo aver vagato nell’abisso dei suoi pensieri. «Il vento... sta girando da ponente.» Le sferzate di vento tiepido erano un toccasana. Soprattutto se paragonate a quelle gelide incontrate sulla costa portoghese. «Non sarà facile trovare quella nave con questa foschia, e tende a peggiorare» continuò Werner parlando senza staccarsi dal suo binocolo. «Se possono essere d’aiuto due occhi in più» propose speranzoso. Werner abbassò il binocolo e lo guardò come si guarda un bambino. Ovviamente non poteva aspettarsi di essere considerato uno dell’equipaggio, ma voleva rendersi utile in qualche modo, nonostante quegli sguardi riuscissero a farlo sentire superfluo e fuori luogo. «Certo, perché no!» esclamò Werner divertito. «Prenda.» Gli porse il binocolo e, inginocchiandosi sul portello, se ne fece mandare su un altro. Lo tolse dalla custodia e sputò sulle lenti che poi asciugò con un panno asciutto. Eno lo portò istintivamente agli occhi e si rese conto di non vedere granché bene.
«Metta a fuoco» disse Werner, aiutandolo a girare la rotella della messa a fuoco. «Meglio?» «Direi di sì» rispose, ora che l’orizzonte appariva più nitido. «Lo tenga sollevato sulle dita, non lo impugni. Avrà più stabilità e si stancherà di meno.» «La ringrazio.» Rimasero in silenzio per alcuni minuti. Le sentinelle fisse sui loro quadranti, Werner che scrutava il cielo e lui, che fungeva da jolly. Verso le sette salì in plancia anche il Vecchio, accompagnato dal sottufficiale di rotta, che chiese un aggiornamento. «C’è poco da dire, comandante. La nebbia sta salendo a prua ed è difficile vedere bene.» Werner ò il binocolo al Vecchio che diede una rapida occhiata nella direzione indicata dal suo secondo. «Siamo sulle coordinate, a duecentosettanta miglia dalla costa, deve essere qui da qualche parte. Ormai dovremmo vederla» disse Zielinski che cercava di scrutare l’orizzonte a occhi nudi. «Continuate» comandò il Vecchio mentre si sistemava sul corrimano del giardino d’inverno. «Prima o poi salterà fuori.» Il clima mite, tipico di quelle zone, attirava più gente in plancia che orsi col miele. Nessuno voleva rinunciare a prendere una boccata d’aria pulita soprattutto quando si poteva fare in sicurezza. Nessuno tranne i motoristi. Quelli preferivano are il loro tempo tra ingranaggi e lubrificante. Eno aveva sperimentato per un certo periodo la sicurezza di quei grossi mastodonti, con il loro movimento ipnotico e le vibrazioni potenti che ti scuotevano fin dentro il midollo; era arrivato al punto di considerarlo il suo posticino tranquillo. Ma quel tempo era ato. La tiepida brezza africana aveva preso il posto del caldo torrido della sala macchine e lo sciabordio delle onde del rombo dei diesel. «Laggiù» disse Freund, il caporale addetto al fianco di sinistra. «A trecento
gradi, da quella parte» enfatizzò indicando con la mano tesa. Tutti, in plancia, puntarono i binocoli in quella direzione. Una sagoma scura, più scura della notte, si stagliava in lontananza, esattamente dove aveva indicato Freund. «Ci siamo!» disse Zielinski. «Calma, signori» lo interruppe il Vecchio. «Dobbiamo essere certi che sia la Siren. Non voglio rischiare.» Il capitano prese di nuovo il binocolo da Werner e se lo incollò agli occhi. Rimase immobile per un minuto intero, poi lo calò piano. Gli occhi erano semichiusi, come se stesse valutando la situazione. «Ci immergiamo.» «Come?» chiese Zielinski. «Ci avvicineremo a quota periscopio e decideremo il da farsi quando avremo la certezza che si tratta dei nostri.» Eno attese che il Vecchio fosse sceso, seguito da Zielinski e, uno dopo l’altro, dagli uomini di guardia, poi s’infilò nel boccaporto. Dietro di lui scese Werner che si preoccupò di sigillare il portello con giri veloci del volantino. I comandi giunsero attutiti dal metallo della torretta, ma Eno riconobbe tutta la serie di ordinativi per l’immersione a quota periscopio. Quando mise piede sul pavimento della camera di manovra il sommergibile aveva già iniziato a scendere. Senza fretta stavolta, senza il solito trambusto di uomini che si accalcavano l’uno sull’altro. Il Vecchio sorrideva, segno che le cose stavano mettendosi bene finalmente. Alla fine erano giunti all’appuntamento nei tempi stabiliti e, con tutto quello che avevano ato, Eno non poté che esserne compiaciuto. Si trovò a fantasticare su come potesse essere mettere finalmente piede su qualcosa di meno traballante di un sommergibile. Poter respirare a pieni polmoni senza dover inalare la puzza di cavoli marci che, ormai, aveva invaso ogni centimetro quadro del ventre della balena di metallo.
Cercò di farsi un’idea di cosa li attendeva, dell’accoglienza che avrebbero ricevuto e del banchetto che, di certo, li aspettava a bordo della nave appoggio. Un tarlo, però, venne a rovinargli la festa. E se lui non fosse stato autorizzato a salire a bordo? Faceva parte di una missione segreta persino alle alte cariche del Reich, e se il comandante della Siren non fosse stato a conoscenza del loro reale obiettivo, non avrebbero rischiato di esporsi portandolo con loro. La voce del maggiore Kurtz ebbe lo stesso effetto di un pezzo di ghiaccio che scivola lungo la schiena. Eno trasalì, ricacciando nella testa ogni pensiero e speranza. «Ci sono novità?» chiese il maggiore, spazzolando il berretto con la mano. «Abbiamo avvistato quella che pensiamo sia la nostra nave appoggio» rispose il Vecchio, senza neanche degnarsi di guardarlo. Dissimulò trafficando con alcune carte sul tavolo da carteggio, cercando un punto preciso nella carta quadrettata. Posò l’indice su una linea tracciata a matita e annotò un appunto con una calligrafia minuta. «Quota periscopio raggiunta!» esclamò il direttore. «Bene, su il periscopio!» Lo sguardo del Vecchio non era mutato. Mostrava ancora quel sorrisetto beffardo. Dal tavolo da carteggio si voltò con un movimento fluido e si appoggiò alle manopole del periscopio come un ballerino che accompagna una signora in una sala da ballo. Si girò a destra e sinistra in quella danza volteggiante, finché non centrò qualcosa con il visore. Da quel momento rimase immobile, correggendo la visuale con millimetrici spostamenti della levetta della messa a fuoco. Tutti rimasero in attesa di un suo responso, augurandosi che quella inquadrata nel visore del periscopio fosse proprio la loro nave. Il Vecchio si staccò dall’oculare e sorrise amabilmente al direttore. «Senza ombra di dubbio è la Siren.» «Sempre che i Tommies non abbiano camuffato un incrociatore da mercantile» aggiunse sarcastico Fleischmann. «Allora sì che sarebbe una bella sorpresa.» «Una gran bella sorpresa, direi» disse cupo Hollstein. «Suvvia signori, quella è la nostra nave, dobbiamo solo farci belli e accettare il loro invito.» Il Vecchio fece scendere il periscopio e si posizionò dietro i due
timonieri. «Portateci su, abbiamo un appuntamento da onorare.» Eno ebbe un fremito. L’idea di lasciare il sommergibile per un po’ si era fatta strada nella sua testa e la paura che quella prospettiva fosse disattesa gli fece venire un crampo allo stomaco. Cercò nei volti degli ufficiali una traccia delle loro intenzioni, ma nessuno sembrava interessato a lui in quel momento. Osservando Kurtz ebbe l’impressione che quell’uomo fosse fatto di pietra e solo allora si rese conto che, da quando erano partiti, non lo aveva mai visto sorridere. Non gli piaceva il suo atteggiamento e non gli piacevano i pensieri che teneva celati dietro quella maschera severa. Il rombo dell’aria compressa diede il via all’emersione. In pochi secondi il sommergibile affiorò a pelo d’acqua con l’eleganza propria dei cetacei marini. Il portello fu riaperto e la guardia, come da rito, salì di fretta in plancia. Il Vecchio, stavolta seguito da Kurtz, si accodò agli uomini sulla scaletta. Eno rimase sotto il boccaporto, intimorito dalla presenza del maggiore e preoccupato che l’ansia di salire sulla Siren fosse troppo visibile sul suo volto. «ate la lampada da segnalazione!» esclamò qualcuno dalla plancia. Eno vide un marinaio schizzare via, tornando poco dopo con un oggetto simile a un grande binocolo di metallo. Glielo ò. Eno rimase impietrito sotto lo sguardo carico di aspettativa del ragazzo. A quel punto si rese conto che con il corpo ostacolava il aggio nella torretta e quindi, seguendo la prassi del aggio di mano, era lui ora a dover consegnare la lampada. Si risvegliò dall’intorpidimento e annuì. Vedendo i muscoli della mascella sul volto del marinaio che si rilassavano, capì di aver fatto la cosa giusta. «Allora questa lampada!» brontolò qualcuno di sopra. «Eccola» si affrettò a dire, mentre saliva gli ultimi pioli. All’imboccatura del portello, la consegnò a Werner che afferrandola con entrambe le mani la sistemò sul parapetto. Eno si tirò su, tenendosi in disparte dietro la fila di ufficiali rivolti verso babordo. La nave galleggiava placida, con la sua imponente mole appena
illuminata dalla pallida luna. Sembrava un veliero fantasma alla deriva nelle calme acque dell’oceano Atlantico. Werner schiacciò i tasti del riflettore e la luce del segnalatore apparve a sprazzi cadenzati. Uno lungo seguito da uno breve, poi uno corto e uno lungo, corto, corto, corto, lungo. Quando ebbe finito la sequenza del messaggio, Werner tolse le dita dai tasti e attese. Tutti fissavano la sagoma della nave, aspettando trepidanti la risposta. Eno si chiese se non si fe prima con un razzo di segnalazione, ma immaginò che la segretezza finora mantenuta, fosse di vitale importanza e usare un razzo sarebbe stato troppo audace con il buio della notte. Equivaleva a segnalare la loro posizione a tutta la flotta atlantica nemica. In risposta alle sue domande, un lampo di luce illuminò la notte. Poi un altro più breve e un altro ancora. La Siren stava rispondendo, finalmente. «Ben-ve-nu-to-u-6-6-6» ripeté sottovoce Werner, traducendo il messaggio ricevuto dal segnalatore della Siren. «Risponda con cortesia, Werner» disse il Vecchio, allegro come non mai. «Cerchiamo di fare buona impressione.» Il secondo spinse i tasti, rispondendo al benvenuto, e subito altri lampi di luce partirono dalla Siren. «Ci invitano ad abbordare» tradusse ancora. «Bene, molto bene, non facciamoli aspettare.» Il Vecchio ordinò di procedere adagio e subito il fumo azzurrino dei diesel sbuffò a poppa. Ci vollero varie accostate prima che l’U-666 si affiancasse di tribordo al mercantile. Vista da sotto, la fiancata della nave faceva impressione se paragonata all’altezza quasi nulla del sommergibile, tanto da credere impossibile di potervi salire a bordo. Da sotto si cominciarono a intravedere alcune teste affacciarsi al parapetto e qualche commento ironico giunse attutito dal rumore dei diesel in manovra. «Attenzione là sotto!» urlò qualcuno. «Vi stiamo gettando i parabordi, fate attenzione!»
«Fate salire Falkenmayer» disse il Vecchio. Il grosso capo equipaggio si tirò su con un’agilità impressionante e ridiscese sul pagliolato di coperta insieme a una squadra di marinai pronti all’abbordaggio. I parabordi furono calati in acqua dagli uomini della Siren e sistemati da quelli dell’U-666 tra il cassone di sinistra e la fiancata della nave. Ci fu un po’ di trambusto, dove Falkenmayer non risparmiò strigliate e pacche sulle spalle, finché tutti i parabordi non furono sistemati a poppa e prua. «Abbordaggio completato, comandante» urlò il Capo. «Bene» disse il Vecchio agli uomini in plancia, «non ci resta che aspettare che ci invitino a salire.» Si voltò verso gli uomini con espressione distesa. «Werner, voglio che lei e Hollstein veniate con me.» Ci siamo, pensò Eno. Quello era il momento della verità. «Il maggiore ovviamente ci farà l’onore della sua presenza e gradirei anche Fleischmann con noi. La sua conoscenza delle buone maniere è indiscutibile e non potremmo lasciare a bordo un tale gentiluomo» disse le ultime parole urlando nel portello in modo che il direttore potesse sentire. Da sotto giunsero dei brontolii incomprensibili. Eno si lasciò andare contro il parapetto. Era evidente che lui non fosse titolato a salire a bordo. In effetti la sua presenza sarebbe stata giudicata sospetta dagli ufficiali della Siren. «Signor Sartori, vuole farci la cortesia della sua presenza?» chiese il Vecchio. A Eno saltò un battito. Non gli sfuggì lo sguardo di disapprovazione di Kurtz. «Io…» riuscì a balbettare. «Io ne sarei onorato.» «Bene allora, preparatevi, signori, ecco la biscaglina. È da considerarsi un invito a salire, presumo.» Kurtz serrò la mascella ma non disse nulla. Era evidente che quella decisione,
presa d’impeto dal comandante, non gli andava a genio. Per lui la missione era fondamentale e ogni azzardo che la potesse mettere a repentaglio lo rendeva furioso. La scala di corda e legno venne trattenuta da Falkenmayer in modo che il gruppetto di ufficiali potesse salire lungo la ripida fiancata della nave. I giovani ufficiali non ebbero grandi problemi; neanche Kurtz ne ebbe, forte della sua preparazione nei reparti speciali delle SS, salì senza sforzo. Il Vecchio e il direttore salirono dopo di loro senza tentennare troppo, la vita da marinaio li aveva già messi alla prova con quel tipo di attività. L’unico a trovare difficoltà oggettive fu solo Eno. Complici i muscoli indolenziti e una paura atavica per le altezze, divenne lo zimbello degli uomini addetti al controllo del sommergibile. Lo stesso Falkenmayer cercò di dargli indicazioni e suggerimenti, non risparmiandogli la sua ironia. Una volta giunto al parapetto, venne issato a bordo da due marinai della Siren. Sbuffando mentre si asciugava il sudore col dorso della mano, si piegò su se stesso come se avesse appena completato la scalata di una vetta inarrivabile. «Lieto di avervi a bordo, signori!» Un uomo sulla cinquantina si fece avanti porgendo la mano al comandante. Il volto bonario, dalle tonde gote arrossate dal sole, e gli occhi azzurri e vispi gli conferivano l’aspetto di un padre di famiglia più che di un capitano di fregata. A dispetto della sua figura tozza, con qualche chilo di troppo, segno dello scarso dinamismo di quell’incarico, si presentava in una perfetta uniforme blu della marina, con due file di cinque bottoni dorati, il colletto bianco immacolato, e le quattro strisce dei galloni alle maniche. Sembrava appena uscito da una sartoria d’alta moda. «Sono Erich Müller, Fregattenkapitän della Siren» disse con aria festosa. Il Vecchio si affrettò a stringergli la mano, presentandosi a sua volta. «È un piacere signore, Josef Lüth, Kapitänleutnant dell’U-666.» Il Vecchio si voltò verso gli altri membri del suo equipaggio in attesa sul ponte. «Questi sono
i miei due ufficiali, i guardiamarina Hollstein e Werner, l’ Oberleutnant Fleischmann è il nostro direttore di macchina.» Il comandante Müller strinse cordialmente la mano a tutti e tre e posò lo sguardo sul maggiore e sull’unico, di quel gruppo eterogeneo, che indossasse abiti civili. Porse per primo la mano al maggiore Kurtz che l’accettò di buon grado, mostrando una presa ferrea; dopodiché volse il suo sguardo verso Eno. Rimase alcuni istanti in contemplazione della sua figura, poi gli tese la mano. «Temo di non riuscire a inquadrarla nei ranghi della Marina» disse con aria incuriosita. Il tono della sua voce si mantenne cordiale e i suoi occhi gentili si socchio appena, come se stesse tentando di ricordare dove lo avesse già incontrato. Non c’era traccia di sospetto in quell’espressione, ma semplice curiosità. «Mi chiamo Eno Sartori, sono un corrispondente di guerra» mentì. Per ogni evenienza, prima dell’imbarco a Saint-Nazaire, era stato costretto a imparare a memoria la favoletta del corrispondente, il maggiore preferiva non avere sorprese. Gli era stato consigliato, molto caldamente, di attenersi a quanto concordato e di stare lontano dal banco degli alcolici. Una cena gioviale poteva sciogliere la lingua del miglior doppiogiochista, ed Eno non era in grado di sostenere un interrogatorio da sobrio, figurarsi da ubriaco. «Un corrispondente civile?» chiese incuriosito Müller. «Sì, signore, sono impiegato presso il Volkischer Beobachter» disse, cercando di dissimulare l’imbarazzo per quella delicata situazione. «Ah!» esclamò eccitato il comandante. «Il giornale combattente del movimento Nazionalsocialista della grande Germania! Curioso che un italiano… perché lei è italiano, non sbaglio, vero?» Senza attendere la risposta Müller continuò. «Curioso che abbia scelto un giornale tedesco. Rimane comunque un’ottima scelta, mi creda, la migliore a parer mio.» Eno mostrò un sorriso di circostanza e annuì più volte. «Sa cosa disse Goebbels riguardo quelli come lei?» Per un istante il sangue di Eno smise di circolare. Le mani gli divennero improvvisamente fredde e ebbe la tentazione irrefrenabile di mettersele in tasca
per nascondere quel cambio d’umore. Il collo s’irrigidì e un brivido gli scese lungo tutta la schiena. Neanche le cariche di profondità, che aveva dovuto sopportare inerme, avevano agito così in malo modo sulla sua psiche. Lanciò un’occhiata al maggiore e capì che qualcosa non stava andando per il verso giusto. Se Müller si era preso la briga di citare Goebbels, il ministro della propaganda e gerarca del Terzo Reich, forse quelle voci sulla talpa all’interno del comando erano giunte fin lì. E se fosse proprio il comandante Müller, quell’uomo all’apparenza così onesto e sopra di ogni sospetto, la talpa che li aveva perseguitati? Era forse una trappola ben ordita in cui erano caduti come sciocchi? «Disse che qualunque persona che abbia ancora un briciolo d’onore dovrà fare molta attenzione prima di scegliere la professione di giornalista.» Il comandante Müller eruppe in una fragorosa risata alla quale si unirono gli altri ufficiali della Siren e ben presto anche quelli dell’U-666. Eno riuscì solo a mostrare un sorriso forzato, credeva di dover svenire da un momento all’altro. «Suvvia, Sartori, stavo solo scherzando, come siete permalosi voi giornalisti.» Müller lo afferrò per un braccio e lo tirò verso una paratia. «Prego, da questa parte, signori. Il tenente Lorenz vi farà da guida. Comandante Lüth, la prego, mi faccia compagnia. Avrà tante cose da raccontare.» Il Vecchio sorrise, facendo buon viso a cattivo gioco. Il piccolo corteo entrò nella paratia e fu scortato verso un ampio salone dalle pareti di legno di rovere. Ai muri erano appesi quadri raffiguranti velieri settecenteschi che sfidavano le onde e ampi specchi che davano l’impressione che quella sala fosse molto più grande. Sul pavimento erano disposti dei tappeti persiani e sopra di essi comode poltrone di pelle scura. A un lato, accanto a un divano anch’esso di pelle, un tavolino di cristallo serviva da banco per gli alcolici. Disposte in buon ordine si potevano vedere varie bottiglie di cognac, brandy, whisky e chissà cos’altro. Eno soffocò un sospiro pensando che avrebbe dovuto evitare quel lato della sala. «Prego, mettetevi comodi, stiamo disponendo che vi venga servita una cena di benvenuto quanto prima» disse il giovane ufficiale. «Vogliate intanto gradire un bicchiere di benvenuto.»
Eno non poté fare a meno di notare la netta differenza di abbigliamento tra i due gruppi. Da un lato gli ufficiali della Siren sembravano damerini imbellettati nelle loro splendide uniformi appena stirate; dall’altro, loro dovevano aver dato più l’impressione di una compagnia trasandata di guitti, che di ufficiali della Marina da guerra tedesca. «Prima di sedersi a tavola gradisce un cognac?» chiese il tenente Lorenz al Vecchio. Lui annuì senza mostrare molto interesse per quanto gli si parava davanti. Eno immaginò che il Vecchio ne avesse visti di posti come quello durante la campagna pubblicitaria del regime. I salotti tedeschi lo avevano accolto come un eroe e Josef Lüth aveva fatto buon viso a cattivo gioco per molto, troppo tempo a giudicare da come si sentiva a casa a bordo del sommergibile. Quella era la sua vera casa, l’unico posto al mondo dove voleva e doveva essere. Eno lo aveva compreso osservandolo attentamente. Ora, in quel luogo, il suo sguardo era spento, segno di un ritorno al ato che non condivideva troppo. «Gradisce?» chiese Lorenz. «Oh no, grazie, non bevo» rispose, maledicendo Kurtz. Il giovane ufficiale ò oltre e, ben presto, Eno fu l’unico senza calice. «Brindo al capitano Lüth, al suo U-boot e alla grande Germania, con l’augurio di una rapida risoluzione di questa guerra. Ovviamente» aggiunse Muller gioviale, «brindiamo alla vittoria, che sia chiaro!» «Ci mancherebbe altro» disse Werner raggiante mentre alzava il calice. «Gliele stiamo dando di santa ragione, non è vero, comandante?» «Di santa ragione» rispose il Vecchio senza troppa convinzione, «sì, direi di sì.» «Ottimo, ottimo! Non sa quanto mi piacerebbe partire con voi e piantare qualcuno di quei siluri nelle carene dei loro mercantili. Dev’essere un’esperienza tonificante.» Il Vecchio alzò lo sguardo, sembrava assente, come se non stesse ascoltando. Poi parlò. «Sono spiacente, signore, ma temo che a bordo ci sia una sola cuccetta a
disposizione del comandante, sarei costretto a relegarla nella camera di prua col resto dell’equipaggio.» Per un istante si creò il silenzio nella sala. Il direttore Fleischmann lanciò un’occhiataccia al Vecchio che lo fulminò sul posto. In altri luoghi, in altre sedi, rivolgersi a un ufficiale superiore in quel modo avrebbe comportato ripercussioni. Ma la Marina era differente. La Marina chiudeva un occhio su quel genere d’insubordinazione. Müller lo sapeva bene e, come se avesse appena ascoltato una barzelletta divertente, proruppe nella sua solita risata. «Nella camera di prua… lei è davvero esilarante, Lüth. Credo proprio che avremo molto da raccontarci.» In quel momento entrò un attendente. Si mise sugli attenti e annunciò che la cena stava per essere servita. Vennero condotti in una sala attigua, del tutto simile alla prima, che conservava lo stile marinaresco pur con qualche licenza più moderna, tipica del nuovo stile in voga in quegli anni. La carenza di legno, e il divieto di utilizzarlo per il mobilio, aveva dato il via a una sperimentazione per i nuovi arredi. Le linee pulite ma morbide e i numerosi dettagli lussuosi rendevano quella stanza una vera opera d’arte. Eno si stupì di trovare tanto lusso a bordo di un mercantile, seppur mascherato per le esigenze di guerra. Furono fatti accomodare a un grande tavolo dal ripiano in vetro e dalla curiosa struttura sottostante che partiva da un unico asse centrale. La tavola era imbandita di tutto quello che si potesse desiderare dopo giorni di dieta a base di carne di maiale, patate, crauti e insaccati vari. La frutta fu quello che stuzzicò di più il suo appetito. Vassoi carichi di arance, mele, uva, e vari tipi di frutta esotica autoctona facevano bella mostra di sé accanto a piatti di affettati freschi, formaggi e piccole ciotole colme di curiose salse colorate. Eno pensò che c’era da perderci la testa, e forse anche la salute. La conversazione a tavola si mantenne su toni colloquiali; il capitano Müller non si sbilanciò mai con domande personali o troppo riservate per i suoi parametri. Questo stato di cose favoriva gli uomini dell’U-666, che non dovevano pensare a difendersi e potevano gustarsi la cena senza pensieri. Tra la prima e la seconda portata, il Vecchio volle conoscere la storia della Siren. Pura curiosità a sentire lui, ma Eno sospettò qualcosa d’altro. Non era stato più
lo stesso da quando aveva messo piede su quella nave. Sembrava invecchiato di dieci anni e il viso aveva assunto un colorito pallido ed emaciato. Lo stesso non si poteva dire per i suoi ufficiali e persino per Eno. La visione di quel lusso e del cibo li aveva rinvigoriti al punto da dimenticare le buone maniere. Si erano lanciati sulle pietanze come se non mangiassero da giorni. Anche Werner, impeccabile nelle sue movenze da cadetto, aveva perso un po’ dei suoi modi raffinati. «Quindi siete qui da quanto?» chiese il Vecchio mentre, con le punte della forchetta, spostava un pezzo di vitella da una parte all’altra del piatto. «Da troppo tempo. È dall’inizio del conflitto che il governo ci ha relegato qui. Non le nascondo che cominciavo a pensare di essere stato dimenticato. Le notizie ci giungono frammentate. Come ben sa, comunicare con il comando comporta dei seri rischi per noi che siamo sotto copertura.» Eno si chiese come avrebbero potuto giustificare un tale lusso nel caso un incrociatore alleato avesse intercettato e posto sotto ispezione la Siren. «La Siren» continuò, «o meglio la Nave 17 nel codice della Kriegsmarine, venne acquistata dal governo tedesco da una compagnia di navigazione argentina, proprio in previsione dell’imminente guerra. Ovviamente sono state apportate delle sostanziali modifiche strutturali rispetto ai mercantili standard che uscivano dai loro cantieri. La nostra nave è più simile a un incrociatore che a un cargo, sa?» «Davvero?» chiese incuriosito Hollstein. «Accidenti, sì!» rispose carico di buonumore Müller. «Sono stati rafforzati i ponti in modo tale da consentire il posizionamento di quattro pezzi da centocinquanta e tutta una serie di mitragliere contraeree. In caso di attacco, siamo pronti a vendere cara la pelle, ma ahimè, queste acque sono relativamente tranquille per il momento.» «E come vi comportate in caso di avvistamento di un’unità nemica?» chiese Eno incuriosito a sua volta dalle spiegazioni del comandante. «Eccolo il mio giornalista! Sapevo che prima o poi la sua curiosità si sarebbe fatta viva.» Müller sembrava estasiato da quelle domande e dalla compagnia. La noia dei mesi ati in attesa di ordini doveva averlo fiaccato, al punto da
eccitarsi persino davanti a un manipolo male in arnese come il loro. «A bordo teniamo nascosta una buona dotazione di carpenteria. In caso di necessità, possiamo trasformarci in un incrociatore da guerra, o in un innocuo mercantile neutrale.» «Maestri dell’illusione» disse Eno, piegando la testa da un lato in segno di approvazione. «Ecco un bel titolo per un articolo. Lo tenga a mente e si ricordi di noi quando questa guerra sarà finita.» Eno scambiò un sorriso complice con il comandante. Dare corda alla vanagloria dei militari era fin troppo semplice. «Comandante» disse il Vecchio a un tratto. «Credo sia il momento di iniziare l’operazione di approvvigionamento.» «Stia comodo Lüth, se ne stanno già occupando i miei uomini. Avrà modo di sovrintendere alle operazioni di rifornimento del carburante, lasci fare a loro il lavoro sporco. Credo che il suo nostromo possa occuparsi di qualche cassa di viveri anche senza di lei, no?» «Sì, certo» rispose il Vecchio con un sospiro. «Ma torniamo a noi, raccontatemi com’è andato il viaggio.» Gli occhi di tutti saettarono dall’uno all’altro, in cerca di sostegno e complicità. A nessuno doveva sfuggire il vero scopo della loro missione e di quanto accaduto fin ora. Alla fine fu il Vecchio a parlare. «Solite noie nel golfo di Biscaglia, gli inglesi si sono fatti più audaci ultimamente» disse sintetico. «Capisco. Quel Göring dovrebbe mettere più impegno nel dare la caccia ai Tommies e invece…» Müller tacque, evidentemente accortosi di essersi spinto troppo in là. Colse l’occasione al volo per cambiare discorso. «E lei, maggiore? Cosa ci fa un ufficiale delle nostre SS a bordo di un sommergibile, in queste acque per giunta. A parte una battuta di pesca d’altura, ovviamente. Qui non ci sono grandi operazioni militari al momento.»
Kurtz si pulì la bocca con il tovagliolo e lo depose delicatamente sulla tavola. Attese qualche istante prima di parlare. «Sono incaricato di sovrintendere all’addestramento dell’equipaggio» disse senza nessuna traccia di nervosismo nella voce. «Si spieghi meglio» lo incitò Müller. La curiosità del comandante aveva preso il sopravvento ed era ormai a briglia sciolta. Eno si agitò sulla sedia spostando il peso da un lato all’altro. Non sarebbe stato semplice schivare le sue richieste e i chiarimenti. «La Kriegsmarine, in accordo con i reparti delle Waffen-SS, sta portando avanti un progetto interforze. Nell’evenienza di un abbordaggio, l’equipaggio deve possedere almeno i requisiti minimi di conoscenza delle tecniche di ingaggio oltre a saper rispondere al fuoco in modo decisivo.» Kurtz parlò con la sua solita calma serafica che, ovviamente, nascondeva una certa irritazione. Quando ebbe finito, rimase a fissare il comandante in attesa di altre domande. Ma non ve ne furono, Müller parve bersi quella serie di bugie come il vino rosso che stava tracannando. «L’avessero proposto ai miei tempi, ne avremmo risparmiate di legnate. Ci si arrangiava con mazze, mezzimarinai e quanto si poteva trovare a bordo. Ottimo… davvero ottimo.» Eno non capì se stesse parlando del vino, o di altro. La conversazione si mantenne su questi toni per circa un’altra oretta. Erano ormai le nove, quando Fleischmann si congedò con la scusa di controllare che il rifornimento di carburante fosse a buon punto. Eno si spostò sul ponte, accompagnato da Lorenz, da Werner e da atri due ufficiali della Siren: Keller e Sauer, se non aveva capito male, due guardiamarina di bell’aspetto con ampie spalle e occhi azzurri come il cielo. Evidentemente il capitano Müller aveva l’abitudine di scegliere i suoi ufficiali tra i candidati di pura razza ariana. Gli vennero offerte delle sigarette e Keller, nascondendo qualcosa nella mano, si avvicinò a lui con atteggiamento furtivo. Tese la mano mostrando un pacchetto bianco con un cerchio rosso al centro. «Ne prenda una, non si trovano tanto facilmente queste» disse cauto.
«Sono sigarette americane» trasalì Eno. «Lucky Strike, molto in voga tra i militari. Alcune signorine tedesche farebbero follie per tenerne una tra le labbra.» «E poi magari anche qualcos’altro!» intervenne Sauer dandogli di gomito. Werner rise di gusto e ne afferrò una. «È permesso fumare a bordo? Sì, cioè, non si corre il rischio che qualcuno veda la luce da lontano?» chiese Eno a disagio. «E chi potrebbe mai vederla? Qui non ci vengono a trovare neanche i gabbiani, di cosa c’è da aver paura? Ne prenda una, coraggio!» Eno ne prese una e se la rigirò tra le mani. Non era un fumatore, ma qualcosa l’aveva spinto ad accettare quel gesto cortese. «Dispiace se la fumo più tardi?» chiese infilando la sigaretta nel taschino della giacca. «Come crede.» L’ufficiale rovistò nella tasca dei pantaloni e tirò fuori un pacchetto di cerini. Eno lo vide armeggiare con uno di quei legnetti dalla testa rossa e, quando la fiammella si accese, tirò una generosa boccata. Un denso fumo azzurrino si alzò verso il cielo. Keller gli tirò la scatolina ed Eno l’afferrò al volo. «La tenga, le sarà utile.» Eno ringraziò e si sporse oltre il parapetto, poggiando i gomiti sul rinforzo di legno. Era una magnifica serata, tiepida e quieta. Da sotto, la voce del capo Falkenmayer giungeva come se stesse parlando all’interno di una cassa di risonanza. In piedi sul ponte, il nostromo e il direttore stavano osservando le operazioni di rifornimento di carburante. Due marinai stavano alando i manicotti della nafta collegati alle cisterne della Siren e li allacciavano alle loro. Era un’operazione complessa, ma tutto si stava svolgendo nel migliore dei modi. Eno lo percepiva dalle urla del capo; finora non si era lasciato andare a insulti o dolorose pacche, quindi le cose stavano procedendo secondo i suoi piani. Il portello della cambusa era aperto e il cuoco Rau faceva capolino a intervalli di pochi secondi, per far scendere sottocoperta scatole di provviste. La maggior
parte degli approvvigionamenti era ancora accatastata sul pagliolato di poppa e molte casse di legno erano state spostate a prua per agevolare il trasbordo. «Sembra che se la stiano cavando bene» disse Eno, continuando a fissare il via vai di uomini sul ponte. Werner gli si affiancò e lanciò un’occhiata in basso. Il fumo della sua Lucky Strike riempì le narici di Eno e poi si allargò fino a svanire. «Il direttore sa il fatto suo. Avrà il suo bel da fare per bilanciare i pesi, ora che stiamo stivando tutta quella roba. Niente viene stipato in un punto del sommergibile senza che lui abbia dato il consenso, lo sapeva?» «Me ne sono fatto un’idea.» «Signori, prego» intervenne Lorenz con una cortesia degna di un maggiordomo. «Gradite fare un bagno?» I due si guardarono indecisi. La prospettiva di un buon bagno ristoratore era senza ombra di dubbio più allettante della cena appena consumata, ma cosa ne avrebbe pensato il comandante? «I vostri uomini hanno avuto il permesso di lavarsi a gruppi a bordo della Siren, se fossi in voi approfitterei senza complimenti.» Era dalla loro partenza da Saint-Nazaire che non aveva avuto modo di lavarsi a dovere. L’acqua dolce a bordo era poca e andava centellinata per bere. Quanto a quella salata, avevano a disposizione delle saponette apposite per l’acqua di mare, ma Eno aveva l’impressione che servissero a poco e inoltre lasciavano sulla pelle una densa patina oleosa. Quello di cui aveva bisogno era un bagno, senza ombra di dubbio. «Beh, non sarebbe…» Non seppe dire cosa fosse. Qualcuno lo chiama sesto senso, o istinto di sopravvivenza. Eno ammutolì e si voltò verso il mare aperto. «Cosa c’è?» chiese allarmato Lorenz. «Sssh, ascolti» lo zittì Eno. «Non sente?»
Il volto dell’ufficiale, così come quello degli altri sul ponte, si fece improvvisamente pallido. «Motori!» disse Eno allarmato.
Capitolo 15
La sirena prese a suonare con un fragore raschiante simile a quello di una sega a nastro. A bordo della Siren l’allarme fu immediato, lasciando in tutto l’equipaggio un senso di smarrimento e incapacità di dare un significato a quel suono. Nella concitazione del momento, Eno ebbe il tempo di riflettere sul fatto che quegli uomini dovevano essere stati abbandonati in quel luogo da troppo tempo ormai, così tanto da dimenticare il suono di un allarme aereo. Immaginò, mentre si faceva largo tra gli ufficiali sul ponte, seguendo Werner giù lungo la biscaglina, che con ogni probabilità il capitano Müller stava minimizzando l’accaduto, invitando i suoi ospiti a bere con lui un altro calice. Era arrivato a metà della scaletta di corda, quando vide il Vecchio scavalcare il parapetto e mettere piede sul primo gradino di legno. Forse Müller non era stato poi così convincente. Per un attimo il suono della sirena fu confuso con quello più cupo dei motori di un aereo. Pochi istanti dopo, una sagoma nera li sorvolò rombando. Le grida a bordo iniziarono a farsi sempre più concitate, tanto da non riuscire a capire cosa si stessero dicendo lassù in cima. Eno percepì solo poche parole che bastarono a formare un’immagine già vista in ato. Un’immagine che riportava alla memoria paura e sofferenza: quella di un B-24 Liberator. Come se quel nome potesse evocare i suoi più oscuri incubi, il tonfo sordo dei proiettili iniziò a tempestare la fiancata della nave. Il suono, quasi liquido di quelli che si perdevano in mare, si alternava a quello più cupo degli impatti contro la carena, dove lasciavano grosse escrescenze a forma di fiore nel metallo. Eno insaccò la testa e si affrettò a scendere con più decisione. Per un momento pensò di lasciarsi andare, sperando di essere ormai a pochi i. Proprio mentre ragionava su quella possibilità, toccò con il piede il pagliolato del sommergibile. La presa sicura del capo Falkenmayer lo spostò di lato di modo che i più agili
marinai di mestiere potessero scendere a loro volta. Subito dopo discese il Vecchio, seguito da Kurtz e Hollstein. Il Vecchio non se lo lasciò ripetere due volte. Alzando un braccio, per farsi vedere da tutti, gridò: « Auf Gefechts-stationen!» Ai posti di combattimento. Una frase che non ammetteva repliche ma, proprio mentre cercavano di arrampicarsi sui pioli di metallo della torretta, un rombo cupo li travolse. Tutto divenne confuso, come se fossero stati sballottati da un’enorme centrifuga. Il mondo perse i suoi normali contorni e persino i colori si mischiarono, assumendo toni scuri e opachi. Eno tentò di aprire gli occhi e si trovò a combattere contro il desiderio di lasciarsi andare al sonno; un sonno innaturale, qualcosa di più simile alla morte. Lottò contro la tentazione di scivolare nel nulla e mise a fuoco la scena nella quale si trovava. Nessuno accanto a lui era più in piedi, gli uomini dell’U-666 erano stati sbattuti a terra, qualcuno sanguinava, qualcuno urlava frasi incomprensibili. Tenendosi una mano contro la tempia, cercò di mettersi in ginocchio per trovare il modo di decifrare quella situazione così sconvolgente, ma quello che vide lo disorientò ancora di più. La fiancata di tribordo della Siren era completamente squarciata da una grande falla di poco sopra la linea di galleggiamento. Per qualche motivo legato alla fortuna, il sommergibile era stato risparmiato da quel colpo mortale che aveva centrato il ben più esposto fianco della Siren. Grandi macchie color metallo lucido punteggiavano la murata, indicando con precisione dove avevano colpito le mitragliere del B-24. Qualcuno lo afferrò bruscamente per il braccio e lo fece alzare in piedi. «Lei viene con me» disse Kurtz burbero. Lo trascinò lungo il ponte, fin sopra la torretta, proprio nel momento in cui il rombo del motore del B-24 tornava a farsi sentire. Fortunatamente per loro, dal lato di babordo, la grossa sagoma della nave copriva completamente la loro. Le mitragliere ripresero il loro tuono mortale.
«Laggiù!» urlò qualcuno, poco prima che Eno si chinasse per entrare nel boccaporto. Un’occhiata rapida verso il punto indicato bastò per fargli fermare il cuore. Al chiarore della luna, l’imponente sagoma di una nave se ne stava immobile a poca distanza da loro. Era giunta silenziosa come uno spettro e, con il riverbero celestino della luce lunare, aveva tutto l’aspetto di una nave fantasma. Quella visione gli rimase fissata nella retina persino dopo che fu sceso in camera di manovra.
*
«Pronti per l’immersione!» urlò Josef in tono pressante. Hans e Werner si diedero da fare con gli sfoghi d’aria, il caos regnava sovrano in camera di manovra e non c’era tempo di aspettare gli addetti a quella mansione. Josef si guardò intorno, assicurandosi che tutti fossero saliti a bordo. Fece una conta mentale, cercando quelli che ricordava di aver visto in coperta. La testa gli pulsava per il frastuono e probabilmente per un trauma da caduta. Ricordava solo di aver riaperto gli occhi, trovandosi incastrato tra le sbarre del giardino d’inverno, proprio sotto la mitragliatrice antiaerea. Nella concitazione aveva perduto il suo cappello bianco, ma in quel momento non era la cosa primaria, anche se una parte di sé sarebbe andata perduta per sempre. Vide scendere dalla scaletta l’archeologo, seguito a ruota dal maggiore Kurtz. Solo in quell’istante si rese conto che non c’era traccia di Hollstein. «Qualcuno ha visto Hollstein?» chiese agli uomini che si affrettavano per raggiungere le loro postazioni di combattimento. Nessuno rispose. Solo Hans scambiò un’occhiata preoccupata. Josef non perse tempo, si lanciò sulla scaletta e salì i pioli tre alla volta; dietro di lui, le urla di Hans si persero nel fragore dei combattimenti. Non appena tirò la testa fuori dal portello, fu investito da un’onda innaturale,
probabilmente provocata da un’esplosione. Quei maledetti ci stavano andando giù pesante, scaricandogli addosso tutto il loro arsenale. Dovette chiudere gli occhi quando gli spruzzi d’acqua lo investirono. Non appena la pioggia di schizzi gelidi ò, gli si parò davanti una scena apocalittica. La Siren era completamente squarciata all’altezza del mascone e anche a poppa le cose non andavano meglio. Pennacchi di fumo grigio si alzavano da numerosi incendi e parte dell’equipaggio si stava accalcando contro le scialuppe di salvataggio. Vide qualcuno gettarsi in mare in preda all’isterismo mentre le fiamme lo consumavano. Un colpo sordo lo fece tremare, quando il corpo in caduta libera colpì pesantemente il pagliolato di prua. L’uomo non si mosse più mentre le fiamme continuavano la loro opera divoratrice. A terra, sul pavimento della plancia, c’erano due corpi accasciati. Uno dei due era del caporale Grimm, addetto alla radio e ai timoni di profondità. Un ragazzo di poco più di vent’anni, ora riverso nel suo steso sangue, abbracciato a quello che rimaneva di un altro marinaio impossibile da riconoscere. Cercò riparo dietro il parapetto di tribordo e osò uno sguardo rapido all’infuori. L’acqua ormai aveva quasi del tutto coperto il ponte di prua e iniziava a salire lungo la torretta, doveva fare presto. Un lampo lontano, seguito da un tuono attutito, fu il preludio dell’esplosione che squassò la Siren poco sopra la linea di galleggiamento. Lo spostamento d’aria scosse il sommergibile facendolo allontanare dalla fiancata della nave con un’angolazione pericolosa. «Hollstein!» chiamò a gran voce nel frastuono della battaglia. Poi lo vide. Karl Hollstein stava rannicchiato sotto l’affusto spaccato del cannone da 88. Il ragazzo indossava ancora il suo cappello blu e lo fissava impietrito. La gamba era maciullata e perdeva molto sangue. Probabilmente un colpo di mitraglia l’aveva centrato in pieno. «Comandante, scenda giù, presto, stiamo per immergerci!» la voce di Werner lo distolse da quella scena. «Dobbiamo aiutarlo, Werner» rispose, prendendo il guardiamarina per il braccio
indicandogli il corpo di Hollstein steso pochi metri più a prua. «Dobbiamo andare, non c’è più tempo.» Werner lo strattonò tirandolo nel portello. L’acqua ormai stava salendo e cominciava a ribollire. Il corpo del guardiamarina fu sballottato contro l’affusto di metallo e rovesciato al suolo come fosse di pezza. Il reflusso lo trascinò in mare. L’ultima cosa che Josef vide fu l’espressione di puro terrore del ragazzo mentre veniva risucchiato nell’acqua nera. Josef soppresse un moto d’ira, maledicendo tra sé quell’assurda situazione, poi scese qualche piolo della scaletta e chiuse il portello proprio mentre l’acqua risaliva lungo la torretta e iniziava a sommergere la plancia. Scivolarono in camera di manovra dove erano state accese le luci d’emergenza. Caddero pesantemente sul pavimento e rimasero accucciati uno sopra l’altro. Werner lo teneva stretto, quasi avesse paura che il suo superiore potesse fare qualche gesto inconsulto. «Può lasciarmi, adesso» disse soffocando la collera. Il guardiamarina aprì le braccia liberandolo dalla stretta. «Stiamo scendendo troppo lentamente» disse Hans, concentrato sul profondimetro. Il direttore di macchina aveva preso il posto di uno dei timonieri. Solo in quel momento, Josef si rese conto che una parte degli uomini era ancora a bordo della Siren. Non avrebbe dovuto acconsentire a permettere che si lavassero. Si maledisse per quella scelta scellerata. «Dove diavolo è Höger?» urlò Hans, girando la testa verso il portello di prua. Josef si alzò con difficoltà. Le gambe lo sorreggevano appena, ma si sforzò di darsi un contegno. Accanto a lui, il maggiore Kurtz faceva da scudo a Sartori. Almeno quello doveva concederglielo. Anche se per puro interesse personale, visto che l’archeologo faceva parte integrante del suo piano, se ne era preso cura, riportandolo sano e salvo a bordo. Fece qualche o, riacquistando il suo «piede da marinaio» e si accostò ad Hans. «Grimm è andato, non possiamo fare affidamento su di lui per i timoni» disse
con voce sommessa. Si rivolse agli uomini affacciati al portello di prua. «Trovatemi Tewes e Dietze… sperando che non siano stati tanto sciocchi da cedere alle lusinghe di un bagno caldo.» «Chi altro?» chiese Hans. «Hollstein. Non ho potuto fare niente per lui.» Josef riportò alla memoria l’espressione da incubo del giovane. Nei suoi occhi aveva letto tutta la consapevolezza di quanto stava per accadergli. Non poté far altro che immaginare il terrore provato nel vedere il tuo stesso sangue lavato dall’acqua che si sta alzando sempre di più, finché il mare non ti sballotta e ti rovescia gettandoti fuori bordo. Le gambe non ti reggono e le braccia non bastano per rimanere a galla. L’uniforme bagnata è un peso insopportabile e ti trascina giù, sempre più giù, negli abissi. «Voglio un rapporto sulle perdite e sui danni, subito!» L’ordine venne raccolto da Werner che schizzò via come una lepre. «Siamo a quindici metri, comandante» disse Hans. «Scendiamo a cinquanta, motori pari avanti tutta. Dobbiamo toglierci di qui alla svelta.» «E i superstiti?» chiese Sartori dal fondo della camera. Josef si voltò verso di lui. Il piccolo archeologo era quasi interamente coperto dalla sagoma in penombra di Kurtz. Notò l’espressione indurita del maggiore e capì immediatamente che non ci sarebbe stata possibilità di trovare un accordo per recuperare i naufraghi. Per quell’uomo c’era un solo obiettivo e per portarlo a termine non gli importava quanti sacrifici si dovessero sopportare. Josef non rispose. Tornò a fissare l’indicatore di profondità per sfuggire agli sguardi allibiti dell’italiano. Un rombo sordo li fece sballottare con violenza. Un suono metallico, seguito dall’esplosione tipica delle cariche di profondità cui erano ormai abituati. «Cariche in acqua!» urlò Schäfer dal locale idrofono. Altre due esplosioni fecero vibrare il metallo della struttura e le ossa
dell’equipaggio. «Rapporto danni, per la miseria!» urlò, mentre il risucchio dell’acqua copriva la sua voce. Dal citofono di bordo arrivarono i primi rapporti. «Via d’acqua in camera di prua sul lato di tribordo! Tutto in ordine sala diesel. A posto gli elettrici!» In quel momento arrivarono di corsa Tewes e Dietze. «Dove diavolo vi eravate cacciati? Che il diavolo vi si porti!» gli gridò contro Hans. «Manutenzione tubi lancia siluri, signore, come da ordini» disse Tewes, giustificandosi. «Chi diavolo vorrebbe lucidare dei tubi durante questo macello?» Continuò in tono iroso. «Ai vostri posti, marinai.» Hans gli piantò le sue robuste mani sulle spalle. «Sono felice di vedervi in buona salute.» Tewes e Dietze si scambiarono un’occhiata sollevata e presero posto sui loro sedili ai timoni di profondità. «Fleischmann, vada a dare un’occhiata in camera di prua, devono avere qualche problema» ordinò Josef. Il direttore annuì e, prima di uscire dalla camera di manovra, si assicurò che la pompa di sentina fosse azionata durante ogni esplosione e spenta subito dopo. Poi si dileguò. Werner prese il suo posto dietro i timonieri. Ora che l’azione era terminata, un’espressione smarrita apparve sul suo volto. Era evidente che il secondo ufficiale stava prendendo coscienza di quanto accaduto. Hollstein era morto, quindi il ruolo di primo ufficiale, il braccio destro del comandante, era suo. Ma quella promozione sul campo si trascinava dietro un carico troppo pesante di sentimenti contrastanti. Per quanto Ludwig Werner, nel pieno della sua presunzione giovanile, si sentisse pronto a quell’incarico già da tempo, la sua espressione sconcertata sembrava rivelare l’esatto contrario.
Josef decise di scuoterlo un po’, quella tensione poteva portarlo al punto di rottura e lui aveva un disperato bisogno di qualcuno che ubbidisse ciecamente ai suoi ordini. «Signor Werner, facciamo rotta su duecentosessanta gradi. Vediamo di toglierci da questa trappola.» Senza volerlo, l’aveva detto. Le parole gli erano uscite direttamente dalla bocca, senza quasi are dalla testa. Aveva commesso un errore imperdonabile: ammettere davanti a tutti che le congetture su un complotto ai danni dell’U-666 fossero più che una pura illazione, andava contro quanto sostenuto sino a quel momento. Non che non lo avesse mai pensato, ma era uno sbaglio ammetterlo davanti all’equipaggio. La paura di essere abbandonati a loro stessi contando solo sulle loro forze poteva serpeggiare come un cancro all’interno di quelle mura di metallo. «Rotta due sei zero» ripeté Werner al timoniere, svegliandosi dallo stato di trance. «Rilevazione?» chiese a Schäfer che si era sporto fuori dal suo cubicolo per avere un contatto diretto con lui. «Eliche veloci su tre tre zero, scade da poppa» rispose l’idrofonista mentre si teneva l’unica cuffia ben stretta sull’orecchio sinistro Josef tornò a guardare l’idrometro. Settanta metri. Ora iniziava il valzer per sfuggire al cacciatorpediniere. «Comandante» chiamò sottovoce Schäfer. «Venga a sentire, presto.» Josef si fece strada attraverso la paratia e s’inginocchiò accanto al ragazzo che gli porse un auricolare. Rimase in ascolto per qualche secondo, cercando di dissimulare lo sgomento. «È la Siren che affonda» disse sconsolato. «Posso sentire le paratie che si accartocciano, il metallo che geme e si spacca» attese qualche altro secondo. «Andata, non c’è più nessuna nave appoggio, ora.» «Che ne sarà dei superstiti?» chiese Sievert, ora unico timoniere, dopo che avevano accertato l’assenza a bordo di Höger.
«Per il momento dobbiamo preoccuparci di altro, poi si vedrà» rispose sfidando il maggiore Kurtz, il quale lo fissò così intensamente da fargli desiderare di abbassare lo sguardo. Josef non cedette. «Bombe in acqua!» disse Schäfer stringendogli il braccio. «Tenetevi saldi» sibilò, gesticolando verso i suoi uomini. L’impatto arrivò puntuale. Josef sapeva bene che scendevano a circa quaranta chilometri orari, quindi bastarono pochi secondi prima che l’esplosione li scaraventasse a sinistra, con una violenza tale che il timoniere dovette faticare non poco per riprendere la rotta. Le poche casse di viveri che avevano avuto il tempo di stivare s’infransero a terra, rilasciando sul pavimento metallico il loro contenuto. Un’intera cassa di bottiglie di sidro si distrusse facendo scorrere un fiume di liquido giallastro, prima che le losanghe del pavimento lo risucchiassero nella sentina. Un odore dolciastro aleggiò per tutta la sala, mischiandosi al putridume che già vi regnava. Zielinski, come suo solito, iniziò il calcolo delle cariche esplose. Più un modo di tenere il conto del tempo che erano riusciti a sottrarre alla signora in nero che una vera e propria computa da annotare nel registro di bordo. Il direttore tornò da prua e fece rapporto. «Via d’acqua otturata, la maledetta era proprio dietro i serbatoi d’aria compressa dei tubi di tribordo. Abbiamo un problema però, uno dei proiettili deve aver perforato la cassa zavorra cinque.» «Questa non ci voleva» disse mordendosi il labbro. «Bene, ne faremo a meno per il momento.» Josef lasciò Schäfer al suo lavoro e tornò in camera di manovra accomodandosi sul tavolo da carteggio, proprio accanto a Zielinski. Tese una gamba contro il pozzetto del periscopio per puntellarsi in caso di qualche altro scossone. «Sono ancora troppo lontani, ci stanno cercando da un’altra parte. Questo è il momento per svignarcela» disse più a se stesso che ad altri. Non c’era una democrazia a bordo, le decisioni spettavano solo a lui in quel caso. Ma parlare ad alta voce rendeva partecipe tutto l’equipaggio delle sue scelte personali, in fondo glielo doveva, quegli uomini si affidavano completamente al suo giudizio. Una
sola distrazione, un solo calcolo errato, ed era la fine per tutti. «Cambio rotta per uno quattro zero, scendere a cento metri.» «Scendiamo a cento» ripeté il direttore Fleischmann mentre impartiva gli ordini ai suoi timonieri. «Ci stiamo appruando o sbaglio?» chiese, lanciando un’occhiata ai salami appesi che cominciavano a inclinarsi. «Il carico non è stato ancora stivato correttamente e abbiamo avuto un calo drastico di peso in uomini, per non parlare di quella maledetta cassa bucata, c’è da bilanciare tutto, dannazione!» «Puoi occupartene, Hans?» Poggiò una mano sulla spalla dell’amico per infondergli coraggio. Sotto la sua stretta, sentì i muscoli di lui rilassarsi. «Sì, certo, lo faccio subito.» «Ottimo! Per ora continuiamo così, macchine avanti adagio, ce ne andiamo alla chetichella.» I minuti arono senza che nulla accadesse, tanto da indurli a pensare che gli inglesi avessero mollato il colpo. Le possibilità che li avessero persi così facilmente erano molto remote, ma una possibilità e una speranza rimanevano sempre. «Lo ha visto?» chiese d’improvviso Kurtz. Il tono duro, quasi indignato. «Cosa?» chiese Josef in risposta a quella strana domanda. «Il caccia.» Josef rifletté. Sapeva benissimo dove stava andando a parare il maggiore. «Sì, l’ho visto.» «Dunque?» «È lo stesso che abbiamo incontrato al largo delle Canarie.» «Ne è proprio sicuro?»
«È un cacciatorpediniere di classe J, due grandi torri d’artiglieria prodiere con cannoni da centoventi, un castello che si estende per circa un terzo dello scafo, due alberi per le antenne radio. Se non è il suo gemello, è lui.» Kurtz annuì lentamente. «Ne ero certo.» Non disse altro. Al contrario di quanto aveva fatto lui, esternando i suoi pensieri, il maggiore si tenne tutto dentro, riservandosi di parlarne in un secondo momento. Le SS sapevano come istruire i loro ufficiali, non c’era che dire, pensò Josef. «Pensa che possiamo considerarci al sicuro?» chiese Sartori dal fondo del locale. Josef sorrise. Un sorriso amaro. «Non ne sarei così sicuro, signor Sartori. Gli inglesi sanno giocare meglio di chiunque altro al gatto col topo. Se ne staranno lassù, immobili, in attesa che mettiamo la testa fuori per salvare i superstiti, o che gli diamo solo un cenno della nostra presenza. Gli basta un rumore appena sopra la soglia per scovarci. Su questo sono molto bravi.» «Li lasceranno annegare?» chiese con la voce rotta. «Li lasceranno morire solo per stanarci?» «Non è forse quello che faremmo noi con loro? Se ne avesse l’opportunità, non gli lancerebbe contro uno dei nostri siluri? Avrebbe pietà dell’equipaggio se la sua vita fosse in gioco?» «Ma quegli uomini sono naufraghi, non esiste un codice d’onore, santo cielo?» Josef scosse la testa. Era inutile convincere un uomo abituato a vedere il mare solo dalla parte della spiaggia. Lì le cose non andavano sempre come si voleva o come si sperava, i codici spesso venivano infranti. Chissà, magari pensarla come Sartori non era poi così sbagliato, magari i Tommies non erano poi così intransigenti come si diceva riguardo ai prigionieri. Gli era stato insegnato che gli equipaggi dei cacciatorpedinieri richiedessero un tributo di sangue per ogni mercantile alleato affondato. Mettere il naso fuori dall’acqua significava prendersi contro bordate da centoventi millimetri senza pietà. Se non si aveva la fortuna di affondare subito, si veniva finiti a colpi di mitragliatrice. «Stia al suo posto» lo ammonì Kurtz. «Sarebbe meglio per lei tornare nei suoi alloggi.»
Il piccolo archeologo provò a sfidare lo sguardo da mastino del maggiore, i suoi occhi glaciali, senza vita, simili a quelli di uno squalo predatore. Cedette in fretta e non trovò altro da fare che girarsi e uscire dalla camera di manovra verso gli alloggi dei sottufficiali. «È stato duro con lui. Non posso che dargli ragione in fondo.» Josef scrollò le spalle per rilassare i muscoli. «Non è il tempo dei sentimentalismi questo.» Per quanto avrebbe preferito eggiare sotto un bombardamento a tappeto di cariche di profondità, Josef non poté che condividere quelle parole. «Rilevamento venticinque gradi, rumori di eliche in aumento.» «Spegnere le luci e il servomotore della girobussola, silenzio totale» ordinò Josef. I secondi arono lenti, scanditi dal solito ticchettio ritmico delle gocce della condensa che cadevano a terra. Il flebile sciabordio dell’acqua di sentina rendeva la situazione innaturale, quasi rassicurante. Infine le udirono tutti. Il ritmico girare delle eliche del cacciatorpediniere, con quel suono molliccio che ti entrava nella testa facendoti rabbrividire. Tutti si tennero stretti a qualcosa, sicuri che le cariche sarebbero arrivate da lì a pochi secondi. Ma non fu il rombo delle esplosioni a colpirli, bensì qualcosa di più terrificante. Un suono da incubo per chi, come loro, solcava i mari a bordo di un sommergibile. Qualcosa di difficile da definire a voce, simile al suono di una molla o a una biglia di metallo che cade a terra. L’ASDIC. Anti Submarine Detection Investigation Committee, in parole semplici, il dispositivo di rilevazione acustica in grado di individuare un oggetto attraverso il suono. I cacciatorpedinieri ne erano dotati da tempo, rendendo dura la vita dei sommergibilisti. Si trattava di un trasduttore contenuto in una cupola posizionata sotto la nave; inviava onde acustiche che, una volta riflesse da un oggetto sommerso, tornavano indietro all’origine, tracciandone la posizione.
Il ping dell’ASDIC si udì forte e chiaro in tutto il sommergibile, dando così un chiaro segnale a tutti gli uomini dell’equipaggio, anche quelli non in grado di capire cosa stava accadendo. Ora tutti erano al corrente che il nemico sapeva della loro presenza. La caccia era appena iniziata. Tre esplosioni in rapidissima sequenza martellarono lo scafo a pressione che scricchiolò con un penoso gemito di lamiere. Josef sentì qualcuno lamentarsi per il dolore, o più probabilmente per la paura. «Calma, calma» disse concentrato. «Il nostro sommergibile sopporterà anche questo.» «Non è tanto la tenuta stagna il problema, ma se una di quelle cariche dovesse mettere fuori uso i timoni, sarebbe un bel problema» sibilò tra sé Fleischmann. «Allora facciamo in modo che non succeda» precisò sorridendo. «Rilevamento duecentoquaranta, duecentocinquanta, rumore in aumento, duecentosessanta, continua ad aumentare» sibilò da dietro la paratia Schäfer. L’onda acustica tornò a farsi sentire. Quel rumore ebbe l’effetto di un pungo allo stomaco. «Virare a dritta, scendiamo di altri venti metri» ordinò al direttore che, senza perdere tempo, diede indicazioni ai suoi timonieri. Josef immaginò quanto trambusto potesse esserci sul ponte del cacciatorpediniere in quel momento. Navigare a tredici, quattordici nodi per consentire il corretto funzionamento dell’ASDIC, senza che il rumore delle eliche lo disturbino troppo. Una volta ottenuto il rilevamento, prendere la rincorsa. Sganciare le bombe di profondità mantenendo una velocità sostenuta per evitare di saltare in aria sulle proprie cariche. Infine, sperare di vedere nei riflettori una chiazza di nafta, o un piccolo segnale di un colpo andato a segno. Un lavoro di pazienza e costanza, un gioco strategico portato avanti per ore con poche o nulle indicazioni sulle intenzioni del nemico. Certo, almeno loro avevano l’ASDIC, era già qualcosa. Un occhio indiscreto nelle profondità marine, ma spesso non era sufficiente neanche quello. Josef puntò tutto su quell’eventualità. «Cariche in acqua!» annunciò Schäfer.
Josef annuì, reagendo istintivamente a quell’avvertimento. «Tutta a sinistra, motori avanti tutta!» Il timoniere obbedì e trasmise l’ordine alla sala motori elettrici. «Quello che mi chiedo è perché non l’abbiano usato la prima volta.» Fleischmann rese pubblici i suoi pensieri. «Credo che sia quello che ci stiamo chiedendo tutti» rispose Josef. «Era una trappola comandante, una fottuta trappola!» disse Sievert, con gli occhi sgranati dalla collera. «Sta’ zitto, Sievert!» lo ammutolì il direttore dandogli una sberla sul collo. «Perché? È palese che ci stessero aspettando» insistette lui, «per quello non hanno usato l’ASDIC la volta precedente, volevano seguirci, scoprire la posizione della Siren e…» «Ti ho detto di stare zitto, Sievert! Lo capisci o devo tapparti quella bocca?» «Sì, signore» si arrese il giovane. «Questa storia deve finire» disse Josef avvampando di collera. «Non posso tollerare che ci si abbandoni ai complotti o alle superstizioni.» «Sarà difficile, signore, da prua a poppa non si parla d’altro ormai.» La voce giunse dall’estrema poppa della camera di manovra. Falkenmayer fece qualche o fino a posizionarsi accanto al maggiore Kurtz. «Che significa, Capo?» chiese Josef. «Gli uomini non fanno altro che parlare di malaugurio e anatemi, convinti che una maledizione gravi su questo battello e su questa missione.» «Perché vengo a saperlo solo ora?» Josef era infuriato. Aveva trascurato a tal punto i suoi uomini da consentire il dilagare di queste voci incontrollate? «Ne parlano sottovoce, signore. Sanno che devono aver paura di esternare i loro pensieri.»
