ALARICO
Indice Cap 1 pag 2 Cap 2 pag 36 Cap 3 pag 55 Cap 4 pag 85 Cap 5 pag 107 Cap 6 pag 126 Cap 7 pag 156
Cap. I Alarico all'attacco di un mito ÈNell'agosto dell'anno 1161 dalla fondazione di Roma¹ Flavio Stilicone, il miglior generale di cui l'impero potesse disporre, fu giustiziato per ordine di Onorio, l'imperatore d’Occidente, insofferente per il potere e l'autorità di colui che era stato il suo protettore. Appresa la notizia, Alarico, re dei Visigoti, si mise in marcia col suo popolo in armi e si affrettò a valicare le indifese Alpi Giulie. Alarico era perplesso: l'uomo che per ben tre volte lo aveva sconfitto, l’esperto generale Stilicone, era stato ucciso proprio per ordine di colui che gli doveva la salvezza dell'impero! Era incomprensibile, tuttavia per lui si trrattava di un colpo di fortuna e non gli restava che approfittarne. Traversato e devastato il Veneto, Aquileia apparve ai Visigoti come una visione, una città ricca e maestosa, uno dei migliori porti dell'Adriatico.
I suoi guerrieri fremevano, l'avrebbero volentieri assalita e saccheggiata, ma Alarico osservò attentamente le solide mura e decise di proseguire: "Roma è il nostro obiettivo! È indifesa e ben più ricca di Aquileia". Così diceva ai suoi ufficiali, in realtà si rendeva conto di non poter espugnare delle mura robuste e ben difese, inoltre l' assedio di una città che si poteva rifornirsi via mare quasi certamente non avrebbe dato risultati. Tenendosi lontano da Ravenna, fortificata e ben vigilata perché vi risiedeva l'imperatore Onorio con la sua corte di preti e parassiti, superò il Po su un ponte di barche che l'imprevidenza e la sorpresa di una guarnigione aveva lasciato intatto, e giunse a Bononia². Ovunque asse la grande onda dei Visigoti seminava morte e distruzioni. Gli aitanti guerrieri dai capelli biondi, dalla carnagione chiara e occhi azzurri, erano spietati: risparmiavano solo le giovani donne, destinate a soddisfare la loro libidine. Tutti gli altri, vecchi e bambini compresi, venivano ati a fil di spada. Le popolazioni rurali fuggivano all'apparire del grande esercito, tuttavia la loro sorte pareva segnata: la distruzione dei raccolti e delle strutture agricole preparava un futuro di miseria e fame nei territori devastati. Dinanzi a Bononia Alarico non perse tempo. La sua meta era Roma, pertanto trattenne l'esercito e proseguì la marcia, giungendo nel Lazio in autunno. Appresa la notizia del suo arrivo, lo sbigottimento degli abitanti di Roma fu enorme: era dai tempi di Annibale, oltre seicento anni prima, che un esercito nemico non marciava verso le sue mura, attraversando e devastando l'Italia. Nelle campagne a una ventina di miglia a nord di Roma, anche il pastore Fausto Licino fu colto di sorpresa dalla notizia dell’arrivo dei Visigoti. Riteneva esagerate le voci dei fuggitivi che annunciavano una grande invasione, la credeva impossibile sapendo le truppe imperiali schierate alle frontiere e presso Ravenna. Fausto supponeva si trattasse di una scorreria di qualche orda di barbari insediatisi entro i confini dell'impero per ripopolare le zone deserte o per fornire
soldati all'esercito, in cui pochi italici ormai chiedevano di essere arruolati. La sua fattoria era a una ventina di miglia a nord di Roma, nella fertile campagna compresa tra il Tevere e la via Flaminia. Lì, con l’aiuto di alcuni dipendenti, coltivava un po’ di terra e soprattutto allevava pecore. Al primo allarme Fausto aveva preso delle precauzioni: condotti in città, presso i suoceri, sua moglie e i tre figli, riparate le greggi e le provviste in una valletta isolata e sbarrata la casa rurale, inchiodando alla porta robuste assi di legno. Lui e i tre pastori rimasti al suo servizio, Sempronio, Reano e Ummidio, si erano armati e vigilavano attentamente. Col are dei giorni aumentava il numero dei profughi che percorrevano la via Flaminia per correre a rifugiarsi in Roma. I pastori non volevano credere a ciò che udivano, pensavano si trattasse di esagerazioni causate dalla paura, tuttavia cresceva in loro l'inquietudine per l'annunciato arrivo dei Visigoti. Credendo si trattasse di un’orda di barbari desiderosi di razziare le campagne indifese, come già era accaduto in ato, Fausto decise di sincerarsene. Preso con se Reano, il più giovane e svelto dei suoi uomini, cominciò a esplorare con prudenza verso settentrione. I due pastori, armati di spada, archi e frecce, si tenevano sulla cresta delle colline, al riparo degli alberi. Benché di statura normale, Fausto era un uomo massiccio, temprato da una lunga e faticosa vita all'aria aperta. Sul volto cotto dal sole spiccavano lineamenti marcati, occhi e capelli neri, una corta e folta barba scura. Nonostante l’esistenza dura ed errabonda, dimostrava meno dei suoi quarant'anni. Lui e il giovane che l'accompagnava indossavano giubbone e brache di pelle di pecora, un ampio e pesante mantello con cappuccio. Per calzature avevano dei rozzi ma robusti stivaletti,
impermeabili e foderati di pelliccia. Era il tipico abbigliamento dei pastori, che spesso restano esposti a freddo, vento, sole e intemperie. Avanzavano di buon o, in silenzio, scrutando attentamente la campagna circostante ed evitando di camminare allo scoperto. Reano era un giovane dai tratti orientali e carnagione olivastra, i suoi avi erano giunti da qualche luogo esotico, schiavi o commercianti, lui non lo sapeva, però suo padre sosteneva che erano cittadini romani da molte generazioni. Aveva circa vent'anni e sembrava molto eccitato per essere stato scelto per quell’esplorazione. Mentre scendevano il declivio di una collina, udirono un inconfondibile scalpiccio di cavalli e tintinnio di metalli. Si affrettarono a nascondersi nel folto della vegetazione e attesero col cuore in gola. Poco dopo dal fondovalle spuntarono una decina di cavalieri, che avanzavano in ordine sparso armati di spade, piccoli scudi rotondi e lance. L'abbigliamento, l'alta statura, le bionde chiome, li rivelavano appartenere a uno di quei popoli chiamati genericamente Goti o Germani. Non sembravano ausiliari dell’esercito imperiale, probabilmente erano esploratori di quei Visigoti annunciati nei giorni precedenti dai fuggiaschi. Procedevano lentamente, non tutti nella stessa direzione; alcuni si inoltravano sui fianchi della collina, uno invece tornò indietro dopo aver confabulato con gli altri. Fausto e Reano si erano acquattati tra la vegetazione e trattenevano il respiro per l’emozione. Mentre un cavaliere risaliva la collina presso di loro, il pastore udì dei fruscii alla sua sinistra, nel folto della macchia. Credendo si trattasse di qualche animale che, disturbato, come loro si rintanava tra i cespugli, si preoccupò solo del
cavaliere che sopraggiungeva. Aveva afferrato l'arco e incoccata una freccia, ma il barbaro, protetto da una cotta in maglie di ferro, transitò a una trentina di i senza neppure sospettare la loro presenza. Quando il cavaliere fu lontano, Fausto fece un cenno a Reano quasi per rassicurarlo, e indicò il folto in cui aveva udito dei rumori: "Forse abbiamo trovato della cacciagione da cucinare stasera!" Nel mormorare queste parole tendeva la corda dell'arco, quando dai cespugli giunse un sussurro: "Fermo! Non sono una lepre, abbassa l'arco!" Tra la sorpresa dei pastori un vecchio uscì dai cespugli trascinando un pesante fardello: "Salve! Mi chiamo Vezio e come voi mi nascondevo dai Visigoti. Sono abbastanza lontani?" Fausto si affacciò con circospezione dal sottobosco, prima di rispondere: "Non si vedono più, ma è meglio stare al riparo un altro po'. Questi Visigoti, quanti sono e dove vanno?" Rinfrancato, il vecchio si avvicinò ai pastori; indossava un logoro mantello scuro sotto cui si distingueva una lunga tunica di buona fattura che doveva aver visto tempi migliori. "Vi dirò tutto quello che so su di loro, ma potete darmi qualcosa da mangiare?" Fausto annuì e dalla bisaccia che portava a tracolla estrasse una focaccia e un pezzo di formaggio che porse al vecchio. Questi li afferrò con bramosia e cominciò a divorarli avidamente, mormorando tra un boccone e l'altro: "Dio ve ne renda merito!... Sono barbari e vengono da est, un flagello!... Li comanda Alarico e vanno a Roma per fare bottino... Rubano tutto quello che trovano, ammazzano chiunque incontrino... a parte le giovani donne!" I pastori non sembravano turbati da quelle parole e Fausto ruppe il silenzio: "Roma è inespugnabile! Dicono che Alarico sia cristiano, possibile sia così spietato? Quanti uomini conduce, e dov'è l'esercito dell'imperatore?" "Saranno pure cristiani, ma si comportano come selvaggi. Tra poco vedrai
l'armata dei Visigoti; sono un mare di guerrieri giganteschi e fortissimi! ... Non avresti un poco d'acqua? Questo formaggio è buono ma scatena una sete..." I pastori sorrisero della sfacciataggine del vecchio, a cui Reano porse un otre di pelle e una timida domanda: "Però l'imperatore Onorio li sconfiggerà, non è vero?" Vezio strabuzzò gli occhi, fece una buffa smorfia e sputò in terra per manifestare il suo disprezzo: "Onorio? Puah! Quello smidollato se ne sta rintanato tra le paludi di Ravenna e non ha nessuna intenzione di affrontare Alarico. Da quando ha fatto ammazzare Stilicone, in Italia non c'è più un generale con un po' di fegato! Inoltre tutte le truppe sono sui confini, impegnate a tenere a bada altri invasori..." A queste notizie Fausto si allarmò: "Allora per Roma non c'è scampo? Possibile che nessuno la soccorra?" Il vecchio strizzò l'occhio e, dopo aver inghiottito l'ultimo boccone, sorrise scoprendo i pochi denti rimastigli: "Roma non cadrà! Ha resistito ad Annibale e non sarà certo Alarico che l'espugnerà. Sono state riparate le mura? Se saranno difese adeguatamente i Visigoti non potranno valicarle, non hanno macchine e non saprebbero come usarle!" "Ma la città sarà cinta d'assedio. Potrebbe cadere per fame se nessuno viene a soccorrerla!" Fausto pensava con angoscia alla moglie e ai figli che pochi giorni prima aveva accompagnato in città ritenendoli al sicuro. Vezio scrollò lo spalle nel rispondere: "Ci vorrebbe troppo tempo, i barbari non hanno tanta pazienza! Sarà meglio che ci allontaniamo da questo posto pieno di spini. Quel formaggio era proprio saporito, dove posso trovarne dell'altro? Posso pagarlo". Reano rispose con una punta di orgoglio: "Lo facciamo noi! Quel sapore è dovuto alle foglie di menta che tritiamo e aggiungiamo all'impasto. Noi non abbiamo paura di questi barbari, siamo venuti apposta per vederli..." Il vecchio levò le braccia e fece una smorfia per palesare il suo orrore: "Pazzi! Se vi trovano siete morti. Comunque non transiteranno prima di domani. Se mi date asilo vi racconterò tutto quello che sta succedendo".
Prima di rispondere Fausto si arrampicò agilmente su una maestosa quercia e gettò uno sguardo attento tutto attorno: i cavalieri erano scomparsi e la campagna pareva tranquilla. Scese e disse: "Va bene Vezio, vieni pure con noi. In cambio dell'ospitalità ci racconterai quello che sai. Ad esempio, chi sono questi Visigoti e da dove vengono?" Mentre si avviavano circospetti verso la valletta ove erano nascoste le greggi, il vecchio prese a raccontare con la voce arrochita dalla stanchezza, mentre Reano gli portava il pesante bagaglio per il rispetto dovuto all'età. "Pare siano originari di una terra fredda molto più a settentrione della Germania³. Da secoli vagano in cerca di un luogo propizio per stabilirsi, devastando le terre che attraversano. In ato si sono scontrati più volte con i nostri eserciti e sono stati quasi sempre sconfitti. Ulfita li convertì alla religione cristiana ma ciò non ha mutato la loro indole selvaggia e bellicosa. Si erano stabiliti oltre il Danubio e rispettavano il nostro lirnes⁴ quando l'arrivo di un popolo ancor più spietato, gli Unni, li spinse a chiedere il permesso di entrare nell' impero, ove dicevano di volersi stabilire pacificamente. Purtroppo trent’anni or sono l'imperatore Valente lasciò loro varcare il Danubio e da allora non abbiamo più avuto pace. Questi che giungono sono guidati da Alarico, che Stilicone sconfisse per ben tre volte senza riuscire a dargli il colpo di grazia..." I pastori ascoltavano con grande attenzione il vecchio, tuttavia Fausto non poté esimersi dal chiedere: "Chi sei tu che conosci tutte queste cose? Da dove vieni e di cosa ti occupavi prima di fuggire verso Roma?" "Sono, anzi ero perché ormai tutto sarà stato distrutto dai barbari, l'intendente del senatore Anicio Gallo, che possiede un grande latifondo presso Bononia. Vengo da lì e vado a Roma, ma le mie gambe non sono più quelle di un tempo, sono esausto e da due giorni non mangiavo nulla..." Fausto comprese l'antifona e gli porse l'ultimo pezzo di pane che serbava: "Coraggio, Vezio! A Roma ci arriverai presto, ma cosa porti in quel sacco tanto pesante?" Il vecchio scosse le spalle con noncuranza: "Volumina⁵ e documenti del mio padrone, lui ci tiene molto e ho dovuto salvarli... Voi sapete leggere?"
A quelle parole i pastori scoppiarono in una fragorosa risata; fosse dipeso da lui, Reano avrebbe gettato in un fosso il pesante e inutile fardello. Fausto però gli fece cenno di trattarlo con cura, anche se la sua risposta era piena d’ironia: "So scrivere il mio nome e leggere quanto basta. Facevi meglio a portarti del cibo, invece che inutili scartoffie!" "Sappi che chi sa leggere e scrivere è come se fosse ricco ... Quanto manca al vostro bivacco?" "Tra un paio d’ore potrai stendere le tue stanche ossa su un buon giaciglio. Quindi sei un uomo dotto, di dove sei?" L'interpellato fece un gesto come per schermirsi; "Forse avete ragione, dovevo lasciare i volumina e prendere più cibo. Questo pesante fardello mi ha rallentato e poteva farmi catturare... Sono nato a Vindobona , ma è tanto che non vi torno. E voi?" "lo e lui siamo nati e cresciuti in queste campagne e raramente mettiamo piede in città. Non ci piace, troppa gente e poco spazio! Dappertutto rumore e confusione..." Il vecchio annuiva: "Anche a me non piacciono le città, però adesso che arrivano i Visigoti anche voi sarete costretti a rifugiarvi entro le mura". Fausto scosse il capo in segno di diniego: "Le mie pecore vi morirebbero di fame o sarebbero requisite. Ce ne resteremo nascosti tra le colline finché tutto ciò non sarà finito". Vezio aggrottò la fronte, perplesso; "Ho l'impressione che la bufera durerà a lungo, i Visigoti hanno un grande esercito e sono avidi di bottino..." Dopo due ore di cammino raggiunsero la valletta in cui Sempronio e Ummidio
custodivano le pecore. Tutto era tranquillo e Vezio si rallegrò nel vedere le greggi sistemate in un recinto, coi cani che sorvegliavano i paraggi: "Che spettacolo! Certo che qui di fame non si muore... Quante sono?" "Circa trecento. Vuoi una tazza di latte tiepido?" Vezio non si fece pregare e bevve avidamente dal recipiente di legno che gli avevano dato. Ummidio scatenò l'ilarità generale apostrofandolo: "Non esagerare, vecchio, altrimenti erai la serata in compagnia della diarrea!" Ummidio era robusto e selvatico, il largo volto bruciato dal sole, i modi rudi, celavano un carattere semplice, allegro e sempre pronto agli scherzi. Da alcuni anni lavorava con Fausto, che lo considerava un amico più che un dipendente. Dopo aver il fuoco con un po' di paglia e l'inseparabile acciarino, Fausto porse a Vezio un pezzo di formaggio e intervenne: "Non trattate male il nostro ospite. È un uomo colto, amico di un senatore che forse ci coprirà d'oro, quando glielo riporteremo assieme alle scartoffie!" Vezio ebbe un sospetto e lo espresse con una certa apprensione: "Non sarete per caso dei malviventi che sequestrano i viandanti e chiedono un riscatto per liberarli?" Gli risposero risate e voci sdegnate: "Per chi ci prendi?" "Chi pagherebbe un riscatto per le tue ossa rinsecchite?" La sera stava per scendere e Vezio, tranquillizzato, non si curò di rispondere; riprese a masticare lentamente con i denti malridotti il formaggio che gli avevano offerto. Cenarono e poi spensero il fuoco per non attirare l'attenzione di qualche barbaro in esplorazione. Date le circostanze, Fausto stabilì dei turni di guardia e spedì gli uomini a dormire, lui avrebbe vegliato per primo.
Prese una coperta e andò a sistemarsi sulla sommità di una collinetta da cui si dominava un vasto tratto di campagna. La notte stellata e l'ampia falce della luna rendevano le tenebre meno fitte, Fausto si sdraiò e si mise a contemplare gli astri quasi in raccoglimento. Si era sempre chiesto chi fosse l'artefice di quella meraviglia e di tutte le cose che lo circondavano; nonostante i divieti lui credeva ancora negli antichi Dei, ma la sua era una fede scettica e piena di dubbi. A un tratto udì dei fruscii, qualcuno si avvicinava e lui balzò in piedi afferrando l'arco. Quasi subito sedette, rassicurato: "Che ci fai qui, Vezio?" Il vecchio, che arrancava sulla salita, rispose ansimando: "Alla mia età ho difficoltà a prendere sonno. Se non ti spiace ti faccio compagnia". "Come vuoi, però laggiù saresti più riparato, qui c'è vento". Vezio gli sedette accanto e indicò il firmamento, particolarmente nitido nella notte autunnale: "Stasera le stelle sono stupende! Lontanissime eppure così vivide, chissà di cosa sono fatte..." Fausto si stupì, anche lui si stava chiedendo la stessa cosa contemplando gli astri: "Mi leggi nel pensiero? lo credo che siano le dimore degli Dei". Il vecchio fece una risatina prima di replicare: "Tu credi ancora negli dei? Non ti sei convertito al Dio annunciato in Palestina da suo figlio, Gesù di Nazaret?" "Ho sentito i suoi sacerdoti predicare. Non mi piace questo Dio severo che pretende così tanto dai suoi fedeli!" "Forse quei predicatori non hanno saputo spiegarsi bene..." Fausto, a cui non dispiaceva scambiare due chiacchiere con un uomo colto, non essendo i suoi amici tagliati per i ragionamenti, rifletté a lungo prima di rispondere: "Questo unico Dio che può tutto e non ha rivali, non mi convince. Perché non fa nulla per coloro che lo invocano? Lascia morire di fame e di stenti
anche i bambini, che sono innocenti, mentre i malvagi e i prepotenti prosperano! Se davvero è così potente e se come dicono è un Dio giusto, dovrebbe intervenire. Perché ad esempio non ferma l'invasione di questi barbari?" "Forse ha un suo progetto che noi non capiamo. Lui vuole che siano gli uomini a scegliere il bene. I cristiani agiscono secondo giustizia, secondo le sacre scritture..." "lo li conosco questi cristiani! Sono come tutti gli altri, buoni e cattivi! Forse tra loro si aiutano, però se non ti converti alla loro religione ti perseguitano e ti tolgono quello che possiedi. Tu sei cristiano, Vezio?" "Sono stato battezzato quindi lo sono, però ne ho viste così tante che non so più cosa pensare. Ho visto preti profittare del loro potere, arricchire, rubare ai pagani e perseguitarli. Anche i Visigoti adorano il mio stesso Dio, tuttavia saccheggiano e ammazzano. Un vero cristiano dovrebbe essere buono e tollerante". "Buoni non so, ma tolleranti i cristiani non lo sono di certo. Li ho visti con i miei occhi violare i templi e infrangere a colpi di mazza le statue degli antichi Dei. I loro sacerdoti sono fanatici, arroganti e dal tempo di Teodosio⁷ perseguitano tutti coloro che non condividono la loro fede". Vezio annuiva pensieroso; "Lo fanno perché ritengono di essere nel giusto e di dover propagare il Verbo..." Fausto continuava, infervorato: "Roma ci ha insegnato a far convivere popoli e religioni diverse, nessuno si sognava di disprezzare o offendere le divinità altrui. Inoltre anche se qualcosa del loro credo è giusto, altre cose sono assurde. Prendi l'idea di rispondere al male con il bene, di porgere l'altra guancia... Che ne sarebbe di noi e della nostra civiltà se ci comportassimo così? I nemici ci sterminerebbero come pecore, se non fossimo pronti a difenderci!" "Riguardo all'intolleranza hai ragione, ma tutte le nuove religioni coltivano il fanatismo per imporsi. Pensa invece se l'idea di rispondere al male con il bene trionfasse! Sarebbe un mondo pieno di pace, la violenza sparirebbe..." Fausto scuoteva la testa: "E una cosa impossibile, basterebbe un solo malvagio a terrorizzare gli inermi, e come vedi il mondo è pieno di gente feroce da cui bisogna difendersi!" Ci fu un lungo silenzio, entrambi riflettevano sull'argomento; infine fu il pastore a spezzare il silenzio: "Sei intenzionato a tornare a Roma dal tuo senatore?"
"Non lo so. Chiudermi in una città che sarà assediata e soffrirà la fame non mi alletta, anche se Roma è piena di biblioteche, persone e luoghi splendidi che vorrei rivedere". "Perché non resti con noi, Vezio? Qui non patirai la fame e in cambio potresti insegnare a leggere e scrivere..." Una risata lo interruppe: "Non mi pare che i tuoi pastori siano molto interessati". "lo però lo sono. Che ne dici?" Il vecchio prese tempo: "Ci penserò. Vediamo intanto che cosa hanno intenzione di fare i Visigoti. Se vuoi, domani andremo a dare uno sguardo alla moltitudine in marcia". Fausto sollevò le braccia, forse per sgranchirsi, e concluse: "Ho un po’ di timore ad avvicinarmi ma la curiosità è più grande e in fondo tutti dobbiamo morire". L'indomani, in una brumosa giornata di novembre, il pastore e il vecchio si avviarono sui sentieri percorsi il giorno precedente. Camminavano con prudenza, tenendosi nei boschi e affrettandosi nei punti scoperti, quando erano costretti a scendere dalle colline. Avvicinandosi alla via Flaminia, udirono in lontananza un insolito fragore e il loro procedere si fece ancor più circospetto. Fausto, che conosceva bene quei luoghi, condusse l'ansimante Vezio su un cocuzzolo isolato da cui si dominava un ampio panorama e un lungo tratto dell'antica via consolare. Lo spettacolo che si offriva ai loro occhi mozzava il fiato: un fiume di gente avanzava verso Roma a piedi, a cavallo, sui carri. Da quella distanza non era possibile distinguere bene, tuttavia gli uomini sembravano tutti pesantemente armati, lo confermavano il rumore dei metalli che si urtavano e i riflessi del sole sulle armi e sugli elmi. A Fausto, che aveva visto più di una volta marciare delle truppe romane, l'avanzata sembrava estremamente disordinata e quei barbari parevano un’accozzaglia di pezzenti, coperti di stracci e pelli. "Sembra tutt'altro che un esercito! Ognuno avanza per suo conto e tra loro ci
sono molte donne e bambini. Sarebbero questi i terribili Goti?" Vezio gli chiarì subito le idee: "Non farti ingannare dalla confusione, sono guerrieri valorosi e forti. Ognuno di loro è alto più di sei piedi, sono numerosi e avvezzi alle armi. lo li ho visti combattere e ti assicuro che valgono quanto i nostri soldati, anche se sono disordinati e indisciplinati. Guarda quanti sono, è quasi una migrazione!" Rimasero due ore sdraiati sul picco, ma la fiumana dei Visigoti non accennava a esaunrsrsi. Fausto, che aveva provato a fare un conto approssimativo, ne aveva stimati oltre sessantamila e poi aveva desistito. "Sono un intero popolo! Come faranno a sfamarsi se intraprendono un assedio? Vedo pochi carri che potrebbero portare provviste..." "Devasteranno le campagne. Credo che in futuro non troverai neppure più l'erba per le tue pecore! Torniamo indietro, abbiamo visto abbastanza". Ancora impressionati da quello spettacolo, rifecero di gran carriera la strada percorsa al mattino. Per fortuna non incontrarono esploratori barbari, che evidentemente erano solo in testa alla colonna. Le avanguardie dei Visigoti raggiunsero Roma quella stessa giornata. La città era difesa dalle imponenti mura costruite da Aureliano, di recente rinforzate. Avvisati dai fuggiaschi che da giorni affluivano, molti abitanti erano sugli spalti assieme agli urbaniciani e ai vigiles⁸ per vedere i barbari che ardivano assalire Roma. Lo sbigottimento per l'inattesa minaccia era enorme, ma nonostante l'esigua guarnigione regnava la fiducia, si riteneva che i barbari non sarebbero riusciti ad espugnare le mura; comunque i magistrati avevano cominciato a reclutare difensori tra gli uomini in grado d’impugnare le armi. Alarico però non aveva intenzione di attaccare, sapeva di non poter assalire le mura senza macchine idonee, né possedeva le cognizioni per costruirle, pertanto cominciò a circondare la città e si accinse ad assediarla.
Fattorie, ville, case e magazzini ubicati fuori dalle mura furono occupate, depredate, talvolta bruciate o rase al suolo, ma le vettovaglie rinvenute erano scarse, perché animali e viveri erano stati portati in città. Un grande bottino fu invece saccheggiato nelle ville suburbane e tutto ciò che i Visigoti non potevano portarsi via veniva distrutto o bruciato. Prima che l'accerchiamento venisse completato, alcuni messaggeri partirono a cavallo alla volta di Ravenna. Avrebbero percorso strade secondarie per recare l'incredibile notizia all’imperatore e chiedere il suo aiuto. Nei giorni successivi i Visigoti iniziarono a esplorare e razziare le campagne, cercando viveri, bestiame e bottino. Col ar del tempo allargavano sempre più il raggio delle loro scorrerie. Purtroppo Roma non aveva grandi riserve di viveri e, nonostante il razionamento disposto dai magistrati, si prevedeva che ben presto il cibo sarebbe scarseggiato, perchè in città si erano rifugiate decine di migliaia di persone. Anche i consueti rifornimenti che arrivavano dal porto di Ostia lungo il Tevere, erano stati interrotti dai Visigoti, che bersagliavano le rare barche sul fiume. Intanto Fausto si rendeva conto che la sua valletta, benché Isolata e di difficile accesso, non era più un rifugio sicuro e decise di spostare le greggi, anche se gli piangeva il cuore ad allontanarsi da Roma, ove erano la moglie e i figli. Pur avendo avuto la possibilità di rifugiarsi in città, Vezio era rimasto coi pastori. Dava una mano a mungere e a badare alle pecore, la sera cercava di insegnare a scrivere a Fausto e Sempronio, gli unici interessati alle sue lezioni. Il giorno stabilito per muovere le greggi, che d'altronde nei pressi della valletta non trovavano più pascolo sufficiente, partirono alle prime luci dell' alba. I cinque uomini erano sommariamente armati e, aiutati dai cani, cominciarono a spingere le pecore verso settentrione, tenendosi alla larga dalle strade principali.
A mezzodì avevano già percorso un buon tratto e si sentivano quasi al sicuro, quando in lontananza scorsero due uomini a cavallo. Anche i due li avevano visti, un gregge tanto numeroso balzava agli occhi, e si erano lanciati al galoppo verso di loro. Prima ancora di conoscere le intenzioni dei cavalieri, Fausto ordinò: "Umrnidio, Sempronio, nascondetevi tra quegli alberi e preparate gli archi. Scoccate solo se vi darò il segnale!" I due Visigoti non si erano accorti della manovra, tuttavia si avvicinavano cautamente avendo notato che i pastori erano armati. Quando furono a cinquanta i da Fausto, che era in testa al gregge, gli gridarono qualcosa d’incomprensibile. Il pastore annuì come se avesse capito e levò un braccio in segno di saluto. Vezio gli si avvicinò e sussurrò: "Dice che dobbiamo gettare le armi. Che si fa?" "Adesso conosci anche la lingua dei Goti? Allora dì loro che sono i benvenuti, che noi siamo pacifici pastori!" Vezio gridò qualcosa in una strana lingua, ma i due cavalieri non gli davano retta. Avevano sollevato le pesanti picche come se intendessero caricare e continuavano a latrare ordini incomprensibili. Adesso che erano vicini Fausto notava la mole dei cavalli e dei guerrieri, che cavalcavano senza sella, riparati da pettorali di ferro che coprivano solo in parte gli ampi toraci; di sicuro tolti a qualcun’altro. Erano due ragazzoni biondi, imberbi, dai volti chiari e gli occhi azzurri, ma avevano lo sguardo da lupi affamati ed erano decisi a impadronirsi del grande gregge. Sarebbe stato un bottino portentoso e la loro orda li avrebbe assai festeggiati. Avvicinandosi ripetevano l'ordine iniziale brandendo minacciosamente le lance, allora Fausto si tolse il cappello e si chinò in un gesto che pareva di sottomissione. In realtà era il segnale che i pastori nascosti attendevano. Due dardi solcarono l'aria sibilando, un cavaliere scivolò in terra, trafitto sotto la
gola, l'altro fece fare una piroetta al cavallo e si precipitò verso i cespugli da cui era partita la freccia che l'aveva ferito alla spalla sinistra. Sempronio fu travolto dagli zoccoli del cavallo e il Visigoto completò l'opera squarciandogli il petto con la pesante picca. Un' altra freccia saettò colpendo il cavallo, che si impennò; il cavaliere venne sbalzato in terra dal destriero ferito. Fausto e Reano correvano verso di lui con le spade sguainate, ma il Visigoto fu velocissimo a rialzarsi e a impugnare la sua lunga spada. Ummidio era uscito allo scoperto con l'arco teso, ma non scoccava perché aveva i compagni sulla linea di tiro. Vezio era rimasto immobile tra le pecore irrequiete, spaventato e incerto sul da fare. Fausto e Reano intendevano attaccare da due lati il Visigoto, che però non era uno sprovveduto. Visto che non poteva riprendere il cavallo, che si allontanava nitrendo, si addossò a un albero per non essere preso alle spalle. Nonostante la ferita alla spalla parò facilmente i colpi dei pastori, che avevano spade più corte e leggere della sua. Uditi i richiami di Ummidio, Fausto gridò al giovane compagno: "Reano, scansati! Togliti di mezzo!" Preso dalla foga del combattimento, il ragazzo non capiva e badava solo ai colpi dell’avversario; fu Vezio ad accorrere e trascinarlo via, mentre Fausto impegnava il cavaliere e cercava di esporlo ai dardi di Ummidio. Il Visigoto però non era stupido, aveva visto l'arciere e si muoveva cercando di tenere l'avversario sulla linea di tiro. Fausto era in difficoltà, la sua daga era troppo corta e leggera per reggere ai colpi del barbaro, che era abile e vigoroso. Appena vide che Reano si era allontanato, volse le spalle e cominciò a correre gridando: "Scocca Ummidio! Scocca!" L'arciere obbedì prontamente: una freccia colpì il Visigoto all' inguine, poi un' altra al fianco e il biondo guerriero scivolò in ginocchio, incapace di rialzarsi.