«Tuttavia lo stanno facendo, forse anche ora» intervenne Kurtz. Falkenmayer tacque. «È un cancro che deve essere estirpato.» Gli occhi di Kurtz lampeggiarono. «Quanto prima!» «Sì, signore…» Falkenmayer fece un o indietro e con un cenno del capo si liquidò. «L’avevo avvertita, Lüth, ora temo che dovremo fare a modo mio.» Kurtz rimase a fissarlo per qualche breve istante, poi fece dietro front e sparì dietro al nostromo. «Dannazione a lui!» esclamò Fleischmann senza mascherare i suoi sentimenti. «Lascia stare, Hans, ora abbiamo problemi più seri da risolvere.» Come a voler sottolineare le sue parole, l’ASDIC tornò a farsi vivo. «Centoventi in aumento.» Anche Schäfer tornò a farsi sentire. «Tenetevi forte» disse Josef. Il copione rimase lo stesso, tre cariche in veloce sequenza, regolate con profondità differente l’una dall’altra. Un espediente al quale sarebbe seguito un bombardamento a tappeto. In genere era buon segno. Significava che quelli lassù non riuscivano a individuarli con tanta precisione da violare il loro raggio fatale. Le esplosioni arrivarono puntali. Un maglio dato con potenza tanto efficace da far vibrare le ordinate del sommergibile, al punto da rischiare di spezzargli la schiena. Stavolta c’erano andati molto vicino. All’esplosione seguì il risucchio dell’acqua e la sbandata trascinò Tewes, uno dei timonieri, lungo per terra. Il ragazzo si rialzò dolorante, massaggiandosi la coscia. Altre esplosioni li scrollarono come se un enorme pesce li avesse afferrati per la coda, agitando poi la testa per tramortirli. L’effetto fu terribile, trasmettendo una sensazione di vertigine e incapacità di connettere che durò per alcuni lunghi secondi. Secondi che Josef non poteva perdere.
«Vira tutto a dritta, scendiamo a duecento, presto!» «A poppa dieci in alto!» disse Fleischmann a Dietze, il timoniere di poppa. «Via d’acqua in sala motori!» La comunicazione gli gelò il sangue nelle vene. Quella carica era scoppiata davvero molto vicino e poteva aver provocato danni seri alla struttura. «Il motore di dritta è fuori o, abbiamo una bella perdita da una flangia!» La voce era quella del capo Nagelschmitz. «Hans, vai a dare un’occhiata!» ordinò, mentre con uno sguardo indicava a Werner di prendere il suo posto. «Vado!» disse il direttore schizzando via. «Le cose si fanno interessanti a quanto pare. Quelli là sopra sanno il fatto loro.» Josef cercò di minimizzare l’accaduto stiracchiandosi le braccia. Assunse una posizione rilassata e si mise in attesa di un nuovo cambio di direzione. Fino a quel momento avevano compiuto varie conversioni a forma di otto, cambiando ripetutamente profondità in modo da confondere le idee ai loro inseguitori. Ora era il momento di arrischiarsi a scendere a una quota che li mettesse al sicuro dall’onda d’urto delle cariche. «Vorrei avere il suo sangue freddo, signore» disse Dietze mentre cercava di impedire alle sue mani di tremare. «Tienile ben salde sui timoni, marinaio, andrà meglio, vedrai.» «Sì,sign…» Un altro scossone ebbe l’effetto di farli retrocedere, per un attimo le eliche girarono a vuoto sotto la forza della pressione, poi l’abbrivio li fece sobbalzare in avanti. «Acqua a prua, le riparazioni non reggono!» Il citofono di bordo prese ad abbaiare rapporti da ogni parte del sommergibile. I danni cominciavano a essere consistenti. «Siamo maledetti, affonderemo.»
Josef rizzò il capo. L’aveva sentito davvero o se lo era solo immaginato? Si guardò a destra e sinistra finché non incrociò lo sguardo col suo secondo. «Questo è inconcepibile! Falkenmayer!» gridò, contravvenendo al silenzio imposto a bordo. «Falkenmayer, dannazione!» «Signore!» rispose arrancando il Capo, zuppo d’acqua e liquido scuro. «Mi porti quell’idiota, ora!» «Signore…» «Non voglio scuse, lo voglio qui, ora!» «Sì, signore.» Come era arrivato, il Capo sparì di nuovo. L’ASDIC riprese la sua snervante eco sul metallo del sommergibile. «Piantatela lì sopra, maledetti!» urlò Josef in preda all’ira. Le cose stavano precipitando e la consapevolezza di quanto accaduto finora veniva a chiedere il conto nell’animo di Josef. Tutto il peso di quelle ore, di tutte quelle vite umane perdute, assunse la consistenza di un macigno che gli si posizionò sullo stomaco. Un peso enorme per un solo uomo. Troppa responsabilità, troppa aspettativa; Josef si ritrovò a non pensare lucidamente, a sognare di risvegliarsi di colpo in quella stanza di albergo, con quella sconosciuta stesa tra le bianche lenzuola. Per un attimo gli parve di sentire il suo profumo e fu inebriante. «Comandante! Abbiamo un problema in sala motori, una delle flange si deve essere deformata. Nagelschmitz sta tentando di fermare il flusso d’acqua. Cominciamo a imbarcare più acqua di quanta le pompe ne possano buttare fuori.» Il direttore Fleischmann, il suo vecchio amico Hans, gli era davanti. Aveva la bocca spalancata e gli occhi di fuori dalle orbite. La camicia grigio verde aveva le maniche arrotolate sotto i gomiti ed era tutta macchiata di nafta. I pantaloni, dello stesso colore della camicia, erano inzuppati dalle ginocchia in giù, segno che Hans si era calato nella sentina per controllare le batterie.
Come ripresosi da un sogno, Josef mise a fuoco la faccia dell’amico. I suoi timpani ripresero a funzionare correttamente e l’urgenza della sua voce lo investì. «Dobbiamo accendere le pompe subito o sarà troppo tardi. Le batterie potrebbero cominciare a fare acido.» Josef scosse la testa annuendo quasi inebetito. Poi si alzò dal tavolo da carteggio e rivolto al marinaio addetto al generatore della pompa di sentina gli ordinò di attivarla subito. «Potrebbe non bastare» disse Hans. «Ho dato l’ordine di indossare i respiratori a poppa in caso di perdite, c’è il rischio di asfissia.» «Bene» disse afferrando le braccia dell’amico. «Voglio un rapporto appena possibile.» Hans annuì e tornò in sala motori. Josef scosse il capo sconsolato. Le cose si mettevano male. Quando le infiltrazioni d’acqua marina superavano un certo livello, c’era il rischio concreto che le batterie potessero produrre vapori di acido cloridrico. In dosi massicce, potevano essere letali per l’equipaggio. In quel momento, le cariche di profondità tornarono a ricordargli che la caccia era ancora in corso. Un sacco di patate si rovesciò sparpagliando il suo contenuto che rotolò sotto i sedili dei timonieri. Spruzzi a pressione cominciarono a irrorare gli uomini con acqua gelata. Il vetro di uno dei manometri andò in frantumi. L’appoppamento era evidente e bilanciare il sommergibile stava diventando complicato. Werner ebbe il suo bel da fare per trasferire acqua nelle casse di compenso. Come se non bastasse, la cassa zavorra di prora era stata forata, rendendola inservibile e compromettendo la stabilità del sommergibile. Josef si toccò la testa per calcare meglio il suo berretto bianco. Solo in quel momento si ricordò di averlo perso nell’affondamento della Siren. Le cose non potevano andare in modo peggiore. Ma Josef era ben lontano dall’aver ragione. Le cose stavano per peggiorare drasticamente.
Capitolo 16
«È maledetta vi dico!» Thielen comparve attraverso il portello della sala motori. «Piantala, li stai spaventando» disse d’improvviso Siffling alzandosi in piedi dalla sua branda. La sua stazza, paragonata a quella di Thielen, non bastava a coprirne neanche la metà, ma si erse in tutta la sua statura a sfidare il compagno. «Torna seduto, Sifilide» intimò Thielen. Le gote gli avvamparono, diventando due mele rosse. «Diamoci una calmata adesso.» Geiger s’infilò tra loro, facendo da paciere. «Le cose vanno male, d’accordo, non per questo dobbiamo metterci a litigare tra noi.» «Non ho cominciato io» disse serio Thielen, senza mai togliere gli occhi da Siffling. Anni di risse nelle birrerie di Monaco lo avevano reso una perfetta macchina da guerra quando si richiedeva di menare le mani. «Che ci sia qualcosa che non va è innegabile, io la penso come Thielen» intervenne Linke dal boccaporto di poppa. Il lieve ronzio dei motori elettrici era più marcato ora che il portello era stato aperto. «Di là abbiamo davvero problemi grossi, e se magari qualcuno di voi, culi di piombo, ci venisse a dare una mano, sarebbe cosa gradita, porca puttana.» Linke era completamente fradicio dalla testa ai piedi, segno che si stava adoperando per tappare le falle in sala mortori. «Posso dare una mano?» La voce provenne dalla cuccetta in alto, quella riservata all’ospite d’onore dell’alloggio sottufficiali. Tutti si guardarono perplessi, incapaci di rispondere a quella richiesta. «È meglio se te ne stai a cuccia, dammi retta.» Alla fine fu Thielen a rompere gli indugi. «Già» continuò Siffling, «meglio.»
«Abbiamo già abbastanza problemi» si unì al coro Linke. Eno abbassò lo sguardo e si ritrasse nella penombra della sua cuccetta. Da quando era rientrato nell’alloggio, gli occhi di tutti si erano puntati in modo inquietante su di lui. Quei discorsi sulla presenza di un menagramo tra loro cominciavano a spaventarlo, tanto da non trovare il coraggio di osare mettere il naso fuori dal suo ricovero. Aveva sperato in quell’occasione per svignarsela con la scusa di rendersi utile, ma le cose erano precipitate in peggio. Per qualche istante, il silenzio fu rotto solo dal ronzio degli elettrici e dagli sbuffi degli uomini impegnati nelle sale motori. Persino i bombardamenti, che fino a quel momento avevano fatto da colonna sonora, sembravano essersi acquietati. «Le casse» disse Thielen, rompendo il silenzio. Il suo sguardo si era fatto vitreo, quasi fosse in trance. Nessuno aprì bocca, tutti sapevano dove voleva andare a parare il grosso sergente. «Non ci troverai certo il modo per riportarli tutti in vita e per toglierci dalle calcagna quel caccia, stupido bestione» disse Geiger, cercando di alleggerire la situazione che si era venuta a creare. «Tutto parte da lì» continuò Thielen, senza badare al compagno. «Auguri allora, magari se glielo chiedi gentilmente quelle SS ti ci faranno dare una sbirciatina dentro» lo canzonò Linke. «Si farà sparare, quest’è certo. Quelli non ci vanno mica per il sottile» continuò Geiger. In quel momento il portello di prua si aprì. La faccia paonazza del capo Falkenmayer apparve in penombra. Illuminato dalle luci d’emergenza sembrava un diavolo dell’inferno venuto a reclamare la sua vittima. «Dov’è quello stupido porco?» disse in un sibilo roco. «Che succede, Capo?» chiese Geiger dissimulando un poco. «Ditemi chi è stato, o, quanto è vero Dio, ò i vostri culi ariani per tappare le
falle del sommergibile.» «Non sappiamo di che parla, Capo» insistette Geiger cercando di mascherare l’accaduto. «Togliti di mezzo, Rolf» intimò Falkenmayer e il suo tono di voce non ammetteva repliche. Per quanto riguardava l’equipaggio, il nostromo era Dio a bordo e la sua parola valeva quanto quella del comandante quando si trattava di disciplina. A Geiger non restò che farsi da parte. Falkenmayer si trovò faccia a faccia con Thielen. «Dimmi che sei stato tu, dammi solo un’occasione per spaccarti la faccia, Karl» disse in un ringhio. Thielen non rispose; aveva lo sguardo perso in qualche fosco pensiero che gli stava annebbiando la mente. «Bene, il tuo silenzio è un’ammissione di colpa.» Falkenmayer si fece da parte, appoggiando la schiena contro le cuccette superiori in modo da lasciare spazio al grosso bavarese per poter are. «Fai strada, il comandante è ansioso di vederti.» Contrariamente a quanto tutti si erano aspettati, Karl-Heinz Thielen ubbidì senza fiatare. Fece qualche o e subito il Capo si mise in scia dietro di lui, poi sparirono quando il portello si richiuse alle loro spalle. «Porca troia, adesso se lo lavora per benino» commentò Linke. «Ha un cervello come il cazzo di Otto quello lì, gli avevo detto di stare zitto.» Siffling rimase a fissare il portello ormai chiuso, poi incrociò lo sguardo di Eno che si era affacciato per osservare l’accaduto. «Cos’hai da guardare tu?» gli chiese sputando quelle parole con disprezzo. «Niente» cercò di giustificarsi lui. Siffling mise un piede sulla branda di sotto e si sollevò sino a finire faccia a faccia con lui. «Che cazzo sta succedendo, eh? Che cazzo c’è in quelle casse?» Anche Linke si sollevò. Eno ebbe gli occhi di tutti puntati contro. Un atto di accusa che poteva peggiorare da un momento all’altro.
«Un archeologo su un sottomarino è cosa alquanto strana, non trova, signor Sartori?» lo apostrofò con un sorrisetto maligno Linke. «Trova piacevole quanto accaduto al nostro amico? Non le è mai piaciuto Karl, non è vero?» «Io… io non so di cosa state parlando, io…» «Io, io» lo schernì Siffling. «È il momento di vuotare il sacco, non trova?» «Anche secondo me.» Linke aprì la camicia e mise in bella vista una piccola lama. «Con questa ci taglio le guarnizioni, ma le si possono trovare anche altri utilizzi.» Eno rabbrividì. Tiro le gambe più in dentro possibile, finché non toccò con la schiena la parete di legno. Era in trappola. Un odore pungente gli riempì le narici, facendolo vacillare. Un odore che Eno attribuì alla paura. In uno sprazzo di lucidità, intravide un’unica via di salvezza. Gattonare sulla cuccetta contigua alla sua e da lì, con un balzo, sparire attraverso il boccaporto di poppa. Sempre che in sala motori trovasse qualcuno disposto a dargli una mano. In quell’istante l’ASDIC bussò sul metallo del sommergibile, come un ospite indesiderato in piena notte. Pochi secondi dopo un’esplosione colpì il sommergibile come un grosso colpo di ariete. Siffling e Linke caddero a terra con un tonfo sordo. Eno si aggrappò a uno dei tubi che correvano lungo tutto il soffitto per non cadere anche lui. Immediatamente dopo, il risucchio dell’acqua li trascinò indietro, facendo rotolare i due sul pavimento. Una serie di esplosioni a tappeto li sollevò e li rilasciò cadere come su un ottovolante. Il formicolio allo stomaco dovuto alla forza di gravità che tornava a impossessarsi dei loro corpi divenne insopportabile. Vetri andarono in frantumi nel locale accanto, qualche manometro doveva essersi rotto. Poi le urla e le richieste di aiuto degli uomini. Eno approfittò di quel momento di confusione per infilarsi nella cuccetta accanto alla sua, in preda al terrore più cieco, e ne ridiscese poi con un rapido balzo. Fece appena in tempo ad aprire il portello che un’altra serie di esplosioni lo scaraventarono dritto in sala motori, attraversando la piccola cucina elettrica. Uno spruzzo d’acqua lo colpì in pieno, ridandogli lucidità. La stanza era in subbuglio, con gli uomini che cercavano di tamponare una falla a una delle flange di tribordo. Le flange, Eno ricordava, erano quei punti in cui il
cilindro a pressione era perforato per permettere ai diesel di scaricare i fumi tossici all’esterno. Punti deboli della carena, troppo sensibili alle esplosioni. «Una mano qui, subito!» urlò il direttore con gli occhi fuori dalle orbite. Un caporale accanto a lui cercava disperatamente di tappare la falla con colpi duri di martello. «Bisogna addrizzarla o sarà impossibile bloccare il flusso» gli disse mentre Eno prendeva il suo posto con uno straccio imbevuto di qualche sostanza densa e scura. Il maresciallo Nagelschmitz tolse il martello al caporale e iniziò a colpire con forza finché l’acqua non sembrò diminuire poi, fatto spostare Eno, si diedero da fare per tappare la falla. «Così si fa, Nagelschmitz» disse il direttore, «ottimo lavoro.» «Non reggerà molto in queste condizioni e il motore di dritta deve essere riposizionato sul suo o prima che si spacchi l’asse.» Come si poteva solo pensare di sollevare un bestione di quel genere, si chiese Eno. Neanche la mano del Dio del mare sarebbe stata in grado. Eno era sconfortato, gli sembrava che non ci fosse più un luogo sicuro a bordo. Tutto era urgenza, frenesia e su tutto aleggiava l’inconfondibile odore della paura. «Dobbiamo controllare gli accumulatori» disse il direttore al capo motorista. «Il rischio di perdite è alto.» Nagelschmitz annuì e, afferrato Garnn per un braccio, lo spinse verso l’alloggio ufficiali. Intanto le esplosioni non davano tregua. A ogni colpo di maglio seguiva il risucchio e, quasi senza pause, si riprendeva a ballare. Doveva essere un bel divertimento per quel cacciatorpediniere lassù. aggio a basso regime, controllo ASDIC, rincorsa, scarico bombe e di nuovo, senza sosta, senza tentennamenti. «Io mi occupo di quelli di prora, lei quelli di poppa, intesi?» disse il direttore. Nagelschmitz annuì. I due si salutarono e il direttore, reggendosi ai due motori
ora spenti, barcollò fino al portello. «Sartori, venga con noi» gli intimò il capo motorista. Garnn, il piccolo sergente dalla testa grande, gli lanciò uno sguardo torvo, ma non disse nulla. L’idea di tornare negli alloggi dei sottufficiali non lo entusiasmò, anzi, fu sul punto di darsela a gambe, cercando riparo a poppa, dove sapeva trovarsi il maggiore Kurtz. Odiava quell’individuo, ma al momento era l’unico alleato che il destino gli aveva reso disponibile. Facendosi forza, sopprimendo un crampo allo stomaco che cercava di avvertirlo della follia della sua scelta, si mise dietro a Nagelschmitz. Forse la presenza del maresciallo avrebbe intimorito quei folli, allontanandoli dai loro intenti criminali. Quando Nagelschmitz entrò nell’alloggiò fu come se un tornado si fosse intrufolato dal piccolo portello per portare scompiglio e distruzione su tutto. Senza dare il tempo a nessuno di rendersi conto di quanto stava accadendo, cominciò a sbraitare come un cane idrofobo. «Idioti! Capre! Ve ne state qui a farvi soffocare dal cloro.» Il capo era furioso e gesticolava come impazzito. «Avrei dovuto lasciarvi chiusi in questa camera a gas, ve lo sareste meritato.» Eno percepì il puzzo acido sulle labbra. Quello che aveva creduto fosse l’odore della paura, altro non era che gas di cloro. Letale, se respirato troppo a lungo. «I respiratori, presto!» urlò Nagelschmitz. Linke scese dalla cuccetta come imbambolato. Barcollava e aveva la pelle pallida come un cencio. «Portate fuori quest’idiota prima che ci lasci le penne.» Eno lo afferrò con cautela per le spalle e lo guidò verso la sala motori, poi tornò indietro. Anche Siffling e Geiger subirono lo stesso trattamento. «Mi aiuti a sollevare qui» gli ordinò Nagelschmitz.
Intanto Garnn stava alzando le lastre del pavimento poco più in avanti. Ben presto tutto il locale si tramutò in un pozzo che sprofondava nel buio, proprio dove era collocato il banco di poppa degli accumulatori. Solo una trave che correva lungo tutto il locale permetteva il aggio. I vapori saturarono la stanza e l’aria si fece grigiastra e densa, tanto da poterla quasi afferrare con la mano. «Allora, si va» disse Nagelschmitz, cercando il coraggio d’immergersi nel pozzo mefitico. «Tenga questa e faccia luce.» Eno annuì afferrando la torcia. La tenne stretta tra i denti mentre aiutava il maresciallo a calarsi. Quando mise i piedi sul banco degli accumulatori, si fece are una delle torce. Poi fu il turno di Garnn. Il piccolo sergente non volle essere aiutato e con un fluido movimento, che poco si confaceva al suo fisico, sparì nell’oscurità. Eno fece luce con la pila osservando i due uomini in ginocchio, visibilmente scossi. L’odore acre dell’acido solforico, unito a quello dei gas di cloro, era tremendo. Gli occhi presero a lacrimare e i primi segni di nausea e giramenti di testa apparvero inattesi. «I respiratori, presto! Qui è pieno di acido, maledizione!» disse ad alta voce il maresciallo. «Ci sarà bisogno del latte di calce. Merda, qua sotto è un macello.» Eno ripeté la richiesta del maresciallo, sperando che qualcuno fosse in ascolto. Non aveva la più pallida idea di cosa fosse quel latte di calce o dove fossero stipati i respiratori. Al momento l’unica cosa in cui poteva dare una mano era reggere la torcia elettrica. «Trentasette, trentotto… più di metà degli accumulatori sono andati. Sei banchi perdono acido, perdio, qui sotto non si respira. Allora, questi respiratori?» Eno si alzò in ginocchio, indeciso se fare qualcosa di più che starsene a guardare. Fortunatamente entrò il caporale Freund con a tracolla tre sacche marroni e un secchio colmo di una sostanza bianca e collosa. «Prenda questi» gli disse in tono spiccio Freund, mentre si allontanava col
secchio che perdeva gocce di liquido bianco simile a vernice. Eno aprì in fretta e furia le sacche e ne estrasse tre mascherine collegate con un tubo a una latta di metallo. I respiratori della Kriegsmarnine. Li calò nel vano accumulatori e gli vennero strappati di mano senza coplimenti. Qualche istante dopo emerse Nagelschmitz che, sollevatosi la mascherina, disse trafelato: «Servono i rocchetti di rame, dobbiamo iniziare a escludere gli elementi». «Come siamo messi?» chiese Eno preoccupato. «Trentotto elementi di poppa su sessantatré sono andati, gli undicimila amper ora ce li possiamo anche scordare, ma non tutto è perduto. Mi trovi quei rocchetti, Sartori! Chieda al Corvo.» «Sì, subito!» Eno si alzò e senza sapere esattamente dove andare, fece la cosa più ovvia. Corse verso il locale motori elettrici. Löble, il Corvo, era un fuochista e non poteva trovarlo da nessun’altra parte se non nel suo nido. Superò agilmente il locale dei diesel, dove ancora gli uomini erano alle prese con le riparazioni del o del motore di dritta. Si davano da fare con grosse leve d’acciaio e, tutto intorno a loro, parti del motore erano state smontate per favorire l’operazione. Grosse gocce di sudore colavano sulle grate del pavimento mentre gli uomini erano ormai sopraffatti dallo sforzo immane. Vide tra loro anche Geiger e Linke. Siffling era accasciato contro la paratia di poppa, la camicia era un bagno di sudore e la pelle sotto di essa sembrava di cera. Eno non ebbe il tempo di preoccuparsene, tirò dritto verso lo scompartimento seguente in cerca del Corvo. Lo trovò esattamente al suo posto, intento a controllare il compressore elettrico. A pochi i da lui, il maggiore e la sua guardia personale erano asserragliati accanto al loro prezioso carico. «I rocchetti di rame» disse in tono agitato. «Cos’ha detto?» chiese scocciato Löble, arricciando il naso adunco. Solo in quel momento, Eno si rese conto di avere ancora indosso la maschera. Si tolse il boccaglio e riprovò. «Il maresciallo Nagelschmitz vuole i rocchetti di
rame» ansimò, «per le batterie.» Löble parve risvegliarsi. Senza badare più a lui si mise a cercare in un comparto sotto il motore di sinistra. Quando tirò fuori le braccia, aveva in mano due rocchetti di filo color rame. Li consegnò a Eno e gli diede una pacca sulla spalla. «Corra adesso!» Eno non se lo lasciò ripetere, com’era giunto fin lì, tornò sui suoi i sino al buco nero del pozzetto degli accumulatori. «Ho i fili!» esclamò inginocchiandosi. Dalla fossa uscì la faccia tonda di Garnn. La torcia gli conferiva un aspetto da troll delle fiabe. Quando si voltò verso di lui, Eno ebbe un sussulto. Gli puntò la luce contro accecandolo. «Dia qui.» Il nano scomparve alla vista. Eno si sdraiò sul bordo cercando di fare luce. I vapori dei gas e degli acidi, però, gli chio la gola in una morsa e la testa prese a vorticare. Con uno sforzo di volontà, fu costretto ad alzarsi, mise in bocca il boccaglio e crollò seduto su una delle brande. Se le cose continuavano così, ben presto l’aria sarebbe divenuta irrespirabile. «Come andiamo lì sotto?» La voce apparteneva al direttore Fleischmann. Quando era arrivato? Si chiese Eno. «È una bella merda» disse Nagelschmitz, togliendosi il respiratore. «Ce la fate a isolare gli elementi ancora buoni?» «Ci stiamo lavorando, ma non posso garantire sulla tenuta.» «Fai del tuo meglio, Hermann.» Il direttore si alzò e svanì verso la camera di manovra. Eno rimase a osservare le luci delle torce che danzavano attraverso il foro sul pavimento. Sembrava quasi che degli operai stessero scavando un tunnel nelle viscere del sommergibile. Eno ci trovò da ridere. Immaginò dei prigionieri in procinto di evadere da un carcere di massima sicurezza. Li immaginò a scavare quel condotto tra paratie di metallo, lamiere e grosse
batterie simili a quelle delle auto, per cercare una via d’uscita a quell’inferno. Solo che quei poveracci non avevano la più pallida idea che al di là di quelle pareti ci fossero tonnellate e tonnellate d’acqua. Non c’era via di scampo, erano spacciati. Eno rise di gusto, poi quella sensazione di allegria scemò e si ritrovò a contemplare la semioscurità. L’enormità di quanto stava accadendo gli fece sbarrare gli occhi. I gas stavano giocando con la sua mente; doveva uscire e alla svelta se non voleva cadere preda di allucinazioni, o peggio, rimanerci secco. Senza badare troppo a quanto accadeva sotto di lui, poggiò la torcia sul bordo della buca e superò la paratia, entrando in camera di manovra. «Rilevamento?» chiese il Vecchio. Se ne stava appoggiato al pozzetto del periscopio, sbocconcellando una zwiebac, una galletta croccante spalmata di burro. L’unico rumore era quello della masticazione e delle immancabili gocce d’acqua che colavano dal soffitto. A prestare orecchio si poteva udire anche lo sciabordio della sentina, ora pericolosamente piena. Oltre a tutti i danni subiti, quello delle batterie era il peggiore, in quanto andava a compromettere tutti i sistemi che avevano bisogno di corrente elettrica per funzionare. Tra questi c’erano le pompe. «Non rilevo nulla, comandante» rispose Schäfer, tenendo il volume della voce al minimo. Il Vecchio si ò una mano tra i capelli umidi. Li spazzolò quasi volesse asciugarli dall’umidità perenne alla quale erano sottoposti. «Non mi fido» disse soltanto. Il Vecchio la sapeva lunga sulle tattiche dei Tommies. Quanto potevano stare in attesa quelli in superficie? Ore? Giorni? Era solo questione di pazienza. Per loro, invece era questione di sopravvivenza. La scorta di ossigeno cominciava a scarseggiare e i gas di cloro stavano pregiudicando la loro salute. Ben presto avrebbero dovuto fare i conti anche con quel problema. Da quanto erano sotto? La nozione del tempo assumeva un carattere diverso in immersione, quasi che avesse una correlazione con la profondità. Più andavano sotto, più il tempo ava lento. Potevano essere trascorsi minuti come ore dallo scoppio della
prima carica di profondità. Eno decise che non gliene importava nulla, voleva solo tornare a respirare aria pulita. Plin… plin… plin… «Maledizione! Maledetti maiali!» Tewes si lasciò scappare quel commento ad alta voce. Non ci fu tempo per un rimprovero ufficiale, le cariche detonarono troppo vicine. Eno perse la presa e, inciampando sulla parte bassa della paratia, cadde a faccia avanti contro l’armadietto di ferro delle carte nautiche. Qualcuno a poppa urlò di dolore, o forse di rabbia. In camera di manovra, il timoniere Dietze si abbandonò a un pianto lamentoso. Una nuova via d’acqua si aprì dietro il ripetitore del telegrafo di macchina di babordo. «Tappate quella falla» urlò il direttore indicandola con la torcia. Sievert e un altro marinaio si diedero da fare per bloccare lo zampillo a pressione. Un’altra carica esplose e appresso un’altra proprio sotto di loro. Questa volta il sommergibile si alzò, dando l’impressione che volesse emergere a tutta velocità solo per poi precipitare nel vuoto che l’acqua stava subito riempiendo. Eno si preparò alla fine. Si stupì di quanto fosse calmo nell’attesa della morte. Le ordinate del sommergibile non avrebbero retto a quelle sollecitazioni, non stavolta. Le paratie si sarebbero spezzate, dividendo in due il sommergibile, inondando d’acqua a pressione l’interno. Si augurò una morte rapida, magari l’onda d’urto gli avrebbe fracassato l’osso del collo donandogli la grazia di una dipartita veloce e indolore. Morire affogato, annaspando in quella prigione nella vana speranza di inalare aria, sentire i polmoni infuocarsi, no, questo non poteva tollerarlo. Era quello il vero terrore al quale non era preparato e fu ciò che lo fece urlare. Un bullone, poco sopra la sua testa, schizzò via con una violenza tale da andarsi a schiantare contro i volantini delle casse zavorra.
«Tutta a sinistra, saliamo a centocinquanta» comandò il Vecchio, cercando di eludere gli attacchi del nemico. Provava a svicolare alzandosi di quota, nella speranza che il comandante del caccia lo credesse da un’altra parte e a un’altra quota. «Motore di dritta al minimo, dobbiamo risparmiare energia, ne avremo bisogno.» «Motore di dritta al minimo» ripeté Sievert azionando il telegrafo di macchina. «Via d’acqua tappata, signore» disse il marinaio che riconobbe come Glemnitz. Uno sbarbatello con l’alopecia. La sua barba era piena di buchi tanto da sembrare una pelliccia tarmata. «Va bene, ottimo lavoro» annuì il Vecchio, strofinandosi gli occhi con vigore. La stanchezza cominciava a farsi sentire. Quelle lunghe ore di guerra psicologica avrebbero fiaccato il più abile giocatore di scacchi. Il Vecchio aveva fatto tutto il possibile per portarli al sicuro, tuttavia, al momento, non era sufficiente, e il lieve suono delle eliche tornava puntuale a farsi sentire a ogni aggio. L’ASDIC non li mollava, trattenendoli in una rete dalla quale era impossibile fuggire, non con le batterie ridotte a quel modo, non con la fortuna che sembrava averli abbandonati. Ammesso che ne avessero mai avuta. Eno cominciava a prendere seriamente in considerazione le illazioni dell’equipaggio. Quel sommergibile doveva essere stato toccato dalla malasorte fin dal primo momento. Quel numero poi. Non che lui fosse un fervente cattolico, ma aveva imparato a non scherzare con i simboli. Il suo mestiere si basava su poche regole non scritte e una di quelle riguardava proprio i simboli. Gli apparve come in visione l’entrata della camera funeraria. L’avevano scoperta quasi per caso durante una spedizione sul monte Elicone, in Grecia. Un pastore di Kyriaki, una cittadina ai piedi del monte, li aveva guidati fin sotto le pendici, chiedendo in cambio poco più che qualche tozzo di pane. Non per la gloria, non per la fama, ma per la fame. Durante il loro soggiorno gli aveva raccontato la storia di quel luogo, così come suo nonno gliel’aveva riportata. Poco più che una favola da bambini, ma pur sempre una pista da confermare e Eno non aveva perso tempo. Aveva organizzato una spedizione ed erano partiti alle prime luci dell’alba. La prima tappa era stata alle rovine di Ascra, il villaggio natale di Esiodo, poi si erano inerpicati su per il monte. Con i suoi millesettecentoquarantotto metri, l’Elicone
era la vetta più alta della Beozia, ma la loro destinazione finale era stata fissata a non più di metà tragitto. Lì, secondo i vecchi racconti del pastore, scorreva la sorgente Ippocrene, sacra alle Muse. Eno aprì gli occhi e si stupì di ritrovarsi chiuso tra quelle pareti di metallo. I suoi ricordi erano così vividi da sembrare reali. Le stesse emozioni sembravano reali. Non avrebbe mai dimenticato l’eccitazione nell’entrare in quella grotta carsica, la trepidazione nell’aprire la lastra di pietra, la commozione di quel ritrovamento. «Hans, ho bisogno di un rapporto completo sui danni» disse il Vecchio, riportandolo alla dura realtà. Eno seguì la sua voce, quasi fosse il filo d’Arianna in grado di ricondurlo verso la luce. Solo che la luce, nel suo caso, era molto meno allettante del buio. «Werner, ore?» «Le quattro e undici, signore» rispose il giovane ufficiale con voce trafelata. Era stremato e boccheggiava come un pesce fuor d’acqua, tanto che Eno ebbe l’impressione di poter sentire il suo respiro affannoso a metri di distanza. «Ci vorrebbe un miracolo» disse sottovoce Dietze. «Quello di cui abbiamo bisogno è che quelle batterie riprendano a funzionare, e magari che quelli là sopra perdano interesse» ripose il Vecchio. «Ne dubito, signore.» Werner aveva gli occhi cerchiati di viola. Sembrava sul punto di cedere. «Devo ammetterlo, sono in gamba» concesse il Vecchio arrendevole. «Non è questo, comandante» disse Werner, «non dipende da loro. È destino che le cose vadano così.» «Non ci si metta anche lei adesso con queste congetture fataliste da quattro soldi. Che questa merda intasi il cervello di un marinaio i, ma dai miei ufficiali pretendo più pragmatismo.» «Sì, signore» rispose Werner senza troppa convinzione.
«Colpa di quelle SS, che fregatura averli a bordo» disse Tewes senza preoccuparsi di parlare sottovoce. Ora che anche il primo ufficiale si era esposto, parlare liberamente sembrava più semplice. Il Vecchio schizzò in piedi, a grandi i si diresse verso gli alloggi ufficiali. I marinai si guardarono incuriositi da quell’uscita così repentina del comandante. Ognuno si stava chiedendo se fosse successo qualcosa a cui non aveva dato peso; qualcosa che invece al comandante non era sfuggita. Di colpo, il Vecchio rientrò in camera di manovra. Il volto tirato era una maschera di furore. In mano teneva un oggetto metallico che impugnava con la destra. La Walther P38 brillò alla pallida luce delle lampadine di emergenza. «Se qualcuno ha ancora da ridire su questa storia, lo faccia ora» disse con un ringhio. Nessuno fiatò. I timonieri fissavano sconcertati i quadranti di fronte i loro occhi, mentre Werner e Sievert, trovatisi con l’arma puntata addosso, rimasero impietriti, incapaci di togliere gli occhi dalla canna della pistola. In quel momento rientrò il direttore. Dopo un primo istante di smarrimento, ò davanti alla canna spianata, incuneandosi tra il comandante e l’equipaggio. «Vedo che vi state divertendo in mia assenza. Qualcuno ha fatto il cattivo?» Il Vecchio sembrò rassicurarsi. I muscoli della mascella si rilassarono e la mano che impugnava la P38 si abbassò. «Gli avrei fatto saltare le cervella se necessario» disse consapevole che l’intervento dell’amico era arrivato al momento giusto. Eno sospettò che qualcosa nella testa del Vecchio si fosse spezzata e, se non ci fosse stato l’intervento del direttore, forse, le cose sarebbero degenerate. Eno si mise a sedere contro la pompa ausiliaria e si tenne il volto con le mani. Sghignazzò tra sé pensando che la signora in nero trovava sempre il modo di agire. Se non per mano inglese, le anime dei dannati sarebbero comunque giunte a destinazione per altre vie.
Capitolo 17
Josef era poggiato contro il pozzetto del periscopio, le braccia conserte e lo sguardo vacuo fisso verso le losanghe delle lastre del pavimento. Percorreva con gli occhi il movimento ondulato delle striscioline di metallo cercando, per quanto possibile, di non perdere il contatto con quella che stava seguendo. Un limone, caduto da chissà dove, interruppe quel contatto e fu costretto a superare l’ostacolo rischiando di perdere il ritmo e, cosa peggiore, la striscia di ferro sulla quale era concentrato. Cominciava a essere stanco di aspettare e stare seduto gli era diventato impossibile. Un malessere alla bocca dello stomaco lo stava distruggendo. Ansia, o magari una semplice congestione; fatto sta che gli impediva di concentrarsi e la logica dei suoi ordini era andata a farsi benedire da tempo. Alzò lo sguardo sull’orologio. Le sedici e ventidue. Erano ormai ate una ventina d’ore da quando la Siren era stata affondata. L’aria cominciava a scarseggiare, anche se avrebbero potuto sopravvivere in quello stato per almeno altre quindici o sedici ore, senza contare i respiratori e le scorte d’aria che Hans teneva segrete. Qualcuno gli ò accanto, urtandolo. Non valeva la pena alzare lo sguardo, non ora che la losanga stava per terminare contro il banco da carteggio, non così vicino al traguardo. «Perché corrono?» disse sottovoce. «Non lo capiscono che consumano ossigeno? Tra un po’ ci troveremo a respirare anidride carbonica se non la smettono di affannarsi a quel modo.» «Stanno cercando di sistemare quelle dannate batterie» rispose Hans. «Possono anche prenderla con meno frenesia, avremo tutto il tempo del mondo se quelli lassù non molleranno la presa.» «Prima o poi ne usciremo. In qualche modo faremo.» «Stavo pensando…» disse, iniziando il nuovo percorso. Decise che avrebbe
cambiato losanga per il viaggio di ritorno verso il lato opposto. Ritrovare quel limone sulla sua strada non gli andava proprio a genio. Per quanto fosse conscio dell’inutilità della cosa, non riusciva a smettere di osservare quelle fitte strisce di metallo, quasi quella sciocca distrazione servisse a schiarirgli la mente. «Cosa» lo incalzò Hans. «C’è un’alternativa a starsene qui in attesa. Prima o poi l’ASDIC rifarà capolino e saremo punto e a capo. Abbiamo però una scelta.» «Sarebbe?» chiese Hans, sporgendosi in avanti. «Ci scambiamo i ruoli: da prede diventiamo cacciatori.» «Con le batterie ridotte a quel modo riusciamo a mala pena a tenere il sommergibile e se perdiamo i timoni siamo fregati, non so quanto valga la pena rischiare, è un azzardo bello e buono.» Josef alzò le spalle. In fondo cos’altro gli restava se non proseguire zigzagando a casaccio con i motori al minimo. Werner si avvicinò interessato al discorso. Incapace di trattenersi, volle dire la sua. «Non è un’idea così irrealizzabile, dopotutto. Di certo non resisteremo a un’altra salva, tanto vale rischiare.» «Eccolo il nostro buon ufficiale» lo schernì Hans. Muovendo il pugno con enfasi prese a cantare un motivetto. « Es scaun aufs heikenkreuz foll hoffnung schon millionen. Der tag fuer freiheit und fuer brot noch kurze zeit! [1] » Werner diventò tutto rosso e ammutolì. Fece un o indietro e si allontanò con una scusa. «Sei stato duro con lui» disse Josef, senza preoccuparsi di nascondere un sorrisetto malizioso. «Sono stufo di questi sbarbatelli della Gioventù Hitleriana, mi viene voglia di prenderli a calci in culo ogni volta che aprono bocca.»
«È comunque un ufficiale, devi controllarti.» A Josef non era sfuggito lo sguardo carico di collera del suo secondo. In una situazione di stress come quella non era consigliabile aggiungere altre tensioni, soprattutto tra gli ufficiali. Aveva bisogno di loro, in quel momento più che di ogni altro. «D’accordo, d’accordo, cercherò di non sculacciartelo troppo. Allora? Che si fa?» Josef scosse il capo. Doveva ancora prendere una decisione. Proseguire in immersione a quei pochi nodi che i motori elettrici consentivano o emergere e giocare il tutto per tutto. Sapeva molto bene che discuterne col maggiore Kurtz li avrebbe portati a uno scontro. D’altra parte, tenerlo all’oscuro delle sue scelte non avrebbe cambiato di molto le cose. Si era già espresso in merito al contenimento dei rischi. Non avrebbe mai approvato la possibilità di un colpo di mano. «Ho bisogno di riflettere, Hans.» «Come vuole, comandante» disse remissivo, «ma sbrigati, l’ossigeno inizia a scarseggiare.» «Dovrai tirare fuori una delle tue riserve segrete, allora.» Hans lo fissò preoccupato. «Le stiamo già utilizzando.» Le ore arono in uno stato di calma apparente. Quella quiete fittizia fece sì che persino il cacciatorpediniere diventasse un lontano ricordo, ma Josef sentiva che non poteva essere lontano. Lo percepiva attraverso una specie di sesto senso acquisito negli anni. Una vocina nell’orecchio che gli suggeriva cautela. Quel caccia non era come gli altri, non era di scorta a un convoglio e non aveva altro ordinativo se non quello di stanarli e distruggerli. Una caccia così serrata significava solo una cosa: la segretezza della loro missione era compromessa. Probabilmente fin dalla loro partenza, chissà. Al momento la preoccupazione maggiore del comandante in capo della fotta del Mediterraneo, l’ammiraglio Cunningham, doveva essere quella di impadronirsi del carico dell’U-666 o, in caso contrario, di impedirne la consegna. Le domande, che si era posto decine di volte in quelle ultime ore, tornarono a farsi opprimenti. Il contenuto di quelle casse doveva essere la chiave
per venire a capo di tutta quella storia fatta di segreti e misteri irrisolti. «Eliche!» La voce di Schäfer fu come una doccia fredda. Il torpore che si era venuto a creare nella camera di manovra fu spazzato via da un’ondata di gelo inatteso. Un brivido lungo la schiena fece schizzare in piedi Josef che si diresse a grandi i al cubicolo dell’idrofonista e, preso uno degli auricolari, si mise in ascolto. «Trenta gradi, scade a poppa, ma è ancora lontano» sibilò Schäfer. Josef annuì perplesso. «Perché non ci attaccano?» sbottò l’idrofonista, girando con cura millimetrica la manopola del congegno di ascolto. «Se ne stanno lì in attesa come se sapessero esattamente dove siamo.» «C’è una sola spiegazione.» Josef ebbe un’illuminazione. «Devono aver terminato le cariche di profondità! Se la prendono comoda, attendono che finiamo l’aria ed emergiamo così da finirci a cannonate.» Una piccola folla si era accalcata davanti alla paratia. Tutti lo stavano fissando. In qualche modo quelle parole stavano riaccendendo una nuova speranza. «Forse questo è il segno che aspettavamo» disse Hans. «Dev’essere così, o forse vogliono solo farcelo credere.» Josef si spettinò i capelli cercando di schiarirsi le idee. «Trovatemi Kurtz, è il momento di prendere una decisione.»
*
«Già una volta ho acconsentito ai suoi azzardi, comandante, e tutti siamo testimoni di com’è andata.» Kurtz se ne stava impalato al centro della camera di manovra. Se solo avesse indossato un’uniforme di Marina e non quello smock mimetico che si ostinava a portare, avrebbe potuto essere scambiato per il vero
comandante del sommergibile. Werner era a un o dietro di lui, silenziosa sentinella, completamente catturato dal carisma di quell’uomo. «Mi illustri le altre possibilità, allora» chiese Josef. Kurtz non era uno sciocco, intuiva perfettamente quando stava per cadere in una trappola, quindi riportò la situazione a suo vantaggio. «Non ci sono possibilità, ma scelte. La nostra scelta è quella di prendere la strada più sicura e mi duole dirlo, ma l’unica sicurezza al momento è quella di rimanere nascosti.» «Finché non finiremo l’aria o moriremo come topi soffocati dal cloro» precisò Hans. «Forse» rispose indifferente Kurtz. «Meglio questo che il rischio di far cadere in mano inglese il carico.» Una nuova ondata di gelo vorticò per tutto il locale. La possibilità di morire per un ideale in cui nessuno, a parte le SS, pareva più riconoscersi, non piaceva a quegli uomini ormai pieni di timori e sospetti. «Ci sta suggerendo di immolarci, maggiore?» continuò Josef con lo stesso tono. Kurtz sorrise. Un sorriso che aveva tutta l’aria di una lama di rasoio puntata alla gola. «Se fosse necessario, sì. Le risulta così disgustoso morire per la Germania? Per il suo Fürher?» «La mia scelta non ha importanza. Finché sarò il comandante di questa nave avrò la responsabilità sul mio equipaggio. Non posso prendere una decisione basandomi solo sulla mia fede verso il Reich.» «Finché sarà il comandante di questa nave, lei farà tutto il necessario per concludere la missione che le è stata affidata, chiaro?» Josef si sentì pervaso da una calma surreale. Una quiete che partiva dall’anima e dalla consapevolezza di aver fatto la propria scelta. Le ripercussioni, al momento, non erano prese in considerazione. «Chiaro» rispose.
Kurtz lo fissò con intensità, quasi avesse letto negli occhi la sua malafede. Si voltò verso Werner, trasmettendogli un muto messaggio, poi se ne tornò da dove era venuto. «Per il Führer, motori avanti tutta!» lo derise Hans. Nessuno mostrò interesse alla sua battuta, men che meno Werner che lo fissò con indignazione. «Signor Fleischmann» lo esortò Josef. «Comandante?» «Ci porti a quota periscopio.» Hans sorrise malignamente. Poi sciorinò tutta la sequenza di ordini per riportare il sommergibile alla quota indicata. «Timone di prora dieci in alto, timone di poppa cinque in basso. Ce ne torniamo su, finalmente!» «Aria ai doppi fondi.» L’aria compressa sibilò nei cassoni e l’acqua fuoriuscì dalle valvole aperte. Il sommergibile iniziò subito a salire con un leggero appoppamento. La cassa zavorra forata dai proiettili del B-24 era ormai inservibile e questo faceva aumentare il peso a prua. Josef salì i pioli che portavano nella torretta e si sedette sul seggiolino del periscopio d’attacco. «Zielinsky, con me» disse, sporgendosi quel tanto che bastava per farsi udire dall’ufficiale di rotta. Zielinsky saltò giù dal tavolo da carteggio sul quale era seduto e si affrettò a salire la scaletta. «Ci siamo quasi» annunciò Hans da sotto. «Bilanciare, su il periscopio.» Il ronzio lieve del motorino del periscopio ne annunciò uno ben più grave: il ringhio rabbioso di Kurtz. «Che diavolo sta succedendo!» abbaiò. «Oh, niente di speciale, maggiore, deve esserci qualche problema coi cassoni» lo
schernì Hans. Kurtz lanciò uno sguardo a Werner che scosse la testa da sinistra a destra. «Dov’è Lüth?» Il suo tono ora era simile al ringhio di un mastino. «Credo sia impegnato a salvarci la vita» rispose Hans.
*
Josef incollò gli occhi all’oculare di gomma. Le cosce circondavano il periscopio, tenendolo ben saldo. «Allagare i tubi da uno a quattro» disse con voce ferma. Zielinsky ripeté l’ordine, sporgendosi verso il basso. Il comando ò silenziosamente di uomo in uomo fino al locale di prua. «Tienilo fermo, Hans» sibilò tra sé mentre con i pedali girava il motorino del periscopio di trecentosessanta gradi. Josef ritirò il periscopio sotto il pelo dell’acqua. Si staccò dall’oculare e attese qualche secondo. Poi ripeté l’operazione, una, due volte. Era necessario che le vedette del cacciatorpediniere avessero vita difficile per individuarli. Gli mostrava il periscopio solo il tempo necessario per sbirciare la posizione del caccia, poi lo ritirava giù in fretta. «Rilevamento ottanta gradi. Velocità dieci nodi, tiene la prua a dritta. Distanza quattrocento» bisbigliò al sottufficiale di rotta. «Maledetti, sono troppo vicini, troppo vicini, così non va» disse tra sé mentre cercava di inquadrare il caccia nel reticolato. Zielinsky si adoperò per inserire tutti i dati nel Torpedorechner, il calcolatore di bordo, in grado di risolvere i complessi calcoli trigonometrici riguardanti l’angolo di deriva. Attraverso congegni meccanici, il Torpedorechner imprimeva i giusti dati su rilevamento, distanza e velocità dell’angolo di attacco ai siluri nel momento del lancio.
Le luci azzurrine del congegno illuminarono il volto di Zielinsky. Ora i dati inseriti sarebbero stati trasmessi elettricamente ai siluri. Tutto dipendeva dalla stima del comandante. Più era accurata, meglio avrebbero agito i pesciolini di metallo ad alto potenziale esplosivo. «Aprire portelli.» «Aprire portelli» ripeté Zielinsky. In breve tempo giunse la risposta. «Portelli aperti, tubi uno e due pronti.» Josef trattenne il fiato. La mano destra stretta contro i comandi del periscopio. Ne era certo, quello era lo stesso caccia che avevano incontrato alle Canarie. Ora poteva vederlo bene e confermare quanto detto in precedenza. Un cacciatorpediniere di classe J. Poteva leggere chiaramente la sigla d’identificazione F22. Le bocche dei cannoni da centoventi erano rivolte contro di loro, segno che avevano virato fino a trovarsi alla posizione zero. «Ci viene contro» disse inquieto. In quel momento giunse la voce allarmata dell’idrofonista: «Eliche in avvicinamento! Vanno alla massima velocità!» Il caccia gli si mostrava in tutta la sua stazza, con la prua tagliente come un rasoio pronta a speronarli. Josef si ritrovò a dover pensare in fretta, troppo in fretta per una decisione così importante. «Immersione!» disse con urgenza. Hans, da sotto, ripeté l’ordine all’equipaggio. «Chiudere portelli di lancio, timoni tutti a scendere, immersione rapida!» I i frenetici degli uomini che si scapicollavano verso la camera di prora riecheggiarono nella piccola torretta dove Josef e Zielinsky si stavano fissando preoccupati. Josef chiuse gli occhi cercando di concentrarsi. Con la sua velocità di trentasei nodi, il caccia poteva essergli addosso in pochi secondi. Ormai era tutta questione di centimetri. «Allagare tubo cinque!» disse.
Dal basso percepì un mormorio inquieto e non gli fu difficile immaginare gli sguardi sorpresi dei suoi uomini; se lo aspettava del resto. «Classe J… classe J» ripeté sottovoce. «Quel caccia ha un pescaggio di quasi tre metri, lo si potrebbe quasi paragonare a una zattera, no?» Gli occhi di Zielinsky saettavano dall’alto al basso, aspettandosi da un momento all’altro il tonfo sordo della lamiera che si spacca. Improvvisamente il giovane sottufficiale di rotta si era reso conto di cosa fosse realmente la claustrofobia. «Ce la faremo, vedrà» lo rassicurò. «Senza volerlo quegli sciocchi ci hanno dato una bella mano forandoci la cassa zavorra di prua, vede come scendiamo?» «Davvero hanno terminato le cariche?» chiese Zielinsky in tono supplichevole. «Mi piace pensarlo, anche perché…» Josef fece una pausa. «Se non fosse così, sarebbe davvero molto seccante.» Zielinsky provò a sorridere, ma quello che ne uscì fuori fu un ghigno più simile a una smorfia di dolore. «Eliche in avvicinamento!» Annunciò d’improvviso l’idrofonista. Tutti ammutolirono. Il silenzio era così profondo che Josef poteva sentire il battito del cuore di Zielinsky che martellava all’interno del torace. Ben presto si udirono il cinguettare delle eliche e i ronzii discontinui delle caldaie del caccia che le spingevano alla massima potenza. «Sono sopra di noi» disse in un sibilo, indicando con l’indice il portello stagno. «A questa velocità l’ASDIC è inutile.» Josef si tenne ben stretto al pozzetto del periscopio. «Questo è il momento della verità.» I secondi arono senza che accadesse nulla. Finché l’eco delle eliche non fu lontano. «Visto? Cosa le dicevo!» disse trionfante. Il sorriso tornò a colorare il volto di Zielinsky. «Direttore, ci porti subito a quota periscopio!» Josef mise i piedi sui pedali e si
preparò a tirare su il periscopio. Aveva lasciato che scendessero solo quel tanto che bastava per non correre il rischio di essere speronati, scommettendo tutto sul fatto che gli inglesi fossero rimasti a secco di munizioni. A quanto pareva quell’azzardo aveva avuto buon esito al momento. «Che intenzioni ha?» chiese sorpreso Zielinsky. La sua espressione era un misto di eccitazione e urgenza. «Proviamo a infilarlo da poppa» disse con un sorriso sulle labbra. «È una buona idea, signore?» «Sicuramente migliore di essersi fatti incastrare in questa missione. Stia sereno, Zielinsky, stavolta non ce lo lasciamo scappare.» «Facciamo fatica a bilanciare» sbottò il direttore. «C’è troppo peso a prora e la spinta dei motori è ridotta al minimo, non ce la facciamo solo coi timoni di profondità.» «Saliamo troppo lentamente, dai aria, ora o mai più!» rispose. L’angoscia cominciava a bussare alla sua porta. Dovevano cogliere quell’opportunità o non ne avrebbero avuta una seconda. «Rischiamo di non controllare la salita» «Dobbiamo rischiare. Fallo, Hans!» Fleischmann aprì le valvole e il sibilo dell’aria compressa, del tutto simile a quello di un enorme rettile, fu come una liberazione. Il sommergibile con uno scossone prese a salire rapidamente per quei pochi metri che ormai mancavano alla superficie. Quando la torretta emerse, gli uomini furono proiettati in alto come in un ascensore che arrivi al piano stabilito con troppa rincorsa. Lo sciabordio dell’acqua contro la carena gli indicò che erano fuori. «Coperta emersa, signore!» si sentì da sotto.
Josef non perse tempo, si attaccò con tutte e due le mani al volantino del portello e girò svitando il blocco. Facendo forza sulle braccia lo sollevò e questo si aprì come una bottiglia di champagne appena stappata. «Si faccia are l’UZO!» gridò al sottufficiale di rotta e lo precedette in plancia. Non appena fu fuori, l’aria fresca del tardo pomeriggio gli penetrò nei polmoni facendogli dolere lo sterno al punto da dover tossire per riuscire a respirare nel giusto modo. Solo in quel momento si rese conto di quanto i gas di cloro avessero infierito sul suo fisico. Zielinsky lo seguì inerpicandosi sulle scalette. Anche lui dovette chinarsi quando l’aria pura lo colpì come un pugno al petto. Una tosse convulsa lo costrinse a piegarsi in due. Carponi, ridiscese in torretta posizionandosi al calcolatore. Josef gli strappò dalle mani l’ Uberwasser Ziel Optik, o in breve UZO, un binocolo 7x50 collegato con il Torpedorechner, giù nella torretta, tramite una base circolare graduata. Senza perdere ulteriore tempo, lo inserì nel sostegno e s’incollò agli oculari. Spostando la leva sulla destra, impostò il binocolo per avere un’immagine più nitida anche in condizioni di scarsa luce grazie alle particelle di trizio poste all’interno dell’oculare. Inspirò e trattenne il fiato. «Nuovo rilevamento» comandò, rilasciando l’aria. «Centonovanta, velocità dieci, vira verso dritta, distanza trecento!» Zielinsky inserì i dati. «Aprire portello tubo cinque!» Josef si concesse un secondo per immaginare la confusione a poppa. Gli uomini del maggiore dovevano essere stati esortati con gentilezza a spostare il loro prezioso carico. Sorrise tra sé pensando alla furia di Kurtz in quella circostanza così frenetica che non poteva gestire a modo suo. «Portello cinque aperto, pronti al fuoco, signore!» disse una voce dal basso. Josef si sporse sulla balaustra del giardino d’inverno, tenendo le mani strette
sulla ringhiera. In quell’istante lo vide: poco più che uno straccio grigio ormai, ma pur sempre un simbolo di comando, il suo cappello era scampato miracolosamente all’affondamento della Siren e alle ore ininterrotte di fuga in immersione, incastrandosi nel congegno dell’antiaerea. Josef lo strattonò, strappando lembi di stoffa e di pelle finché non riuscì a liberarlo. Lo strizzò e se lo calzò in testa come se fosse un elmo da condottiero, o una corona da imperatore. Tornò a concentrarsi sul cacciatorpediniere che nel frattempo aveva terminato la stretta virata e ora gli mostrava la prua come a volerlo sfidare. Lo spruzzo bianco dell’acqua arata dall’acciaio dava l’entità della velocità dell’agile caccia. Vide il castello da dove sicuramente gli uomini in plancia gli stavano puntando gli occhi addosso, assaporando il momento in cui, speronandoli, avrebbero messo fine a quel gioco durato fin troppo. Tutto durò pochi secondi, ma sembrarono un’eternità per gli uomini in coperta sul caccia e per Josef stesso. Il cannone da centoventi di prua ruotò di appena qualche grado. Poi dalla bocca di fuoco si accese una scintilla che illuminò la sera. Uno sbuffo di fumo azzurrino si sparse a raggiera intorno al grosso tubo di metallo. Non appena udì il tuono, Josef fu investito da uno spruzzo d’acqua che rischiò di spingerlo fuoribordo. «Fuori! Fuori!» urlò con tutto il fiato disponibile. Il comando fu trasmesso al tubo lanciasiluri numero cinque, l’unico disponibile all’estrema poppa del sommergibile. L’immissione dell’aria pressurizzata spinse il siluro fuori dal tubo, il lungo pesce argenteo fuoriuscì dal cappello esterno con un rumore simile alla risacca, superò le eliche e i timoni di profondità e iniziò il tragitto verso il bersaglio. Della sua presenza rimasero solo uno sfogo di bollicine d’aria compressa che fuoriuscivano ancora dalla coda del sommergibile. Il cannone di prua sulla F22 ebbe un sobbalzo e si mosse appena. Una nuova salva era pronta per essere vomitata fuori e, con tutta probabilità, sarebbe stata l’ultima. L’angolo d’azione di quei cannoni era troppo elevato per le distanze ravvicinate e il caccia si stava avvicinando all’U-666.
Josef lanciò un’ultima occhiata al siluro. Lo vide scivolare appena sotto la superficie del mare, lasciandosi alle spalle una scia luminescente. Avvisato dal suo sesto senso, saltò nel portello stagno pochi istanti prima che la bocca di fuoco da centoventi risplendesse di luce propria. Una granata schizzò contro il bersaglio ad altissima velocità. Josef cadde contro il pavimento della camera di manovra, trascinandosi dietro Zielinsky. Non appena incrociò gli occhi di Hans, un rombo di tuono li fece precipitare nel buio più completo. Il metallo della plancia venne squarciato dall’esplosione, portandosi via, in un vortice di distruzione, i due periscopi e quanto di utile avevano avuto lassù. «Il portello!» gridò il direttore mentre cateratte d’acqua cominciavano a defluire all’interno. Dietze si alzò come un lampo dalla panca dei timoni di profondità e avvitò il portello stagno, interrompendo quella cascata. «Non sento niente» disse Josef con voce sommessa. «I timpani, signore» rispose Zielinsky, che cercava di massaggiarsi le orecchie provate dallo spostamento d’aria. «No, che fine ha fatto il nostro siluro?»
*
Il siluro filava liscio seguendo la sua rotta, argentea saetta di un dio malevolo. Quando fu avvistato a bordo dell’F22, era ormai troppo tardi. La nave virò a babordo con tutta l’urgenza di quella manovra disperata, ma non fu sufficiente a salvarli dalla furia vendicatrice di quei duecento chilogrammi di esplosivo. Qualcuno a bordo serrò la mascella in una smorfia di disprezzo, scosse la testa ammettendo la sconfitta, poi l’esplosione mise tutti a tacere. Il siluro colpì sotto la chiglia, tramutandosi in una stella incandescente. Alte colonne d’acqua si alzarono fin sopra le antenne radio per ripiombare sugli
uomini in preda al panico. Il suono sinistro delle lamiere contorte che si piegavano, il rombo dell’acqua che precipitava all’interno dello scafo, lo sferragliare dei motori che si staccavano dai loro i, tutto si tramutò in distruzione e morte. Il cacciatorpediniere si inclinò su un lato, poi la prua scivolò sott’acqua. Solo la poppa rimase a galla, ultimo baluardo contro un destino ormai segnato. Lentamente si inabissò e dell’F22 non rimase che un relitto contorto in fondo all’oceano. Josef chiuse gli occhi. Tutti a bordo avevano udito l’esplosione, tuttavia nessuno osò esultare. Sievert gli porse il braccio e lo aiutò a rialzarsi. «Grazie» disse con voce lontana, incredulo di essere ancora vivo. «Complimenti!» disse Hans, stringendogli la mano. Il volto dell’amico di sempre era rigato da chiazze d’olio e nafta sulle quali le gocce di sudore avevano lascato grossi solchi chiari. «Hai bisogno di darti una bella lavata» riuscì a biascicare. «Di’ un po’, ti sei visto?» Sorrisero entrambi. «A proposito, bel cappello» disse Hans, indicando il copricapo malridotto sulla sua testa. Se lo calzò al meglio tenendolo per la visiera e si preparò al confronto col maggiore Kurtz. Lo sturmbannfuhrer lo attendeva a braccia conserte, le gambe ben piantate a terra e lo sguardo duro, gelido, imibile. Pareva che nulla di quanto accaduto poco prima lo avesse minimamente sconvolto, solo un fremito della mascella tradiva la collera repressa. Josef gli si fermò a un o in un chiaro segno di sfida. Da quella distanza poteva vedere ogni singola ruga, ogni cicatrice. I suoi occhi celesti, retaggio di una razza che si professava superiore, lo fissavano come un rapace che osserva la sua preda poco prima di calare in picchiata. «Cos’ha da dire a riguardo, Lüth?» chiese con tono roco.
Josef sorrise, senza mai perdere il contatto con gli occhi da falco del maggiore. «Non ho fatto altro che seguire il suo consiglio. Ricorda le sue parole? ‘Finché sarà il comandante di questa nave, farà tutto il necessario per concludere la missione che le è stata affidata’. Ha delle riserve a riguardo?» Kurtz dovette sentirsi sbeffeggiato, perché il labbro inferiore prese a tremare violentemente. Josef, per un istante, temette che potesse colpirlo. In quel frangente il maggiore non avrebbe osato, non con tutti quegli uomini lì presenti. Invece a cedere fu Kurtz. Abbassò lo sguardo e tramutò quel suo sdegno in un ghigno divertito. Girò la testa a destra e a sinistra, accertandosi che tutti stessero osservando la scena. Ricevette solo occhiate torve e determinate a intervenire nel caso di una sua reazione. «E sia» disse annuendo. «Arriverà il momento in cui sconterà le sue mancanze. Confido che quel giorno si dimostri altrettanto audace nell’accettare le accuse che le verranno rivolte, comandante.» Girò i tacchi e fece per allontanarsi. «Una SS mantiene sempre le sue promesse.»
Capitolo 18
Hermann Kurtz era su tutte le furie. Espirava e inspirava allargando le narici, soffiando e sbuffando come un toro nell’arena. Mai nella sua carriera aveva ceduto all’insubordinazione come in quella circostanza. In qualunque teatro di guerra si fosse trovato, la questione si sarebbe risolta con un colpo di pistola a bruciapelo; quello era il modo in cui si risolvevano i problemi disciplinari nei reparti delle SS. In tutti i teatri di guerra, tranne quello. La Kriegsmarine era territorio a sé. Da sempre la Marina aveva mantenuto una certa autonomia su rigore e disciplina, consentendo ai propri ufficiali delle libertà che in altri corpi non sarebbero state tollerate. Kurtz aveva trattenuto a stento la smania di afferrare la sua Walther P38 e aprire a quel Lüth un buco in piena fronte. Se lo meritava e poco importava che fosse un buon comandante. Di ufficiali in grado di governare un U-boot ne avrebbe trovati altri, ma di uomini fidati, devoti al Reich, probabilmente no. Si ripeté a mente che, in fondo, doveva solo portare pazienza, che il suo momento sarebbe arrivato e che avrebbe avuto quella soddisfazione che tanto cercava. Mentre la testa era impegnata a immaginare tutto ciò, la mano percorse il bordo liscio della cassetta di sicurezza. Afferrò la chiavetta che teneva al collo legata a un laccio di cuoio e la infilò nella serratura. ò un dito sul velluto nero e poi sul freddo metallo brunito. Kurtz, presa la P38, inserì il caricatore e la nascose nella tasca dello smock. Sorrise appagato, tirò un lungo respiro per calmare i battiti del cuore e, dopo essersi accertato che nulla trasparisse sul suo volto, s’incamminò verso poppa. Era ora di controllare che il suo prezioso carico fosse al sicuro. Superò la camera di manovra impettito come un generale che a in rassegna le truppe. Notò subito l’assenza di Lüth e del direttore di macchina, ma s’impose di non degnare nessuno di uno sguardo, certo che avrebbe ricevuto indietro solo disprezzo o indifferenza. Eppure, in alcuni di quegli occhi, aveva percepito una
scintilla. Qualcosa che, al momento giusto, avrebbe potuto sfruttare a proprio vantaggio. Werner era uno sciocco, ma uno sciocco utile. Tuttavia era sicuro che tra i macchinisti e il loro comandante non corresse buon sangue o che almeno la fiducia che nutrivano fin dall’inizio del viaggio stesse per spezzarsi. Superò la paratia emisferica ed entrò nell’alloggio dei sottufficiali. Il pavimento era divelto e un piccolo assembramento di uomini era impegnato nella manutenzione. Il trambusto dei motori diesel si percepiva anche attraverso il portello divisorio serrato e un acre odore di nafta aleggiava su ogni cosa. Non solo nafta, ma qualcosa di ben più acido e soffocante. Il fetore di sudore che quei corpi sporchi emanavano era un toccasana, paragonato a quello dei gas sprigionati dal ventre del sommergibile. Kurtz notò che quasi tutti indossavano i respiratori. Doveva essere un bel disastro là sotto. Sentì la testa pesante e desiderò di uscire da quel posto prima possibile. «Abbiamo visite» disse un marinaio dalla grossa testa tonda, dando di gomito al suo vicino. L’altro si erse fino a sbucare dal pavimento e poggiò una chiave inglese sulla lastra di metallo. «Ehi, Linke! Vieni a salutare il maggiore» disse un sergente, con aria canzonatoria. Ricordava bene quel ragazzo, era uno dei marconisti, Siffling se non andava errato. «Salutamelo tu, sapessi quanto me ne frega.» La voce giunse da sotto il pavimento. «Sentito, maggiore? Thomas è addolorato per non essere presente, ma le manda i suoi più calorosi saluti.» Siffling sollevò la mascherina e poggiò il respiratore su una delle brande. Socchiuse gli occhi e tirò un sospiro profondo, fingendosi rammaricato. Kurtz rimase immobile. Serrò la mascella impedendosi di cedere alla furia. Quella scena surreale era degna delle miniere di carbone Zollverein, non di un sommergibile della Marina e quegli uomini erano indegni dell’uniforme che indossavano. Serrò i pugni fino a farsi sbiancare le nocche, cercando un autocontrollo che andava pericolosamente dissolvendosi. «Suvvia maggiore, non sia triste. Gradisce una tazza di caffè caldo?» Il sergente
con la grossa testa si piegò nel suo anfratto buio e ne tirò fuori una tazza di metallo piena di liquido scuro e puzzolente. «Caffè di sentina, corretto al cloro. Una prelibatezza della Kriegsmarine, ne prenda un sorso.» «Tu… lurido verme.» Kurtz mise la mano nella giacca, cercando il confortante metallo della sua P38. Afferrò il calcio della pistola e fece per estrarla ma proprio in quel momento il portello di poppa si aprì e il trambusto dei diesel si propagò per tutto il locale. Un uomo mise la testa dentro e lanciò un’occhiata nella penombra. «Come procede là sotto, stupide capre?» disse il capo Kugler, responsabile dei motori elettrici. «Si stava chiacchierando amabilmente col maggiore» rispose allegro Garnn. Kugler alzò lo sguardo e solo allora si accorse della sua presenza. «Maggiore, benvenuto» disse con un tono che, in altre circostante e altri luoghi, sarebbe suonato come «La borsa o la vita.» Kurtz non aprì bocca. Rimase guardingo con la mano stretta sul calcio della pistola ancora celata dallo spesso tessuto della giacca. Kugler si richiuse la porta alle spalle. Kurtz strinse il calcio fino a sentire le zigrinature delle guancette di legno intarsiato. «Che ne dice, un lavoretto fatto ad arte, no?» disse il maresciallo, indicando il pozzo nel quale i suoi uomini erano sospesi sull’acqua salata satura dell’acido degli accumulatori. «Credo che quando tutto questo sarà finito ci saranno dei seri provvedimenti da prendere. Dovrebbe controllare meglio i suoi uomini, maresciallo.» «Non l’ho fatto? Qualcuno le ha mancato di rispetto?» si finse indignato. «Qualcuno di voi capre ha mancato di rispetto al maggiore Kurtz? Garnn, lurido porco di un nano» diede un calcio a una chiave inglese facendola cadere in acqua, «devo scendere là sotto a prenderti a calci in bocca? Visto che tra bocca e culo non c’è differenza!»
«No, signore, la prego» rispose in falsetto, imitando una vocetta stridula da donna. «Meglio, signore?» disse Kugler, mettendosi sugli attenti. Kurtz era allibito. Bastavano qualche bomba e qualche privazione per far regredire un uomo a tale livello di ribellione verso l’autorità, scaricando la disciplina nel cesso in così poco tempo. O forse era la superstizione la vera causa, radicata nel loro retaggio culturale a tal punto da confondere le menti. «Consente una domanda, signore?» chiese Linke, appena uscito dal pavimento. Il respiratore gli conferiva un’espressione da insetto e la voce sembrava il ronzare di un’ape. Il ragazzo non attese la risposta e continuò. «Che c’è di tanto segreto in quelle casse? No, lo chiedo così, non è interesse personale, ma solo curiosità. Sì, insomma, vi prendete tutta quella premura per…» «Basta così!» sbottò Kurtz. «Non ammetto che mi si parli con questo tono.» Per amplificare l’eco delle sue parole, tirò fuori la Walther P38. Armò e la fece scivolare lungo la coscia, puntando la canna verso il pavimento. «Qualsiasi altra parola sarà considerata ammutinamento e la questione risolta seduta stante.» Il suo volto dovette apparire come quello di uno dei diavoli dell’inferno, perché tutti si ritrassero intimoriti. O magari era la presenza della pistola ad aver avuto la meglio sul loro coraggio. «Stia calmo, per carità!» si affrettò a esclamare Kugler. «Sono solo delle teste di legno. A volte si lasciano andare, ma in fondo sono bravi ragazzi.» Il tono delle ultime parole cambiò, da supplichevole si fece più serio, quasi fosse un avvertimento, il messaggio subliminale di un capo banda lanciato ai suoi scagnozzi. Kurtz vide degli strani movimenti sotto la grata del pavimento. Garnn il nano stringeva con insistenza la chiave inglese, come se fosse pronto a usarla a comando. «Faccia spazio» disse Kurtz, usando un tono autoritario. Poggiò lo stivale sulla trave che ava sopra il buco sul pavimento. «O lo farò a modo mio.» Alzò la canna della pistola e la puntò contro il petto di Siffling.
Il giovane si fece subito da parte e lasciò libero il cammino. Lo stesso fecero gli altri, incerti su cosa fosse davvero giusto fare. Nessuno, a ogni modo, aveva voglia di prendersi una pallottola in petto. Quando fu dal lato opposto del locale, Kurtz s’incollò a Kugler. Il suo naso sfiorò quello del maresciallo. «Sa perché non le pianto una pallottola in testa, qui e ora?» Kugler piegò la testa da un lato, cercando di mostrare disinteresse. Tuttavia la paura era ben presente nei suoi occhi. «Perché ho ancora bisogno di lei. Questo è l’unico motivo che la tiene in vita. Se succedesse qualcosa a quelle batterie e fosse compromessa la navigazione, rendendo inservibili i motori elettrici, allora si rivelerebbe di colpo inutile la sua presenza a bordo. Sono stato chiaro?» Kugler piegò il labbro inferiore in una smorfia di disprezzo, poi annuì. «Molto bene.» Kurtz tirò un’ultima occhiata verso gli uomini dietro di lui e aprì il portello. Il rombo dei diesel lo investì, così come la puzza. Senza voltarsi indietro, combattendo contro il sesto senso che gli gridava di guardarsi le spalle, uscì. La piccola cucina, al di là della paratia, era vuota. Persino il cuoco era impegnato altrove nella manutenzione. Le perdite che avevano sostenuto durante l’attacco avevano costretto tutto il personale a sottostare a un regime di turni massacranti. I buchi dovevano essere tappati e le fila rinserrate. Il portello stagno, che dalla cucina portava in coperta, era spalancato e una brezza calda entrava piacevolmente all’interno. Kurtz immaginò che il comandante e il direttore fossero usciti per constatare i danni riportati e per valutare la galleggiabilità del sommergibile. Combatté contro lo stimolo di uscire fuori a prendere una boccata d’aria. S’impose di assolvere ai suoi compiti prima di dedicarsi al piacere. Rimase sotto il boccaporto, inalando il dolce profumo dell’aria di mare che cominciava già a dare i suoi effetti positivi schiarendogli la mente, quando sentì la voce di Lüth attutita dallo spesso strato di metallo che li separava. Decise che non c’era bisogno di scambiare altre parole con lui e tirò dritto.
Come per il locale alloggi dei sottufficiali, anche la sala macchine diesel era una specie di cantiere. Il motore di dritta era spento e alcuni uomini, tra cui il maresciallo Nagelschmitz, stavano adoperandosi per sistemare il o del grande mastodonte. Quello di sinistra, invece, pompava a pieno regime trasmettendo le dolci vibrazioni a tutta la struttura. La puzza, ormai padrona dell’intero sommergibile, era insopportabile e agli odori corporali degli uomini sudati si aggiungevano quelli dei lubrificanti e della nafta. Quello dei gas di cloro sembrava primeggiare su tutto, lasciando una patina sulle labbra dal sapore piccante. Kurtz percorse a grandi i la grata di metallo, facendosi largo tra uomini e attrezzi che ostruivano il aggio. Un girone dantesco. L’unico paragone che gli veniva in mente per descrivere la situazione del sommergibile era tutto in quelle raffigurazioni dell’inferno di Dante. Ne aveva recuperata una copia durante il corso per comandanti di plotone nei pionieri a Dresda e ne era subito rimasto affascinato. Le «malebolge» le chiamava il Sommo Poeta. L’U-666 non era poi così lontano da quelle visioni infernali. Attraversando il compartimento dei motori elettrici, l’unico che avesse mantenuto il suo aspetto asettico e sterile, non per questo meno inquietante, vide finalmente una faccia amica. «Rapporto» disse in tono autorevole. Il sergente Keppler, responsabile del carico in sua assenza, si mise sugli attenti. «Carico in ordine, signore. Effettuati tutti i controlli come concordato» disse, indicando le casse accatastate davanti al tubo lanciasiluri di poppa. «Bene.» Kurtz rilassò i muscoli. Finalmente poteva abbassare la guardia ora che si trovava in mezzo ai suoi uomini. Si appoggiò al serbatoio dell’aria compressa del tubo lanciasiluri e solo in quell’istante si accorse dell’uomo seduto dietro la paratia. Quando era entrato non aveva fatto caso alla sua presenza, ma ora che se lo ritrovava di fronte s’interrogò sul motivo per il quale quell’uomo si trovasse lì con il polso destro assicurato tramite una fascetta a un tubo. «Quello?» chiese al sergente. «È il sergente Thielen, sembra che sia in stato di arresto.» «Allora c’è ancora un’autorità qui a bordo a quanto pare. Motivo?» Non gli
andava a genio la sua presenza, soprattutto se quel ragazzo era una testa calda. Il sergente Keppler scosse la testa. «Mancato rispetto dell’autorità, o qualcosa del genere.» «Non ce lo voglio qui.» «È quello che ho cercato di spiegare, ma il nostromo è stato categorico. Dice che non possono permettersi di sprecare un uomo per fargli da guardia, sono tutti impegnati nelle riparazioni.» «Sì, l’ho visto da me. Ciò non toglie che qui non può stare. Farò in modo che il nostromo gli trovi un altro posto, fosse anche la sentina.» Il ragazzo rimase a testa china, insensibile alle sue parole. Sembrava in catalessi. Una grossa chiazza di sudore gli scuriva la canottiera all’altezza del petto possente. I capelli biondi come il fieno erano unti e sporchi di grasso. Kurtz lo riconobbe. «È il mitragliere dell’antiaerea» disse sorpreso. «Sì, signore, proprio lui» rispose Baum che aveva preso parte con la sua MG-42 ai combattimenti insieme a Tychsen, l’altro caporalmaggiore delle SS. «Tenetelo d’occhio, per ora. Se è qui in catene ci deve essere sotto qualcosa di serio» disse sottovoce per non farsi udire dal ragazzo.
*
«Gliele ha cantate, eh capo?» lo schernì Siffling. «Sa perché non le pianto una pallottola in testa qui e ora?» «… Perché ho ancora bisogno di lei.» Garnn completò la frase sghignazzando come un’oca. Kugler ingoiò la rabbia repressa davanti all’ottusa autorità del maggiore Kurtz e
si lasciò sfuggire un sorrisetto beffardo. «Piantatela, porci, e datevi da fare con quelle batterie.» Kugler raccolse una pinza e la lanciò nel buco incurante di chi ci fosse sotto. Quando udì il tonfo in acqua si rammaricò di non aver colpito nessuno. «Lei cosa ne pensa, capo?» chiese Linke ergendosi da sotto. Poggiò gli avambracci sul pavimento e vi si adagiò con la testa. «Riguardo cosa?» chiese fingendosi indifferente. «Le casse, che altro. Che diavolo ci nascondono quei porci nazisti?» «Non so voi, ma io voglio sapere cosa c’è dentro e lo voglio sapere ora» s’intromise Siffling leccando la lama del suo coltello. «Dai, capo, non vorrà farci credere che anche lei si è bevuto la storiella della fatalità, del caso o di come accidenti lo chiama il comandante.» Linke abbassò il tono, ma la sua voce assunse una sfumatura inquietante. Kugler non rispose. Dentro di lui si stava scatenando una guerra di sentimenti, un tumulto che vedeva contrapposta la lealtà verso il suo comandante e l’ansia per l’irrazionale. Quella irragionevole vocina che gli sussurrava all’orecchio che tutto quello che avevano ato, aveva una matrice ben precisa. Non era il caso, non era il destino, ma qualcosa di più subdolo. La superstizione aveva lasciato le sue cicatrici sulle menti stanche e provate dell’equipaggio e si era scavata un cuneo come un tarlo nel legno. «Su, capo! I segni sono chiari. Lexau era il più giovane dell’equipaggio e ha fatto la fine dell’agnello sacrificato agli dei del mare per placare la tempesta.» Linke parlava con voce calma, come quella di un prete durante l’omelia. Kugler annuì. «Poi è stato il turno di Reuter. Quel B-24 sapeva che eravamo lì. Ci stavano dando la caccia già da Saint-Nazaire, glielo dico io.» «Per non parlare di quanto successo con la Siren» intervenne Siffling. «E quell’archeologo? Cazzo ci fa un archeologo a bordo di un U-boot? Solo io lo
trovo ambiguo?» chiese Garnn. «Pare che c’entri qualcosa con la nostra destinazione e senz’altro con il carico che dobbiamo scaricare.» «Ha ragione Thielen, questo sommergibile è maledetto» Garnn vomitò quella frase con un ringhio inquietante. «Altrimenti perché battezzarlo con il sei sei sei?» Kugler fissava il vuoto. Le parole gli rimbombavano nella testa come cariche di profondità. Vide i suoi ragazzi aprire bocca e agitarsi mentre continuavano con il loro sermone, ma Paul Kugler non era più in grado di recepirne il senso. La sua mente era vuota. Un unico pensiero iniziava a prendere forma. «Le casse, capo! La risposata è nelle casse.» Siffling fece volteggiare il coltello e lo riprese al volo dal lato della lama. «Facciamogli vedere a quei luridi nazisti chi è l’autorità qui a bordo. Liberiamo Thielen e prendiamoci quelle dannate casse!» insistette Linke, sollevandosi sul pavimento. «Le casse…» biascicò Kugler. Linke lo afferrò per un braccio e lo strattonò verso il portello. Sorarono la cucina ed entrarono nel locale diesel. Il caldo e la puzza erano soffocanti. Paul ebbe l’impressione di aver visto il volto di Sartori affacciato al boccaporto che dalla cucina dava in coperta, ma fu solo un’immagine sfocata. Si lasciò guidare da Linke fino ai suoi amati motori elettrici, dove Löble e Arno stavano accucciati sotto il pannello di dritta. Appena lo videro arrivare, a capo di quel drappello, si misero in piedi incuriositi. Lo stesso fecero gli uomini delle SS. Kurtz gli si parò davanti frapponendosi tra loro e i suoi sottoposti. «Che significa questo, maresciallo?» chiese con autorità. Kugler biascicò qualcosa d’incomprensibile. Gli occhi erano iniettati di sangue e una ragnatela scarlatta aveva occupato il posto della sclera. «Si allontani e porti con sé questi uomini, altrimenti…»
«Altrimenti?» disse con tono di sfida. La voce del maggiore gli aveva fatto riacquistare quel minimo di lucidità necessaria a far scorrere il flusso dei ricordi. Ora gli sembrava tutto chiaro, trasparente. C’era una sola cosa da fare. «Altrimenti ordinerò ai miei uomini di aprire il fuoco.» In risposta a quelle parole si udirono gli scatti degli otturatori che venivano aperti. Un suono familiare a ogni soldato tedesco. Tre MP-40 erano spianate e pronte a sparare. Kugler sorrise a quella vista. «Non oserà.» «Mi metta alla prova» ringhiò Kurtz. «Ha mai assistito a un combattimento a fuoco, maggiore?» «Più d’uno da poterle assicurare che nessuno dei suoi uomini ne uscirà in piedi.» Kugler rise divertito. «Intendo all’interno di un sommergibile. Quei proiettili rimbalzeranno come schegge impazzite, ferendo sia i miei che i suoi uomini senza distinzione. Danneggeranno i motori elettrici, i compressori dell’aria e se saremo sfortunati foreranno lo scafo a pressione, compromettendo la sua missione. È disposto a rischiare?» Kurtz serrò la mascella e Kugler vi lesse indecisione. «Come sospettavo. Consegnateci il carico e nessuno si farà male, che ne dice?» «Da quando è lei l’autorità a bordo? Dov’è Lüth?» «Il comandante è occupato, temo saremo costretti a risolvere la questione fra noi.» Kurtz alzò una mano, un chiaro segnale per i suoi uomini in attesa. «Vedo che ha scelto la via più complicata» disse alzando le spalle, come se le canne di quelle mitragliatrici fossero poco più che un fastidio. Dietro di lui, gli uomini si serrarono ansimando. Poteva sentirne il fiato pestilenziale scaldargli il collo.
«Maledetti assassini, da quando avete messo piede qui dentro le cose sono andate tutte in malora. Che il diavolo vi porti!» urlò Garnn. «La causa è tutta lì dentro, non è vero?» ringhiò Linke, indicando le casse. «Facciamogliela vedere a questi porci!» Siflling agitò sotto il naso di Kurtz il suo coltello. Kurtz rimase imibile. L’unico segno di nervosismo era dato da un fremito della mascella destra. Gli occhi di ghiaccio erano fissi in quelli di Kugler. Erano in uno stallo, pensò Kugler. Sarebbe bastato un niente per accendere la scintilla. Un solo movimento sbagliato e si sarebbe scatenato l’inferno là sotto. D’un tratto, in un lampo di lucidità dai fumi del cloro, capì che non era quello il modo giusto di risolvere la questione. Qualcuno doveva fare marcia indietro e quel qualcuno era lui. Alzò entrambe le mani all’altezza del petto, in un chiaro segno di distensione. Piegò la testa alla sua sinistra per mandare un messaggio agli uomini dietro di lui, un messaggio di calma e pazienza. Qualcosa si mosse fulmineo. Appena una visione sfocata. Un oggetto lanciato in avanti con violenza. Poi, fu l’inferno. Una mitragliatrice MP-40 ruggì e la grandinata di proiettili tamburellò contro lo scafo a pressione sparpagliandoli per tutto il locale. Gli uomini urlarono e partirono alla carica, accalcandosi gli uni su gli altri in un vortice di arti. Kugler fu preso in mezzo tra quella baraonda e si ritrovò tra le braccia del maggiore. Cercò di liberarsi spingendolo via, ma Kurtz, più allenato di lui, lo colpì con un destro potente alla mascella. I suoi occhi emisero lampi di luce e per poco non fu tutto buio. Si tenne al compressore di dritta e ritrovò la posizione eretta. Fu coperto dal corpo di Linke che, come una furia, mulinava le braccia nel tentativo di colpire una delle SS. Le pistole mitragliatrici che non avevano avuto il tempo di sparare vennero usate come mazze, i calci di metallo producevano scintille quando incontravano il duro acciaio delle pareti, ma il più delle volte trovarono carne, ossa e muscoli. Kugler intravide uno scintillio alla sua sinistra e si mise in guardia. Vide Siffling
ritirare il coltello sporco di sangue. Qualcuno doveva aver assaggiato il morso dell’acciaio del sergente marconista. Poi lo vide. Thielen era libero e si batteva come un leone contro un soldato. I suoi occhi erano bianchi, capovolti dalla furia del combattimento. Afferrò la testa dell’uomo e la fece sbattere contro una delle casse: una, due, tre volte, finché un suono simile a un ramo che si spezza non mise fine alla tortura. Thielen lasciò la presa e si fermò a guardarsi le mani insanguinate. Il volto era tirato, pallido e dalla bocca gli usciva un filo di bava schiumosa. Il calcio di una MP-40 lo colpì alla testa e Thielen cadde come un sacco sul pavimento. La confusione aveva raggiunto livelli indescrivibili. Altri uomini si erano aggiunti alla mischia. Alcuni cercavano con difficoltà di dividere le due parti, altri, intervenuti per sedare gli animi, si ritrovarono a doversi difendere dai loro stessi compagni. Kugler afferrò la canna di una mitragliatrice e la strattonò con forza, fino a strapparla di mano al suo possessore. La puntò a bruciapelo contro il ventre di Kurtz, poi gli urlò contro. «Si arrenda, maggiore!» Kurtz fece un balzo indietro quando si accorse della canna spianata contro di lui, ma dopo un attimo di smarrimento, partì con un calcio. Kugler tirò il grilletto. L’otturatore si chiuse con uno scatto, ma non accadde nulla. Niente scoppio, niente urla, niente sangue. Il piede del maggiore lo colpì in pieno stomaco e cadde all’indietro con le gambe per aria. Quando toccò terra, ignorando il dolore che gli tempestava la mente, cercò di tenersi al coperto dai piedi degli uomini che danzavano sopra di lui e che rischiavano di calpestarlo. Le mani stringevano ancora la mitragliatrice. L’otturatore era chiuso, ma il caricatore non c’era. Quell’idiota, nella fretta di fronteggiarli, non aveva fatto in tempo a inserirlo. Li aveva minacciati con un’arma scarica. La furia s’impossessò di lui. Cercò di rialzarsi ma un frastuono improvviso lo fece desistere. Le casse erano state rovesciate a terra; Linke saltava felice come un bambino mentre si avvolgeva al collo il panno mimetico usato come copertura del carico.
Gridava come un ossesso qualcosa che Kugler non riuscì a comprendere. La prima cassa si ruppe cadendo, sparpagliando a terra il suo carico. La mitragliatrice MG-42 apparve in tutta la sua magnifica potenza. Gli uomini si fermarono col fiato sospeso, poi, evidentemente non appagati da quanto visto, continuarono la loro opera di distruzione. Ormai si erano disinteressati degli scagnozzi del maggiore che battevano ritirata su un fianco. A suon di calci cercarono di aprire anche l’altra cassa. Dal fondo del locale giunsero delle voci agitate. Qualcuno aveva avvertito della presenza del comandante. L’orda non si fermò e proseguì con la sua opera di demolizione. Garnn si erse sulla seconda cassa con un grosso maglio usato per piantare i cunei in caso di falle nella struttura; lo sollevò sulla testa e lo calò con violenza. Dal fondo giunse un urlo ferino. «Fermo!» gridò quello che, nella calca, Kugler riuscì a individuare come Sartori. L’archeologo si sbracciava come un ossesso cercando di farsi largo tra gli uomini. Il maglio cadde pesantemente sul legno, spaccandone il coperchio. Il rumore di cocci che s’infrangevano riempì le orecchie di tutti gli uomini ammassati in quei pochi metri. Fu come un’onda d’urto capace di stravolgere la mente di un uomo e portarlo alla follia in un battito di ciglia. Garnn rimase immobile. Il martello piantato nel legno. Quando sollevò lo sguardo verso la platea davanti a lui, i suoi occhi erano rigati dalle lacrime. La rivelazione di quanto aveva appena fatto era troppo per una mente così semplice. Il cuore iniziò a pompare velocemente, troppo velocemente, finché il nano non cadde a terra strabuzzando gli occhi e sbavando. La grossa faccia divenne pallida, assumendo un colore azzurrino tanto che la pelle sembrò fatta di cera. Nessuno si mosse; rimasero tutti impietriti da quella scena assurda. Garnn si agitò nelle convulsioni ancora per qualche secondo. Poi si quietò e rimase immobile. «Che cosa avete fatto!» urlò Sartori, giunto davanti alla cassa spaccata. «Che
cosa avete fatto…» ripeté con un filo di voce. Sollevò con delicatezza il coperchio, quasi stesse toccando un uccellino ferito e, in quel momento, mostrò a tutti il suo contenuto. Un vaso di terracotta, delle dimensioni di un pallone da calcio, era adagiato in una custodia di velluto nero. Le rune germaniche Ger, Hagall, Leben, Opfer, Tod e Sig, ricamate in filo d’oro, ornavano il velluto. Il vaso mostrava una grossa incrinatura sulla superficie che terminava in un foro dove l’intrico di crepe si congiungeva nel punto esatto dove il martello di Garnn aveva colpito. «Siamo condannati» sibilò Sartori. Poi, come ripresosi da un incubo, si alzò in piedi e si mise a correre. Kugler lo vide attraversare tutta la erella del locale diesel, spingere da parte il comandante e il suo seguito, attraversare la paratia e voltare verso la cucina. Lo vide arrampicarsi sui fornelli e con un tonfo chiudere il portello stagno. Niente doveva uscire, niente doveva entrare.
Capitolo 19
Mai, come in quella notte, aveva visto un cielo così. Mai, come in quella notte, aveva avuto modo di soffermarsi a osservare le stelle. L’astronomia così legata ai miti antichi, era stata la sua ione fin dalla tenera età, quando ancora la sua famiglia abitava nelle campagne trevigiane. Eppure, non fu nell’astronomia che trovò la sua strada, ma in una disciplina strettamente legata a essa. Divenne archeologo, laureandosi con pieni voti. Furono anni felici quelli, la spensieratezza giovanile, unita a una grande libertà mentale e di azione, fece in modo che Eno Sartori gettasse le basi per i suoi successi futuri. Fu proprio la Grecia, la culla dell’archeologia classica, il luogo dove il destino l’aveva accompagnato per mano. Ma l’idillio era destinato a durare poco. Tutto sembrava perfetto, speciale, fino a quel giorno sciagurato in cui i tedeschi avevano bussato alla sua porta. Eno strappò una margherita e se la portò alla bocca. Succhiò la linfa dallo stelo e lasciò che i suoi pensieri si perdessero tra quelle stelle. « Kalimera, Signor Sartori» disse una voce calda, proveniente da un luogo imprecisato. Eno scosse la testa e sollevò il capo. «Ah, buonasera a lei, Angelos.» «Speravo proprio di trovarla qui» disse l’uomo, in quel suo modo bizzarro di pronunciare l’italiano. «Ci vengo ogni volta che posso. Il cielo è magnifico da qui.» L’uomo si sedette accanto a lui. Angelos Kamaras era sulla quarantina con il volto bruciato dal sole e un fisico asciutto tipico di coloro che avevano fatto dell’agricoltura e della pastorizia la loro vita. Al contrario di Eno, Angelos
bramava l’avventura e quel volto scavato dalle avversità era il suo biglietto da visita. Il sole, la pioggia e il vento della Grecia avevano lasciato il segno sulla sua pelle e ora appariva più vecchio dell’età che realmente aveva. In cuor suo Eno invidiava quell’uomo. La vita che si era scelto, fatta di continui incarichi, gli aveva strappato di mano la possibilità di mettere radici, di godere della frivolezza della libertà. Amava la genuinità della vita di campagna, il semplice camminare a piedi scalzi sui pascoli erbosi, l’odore del grano appena mietuto o quello del latte appena munto. Angelos apprezzava quanto possedeva e tutto quello che chiedeva era un poco di pane e un letto su cui sdraiarsi la sera. «Siamo pronti a partire, kýrios» disse Angelos, alzandosi in piedi all’improvviso. «Dovresti smetterla di chiamarmi così.» Angelos alzò le spalle. «E perché, è lei il capo.» «Non mi piace, fa troppo Nuovo Testamento» disse Eno, storcendo il naso. «Aaah, voi italiani, sempre a trovare doppi significati. Alzi il culo e mi segua o si troverà a doverci correre dietro, kýrios!» Eno si lasciò aiutare dall’uomo e, seguendo il sentiero, raggiunsero il villaggio di Kyriaki. Sopra di loro svettava il monte Elicone che, con i suoi millesettecentoquarantotto metri, era la vetta più alta della Beozia. Al villaggio, poco più che un gruppo di case di pastori, trovarono fermento tra gli uomini scelti per la spedizione. Gli zaini erano stati accatastati in un’unica pila ordinata e gli attrezzi e le tende assicurati a dei muli da soma. Il viaggio sarebbe stato lungo e tortuoso, con una prima tappa alle rovine di Ascra, il villaggio natale di Esiodo, per poi continuare su per le pareti scoscese dell’Elicone. Eno osservò la muta sagoma del monte che si stagliava sullo sfondo e rabbrividì. Non era la fresca brezza primaverile, ma l’aspettativa di quel viaggio. Si giocava tutto in quella spedizione. Una scommessa fin troppo azzardata alla quale aveva creduto con convinzione, tanto da formulare una promessa solenne nei confronti di una delle persone più potenti dell’Europa ormai in guerra: il Reichsführer Heinrich Himmler.
Si erano incontrati a Berlino, in occasione di un convegno sull’architettura Greca in Occidente. Una disciplina alla quale Himmler non accreditava nessun valore, ma era comunque una buona occasione per incontrare archeologi e studiosi, cosa che al numero due del Reich sembrava interessare in maniera singolare. Eno si era mantenuto ai margini, evitando qualsiasi contatto con la delegazione nazista, e la cosa non gli aveva procurato nessun dispiacere: anche se era a conoscenza che una grossa fetta dei finanziamenti alla Scuola Archeologica Italiana di Atene provenivano dalle casse del Reich. Tutto sembrava andare per il verso giusto; si era limitato ad ascoltare gli interventi dei numerosi colleghi che presenziavano al convegno, finché non aveva ricevuto l’invito per un colloquio privato da un ufficiale in alta uniforme. Era stato scortato da due uomini in borghese, che puzzavano di servizi segreti, attraverso i corridoi dell’hotel Kaiserhof, fino a trovarsi davanti alla porta di una delle suite del quarto piano. Himmler era un uomo pratico, facile al disappunto se le cose prendevano una piega differente da quella auspicata. Lo aveva fatto accomodare su un divano di pelle e gli aveva servito un bicchiere di Jenever, un distillato al gusto di ginepro. Non si era perso in preamboli e era arrivato subito al dunque. Il suo interesse, come Eno aveva sospettato da quando quei due bell’imbusti delle SD si erano presentati alla sua porta, era tutto per i suoi studi e soprattutto per le sue supposizioni. Himmler si era rivelato un ammiratore delle teorie enunciate da Eno e un suo fervente sostenitore. Si era detto disponibile a sovvenzionare qualsiasi sua spedizione in terra ellenica e gli aveva promesso fondi illimitati affinché le sue ricerche giungessero a buon fine. Eno era rimasto estasiato da quelle parole. Era il sogno di ogni archeologo ottenere un patrocinio di tale livello. Era talmente attratto dai modi affabili e garbati di quell’uomo da rimanerne rapito e non valutare le conseguenze del patto che stava stipulando. Preso dall’esultanza e dall’eccitazione, si era sbilanciato, promettendo al Reichsführer che avrebbe portato a termine gli scavi in meno del tempo stimato e che sarebbe tornato in patria con un eccezionale ritrovamento. Himmler non aveva detto nulla, si era limitato ad annuire mostrando solo un sorriso compiaciuto. Un sorriso che col senno di poi, Eno imparò a odiare e temere.
Qualche giorno dopo, era partito alla volta di Atene, carico di buoni propositi, e con le tasche piene di marchi del Reich. «Opa!» gridò Angelos colpendo con una canna il dorso del mulo per farlo camminare. Il piccolo drappello raccolse gli zaini e si mise in marcia. Una nuova alba stava sorgendo, e aveva tutto il sapore del trionfo. Eno era certo delle sue teorie e prese quel bacio di sole come il segno che persino gli dei greci approvassero i suoi intenti. Il tragitto fino alle rovine di Ascra fu piacevole e una brezza fresca li accompagnò fin alle pendici dell’Elicone. Lì, su un’altura ripida e rocciosa, sorgeva un tempo la città che diede i natali a Esiodo. Di essa non rimaneva in piedi altro che una modesta torre, dalla quale si dominava tutto il territorio di Tespie. «Ascra!» disse Eno entusiasta. «L’ingresso della Valle delle Muse.» Angelos si fermò accanto a lui e rimase a contemplare il paesaggio brullo e inaridito. Nient’altro che uno sperone roccioso punteggiato da arbusti avvizziti. Arricciò il labbro superiore disinteressato. «Che vuoi capirne tu? Questo è il luogo dove Esiodo ricevette l’investitura di poeta delle Muse.» «Per quanto mi riguarda, in quella torre può averci cagato pure Zeus in persona.» «Bel modo di portare rispetto agli dei del tuo popolo.» Angelos fece una smorfia e proseguì lungo il sentiero. Eno fu raggiunto da Bruno Serantoni, paleontologo e grande esperto di speleologia, e da Umberto Viani, con lui al SAIA fin dai primi giorni. Si fermarono accanto a lui e Umberto approfittò per asciugarsi la fronte con un panno. «Dovresti fare più esercizio, stai perdendo il tuo smalto» disse Bruno, osservando il grosso ventre del compagno. «Colpa della stramaledettissima cucina greca, non fanno altro che propinarmi moussaka da quando ho messo piede in questo buco di culo lontano da casa.
Sembra che non ci sia altro da mangiare. Moussaka, solo quella maledetta moussaka.» Eno sorrise. «Non che tu fossi uno smilzo anche prima, comunque.» «Lascia perdere, vallo a raccontare a quelli della soprintendenza di Milano chi è Umberto Viani.» «Un beone ottuso, già sentito mille volte» rispose Bruno, mentre tirava uno dei muli da soma. «Queste bestie dovrebbero tirare, non essere tirate. Muoviti, stupido di un mulo!» Eno non poté che rallegrarsi di come le cose stavano procedendo. Il morale era al massimo, il gruppo solido e composto dagli unici uomini che avrebbe voluto vicino in quell’impresa. Una compagnia eterogenea, ma unita da un reciproco rispetto e da una profonda amicizia. «Sapevi che Esiodo è morto povero in canna?» disse d’improvviso Umberto. «Pare che il fratello abbia dilapidato la sua parte di eredità e trovatosi senza il becco di un quattrino si sia impossessato della parte di Esiodo. Il poveretto ha fatto una brutta fine, morto ammazzato dai fratelli di una donna che aveva provato a sedurre.» «Niente che non succeda ogni santo giorno in Italia» rispose Eno Umberto parve pensieroso. «Già» disse infine, «proprio così.» Il viaggio riprese nella più completa spensieratezza. Si fermarono per consumare un pasto leggero, che Umberto, come di consuetudine, non apprezzò. Il dislivello cominciava a farsi sentire e si percorrevano appena trecento metri di salita all’ora. I dolori muscolari iniziarono quando l’arrampicata si fece più difficile dovendo are da una roccia all’altra, con l’ausilio sia dei piedi che delle mani. I muli sembravano gli unici a non risentire minimamente dello sforzo. Il loro incedere imperterrito e la loro reticenza a obbedire agli ordini fecero andare Bruno su tutte le furie più di una volta. Quella che fino ad Ascra era apparsa come una eggiata di piacere si era tramutata in una impresa ardua e faticosa. Eno si fermò su una sporgenza del sentiero scosceso e tirò fuori i suoi appunti.
Da quel luogo aveva una buona visuale della valle sottostante e dei punti geografici che aveva segnato per orientarsi. «Ci siamo quasi» disse, continuando a fissare una serie di annotazioni segnate a matita su una carta topografica. C’era voluto del tempo per avere una rappresentazione dettagliata in scala di quella zona, ma alla fine era riuscito a procurarsela, non senza l’aiuto dei cartografi tedeschi. Il gruppo si compattò intorno a lui. Bruno e Umberto erano rossi in volto e, per quanto il clima fosse fresco a quell’altitudine, i due avevano la fronte imperlata di sudore. Umberto respirava velocemente, inalando aria e rilasciandola subito dopo come un pesce lasciato a morire sulla riva. «La vetta è ancora lontana» disse Angelos, indicando un punto al di là di una serie di speroni rocciosi. «Non ci sarà bisogno di arrivare fin lassù» li rassicurò Eno. «Ho ragione di supporre che la fonte sgorgasse sotto la sommità. Non troppo distante da qui.» «Questa è una notizia magnifica» gioì Umberto, mentre riprendeva fiato. Eno ripose la cartina e guardando i suoi compagni a uno a uno, enunciò a memoria:
« Cominciamo il canto dalle Muse eliconie che di Elicona possiedono il monte grande e divino e intorno alla fonte scura, coi teneri piedi danzano, e all’altare del forte figlio di Crono; e bagnate le delicate membra nel Permesso e nell’Ippocrene o nell’Olmeio divino sul più alto dell’Elicona intrecciavano danze belle e soavi, e si muovevano con piedi veloci.
Di lì levatesi, nascoste da molta nebbia, notturne andavano, levando la loro bella voce
celebrando l’egioco Zeus e Era signora.»
«Non bastava la salita, ci mancava anche il poema didattico, adesso» borbottò Bruno. «Le sentiremo cantare di notte» disse annuendo alle sue parole, «e il loro canto ci indicherà la via.» Si accamparono poche centinaia di metri più avanti, dove il paesaggio brullo e roccioso a cui erano stati abituati lasciava spazio a una vegetazione composta da un intrico di arbusti tra cui comparivano il lauro, il ginepro e la ginestra. L’azione demolitrice delle piogge e del vento aveva reso quel panorama completamente spoglio di vegetazione, scavando la terra fertile fino alla nuda pietra. Montarono il campo base in una radura tra grovigli di mirto: un’unica tenda sufficiente per tutti e quattro. I tre asini furono assicurati con delle corde a dei paletti puntellati tra la dura roccia. «Non ci resta che aspettare» disse Eno distendendosi a terra, usando il suo zaino come cuscino. «Farà buio tra qualche ora, direi di accendere un fuoco.» Angelos finì di scaricare gli attrezzi e si unì al gruppo. «E pensare alla cena, se non vi dispiace, io muoio di fame» aggiunse Umberto. Il tramonto giunse puntuale e con esso la notte. Una coltre di nebbia iniziò a scendere verso valle dalle pendici dell’Elicone, sorprendendoli ancora intorno al fuoco a consumare un frugale pasto. «Se continua così, finirà che non troveremo neanche più il nostro naso» borbottò
Umberto. «Sta rinfrescando, che ne dite di entrare?» Bruno si chiuse come meglio poté nel suo giaccone e guardò la tenda con desiderio. «Andate voi, io rimango ancora un po’ qui» propose Eno. «Attento a non farti rapire dalle tue Muse» disse Umberto mentre si puntellava sul bastone da eggio per alzarsi in piedi. «Ci vediamo dentro. Credo proprio che porterò a riposare queste vecchie ossa.» Bruno colse l’occasione e lo seguì. La nebbia era aumentata col are dei minuti. Le volute bianche iniziavano a rallentare, compattandosi in un’unica massa candida più simile a una parete di roccia. La luce della luna filtrava attraverso quella cortina densa, conferendo al paesaggio un’atmosfera eterea, quasi aliena. Come se stessero vivendo un sogno a occhi aperti, i due uomini rimasti all’aperto percepirono un senso di pace e assopimento tale da confondere i sensi. Fu in quel momento che udirono il canto. Non era una vera e propria melodia, piuttosto un sibilo del tutto simile al vento che si incunea tra gli anfratti rocciosi, ma tale da comporre una cantilena ammaliante. Il freddo sparì dai loro corpi, ora riscaldati da quella musica soave. «Le Muse» disse Eno, alzandosi sui gomiti per ascoltare meglio. «O forse solo il vento» rispose negativo Angelos. «Tuttavia è meraviglioso.» Eno si alzò in piedi e azzardò qualche o nella direzione da cui immaginava provenisse il suono. Il riverbero si confondeva attraverso gli strati di nebbia e le rocce intorno a loro facevano uno strano effetto di risonanza. Capire quale fosse la fonte di quella melodia era impossibile. «Stia attento, il terreno è impervio quassù, vuole fare la fine di Ulisse con le sirene?» «Procurami dei tappi per le orecchie allora, ma non sperare che li metta.» «Stupido e impulsivo come tutti gli italiani.» Angelos si alzò e gli si mise dietro.
Eno fece un altro o, poi lanciò uno sguardo alla tenda e si chiese se non fosse il caso di svegliare gli altri. La nenia riprese con più vigore e pensò di aver individuato la giusta direzione, dimenticandosi del tutto dei suoi compagni. «Di qua, Angelos, vieni.» Il greco lo seguì a pochi i di distanza per non perderlo di vista tra quella coltre bianca. Vagarono alla cieca per alcuni minuti, proseguendo a tentoni, facendo strusciare i piedi a terra per non inciampare nelle rocce appuntite. «Guardi!» esclamò Angelos. Eno rivolse lo sguardo verso la direzione indicata dal braccio del compagno. In quel punto la nebbia sembrava meno fitta, come se le sue volute si fossero stracciate per consentire meglio la visuale. Uno sperone roccioso si mostrò ai loro occhi. Da quella roccia antica proveniva il canto. «Sono loro!» esultò Eno. Il timore che la loro presenza potesse spaventarle lo fece desistere dall’avvicinarsi troppo. Dovevano essere loro a concedergli l’onore. Si mise in ascolto, in attesa di un segno. Un verso. Qualcosa del tutto simile allo sbuffo di un cavallo. Eno sobbalzò. L’aveva sentito veramente? Si voltò verso Angelos per avere conferma, ma lo trovò distante, appena un’ombra nella nebbia. Che l’accesso fosse consentito solo a lui? Che le Muse lo avessero scelto per fiducia? Eno azzardò ancora qualche o, fino a trovarsi al cospetto della nuda roccia. Pose le mani sulla pietra, beandosi della vibrazione della melodia che ora sembrava pervadere tutto il suo essere. « ‘Di lì levatesi, nascoste da molta nebbia, notturne andavano, levando la loro bella voce’» recitò. Le sue mani discesero lungo la pietra, fino a toccare un arbusto. Le spine gli punsero le dita, ma non se ne curò più del necessario. La testa era colma della melodia e i sensi ottenebrati dal suo ritmo. «Ἱπποκρήνη. Hippocrēne, la fonte del cavallo» disse in un sibilo. «Scaturita nel punto in cui Pegaso, il cavallo alato, colpì la roccia con il suo zoccolo.»
Le mani individuarono un’apertura nascosta dagli arbusti e si chinò per osservare meglio quell’anfratto oscuro. Come era iniziato, il canto cessò all’improvviso. Il vento si attenuò e la nebbia smise di vorticare, calando lenta verso il terreno. Eno si alzò allarmato. Cos’era accaduto? Aveva sbagliato qualcosa? Aveva mancato di rispetto alle sue Muse? «Tornate» disse speranzoso. «Non abbiate paura, cantate per me!» I secondi arono, ma non accadde nulla. Poi d’un tratto una voce ruppe il silenzio. «Eno! Figlio di una cagna, dove diavolo ti eri cacciato?» Il volto paonazzo di Umberto sbucò dalla nebbia, ora poco più che un velo etereo. Dietro di lui c’erano Angelos e Bruno. «L’ho persa e per un attimo ho temuto il peggio. Sono tornato a chiedere aiuto e… eccola qui.» Angelos lo afferrò per le braccia, cercando di interpretare l’espressione del suo volto. Eno era una maschera di pietra. Come se la Gorgone lo tenesse sotto il suo incantesimo. «Le hai sentite anche tu, non è vero?» disse, fissando i suoi occhi in quelli del greco. «Non lo so cosa ho sentito» rispose lui. «Potrebbe essere stato il vento.» «No, non il vento. Erano loro, Angelos, le ho percepite intorno a me, erano così vicine ma tuttavia…» Angelos piegò la testa da una parte. «Guarda!» Eno si divincolò dalla stretta e corse verso la parete di roccia. Scostò le foglie e mise in mostra una spaccatura nella pietra. «Guarda, Angelos, guardate amici, l’ho trovata!»
*
Eno si era alzato alle prime luci dell’alba. Era riuscito a rimanere sveglio, in preda all’eccitazione, per gran parte della notte, finché la stanchezza non lo aveva trascinato in un sonno senza sogni. Fu il primo ad alzarsi e, senza preoccuparsi di altro, corse verso lo sperone roccioso con il cuore che gli martellava nel petto. Fa che sia ancora lì, si disse mentre percorreva gli ultimi i. Le sue preghiere non furono disattese. L’apertura era ancora dove l’aveva trovata la sera prima. Attese trepidante che gli altri fossero pronti e, finalmente, scostando con venerazione gli arbusti che celavano l’entrata, s’immerse nell’oscurità. Le luci delle torce elettriche illuminarono un ambiente spoglio e privo di qualsiasi decorazione Eno si fosse aspettato. Null’altro che una caverna scavata nella roccia. Niente che potesse indicarne una correlazione con la mitica sorgente delle Muse. I quattro ispezionarono la caverna palmo a palmo senza trovare altro che una semplice grotta. «Qui non c’è niente» disse Bruno chinandosi in ginocchio per esaminare il terriccio sotto i suoi piedi. «Nient’altro che fredda roccia.» «Dev’esserci qualcosa che ci è sfuggito» disse Eno titubante. Non era possibile che si riducesse tutto a quella caverna insignificante. «Abbiamo controllato tutto cento volte» sbottò Umberto, «non c’è niente che possa far supporre che qui vi fosse una sorgente. Nessuna traccia di grotte secondarie, solo una frattura nella montagna.» «Già, non c’è corrosione di rocce solubili, calcari, dolomie…» «È qui, deve essere qui da qualche parte.» Eno scosse la testa pensieroso. Fece qualche o e si fermò di colpo. «All’altare del forte figlio di Crono» ripeté lentamente. «Il figlio di Crono è Zeus, il dio del cielo e del tuono… il dio del cielo.» Eno alzò la torcia sulla volta di pietra. Il raggio di luce percorse avanti e indietro la cupola di pietra, finché non illuminò una fenditura. Un pertugio troppo regolare per essere stato scavato dall’erosione.
«Abbiamo controllato tutto cento volte, ma non lassù» disse con un sorrisetto malizioso. La parte difficile fu trovare un appoggio stabile che consentisse di ergersi verso il buco. Dopo vari tentativi, Bruno riuscì a fissare dei paletti ai quali assicurare le corde per ottenere un argano improvvisato. Grazie a quell’espediente riuscirono a issarsi nell’imboccatura. Bruno, data la sua qualifica di speleologo, fu il primo a salire. Lo seguirono Eno, poi Angelos e per ultimo Umberto che fu il più difficile da issare data la sua scarsa attitudine all’esercizio fisico. La nuova camera nella quale entrarono apparve da subito ben diversa dalla precedente. Le grezze pareti di roccia della grotta sottostante vennero sostituite da mura ben levigate. Tale fu la meraviglia quando le torce elettriche illuminarono un mosaico perfettamente conservato, che Eno non riuscì a trattenere l’emozione. Cadde carponi in ossequioso silenzio davanti a quella inaspettata scoperta. Non molto inaspettata visto che la stava cercando. Per creare il mosaico erano state utilizzate tessere di marmo, onice e pietre varie, in una perfetta composizione policroma. Le lamine di piombo, inserite tra le tessere, evidenziavano i contorni dei soggetti e definivano ogni più minuto particolare. «È meraviglioso» disse Eno rompendo il silenzio. Umberto si avvicinò puntando la torcia. «Guardate, presenta una serie di bordature intorno a un pannello centrale. L’e mblema ci mostra un chiaro soggetto…» «È la costellazione di Pegaso» disse Eno, scuotendo la testa incredulo. «Sì, esatto, stavo per dirlo io.» «E non è tutto» aggiunse Angelos. Con il piede spazzolò lo spesso strato di polvere depositatosi nei secoli che copriva tutto il pavimento. « Lithostrota, i pavimenti di pietra. Si usavano per rendere il suolo impermeabile e resistente all’usura.» «Cosa c’è lì?» chiese Bruno.
«Dove?» «Vicino al tuo piede.» I due si misero a ripulire il pavimento con le mani, finché non portarono alla luce un piccolo mosaico circolare fatto di sassolini banchi e neri. «Andromeda e Pegaso!» esultò Eno. «La mitologia vuole che Pegaso nacque dal sangue fuoriuscito dalla testa di Medusa, dopo che Perseo la ebbe decapitata. L’eroe cavalcò proprio Pegaso per sconfiggere il Cetus e salvare la bella Andromeda.» «Tutto ciò e magnifico, ma…» disse Umberto. «Ma manca qualcosa. Ho avuto anche io questa sensazione» rispose Eno. Come avevano fatto per l’anticamera sottostante, si diedero da fare per trovare camere secondarie o nuovi pertugi celati alla vista. Le loro ricerche però furono infruttuose. Si ritrovarono davanti al mosaico per fare il punto della situazione. «Cosa abbiamo?» disse Umberto. «Un mosaico apparentemente datato al quarto secolo Avanti Cristo, se prendiamo in considerazione le tessere e i marmi» rispose pronto Bruno. «A quanto pare rappresenta il quadrilatero di Pegaso.» «E lungo il bordo le parole μυκτήρ, κνήμη, ὦμος, πλευρά, ὑετός.» Angelos lesse le iscrizioni nella sua lingua madre. «Che significano?» chiese Bruno. «Avresti dovuto studiare il greco antico invece di giocare a infilarti nei pozzi» lo schernì Umberto. «Testualmente, naso, tibia, spalla, fianco, pioggia» tradusse Angelos. «Potrebbero essere associate alle parti del Pegaso, no? Naso, spalla, tibia, si insomma, ci sta. Tranne pioggia, forse.» Umberto si portò una mano alla bocca e strinse forte il labbro inferiore in una chiara espressione perplessa.
«L’ipotesi è corretta, amico mio» disse Eno. «Le stelle del quadrilatero di Pegaso hanno nomi propri in lingua araba: Sirrah, Scheat, Algenib e Markab.» «E questo dove ci porta?» chiese Bruno. Eno sorrise. I suoi lunghi studi sull’archeoastronomia alla fine avevano dato i risultati cercati per anni. «Semplice, μυκτήρ significa naso. Enif in arabo ha lo stesso significato. Così anche per Scheat che significa tibia, Markab sta per spalla e Algenib per fianco.» «Incredibile, quindi quei nomi si riferiscono alle stelle del quadrato» disse stupefatto Umberto. «Non solo.» Eno fece una pausa d’effetto prima di continuare. «Così come sono riportati sul mosaico, sono disposti in ordine di luminosità. Enif è una supergigante rossa, ed è la stella più luminosa del Pegaso.» «Sì, va bene, ma non ricominciare a dilungarti e vieni al sodo» Umberto fece un segno con la mano per indicargli di sintetizzare. Eno scosse la testa, ma non poté fare a meno di smettere di sorridere. Si avvicinò al mosaico e lo osservò attentamente. «Se c’è una chiave, deve esserci anche una serratura.» ò una mano sui freddi tasselli di marmo. Accarezzò ogni centimetro della costellazione di Pegaso e qualcosa gli illuminò il volto. «Forse…» «Che c’è, che hai trovato?» chiese incuriosito Bruno. Eno guardò attentamente la prima iscrizione. «Naso sta per Enif.» Poggiò l’indice sull’insieme di tessere che rappresentavano la stella Enif e le premette dolcemente. Qualcosa sotto i suoi polpastrelli cedette con un click. Preso dall’enfasi, procedette con tutti gli altri tasselli in ordine di luminosità, come chi aveva composto quel mosaico aveva voluto suggerire. Ciascuna delle stelle s’incuneò all’interno del mosaico senza problemi. Solo allora si rese conto che ne mancava una, l’unica che non aveva un corrispettivo sulla bordatura. «Che succede? Perché si è fermato?» chiese Angelos.
«Manca la stella Sirrah, non è indicata, eppure è la prima in alto a sinistra del quadrato. Ne è parte integrante.» « Sirrah… che significa in arabo?» chiese Umberto. «Non ne ho idea» rispose Eno. «Per tutti gli dei, premila lo stesso» sbottò Umberto. «E se fosse una trappola?» «Aspetta un attimo» s’illuminò Eno. «Cos’hai detto poco fa?» «Premila lo stesso.» «No, prima… per tutti gli dei.» Eno fece qualche o fino al piccolo mosaico raffigurante Andromeda e Pegaso. «Tutti gli dei. Sirrah è la stella più esterna del quadrilatero ed è in comunione con la costellazione di Andromeda. Due costellazioni condividono la stessa stella.» «E con ciò?» Eno tornò alla parete. Poggiò l’indice sul tassello che rappresentava la stella Sirrah e lo premette. Anche in questo caso si udì un click, ma non accadde nulla. «E ora?» chiese Umberto deluso. Eno tornò al piccolo mosaico dove erano rappresentati Pegaso e Andromeda, vi poggiò un piede sopra e fece pressione. Il cuneo tondo si infossò nel terreno e ne fuoriuscì un soffio di vento caldo. Una melodia prese a suonare lontana, attutita dalle spesse pareti di pietra. La stessa musica soave udita da Eno la sera prima. Ora tutti potevano udirla, tutti ne erano parte. La parete vibrò e le tessere del mosaico del quadrilatero di Pegaso iniziarono a staccarsi una dopo l’altra cadendo a terra. Il vuoto che si venne a formare mise in mostra una lastra di marmo candido, del tutto simile a una lapide. Sulla sua superficie c’era scritto in greco antico: “Qui giacciono tutti i mali del mondo e l’ultima speranza”.
Eno, ancora sotto l’influsso della musica adulatrice, afferrò una piccozza e colpì la lastra di marmo. Con un suono sordo, la pietra si ruppe, rivelando un piccolo recesso segreto. Al suo interno, poggiato su un piedistallo di pietra nera, giaceva un vaso di piccole dimensioni. «Santi numi!» esclamò Umberto. «Tutti i mali del mondo e l’ultima speranza…» ripeté Angelos. «Il vaso di Pandora» sibilò Eno. Gli uomini si guardarono l’un l’altro, indecisi su come agire. A rompere gli indugi fu Eno che, incurante delle conseguenze e seguendo l’istinto che gli gridava a gran voce di essere nel giusto, afferrò il vaso con entrambe le mani e lo sfilò con cautela dal suo nascondiglio millenario. «Riuscite solo a immaginare l’importanza della cosa?» disse trionfante. «Io già mi vedo a cena con Benito e Galeazzo a Villa Torlonia» disse ilare Umberto. «Avevo ragione fin dall’inizio, riuscite a crederci? Tutte quelle tracce, quelle testimonianze, tutto riconduceva proprio a questo luogo.» «Sì, signor Sartori. Voglio essere sincero con lei» Angelos fece qualche o indietro mentre alzava le braccia parallele al terreno, «non credevo sarebbe giunto fino a questo punto. Dico davvero. Vorrei applaudirla, ma mi perdonerà.» Tra le mani stringeva una Nagant, un revolver russo da sette colpi. «Cosa significa quest’idiozia?» chiese Bruno scuro in volto. «Non un o, signori» disse autorevole. Bruno non gli diede ascolto. Allungò la mano cercando di afferrare il revolver, ma un lampo assordante interruppe i suoi intenti. Cadde steso a terra. Gli occhi spalancati verso il soffitto e un buco fumante al centro del petto. «Questo dovrebbe darvi l’idea delle mie intenzioni a riguardo. Non… un… o…» scandì le ultime parole per far arrivare meglio il messaggio.
Umberto cadde in ginocchio sconvolto. Prese tra le braccia il corpo dell’amico e alzò piano il capo verso il greco. «Cos’hai fatto…» «Mi dia quel vaso e nessun altro dovrà pentirsi delle sue azioni» disse con voce posata ma autoritaria. Eno sentì il mondo crollargli addosso. L’euforia si tramutò in sconforto alla velocità della luce. Guardò il corpo inerme di Bruno Serantoni, poi il vaso che teneva in mano, quasi stesse soppesando su una bilancia invisibile il valore emozionale delle due cose. Scosse la testa. Non era disposto a cedere la sua scoperta, non a quell’uomo, non in quel modo. «Temo che dovrò prenderlo in un modo che non le piacerà affatto, kýrios.» Eno strinse forte il vaso tra le braccia. Angelos avanzò di un o. Quel movimento aveva tutta l’aria di una minaccia. Superò il corpo di Bruno, disinteressandosi di Umberto che sembrava aver perso qualsiasi spirito combattivo. Se ne stava con il capo chino sulla spalla dell’amico ormai morto, il silenzio rotto solo dai suoi singhiozzi. «Il vaso» disse Angelos, mostrando il palmo della mano. «Mi i il vaso.» «No!» «Mi dispiace, kýrios, non mi dà altra scelta.» Angelos avvicinò la punta della canna del suo revolver e fece pressione sul grilletto. Il canto riprese in quel momento, più acuto e penetrante questa volta, come se quella melodia seguisse le emozioni degli uomini in quella stanza, per divenire poi rabbioso salendo d’intensità. Le tessere del mosaico, rimaste attaccate alla parete, caddero in terra e i frammenti della lastra di marmo si staccarono. Angelos sparò. Eno sentì l’eco del colpo rimbombargli nei timpani. Abbassò lo sguardo certo che l’assenza del dolore fosse dovuta all’adrenalina che pompava nel suo corpo come un mare in piena. Si stupì quando non vide il sangue.
Angelos aveva un’espressione contratta sul volto. La pistola era rivolta verso l’alto, a pochi centimetri dal capo di Eno. La bocca spalancata era fissa in una smorfia di dolore. Alle sue spalle, Umberto teneva serrata tra le mani una piccozza, la cui estremità era piantata tra le scapole del greco. Angelos si voltò con degli spasmi che diedero l’impressione si trattasse più di una marionetta che di un uomo. Cercò di afferrare la piccozza con la mano sinistra, ma non ci riuscì. Con un’espressione di terrore, si lanciò su Umberto e i due si aggrovigliarono in un corpo a corpo serrato. Eno rimase immobile, incapace di reagire a quella situazione, soggiogato dalla musica soave delle Muse. I due contendenti svanirono all’improvviso. Si dissolsero nel nulla come per magia. A testimonianza della loro presenza in quella stanza rimase solo l’eco lontano di un tonfo sordo. arono secondi che sembrarono ore. La musica riprese il suo tono più simile a una cantilena fino a svanire del tutto. Le Muse si erano placate. Eno sbarrò gli occhi, come se il peso emozionale dovuto ai fatti poc’anzi accaduti gli fosse stato scaricato sulle spalle tutto in una volta. Afferrò la torcia elettrica da terra e la puntò dove, fino a pochi secondi prima, si erano avvinghiati Umberto e Angelos. Dei due nessuna traccia, ma a terra vide il buco quadrato che li aveva condotti lassù. Corse sul bordo e illuminò la grotta sottostante. I due corpi giacevano uno sopra l’altro in un abbraccio mortale. Il collo di Umberto era piegato di traverso, con un’angolazione innaturale. Le mani stringevano la camicia di Angelos, zuppa di sangue. Un rigolo di quel sangue traditore cadde a terra e fu assorbito dal terreno avido. Il mito si ripete, pensò Eno. Come fu per Medusa uccisa da Perseo, quando il suo sangue versato in terra generò Pegaso il cavallo alato, ora quel sangue infido portava alla nascita di un nuovo mito. Il vaso di Pandora aveva fatto ritorno in quel mondo che gli era stato precluso da secoli. Tutti i mali del mondo e l’ultima speranza.