Reano si era liberato dalla presa di Vezio e si gettò sul Visigoto, di cui parò un colpo tirato con la forza della disperazione. La spada del pastore colpì invece la testa dell'avversario, che stramazzò in terra mentre Reano gridava in preda all' entusiasmo. Visti fuori causa gli avversari, Fausto corse tra i cespugli ove era caduto Sempronio, ma ne uscì quasi subito: "E morto! Povero Sempronio... Accertatevi che i due siano morti, io cerco di recuperare i cavalli!" Vezio era rimasto impressionato dalla reazione dei pastori, difesisi con calma e perizia, come se fossero abituati ad affrontare situazioni del genere. Mentre attendevano il ritorno di Fausto, scavarono una fossa in cui adagiarono i corpi dei due Visigoti e di Sempronio. Prima che fossero sepolti, Fausto riapparve in groppa a uno dei cavalli; "Quello ferito mi è sfuggito, bisogna che ci allontaniamo rapidamente. Ancora non li avete sepolti?" "Aspettavamo te per dare l'ultimo saluto a Sempronio". Fausto si accorse che i compagni avevano tolto armi e indumenti ai Visigoti e intendevano indossarli; "Siete pazzi? Se ci trovano con queste armi i Goti ci fanno a pezzi! Seppellitele o nascondetele, ma non indossate nulla che ci possa collegare a questi due". Intanto Vezio recitava alcune preghiere sui corpi dei tre caduti rivolgendosi ai Dio dei cristiani. Fausto lasciò fare e pronunciò qualche parola in ricordo di Sempronio, che conosceva da anni e a cui era affezionato. Ricoperta accuratamente la fossa, i pastori radunarono il gregge, che si era un po’ sbandato, e si misero nuovamente in cammino. Avevano tolto i finimenti barbari al cavallo catturato, su cui fecero salire il malandato Vezio, che ogni tanto andava in avanscoperta per poi tornare a riferire: "Laggiù c'è un ruscello. Facciamo riposare le pecore? Mi pare tutto
tranquillo..." "Preferisco allontanarmi ancora, se trovano il cavallo ferito verranno presto a cercare i compagni scomparsi". Il vecchio aveva voglia di scambiare due chiacchiere e si sporse dalla scomoda cavalcatura, per sella aveva messo una coperta e un pezzo di corda fungeva da redini: "Prima siete stati micidiali e veloci! Avete un'esperienza militare?" "Nessuno di noi ha fatto il soldato, se è questo che intendi, ma un pastore che non si sa difendere perderà presto il suo gregge". "Mi stai dicendo che vi capita spesso di combattere?" Fausto fece una strana smorfia prima di rispondere: "Contro i Goti è la prima volta, però ogni tanto ci tocca impugnare le armi. Queste campagne sono infestate dai briganti!" "E se i banditi sono troppo numerosi, cosa fate?" "Allora cerchiamo un accordo. Gli diamo qualche pecora e loro ci lasciano in pace. Non hanno interesse a uccidere dei pastori che ogni tanto forniscono notizie e un po' di carne". "Allora tu collabori con i banditi?" "Che dici, Vezio? Noi cerchiamo solo di sopravvivere in un mondo popolato di lupi a due e a quattro zampe!" Il vecchio tacque, si era pentito delle sue parole perché ora capiva che il pastore aveva ragione. Si fermarono solo al tramonto e bivaccarono in una radura boscosa senza accendere il fuoco. Le pecore avevano brucato lungo il cammino e furono chiuse in un recinto fatto di corde, sorvegliato dai cani. Gli uomini munsero del latte con cui accompagnavano il frugale pasto costituito da pane raffermo, formaggio e frutti raccolti lungo la via. La morte di Sempronio li aveva resi malinconici, Reano e Ummidio si avvolsero quasi subito nei loro pesanti mantelli
e si addormentarono. Fausto, a cui toccava il primo turno di guardia, si posizionò ai margini del bosco, in un punto dalla visuale aperta. Vezio lo raggiunse, aveva ancora voglia di conversare: "Povero Sempronio! Proprio ora che stava imparando a leggere e scrivere... Aveva famiglia?" Fausto, che poggiava la schiena contro un tronco e si era avvolto nel mantello, rispose con apparente distacco: "Solo una sorella che non vedeva da anni. Qui l'unico che ha famiglia sono io". "Già, sono a Roma. Sei preoccupato per loro?" "Per ora sono al sicuro, ma se l'assedio continua patiranno la fame". "E allora che conti di fare?" "Per adesso cercheremo un posto tranquillo ove attendere gli eventi. Spero che l'imperatore mandi presto un esercito a cacciare questi Visigoti". Il vecchio fece un gesto d'incredulità: "Non ci contare, Onorio è un inetto, ha pochi soldati e nessun buon generale!" Fausto però non era convinto: "Tuttavia non può lasciare Roma in balia di Alarico, qualcosa farà!" "Spero che tu abbia ragione ma ne dubito. Vuoi esercitarti a leggere? Ho con me il De Rerum Natura..." "Vorrei, però non ci si vede e non possiamo accendere neppure una lucerna. Se non hai sonno puoi raccontarmi qualcosa". Soffrendo d'insonnia, Vezio era ben contento di narrare, il suo argomento preferito era la storia e il pastore fu subito avvinto. Grazie all'eloquenza del vecchio scopriva le imprese e gli eventi del ato, un tempo in cui i loro antenati si erano coperti di gloria rischiando la vita per gli antichi valori della res publica, per gli Dei e la Patria. Che differenza col tempo presente: l’impero diviso, un imperatore imbelle, i
barbari che imperversavano persino dinanzi a Roma senza che nessuno osasse affrontarli. La notte trascorse tranquilla e poco prima dell'alba Reano, a cui spettava l'ultimo turno di guardia, svegliò i compagni. Preparatisi e munte le pecore da latte, si misero di nuovo in cammino verso nord, facendo solo brevi soste. Quando giunsero nei pressi di un grande lago Fausto parve tranquillizzarsi. Indicando un punto lontano sulla sponda, annunciò: "Laggiù ci sono i ruderi di un'antica città etrusca. Qui era pieno di fattorie e contadini, ma ormai tutto è stato devastato. Non c'è più nulla da saccheggiare e i Visigoti non torneranno per un bel pezzo. Prendendo le opportune precauzioni possiamo fermarci per qualche tempo". Trovarono riparo in una fattoria abbandonata, la ex dimora di un allevatore; le stalle erano vuote e tutto era stato saccheggiato. Sistemate le pecore nelle stalle, ove c’era ancora del foraggio ammucchiato, cercarono di riattare alla meglio un ambiente per dormire e ripararvisi quando il tempo si faceva inclemente. Quotidianamente portavano le greggi sui pascoli attorno al lago e di notte facevano dei turni di guardia. Nei giorni successivi la loro presenza fece uscire dai boschi alcuni sfollati che vi si erano nascosti. Quei profughi chiedevano un po' di cibo e di potersi sistemare presso i pastori, che vedevano organizzati e armati. Pur contrariato, Fausto temeva che troppa gente richiamasse l'attenzione di qualche malintenzionato, agli sfollati fu offerta protezione e del cibo in cambio di qualche lavoro. Quei profughi erano contadini dei dintorni, le cui case e i campi erano stati devastati dai Visigoti. Tra uomini, donne e bambini se ne radunarono una trentina e si sistemarono in alcuni locali della grande fattoria.
Si sentivano rassicurati dalla presenza dei pastori e Fausto li teneva occupati facendo loro pascolare e mungere le pecore. Distribuiva latte e formaggi in cambio di verdure e di una specie di pane che i contadini preparavano con orzo, frumento, miglio, tutto ciò che erano riusciti a salvare dalle razzie. Alcuni ripresero anche a coltivare, non vasti campi che avrebbero potuto richiamare pericolose attenzioni, ma piccoli orti nascosti alla vista. Altri raccoglievano frutta, verdure e funghi vagando per le campagne abbandonate. Nessuno di loro possedeva un'arma, a parte le falci e i rozzi coltellacci da lavoro, tuttavia la forza del numero e la presenza dei pastori armati garantivano una certa sicurezza da quella parte del lago. Fausto veniva tacitamente riconosciuto come capo della piccola cornunità, benché egli si guardasse bene dal dare ordini o trattarli come subordinati. Si limitava a stabilire i turni di guardia, dividere più o meno equamente i compiti e il poco cibo e a far rispettare alcune regole di elementare convivenza. Tra gli sfollati c'era una giovane contadina di nome Giusta, a cui avevano ucciso il marito e il figlioletto. Era stata selvaggiamente stuprata dai Visigoti, che l'avevano infine gettata in un fosso mezza morta. Fisicamente si era ripresa dalle violenze subite, ma qualcosa nella sua mente si era guastata. Aveva perso il senno, sembrava svanita, spesso diceva cose senza senso e non aveva più pudore. Per sopravvivere aveva cominciato a prostituirsi, senza alcun ritegno si appartava ovunque e con chiunque in cambio di un po’ di cibo. Fausto ne aveva avuto pietà e l'aveva incaricata di cucinare per loro, ma Giusta continuava a dare scandalo concedendosi a chiunque glielo chiedesse, anche ai pastori, che la frequentavano di nascosto. Solo Fausto e Vezio si astenevano da quei rapporti, l'uno perché vecchio o per qualche scrupolo morale, l'altro perché sposato, inoltre la sguaiata Giusta, paragonata allo struggente ricordo di sua moglie, lo disgustava. In quella precaria situazione di tregua, esercitando una continua e accurata vigilanza, trascorsero alcuni mesi. Era iniziata la stagione fredda, un inverno che si annunciava rigido e pieno di sventure.
Un profugo di aggio, riuscito a uscire non si sa come da Roma, riportò qualche notizia: la città era ancora circondata dai Visigoti, stremata dalla fame e da una misteriosa epidemia che mieteva centinaia di vittime tra gli assediati indeboliti. L'imperatore da Ravenna li spronava a resistere ma non aveva inviato alcun aiuto, allora Giovanni, il capo dei notai imperiali, si era recato da Alarico per chiedergli di abbandonare l'assedio in cambio di un riscatto. Alarico non si fece turbare da preghiere, esortazioni o minacce e dettò le sue condizioni per togliere l'assedio: tutto l'oro, tutto l' argento e tutti gli schiavi barbari dell'urbe! Incredulo, Giovanni chiese: "Dunque che cosa ci lasci?" "La vita!" Aveva risposto sarcastico Alarico. Il Senato di Roma, pur essendo l'ombra di ciò che era stato un tempo, respinse la proposta. In seguito però, dato che l'imperatore Onorio non si muoveva, il pontefice Innocenzo¹ fece riprendere le trattative. Egli si trovava in difficoltà perché il popolo di Roma dava la colpa dell'assedio al nuovo culto, che ufficialmente aveva soppiantato tutti gli altri. Si mormorava che gli antichi Dei non avrebbero mai permesso quel sacrilego assedio. Il fatto che i Visigoti fossero cristiani, seppur di culto ariano, gettava discredito sulla nuova religione; per il popolo, che rimpiangeva i fasti del ato, Alarico personificava la vendetta degli Dei nei confronti della città che li aveva traditi. I culti pagani, mai del tutto abbandonati, riprendevano nuovo vigore. Le trattative proseguivano senza sosta e in seguito venne raggiunto un accordo: ad Alarico sarebbero state consegnate 5000 libbre d'oro, 30.000 d'argento, 3000 di pepe e 4000 tuniche di seta! Si trattava un riscatto enorme e per raccoglierlo la città fu spogliata. Per ordine
d'Innocenzo furono depredati i templi pagani, fuse le statue d'oro e d'argento di Dei e imperatori. Riscosso l'immenso riscatto, i Visigoti tolsero l'assedio, rimanendo però minacciosamente accampati attorno alle mura. Alarico nutriva infatti un ambizioso progetto: diventare il braccio armato dell'impero. A tal fine inviò un messo a Ravenna per chiedere ad Onorio che gli venissero affidate le province ribelli di Britannia, Gallia e Spagna. Proponeva di sconfiggere gli usurpatori e governarle per conto dell' imperatore. Quasi contemporaneamente al messo di Alarico, giunse a Ravenna l'ambasceria da Roma che sollecitava l'approvazione del trattato siglato coi Visigoti. Onorio, che aveva uno scarso senso della realtà ed era mal consigliato, respinse entrambe le proposte. Ciò significava condannare Roma, dato che non aveva i mezzi per soccorrerla, ma Onorio fu sordo ad ogni argomento. Quando Alarico seppe del doppio rifiuto, riprese l'assedio della città. La piccola comunità nei pressi del lago era intanto cresciuta di numero. Quando nel marzo del nuovo anno si seppe che l'assedio era stato sospeso, la cinquantina di persone che popolavano la fattoria festeggiarono con calore la notizia ritenendo che il peggio fosse ato. Fausto però non si fidava e inviò Ummidio con due contadini in ricognizione verso Roma. Tornarono dopo due giorni annunciando che il transito sulla via Flaminia era ripreso, i Visigoti permettevano l'entrata e l'uscita da Roma. La piccola comunità cominciò a sciogliersi, perché la prospettiva della pace metteva tutti in agitazione. Anche i pastori erano ansiosi di andare a Roma ove avevano familiari, amici, e contavano di vendere vantaggiosamente le pecore. Dopo aver ceduto il cavallo, che poteva insospettire o attirare la cupidigia dei
Visigoti, Fausto, Ummidio e Reano si misero in cammino col gregge. A loro si unirono Vezio, Giusta, che non sapeva dove andare, e altri diretti a Roma. La marcia era lenta perché quasi tutte le pecore erano gravide e dovevano riprendersi dagli stenti dell'inverno, inoltre i pastori avanzavano con prudenza, esplorando attentamente il cammino. Quando furono a poche miglia da Roma, Reano segnalò un accampamento di Visigoti. Fausto si arrestò incerto sul da fare, Reano sosteneva che i barbari se ne stavano tranquilli e tutti insistevano per proseguire dicendo che ormai c'era la pace. Allora Fausto decisc di fare un tentativo: lui e Ummidio avrebbero cercato di are con una ventina di pecore, le più malandate, mentre gli altri avrebbero atteso nascosti nel bosco col resto del gregge. Se i Visigoti non li avessero infastiditi sarebbero tornati ad avvisare gli altri. Prima di avviarsi Fausto incaricò Vezio, il più anziano del gruppo, di badare a ogni cosa in sua assenza, perché Reano era troppo impulsivo. Quando i Visigoti videro i due pastori sbucare dal sentiero con delle pecore, pur se vecchie e macilente, subito accorsero a frotte. In un baleno i pastori furono spintonati, le pecore afferrate, squartate e infilate su rudimentali spiedi. Fausto, che non aveva portato armi, provava a protestare timidamente sostenendo che non era giusto, c'era la tregua e non potevano rubargli le bestie, ma fu malmenato e cacciato via in malo modo. Nonostante il favoloso riscatto incassato, i Visigoti avevano fame, perché l'oro non riempie gli stomaci e nelle campagne tutto era già stato razziato. Un barbaro che conosceva un po' di latino minacciò Fausto con la spada sguainata: "Vattene e stai contento di essere vivo. Pecore requisite. Noi abbiamo vinto, noi padroni!" I due pastori si allontanarono rapidamente, senza replicare. Dopo essersi fatto dare la bisaccia coi viveri da Ummidio, Fausto lo mandò a riferire l'accaduto agli altri, con l'ordine di tornare indietro e dirigersi con cautela
alla valletta isolata, ove dovevano attenderlo. Lui sarebbe andato a Roma per prendere la sua famiglia e li avrebbe presto raggiunti. Tenendosi alla larga dalle strade principali, senza essere fermato dai Visigoti, dopo alcune ore Fausto entrò in Roma dalla porta Flaminia, che nonostante la tregua era fortemente vigilata dalla milizia cittadina. Il pastore si rese subito conto delle sofferenze patite dagli assediati, i cui volti scavati rivelavano la fame e gli stenti. In preda a un brutto presentimento si affrettò verso la dimora dei suoceri, un'umile casetta sul lato meridionale del porto, nei pressi del monte dei cocci. La città pareva spopolata eppure Fausto sapeva che, oltre agli abitanti, vi si erano rifugiate decine di migliaia di persone dalle campagne prima dell'arrivo dei Visigoti. Le strade semideserte, le botteghe quasi tutte chiuse, il cupo silenzio dei vicoli lo sconcertavano: in pieno giorno a Roma non si era mai visto tanto desolato abbandono. A tratti il suo olfatto percepiva il terribile fetore della morte. Con un’affannosa corsa giunse alla casa dei suoceri, il cui portone, di solito aperto, era sprangato. Il pastore si mise a gridare e a tempestarlo di pugni sino a che una flebile voce non rispose dall’interno: "Chi è? Che volete?" Fausto si fece riconoscere e la suocera, una donna un tempo corpulenta ed energica, ora ridotta a pelle e ossa, riuscì con fatica a togliere il paletto per farlo entrare. Il pastore distolse lo sguardo da quello spettro e col cuore colmo d'angoscia, chiese: "Dove sono Quirina e i bambini? Come stanno?" La donna indicò sospirando il piano superiore e Fausto si slanciò sulla ripida scala di legno. La casa sembrava vuota, ma in un cubiculo semibuio scorse la moglie china su un letto, dalle cui coperte spuntava un visetto ossuto che Fausto non riconosceva.
Due bambini stavano rannicchiati su una panca e a fatica si levarono per salutarlo, erano i suoi figli più grandi. "Quirina! Ma che succede?" Lei gli rivolse uno sguardo desolato e il pastore rabbrividì, così sciupata e intristita non sembrava più la bella donna che aveva lasciato pochi mesi prima. Lei disse solo: "Tito sta male!" Senza perder tempo Fausto aprì la bisaccia e tirò fuori dei pezzi di formaggio che porse alla moglie e ai figli, poi si avvicinò al letto per vedere meglio. Quel visetto smunto su cui risaltavano il naso affilato e gli occhi febbricitanti, era quello di Tito, di appena tre anni. Fausto stentava a riconoscerlo e non riuscì a trattenere una terribile imprecazione. Stava per inginocchiarsi al capezzale quando la moglie lo trattenne: "Non ti avvicinare, forse è contagioso. Salvati almeno tu!" Fausto non se curò e le porse l'otre in cui di solito teneva l'acqua; quella mattina l'aveva riempito con latte di pecora appena munto. "È latte, spero non si sia guastato. Bevetelo subito!" Mentre Ia moglie svuotava l'otre in una caraffa, il pastore si accostò al piccino e prese le manine scheletriche tra le sue. "Come sei ridotto, figlio mio!" Due lacrime gli solcavano le gote. Tito era incosciente e non lo riconosceva; il pastore si asciugò le guance, per un uomo non era decoroso farsi veder piangere. Col cuore gonfio di pena si sollevò e andò ad abbracciare Curzio e Annia, i due figli di otto e sei anni erano anch'essi assai smagriti, ma non sembravano malati. Fausto era commosso e per non darlo a vedere parlava in continuazione: "Bevete il latte, mangiate il formaggio. Vi porterò via da qui, in campagna starete meglio!"
Scorgendo la suocera che si affacciava dopo aver faticosamente salito le scale, chiese del suocero, che non aveva ancora visto. Quirina scoppiò a piangere e lo abbracciò: "Papà è morto il mese scorso! Si levava il pane di bocca per darlo ai nipoti, diceva sempre di aver già mangiato e invece..." "Non piangere, ormai è tutto ato. Prepara le vostree cose, vi porto via di qui!" Fausto carezzava teneramente la moglie per farla calmare, ma lei scuoteva la testa e rispose tra i singhiozzi: "Tito è malato, non lo possiamo muovere. Non posso lasciare sola mia madre..." Il pastore replicò con fermezza, senza alzare la voce: "Andiamo via! Solo se lascia questa città malsana, Tito potrà guarire. Suocera, mangia qualcosa e preparati anche tu, verrai con noi!" L'interpellata prese un pezzetto di formaggio e iniziò a masticarlo lentamente: "Com'è buono! Era da tanto che non lo gustavamo. Grazie Fausto, però io resterò qui. Non ce la faccio a camminare e poi non voglio lasciare la casa incustodita. Appena potrò vi raggiungerò, però ora voglio rimanere accanto a mio marito". "Dove l'avete sepolto?" "Nel cortiletto qui sotto". Suo malgrado Fausto rabbrividì, sapeva che non era igienico seppellire i morti in casa. Ecco spiegato il fetore per le strade e il morbo, pensava, in una città assediata la convivenza coi morti è inevitabile e pericolosa. "Quirina, prendi solo l'indispensabile. Dobbiamo partire subito, la strada è lunga e c'è il pericolo che in seguito non ci facciano uscire dalla città". Mentre la moglie riempiva in fretta uno zaino e delle borse, lui tentava di nuovo di convincere la suocera, ma lei non voleva saperne di seguirIi. Fausto le lasciò gran parte dei viveri che aveva portato e si sistemava il pesante zaino sulle spalle.
Poco dopo si avviarono; Tito giaceva avvolto nelle coperte tra le braccia del padre. Teneva gli occhi aperti, ma sino a quel momento era rimasto incosciente e non aveva aperto bocca. Il pastore camminava dinanzi seguito dalla moglie, che portava due borse e badava ai deboli Curzio e Annia. Benché procedesse lentamente per il peso dello zaino, della bisaccia e per non sballottare Tito, la moglie e i figli stentavano a reggere il suo o e spesso si doveva arrestare per attenderli. Un'umanità sparuta e sofferente faceva capolino dagli usci, li guardava con aria rassegnata e non diceva una parola. Fausto non si curava di nessuno, oppresso com'era dalla preoccupazione per il figlio che reggeva tra le braccia. Com'era leggero! Nell’avvolgerlo nella coperta aveva constatato che Tito era ridotto a pelle e ossa. Quirina era riuscita a fargli inghiottire un po' di latte, ma il bimbo non aveva reagito né alle voci, né alle carezze. Il pastore percorreva lentamente la strada che poco prima aveva fatto di corsa, contemplando il visetto smunto di Tito, a cui ogni tanto sussurrava qualche parola nella speranza di destarne la coscienza. Si fermò presso una fontana per far riposare un poco la moglie e i tigli, ne profittarono per dissetarsi e per bagnare la fronte ardente di Tito. Ripresero il cammino; mancava poco alla porta Flaminia quando iI bimbo parve percepire le parole del padre. Fausto sentiva contrarsi i muscoli deIl 'esserino che stringeva tra le braccia, i cui occhi ebbero un balenio nel sussurrare: "Pater!" Quel momento di lucidità durò pochissimo, il pastore si era fermato e chiamava teneramente il bimbo, ma tutto si era risolto in quell'unica parola, mormorata in tono sorpreso. Dopo quel barlume di lucidità Fausto si rese conto che il corpicino si stava completamente rilassando e gli occhi si erano spenti, infine
comprese che Tito era morto. AlI'improvviso lo colse un' indicibile disperazione; si sarebbe gettato in terra, voleva battere la testa contro un muro per mettere fine a quella pena insopportabile che gli attanagliava 1'anima e le viscere. Continuava a camminare inebetito solo per un riguardo al corpo ancora caldo che stringeva. La vista era annebbiata dalle lacrime che gli solcavano le guance e cadevano, come gocce di pioggia, sul visetto di Tito. Non capiva più niente, non udiva neppure i richiami della moglie, rimasta indietro e insospettita dal suo atteggiamento. Non si accorse neppure dei soldati di guardia alla porta Flaminia, che avevano ordine di non far uscire gli uomini atti a impugnare le armi. Questi lo interpellavano invano, il pastore sembrava non udirli. Venne il centurione responsabile del posto di guardia, vide il bimbo morto e il padre stravolto; ne ebbe pietà e pensò che la famigliola andasse a seppellire quel corpicino fuori delle mura. Fece segno ai soldati di lasciarli are, le lacrime di quel padre lo turbavano, anche lui aveva perso un figlio in tenera età.
Cap. II In cerca di un rifugio. Ben presto Fausto lasciò la Flaminia e tagliò per i campi. Uscito dalla città aveva riacquistato un po' di lucidità e dopo circa un miglio si arrestò sotto una grande quercia. La moglie e i figli arrancavano a qualche centinaio di i, esausti; senza attenderli il pastore iniziò a scavare zolle di terra col suo coltello da caccia. Aveva deciso di seppellire Tito in quel punto, presso la maestosa quercia ove l’avrebbero baciato i raggi del sole, carezzato il vento, lavato la pioggia. Nel vederlo chino a scavare, Quirina capì e l'ansia per il figlio malato si sciolse in un pianto disperato. Anche Curzio e Annia cominciarono a singhiozzare vedendo il corpo esanime del fratello, a cui il padre aveva chiuso gli occhi. Il coltello non era l'ideale per scavare, ma la terra era morbida e Fausto si aiutava
con le mani; quel lavoro almeno lo dispensava dal pensare. Sua moglie era giunta piangendo, aveva sollevato Tito, lo abbracciava e baciava, poggiava il capo sul cuoricino sperando di sentirlo ancora battere. Gridava disperata al marito: "Aspetta, forse dorme!" Il pastore le rispose freddamente, cercando di celare il dolore che gli dilaniava il cuore: "È inutile, è morto!" Non disse che per un attimo Tito si era destato e l’aveva riconosciuto, non tentò di consolarla, però mandò i figli a raccogliere dei fiori per distoglierli dal penoso spettacolo. Quando la buca fu abbastanza profonda, Fausto vi depose il corpicino avvolto nella coperta. Prima di coprirlo di terra lo chiamò tre volte ad alta voce, come era costume, poi cavò dalla bisaccia una moneta e la sistemò nel palmo della manina. Anche se la sua fede negli Dei vacillava, Tito doveva pagare Caronte affinché lo traghettasse nell'ade. Dopo aver scansato la moglie, che non voleva separarsi dal corpicino, cominciò lentamente a coprirlo di terra. Quando ebbe terminato andò ad abbracciare Quirina, che singhiozzava senza più lacrime: "Coraggio! Ha raggiunto i nonni e mio fratello, baderanno loro al nostro Tito!" Annia e Curzio coprirono di fiori il piccolo tumulo e Fausto vi infisse un grosso ramo su cui aveva inciso col coltello: "D. M. Titus Licinus a.III"¹¹. Sostarono un poco, madre e figli piangevano mentre il volto del pastore sembrava di pietra. Prima di allontanarsi pronunciò alcune invocazione agli Dei degli inferi e concluse: "Addio Tito! Sopra di te crescerà l'erba e sbocceranno i fiori. eranno le stagioni, cadranno le stelle, però noi non ti dimenticheremo e prima o poi ci ritroveremo". Quirina non riusciva a muoversi, Fausto la sollevò tra le braccia e si incamminò sussurrandole dolci parole in un
orecchio. Com'era diventata leggera anche lei! I bambini li seguivano in silenzio, costernati e stanchi. Sino a quel momento il pastore, angosciato per il figlioletto, non aveva veramente osservato sua moglie. Tenendola in braccio prese a guardarla come se la vedesse per la prima volta: magra, stanca, col viso scavato, impastato di polvere e lacrime, quasi non la riconosceva. Eppure l'ovale del volto racchiudeva gli stessi delicati lineamenti, i lunghi capelli raccolti sulla nuca erano ancora corvini. Il corpo era smunto, le forze e l'antica allegria parevano scomparse, tuttavia a Fausto parve ancor più adorabile nel suo dolore inconsolabile. Le baciò teneramente la fronte e continuò a consolarla sino a che lei si scosse: "Hai ragione, piangere non serve a niente. Fammi scendere, devo parlare ai bambini". La valletta ove lo attendevano i suoi uomini era troppo lontana per giungervi prima che calasse il sole, pertanto Fausto decise di tornare a casa, quella casa che aveva sprangato pochi mesi prima. Per loro fortuna non fecero brutti incontri, ma quando al tramonto vi giunsero, esausti, l'amarezza si fece ancor più cocente. La porta era stata scardinata, la casa devastata, le poche suppellettili rubate o distrutte. Fausto se lo aspettava, i Visigoti avevano scorrazzato in lungo e in largo per l'agro romano, rovistando in ogni dove alla ricerca di cibo e bottino. Quirina stavolta non pianse e non si lamentò, aiutata dal marito cercava di mettere un minimo di ordine in una stanza meno devastata delle altre; quella notte avrebbero dormito lì. Poco dopo Fausto andò a scavare sull'aia, presso un masso, ove aveva sepolto una cassetta con dei viveri, e la ritrovò intatta. Si sentiva odore di muffa ma il grano era ancora commestibile. Ne tritarono un poco e, dopo aver il focolare, Quirina preparò una specie di polenta insaporita con odori e verdure raccolte in quello che era stato l'orto.
Cenarono in silenzio, seduti in terra dinanzi al focolare, dato che la poca mobilia era stata asportata o bruciata. Per dormire sistemarono le coperte in un angolo riparato. Fausto rimase sveglio, una grande pena l’opprimeva al pensiero del suo piccino che giaceva nella fredda terra. Dopo tante veglie al capezzale di Tito e quella terribile giornata, Quirina era crollata per la stanchezza. Il pastore la guardava dormire e si inteneriva pensando a quanto avesse sofferto. Quella notte dormì pochissimo, si levava spesso per controllare i dintorni e sistemare meglio la coperta sugli esili corpi dei tigli. "Si rimetteranno presto - pensava - e forse Quirina mi darà altri figli, ma non dimenticheremo mai Tito!" L'indomani all'alba, dopo aver mangiato quanto rimasto della minestra serale, si rimisero in cammino. Giunsero alla valletta a mezzodì e Fausto fu assai sollevato nel constatare che il posto non era stato devastato. I Visigoti non l’avevano trovato o forse l’avevano tralasciato perché c'erano solo due spoglie capanne e qualche recinto. "Tutto bene, amici? C'è del latte per i miei bambini?" Ummidio accorreva per salutare Quirina e i bimbi; nel vederli così smagriti esclamò: "Dunque ve la siete vista brutta a Roma! E Tito dov'è?" Fausto cercava di mostrarsi sereno: "Tito è morto ieri. C'è carne da cuocere? Oppure del formaggio fresco..." Ummidio era costernato: "Mi dispiace tanto, un così bel bambino! Aspetta, proprio ieri abbiamo macellato un agnello che si era azzoppato. Dammi il tempo di cuocerne qualche pezzo. I contadini se ne sono andati, è rimasta solo Giusta". Fausto chiamò la moglie: "Vieni Quirina, questo è Vezio, un uomo dotto e molto saggio! Quella donna si chiama Giusta, ha perso il marito e ci aiuta per quello che può".
Vezio si era fatto innanzi e si presentò con delle inopportune frasi spiritose e galanti, non sapendo che Quirina aveva appena perso un figlio. Reano glielo sussurrò e il vecchio si scusò. Dimentichi del recente lutto, i bambini si erano messi a correre sui prati dietro alcuni agnelli, ridendo e scherzando. La madre li osservava accigliata e stava per richiamarli, ma Fausto la prese per un braccio: "Lasciali giocare. Sono solo bambini e hanno tanto sofferto! Bevi un poco di latte, ti farà bene..." A mezzodì desinarono tutti assieme attorno al fuoco; Quirina e i bambini apprezzarono molto la carne, erano mesi che non ne mangiavano. Durante il pasto Ummidio pose la questione a cui tutti pensavano: "Che si fa ora, Fausto?" Il pastore si scosse dalle sue malinconiche riflessioni e rispose: "Portare le pecore a Roma è impossibile. I Visigoti ce le ruberebbero tutte". "Vale la pena tentare, i Romani sono così affamati che le pagherebbero a peso d'oro!" "Ma che dici, Reano? Non rammenti ciò che è successo a me e Ummidio? Siamo stati fortunati a salvare la pelle!" Il giovane però non sembrava convinto, voleva essere pagato e per questo sosteneva che bisognava vendere le pecore. Fausto emise un gran sospiro, la testardaggine del giovane sembrava impermeabile a ogni ragionamento; "Non ho denaro per pagarvi. Chi vuole andarsene riceverà delle pecore come compenso e sarà libero di venderle dove vuole o di farsi ammazzare dai Goti portandole a Roma!" Alla fine Reano e Vezio decisero di tentare l'impresa, il primo allettato dalla speranza del guadagno, il secondo perché doveva presentarsi al senatore Anicio Gallo.
Anche a lui Fausto voleva dare alcune pecore per il lavoro svolto, ma Vezio non accettò, affcrmava di essere stato trattato come un ospite e di essere lui in debito. A loro due, che conducevano una ventina di pecore, si univa anche Giusta, desiderosa di recarsi a Roma e legatasi affettivamente a Reano. Ummidio decise di restare con Fausto nonostante Reano insistesse: "Diventeremo ricchi vendendo le pecore a Roma. Percorreremo sentieri sicuri, i Goti non ci vedranno!" Ummidio però aveva troppo buon senso e paura per ritentare. Reano, Vezio e Giusta partirono nel pomeriggio dopo semplici e calorosi commiati. Nel vederli partire Fausto scuoteva la testa: "Sono pazzi! Vanno a cacciarsi nelle fauci del lupo". Ummidio commentò: "Adesso però siamo rimasti solo in due a badare a tutte queste pecore!" A quelle parole Quirina si fece avanti: "Vi aiuterò io, se occorre anche i bambini possono rendersi utili". Mentre discutevano su come organizzarsi, Fausto ebbe un'idea: "Andremo a venderle in Umbria, ci sono molte città che i Visigoti neppure conoscono e da quella parte i tratturi dovrebbero essere sicuri". Decisero di attendere un paio di giorni prima di partire, Fausto voleva far riacquistare le forze a moglie e figli, inoltre c'erano molte pecore in procinto di partorire. Nel frattempo Reano conduceva il suo gregge e i due compagni a Roma lungo sentieri scomodi e fuori mano. Quel giorno non fecero brutti incontri e pernottarono in un bosco, ma l'indomani ebbero la sfortuna di essere avvistati da un drappello di cavalieri Visigoti in perlustrazione.
La presenza delle pecore li calamitò sul piccolo gruppo. Nel vederli Vezio suggerì a Reano di abbandonare il gregge e fuggire subito nei boschi, ma il giovane non si rassegnava ad abbandoIlare il suo capitale: "Darò loro un paio di capi per tenerli buoni. C'è la tregua, non possono requisirle!" Vezio scuoteva la testa, mcredulo per tanta testardaggine, poi raccomandò a Giusta di coprirsi la testa col cappuccio e di non aprire bocca; indossando brache e mantello come un pastore, forse l'avrebbero scambiata per un uomo. Purtroppo le cose andarono diversamente da come speravano: i Visigoti non intendevano accontentarsi di qualche pecora, le volevano tutte! Reano aveva un bel gridare e gesticolare, i cavalieri non lo capivano e non erano interessati alle sue proposte. Vezio pregava invano il giovane di tacere, si accontentasse di salvare la vita, ma Reano era indignato e impulsivo; per far valere i suoi diritti sguainò la spada e quella fu la sua fine. Un cavaliere si scagliò su di lui e lo trao da parte a parte con la lancia. Senza un grido Reano stramazzò in terra moribondo. Dinanzi all'omicidio di quello che considerava il suo uomo, Giusta non riuscì a trattenere urla di orrore e disperazione, che svelarono il suo sesso. Allora anche lei divenne preda dei barbari, che gridando le si gettarono addosso strappandole gli abiti per stuprarla. In quella confusione, con parte dei Visigoti impegnati a rincorrere le pecore impaurite e gli altri attorno a Giusta, Vezio abbandonò la sua pesante sacca e riuscì a raggiungere inosservato il vicino bosco. Constatato che nessuno si curava di lui, il gregge e il vano dibattersi di Giusta distraevano i barbari, il vecchio si dileguò tra gli alberi. Per sua fortuna possedeva un discreto senso di orientamento e le tracce delle pecore erano inconfondibili, così riuscì a rifare la via sin lì percorsa con Reano. Camminò sino a quando non fu buio fitto, si fermò sotto un faggio, mangiò un pezzo di cacio che teneva nella bisaccia e poi si avvolse nel mantello per dormire.
Ancora in preda all'emozione rifletteva sugli eventi della giornata; Reano era stato uno sciocco, con la sua reazione impulsiva aveva perduto se stesso e la disgraziata Giusta. Chissà se era ancora viva? Forse l'avevano portata come preda con le pecore al loro accampamento. L'esperienza l’aveva reso un po' filosofo, amava ricavare una morale dagli eventi a cui assisteva, quindi rafforzò una sua convinzione: l'eccessivo attaccamento ai beni terreni conduce alla perdita di tutto, anche della vita. Dormì poco e male, ripensando a ciò che era accaduto, e alle prime luci dell'alba si rimise in cammino. Non sarebbe andato a Roma, era troppo pericoloso ed evidentemente il fato non voleva che vi tornasse, almeno per il momento. Ora sperava solo di ritrovare la valletta e i pastori, si rendeva conto che da solo avrebbe avuto ben poche possibilità di cavarsela in quelle campagne infide. La fortuna fu dalla sua: non si smarrì e i pastori non si erano ancora mossi; al tramonto Vezio raggiunse la valletta ove ritrovò i suoi amici. Questi furono sorpresi nel rivederlo e ascoltarono in un tetro silenzio il suo racconto. Amareggiato e preoccupato, Fausto andò a spegnere il fuoco. Dopo una silcnzìosa riflessione concluse: "Mi dispiace dirlo, ma Reano è stato scìocco e avventato! Domani partiamo per l'Umbria, vuoi venire con noi, Vezio?" Il vecchio riflettè un attimo poi annuì; "Ve ne sarò grato. Evidentemente non è destino che per ora torni a Roma!" Quella sera raddoppiarono le precauzioni nel timore che anche i barbari potessero seguire le tracce del gregge di Reano, come aveva fatto Vezio. L'indomani si misero in viaggio di buon'ora. Con la spada al fianco, il paiolo e gli attrezzi per fare il fomaggio sulle spalle, Fausto li precedeva di mezzo miglio per esplorare il percorso. Ogni tanto sul bordo dei sentieri sovrapponeva due
pietre, era il segnale che sin lì era tutto tranquillo. La sua famiglia, Ummidio e Vezio lo seguivano; aiutati dai cani facevano avanzare e tenevano unito il gregge. Lungo i tratturi le pecore si attardavano a brucare, così Fausto acquistava sempre più vantaggio pur avanzando cautamente. Una volta dalla sommità di una collina vide transitare due cavalieri Visigoti; viaggiavano verso meridione, forse diretti presso Roma. Fausto attese che si allontanassero poi dispose tre pietre a triangolo: era il segnale convenuto per segnalare un pericolo e che bisognava avanzare con prudenza. Il pastore era preoccupato, dovevano attraversare luoghi frequentati e per un occhio esperto i segni del aggio delle pecore erano evidenti. Dopo aver esplorato alcune vallate, valutando attentamente la strada migliore per far transitare il gregge, andò incontro ai suoi percorrendo un ampio semicerchio. Quando li raggiunse non parlò dei Visigoti che aveva scorto, non voleva farli preoccupare, però diede precise disposizioni: "Più avanti c'è una vallata sul cui fondo corre una strada. Dobbiamo attraversarla rapidamente, senza lasciare tracce. Curzio, Annia, quando supereremo quel costone vi metterete in coda al gregge e raccoglierete ogni escremento lasciato dalle pecore. Ve la sentite?" I bambini risposero di sì, fieri di rendersi utili anche se l'incarico non li entusiasmava. Quirina si fece avanti: "Li aiuterò anch'io". "No, tu e Vezio mi occorrete per un altro lavoro!" Si diresse verso gli alberi e tagliò due ampi rami fronzuti; "Voi due starete dietro i bambini, controllerete che nulla sfugga e trascinerete queste fronde dov’è ato il gregge, in questo modo. Non dobbiamo lasciare nessuna traccia!" Ummidio si era avvicinato e Fausto gli si rivolse: "Non appena valichiamo la collina, io e te faremo correre le pecore. La sottostante vallata è un punto pericoloso e dobbiamo traversarla rapidamente. Disponi i cani, che nessuna pecora si disperda o si fermi a brucare!"
"Stai tranquillo!" Rispose Ummidio, che gli era molto affezionato. Tre giorni prima era stato tentato dal seguire Reano, ma da quando ne aveva conosciuto la sorte riponeva ancor più fiducia in Fausto, che considerava un amico. Pur addolorato al pensiero del giovane ucciso dai Visigoti, si rallegrava con se stesso per non averlo seguito. L'attraversamento dell'ampia valle, sul cui fondo correva una strada lastricata in quel momento deserta ma segnata dal eggio di cavalli e carri, fu celere e privo di inconvenienti. Non appena il gregge fu al sicuro nel bosco sull'opposta collina, Fausto tornò indietro per aiutare a coprirne le tracce. I bambini stavano facendo un buon lavoro e il padre, maneggiando un grosso ramo, affiancò Vezio dicendogli scherzosamente: "Allora, ti piace la vita del pastore?" Quello ansimava trascinando una pesante fronda: "Certo, anche se è un po' troppo faticosa per la mia età!" A mezzodì si fermarono in un'ampia radura sul limitare di un bosco; erano stanchi e le pecore dovevano pascolare, così desinarono e sostarono a lungo. Fausto era inquieto, avrebbe voluto allontanarsi il più in fretta possibile, ma si rendeva conto di non poter ulteriormente accelerare l'andatura. Col pretesto di attingere acqua a un vicino ruscello, fece un' ampia ricognizione. Ummidio lo seguiva, ansioso di conoscerne le intenzioni: "Dove stiamo andando? Conosci questi luoghi?" "A poche miglia, in quella direzione, ci sono le rovine di Falerii, l'antica capitale dei Falisci¹², noi però devieremo verso levante, ove c’è un buon guado del Tevere. Andremo in Sabina, ci portai le greggi alcuni anni or sono". "Ma che ci andiamo a fare in Sabina?" "Là i barbari non ci dovrebbero essere. Dopo punteremo di nuovo a nord, verso Narni, ove venderemo le pecore. Ti ricordi cosa disse quel viandante? Narni è stata ignorata dai Visigoti per le sue mura imponenti, ma le sue campagne sono
state razziate e gli umbri non hanno più bestiame". "E un cammino lungo e difficile! Se potessimo percorrere la Flaminia o la Salaria..." "Sei pazzo? Tutte le strade sono controllate dai barbari. Dovremo restare sulle colline o in mezzo ai boschi, e bisogna che la Dea Fortuna ci assista!" Tornati alla radura, Fausto ordinò di ripartire. Mentre avviavano il gregge Vezio gli venne vicino; "Hai due bambini intelligenti e obbedienti; vuoi che insegni loro a leggere e far di conto? Così potrei in qualche modo ripagare la tua ospitalità!" "Grazie, Vezio. Ti stai già rendendo utile, ma se lo farai ne sarò lieto. Purtroppo io non sono in grado d’insegnare loro". AI calare delle tenebre si fermarono alle falde di un monte selvaggio. Fausto si ricordava di una grotta nei paraggi, che trovarono dopo una breve ricerca. L'ingresso era nascosto da folti cespugli, ma la grotta era tanto ampia da poter ospitare loro e il gregge. In quel riparo si azzardarono ad accendere il fuoco, sicuri che nessuno avrebbe scorto il bagliore delle fiamme per via dell’abbondante vegetazione che occultava l'ingresso. Nella grotta si sentivano al sicuro, tanto che Fausto non stabilì i soliti turni di guardia, d'altronde erano tutti molto stanchi, sarebbero bastati i cani a vigilare. Fu una notte tranquilla, Quirina si era addormentata tra le braccia del marito; pareva stesse superando il dolore per la morte del figlio. All'alba si misero in cammino verso levante; i bambini avanzavano a fianco di Vezio che, come se fosse un gioco, scriveva delle lettere e le faceva ricopiare su una tavoletta cerata, l'unica cosa che avesse salvato delle sue scartoffie. Curzio e Annia parevano contenti del nuovo svago e seguivano con attenzione le sue istruzioni. Nella tarda mattinata giunsero al Tevere, che scorreva ampio e maestoso.
Essendo primavera la portata del fiume era notevole e Fausto disperava di poter trovare il guado che aveva utilizzato alcuni anni prima. Lui e Ummidio fecero una ricognizione lungo la riva, uno verso sud e l'altro a nord. Ummidio tornò dicendo di aver trovato un possibile guado. Quando Fausto andò a vedere, lo riconobbe: in quel luogo il fiume si allargava e formava una grande ansa, che in parte sembrava una vasta e tranquilla palude, a parte un breve tratto ove la corrente conservava un certo impeto. Il pastore si spogliò, affrontò quel tratto e subito si rese conto che era il punto più ostico. L'acqua era fredda e profonda tre braccia, la corrente vigorosa; "Ummidio, lega la corda a quell'albero e arnela!" L'amico obbedì e Fausto traversò a nuoto il punto critico, tenendo un capo della corda tra i denti. Arrivato sull'ansa paludosa legò la corda a un masso in modo che rimanesse tesa, un palmo sopra il filo della corrente. Intanto gli altri erano giunti al guado col gregge: "Coraggio Quirina, entra in acqua coi bambini. Reggetevi ben saldi alla corda e venite verso di me". La donna era perplessa tuttavia obbedì: "Ma è gelida! I bambini si ammaleranno...” "Meglio raffreddati che massacrati dai Goti! Avanti, quando sarete dall'altra parte vi asciugherete al sole". Dopo che la donna e i bambini furono ati Fausto, che si era messo al centro del guado per aiutarli, tornò sulla riva per organizzare il aggio del gregge. Quella era la parte più difficile e ne discusse a lungo con Ummidio; "Vezio spingerà le pecore in acqua, io e te ci metteremo in mezzo al guado per aiutare quelle in difficoltà. Fai are prima i cani, baderanno al gregge una volta che sarà dall’altra parte". "La corrente se ne porterà via parecchie, converrebbe legarle una per una". "Ci vuole troppo tempo e non abbiamo molte corde. Stai tranquillo, se resterai
saldo al tuo posto tutto andrà bene!" Fecero transitare i cani, che non ebbero difficoltà essendo buoni nuotatori, poi Vezio cominciò a spingere le pecore nel fiume, una dietro l'altra. La folta lana era quasi impermeabile e faceva da galleggiante, ma gli ovini non sono grandi nuotatori e avanzavano con difficoltà. Fausto e Ummidio ebbero il loro daffare per strapparle alla corrente c spingerle fuori dal punto critico. Quel transito durò più di un’ora, i due uomini erano mezzi assiderati, tuttavia riuscirono a far are quasi tutte le pecore, solo qualcuna fu trascinata via dalla corrente. Più avanti, nell'acqua bassa, Quirina, i cani e i bambini si preoccupavano di farle uscire dalla palude e portarle sull’altra riva, all'asciutto. Quando Vezio ò dietro l'ultima pecora, anche i due pastori uscirono dall'acqua dopo aver recuperato la corda e gli abiti. Erano quasi assiderati per il freddo, ma Quirina aveva un fuoco sulla riva e li fece spogliare completamente per asciugarli e farli riscaldare. Fausto non riusciva quasi a parlare, tuttavia protestava energicamente: "Spegni... il fuoco!... Vedranno... il fumo..." "Taci, volete morire assiderati? Asciugatevi e indossate questi panni asciutti". Stavolta i pastori obbedirono in silenzio, imbarazzati per la nudità, si massaggiavano a vicenda per riattivare la circolazione; "Quante pecore abbiamo perso?" "Sei. Cinque se le è portate via la corrente, una è affogata. E laggiù, in mezzo alla palude. Dopo andremo a macellarla". "Bisogna andarsene al più presto da questo posto, siamo troppo in vista!" Dopo essersi asciugati e rivestiti, i pastori spensero il fuoco e mangiarono qualcosa mentre spingevano il gregge verso una collina piena di vegetazione.
Ummidio aveva squartato la pecora affogata, le cui interiora furono lasciate ai cani, che nel guado del Tevere avevano faticato quanto i pastori. Fausto osservava i bambini, che correvano e giocavano più vispi che mai; "Moglie, hai visto che stanno benissimo?" "Vedremo" Rispose Quirina, indaffarata a sistemare gli abiti bagnati in uno degli zaini che si portavano dietro. Ripresero il cammino più tranquilli avendo messo il Tevere tra loro e i Visigoti. "Siamo in Sabina" diceva Fausto che conosceva quei luoghi per averci condotto le greggi in ato. "Per andare verso Narni ci sono due vie, una comoda e quasi pianeggiante, l'altra più breve ma assai scomoda, che taglia attraverso quei monti. Faremo la prima!" Non avevano neppure percorso un miglio quando Ummidio gridò: "Fausto, sotto quegli alberi c'è qualcuno!" "Richiama i cani e stai pronto con l'arco! Non sembrano malintenzionati, vado a vedere". Ai margini di un boschetto si intravedevano alcune persone che, adocchiato il gregge, erano in grande agitazione. Il pastore avanzò lentamente, levando un braccio per far capire che non aveva intenzioni ostili. In quei luoghi era facile incappare nei banditi, però quello gli pareva un gruppo di profughi; "Salve, gli Dei siano con voi. Mi chiamo Fausto Licino e sono un pastore. Voi chi siete? Da dove venite?" Il gruppo era in subbuglio, tutti parevano eccitati. Un uomo giovane e vigoroso che dagli abiti sembrava un contadino, gli andò incontro: "Mi chiamo Anco Rulliano e questi sono i miei familiari. Fuggiamo dai Goti che hanno distrutto la nostra casa, dieci miglia a sud da qui". "Ci sono i Visigoti anche da queste parti? Sei sicuro che non fossero comuni banditi?"
"I briganti li riconosco, con loro un accordo si trova, ma questi sono barbari! Ammazzano, stuprano e rubano, devastano tutto quello che non riescono a portar via. Scambieresti una pecora con grano e fave secche?" "Va bene, però dammi qualche informazione. C'è un luogo sicuro ove possa condurre il gregge e la mia famiglia?" Prima di rispondere Anco Rulliano porse la destra al pastore, che la strinse con calore; "Qualche città umbra, ma sono lontane, oppure la montagna. A due miglia c'è un o che conduce a un altipiano isolato. Noi siamo diretti lì, è un posto sicuro. Come hai fatto a salvare le tue pecore? La zona è piena di barbari!" Una sorda inquietudine afferrò Fausto; dunque tutte le sue fatiche e speranze erano vane? Se le cose stavano come diceva Anco, gli esploratori Visigoti non avrebbero tardato a trovare le tracce del gregge. "Sinora la fortuna ci ha assistito. Su questo altipiano c'è pascolo per le pecore? Possiamo venire con voi?" "Pascolo ce n'è a sufficienzà, però c'è poca acqua. Venite pure. Più siamo e meglio ci potremo difendere". Fausto chiamò i suoi, ci furono delle sommarie presentazioni e subito ordinò di seguire i contadini, una decina di persone in tutto: tre uomini, due donne e cinque bambini. "Ummidio, dai mezza di quella pecora che hai macellato a questa brava gente. Vedi se vogliono anche dei latte per i bambini. Mettiti avanti e fai correre il gregge, io resterò dietro. C'è pericolo che i barbari trovino le nostre tracce!" In retroguardia con lui rimase il padre di Anco, Tullio Rulliano, che ansimava sotto il peso di un grosso sacco. Fausto notò che i contadini portavano un gran numero di sacchi, ceste e fagotti, persino i bambini ne erano carichi. "Dallo un poco a me il tuo sacco. Quanti anni hai, Tullio?" "Grazie, più avanti profitterò della tua gentilezza ma per ora ce la faccio. Ho 55 anni, Anco e Bruto sono i miei figli, le donne sono le loro mogli. Avete molte
armi?" "Due archi e le spade. Perché me lo chiedi?" "I Goti vedranno le tracce del tuo gregge, forse dovremo batterci!" "Allora vi stiamo mettendo in pericolo?" "Forse, però se arriviamo al o saremo al sicuro". Fausto si inerpicò su una collinetta per dare uno sguardo attorno e non vide nessuno. Quando raggiunse Tullio gli tolse il sacco dalle spalle. "Che ne è della vostra casa?" Nel rispondere l’uomo sembrava turbato: "L'hanno bruciata. Siamo fuggiti appena in tempo, abbiamo scorto le fiamme da lontano". "Coraggio Tullio! Voi siete gente tenace e la ricostruirete quando tutto questo sarà ato". "lo avrei preferito difenderla e morire con la spada in pugno, ma i figli mi hanno trascinato via!" Il pastore squadrò con interesse l' orgoglioso Tullio e rispose: "È meglio restare vivi. Però tu non sei stato sempre un contadino, vero?" "Ero un soldato! Vent'anni di servizio tra la Dacia¹³ e il Danubio. Ho combattuto anche agli ordini di Stilicone". "Speriamo non ci occorra la tua esperienza. In quale corpo hai militato?" Tullio era contento di aver trovato qualcuno interessato al suo glorioso ato, figli e nipoti non ascoltavano più i suoi racconti: "Ero in una legione comitatense¹⁴, soldato scelto e più volte decorato. Sapessi quante battaglie..." "Ascolta, Tullio... Sono dei cavalli che si avvicinano?" Dopo un attimo di esitazione i due si ficcarono in mezzo ad alcuni cespugli e si misero a scrutare ansiosamente attorno. Per fortuna i loro cari erano molto più avanti. Ormai il calpestio dei cavalli era inconfondibile e a un tratto, dietro un piccolo
rilievo, spuntarono cinque cavalieri. "Sono Visigoti! Più avanti vedranno le tracce del gregge... Dove saranno adesso le nostre famiglie?" "Stai tranquillo, dovrebbero essere quasi giunti al o. Se ci affrettiamo, presto ci arriveremo anche noi". Non appena i cavalieri furono scomparsi, i due uomini si misero a correre, Tullio davanti e Fausto dietro, ansimante sotto il peso dello zaino e del sacco; "Quanto pesa questo sacco. Non sarà il caso di abbandonarlo?" "No! Quello è orzo e ci sfamerà per un bel pezzo. Se sei stanco dallo a me". "Allora porta il mio zaino e vai avanti, corri ad avvisarli!" Tullio gli tolse lo zaino però non si allontanava, temeva che il pastore non trovasse la strada per il o. Dopo un tempo che ai due parve lunghissimo, giunsero in vista di una ripida rampa che saliva tra due rupi; ad attenderli c'era Bruto; attorno non si vedeva nessuno. "Tutto bene, padre?" Chiese da lontano il contadino. "Chiama gli altri, che portino le armi, ci sono i Goti nei paraggi!" Fausto depose il sacco e domandò, riprendendo fiato: "Vuoi batterti? Noi non siamo soldati e tu non sei più un ragazzo". Il vecchio pareva aver riacquistato la baldanza giovanile: "Taci, pastore! Troveranno le tracce delle tue pecore, le seguiranno e ci saranno addosso. Se proprio dobbiamo affrontarli, questo è il luogo giusto. Il o è stretto e ripido, non possono caricare con i cavalli e da lassù possiamo tenerli a bada con gli archi e le pietre!" "Se non saranno troppi!" Mormorò dubbioso il pastore, sperando che i barbari non si accorgessero delle tracce o che non avessero interesse a seguirle. Bruto era corso via, Fausto e Tullio si sistemarono sulla sommità del valico, al
riparo di alcune rocce, in ansiosa attesa degli eventi.
Cap.III Scontro sul o, vita sull’altipiano. Mentre attendeva l'arrivo dei compagni, Fausto studiava con attenzione il luogo. Una catena di colline pietrose e ripide chiudeva la valle; l'unico aggio visibile era la scarpata tra le rocce sulla cui sommità erano attestati, residuo di qualche antica frana. Non scorgeva altra via per valicare quelle colline scoscese, coperte di impenetrabile vegetazione. Vedendolo inquieto, Tullio cercava di tranquillizzarlo: "I tuoi sono al sicuro. Sull'altopiano ci sono molte grotte in cui si può trovare riparo". Fausto però non era convinto: "Anche se qui riusciamo a impedire il aggio, ci potrebbero aggirare". "Dovrebbero percorrere circa venti miglia e conoscere bene i luoghi. Non credo ci riuscirebbero, inoltre i barbari non hanno tanta pazienza". "lo ne ho contati cinque, speriamo non ce ne siano altri!" Poco dopo giunsero gli uomini con le armi: i Rulliano avevano tre spade, Fausto e Ummidio due archi e le loro corte daghe, solo Vezio era disarmato. I pastori volevano rimandarlo presso le donne e i bambini, ma Tullio, che aveva tacitamente assunto il comando, non era d'accordo: "Se arrivano i Goti ci sarà utile! Bruto è bravissimo coll'arco, se glielo prestate lui darà la sua spada al vecchio". Vezio intervenne con ironia: "Hai quasi la mia età e mi chiami vecchio?" "Hai ragione, ti chiedo scusa. Ora però bisogna preparare altre frecce; Anco, Bruto, andate a tagliare un po' di rami".
Fausto aveva ceduto il suo arco a Bruto, l'altro lo teneva Ummidio che lo maneggiava con una certa abilità. Mentre tagliavano e sagomavano i rami coi coltelli per farne delle frecce, i pastori confabulavano tra loro: "Dove hai lasciato il gregge?" "Sta pascolando sull'altipiano. Ci pensa tua moglie con l'aiuto dei cani. Questi contadini sono pazzi, vogliono combattere contro i Visigoti?" Fausto indicò Tullio: "È un ex soldato e forse ha ragione, se ci vengono a cercare questo è il posto migliore per affrontarli. Forse non verranno, è quasi il tramonto..." Di li a poco sarebbe stato buio, tuttavia decisero di non accendere il fuoco. Fausto e Ummidio estrassero dalle bisacce alcuni pezzi di cacio, che divisero in sei pezzi, mentre i Rulliano spartivano dei pane d'orzo alquanto duri. Avevano anche due otri di pelle pieni d'acqua. Sbocconcellavano il cibo seduti tra le pietre, chiacchierando e preparando altre frecce. A un tratto udirono in lontananza l'inconfondibile scalpiccio dei cavalli, poi voci d'uomini nella vallata sottostante. Subito si affacciarono, preoccupati, e Tullio mormorò: "State al coperto, non fatevi vedere!" "Sono in cinque, ma non riesco a distinguerli..." "Sono i Visigoti che abbiamo visto io e Fausto! Preparate gli archi, ma tirate solo quando saranno a venti i. Dobbiamo essere sicuri di colpire i primi due e almeno altri due col secondo tiro..." Fausto aveva il cuore in gola e non era solo paura, evidentemente quei cavalieri stavano seguendo le tracce del gregge e si sentiva responsabile. "Sta facendo buio, non credo che saliranno quassù". I Visigoti si erano arrestati nella piana sottostante e discutevano animatamente.