Capitolo 20
Sangue dappertutto. Grosse gocce simili a rubini incastonati sulle pareti del motore elettrico di dritta. Striature scarlatte che ricoprivano gli amperometri, colando in linea retta fino al pavimento. Josef respirò profondamente. I polmoni, come la testa, reclamavano aria fresca. Il puzzo di sudore acido di quegli uomini accalcati e avvinghiati superava persino quello della nafta. Vide, steso a terra, il corpo agonizzante di Siegfried Arno, uno dei fuochisti. Con la mano stretta al collo, cercava di impedire all’essenza vitale di abbandonargli il corpo. Un fiotto di sangue arterioso fuoriusciva senza sosta, inzuppando la erella e colando, lungo gli scoli, dritto in sentina. Il ragazzo apriva e chiudeva la bocca cercando di parlare, di chiedere aiuto, ma le parole non uscivano, il proiettile doveva aver fatto un bel macello. Ad Arno non rimaneva altro che rilassarsi e attendere la morte. Perché continui ad agitarsi tanto? Sta’ fermo, avrebbe voluto urlargli Josef. Fermati e lasciati andare. La mente, annebbiata dalla carenza di ossigeno, non riuscì a elaborare nient’altro che immagini. Nessuna opinione, nessun giudizio su quanto accaduto. Josef se ne stava impalato a fissare la scena che gli si parava davanti come inebetito, completamente frastornato da qualcosa di immateriale che gli ovattava la mente. Accanto a lui, Hans sembrava in catalessi, rapito dal piccolo vaso rotto che giaceva sul pavimento e attorno al quale gli uomini avevano formato uno stretto cerchio. Qualcosa gli bisbigliò nell’orecchio. Simile al ronzio di un calabrone, qualcosa che percepì come un fastidio da scacciare. Si grattò con insistenza, ma quel suono tornò a infastidirlo. «Distolga lo sguardo» mormorò qualcuno. Josef si voltò e vide Sartori. Il piccolo archeologo lo strattonava per un braccio,
cercando di tirarlo via. Soggiogato com’era da una forza invisibile che gli intorpidiva le membra, si lasciò guidare lontano, attraverso il portello che dava nel locale diesel. Il rombo delle macchine lo scosse, ridandogli sprazzi di lucidità. Appresso a lui entrarono anche Hans e Zielinsky. Il giovane sottufficiale di rotta camminava a piccoli i con le mani avanti a tentoni, quasi avesse le caviglie legate l’una all’altra. Sembrava un sonnambulo. «Aspettatemi qui» disse Sartori prima di ritornare verso poppa. Josef lo vide raggiungere Werner a grandi i e afferrarlo per una spalla. Werner si divincolò da quella presa e accennò a una reazione cercando di colpire l’archeologo con una gomitata, ma i suoi movimenti erano lenti, sembrava muoversi nella melassa. Sartori ritentò, questa volta afferrandogli un braccio e strattonandolo forte, ma Werner non ne volle sapere di abbandonare quel luogo e si liberò di nuovo. Sartori si voltò verso Josef, lo fissò per qualche secondo in cerca di consenso o, forse, solo di un aiuto, ma lui non riuscì a trasmettergli altro che distanza. Il suo volto era inespressivo, incapace di mostrare sentimenti o emozioni. Sartori cedette e, dopo aver voltato le spalle a Werner, tornò rapido verso di loro spingendoli con foga il più lontano possibile da quel luogo maledetto. «Dobbiamo tornare in fretta in camera di manovra» disse, sovrastando il rombo del motore. «Allontaniamoci da qui, subito!» Josef fece qualche o all’indietro ma incontrò il corpo di Hans che gli ostruiva il aggio. A quel punto qualcosa lo colpì con forza sul volto. L’impatto gli fece scuotere la testa e quel velo di nebbia che gli circondava i pensieri si dissolse. Trovò il volto di Sartori a pochi centimetri dal suo e la sua mano alzata, pronta a colpire di nuovo. Josef riuscì ad alzare la sua e a biascicare qualche parola. «Sto bene… sto bene» disse per placare la foga dell’archeologo. Sartori abbassò il braccio e gli mise le mani sulle spalle. «Comandante! C’è bisogno di lei, ora!» Josef sbarrò gli occhi e li sentì bruciare. Un’ondata di nausea gli squassò lo stomaco tanto da costringerlo a piegarsi su sé stesso. Si tirò su a fatica e si strofinò gli occhi con forza. Il voltastomaco si attenuò e lentamente riprese
possesso delle sue facoltà mentali. «Ci sono» disse, poggiandosi contro il tavolo da carteggio, rifiutando l’aiuto di Sartori. «Bene» l’archeologo tirò un sospiro di sollievo. Anche Hans e Zielinsky sembravano aver ripreso un po’ di colore. I volti cerulei e scavati, con gli occhi cerchiati da solchi violacei, stavano via via riacquistando il solito colorito pallido, tipico dei sommergibilisti. Anche loro si piegarono in preda ai conati, ma nulla uscì dalle loro bocche, solo spasmi muscolari, come se qualcosa stesse volutamente uscendo dai loro corpi. «Che sta succedendo?» chiese Hans. Tutti si voltarono verso Sartori. Il piccolo archeologo sembrò a disagio ora che era al centro dell’attenzione. La risolutezza dimostrata qualche minuto prima stava lentamente svanendo e il suo carattere pudico tornava a impossessarsi di lui. Si strofinò le mani senza sosta, poi ne portò una ai capelli scompigliandoli. Semplicemente non trovava le parole giuste per iniziare. «Coraggio, Eno» disse Hans, chiamandolo per nome per la prima volta. Sartori annuì e iniziò a raccontare. Cercò le parole giuste perché comprendessero appieno l’entità della sua scoperta. Narrò della sua spedizione in Grecia e di come aveva trovato la camera nascosta nella fonte Ippocrene e spiegò, nel dettaglio, come il tradimento di Angelos avesse tramutato quel rinvenimento da straordinario a tragico. «Vagai solo per ore, cercando di mettere un piede davanti all’altro per tornare al villaggio. I miei amici più cari erano morti, i loro corpi abbandonati in quella grotta al cospetto delle Muse. Invocai il loro nome, cercando aiuto, o forse il conforto per sopportare quel dolore. Ma fu il vaso a darmi la forza di continuare. Non posso spiegarlo a parole, ma avete visto la sua potenza; ti tiene stretto sotto il suo influsso al punto da renderti un burattino soggiogato a un potere che va al di là della nostra comprensione. È il potere di un dio, il vaso fu regalato a Pandora dallo stesso Zeus, dio del cielo e del fulmine.»
«Non credo a queste storielle mitologiche, ma ho visto cosa è accaduto lì dentro» disse Hans, indicando verso poppa. «Possiamo davvero attribuire quanto accaduto a un vaso?» ribadì Josef. «Sì, insomma, è solo un pezzo di terracotta con migliaia di anni.» «Un pezzo di terracotta che i nazisti hanno preteso senza possibilità di dialogo. Himmler in persona venne a reclamarlo come proprietà di diritto del Reich.» Sartori serrò la mascella con forza a quel ricordo. «Quello che fanno quegli stregoni dei nazisti non ci riguarda» li interruppe Josef. «Abbiamo un problema che dobbiamo risolvere urgentemente, o le cose qui andranno in malora fin troppo presto.» «Bisogna ristabilire la disciplina quanto prima» esclamò Hans. «Senza meno è la priorità» ripose lui annuendo. «Ma dobbiamo definire la questione del vaso ancor prima. Ho visto che influenza ha sugli uomini e, dono di Zeus o no, deve essere messo al sicuro.» «Non capite» sorrise Sartori. «Non esiste più un posto sicuro.» «Che significa?» chiese Hans. «Esiodo, nel suo Le opere e i giorni, racconta che Zeus concesse a Pandora il vaso in dono con la raccomandazione di non aprirlo mai per nessun motivo. Esso conteneva qualcosa di oscuro che non doveva essere liberato. Ma Pandora, che aveva ricevuto dal dio Ermes il dono della curiosità, non ascoltò il divieto di Zeus e scoperchiò il vaso liberando così tutti i mali del mondo. Gli spiriti maligni vecchiaia, gelosia, malattia, pazzia e vizio si disseminarono ovunque. Prima di quel momento l’umanità aveva vissuto libera da mali, fatiche o preoccupazioni, ma dopo l’apertura del vaso il mondo divenne un luogo desolato e inospitale, simile a un deserto.» «Non crederà davvero a queste fantasie» chiese Josef. «Non sono fantasie e lo vedrà con i suoi occhi» rispose Sartori piccato. «Prima di cedere alle superstizioni, abbiamo una nave da governare, altrimenti tutti i mali del mondo non saranno peggio delle bombe inglesi o del fondo
dell’oceano.» Josef si alzò dal tavolo e saggiò i muscoli. Il corpo sembrava rispondergli bene e quella sensazione di confusione pareva sparita del tutto. «Mi dia retta, comandante. Non c’è più molto che possiamo fare qui» disse Sartori rassegnato. «L’unica preoccupazione che dovremmo avere è che gli spiriti maligni non trovino uno sbocco per l’esterno. Preservare l’umanità da un’altra catastrofe.» «Ascolti bene Sartori, sono stufo delle sue farneticazioni» disse Josef, portandosi a un o da lui. La rabbia era montata così in fretta che non era riuscito a controllarla. «La missione prosegue e non saranno due cocci rotti a interromperla.» «Continuiamo sulla rotta stabilita?» chiese Zielinsky. «Certamente!» rispose lui, sicuro di sé come non lo era mai stato. «Come potremmo affrontare un viaggio di ritorno attraverso il golfo di Biscaglia in questo stato? Sarebbe un suicidio. La missione prosegue, questo è un ordine.» Josef si mosse rapido e, scavalcando la paratia, entrò nell’alloggio personale. Si mise seduto sulla branda e tirò fuori il Kriegstagebuch, il diario di guerra dell’unità. Annotò le sue decisioni con una calligrafia minuta e precisa, omettendo quanto accaduto all’equipaggio. Avrebbe risolto in fretta quella questione, prima che le cose potessero precipitare del tutto. La ritrovata calma gli consentì di ragionare con più efficienza. Era necessaria una conta degli uomini, ridistribuire i compiti di bordo, ma soprattutto, farsi un’idea di chi ancora gli era fedele. La situazione era degenerata al punto che, se non poteva più fidarsi dei suoi ufficiali, non poteva più fidarsi di nessuno. Non Hans, pensò, Hans non lo avrebbe tradito, erano amici da tanto tempo. Josef lo considerava più come un fratello e la sola idea che potesse mettersi contro di lui lo fece rabbrividire. Si ò le mani sul volto, sfregando forte fino a farsi lacrimare gli occhi. Aveva bisogno di pensare, concentrarsi, ma quella cantilena non la smetteva di martellargli le tempie. Una nenia regolare e angosciante, ripetuta con reiterata insistenza.
«Basta! Smettetela!» urlò contro il nulla. «Ho bisogno di pensare.» Nessuno rispose. Come sbucata dal nulla, la testa di Schäfer fece capolino dallo stanzino dell’idrofono. I suoi capelli castani erano incolti e unti. Cadevano sulla fronte come cespi di cicoria selvatica. Il naso aquilino sembrava ancora più prominente, ora che lo sporco e la fuliggine si erano annidati tra gli interstizi della pelle sudata. Josef lo vide spuntare dal suo loculo come una maschera del teatro greco. Schäfer sorrise mostrando i denti, ma quello che ne scaturì fu più simile a un ghigno demoniaco. Lentamente, come era uscita, la sua testa sparì dietro la paratia. La nenia continuò imperterrita. Josef si martellò le tempie per scacciare quell’assillo, senza successo. « Andai a guardare anch’io e non potei reprimere un moto di repulsione.» La voce di Schäfer giunse smorzata attraverso il piccolo locale angusto dove si era rintanato. « Davanti ai miei occhi si agitava un mostro orribile, degno di figurare nelle leggende del mare.» Josef riconobbe quelle parole. Di colpo gli tornò alla mente il dialogo avuto molto tempo prima con il suo idrofonista. Lo aveva sorpreso a leggere un libro, Ventimila leghe sotto i mari, per l’esattezza. Josef gli aveva preavvisato di non aspettarsi incontri altrettanto fantasiosi su quel sommergibile: loro non erano il Nautilus. In quel momento, quelle parole dette così alla leggera in una circostanza di distensione, gli parvero sciocche. « Altri due tentacoli, sferzando l’aria, si abbatterono sul marinaio che ci precedeva, l’afferrarono e lo sollevarono con estrema violenza» continuò Schäfer con un tono di voce tedioso. « Ma nel momento in cui il capitano Nemo e il suo secondo si gettarono su di lui, l’animale lanciò una colonna di liquido nerastro, secreto da una borsa situata sul suo addome.» «La smetta!» tuonò Josef. «La smetta subito» Josef si alzò in piedi e si avvicinò. Una luce soffusa ricreava un’atmosfera più adatta a una cripta che a un locale tecnico. Le apparecchiature del GHG, Gruppen Horch Gerät, e del KDB, Kristall
Drehbasis Gerät, erano spente e l’idrofonista se ne stava seduto sulla sua seggiolina, con la schiena perfettamente dritta e le mani poggiate sul tavolo. Al centro di esse, chiuso nella sua copertina lisa dal tempo, c’era il libro Ventimila leghe sotto i mari. Schäfer sembrò non rendesi neanche conto della presenza del suo comandante e continuò. «Ne fummo accecati e, quando la nube nera si dissipò, il mostro era scomparso. E con lui il mio sfortunato compatriota.» Josef sbarrò gli occhi. Il libro era chiuso. Possibile che avesse avuto il tempo di imparare quei i a memoria? Sgomento, poggiò le mani sulle spalle del giovane. Le sentì vibrare al tocco. «La smetta… per favore» disse a disagio. La testa di Schäfer si voltò verso di lui e fu come se lo vedesse per la prima volta. «Comandante» sussultò. «Stavo solo…» Josef gli strinse le spalle e la voce dell’idrofonista si interruppe. «Ho bisogno che faccia smettere questa cantilena.» «Quale cantilena, comandante?» chiese stupito. Josef indicò un punto in alto e alzò gli occhi come se fosse in ascolto di un rumore impercettibile. «Ascolta» disse in un filo di voce. «Non sento niente, comandante. Forse le vibrazioni dei diesel.» La confusione apparve sul volto di Schäfer. «Eppure io la sento chiaramente!» sbottò lui. «Falla smettere, maledizione!» Le dita dell’idrofonista presero a muoversi, ciascuna seguendo un suo ritmo. Incapace di dire o fare altro, si alzò e ò al locale radio. Girò manovelle a caso sulla radio di bordo, sperando che qualcosa potesse funzionare. Josef si affacciò nella sala radio e lo fissò. «Grazie. Ora va meglio.»
Schäfer lo guardò spaesato. Un sorriso nervoso gli increspò le labbra.
*
Quando rimise piede in camera di manovra, tutto era nella stessa identica posizione in cui l’aveva lasciato. Non solo le cose, ma anche gli uomini. Gli occhi dei presenti erano puntati su di lui, quasi fosse un attore appena salito sul palcoscenico e dal quale ci si aspetta una prestazione esemplare. S’immobilizzò non appena sentì addosso quegli sguardi avidi. Josef prese aria, o qualunque cosa stessero respirando in quel momento, e la rilasciò con estrema lentezza. «Ho bisogno di Falkenmayer o di chiunque sia in grado di eseguire un ordine» disse accigliato. «È a prua, signore, tra i Lords» rispose pronto Zielinski. «Gradirei che venisse qui, ora» disse calcandosi il berretto sulla nuca. Zielinski non attese che qualcun altro eseguisse l’ordine e partì di sua iniziativa. «Quanto a voi, signori, gradirei che questi discorsi su ipotetiche calamità fossero accantonati per essere ripresi in momenti meno scoraggianti.» Hans annuì esitante, mentre Sartori abbassò lo sguardo. Per quanto si fosse ristabilita una parvenza d’ordine tra gli ufficiali di bordo, quelle espressioni dubbiose la dicevano lunga sullo stato d’animo che regnava in quei pochi metri quadrati. Il suo comando era messo a dura prova e tutto era diventato così fugace che una piccola scintilla poteva causare un incendio indomabile. Proprio quando la sua mente stava per cominciare a farsi trascinare dalle onde impetuose dell’inquietudine, apparve Falkenmayer dalla paratia di prua. «Comandi!» disse, scattando sugli attenti. Un eccesso di zelo che il maresciallo non aveva mai mostrato. Convenevoli più adatti a quei porci delle SS che a un uomo della Marina.
«Ho bisogno di lei, Capo» disse prendendolo per un braccio e tirandolo da parte. La cassa nautica gli fece da nascondiglio per sguardi indiscreti. Strinse il braccio del Capo e lo fissò da sotto la visiera. «L’ordine va ristabilito. Posso contare sul suo aiuto?» chiese parlando sottovoce. «Tutto quello che occorre, comandante» rispose il Capo inorgoglito da quella richiesta. «Molto bene. Voglio che chiunque si rifiuti di obbedire venga trattato come un ammutinato, capisce cosa intendo?» Il Capo annuì. La sua espressione cambiò; gli occhi si fecero vacui, quasi la portata di quelle parole lo avessero angustiato nel profondo. «Trovi qualcuno fidato tra i Lords, meglio se caporale, i sergenti tendono ad avere troppa intesa tra loro, non si pesterebbero i piedi a vicenda. Faccia tutto il necessario e ristabilisca l’ordine a bordo di questo sommergibile. A qualunque costo.» «A qualunque costo» ripeté il Capo. Il tono di voce, però, tradiva le sue emozioni. La cantilena riprese. Prima lontana, ovattata, poi più vivace. Riverberò tra le pareti di ferro fino ad attenuarsi quando una figura apparve in camera di manovra. Come uno spettro, il maggiore Kurtz mosse alcuni i sulle grate scivolose. Sorrideva amabilmente. Una manifestazione di gioia a stento trattenuta a cui non aveva abituato i suoi compagni di viaggio. «Questo è l’inno dei carristi, signori!» disse, stringendo una mano a pugno. «Il Panzerlied!» Josef piegò la testa da un lato, poi strinse più forte il braccio di Falkenmayer e gli lanciò uno sguardo d’intesa. Il Capo annuì ancora e si affrettò a togliersi di torno. «Un inno all’onore e alla gioia di morire per la nostra amata Germania e per il nostro Führer!» continuò cantilenando. Se non fosse stato per i suoi i controllati, Josef avrebbe detto che fosse ubriaco.
«Parli per lei» l’apostrofò Hans. Kurtz si voltò di scatto verso il direttore di macchina. Lo fissò per qualche istante, poi scoppiò in una risata canina. Era la prima volta che lo sentivano guaire a quel modo, sembrava avesse perso del tutto il contegno. «Lei non perde attimo per fare ironia, direttore. Avrà tutto il tempo che desidera per il suo sarcasmo da quattro soldi.» La gioia che lo pervadeva non scemò. Kurtz si guardò intorno, come vedesse quella stanza per la prima volta. Arricciò le labbra stupito quando gli occhi si posarono sulla girobussola. «Vedo che la rotta è rimasta invariata. Mi complimento, Lüth, forse non è il codardo che tutti credevamo fosse.» Scoppiò in un’altra risata isterica. «Me ne rallegro» mormorò Josef a denti stretti. L’ira per quelle parole era smorzata dalla percezione che a quell’uomo fosse partito il cervello. Per un attimo, sperò che si lasciasse andare a qualche gesto insensato: a quel punto avrebbe avuto una scusa per sparargli. La pistola era nell’armadietto nel suo alloggio. Bastava solo qualche o. «Lasci perdere, Lüth. Sono venuto in pace per fare rapporto.» Il maggiore si sedette al tavolo da carteggio, incurante delle carte sulle quali poggiò le natiche. «Abbiamo un bel casino là dietro. Due uomini morti e parecchi contusi. Come hanno detto che si chiama? Arno, Siegfried Arno.» Esclamò trionfante, quando gli venne in mente il nome. «Morto male, povero ragazzo, un proiettile gli ha forato la giugulare, è affogato nel suo stesso sangue. Una morte atroce, non trovate? Ma del resto anche io ho perso uno dei miei, quindi possiamo considerarci alla pari. Il caporalmaggiore Ernst Tychsen, un brav’uomo.» Kurtz sbottò in un’altra risata. «Non è vero, era uno sterco di porco» rise di gusto battendo la mano sul tavolo. «Il caro vecchio Ernst, lo stupratore di Piotrków, lo chiamavano nel suo reparto. La Das Reich lo ha accolto con tutti gli onori per le sue bravate contro i polacchi.» «Maggiore, devo chiederle di uscire» sibilò a denti stretti Josef. «Come? Ah sì, sì, non mi tratterrò per molto. Giusto il tempo di mettere in chiaro una cosa.» Kurtz aprì la giacca e ne estrasse una pistola. Una Walther P38, la stessa che Josef teneva ben riposta nel suo alloggio. Se la rigirò nella mano, soppesandola con attenzione. «Un’ottima pistola, non crede? Leggera, maneggevole, adatta agli spazi angusti.» Kurtz alzò le spalle, la sua espressione
si fece annoiata. «Temo di doverla rimuovere dal suo incarico, Lüth. La metta un po’ come crede: divergenza d’intenti o sedizione, faccia lei. Il suo destino dipende molto dalla sua scelta.» Josef strinse i pugni. L’odio represso verso quell’uomo si manifestò tutto insieme, tanto da annebbiargli la vista. Un velo bianco gli calò davanti agli occhi e qualcosa nella testa iniziò a gridargli a gran voce di afferrarlo per il collo e stringere forte, più forte che poteva. La cantilena riprese a tormentargli il cervello, sussurrandogli parole di una ferocia inaudita. Qualcosa lo trattenne. Una presa salda sul polso gli impedì di avanzare e prendere a pugni quel demonio. Il velo davanti agli occhi gli impediva ancora la vista, ma quel calore sulla mano servì a placare la sua collera. «Molto bene, vedo che ha fatto la sua scelta. Le mie congratulazioni, Lüth, la sua pellaccia è salva. Almeno per il momento.» Kurtz sbottò di nuovo in una risata sguaiata e mostrò una smorfia soddisfatta. Alzò il pugno e riprese a cantare. « Und läßt uns im Stich einst das treulose glück, und kehren wir nicht mehr zur heimat zurück, trifft uns die todeskugel, ruft uns das schicksal ab, ja, schicksal ab. Dann wird unser U-boot ein ehernes grab [2] ». Il Panzerlied, l’inno dei carristi, era divenuto una profezia oscura che parlava di fortuna negata, di destino avverso e di morte. Non appena il maggiore se ne fu andato, Josef si liberò dalla stretta che Hans esercitava sul suo polso. «Avresti dovuto farmelo fare» disse rilassando i muscoli contratti della mascella «Lo so, non sai che sacrificio è stato. Ma se deve farlo qualcuno, lascia che sia io, ti prego.» «Vedremo.» Josef si strofinò i palmi sugli occhi. Il velo opaco si era quasi dissolto. «Zielinski, verifichi il punto nave, voglio sapere esattamente dove diavolo siamo finiti. Fleischmann, mi servono i rapporti sulle riparazioni, ammesso che ci sia ancora qualcuno che se ne stia occupando. Dobbiamo sapere con esattezza su quanta propulsione possiamo contare sia in superficie che in immersione. Sarà necessaria una turnazione di guardia finché non sapremo se siamo in grado di immergerci, e appena possibile una conta delle provviste a
disposizione. La maggior parte di quelle scaricate dalla Siren sono finite in mare.» Josef si tolse il berretto e si ò una mano tra i capelli sudati e sporchi. La barba, ormai incolta da troppi giorni, cominciava a prudergli e dovette grattarsi con foga la guancia destra. «Proporrei di verificare, appena possibile, la capacità d’immersione. La torretta è andata, ma il portello stagno potrebbe reggere.» «Considerando che abbiamo la cassa di prora fuorigioco, dubito che questo relitto sia ancora in grado d’immergersi come prima.» «Potrebbe essere sufficiente la quota periscopio. Conto su di te, Hans. Fai il possibile.» Il direttore annuì e, preso per il braccio Zielinski, lo spinse fuori dalla camera di manovra. «Aspettate!» disse ad alta voce Sartori. «Aspettate per l’amor di Dio!» «Che c’è ancora?» sbuffò Josef. «Mi dia retta, comandante. Non faccia aprire il boccaporto. Non so se sia possibile trovare la nostra posizione da qui, ma mi creda, non sarebbe una cosa saggia aprirlo.» «Ancora con quella storia dei demoni?» Josef cercò di ritrovare la calma. Non giovava a nessuno lasciarsi guidare dalla collera. «Ho un sommergibile da pilotare e non posso farlo senza conoscere la nostra attuale posizione e la sua capacità di navigare. Senza pensare che là dietro abbiamo due cadaveri che, con questo caldo, presto andranno in decomposizione.» «Lo so, ma…» «Mi ascolti, Sartori. I demoni di cui parla sono prigionieri quanto noi tra queste pareti di metallo. Indossano uniformi delle SS e al momento se la canticchiano a poppa armati di tutto punto.» «Tutte le stramaledette Schutzstaffel non potrebbero nulla contro quanto risiedeva in quel vaso. Ricorda? Tutti i mali del mondo» insistette Sartori. «E una speranza, se non ricordo male. Si concentri su quella.»
Josef lo scansò con educazione, annuì al direttore e al suo sottufficiale di rotta che si erano fermati per ascoltare. I due proseguirono con i loro ordini.
Capitolo 21
«Non lo faccia, Karl.» Eno tentò un’ultima volta di far desistere Zielinsky dall’intento di uscire in coperta. Il sottufficiale di rotta se ne stava in piedi su uno sgabello con le mani strette sulla maniglia del boccaporto che, dalla cucina, si affacciava appena dietro quello che rimaneva del giardino d’inverno. «Stia indietro, non sappiamo bene cosa ci aspetta lassù. Non mi stupirei di vedere la faccia di Churchill che ci osserva dal boccaporto.» Eno sbuffò. «Molto bene allora.» Chiuse sbattendo il portello della sala macchine diesel e s’incollò alla maniglia tenendola stretta. «Speriamo sia sufficiente.» Il suo posto venne preso dal caporal maggiore Glemnitz, comandato come sentinella al portello, in modo che nessuno potesse aprirlo durante le operazioni in coperta. Alla fine, il Vecchio aveva ceduto alle sue richieste e acconsentito a mantenere isolata la cucina dal resto del sommergibile. Forse in quel modo gli spiriti sarebbero rimasti sigillati altrove, senza possibilità di uscire all’esterno. Zielinski sorrise paziente, quasi si stesse sforzando di adattarsi al gioco fantasioso di un bambino. Girò la manovella e, con uno stridore di metallo arrugginito, il portello si aprì. Dapprima un piccolo spiraglio, attraverso il quale Zielinski sbirciò fuori, poi, quando si rese conto che l’unico pericolo era il sole cocente, aprì del tutto. Una folata calda penetrò all’interno, vorticando attorno ai corpi bagnati di sudore e umidità dei due uomini. Il sollievo fu immediato e agì sulle loro menti come una liberazione; quasi quel vento caldo potesse spazzare via tutta l’afflizione e i tormenti di quel viaggio. «Visto?» disse allegro Zielinski. «Nessun demone in fuga, anche se…» «Cosa c’è?» chiese preoccupato Eno. «Siamo mutilati.» La voce del sottufficiale era rotta. «La torretta è un ammasso di lamiera contorta. Ci hanno sistemato per benino, non c’è che dire.»
Eno si affacciò incuriosito. Le preoccupazioni scaramantiche di poco prima sembravano svanite. La plancia e la torretta sotto di essa, così come le ricordava, non esistevano più, sembrava un fiore di metallo appena sbocciato. I petali aperti in un intrico di ferraglia e parti di tubazioni troncate. Uno sbuffo nero proveniva dai rottami, dove un foro faceva capolino nella parete di metallo. «Lo scarico dei diesel» borbottò Zielinski. «Sembra che almeno quello funzioni ancora, altrimenti là sotto respirerebbero ossido di carbonio.» «Reggerà a un’immersione?» «Dipende dalle flange in sala motori. Se reggono quelle, forse reggerà.» Zielinski si alzò in piedi guardingo. Il sommergibile viaggiava a un’andatura allegra, spinto da un solo motore diesel. La schiuma formata dalla sua prua tagliente si disperdeva contro le fiancate fino a lambire i due grandi cassoni laterali che gli conferivano quell’aspetto bizzarro. «Bisognerà aspettare qualche ora prima di poter fare delle rilevazioni efficaci» disse, superando il rumore del motore. «Aspettiamo che gli astri ci parlino» suggerì Eno. «Esatto, e se Nettuno ci farà dono di un cielo non coperto e di una linea dell’orizzonte perfettamente visibile, gliene saremo immensamente grati.» «Avrà bisogno di un sestante allora.» «Sestante, effemeridi nautiche e cronometro, per l’esattezza. Vedo che se ne intende, vuole provare lei?» «No, grazie. Con le stelle ho chiuso al momento.» Eno declinò l’invito con un cenno della mano. Lasciò che lo sguardo vagasse lungo tutto l’orizzonte, riempiendosi gli occhi di quella meravigliosa vista. Un senso di pace lo avvolse e desiderò di poter rimanere lassù per tutto il resto del viaggio. In confronto a quella tranquillità il ventre della balena di metallo gli sembrò un pozzo oscuro e pericoloso, una catacomba destinata a riempirsi di cadaveri.
*
La pallida luce della luna luccicava sulla distesa d’acqua dando vita a una scia brillante simile al metallo liquido. La punta del sommergibile tagliava quella distesa fatta di grinze luccicanti in continuo movimento. Non sembrava altro che il prolungamento del cielo, come se i due elementi, acqua e aria, fossero fusi in un unico enorme sipario blu scuro. «Non credo che mi abituerò mai a questa sensazione di vuoto» disse, osservando la vasta distesa in fermento. «Il mare fa quest’effetto. Spaventa o affascina, non ha mezze misure. Un po’ come il cielo.» Zielinski se ne stava in piedi accanto a lui. In mano teneva il sestante, pronto a procedere con la prima rilevazione. «Eppure è il cielo a indicarci la via. Non potremmo fare altrettanto osservando il mare.» Eno si girò verso il sottufficiale. Il volto portava i segni di quella follia. La pelle sembrava fatta di gesso, gli occhi lucidi e febbricitanti. I capelli uscivano dal berretto come fili di stoppa incollati alla fronte. La barba castana iniziava ad assumere quel maledetto color verde muffa che stava ricoprendo tutto all’interno del sommergibile. Le guance scavate, le occhiaie violacee, niente di quell’uomo ricordava il giovane partito solo venti giorni prima da Saint-Nazaire. Zielinski sorrise e alzò le braccia. La giubba di pelle, incrostata di sale scricchiolò a quel movimento. «Che ne dice di iniziare da quella?» chiese Zielinski indicando un punto nel cielo. Eno seguì la punta del suo dito e individuò subito la costellazione di Orione, vera protagonista del cielo invernale. La sua forma a clessidra, le tre stelle allineate della cintura erano un sicuro punto di riferimento. «Sirio. Poco a sud-est della cintura di Orione. La stella più luminosa dell’intera volta celeste.» Zielinski portò l’oculare all’altezza dell’occhio e iniziò a puntare il bersaglio. Lenti movimenti sull’alidada mettevano in comunione la stella con l’orizzonte tramite un sistema di specchi.
Eno lo osservò in silenzio durante tutto il processo. Lo vide avviare il cronometro e segnare appunti su un registro con una maestria degna degli antichi navigatori del ato. «Maresciallo» chiamò Glemnitz da sotto. Zielinski s’interruppe e si affacciò al boccaporto, scambiando qualche parola con il caporale. «Il capitano ha ordinato di rilasciare in mare i corpi di Arno e Tychsen» disse senza emozione quando tornò ai suoi calcoli. Eno scosse la testa. Quella procedura avrebbe consentito l’apertura del portello di prua, offrendo un varco agli spiriti. Si mise una mano sulla bocca, come a voler impedire alle parole di uscire. Si soffermò su quell’unico pensiero ossessivo, trovandolo alquanto sciocco per una mente brillante come la sua. Un uomo pragmatico, dedito allo studio, doveva essere incapace di credere a favolette o superstizioni; eppure lui ne aveva vissuto l’esperienza e ne portava i segni. Vacillò, scosso da quella nuova consapevolezza. I ricordi della Grecia riaffiorarono alla memoria quasi come uno schiaffo in pieno volto, quei tesori nascosti, quei canti di Muse che lo avevano stregato e condotto là dove neppure nei suoi sogni più ambiziosi aveva sperato di arrivare. Il dolore che sentiva era quasi fisico, poteva ricordare ogni singolo momento di quella maledetta notte in Grecia, quando aveva perso i suoi amici fidati, gli unici che avrebbero potuto testimoniare la verità di quello che ora, a lui stesso, sembrava il delirio di un uomo alla ricerca disperata di una spiegazione. Le sue certezze, i suoi studi precisi e inappuntabili, il suo sapere scientifico di archeologo fatto di evidenze e testimonianze del ato ora vacillavano come egli stesso tremava, prigioniero d’un mare ostile, in balia di un pezzo di ferraglia che forse sarebbe stata la sua tomba. E quella di tutto l’equipaggio. Forse aveva immaginato ogni cosa, forse attribuiva a quel vaso un potere divino che nessun pezzo di coccio poteva avere. Forse quella reliquia era soltanto ciò che Eno aveva ardentemente desiderato di trovare e ciò che infine si era convinto di trovare. «Una mano, prego.» Eno si sforzò di allontanarsi da quei pensieri nefasti. La voce di Glemnitz lo riportò con i piedi per terra e alla cruda realtà, fatta di cadaveri avvolti nelle
amache di tela. «Sì, certo» disse, accorrendo a sorreggere il primo corpo che veniva innalzato verso l’esterno come un bozzolo gigante. La procedura durò solo il tempo necessario agli uomini sottocoperta per sbarazzarsi di quei corpi ormai rigidi e prossimi alla decomposizione. Eno si stupì nel vedere che il Vecchio aveva partecipato all’operazione. Il comandante salì dal boccaporto insieme a Glemnitz e si affiancò loro in coperta, osservando con malcelato disgusto i danni riportati dal suo battello. Le sue insegne, il lupo dipinto sulle fiancate, erano in parte scampate alla devastazione. «Credo che qualche parola sia d’obbligo.» «Arno era un bravo ragazzo» commentò Zielinski togliendosi il cappello. «Sì, lo era, lo erano tutti.» Il Vecchio aveva lo sguardo spento, perso verso la scia luminosa della luna. Anche lui doveva essere stato catturato dalla seduzione di Selene, la dea pagana della luna piena. Il Vecchio afferrò il lembo di tela e, aiutato da Zielinski, lo trascinò, lasciando che il peso lo spingesse fuoribordo. Il fagotto rimase a galla, sballottato dalle onde provocate dal sommergibile. In pochi secondi si perse tra la schiuma della loro scia, così come il ricordo di Siegfried Arno. Fecero lo stesso con l’altro, ma per lui non sprecarono parole o pensieri. «È fatta» disse il Vecchio, osservando il fumo che fuoriusciva dagli scarichi dei diesel. «Come va con le rilevazioni?» «Ho quasi tutto quello che serve. Resta la parte noiosa.» Zielinski afferrò il registro e se lo mise sotto il braccio come a indicare che per il momento aveva finito. «Molto bene, una volta che avremo fatto il punto nave, potremo tracciare una nuova rotta.» Eno lesse in quelle parole tutto il peso della stanchezza accumulata in quelle ore. Trovare una via, una strada per casa, era l’unica cosa che avrebbe potuto
alleggerire il cuore di quell’uomo dal suo fardello. « Andai a guardare anch’io e non potei reprimere un moto di repulsione.» La voce proveniva dal portello stagno della cucina. Entrambi si voltarono. Un suono gorgogliante giunse dal cassone di babordo. Un rumore liquido, simile all’aria espulsa dalle casse zavorra prima di un’emersione. Il sommergibile ebbe un sussulto e il rollio si accentuò al punto da rendere difficile rimanere stabili sul ponte. Eno afferrò il corrimano e si tenne ben stretto. Il Vecchio era ancorato all’affusto del pezzo da 88, ormai ridotto a un ammasso di metallo contorto. Zielinski fu più svelto e infilò un piede nel boccaporto rimanendo in bilico tra l’esterno e l’interno, pronto a scendere al primo accenno di pericolo. « Davanti ai miei occhi si agitava un mostro orribile, degno di figurare nelle leggende del mare.» La voce profonda, mascherata dallo spessore del metallo che li separava, continuò a salmodiare. Al rollio si aggiunse il beccheggio e fu come andare su un ottovolante. Il sommergibile sgroppava come un toro infuriato impossibile da domare. «Tutti sottocoperta! Presto!» urlò il Vecchio, cercando di farsi udire nel frastuono che ora proveniva dalle profondità marine. Un frastuono assordante del tutto simile a quello di una cascata, solo che l’acqua, invece che cadere dall’alto, si stava sollevando dal mare. Eno raggiunse Zielinski che ormai era saltato dentro senza tanti convenevoli e si affrettò a seguirlo. Quasi si tuffò di testa all’interno dello stretto pertugio e, per quanta foga ci mise, si sarebbe rotto l’osso del collo nella caduta se non fosse stato per il giovane sottufficiale. «Grazie» disse mentre cercava di rimettersi in piedi in quell’intrico di mani e gambe. Subito dietro di lui discese il Vecchio che, senza perdere tempo, sigillò il portello stringendo il volantino. Si guardarono in faccia solo una frazione di secondo prima che il comandante dell’U-666 urlasse a pieni polmoni.
«Allarme!» Contrariamente a quanto era avvenuto in altre circostanze, quel richiamo di pericolo, fu preso con molta più indolenza del solito. Non ci fu il trambusto o il via vai di uomini che prelude a un’immersione rapida. Il portello della sala macchine restò chiuso e ciò che stava avvenendo lì dentro rimase un mistero. Il Vecchio schizzò verso prua intenzionato a guadagnare la camera di manovra il prima possibile. Zielinski gli tenne dietro. Eno, rimasto solo nel locale della cucina di bordo, tirò un profondo respiro e si fece coraggio. Non appena mise piede nell’alloggio sottufficiali, quei pochi metri che lo separavano dalla camera di manovra, uno scossone lo fece sbandare contro una delle brande. Per poco non cadde nel pozzo nero del vano batterie lasciato aperto. Una piccola erella era stata posizionata per permettere il transito, ma alla fioca luce delle lampade e con gli occhi arrossati dai residui dei gas di cloro, non era così semplice mettere un piede davanti all’altro senza rischiare di cadere. Si tenne ben stretto contro la barra della branda in alto e puntellò le ginocchia contro il materasso di quella in basso. In quella posizione precaria, poteva resistere finché gli sbalzi non fossero ati. Un ruggito atavico irruppe all’interno del sommergibile, come il grido di un animale mitologico, qualcosa che nessun orecchio umano aveva mai udito. Quell’urlo straziante fu accompagnato da uno scossone che stravolse la stabilità del sommergibile. La prua iniziò a sollevarsi, rendendo il pavimento una montagna da scalare. Gli scricchiolii raggiunsero un’intensità tale che Eno ebbe l’impressione che il metallo stesse per spezzarsi in due. Niente fu risparmiato. Quello che poteva ancora rompersi si ruppe: piatti, bicchieri, lampadine, e ogni oggetto che non fosse saldamente ancorato, furono scaraventati verso poppa dall’assurda inclinazione. Un sacco di patate rotolò pericolosamente verso di lui, ma cadde nel vuoto del vano batterie un’istante prima di colpirgli le caviglie. Per un attimo tutto rimase in equilibrio. L’inclinazione si fermò e gli unici rumori furono quelli dell’acqua di sentina che sciabordava e degli oggetti che sbattevano contro altri oggetti. Poi, il mondo precipitò. Il sommergibile cadde con la poppa che faceva da perno. Eno non seppe dire se
si trovassero sopra o sotto la superficie del mare, tutto era ovattato e confuso. L’energia cinetica della caduta lo spinse dentro una delle cuccette e urlò con tutta la voce di cui era capace. Il tonfo sordo e lo schianto lo fecero sbattere contro la parete di legno. Violente scosse di assestamento lo fecero rotolare sul materasso. Si salvò dalla caduta nell’acqua mista ad acido degli accumulatori solo grazie alla prontezza dei riflessi. La furia del mare, o di qualunque cosa stesse giocando con il loro sommergibile, si placò. Il rollio sembrò una benedizione, paragonato agli sbalzi subiti dalla struttura. Le ordinate di acciaio avevano retto e il cilindro a pressione non si era spezzato. Eno si chiese con terrore se avrebbe resistito ad altre sollecitazioni del genere. Era sdraiato sulla cuccetta e fissava il soffitto. Pezzi del rivestimento di sughero si erano staccati e cadevano a terra formando una nebbiolina di polvere alla luce dell’unica lampada rimasta accesa. Larghe gocce di condensa rigavano le pareti e cadevano dal soffitto in un continuo plick plick. Eno combatté l’impulso di alzarsi e correre in camera di manovra. Qualcosa gli suggeriva di rimanere fermo, perché la bestia era ancora in agguato. Gli vennero in mente i ripetuti inseguimenti del cacciatorpediniere inglese e le sue trappole per stanarli. È nel momento in cui il topo si sente sicuro che il gatto sferra il suo attacco. A riprova delle sue congetture, un boato fece vibrare le pareti. L’eco risuonò all’interno facendo agitare l’acqua che stagnava sotto la erella, poi tutto tacque. Il sommergibile si sollevò in alto con tale violenza da comprimere Eno contro il materasso. Percepì solo un solletico al basso ventre mentre la forza di gravità riprendeva possesso del sommergibile. Come si era alzato, ricadde su se stesso in un boato del tutto simile a una carica di profondità esplosa sotto la chiglia. Eno mulinò le braccia in cerca di appigli, serrandole contro qualsiasi cosa gli capitasse a tiro. Ormai non badava più ai rumori di distruzione e alle urla dell’equipaggio, era concentrato solo sul suo respiro e sul battito del cuore. Se dovevano essere gli ultimi momenti della sua vita, voleva che fossero strettamente personali e privati. Ancora una volta il rollio e il beccheggio si attenuarono e il sommergibile riprese
il suo normale assetto. I secondi divennero minuti e non accadde più nulla. Il portello emisferico che dava in camera di manovra si aprì e apparve il volto allucinato del direttore di macchina. «Sartori! Tutto bene?» chiese non appena lo vide. «Sì, credo di sì» rispose, portandosi una mano alla testa nel punto in cui aveva sbattuto contro la parete. Una chiazza di sangue gli inumidì le dita. «Presto, mi dia la mano.» Il direttore lo aiutò a rimettersi in piedi e a percorrere quei pochi metri che lo separavano dalla camera di manovra. «Entri e si trovi un posto sicuro» gli disse prima di rientrare nell’alloggio dei sottufficiali e sparire verso poppa. «Dove va?» chiese Eno barcollante. Ogni muscolo gli bruciava come dopo una corsa campestre. «Dobbiamo capire cosa succede in sala motori, non rispondono alle richieste di rapporto» rispose Zielinski mentre cercava di riordinare i registri sul tavolo da carteggio. Ogni cosa era a terra, in balia dell’acqua fuoriuscita dalla sentina durante l’impennata. Una schiuma marroncina gorgogliava agli angoli della camera, sciabordando a ogni sussulto del sommergibile. «Cos’è stato?» chiese Eno, inquieto per la possibile risposta che avrebbe ricevuto. Il comandante scosse la testa. Persino il vecchio lupo di mare, il Werwolf della Kriegsmarine, sembrava tormentato da quanto aveva vissuto. Gli si leggeva in faccia l’incredulità di quei fatti inspiegabili. «È stato il Kraken» disse qualcuno. Tutti si voltarono nella stessa direzione. L’uomo apparve dall’ombra, dove le lampadine avevano smesso di funzionare. «Schäfer!» lo ammonì il Vecchio. «La smetta subito.» Raddrizzò la schiena e gli si avvicinò infuriato.
Il radiofonista dal naso aquilino teneva un libro tra le mani. La copertina consunta fu sufficiente al Vecchio per capire di cosa si trattava. «Lo metta via, dannazione a lei! Lo metta via subito.» «Il libro aveva ragione, signore. È il Kraken che ci ha afferrato, signore. Il Kraken…» «Basta!» Il palmo della mano cozzò contro la guancia del ragazzo. Il libro gli cadde dalle mani e andò a inzupparsi nell’acqua melmosa ai loro piedi. Il Vecchio ci mise un piede sopra e lo calpestò per bene, finché le pagine non si ridussero a cartapesta. Schäfer sollevò lo sguardo dal libro ormai distrutto e piantò i suoi occhi castani in quelli del suo comandante. «Ne fummo accecati e, quando la nube nera si dissipò, il mostro era scomparso. E con lui il mio sfortunato compatriota» recitò a memoria. Il Vecchio cominciò a guardarsi intorno con frenesia, alla ricerca di qualcosa o qualcuno che solo lui sembrava aver perso. Eno era confuso, percepiva una sensazione di assenza, di vuoto, ma non riusciva ad attribuirgli dei connotati precisi. Il mostro era scomparso e con lui il nostro compatriota, ripeté Eno a mente. In un attimo, il fiume della coscienza ruppe gli argini. Un’ondata di calore partì dallo stomaco e si fece strada fin su al cervello. La sua espressione mutò. Sbarrò gli occhi e spalancò la bocca in un grido muto quando la consapevolezza si fece strada nel suo animo. «Glemnitz!» urlò il Vecchio. Zielinski lasciò cadere i registri a terra, le braccia abbandonate contro il corpo sembravano due rami spezzati. «Gle… Gle…» balbettò, prima di voltarsi verso poppa, cercando con lo sguardo qualcosa che, sapeva, non avrebbe potuto vedere.
Il Vecchio si riprese per primo. Senza perdere altro tempo ripercorse la strada fino alla cucina. Eno lo raggiunse trovandolo con la testa puntata verso il portello stagno che, dalla cucina, saliva sul ponte. Il portello era chiuso e di Glemnitz non c’era traccia. Eno mise una mano sulla spalla del Vecchio e indicò con lo sguardo il portello sopra di loro. «Glielo dobbiamo» disse con voce rassicurante. Il Vecchio annuì e saltò sul piccolo lavello. Armeggiò sul volantino e in un attimo sbloccò il congegno d’apertura. Il pagliolato sopra il portello non era stato avvitato al resto della copertura del ponte e si sollevò con facilità. Una lama di luce azzurrina filtrò all’interno formando una lunga striscia perlacea sulla parete della piccola cucina, poi il Vecchio spalancò il portello e la lama si tramutò in un cono obliquo, come la luce di un proiettore da teatro. Eno aiutò il Vecchio a salire, poi fu il suo turno di arrampicarsi. Non appena mise fuori la testa, notò subito che nulla era cambiato da prima, compresa la luna. La loro rotta era rimasta invariata e il mare era ancora quella distesa misteriosa e brillante di sempre. Bastò poco per rendersi conto che di Glemnitz non c’era traccia. Qualunque fosse stata la cosa che li aveva sollevati con braccia invisibili per poi rilasciarli con violenza, se ne era andata e aveva portato con sé il povero Glemnitz. Il mostro era scomparso e con lui il nostro compatriota.
*
«Come ho lasciato che accadesse?» Il Vecchio era seduto sul tavolo di carteggio, tormentandosi per la sua mancanza. «Non è colpa sua, signore, Nessuno di noi si è reso conto…» «La pianti, Zielinski. Era dietro di me, avrei dovuto aspettarlo. Avrei dovuto essere io l’ultimo a scendere, a essere preso al posto suo.»
«Non si dia colpe che sa di non avere» intervenne Eno. «Qualcosa ci sta ottenebrando la mente, ci offusca i ricordi e intorpidisce i riflessi. Siamo in balia di qualcosa che non possiamo controllare, lo tenga a mente.» «Non mi è di nessun conforto al momento. Era dietro di me, è colpa mia e me ne assumo tutta la responsabilità.» «Faccia come crede, ma dimentichi in fretta questa storia. Ho paura che i guai non siano ancora finiti.» «Sartori ha ragione, comandante.» Il direttore Fleischmann sembrava il meno colpito da quell’evento. «Abbiamo problemi più urgenti al momento. Piangeremo Alfred Glemnitz non appena avremo tempo per farlo.» Il Vecchio scosse la testa come se stesse vivendo un tormento che solo lui poteva capire e tollerare. Fleischmann si tolse il berretto e fissò la stoffa blu scuro ormai ingrigita e punteggiata da tracce di muffa verdognola. Lo spazzolò con la mano senza badarvi troppo e se lo rimise in testa. «Sono stato in sala macchine.» Fece una pausa per riorganizzare i pensieri. «Le cose non vanno affatto bene laggiù. È come se un sortilegio imprigionasse tutto l’equipaggio, non so bene come descriverlo. All’apparenza pare tutto normale, ciascuno è al suo posto e svolge le solite mansioni, ma…» «Ma?» chiese il Vecchio, improvvisamente interessato alle parole del direttore. «Ma sembrano diversi, ammaliati da qualcosa d’invisibile.» Eno sospirò e rilasciò le spalle. «I loro occhi… fissano il vuoto. Ho provato a parlargli, li ho persino strigliati, ma sembra che la loro mente sia da qualche altra parte. Persino Kurtz sembra andato. In anni di servizio non avevo mai assistito a eventi del genere, parola mia, mai, e sinceramente questa cosa mi spaventa a morte.» Eno annuì. Forse le domande che si era posto poco prima cominciavano ad avere una risposta. Forse non era davvero così folle, così visionario come aveva creduto, non era solo tutto frutto della sua mente. Quelle cose stavano accadendo
per davvero. In qualche modo questo lo rassicurò. Si ritrovò a chiedersi quale tra gli spiriti contenuti nel vaso stesse agendo in quel momento sull’equipaggio. V ecchiaia, gelosia, malattia, pazzia o vizio? Qualcosa di oscuro e terribile era all’opera, questo era innegabile.
Capitolo 22
Josef si agitò tra le coperte. Un senso di soffocamento lo fece annaspare alla ricerca spasmodica d’aria. In quel momento concitato, in cui lottava contro la convinzione di essere in balia di un destino ormai segnato, trovò il tempo di ragionare sul fatto che la sensazione di annegamento non è mai come la descrivono. Non è rapida e soprattutto non è indolore. Il panico, protagonista indiscusso, prende il sopravvento su ogni altra cosa e, nel momento in cui la testa va sott’acqua, la prima preoccupazione è quella di trattenere il fiato quanto più a lungo possibile. Josef sentì i polmoni in fiamme mentre l’acqua scendeva attraverso l’esofago. Il normale flusso dell’ossigeno, ormai interrotto, lasciò il posto al laringospasmo. Una sensazione di forte bruciore gli straziò il petto e gli occhi uscirono fuori dalle orbite. Fu più o meno a quel punto che il panico tornò a bussare con violenza. Contrariamente a quanto si era aspettato, il terrore lasciò spazio a una sensazione di quiete, di distensione muscolare, finché non perse del tutto conoscenza. Aprì di colpo gli occhi e annaspò alla ricerca d’aria. Si sorresse con una mano a terra per non cadere dalla branda mentre l’altra si muoveva con affanno in un muto segnale di aiuto. La vista lentamente tornò mettendo a fuoco il piccolo ambiente separato dal resto del sommergibile da una tenda verde. Josef lasciò che la testa ricadesse sul cuscino e attese che i battiti impazziti del cuore tornassero alla normalità. Lo sterno si gonfiava e sgonfiava al ritmo del respiro affannoso, mentre la pelle era madida di un sudore freddo come l’acqua dell’oceano stesso. Stava affogando, ma non era nel suo corpo. Non era lui quello che si dibatteva in preda agli spasmi nelle acque gelide dell’Atlantico. Chiuse gli occhi alla ricerca di un’immagine che potesse donargli calma. Una stanza in un luogo lontano, un mobilio scuro e le pagine imbrattate d’inchiostro del suo ultimo discorso pubblico all’acciaieria Krupp. La specchiera ovale e di fronte a essa il letto disfatto, dove un lenzuolo candido faceva da cornice a un
corpo snello dalla pelle di latte. Josef cercò di ricordare il nome di quella creatura angelica, ma, per quanto si sforzasse, i ricordi erano relegati a un’altra vita. Angela o forse Arlette, ricordava solo la prima lettera del nome, o almeno immaginava fosse quella. Astrid? Decise che non era poi così importante. Importante, tuttavia, era avere ancora la capacità di ricordare il mondo così come lo aveva lasciato. Legarsi alla speranza di farvi ritorno prima o poi e, chissà, magari avrebbe apprezzato di più quello che la fortuna gli aveva concesso a quei tempi. Fortuna. La fortuna non esiste, così come non esiste la sfortuna, il destino o il fato. L’uomo è solo quello che sceglie di essere e lui aveva voluto fortemente essere lì, proprio dov’era ora. Scacciò il pensiero di Astrid, o come diavolo si chiamava quella puttana nazista, e la relegò a quaranta marchi in fondo alla sua memoria. Aprì gli occhi e lasciò che si abituassero alla penombra. La tenda, per quanto fosse un rimedio solo apparente, conferiva un minimo di privacy al capitano e un po’ di buio quando serviva. Fletté i muscoli e si mise seduto. Scostò la tenda e subito lanciò un’occhiata al gabbiotto dell’idrofonista trovandolo vuoto. Schäfer era seduto accanto a Siffling nell’attiguo locale radio e parlavano sottovoce. Il giovane era piegato su se stesso come in attesa di una benedizione dopo aver confessato i suoi peccati al compagno. Schäfer non ricordava nulla di quanto accaduto, la sua versione dei fatti terminava ore prima della morte di Glemnitz: aveva solo ammesso di essersi sentito come in catalessi, come se non fosse padrone del suo corpo. Josef lo aveva interrogato anche sul libro, ma il sergente non aveva saputo ripetere a memoria nessuno dei brani citati. Per quanto potesse mentire, i suoi occhi sembravano sinceri e lui gli aveva creduto. Josef si alzò e infilò la giacca sopra la camicia ormai ridotta a brandelli. Ne aveva un’altra nell’armadio, ma si era imposto di conservarla integra per quando sarebbero giunti a destinazione. Nel bene o nel male, era sempre un Kapitanlieutnant della Kriegsmarine tedesca. Uscì dal suo alloggio e salutò i due addetti alle comunicazioni. Schäfer rispose sottovoce, incapace, in quel momento, di guardare il suo comandante negli occhi. Le vibrazioni dei diesel indicavano che i motori erano a pieno regime e il
viaggio proseguiva. Ormai erano in mano al destino, anche se Josef non era mai stato propenso a credere che ci fossero forze non terrene in gioco, preferiva ritenere che fossero i Tommies a dettare le regole della partita. Per fortuna, quel tratto di mare non era così soggetto a pattugliamenti alleati e forse, se le cose a bordo fossero andate per il verso giusto, avrebbero avuto una speranza di successo. L’incubo in cui si era ritrovato ad affogare nel corpo di qualcun altro tornò con prepotenza a scuotergli la mente, a scacciare quell’atteggiamento fiducioso che si era appena rinnovato in lui. Josef s’incupì, proprio mentre faceva il suo ingresso in camera di manovra. «Ben svegliato, riposato bene?» Hans gli si fece incontro porgendogli una tazza di caffè. «Tobias l’ha appena fatto.» Josef lo annusò tirando indietro la testa non appena i fumi di quella sostanza gli entrarono nelle narici. «Fa schifo anche ai topi, ma tu fingi che sia buono. Lo sai com’è suscettibile quello lì.» Hans sorrise e si sedette sul seggiolino del timoniere di profondità. «Siamo un ammasso di ferraglia galleggiante, ma sembra che la ragazza fili via come il vento. Incredibile no?» «I rilevamenti?» chiese sorseggiando la bevanda calda. La ò sui denti, sul palato e ci si sciacquò la bocca, poi la sputò sulla griglia che dava nella sentina. Un grumo di catarro misto a una sostanza nera gli fuoriuscì dalla bocca insieme al famoso caffè di Tobias Rau. «Abbiamo una posizione, comandante.» Zielinski tamburellò sulla carta, protetta da una pellicola trasparente, aperta sul ripiano da carteggio. «Siamo più o meno in questo punto. Cinque gradi, trentasette primi nord e zeroventicinque gradi cinquantadue primi ovest, a circa settecento miglia marine da Capo Verde.» Josef si chinò sul tavolo, prese il como e la squadra, tracciò alcuni segni e si ritirò su pensieroso. «Siamo ad appena un paio di giorni dall’Equatore.» «Allora dovremmo pensare a organizzare una bella festa» disse ironico Hans. «Non ci scherzerei troppo, la festa di Nettuno è un’istituzione marinaresca, sarebbe scortese non celebrarla.»
«Parla sul serio, Zielinski?» chiese Hans stupito. «Non lo so, direttore, non so più cosa pensare. E se…» «No, non ci si metta anche lei, per favore.» Josef sbatté il pugno sul tavolo facendo cadere un po’ del prezioso intruglio di Rau. «Se celebreremo la festa di Nettuno, lo faremo perché è usanza, non per ingraziarci i favori di chissà quale dio marino o per tenere lontane le creature degli abissi, è chiaro?» «Sì, signore, chiaro.» «Bene!» Josef fece qualche o, poi tornò indietro. «Dunque, è giunto il momento di sistemare la questione con l’equipaggio, accertiamoci che sia ancora fedele al suo comandante. Trovatemi Werner e Falkenmayer.» «Werner» ribatté Hans, senza celare il suo disprezzo. «Quello ormai è pappa e ciccia con il maggiore. Se volessi testare la fedeltà dell’equipaggio, inizierei proprio da lui.» «Forse è proprio per questo motivo che lo voglio con me. Tieniti vicino i tuoi amici, ma ancor di più i tuoi nemici, rammenti?» «Puttanate da accademia, la vita è differente.» Josef alzò le spalle. «Werner e Falkenmayer, prego» ribadì.
*
Il giro d’ispezione richiese meno tempo di quanto avesse pensato in precedenza. Josef scelse di partire da prua, dalla camera dei Lords, sperando di riconoscere in quei ragazzi, tagliati fuori da qualsiasi dinamica fosse in atto da fin troppo tempo, una parvenza di disciplina e ordine. Werner si unì al gruppo con malcelato interesse. Teneva il capo chino, come se un peso enorme gravasse sul suo animo e l’andatura barcollante lo rendeva piuttosto instabile. La mascella serrata gli conferiva un’espressione stizzita e gli occhi, dei quali si vedeva solo un accenno di iride attraverso le palpebre strette a fessura, sembravano
febbricitanti. Josef, come di consuetudine, lasciò che fosse il capo Falkenmayer a introdurlo alla camera di prua. Quello era il suo regno e non avrebbe permesso che l’autorità del nostromo fosse messa in secondo piano, neppure dal comandante. «Attenti!» disse il Capo quando spalancò il portello. «Comandante in camera di lancio di prua!» La penombra, creata da due fioche lampadine, rivelò l’antro in cui erano confinati i pochi marinai rimasti a bordo. Impossibile descriverne l’odore che attanagliava lo stomaco. Il gas di cloro era un toccasana se paragonato a quell’aroma pungente di sudore acido e vomito che saltava alle narici. L’umidità era dappertutto; grosse gocce cadevano dal soffitto inzuppando qualsiasi cosa fosse ancora asciutta. Alcuni secchi erano stati posizionati per arginare quel gocciolio continuo, ma alcuni erano rovesciati a terra e non contenevano solo acqua. Feci e vomito si mischiavano in un intruglio brunastro dall’olezzo indescrivibile che stagnava sulle grate in attesa di essere sciacquato via nella sentina. Più che un alloggio sembrava un misto tra una di quelle grotte carsiche ricche di stalattiti e stalagmiti e un letamaio. Le cuccette erano aperte e, delle dodici disponibili, la metà erano occupate. Come topi scoperti a rosicchiare, gli uomini si ritirarono da quell’improvvisa apparizione, rintanandosi nella penombra o avvolgendosi alla meglio tra le coperte. «Porci schifosi, avete sentito? Alzate il culo e mettetevi in riga!» Falkenmayer fece qualche o nel locale, prendendo a calci una delle brande senza troppo slancio. Come rassicurati dalla presenza del capo equipaggio, gli uomini iniziarono a sgusciare fuori dai loro pertugi. A uno a uno si misero eretti e con una parvenza d’ordine. «L’equipaggio saluta il comandante» disse con voce flemmatica Geiger, il capo silurista. «Salute a voi» rispose Josef, avanzando di un o.
Si ritrovò accanto a Falkenmayer e gli si affiancò spalla a spalla. In pochi secondi valutò lo stato di salute dei suoi uomini e, per quanto poté, quello psichico. Il colorito grigiastro, le zazzere incolte e le barbe ispide erano un segno inequivocabile della lunga permanenza a bordo, niente che non avessero già vissuto e sopportato. Quello che lo preoccupò di più furono gli sguardi vacui. Tipici di coloro che avevano perso la speranza. Era risaputo in Marina che i primi a smarrire la fiducia in situazioni di estremo pericolo erano proprio i più giovani. Esisteva un punto di rottura, oltreato il quale un uomo si abbandonava all’inedia. Le aspettative si annullavano e niente aveva più importanza. Nessuna illusione, nessun desiderio di salvare la pellaccia. Al contrario i più vecchi, o i più navigati, reagivano in maniera differente. Avevano fatto provvista, nella loro vita, di qualcosa per cui combattere e sopravvivere. Non solo ideali, ma anche affetti. Alcuni avevano una moglie altri persino dei figli, e questo, a volte, era sufficiente per tenerli lucidi in quei momenti di estrema disperazione. Nei loro occhi Josef lesse l’assenza, l’abbandono. Quei ragazzi avevano urgente bisogno di un obiettivo, di qualcosa a cui aggrapparsi per non scivolare nel pozzo della disperazione. Era lì per quello. «Signore» chiese timidamente Hiller, un giovane caporale dai capelli biondo platino e delle efelidi che gli contornavano gli occhi come una mascherina di carnevale. «Caporale?» disse Josef, annuendo alla sua richiesta di parlare. «È… è davvero stata una creatura degli abissi a trascinare il sommergibile?» Il ragazzo abbassò immediatamente la testa; l’imbarazzo gli si leggeva in volto. Josef dovette combattere contro l’irritazione e l’odore nauseabondo, ma riuscì a mantenere la calma. Mostrò un sorriso benevolo, uno di quelli collaudati in anni di servizio e rilassò i muscoli. L’aspetto marziale non era più necessario ora, doveva parlare a quei ragazzi da padre, non da padrone. «Vedi, Arthur, quando l’uomo non riesce a darsi una spiegazione accettabile per una cosa incredibile avvenuta sotto il suo naso, tende ad attribuire l’accaduto a qualcosa di sovrannaturale, di divino.» «L’abbiamo sentito, signore! Abbiamo sentito il suo ruggito, i suoi tentacoli ci hanno afferrato, sballottato come fossimo di sughero.» Kaymer avanzò con le
mani aperte e le lunghe dita contratte verso l’alto. Josef scosse la testa. L’irritazione stava prendendo il posto della calma che si era imposto. «Ci sono cose negli oceani che nessuno può spiegare al momento. Cose che hanno a che fare con la scienza più che con la mitologia. Hai mai sentito parlare di geologia, Martin?» «Sì, signore, ma…» «Esistono crateri sul fondale oceanico in grado di rilasciare enormi bolle di gas metano. Sono reazioni provocate dagli idrati che decomponendosi producono enormi quantità di gas. La fuoriuscita violenta di questi gas potrebbe essere responsabile di quello di cui siamo stati testimoni.» Josef sorrise rassicurante. «Non c’è nessun essere mitologico, nessuna maledizione, ficcatevelo bene in zucca. Ci siamo solo noi, il nostro sommergibile e una missione da portare a compimento.» Gli uomini si guardarono l’un l’altro increduli. Quella spiegazione, per quanto fosse fantasiosa tanto quanto la rappresentazione del Kraken, stava avendo i suoi effetti sulle loro menti confuse. «Quindi lei pensa che quei gas possano averci…» «Non lo penso. Ne sono pienamente convinto.» Josef inarcò la schiena e riprese la sua posizione marziale. Quello era il momento decisivo, doveva dare l’affondo e mettere a tacere quelle dicerie una volta per sempre. «Ciò che ha colato a picco la Siren, che ha ridotto il nostro sommergibile in questo stato e ha mandato la missione in malora fin dal primo giorno di navigazione, non è stato un anatema, o chissà quale abominazione. Sono stati gli inglesi. Loro ci hanno braccati e colpiti quando ne hanno avuto la possibilità. Loro ci hanno costretti alle corde e noi abbiamo risposto nella maniera più adeguata e ne siamo usciti vivi.» Josef si tolse il berretto e lo sbatté due volte contro il palmo della mano. «Facciamo in modo che non sia stato tutto vano.» Il suo pubblico rimase muto. Sguardi vaghi e dubbiosi, avevano solo bisogno di un’ultima spinta. Ci pensò Falkenmayer. «Coraggio, lupi di mare, tre urrà per il nostro capitano!» A quelle parole, il velo di ambiguità che copriva i loro occhi e annebbiava le
menti si disciolse. Gli uomini urlarono a squarciagola i tre urrà per il loro comandante. Per Josef Lüth. Tutti tranne Werner. Il guardiamarina restò imibile, chiuso in oscuri pensieri.