Si capiva che non erano d'accordo, uno indicava il o, gli altri gridavano qualcosa d'incomprensibile. Alla fine voltarono i cavalli e scomparvero da dove erano venuti, seguiti dagli ultimi raggi del sole. "Se ne vanno!" Ummidio era visibilmente sollevato ma Tullio lo gelò: "Hanno desistito per via del buio, però le vostre pecore fanno gola. Credo che domani torneranno". "Se gliele lasciassimo in cambio della nostra salvezza...?" "Probabilmente ci ammazzerebbero lo stesso. In ogni caso ci toglierebbero tutti i viveri e moriremmo di fame. Se poi vedono le donne... Credo ci convenga difenderci!" "Hai ragione, d’altronde sono solo in cinque!" "Non dovremo farne fuggire neppure uno, altrimenti ne arriverebbero altri. Vezio, Hai capire che dicevano?" "No, erano troppo lontani. Però stavano quasi per azzuffarsi..." Anco cambiò argomento: "Donne e bambini sono soli. Non è il caso di tornare?" Tullio invece affrontò una questione che lo angustiava, temeva che di fronte al pericolo ognuno fe di testa sua. Così concluse: "Ci salveremo solo se restiamo uniti. Se siete d'accordo prenderò io il comando, essendo l'unico che abbia esperienza militare. Che ne dite?" Tutti erano d'accordo, poi Fausto chiese: "Anco aveva accennato alle famiglie, le lasciamo sole?" Tullio ci pensò un poco prima di rispondere: "Tu, Anco e Bruto andate dalle vostre mogli e rassicuratele. Stanotte rimanete con loro e domattina tornate qui all'alba con acqua e cibo per due giorni. lo, Ummidio e Vezio resteremo e faremo dei turni di guardia, anche se credo che di notte non accadrà nulla". Fausto e i fratelli Rulliano accesero una rudimentale torcia e lestamente s'incamminarono verso l'altopiano. Un semplice bivacco si trovava a mezz'ora di cammino dal o, ai margini di
una grande grotta ove erano state ricoverate le pecore. Le donne avevano sistemato i figli per la notte e, inquiete, vegliavano attorno a un fuoco. Furono contentissime di rivedere i mariti, che invitarono a sedere attorno al falò, ma Bruto non condivideva quella sistemazione allo scoperto. Tanto fece e tanto disse, che il fuoco fu spento e tutti si rifugiarono in una piccola grotta in alto. Secondo Bruto in quell'antro sarebbero stati maggiormente al sicuro. Si spostarono prendendo in braccio i bimbi già addormentati e i bagagli. Mentre portava Annia tra le braccia, con voce tranquilla Fausto raccontò alla moglie l'avvistamento dei cinque cavalieri. Pur non desiderando angosciarla, voleva che fosse preparata al peggio: "Li fermeremo, ma voi state in guardia. Se senti giungere dei cavalieri, nascondetevi in qualche grotta con un paio di pecore. Vi sfameranno sino a che il pericolo non sarà ato. Se non dovessi tornare, prendi i bambini, dirigiti in Umbria e rifugiati in qualche città". Quirina però era una donna testarda e non nascondeva il suo disaccordo: "Ho già perso un figlio perché eravamo separati. Senza di te non mi muovo! Ti aspetterò quassù e tu sbrigati a tornare!" Fausto corrugò la fronte: "Ritornerò, ma se le cose si mettono male farai come ho detto!" Poi per cambiare argomento, chiese: "Come ti trovi con queste donne? E i bambini?" "Loro sono contentissimi, hanno degli amici con cui giocare. Vorrei però che Vezio continuasse le sue lezioni. Anch'io mi trovo bene, i Rulliano sono brava gente. Noi donne ci aiutiamo a vicenda e ci facciamo compagnia". Chiacchierarono a lungo, sommessamente, era da tanto che non si confidavano; infine si addormentarono abbracciati dopo aver fatto cautamente all' amore nella
grotta piena di dormienti. AIl'alba, dopo aver cotto sulla brace della carne di pecora, i tre uomini tornarono al o. Portavano un paniere pieno di cibo e gli otri colmi d'acqua, perchè sull’altipiano c’era una piccola sorgente. Fausto era preoccupato per il gregge, Quirina gli aveva promesso di condurlo al pascolo, ma lui temeva che non fosse in grado di badare a tante pecore da sola. Anco lo rassicurava: "Stai tranquillo, le nostre mogli l’aiuteranno e poi ci sono i cani..." Giunsero al o mentre il sole si alzava alle loro spalle; Ummidio, Vezio e Tullio furono particolarmente soddisfatti nel vedere il paniere ricolmo. "C'è carne di pecora alla brace. La mangiamo adesso che è ancora calda o più tardi?" Tullio aveva riacquistato la grinta e la sicurezza di un tempo: "Mangiamo ora, dopo potremmo non averne l’occasione e avremo bisogno di energie!" "Tutta questa preoccupazione per cinque uomini, padre?" "Temo possano essere di più, hanno visto le tracce di un grosso gregge..." A malincuore Fausto espose la sua idea: "Se conduco parte delle pecore nella vallata, i Visigoti le prenderanno e ci lasceranno in pace!" Tullio scuoteva la testa: "lo li conosco questi barbari. Porterebbero via le pecore e poi tornerebbero spinti dalla curiosità, alla ricerca di altro bottino. Vivono di razzie, cercherebbero altro cibo, oro, donne. La nostra unica speranza è ucciderli tutti, cinque o dieci che siano. Nessuno dovrà tornare indietro a rivelare la nostra presenza!" Dopo che ebbero mangiato con appetito, iniziò una lunga e laboriosa attesa. Seguendo le indicazioni di Tullio sistemarono dei massi in cima al o per ripararsi ed eventualmente precipitarli addosso agli assalitori. Solo all'ora quarta¹⁵ Anco, che si era arrampicato su un pinnacolo di roccia,
annunciò una nuvola di polvere in lontananza. Tullio lo fece scendere e ricontrollò di nuovo le armi: le lame delle spade erano state affilate e accanto a tre archi, uno un po' rozzo lo aveva realizzato Ummidio quella notte, giacevano mucchi di frecce aguzze ma prive delle penne timoniere. Non avendo i dardi punte di ferro o di selce, difficilmente avrebbero ucciso, pertanto Tullio era ricorso a un vecchio trucco: lui e Vezio avevano raccolto delle piante selvatiche di cui conoscevano la tossicità, le avevano pestate ricavandone un succo che sapevano molto irritante. In quel liquido verdastro e urticante, raccolto in una pietra concava, bagnavano le punte di legno delle frecce. Vezio spiegava: "Non è un veleno ma poco ci manca. Li farà ululare dal dolore e anche una ferita leggera li tormenterà come un atroce mal di denti!" Il polverone si avvicinava e ora potevano distinguere distintamente i cavalieri che lo sollevavano. A un tratto Anco esclamò "Siamo perduti! Saranno almeno una ventina..." Tullio ruggì: "Taci, uccello del malaugurio! Vai ad appostarti con tuo fratello e Ummidio. Lasciateli avvicinare sino a che non darò il segnale e non sprecate le frecce!" L'ex soldato sapeva che il maggior pericolo per chi si appresta a combattere è lo scoramento, però anche lui era angosciato. Non si aspettava così tanti barbari, tuttavia ostentava grande fiducia: "Qui non riusciranno a are. Dovranno scendere dai cavalli e li decimeremo con le frecce, poi li finiremo con le spade. Non abbiate paura, la sorpresa sarà il nostro più grande alleato; mi raccomando, non arretrate, questo è il punto migliore per fermarli!" Fausto avvertiva la paura dei compagni, la stessa che aveva provato lui nel contare i ventuno cavalieri che avanzavano, pertanto volle dare un segnale. Levò la spada, invocò la protezione dì Marte ed esclamò: "Giuro sugli Dei e sui miei figli che non arretrerò di un o. Vittoria o morte!" "Bravo pastore! Figli miei, giurate anche voi con me: forza e onore!" Tutti giurarono, anche Vezio, che nel sollevare la pesante spada datagli da Bruto aveva
tutt'altro che un aspetto marziale. I sei uomini si abbracciavano commossi, poi Fausto si rivolse al vecchio: "Grazie Vezio! Tu non eri obbligato". "lo ho vissuto abbastanza e forse Dio mi dà l'occasione di morire con dignità per una giusta causa. Piuttosto, non cambieresti la tua spada con questa, per me troppo pesante?" Il pastore sorrise, l’accontentò e l’abbracciò. Intanto i cavalieri giungevano ai piedi del o ove si arrestarono, constatando che la frana non poteva essere aggirata né percorsa a cavallo. Smontarono e osservarono con attenzione il suolo, stavano proprio seguendo le tracce del gregge. Verificato che le pecore avevano percorso quello scomodo aggio, si apprestarono a salire tenendo i cavalli per la briglia. In cima al o, dietro le rocce, Tullio e i suoi rimanevano nascosti, in assoluto silenzio. I Visigoti, quasi tutti giovani e ben armati, salivano senza alcuna precauzione, discutendo ad alta voce nella loro lingua. Gli zoccoli dei cavalli facevano un gran rumore sulle pietre e i cavalieri, coperti di pelli e corazze di vario tipo, prestavano grande attenzione per non farli azzoppare. Apparivano alti, robusti, con lunghe capigliature bionde che gli elmi non riuscivano a contenere, spade al fianco e pesanti lance nelle destre. Stavano per giungere in cima al o ma Tullio ancora non si decideva a dare il segnale. Appostato dietro una roccia, Fausto temeva che l’ordine arrivasse troppo tardi, però l'ex soldato sapeva il fatto suo. Quando i Visigoti furono ad una quindicina di i da lui, che era il più avanzato, sollevò il braccio e tre dardi solcarono l'aria. Tre cavalieri ruzzolarono a terra seriamente feriti; alle loro grida i compagni si erano arrestati, sorpresi, mentre altre frecce fendevano l'aria.
Solo allora compresero che si trattava di un agguato e volsero le spalle in preda al panico, trascinando i cavalli. Mentre i dardi sibilavano, Tullio scattò innanzi lanciando urla terribili, imitato da Fausto e Vezio. Le loro spade calavano implacabili sui Visigoti feriti e su quelli che non erano stati abbastanza svelti nel ritirarsi. I tre avevano disceso il pendio solo per metà, quando Tullio ordinò di tornare indietro raccogliendo quante più armi potevano, prima che gli avversari si riorganizzassero. Infatti i Visigoti, dapprima terrorizzati dall'inatteso attacco, nel vedere solo tre assalitori male in arnese s’erano arrestati ai piedi della rampa e salivano sui cavalli per caricare. Infuriati per lo smacco subito, due degli assalitori erano dei vecchi, volevano reagire ma altre frecce colpivano loro e i cavalli. Sconcertati, si fermarono di nuovo e si ritirarono in in disordine. Protetti dagli arcieri, Tullio, Fausto e Vezio erano rimasti sul pendio per raccogliere le armi dei nemici uccisi. I Visigoti si arrestarono a distanza di sicurezza dai dardi, a circa duecento i; quando si voltarono le loro grida di rabbia si udivano per tutta la pianura. Cavalli feriti o impauriti fuggivano in ogni direzione e alcuni guerrieri cercavano di recuperarli. Si erano salvati in dodici, otto giacevano senza vita sulla scarpata e un altro si dimenava ai piedi della rampa, ferito ad un fianco da una freccia. Tullio lo scorse e subito gridò ai figli: "Finite quello che si trascina, laggiù a destra!" Due dardi colpirono l'uomo alla schiena, egli si agitò per un poco e poi giacque immobile. "Li abbiamo battuti! Che facciamo adesso, padre?" Euforici per il successo, si accalcavano attorno all'ex soldato e si complimentavano a vicenda.
"Non rallegratevi troppo, siete stati bravi ma tutto è dipeso dalla sorpresa. Adesso verrà il difficile!" "Ne sono rimasti una dozzina e alcuni sono feriti". "Se è possibile raccogliete qualche corazza senza allontanarvi troppo. Tra poco torneranno all'attacco, i barbari sono ostinati e vorranno vendicare i loro caduti". Dietro i massi, in cima al o, veniva accumulato un piccolo arsenale: spade, elmi, scudi, lance, pugnali e quattro corazze in maglia di ferro che Tullio fece indossare a Fausto, Ummidio e ai figli; "Loro sono giovani. Spero tu sia d'accordo, Vezio". Il vecchio acconsentì: "Sono già lento così, figuriamoci con tutto quel ferro addosso. Complimenti, il tuo piano ha funzionato alla perfezione!" Tullio commentava scherzosamente: "Potevo essere un buon centurione, mi riesce naturale dare ordini. Prendete le armi che vi occorrono e tornate ai vostri posti. Siate pronti ad agire, torneranno presto". Intanto tra i Visigoti, che avevano recuperato quasi tutti i cavalli fuggiti, aveva luogo un diverbio. Si vedevano gridare e alzare le braccia, un paio sguainarono persino le spade, poi tutto si ricompose. Colui che aveva guidato il gruppo era morto e discutevano per stabilire a chi toccasse il comando. Alla fine il più anziano fece valere la sua esperienza e gli altri si adeguarono, anche se qualcuno non sembrava d'accordo. Tennero un breve conciliabolo: bramavano ancora il gregge e soprattutto volevano vendicare i compagni caduti nell’agguato, pertanto organizzavano un nuovo assalto. Ritenevano di aver dinanzi un pugno di avversari che potevano facilmente sopraffare, ora che non avevano più il vantaggio della sorpresa. Da guerriero prudente qual era, il cavaliere che li guidava volle però fare un tentativo diplomatico, anche per ribadire il comando appena acquisito. Fissato un panno bianco sulla punta della lancia, cavalcò lentamente verso il o. Voleva
tastare il polso agli avversari e possibilmente ottenere il gregge senza combattere, giacché la sua orda aveva bisogno di carne. Bruto ne annunciò l'arrivo e chiese: "Lo colpisco appena a tiro, padre?" "È questo il tuo senso dell'onore? I messaggeri sono sacri anche se barbari. Sentiamo cosa viene a dirci". Il Visigoto avanzava baldanzoso, volendo impressionare i difensori e dimostrare ai suoi che non aveva paura; sapeva bene che i Romani rispettavano i messi. Tenendo la lancia alzata iniziò a salire lentamente la scarpata sino a che un grido non lo fece arrestare: "Fermo lì! Che vuoi?" Il cavaliere si arrestò, squadrò perplesso l'anziano contadino comparso da dietro un masso e cominciò a parlare in un latino stentato: "Noi venuti in pace. Voi aggredito senza motivo! Voi avete molte pecore, dateci metà e responsabile attacco. Noi soddisfatti e voi salvi!" Naturalmente a fronte dei nove guerrieri perduti, non si sarebbe contentato di metà gregge e di una sola vittima, tuttavia astutamente ostentava moderazione per creare discordia tra i nemici. Tullio però non aveva nessuna intenzione di dargli retta e mise in atto una piccola astuzia: "Andatevene e siate contenti di aver salvato la vita. Siamo quattro ma ben armati! Vezio, fai vedere le armi che possediamo!" Perplesso, il vecchio comparve da dietro una roccia e mostrò le armi raccolte sulla scarpata. Nel vederlo il Visigoto emise una stridula risata, sputò in terra, volse il cavallo e se ne tornò indietro trotterellando; aveva visto abbastanza. I pastori erano sconcertati e Bruto espresse la loro perplessità: "Padre, perché hai fatto comparire Vezio? Perché questa commedia? Fammelo uccidere, sarà un nemico in meno!" L'ex soldato lo zittÌ con un gesto: "Non capite che il maggior pericolo è che
vadano a cercare rinforzi? Vedendo che siamo pochi pastori male in arnese non lo faranno, anzi attaccheranno senza troppe precauzioni!" La spiegazione soddisfece tutti e crebbe la fiducia in Tullio. Nel frattempo il Visigoto aveva raggiunto i suoi, che attendevano impazienti. Subito iniziò a rimproverarli con un discorso che suonava all'incirca così: "Siamo scappati davanti a quattro vecchi, pochi miserabili pastori decrepiti! Se oggi stesso non laviamo quest'onta col loro sangue, non meritiamo di tornare tra la nostra gente, perché la vergogna di questa giornata ci disonorerà per sempre!" Alcuni cavalieri erano feriti, non sembravano gravi tuttavia si lamentavano in continuazione e chiedevano che le ferite venissero cauterizzate col fuoco purificatore. Furono accontentati ma il dolore non cessava e i Visigoti ne dedussero che le frecce erano state avvelenate. Per questo esitavano ad attaccare allo scoperto. Per proteggerli il comandante fece tagliare una gran massa di rami e frasche, con cui cominciarono a intrecciare dei rudimentali ma ampi ripari per scalare incolumi il o. Da lassù i difensori assistevano a quei preparativi con una certa apprensione. Ummidio commentava: "Adesso sono diventati prudenti. Costruiscono dei ripari!" Tullio cercava di tranquillizzarli : "Attaccheranno a piedi per non perdere i cavalli, però non sono abituati a combattere senza. Per noi sarà un vantaggio!" Fausto non poté fare a meno di esclamare: "Sembra che tu li conosca bene, i Goti!" "Ho avuto a che fare con loro per molti anni, quando ero nell'esercito. Sono magnifici guerrieri, valorosi, feroci, tuttavia semplici e ingenui. Ammazzano e si fanno uccidere con la stessa noncuranza, in battaglia non rispettano gli ordini e mantengono poca disciplina. Se un avversario li provoca, escono allo scoperto per affrontarlo individualmente. Per un nonnulla si scannano anche tra loro, basta una parola fraintesa per scatenare dei duelli in cui talvolta i contendenti si ammazzano a vicenda..."
Vezio aggiunse, indicando i corpi dei caduti sulla scarpata: "Hai ragione, sono uomini strani. La loro mente è senza malizia, schietta come quella dei fanciulli, però i loro corpi sembrano scolpiti nella roccia. Guardateli: sono alti, forti, coraggiosi; sono inoltre profondamente leali. Che magnifici soldati sarebbero, se fossero disciplinati!" Tullio tagliò corto, non voleva che i compagni si impressionassero: "Comunque sono mortali e noi li batteremo! Quando si ritireranno, incalzateli con le frecce e le lance; nessuno di loro deve fuggire!" Mezzodì era ato da un pezzo, così decisero di rifocillarsi mentre i Visigoti preparavano i loro ripari. Avrebbero avuto bisogno di ogni energia, inoltre con quella pausa Tullio contava di allentare la tensione. In quel frangente comparve Crisia, la moglie di Anco; portava una pentola colma di minestra e chiedeva notizie. Il marito le mostro i corpi sulla scarpata per rassicurarla. Prima che tornasse indietro, Fausto prese un corno tolto ai Visigoti, ne trasse un suono forte e profondo e le disse: "Se lo udite per tre volte significa che c'è pericolo. Disperdete il gregge e nascondetevi. I barbari saranno occupati a recuperare le pecore e non vi cercheranno". Anco annuiva: "Questa del segnale è una buona idea!" "Però non ce ne sarà bisogno!" Concluse deciso suo padre. "Arrivano!" Il grido di Bruto li richiamò ai loro posti, mentre Crisia fuggiva impaurita. Senza dar segno di emozioni, Tullio scrutava i Visigoti che avanzavano a piedi sollevando ampi ripari fatti di rami e frasche intrecciate: "Quei ripari neutralizzeranno i nostri dardi. Non appena saranno a tiro, mirate alle gambe e preparatevi ad usare le lance. Ricordate: se si arriva al corpo a corpo non dovete vibrare fendenti, colpite decisi con la punta della spada, le ferite saranno abbastanza profonde da metterli fuori combattimento. Non siate precipitosi né imprudenti, portate i colpi con calma e determinazione e cercate di riparavi con gli scudi. Voi arcieri copriteci meglio che potete. Forza e onore, li batteremo!" Fausto, che gli stava vicino, pensava: "Non riusciremo a evitare il corpo a corpo.
Che gli Dei ci assistano!" I Visigoti avevano legato i cavalli sotto alcuni alberi, sorvegliati da uno dei feriti. Undici uomini avanzavano lentamente dietro i ripari, urlando e battendo le armi per incutere maggior timore. Tullio ordinò di non rispondere, dovevano far credere di aver paura. Vezio ci scherzava: "Non sarà difficile fingere!" Fausto si era ripreso la sua daga corta, con cui aveva maggior dimestichezza. Indossava una corazza in maglia di ferro e un ampio elmo; in preda all'apprensione impugnava nervosamente una lancia e rimaneva nascosto tra le rocce. Stavolta Tullio dette il via agli arcieri non appena i Visigoti furono a tiro. Le frecce però facevano poco danno, la maggior parte si infrangeva sui ripari. Tullio aveva un bel gridare di mirare alle gambe, le ramaglie intrecciate coprivano gli assalitori dai polpacci sino agli occhi. Man mano che salivano però qualche freccia andava a segno, soprattutto sui polpacci, e alcuni assalitori ruzzolavano sulla scarpata. Ummidio e i due fratelli scoccavano con sempre maggior precisione mentre Vezio e Fausto impugnavano le lance aspettando il momento giusto per balzar fuori. Tullio attese che i primi avversari fossero a pochi i per lanciare il suo grido e scagliarsi sul primo. La lancia che impugnava traò facilmente i rami del riparo e s'infisse in un addome. Seguendo il suo esempio anche Fausto e Vezio si gettarono innanzi urlando come forsennati. Due assalitori caddero in terra gravemente feriti, ma non c'era tempo per afferrare altre lance, bisognava mettere mano alle spade. Il capo dei Visigoti aveva assalito Vezio con grande impeto e con un paio di colpi ben assestati lo ferì. Il vecchio si difendeva con grande difficoltà, sembrava che da un momento all'altro dovesse stramazzare sotto i furibondi assalti dell'avversario. Solo la posizione più elevata lo aiutava, però il barbaro era molto
più forte e dinamico. Man mano che giungevano in cima i Visigoti abbandonavano i ripari, che li avrebbero ingombrati nel corpo a corpo. Adesso i tre arcieri scoccavano più raramente perché temevano di ferire i compagni, però le loro frecce erano micidiali. Una colpì a un fianco il capo, che lasciò Vezio al suo destino per ripararsi. Tullio, il più avanzato, si trovava a fronteggiare due avversari, ma i figli vegliavano su di lui e i due venivano bersagliati dai dardi, sino a che non furono seriamente feriti e l'ex legionario riuscì ad abbatterli l'uno dopo l'altro. Fausto era impegnato da un guerriero gigantesco e faticava per resistere alla sua furia. Ummidio cercava di proteggerlo e una sua freccia trafisse la coscia del guerriero. Fausto ne approfittò per disimpegnarsi e correre in aiuto di Vezio, che, attaccato e ripetutamente colpito, pareva stesse per soccombere. Con due stoccate ben assestate il pastore trafisse l'assalitore del vecchio, ma non si era accorto che il precedente avversario lo aveva seguito zoppicando. Il gigantesco barbaro tirò un poderoso fendente destinato a colpirlo alla schiena, se Vezio non si fosse frapposto. Il colpo squarciò il torace del vecchio, che stramazzò senza un gemito. Gli arcieri però bersagliavano ripetutamente il gigante, che non riusciva più a reggersi in piedi. Furibondo, il pastore vibrò il colpo di grazia al colosso. Erano rimasti tre Visigoti ancora in grado di combattere, benché feriti dai dardi. Tullio ne fronteggiava due mentre il terzo, con un polpaccio traato da una freccia, si avvicinava zoppicando. Intuivano che l'attempato contadino era il fulcro di quella tenace resistenza e pensavano che se l’avessero ammazzato, i suoi compagni sarebbero fuggiti. Fausto e Anco, che aveva posato l'arco per impugnare la spada, accorrevano verso Tullio, ferito a una spalla e all'inguine. Ummidio e Bruto continuavano a bersagliare i tre Visigoti; uno dei quali
stramazzò a terra con un dardo nel collo. Anco non era un gran combattente, al primo assalto rimase ferito al braccio e la spada gli cadde di mano. Sarebbe morto se il padre non si fosse gettato con furia sul suo assalitore. Anche Fausto era sopraggiunto e riuscì a uccidere un Visigoto mentre quello ferito al polpaccio trafiggeva Tullio con la sua lunga picca, prima di essere abbattuto dai dardi. Fausto stava per soccorrere l'ex legionario, quando le grida di Umrnidio lo misero di nuovo in allarme. Gli assalitori giacevano in terra morti o moribondi, ma in fondo alla scarpata c'era il loro capo, quello venuto a parlamentare, che ferito, cercava di allontanarsi alla chetichella riparandosi dalle frecce con uno scudo. Il pastore si lanciò all'inseguimento e solo allora si accorse di essere ferito: aveva il volto coperto di sangue. Non provava alcun dolore, si sentiva solo stanco e debole, però quello non era il momento di fermarsi. Ummidio lo aveva raggiunto brandendo una lancia e insieme, dopo un breve inseguimento, si scagliarono sul Visigoto in fuga che, benché ferito, si difendeva disperatamente. I due pastori lo assalivano da due lati e, senza esporsi troppo, dopo un po' ne ebbero ragione. Il corpo senza vita del barbaro rotolò in un fosso. "Dobbiamo correre nella vallata, c'è rimasto un uomo a guardia dei cavalli. Se riesce a fuggire siamo fregati!" Fausto si mise a correre verso il bosco seguito da Ummidio. Il Visigoto rimasto presso i cavalli, seriamente ferito, aveva assistito impotente al disastroso attacco. Dopo aver visto cadere anche il capo, aveva sciolto un cavallo e con grandi sforzi riuscì a issarsi sulla groppa.
Sapeva che per salvarsi doveva fuggire immediatamente. Con un coltello tagliò la corda che tratteneva gli altri cavalli e li disperse prima di allontanarsi al trotto, dato che la ferita non gli consentiva di sopportare il galoppo. I pastori accorrevano trafelati, con l'angoscia nel cuore: se il barbaro riusciva a scappare tutto era stato vano! A un tratto, mentre correva, Fausto piombò in terra svenuto. Ummidio non si fermò a soccorrerlo: aveva scorto uno dei cavalli dispersi trotterellare incerto nella sua direzione, allora rallentò e gli andò incontro con noncuranza. Ummidio era un grande esperto di animali, aveva una sensibilità particolare, un dono che gli consentiva di avvicinarli senza allarmarli. Pur lontano, cominciò a parlare lentamente e dolcemente al cavallo, che si arrestò diffidente. Senza interrompere il soliloquio, il pastore lo avvicinò con disinvoltura e cominciò a carezzarlo sinchè l'animale non fu tranquillo. Quando fu certo che il cavallo non si sarebbe imbizzarrito, Ummidio afferrò le briglie, si isso agilmente in groppa e lo spronò al galoppo nella direzione in cui si era allontanato il Visigoto ferito. Bruto intanto discendeva la scarpata controllando con prudenza i barbari caduti e dando il colpo di grazia ai moribondi. Stava per tornare dal padre, che giaceva gravemente ferito tra le braccia di Anco, quando vide Fausto steso in terra in mezzo alla valle e Ummidio partire al galoppo. Non capiva cosa fosse successo, ma corse subito a soccorrere il pastore. Quando lo voltò, Bruto provò un brivido d'orrore: il viso era una maschera di terra e sangue impastati. Sul lato destro del volto c'era un largo taglio che scendeva dalla tempia al mento. Bruto afferrò l'otre di pelle che aveva tolto a un morto e cercò di lavare la ferita. Per fortuna l'occhio non sembrava lesionato, anche se era incrostato di sangue. La frescura dell'acqua fece rinvenire il pastore: "Aah... ahi... mi fai male! Che è
successo?" "E tutto finito, li abbiamo battuti. Ce la fai a camminare?" "Credo di si. Dove sono gli altri?" "Papà è ferito, credo gravemente. Ummidio l'ho visto scappare al galoppo con un cavallo dei Goti..." "Stai tranquillo, non è fuggito!" I due risalirono lentamente il pendio; Fausto stringeva i denti, la ferita al volto gli doleva tremendamente. In cima al o Anco tentava in qualche modo di tamponare le ferite del padre e piangeva sommessamente, consapevoledi non poterIo salvare. Anche lui era ferito ad un braccio e Bruto accorse m suo aiuto. Tullio era cosciente e cominciò a chiamare Fausto con voce fioca: "Pastore... accostati un attimo... Sto per morire... non negarlo... Ti affido i miei figli... Tu sei il più esperto... Conducili in saIva... Me lo prometti...?" Commosso, Fausto gli prese la mano: "Te lo prometto! Addio, valoroso Tullio. Se non era per te non ce l'avremmo fatta!" "Ti ringrazio... Ora lascia che parli... ai miei figli...” Il pastore si allontanò con un groppo in gola; nonostante la ferita al volto gli dolesse e avesse ripreso a sanguinare, andò a cercare Vezio mentre rifletteva su quanto era costata cara quella vittoria. Solo Bruto e Ummidio ne erano usciti illesi, tuttavia era stato inevitabile combattere, se non l'avessero fatto i Visigoti li avrebbero di certo trovati seguendo le tracce del gregge. Pensava ai due vecchi che, rinunciando alla corazza, avevano pagato con la vita la loro generosità. Ritrovò il cadavere di Vezio sotto quello del gigante e compose con affetto il corpo dilaniato del vecchio saggio. Mentre era intento in quel penoso compito, i lamenti dei due frarelli gli
annunciarono la morte di Tullio. Pur spossato, Fausto si rendeva conto che toccava a lui prendere in pugno la situazione: "Fatevi coraggio! Dobbiamo scavare una fossa e seppellire i morti..." Anco era perplesso: "Anche i barbari?” "Dobbiamo seppellirli tutti! Non deve restare nessuna traccia di questo scontro". Per loro fortuna nei pressi del o c’era un profondo fosso in cui con grande fatica, perché solo Bruto era incolume, trascinarono uno alla volta i corpi dei Visigoti. Ne contarono diciannove e rimasero perplessi; secondo i loro calcoli ne mancava uno! Mentre discutevano di questo, udirono sopraggiungere in lontananza dei cavalli al galoppo. Rapidamente afferrarono le armi e si nascosero tra le rocce, tirando un sospiro di sollievo nel riconoscere Ummidio che tornava tirandosi dietro un altro cavallo. Fausto, a cui Bruto aveva sommariamente medicato la brutta ferita al volto, gli andò subito incontro: "Allora?" "L'ho raggiunto e ucciso. Non è stato difficile, era ferito..." "E il corpo?" "L'ho gettato in mezzo a dei folti cespugli. Ci penseranno i lupi. Quindi nessuno è riuscito a fuggire per dare l’allarme. Come va la tua ferita?" "Mi duole però non è grave. Tullio e Vezio invece sono morti. Stiamo seppellendo i Goti, vieni ad aiutarci". Prima di ricoprire il fosso con terra e pietre, vi nascosero con cura le armi dei barbari che a loro non servivano. I corpi di Tullio e Vezio, sommariamente ricomposti, furono invece legati sui due cavalli per essere degnamente sepolti sull'altipiano. Avevano coperto di terriccio le pòzze di sangue e stavano per lasciare il o, quando lo sguardo acuto di Bruto colse un movimento in un folto cespuglio ai piedi della scarpata. "Là in mezzo c'è qualcuno!"
"Deve essere quello che mancava ai nostri calcoli. Prendete le armi e circondiamolo con prudenza!" Vistosi scoperto, un Visigoto sbucò fuori dal cespuglio brandendo malamente una grossa spada. Era stato ferito da due frecce, una l'aveva ancora conficcata nella spalla destra e gli impediva di maneggiare bene l’arma. Il barbaro era giovane e spaventato, sapeva che l’avrebbero ucciso e e intendeva vender cara la pelle, anche se sul volto gli si leggeva la paura. Le lance stavano per essere vibrate quando Fausto, senza sapere bene il perché, arrestò i compagni: "Fermi! Lo voglio vivo. Ci può dare delle informazioni!" I fratelli Rulliano erano perplessi, ma pur mugugnando abbassarono le lance: "Che notizie ci può dare questo barbaro?" "Ci sarà solo d'impaccio, ammazziamolo!" Fausto non li ascoltava e gridò al Visigoto: "Getta la spada, se vuoi salva la vita!" Il giovane aveva capito, però esitava. Il suo onore· gli imponeva di morire con la spada in pugno, l'istinto di sopravvivenza e la paura gli suggerivano ben altro. Se si arrendeva non era certo di venire risparmiato, però dopo una breve esitazione gettò a terra la pesante spada. I pastori e i Rulliano fissavano incerti gli occhi cerulei del Visigoto. Era solo un adolescente, lo rivelavano le fattezze delicate e lo sguardo fanciullesco, ma il fisico era robusto e agile, con la spada in pugno sarebbe stato temibile. "Umrnidio, legagli le mani e sorveglialo. Più tardi lo interrogheremo, ora andiamocene. La prima pioggia laverà ogni traccia!" Il ritorno alle grotte, così chiamavano il punto dell'altipiano in cui si erano accampati, fu tranquillo e veloce. Le donne li accolsero con grida di gioia, ringraziamenti agli Dei e lamenti per i
due caduti. Le mogli dei Rulliano sembravano isteriche, urlavano di felicità per il ritorno dei mariti e di dolore per la morte dcl suocero. Nello scorgere il volto bendato del marito, Quirina aveva provaro un tuffo al cuore. Quando scopri la larga ferita ebbe un brivido d’orrore, ma si rassicurò nel constatare che non era profonda e che l' occhio non era stato toccato. Dinanzi al volto insanguinato e sfregiato del padre, Curzio e Annia erano scoppiati a piangere; Fausto cercava di consolarli e ben presto li avvinse col racconto dello scontro. Mentre sua moglie lavava accuratamente e fasciava di nuovo la ferita, egli narrò i fatti omettendo i particolari più cruenti. Chiese poi notizie deI gregge, che pascolava poco distante sorvegliato dai cani. Il prigioniero era intanto divenuto oggetto di curiosità. Ummidio gli aveva estratto le punte delle frecce e fasciato le ferite. Il giovane se ne stava seduto su una pietra sopportando stoicumente il bruciore delle ferite, la fastidiosa curiosità e gli scherzi dei bambini. Aveva le braccia legate dietro la schiena ed era molto inquieto. Dopo che ebbero scavata una fossa e sepolti Vezio e Tullio con l'onore che competeva loro, affidandoli agli Dei Mani, Fausto si avvicinò al prigioniero: "Via bambini, lasciatelo in pace... Come ti chiami? Capisci la mia lingua?" Il ragazzo pareva sollevato, aveva temuto che lo scannassero sulla fossa in cui erano stati appena sepolti i due anziani, tra i barbari si usava talvolta sacrificare così i prigionieri. Rispose in un latino stentato e quasi incomprensibile: "Poco. Mio nome Eterik!" "Quanti anni hai, Eterik?" "Si, io grande fame!" Fausto scoppiò in una risata che gli causò un gran dolore alla ferita. Si fece dare dalla moglie una focaccia e un pezzo di formaggio per il giovane, a cui sciolse il laccio di cuoio che gli legava le braccia.