*
«Com’è la situazione là dentro?» Josef si fermò davanti al portello che dalla cucina si apriva sul locale dei diesel. Il caporale Kaymer vigilava accanto alla paratia, pronto a riferire qualunque movimento potesse destare sospetti. «Signore, guardi lei stesso.» A quelle parole il caporale mise le mani sul freddo acciaio del portello. Dovette imprimere molta forza per vincere la pressione che i diesel vi esercitavano. Quando si spalancò, lasciò che asse nell’angusto locale dei motori diesel. Il frastuono proveniva dall’unico motore in funzione. Quello di sinistra, ormai riparato e riposizionato sul suo o, era stato lasciato riposare, in attesa del suo turno. Una nebbiolina azzurrognola fluttuava nell’aria rendendo sfocate cose e persone. Non era il fumo della combustione, anche se il puzzo di nafta era persino peggiore di quello respirato nella camera di prua, sembrava piuttosto nebbia, come se quella sezione di sommergibile avesse generato un suo microclima. Particelle d’acqua in sospensione tali da rendere umido ogni centimetro di quella sala. In quell’ambiente, la muffa regnava sovrana. Chiazze verdi di ossido e muffa cominciavano a formarsi sulle pareti, sul pavimento e sui vestiti. Le uniche cose che sembravano non risentire di quel decadimento erano i due motori. Sembravano una nota stonata in quell’ambiente. Josef osservò gli uomini intenti alla manutenzione e al corretto funzionamento dei diesel. Vide il capo Nagelschmitz, con le braccia immerse nella sua creatura, aprire le valvole dell’indicatore su un lato del motore: da ciascuna di esse fuoriuscì un piccolo getto infuocato. Era completamente assorbito dal suo compito: tenere in vita i muscoli del sommergibile. Nel frattempo, Klodt ed Eggert erano impegnati a controllare il calore dei giunti e Diehl stava alla mandata della nafta. Nessuno di loro si accorse della sua presenza. Josef alzò una mano quando Falkenmayer si fece avanti per dare una strigliata
agli uomini. «Li lasci, Capo» disse bloccando l’avanzata del grosso nostromo. Falkenmayer fece un o indietro. Continuò lungo la erella infuocata, evitando gli uomini indaffarati e sporchi d’olio e fluido idraulico per raggiungere la paratia che lo separava dai motori elettrici e l’estrema poppa del sommergibile. Lì vi trovò, seduto su una cassetta di legno, il piccolo archeologo. Giocherellava con una latta di pesche sciroppate, lanciandola in aria e afferrandola al volo. La sua espressione mostrava tutta la monotonia di quei gesti. Quando lo vide arrivare, si limitò a piegare la testa da un lato e ad alzarsi il bavero della camicia, quasi riuscisse a percepire una corrente d’aria fresca in quell’ambiente arroventato. «Sartori» disse Josef, interrompendo quel ciclo di lanci e prese. L’ometto accennò a un sorriso. Si guardò in torno alla ricerca di un appoggio per potersi alzare e con fatica riuscì a guadagnare la posizione eretta. «Ci sono luoghi più confortevoli a bordo.» Josef girò la testa da sinistra a destra con espressione perplessa. «Non è un buon posto per rilassare la mente.» «Oh, mi creda, c’è di peggio del rumore. Il silenzio per esempio.» Sartori indicò gli uomini affaccendati nella loro routine. «Li ascolti.» Fece una pausa di qualche secondo, poi si portò l’indice alla bocca. «Silenzio. In questo totale frastuono loro sono una zattera deserta nel mare in burrasca.» Alzò le spalle e cercò di rimettersi comodo. «Lo sa perché? No, non lo sa. Perché hanno il rumore dentro. Una confusione che ti annebbia la mente. E fuori non rimane che il silenzio.» Josef lo fissò preoccupato. Anche Sartori cominciava a dare segni di squilibrio. Si sarebbe occupato di lui in seguito. Quell’ambiente era fin troppo ostile per quell’uomo. Fece un o avanti ma venne bloccato dal braccio dell’ometto. «Li tengo d’occhio, comandante. Posso essere i suoi occhi quaggiù. Non baderanno a me più di quanto non l’abbiano fatto finora.»
Josef s’inginocchiò e avvicinò la bocca all’orecchio dell’archeologo. «Se rimane qui, sarà in pericolo e io non potrò fare molto per aiutarla se le cose precipitassero.» «Lo so, ne sono consapevole, ma devo farlo, devo rimanere qui. È una mia responsabilità, lo è stato da sempre.» «No che non lo è. Non è lei il responsabile.» «Parlo di un altro tipo di responsabilità, comandante. Il vaso, le Muse me lo hanno affidato. Loro si sono fidate di me, mi hanno scelto e io le ho deluse. Ora è giunto il momento di rimediare ai miei errori.» «Le Muse?» Josef lo fissò intensamente. «Mi ascolti, è stato lei a convincermi della pericolosità di quel vaso e di quello che contiene, qualunque cosa sia. Ora credo che qualche malia stia agendo su di lei, plagiandola. La sua mente rifiuta il fatto che la sua scoperta le sia stata sottratta e reagisce alla rabbia repressa. Non sono le Muse, Sartori, è lei che vuole porre rimedio e vuole farlo in suo nome e in quello di nessun altro.» Sartori chiuse gli occhi e rise in silenzio. «Gelosia.» «Come dice?» «Gelosia, il demone della gelosia deve avermi stregato. Per quanto lei si sforzi, temo di essere perduto ormai. Mi lasci qui, per favore.» Josef si ritrasse. Lo guardò deluso. Se una mente illuminata come quella dell’archeologo aveva ceduto, non c’era molta speranza per gli altri. Si alzò e riprese il suo cammino. «Comandante?» chiamò Sartori con un filo di voce. Lui abbassò lo sguardo. «Grazie per aver tentato. Finché la mia mente me lo consentirà, sarò comunque dalla sua parte.» Josef annuì senza convinzione.
La situazione nel locale motori elettrici non era poi così diversa. Gli uomini erano ai loro posti, assorbiti dalla manutenzione dei due grossi elettromotori. Anche se ora viaggiavano in emersione, erano comunque inseriti senza trasmissione sugli alberi immediatamente dietro i diesel, in modo da ricaricare quelle poche batterie ancora in funzione e da azionare i compressori per l’aria. Dalla sua ultima visita, trovò la camera sporca e malridotta. Il locale asettico e dall’impeccabile pulizia era ora confusionario e sudicio al pari di quello dei diesel. I rivestimenti che coprivano i motori erano stati divelti, mettendo a nudo il ventre dei due generatori. Un mare di utensili, cavi, strumenti vari e sporcizia ricopriva il pavimento rendendo difficile il transito. Josef riportò alla memoria i suoi studi classici e un’immagine gli si fissò nella mente. are in quel cunicolo, in quello stretto pertugio così simile a una catacomba, fu un po’ come attraversare al contrario la «natural burella» dell’Inferno dantesco per giungere infine a cospetto di Lucifero in persona. Fu proprio così che Josef si ritrovò davanti al maggiore Kurtz. L’uomo se ne stava seduto sui resti di una delle casse in frantumi. Il rivestimento di velluto nero, un tempo usato come custodia per il suo prezioso carico, faceva da copertura per il suo deretano. Il maggiore se ne stava adagiato con le spalle contro l’unico tubo lancia siluri di poppa, con un’espressione indecifrabile stampata sul volto. La stessa che Josef aveva riscontrato su tutti gli altri uomini in quel luogo. Al suo fianco il sergente e il caporalmaggiore delle SS continuavano il loro compito di sentinelle, ritti e impettiti come se fossero al cospetto del Führer stesso. Il maggiore si stuzzicava le unghie con un lungo coltello cerimoniale dalla doppia lama finemente incisa. Josef lo riconobbe all’istante, gli era capitato di vederlo spesso durante le cerimonie ai tempi della propaganda. Le Schutzstaffel ne facevano un oggetto di vanto, indossando la daga, conosciuta col nome di SS Dolch, con ostentazione. La sua lama di acciaio inossidabile riportava sul dritto l’incisione Meine Ehre heisst Treue, il mio onore si chiama fedeltà. «Benvenuto Lüth» disse, senza alzare lo sguardo dalla punta della sua lama. Josef serrò la mascella. Quel cane nazista osava accoglierlo nel suo stesso battello, come se ora fosse una sua proprietà. Al suo fianco giunsero Falkenmayer e Werner.
«Visto? Tutto procede secondo le previsioni. I diesel lavorano a pieno regime e gli uomini…» alzò lo sguardo mostrando un sorrisino malevolo. «Gli uomini sono concentrati sui loro compiti. Nessuna divagazione, nessun tarlo per la testa.» «Non ho avuto la sua stessa impressione, evidentemente.» «No? Mi sorprende.» «Abbiamo perso un uomo là fuori.» Kurtz assunse un’espressione ferita. «Davvero? Me ne dispiaccio.» Poi tornò a stuzzicarsi le unghie con aria annoiata. «Qualcosa l’ha sbalzato fuoribordo.» «Qualcosa, Lüth? Oh no, non credo che volesse usare proprio quel termine. Piuttosto si interroghi sul chi lo ha sbalzato fuori.» «Cosa vuole insinuare?» L’istinto lo portò a serrare i pugni. Solo Dio sapeva quanto avrebbe voluto scaricare tutta la sua frustrazione su quell’uomo. Ridurgli la faccia a una poltiglia sanguinolenta e lasciare che il suo sangue gocciolasse nell’acqua di sentina. Tuttavia cercò di mantenere la calma e ascoltare, c’era tempo per le vendette. «Niente. Non voglio insinuare niente. È lei che cerca giustificazioni ai suoi errori. Arriva persino a dare colpe a qualcosa, come se quel qualcosa potesse scaricarla delle sue mancanze.» «È stato testimone quanto me dell’accaduto, ha sentito…» «Io non ho sentito un bel niente!» Lo interruppe il maggiore puntando la daga verso di lui. I suoi occhi erano febbricitanti e un alone rossastro si era formato intorno alle palpebre. Kurtz si rilassò e tornò con la schiena contro il tubo lanciasiluri. «Non potevo essere testimone, io ero qui, a guardia dell’unica cosa che abbia una certa rilevanza a bordo. Quello era il qualcosa cui avrebbe dovuto prestare attenzione, qualcosa che aveva giurato di difendere e portare intatto a destinazione, ma ha fallito ancora, Lüth, e questo si aggiunge al lungo elenco dei
suoi insuccessi. Che le piaccia o no, questa è l’unica verità, l’unica che abbia un valore, l’unica che interessa a me.» «Lurido pezzo di…» Josef partì di slancio caricando il braccio destro. Immediatamente le due sentinelle del maggiore si frapposero tra lui e il suo bersaglio. Allo stesso tempo Falkenmayer lo trattenne per la spalla impedendogli di proseguire la sua corsa. «No, no, no Lüth, così non ci siamo. L’autocontrollo non è mai stato un suo pregio. Non mi lascia molta scelta, sa?» Josef si divincolò cercando di liberarsi dalla stretta del nostromo. La bocca distorta in un ringhio muto e le mani contratte pronte a dilaniare la sua preda. Una furia cieca si era impossessata di lui. Kurtz si alzò in piedi in tutta la sua altezza. La daga compì un lungo arco sino a puntare dritta verso il soffitto in modo che tutti potessero vederla. «Con l’autorità conferitami dal Reichsführer Heinrich Himmler, io Sturmbannführer Hermann Kurtz, la sollevo dall’incarico per inettitudine al comando. Per mia estrema concessione, le consentirò di mantenere il suo grado, contento?» Josef sentì il sangue defluire dalla testa, scendere giù per le spalle lungo gli arti e per un attimo una sensazione di rilassamento si impossessò di lui. Un misto di abbandono e rabbia repressa che ebbero l’effetto di spegnere ogni aggressività e ogni proposito di vendetta. La testa prese a girare vorticosamente e per qualche istante la vista si appannò. Dovette battere le palpebre più e più volte per riacquistare un po’ di lucidità. Aprì la bocca in cerca di parole che non giunsero. «Potrà sempre farmi da secondo ufficiale, se le fa piacere. Werner!» Chiamò Kurtz puntando la daga contro il guardiamarina che era rimasto in silenzio al fianco di Lüth. Il novello primo ufficiale fece un o avanti. La testa china nascondeva un sorriso maligno. «È promosso sul campo, congratulazioni, Oberleutnant Ludwig Werner.»
A quelle parole Werner alzò il capo mostrando tutta la sua soddisfazione. Gli occhi, spalancati per l’incredulità, s’illuminarono di nuova luce e la ragnatela di vene rossastre che nascondeva ogni millimetro di sclera brillò vivida quando le lacrime sgorgarono. Werner corse dal maggiore e si inginocchiò ai suoi piedi, poi si fece da parte, prendendo posto alla sua destra. Josef avvertì un vuoto profondo dentro di sé, eppure si sentì sollevato da quelle parole. Quel macigno che gravava su di lui sembrò più leggero ora che il demone della responsabilità aveva trovato una nuova dimora. Ma Josef era un uomo d’onore e l’indignazione cominciò a montare dapprima in modo discreto, prendendo posto lì dove c’era quella parvenza di quiete, poi come un’onda di marea spazzò via ogni sensazione bonaria, lasciando solo un enorme e violento sentimento di odio puro. Per quanto in quel frangente la sua mente fosse corrotta, non era uno sciocco. Trattenne l’istinto di risolvere la cosa lì e subito e si costrinse a tenere a freno la lingua e le mani. Cercò la sua migliore espressione d’indifferenza e piegò la testa da un lato in segno di assenso. «Sono felice l’abbia presa bene. Ora devo congedarvi, c’è molto da fare e la meta è ancora lontana. Buona giornata, Lüth. Capo Falkenmayer.» I due si voltarono e arono attraverso la paratia, giungendo in sala macchine. Falkenmayer chiuse il portello e senza preavviso lo colpì due volte con il pugno. «Maledetto bastardo!» urlò, approfittando dell’infernale baccano del diesel in funzione. «Calma, calma» lo riprese con gentilezza Lüth. Cercò gli occhi del nostromo e gli trasmise i suoi pensieri. «Ci sarà tempo e luogo.» Falkenmayer annuì convinto. Strinse il braccio del suo superiore e serrò la mascella in modo risoluto. «Conti pure su di me, comandante.» Josef sorrise, per la prima volta dopo tanto tempo, di un’emozione sincera. «È ancora convinto che non le servano i miei occhi quaggiù?» La voce provenne dalla loro sinistra. Josef si voltò e trovò il piccolo archeologo nell’esatta posizione in cui l’aveva
lasciato. «Le cose sono cambiate, Sartori. Ora più che mai c’è bisogno di ogni risorsa» sussurrò al suo indirizzo. Sartori sorrise. «Bene, le cose cambieranno ancora, e ancora e ancora, ma può contare su di me. Prima però, temo dovremmo occuparci di qualcos’altro.» «Che intende?» chiese Josef. «Guardi là.» Sartori indicò un uomo che riconobbero come Eggert. Il ragazzo aveva la faccia nascosta da uno strato di grasso e fluido marroncino, tanto da apparire come un antico guerriero cerimoniale prima di una battaglia. Il sudore colava dalla fronte, lasciando dietro di sé piccole strisce scolorite. Si grattava con insistenza il braccio sinistro e spostava continuamente il peso da una gamba all’altra. «Lo osservo da ore. Temo che la cosa stia peggiorando.» Sartori si sfregò le mani rilasciando un grosso sospiro. «Potrebbe essere scorbuto?» chiese Falkenmayer senza nascondere la sua preoccupazione. «Potrebbe» ripose Josef, «sarà meglio che Schäfer gli dia un’oc…» Josef non riuscì a terminare la frase che un urlo straziante superò il fracasso del diesel. Eggert alzò testa e mani al cielo e urlò con tutto il fiato di cui disponeva. L’urlo si strozzò e divenne un lamento, un miagolio penoso. Il ragazzo cadde in ginocchio, si guardò spaventato i palmi delle mani e gli avambracci, poi rivolse uno sguardo implorante verso di loro. Balbettò qualche parola senza senso prima che gli occhi gli si ribaltassero. A quel punto, il busto, non più sorretto dai muscoli, crollò pesantemente a terra.
Capitolo 23
«Non riesco a capire, signore.» Schäfer scosse la testa. La barba ispida e il naso adunco gli conferivano più un aspetto da rabbino che da sergente della Marina da guerra tedesca. Il giovane idrofonista aveva ripreso coscienza di sé dopo un lungo travaglio interiore, alla fine del quale non ricordava molto di quanto accaduto. Aveva giurato di aver solo letto quel libro, come molti altri prima di esso e di esserne rimasto affascinato, ma non al punto da poterlo rendere reale. Il Vecchio gli aveva assicurato che niente di quanto avesse detto in stato d’incoscienza e di quanto accaduto poteva essergli imputato. Quella brutta storia era finita lì. «Cosa significa che non capisci?» chiese il Vecchio, inginocchiato accanto a lui. Davanti a loro, steso su una delle brande della camera di prua, il giovane Eggert giaceva in stato febbricitante. La malattia lo stava consumando velocemente e, per quanti sforzi stessero facendo per contrastare la febbre, la temperatura sembrava non voler scendere. «È come se...» Schäfer indicò alcuni punti sul torace scoperto dove grossi sfoghi color amaranto chiazzavano la pelle. «Come se ci fosse più di una patologia. Guardi qui, queste emorragie gengivali sono un chiaro segno dello scorbuto, così come queste iper-pigmentazioni sulla pelle. Ma queste…» L’idrofonista scoprì l’inguine del marinaio, mettendo in mostra una serie di ulcerazioni. «Non hanno nulla a che vedere con lo scorbuto. Sarebbero da imputare alla sifilide o qualche altra malattia infettiva.» La puzza emanata dalle ferite era sgradevole e cominciava ad ammorbare di nuovi effluvi quello spazio già maleodorante. «Per non parlare della tosse, la febbre e il catarro striato di sangue, tutte cause da imputare a qualche forma di tubercolosi o che so io. Non so davvero cosa fare, se non tenerlo il più lontano possibile dagli altri. Andrebbe spostato immediatamente in un luogo più idoneo. La possibilità di infezione è troppo alta per rischiare.»
Eno si ritrasse. Avrebbe voluto smentire il sergente dicendo che non era più importante ormai che lo si spostasse o meno. Il demone della malattia si era insediato in quel ragazzo ed era solo questione di tempo prima che si stancasse di quel corpo ormai ridotto all’ombra di se stesso, prima di cercare un nuovo ospite. Ma tacque, le orecchie di quegli uomini non erano ancora pronte ad accettare la triste realtà dei fatti. «Lo sposteremo. Non so ancora dove, ma seguirò il suo consiglio.» Il Vecchio si alzò scuotendo la testa. Eno immaginò i suoi pensieri. Mai nella sua vita a bordo di una nave doveva aver assistito a un contagio così massiccio. I rapporti ospedalieri parlavano di numerosi casi di scorbuto a bordo delle navi da guerra, persino di meningite, ma quello a cui stavano assistendo era veramente qualcosa che andava oltre l’immaginazione. Incrociarono lo sguardo, ma il Vecchio lo distolse immediatamente. La paura di leggergli negli occhi la verità lo spaventava. Eno non lo biasimò, era un tormento che si andava ad aggiungere a tutto il resto, ma il comandante, o qualsiasi cosa fosse in quel momento, avrebbe dovuto sopportate di peggio e prima se ne faceva una ragione, meglio era. Eno cercò di scuotersi di dosso quell’intorpidimento accumulato nel suo lungo soggiorno in sala motori. La testa gli rimbombava ancora del frastuono dei diesel e la stanchezza iniziò ad agire negativamente sul suo fisico. Doveva riposare o si sarebbe indebolito al punto da spalancare la porta al demone.
*
Eggert fu spostato nell’alloggio dei capi di seconda, dove le quattro cuccette furono adibite a infermeria e separate dal resto dell’ambiente da teli cerati. Già a fine giornata tutti i posti disponibili furono riempiti da nuovi casi di contagio. Le malattie variavano a seconda dell’individuo e delle sue predisposizioni fisiche. Hebermann fu colpito da itterizia e catarro intestinale che gli causò forti attacchi di tosse, vomito e dissenteria. Persino uno degli uomini del maggiore, il sergente Keppler, fu colto da perdite di conoscenza e relativo stato confusionale. Schäfer si diede da fare ben oltre le sue capacità, cercando di tamponare come
meglio poteva le piaghe che iniziavano a formarsi sui corpi dei malati. Ma il continuo contatto con l’acqua e l’umidità dell’ambiente rendevano vani i sui sforzi, impedendo la guarigione delle ulcerazioni e delle lesioni. L’unico rimedio efficace a sua disposizione era una pomata all’ittiolo, usata per qualsiasi patologia come cura universale. Ben presto l’ambiente fu invaso dall’odore insopportabile delle suppurazioni e della cancrena. Schäfer si tirò giù il fazzoletto impregnato di acqua di colonia Impero, una boccetta regalatagli dal Vecchio in persona. «Non c’è molto altro che possa fare. Quello che ho a disposizione può sopperire a piaghe e foruncoli, ma non può nulla contro il resto.» «Grazie per tutto, Lars, ora riposa, ne hai bisogno.» Il Vecchio gli indicò la cuccetta che era stata di Hollstein, il suo primo ufficiale. Eno si fece da parte, lasciando che il sergente si sdraiasse. «Le cose peggioreranno, comandante, su questo non ho dubbi.» Eno si sedette accanto a lui, sul divano. Il Vecchio teneva gli occhi chiusi e le braccia conserte, sembrava essersi addormentato in pochi secondi. «Non sono più il comandante» disse, muovendo appena le labbra. «Forse per quel porco nazista è così, ma per molti di noi lei è ancora a comando di questa bagnarola.» Il Vecchio increspò le labbra in quello che parve un sorriso. «Stia attento a usare quelle parole, potrebbe pentirsene.» «Quali? Porco o nazista? Ho ben altro di cui preoccuparmi al momento.» Eno si voltò verso di lui. I lamenti dei malati erano l’unico rumore continuo, fatta eccezione per il ronzio dei diesel in funzione. «Ha riflettuto su quanto le ho detto?» Il Vecchio mosse il bacino cercando una posizione più comoda. «Per noi c’è ben poco da fare, temo, ma possiamo ancora impedire che tutto questo si propaghi e mettere un freno alla follia dilagante.»
«E in che modo? Non vedo molte soluzioni tranne…» Eno annuì. «Tranne una.» Il Vecchio aprì gli occhi e cercò i suoi. «Quello che mi sta chiedendo è impensabile. Per quanto al momento abbia perso il comando dell’U-666, sono e rimango un Kapitanlieutnant della Kriegsmarine. Questo è sufficiente a rispondere alla sua domanda?» «Al momento. Ma ben presto dovrà ritornare sulla sua decisione, e chissà, magari avrà nuovi elementi per valutare meglio.» «Sartori.» «Sì, comandante?» «Forse è il momento di chiamarci per nome, non crede? Sono stanco di questi formalismi, può rivolgersi a me come preferisce, se crede.» Eno sorrise. «Se per lei non è un problema, sarei onorato di poterla chiamare Josef.» «E sia, allora permetta che la chiami Eno.» «E sia.» «Mi prometta una cosa. Se mai arrivassi al punto da valutare la sua proposta, se mai decidessi per l’ extrema ratio, sarei io a dover portare a termine il compito. Ma se non dovessi farcela per qualsiasi motivo, voglio che sia lei a farlo. Sono poche le persone di cui posso ancora fidarmi e a parte Hans, Falkenmayer e forse Zielinsky, gli altri si contano su una mano. Lei ha una motivazione, un debito e questo fa di lei l’uomo giusto.» «Se non avrà la forza di farlo, la mia mano sarà sopra la sua e lo faremo insieme.» Il Vecchio annuì sollevato, poi richiuse gli occhi e si addormentò.
*
Un vociare sommesso lo strappò dal torpore nel quale era caduto. Aprì le palpebre, trovandole appiccicose. Le molecole di nafta dei diesel in sospensione saturavano gli ambienti, formando una patina bruna e unta. Eno si voltò in direzione di quel chiacchiericcio e vide in lontananza la figura del direttore Fleischmann. Sembrava intento a discutere con qualcuno nell’infermeria. Con un sacrificio che gli fece dolere reni e spalle, si alzò per raggiungere il piccolo gruppetto di uomini radunati davanti agli alloggi dei capi in seconda. Vide Schäfer con la testa bassa, concentrato sul polso di Eggert. Il caporale era immobile, il volto sfigurato dalle piaghe e dai bubboni di una malattia ormai senza freno. «È andato» disse l’idrofonista qualche secondo dopo. Fleischmann si levò il cappello e altrettanto fecero il Vecchio e Zielinsky. Eno si unì a loro e, senza bisogno di chiedere, intuì a cosa si riferissero quelle chiacchiere di poco prima. Si rendeva necessario liberarsi del corpo per evitare un ulteriore contagio. Il Vecchio prese lui e il direttore per un braccio, allontanandoli da quel luogo di malattia e morte. «Non abbiamo scelta, dobbiamo sbarazzarcene» disse trafelato, ma i suoi occhi mostravano ancora una determinazione frutto dell’urgenza. Eno non trovò nulla da dire, aveva già espresso le sue perplessità ad arrischiarsi nell’aprire i portelli. Il sommergibile avrebbe dovuto rimanere sigillato come nuovo simulacro del vaso. Forse i dubbi gli si lessero in faccia perché il direttore gli fece schioccare le dita sotto il mento. «Ho un’idea» disse con gli occhi stretti a fessura. «Possiamo usare uno dei tubi lanciasiluri.»
«Lo escludo a priori» reagì indignato il Vecchio. «Pensaci, Josef, è il modo più pulito di risolvere la questione.» «Quel ragazzo non merita di essere gettato come fosse spazzatura, Hans!» Zielinsky si fece spazio nel gruppo. «Signori, il maggiore non permetterà che si aprano i portelli, ma se ci muoviamo, forse possiamo riuscire a tirarlo fuori di soppiatto dal portello di carico siluri a prua. Mi sono giunte voci che stia facendo sigillare tutti i portelli di poppa e presto arriverà anche qui. Farnetica su qualcosa che ha a che fare con l’Ordine del Sole Nero e che consegnare il vaso e quello che stava al suo interno è il solo modo per portare a compimento la sua missione.» «Sembra che Kurtz la pensi come lei, Eno» il Vecchio gli sorrise. Eno annuì ma non c’era allegria nel suo sguardo. Il Vecchio si strinse con l’indice e il pollice la radice del naso e strizzò gli occhi. Poi si ò la mano sul volto e lanciò uno sguardo al corpo inerme del marinaio. «E sia. Il rischio che sigilli i portelli mentre siamo fuori a commemorare le esequie è troppo alto. Credo che non aspetti altro. Facciamo come dici tu, Hans. Facciamolo subito.» Il corpo di Eggert fu avvolto nelle coperte chiazzate di sangue e materiale purulento fuoriuscito dalle piaghe e trasportato da due uomini nell’attigua camera dei Lords. Il Vecchio fece chiamare come cerimoniere il capo silurista Rolf Geiger, responsabile di prua e unico sottufficiale a dormire con i sottocapi e i comuni. «Che sia una cosa fatta con i dovuti riguardi» disse, quando il corpo fu sollevato per permettergli di compiere il suo ultimo viaggio. Geiger annuì e si occupò di inserire un pistone d’acciaio che avrebbe svolto la funzione di spingere il corpo fuori dal sommergibile. Quando tutto fu in ordine, Geiger chiuse ermeticamente il portello. «Allagare» ordinò Il Vecchio.
Geiger aprì il rubinetto che fece defluire acqua all’interno del tubo di lancio. Con una manovella aprì il pannello a scomparsa sulla fiancata del sommergibile. «Pronti» disse, mettendo una mano sulla leva di lancio. «Va, sei libero ora, va e porta con te le nostre pene.» Il Vecchio si tolse il cappello e lo stesso fecero quei pochi che parteciparono a quel funerale improvvisato. «Fuori!» Geiger fece pressione sulla leva che immetteva aria compressa all’interno del tubo. Il pistone spinse il corpo per una certa corsa, lasciando che la propulsione lo lanciasse fuori dal sommergibile. In pochi istanti tutto ebbe fine. La procedura di recupero del pistone avvenne in un silenzio raccolto, rotto solo dal ronzio dei motori e dal frastuono delle onde che s’infrangevano contro la prua. Il piccolo drappello funebre si sciolse appena in tempo. Incontrarono Kluger e Linke proprio davanti all’unico bagno a disposizione dell’equipaggio. Kugler portava con un sé un saldatore a benzina. Quando superarono il Vecchio, i due si toccarono la fronte con le dita in segno di saluto, ma i sorrisi caustici tradivano le loro intenzioni. Falkenmayer mollò un calcio nel sedere di Linke, ma lo sguardo omicida che quello gli rimandò indietro lo fece desistere dall’accanirsi su di lui. Eno lesse negli occhi del nostromo la voglia repressa di prenderlo a pugni, ma la situazione a bordo non era più vantaggiosa come un tempo e il rischio di scatenare una guerra intestina tra fazioni era troppo elevato. «Mettici più impegno, Linke, non vedi che c’è un ufficiale?» disse infine. Il sergente lo guardò in cagnesco, poi sputò a terra. Senza aggiungere altro si voltò e seguì Kugler. «Lasci stare, Capo, abbiamo problemi più gravi di questo.» Il Vecchio minimizzò l’accaduto, anche se le preoccupazioni per quella rottura nell’equipaggio gli affliggevano l’anima.
«Ma signore, se rinunciamo alla gerarchia, perderemo il controllo. Quei porci non aspettano altro.» Il Vecchio mise una mano sulla spalla del grosso nostromo. «Lo so, dico solo di stare attento.» L’infermeria era a pochi metri da loro, separata da un telo cerato che faceva da tenda. La puzza di formaggio avariato, tipica dei tessuti in necrosi, gli fece girare la testa. Eno si costrinse a respirare con la bocca per non dover inalare quei miasmi insopportabili. Ma per quanti sforzi fe, quell’odore sgradevole gli rimaneva attaccato alla lingua come una patina, provocandogli conati di vomito. «Devo uscire da qui» disse scuotendo la testa. «Si tappi il naso e vada in camera di manovra, la raggiungeremo non appena possibile. Abbiamo ancora molto da pianificare.» Il Vecchio gli aprì la tenda e fu costretto a superare quei pochi metri, occupati dalle brande dei malati, in apnea. Se fuori la puzza era insopportabile, all’interno dell’infermeria era asfissiante. Talmente intensa che sembrava si fosse condensata sotto forma di una nebbiolina verde. L’odore era quasi tangibile e rimaneva appiccicato agli abiti tanto quanto alla memoria. Eno aprì la tenda dalla parte opposta e fu fuori in un batter d’occhio. Senza soffermarsi sul pensiero di quanto aveva visto là dentro, proseguì fino alla camera di manovra dove riprese a respirare. Seduto al timone c’era Sievert, uno dei pochi sergenti ancora fedeli al Vecchio. Era un ragazzone della Turingia, con pochi grilli per la testa e la ione per il mare. Nascere a Erfurt, nel pieno centro della Germania, non lo aveva certo favorito quando aveva scelto il mare invece che una più rapida carriera nell’esercito. Piuttosto che trovarsi sbattuto sul fronte russo, aveva preferito imbarcarsi volontario su un sommergibile. Il lungo periodo di addestramento in patria, prima di arrivare in zona di guerra, aveva semplificato la scelta. Sievert era poggiato con la testa contro la paratia. Davanti a lui la bussola indicava i centosettanta gradi e la lancetta del telegrafo di macchina di babordo era puntata su Halbe Fahrt, macchina a mezza forza. La loro velocità attuale era di circa dieci nodi, quindi. Stavano procedendo a risparmio di carburante.
«Sono sveglio» disse Sievert, quando lui si avvicinò per controllare. Eno fece un balzo indietro per lo spavento. «Ho la schiena a pezzi» si lamentò il giovane sergente mentre si stirava i muscoli. «E questo mal di testa non se ne vuole andare.» Eno non trovò nulla da dire in risposta. Sapeva per certo che quel mal di testa presto sarebbe sfociato in qualcosa di ben più preoccupante. Sievert diede uno sguardo alla bussola e fece pressione sul comando elettrico del timone per correggere la rotta. «Come va?» disse senza troppo interesse, indicando con il mento oltre la paratia di prua. «Non bene, non abbiamo farmaci adatti per fermare le infezioni e alleviare le sofferenze di quei poveri ragazzi.» Il timoniere si spostò sul seggiolino cercando una posizione più comoda. «Speriamo che i in fretta.» Eno non capì se si riferisse al contagio che si stava diffondendo a macchia d’olio tra l’equipaggio o ai tormenti fisici di quegli sfortunati. «Siamo vicini all’equatore, sa? Ci aspetta una gran festa. Il comandante ci ha promesso mezza bottiglia di birra a testa per la festa di Nettuno. Oh, non vedo l’ora di scolarmela tutta. Appenderemo delle sacche di tela cerata alla fiancata del sommergibile, le riempiremo di bottiglie di birra e poi scenderemo giù.» Sievert mimò con la mano un’immersione. «Bastano pochi minuti a un centinaio di metri per farle gelare a puntino, sa?» «Davvero?» rispose mesto. Non ebbe cuore d’infrangere quel sogno irrealizzabile. «Ci può scommettere, pochi minuti e…» Gli occhi di Sievert si riempirono di lacrime. La consapevolezza cominciava a farsi strada in quella giovane mente stanca. «Coraggio» lo tranquillizzò, posandogli la mano sulla spalla. «Superiamo
l’equatore e avrai anche la mia razione. D’accordo?» Sievert si asciugò le lacrime con la manica sporca di unto e sudore e sorrise. «Ci conto!» Un urlo bestiale li interruppe. Ne seguì un trambusto al quale si unirono grida e avvertimenti attutiti dal metallo della paratia. Eno si affacciò e vide qualcosa nella penombra che si agitava come un animale braccato. Un uomo nudo, con il corpo chiazzato dalla malattia e dal sangue che sgorgava dalle piaghe aperte, gli correva incontro. Dietro di lui, il capo Falkenmayer e Schäfer si sbracciavano per cercare di fermarlo. Eno fu travolto dall’assalto dell’uomo che riconobbe come Keppler, uno degli sgherri del maggiore Kurtz. Riuscì appena in tempo a lanciarsi contro Sievert, evitando di un soffio le mani tese ad artiglio di quello che, a tutti gli effetti, sembrava un demone appena salito dagli inferi. A nulla valsero gli appelli del Capo che gli correva dietro con un telo di stoffa verde. Toccare quell’uomo equivaleva a condividere la sua stessa sorte. Keppler uscì in un lampo dal lato opposto della camera di manovra, sembrava avere dei carboni ardenti sotto i piedi per quanto correva veloce. A ogni o, una chiazza di sangue lasciava l’impronta dei suoi piedi sul pavimento già sudicio, una scia scarlatta sulla quale correvano i suoi inseguitori. Eno si mise dietro all’idrofonista, cercando di mantenere l’equilibrio come meglio poteva sulla erella dell’alloggio dei sottufficiali. Si chiese perché qualcuno non si dava la pena di rimettere a posto le lastre del pavimento. Le urla bestiali di Keppler si fecero più acute quando sbucarono nel piccolo vano della cucina. Le pareti erano ricoperte da schizzi di sangue e lunghe manate rosse imbrattavano il metallo. Keppler era in piedi sul ripiano della cucina e cercava come un matto di girare il volantino del portello stagno. Lungo tutta la circonferenza del portello, le saldature annerite rendevano impossibile quell’operazione, e quando Keppler realizzò di essere ormai in trappola, si tramutò in un animale braccato, lasciandosi dietro le sue spoglie umane. Le unghie nere di grasso, lunghe e scheggiate, scavarono grossi graffi sul
suo petto. Nei punti dove incontravano le piaghe aperte e purulente un liquido giallastro colava insieme al sangue. Keppler emise un gemito disperato prima di saltare a terra e scagliarsi contro Falkenmayer. Il Nostromo fu più rapido e lo afferrò con il telo, cingendolo in modo da evitare il sangue infetto. Il grosso sergente delle SS si divincolò e, liberatosi dalla stretta, sgusciò da sotto. Cercò con un rapido affondo gli occhi di Falkenmayer ma, per sua fortuna, S chäfer parò il colpo con una delle padelle accatastate sul ripiano. Keppler si voltò e cercò riparo in sala motori, dove gli uomini, risvegliatisi dal loro torpore innaturale, si erano fatti da parte per far are quella creatura spaventosa. La videro correre curva e con la bava alla bocca, le mani protese come artigli felini in cerca di una vittima. «Il demone!» urlò qualcuno accucciato dietro le leve dell’accensione dei motori di dritta. «Il demone si è svegliato!» Altre urla si unirono al coro, sovrastando per un attimo il ruggito del diesel. Keppler si trovò la strada sbarrata da Tobias Rau, il cuoco di bordo. Tobias teneva in mano un vassoio pieno di tazze fumanti. Lo guardò con aria assente, come se quello che stava di fronte a lui fosse frutto di un sogno o forse un incubo. La bestia spalancò le braccia e tirò fuori un ruggito inumano, poi si scagliò contro il cuoco. Le unghie scavarono grossi solchi sulla pelle pallida e tirata del giovane e i denti affondarono in quella più tenera del collo. Uno zampillo di sangue eruttò dalla giugulare quando Keppler mollò la presa. Tobias cadde a terra privo di sensi rovesciando le tazze e il liquido bollente al loro interno. Un aroma di caffè e sangue si sparse per la sala. Keppler, eccitato dal sangue e dalla pazzia, strinse le mani gocciolanti sangue ad artiglio e, annusando come un segugio, fece qualche o avanti. Lo scoppio paralizzò tutti. Riecheggiò nello stretto locale dei diesel rimbombando sulle pareti curve per alcuni interminabili secondi.
La creatura che era stata Matthias Keppler piegò la testa all’indietro quando il proiettile 9 mm gli traò la fronte uscendo dal cranio con uno sbuffo rosso. La calotta cranica si aprì come fosse di carta pesta e piccole schegge d’osso tintinnarono sulle carene dei motori. Il corpo di Keppler si accasciò come una bambola di pezza. Per pochi istanti fu il silenzio l’unico padrone di quel luogo, neanche il fracasso del motore poté nulla contro quella quiete innaturale che si era venuta a creare. Gli uomini uscirono dai ripari e qualcuno azzardò un commento. Altri si unirono al chiacchiericcio, finché Kugler non urlò. «Il maggiore ha ucciso il demone!» disse, alzando il pugno in aria. Si voltò verso gli uomini incitandoli. «Ha debellato la maledizione che ci affliggeva! Salutiamo il nostro salvatore!» Linke, Thiel, Löble, Thielen, e altri, si unirono al coro. Alzarono il braccio destro teso con la mano aperta e urlarono « Heil, Kurtz!» Il maggiore abbassò la canna fumante della sua Walther P38 e assunse un’aria appagata. «Ripulite e togliete di mezzo quella bestia disgustosa.» Come se nulla fosse stato, Kurtz fece dietrofront e tornò nel suo covo. Eno rimase impietrito, incapace persino di elaborare quanto aveva appena visto. Si poggiò con la schiena alla paratia e si lasciò scivolare in basso, finché le ginocchia non gli toccarono il mento. Cinse le gambe con le braccia e rimase in quella posizione a occhi chiusi, cercando di tener fuori dalla mente tutti quegli orrori.
Capitolo 24
« Heil, Kurtz!» La mano stretta sull’impugnatura della P38. La schiena dritta e le spalle larghe a mostrare la sua intera, imponente figura. Il capo chino a mascherare l’espressione di soddisfazione. Hermann Kurtz si godette a pieno quell’ovazione, consentendo agli uomini di magnificare il suo gesto e acclamarlo come il salvatore. Menti semplici da irretire, ma i cuori erano grandi e forti e questo rendeva il suo lavoro ancora più semplice. Gli era bastato premere il grilletto per tramutarsi dal crudele maggiore Kurtz della Das Reich, a uccisore del demone e redentore di quelle anime superstiziose. Un gesto semplice, una leggera pressione meccanica, qualcosa che aveva compiuto centinaia di volte sui campi di battaglia, ma mai con quel risultato. Uccidere i nemici del Reich era giusto e giustificabile, un’inezia che non gli aveva mai tolto il sonno la notte, una minuzia che veniva ricompensata quando e se ce n’era tempo e voglia. Ora rivolgeva la sua stessa arma contro un fratello e quel gesto lo rendeva un eroe. È strana la guerra, pensò. Baum, l’ultimo dei suoi uomini, lo attendeva a poppa, vigile come non mai sul loro prezioso carico. Accolse il maggiore con un largo sorriso, lasciando che si sedesse su quanto rimaneva delle casse del loro bagaglio. Kurtz le aveva tramutate nel suo scranno personale, un trono dal quale comandare l’U-666. Il suo sguardo raggiungeva ogni angolo del sommergibile; qualsiasi cosa accadesse, lui ne veniva a conoscenza prima o poi. La rete di spie che aveva sapientemente intessuto era dappertutto. Al suo fianco sedeva Werner, promosso primo ufficiale in comando e custode del vaso. Dentro il tubo lancia siluri, come fosse un moderno tabernacolo, era preservato il vaso di Pandora, custodito come una sacra reliquia. «Ottimo lavoro, signore» disse Werner complimentandosi.
«Ho fatto solo quello che andava fatto.» «Li sente? Gli uomini la acclamano, le sono grati per aver liberato il sommergibile dalla maledizione.» Werner faticava a trattenere l’eccitazione. Gli occhi erano spalancati e lucidi, le mani strette tra loro dietro la schiena nell’assetto più marziale possibile. «Niente più di quello che andava fatto, Werner.» Kurtz accavallò la gamba sinistra e si adagiò sullo schienale. Il telo mimetico, steso sullo scranno improvvisato, lo rendeva più confortevole e adatto a un uomo del suo rango. «Si assicuri che venga ripulito tutto per bene.» «Signore?» Lo sguardo di Werner si fece interrogativo. «Si occupi lei di quei cadaveri. Sono ancora volontari della Marina da guerra tedesca, non sono ancora stati congedati.» I suoi occhi gelidi palesavano una richiesta che non avrebbe ammesso repliche. «Certo, signore.»
*
«A quest’andatura, non più di mezza giornata.» Zielinski era piegato sul tavolo da carteggio. Con due dita stringeva il perno del como mentre si teneva in equilibrio sui gomiti Werner guardò l’orologio appeso sopra il pozzetto del periscopio e calcolò a mente l’ora approssimativa in cui avrebbero raggiunto la linea dell’equatore. «Se ci manteniamo sui dieci nodi e se le correnti non ci ritardano, per le quattro scavalleremo nell’emisfero meridionale.» «Molto bene. Informerò immediatamente il comandante.» Werner girò sui tacchi, poi ci ripensò. «Sai, Karl, credo proprio che il maggiore Kurtz sia intenzionato a concedere all’equipaggio una festa di Nettuno coi fiocchi.»
Zielinski alzò appena la testa. Dopo gli eventi infausti di quelle ore, l’ultima cosa di cui aveva bisogno era di festeggiare qualcosa che non fosse l’arrivo alla Base 211. «Magnifico» disse d’istinto, più per togliersi di torno quel leccapiedi di Werner che per altro. «Ci saranno balli, rappresentazioni e tutti dovranno indossare una maschera. Vedrai, ci sarà da divertirsi.» «Non lo metto in dubbio. Il morale è alto e i ragazzi hanno voglia di svagarsi, no?» «Esattamente.» Werner parve riflettere su quelle parole. Non gli doveva essere sfuggita la vena ironica, ma sorrise giulivo e batté due volte le mani. «Bene, credo che ora finirò il mio giro di controllo. Stammi bene, Karl.» Zielinski emise un brontolio. Il novello comandante in seconda oltreò l’alloggio degli ufficiali, dove condivideva ancora gli spazi con il direttore di macchina Fleischmann e il nuovo comandante dell’U-666. Non che il maggiore Kurtz si fe vedere così spesso in quell’ambiente, preferiva rimanere a poppa, dove il suo prezioso vaso giaceva al sicuro da occhi indiscreti. Sollevò la tenda che faceva da divisorio con l’infermeria e si coprì d’istinto bocca e naso. Un odore sgradevole di formaggio stagionato lo investì con la forza di un treno merci. Vincendo il disgusto si affacciò all’interno di quell’ambiente buio e umido. Una luce appena sufficiente a indicare il cammino illuminava due corpi distesi sulle cuccette ai lati delle pareti, uno di fronte all’altro. Werner si alzò la maglia fin sopra il naso per preservarsi da un inopportuno contagio. L’odore acre del sudore gli riempì le narici, ma scendendo a compromessi con il suo olfatto, decise che era meglio respirare il suo tanfo che quello degli altri. Diede una sbirciata ai due fagotti racchiusi dalle coperte. Il caldo lì dentro era insopportabile, tuttavia quei due disgraziati se ne stavano coperti come se fossero già sulle coste dell’Antartide. La malattia faceva quell’effetto, pensò, i brividi potevano causare spasmi muscolari violenti, meglio lasciarli al caldo, la febbre non sarebbe scesa comunque. Non se ne curò più del dovuto, in fondo erano spacciati, c’era ben poco da fare se non aspettare che andassero al creatore nel modo più caritatevole possibile. Si ritrovò a riflettere
sulle parole del maggiore Kurtz. Anche lui era dell’idea che sarebbe stato molto più dignitoso dare una morte rapida e indolore a quegli sciagurati. Quando il cavallo si azzoppa, gli si pianta un colpo nella spina dorsale. Veloce, indolore e misericordioso. Mentre era concentrato sui suoi pensieri, percepì un solletico alla mano destra. Un tocco lieve, appena sfiorato. Abbassò lo sguardo e fece un salto all’indietro. «Maledetto cane!» esclamò, guardandosi la mano con attenzione. Una strisciolina gialla di muco o qualsiasi altra cosa fosse, gli insozzava il dorso. Si strofinò con energia sulla coperta della branda superiore ormai vuota e solo allora si rese conto che anche quella coperta era stata usata da uno dei pazienti di quel lazzaretto. Werner divenne rosso di rabbia e tirò un calcio alla branda dove Tobias Rau stava esalando gli ultimi respiri. Dalla mano del cuoco cadde una fotografia raffigurante due giovani abbracciati su una terrazza. Sullo sfondo, chiazzato di sangue, si intravedevano delle montagne innevate. Rau emise un gemito quando cercò di girarsi per prendere la foto, ma un accesso di tosse lo costrinse a fermarsi. La testa ricadde sul cuscino e un fiotto di sangue gli chiazzò la bocca, il collo e la coperta. Werner dovette combattere contro l’ultima parvenza di umanità rimastagli che gli gridava da un angolo oscuro della sua coscienza di raccogliere la foto per lui. Tirò un profondo respiro, poi diede un calcio alla foto mandandola sotto la branda. «Dimenticala, non ti servirà a niente tenerla stretta. L’unico conforto di cui hai bisogno è di una morte rapida.» Rau gonfiò la gola, cercando di parlare, ma dalla bocca gli uscirono solo gemiti senza senso. Werner scosse la testa e tirò la tenda per uscire da quel luogo maledetto. «A proposito» disse gelido. «Il tuo caffè faceva schifo.»
*
La mezzanotte era ata da pochi minuti e i turni ai diesel erano stati rispettati. L’equipaggio non aveva molto altro da fare, se non occuparsi dei due motori che, alternandosi a cicli di quattro ore, spingevano alla velocità di dieci nodi l’U-666. Tutte le mansioni degli uomini erano state riviste in funzione delle nuove direttive, i marinai addetti ai turni di guardia ora si alternavano con i motoristi alla manutenzione dei diesel e degli elettromotori. Anche se il sommergibile era impossibilitato a immergersi, se non a quota periscopio, i motori elettrici lavoravano a polarità invertita e, come tutte le macchine a corrente continua, servivano da generatori in favore dei pochi accumulatori rimasti. L’uso dell’aria compressa e dell’illuminazione a bordo, o di qualsiasi altra componente elettrica, dipendeva esclusivamente da quello. Qualsiasi esercitazione, o manutenzione di quello che non fosse utile come propulsione per il sommergibile, fu annullata. «Tutto in regola, signore» disse Werner, quando fu chiamato per il rapporto d’inizio turno. «Mi sono assicurato che Siffling e Gehrts tengano d’occhio il maresciallo Nagelschmitz. Agli elettromotori ci sono Kugler, Linke e Löble, come ha ordinato.» Hermann annuì compiaciuto. I suoi uomini migliori si sarebbero assicurati che l’andatura non subisse intoppi. La strada da percorrere era ancora lunga, circa tremilacinquecento miglia li separavano dalla loro destinazione, un viaggio lungo e non privo di minacce. Hermann non era preoccupato degli inglesi, ormai quelle acque erano sicure e non avrebbero subito incursioni a sorpresa, la sua preoccupazione maggiore era che la minaccia più seria venisse dall’interno del sommergibile stesso. Togliere il comando a Lüth era stato un azzardo, un azzardo dilettevole, ma pur sempre un rischio capace di innescare una rivolta. Lüth aveva ancora dei sostenitori a bordo, e quei sostenitori erano benvoluti e amati dall’equipaggio. Hermann pensò al direttore di macchina Fleischmann. Troppo amico di Lüth per chinare la testa contro il sopruso di cui era stato testimone. Poi c’era il capo Falkenmayer. Quell’energumeno, in verità, lo preoccupava al pari di Lüth. Era l’anima del sommergibile, un padre severo, ma anche una mamma amorevole e i giovani marinai gli erano molto legati.
Problemi minori, seppur da non sottovalutare, erano Zielinski e Sartori. Quel piccolo verme infido di un italiano era riuscito a entrare nelle grazie degli ufficiali di bordo; sembravano affascinati dalle sue storie e dai suoi modi affabili. Hermann ci rifletté un attimo. Forse sminuire quell’uomo avrebbe potuto rivelarsi un errore imperdonabile da parte sua. Prima o poi avrebbe dovuto saldare i conti anche con lui. «Signore?» Hermann si voltò verso Werner che attendeva in piedi davanti lo scranno di comando. «Se per lei va bene, possiamo iniziare i preparativi per la celebrazione.» «La celebrazione, sì. Se non ricordo male, mi ha parlato di una cassa con degli abiti licenziosi.» «Signorsì. Che sia una nave o un sommergibile, ogni capitano si assicura che ci siano dei costumi da indossare in occasione del aggio dell’equatore, è un’usanza marinaresca che…» «Non le ho chiesto la storia della dannata Kriegsmarine, Oberleutnant!» sbottò. «Certo, signore, io…» «Si assicuri che ciascun uomo sia in possesso di un capo di vestiario e che tutti abbiano la loro razione di birra. Non è festa senza la birra.» Werner annuì appagato. «Ah, Werner?» «Signore?» «Credo che sia necessaria un’offerta per questo vostro dio pagano.» «Un’offerta?» «Sì, un dono. Se dobbiamo fare le cose per bene, servirà placare Nettuno fino a quando non giungeremo a destinazione. Non vogliamo che scateni ancora la sua
furia su di noi solo perché siamo stati così scortesi da non offrirgli nulla in cambio.» «Non saprei, signore. In genere…» «Werner. Se avessi voluto un consiglio, l’avrei posta in modo differente. Si prodighi a riguardo.» Hermann Kurtz lo congedò con un cenno della mano e accavallò la gamba. La sua mente riprese a tramare in silenzio. Solo un’ora più tardi a ciascun uomo fu dato il permesso di scegliere un capo di vestiario dalla cassa dei costumi. Altri, seguendo l’onda dell’entusiasmo, si dedicarono con estro a crearne di nuovi con quel poco che il sommergibile forniva. Verso le tre di notte, tutti gli uomini, a eccezione di Lüth e pochi altri, erano pronti per i festeggiamenti. Il comandante diede libero accesso alle scorte di birra e a quelle già scarse di viveri. L’ultimo prosciutto fu affettato in strisce spesse e cucinato con uova in polvere. Data l’assenza del cuoco, gli uomini si alternarono ai fornelli schiamazzando felici per quella nuova possibilità di distrazione. Le ultime scatolette di carne di pollo o maiale, con contorno di carote, patate o legumi, vennero mischiate in grossi tegami, senza distinguere troppo il loro contenuto. Le gallette, in abbondanza, sembravano aver preso un colorito verdognolo, complice la scarsa cura con cui erano state custodite nella dispensa. Molte scatole erano aperte e la poca aria respirabile, umida e puzzolente, aveva permesso alla muffa di ricoprirne la superficie. Il sergente Siffling non si diede per vinto e con il suo coltello si mise a grattare le gallette una per una, finché la patina spumosa non fu raschiata via del tutto. Per garantire a tutti un’adeguata razione di alcool, fu ordinato di mischiare la birra con la scarsa acqua ancora potabile e quanto rimaneva della scorta di alcolici del comandante. Considerando che Lüth l’aveva lasciata praticamente intatta, l’intruglio che ne uscì fuori fu una vera bomba alcolica. Tra le grida festose e le battute oscene, l’equipaggio iniziò i preparativi per la festa in maschera. Il morigerato Kugler scelse per lui e il suo secondo, Thomas Linke, un abito da indigeno con tanto di gonnellino di paglia e un osso di prosciutto ficcato nei capelli. Il colorito pallido e la barba ispida, più simile a
crauti bolliti, rendevano l’insieme ridicolo e grottesco. Linke sembrava orgoglioso del suo costume e non la smetteva di scuotere il bacino facendo sollevare la paglia del gonnellino, mostrando un paio di mutande nere come il carbone. Si diceva a bordo che la Kriegsmarine avesse scelto il nero proprio per evitare il classico bicolore marrone-giallo che colorava l’intimo dei marinai dopo le lunghe missioni senza possibilità di dedicarsi alla propria igiene personale. Löble, fedele al suo soprannome, scelse un mantello nero che faceva svolazzare come fossero ali. Con un pezzo di cartone delle scatole alimentari, aveva fabbricato un becco, finendo per assomigliare in tutto e per tutto a un corvo. Correva lungo la sala motori gracchiando come un uccellaccio del malaugurio e ogni tanto si fermava davanti a qualche suo compagno annunciandogli la sua prossima dipartita. Più di qualcuno cercò di afferrarlo o di prenderlo a calci ma il suo compito continuò senza badare troppo alle proteste dei poveri sventurati a cui aveva predetto l’orrenda e prematura fine. Il piccolo corteo si ingrossò a mano a mano che i marinai si univano alla processione, arricchendo il gruppo con vestiti sgargianti di ogni foggia e forma. Qualcuno doveva aver sottratto un’uniforme dall’armadio degli ufficiali, perché un nuovo guardiamarina apparve sotto il naso di tutti, sbraitando ordini e elargendo paternali con voce ferma e impostata. Le risate riempirono il sommergibile quando si scoprì che sotto quel cappello nuovo di pacca, c’era il grosso bavarese Karl-Heinz Thielen e che quell’uniforme apparteneva al compianto Hollstein. Kurtz diede di gomito a Werner e sorrise a quell’apparizione. Il bavarese si avvicinò al comandante e poggiò un ginocchio a terra in segno di rispetto e sottomissione. Poi alzando la testa mostrò un largo sorriso. «Signore, vostro servo.» Kurtz scoppiò in un’accesa risata e si alzò in piedi cercando di darsi un tono. Si avvicinò al sergente ancora curvo e sfoderò il suo lungo coltello. Lo fece vorticare nell’aria e lo calò velocemente sul collo di Thielen. Tutti trattennero il fiato. «Per il coraggio dimostrato, per il valore in battaglia e per l’amore verso il nostro amato Führer, ti nomino guardiamarina e secondo ufficiale di bordo.» Thielen sollevò il capo mostrando un ghigno soddisfatto. «Sarà mio compito non
deluderla, signore.» «Ottimo! Ora sull’attenti guardiamarina.» Thielen si sollevò con un unico, fluido movimento e saltò sugli attenti ostentando un perfetto saluto nazista « Heil, Kurtz!» disse a voce piena. « Heil, Kurtz!» urlarono gli altri. Kurtz scoppiò in una grassa risata e tutti lo seguirono. I pochi che si tennero in disparte, indecisi se prendere parte a quella follia, furono trascinati dalla folla e costretti a indossare abiti improvvisati e spesso ridicoli. Il comune di prima classe Hiller, un piccolo caporale dai capelli color del platino e con delle piccole efelidi che gli circondavano gli occhi, fu obbligato a farsi vestire da dama seicentesca e costretto a subire una sessione di trucco dal sergente Geiger. Usò il grasso dei motori per il contorno degli occhi, il risultato fu più simile a un panda che a una nobildonna di corte. Inutile dire che la cosa scatenò l’ilarità del branco di festaioli. Anche Kaymer fu trascinato nel mezzo e costretto a indossare un attillato costume da folletto, ma non opponendo troppa resistenza, gli uomini finirono per disinteressarsi a lui ben presto. «Zielinski?» chiamò il nuovo comandante, sovrastando il vociare continuo e gli schiamazzi. Il sottufficiale di rotta si avvicinò a lui a o lento e sottomesso. «Ci siamo, comandante» disse trafelato. «Manca poco.» «Voglio che si dia il via ai festeggiamenti nell’attimo esatto in cui eremo l’equatore.» «Impossibile stabilirlo da qui, signore, dovrei…» Kurtz sorrise, un sorriso del tutto simile a una condanna a morte. «Mi dica, dove sono stato poco chiaro? Cercherò di spiegarmi meglio.» «Ho capito, signore. Farò quanto è in mio potere.» «Ecco!» disse battendo le mani. «Questo è lo spirito giusto.»
Zielinski tornò indietro e sparì tra la folla. Kurtz si batté le mani sulle ginocchia e si costrinse ad alzarsi dal suo scranno. Scambiò un cenno d’intesa con Werner e si posizionò davanti al portello del tubo lancia siluri. Werner accorse al suo fianco, afferrò la maniglia del portello e lo aprì. Gli uomini ammutolirono all’istante quando Kurtz infilò le mani all’interno del lungo tubo estraendone un fagotto di tela cerata. Un cencio sporco s’intravide poco più in profondità, ma fu solo una breve apparizione prima che il tubo fosse richiuso. Un olezzo dolciastro fuoriuscì perdendosi tra la miriade di aromi che rendevano nauseabondi quegli spazi angusti. Alzò l’involto più in alto che poté, di modo che tutti potessero vederlo, poi lo poggiò sullo scranno e srotolò la stoffa che lo avvolgeva. Il vaso fu messo in bella vista, protetto dalla sua custodia di velluto nero e custodito dal nuovo secondo in comando e dall’imponente mole del novello guardiamarina. Una carriera lampo quella di Thielen, alla quale nessuno si era opposto e comunque era stato lui stesso a sancirne l’ascesa e l’equipaggio doveva accettare quello stato di cose. Kurtz prese posizione dietro il vaso e con l’indice sfiorò le rune che abbellivano il velluto nero. Ger, Hagall, Leben, Opfer, Tod e Sig. Il filo d’oro con cui erano state ricamate cominciava a chiazzarsi anch’esso di verde, un deterioramento a cui ogni cosa in quel sommergibile finiva per cedere. Kurtz recitò: « Ger per lo spirito comune, Hagall per la fede, Leben per la vita, Opfer per il sacrificio, Tod per la morte e Sig per la vittoria!» Tutti gli uomini, disposti in una lunga fila che partiva dal locale degli elettromotori, sino a raggiungere quello dei diesel più a prua, rimasero in silenzio, cercando di trovarsi un varco per ammirare la reliquia e per ascoltare le parole del comandante. «Ciascuna di queste rune ha un significato ben preciso e profondo. Le rune ci suggeriscono un codice di comportamento in vita che, attraverso lo spirito comune, la fede e il sacrificio, a per la morte per raggiungere la vittoria finale.» A Hermann non sfuggì, lontano, celato tra i costumi sgargianti, il volto contratto di Lüth.
Sorrise tra sé e continuò. «Una tra tutte, la runa Wolfsangel o artiglio di lupo, e simbolo della mia divisione SS, la Das Reich, era in origine un segno rappresentante una trappola per lupi, un feticcio usato come talismano contro lupi e licantropi. Non è curioso che proprio questo sommergibile porti raffigurato l’emblema del lupo e il caro vecchio Lüth sia stato soprannominato Werwolf? Lo trovo alquanto bizzarro.» La folla ondeggiò sotto la spinta delle risatine e gesti d’intesa. «A ogni modo, è storia vecchia, il cambio di comando si è reso necessario e…» afferrò il vaso e lo alzò sulla sua testa, «quello che davvero conta al momento è che questo giunga a destinazione sano e salvo. Ciascuno farà la sua parte affinché nulla, e dico nulla, accada a questa preziosa reliquia del nostro amato Reich!» La folla proruppe in un urlo seguito dal saluto nazista. Tra i corpi sudati e maleodoranti, Zielinski si fece avanti spintonando e maledicendo quegli uomini troppo stimolati emotivamente. «Ci siamo, secondo i miei calcoli, saremo nell’emisfero meridionale tra» lanciò un’occhiata all’orologio sopra la paratia, «tre minuti esatti.» «Avete sentito, uomini? Tre minuti e daremo il via alle danze! Sergente Siffling, sarebbe così gentile da mettere un po’ di musica? Qualcosa di non troppo licenzioso per il momento.» Siffling schizzò lungo il corridoio tra i motori diesel, accompagnato dalle pacche dei suoi compagni. Hermann attese al suo posto, elargendo sorrisi a tutti gli uomini che si affannavano per avvicinarsi a dare uno sguardo al vaso di Pandora. Thielen fu costretto a frenare più di un tentativo di toccare il vaso, ma quando gli altoparlanti di bordo iniziarono a gracchiare, tutti alzarono lo sguardo al cielo e iniziarono a intonare un canto. Auf der Heide blüht ein kleines Blümelein und das heißt: Erika. «Ottima scelta, non c’è che dire» esclamò lui, quando udì le prime parole del testo della canzone Erika, una famosa marcia militare tedesca usata dalla Wehrmacht e in seguito estesa anche alla Kriegsmarine.
Quando la lancetta dei minuti compì tre giri, Hermann decise che l’ora era giunta e diede il via ai festeggiamenti. Gehrts e Diehl portarono il grosso recipiente dove il cocktail era stato sapientemente miscelato e iniziarono a distribuire mestoli di liquido ambrato nei contenitori più disparati. Qualcuno adoperò persino la vaschetta metallica che conteneva l’ossigeno di uno dei respiratori. Mezz’ora di ossigeno persa per sempre. In men che non si dica, gli uomini erano già belli che sbronzi. Danzavano freneticamente al ritmo delle marce militari e di qualche musica più libertina. Kugler e Linke si diedero da fare ad agitare i fianchi, imitando una danza tribale indigena che fu accompagnata da fischi e battiti di mano cadenzati. Quella frenesia andò avanti finché Kugler, ben più vecchio del suo secondo, non cadde a terra stremato e ubriaco. A quel punto, Linke fu portato in trionfo come un eroe su e giù per il sommergibile. Si organizzò una gara di lancio di coltelli, dove Siffling non ebbe difficoltà a prevalere sugli altri contendenti al titolo. In premio c’erano l’ultima latta di pesche sciroppate e una bella quantità di sigarette all’oppio, frutto di puntate clandestine. Siffling si ritirò imbattuto, con le tasche piene di sigarette e sulle labbra il dolce sapore dello sciroppo zuccherino. Hermann constatò con soddisfazione che persino gli uomini sospettati di intrattenere rapporti segreti con Lüth iniziavano timidamente a inserirsi all’interno del gruppo di festaioli. S chäfer mosse alcuni timidi i nel vano motori diesel e finì ben presto circondato dai suoi compagni che lo agghindarono di tutto punto. Finito il lavoro certosino, al posto dell’austero idrofonista, c’era uno scheletro dalle orbite vuote, dipinte di nero con il grasso dei motori, che si muoveva sbilenco ma sorridente tra la calca, con in mano una tazza dell’intruglio alcolico. Fu solo verso le sei di mattina, circa due ore dopo e venti miglia marine al di là della linea dell’equatore, che Hermann fece spegnere la musica e richiamò l’attenzione dell’equipaggio. «Va bene, va bene» disse sovrastando il rombo dei diesel e delle lamentele degli uomini ubriachi ed eccitati. «Lasciatemi dire un’ultima cosa.» Qualcuno si accasciò a terra, subito seguito da qualcun altro che si sedette per ascoltare meglio le parole del comandante. Ben presto tutti gli uomini se ne
stettero seduti e muti in attesa delle sue parole. «Il fracasso che abbiamo fatto sin ora sarà certamente arrivato alle orecchie del dio del mare, contateci.» Gli uomini proruppero in un nuovo urlo soddisfatto. «Tuttavia, non credo che il povero Nettuno sia sufficientemente appagato da tutto questo. Forse dovremmo adoperarci per agevolare il nostro aggio e mitigare lo sdegno che sin ora abbiamo provocato agli dei. Che ne dite?» «Facciamo un’offerta!» gridò qualcuno dal fondo del locale diesel. «Sì, un omaggio a Nettuno! In modo che il Kraken non ci dia più la caccia» lo assecondò un altro. «Plachiamo la creatura» urlarono dalle prime file alzando i pugni. «Bene, se è questo che volete, sarete accontentati.» Hermann fece un cenno a Thielen che, scavalcando gli uomini, raccolse tre volontari e andò verso poppa. Solo qualche minuto dopo, due fagotti, avvolti nelle coperte di stoffa pensante, vennero trasportati fino a poppa, ai piedi dello scranno. Thielen li fece adagiare con cura e gli involti furono aperti. Una zaffata nauseante si alzò dai fardelli quando le ferite purulente dei due malati vennero scoperte. Rau e Hebermann giacevano a terra contorcendosi tra atroci sofferenze. Chi si trovava in prima fila cercò di allontanarsi da quello strazio per paura di essere contagiato. «Ecco a voi» disse con tono solenne. «La consunzione, la malattia, segno inequivocabile del decadimento a cui ci siamo abbandonati, allontanandoci dalla giusta direzione di fede. Le rune ci hanno avvertito, il vaso ci ha mostrato cosa accade se l’uomo timorato si allontana dal sentiero, ma noi non abbiamo prestato orecchio e siamo stati puniti. Ora le cose devono cambiare. Non temete il contagio, non lo temete se avete intenzione di seguire il cammino che le rune ci hanno tracciato. Fede, sacrificio, morte e vittoria. Non temete la morte, poiché è attraverso di essa che si assurge alla vittoria finale.» Hermann alzò i palmi delle mani, quasi la sua omelia dovesse raggiungere un
livello ancora più alto. Thielen rispose al suo muto comando e fece alzare le barelle improvvisate. Werner allo stesso tempo aprì il portello del tubo lancia siluri. I lamenti di Rau e Hebermann divennero più acuti, quasi avessero capito le intenzioni dei loro compagni. «Ora ti offriamo in sacrificio questi doni per placare la tua collera e per ricevere il tuo appoggio affinché possiamo giungere a destinazione veloci e sicuri sulle tue correnti. Insegnaci a vedere nell’immensità del mare le orme della tua presenza.» I fardelli furono inseriti nel tubo tra le lamentele strozzate. Hebermann ebbe qualche reazione che fu messa a tacere senza troppo sforzo. Rau, al contrario, sembrava essersi abbandonato al suo destino. Sarebbe stata una liberazione dalle sofferenze. «Fermi!» L’urlo giunse dalla folla che si accalcava in prossimità dei due elettromotori, in uno spazio angusto e appena sufficiente al aggio di due uomini. Thielen si fermò, esitando girò la testa per individuare da dove giungesse quell’intimazione. Kurtz sbatté le mani sullo scranno facendo traballare il vaso, si guardò intorno nell’incredulità che qualcuno fosse tanto sfrontato da interrompere il rito. Lüth si fece largo a grosse bracciate, sembrava un naufrago che tentava di rimanere a galla nel mare impetuoso. Mulinava le braccia nel tentativo annaspante di avanzare di qualche metro, mentre gli uomini imprecavano per quell’improvvisa interruzione. «Fermi!» ripeté quando giunse a pochi metri dall’altare. Kurtz piegò la testa prima a destra e poi a sinistra, facendo scrocchiare l’osso del collo. Osservò con attenzione i tentativi dell’ex comandante d’interrompere la cerimonia e lasciò che si fe vicino, tanto vicino da poter quasi toccare il vaso. Kurtz colse un’opportunità. Poteva mettere a tacere quell’uomo per sempre o quantomeno poteva screditarlo definitivamente agli occhi dell’equipaggio. Allargò le braccia in segno di resa. «Si calmi, Lüth, non c’è bisogno di agitarsi
tanto, è tra amici.» «Amici? Quale amico farebbe questo» disse, indicando il tubo lanciasiluri dove la testa di Rau spuntava dal portello ancora aperto. Kurtz lanciò un’occhiata distratta sopra la spalla destra, più per commedia che per un vero interesse. «Uno di quelli coscienziosi e caritatevoli.» «Carità? Con quanta incostanza parla di carità, Kurtz. Questa parola sulle sue labbra suona più come un crimine.» Lüth serrò la mascella indignato. Kurtz gli lesse, negli occhi arrossati e cerchiati da profonde occhiaie, tutta la furia di un animale ferito. Si lasciò andare a una fragorosa risata. «Suvvia, lo sa benissimo che è la cosa giusta da fare. Se c’è una cosa che lei mi ha insegnato, è che un buon comandante deve essere pronto a prendere decisioni difficili, decisioni che possono portare a un minimo sacrificio per il bene del resto della comunità. Non vogliamo che accada qualche altro spiacevole incidente, non è vero?» Gli uomini delle prime file scossero la testa. «Vede? Non vogliamo. Qual è quindi il modo più appropriato affinché ciò non accada più?» «Un sacrificio!» urlò qualcuno. A quella voce solitaria se ne aggiunsero altre e ben presto tutta la sala fu invasa da acclamazioni, fischi e grida impetuose. Lüth sembrò rinunciare alla lotta. Lasciò cadere le braccia lungo i fianchi e si abbandonò alla frustrazione. «Visto? Il popolo ha deciso. Non sono altro che lo strumento che…» La canna di una Walther P38 brillò alla fioca luce del locale di poppa. Un tutt’uno con il braccio teso di Lüth. Nessun tremito nella mano che impugnava l’arma, nessuna esitazione in quegli occhi ferini. «Cane rabbioso» ringhiò Lüth, mentre faceva pressione sul grilletto. Qualcosa scintillò alla destra del Kapitanleutnant, veloce come una serpe. Lo scoppio colse tutti di sorpresa e la folla, per un istante, rimase congelata nello
sconcerto. Kurtz sbarrò gli occhi azzurri e abbassò lo sguardo al petto. Vide il nastro rosso, nero e bianco della Croce di Ferro di prima classe, il distintivo d’oro conferito per i combattimenti ravvicinati e quello dello stesso metallo per le ferite in missione. Più di tutti, l’Ordine militare della Croce Tedesca, conferito per il grande coraggio dimostrato sul campo, era il suo orgoglio, il suo vanto. Non vide traccia di sangue o di un buco slabbrato sull’uniforme. Aveva sempre pensato alla morte come a qualcosa di violento e intenso nelle sensazioni. Aveva visto troppi cadaveri per immaginare che potesse essere tutt’altro. Eppure, in quel frangente, il suo animo era calmo, pronto al trao. Il suo cuore invece sembrava non pensarla allo stesso modo. Batteva come una gran cassa, facendo aumentare la respirazione e gonfiare lo sterno. Il sangue circolava con maggiore velocità, sgombrando la mente da ogni pensiero e dandogli la strana sensazione di lucidità. Per un attimo si sentì invulnerabile. Lüth aveva lanciato un urlo strozzato quando il coltello di Siffling gli aveva colpito il polso. La P38, con ancor la canna fumante, giaceva a terra sulla grata di metallo arrugginita e sporca di una melma verdastra. Lüth cadde in ginocchio, mentre Siffling calciava l’arma per allontanarla da lui. Kurtz osservò tutto con distacco, quasi quella scena si stesse svolgendo a centinaia di miglia da lui. Gonfiò il petto e lasciò che l’aria fuoriuscisse piano, per assaporare quegli attimi di vita. Un foro di proiettile calibro 9 mm aveva perforato il rivestimento proprio sopra la sua testa, facendogli cadere polvere di sughero sulle spalle. Siffling colpì con lo stivale la schiena di Lüth, costringendolo a terra. Kurtz sorrise. Il suo trionfo se l’era immaginato diverso, ma a conti fatti, le cose non avrebbero potuto andare meglio di così. Lüth era finito, ora avrebbe disposto di lui a piacimento. «Uccidete quel traditore!» urlò Werner, quando riprese coscienza di sé. Immediatamente Siffling caricò il braccio. La sua lama era pronta a dare il colpo di grazia.
«No, fermo!» ordinò Kurtz. Siffling abbassò deluso l’arma. «Il nostro Kapitanleutnant è pur sempre un ufficiale, sarebbe scortese giustiziarlo senza un regolare processo, non credete?» Qualcuno annuì di malavoglia. La brama di sangue e vendetta era palese negli occhi di quegli uomini. Avrebbero dovuto pazientare ancora un po’. «Ci assicureremo che non crei più problemi, ma prima, lasciamo che assista alla nostra offerta a Nettuno. Werner?» Il primo ufficiale annuì e si adoperò per chiudere il portello del tubo lancia siluri. Attutite dalle pareti di metallo, giunsero le urla e i tonfi di Hebermann, mentre cercava di liberarsi da quella gabbia di morte. «Allagare» ordinò Werner. Thielen aprì il rubinetto e un getto d’acqua a pressione riempì il tubo. Le urla si spensero all’istante. L’agonia di quegli uomini doveva essere orrenda, ma necessaria. «Tubo allagato e pronto al lancio, signore.» Werner poggiò la mano sulla leva di lancio e rimase in attesa dell’ordine. «Ci disponiamo a offrire questo sacrificio al dio del mare. Pregate fratelli perché il cammino che ci separa dalla nostra meta sia agile e privo di pericoli e perché questo sacrificio sia gradito a Nettuno.» Gli uomini s’inginocchiarono, reclinando il capo. Siffling obbligò Lüth a fare altrettanto. Kurtz annuì. Werner ebbe il segnale che stava aspettando. Fece pressione sulla leva e il pistone espulse i corpi fuori dal tubo sotto la spinta dell’aria compressa. In qualche istante tutto finì. Un coro esultante proruppe dalle bocche marce degli uomini. I loro fiati fetidi si
unirono alle esalazioni velenose dei diesel e dei gas di cloro.
Capitolo 25
Eno ritirò le gambe, circondando le ginocchia con le braccia. Cercò una posizione il più possibile raccolta chiudendosi a guscio su se stesso. L’odore insopportabile di quel luogo era nulla se paragonato all’inquietudine opprimente che incombeva nel suo cuore. Lottò contro il senso d’impotenza, uscendone presto sconfitto. Non c’era molto altro da fare ormai. Era stato rinchiuso nel locale di prua insieme ad alcuni dei fedelissimi di Lüth. Con lui, reclusi in quell’angusto spazio putrescente c’erano, oltre al Vecchio, anche il direttore di macchina Fleischmann, il Capo Falkenmayer e il sottufficiale di rotta Zielinski. Kurtz aveva risparmiato quell’agonia ad altri e, anche se sospettati di far parte della banda di sediziosi capitanati da Lüth, gli era stata data la possibilità di redimersi con il duro lavoro e l’assoluta devozione verso il nuovo comandante. Inutile dire che tutti avevano fatto ammenda senza fiatare pur di risparmiarsi quel martirio. Si coprì naso e bocca con la manica della camicia ormai ridotta a brandelli. Il tessuto, una volta celeste, aveva assunto toni sbiaditi dalle curiose sfumature verdastre come tutto in quell’ambiente, del resto. Le tubazioni, le pareti, le assi di legno delle cuccette, e ogni cosa mobile o immobile in quei pochi metri quadri, erano ricoperte da uno strato di muffa color verde pallido o da una patina di ossido di un vivace turchese. La puzza di carogna, mista a quella acre del sudore e dell’urina, impregnava ogni anfratto, rendendo la respirazione insopportabile. Ogni respiro era una fitta ai polmoni e si aveva la sensazione di dover vomitare da un momento all’altro. Il mare, come se quelle sofferenze non fossero abbastanza, ci metteva del suo per rendere quel soggiorno più duro possibile. Dagli occhi giungeva la sensazione di essere fermi, ma gli organi dell’equilibrio ricevevano continuamente segnali di movimento. Questo scoordinamento generava un segnale d’allarme in tutto il corpo, ma in particolar modo allo stomaco. Nausea e vomito avevano iniziato fin da subito a tormentarlo. «Non credo riuscirò a resistere ancora molto» disse senza alzare la testa. Anche
se parlare permetteva a quegli effluvi di raggiungergli le narici e le papille gustative, procurandogli un conato, sentì di non potersi trattenere oltre dal farlo. Aveva bisogno di essere rassicurato, di sapere che anche gli altri erano in difficoltà come lo era lui. Egoisticamente parlando, sapere che non era solo in quella sofferenza, lo faceva stare meglio. «Ce la farà, Sartori, è solo puzza.» Fleischmann era adagiato su una delle cuccette con le mani dietro la testa, quasi stesse facendo un riposino tra un turno di lavoro e un altro, come se tutto quello che stava accadendo fosse normale. «Non è la puzza che mi preoccupa, ma la sorte.» «Allora farebbe bene a mettersi l’anima in pace fin da subito.» «Piantala, Hans» disse il Vecchio. Si rigirò su un fianco calcandosi il berretto bianco sugli occhi, quasi quella pallida luce infastidisse il suo riposo. «Sai a cosa pensavo?» continuò Hans. «Mi chiedevo perché mai ti ha lasciato tenere quel berretto. Sì, insomma, ogni comandante dovrebbe averne uno e, se non ce l’ha, non è un comandante di U-boot.» «Che pensieri profondi» replicò il Vecchio. «Non è che ci sia molto altro da fare. Siamo chiusi qua dentro da tre giorni e non hanno avuto neanche la compiacenza di lasciarci un mazzo di carte. Non sai che darei per una partita a doppelkopft.» «Chissà, magari al maggiore gli viene lo schiribizzo di giocarsi la paga» esclamò Falkenmayer, sforzandosi di sorridere. «Non li vorrei i suoi reichsmark, puzzano come le mie mutande.» Fleischmann si tappò il naso mal celando un’espressione di disgusto. Le chiacchiere furono interrotte da un suono metallico. Il portello si aprì e dall’ombra spuntò la testa di Werner. «Eccolo, il piccolo verme» ringhiò Falkenmayer quando lo vide affacciarsi. Werner sembrava divertito e non abboccò all’insulto del nostromo.
«Sei venuto a chiedere perdono per i tuoi peccati, piccolo verme?» Werner mostrò un largo sorriso sfrontato. «Sono solo venuto a sincerarmi che le nostre scorte di cibo siano conservate in modo adeguato.» Si guardò intorno, sondando ciascuno dei reclusi prima di continuare. «Sembra che lo siano.» Falkenmayer balzò in piedi e provò ad avvicinarsi, ma il primo ufficiale estrasse una P38 puntandogliela alla testa. «Non un o, non vorrei dover sprecare una così sostanziosa fonte di proteine.» Falkenmayer strinse i pugni. Digrignò i denti con un rumore come di pietre che grattano l’una sull’altra. «Prima o poi riuscirò a metterti le mani al collo. Prima o poi» minacciò furibondo. Werner piegò la testa e annuì dubbioso. «Chissà, magari prima o poi accadrà. Per il momento sarà bene che vi teniate in forze, il viaggio è lungo e gli uomini non si sazieranno solo di gallette ammuffite.» Proruppe in una risata grottesca, frutto della follia che gli teneva prigioniera la mente. Dietro di lui, Tewes e Dietze tenevano in mano delle ciotole colme di un denso liquido scuro sul quale galleggiava una poltiglia bianchiccia. Posarono le ciotole a terra accanto al portello e subito uscirono. «Mangiate e, se potete, ingrassate.» Werner chiuse il portello; la sua risata si perse a mano a mano che si allontanava da quella prigione. «Maledetto traditore! Se solo conservasse un briciolo d’onore, saprei io come rificcargli in gola quelle parole.» «Stia calmo, Capo» lo tranquillizzò il Vecchio. «Così sta facendo il suo gioco. Cerca solo di provocarci, non gli dia un pretesto per premere il grilletto, lo faccia per me. Presto avremo bisogno che la sua collera sia viva e vigorosa.» «Oh, lo sarà comandante, lo sarà di certo.» «Ottimo, allora mangi e si tenga in forze.» Lüth si sforzò di alzarsi dalla branda e afferrò una tazza di latta. Il liquido denso sciabordava come acqua di sentina sulla quale galleggiavano placide carcasse marcescenti e sbiancate dalla morte. Il
Vecchio annusò e senza indugiare ne prese un sorso. Uno di quei pezzi mollicci gli dovette scendere in gola perché per poco non sputò tutto a terra. Con calma si riprese e tirò fuori la lingua per umettarsi le labbra. Alzò le spalle e ne prese un altro sorso. «Brodo e gallette» disse minimizzando. «Mi sarei aspettato qualcosa di meglio. È evidente che la nuova gestione non potrà avere lunga vita.» Hans si girò dall’altra parte e si coprì il volto con il braccio. Il tempo ò pigramente senza che potessero avere la più pallida idea di che ore fossero o di dove stessero navigando. La costante minaccia di essere avvistati da un pattugliatore gravava sempre sulle loro teste, anche se quelle acque non erano poi così trafficate. Le emozioni, in quello spazio così ristretto e sottoposti com’erano a quel trattamento psicologico, erano volubili e spesso trascendevano da un estremo all’altro in pochi istanti. Eno ò dall’afflizione al rancore, dall’indignazione per quelle privazioni alla rinuncia. Si sentiva un animale in gabbia e cominciava a dare cenni di cedimento. Fu in uno dei suoi attimi di sofferenza fisica e mentale che iniziò a fare avanti e indietro davanti al portello. La sua mente confusa cercava di elaborare piani di fuga, ma la cosa più originale che riuscì a pianificare fu saltare addosso al primo che avesse aperto il portello. Non era un combattente, ma la disperazione era capace di rendere feroce persino il più mite degli agnelli. «Non ci si metta anche lei, Sartori» Sbottò Fleischmann. «Quell’andirivieni mi sta facendo impazzire. Si metta seduto, prego.» «Non ce la faccio, non ce la faccio proprio. Ho bisogno di fare qualcosa, o almeno provarci.» «E crede che andando avanti e indietro a quel modo riuscirà a scavare un buco per evadere?» «Non lo so, magari è un’idea.» «Un’idea neanche tanto sciocca» intervenne il Vecchio.
«Sì, certo, assecondiamolo pure.» Fleischmann alzò le mani al cielo esasperato. «No, ascolta.» Il Vecchio batté il piede per terra due volte. Ne provenne un suono sordo. «Qui sotto c’è il vano siluri e sotto di esso la cassa d’assetto due e quella prodiera, giusto?» «Così pare» rispose il direttore, fingendosi disinteressato. «Il vano siluri confina con il locale accumulatori proprio sotto l’infermeria e gli alloggi degli ufficiali.» «Là sotto non è praticabile, comandante» intervenne Falkenmayer. «È un intrico di tubature, per non parlare dell’acido degli accumulatori che ha contaminato l’acqua rendendola mortale.» «Lo so, ma potrebbe essere l’unica via di fuga.» Il Vecchio si fece scuro in volto. Socchiuse gli occhi, quasi quel gesto servisse a farlo concentrare meglio sui suoi pensieri. «Sempre meglio che starcene qui a non fare nulla per giorni e giorni» si sfogò Eno. «Sempre meglio che diventare la loro cena» aggiunse Zielinski terrorizzato. Ancora una volta i minuti divennero ore. Eno se ne stava sdraiato sulla sua cuccetta in un dormiveglia tormentato, quando il portello si aprì con uno schianto. Fece in tempo a rigirarsi su se stesso prima che mani fredde lo afferrassero sbattendolo con violenza sul pavimento. Gridò con quanto fiato gli rimaneva ma, pur divincolandosi, non riuscì a sottrarsi alla stretta ferrea dei suoi aguzzini. Davanti a lui sentì le grida strozzate di qualcun altro, finché non divenne tutto buio. Riprese i sensi e si trovò raggomitolato a terra in quello che sembrava un ambiente diverso dalla loro prigione. Tanto per cominciare la puzza sembrava svanita, o quantomeno non colpiva alla gola come un bicchiere di soda caustica, e poi c’era luce, una bella luce bianca e brillante. Eno si massaggiò la testa dolorante e si mise seduto. Riconobbe immediatamente la camera di manovra, con gli strumenti di controllo del sommergibile e gli intrichi di condutture e valvole in ogni punto. Accanto al sergente maggiore Sievert, seduto al timone direzionale, stava Werner. Ritto e impettito come una guardia svizzera in
presenza del pontefice. «Ben svegliato, signor Sartori» disse con quella sua insopportabile aria frivola. Eno cercò di capire cosa stesse succedendo e solo allora si accorse di non essere solo. Dietro di lui, inginocchiati con le mani legate dietro la schiena, c’erano Falkenmayer e Zielinski. «Cosa volete da noi?» chiese allarmato, domandandosi se veramente avessero intenzione di usarli come cibo. «Il comandante vuole parlarvi. Ho provato a farlo ragionare, ho provato in tutti i modi a spiegargli che quelle gallette ammuffite non bastano a saziare gli uomini e che ben presto il deperimento sarà da considerare al pari di tutte le altre malattie che ci affliggono, ma lui niente. Sembra che tenga a voi in modo particolare e questo, per voi, è un bene, credetemi.» Eno lo fissò disgustato. Non riusciva a credere che un essere umano, se pur accecato dal tocco demoniaco degli spiriti del vaso, potesse scendere a un tale livello. Il cannibalismo era una pratica selvaggia, indecente per degli uomini istruiti. Ma se un ufficiale della Marina tedesca poteva scadere in un tale livello di depravazione, non poteva aspettarsi molto altro dai suoi uomini. i leggeri ticchettarono sul metallo alle loro spalle. Kurtz li superò e si mise comodo sul sedile del timoniere di profondità di prua. «Buongiorno a voi, signori» disse con un sorriso gioviale. Eno capì all’istante che il maggiore si stava giocando le sue carte migliori. Quell’espressione, quella postura, quel modo di fare così cordiale, lo riportò al ato, in un altro luogo, in un altro tempo. Eno si ritrovò in una camera accogliente, con un caldo fuoco scoppiettante. Seduto su una poltrona di pelle nera c’era Heinrich Himmler. Ricordava l’aspetto di quell’uomo come se lo avesse davanti agli occhi in quel momento. Magro, dai piccoli occhi furbi, un uomo garbato e cortese, ma facile al disappunto se il discorso intrapreso non era di suo gradimento. E spesso, troppo spesso, non lo era. Eno rivide quegli occhi in quelli del maggiore Kurtz. La sua disinvoltura era la stessa che il Reichsführer gli aveva riservato quel giorno al castello di Wewelsburg.
«Allora, signori, saltiamo i convenevoli, volete?» Kurtz accavallò una gamba e si appoggiò contro la paratia alle sue spalle. «Le cose stanno semplicemente così. Ho necessità di sapere da quale parte avete intenzione di schierarvi.» Giunse subito al punto senza troppi preamboli, il resto era solo una tediosa perdita di tempo. «Fate la vostra scelta con calma e giudizio, nessuno di noi vuole che ve ne abbiate a pentire subito dopo.» Dalle loro spalle giunsero degli schiamazzi e risatine di scherno. Eno si voltò appena e vide alcuni uomini che si accalcavano per assistere all’interrogatorio. Tra loro c’erano i soliti noti della cricca del maggiore, i sergenti Thielen e Siffling, il maresciallo Kugler e molti altri. Nessuno di loro aprì bocca ma Eno percepì i gemiti di Zielinski appena dietro di lui. Il sottufficiale di rotta era crollato tempo prima. Da giorni se ne stava rintanato nella sua cuccetta, coperto fin sulla testa da uno straccio sporco di urina e feci che un tempo era stato una coperta. Non riusciva a provare pietà per lui, solo un vago senso di sdegno per come si era lasciato andare del tutto. Anche se il loro umore era altalenante, e spesso rischiava di trascinarli nel baratro più profondo, mai avevano ceduto alle lusinghe della rinuncia definitiva. «Siete dei duri, vedo. Molto bene.» Kurtz fece schioccare le dita e subito Siffling e Thielen reagirono. Afferrarono Falkenmayer per le braccia e lo portarono davanti al comandante dell’U-666. « Oberbootsmann Ernst Falkenmayer, glielo chiedo per la seconda e ultima volta. Vuole persistere nel parteggiare per il traditore della patria Josef Lüth o sceglie di rientrare nei ranghi e consacrare la sua vita al Reich?» Il Capo scosse la testa disgustato. Senza proferire parola, aprì la bocca e sputò un grumo di saliva nera contro la guancia sinistra di Kurtz. Siffling fece scattare il suo coltello, ma il comandante lo bloccò. Si asciugò il liquido caldo dal viso con la manica e sorrise soddisfatto. «Molto bene. Ha fatto la sua scelta. Come nostromo e responsabile dell’equipaggio, sarà d’accordo con me che dovrò infliggerle una punizione adeguata. Non vogliamo che gli uomini prendano spunto dalla sua insubordinazione, vero?» Fece un cenno col mento e Thielen si chinò sul pavimento Il grosso bavarese alzò una delle lastre scoprendo il pozzo della sentina. In quella cavità, l’acqua sporca e maleodorante sciabordava al ritmo del rollio del
sommergibile. Una schiuma marroncina ristagnava in grosse chiazze e piccoli pezzi gelatinosi galleggiavano sulla superficie di quell’immonda palude sotterranea. Siffling afferrò il Capo e lo spinse sul bordo poi, insieme al bavarese, lo afferrarono per le caviglie e lo mandarono a testa in giù in quel pantano velenoso. Falkenmayer affondò fino a metà busto, divincolandosi come meglio poteva, ma non c’era via di fuga dalla presa salda dei suoi aguzzini. Kurtz sembrò divertito. Attese un tempo che parve infinito prima di ordinare ai suoi di tirarlo su quel tanto che bastava per farlo respirare. Il Capo annaspò cercando di prendere aria dai polmoni in fiamme. Eno urlò qualcosa che neanche lui riuscì a comprendere, ma un coltello puntato tra le scapole lo costrinse a sottomettersi. «Allora, Capo. Ha avuto modo di riflettere?» chiese Kurtz, sporgendosi dal suo sedile. Falkenmayer sputò acqua sporca e si agitò ancora di più. Kurtz indicò l’acqua e il corpo del nostromo fu calato ancora. Questa volta il tempo sembrò raddoppiato. Gli spasmi iniziarono a farsi meno violenti e le spalle non si contorcevano quasi più. Kurtz lo fece riemergere, si sporse sul vuoto della sentina cercando di individuare un cenno di resa in quell’uomo. L’unica cosa che vide fu un’espressione di odio e capì all’istante che non c’era più spazio per il perdono. Scambiò uno sguardo con Siffling e il giovane sergente si chinò nel buco, afferrò il suo coltello e lo piantò con forza tra le scapole del nostromo, perforandogli un polmone. Il corpo boccheggiante fu calato ancora in acqua e stavolta arono solo pochi secondi prima che le bolle apparissero sulla superficie. Le contrazioni muscolari si fecero violente, fino a che non si fermarono del tutto. Il corpo di Falkenmayer fu tenuto a testa in giù ancora per alcuni secondi prima di essere lasciato
scivolare nelle acque marce della sentina. Zielinski singhiozzava per la paura di essere il prossimo a dover patire quel martirio. Eno, per quanto il cuore gli stesse scoppiando nel petto, rimase imibile. In lui aveva preso il sopravvento la necessità di mostrarsi risoluto di fronte alla morte, di non compiacere, mostrandosi intimorito, i suoi aguzzini. Un’ondata di determinazione lo colse alla sprovvista tanto da stupirlo di quel lato di sé che saliva a galla nel momento peggiore della sua vita. In fondo, si disse, è solo davanti alla morte che gli uomini dimostrano il loro vero carattere. Kurtz batté le mani compiaciuto. Si fece improvvisamente serio e indicò Eno. Come due falchi predatori, Siffling e Thielen lo afferrarono per le braccia, ma invece di precipitarlo nel pozzo, lo trascinarono verso prua. Le urla di Zielinski lo seguirono finché non oltrearono l’infermeria, con la sua puzza di carogna. Ora che la mente aveva ripreso lucidità, si rese conto che dei corpi erano stesi in ognuna delle quattro cuccette, segnale che la malattia non aveva smesso di mietere vittime. Siffling spalancò il portello della camera di prua e lo spinse senza complimenti facendolo ruzzolare a terra. Qualcuno lo aiutò a rialzarsi e a sedersi su una delle brande. Il Vecchio gli circondò la testa con le mani e lo costrinse a guardarlo. «Cos’è successo Eno? Dove sono gli altri?» chiese, ansioso di saperne di più. Eno scosse la testa. Ora che si sentiva al sicuro, fuori da quella folle bolgia, le emozioni lo sovrastarono. Non riuscì a trattenere le lacrime e si abbandonò al tocco tiepido delle mani del Vecchio. Probabilmente quelle lacrime furono sufficienti a Lüth per capire la situazione, perché si lasciò cadere di peso accanto a lui. Le mani strette tra le cosce in segno d’impotenza. «Il Capo è morto» disse all’improvviso. «Lo hanno punito, Josef. Lo hanno ucciso come un traditore.» «Traditore» disse in un sospiro il Vecchio. «L’unica colpa del Capo è stata quella di fidarsi di me, di credere che l’avrei salvato.» «No, è stata una sua scelta. Non ha ceduto, non gli ha dato la soddisfazione di implorare perdono o, peggio, pietà.»
«E a cosa l’ha portato tutto questo?» Il Vecchio era amareggiato, disilluso. I suoi capelli mostravano delle spruzzate di bianco ai lati delle tempie. Eno non l’aveva mai notato prima. «Non sarebbe cambiato molto. Moriremo tutti comunque.» «Il suo ottimismo mi sorprende sempre, Sartori.» Hans si era avvicinato ai due, sovrastandoli con la sua mole. «Forse è giunto davvero il momento di fare qualcosa, o morire nel tentativo.» Eno annuì consapevole che le alternative andavano diminuendo ora dopo ora. «Che ne è di Zielinski?» chiese il Vecchio. «Non lo so, mi hanno trascinato qui. Prego che non abbia sofferto.» Il sommergibile ebbe un sussulto in avanti per poi frenare e il beccheggio iniziò a farsi sentire. Il mare si stava ingrossando. Ben presto quel dondolio sarebbe diventato una tortura per i loro stomaci vuoti. E il peggio, in quella condizione, era che sarebbe stato un suicidio scendere nel vano accumulatori. Lo sciabordio dell’acqua li avrebbe fatti impigliare in qualche tubatura, condannandoli a morte prima che lo fe il maggiore Kurtz. Per quanto quel modo di morire fosse senza dubbio più allettante, decisero di attendere momenti migliori. Dopo circa un paio d’ore, Zielinski fu accompagnato nella camera di prua e riconsegnato ai suoi compagni. Eno gli corse incontro e gli afferrò le mani. «Che ti hanno fatto?» chiese, scrutandolo da cima a fondo. «Niente…» rispose lui incerto. «Mi hanno trattenuto lì per un po’, poi mi hanno riportato qui.» «A che gioco sta giocando quel diavolo?» sbottò Eno. «Vuole farci vacillare, dubitare di tutto, infiacchirci nel corpo e nello spirito» gli rispose il Vecchio. «Ci sta riuscendo benissimo» aggiunse Hans. «Non proprio.» Zielinski mostrò un accenno di timido sorriso. «Molti di loro
sono infermi, ridotti a pelle e ossa. Se noi dubitiamo di noi stessi, loro iniziano a dubitare del maggiore Kurtz. Forse il suo comando è compromesso, potremmo avere un’opportunità se qualcuno dei suoi decidesse di appoggiarci.» «E tu come fai a sapere queste cose? Fino a qualche ora fa eri solo un altro cadavere da sparare fuoribordo.» Fleischmann si avvicinò al sottufficiale di rotta. «Ho la certezza di quello che dico.» «Ah, sì? Convincimi» lo sfidò il direttore. Zielinski armeggiò dentro la giacca grigio verde e tirò fuori un oggetto. «Ho questo!» disse mostrando un coltello. «Ah, perfetto, ci faremo largo a fendenti finché non avremo ammazzato tutti, poi si tratterà solo di condurre il sommergibile fino in Antartide per essere fucilati dalle fottute SS. Ottimo piano, Karl, proprio un bel piano di merda.» «Mi ascolti…» Zielinski era serio, per la prima volta dopo tanto tempo la sua voce assunse un tono carico di contegno. «Questo coltello non è finito nella mia tasca per un puro caso. Ci è stato infilato di proposito. C’è ancora qualcuno fedele al comandante a bordo; si tratta solo di attendere il suo arrivo.» Fleischmann smise di deriderlo. «Hai la mia attenzione ora.» Zielinski sorrise compiaciuto. Non dovettero attendere molto. Il mare si era ingrossato nel frattempo e il rombo dei diesel si alternava ad attimi di silenzio quando le onde coprivano le valvole dei tubi di scappamento. In quei momenti i diesel aspiravano la poca aria rimasta a bordo facendo tappare le orecchie agli uomini impegnati in sala macchine. Una vera tortura, ma in fondo, se lo meritavano. Il portello cigolò piano quando una fessura di luce apparve attraverso la paratia. Un uomo si guardò intorno con circospezione prima di emettere un fischio basso. Eno, Zielinski, Fleischmann e il Vecchio si alzarono silenziosi come ratti e si avvicinarono al portello. «Tu?» disse il direttore, quando vide il viso pallido ed emaciato di Otto Löble,
quello che tutti a bordo chiamavano il Corvo. Gli occhi incavati gli conferivano le sembianze del protagonista del film di Friedrich Wilhelm Murnau, quel Nosferatu che tanto spaventava le donne nei cinema di Berlino. «Signore…» disse schivo il ragazzo, rivolgendosi al Vecchio. «Perché ci aiuti?» volle sapere Lüth. Il Corvo sembrava a disagio e non la smetteva di guardarsi intorno; doveva essere terrorizzato dall’idea di essere scoperto. «Non ho alternative, signore. Faccia ciò che deve» detto ciò gli ò una pistola. Una Walther P38, la sua P38. «Andate ora!» Il Vecchio guardò l’arma e annuì in silenzio. Il gruppetto attraversò nella più completa segretezza l’infermeria, per poi continuare lungo gli alloggi degli ufficiali. Sembrava che il sommergibile fosse stato evacuato in fretta e furia. A terra rimanevano solo cocci delle porcellane del servizio buono degli ufficiali, posate e varie suppellettili ridotte a rottami indefiniti. «C’è qualcosa che non va» disse Fleischmann, avanzando con circospezione. «Me ne sono accorto» gli rispose il Vecchio guardingo. Teneva puntata davanti a sé la pistola, unica difesa contro un attacco improvviso. «Forse dormono, che ore saranno?» chiese Eno mentre superava il gabbiotto dell’idrofonista. Persino la sala radio era stata abbandonata e le apparecchiature erano spente. Nessuna comunicazione con l’esterno. Arrivati davanti al portello emisferico che consentiva l’accesso alla camera di manovra, il Vecchio si fermò. Diede uno sguardo al suo alloggio, dove la tenda divisoria era stata strappata e usata chissà per quale scopo. Il Kriegstagebuch, il diario di guerra, era a terra, con le pagine impregnate dell’acqua che trasudava dalle pareti e si raccoglieva in grosse pozze sul pavimento. Il Vecchio distolse lo sguardo senza dar segno di collera, le sue preoccupazioni erano proiettate altrove in quel momento. Andò verso la cassaforte del comandante, dove teneva al sicuro la sua P38, ma la trovò scassinata. I codici personali per le comunicazioni private e altre carte di immenso valore strategico giacevano accartocciate a terra o all’interno della cassaforte. Nessuna traccia della sua pistola; il maggiore era arrivato prima di lui anche stavolta.
Senza perdere altro tempo, si avvicinò al portello. «Ci siamo, da qui in poi mi aspetto che facciano resistenza. La camera di manovra sarà presidiata; Kurtz non lascerebbe mai il timone incustodito.» «Facciamo in fretta e che Dio ce la mandi buona» disse Fleischmann risoluto. «Facciamolo!» ripeté Zielinski. Eno annuì al Vecchio e quello, senza aggiungere altro, poggiò la mano libera sulla maniglia del portello. Una leggera pressione, sufficiente a spingerlo di alcuni centimetri, evitando inutili rumori e, di botto, lo spalancò. I quattro entrarono di corsa nella sala ringhiando come ossessi, pronti a battersi. Una luce rossastra invase il loro campo visivo. Tutto era immerso in una penombra di color rosso, tanto da far assomigliare quel luogo a uno dei gironi infernali descritti dal cappellano dell’arsenale durante i suoi sermoni più ispirati. «Che diamine…» esclamò Fleischmann, girando in tondo alla ricerca di un cenno di resistenza da parte degli uomini del maggiore, ma sembrava che anche quel luogo fosse abbandonato come quelli già visitati. A parte i malati nell’infermeria, nessun altro abitava quegli ambienti. Un battito di mani spense il silenzio di quel luogo spettrale. Dall’ombra dietro il pozzetto del periscopio uscì uno spettro. I lineamenti granitici messi in risalto dalle lampadine rosse per preservare la visione notturna. «Magnifico» disse battendo le mani, «davvero magnifico.» Non appena lo vide, il Vecchio gli puntò contro la pistola: dritta in fronte. «Una prestazione degna della divina Leni Riefenstahl. Davvero merita il mio applauso, signor Zielinski.» Il gruppo si voltò verso il sottufficiale di rotta che, in completo disagio, fece qualche o indietro. «Tu, cane!» esplose il direttore «ci hai traditi!» Tentò di afferrarlo per il collo, ma qualcuno spuntò dal portello di prua e lo ricacciò indietro sotto la minaccia della canna di un MP40. Otto Löble sorrise malignamente mentre il dito indice batteva nervoso sul grilletto.
«Davvero eravate convinti che vi avrei lasciato andare così, senza un saluto? Lei mi delude, Lüth, e la cosa, se vogliamo essere onesti, mi fa irritare. Mi ha sottovalutato e ha commesso un errore che le costerà caro.» Dietro il maggiore spuntarono altri uomini. Alcuni erano armati di coltelli e altre armi improvvisate, altri, come Thielen, imbracciavano un fucile mitragliatore. Il Vecchio li osservò a uno a uno, il suo volto era una maschera di furore. L’onta subita doveva averlo reso folle di rabbia. Eno lo vide abbassare lo sguardo, quasi la consapevolezza di essere stato sconfitto si fosse improvvisamente impossessata di lui. Poi, qualcosa brillò nei sui occhi. Alzò la testa e il braccio scattò con essa. La P38 si allineò con gli occhi e la fronte del maggiore, dopodiché il Vecchio premette il grilletto. Un suono secco provenne dall’arma. Uno scatto metallico che non promise nulla di buono. Lüth scarrellò con l’indice e il pollice della mano sinistra e premette ancora il grilletto. Non accadde nulla, solo e soltanto quel suono metallico. La frenesia si impossessò di lui e prese a scarrellare e premere il grilletto con incredibile velocità, finché il caricatore non fu vuoto e l’otturatore rimase aperto. Kurtz aprì la bocca e dalle sue labbra uscì una risatina stridula. «Stupefacente, davvero stupefacente. Dovrebbe guardare la sua faccia in questo momento.» Di colpo si fece serio. «Come le ho detto, lei mi offende sottovalutandomi ancora.» Si chinò e raccolse una delle cartucce cadute a terra. «Niente polvere da sparo. Vuote, come la sua testa ora, sbaglio?» Zielinski fece un o indietro e intruppò conto la paratia. Non avendo più spazio disponibile per indietreggiare, tentò di farsi il più piccolo possibile. Il turbamento per quanto aveva appena compiuto iniziava a logorargli l’anima. «Ah, Zielinski, venga qui, si faccia vedere bene.» Kurtz lo chiamò a sé porgendogli una mano. Il giovane sottufficiale mosse alcuni timidi i tra gli sguardi furenti dei suoi compagni di prigionia. «Ecco, da bravo, si metta qui.» Kurtz gli circondò le spalle con un braccio, mettendolo bene in luce davanti ai prigionieri. «Quest’uomo non è un valoroso, oh, questo è certo. Falkenmayer lo era. Ha preferito morire piuttosto che cedere e tradire i suoi amici. Sì, senza dubbio era un valoroso. Ma il mondo non è fatto
solo di audaci o eroi, ahimè, ci sono anche i codardi, i vili, i traditori. Ma qualche volta la paura può essere un’arma ben più affilata del coraggio. Non c’è autoconservazione senza la paura.» «La paura è il peggior nemico dell’uomo.» Lüth piantò i suoi occhi in quelli del maggiore. «Può apparire sotto tante forme diverse: vizio, gelosia, collera, arroganza.» «La paura è il nemico… illuminante. Fino a qualche istante fa ero convinto fosse l’odio. Quello che leggo nei suoi occhi ad esempio.» «Ci guardi bene, non troverà traccia di paura.» «Lei è uno so, Lüth, credo che proverò qualcosa mentre la guarderò morire.»
Capitolo 26
Josef cadde carponi sul pavimento della sala motori elettrici. Senza troppe cerimonie, Thielen gli assestò un calcio dietro il ginocchio, facendolo piegare dal dolore. Lo stesso trattamento toccò anche a Hans e a Eno. Li costrinsero a rimanere in quella posizione finché Kurtz non decise che la cerimonia era durata fin troppo per i suoi gusti. Josef aveva provato avversione per quell’uomo fin da quando aveva messo piede in quel sommergibile, fin da quando gli era stato imposto come eggero e responsabile di quella missione. Ripensò alle lunghe chiacchierate con il contrammiraglio Donitz e di come era stato così abile da persuaderlo che quella missione fosse fondamentale per il Reich e per la sua carriera. Lo stesso aveva fatto il capitano di corvetta Herbert Sohler, sfruttando il varco già aperto da Donitz, lo aveva convinto a salpare per quell’impresa. Niente di più semplice, un banale compito da postino, avevano assicurato. Qual erano le parole usate da quell’uomo delle Sicherheitsdienst? «Arrivo, prelevo, consegno, il resto non è affar mio.» E invece, tutto era precipitato e tutto quello era diventato affar suo. «Facciamo in fretta» disse Kurtz annoiato. Si avvicinò ai prigionieri e, sovrastandoli con la sua mole, iniziò a parlare. «Non c’è tempo e modo di consentire a una corte marziale di giudicare i vostri reati, quindi, per i poteri conferitimi dal Reichsfühfer Heinrich Himmler, io vi dichiaro colpevoli dei reati da voi commessi e bla bla bla…» Kurtz roteò la mano seccato da tutto quel parlare. «Sergente Siffling, se vuole eseguire la sentenza.» Con un cenno della mano, indicò i prigionieri, poi si accomodò sul suo scranno. Siffling non perse tempo e si posizionò alle spalle del Vecchio. «Solo un momento, quasi dimenticavo.» Kurtz alzò la mano, come un re che chiede altro vino a un banchetto. «Stiamo ignorando l’ospite d’onore, l’uomo che ha reso possibile tutto questo. Prego, Karl, si faccia avanti, non vuole assistere allo spettacolo?»
Zielinski, scuro in volto, rimase al suo posto. «Coraggio, maresciallo, non sia timido.» Zielinski non si mosse. Thielen lo spinse da dietro e lo fece avanzare. «Si metta comodo, li guardi bene mentre muoiono. In fondo è tutto merito suo.» Josef lo guardò disgustato, eppure non provava rabbia. Era un ragazzo semplice, dedito alla matematica e agli astri, non era un vero e proprio combattente, non lo si poteva biasimare, in fondo. Zielinski era caduto lì dove molti altri prima di lui erano caduti. La speranza, la semplice illusione di poter sopravvivere un altro giorno, l’aveva reso debole. Come poteva dargli torto, era solo un ragazzo, niente di più che un adolescente strappato alla sua giovinezza da una guerra insensata. Karl Zielinski pianse. Le lacrime gli scesero lungo le guance macchiate di fuliggine e sporcizia lasciando piccoli solchi chiari. Le mani tremavano per l’angoscia ma per un attimo, solo per un attimo, Josef intravide un luccichio. Dalla tasca dei pantaloni, tirò fuori la punta del coltello che gli era stato dato come esca. Lo tenne nascosto nella mano come un talismano porta fortuna. «Grazie, Zielinski, ecco la sua ricompensa, come promesso.» Kurtz fece uno sbadiglio. Siffling fu rapido come una serpe. La mano saettò sotto il mento del giovane sottufficiale di rotta. Una linea cremisi si aprì sulla sua giugulare. Il ragazzo iniziò a boccheggiare mentre il sangue scendeva copioso dal taglio slabbrato. Cadde in ginocchio e piantò i suoi occhi azzurri in quelli di Josef. Lui lo tenne per le spalle, un ultimo disperato gesto di conforto verso colui che gli era stato amico. Il tradimento era dimenticato, la morte appianava tutto in guerra. Karl alzò le braccia e afferrò le sue. In quell’istante, il coltello ò di mano. Con quel gesto, il suo ragazzo, il suo sottufficiale, aveva meritato la sua assoluzione. «Vai in pace, Karl» lo tranquillizzò lui. Zielinski si afflosciò a terra in una pozza di sangue. Un ultimo singulto annunciò la sua morte.
«Che scena commovente» disse Kurtz battendosi il petto, «sono davvero toccato. Ora facciamola finita, però.» Siffling allargò il braccio pronto a colpire ancora. Josef fu più rapido, la lama del coltello si piantò nella gamba di Siffling. Quei pochi centimetri di acciaio affondarono attraverso i muscoli fino a toccare l’osso. Josef non si accontentò di una semplice ferita, rigirò il coltello nelle carni, scavandone una più profonda. Siffling urlò come un ossesso sotto il morso dell’acciaio. Josef non perse tempo, si alzò in piedi e trascinò con sé anche Hans che era inginocchiato accanto a lui. Approfittando del diversivo, offerto dal sergente che non la smetteva di urlare tamponandosi la coscia con entrambe le mani, colpirono duro due dei loro aguzzini. Gehrts cadde pesantemente a terra quando un montante dritto al mento lo tramortì facendogli perdere conoscenza. Hans afferrò l’MP40 prima che il peso di Gehrts lo trascinasse con sé. Josef si avventò su Linke cogliendolo di sorpresa. Il sergente fu rapido a reagire, ma i suoi riflessi furono ostacolati dal limitato spazio in cui erano costretti e incassò un calcio allo stomaco che lo fece piegare in due dal dolore. Josef gli fu sopra in un attimo, facendogli sbattere la testa contro il motore elettrico di dritta. Nella confusione di corpi, perse di vista Eno. Sperò che l’archeologo riuscisse a cavarsela per conto proprio, uscire da quella situazione non sarebbe stata un’impresa semplice e non poteva preoccuparsi anche di lui. Qualcuno sparò, una corta raffica che, per qualche breve istante, congelò la scena. Gli uomini impegnati in un frenetico corpo a corpo si immobilizzarono cercando di capire, con sguardi inquieti, se quei colpi fossero amici o nemici. Hans premette ancora il grilletto e uno spruzzo di sangue innaffiò i pannelli di metallo del compressore di poppa. Baum, l’ultimo degli uomini di Kurtz, crollò sotto i colpi della pistola mitragliatrice di Hans. Ma quell’attimo di vantaggio fu livellato immediatamente dal canto di un’altra MP40. Da prua, il giovane Corvo aprì il fuoco contro la massa di corpi, falcidiando chiunque si trovasse in linea di tiro. Il caporal maggiore Klodt fu crivellato dal piombo e il suo corpo compì due goffe piroette
prima di cadere a terra. Kaymer si fece avanti e, armato di una grossa chiave inglese, cercò di colpire Löble, ma una raffica di mitragliatrice interruppe la sua carica, ricacciandolo indietro senza complimenti. Il corpo spezzato in due di Kaymer andò a cozzare contro i pistoni del diesel in funzione, finendo incastrato nei giunti. Il motore ebbe un sussulto, ma la potenza dei 2800 Hp si liberò facilmente di quell’impedimento. Josef, nella confusione più totale, cercò il maggiore. Vide Siffling che, seppur dolorante per la ferita ricevuta, si preoccupava di salvaguardare il suo superiore, cercando al contempo di mettere al sicuro il vaso. Kurtz sembrava indifferente a quanto stava avvenendo sotto i suoi occhi. La cosa avrebbe dovuto sorprenderlo, persino spaventarlo, ma il suo ego smisurato aveva finito per renderlo immune a qualsiasi evento non avesse già messo in preventivo. Quella rivolta non stava semplicemente avvenendo; la sua mente illogica si rifiutava di accettarlo. Josef percepì un bruciore lancinante alla testa. Si tastò con la mano appena sopra il collo e la ritirò zuppa di sangue. Qualcosa lo aveva colpito ma, nel pieno della battaglia, sotto la scarica dell’adrenalina, non aveva avuto il tempo di preoccuparsene. Si voltò cercando Hans tra la calca, ma si trovò davanti Werner armato di un’ascia da carpentiere. Solo allora si rese conto che era vivo grazie alla pessima mira del suo secondo ufficiale. Se solo ci avesse messo più impegno, la sua testa sarebbe rotolata tra i piedi degli uomini in lotta tra loro. Werner ringhiò e partì alla carica, sollevando l’ascia sopra la testa. Solo pochi i e tutto sarebbero finito così, non c’era speranza di salvezza, Josef lo comprendeva. Tuttavia era sereno, aveva fatto quello che un comandante, degno di quel nome, avrebbe fatto al posto suo. Riprendersi il suo U-666. La carica di Werner fu interrotta bruscamente. Qualcuno lo trascinò via, mandandolo a sbattere contro il relitto del motore elettrico di sinistra. Il tonfo sordo lo fece rinsavire e vide Eno Sartori, avviluppato a Werner in un corpo a corpo violento. «Fuori di qui!» gridò Hans, cercando di farsi strada a colpi di MP40. I pochi proiettili rimasti lo rendevano migliore più come mazza che come mitragliatrice. Josef reagì, assestò un calciò sul fianco esposto di Werner e trascinò via Eno dalla sua morsa.
Qualcuno lo aiutò, dividendo con lui il peso dell’archeologo. Josef riconobbe Schäfer. «Usciamo di qui, comandante, ora!» Lui annuì e duplicò gli sforzi. «Portalo in camera di manovra, qui ci penso io!» urlò Hans, sovrastando il fragore del diesel e delle urla dei feriti. Si frappose tra gli ultimi superstiti in fuga verso prua e quei pochi ancora fedeli al maggiore Kurtz che stavano riorganizzando le fila. Hans alzò la canna e fece fuoco contro i tubi di scappamento del motore. Un denso fumo nero iniziò a invadere la sala macchine rendendo l’aria irrespirabile e la vista offuscata. Gli uomini si ritirarono lontano, verso poppa, impossibilitati a continuare la loro avanzata. Le pareti umide iniziarono a trattenere le particelle di nafta combusta e si tinsero di nero, così come i volti degli uomini ancora bloccati in quell’inferno. Hans sorrise soddisfatto e, alzando il dito medio, scavalcò la paratia chiudendo il portello dietro di sé. Josef lo accolse a braccia aperte, felice che fosse ancora vivo. I due si strinsero in un breve abbraccio incredulo. «Ce l’abbiamo fatta?» chiese Hans ancora frastornato. «Sembra proprio di sì.» Josef si voltò, assicurandosi che tra quegli uomini non ci fosse qualche scagnozzo del maggiore. La prudenza in quel frangente era essenziale. Sei spettri, sei volti scavati dalla privazione e dal tormento di quei giorni insensati, pendevano dalle sue labbra. Vide con piacere il maresciallo Nagelschmitz, il sergente maggiore Sievert, timoniere dell’U-666, i caporali Tewes e Dietze, l’idrofonista e medico di bordo Schäfer. Infine i suoi occhi si posarono su Eno. «Devo ringraziarla. Mi ha salvato la vita» disse grato. Eno scosse lentamente la testa stringendo i denti quando un movimento gli provocava dolore. «Non saremo mai pari, comandante.» Josef gli strinse la mano e lo aiutò a rialzarsi.
«Sprangate quel portello, facciamo in modo che se ne stiano buoni buoni là dietro.» Ordinò Hans senza perdere altro tempo. Tewes e Dietze si occuparono di bloccare le maniglie del portello della sala macchine. Se quei fanatici si fossero messi in testa di entrare, alla fine ci sarebbero riusciti, ma avrebbero trovato una resistenza adeguata. «Come siamo messi a munizioni?» chiese Josef, preoccupato di non poter sostenere un altro scontro a fuoco. «Io ho questo.» Hans estrasse il caricatore dall’MP40 e diede un’occhiata distratta alle cartucce rimaste. «Insufficienti per qualsiasi cosa tu abbia in mente.» Gli altri si guardarono perplessi, nessuno di loro sembrava in possesso di un’arma adeguata. «Capisco» assentì Josef. «Allora faremo bene a cercare qualcosa con cui difenderci. Nagelschmitz, faccia un giro e veda se può trovarci qualcosa di utile. Qualsiasi cosa possa provocare danni andrà bene.» Il maresciallo annuì e sparì verso prua. Hans gli si avvicinò tirandolo in disparte. «Sai che non possiamo trattenerli per molto, vero?» Lui annuì. «Non per questo non possiamo escogitare un modo per forzargli la mano.» «Cosa intendi?» «Gli ci vorrà un po’ per digerire quello che gli abbiamo combinato; si sentiranno oltraggiati e per una volta vulnerabili. Se non reagisce subito, un comandante rischia di perdere il controllo sui suoi uomini. Approfittiamo di questa possibilità.» «Vorresti attaccarli? Ma non abbiamo armi a sufficienza e il campo di battaglia gioca tutto a nostro sfavore. Se si barricano a poppa, si potrà combattere solo un uomo alla volta e non dimenticare che hanno ancora l’MG-42.»
«Se non hanno una scorta illimitata di nastri munizioni, li hanno terminati durante l’attacco del B-24 e comunque il maggiore non rischierebbe di compromettere la funzionalità del sommergibile usandola.» «E allora?» «E allora usiamo le tattiche di guerriglia dei nostri avi. Attiriamoli su un terreno a noi congeniale e tendiamogli una trappola.» Hans scoppiò a ridere. «Sei un bel tipo, Josef, lo sai? Parli come se fossimo circondati da boschi e colline. Vuoi che ordini agli uomini di tingersi la faccia di blu?» «Perché no, Hans, perché no.»
*
Nagelschmitz tornò una decina di minuti più tardi con una sacca cerata piena di utensili da carpenteria, posate e ogni altro attrezzo potesse essere utilizzato come arma. Mentre gli uomini rovistavano in cerca di qualcosa in grado di farli sentire il meno indifesi possibile, Josef convocò Nagelschmitz, Hans e Sartori in quello che era stato il suo alloggio. Evitò la branda, ormai ridotta a un ripugnante tappeto di muffa e liquami, e si sedette sul piccolo tavolino portadocumenti. «Abbiamo una sola possibilità per riprenderci l’U-666, una sola. Non ci saranno repliche, quindi voglio che ascoltiate bene quello che sto per dirvi. Siamo intesi?» Tutti annuirono. Eno si acquattò contro la paratia, stufo di combattere contro gli scossoni che il mare agitato trasmetteva alla struttura. «Molto bene. Come ho già detto, approfitteremo della nostra posizione di vantaggio per attirarli in trappola.» «Chiedo perdono, signore, ma non vedo grosso vantaggio nella nostra posizione» disse Nagelschmitz perplesso.
«Eppure l’abbiamo. Occupiamo la camera di manovra, l’unica zona di governo del sommergibile, e cos’è che il maggiore teme di più?» «Deludere il Führer, immagino» intervenne Eno. «Esattamente!» esclamò Josef, battendosi una mano sulla coscia. «Se gli daremo l’impressione che la sua missione è in pericolo, perderà la testa e cederà il fianco.» Hans alzò gli occhi al cielo cercando di afferrare il senso di quelle parole. «Fammi capire, vuoi invertire la rotta e tornare sui nostri i? O non so, magari far affondare il sommergibile con tutti noi all’interno?» «Credo che per il momento la prima soluzione andrà bene» rispose divertito Josef. Hans alzò il labbro inferiore pensieroso. «Potrebbe funzionare.» «Ma forzargli la mano implica che dovremmo resistere a un attacco diretto. Possiamo farlo in queste condizioni?» chiese il maresciallo. «Ho pensato a un’improvvisata singolare.» «Sentiamo, dunque» sbuffò Hans. «Mi sembra di capire che abbiamo appena un quarto di caricatore dell’MP e poco altro che coltelli da cucina e spranghe di ferro. Voglio essere chiaro, non basteranno per fermarli.» «Vai avanti.» Hans si poggiò accanto a Eno e incrociò le braccia, evidentemente stufo anche lui di quell’altalena. «Ci serve qualcosa che possa provocare il massimo dei danni in un lasso di tempo minimo. Qualcosa che abbia l’effetto di una granata, ma che non comprometta la struttura del sommergibile.» «E tu hai già qualcosa in mente, giusto?» «Acido solforico» dichiarò secco.
Nessuno fiatò. Per quanto complessa, l’idea era realizzabile. Si trattava solo di estrarre l’acido solforico dagli accumulatori a piombo rimasti intatti e usarlo come arma d’offesa. Poteva provocare gravi ustioni e corrosione a contatto con i tessuti molli e i suoi vapori erano in grado di causare irritazioni agli occhi e alle mucose con conseguente danneggiamento dei polmoni e delle vie respiratorie. «Togliere l’elettrolita da un accumulatore è un lavoro delicato e rischioso.» Nagelschmitz si lisciò la barba ispida, mostrando perplessità a riguardo. «Nessuno ha detto che sarebbe stato semplice» replicò Josef. «Mi trovi due respiratori e avrà il suo acido.» Il maresciallo sorrise eccitato. «Sentito il maresciallo? Due respiratori!»
*
Josef era affacciato alla buca sopra il secondo banco di accumulatori. L’aria in quel pozzo scuro era irrespirabile per via degli scarichi della sentina. I gas di cloro prodotti dal contatto dell’acido solforico con l’acqua di mare erano stati neutralizzati tempo prima con il latte di calce, ma una percentuale di quei gas erano ancora presenti e pericolosi. I respiratori erano l’unica salvezza in quella circostanza. Nagelschmitz e Dietze avevano provveduto a sollevare le lastre del pavimento dell’alloggio ufficiali ed erano discesi nel vano batterie calandosi con estrema cautela per evitare di cadere nell’acqua stagnante satura di germi e chissà cos’altro. I fasci delle torce elettriche danzarono nelle ombre della buca mentre i due cercavano di trovare la posizione ideale per iniziare il prelievo dell’acido. Il maresciallo fece un gesto d’intesa con il pollice verso di lui, quando fu sicuro di poter iniziare a lavorare sulle coperture in gomma degli accumulatori. Dietze gli ò alcuni strumenti e, con molta cautela, il capo motorista iniziò a sollevare gli involucri mettendo a nudo l’interno delle batterie al piombo. Quelle lastre di piombo pesavano più di tutta la paccottiglia caricata a bordo del sommergibile,
motori diesel compresi. Per questo venivano stivate in quei punti prestabiliti, per dare stabilità al sommergibile con il loro peso, come la zavorra negli antichi velieri. «Ci siamo» disse Nagelschmitz attraverso il respiratore. Josef sporse uno dei recipienti di metallo attraverso il buco del pavimento e lo lasciò solo quando Dietze l’ebbe afferrato. Nel giro di qualche minuto, il recipiente fu alzato con cura e sostituito con uno nuovo. Il procedimento fu lento e tedioso, ma il rischio di rovesciare quell’acido sopra le loro teste era troppo alto. Josef travasò la soluzione in un secchio e stabilì che ce n’era una quantità sufficiente. Si sporse e bussò dolcemente con una chiave inglese sulla nuca del caporale. «Qui abbiamo finito» disse quando quello si voltò per capire cosa stesse succedendo. Felice di quelle parole, avvertì Nagelschmitz che, completamente sdraiato su un carrellino scorrevole in modo da percorrere tutto il banco accumulatori, accettò di buon grado la sua mano per tirarsi su. Quando Josef si tolse il respiratore, l’aria satura di anidride carbonica del sommergibile gli incendiò i polmoni. Tossì cercando di prendere aria e fu ancora peggio. La puzza gli riempì le narici facendogli girare la testa. «Questi aggeggi possono salvarti la vita finché li hai indosso, ma possono togliertela se li sfili troppo in fretta.» Nagelschmitz parve divertito. «Già» precisò Josef. «Qualcuno disse che l’esperienza è quella cosa meravigliosa che ti permette di riconoscere un errore ogni volta che lo commetti.» «Parole sante, comandante!» Nagelschmitz gli diede una pacca sulla spalla e si chinò per afferrare il secchio colmo a metà di soluzione acida. Tornati in camera di manovra, trovarono S chäfer di guardia al portello, l’orecchio destro poggiato contro il metallo per individuare qualsiasi suono provenisse dall’altro lato. La cosa era resa complicata dalle vibrazioni e rumori del diesel che girava a mezza forza, ma l’udito sopraffino dell’idrofonista era in grado di distinguere persino il ronzio di una mosca. S chäfer annuì,
tranquillizzando tutti sulla momentanea calma in sala motori. L’unico suono che percepiva era quello regolare dei pistoni che spingevano il grosso motore a sei cilindri. «Abbiamo quello che ci serve» dichiarò Josef, quando il maresciallo assicurò il secchio tra i sedili dei timonieri di profondità, in modo che non rischiasse di rovesciare a terra il suo carico corrosivo. «Hai già un’idea su come possiamo usarlo?» chiese Eno indicando il secchio. «Non è stato in accademia, vero, Eno?» rispose lui sorridente. «No, temo di no, ma ho frequentato le università di mezza Italia se può essere d’aiuto.» «Probabilmente gli scherzi tra cadetti sono i medesimi. Diamoci una mossa, abbiamo del lavoro da fare!» Mettere a punto il piano ipotizzato non portò via troppo tempo; rimaneva solo da valutarne l’efficacia. Josef aveva puntato tutto su quell’ultima disperata resistenza, esaurita la quale, si sarebbero trovati a corto di idee e possibilità di fuga. A quel punto, non gli sarebbe rimasto molto altro che vendere cara la pelle e sacrificarsi in maniera dignitosa. Tutto ciò era deprimente. Immolarsi per cosa? Non era neanche più una guerra che lo riguardava. Soppesò, per un istante, l’idea di darla vinta al maggiore e ai suoi sgherri in cambio della vita dei suoi compagni. Per quanto allettante fosse quella prospettiva, Josef sapeva che non poteva fidarsi di quell’uomo. Con ogni probabilità, non avrebbe mantenuto la parola data e, alla prima occasione, avrebbe tagliato loro la gola o peggio. Eppure non poteva scegliere per loro. Avrebbe dovuto dargli una possibilità, una scelta. Combattere per lui e morire nel tentativo, o tentare la via del dialogo e sperare che il maggiore concedesse loro la grazia o una morte rapida. «Signore, abbiamo terminato.» Tewes venne ad avvertirlo che la trappola era stata predisposta e pronta a scattare. «Molto bene, grazie caporale. Dica a Sievert che tra un attimo sarò in camera di manovra e che si faccia trovare al suo posto.» Josef inalò quanta più aria poté,
gonfiando i polmoni, ignorando il bruciore al petto e la puzza stantia, poi la rilasciò in un lungo sospiro. Aprì l’armadietto porta documenti e prese il piccolo specchio che si era premurato di portarsi dietro all’imbarco. L’uomo che vi vide riflesso sembrava molto più vecchio di quanto non ricordasse. Si ò la mano sui capelli unti e appiccicosi, dove grosse chiazze bianche avevano preso il posto della sua capigliatura castana. Anche la barba era striata di farina, conferendogli un aspetto da marinaio navigato, a dispetto dei suoi trentaquattro anni suonati. Occhi incavati e arrossati, labbra bluastre e gonfie, la pelle aggrinzita attaccata alle ossa da un sottile strato di carne. Josef non poté fare a meno di sorridere a quell’immagine. Il demone della vecchiaia l’aveva arpionato per benino e seguitava ad agire indisturbato. Quanto ancora avrebbe retto a quel supplizio? Si augurò di riuscire a vedere la fine di quella giornata; per un motivo o per l’altro, probabilmente le sue ore erano contate. Gettò lo specchio sulla branda e s’incamminò cercando l’espressione e il portamento più risoluti possibile. Si piazzò davanti al timone direzionale e controllò la bussola. «Sievert, invertiamo la rotta. Portaci su tre quattro zero.» Il sergente maggiore fece pressione sul comando elettrico del timone. In pochi istanti la lancetta dell’angolo di barra del timone si spostò sui trenta gradi. Il sommergibile accostò a tribordo cambiando rotta. Sievert corresse la rotta fino a quando l’ago della bussola non puntò sui trecentoquaranta gradi. «È il momento di mandargli un messaggio di pace» disse Josef, attaccandosi al pozzetto del periscopio. «Signor Fleischmann, motori avanti tutta! Facciamogli sentire che abbiamo ancora spirito in corpo per prenderci gioco di loro.» Hans non se lo fece ripetere due volte. Si attaccò al telegrafo di macchina e innestò il comando di cambio della velocità, poi azionò il citofono di bordo collegato con la sala macchine e quella dei motori elettrici. «Motori avanti tutta!» disse, cercando il tono più insolente possibile. Il messaggio era inviato. Non avevano intenzione di cedere di un o e il governo del sommergibile era nelle loro mani. Sarebbe toccato al maggiore Kurtz fare la sua mossa ora. Fermare il diesel non avrebbe risolto nulla, se voleva portare a termine la sua missione, non aveva altra scelta che tentare una sortita e rimpossessarsi dell’U-666.