Il pastore voleva informazioni sulla presenza dei Visigoti nella zona e cercava di accattivarsi la fiducia del ragazzo, che gli ispirava una certa simpatia; "Quante primavere hai?" Impegnato a divorare la focaccia, Eterik mostrò per tre volte la mano aperta. "Solo quindici anni? E dove sono i tuoi parenti?" Il ragazzo scuoteva la testa, Fausto pensava che non avesse capito e ripeté la domanda; stavolta Eterik indicò la fossa ove aveva visto seppellire Vezio e Tullio. "Ah, sono morti! Dov'è tua orda, tuo Gau¹ , quanto lontano?" Con l'ingenuità della sua età il ragazzo indicò un punto verso ponente e rispose sorridendo: "Due giorni di cammino. Con quello uno!" Con la mano indicava un cavallo. In quel momento sopraggiunse Bruto, che interloquì: "Che ne facciamo di questo barbaro? Dovremo sbarazzarcene!" Fausto era contrariato e lo disse: "È solo un ragazzo! Tu sei capace di ammazzarlo così, a sangue freddo?" Bruto si grattava pensosamente la testa, poi rispose: "Forse sì, se penso a mio padre appena sepolto..." Il pastore lo interruppe risoluto, anche se non era del tutto convinto della decisione che stava prendendo: "Lo terremo come schiavo. Ci può essere utile anche come ostaggio". Comprendendo che si parlava di lui, Eterik aveva sollevato il volto, sulla cui candida carnagione si notavano molte minuscole efelidì i. Fissava con ansietà i due uomini intuendo che stavano decidendo il suo destino. Bruto non insisteva, allora per tranquillizzare il ragazzo Fausto lo portò all'accampamento. Eterik rimase stupito nel vedere tante pecore e il lavoro che vi si svolgeva attorno. Ummidio era intento a rimcstare il latte che bolliva in un
paiolo e Fausto glielo affidò: "Si chiarna Eterik. Fagli vedere come lavori, fatti aiutare ma sii prudente!" Le armi riportate erano state nascoste in una grotta e i quattro uomini portavano al fianco solo le spade. Preparato un cavallo, Bruto andò a fare una ricognizione sull'altipiano. l,a ferita di Anco non era grave, teneva il braccio fasciato e legato al collo in modo da permettergli dei movimenti. Al calar della sera, attorno al fuoco gli uomini fecero il punto della situazione: "Questo altipiano è un luogo sicuro. Per il momento conviene restare qui". "Non dovevamo portare il gregge in Umbria?" "Le strade sono piene di barbari e le pecore lasciano tracce troppo evidenti!" "Fausto ha ragione. Restiamo qui per qualche tempo, sino a che le cose non si saranno normalizzate. Possiamo ripararci nelle grotte, c' è acqua e pascolo per il gregge..." Dinanzi a quella prospettiva Bruto brontolava, allora il fratello continuò: "Papà morendo ha affidato il comando a Fausto. Sino a che ci sarà pericolo io e te gli obbediremo, non solo perché era la volontà di nostro padre, ma perché ha meritato la nostra fiducia!" "Vi ringrazio amici, mi date una grande responsabilità e cercherò di non deludervi. Allora si resta, ma dovremo istituire dei turni di guardia. Ummidio, come si comporta il Eterik?" "Mi ha aiutato volentieri. È forte e svelto, ne potremmo fare un buon pastore..." Bruto intervenne con decisione: "Non ci possiamo fidare di lui. Se fugge e avverte i suoi, siamo perduti!" "Hai ragione. Di giorno starà con noi e non lo perderemo di vista, di notte dormirà con una mano legata a quella di Ummidio, che ha il sonno leggero, inoltre ci sono ì cani e non potrà scappare. Ci divideremo i compiti e il lavoro..."
Datesi delle regole, il piccolo gruppo si insediò sull'altipiano, ove si sforzava di condurre un' esistenza quasi normale. Profughi e senza casa, si trovavano però in un luogo abbastanza sicuro, avevano di che sfamarsi, erano discretamente organizzati e, cominciando la buona stagione, non pativano troppi disagi. Le tre famiglie si erano sistemate ognuna in una grotta; una particolarmente grande, la cui entrata era stata chiusa da un recinto di pali e corde, fungeva da ovile. Avevano scoperto anche una piccola caverna a cui si accedeva da una fessura quasi invisibile, nascosta dalla vegetazione. In quell'antro che poteva essere usato come nascondiglio in caso di emergenza, riponevano le riserve di cibo e le armi. Sull'altipiano c'era una piccola polla da cui scaturiva un'acqua fresca e leggermente acidula. Quella sorgente era uno dei motivi per cui rimanevano e ne avevano gran cura. Un acquazzone venne presto a cancellare i segni dello scontro sul o e del transito del gregge, ma i quattro uomini erano sempre molto prudenti: armati, facevano ricognizioni e turni di guardia. Eterik si era ben presto ambientato, sembrava che non avesse alcuna intenzione di scappare né nostalgia della sua orda. Era uno schiavo, ma i pastori presero presto a considerarlo uno di loro. Il ragazzo mostrava buona volontà e un sorprendente attaccamento nei confronti di Ummidio, che lo trattava quasi come un figlio. Il pastore gli insegnava il mestiere e a parlare in latino, lo portava con sé a pascolare o nei turni di guardia e gli dedicava un’attenzione che il ragazzo non aveva mai conosciuto, essendo rimasto orfano sin da piccolo. A ben vedere Eterik aveva avuto più di un’occasione per fuggire, tuttavia non ne aveva approfittato, e non per paura di essere ripreso. Anche la sorveglianza nei suoi confronti si era molto allentata e la notte non gli legavano più i polsi. Ai primi caldi tosarono le pecore, la cui lana fu lavata, cardata, legata in balle e riposta. I cereali portati dai Rulliano dovettero essere razionati, il sale
indispensabile ai pastori (lo usavano per fare il formaggio e lo davano ogni tanto anche alle pecore), ben presto finì ma grazie al gregge il cibo non mancava. Le tre donne cucinavano insieme, badavano ai bambini e si trovavano in sintonia tra loro. Talvolta gli uomini andavano a caccia con gli archi, inoltre raccoglievano verdure e frutti selvatici, funghi, bacche. Tutto veniva condiviso e i quindici, otto adulti e sette bambini, andavano molto d’accordo. Le tante necessità e il pericolo latente li mantenevano uniti e solidali. Mcmori della volontà paterna, i Rulliano si attenevano alle disposizioni di Fausto, che prima di prendere decisioni, metteva in discussione ogni questione. Il pastore ascoltava le varie opinioni, accoglieva le buone idee e metteva a disposizione di tutti quanto prodotto dalle sue pecore. Le decisioni più importanti venivano prese la sera attorno al fuoco, quando assieme consumavano la cena. I più felici della situazione erano i bambini, di età compresa tra i tre e i dieci anni. Sciamavano e giocavano liberamente per i grandi spazi dell'altopiano, pronti però ad accorrere ai richiami degli adulti. Oltre alle madri, i più grandicelli tenevano d'occhio i più piccoli. Quirina rimpiangeva Vczio, avrebbe voluto che i figli imparassero a leggere e scrivere; il marito le prometteva che in futuro avrebbe provveduto in merito. Se il tempo era inclemente o piovoso si rifugiavano in un angolo riparato della grande caverna che fungeva da ovile, altrimenti stavano all'aperto ed entravano nelle grotte solo per dormire. In un piccolo recesso era stata costruita persino una rudimentale latrina riservata solo a donne e bambini. Le loro ricognizioni si facevano man mano più audaci; grazie ai cavalli si spingevano anche sulle strade principali. Da qualche viandante riuscivano talvolta ad avere notizie, talvolta contraddittorie e confuse. Un fatto era però certo: i Visigoti erano sempre accampati nei pressi di Roma, anche se per il momento non manifestavano intenzioni ostili.
Di fatto c'era una tregua: Alarico trattava con il Senato romano e con l'imperatore Onorio; i messi facevano la spola tra Roma, Ravenna e l'accampamento dei Visigoti, recando proposte e messaggi. Alarico si mostrava benevolo perché desiderava farsi accettare come alleato deII'impero, di cui voleva essere nominato difensore in cambio di concessioni territoriali. Il momento pareva propizio alle sue ambizioni: Onorio era minacciato da un usurpatore che si faceva chiamare Costantino, con le sue truppe teneva a freno invasori barbari in Gallia, Spagna e Britannia. Volendo farsi riconoscere da Onorio reggente delle province liberate, Costantino era sceso in Italia col suo esercito acquartierandosi a Valenza. Onorio prendeva tempo facendo vaghe promesse a lui e ad Alarico. La primavera digradò in una calda estate, venne l'autunno e l'anno stava quasi per finire, però nulla accadeva. I Visigoti erano ancora attorno a Roma, pacifici quanto può esserlo un esercito con scarsa disciplina, che per rifornirsi si affida a scorrerie e saccheggi. L'urbe però non veniva attaccata e almeno formalmente l'assedio era sospeso. I fratelli Rulliano e le loro mogli divennero inquieti; cominciavano ad averne abbastanza dell'altipiano, uno scomodo rifugio per l'inverno imminente, in cui il cibo sarebbe scarseggiato perchè i cereali erano finiti. I Visigoti parevano tranquilli e le donne premevano sui mariti affinché le portassero via da quel luogo. La casa di Anco e Bruto era stata bruciata, tuttavia le loro mogli volevano tornare a vedere se era possibile riattarla per trascorrervi l'inverno, oppure essere condotte altrove. Anche Quirina era impaziente; non voleva tornare a Roma, ove aveva patito la fame e perso un figlio, ma sosteneva che i bambini non
potevano trascorrere l'inverno nelle grotte, un riparo che sarebbe presto diventato freddo e inospitale. Su tali questioni discutevano animatamente ogni sera attorno al fuoco. Alla fine gli uomini decisero di fare una ricognizione per cercare una strada sicura per l'Umbria. Ummidio e Bruto partirono a cavallo in direzione di Narni, ma furono di ritorno dopo un solo giorno: "Tutte le strade sono controllate dai Visigoti. Forse un uomo senza bagagli riuscirebbe a are, però se vedono donne, pecorÈo un potenziale bottino, non c'è scampo!" Fu la volta di Anco e Fausto di partire a cavallo per esplorare verso Occidente; guadarono il Tevere dirigendosi verso la fattoria di Fausto. Si tenevano sulle colline, tra i boschi, e riuscirono a giungervi indisturbati. Rimasero delusi, la casa era stata bruciata, le mura dirute e annerite non potevano più offrire riparo. Anche la casa dei Rulliano, nei cui pressi transitarono al ritorno, era nelle medesime condizioni e le strade non erano sicure. Quando tornarono sull’altipiano a riferire queste notizie, le donne si fecero prendere dallo sconforto. L'anno stava per finire quando i fratelli Rulliano, persuasi dalle mogli, decisero di recarsi a Roma ove avevano dei parenti che potevano ospitarli. Fausto, Quirina e Ummidio non vollero seguirli; il timore di fare brutti incontri e di perdere il gregge li persuadeva a restare sull'altipiano. Eterik sarebbe rimasto con loro. In un grigio mattino d'inverno, Anco, Bruto, relative mogli e figli, partirono carichi di bagagli verso Roma. Accettarono solo una delle pecore offerte da Fausto; anche un minuscolo gregge sarebbe stato un pericolo, perchè avrebbe suscitato la cupidigia dei Visigoti che perlustravano le strade. Si salutarono commossi, augurandosi di ritrovarsi presto.
Era iniziato un nuovo anno¹⁷ e la famiglia di Fausto Licino si preparava a trascorrere l'inverno sul piccolo altipiano, al riparo delle grotte, un paio delle quali erano state in qualche modo attrezzate per affrontare il freddo.
Cap. IV La caduta di Roma. I Rulliano riuscirono fortunosamente a giungere a Roma e a ripararvi, ma il loro doveva rivelarsi un effimero successo. In quei mesi si svolgevano febbrili trattative: Alarico insisteva con Onorio per farsi nominare governatore di Spagna, Gallia e Britannia, le province controllate dall’usurpatore Costantino. Prometteva di riconquistarle e amministrarle per conto dell'imperatore in cambio della salvezza di Roma, ma Onorio rifiutava la proposta. Alarico riprese allora l'assedio dell'urbe. Un emissario di Onorio, Giovio, s'incontrò in seguito a Rimini con il capo dei Visigoti; questi aveva mitigato le sue pretese, ora per togliere l'assedio chiedeva terre dell'Impero per stanziarvi il suo popolo e un tributo annuo, visto che non era possibile ottenere la carica di Magister militum¹⁸. Anche i vescovi delle città occupate dai Visigoti si recarono a Ravenna a perorare la causa di Alarico, cristiano di credo ariano, ma Onorio era irremovibile: aveva giurato di non scendere a patti coi barbari. La sua offensiva risposta fu riportata da Giovio ad Alarico: "Né lui né alcuno della sua razza potranno mai aspirare a tali incarichi!" Nel constatare che l'Italia veniva abbandonata al suo destino da Onorio, il popolo di Roma ebbe un soprassalto di orgoglio e nominò imperatore Attalo, prefetto dell'urbe; era un greco colto, cristiano e gradito ad Alarico. Attalo convocò il Senato, annunciò la riunificazione dell'impero e la deposizione di Onorio dalla sua carica. Ma l'imperatore non temeva quelle impotenti minacce, aveva appena ricevuto 40.000 soldati da suo nipote Teodosio II, che sedeva sul trono di Bisanzio.
Nonostante i proclami di Attalo l'assedio continuava, sempre più duro, e gli abitanti di Roma erano ormai ridotti alla fame, tanto da insorgere contro Attalo. Questi fu deposto dallo stesso Alarico a Rimini, ove entrambi si erano recati per tentare di trovare un accordo con Onorio, che continuava a rifiutare ogni concessione. Furibondo per i rifiuti, Alarico tornò sotto le mura di Roma e inasprì l'assedio, sino a che il popolo affamato e il clero cristiano obbligarono i difensori ad aprire le porte ai Visigoti, che irruppero in città. Il 24 agosto del 1163° anno dalla fondazione, Roma era caduta! Dinanzi a quella notizia tutto il mondo rimase sbigottito. Per tre giorni la città fu sottoposta a saccheggi e devastazioni, anche se Alarico aveva dato ordine di rispettare i cristiani e i loro luoghi sacri. La città aveva patito molti lutti per fame e malattie, altri ne subì durante il saccheggio: i Visigoti uccidevano senza pietà chiunque tentasse di difendere i suoi beni o i familiari. Incendi, stupri, massacri, crimini d’ogni tipo scandivano l'affannosa ricerca di oro e bottino da parte di barbari che non avevano mai visto una città tanto vasta e magnitica. Con grande difficoltà Alarico riuscì a riprendere il controllo del suo esercito che, carico di un enorme bottino e di migliaia di prigionieri fatti schiavi, come un pigro e gigantesco serpente si diresse verso il meridione dopo aver saccheggiato tutto ciò che era possibile trasportare. Quel fiume di guerrieri e schiavi, tra cui molte donne e nobili presi come ostaggi, attraversò e devastò la Campania e le regioni meridionali, sino a giungere a Reggio, ove Alarico morì stroncato dalle febbri. La sua morte improvvisa fu ritenuta una vendetta degli Dei per il sacco di Roma. In punto di morte designò come successore il fratello Ataulfo e chiese di essere sepolto nel letto di un fiume.
Migliaia di schiavi lavorarono per deviare le acque del Basento e scavarvi un degno sepolcro, in cui Alarico fu adagiato assieme a una cospicua parte del bottino. Il fiume riprese a scorrere sulla sontuosa tomba, su cui furono immolati tutti coloro che vi avevano lavorato affinché non ne rivelassero l'ubicazione. Mentre accadeva tutto ciò, Fausto e i suoi conducevano una stentata esistenza sull'altipiano, ignari della caduta di Roma. La pastorizia e le risorse della campagna consentivano una vita frugale e primitiva, senza però l'assillo della fame. In un giorno di primavera Eterik, che ormai viveva liberamente con loro, tornò di corsa alle grotte, in preda a una grande agitazione: "Arrivano tre uomini dal o... Sono armati!" Fausto e Ummidio, intenti a mungere alcune pecore, chiesero preoccupati: "Sono Goti? Quanto sono distanti? Che armi hanno?" Il ragazzo era emozionato tuttavia rispose lucidamente: "Non sono del mio popolo. Portano lunghe spade e non hanno cavalli. Sono vicini e non mi hanno visto, credo". Dopo una breve riflessione Fausto disse, con una sicurezza che non nutriva: "Vedranno i segni della nostra presenza, prendiamo le armi. Ummidio, appostati lassù con l'arco, ma tira solo al mio segnale. Eterik, porta qui i cani! Quirina, prendi i bambini e nascondetevi nella grotta. Restiamo calmi, può darsi si tratti di profughi o di gente onesta". Non c'era tempo per nascondere il gregge, di cui d'altronde c’erano sin troppe tracce, pertanto dopo essersi allacciate le spade alla cintura, Fausto ed Eterik ripresero a lavorare come se nulla fosse.
ò un'ora prima che gli uomini visti da Eterik comparissero dinanzi alle grotte, evidentemente avevano perlustrato con attenzione i paraggi. Nello scorgere i pastori intenti al lavoro, i tre si tranquillizzarono e avanzarono speditamente. Fausto, il cui volto era incorniciato da una folta barba che nascondeva la recente cicatrice, levò un braccio in segno di saluto. Al suo occhio esperto i tre sembravano tre avventurieri, figure tutt'altro che insolite in quei tempi tanto tormentati. "Salve pastori! Sono vostre tutte queste pecore?" Quello che aveva parlato, evidentemente il capo, si guardava attorno circospetto. Aveva una faccia truce e vestiva come un cacciatore, però era armato per uccidere uomini, non animali. Fausto rispose con calma, continuando a lavorare: "Magari! Sono del mio padrone. Da dove venite? Che novità ci sono?" "Le domande le faccio io! Se non sono tue, non ti dispiacerà se ne prendiamo qualcuna... In quanti siete qui?" Fausto aveva messo la mano sull'elsa della spada, subito imitato da Eterik, ma non l'aveva estratta. Il suo tono rimaneva conciliante: "Siamo solo io e lui. Se perdo dei capi il padrone non mi paga! Avete del sale? In cambio posso darvene una, diremo al padrone che è stata sbranata da un lupo". I tre scoppiarono a ridere sguaiatamente, poi il loro capo sguainò la spada ed esclamò: "Sei troppo furbo per morire per delle pecore che non sono tue. Senti cosa facciamo: ne porteremo via solo una ventina, tra qualche giorno torneremo e ce ne darai altre. Sei d'accordo? Potrei anche ammazzarvi e prenderle tutte, come vedi sono generoso!" Fausto annuì, quasi fosse persuaso dal ragionamento; si tolse il cappello e fece un inchino come per dimostrare il suo ossequio. Quello era il segnale che Ummidio attendeva, nascosto in alto tra le rocce. Una
freccia sibilò nell'aria e si conficcò nel petto del capobanda, che stramazzò attonito nella polvere. "Fos, Teo, Lupo, addosso!" Al comando di Fausto i cani balzarono sugli altri due uomini, che nel frattempo avevano sguainate le spade. Uno dei cani venne trafitto, ma un' altra freccia era andala a segno e un altro bandito cadde ferito. L'ultimo si era voltato per fuggire, incalzato dai cani che gli azzannavano le caviglie. Una terza freccia lo fece ruzzolare in terra. Eterik si lanciò sui caduti affrettandosi a dar loro il colpo di grazia con la sua pesante spada. Fausto era impegnato a richiamare i cani, eccitati dal sangue, ma non poté fare a meno di gridare: "Bravo Ummidio! Sei un fenomeno, tre tiri, tre centri!" L'arciere scendeva dalla rupe visibilmente soddisfatto: "Il primo era facile perchè fermo, però gli altri due stavano in movimento! Hanno ammazzato Fos?" "Si, povera bestia. Bravo e fedele Fos, è stato il primo ad azzannare". In quel momento si udirono le grida di Quirina e dei bambini, che avevano fatto capolino dal loro nascondiglio e scorgevano i tre caduti. La donna rimandò i bambini nella grotta affinché non s’impressionassero e assai turbata si rivòlse al marito: "Era proprio necessario? Gli potevi dare qualche pecora..." "Che dici, moglie? Ne volevano venti e sarebbero tornati a prenderne altre, magari più numerosi! Credi che questi tagliagole si accontentino? Pensi che se avessero trovato te e i bambini da soli, vi avrebbero lasciati incolumi?" Quirina non rispondeva; capiva che il marito aveva ragione e, ancora scossa, si affrettò a tornare nella grotta per tranquillizzare i figli. I pastori si accinsero ad esaminare i tre morti, che spogliarono delle armi, delle vesti e persino delle calzature. Fausto era inquieto e ordinò a Ummidio: "Segui le loro tracce prima del o.
Stai attento, ce ne potrebbero essere altri. Noi scaveremo una fossa e faremo scomparire i corpi". La vicenda non ebbe seguito e per alcuni mesi nulla di rilevante accadde sull'altipiano. A giugno i tre uomini si arrischiarono a tornare sull'altra riva del Tevere, ove una volta c'erano molte fattorie, piccole e grandi. Tutte erano distrutte o devastate, ma nei campi i cereali erano germogliati e le spighe mature svettavano a chiazze tra le erbacce. Riempirono tre sacchi con spighe di frumento e d’orzo, raccolsero inoltre alcuni sacchetti di legumi negli orti abbandonati: lenticchie, lupini, ceci e fave che avrebbero fatto seccare. La terra agricola che per secoli era stata alacremente coltivata continuava a dare frutti, perché i semi che giacevano nel suolo germinavano spontaneamente. Le piante commestibili crescevano ovunque, contendendo lo spazio a quelle selvatiche. Nonostante stessero in guardia, pronti a nascondersi al primo rumore sospetto, una mattina mentre erano intenti a spigolare furono sorpresi da un gruppo di cavalieri Visigoti. Fausto e Ummidio si credevano perduti, fu Eterik a salvarli mettendosi a discutere con quella che era la sua gente. I cavalieri li squadravano con attenzione e curiosità, poi si allontanarono tranquillamente accontentandosi di un
sacchetto di cereali. "Che gli hai detto, Eterik? Ti ha dato qualche notizia?" "Ho detto che voi raccogliete grano per conto di mio gau. Loro dicono che assedio di Roma prosegue, c’è tanta fame e mura difficili da espugnare!" Ummidio era commosso: "Bravo ragazzo, ci hai salvato! Non hai avuto voglia di andare via con loro?" Il giovane scuoteva le spalle: "Anche voi salvato mia vita. lo sto bene con voi, perché andare via?" Quell'episodio spazzò via le ultime diffidenze nei suoi confronti. Eterik si era particolarmente affezionato a Ummidio e ai bambini e non aveva nessuna intenzione di tornare a una vita errabonda e turbolenta. Non aveva mai avuto una vera famiglia e senIiva che quei pastori erano importanti per lui. Saputo che l'assedio di Roma proseguiva, tornarono sull'altipiano con i sacchi pieni di granaglie e tanta rassegnazione. Per il momento non potevano lasciare il loro rifugio, così si spingevano oltre il o solo per ricognizioni o cercare cibo nella campagne abbandonate. Talvolta vedevano tranilare in lontananza qualche gruppo di Visigoti e ciò era sufficicute a farli restare tranquilli. La vita all'aria aperta aveva fatto bene a Curzio e Annia, che si erano ripresi dagli stenti patiti a Roma ed erano cresciuti sia in altezza che in robustezza. Anche loro aiutavano nei lavori quotidiani; il padre diceva che stavano diventando due bravi pastorelli, però Quirina non era contenta di quell’esistenza un po’ selvaggia. Erano troppo isolati e lei, unica donna del gruppo, viveva quella situazione con un certo disagio. Desiderava avere notizie di sua madre, considerava quella vita troppo dura e sperava che in futuro i figli potessero avere un po’ d’istruzione e migliori opporturutà. Fausto comprendeva l'inquietudine della moglie, ma non osava lasciare l'altipiano, anche se negli ultimi tempi non si vedevano più Visigoti oltre il
o. Era la fine d’agosto e stavano organizzando l'ennesima perlustrazione, allorché avvistarono un piccolo gruppo che si avvicinava al o. Quando li riconobbero rimasero sbigottiti; erano Anco, sua moglie e tre bambini, due della coppia e uno di Bruto. Erano in pessime condizioni: sporchi, emaciati e stravolti dalla fatica. Nel rivedere i pastori e l'altipiano, i Rulliano scoppiarono a piangere e a gemere; per un pezzo cavarono dalle loro bocche solo dei confusi lamenti. Mentre li accompagnava verso le grotte, Fausto offriva loro del cibo. Bisognò attendere che placassero i morsi della fame e l'emozione, per poter udire un racconto coerente. Davanti al fuoco su cui Eterik aveva messo ad arrostire alcuni pezzi di carne, Anco diede la strabiliante notizia: "Roma è caduta! I Visigoti l'hanno saccheggiata e devastata prima di dirigersi verso sud, carichi di bottino e schiavi!" I pastori erano increduli mentre Anco proseguiva: "Bruto è stato ucciso! Della sua famiglia si è salvato solo questo bimbo che i barbari hanno creduto morto. Noi eravamo nascosti in una cloaca e ci siamo salvati, ma per molti non c’è stato scampo!" Ummidio non poté trattenere una domanda: "Come hanno fatto ad espugnare le mura? Roma era imprendibile!" "Le porte sono state aperte dai cristiani! La città era esausta per la fame, Alarico aveva promesso che non ci sarebbero stati massacri, invece..." "Come sono morti Bruto e i suoi?" "Lui non ha voluto nascondersi. Quando i barbari hanno cercato di violentare sua moglie, ha reagito. Tanti sono stati uccisi durante il saccheggio, molti sono periti negli incendi, di fame o di malattie. Adesso Roma è quasi spopolata!" Quirina aveva abbracciato Crisia, la moglie di Anco, e singhiozzava pensando alla famiglia di Bruto e a sua madre. Annia e Curzio ascoltavano angosciati e scoppiarono a
piangere pensando ai figli di Bruto, loro abituali compagni di giochi sino a pochi mesi prima. Di loro si era salvato solo Albino, che restava chiuso in un cupo silenzio. Fausto era scosso ma cercava di mostrarsi calmo: "Ora siete al sicuro. Pensate a rimettervi in forze e dopo decideremo il da fare. Se i Visigoti sono partiti per il meridione, possiamo tornare alla nostra terra, ricostruire le case..." Anco era sfiduciato: "Ci vuole troppo tempo, moriremo di fame e di freddo, non abbiamo neppure di che seminare, E poi chi ci assicura che non ritorneranno?" "Stai tranquillo, ora siete al sicuro. Avete del sale?" I pastori scoprirono raggianti che tra i pochi viveri di Anco c'era un sacchetto di sale. La mancanza di quella polvere bianca, una volta a buon mercato e ora rara, li angustiava da molti mesi. Senza sale ogni cosa, verdure, carni, persino il loro gustoso formaggio, sembravano insipidi, né avevano olio d'oliva per condire i cibi. Quel sacchetto per loro era un piccolo tesoro. Dopo essersi rifocillati i Rulliano andarono a sistemarsi nella grotta che li aveva ospilati in ato; esausti e sazi caddero finalmente in un sonno profondo. I pastori invece quella notte faticarono a prendere sonno. Dopo tre assedi durati due anni, Roma era caduta! Era un evento sconvolgente di cui non riuscivano ad afferrare tutte le implicazioni e che pareva incredibile. Cosa sarebbe successo? Sarebbero mai tornati la pace, la sicurezza, il benessere? Anco aveva riferito che i Visigoti erano partiti trascinandosi dietro molti ostaggi, tra cui quel che restava della nobiltà romana e Galla Placidia, sorella dell' imperatore. Di certo Onorio avrebbe inviato un esercito per liberare o vendicare gli oltraggi. Si poteva tornare a vivere nelle campagne o conveniva rifugiarsi in qualche città,
al riparo delle mura ma dove spesso si pativa la fame? Fausto trascorse la notte a discutere con Quirina e Ummidio, riflettendo su ciò che sembrava più opportuno. Avrebbe voluto tornare sulla sua terra, ricostruire la casa, ma si rendeva conto dei rischi. Anche se Ummidio e Eterik lo avessero seguito, come si sarebbero difesi dalle turbe di disperati, briganti e sbandati di cui Anco aveva rivelato l’esistenza? La sua terra era troppo esposta, forse poteva rifugiarsi nella valletla o era meglio restare ancora sull'altipiano? Ogni progetto gli pareva azzardato o inadeguato, il timore di mettere a repentaglio i familiari lo angosciava. L'indomani ne discusse con Rulliano, ancor più preoccupato non avendo un gregge che potesse sfamarlo. "Che dici Anco, è possibile portare il gregge a Roma per venderlo?" "Se ci riesci diventi ricco, ma in città regna l'anarchia e nelle campagne è ancora peggio! Ti assalirebbero per rubarti le pecore, spinti dalla fame o dall'avidità". "Allora lo porterò in Umbria! Mi accompagneresti? Ti darò una parte del ricavato e potrai acquistare le sementi". "Sei troppo generoso. Verrò, ma le nostre famiglie?" "Verranno con noi, non possiamo lasciarle qui da sole". Sollecitato dai pastori, Anco cominciò di nuovo a raccontare quello che aveva visto e patito a Roma: il lungo assedio, la fame, la vana attesa dei soccorsi, l’entrata dei Visigoti, i saccheggi, gli incendi, gli stupri, i morti. Alarico aveva dato ordine di rispettare i cristiani e i loro luoghi di culto, nient’altro.
Fausto e Ummidio ascoltavano perplessi e non potevano fare a meno di chiedere: "Allora le chiese non sono state saccheggiate?" "Sono rimaste intatte e nulla vi è stato rubato. Durante il saccheggio c’è stata una grande processione, i cristiani si sono salvati rifugiandosi nelle chiese, mentre quelli che erano rimasti fedeli agli antichi Dei sono stati massacrati!" "Ma perché?" "Perché i Visigoti praticano la medesima religione, pur con lievi differenze. Sono stati i cristiani ad aprire le porte ad Alarico e si sono persino rallegrati del sacco di Roma!" "Com'è possibile? Perché mai...?" "Dicono che la caduta di Roma prova l'indignazione del loro Dio contro la città pagana, che la devastazione è avvenuta per punire delle sue eresie questa città superba, scettica e blasfema!" Fausto scuoteva la testa, perplesso: "Si rallegrano di questa sciagura? Della morte di tanti innocenti? Allora sono proprio dei pazzi! Vieni Ummidio, mettiamoci al lavoro". Attesero che i Rulliano si fossero ripresi dagli stenti e in tre giorni organizzarono la partenza per l'Umbria. Erano in undici, quattro uomini, due donne e cinque bambini. Ognuno aveva un compito preciso e un bagaglio da portare: piccoli fagotti per i bambini, pesanti fardelli per gli uomini e per il cavallo rimasto (l’altro era morto). Partirono spingendo verso levante il numeroso gregge, oltre trecento pecore che avanzavano lentamente brucando lungo il cammino. Fausto li precedeva scegliendo i sentieri più riparati, cercando pascoli e acqua per le bestie e la maggior sicurezza possibile. La marcia era tutt'altro che veloce, dato che seguivano sentieri tortuosi, disagevoli ma poco battuti. Ogni sera si fermavano al riparo di un bosco o in un luogo isolato. Temevano i brutti incontri e avvicinavano solo contadini, boscaioli o carbonai, che davano loro preziose informazioni in cambio di qualche pezzo di cacio.
Un contadino sabino offrì di scambiare del grano e dell’olio con alcune pecore; i pastori gli lasciarono una ventina di capi, di cui quindici in custodia assieme al cavallo, che dava troppo nell’occhio, e scelsero i sacchi dei cereali che avrebbero preso al ritorno. Dopo cinque giorni di prudente cammino, un mattino giunsero sotto le mura di Narni, le cui porte erano aperte ma vigilate da soldati armati. Occorse una laboriosa trattativa con l'ufficiale responsabile del posto di guardia, a cui Fausto lasciò alcune pecore come dazio per ottenere l'autorizzazione a vendere il gregge nella piazza principale della città. Già durante l'incedere per gli stretti vicoli si accorgevano dell'interesse suscitato dalle pecore. La città non era stata assalita né assediata, però le campagne circostanti erano state razziate dai Visigoti, che le avevano depredate sistematicamente portando via pure il bestiame. Gli abitanti di Narni avevano patito molti stenti, anche se non la fame rabbiosa degli assedi. Erano stufi di nutrirsi di cicoria, di orzo, di miglio, e l'arrivo del gregge divenne un evento. In meno di un'ora i pastori vendettero tutte le bestie, pecore e agnelli, a un ottimo prezzo. Per festeggiare quel successo, Fausto acquistò a caro prezzo un sacco di sale e condusse il gruppo alle terme pubbliche. Pur essendo una cittadina con poche migliaia di abitanti, Narni possedeva delle belle terme, non molto grandi ma con ambienti distinti: uno per gli uomini, l'altro per le donne. Stanchi e sporchi per il lungo viaggio, le terme furono per tutti un sollievo e un divertimento. Eterik e i bambini, che non le conoscevano, ne erano entusiasti ed esploravano incantati i servizi dell’edificio termale: gli spogliatoi, le latrine, la sauna, la palestra, il frigidarium, il tepidarium, il calidarium. Tutto pareva loro lussuoso e sorprendente. Ritiratesi le donne nel loro settore, Anco e Fausto avevano un bel daffare per tenere a freno i bambini entusiasti, essendo proibito schiamazzare e tuffarsi nelle
vasche. Rimasero nell'edificio per quasi tutto il pomeriggio; quando uscirono, ripuliti e rilassati, Fausto li condusse in una locanda per rifocillarsi e pernottare. La cena fu tutt'altro che sontuosa: minestra di verdure e pane era il massimo che l'oste potesse offrire, oltre a due piccole stanze con comode brande per la notte. Erano tutti di ottimo umore; abituati a un'esistenza frugale e ultimamente a vivere nei boschi, quelle semplici comodità sembravano loro dei lussi. Le donne e i bambini si sistemarono in una stanza, gli uomini nell' altra. Qui, al chiarore di una lucerna e al riparo da occhi indiscreti, Fausto divise il gruzzolo ricavato dalla vendita del gregge. Ummidio e Eterik ebbero la loro parte, Anco la rifiutò sostenendo di aver ricevuto molto più di quanto gli spettasse. Fausto insisteva e alla fine Anco chiese e ottenne non del denaro, ma due sacchi del grano lasciato in custodia al contadino sabino: "Lo ò per seminare quando tornerò alla mia terra. Grazie Fausto! Non dimenticherò mai quello che stai facendo per noi!" L'indomani ripartirono di buon'ora seguendo strade meno tortuose di quelle percorse all'andata. Procedendo con prudenza, in tre giorni giunsero al podere del contadino sabino, nascosto tra i boschi, ove avevano lasciato in deposito le pecore, il cavallo, l'olio e i cereali acquistati. Con le quindici pecore rimastegli Fausto intendeva continuare la sua attività su scala ridotta, perché le grandi greggi attiravano troppe bramosie. Caricati sul cavallo i pesanti sacchi di grano e sale, si diressero verso il rifugio sull'altipiano. Vi giunsero due giorni dopo, prima del tramonto; mentre le donne pensavano ai bambini e a cucinare, gli uomini sistemarono le pecore, gli attrezzi e le
provviste. Dinanzi al fuoco nella grande grotta che fungeva da ovile, ormai semivuota, consumando un pasto frugale s'interrogavano sul futuro: "Cosa facciamo adesso?" "lo vorrei tornare a coltivare la mia terra, però senza papà e Bruto non ce la posso fare. Volete venire con me? Di terra ce n'è abbastanza e potremmo ricostruire una casa grande a sufficienza per tutti". Fausto ascoltava con attenzione e infine disse: "Anch'io ho della terra e una casa da ricostruire, ma da soli è un'ardua impresa. Ci sono troppi pericoli per una famiglia isolata. Cosa ne dici Ummidio? E tu, Eterik?" ll pastore rispose alimentando il fuoco: "Io sono pronto a seguirti e il ragazzo verrà con noi, però desidero prendere moglie. Se quella a cui penso mi aspètta ancora..." "Ummidio, ora che abbiamo venduto il gregge non sei più mio dipendente e puoi fare ciò che vuoi. Non credevo che intendessi prender moglie, chi sarebbe questa sfortunata?" "Ulpia, la figlia di Settimio. Te la ricordi?" "Certo, complimenti per la scelta!" Anco riportò la conversazione sul tema che gli stava a cuore: "E bravo Ummidio! Che ne dici della mia proposta? Uniti lavoreremo con una certa sicurezza, potremo ricostruire celermente la casa e difenderci validamente se necessario. Pensateci bene!" Fausto annuiva: "Ci rifletterò e ne devo parlare con Quirina. La notte porta consiglio e domattina ti darò una risposta". Ummidio si stirò e si alzò: "Ben detto! Vale anche per me. Ora andiamocene a dormire perché sono molto stanco e ho tante cose a cui pensare". La riflessione notturna persuase i pastori che quello non era il momento di separarsi. All'alba stabilirono di trasferirsi sulla terra di Anco, meno esposta della fattoria di Fausto, ove avrebbero costruito una casa abbastanza ampia per tutti. Ummidio partì quella stessa mattina per ritrovare Ulpia; chiese il tempo di
accordarsi con la famiglia per prenderla in moglie e li avrebbe raggiunti. Dopo aver costruito un rozzo carretto per trasportare masserizie e provviste, da far trainare al cavallo di cui Eterik si prendeva cura, si lasciarono alle spalle l'altipiano spingendo innanzi le poche pecore rimaste. Il viaggio non sarebbe stato lungo. Erano in dieci: Fausto, Quirina e i due figli, Eterik, Anco e Crisia coi loro bambini e Albino, il figlio di Bruto, che ormai consideravano loro. Nonostante gli adulti portassero gravosi fardelli, il carretto non era sufficiente a trasportare tutto, pertanto nascosero quanto non indispensabile nella grotta più nascosta. Oltre che una necessità diventava anche una precauzione, se tutto andava bene sarebbero tornati a riprenderli, se le cose fossero andate male avevano un luogo ove rifugiarsi. Era l'autunno del terribile anno in cui era caduta Roma; lo sbigottimento per quell'evento ancora turbava i popoli di tutto l’impero. Partiti i Visigoti, nell'Italia centrale le attività riprendevano lentamente tra mille difficoltà; si stentava a tornare alla normalità perché non c’erano più certezze nè capi. Non c’era un esercito che proteggesse il territorio, autorità che fero rispettare le leggi, i commerci erano quasi cessati, il denaro rarefatto e ogni attività molto diminuita. Ovunque regnavano disordine, carestia e incertezza. Roma aveva la popolazione dimezzata, l'economia paralizzata, una vita pubblica asfittica e priva di riferimenti perchè senatori e nobili erano morti o ostaggi dei Visigoti. Il morale della popolazione era bassissimo mentre l'imperatore sembrava disinteressarsi dell'antica capitale.
La fame imperversava, per due anni nell’agro non si era seminato e le navi onerarie attraccavano raramente a Ostia, unico porto praticabile dopo che quello di Traiano, rimasto privo di manutenzione, si era insabbiato. Torme di sbandati vagavano per le campagne alla ricerca di cibo e di qualcosa da predare, ma i poderi e le case rurali erano già stati accheggiati e devastati dai Visigoti. Qualcuno tornava alla propria terra tentando di coltivare e ricostruire, altri emigravano o cercavano qualche espediente per sfamarsi, molti diventavano mendicanti o briganti. Chiunque vivesse in un luogo isolalo doveva guardarsi da bande di disperati o malfattori ben armati e privi di scrupoli, che imperversavano per le campagne. Fausto e i suoi amici riuscirono ad arrivare senza inconvenienti sulla terra dei Rulliano. Le uniche difficoltà le ebbero nel guadare il Tevere, ma se la cavarono grazie alle corde. Appena giunti montarono due tende di pelle in un bosco, lontane dalla strada e dalla visuale. Dopo le invocazioni e un sacrificio rivolti alle divinità della terra, si misero alacremente all’opera. Presso le tende recintarono un ovile per ospitare le pecore. Gli uomini dovevano anzitutto dissodare la terra, incolta da quasi due anni, mentre le donne badavano ai figli, alle incombenze familiari e ripristinavano un orto. Avevano ritrovato un aratro di ferro a cui aggiogarono il cavallo, che si rivelava utilissimo in quel duro lavoro. Ummidio giunse alcuni giorni dopo, inquieto e armato sino ai denti: "Quante brutte facce si vedono in giro, Fausto!" "Dici così perché non usi lo specchio. Com'è andata con Ulpia?" "E morta per un morbo sei mesi fa, però Settimio mi ha promesso in moglie l'altra figlia, Fabia. L'andrò a prendere non appena avrò una casa che possa accoglierla".
Anco aveva udito e ribadì la sua opinione: "Prima di pensare alla casa dobbiamo preparare la terra per le semine!" "Dovremo fare l'una cosa e l'altra, altrimenti sotto le tende donne e bambini si ammaleranno quando arriverà la brutta stagione. Ci divideremo i compiti: due continuano ad arare, e due cominciano a tagliare gli alberi, raccogliere pietre e i materiali che si riescono a recuperare dalla vecchia casa. Siete d'accordo?" Nessuno obiettò alla proposta di Fausto e l'indomani i due pastori, abituati a costruire ripari per se stessi e per le pecore, si misero a raccogliere materiali per la casa. Anco e Eterik si alternavano all'aratro e a tirare il cavallo; bisognava dissodare molti jugeri di terra per sfamare undici persone. Il giovane Visigoto, abituato a lavorare con i taciturni pastori e ignorante dei usi contadini, non amava dissodare e ascoltava con stupore i discorsi del loquace Anco. Ogni tanto poneva qualche domanda al contadino: "Perché voi Romani, famosi per la gloria militare e le conquiste, date tanta importanza all'agricoltura? Presso il mio popolo chi coltiva la terra è disprezzato, gli uomini che contano sono i guerrieri e i sacerdoti!" "Noi siamo sempre stati un popolo di contadini, pronti all'occorrenza a impugnare le armi. Ogni cosa ci viene dalla terra: il cibo, la legna, i tessuti, gli animali... Noi diamo molta importanza all'agricoltura!" "Ora che Roma è caduta, non ci sono più cittadini romani, o mi sbaglio?" Anco emise un profondo sospiro e sistemò il vomere nel solco prima di rispondere: "Cittadino romano è qualunque uomo libero che viva nei confini dell' impero, dalla Britannia all'Africa, dalla Spagna al lontano Oriente. Tutti soggetti alle stesse leggi, tutti con una stessa moneta e la stessa lingua, anche se ora l'impero è diviso e in balia degli invasori. Presto tutto questo caos finirà, perché Roma è eterna. Anche tu, se continuerai a vivere con noi, diventerai un cittadino romano".
Eterik rifletteva su quanto aveva udito, poi concluse: "Noi Visigoti non abbiamo leggi scritte né moneta, però siamo guerrieri fortissimi e nessuno ci può resistere! Roma ormai è finita, ciò che era suo diventerà nostro!" Anco arrestò l'aratro e fissò severamente il giovane: "Ti abbiamo accolto come un figlio e ora parli da nemico! Se la pensi così, vattene e raggiungi il tuo Alarico! Se vuoi restare con noi non fare più questi discorsi, altrimenti qualcuno te la farà pagare cara!" Eterik taceva mortificato; lui stava bene con quegli uomini, veniva trattato meglio che nel Gau a cui apparteneva, ma nell'intimo si sentiva estraneo a quel mondo antico e pieno di regole, alla noiosa vita dei contadini. Gli piaceva fare il pastore, non zappare la terra; per quanto affetto nutrisse per Ummidio e gli altri, non dimenticava di essere un guerriero Visigoto preso prigioniero. Talvolta si chiedeva cosa doveva fare; avrebbe potuto facilmente fuggire, ma per andare dove? Anche se fosse riuscito a tornare presso il suo popolo, lui ricordava bene quanto fosse dura e ingrata l'esistenza nomade che aveva condotto in precedenza. Nella sua orda, ammesso che la ritrovasse, non aveva più parenti né amici, quelli a cui era più legato erano morti nell'attacco al o. Avrebbe dovuto trovare un altro Gau che lo accogliesse, però non era facile, per questo aveva deciso di restare coi pastori. Ummidio lo trattava come un figlio e gli insegnava tante cose interessanti, Fausto aveva grandi doti e una simpatica famiglia. Tuttavia con Anco non si trovava a suo agio e una sera lo disse chiaro e tondo, mentre cenavano attorno al fuoco. Nel silenzio seguito alle sue brutali parole, fu Fausto a smorzare i toni: "Va bene, Eterik. Se non ti piace lavorare la terra con Anco, aiuterai Ummidio a costruire la casa. Andrò io sui campi". Dopo una breve riflessione, Anco intervenne: "Non ce n'è bisogno. Se Quirina riesce a badare da sola ai bambini, mi aiuterà Crisia. Lei guiderà il cavallo e io starò all'aratro". Fausto si rivolse alla moglie, che gli sedeva a fianco: "Che ne dici?"
"Sono d'accordo. Se ci lavorate in tre, farete prima a darci un tetto!" Ricostruire la casa era una necessità prioritaria, soprattutto per i bambini. L'autunno inoltrato preannunciava piogge e freddo, occorreva un riparo più efficace delle tende. Ormai Fausto e Umrnidio avevano sgomberato le arse macerie della casa dei Tulliano, di cui avevano salvato solo le fondamenta e qualche tratto di muro ancora solido. Contavano di riedificarla partendo da quei resti, tuttavia l'impresa sembrava lunga e difficile anche per la mancanza di calcina e materiali, così decisero di tirar su una stanza alla volta. Sgretolando nel fuoco qualche pietra e impastando con acqua, sabbia e pozzolana la poltiglia così ottenuta, ricavavano una specie di calce per legare le pietre. Per rendere più solide le mura, le pietre venivano sagomate a colpi di mazza affinché s'incastrassero tra loro e usavano dei pali per rinforzare la struttura. Ora che erano in tre a lavorarci, si faceva presto a innalzare un muro. Col legname accumulato avevano realizzato un piano inclinato e una rudimentale impalcatura alla cui sommità era fissata una carrucola di legno. Con questa macchina issavano le pietre più pesanti e le travi. In pochi giorni di intenso lavoro furono tirate su due stanze. Dato che il tempo volgeva al brutto decisero di innalzare subito il tetto, gli altri vani sarebbero stati aggiunti in seguito. Non era il modo più razionale di costruire, ma fecero di necessità virtù e misero in opera le travi per la copertura. Ben poche tegole erano state recuperate intatte, pertanto l'intelaiatura di legno fu ricoperta con pietre piatte e zolle di argilla per aumentarne l'isolamento. Non appena il tetto fu ultimato, donne e bambini presero possesso dei due vani per trovarvi riparo dall'inverno incombente. Una finestrella e rudimentali infissi di legno completavano la casetta, riscaldata e illuminata dal focolare realizzato su un lato della stanza in
cui si apriva la porta d'entrata.
Cap.V Troppi pericoli. Prima di accendere il fuoco, il focolare fu consacrato con le rituali invocazioni e il sacriticio di un agnello. I Lari dei Rulliano, estratti dai bagagli, furono sistemati su una mensola su cui venivano deposte le offerte. Sentivano il bisogno di affidarsi alla protezione dei Lari familiari, fossero pure dei Rulliano, e degli Dei, avendo constatato le sciagure avvenute dopo l'abbandono degli antichi culti. A parte Eterik, che pur battezzato non si curava di nessuna religione, gIi altri erano rimasti pagani e nutrivano una certa avversione per il cristianesimo, a cui imputavano l’impresa di Alarico e la precarietà dei tempi. La pianta deIl'abitazione ricalcava quella della precedente casa, a cui col tempo avrebbero aggiunto altre stanze. Era pavimentata con laterizi recuperati e pietre levigate; Ummidio volle scavare un piccolo vano sotto il pavimento, da utilizzare come dispensa. Sosteneva che in quella cantinola il cibo si sarebbe conservato fresco anche d'estate. Fausto era d'accordo, anzi lo ampliò e ne mimetizzò la botola di accesso affinché potesse accogliere delle persone: "Potrebbe servire da rifugio in caso d’emergenza!". Appena conclusi gli essenziali lavori alla casa, gli uomini tornarono sui campi: ultimata l'aratura bisognava seminare. Lavoravano con le armi a portata di mano, perché era frequente avvistare qualcuno. In ato i viandanti erano ben accetti, potevano essere mercanti, viaggiatori che cercavano un temporaneo riparo o acquistavano provviste. Adesso mercanti e viandanti evitavano di mettersi in viaggio, arrivavano profughi a mendicare qualcosa da mangiare, più spesso si trattava di sbandati o gente armata che si avvicinava con intenzioni tutt'altro che oneste.
In quel caso Anco e i suoi amici mostravano le armi e i malintenzionati si allontanavano imprecando, ritenendo non valesse la pena di affrontare degli uomini armati per ricavarne un po’ di cibo. Per loro fortuna le pecore erano ben riparate e non potevano esser scorte dalla strada. In ato Fausto aveva avuto spesso a che fare con gente di quella risma, però adesso era molto preoccupato. Non si trattava più di bande intenzionate a mantenere buoni rapporti con pastori e contadini, che potevano fornire cibo e informazioni e che quindi non avevano interesse a sopprimere o a far fuggire, ma di sbandati pronti a scannare una famiglia per qualche moneta o un po' di grano. Lui e Anco erano turbati dalle frequenti apparizioni di brutti ceffi nei paraggi, tuttavia non ne parlavano alle mogli per non farle spaventare. Anche quando il lavoro nei campi era più intenso o ci si doveva allontanare, uno di loro restava sempre presso la casa con il pretesto di qualche lavoretto. In un pomeriggio invernale Fausto, Ummidio e Anco stavano ultimando le semine quando udirono il suono del corno in direzione della casa, ove erano rimasti Eterik, le donne e i bambini. Avevano stabilito che il suono del corno fosse allarme, pertanto afferrate le spade che tenevano a portata di mano e corsero verso la casa. Fausto correva in testa e si rammaricava per non aver dato peso a certi brutti segnali apparsi nei giorni precedenti. Quando preoccupati e affannati giunsero sull'aia, non videro nessuno nè nulla di anormale, tranne la porta chiusa, che di solito di giorno restava aperta. Ai loro richiami la porta fu socchiusa e Quirina comparve facendo segno di affrettarsi. Quando varcarono la soglia annunciò: "Eterik è ferito! Era sull' aia a tagliare legna, quando è stato colpito al fianco da una freccia. L’abbiamo portato dentro, non sembra grave ma sanguina molto". Anco uscì con circospezione e fece un girò attorno alla casa. Quando rientrò era sconcertato, non aveva visto anima viva: "Chi è stato? Quanti erano?" "Non abbiamo visto nessuno. Io ho subito suonato il corno, portato dentro i bambini e sbarrato la porta!"
"Brava Quirina! Ummidio, vai a vedere che ne è delle pecore, però sii prudente. Come sta il nostro giovanotto?" Eterik giaceva in terra dietro l'uscio, con una freccia conficcatta nel fianco sinistro. Fausto si chinò a esaminarlo e per tranquillizzare donne e bambini, che spaventati guardavano in silenzio, annunciò con calma: "Una ferita dolorosa ma non grave. Mettete dell'acqua sul fuoco e prendete il mio rasoio mentre lo preparo". Aiutato da Anco depose il ferito sul tavolo, gli scoprì il fianco poi, accese tutte le lucerne che possedevano per aver più luce, spezzò il bastoncino del dardo e con la punta del coltello cominciò ad allargare i bordi della ferita. Eterik si agitava e mugolava per iI dolore, gli fu messo un pezzo di cuoio tra i denti mentre Fausto afferrava con precauzione il rasoio, la cui lama era stata arroventata. Alla chiarore delle lucerna cercava di estrarre la punta della freccia ma non era facile, il sangue che colava gli impediva di vedere. Quel lavorio era molto doloroso per il ferito, a cui Anco dovette afferrare saldamente le braccia onde impedirgli movimenti inconsulti. Occorsero varii tentativi, alla fine la punta della freccia fu estratta intera. Un fiotto di sangue scuro sprizzò dalla ferita, che il pastore cercava di cauterizzare con la lama rovente del rasoio. L'odore della carne bruciata invase la stanza e Eterik svenne per il dolore. "Quirina, dammi un ago e del filo robusto. Puliti, mi raccomando!" Dopo aver accostato e ricucito meglio che poteva i lembi della ferita, Fausto lasciò il posto alla moglie affinché la pulisse e la fasciasse accuratamente. La fattura della freccia non rivelava nulla di particolare, quindi rimasero in attesa scrutando invano dagli spiragli di porta e finastra. Poco dopo udirono il fischio di Ummidio, che rientrava di corsa. Anco si affrettò ad aprirgli la porta e il pastore vi si infilò, affannato e incerto per
l’oscurità della stanza. "Allora che hai visto, Ummidio?" "Le pecore sono nel recinto, non le hanno toccate, ma i cani sono irrequieti. Credo ci siano degli uomini nascosti nel bosco, a levante!" "Sei riuscito a capire quanti sono?" "Non molti credo, altrimenti si sarebbero già fatti avanti. Come sta Eterik?" Il giovane era rinvenuto ed emise un gemito in risposta; subito gli fu chiesto: "Che è successo? Quanti ne hai visti? Da dove veniva il dardo?" A gesti e con brevi parole, dato che nel parlare provava dolore, Eterik fece capire che la freccia era arrivata da est, ma che non aveva visto nessuno. Le imposte di legno erano socchiuse per scrutare attorno alla casa, però la visuale era parziale e nulla si muoveva. Fausto andò a frugare in un piccolo soppalco su cui c'era il resto delle loro armi. Tornò con una corazza in maglia di ferro, la stessa che l'aveva protetto al o, che indossò. Intuendo che era intenzionato a uscire, la moglie lo supplicava di non esporsi, di rimanere in casa, ma lui la scostò con fermezza: "Togliti Quirina! Dobbiamo sapere con chi abbiamo a che fare. Vuoi aspettare che ci assalgano di notte o che ci impediscano di uscire? Salirò sul tetto". Anco uscì con lui e gli resse la scala mentre il pastore saliva sul tetto; "Vedi nessuno? E verso meridione?" Fausto scuoteva la testa, non scorgeva nessuno, tuttavia mentre stava per scendere percepì un riflesso metallico tra i cespugli in direzione del bosco. "Sono laggiù! Dì a Ummidio di salire dal lato opposto con l'arco. Che mi copra senza farsi vedere, io provo a stanarli". Sceso dal tetto, si calcò un elmo in testa e prese a camminare lentamente verso il margine del bosco tenendo la destra sull'elsa della spada, che tuttavia non sguainava.
Riparato sino all’inguine dalla cotta di ferro, riteneva di essere sufficientemente protetto dalle frecce. Si muoveva platealmente per richiamare 1'attenzione, affinché Ummidio potesse appostarsi senza essere notato. Giunto a una trentina di i dal limitare dal bosco, si arrestò e si rivolse verso gli invisibili interlocutori: "Chi siete? Che volete da noi? Perché avete ferito il mio amico? Vi ho visti, non fatemi perdere la pazienza! Mostratevi e chiariamo questo equivoco, altrimenti chiamo i miei uomini, sguinzaglio i cani e do fuoco al bosco sino a che non vi avremo stanati!" Un inquietante silenzio regnò per un po', infine si udirono dei fruscii e un uomo emerse dai cespugli. Aveva un' aria truce e una lunga spada al fianco, tuttavia levava un braccio in segno di pace. Fausto lo osservava con attenzione mentre l'uomo usciva dal folto: di carnagione olivastra, portava una lacera tunica giallastra e aveva una cicatrice sulla fronte che i lunghi capelli neri non riuscivano a nascondere. La cicatrice lo qualificava come uno schiavo ripetutamente fuggiasco. L'uomo sorrideva ambiguamente ostentando una brutta dentatura; si arrestò a una ventina di i e disse: "Salve, ! lo dispiaciuto per tuo amico, ma mio arciere è stupido!" Fausto provò un brivido, si girò su un fianco nell' intento di offrire un minor bersaglio all'arciere nascosto, e replicò: "Allora puniscilo! Che volete?" "Noi gente pacifica, però abbiamo fame. Voi date cibo e noi andiamo via, io giuro su Dio!" Fausto misurò con lo sguardo la distanza dell'uomo dalla casa e fu sicuro che, se avesse fatto il gesto convenuto, Ummidio avrebbe trafitto quel losco individuo. Però dopo che sarcbbe accaduto? Bisognava saperne di più, così chiese: "Quale Dio? Chi mi garantisce che se vi do un po' di grano ve ne andrete?" Lo schiavo sorrise di nuovo e levò la mano in alto, come per prendere a testimone il cielo: "Ogni Dio! Iside, Osiride, Giove, Mitra, Cristo se tu
cristiano... lo darò a te mia parola d'onore, io sono grande guerriero di Scizia!" Fausto era incerto, sapeva di non potersi fidare ma sperava che un po' di cibo accontentasse quegli sbandati. "Va bene. Fai uscire i tuoi uomini dal bosco, darò una tazza di grano a ciascuno purché ve ne andiate. Però tu dovrai punire colui che ha tirato la freccia!" Lo Scita fece un gesto e gridò alcune parole verso il bosco, da cui cominciarono ad uscire alla spicciolata uomini dagli sguardi foschi, sporchi, laceri, tutti armati. Oltre allo Scita Fausto ne contò tredici, si trattava di ex schiavi divenuti banditi da strada, che forti del numero non si sarebbero accontentati del grano una volta appurato che i contadini erano in pochi. Vedendo che avanzavano impugnando spade e lance, il pastore sguainò la spada e gridò, risoluto: "Fermi! Prima di avvicinarvi deponete le armi. Chi ha ferito il mio amico?" Lo Scita, evidentemente il capo della masnada, gridò alcune parole incomprensibili e fece arrestare i suoi uomini, che però non avevano nessuna intenzione di deporre le armi. Indicò un uomo coperto di pelli, che reggeva un lungo arco, e gridò beffardalmente: "Ecco l’arciere. Che vuoi da lui?" "Ha quasi ucciso un uomo inerme, senza nessun motivo! Per un crimine del genere la pena sarebbe la morte, ma mi basterà che gli sia troncata la mano destra!" I banditi, che evidentemente capivano il latino, cominciarono ad agitarsi e a protestare, l'arciere aveva estratto un dardo dalla faretra e minacciava di scoccarlo. Il loro capo cercava di calmarli e gridò: "Contadino, tu chiedi grande prezzo per poco grano! Tuo amico è vivo, lui ha piccola colpa. Non posso tagliare sua mano!" "lo voglio giustizia! Se lui non viene punito, non vi darò il grano. Se non vi sta
bene, andatevene subito!" Nel pronunciare quelle parole Fausto si rendeva conto di rischiare, però sapeva che con quella gentaglia era meglio mostrarsi risoluto piuttosto che arrendevole. Contrariato, lo Scita confabulò con i suoi uomini in una lingua che Fausto non capiva, poi rispose ostentando il suo sorriso inquietante: "Noi gente pacifica! Avrai giustizia che chiedi. Vieni tu stesso a tagliare sua mano!" L'arciere aveva abbassato l'arco e ghignava provocatoriamente tendendo la mano destra. Il pastore intuì la trappola: se avanzava lo avrebbero circondato, ucciso o forse preso in ostaggio; se si ritirava si sarebbe mostrato deboie e forse l'arciere avrebbe scoccato i suoi dardi. Con tutta la disinvoltura che gli era possibile sguainò la spada e mosse verso l'arciere. Quello si affrettò a retrocedere; di certo non intendeva perdere la mano. "Dov'è la giustizia che hai promesso, Scita?" Il capobanda era visibilmente contrariato dal comportamento del suo arciere, a cui si avvicinò per spingerlo innanzi, sussurrando qualcosa che vinse la ritrosia dell'uomo. I due presero ad avanzare insieme verso Fausto, che soppesava ogni loro gesto. Quando l'arciere allungò la mano, circospetto, lo Scita era dalla parte opposta con la spada sguainata e un ghigno sarcastico: "Tira il tuo colpo, contadino!" Adesso Fausto li aveva da entrambi i lati e non poteva ritrarsi; se avesse sollevato la spada verso l'arciere, l'altro poteva colpirlo con facilità. Se si fosse voltato per fronteggiare lo Scita, l'arciere avrebbe potuto scoccare una freccia micidiale per la distanza ravvicinata. Il pastore proruppe in una risata nervosa che tradiva la sua inquietudine ed esclamò: "Sei proprio uno stratega, Scita! Mi inchino dinanzi alla tua astuzia!" Quell'inchino appena accennato era il segnale che Ummidio aspettava: una
freccia sibilò nell'aria e si conficcò nel petto dello Scita, che stupefatto, scivolò in terra mortalmente ferito. Fausto attendeva quel momento e tirò il colpo, non alla mano dcll'arciere, che l'aveva ritratta e cercava disperatamente di incoccal'una freccia. La stoccata tagliò la corda dell'arco e trafisse l'uomo al petto. Non ebbe il tempo di finirlo perché gli altri banditi, superato lo sbigottimento, muovevano verso di lui con le armi levate. Fausto aveva sperato che la morte del capo li scoraggiasse e li mettesse in fuga, ma la banda vedeva il bottino a portata di mano ed era intenzionata a vendicare i due compagni. Il panico s'impadronì del pastore, che volse le spalle agli assalitori e si mise a correre a rotta di collo verso la casa, dal cui tetto Ummidio continuava a scoccare dardi. Nell'udire le selvagge grida degli inseguitori, Fausto provava un tale terrore che si sarebbe rifugiato in casa se Anco non gli fosse comparso innanzi: "Fermati! Bisogna affrontarli, volgiti e mettiti accanto a me!" Ancora in preda al panico, il pastore si arrestò indeciso e si guardò alle spalle: le frecce di Ummidio decimavano gli assalitori, il cui coraggio cominciava a venir meno al sibilare dei dardi. Erano ancora numerosi, attaccando tutti insieme avrebbero di certo travolto Anco e Fausto, che li attendevano titubanti sull’aia, ma non avevano scudi dietro cui ripararsi nè un capo che li spronasse. La paura delle frecce scoccate con precisione dal tetto li frenava e quando videro la porta della casa spalancarsi ed uscime un guerriero pesantemente armato, si arrestarono incerti. Si trattava di Eterik, debolissimo, che nascondeva l'ampia fasciatura sotto la corazza e impugnava minaccioso una picca e lo spadone. L'ennesima freccia che trafiggeva un altro assalitore fu troppo per loro. Bastò che uno voltasse le spalle e tutti cominciarono a fuggire disordinatamente verso il bosco da cui erano giunti, incalzati da Anco, da Fausto e dalle frecce. Privo di forze, Eterik si era appoggiato al muro della casa e guardava sorridendo i suoi amici, ati in pochi istanti dalla paura all'entusiasmo.