«Venite qui» disse Josef risoluto. Quei pochi uomini male in arnese gli si fecero attorno. «Questa è l’ultima possibilità concessa per decidere cosa fare della vostra vita. Se sceglierete di arrendervi non vi biasimerò. Sappiamo tutti che le possibilità di uscirne vivi sono poche e che il maggiore non ci concederà quartiere finché uno solo di noi avrà fiato in corpo, ma devo comunque darvi la possibilità di scegliere.» Un mormorio sommesso si alzò dal gruppo. Gli uomini parvero feriti da quelle parole, si stava mettendo in dubbio il loro onore e questo era inaccettabile. «Che venga a stanarci uno per uno, allora» esclamò Nagelschmitz. «Sì, che ci provi» gli fece eco Tewes. S chäfer sollevò l’MP 40 e mostrò i denti. Era tutto quello di cui aveva bisogno. Sapeva di doverlo fare, era un modo come un altro per pulirsi la coscienza da tutto quel sangue, ma aveva bisogno di sapere che quei ragazzi erano pronti a sacrificare le loro vite per lui, volontariamente, senza nessuna forzatura. «Non provare mai più a mettere in dubbio la nostra fedeltà» disse Hans. «Promesso» rispose lui, cingendo le spalle del compagno. «Allora, amici miei, diamoci da fare!» Un urlo liberatorio si unì al rombo lontano del motore. Gli uomini presero posizione, così come gli era stato ordinato. Ciascuno svolgeva un ruolo fondamentale nel piano concepito con i pochi mezzi a loro disposizione. Josef scavalcò la paratia emisferica entrando nella zona riservata agli alloggi degli ufficiali e prese Hans per un braccio trascinandolo in disparte. «Se non dovessi farcela, se vedi che le cose stanno prendendo una brutta piega, fai in modo che l’U-666 non arrivi a destinazione. Mi sono spiegato?» Hans lo fissò turbato. Josef sapeva bene che quello che gli stava chiedendo era un sacrificio che andava oltre le chiacchiere sull’onore e l’orgoglio. Prima che potesse aprire bocca per spiegare le sue ragioni, Hans mise a tacere i suoi dubbi. «So cosa devo fare, conta su di me.»
«Come sempre.» I due si strinsero la mano. «i in avvicinamento» disse Schäfer sottovoce. Le abitudini assimilate durante gli anni di servizio come idrofonista erano dure a morire. Come se si trovasse ancora nella sua cabina d’ascolto, con la cuffia premuta contro un orecchio, il giovane idrofonista ò l’informazione in un sussurro, quasi per paura che potessero udirlo e mandare a monte tutto. Josef, affacciato alla paratia, diede gli ultimi ordinativi e tutti presero posizione. Un silenzio di tomba calò in camera di manovra. Un colpo sordo fece vibrare il portello, Schäfer se lo sentì nelle ossa e si pentì di aver tenuto l’orecchio ancora attaccato al metallo. Un altro ancora più violento, indice che gli uomini del maggiore avevano abboccato e la loro unica preoccupazione era riprendere possesso del timone. I tonfi si susseguirono con ossessiva precisione; uno dopo l’altro iniziarono ad avere la meglio sul meccanismo di blocco che, infine, cedette con uno schiocco secco. La leva si spezzò andando a perdersi dietro la pompa della sentina. Un gruppo variegato di uomini ghignanti come bestie inferocite entrò nella camera di manovra, avanzando senza prudenza per far spazio ai compagni ancora fuori. Il grosso bavarese, con il petto nudo coperto da macchie nere dipinte con il grasso dei motori, come simboli tribali di guerra, avanzava a capo di quell’orda brutale. Imbracciava uno dei fucili mitragliatori e lo teneva spianato ad altezza uomo in cerca di un bersaglio. Dietro di lui, Siffling zoppicava vistosamente ma teneva il o. Anche lui aveva il volto e le braccia nude coperte da rune fatte con la fuliggine uscita dallo scappamento del motore danneggiato. Il sudore scioglieva quella tinta rendendo l’effetto ancora più spaventoso. Siffling teneva in ciascuna mano un coltello e li agitava davanti a sé urlando come un ossesso. Josef guardò inorridito quella scena che avrebbe fatto impallidire e tremare di paura persino le antiche tribù germaniche di cui tanto la propaganda andava fiera. Osservò dallo spiraglio fornito dal portello di prua, cercando di rimanere calmo e respirare con regolarità, l’autocontrollo era necessario per ricercare il giusto tempismo. Quando fu sicuro che tutti gli uomini avevano messo piede nel locale, diede l’ordine. Urlò con quanto fiato aveva in gola e i compagni
reagirono al suo comando. Il primo a entrare in azione fu Tewes. Uscì dal suo nascondiglio dietro la parete di metallo che saliva su nella torretta e diede uno strattone alle corde che teneva in mano. Le funi si tesero, facendo leva contro le tubature alle quali erano state attorcigliate. La forza dello strattone fu deviata verso il manico dei contenitori che erano stati precedentemente appesi alle tubature del soffitto, facendone rovesciare il contenuto. Il concetto era semplice e ricordava quello delle docce da campo solo che, in questo caso, a cadere non fu acqua calda, ma una miscela liquida a base di acido solforico. Al contatto con la pelle, l’acido reagì. Iniziò a sfrigolare come il grasso in una padella d’olio e i tessuti vennero corrosi dalla reazione chimica. Otto Thiel, per sua sfortuna, si era ritrovato proprio sotto uno dei contenitori e, nel momento del rilascio del liquido, aveva alzato la testa. L’acido gli era penetrato negli occhi e nella bocca spalancata per lo stupore, reagendo con i tessuti molli e scavandosi una breccia attraverso pelle, muscoli e cartilagine. Le urla del giovane sassone raggiunsero un’intensità tale da farlo assomigliare a un maiale scannato e mentre cadeva in ginocchio tentava ancora con le mani di coprirsi la faccia, ottenendo il risultato di ustionarsi anche dita e palmi. La spalla di Gehrts iniziò a friggere, mentre il sergente provava a strapparsi di dosso la camicia ormai ridotta a un colabrodo dagli schizzi acidi. La sua zazzera bionda e il viso coperto da efelidi vennero trasformati in una maschera rossa di carne viva e fumante. Quasi tutti gli uomini, in quella trappola mortale, vennero baciati dal tocco doloroso dell’acido solforico; gli unici a scampare alla pioggia di morte furono Werner e Kugler che chiudevano la fila. Ma le urla e la danza macabra dei loro compagni li fece desistere da qualsiasi tentativo di avanzare. Thielen, urlando come un ossesso, premette il grilletto del suo MP40 e sparò una raffica a ventaglio nel tentativo di colpire qualcosa che al momento non riusciva a vedere. La corda perse tensione e i contenitori ripresero la loro posizione originale, smettendo di far piovere acido. Quando le gocce smisero di cadere, Josef ordinò il contrattacco contro quei pochi che ancora si reggevano in piedi. Hans, il capo Nagelschmitz, Sievert, Schäfer, Dietze e Eno entrarono nella camera di manovra a o di carica, armati di quello che il sommergibile poteva
fornire loro. Qualche coltello, un’ascia, e poco altro. La pistola mitragliatrice di Geiger s’illuminò e una raffica di colpi li costrinse a mettersi al riparo. Josef vide a terra il corpo di Dietze con tre fori che gli traavano la schiena. Il sangue sgorgava lento, diluendosi nella soluzione di acido e acqua di mare sul pavimento. Schäfer si sporse dal suo riparo e sparò una breve raffica nel mucchio di uomini urlanti di dolore e furia cieca. Qualcuno cadde a terra smettendo di soffrire. Premette il grilletto, ma l’otturatore rimase aperto. Con un gesto di stizza, lanciò la pistola mitragliatrice a terra e partì alla carica sedotto da quel bagno di sangue che si stava consumando davanti ai suoi occhi. «Fermo!» urlò Hans dietro di lui. Schäfer non lo ascoltò ed entrò nel girone infernale. Quasi immediatamente si portò una mano alla gola, soffocato dagli effluvi dell’acido solforico che iniziava ad attaccare le vie respiratorie. In quei pochi metri quadri, in mancanza di un adeguato ricircolo d’aria, quei vapori potevano uccidere in pochi secondi. Hans si calzò il respiratore e caricò alzando in aria un martello dal manico di legno. Colpì duro contro qualcosa che non riuscì a distinguere bene e si fece largo tra quell’ammasso di corpi e membra ustionate, cercando di trascinare via l’idrofonista che si era accasciato a terra. Il petto si alzava e riabbassava velocemente, come se avesse fame d’aria, sintomo di una insufficienza respiratoria. Schäfer stava soffocando. Gli invasori iniziarono una ritirata attraverso quel portello che, con tanta fatica, avevano violato. Lo scontro si spostò nel locale alloggio dei sottufficiali al sicuro dai fumi dell’acido. Nagelschmitz lottava come un ossesso, menando fendenti con la sua ascia, cercando al contempo di evitare i colpi che gli venivano inferti dal maresciallo Kugler. Si scambiarono colpi furiosi, tanto che quel duello catturò l’attenzione di tutti i presenti. Sembrava una rappresentazione in chiave moderna dello scontro tra Ettore e Achille, dove i due contendenti si colpivano con brutalità e urla animalesche. Tagli sanguinanti si aprirono sui loro corpi dove le lame incidevano la carne. Alla fine, Nagelschmitz perse l’equilibrio e Kugler gli fu sopra. Cadde di spalle e batté pesantemente la testa sul pavimento. Kugler ne approfittò piazzandogli il manico dell’ascia contro la gola. Il maresciallo tentò, con le
poche energie rimaste, di liberarsi da quella stretta mortale, ma già le forze venivano meno. Il campo visivo iniziò a farsi nero e le mani mollarono la presa sul legno. Josef vide Eno avventarsi su Kugler, con l’unico intento di colpirlo con il piede di porco che aveva in mano, ma un colpo sparato a bruciapelo da Werner lo fece deviare dentro una delle brande per salvarsi la vita. Forse non avrebbe avuto il tempo per poter intervenire e salvare Nagelschmitz, ma in un ultimo disperato tentativo, lanciò un urlo di furore in cui trasmise tutta la sua disperazione. Il maresciallo Kugler si voltò appena nella sua direzione, togliendo lo sguardo da quello di Nagelschmitz. I suoi occhi erano assenti, come se la sua mente fosse da tutt’altra parte, lasciandosi dietro un corpo privo di emozioni e sentimenti. Eno si sporse dalla cuccetta e gli calò con tutta la forza il piede di porco sulla testa. Kugler cadde in avanti coprendo con la sua mole il corpo di Nagelschmitz. Werner mise la testa all’interno dell’alloggio, puntò la P38 e sparò un colpo contro Eno. Il piccolo archeologo impattò duro, scivolando a terra nel groviglio di corpi ammucchiati. Josef urlò di furore e, facendosi largo a spintoni, tentò di raggiungere quello che un tempo era stato il suo secondo ufficiale. Otto Löble, il giovane Corvo, con metà faccia dipinta di nero, gli sbarrò la strada. Löble sghignazzava con la lingua di fuori e dalla bocca gli colava una bava densa e biancastra. Alzò un lungo coltello da cucina e lo puntò contro il petto di Josef invitandolo a combattere. Uccidere il Vecchio, con molta probabilità, lo avrebbe reso degno agli occhi del maggiore. Josef non era dello stesso avviso e, serrando la mascella, lo esortò a colpire. Il Corvo non se lo fece ripetere due volte e, cacciando un grido stridulo, si scagliò su di lui. Josef fu più furbo e sfruttò l’energia di attacco dell’avversario in suo favore. Scartò a destra e lasciò che il coltello lo sorasse, poi gli afferrò il braccio e lo torse in una posizione innaturale. Il Corvo urlò di dolore quando si rese conto che le ossa del polso si erano spezzate. Senza permettergli di mollare la presa sul coltello, Josef gli afferrò la mano, stringendola nella sua, e la spinse contro lo stomaco del Corvo. La lama penetrò dolcemente nelle carni come un coltello arroventato nel burro. Il Corvo lo fissò sbalordito, i suoi occhi gialli e malati erano colmi di stupore. La bocca si aprì in un sorriso che mise in mostra le gengive marce.
Löble esplose in una risata che si tramutò in un singhiozzo quando la vita lo abbandonò adagio. Josef lo lasciò cadere disgustato. Gli ultimi attaccanti si ritirarono attraverso il portello che dava nella cucina e, da lì, nella sala motori, covo del loro leader.
Capitolo 27
Una pallida luce fluttuante e poi il buio. Immagini confuse, sfocate, poi ancora il buio. Eno sbarrò gli occhi, ma una fitta alla spalla lo costrinse a richiuderli. Strinse i denti aspettando pazientemente che il dolore asse. Si ritrovò disteso a terra, la testa poggiata su qualcosa di morbido. Cercò a fatica di assumere una posizione più comoda, ma il dolore era troppo forte per la sua soglia di resistenza. A poco a poco riuscì a mettersi seduto, con le spalle poggiate contro la branda sul lato sinistro e solo allora ebbe una visione migliore di quanto era accaduto lì dentro. Quello che fino a qualche minuto prima gli aveva fatto da cuscino, era il corpo senza vita del maresciallo Kugler, ora nient’altro che un cadavere con la testa aperta come un melone. Eno osservò la profonda ferita che aveva lacerato la cute, che ora pendeva su un lato della testa, come una parrucca strappata. Dal taglio s’intravedeva l’osso del cranio messo a nudo, crepato nel punto d’impatto dove il pesante piede di porco aveva colpito. Eno indugiò ancora davanti al cadavere, di fronte a quell’ennesimo scempio sentì la testa pesante, quasi un capogiro; l’adrenalina finiva in quel momento la sua efficacia e il flusso sanguigno riprendeva la sua normale velocità, così come il respiro. Continuò a osservare il cadavere davanti a sé, pervaso da una calma irreale in cui poteva percepire ogni suo singolo respiro, amplificato dal silenzio innaturale che ovattava tutta la scena intorno. Una scena di orrore che mai avrebbe pensato di vivere in prima persona: perché quel macello era opera sua, non c’era dubbio. Lasciò che la vista tornasse e che le mosche che invadevano il suo campo visivo sparissero. Sbatté ripetutamente le palpebre, come per riprendersi dal quel calmo torpore che l’aveva avvolto pochi istanti prima. Il suo sguardo perlustrava lo spazio intorno: a terra giacevano molti corpi, alcuni in condizioni pessime persino per un cadavere morto di morte violenta. Il volto di Löble era irrigidito in una smorfia tra il piacere e lo sgomento, come se la fine fosse sopraggiunta all’improvviso durante un momento di estrema allegria. La
pelle sembrava trasparente e si potevano intravedere, anche in quella poca luce, le miriadi di venuzze azzurre che la percorrevano. Mezza faccia era dipinta di nero e solo l’occhio aperto risaltava come gesso su una lavagna, rendendo tutto, se possibile, ancora più grottesco. «Eno!» chiamò una voce che riconobbe all’istante. Il Vecchio lo raggiunse e gli si inginocchiò davanti. Appresso a lui sopraggiunsero anche il direttore e Sievert. Tutti erano ricoperti da schizzi di sangue rappreso e sporcizia. Nessuno sembrava ferito. «Sembra che abbia funzionato» disse lui, ignorando un accesso di dolore che dalla spalla gli discese lungo il fianco. «Gli abbiamo dato una bella lezione, ma a che prezzo.» Il Vecchio guardò nella direzione di Kugler: sotto il suo corpo faceva capolino il volto cereo del capo Nagelschmitz. «Toglietelo da lì» ordinò il Vecchio e, ubbidendo al suo comando, Fleischmann e Sievert si affrettarono a estrarre il corpo da sotto il peso di Kugler. Un grosso livido violaceo all’altezza della gola indicava dove il manico dell’ascia aveva premuto con troppa forza. «Dove sono gli altri?» chiese Eno, indeciso se essere felice per quella vittoria insperata o piangere i morti. «Non c’è nessun altro, Eno. Siamo tutti qui» rispose Fleischmann. «Tutti qui? Vuole dire che…» «Sì, esatto. Sono tutti morti. Si risparmi di controllare, non le piacerà quello che è accaduto là dentro.» Il Vecchio indicò la camera di manovra poco più a prua. Eno annuì affranto. Sievert si piazzò a un lato del portello con la canna dell’MP 40 puntata nel buio; nonostante si fossero ritirati di gran carriera, non era quello il momento di cantare vittoria. Lo scontro non era ancora terminato. Eno guardò perplesso il sergente maggiore. «Ce ne sono ancora?» «Non siamo riusciti a chiudere la partita, temo che ci sarà un’altra ripresa da
giocare.» Eno abbassò lo sguardo. La sensazione che fosse stato tutto vano iniziò a tormentarlo. Tutti quei morti, quel sangue, ora sembravano senza significato. «Prima dobbiamo trovare il modo di curarla. Hans, la valigetta del pronto soccorso dall’infermeria, per favore.» Fleischmann corse senza indugio. «Che ne è stato di Kurtz? Non era a capo dei suoi uomini» chiese Eno nell’attesa. «Solo Dio sa se l’ho cercato.» Il Vecchio scosse la testa deluso. «Sembra che il re non voglia scendere sul campo di battaglia.» «Dovremo stanarlo dalla sua tana allora.» «Oh, certo che lo faremo. Lo faremo insieme, Eno, d’accordo?» «Ci conti» una smorfia di dolore gli stravolse i lineamenti quando cercò di stringergli la mano. Il direttore tornò con la valigetta del pronto soccorso. «Freund e Hiller sono morti nei loro giacigli, pace all’anima loro, si sono risparmiati quest’orrore» raccontò Fleischmann posandola a terra e aprendola poi con eccessiva cura. Ne tirò fuori una piccola confezione di cartone impermeabile e afferrò una bustina di polvere bianca che cosparse poi sulla ferita. Eno fece una smorfia di dolore, ma Fleischmann continuò a bendare il tutto con le poche garze che aveva a disposizione. «Schäfer sarebbe stato migliore di me, le chiedo scusa, Eno.» «Non si preoccupi, faccia quello che deve.» «Questo agisce come un antibiotico, le eviterà qualche infezione.» Prese dalla scatola un piccolo flacone, simile a una pomata e ne tolse il tappo. Spuntò un ago che premette contro la spalla ferita. «Tra un attimo sarà come nuovo.» L’effetto della morfina alleviò il dolore e Eno si rilassò contro la branda. Quella
rozza medicazione avrebbe fatto il suo effetto, anche il direttore di macchina, come ogni membro dell’equipaggio, era tenuto a conoscere l’essenziale riguardo la cura delle ferite, in mare ogni uomo doveva poter essere autosufficiente e, a bisogno, diventare medico per sé e per gli altri. Eppure nessuno dei presenti avrebbe mai potuto immaginare di trovarsi in quella surreale situazione, circondati da cadaveri, con pochissimi mezzi a disposizione e le forze che ormai venivano meno. Impossibile recriminare, impossibile lamentarsi: ciascuno di loro, di quei pochi sopravvissuti, ora doveva solo dare il meglio per tentare un ultimo disperato sforzo, nell’illusione di restare vivi, come meglio potevano, e di uscire da quell’inferno piazzato in mezzo al mare. «Ne tenga una con sé, se rimarremo vivi, ne avrà bisogno.» Fleischmann gli mise un’altra di quelle piccole siringhe nella tasca dei pantaloni. «Signori, ho un regalino anche per voi.» Prese da un blister quattro pasticche da tre milligrammi di Pervitin e ne consegnò una per ciascuno. « U-bootschokolade, come la chiamo io, cioccolata per sommergibili. Questa vi terrà svegli e vispi per un bel po’. Al momento giusto fatene buon uso, d’accordo?» Tutti annuirono, fissando quella piccola pasticca bianca. Mentre Eno si godeva il confortevole effetto dell’oppioide, il Vecchio prese da parte Fleischmann. I due confabularono animatamente senza che Eno riuscisse a comprendere di cosa stessero discutendo. Il direttore si fece scuro in volto e dopo attimi interminabili si strinsero la mano. Fleischmann si avvicinò, chinandosi fino a portare la faccia davanti alla sua. «È stato un onore combattere al suo fianco, Eno» disse malinconico. I suoi occhi brillavano di una ferma risolutezza a cui Eno non seppe dare una spiegazione. Annuì nell’incoscienza datagli dal defluire nel sangue di quella sostanza analgesica. Fleischmann si sollevò e scambiò un ultimo cenno con Sievert. «Coraggio» disse il Vecchio porgendogli la mano, «è ora di andare.» Eno l’afferrò, usando quella presa per sollevarsi da terra.
«Facciamogli vedere come muoiono gli eroi» esclamò con quella presunzione che solo chi ha messo a tacere le paure di una morte orribile sa di possedere. Sievert aprì uno spiraglio del portello e vi inserì la canna della pistola mitragliatrice. Diede un rapido sguardo e solo quando fu sicuro che lui e il Vecchio fossero pronti a entrare in scena, lo spalancò. Si mossero rapidi, chiudendosi il portello alle spalle e superando la cucina ormai abbandonata da tempo, s’infilarono nella sala macchine cercando riparo ai lati dei comandi di accensione dei due diesel. Sievert si piazzò a dritta ed Eno con il Vecchio a sinistra. Il locale motori era avvolto nell’oscurità più totale. Le lampadine erano state spente o distrutte e solo il pallido cono di luce delle torce elettriche riusciva a contrastare le tenebre. Quei fasci gialli sfidarono con ostinazione l’oscurità, andando a scavarsi una strada lattiginosa sulla erella per non più di qualche metro. I riflessi sulle macchine motrici mettevano in mostra il rapido movimento dei pistoni che con moto ondulatorio spingevano a metà forza il motore di sinistra. Il frastuono cominciava a diventare una costante alla quale non fecero più caso, ma l’odore insopportabile dei fumi della combustione della nafta sarebbe stato letale se non avessero indossato i respiratori. Le pareti, o quel poco che riuscivano a vedere dal loro nascondiglio, erano nere di fuliggine depositatasi dopo la rottura dei tubi di scarico dovuta all’astuzia del direttore, ma ora le flange aperte permettevano un minimo ricambio d’aria e il diesel scaricava all’esterno senza ingolfare la sala di fumi tossici. Il Vecchio puntò l’indice verso il corridoio tra i due motori e Sievert si sporse all’infuori per controllare che non vi fossero ostacoli. Le possibilità di cadere in una trappola erano troppo alte. Il Vecchio aprì la mano per comunicare al sergente di attendere. Sievert spianò la sua MP40 in copertura. Qualsiasi cosa si fosse mossa in quell’oscurità, lui l’avrebbe falciata senza remore. Il Vecchio diede a Eno una pacca sulla spalla buona e lui gli s’incollò dietro. Camminarono con cautela rasentando il motore spento a dritta, finché il Vecchio non decise di chinarsi e rimanere in ascolto. La torcia elettrica gli dava una chiara idea di cosa gli si parasse davanti, ma erano i lati ciechi dietro i motori a impensierirlo. Puntò la torcia verso sinistra, come se qualcosa avesse attirato la sua attenzione. Il cono di luce ebbe un sussulto, la lampadina si spense e si
riaccese. L’intensità iniziò a indebolirsi finché, con un ultimo guizzo luminoso, si spense. Il Vecchio batté la torcia contro la mano, ma quella non volle saperne di riaccendersi. Ora l’unica luce a disposizione veniva dalle loro spalle, da Sievert. Un rumore profondo li fece trasalire. Il Vecchio si agitò mettendosi in allarme, ma mantenne la posizione puntando il coltello nell’oscurità davanti a sé. Anche la torcia di Sievert si spense di botto. Un suono attutito, proveniente da dietro il portello di prua, li fece voltare di scatto. Il buio era tutto intorno a loro e l’unica fonte di luce era una tenue lama proveniente dal portello che dava sulla cucina. Eno chiamò sottovoce Sievert, ma non ricevette alcuna risposta. «Aspetti qui» disse al Vecchio, mentre ripercorreva a ritroso la strada appena fatta. Eno giunse al nascondiglio di Sievert, ora che la lama di luce permetteva una migliore visuale, ma lo trovò vuoto. Un rumore molliccio lo mise in allarme. Proveniva da dietro il portello. Qualcosa si muoveva facendo tremolare la poca luce che filtrava nella sala motori. Eno serrò con la sinistra il metallo del piede di porco e con la spalla ferita spinse il portello. Balzò in cucina come una furia pronto a colpire, ma rimase paralizzato da quello che vide. Accosciato tra il fornello elettrico e il tavolo da lavoro, in uno spazio stretto poche decine di centimetri, Siffling si stava ando un coltello sporco di sangue sulla lingua. Ai suoi piedi, giaceva il corpo senza vita di Sievert. La gola era stata recisa di netto e la testa quasi staccata dal corpo. Il povero sergente era morto senza avere la possibilità di urlare, soffocato nel suo stesso sangue. Siffling lo guardò di sbieco con gli occhi ridotti a un intrico di ragnatele rosse, circondati da due cerchi viola scuro. La mascella grondava sangue, dove il coltello aveva reciso la pelle ai lati della bocca allargandola in una smorfia innaturale. Siffling chinò il capo e leccò il sangue caldo che colava dal collo di Sievert, andando a mischiare il suo con quello del sergente in un’orgia volgare e abietta. Eno ebbe l’impressione che Siffling non si fosse neanche reso conto della sua presenza, tanto era concentrato sul banchettare col sangue del suo ex compagno. Sotto lo stivale dalla suola di sughero del cadavere, vide l’MP 40 abbandonato a
terra. Si chinò con calma, cercando di non dare l’impressione di avere cattive intenzioni, come si farebbe con un cane irascibile che sta consumando il suo pasto. Lasciò il piede di porco a terra e mise il pollice e l’indice sul metallo della mitragliatrice, tenendo la mano destra sollevata in segno di pace, e lo sollevò come fosse un oggetto qualsiasi, poi impugnò l’arma tenendola ben salda sul fianco. «Muori, orrenda creatura!» Il colpo a bruciapelo traò il cranio di Siffling fuoriuscendo dalla parte opposta e portandosi via una parte della calotta cranica. Grossi pezzi di materia cerebrale si appiccicarono sulla paratia di metallo e gli schizzi di sangue disegnarono un intricato mosaico rosso scarlatto. Eno abbassò l’arma rimasta con la culatta aperta per l’assenza di munizioni e indugiò in contemplazione della sua opera, come un pittore che osserva critico il suo ultimo capolavoro. Scosse la testa, quasi per evitare che quelle riflessioni sulla morte potessero distrarlo dai suoi compiti e distolse lo sguardo. Avevano commesso un errore a fidarsi a quel modo, avrebbero dovuto setacciare quegli ambienti palmo a palmo prima di inoltrarsi in territorio nemico. Avevano trascurato quella regola semplice e basilare e ora ne pagavano le conseguenze. Eno tornò sui suoi i solo per ritrovarsi immerso nell’oscurità. Ora che la loro unica fonte di luce era andata distrutta nella colluttazione tra Sievert e quello che, un tempo, era stato Siffling, non c’era più nulla a rischiarargli la strada, solo i suoi sensi e la lucida convinzione di non avere altra possibilità se non quella di andare avanti e fare ciò che andava fatto. Mosse qualche o malfermo sulla erella, insicuro come non lo era mai stato nell’immergersi in quella coltre di buio. La flebile luce della cucina già svaniva contro quella barriera nera che gli si parava davanti. Eno chiuse gli occhi e fece un altro o entrando nel nero più totale. Quando l’inquietudine superò la sua soglia di sopportazione, li riaprì di botto. Il terrore immotivato di aver perso la vista lo fece rabbrividire. Tentò di calmarsi controllando i battiti del cuore e il pensiero più lucido, ma non per questo meno spaventoso, che la causa di quell’oscurità fosse dovuta alla totale assenza di luce,
lo assalì. Le mani iniziarono a tremare. Il cervello, nel tentativo di provocare una reazione, prese a immagazzinare dati e sputare possibilità. L’immagine di Sievert con la gola aperta lo tormentava e la sua mente cominciò a proiettare forme indistinte senza dargli la possibilità di rifiatare tra una visione da incubo e l’altra. Gli ci volle un grande sforzo di volontà per uscire da quello stato d’immobilità fisica. Mosse appena un dito, poi pian piano tutta la mano. Sfiorò il freddo metallo del motore e la ritirò istintivamente. Il fracasso del diesel in funzione non fu sufficiente a togliergli la paura di dare indicazioni sulla sua posizione, e un pensiero cominciò a farsi strada nella sua testa. Per quanto il buio fosse soffocante, per quanto i suoi occhi fossero praticamente ciechi in quella coltre nera, Eno sapeva fin troppo bene che i demoni ci vedevano benissimo. Quello era il loro ambiente naturale. La mano sinistra toccò la tasca dei pantaloni e sentì qualcosa all’interno della stoffa: la scatola di fiammiferi che gli aveva regalato Keller, il giovane ufficiale della Siren. Afferrò la scatolina di cartone con le mani che gli tremavano e cercò di impugnarne uno che subito cadde al suolo. Si concentrò cercando di far are quel tremore, poi riprovò. Stavolta il piccolo bastoncino prese fuoco e una fiammella rischiarò l’oscurità. Al diavolo l’idea di compromettere la sua posizione, tutto quello di cui aveva bisogno in quel momento era un po’ di luce. Quei pochi centimetri illuminati, avvolti da una nebbiolina umida che galleggiava nell’aria rarefatta, rivelarono una parete metallica piena di croste di sporcizia e colate di liquido scuro e viscido. Poi la fiamma si spense. Incapace di rimanere nel buio, ne accese subito un altro, ma non aggiunse altri dettagli alla prima impressione su quel posto. Gli sembrò un ambiente ostile, alieno, e fu come se lo vedesse per la prima volta. Quando anche il secondo fiammifero si spense, si concentrò sui rumori. Il fragore del motore era ancora presente ma ora sembrava più distante, quasi si trovasse in un angolo lontano della stanza. La puzza invece, se separata da quella di umido, muffa e nafta, era terribile e gli provocava una forte nausea. Formaggio andato a male, o qualcosa che si avvicinava molto al fetore della decomposizione. Eno accese l’ennesimo fiammifero e stavolta lo coprì facendo attenzione; quel poco ossigeno che rimaneva nell’ambiente era appena sufficiente a tenere accesa
la fiamma. Lo stomaco era in subbuglio e forti fitte lo squassavano dall’interno. La paura gli faceva spesso quell’effetto, gli stringeva le viscere in una morsa ferrea; era accaduto anche durante il bombardamento sotto le cariche di profondità. Fu costretto a poggiare una mano contro il metallo appiccicoso per evitare di cadere, ma si riebbe non appena uno spiffero gelido gli soffiò sulle caviglie. Era così che si annunciavano i demoni. Accese un altro fiammifero e fece qualche o accorto ignorando il viscidume del pavimento che sembrava ricoperto di melma, o qualunque altra cosa fosse. A ogni o i piedi producevano un risucchio disgustoso. Eno rabbrividì, stavolta per una cupa sensazione sottopelle che qualcosa si stesse avvicinando. Si accasciò a terra mettendo le mani sulla testa in posizione di difesa. Le dita si chio su un altro bastoncino ma la sua mente scioccata si rifiutò di manovrare la mano sull’innesco. Forse accendere la luce aveva rivelato davvero la sua posizione e, per quanto quel tenue bagliore l’avrebbe protetto, prima o poi si sarebbe consumato e a quel punto sarebbe stato completamente in balia dei suoi demoni. Quando la pressione divenne insopportabile, le dita si contrassero e il fiammifero prese a brillare dopo essere stato sfregato sulla carta di vetro. Eno aprì gli occhi. La curiosità, amica fidata della paura, prese il sopravvento. Davanti ai suoi occhi lucidi non c’era nulla, se non un pavimento ingombro di liquido scuro e chiazze bianchicce e molli simili al grasso. Eno pianse. Le lacrime vennero giù senza che potesse fermarle. Piangere non era mai servito a nulla, ma in quella situazione sembrava l’unica cosa giusta da fare. Forse qualcuno avrebbe sentito i suoi gemiti e sarebbe corso in suo aiuto. O forse, pensò in uno spasimo di membra che si torcevano, i demoni si sarebbero cibati delle sue paure e avrebbero gioito nel vederlo tremare e piangere. Un’altra fiammella si accese e il nero divenne appena più chiaro. La fiamma era dritta verso l’alto, niente ne deviava la direzione; poi improvvisamente si spense, come se qualcuno vi avesse soffiato sopra. Eno emise un urlo strozzato. Qualcosa era accanto a lui, poteva percepirne i i molli, il respiro fetido e quel sibilo, come un respiro ventrale. Il gemito si tramutò in urlo ed Eno cominciò a correre al buio.
Dovunque, ma non lì, pensò, mentre correva schizzando materia viscosa dappertutto. Le mani protese in avanti l’avrebbero protetto da un eventuale urto o da qualunque cosa si presentasse sui suoi i. Invece l’insidia giunse dal basso. I piedi urtarono contro qualcosa e cadde faccia avanti con un tonfo attutito dal liquido sul pavimento. La bocca gli si riempì di quel fluido amaro dal gusto ferroso e nauseante. Eno vomitò. Svuotò il contenuto del suo stomaco, aggiungendo lerciume a quello del pavimento. Ritirò la gamba rimasta impigliata in qualcosa di duro, senza riuscire a liberarla. Sembrava stretta in una tagliola; tastò a terra alla ricerca del pacchetto di fiammiferi senza successo e per un istante il cuore si fermò. Spazzolò con foga quella melma, immergendo le mani nella poltiglia densa in cui galleggiavano strane sostanze consistenti. A un tratto, la mano si strinse su qualcosa di piccolo e squadrato. I suoi fiammiferi. Aprì subito la scatoletta cercando di ripulirla come meglio poteva, nella speranza che non si fosse inzuppata, rendendo inservibile la sua unica fonte di luce. Fortunatamente il contenuto era rimasto asciutto. Afferrò un bastoncino e, ignorando il tremore delle mani e i singhiozzi che lo squassavano da capo a piedi, lo accese. Avvicinò delicatamente la fiamma alla gamba ed emise un urlo di terrore. Quella in cui il piede si era incastrato, procurandogli profondi tagli alla caviglia, non era una tagliola, ma una cassa toracica. Le costole bianche si spalancavano sotto i suoi occhi increduli, lasciando intravedere il contenuto sanguinolento del ventre di Kaymer. Eno scalciò, continuando a urlare a pieni polmoni, esalando quei miasmi mefitici che ora, credeva, l’avrebbero asfissiato mortalmente. Gli occhi rossi e pieni di lacrime non la smettevano di saettare in cerca di movimenti furtivi nell’oscurità. Le mani tastavano l’aria nel vano tentativo di tenere a distanza i suoi aguzzini invisibili. «Andate via!» gridò. La sua voce rotta dal pianto gli suonò estranea, distante. Colpa degli echi che quella stanza faceva rimbalzare da parete a parete e che il diesel, col suo rombo continuo, copriva. «Lasciatemi in pace!» Nessuno rispose. Niente lo toccò. Solo quel sibilo molle a fare da sottofondo alla
macabra scena. «Altra luce» pensò. Scavò con le unghie rotte nella scatoletta e molti fiammiferi caddero nella melma. Tra un tremore e l’altro riuscì ad accenderne uno. Il corpo di Kaymer era lontano appena un metro, emetteva bolle d’aria, disteso in una posizione scomposta, spezzato selvaggiamente da coloro che avevano reso tale quel luogo perverso. Eno si ritrovò senza una scarpa, la vide ancora incastrata nella gabbia toracica del ragazzo. La mano salì ai capelli, li tirò con forza in una crisi che sfociò ancora una volta nel pianto. «Perché mi fate questo, perché?» chiese con voce rotta mentre si rannicchiava sotto il sostegno del motore. «È merito mio, io vi ho liberato dal nascondiglio millenario, io ho fatto in modo che foste liberi! Perché mi fate questo?» La pallida luce del fiammifero, ormai giunta alla fine della sua breve vita, gli trasmise una vaga immagine di qualcosa che, furtivo, si muoveva nell’oscurità. «Non ti avvicinare» esclamò, richiamando le ginocchia al petto. «Non ti avvicinare, ti prego» disse in un ultimo singhiozzo. Rimase in attesa del colpo di grazia. La puzza si fece più intensa, quasi asfissiante. Un misto di putrefazione e odore chimico, qualcosa che la mente umana non era in grado di associare a niente di conosciuto. Un freddo umido, intenso come una brezza invernale, lo investì e piccole particelle di liquido gli caddero sulla pelle del viso. Ormai reso folle dal terrore, Eno prese la scatoletta e la alzò davanti ai suoi occhi ciechi. Tirò fuori una manciata di fiammiferi e li innescò sulla piccola strisciolina di carta vetrata. Non accadde nulla. Il respiro gli si fece ancora più pesante. Grattò ancora, e ancora una volta non accadde nulla. Il respiro si tramutò in tachicardia e i i mollicci come una spugna zuppa di liquido si fecero più vicini. Sfregò con forza e finalmente uno dei fiammiferi prese vita, diffondendo la fiamma agli altri. Nell’istante esatto in cui la scintilla esplose, un rumore violento si propagò con un gorgoglio nella melma. Un suono da far venire i brividi. La fiamma illuminò un volto. Rischiarato dal piccolo cono di luce che illuminava una porzione della stanza dalle pareti incrostate, c’era il Vecchio.
Capitolo 28
«Si calmi!» Josef dovette trattenerlo con entrambe le mani. L’archeologo si dimenava con foga, cercando di svincolarsi da quel contatto. «Lasciami demonio!» urlò, in preda alle allucinazioni. Josef gli tirò un manrovescio in piena faccia. Le nocche colpirono duro contro l’osso dello zigomo, ma ebbe l’effetto cercato. Eno si quietò, afflosciandosi nella stretta di Josef. La testa ciondolava al ritmo di una litania silenziosa, mentre le labbra si muovevano veloci come se stesse pregando. Josef allentò la stretta sulla camicia e quel tocco leggero fu sufficiente a trasmettergli le palpitazioni che provenivano dal cuore troppo accelerato di Eno. L’ultimo cerino si spense e, in una frazione di secondo, si ritrovarono avvolti nell’oscurità più densa. «Stia calmo, qualsiasi cosa abbia visto, se n’è andata» cercò di calmarlo senza troppo successo. Il cervello di Eno, complice la carenza d’ossigeno troppo prolungata e i gas di scarico respirati, doveva essersi costruito una realtà ben più spaventosa di quella effettiva. Non che la situazione fosse migliore di quella concepita dalla fantasia ma, almeno fino a quel momento, i demoni non si erano fatti vivi, se da quei demoni si voleva escludere il maggiore Kurtz. Josef gli mise una mano davanti la bocca e lo trascinò sulla erella fino al portello, proprio quello che separava la sala motori diesel dal locale motori elettrici e l’estrema poppa, rifugio del maggiore. Riuscì con fatica a strisciare fino alla paratia sulla destra del portello dove si fermò in attesa di rifiatare, mantenendo tutti i sensi in allerta. Attese qualche minuto, pregando che le urla di Eno non avessero attirato l’attenzione di Kurtz e dei suoi uomini. Non sapeva neanche quanti fossero e cosa stessero tramando, ma ormai i giochi erano fatti; Hans aveva i suoi ordini e per quanto impegno
Josef potesse mettere in quella missione suicida, il loro destino era segnato. Guardò l’orologio senza riuscire a vedere l’ora: quel buio pesto stava rendendo tutto più difficoltoso. Si consolò pensando che, a ogni modo, non doveva mancare molto. Aveva chiesto ad Hans di attendere una mezz’ora prima di dare il via all’ultima fase del piano. L’aveva rassicurato che trenta minuti sarebbero stati sufficienti per riprendere possesso del sommergibile, ati i quali, avrebbe trovato il modo di interrompere il conto alla rovescia. Fin dall’inizio non aveva mai avuto davvero l’intenzione di farlo; che fosse riuscito nei suoi intenti o meno, le cose erano già state scritte per l’U-666. Con Eno steso sopra di lui, Josef riuscì a percepire i battiti del suo cuore: pian piano stavano riprendendo il loro normale ritmo. La scarsa riserva d’ossigeno fornita dal respiratore, che Josef gli aveva ceduto, iniziava a schiarirgli la mente, riportandolo alla calma. Josef prese dalla tasca la piccola pasticca bianca da tre milligrammi di Pervitin e la mise in bocca all’archeologo. Gli massaggiò la gola per favorire l’ingerimento e quando sentì il pomo d’Adamo gonfiarsi, annuì soddisfatto. Forse l’effetto psicostimolante l’avrebbe aiutato a vincere le sue paure e i suoi demoni personali. Rimasero in quella posizione altri preziosi minuti, poi Josef azzardò un movimento. Depose Eno su un fianco e si allungò verso il portello. Con cautela spinse l’anta di metallo che si spostò di pochi millimetri. Rischiò un’occhiata in quello spiraglio appena sufficiente a mettere in luce una porzione infinitesimale della stanza al di là della paratia: tanto per cominciare c’era luce. Virava su una tinta color sangue, simile alle luci rosse per la visione notturna, ma meno artificiale. Josef tese l’orecchio, anche se il chiasso del diesel non gli permetteva di captare nessun suono proveniente dal locale attiguo. Per un attimo, il dubbio che gli uomini all’interno potessero aver percepito quell’aumento di rumore, nel momento in cui aveva aperto lo spiraglio, lo fece esitare. arono altri secondi senza che nessuno si preoccue di loro; questo lo rese più audace. Spinse con i polpastrelli e il portello si mosse sui cardini arrugginiti. Ora la visuale era più netta, ma non tale da mostrare cosa stesse accadendo lì dentro.
«Che mi sono perso?» chiese all’improvviso Eno, facendolo saltare dallo spavento. Josef si ritrasse dallo spiraglio e s’incollò alla faccia dell’archeologo. «Non molto, a parte un viaggio nella follia o qualunque cosa stesse vivendo in quei momenti.» «Non ricordo altro che un’inquietante sensazione di morte.» «Credo che ci sia andato davvero vicino.» Sfruttò quel poco chiarore fornito dalla fessura del portello per guardarlo dritto in faccia. Eno aveva gli occhi sbarrati e vivaci, segno che la metanfetamina stava iniziando a fare effetto. «Ci siamo, Eno, un ultimo sforzo e sarà tutto finito.» «Tutto finito» ripeté lui pacato. Josef ebbe la certezza che l’archeologo avesse compreso le implicazioni del suo piano e che, in fin dei conti, le avesse tacitamente accettate. Era stato lui a iniziare quella storia ed era giusto fosse lui a mettere la parola fine. Aiutandosi a vicenda, sfruttarono le tubature sulla paratia per alzarsi in piedi. Si prepararono all’irruzione come meglio poterono, trovando conforto l’uno nella presenza dell’altro e in quelle poche e inadatte armi a disposizione. «Credo di aver perso il mio piede di porco» disse Eno, come se stesse parlando delle sigarette. «Prenda questo, ne ho due» Josef gli ò uno dei suoi coltelli. Mise la mano sulla maniglia del portello e la strinse, ignorando il liquame che la ricopriva. «Pronto?» chiese facendo pressione sui cardini. «Aspetti, cosa si dice in questi casi?» Eno si sciolse le spalle sotto l’impulso degli stimolanti. «Non saprei, non mi capita tutti i giorni di dover uccidere un maggiore delle SS.» «Allora opterei per un banale… ora!»
*
Hans entrò in camera di manovra indossando il respiratore per precauzione. La stanza era ancora satura degli effetti nocivi dei fumi dell’acido e il rischio di rimanere soffocati era troppo elevato. L’acido solforico, scivolando dalla grata del pavimento, fin giù nella sentina, si era mischiato con l’acqua di mare, causando un altro danno collaterale, quello dei gas di cloro. Una nebbiolina opaca aleggiava in sospensione nella sala. L’umidità aveva favorito quello stato di cose, tanto da rendere irreale quel luogo, che ora sembrava appartenere a un altro mondo e non più al tanto familiare centro nevralgico dell’U-boot; un locale angusto, separato in due sezioni dal tubo d’acciaio del periscopio, dove muffa e ossido avevano preso possesso di ogni cosa, il cervello malato della bestia. Hans si sforzò di distogliere lo sguardo dalla carneficina sotto i suoi piedi. Le carcasse degli uomini morti sotto la pioggia d’acido erano sparse lungo tutta la sezione di poppa, dove la pompa che vuotava la sentina aveva la sua ubicazione. Alcuni cigolii diedero l’impressione di trovarsi all’interno di una casa stregata, ma Hans conosceva a memoria ogni centimetro di quel luogo, era stato da sempre la sua postazione di combattimento, la sua casa, e sapeva che, per quanti spettri occuero quelle pareti di acciaio, nessuno avrebbe potuto fargli del male ora. Si avvicinò ai timoni di profondità e si sedette sul sedile del timoniere. Non badò al sangue e al marciume che ricopriva ogni cosa, concentrandosi su altro. Riportò alla mente vecchi ricordi dei giorni ati in mare a caccia dei mercantili alleati. Die glückliche Zeit, i tempi felici li chiamavano, giorni di cui non rimaneva più nulla, se non quella pallida e sbiadita memoria a cui Hans cercava di aggrapparsi disperatamente nel tentativo di cancellare l’orrore che i suoi occhi vedevano intorno, consapevole che in quel momento non poteva permettersi alcun cedimento. Nessuna pietà, niente sentimentalismi. I pochi minuti successivi sarebbero stati decisivi e con lucida freddezza toccò con l’indice il comando elettrico del timone di prua; una sola pressione e il circuito avrebbe trasmesso l’impulso al timone di inclinarsi quel tanto che
bastava per iniziare la manovra d’immersione. Un’operazione semplice dopotutto, ma a senso unico. Hans sapeva bene che l’U-666, dopo le ferite mortali inflitte dall’aviazione e dal cacciatorpediniere inglese, non era più in grado di sostenere la pressione esercitata dall’acqua, la cassa zavorra di prua era compromessa e forniva una spinta verso il basso non più compensabile. Hans provò un brivido di eccitazione al pensiero di inabissarsi un’ultima volta e scoprire fino a che profondità il loro killer silenzioso, l’U-boot tedesco, potesse arrivare prima di cedere ed essere stritolato dalla pressione. Fino al fondo, si disse sorridendo. L’U-666 avrebbe potuto toccare il fondo più oscuro dell’Atlantico. Rimase in contemplazione della bussola che puntava verso i trecentotrenta gradi, evidentemente c’era stata una variazione dovuta alle correnti, ma ormai poco importava; non era necessario che si puntasse a nord, un posto valeva l’altro nel grande blu. L’acqua era salata dappertutto. Si trovò a fantasticare su nuove avventure nelle acque che bagnavano la costa americana, dove gli alleati dovevano sentirsi così al sicuro nelle loro case, sospettosi, ma non disposti a credere che un sommergibile potesse arrivare fin sotto le loro finestre. Hans s’irrigidì e si sistemò meglio sul sedile del timoniere di prora. Guardò l’orologio sopra il pozzetto del periscopio e annuì. Il tempo era quasi scaduto, era ora di agire e lasciare a dopo le frasi di congedo; tutto doveva avvenire alla svelta e con sistematica precisione. Dopo aver posizionato i timoni con la giusta angolazione, avrebbe chiuso gli sfiatatoi e aperto le valvole d’immersione rapida. Il sommergibile si sarebbe appruato e, a quel punto, non ci sarebbe stato null’altro da fare che attendere. I condotti di scappamento e le prese d’aria, rimasti aperti, avrebbero imbarcato acqua e i diesel, impossibilitati a pescare aria dall’esterno, avrebbero cominciato a succhiare quella poca rimasta all’interno, provocando una pressurizzazione in grado di far scoppiare i timpani. Gli elettromotori, ormai fuori uso per via delle batterie danneggiate, non sarebbero mai entrati in funzione, con la conseguenza di non avere nessuna possibilità di sfruttare l’elica per compensare il peso delle casse zavorra. Il sommergibile non aveva alcuna scelta se non scendere a piombo negli abissi dell’oceano. Poggiò le mani sul comando elettrico e, dopo aver tirato un profondo respiro,
ripeté ancora a se stesso che non c’era altra via d’uscita. L’U-666 non doveva arrivare alla base 211 per nessun motivo al mondo. Se solo quei maniaci nazisti avessero messo le mani sulla letale arma di distruzione che portavano a bordo, le sorti della guerra avrebbero preso una deriva impossibile da gestire per chiunque. L’intera Europa sarebbe stata in pericolo. Un’ultima fugace occhiata all’orologio e Hans premette il pulsante. Non accadde nulla. «Ma che…» Hans riprovò, ma il circuito elettrico doveva aver subito qualche tipo di danno. Non c’era tempo di mettersi a indagare, ò velocemente al comando manuale. Afferrò saldamente la ruota posta a parete proprio dietro il comando elettrico e girò. Questa volta il timone reagì e Hans lo posizionò dritto in basso. Il sommergibile ebbe un sobbalzo. Hans si spostò sul sedile accanto e girò il volante di poppa di meno dieci gradi. Si alzò di corsa per chiudere gli sfiatatoi ma trovò la strada sbarrata: una maschera raccapricciante, un volto coperto da ustioni terribili gli si parò davanti. L’occhio sinistro cadeva penzoloni e dall’orbita fusa con la pelle dello zigomo colava un liquido giallognolo. Metà del volto era sfigurata e i pochi capelli rimasti su quel lato della testa erano ridotti a fili ispidi e setolosi. L’altra metà, paradossalmente, era intatta anche se riportava i segni del supplizio sopportato. «Signore» lo ossequiò l’uomo che solo allora riconobbe come Thielen. Il corpo massiccio e i capelli biondi non lasciavano spazio a dubbi. Se si fosse girato di profilo, Hans lo avrebbe visto com’era fino a pochi giorni prima di quel momento. Ma ora, il suo corpo era deturpato e Thielen sembrava in cerca di vendetta. Lo colpì con un pugno che lo fece barcollare fino alla paratia. Hans picchiò contro la bussola e si inarcò dal dolore. La maschera del respiratore si spostò e l’odore pungente dei gas gli riempì le narici. Thielen non perse tempo e si lanciò ai timoni. In pochi attimi regolò la profondità, riportandoli a livello. Il sommergibile ebbe uno scossone e si appoppò sensibilmente sotto la spinta dei timoni. Hans fece qualche o indietro, in cerca di un’arma in grado di fargli sostenere un corpo a corpo con quel gigante, senza trovare nulla di adatto allo scopo.
Il bavarese si sollevò in tutta la sua altezza e frappose il suo corpo massiccio fra lui e i comandi. In mano stringeva una grossa sbarra di ferro arrugginito, pronta a fracassare la testa di chiunque si fosse messo in mezzo ai suoi intenti. «Credo di doverle fare del male, signore» disse biascicando. Il labbro gli penzolava dal lato sinistro, ridotto a un ammasso di carne molliccia e rossa. «In questo caso, dovrò punirti con qualche turno di guardia in plancia» rispose lui sarcastico. Thielen sorrise, mostrando i denti anneriti. Hans si chiese come fosse possibile che quel ragazzone fosse ancora in piedi. Dove non era arrivato l’acido, i suoi effluvi venefici dovevano averlo tramortito da un pezzo, eppure si ostinava a rimanere in vita. Gli spiriti agivano in maniera bizzarra su ciascuno di loro, a seconda dei loro intenti, ma su Thielen sembravano essersi accaniti in particolar modo. La spranga schizzò rapida e andò a cozzare contro il telegrafo di tribordo, infrangendo il vetro e facendo saltare la lancetta e il meccanismo interno. Hans schivò di lato e si mantenne a distanza con le spalle all’armadio di ferro delle carte nautiche. Il massiccio bavarese colpì ancora, stavolta dall’alto, e la sbarra cozzò contro il metallo con un tonfo sordo. Hans, impedito dalle lenti della maschera, cercò una via di fuga verso poppa, ma il pavimento era reso scivoloso dal sangue e dai liquami fuoriusciti dalla carne fusa e dovette prestare attenzione per non cadere. Se fosse inciampato, sarebbe stata la sua fine. Fu costretto a tenere lo sguardo basso per trovare un corridoio sgombro e fu allora che vide il coltello. Schivando un colpo laterale della pesante mazza di metallo, si piegò in un fluido movimento e afferrò la lama tagliente. Thielen colpì il pozzetto del periscopio e la spranga rimbalzò sul duro metallo tornando indietro con un’oscillazione che gli fece vibrare i denti. Fu in quel momento che Hans intravide una possibilità: approfittando di quell’attimo di distrazione, si lanciò contro Thielen e gli affondò il coltello nella spalla, poco sopra il cuore. Thielen fece un o indietro, visibilmente stupito di quell’attacco così fulmineo, ma non cadde. Osservò con la curiosità di un bambino il manico che gli spuntava dal petto e tornò a fissare Hans. Alzò la mazza e la calò con ferocia. Hans non ebbe il tempo di reagire. Thielen lasciò cadere la sbarra sporca di sangue e si voltò verso il timone. Con
alcuni i barcollanti raggiunse il sedile e prese posto. Le mani enormi, piene di vesciche scoppiate, girarono il volante di trenta gradi, lasciando sulla sua superficie una patina appiccicosa. Il sommergibile accostò e lentamente la bussola prese a girare. Con qualche sforzo, riportò la prua sui centosettanta gradi. L’U-666 era pronto per proseguire la sua missione, dritto fino in Antartide. Thielen si afflosciò su se stesso, pago di quanto appena fatto. «Ehi tu, bestione!» lo redarguì Hans. Il bavarese si destò e girò la metà sfigurata verso di lui. «Lo sai che fai proprio schifo?» Hans si tolse il respiratore; i capelli erano appiccicati dal sangue fresco appena uscito da un profondo taglio sulla testa. Mostrò un ghigno rabbioso e partì alla carica. Thielen alzò il braccio e lo afferrò per la gola. Le sue lunghe dita strinsero i tessuti molli più che potevano, tanto da mozzargli il respiro. «Sei un grosso, stupido bestione…» sibilò con le ultime energie residue, poi afferrò il manico del coltello ancora piantato nel petto di Thielen e spinse verso il basso. La lama recise i tessuti e intaccò il cuore. Thielen ebbe uno spasmo muscolare e le sue dita esercitarono ancora più pressione sulla giugulare, finché non mollò la presa cadendo di peso a terra e trascinandoselo dietro. Hans annaspò in cerca d’aria, ma più ne respirava, più le forze lo abbandonavano. I gas di cloro e qualsiasi altra cosa ci fosse in quella stanza gli stavano intaccando mortalmente le vie respiratorie e i polmoni. Il respiro si tramutò in singhiozzi sempre più rapidi. Hans non ebbe altro pensiero che quello di trovare il modo di discolparsi con Josef. Lo aveva deluso, aveva deluso il suo comandante. La vista si annebbiò così come la sua mente. Poi fu solo il nulla.