Anco e Fausto inseguirono i fuggitivi sino al limitare del bosco, limitandosi a minacciarli e a spacciare i feriti. Quando tornarono sull' aia, esultanti per lo scampato pericolo, gli elogi furono tutti per Ummidio e per Eterik, che con la sua improvvisa comparsa aveva intimorito i banditi. "Quanti ne sono scampati?" "Sei o sette, è stato merito delle tue frecce, Ummidio!" "Vieni a sdraiarti, Eterik. Non devi fare sforzi! Sei comparso al momento· giusto e li hai gettati nel panico!" Tra tanto entusiasmo Fausto restava quasi vergognoso: "Avevo perso il controllo, ero terrorizzato! Vi ringrazio amici, non fosse stato per voi..." Ummidio gli aveva messo un braccio sulle spalle e commentava: "Chiunque lo sarebbe stato, ti inseguivano in tanti! Dopo però il terrore ha colto loro. Il panico sconfigge persino grandi escrciti, mentre il sangue freddo permette talvolta incredibili vittorie!" Anche le donne e i bambini erano sopraggiunti, piangevano e gridavano per la paura patita, per il sollievo e la gioia. Tuttavia Fausto restava pensieroso: "Questo posto non è sicuro, troppo in vista! È rischioso restare qui, soprattutto per donne e bambini". Anco sembrava sorpreso da quelle parole: "E cosa vorresti fare? Vuoi andartene, abbandonare tutto?" "Non lo so, ci devo riflettere. Adesso andiamo a raccogliere le armi di questi banditi, dovremo anche seppellirli..." Una meticolosa attività seguì l' entusiasmo per lo scampato pericolo; tutti si davano da fare mentre Fausto si preoccupava per i banditi che erano riusciti a fuggire. Onde evitare sorprese propose dei turni di guardia per la notte, ma Anco non era d'accordo: "Staranno ancora scappando e non si faranno più vedere. È una fatica inutile!"
Ummidio troncò la polemica: "Vigileremo io e Fausto, siamo abituati alle veglie. Ho contato sette corpi, vi risulta?" "Ce n'è un altro laggiù, vicino a quell'albero. Avevano delle buone armi, chissà dove le hanno prese..." Scavarono una fossa al limitare del bosco in cui seppellirono otto banditi, dopo aver loro tolto tutto quel che poteva essere utile. Al calar della sera l'allegria svanì; il buio suscitava angoscia perché poteva celare un attacco di sorpresa. Se i banditi fuggiti volevano vendicarsi, la casa sarebbe stata un facile obiettivo e di notte era complicato difendersi. 1 pastori, che temevano una vendetta; per prudenza avevano avvicinato il gregge all'abitazione e lasciato liberi i cani sull'aia. Scesa la notte salirono sul tetto muniti di armi e coperte, intenzionati a vegliare a turno. "I cani sono inquieti!" "Perché sentono i' odore del sangue. Se ci fosse qualcuno abbaierebbero". "Te ne vuoi andare da qui, Fausto?" "Vorrei restare, ma questo posto non è sicuro. Prima o poi qualche gruppo di malintenzionati ci sorprenderà!" Ummidio rimuginava sulle parole dell'amico e dopo un po' concluse: "Allora prendo moglie e me ne tomo ad Alba Fucens! Laggiù dovrebbe essere tutto tranquillo e la mia famiglia ha della buona terra. Perché non vieni con me?" "La Marsica è lontana. Con l'aria che tira è un viaggio molto rischioso, soprattutto con donne, bambini e pecore!" "Hai ragione, però io non farei la Salaria o la Tiburtina. Percorrerò tratturi secondari sino a raggiungere la Tiburtina Valeria all'altezza di Carseoli¹ ..." Fausto sembrava interessato e chiese: "Quanto è lontana la tua Alba?"
"Da Roma sarebbero 68 miglia di buona strada. Da qui, con il tragitto che ho in mente, sono circa novanta miglia disagevoli ma sicure. Che ne dici?" "Potrebbe essere la cosa giusta, anche se è un peccato abbandonare tutto. E Anco?" "Se vorrà venire con noi sarà il benvenuto. Attorno al lago la terra da coltivare non manca e la mia casa è grande!" Discussero a lungo del progetto e all'alba annunciarono ad Anco che in primavera sarebbero partiti per la Marsica. I pastori sostenevano che quel luogo, così come l'intera Sabina e l'agro romano in generale, non era sicuro e lo invitavano a partire con loro. Anco ci rimase male, affermava che lui sarebbe rimasto; quella era la sua terra e non aveva paura di nessuno. Fausto smorzava i toni della discussione: "La primavera è lontana, sino ad allora resteremo e lavoreremo insieme. Vedremo in seguito cosa ci riserva il futuro, può darsi che le cose migliorino e sia possibile restare". Tuttavia per loro l'inverno trascorse nell'incertezza. Eterik si era presto rimesso dalla ferita e gli uomini stavano sempre sul chi vive per via dei tanti sbandati che battevano le campagne in cerca di cibo e di preda. Più volte dovettero impugnare le armi per tenere a bada dei malintenzionati e in un’occasione furono costretti a patteggiare con una numerosa banda, a cui consegnarono due pecore e del grano pur di evitare guai peggiori. Le cose non miglioravano e lo stillicidio di apparizioni sospette convinse definitivamente i due pastori alla partenza. In primavera, non appena la neve sugli Appennini si fosse sciolta, si sarebbero messi in viaggio per la Marsica. Come aveva stabilito, all'inizio del nuovo anno Ummidio partì per andare a prendere moglie.
Con grande prudenza, assieme a Eterik e conducendo due pecore, in due giorni giunse nel piccolo villaggio di Ublacum, presso la via Flaminia, ove prese in moglie Fabia, la figlia di Settimio, con il rito della comptio² . Ummidio trovò il villaggio ancor più desolato e spopolato rispetto all'anno precedente. La mansio²¹, la stazione di cambio del cursus publicus presso cui iI minuscolo borgo insisteva, era in abbandono, i contadini se ne allontanavano spaventati dalle continue razzie che erano costretti a subire. Anche Settimio era preoccupato; Ummidio gli annunciò che avrebbe presto condotto la moglie ad Alba Fucens, una tranquilla cittadina nella lontana Marsica. Pur intuendo che probabilmente non avrebbe più rivisto la figlia, Settimio era contento: Fabia sposava un brav'uomo e andava a vivere in un luogo sicuro. Fu ancor più lieto per le due pecore dategli dal genero; erano il prezzo simbolico per l’acquisto della sposa. Il matrimonio ebbe luogo in casa, dinanzi all'altare di Settimio. Fu una semplice cerimonia conclusa col finto rapimento della sposa e con un frugale banchetto, come imponevano i tempi difficili. Fabia aveva ventidue anni, era una donna forte e robusta con Iineamenti tutt' altro che delicati. Ampie spalle, gambe e braccia muscolose testimoniavano l'abitudine al duro lavoro in campagna. Di statura normale, aveva lunghi capelli neri che portava raccolti sulla nuca, occhi scuri e un bel naso aquilino sotto cui si notava una lieve peluria. Morta Ulpia che gli era stata promessa, Ummidio ne sposava la sorella non certo per la bellezza o essendone innamorato, si conoscevano appena, ma perché desiderava metter su famiglia e Fabia era una donna forte, assennata e laboriosa. Anche lei aveva accantonato i sogni d'amore, se mai ne aveva nutriti in quei tempi tanto difficili, e sposava volentieri il pastore avendo temuto di restare zitella. Ai suoi occhi Ummidio era un uomo pieno di buon senso, gentile e affidabile, pur se non bello.
Trascorsero la prima notte in casa di uno zio della ragazza, uscita con il matrimonio dalla potestà paterna. Eterik, guardato con diffidenza per le sue origini barbare, era rimasto ospite di Settimio e si sentiva in imbarazzo. Il secondo giorno partirono diretti al podere dei Rulliano portando nel poco bagaglio la dote in biancheria di Fabia. I due uomini erano armati e procedevano con prudenza, però non fecero brutti incontri e in due giorni giunsero alla casa di Anco, ove erano attesi. Per festeggiare i novelli sposi fu organizzata una festicciola con una cena abbondante e allegra; la stanzetta loro destinata fu addobbata con bende e festoni di foglie. Fabia fu contenta dell' accoglienza, della sistemazione e ancor più della sincera amicizia di Crisia e Quirina. , La casa era stata ampliata, ora attorno alla sala principale ove ardeva il focolare e ci si riuniva, c'erano cinque piccoli cubicoli ove ci si ritirava a dormore: tre destinati alle coppie, le altre due a Eterik e ai bambini più grandicelli. La vigilanza veniva costantemente esercitata e la notte i cani venivano lasciati liberi sull'aia; la loro presenza garantiva una certa sicurezza. Anco aveva sperato che col are del tempo i pastori cambiassero idea e restassero, ma i primi tepori primaverili sciolsero gli ultimi dubbi. La partenza fu confermata e preparata con cura, nonostante Quirina avesse appena scoperto di essere incinta. Ummidio era originario di Alba, ove aveva una vecchia casa e della terra affidate alla sorella; anche se non vi tornava da anni, sperava di ritrovare tutto in ordine. Fausto sarebbe stato suo ospite, insieme avrebbero coltivato
la terra e allevato le pecore, il mestiere che conoscevano meglio. Come stabilito, alle idi di aprile salutarono commossi Anco e la sua famiglia, con cui avevano condiviso tante traversie, e si misero in viaggio verso levante. Sul cavallo avevano caricato il grosso dei bagagli e le provviste, il resto era stipato negli zaini che tutti, bambini compresi, portavano sulle spalle. Erano in sette: Fausto, Quirina, i loro due figli, Eterik, Ummidio e Fabia; conducevano otto pecore e uno splendido montone su cui riponevano molte speranze. Le altre pecore e tutto ciò che non era indispensabile l’avevano lasciato ad Anco, nei cui confronti provavano un certo rimorso per averlo lasciato solo. Percorrevano senza fretta i sentieri della transumanza, nel tripudio della natura in pieno risveglio. Per quanto possibile cercavano di tenersi alla larga dalle strade più battute e gli uomini portavano le spade alla cintura. Il cammino si snodava su sentieri disagevoli tra colline e boschi, ove la sera si accampavano al riparo degli alberi. Il giorno successivo alla partenza raggiunsero il Tevere, che si frapponeva gonfio e minaccioso. Dopo la vana ricerca di un guado, il fiume era al massimo della portata, videro are la barca di un pescatore, da cui si fecero traghettare sull'opposta sponda in cambio di una forma di cacio. La barca dovette fare tre viaggi, il più difficile fu quello col cavallo, irrequieto al punto da doverlo bendare. In seguito il percorso divenne più impegnativo: i contrafforti dell' Appennino rendevano i sentieri scomodi e tortuosi, non era facile mantenere la giusta direzione. Per aggirare le zone più impervie e i monti ancora innevati, erano costretti a lunghe deviazioni. I pastori conoscevano i principali tratturi e si orientavano col sole e con le stelle. Eterik, le donne e i bambini erano molto impressionati dai luoghi aspri e selvaggi. Nonostante gli sforzi non riuscivano a percorrere più di una
decina di miglia al giorno, a causa dei sentieri disagevoli, se sentieri si potevano definire. Ogni sera cercavano un posto riparato ove pernottare e accendere un fuoco per scaldarsi, cucinare e tenere lontani gli animali selvatici. Tra quei monti boscosi si aggiravano lupi, linci e persino orsi. Il paesaggio era tuttavia straordinario: cime ancora bianche di neve, vallate incantevoli fitte di boschi, con laghetti e ruscelli dalle acque trasparenti, gelide e pescose. Ovunque foreste di faggi, querce, lecci, roveri, più in alto abeti; nell'avanzare vedevano animali in fuga e piante sconosciute persino ai pastori. In quei boschi immensi, a saperlo cercare il cibo non mancava: pescavano, raccoglievano funghi e bacche. Talvolta con l’arco Ummidio riusciva ad abbattere della selvaggina. I bambini erano impressionati dai panorami straordinari, da flora e fauna per loro sconosciute. Per loro quel viaggio era un divertimento e si sfidavano a trovare le cose più strane o i funghi più grossi. Nonostante fosse incinta Quirina avanzava spedita, lo zaino sulle spalle e la speranza di una vita più sicura nel cuore. La gravidanza aveva dissolto l'angoscia che l'aveva tormentata per la morte di Tito e la sorte dei suoi genitori. La compagnia di Fabia la incoraggiava in quell'avventura che speravano preludesse a una vita più serena. Oltre a portare un pesante fardello, Eterik si prendeva cura del cavallo, che considerava suo. Da fanciullone quale era, stava spesso con Curzio e Annia, con cui condivideva i giochi e lo stupore per la natura selvaggia deIl'Appennino. Le traversie, il lavoro, quel viaggio e le comuni speranze, lo avevano legato indissolubilmente ai pastori. Ormai il giovane non pensava più al ato nè a tornare dal suo popolo, ma al futuro che lo attendeva nella Marsica, che immaginava attraverso le belle descrizioni di Ummidio. Superata la catena dei monti Sabini, se ne trovarono di fronte un'altra, però Ummidio li incoraggiava; "Queste sono le ultime asperità. Dall’àltra parte ci sono Carseoli e la via Valeria. Valicati questi monti, il resto sarà facile!"
Le sue parole venivano accolte con fiducia e gioia, la marcia proseguiva con lena. Ogni tanto dovevano traversare qualche rio e il aggio non era comodo, essendo i corsi d'acqua gonfi per il disgelo e le piogge primaverili. Nei guadi più impegnativi si servivano del cavallo e delle corde. Ogni tanto li sorprendeva la pioggia; se era intensa si riparavano sotto gli alberi o aprivano una tenda. Però di solito non si arrestavano, si limitavano a coprirsi coi loro mantelli impermeabili. Valicato l'ennesimo o, scorsero in lontananza una cittadina, era Carseoli e il loro entusiasmo divenne sfrenata allegria. Purtroppo le devastazioni avevano colpito anche quella zona; trovarono rifugio in una locanda ove contavano di fermarsi un poco prima di ripartire per Alba. Lasciati pecore e cavallo nella stalla, si concessero un giorno di riposo per rimettersi dagli strapazzi del viaggio e per riacquistare un aspetto civile. Donne e bambini profittaro di una tinozza d'acqua calda per fare il bagno, mentre gli uomini si lavavano a un ruscello. Ormai solo una ventina di miglia di buona strada lastricata li separavano da Alba Fucens; era una distanza che si poteva coprire in una giornata e si sentivano quasi arrivati. Il proprietario della locanda però li avvisò che i briganti infestavano i boschi attorno a quell'ullimo tratto di strada e suggerì loro di unirsi a qualche gruppo per viaggiare sicuri. Rimasero delusi nell'apprendere che anche da quelle parti dovevano temere agguati e rapine, tuttavia seguirono il consiglio deII'oste. L'indomani si unirono a una lunga carovana di mercanti e muli, scortata da servi armati. Da quei mercanti acquistarono del sale e furono ben accetti essendo armati. Come spiegava a Fausto colui che guidava il gruppo: "Più siamo, più si è sicuri di arrivare!" La Tiburtina Valeria era ancora in buone condizioni e con una sola giornata di cammino giunsero in vista di Alba, ove i pastori lasciarono la carovana. I mercanti erano diretti sull'Adriatico e non avevano intenzione di fare soste.
Cap. VI Sul lago del Fucino.
Alba Fucens apparve ai loro occhi arroccata su una collina, alta, imponente, difesa da un'ampia cinta muraria munita di torri. Come constatarono una volta entrati da quella che veniva chiamata porta Romana, la città era vasta ma quasi spopolata. Ummidio si era fatto riconoscere come concittadino dai soldati di guardia alla porta, che non posero difficoltà per farli entrare né fecero pagare dazio per le pecore. Nel rivedere i luoghi natii Ummidio sembrava turbato; nessuno lo riconosceva perché vi mancava da molti anni e, come Fausto, portava una folta barba che celava i lineamenti. Il pastore non si fermava a salutare nessuno, anzi accelerava il o per arrivare a casa sua prima che fe buio. Quando vi giunse rimase deluso: la casa di pietra, addossata al lato meridionale delle mura, era sprangata e deserta. Udendo il trambusto del loro arrivo, comparve una vicina, una vecchia rugosa da cui Ummidio si fece riconoscere e che gli annunciò la partenza dei parenti. Da più di un anno sua sorella, il marito e i loro figli, avevano caricato le loro cose su un carro ed erano partiti per chissà dove. A quella notizia Ummidio non si dava pace e non smetteva di chiedere: "Perché sono partiti? Dove sono andati? Non hanno lasciato un messaggio, un recapito...?" La vecchia allargò le braccia e gli porse una grossa chiave di ferro, prima di sparire dietro al suo uscio. Ummidio osservava sconfortato la chiave e le gridò dietro: "Tante grazie! Almeno non sarò costretto ad abbattere la porta!" Fausto, fino ad allora tenutosi in disparte, lo aiutò ad aprire la serratura arrugginita e a spalancare il robusto portoncino di quercia. Seguendo l'esitante padrone di casa, l'uno dopo l'altro entrarono nella buia magione mentre calava la sera. Si trattava di una casa in pietra costruita dagli avi di Ummidio, su due piani, i cui solai erano sorretti da grosse travi di legno. Era antica, vasta, solida e semibuia,
dato che gli ambienti prendevano aria e luce solo da un piccolo cortile interno. I laterizi del pavimento erano consunti, le stanze fredde e spoglie, ma a tutti loro la casa parve una piccola reggia. Sollecitati da Ummidio, che li invitava a sistemarsi come preferivano, si misero all'opera. Il cavallo e le pecore furono sistemati nella piccola stalla al piano terra, in cui trovarono del foraggio mezzo muffito, mentre Fabia e Quirina accendevano il focolare, alcune lucerne e sistemavano alla meglio i bagagli. Ben poco era rimasto dell’abbondante mobilia che Ummidio ricordava, ma un massiccio tavolo di castagno e delle panche mezze sgangherate permisero loro di cenare comodamente seduti, alla luce del focolare e di una lucerna. Il padrone di casa era deluso e silenzioso, non si spiegava perchè la casa fosse stata abbandonata, tuttavia gli altri erano soddisfatti e commentavano: "Finalmente una sistemazione decente e sicura!". Vedendo l'amico turbato, Fausto andò a consolarlo: "Hai una bella casa, Ummidio! C'è da dare una sistemata, però è grande e solida. Mangia, domani ci daremo da fare!" Ummidio però era sconfortato: "Perché se ne sono andati? Cosa può essere accaduto? Hanno portato via anche i Lari familiari, come se non intendessero più tornare!" La stanchezza prese il sopravvento sulle emozioni e dopo un frugale pasto, si organizzarono per coricarsi. Le stanze erano numerose, però mancava la mobilia; i pochi letti erano sfasciati e non c’erano più i bauli e gli stipi che Ummidio ricordava. Vagando scoraggiato per la casa ripeteva: "Non c'è più niente, sembra che la casa sia stata saccheggiata!" Con la paglia trovata nella stalla, ricoperta da teli, ricavarono dei giacigli su cui
crollarono esausti. Tutti riposarono tranquillamente tranne il padrone di casa, che trascorse una notte insonne. L'indomani, mentre erano riuniti attorno al focolare per il pasto mattutino e per decidere il da fare, udirono bussare al portone. Incuriosito, Ummidio andò ad aprire e si ritrovò dinanzi un vecchio amico, Vibio Ponziano. Costui aveva saputo del suo ritorno da uno dei soldati di guardia a porta Romana e si era affrettato a fargli visita. Dopo gli abbracci, le presentazioni e un po' di commozione, Vibio cominciò a rispondere alle incalzanti domande di Ummidio; "I tuoi familiari sono partiti da oltre un anno, diretti verso l'Adriatico... Perché? Allora non sai cos'è successo? Il lago ha sommerso gran parte delle terre e la città si è spopolata!" Ummidio era esterrefatto: "Il Fucino? Ma il lago è lontano. Anche se talvolta straripa, torna sempre nell'alveo!" "Vieni a vedere coi tuoi occhi, se ti va di camminare!" Perplessi, seguirono Vibio mentre in casa restavano Fabia e Quirina, intenzionate a fare pulizie e mettere ordine. Uscirono dalla porta meridionale di Alba; Fausto non poté fare a meno di notare lo spessore delle mura e la stretta porta scea, con l’accesso dietro a una curva a gomito, pensata per mettere allo scoperto il lato destro, non riparato dallo scudo, di eventuali assalitori. I bambini correvano innanzi spensierati, spingendo con dei bastoncini un cerchio di legno che avevano trovato in casa, mentre Vibio spiegava ai tre uomini: "Gli inghiottitoi costruiti dall’imperatore Claudio quattro secoli or sono, si sono ostruiti. L'acqua non defluisce più nel fiume Liri e negli ultimi anni il lago si è lentamente ripreso tutte le terre che erano state bonificate". "Anche la mia terrai? Non si possono riparare le condotte?"
"Si è preso tutte le terre basse, le più fertili! Nessuno sa cosa fare e pure se ci fossero dei genieri esperti, ci vorrebbero mesi di lavoro e somme enormi per ripristinare gli inghiottitoi e sgomberare il canale di tre miglia che portava le acque al Liri". Ummidio non riuscivaa credere a quel che udiva: "Ma com'è possibile che si siano ostruite le condotte?" "Il continuo accumulo dei detriti e qualche frana, erano decenni che non si faceva una seria manutenzione!" "Già, mio padre diceva che dopo le riparazioni fatte fare dall'imperatore Adriano, erano intervenuti raramente..." Procedendo di buona lena il piccolo gruppo scendeva dalla collina su cui si innalzava Alba. Mentre camminavano Vibio raccontava a Fausto, che non la conosceva, la storia del lago del Fucino: anticamente misurava venti miglia di lunghezza e dieci di larghezza, era poco profondo e circondalo da acquitrini. A lungo si era studiato il modo di prosciugarlo per ricavarne terre fertili e irrigue, sino a che l'imperatore Claudio non aveva approvato il progetto e iniziato i lavori. Con grandi investimenti era stato costruito un canale lungo tre miglia sul versante d'un colle all'estremità sud-orientale del lago; mediante delle condotte le acque venivano convogliate nel canale e giungevano al fiume Liri, che scorreva oltre le montagne. Si trattava di un'opera gigantesca, realizzata in ben tredici anni con l'ausilio di migliaia di operai e di tecnici. Ummidio, che quella storia la conosceva bene, non diceva una parola e si guardava attorno perplesso: c'era qualcosa di strano nel paesaggio, però non riusciva a capire cosa fosse. A una svolta, all'improvviso, un grandioso panorama apparve dinanzi ai loro occhi: un’immensa distesa d'acqua turchina copriva la grande vallata sottostante. Se in lontananza non si fossero scorti i monti che la delimitavano, poteva sembrare un mare per quanto era
vasta. Sull' acqua scintillante sotto il sole si scorgevano numerose barche e il gruppo ristette, immobile e silenzioso, nella contemplazione del gigantesco lago. Per la sorpresa Ummidio era scivolato in terra; fissava attonito le acque mormorando: "La terra... La mia terra!" Fausto gli si accosciò accanto; "Coraggio! Abbiamo ancora le pecore e il nostro mestiere di pastori... Ce la caveremo!" Vibio che aveva udito, li disilluse subito: "Quelli che erano i pascoli comuni, sulle colline, sono stati divisi e coltivati a cereali. Non si può più pascolare attorno ad Alba, a meno che non si vada molto lontano, oltre la montagna". Avvertendo la drammaticità del momento Eterik, sino ad allora preso dai giochi dei bambini, volle esprimere l'idea che gli era venuta in mente: "Nel lago c'è pesce? Allora costruiamo una barca e facciamo i pescatori! Non mi sembra cosa difficile". Tutti risero della sua idea e quella risata liberatoria rasserenò la situazione. Mentre tornavano indietro, Vibio raccontava a Ummidio ciò che era accaduto nella zona dopo la sua partenza, ma l'amico lo ascoltava distrattamente. Tutti i suoi progetti erano naufragati in quel lago che aveva inghiottito la sua terra. Neppure la pastorizia era più possibile, almeno non nei pressi di Alba, affamata di terra da coltivare. Si doleva e si preoccupava non tanto per sé, quanto per sua moglie e gli amici, a cui aveva fatto tante promesse e che aveva condotto da lontano. Come se gli avesse letto nel pensiero, Fausto gli mise un braccio sulle spalle per consolarlo. Tra loro era un gesto inconsueto, Ummidio lo apprezzò e levò la testa per affermare: "Ebbene, qualcosa ci inventeremo! Se non c'è più la terra faremo un altro lavoro, magari i pescatori come ha detto Eterik. L'importante è non rassegnarci!" "Adesso sono diventati tutti pescatori!" Borbottava stizzito Vibio prendendo a calci un sasso.
I due pastori decisero di parlare con le mogli; li attendevano tempi incerti e chiesero loro se volevano tornare da Anco. Fabia e Quirina preferivano restare ad Alba, ove almeno c'era una grande casa al riparo di solide mura, in una zona abbastanza tranquilla. I mariti erano intraprendenti e laboriosi, in qualche modo se la sarebbero cavata e loro erano disposte ad assecondarli in qualunque attività volessero intraprendere. Rinfrancati dalla fiducia delle mogli, Ummidio e Fausto per i primi giorni si occuparono delle pecore e di alcuni lavori di manutenzione alla casa. Come l’usanza imponeva, si presentarono al municipio per comunicare il loro arrivo e l'intenzione di restare. Il decemviro che li registrava sugli elenchi, scrivendo che erano pastori scuoteva la testa: "Sapete che attorno alla città c'è il divieto di pascolo?" "Lo sappiamo. Andremo lontano, oltre le colline". "Nei boschi ci sono i banditi, con le pecore non sarete al sicuro. Avete delle armi? Chi è questo ragazzo biondo? Sembra un barbaro..." I pastori raccontarono parte delle loro traversie e seppero di dover dedicare tre giorni ogni due mesi alla milizia cittadina, muniti delle proprie armi. La milizia vigilava le mura e le quattro porte della città, pattugliava le campagne circostanti per tenere lontani i malfattori, si occupava dell'ordine pubblico e degli incendi. In caso di necessità o d’assedio, gli uomini erano mobililati a tempo indeterminato. La buona notizia era che, prestando quel servizio e non possedendo terre, non erano tenuti al pagamento di alcuna imposta. Ummidio chiese se potevano costruire una barca e pescare nel lago; il decemviro assentì ma aggiunse: "Badate che ormai i pescatori sono molti, forse troppi. Non v’illudete di arricchire col pesce, a meno che non lo vendiate lontano". I tre uomini uscirono dal municipio un po' sfiduciati, poi si recarono da un mercante di nome Marsio che vendeva anche legname.
Intendevano costruire dei mobili per la casa e una barca, anche se non sapevano come realizzare un'imbarcazione, ma nell'udire i prezzi del legname rimasero di sasso. Qualunque tipo di legno costava carissimo! A loro che erano sempre vissuti tra i boschi, tagliando la legna secondo le necessità, quei prezzi parevano assurdi. Alle loro rimostranze il commerciante indicò le colline circostanti: "Guardate, non ci sono più alberi attorno ad Alba. Debbo far venire il legname da lontano e il trasporto costa!" Ummidio alzò lo sguardo e si rese conto che, pur avvertendo che nel paesaggio c’era qualcosa di strano, non ci aveva fatto caso, perché la sua attenzione era assorbita dal lago. I boschi che una volta facevano corona alla montagna e giungevano sin quasi alle porte della città, erano spariti! Il paesaggio era mutato non solo per il lago che aveva inghiottito le terre, ma perché ovunque si era disboscato. Marsio aggiunse: "Hanno tagliato gli alberi per dissodare altra terra, dopo che il Fucino è straripato. Se vi serve una barca ne ho una quasi nuova, vi farò un buon prezzo!" Tuttavia la cifra richiesta sembrava enorme ai pastori, che si allontanarono depressi dal magazzino senza aver comprato nulla. Mentre se ne stavano a rimuginare sulla difficile situazione, Fausto ebbe un'idea: "Ascoltate! Se il legno è così caro, faremo i boscaioli e lo venderemo! Che ne dite?" "Dovremo andare molto lontano per trovare boschi intatti. Come li trasportiamo poi i tronchi sino ad Alba?" "Abbiamo il cavallo, e poi c'è il lago!" Fausto spiegò la sua idea; Ummidio ed Eterik erano perplessi, tuttavia decisero di tentare, non avendo nulla da perdere. Uscirono da Alba percorrendo la strada percorsa il giorno innanzi con Vibio. Quando giunsero in un punto in cui lo sguardo abbracciava quasi tutto il circuito dell'immenso lago, Fausto indicò i monti sull' opposta sponda: "Laggiù è pieno di boschi. Taglieremo gli alberi, li faremo scivolare nel lago, li legheremo
formando delle zattere e li porteremo qui sotto. Con il cavallo poi li trascineremo in un luogo adatto e li taglieremo..." "Mi pare una buona idea... Che ne dici Eterik?" Il ragazzo fissava il lago con una strana espressione, dopo un imbarazzato silenzio si decise a parlare: "Devo dire una cosa... lo non so nuotare!" La paura sottintesa in quelle parole scatenò l'ilarità dei due pastori, che si sganasciavano dalle risate commentando: "Ma non eri tu che volevi fare il pescatore?" "Stai tranquillo, ti insegneremo noi a nuotare!". Tornati ad Alba misero a punto il loro progetto: affilarono le asce che possedevano, acquistarono dei cunei di ferro, cento braccia di robusta corda e andarono a cercare un amico di Vibio che possedeva una barca. Sergio Glabro aveva perduto la terra come quasi tutti i concittadini e sopravviveva facendo il pescatore. Tuttavia la concorrenza era grande e il più delle volte il pescato restava invenduto oppure i prezzo erano troppo bassi. Sergio ascoltò con interesse la proposta di Ummidio: doveva trasportarli dall'altra parte del lago con la sua barca e riportare indietro le zattere formate dai tronchi. Gli proposero di entrare in società alla pari, mettendo la barca e la sua conoscenza del lago, lui non avrebbe dovuto abbattere alberi. Pur con qualche perplessità Sergio accettò la proposta. L'ex contadino fattosi pescatore era un uomo tozzo, sfuggente, quasi calvo e privo di barba, da ciò il nome di Glabro. Era tutt'altro che simpatico e se Vibio non avesse garantito per lui, Fausto non si sarebbe mai sognato di prenderlo come socio: nel volto e nell'atteggiamento aveva qualcosa di subdolo e di inquietante.