*
«Ora!» Josef aprì il portello con tale impeto che per poco non cadde faccia avanti. Il sommergibile, proprio in quel momento, ebbe un sussulto che gli fece perdere l’equilibrio. Il pavimento si fece più ripido e Josef ebbe l’impressione di correre in salita. Si puntellò contro il pannello del motore di dritta e, dopo aver ripreso l’equilibrio, si affrettò a grandi falcate. La erella tra i due motori elettrici risuonò di quei i, trasmettendo l’eco metallico in tutto il locale. Josef capì d’istinto che quell’appruamento improvviso poteva significare solo una cosa: Hans doveva aver iniziato la manovra d’immersione. Percepì la presenza di Eno dietro di lui e rinnovò gli sforzi. Solo allora l’immagine che aveva lungamente ignorato, gli riempì gli occhi. Seduto dietro un altare fatto con i resti delle casse di legno che una volta erano state il prezioso, quanto segreto, carico dell’U-666, il maggiore lo fissava con occhi allarmati. Non era lo sguardo di chi, contrariato da un’intrusione sgradita, mostri la sua irritazione, era qualcosa di più profondo; quasi il maggiore temesse che quell’interferenza potesse compromettere quanto aveva architettato fino a quel momento Nella testa di Josef tutto sembrava svolgersi a rallentatore, per pochi lunghissimi istanti la scena che si parava dinanzi ai suoi occhi sembrò quasi l’immagine sbiadita di un vecchio cinematografo: lo stesso Kurtz apparve come l’ombra timorosa di se stesso, non più quell’uomo imponente e minaccioso che era stato, e che gli aveva tolto tutto: l’onore e il comando dell’U-boot. Il suo sguardo vacuo, fissato in chissà quali fantasmi, oltreava la figura di Josef; solo un impercettibile sbattere di ciglia rendeva ancora viva quella scena. Kurtz, con le mani strette sul vaso, vuoto contenitore di una stregoneria primordiale, teneva le lunghe dita come impietrite sulla superficie di terracotta, quasi fossero gli artigli del diavolo che era stato. La posa contratta e un lieve stridio di unghie tradivano la paura che qualcuno potesse privarlo della sua preziosa reliquia. Josef, immobile dinanzi a quella surreale quanto volgare creatura che era stata il suo rivale, notò con una rapida occhiata che il vaso sembrava non aver risentito dello stato di corruzione: la crepa sulla superficie era stata sigillata con qualche
materiale non identificato e il velluto, che una volta era stato la sua custodia, stava disteso sull’altare come ornamento. Non fu tuttavia il vaso a catturare la sua attenzione. Josef si concentrò sul volto del maggiore Kurtz, o meglio, su quello che ne rimaneva. Ricordava ogni singola piaga sulle membra infestate di quello che era stato il suo equipaggio, gli effetti devastanti delle malattie patite dai suoi uomini in quei giorni difficili. Poteva ancora sentire l’odore insostenibile delle ulcerazioni purulente, rivedere dinanzi ai suoi occhi le lesioni che avevano martoriato i corpi dei marinai, nelle sue orecchie riecheggiavano le urla di ogni genere di tormento fisico che aveva flagellato l’equipaggio fino a quella morte funesta di cui pochi restavano testimoni. Eppure, negli ultimi istanti di quella scena surreale, Josef ebbe l’impressione che i demoni del vaso si fossero ostinati a castigare soltanto Kurtz, accaniti in un turbinio di malattie sconosciute. Nel lento scorrere di quei frammenti di realtà, poteva quasi sentirne il ghigno beffardo, le bocche insaziabili, le parole incomprensibili e infernali che reclamavano un’ennesima offerta sacrificale. Gli occhi di Josef concessero un attimo di pietà al corpo del suo nemico straziato da quelle presenze demoniache a cui egli stesso aveva stentato a credere, soffermandosi sui particolari di quell’ennesimo scempio. Nei pochi punti in cui le tumefazioni non erano presenti, la pelle squamata aveva assunto un colorito grigiastro simile a quello di alcuni rettili. Gli occhi, piccole sfere giallognole, infossate nelle cavità formate dai rigonfiamenti delle palpebre, secernevano un liquido trasparente che gli conferiva quell’aspetto lacrimevole. Il maggiore era piegato su se stesso, quasi non riuscisse a stare in posizione eretta: dava l’impressione di avere davanti uno di quei ghoul delle favole che si raccontavano ai bambini. L’uniforme, un tempo tirata a lucido, era piena di macchie nei punti dove le secrezioni erano fuoriuscite dalle piaghe. Kurtz era ridotto alla caricatura di se stesso, un essere deforme e patetico non più in grado di nuocere a nessuno. Nulla di quella scena penosa tradiva l’orgoglio malato e spavaldo con cui si era presentato a bordo, inaugurando quella che ora sembrava semplicemente essere una missione suicida. Josef sentì la mano della pietà carezzargli il volto, il male non era nel suo istinto
gentile, nonostante la guerra l’avesse indurito e reso forte delle proprie scelte, anche quando queste avevano significato decisioni difficili e impopolari. Della guerra, la morte non gli era mai stata familiare, la considerava ancora un ospite indesiderato, eppure di morte, ora, era circondato. Furono pochi attimi soltanto, poi Josef sgombrò la mente da quei pensieri troppo umani per sopravvivere tra quei demoni che gli danzavano intorno. Puntò gli occhi dritto nelle orbite vuote del maggiore, assaporò sulle labbra l’amaro delle sofferenze patite per colpa di quell’uomo, riportò alla mente le umiliazioni subite, e lasciò che l’odio covato, solo per qualche istante messo a dormire dalla comione, si riaffacciasse in tutta la sua violenza per dare una motivazione precisa al suo agire. Strinse le dita doloranti intorno al manico del coltello che aveva con sé, alzò il braccio con uno sforzo teso a raccogliere ogni briciolo di forza che gli era rimasta, di odio e decenza, lasciò che la lama affilata indugiasse un momento, quasi a voler imprimere nel metallo le ultime immagini di un inevitabile copione. In quel preciso momento le pupille del maggiore Kurtz sembrarono muoversi, scosse dal presagio di morte. Josef strinse ancor più forte il coltello, il braccio teso pronto a porre fine a quella vita indegna. Attimi di esitazione fatali, perché un guizzo d’ombra sulla lama piatta rivelò la presenza dell’ Oberleutnant Ludwig Werner, frapposta tra lui e il corpo inerme di Kurtz. Josef, quasi incredulo, ò velocemente in rassegna l’uomo che si era materializzato nella stanza, senza che alcun rumore l’avesse annunciato, quasi un altro demone concretizzato nel delirio della follia di bordo. Il secondo in comando, contrariamente al suo superiore, sembrava in perfetta salute, illeso e immune alle malattie sotto tutti i punti di vista. La barba rasata da poco e i capelli perfettamente pettinati con la riga da una parte gli conferivano un contegno degno del migliore ufficiale di Marina. Tuttavia, l’uniforme gridava a gran voce l’esatto contrario. I pantaloni, così come la camicia celeste, erano strappati e ridotti a brandelli, sbiaditi sulle ginocchia e sui gomiti, e chiazzati di sangue rappreso e unto su tutto il resto della superficie della stoffa. Al petto era appuntata la Croce di Guerra, un’onorificenza che Werner non aveva mai conquistato; forse un regalo del suo nuovo comandante, o forse, cosa più probabile, se ne era impossessato approfittando dell’ormai miserabile condizione
di Kurtz. Werner livellò la Walther P38 e chiuse l’occhio sinistro. Allineò la tacca di mira con il mirino e premette il grilletto. I suoi riflessi non erano più quelli del giovane ufficiale che si era imbarcato a Saint-Nazaire solo un mese prima, e persino il poco peso della pistola bastò a fargli tremare il polso. Il rinculo gli fece piegare la mano a sinistra e il colpo partì con un angolo troppo largo. Josef scartò a destra, sbattendo pesantemente contro il pannello contorto del motore elettrico e procurandosi una dolorosa escoriazione, ma quegli attimi di esitazione prima di fare fuoco gli avevano dato il tempo di intuire la traiettoria del proiettile. Sfruttando il sobbalzo dovuto allo scontro della spalla contro il metallo, riprese l’equilibrio e si lanciò contro Werner. Josef lo placcò alla vita, facendolo cadere di peso contro il duro pavimento. Werner emise uno sbuffo d’aria ventrale quando la schiena urtò contro le lastre di metallo. L’odore nauseabondo del suo alito costrinse Josef a tirarsi su in ginocchio e, approfittando di quel momento di predominio sul suo avversario, lo colpì con un pugno alla mascella. Il crack che ne scaturì gli provocò brividi di repulsione. Le ossa di Werner sembravano essersi sbriciolate sotto il colpo inferto e la mascella appariva spostata verso destra, mettendo in luce una fila di denti anneriti, dove grossi vuoti indicavano la mancanza di quasi tutti gli incisivi. Werner emise un gemito basso e cavernoso prima di are al contrattacco. Facendo leva sulle gambe riuscì a divincolarsi dalla presa che Josef esercitava su di lui con il solo peso del suo corpo, facendolo sbandare verso sinistra. Una serie di pugni lo investì al petto, ma Josef mantenne la presa incassando duro. Ben presto il fiato si fece corto e le forze gli vennero meno, finché Werner non si liberò del tutto. Senza perdere tempo, il giovane ufficiale afferrò la pistola e la puntò alla testa di Josef. Premette il grilletto e il cane si abbatté sul percussore; il piccolo spillo d’acciaio ammaccò l’innesco sul fondello ma il propellente non reagì come avrebbe dovuto. Werner scarrellò l’arma facendo uscire la cartuccia difettosa e ne incamerò una nuova. Era pronto a far fuoco quando l’urlo animalesco di Eno lo travolse facendogli cambiare idea sul suo bersaglio. Werner alzò il braccio pronto a intercettare la carica dell’archeologo, ma un calcio ben assestato di Josef gli colpì con forza la mano. Il colpo volò alto, perdendosi nel rivestimento del
soffitto. Una pioggia d’acqua e materiale isolante cadde come neve sui tre uomini. Eno sopraggiunse senza frenare la sua corsa e investì Werner con una spallata al petto. L’ufficiale precipitò sull’altare di legno mandandolo in frantumi. Kurtz, ancora inebetito, si ritirò frignando sotto il portello lancia siluri trascinandosi dietro il vaso. Eno afferrò per i piedi Werner e lo tirò fuori da quel macello di schegge di legno e con un balzo gli fu sopra brandendo il coltello. Ancora una volta Werner trovò la forza di reagire e ululando di furore gli piantò le unghie spezzate nel polso trattenendo la mano armata. Con una forza che aveva del sovrumano, gli piegò il polso indirizzando la lama verso la gola di Eno. Con un agile gioco di fianchi riuscì a invertire la situazione, finendo sopra l’esile corpo dell’archeologo. La lama era a pochi millimetri dal petto di Eno quando un colpo cupo impresse un sigillo sulla scena. Il viso di Eno si riempì di liquido rosso e materia celebrale. Piccoli pezzi d’osso gli mitragliarono la fronte provocandogli diversi tagli. Werner era ancora sopra di lui e le sue mani premevano sul suo polso contro il petto, ma ora aveva un’espressione assente, improvvisamente spenta. Lentamente, il corpo del giovane ufficiale cadde di lato e crollò a terra. Dietro di lui, Josef lasciò che il grilletto ritornasse alla sua posizione originale con uno scatto metallico. Porse la mano a Eno aiutandolo a rialzarsi e, dopo essersi scambiati uno sguardo d’intesa, si rivolsero all’ultimo superstite, l’uomo che aveva scatenato quella faida sanguinosa. Kurtz scivolò contro il compressore cercando un riparo dalla minaccia che incombeva su di lui. S’incurvò provando con le poche forze che ancora lo sostenevano a nascondersi tra le tubature del grosso cilindro d’acciaio. Quando si rese conto di non avere via di scampo, si lasciò cadere stremato, offrendosi inerme alla vendetta del nemico. L’unica concessione a quella resa fu verso il vaso; le sue mani non smisero mai di stringerlo, neanche quando il tremore rischiò di farlo cadere a terra. Kurtz aprì la bocca deformata dalla malattia e cantò con voce bassa e tremula. « Und läßt uns im Stich einst das treulose glück, und kehren wir nicht mehr zur heimat zurück, trifft uns die todeskugel, ruft uns das schicksal ab, ja, schicksal ab. Dann wird unser U-boot ein ehernes grab [3] ».
Il Panzerlied. Con l’ultimo alito di vita, quell’uomo cercava ancora di mostrare il proprio attaccamento verso il regime. Josef ed Eno gli si avvicinarono guardinghi, non c’era da star sicuri con quell’uomo, poteva riservare sgradevoli sorprese anche in quelle condizioni. Eno gli toccò con la punta dello stivale uno dei piedi. Kurtz non reagì. Il petto si alzava e abbassava a un ritmo sempre più debole, quasi quella posizione gli impedisse di respirare correttamente. La mascella pendeva inerme e un liquido denso e trasparente gli colava sui pantaloni formando piccole chiazze scure. Lo sguardo vacuo, simile a quello dei pesci, era indirizzato verso un punto imprecisato. Josef capì che quell’uomo stava morendo. La sua sete di vendetta si affievolì all’istante, come un fuoco sul quale venga gettata acqua fredda. «Cosa intendi fare di lui?» chiese Eno, guadandolo con misericordia. Josef non rispose. Lasciò che la mente si sgombrasse da ogni pensiero e il cuore da ogni desiderio di rivalsa. Non c’era più un nemico da combattere, quello non era più nemmeno un uomo. La vendetta migliore, si disse, è quella che non si compie. Si ò la mano sporca e insanguinata tra i capelli ormai ingrigiti e senza riflettere iniziò a recitare. « Non era un nuovo terrore che così mi assaliva, ma l’alba ben più commovente di una speranza. Questa speranza derivava in parte dalla memoria, in parte dalla osservazione presente.» Eno volse lo sguardo nella sua direzione, i suoi occhi sembrarono brillare di una tenerezza inaspettata, la voce sommessa del Vecchio gli aveva riportato alla memoria qualcosa di incredibilmente familiare, come un quieto abbraccio nella realtà trasfigurata dall’orrore di morte e malattia di quei giorni che, forse, neanche il più grande dei poeti avrebbe saputo mai descrivere. «Queste parole, dove le hai sentite?» «Non sentite, ma lette. Provengono da un racconto di Edgar Allan Poe: Una discesa nel Maelström.» «È curioso che le abbia tirate fuori proprio adesso, in questa circostanza.» Eno socchiuse gli occhi cercando una spiegazione che non avrebbe mai potuto dare. Erano bastate poche frasi a rendere più umana quella scena, come uno scambio di parole tra gentiluomini qualsiasi, come se tra quelle luride pareti del
sommergibile non si fosse appena consumata una tragedia che di umano non aveva nulla. Nessuno dei due uomini poteva rendersi conto di quanto assurdi fossero quei pensieri semplici nel dramma sanguinolento intorno a loro. «Sono uscite così, in effetti non ricordo neanche di averlo letto quel racconto.» «Pandora, aprendo il vaso, liberò tutti i mali del mondo sotto forma di spiriti maligni della vecchiaia, gelosia, malattia, pazzia e vizio. Ma sul fondo del vaso rimase Elpis, la speranza, che non fece in tempo ad allontanarsi prima che il vaso venisse chiuso di nuovo. Aprendo il vaso, Pandora condannò l’umanità a una vita di sofferenze, ma…» In quel momento Kurtz emise un gemito strozzato. Il dialogo gentile, quelle spiegazioni cattedratiche a cui Eno avrebbe voluto volentieri abbandonarsi, lasciò immediatamente il posto a una fredda e calcolata azione che, stavolta, sarebbe risultata definitiva. Kurtz sembrò scuotersi dal torpore innaturale in cui era finito, forse un barlume di consapevolezza ò nella sua mente, sotto gli sguardi aridi di Josef e Eno. Le mani, protese verso i suoi carnefici, tenevano ancora il vaso in equilibrio precario. Quello sforzo doveva costargli un gran sacrificio perché ben presto le braccia crollarono sotto il peso della reliquia. Josef, con uno scatto, fece in tempo ad afferrare il prezioso cimelio e lo tenne ben stretto tra le sue mani. Kurtz mosse la mascella in quello che parve un sorriso stentato, poi si lasciò andare. La testa ciondolò due volte per poi abbandonarsi contro il petto. Il cuore diminuì i battiti e l’S S-Sturmbannführer Hermann Kurtz morì nella miseria. «Credo sia andato» disse Eno senza emozione nella voce. «Sì, è finita.» Josef si rigirò tra le mani il vaso di terracotta. Una serie di piccole crepe si diramavano sulla sua superficie per convergere tutte nello stesso punto. Il foro provocato dalla martellata inferta da Garrn da cui, leggenda voleva, sarebbero usciti gli spiriti maligni, era stato rattoppato con del materiale simile al gesso. Josef toccò il vaso con delicatezza, quasi una carezza pietosa, un tenero preludio come di commiato. Guardò Eno per pochi istanti; gli sguardi dei due uomini si
fissarono l’uno nell’altro, risolutivi e glaciali, con un cenno d’intesa profonda. Eno asserì, con un lieve cenno del capo. In pochi attimi il loro destino, e quello dell’U-boot, si stava compiendo. Josef sollevò le braccia e scaraventò il vaso a terra. La terracotta si ruppe in una miriade di pezzi che schizzarono dappertutto. «Ben fatto, Josef» disse Eno lasciandosi cadere contro il pannello del motore elettrico di sinistra. «Ben fatto.»
Capitolo 29
Eno soffocò un gemito di dolore. La garza era incollata alla ferita e solo dopo qualche strappo si arrese all’evidenza: non valeva la pena continuare a soffrire in quel modo, ormai la ferita era infetta e non c’era più nulla con cui medicarla. Si sarebbe dovuto procedere all’estrazione, ma il foro di proiettile era in una posizione impossibile da trattare in quel modo barbaro. Lasciò cadere il lembo di cotone umido di sangue e secrezioni e s’infilò la mano nella tasca della giacca di pelle. Non appena le dita, intorpidite dal freddo, si strinsero sulla piccola siringa di morfina, avvertì un tonfo al cuore. Aveva rimandato quel momento per troppo tempo, ma ora non se la sentiva più di posticipare quel po’ di sollievo che solo l’oppioide poteva dargli. L’ultima dose: l’aveva tenuta in serbo per il momento giusto. Dicevano che quella robaccia creasse dipendenza, ed era vero, se ne avesse avuta una buona scorta, di certo ne avrebbe fatto un uso incontrollato, non era uomo da tollerare il dolore fisico. Si portò agli occhi la siringa e ne afferrò il cappuccio con l’indice e il pollice. Il tappo gli cadde di mano, il freddo aumentava giorno dopo giorno e non c’era modo di riscaldare quegli ambienti ridotti a un girone infernale. L’unica concessione sulla quale si erano accordati era stata quella del ricambio d’aria, una necessità primaria se non volevano soccombere all’asfissia. In tutto il sommergibile non c’era più un luogo sicuro e quel posticino tranquillo, che tanto aveva ricercato durante il viaggio, sembrava aver lasciato il posto alla desolazione e al tormento. Da poppa a prua, non c’era luogo che non avesse subito un radicale cambiamento e che non contenesse le anime di coloro che lo avevano abitato e in esso avevano perso la vita. La camera dei Lords, il ricovero dell’equipaggio, un tempo pieno di risate e speranze, era ridotto a una latrina, dove gli unici padroni erano i topi. Topi, impossibile dire come avessero fatto a salire a bordo e a proliferare in quell’inferno. Gli alloggi ufficiali, un tempo orgoglio dell’U-666, conservavano ancora i corpi di quegli sventurati che avevano consumato nel supplizio la loro vita nelle brande dell’infermeria. La puzza della decomposizione riempiva le narici raggiungendo quei punti del cervello dove l’odore viene trasformato in
incubo. La camera di manovra, centro nevralgico del sommergibile, così come l’alloggio dei sottufficiali, era stata tramutata in una camera a gas, dove gli acidi degli accumulatori si erano mischiati all’acqua salata creando una nube tossica di gas cloro. La sala macchine, i muscoli del sommergibile, era incredibilmente ancora in funzione, i due grossi diesel erano lanciati a pieno regime con una velocità di quattordici nodi. Il loro ritmo frenetico scandiva il conto alla rovescia verso la fine di quel tormento. E infine il locale di poppa. Tana e tomba di colui che aveva innescato quella faida di morte e ora ricovero per gli unici due sopravvissuti. Eno scosse la testa e ripose la siringa nel taschino della giacca e pensò ad altro. L’avrebbe conservata per dopo. Intinse la pezza in una ciotola d’acqua gelata e la posò con delicatezza sulla fronte del Vecchio. Josef si era ammalato due giorni prima, quando le temperature avevano cominciato a calare repentinamente. La notte erano costretti a stringersi l’uno con l’altro, infagottati nelle poche coperte rimaste indenni dal contagio. Scostò i capelli ormai completamente bianchi e vi depose la pezza, preoccupandosi di coprire l’intera fronte. Josef gemette sotto quel tocco gelido. «Perché l’Antartide?» chiese Eno cercando di sorridere. «Che razza di uomo vorrebbe costruire una base nel posto più inospitale del mondo.» «Un uomo con molti segreti» rispose Josef, ricambiando il sorriso. «Probabilmente è così.» Rimasero accovacciati in quella posizione per molto tempo, finché la spossatezza non si tramutò in sonno.
*
Eno si svegliò, allarmato dal ruggito dei diesel. Un rumore anomalo proveniva dalla sala macchine, un suono che rompeva il ritmo ipnotico e costante dei pistoni, come uno strumento stonato in un’orchestra.
Si alzò a fatica, portando con sé una delle coperte. Prima di andare si accertò che il Vecchio stesse ancora dormendo e che fosse ben al caldo. Quel rumore non la smetteva di confondergli le idee, facendogli perdere il contatto con quella sfera di ordine e sicurezza che si era costruito. Afferrò la maniglia del portello e tirò con le poche forze rimaste. Il ghiaccio ostacolava i suoi sforzi, bloccando l’apertura. Un calcio ben assestato liberò i cardini dalla morsa del gelo e il portello si aprì. Un fumo denso e nero lo accolse nel locale motori. La prima impressione fu quella di qualche problema ai tubi di scappamento. Il suono metallico e fuori fase, però, richiamò subito la sua attenzione sul motore di dritta dove i pistoni sembravano muoversi senza un equilibrio ben strutturato, creando un ciclo non più armonico. Eno corse alla leva della mandata della nafta e interruppe il flusso. Il ricordo dei giorni ati con il capo Nagelschmitz si riaffacciò rapido alla sua memoria e i gesti divennero semplici e sicuri. Poco dopo il diesel di dritta si spense e rimase solo il ritmo fragoroso del suo gemello. Eno soffiò fuori l’aria in segno di rassegnazione, diede una pacca al montante del motore di sinistra e gli scoccò un bacio. «Fa’ il bravo. Non tradirci, almeno tu.» Quando si riaffacciò nel locale di poppa, trovò Josef sveglio ad attendere il suo ritorno. La testa era adagiata su un cuscino e gli occhi, infossati in quel volto scavato e grigio, fissavano il soffitto. Se non fosse stato per l’aria del suo alito, condensata a causa del freddo, Eno l’avrebbe dato per morto. «È superstizioso, Eno?» chiese il Vecchio, muovendo le labbra quel tanto che bastava per far fuoriuscire le parole. Eno notò che Josef aveva ripreso a dargli del lei. Con un sorriso a mezza bocca decise che lo avrebbe assecondato. «È una domanda curiosa a questo punto, non crede?» «Può non rispondere, ma ogni buon marinaio lo è, o almeno dovrebbe esserlo.» «Ma io non sono un marinaio, ricorda?» Il Vecchio sorrise scoprendo i denti ricoperti da una patina marroncina. «Lo è di diritto, ormai. Parola mia, Eno, per la prossima crociera la proporrò come primo ufficiale.»
Eno rimase sgomento. L’istinto gli disse di cambiare la pezza sulla fronte, ma i lineamenti del Vecchio cambiarono espressione e una risatina allegra uscì dalla sua bocca. «La sto prendendo in giro, caro Sartori. So benissimo che la mia prossima crociera vedrà lidi ben più virtuosi di questo. Chissà se ci sono sommergibili in paradiso.» «Oh, può scommetterci che ci sono» Eno mimò con la mano un sommergibile e la fece calare in un mare immaginario, «e sono pronto a scommettere che vanno giù, giù fino all’inferno a mettere siluri nel culo di Satana!» «Il suo ottimismo è contagioso, Eno. A ogni modo, mi piacerebbe comandare uno di quei suoi sommergibili, sa?» «Lo farà, Josef, lo farà di certo. Lassù sanno riconoscere un buon capitano quando lo vedono.» Il Vecchio rimase in silenzio per parecchi minuti ed Eno non interruppe i suoi pensieri. «I marinai convivono fin dal primo momento con la superstizione» riprese il Vecchio all’improvviso, «e quelli imbarcati sugli U-boot ancora di più degli altri. Senta questa.» Si tirò su con il collo ma quel movimento gli costò una fitta di dolore. «Il comandante dell’U-48, Herbert Schultze, soprannominato Vaddi dai suoi uomini, aveva ideato un suo rituale per indicare la rotta al timoniere. La esprimeva sempre sotto forma di numero multiplo di sette.» Il Vecchio fece una smorfia, poi continuò. «Quando il nuovo comandante dell’U-48, Hans Rudolf Rösing, ordinò di cambiare rotta su due due sette, si era sentito rispondere dal timoniere: rotta due due quattro. Rösing andò su tutte le furie, lo avrei fatto anche io, sa? Ma poi gli fu spiegato che la superstizione era tenuta in gran conto dagli uomini dell’U-48. Il vecchio Rösing, uomo arguto, si adeguò a quelle disposizioni e sa una cosa? Quel sommergibile sembra sia benedetto dagli dei del mare. Non una carica di profondità l’ha mai sfiorato. Pare proprio che i Tommies non riescano a prenderlo.» «Va bene, allora, accetterò solo multipli di sette se decidesse di cambiare rotta.» «Non lo farò, quel che è deciso è deciso.»
«E io sarò con lei fino a che le forze mi terranno in piedi.» Il Vecchio si ritirò ancora una volta nei suoi pensieri ed Eno ebbe il tempo di riflettere su quanto avevano concordato nei giorni precedenti. Ormai non c’era carburante a sufficienza per tornare indietro, ammesso e non concesso che il loro stato di salute glielo avrebbe permesso, quindi si presentava l’esigenza di non vanificare il sacrificio di tanti bravi ragazzi, marinai dell’U-666. Josef iniziò a prendere in considerazione l’ipotesi di giocare un’ultima carta, un colpo di mano che avrebbe potuto appianare i conti con quei pazzi delle SS e le loro oscure mire. Se solo fossero riusciti a portare a destinazione il sommergibile, il suo carico di morte avrebbe fatto il resto, mettendo a tacere i loro obiettivi perversi una volta per tutte. La base 211 si sarebbe tramutata in un luogo maledetto e abbandonato da Dio, e la sua struttura segreta, nascosta tra i ghiacciai dell’Antartide, avrebbe sigillato per sempre quell’immenso potere. Il potere del vaso di Pandora sarebbe stato di nuovo suggellato, ma stavolta sotto tonnellate di ghiaccio. Eno lanciò un’occhiata distratta al Vecchio. Gli occhi azzurri erano l’unica cosa ancora vitale che c’era in quell’uomo. Il corpo e lo spirito, consumati dalla malattia e dalle privazioni, si aggrappavano alla vita con le ultime forze rimaste. I capelli e la barba si erano tinti di bianco, dando l’impressione di trovarsi al cospetto di un uomo ben più vecchio del giovane Kapitanlieutnant imbarcato solo un mese prima, e per quanto Eno si fosse sforzato di dare la colpa alle tensioni subite e allo stress, non riusciva a togliersi dalla testa che il demone della vecchiaia avesse trovato dimora nel corpo di Josef Lüth. Per un istante si chiese se i giorni precedenti fossero stati solo superstizione, o la lucida follia di una lunga navigazione. L’orrore che i suoi occhi avevano visto e le sue mani toccato in alcuni momenti sembrava solo frutto di menti sconvolte e annebbiate dall’incanto del mare, dai racconti della guerra e da quel mucchio di superstizioni che non solo i marinai si portavano dietro, ma che trovavano dimora nei libri di storia di cui la sua vita di archeologo si era nutrita. Eno frugò tra le coperte e gli stracci accumulati in quel piccolo spazio rimasto ancora integro e afferrò una scatoletta cilindrica. «L’ultima porzione» guardò meglio l’etichetta sbiadita. «Crauti con manzo.» Prese il coltello dalla punta ormai scheggiata e fece forza sulla sommità per
bucare la sottile lamina di metallo. L’odore della carne gli provocò un eccesso di salivazione, pur sapendo che quello sarebbe stato il loro ultimo pasto. A parte qualche galletta ammuffita, quella era la sola razione di cibo commestibile a bordo. Eno ne aveva trovata una piccola scorta nel gabinetto usato come dispensa, nascosta dietro le tubature. Forse il tentativo disperato di qualcuno dell’equipaggio di assicurarsi una riserva di cibo personale per i momenti difficili. Prese un pezzo di manzo con il dito e lo avvicinò alle labbra del Vecchio. «Mangi, Josef. Ha bisogno di rimettersi in forze» mentì. Il Vecchio parve non volerne sapere. Le piccole labbra, ridotte a una fessura screpolata, rimasero serrate l’una sull’altra. «Deve mangiare» insistette. La fessura si aprì appena ed Eno vi strofinò la carne umida, lasciando che il succo penetrasse all’interno. Il sapore della carne convinse Josef ad aprire la bocca e a masticarne piccoli pezzetti alla volta. Quando ebbero terminato la loro ultima cena, Eno si accucciò accanto al compagno e si tirò le coperte fin sul naso. Il freddo intorpidiva le ossa e i sensi e piccole stalattiti trasparenti si erano formate sul soffitto e sulle tubature.
*
In quella che Eno immaginò fosse la notte antartica, si svegliò di soprassalto. Si guardò intorno con il cuore che batteva all’impazzata e l’acuta sensazione di aver udito una musica o una melodia. La coperta era scivolata giù, lasciandogli scoperto il volto, che ora era ingioiellato da un leggero strato di brina. Si strofinò le guance cercando di riattivare la circolazione ma una fitta alla spalla lo fece desistere. Esasperato da quella condizione miserevole alla quale erano giunti dopo giorni di sopravvivenza, afferrò la siringa dal taschino e se la piantò diritta sulla ferita. L’effetto della morfina, complice la vicinanza al cuore, fu
immediato e un calore si sprigionò dalla spalla verso tutte le estremità. Eno si rigirò tra le coperte fino a cercare il volto del Vecchio. «Comandante?» chiese piano. Il Vecchio non rispose. «Comandante?» insistette. Nessun movimento. Le labbra restarono chiuse, immobili nel loro rigido pallore. Eno gli posò una mano sulla fronte e chinò il capo in segno di rispetto per quell’uomo. «È stato un onore servire sotto il suo comando, Josef, ma ora le chiedo il permesso per un’ultima manovra.» Si alzò e, senza attendere una risposta che non sarebbe mai arrivata, ripercorse quei pochi metri attraverso la sala macchine e gli alloggi un tempo pieni di vita. L’esigenza del momento gli diede la forza e il coraggio di intraprendere quell’azione meditata a lungo. La camera di manovra era al buio, solo uno spiraglio di luce proveniva dal locale attiguo consentendogli di orientarsi tra le strumentazioni. Eno si lasciò cadere sul seggiolino del timoniere e indugiò sulla bussola puntata sui centottantacinque gradi. Seguivano la rotta tracciata in precedenza da Zielinski e che ora sembrava non avere più molta importanza per nessuno. La spinta del diesel era diminuita a causa dell’avaria subita dal motore di dritta, ma ancora sufficiente a svolgere il suo compito. Doveva comunque affrettarsi. Eno temporeggiò giocherellando con la piccola pasticca bianca che teneva nel palmo della mano. I brividi di freddo si erano fatti più violenti e l’infezione si stava estendendo rapidamente. La soppesò senza smettere di fissarla, poi alzò la maschera del respiratore e la ingoiò senza rifletterci troppo. Tirò un respiro profondo, inalando gli ultimi residui di ossigeno. Aveva tenuto quella piccola scorta d’aria pura proprio per quel momento. Poggiò la fronte contro la paratia e attese paziente che il Pervitin iniziasse la sua azione stimolante.
*
Forse si addormentò, o forse sognò a occhi aperti, ma ben presto una melodia armoniosa gli riempì le orecchie con le sue dolci note. Eno si riebbe di soprassalto, guardandosi intorno con frenesia alla ricerca della fonte di quella musica. A poppa, proprio dietro il pozzetto del periscopio, una nebbia iniziò a volteggiare leggera. Le sue volute si lacerarono appena, giusto quel poco da consentire la visuale. Apparve uno sperone di roccia e da quella roccia antica proveniva la melodia. «Siete voi?» chiese Eno. Il timore che potessero spaventarsi gli fece abbandonare l’idea di muoversi. Come accadde la prima volta, sarebbero state loro a scegliere di concedergli l’onore. Rimase in attesa di un segno, senza muovere un muscolo, persino i tremori scomparvero. «Ho capito» disse annuendo. Le Muse gli avevano parlato, ora si fidavano di lui, non erano più intimorite dalla sua presenza. La loro voce era soave, tuttavia potente e intensa. Del tutto simile all’acuto stridore del ferro. Eno ricordava il tormento patito del cacciatorpediniere quando le sue paratie si erano spaccate sotto l’onda dell’esplosione del loro siluro. Lo stesso suono, la stessa terribile agonia, ora usciva dalle ancestrali bocche delle Muse. Un suono spaventoso, messaggero di tetre rivelazioni. Il sommergibile ebbe un sobbalzo, come una barca che prende in pieno un’onda troppo grande. Eno fu scaraventato contro il pozzetto del periscopio e batté forte la spalla contro il metallo. Lampi di luce e dolore gli riempirono la testa e per un attimo tutto il suo mondo sembrò vorticare all’impazzata, poi il canto riprese con più energia: acuto e profondo quasi quella melodia stesse per toccare il suo apice. Divenne astiosa, raggiungendo un’intensità che Eno non seppe più tollerare. L’aria arrivò con un rombo cupo che aggiunse nuova vita alla musica. Eno si trasformò in un novello Pan e, con il suo flauto divino, intonò una melodia primordiale sulle cui note le Muse muovevano delicati i di danza. La musica salì di volume e fu come se una cascata apparisse per incanto dal nulla. Un’onda di distruzione avvolse tutto. «Hippocrēne, la fonte del cavallo!» urlò di meraviglia, prima di essere travolto dall’onda gelida.
Epilogo
«Non voglio problemi là sotto. Tenete a mente le norme di sicurezza e attenetevi al protocollo, sono stato chiaro?» «Limpido» rispose annuendo Liev Timofeev, primo sergente dei Delfin. «Vale anche per te, Fedoseyev?» chiese il sottufficiale con il compito di assistente di superficie. Era un uomo ben piazzato con un grosso collo taurino e la mandibola sporgente. I capelli biondi tagliati a spazzola gli davano quell’aria da soldato tutto d’un pezzo che, a ben vedere, era il marchio di fabbrica dei corpi speciali russi, gli Spetsnaz. Il secondo sergente Georgi Fedoseyev alzò il pollice. Era il più basso in grado nella squadra scelta per quella missione, ma contava al suo attivo già parecchie ore di immersione in ambiente ostile, al pari dei suoi superiori di grado. Anna si strinse nel suo giaccone e continuò a tenere d’occhio i preparativi per l’immersione. Dopo la comunicazione alla stazione artica di Novolazarevskaja del ritrovamento del relitto, la notizia era stata trasmessa alle alte cariche del Glavnoe razvedyvatel’noe upravlenie, o GRU, il servizio di intelligence russo. Da lì a poche ore, i militari avevano preso il comando delle operazioni della stazione antartica e ogni attività era stata interrotta per evitare fughe di notizie o chissà cos’altro. Una volta tornati alla stazione, Anna e Anatoliy erano stati interrogati per ore e il Colonnello del GRU, Vatslav Suvorov, e il suo staff gli avevano comunicato il loro encomio per la scoperta. Tuttavia, Anna non poté far a meno di sentirsi prigioniera in casa. Da quel momento era iniziato l’isolamento, sempre per quell’atavica paura dei militari di veder andare in fumo il loro velo di riservatezza. Doveva essere una malattia contagiosa, contratta negli uffici dell’intelligence, o magari gli veniva impiantata chirurgicamente. Anna sorrise a quell’idea. A ogni modo, l’isolamento era terminato quando il colonnello Suvorov le aveva annunciato personalmente che sarebbe stato onorato di averla a
bordo durante le operazioni di recupero. Ovviamente, alla domanda lecita su cosa si dovesse recuperare a bordo di un rudere mezzo sepolto sui fondali dell’Antartide, i militari si trincerarono dietro un secco segreto militare. «Alekseev e Timofeev scendono per primi. A seguire Sokolov e Fedoseyev. Controllate sempre la posizione del vostro compagno e non allontanatevi dalla sagola di sicurezza finché non avrete l’ok, ricevuto?» «Affermativo» risposero in coro gli uomini del Delfin, l’unità Spetsnaz aggregata alla Marina russa, specialisti nelle operazioni di perlustrazione, sabotaggio acquatico, minaggio e altri tipi di offensive marine. «Molto bene. Attendete il mio segnale prima di buttarvi» disse Iliyn mentre controllava i rubinetti delle bombole. Era essenziale che venissero aperti solo prima del salto e che la prima inspirazione avvenisse con il primo stadio sommerso e il secondo completamente allagato. A quelle temperature, gli erogatori rischiavano di congelarsi con il pericolo che il flusso d’aria divenisse continuo e la conseguenza di vuotare le bombole in poco tempo. Iliyn si posizionò davanti al capo missione, il primo sergente Alekseev, e gli diede una scossa decisa al gran facciale che gli proteggeva il volto, sistemandoglielo. «Ci sei, Ioann?» chiese annuendo. «Mai sentito meglio» rispose lui, dando un colpo con il guanto di neoprene sulla spalla del suo superiore. «Allora andate!» Iliyn aprì il rubinetto dell’aria e si fece da parte per far saltare il primo uomo della squadra. Non appena fu in acqua, la stessa procedura toccò al secondo. Anna rimase a guardare finché l’ultimo uomo, quello con la videocamera, non fu entrato in acqua, poi, seguì l’ufficiale all’interno della Nadezhda, fin nella sala controllo, dove si sarebbero svolte le operazioni di supervisione e comando. La stanza era illuminata dalle solite luci soffuse dei monitor e dalle fluorescenze dei sistemi di rilevamento. Tutto appariva tranquillo e persino la presenza di quegli sconosciuti sembrava non aver alterato troppo lo stato di monotonia che si respirava a bordo.
Anna inspirò facendosi coraggio e percepì subito una nota stonata tra gli odori fin troppo familiari della stanza. Un sorriso le piegò le labbra quando notò con sorpresa che persino le alte sfere del GRU cedevano alle lusinghe di un buon dopobarba. Mentre si avvicinava alla sua postazione, si concesse un’occhiata incuriosita al colonnello Suvorov. Era piegato con le braccia conserte sullo schienale di una delle sedie della postazione di controllo. Gli occhi semichiusi e i lati della bocca piegati verso il basso in un’espressione imbronciata, quasi quello che stesse vedendo nella fila di monitor non fosse di suo gradimento. Anna era abbastanza sicura che di tutti i dati che il colonnello poteva leggere sugli schermi la grande maggioranza fosse incomprensibile per lui. C’era dunque qualcos’altro che lo turbava. Gli ò accanto e lo sfiorò volutamente mentre sedeva alla sua postazione. L’uomo riacquistò la posizione eretta, probabilmente imbarazzato per essersi fatto trovare in difetto. «Se mi lasci solo con questi energumeni un’altra volta, giuro che te lo faccio vedere da molto vicino il tuo relitto» sibilò Anatoliy. «Ero a prendere una boccata d’aria.» «O magari stavi sbirciando mentre si vestivano. Non lo perdi il vizio di sbirciare, eh? Non ti bastano i calamari? Ora ti apioni anche ai militari del…» «Ci sono novità, signor Knyazev?» La voce del responsabile della stazione di Novolazarevskaja, il professor Voznesenskij, lo fece ammutolire di botto. «Nessuna, professore, tutto nella norma» rispose Anatoliy. «Molto bene. Stia concentrato» lo riprese Voznesenskij mentre faceva spazio all’assistente di superficie Iliyn. Iliyn prese posto accanto ad Anna e si mise sull’orecchio destro la cuffia del suo comlink. «Squadra Uno, qui superficie, mi ricevi, o!» Una serie di scariche statiche si udirono dalla piccola cuffia dell’ufficiale. Poi una voce scoppiettò ovattata dall’auricolare. «Roger, Squadra Uno, vi metto in viva voce. Lo dico soprattutto per te, Sokolov,
modera il linguaggio, abbiamo una signora qui.» «Agli ordini, signore» lo schernì Sokolov. «Tra poco farà talmente freddo che non avrai più tanta voglia di scherzare, sergente» lo redarguì Iliyn. «Se è per questo, mi si è ghiacciato l’uccello già da un pezzo.» Probabilmente dovette rendersi conto di aver mancato all’avvertimento e quindi si affrettò ad aggiungere: «Il membro, sì insomma, è freddo qui sotto, molto freddo, signore». Anna sorrise e notò che anche l’ufficiale al suo fianco sogghignava. Il cameratismo tra quegli uomini doveva essere fondamentale per il loro lavoro e forse la sua presenza era d’impaccio al normale svolgimento della missione. Decise di non preoccuparsene e inserì la sua per accedere al pannello di controllo dei dati dell’AUV, il Veicolo Autonomo Sottomarino . La missione era stata pianificata basandosi sugli elementi forniti dalle loro rilevazioni e. per quanto Anna fosse sicura di non aver commesso errori di valutazione, decise che avrebbe dato un’altra occhiata ai dati, più per non sentirsi inutile che per scrupolo. Il comando delle operazioni era in mano al GRU e ai suoi uomini, lei e Anatoliy erano presenti solo in vece di supervisori alla strumentazione di bordo. «Squadra Uno in discesa lungo la linea.» La voce del primo sergente Alekseev squillò nell’altoparlante della consolle. «Bene, Squadra Uno» rispose Iliyn, «raggiunti i sei metri confermami la presenza della bombola.» «Puoi scommetterci. Liev, stammi dietro, segui la mia luce.» «Sto incollato al tuo culo da cosacco» rispose allegro Timofeev, facendo riferimento alla provenienza del primo sergente. Alekseev era nato a Rostov e si trascinava dietro il suo accento marcato come un segno distintivo. «Ehi, là sotto, un po’ di contegno, c’è una signora se non l’avete capito!» sbottò Sokolov. «Deve perdonare i miei ragazzi, signorina Uljanova, il freddo tende a ingrandire
il loro ego e a rimpicciolire il loro cervello» disse in maniera pacata il colonnello Suvorov. «Nessun problema, colonnello, sono abituata a questi slanci di testosterone.» Anna lanciò un’occhiataccia maliziosa ad Anatoliy, che arrossì imbarazzato. «Squadra Due, iniziamo la discesa. Il frazil-ice è stabile, sembra di nuotare nel brodo» comunicò Sokolov dopo qualche istante. «Forza allora, prima che si compatti e vi seppellisca là sotto» lo schernì Iliyn. A quelle temperature, circa -1,86 °C, l’acqua marina iniziava a congelare e il ghiaccio non ancorato alla linea di costa o a strutture come gli iceberg formava il pack, sottili cristalli di ghiaccio che, sotto le forze delle correnti oceaniche, venivano rimescolati fino a formare uno strato appena consistente di ghiaccio marino, detto frazil-ice. Anna sapeva bene che la formazione del pack era lenta e ava sotto vari stadi di consistenza del ghiaccio; era del tutto improbabile che il frazil-ice si compattasse a tal punto da formare uno stato solido tale da compromettere la missione. Tuttavia sorrise, fingendosi divertita per quello scambio di battute tra camerati. «Squadra Uno ai dodici metri, continuiamo a procedere lungo la linea di sicurezza» comunicò Alekseev «Ricevuto Squadra Uno, ve la state prendendo comoda laggiù» rispose Iliyn, premendo il tasto del comunicatore sulla consolle. «La prossima volta vediamo di fare a cambio, Nikolay.» «Non me lo permetteresti mai.» «Non sia mai che un ufficiale si bagni il vestitino!» «Chiudi quella bocca e tieni gli occhi aperti. Non sappiamo cosa aspettarci là sotto. Potreste trovare fili in sospensione o elementi verticali, prestate la massima attenzione e attenetevi al protocollo!» Iliyn riportò la concentrazione dei suoi uomini al massimo. «Roger!» ripeterono in coro gli uomini.
«Videocamera in funzione tra tre, due, uno! Siete in onda, signori, sorridete!» disse Georgi Fedoseyev mentre attivava la videocamera. «Vi vediamo Squadra Due» rispose Iliyn, quando il granfacciale di Sokolov apparve su uno degli schermi della sala controllo. Anna ebbe un brivido di eccitazione, finalmente avrebbe avuto una visuale diretta sul fondale oceanico, niente a che vedere con l’interminabile sfilza di dati delle mappature tridimensionali inviati dall’OAV. «Scendiamo anche noi, superficie!» disse Sokolov, indicando con l’indice la linea di sicurezza che spariva negli abissi sotto di lui. «Ricevuto Squadra Due, stesse raccomandazioni. Fate attenzione.» Sokolov afferrò la sagola di nylon e, dopo essersi dato una spinta con le pinne, iniziò la discesa seguito a meno di due metri di distanza da Fedoseyev e la sua videocamera. «Venti metri, ancora nulla in vista» comunicò Alekseev. «La visibilità è buona, continuo a scendere.» «Hai tutto il tempo del mondo, Ioann, fa’ con calma.» Iliyn si grattò la nuca muovendo rapidamente le dita. Un gesto dettato dalla tensione, immaginò Anna. Forse, trovarsi rinchiuso tra quelle quattro mura, piuttosto che immergersi con i suoi compagni, doveva sembrargli una specie di tortura. Glielo si poteva leggere negli occhi freddi e intelligenti. Tuttavia, l’età e il grado di ufficiale, con ogni probabilità, lo avevano relegato a ben altre mansioni, mettendo a nanna la sua audacia. «Trenta metri» disse a bassa voce Iliyn, leggendo i dati del profondimetro del primo sergente. I loro computer subacquei erano collegati a un’unità centrale che mostrava i valori vitali tramite un cardio-frequenzimetro per valutare lo stato di affaticamento del sub, oltre a ricostruire l’attività subacquea e a calcolare la saturazione dell’azoto. La videocamera inquadrò Sokolov intento a scendere lungo la linea di sicurezza. Piccole bolle salivano in superficie danzando lungo la linea bianca. «Superficie!» La voce di Alekseev squillò negli altoparlanti. Anna saltò contro
lo schienale della sua sedia. Dietro di lei il colonnello Suvorov si fece avanti mettendosi tra l’assistente di superficie e la sua postazione. «Vedo qualcosa, è ancora lontano, ma l’ho visto chiaramente.» «Spiegati meglio, Ioann» ordinò Iliyn. «Una struttura verticale, un’antenna o forse il tubo del periscopio, impossibile dirlo con esattezza. Continuo a scendere.» «Molto bene, procedi con la massima cautela.» Iliyn si voltò verso il colonnello e piegò un labbro in quello che Anna percepì come un sorriso di soddisfazione. «Sembra che l’abbiamo trovato, colonnello.» «Ottimo lavoro, ragazzi. Ora vediamo di raggiungere il relitto.» Il colonnello si alzò in posizione eretta e incrociò le braccia. Dopo alcuni minuti di estenuante attesa, la videocamera inquadrò qualcosa, appena sotto il corpo di Sokolov che scendeva lentamente con i guanti di neoprene ancorati alla sagola. Un tubo metallico, ricoperto di incrostazioni dovute alla lunga permanenza sul fondale, riempì tutto lo schermo. «Sì!» si lasciò sfuggire il colonnello. «Ci siamo, superficie. Sembra proprio che qui abbiamo un sommergibile o almeno quello che ne rimane. Georgi, muovi il culo e porta qui quella videocamera.» «Il tempo che ci vuole, sergente. Ho davanti quel muflone di Sokolov che crede di essere in fila per il rancio.» In risposta alla provocazione, Sokolov iniziò a pinneggiare ancor più velocemente scendendo verso il relitto. Il video mostrò un’intelaiatura metallica completamente accartocciata, poi le torce degli uomini illuminarono la struttura mettendone in risalto i contorni. «Santo cielo, devono essersela vista davvero brutta» esclamò Iliyn. «È evidente che chiunque abbia provocato quei danni non voleva che questo sommergibile arrivasse intero a destinazione.» Il colonnello parlò senza
emozione, quasi fosse a conoscenza di un segreto inconfessabile da tenere nascosto con ogni mezzo. «Lo vedete?» disse d’improvviso Fedoseyev nel suo comlink. «È incredibile!» La videocamera si spostò di alcuni gradi lungo la lamiera contorta e incrostata di esoscheletri marini. «Guarda qui, cazzo, non è incredibile?» Il monitor mostrò un’area sgombera da depositi e sedimenti, una piccola superficie liscia sulla quale un’insegna sembrava resistere imperterrita all’aggressivo clima antartico. La testa di un lupo nero si stagliava in tutta la sua inquietante bellezza. «Ora non ci sono più dubbi» sibilò il colonnello Suvorov, «quello è l’U-666 di Josef Lüth. Iliyn, dica ai suoi uomini di avvicinarsi alla plancia per controllare lo stato del portello stagno.» «Sentito il colonnello, ragazzi? Ascoltatemi bene, ora voglio che la Squadra Uno si porti con la massima attenzione sulla plancia e controlli lo stato del portello stagno. Nessuna iniziativa personale, attenersi agli ordini. Attendo il ricevuto.» «Roger!» risposero Alekseev e Timofeev. «Squadra Due, voglio una visione del ponte di prua a partire dal lato di babordo. Vediamo di capire se ci sono falle nella struttura prima di proseguire.» «Roger superficie!» rispose Fedoseyev, Sokolov si limitò ad annuire in camera. «Bene, buona eggiata, ragazzi.» Le immagini mostrarono il lato sinistro del sommergibile, dove i fasci di luce delle torce illuminavano la goffa struttura. La forma bombata della fiancata sembra intatta, se non fosse per le variegate forme di vita marine che l’avevano scelta come dimora. «Procediamo verso prua lungo la fiancata, anche se... porca troia, signore! Credo proprio che questa debba vederla.» Sokolov indicò un punto all’estrema poppa del relitto. Appena sotto il tagliareti, a partire dai portelli dei tubi lancia siluri, un profondo squarcio segava in due la fiancata, proseguendo oltre l’altezza dei timoni orizzontali di prua. Il metallo era ripiegato all’interno lasciando una linea
scura a testimonianza dell’impatto contro qualcosa di solido che aveva procurato quella profonda ferita. Non era opera di una bomba di profondità o di qualsiasi altro tipo di arma antisom, la slabbratura del metallo parlava da sola. «Che ne pensa?» chiese il colonnello a Iliyn. L’ufficiale scosse lentamente la testa senza togliere gli occhi dal monitor dove le immagini dello squarcio, ora più ravvicinate, avano lente. «Devono aver impattato contro qualche struttura solida. Un iceberg probabilmente.» «Lo penso anche io. Quello che mi chiedo, però, è come sia possibile che non si siano accorti del pericolo.» «Forse la torretta può darci qualche risposta. Probabile sia stata irraggiungibile dall’interno del sommergibile a causa del suo stato e questo deve aver reso impossibile l’avvistamento.» Iliyn alzò le spalle come a indicare che era l’unica cosa che gli veniva in mente. D’altronde stavano parlando di sistemi di rilevamento primitivi che facevano affidamento quasi esclusivamente nella vista acuta degli uomini di guardia. Per quanto quel tipo di guerra si fosse svolto appena ottanta anni prima, i loro sistemi di osservazione non erano poi così diversi da quelli delle Marine di centinaia di anni prima, dove a bordo delle navi ci si affidava solo ed esclusivamente alla vedetta in coffa. «Squadra Uno in posizione!» esclamò Alekseev. «Abbiamo raggiunto la plancia, o quello che ne rimane. È un gran bel casino quaggiù, a ogni modo sarete felici di sapere che il portello è rimasto miracolosamente intatto.» «Ottimo Squadra Uno. Attendi l’arrivo della Due e intanto preparatevi a entrare.» Sokolov e Fedoseyev si fecero strada lungo la coperta fino al rudere della torretta e da lì salirono quei pochi metri che li separavano dai loro compagni. Il monitor mostrò l’intrico di lamiera e barre di ferro che, con ogni probabilità, avevano costituito la struttura di un corrimano lungo tutta la erella che dalla plancia guardava a poppa. Anna scambiò uno sguardo accigliato con Anatoliy e si stupì di leggere sul volto del collega un’ombra d’inquietudine. Anatoliy sembrava agitato e non la
smetteva di muovere il ginocchio sinistro facendo vibrare tutta la postazione di controllo. «Squadra Due sul posto, attendiamo l’ok per iniziare le operazioni di apertura.» La voce di Alekseev giunse con una nota di eccitazione. «Ricevuto sergente, avete l’ok. Dateci sotto.» L’immagine galleggiò per alcuni istanti riprendendo le bombole di Sokolov poi, ando tra una miriade di bollicine d’aria, inquadrò il portello stagno e i due sub intenti a trafficare dentro una sacca nera. Uno dei due tirò fuori un attrezzo simile a un phon con una lunga canna all’estremità e indicò il portello al compagno. «Fuoco alle polveri» disse Fedoseyev dietro la camera digitale mentre il primo sergente iniziava il taglio ossielettrico sul meccanismo che teneva sigillato il portello. Una serie di bollicine uscì dall’ugello e, immediatamente dopo, una vivida luce arancione si accese. L’immagine fu oscurata da una nube torbida che si dissolse non appena il chiarore sparì. L’operazione di taglio richiese alcuni minuti, dopodiché gli uomini, tutti tranne l’operatore digitale, si disposero intorno al portello cercando una presa stabile che gli permettesse di sollevarlo senza troppi impedimenti. «Al mio tre, solleviamo insieme» ordinò Alekseev. Gli uomini annuirono. «Uno, due, tre!» Il portello sembrò non volerne sapere di aprirsi. Se ne stava ancorato ad anni di incrostazioni marine come una curiosa pietra tombale. Qualcosa dovette cedere nei cardini o nello strato di esoscheletri che avevano formato una cornice intorno al bordo e, infine, apparve una fessura. Timofeev introdusse una barra di ferro e fece leva esercitando una pressione costante finché il portello non si aprì del tutto ruotando sui cardini fino ad assumere la posizione eretta. I fasci delle torce dei tre uomini illuminarono l’interno, permettendo a quelli nella sala controllo di visionare la profondità oscura dell’enorme cetaceo di
metallo. «Superficie, entriamo!» Alekseev si sporse sull’apertura e, infilando la testa all’interno, fece leva sulle braccia calandosi nelle tenebre. «È più nero del culo…» Alekseev si interruppe ricordando le raccomandazioni dell’assistente di superficie. «È bello buio qui sotto. Timofeev, vieni a fare un po’ di luce.» «Ti seguo» rispose il sergente. Quando anche l’uomo addetto alla videocamera digitale iniziò la discesa, Anna intravide i primi elementi rimasti sigillati per quasi ottanta anni. Una piccola scala a pioli di metallo si faceva strada fino a un pavimento losangato coperto da sedimenti. L’acqua era torbida e la visuale perdeva definizione e colore. Quando l’immagine tornò dritta, s’iniziarono a vedere le pareti del sommergibile. Un groviglio di tubature, valvole, cavi attorcigliati e strumentazioni di un pallido color verde, ossidate dal prolungato soggiorno subacqueo. Era un angusto locale di pochi metri di lunghezza per ancora meno di larghezza. Al centro, proprio davanti la telecamera, c’era la scaletta che portava alla torretta dalla quale erano scesi. «Prestate la massima attenzione. Qualsiasi problema comunicatelo immediatamente.» Iliyn fece sentire la sua voce, infondendo sicurezza negli uomini. Anna immaginò che non dovesse essere facile stare là sotto, in un ambiente così proibitivo e a quelle temperature estreme. Quegli uomini dovevano essere stati sottoposti a un addestramento rigidissimo oltre che a un training psicologico molto accurato. «Quelli sono i timoni orizzontali e quello laggiù è quello verticale.» Il colonnello parlò con voce atona, come se stesse ripetendo una lezioncina imparata a memoria. «Da lì si governava tutto il sommergibile.» Il monitor mostrò tutta una serie di quadranti dal lunotto bianco, indicatori graduati, volani grigi e rossi, ripetitori, condotte, tubi, interruttori, ridotti a poco più che rottami. S’intravide una paratia proprio verso prua oltre la quale le torce dei sub illuminarono uno stretto corridoio. Uno alla volta entrarono attraverso
quella piccola apertura ritrovandosi in un ambiente buio e opprimente. Sul lato di dritta due cubicoli erano ancora ingombri di apparecchiature obsolete ormai ridotte a rottami inservibili mentre, proprio di fronte a essi, quello che rimaneva di una branda giaceva lungo la parete di metallo. Gli uomini, seguendo un protocollo ben definito, iniziarono a muoversi con cautela, ciascuno nella direzione assegnatagli durante i briefing. La videocamera continuava a mostrare palmo dopo palmo le grigie pareti di metallo, quasi l’operatore volesse documentare ogni centimetro quadrato di quell’ambiente. «Questo dovete vederlo!» disse Sokolov nel comlink. «Che succede, sergente?» si informò Iliyn. «Aspetti che la videocamera arrivi qui, non voglio rovinarvi la sorpresa. Georgi, porta qui quell’arnese.» L’immagine si voltò verso poppa e ripercorse il breve tragitto fino alla camera di manovra dove Sokolov attendeva dietro il tubo con la scaletta a pioli. Anna si sporse sulla sua postazione per osservare meglio quello che stava comparendo sul monitor. «Santo cielo!» esclamò quando quello che, a prima vista, sembrava proprio un volto umano riempì lo schermo. Osservando meglio quella macabra scoperta, iniziò a metterne meglio a fuoco i dettagli. Le parti molli sembravano essersi ritirate, raggrinzite come in quelle mummie conservate nell’antico Egitto. Il colorito era scuro e dalla consistenza legnosa. Le orbite apparivano come due pozzi neri. «Fai ciao al colonnello!» giocherellò Sokolov, toccando con l’indice il teschio mummificato. «Smettila, idiota, un po’ di rispetto per i camerati» lo redarguì Fedoseyev mentre spostava la videocamera su qualcosa di meno macabro. «Rispetto per chi? Sono sporchi nazisti e hanno avuto il fatto loro.» «Erano ragazzi e probabilmente di nazista avevano solo la biancheria intima.»
«E qui sotto, con questo freddo, non credo che gli sia stata di grande utilità, no?» «Piantatela voi due» intervenne Iliyn a interrompere quel siparietto. I minuti arono lenti mentre le due squadre ispezionavano da cima a fondo il sommergibile. Alla Uno toccò la sezione poppa e alla Due la prua. A mano a mano che si spingevano verso le estremità del relitto, fecero altre macabre scoperte: molti corpi mummificati, o ridotti a pochi miseri resti e ossa sbiancate, giacevano tra i sedimenti; poco più che simulacri di coloro che avevano riempito di vita quei luoghi. Oggetti, utensili, e in alcuni casi persino armi automatiche, circondavano quei corpi, proprio come accadeva nelle primitive tombe riportate alla luce, in cui si usava onorare i defunti seppellendoli con i loro beni più preziosi. «Dalla Uno, stiamo attraversando la sala motori.» La voce di Alekseev interruppe quel momento di quiete. «La linea sembra sgombra, procediamo ancora un po’.» La riserva di gas si era quasi ridotta a due terzi e si avvicinava il momento di interrompere l’immersione. La procedura per questo tipo di missioni seguiva la regola per la quale la scorta di gas totale a disposizione per l’immersione doveva essere divisa in tre parti: il primo terzo veniva utilizzato per raggiungere l’obiettivo, il secondo per riguadagnare la superficie e l’ultimo tenuto come riserva, da impiegare in caso di emergenza. «Situazione?» chiese Iliyn senza togliere gli occhi dal monitor, dove la videocamera di Fedoseyev mostrava la sezione opposta del sommergibile. La Squadra Due stava entrando in quello che, dalla planimetria davanti ai suoi occhi, doveva essere l’alloggio dei sottufficiali. «C’è tutto il tempo di dare un’occhiata alla poppa» disse Alekseev nel comlink. «Massima attenzione ai cavi in sospensione.» Iliyn comunicò l’avvertimento al primo sergente, poi si avvicinò al monitor quando vide che la via verso prua era sbarrata e il granfacciale di Sokolov scuoteva la testa vistosamente. «Di qui non si a, superficie!» avvertì Fedoseyev. Iliyn si voltò verso il colonnello cercando di nascondere i suoi timori.
Suvorov ricambiò con uno sguardo imibile, niente che potesse tradire i suoi pensieri, qualunque essi fossero. «Squadra Due, tornate in camera di manovra di o alla Uno.» «Ricevuto superficie!» ripose Sokolov mostrando in camera il pollice alzato. «Uno, credo che per il momento possiamo finire qui la ricerca, i vostri livelli di gas sono a due terzi e…» «Superficie!» lo interruppe all’improvviso Alekseev. «Ti ricevo, Ioann.» «Credo di aver trovato qualcosa. O almeno quello che ne rimane.» In sala controllo il silenzio si fece assoluto. Iliyn si lasciò cadere sullo schienale e si voltò ancora una volta verso il colonnello dietro di lui. Anna e Anatoliy si guardarono incuriositi per quel cambio di umore, finché il colonnello Suvorov non si fece avanti schiacciando il tasto del comunicatore. «Mi ascolti bene, sergente. Non tocchi nulla, ripeto, non deve assolutamente toccare nulla. Aspetti che la videocamera sia sul posto in modo che si possa confermare il ritrovamento. Sono stato chiaro?» «Limpido, signore.» «Molto bene.» Poi si rivolse a Iliyn: «Se fosse confermato, dovremo valutarne lo stato prima di trasportarlo in superficie». Iliyn annuì, creando ancora più curiosità nella mente di Anna. La cassa collegata ai comlink emise un fruscio prolungato. Un suono che ad Anna giunse fin troppo familiare. Si chiese dove lo avesse già sentito prima. Si accorse che Anatoliy la stava fissando: le sue mani si muovevano imitando un assolo di chitarra. A quel punto ricordò. L’idrofono dell’AUV aveva captato quello stesso suono giorni prima, poco prima che la mappatura tridimensionale rivelasse la presenza del relitto. In quel frangente, alla luce di quella scoperta, non aveva dato troppo
peso a quell’evento, ma ora un brivido gelido le percorse tutta la colonna vertebrale. Le casse continuarono con quei fruscii indistinti, aumentando di tono e d’intensità per poi abbassarsi improvvisamente fino a sparire del tutto. «Mi ricevete?» La voce di Alekseev gracchiò nelle casse, facendo saltare tutti per la sorpresa. «Avanti, sergente!» rispose Iliyn nell’auricolare. «In che anno siamo?» «Come?» chiese Iliyn disorientato da quella domanda. «Ho chiesto in che anno siamo» ripeté con insistenza la voce. «Ioann, non è il momento di scherzare, stai consumando le riserve di…» «Ioann? Non c’è nessun Ioann qui.» Anna percepì l’arrivo di una scarica statica nelle casse del comunicatore sulla plancia. Un fischio acuto che costrinse tutti, nella sala controllo, a tapparsi le orecchie con le mani. Tentò subito di eliminare quel disturbo agendo su alcuni tasti della sua consolle. Ci mise un po’ per sintonizzare le frequenze, ma pian piano l’audio si normalizzò. Le casse ripresero vita e una voce iniziò a cantilenare una melodia. Prima lontana, ovattata, poi più vivace. Riverberò tra le pareti della sala controllo fino ad attenuarsi, assumendo un’intonazione allegra. A quel punto tutti si concentrarono sull’immagine sul monitor. Sokolov muoveva la testa a destra e a sinistra come alla ricerca di qualcosa che loro, dal punto di vista di Fedoseyev e della sua videocamera, non potevano vedere. Qualcosa apparve proprio dietro di lui, appena un’ombra sfuggente. L’immagine sul monitor ebbe un’interferenza per poi tornare subito a fuoco. Sokolov si sbracciava, come se stesse cercando di afferrare qualcosa fuori campo. «Squadra Due, che sta succedendo?» chiese Iliyn, senza dissimulare preoccupazione.
L’audio in risposta giunse disturbato, come se più voci cercassero di sovrapporsi nella comunicazione. Troppe voci. L’ombra tornò a oscurare il monitor e di colpo l’immagine sparì e un istante dopo anche l’audio. «Squadra Due, mi ricevi?» chiamò Iliyn nel comunicatore. «Squadra Due, qui superficie, mi ricevete?» arono i minuti, ma le comunicazioni sembravano interrotte. Anatoliy si ò le mani nei capelli unti con un’espressione spaventata dipinta sul volto. «Squadra Uno! Comunicare.» Iliyn fece ancora una prova, poi si lasciò andare sullo schienale. «Niente, signore, nessuna comunicazione. Deve esserci qualche problema di ricezione dovuta alla profondità.» Spostò la sedia all’indietro e si alzò di scatto. «Mi dia il permesso di scendere!» Il colonnello rimase impalato sul posto. Il volto era una maschera inespressiva. Anna vi lesse rassegnazione, quasi conoscesse già la sorte toccata ai suoi uomini. Una breve scarica statica uscì dalle casse, poi, la comunicazione riprese vita. Qualcuno iniziò a salmodiare una nenia simile a un ronzio. «Sistemate quell’audio!» ordinò il colonnello indicando con slancio le casse. Iliyn armeggiò sulla consolle e lentamente l’audio iniziò a prendere forma. La nenia assunse consistenza fino a divenire una melodia. Infine, iniziarono a distinguersi anche le parole. Anna non capì subito cosa stesse dicendo quella voce, non riusciva a distinguerne le parole, finché non si rese conto che non era russo quello che stava ascoltando, ma tedesco. Una canzone allegra cantata nella lingua del Reich ma con il forte accento del Don del sergente Alekseev. « Und läßt uns im Stich einst das treulose glück, und kehren wir nicht mehr zur heimat zurück, trifft uns die todeskugel, ruft uns das schicksal ab, ja, schicksal ab. Dann wird unser U-boot ein ehernes grab».
Ringraziamenti
Internet mi ha dato la possibilità di poter accedere a fonti inestimabili durante il lavoro di ricerca e archivio. Sono tanti i siti e i forum che ho consultato per non incappare in errori durante la fase di scrittura. Uno tra tutti, Betasom.it (XI gruppo di sommergibili atlantici), è stato preziosissimo. Un grande forum dove potersi confrontare con apionati, esperti e tecnici che i sommergibili li hanno toccati con mano. Grazie davvero! Cito anche uboat.net, uboatarchive.net nei quali ho trovato moltissimo materiale interessante. Tuttavia, la vera ispirazione l’ho avuta dalla più grande opera letteraria e cinematografica dedicata agli U-boot: il romanzo Das Boot (del 1973) del sommergibilista Lothar-Günther Buchheim e il successivo film (1981) di Wolfgang Petersen. Un grande grazie a tutti coloro che hanno partecipato con consigli, suggerimenti e critiche a quest’opera.
Note
«Guardano alla croce uncinata pieni di speranza già in milioni, il tempo della libertà e del pane arriva!» ↑ «Un giorno la fortuna ingannevole ci pianta in asso e non torneremo in patria, un colpo mortale ci colpisce, ci annuncia il nostro destino, sì, il destino. E il nostro U-Boot diventa una bara di ferro.» ↑ «Un giorno la fortuna ingannevole ci pianta in asso, e non torneremo in patria, un colpo mortale ci colpisce, ci annuncia il nostro destino, sì, il destino. E il nostro U-Boot diventa una bara di ferro.» ↑