Presero accordi per l'indomani e tornarono a casa a preparare gli ultimi dettagli. Fabia e Quirina avevano fatto il pane, che erano andate a cuocere presso il forno pubblico. La fragranza del pane caldo accolse i tre uomini, che esposero con entusiasmo il loro progetto; alle mogli avrebbero affidato nel frattempo le pecore e il cavallo. Le donne erano tutt'altro che contente di rimanere sole per qualche giorno, ma si dissero d'accordo coi mariti. Maggio stava per iniziare e il tempo sembrava propizio. L'indomani di buon'ora i tre pastori, carichi di attrezzi e provviste, scesero sulla riva del lago, al molo costruito a due miglia da Alba. Sergio li attendeva impaziente e nel vedere tutto quel carico parve contrariato: "Avete portato troppa roba! Al mangiare ci penserò io, sempre che il pesce vi piaccia". "Sono quasi tutti attrezzi, considera che dovremo stare via alcuni giorni!" La barca a fondo piatto era tozza e sgraziata come il proprietario. Non aveva timone, si governava coi due remi con cui i pastori presero confidenza a turno. Fausto e Ummidio non avevano problemi, Eterik invece era goffo e timoroso. Anche se non profondo, il lago era vasto e pieno di correnti, ci vollero tre ore per traversarlo e sbarcare sul versante meridionale. Nel punto prescelto la montagna declinava nell'acqua con ripida pendenza, la foresta che la copriva era in parte sommersa. Gli alberi spuntavano dall'acqua e coprivano il resto del monte. Come accaduto ai fertili campi, anche molti boschi pedemontani erano stati inghiottiti. Legarono la barca ai rami di una quercia che emergeva dalI'acqua, sbarcarono i materiali e rizzarono la tenda di pelle in una radura pianeggiante più in alto. Subito cominciarono a sgombrare un declivio da cui intendevano far scivolare i tronchi nel lago. Benchè non vi fosse tenuto, anche Sergio li aiutava in quel duro lavoro. Alcuni alberi le cui radici erano state scalzate dall 'acqua, mezzi moribondi e
innaturalmente inclinati, furono divelti facilmente e sfrondati dai rami. I tronchi così ripuliti venivano spinti nell'acqua, legati gli uni agli altri e ancorat a una roccia affinché la corrente non li trascinasse via. Fausto segnava con un gesso gli alberi che intendeva abbattere, il cui legname era più richiesto: querce, faggi, lecci, carpini, castagni, che si levavano maestosi verso il cielo, quel mattino di uno splendido blu. Quando il sole era a metà del suo cammino, si fermarono a mangiare del pane e del formaggio; Sergio offriva del pesce secco e della verdura. Ummidio gli disse: "Torna pure ad Alba. Ce la fai a riportare qualche tronco?" Nel rispondere il pescatore si grattava la calvizie: "Li legherò alla barca e la corrente mi darà una mano. Ma che devo farne, una volta portati al molo?" "Tirali in secco e vai a parlare con Marsio; chiedi quanto ce li paga. Se il prezzo è buono cedili, altrimenti ci penseremo noi al ritorno. Vieni a riprenderci tra due giorni". Sergio rimase ancora un po' a dare una mano. Quando nel pomeriggio si mise ai remi, la barca trascinava una decina di tronchi legati l'uno all'altro; la corrente lo assecondava ma lo sforzo sui remi era notevole. Gli sguardi ansiosi dei soci lo seguivano mentre si allontanava imprecando. Abbattere un albero era faticoso ma non complicato: facevano due tagli paralleli alla base, in uno infilavano i cunei di ferro che venivano spinti nel tronco a colpi di mazza. Infallibilmente l'albero cadeva nella direzione voluta, veniva sfrondato, ripulito, fatto scivolare in acqua e legato a una roccia. Dai tronchi percossi fuggivano scoiattoli, ghiri, uccelli; quando trovavano dei nidi, ove possibile li sistemavano sugli alberi che non dovevano abbattere.
Pur essendo tutti cacciatori, ritenevano immorale uccidere senza scopo degli animali innocui. Poco prima del tramonto si fermarono; erano esausti, sporchi e sudati, pertanto si spogliarono ed entrarono in acqua per lavarsi e rinfrescarsi. Eterik li osservava dalla riva scuotendo la testa ai loro inviti, allora Ummidio uscì e lo spinse a forza nell'acqua: "Devi lavarti o non entrerai nella tenda. Chiudi la bocca e muovi le braccia, questa è l'occasione buona per imparare a nuotare!" Quando uscirono dalle fredde acque del Fucino trascinavano il ragazzo terrorizzato e mezzo affogato; "Che uomo sei? Hai paura persino dell'acqua!" Erano intirizziti, però il fuoco dinanzi alla tenda restituì l'allegria persino al giovane Visigoto. Mentre Fausto preparava la cena emerse un problema che non avevano considerato: "Accidenti! Qui ci sono delle zanzare grosse come tordi!" "Smettila di lamentarti e vieni a darmi una mano". "Chi ha visto i miei scarponi?" "Forse sono finiti nel fuoco... Ecco perché puzza così!" "Attento a quel che dici. Quella con cui mi sto asciugando è la tua tunica!" Nonostante tutto regnava l’allegria, era stata una giornata fruttuosa e il pensiero del guadagno, una volta venduto il legname, li rendeva euforici. "Che ne dite di costruire una capanna al posto della tenda?" "Vedremo. Credo che tra poco dovremo spegnere il fuoco, richiama gli insetti per miglia e miglia!" "Però ci serve per tenere lontani gli animali pericolosi..." "Qui l'unico animale pericoloso sei tu. Neanche un orso ti si
avvicinerebbe!" Ben presto furono costretti a rifugiarsi nella tenda per sfuggire a nugoli di aggressive zanzare; per loro fortuna la tenda di pelle, oltre ad essere impermeabile, si chiudeva perfettamente. Per precauzione avevano portato delle armi e intendevano fare dei turni di guardia contro eventuali animali selvatici, però erano troppo stanchi e fuori della tenda le zanzare non davano tregua. Rinunciarono quindi alla vigilanza, il fuoco all'esterno li faceva sentire al sicuro e durante la giornata non avevano scorto tracce di lupi o orsi. Si avvolsero nelle coperte e nelle pelli per combattere l'umidità, e ben presto caddero in un sonno profondo. Quella notte non ebbero sorprese è come sempre si destarono prima dell'alba; il grande fuoco era ridotto a poche braci e faceva freddo. Ravvivarono la fiamma su cui cucinarono una zuppa di cereali e lardo che, quasi bollente, li ritemprò. Appena ci fu abbastanza luce si misero all'opera. Ora che avevano preso pratica in quel mestiere, erano molto più veloci e metodici, nel pomeriggio lo specchio d'acqua antistante era pieno di tronchi. Esaurita la corda, non sapevano più come ancorarli, così decisero di fermarsi. Di legname ne avevano tagliato abbastanza e altro ne avrebbero preparato l'indomani, prima che Sergio li riportasse ad Alba. Anche se abituati alla fatica erano esausti, con le mani piene di graffi e vesciche. Fecero il solito bagno ristoratore, ma stavolta Eterik scappò per la montagna per non farsi gettare in acqua: aveva deciso di rinunciare alle lezioni di nuoto. Quella sera rimasero a lungo svegli, chiusi nella tenda a giocare a dadi e a fare progetti. Avevano rivolto un sentito ringramento agli Dei silvani per il buon esito dell'impresa, dato che in soli due giorni avevano tagliato e ripulto quasi un centinaio di buoni tronchi. Ora il problema era trasportarli, pertanto discutevano
se convenisse farne delle zattere o fosse meglio legarli l'uno all'altro dietro la barca. Si addormentarono a notte fonda, quando la luce del fuoco era ormai ridotta a un fioco riflesso. Al risveglio trovarono una sgradita sorpresa: all'esterno le loro cose erano state messe a soqquadro. Dalle impronte compresero che si trattava di lupi; per fortuna non un branco numeroso, altrimenti avrebbero trovato il coraggio di squarciare la tenda e assalirli. I lupi non avevano fatto danni, si erano limitati a rovistare ovunque alla ricerca di avanzi di cibo. Dopo aver recuperato le loro cose e smontato la tenda, continuarono ad abbattere alberi, che sfrondavano e lasciavano sul declivio per mancanza di corda. Fausto inoltre tagliava e raccoglieva tutta l'erba disponibile per riportarla come foraggio per le sue pecore. La barca di Sergio comparve nella tarda mattinata, riportava le corde e una spiacevole notizia: "Marsio offre pochissimo per il legname! Dice che a lui servono delle tavole, non dei tronchi grezzi e non stagionati, neppure buoni come legna da ardere". Ummidio lanciò una pittoresca imprecazione, ma Fausto esclamò: "Peggio per lui! Ne faremo delle assi e le venderemo per conto nostro. Vedremo se reggerà la concorrenza... Come se la cavano le nostre donne?" "Bene, ma tua moglie dice che le pecore non hanno più foraggio". Sergio guardava dubbioso il gran numero di tronchi neIl'acqua: "Come li portiamo? L'altro ieri mi sono ammazzato per riportarne dieci e questi sono oltre cento!" "Prendi le corde, costruiremo una zattera!"
Con grande fatica, a cavalcioni di tronchi bagnati, la cui improvvisa rotazione li faceva spesso ruzzolare in acqua, ne legarono una ventina affiancati; altri due furono fissati perpendicolarmente sopra. Alla fine ottennero una rozza zattera che legarono alla barca e prepararono dei lunghi rami per governarla. Quando tutto fu pronto, Sergio diede il segnale di partenza. Avrebbero traversato il lago diretti all'approdo di Alba con l'aiuto della corrente; "Gli Dei ci aiutino e speriamo che le funi reggano! Gli altri tronchi li porteremo in seguito". Lo strano convoglio si avviò lentamente sulle acque del lago appena increspate. Sergio ed Eterik erano ai remi della barca mentre i due pastori si davano da fare sulla zattera, utilizzando due lunghi pali come timoni e remi rudimentali. Per la mole e il peso della zattera, la traversata fu lenta ed estenuante; solo al tramonto giunsero al molo di Alba, ove ancorarono la grande zattera. La traversata era riuscita grazie alla corrente favorevole e all'esperienza di Sergio. Benché stanchi e sudati, Ummidio e Fausto andarono subito a parlare con Marsio, ma quello ripeteva di non sapere che farsene di tronchi grezzi. Al massimo si disse disposto ad acquistarne alcuni per farne legna da ardere, ad un prezzo irrisorio. I pastori rifiutarono la misera offerta e se ne tornarono a casa, felici di rivedere le famiglie ma inquieti per l'esito incerto dell’impresa. Legato in balle, avevano riportato il foraggio con cui poterono sfamare le pecore e il cavallo. Quella sera dinanzi al focolare discussero a lungo sul da fare. Era presente anche Sergio Glabro, che si diceva disposto ad accettare l’esiguo prezzo offerto da Marsio. Fausto però aveva ben altre intenzioni: "Domani compreremo un paio di seghe e cominceremo a tagliare i tronchi. Ne faremo delle assi che metteremo in vendita o a stagionare, a seconda delle richieste. Siete d'accordo?"
Ummidio era entusiasta: "Certo! Non è difficile tagliare delle tavole e qui c'è grande richiesta di legname. Al diavolo Marsio e le sue astuzie!" Le sue parole convinsero anche il riluttante Sergio, mentre Eterik si affidava fiducioso ai suoi amici. Il giorno successivo iniziarono un’altra febbrile attività: da un fabbro acquistarono due seghe e vari attrezzi in cambio di una pecora. Fausto e Ummidio si misero a costruire una baracca su uno spiazzo roccioso nei pressi del molo, mentre Sergio ed Eterik attraversavano di nuovo il lago per riportare altri tronchi. Presso l’erigenda baracca volevano impiantare la segheria e lì, con l'aiuto del cavallo, trascinavano uno alla volta i tronchi da tagliare. Quasi subito Ummidio ricevette una richiesta di assi da un artigiano edile; c'era un gran bisogno di legname e i pastori decisero dei prezzi bassi rispetto a quelli di Marsio per conquistare dei clienti. Da quel momento lavorarono alacremente dall'alba al tramonto, sotto il sole e con la pioggia. I pochi giorni da prestare alla milizia cittadina per stare di vedetta o pattugliare intorno alla città, sembravano loro un riposo per quanto l'attività alla segheria era intensa. Una decina alla volta, i tronchi venivano trasportati attraverso il lago legati alla barca di Sergio. Trainati col cavallo presso la baracca, venivano provvisoriamente sgrossati con le asce, poi con grande fatica e pazienza venivano segati in assi di varia misura, a seconda delle richieste. Le assi venivano vendute o accatastate a stagionare in bell'ordine all'aperto. Ben presto si resero conto di averla azzeccata: il legname era molto richiesto, riuscivano a vendere persino gli scarti come legna da ardere, ma il lavoro con le seghe era lungo e faticoso. Avevano stabilito dei turni per il taglio del legname, da cui Sergio era esentato perché incaricato di trasportare i tronchi con la barca. A turno lo accompagnava
uno degli altri tre. Dato che ad Alba conosceva quasi tutti e aveva una buona inclinazione per il commercio, Ummidio si occupava di concludere gli affari e tenere i rapporti col municipio, che ben presto venne a reclamare le sue decime. Da decenni l'imperatore non inviava un suo rappresentante ad Alba; il Senato di Roma aveva supplito nominando annualmente un magistrato, ma da quando era iniziato l'assedio, da Roma non era più giunto nessuno. Negli ultimi anni il municipio di Alba si era ripreso le sue antiche prerogative. Il consiglio dei decemviri, formato da dieci uomini autorevoli scelti dall’assemblea dei cittadini, curava gli interessi pubblici: riscuoteva le imposte, amministrava la giustizia, provvedeva alla difesa e decideva su ogni questione nell’ambito del territorio di Alba Fucens. Nello sfacelo dell'impero d’Occidente la vita quotidiana in quella cittadina proseguiva come sempre, anche se lo straripamento del lago aveva impoverito la Marsica e ne stava causando una lenta ma inesorabile decadenza. Tuttavia in quel periodo le cose andavano a gonfie vele per i quattro soci: il lavoro e i clienti non mancavano. Un giorno comparve persino Marsio, allarmato dalla forte e inattesa concorrenza. Stavolta proponeva di acquistare tutto il legname in esclusiva, ma i prezzi che offriva erano bassi rispetto a quanto i pastori ricavavano vendendo in proprio. Dopo averlo ascoltato con pazienza, Fausto e Ummidio rifiutarono la proposta. Allora il tono di Marsio si fece minaccioso, quei pecorai lo stavano mandando in rovina, nessuno comprava più il suo legname. Per nulla intimoriti i pastori lo cacciarono in malo modo; nell'allontanarsi il mercante lanciava terribili maledizioni e oscure minacce. Al ritorno degli altri due soci raccontarono l'episodio e ne risero, ma Sergio pareva preoccupato: "Bisogna stare attenti, voi non lo conoscete bene! Marsio è un tipaccio, uno che non si dà facilmente per vinto!" Allarmati da quelle parole i pastori si guardavano in volto l’un l’altro; il legname accatastato all'aperto, di fianco alla baracca in cui conservavano gli attrezzi, poteva diventare un facile obiettivo. Per alcune notti esercitarono a turno una certa vigilanza, ma ben presto smisero. Sino ad allora non avevano subito né
furti né danni e il riposo notturno era troppo prezioso per sciuparlo in inutili veglie. Era iniziata l'estate e pareva che per loro le cose volgessero al meglio, quando una notte un miliziano batté con forza al portone di Ummidio, gridando: "Al fuoco, Al fuoco! Accorrete tutti..." Fausto, che a quelle grida era schizzato fuori dal letto, fu il primo ad afferrare due secchi e a varcare la soglia, ma attorno non si scorgeva alcun incendio. Il miliziano della ronda notturna gli disse di salire sulle vicine mura e Fausto lo seguì in preda a un oscuro presentimento. A meridione, proprio in direzione del molo, si vedeva un gran bagliore; "Credo sia il vostro legname!" Benché fosse notte fonda, Fausto scese in fretta dagli spalti, si fece aprire la porta meridionale e si mise a correre verso il molo, seguito da Ummidio ed Eterik che reggevano due torce. Percorsero a perdifiato le due miglia sperando che non si trattasse della loro segherià, ma quando senza più fiato giunsero presso il molo, si resero conto del disastro. Non solo stavano bruciando le cataste di assi messe a stagionare, ma pure la baracca in cui erano riposti gli attrezzi. Ovunque il fuoco divampava vigoroso, alimentato dal vento; si misero subito al lavoro coi secchi, tuttavia poterono salvare ben poco oltre a qualche tronco. Un altro bagliore presso il molo attrasse la loro attenzione: era la barca di Sergio che, tirata in secco, bruciava irreparabilmente. Non avevano dubbi su chi fosse il responsabile di quello scempio e l'urlo di Fausto squarciò il silenzio della notte: "Marsio, che tu sia maledetto! Ti ammazzerò per questo. Giuro che ti ammazzo!" Pur essendo infuriato e disperato quanto lui, Ummidio cercava di placarlo: "Stai calmo, se l’uccidi sarai giustiziato! Vuoi lasciare soli tua moglie e i bambini?" "E allora? Dovremo forse subire senza reagire...?"
"Lo citeremo in giudizio, pagherà per questo crimine!" Trascorsero il resto della notte cercando di spegnere le fiamme e di salvare il più possibile: la lama di una sega, qualche attrezzo, delle assi ancora non intaccate dal fuoco. Man mano arrivava gente: pescatori preoccupati per le loro barche, curiosi, miliziani e decurioni di Alba. Giunse anche Sergio, che vedendo i roghi esclamò: "Me l’aspettavo! Marsio è un uomo malvagio e vendicativo..." "Ma noi lo porteremo in tribunale. Ci rimborserà oppure c'è la pena di morte per gli incendiari!" Ummidio si rivolgeva accorato a un decurione che fissando perplesso i tizzoni ancora fumanti, mormorava: "Vedremo, ci vogliono delle prove per condannare un uomo..." Ancora neri di fuliggine, i pastori condussero Sergio in disparte: "Ricominceremo da capo! Puoi trovare un'altra barca?" "E come? Non ho denaro per ricomprarla e dopo questo rogo nessuno vorrà prestarla o affittarla. Sono rovinato! Non potrò neppure più pescare!" Ummidio cercava di spronarlo: "Siamo tutti nei guai, ma se restiamo uniti ce ne tireremo fuori!" Sergio però sembrava così scoraggiato da disinteressarsi della denunzia che i pastori intendevano presentare. Quella stessa mattina, ancora sporchi di fuliggine, si recarono nel foro di Alba per citare in giudizio Marsio. Questi comparve presto, chiamato dal decurione che svolgeva le funzioni di Pretore; giunse scortato da una piccola folla di amici, parenti e servi. Prima che il Pretore potesse interrogarlo, alcuni di loro si fecero innanzi affermando di poter giurare che il commerciante aveva ato la notte in casa propria, ove si era svolto un lungo banchetto per un anniversano. Il decurione ascoltò alcuni testimoni, che senbravano in buona fede, poi si rivolse a Ummidio, primo querelante, e concluse: "Pare che quando l'incendio è
divampato, Furio Marsio fosse a casa sua, in numerosa compagnia. Non ci sono estremi per processarlo". Il pastore era infuriato: "Si era preparato perfino l'alibi! Di certo avrà incaricato qualcuno di appiccare l’incendio!" "Hai qualche testimone o prova di quanto affermi?" Vedendo che i querelanti rimanevano in silenzio, delusi e irati, il Pretore allargò le braccia ed esclamò: "Non ci sono prove a tuo carico, Furio Marsio. Il giudizio non può aver luogo, puoi andare". Dopo aver rivolto un gesto osceno agli accusatori, Marsio si allontanò ridendo tra la turba dei suoi amici. Il Pretore si rivolse quindi ai querelanti, rimasti inebetiti: "Andate anche voi e ricordate: niente vendette private! Qui ad Alba regna ancora la legge, se lo aggredite sarò costretto a condannarvi!" I pastori se ne tornarono. sconsolati a casa ove, angosciati, li attendevano i familiari. Sergio non si era fatto vedere nel foro e i tre non riuscivano a darsi pace: "Non c'è più giustizia!" "Ci vendicheremo di Marsio!" "Però se lo uccidiamo saremo condannati a morte..." Stavano ancora discutendo quando giunse Vibio Ponziano, l'amico di Ummidio; "So tutto! Non disperate, forse posso aiutarvi". Vibio aveva qualche risparmio e sapeva dove trovare una barca a buon prezzo. Per amicizia e anche sperando di trarne un guadagno, si offriva di entrare in società con loro, avendo constatato le potenzialità di quell’attività. Fausto e Ummidio si scambiarono uno sguardo d'intesa: "Per noi va bene. Prenderai il posto di Sergio, che a quanto pare non vuole più saperne, però ci devi fare un favore..."
Il mattino successivo, mentre Fausto, Ummidio ed Eterik sgombravano i rottami dell' incendio e iniziavano a ricostruire la baracca sotto gli occhi di un gran numero di curiosi, Marsio e il suo garzone furono aggrediti nel loro magazzino. Alcuni uomini col volto coperto da cappucci, legarono il garzone e picchiarono duramente il commerciante. Lo percossero metodicamente con dei bastoni dopo averlo imbavagliato, spezzandogli parecchie ossa. Lo ridussero in condizioni pietose sino a renderlo quasi invalido, stando ben attenti a non ucciderlo. Dopo che gli aggressori si furono allontanati, il garzone riuscì a sciogliersi e a dare l'allarme; quando lo soccorsero Marsio sembrava moribondo. Prontamente avvisati, alcuni miliziani di Alba si misero subito alla ricerca dei presunti aggressori. I tre pastori furono rintracciati presso il molo e immediatamente fermati. Sergio era uscito a pesca sulla barca di un conoscente e un miliziano rimase ad attenderne il ritorno sul molo. I pastori non avevano opposto alcuna resistenza e parevano tranquilli. Furono condotti dinanzi al decurione a cui si erano rivolti il giorno innanzi, che vedendoli sbottò: "Siete soddisfatti? Vi siete vendicati riducendo Furio Marsio in fin di vita e ora dovrò condannarvi!" Con un candore che sorprese persino i suoi amici, Ummidio replicò: "Cosa? Noi non abbiamo fatto niente! Siamo al lavoro dall’alba di stamattina e possono testimoniarlo decine di persone. Quando è stato aggredito Marsio?" Il decurione espose i fatti, prese nota di quanto sostenuto dai pastori, dei testimoni da loro enumerati e spazientito concluse: "E allora chi sarebbe stato, se non voi?" "Marsio ha tanti nemici. Sarà stato qualcuno che aveva dei conti in sospeso, sicuro che dopo l'incendio la colpa sarebbe ricaduta su di noi!"
Il decurione fece una smorfia d'incredulità, tuttavia li lasciò liberi annunciando che avrebbe controllato scrupolosamente il loro alibi, guai se gli avevano mentito! Non erano stati i pastori a bastonare Marsio, ma Vibio Ponziano e alcuni suoi amici che nutrivano del rancore nei confronti del mercante. Dalle indagini del Pretore non scaturì nulla tuttavia, dato che Marsio sosteneva di aver riconosciuto nei pastoru i suoi assalitori ed essendo egli un personaggio influente in città, il giudizio venne istruito. Due giorni dopo l'aggressione, Sergio e i pastori furono convocati nel foro dal decurione che fungeva da Pretore. Il querelante era sdraiato in una portantina dalle tende socchiuse e si avvaleva di un giureconsulto non essendo in grado di parlare né di levarsi. L'avvocato mosse ufficialmente l'accusa ai quattro convenuti: avevano picchiato selvaggiamente Furio Marsio, causandogli gravi lesioni che solo per un miracolo non l'avevano ucciso, pertanto ne chiedeva la condanna all'esilio e la confisca dei beni. Il Pretore ascoltò i testi dell' accusa: il garzone diceva che, nonostante fossero incappucciati, gli era parso di riconoscere negli aggressori i quattro imputati. Tale deposizione fu confermata con gesti e mugoIii dallo stesso Marsio dalla portantina, le cui tende erano state aperte rivelandone il volto tumefatto e il corpo rattrappito. A quel punto iniziò la sfilata dei testimoni a favore degli accusati; erano una ventina e per non perdere tempo il Pretore, che già li aveva ascoltati in precedenza e separatamente, li chiamava a gruppi. Tutti confermavano che il giorno dell'aggressione i tre pastori e Sergio erano sul molo sin dall' alba. Sergio era andato a pesca con un amico, gli altri tre avevano lavorato ininterrottamente a quel che restava della loro segheria, senza mai allontanarsi sino a quando i miliziani non li avevano arrestati.
Il Pretore a quel punto si rivolse al querelante, allargando le braccia: "Appare evidente che non sono stati loro ad aggredirti, Furio Marsio, pertanto..." L’avvocato lo interruppe: "Avranno pagato qualcuno per farlo, sono comunque colpevoli in quanto mandanti!" Il Pretore non si scompose: "Di ciò non vi è prova, così come non era provato che sia stato Marsio a far incendiare i beni degli imputati. Inoltre mi risulta che il suo assistito ha molti nemici. Ad Alba ci sono almeno una decina di persone che avevano motivi per aggredirlo, pertanto debbo assolvere gli imputati non essendovi prove a loro carico!" Un grande clamore si levò nel foro: si trattava di grida di gioia, perché in tanti odiavano e temevano il commerciante, ma anche di proteste dei numerosi amici e parenti che Marsio aveva fatto convenire. Onde evitare che la gazzarra sfociasse in una rissa, il Pretore fece segno ai soldati di sciogliere l'assembramento; per lui il giudizio era concluso. Dopo aver salutato Sergio, che confermò di non essere più interessato all'attività, Ummidio, Eterik e Fausto se ne tornarono prudentemente a casa, volendo evitare uno scontro con gli infuriati clienti²² di Marsio. A casa li attendeva Vibio Ponziano, che si congratulò per l'assoluzione e brindò con loro. "Giustizia è stata fatta, anche se nessuno ci risarcirà dei danni subiti!" Concluse Fausto a bassa voce, giacché per prudenza neppure le mogli conoscevano il ruolo svolto da Vibio in quella storia. Per quanto possibile l'attività era ripresa quasi subito: avevano tagliato in assi i pochi tronchi scampati al fuoco e ricostruito la baracca con quel legname. Dato che Vibio voleva restare per qualche tempo defilato e la barca promessa non era pronta, il lavoro non era molto pertanto Fausto riprese a badare alle sue pecore. Per trovare il pascolo necessario si doveva allontanare molto da Alba.
Ogni notte uno di loro si fermava a dormire nella baracca ricostruita, con le armi a portata di mano onde evitare altri attentati. Le cose stavano tornando lentamente alla normalità, quando accadde un nuovo incidente. Una notte di giugno in cui toccava a Fausto dormire nella segheria, egli fu destato da rumori sospetti. Impugnata la spada, uscì silenziosamente dalla baracca e sorprese due uomini con delle torce presso una catasta di legname. I due si muovevano furtivamente, intenti a dar fuoco alle assi, allora Fausto balzò verso di loro gridando: "Fermi o vi ammazzo! Allontanatevi dal legname!" Gli incendiari sembravano sorpresi, evidentemente non sapevano che la segheria fosse vigilata. Uno scagliò la sua torcia verso Fausto, che fu colpito in pieno volto e urlò per il dolore. Accecato dal fuoco che gli bruciava la barba e i capelli, in preda al furore il pastore si gettò innanzi e vibrò una stoccata a colui che gli aveva tirato la torcia, poi corse verso un barile pieno d'acqua in cui immerse la testa. Il fuoco si spense subito, ma Fausto rimase per qualche istante stordito prima di riprendere padronanza di se stesso. Quando raccolse la torcia abbandonata in terra dagli incendiari, si accorse che uno giaceva tra le assi, trafitto al petto, mentre l'altro si era dileguato nel buio della notte, dopo aver scagliato la sua torcia verso la baracca. Con alcune secchiate d’acqua Fausto spense i focolai, poi andò a dare uno sguardo al ferito, che rantolava; era un ragazzo che non conosceva. Il pastore comprese subito che per il giovane non c’era nulla da fare, la lama gli aveva traato il petto all'altezza del polmone, e fu dispiaciuto nel constatare che si trattava di un adolescente. Provò a sollevargli la testa per non farlo soffocare nel sangue, ma poco dopo il ragazzo spirò. Turbato e furibondo, Fausto prese a gridare nel buio della notte: "Marsio, che tu
sia maledetto! Mandi dei ragazzi a morire per i tuoi spregevoli interessi!" Tornò alla baracca tuttavia per il resto della notte non riuscì a chiudere occhio. Le ustioni al volto gli dolevano, ma soprattutto era in preda all'ansia e al turbamento. All'alba Umminidio e Eterik giunsero coi primi pescatori. Fausto aveva un bizzarro aspetto, il fuoco gli aveva bruciato i sopraccigli, parte della barba e dei capelli, inoltre i suoi lineamenti erano stravolti dalla tensione. Gli uomini si accalcavano attorno al corpo del giovane: "È Furio Stazio, il nipote di Marsio!" "Poveretto, era solo un ragazzo. Qualcuno è andato a chiamare il Pretore?" Ummidio era scosso, tuttavia si preoccupava di raccogliere consensi: "Avete visto? Marsio continua a perseguitarci e a causare lutti! Tenetelo a mente, quando verrà il Pretore!" Prese quindi da parte Fausto, che chiedeva un rasoio per tagliare la barba e i capelli bruciacchiati: "Aspetta, le bruciature dimostrano che sei stato aggredito. Non pulirti e vai a riposare nella baracca, qui alcuni non ti vedono di buon occhio!" Infatti quando giunse il Pretore, accompagnato da due soldati e dai familiari del ragazzo ucciso, fu chiaro che per il pastore non c'era molta simpatia. Dopo averlo interrogato, il magistrato concluse: "Va bene, ti sei difeso, però il ragazzo era disarmato! Era proprio necessario ucciderlo? Per causa vostra ultimamente ci sono stati un sacco di guai!" Ummidio, che assisteva all'interrogatorio, replicò: "Marsio ci perseguita! Fausto è stato aggredito e per poco non lo bruciano vivo... Guardate com’è ridotto, che doveva fare?" Attorno a loro i parenti del ragazzo si lamentavano e tumultuavano. Per
prudenza Fausto fu scortato dai soldati sino ad Alba, ove nel rilasciarlo il Pretore lo ammonì: "Sei libero, ma bada a non ricomparirmi dinanzi! Da quando sei arrivato hai causato sin troppi problemi. Se sei furbo, raccogli le tue cose e te ne vai. Qui tira una brutta aria per te!" Quel pomeriggio in casa di Ummidio ebbe luogo una lunga discussione a cui partecipavano anche le mogli dei pastori e Vibio Ponziano. Fausto voleva andarsene partendo l'indomani di buon'ora, ma sua moglie e gli amici dissentivano. Quirina era la più contrariata: "Sono due anni che scappiamo da un posto all’altro. Finalmente abbiamo una casa comoda e sicura, i bambini sono tranquilli, tu hai un lavoro redditizio e io sono incinta. Ora vuoi abbandonare tutto? Tornare di nuovo a vagare per boschi e campagne?" Di solito una moglie non si azzardava a contraddire il marito in pubblico e tutti si stupivano per quelle parole. Un altro uomo avrebbe preso a schiaffi la moglie per quella mancanza di rispetto, non Fausto, che le voleva bene e voleva convincerla: "Ascolta, Quirina. Qui ormai ci odiano, la gente di Marsio non ci darà più tregua! Per Ummidio è diverso, lui non ha ucciso il ragazzo, ad Alba c'è nato ed è stimato, ma noi siamo forestieri! Alla prossima aggressione il Pretore, che pure è un uomo onesto, mi darà torto e mi condannerà, oppure mi ammazzeranno a tradimento in qualche vicolo. lo non ho paura, ma che sarà di te e dei nostri figli se sarò ucciso o imprigionato?" Quirina taceva, sbigottita dalla dura realtà che il marito le prospettava. Ummidio cercava di confutare quelle affermazioni, tuttavia Fausto lo interruppe: "Ti ringrazio per le belle parole e per l' amicizia che mi dimostri, però ormai ho deciso: domattina partiremo per Roma con le pecore che ci restano!" Eterik, rimasto sino ad allora silenzioso, proruppe: "Verrò anch'io con te, anch'io sono straniero qui".
La discussione si riaccese, Ummidio e Vibio intendevano dissuadere almeno il ragazzo, visto che non riuscivano a far cambiare idea a Fausto, che alla fine concluse: "E meglio che resti, Eterik. Ummidio è come un padre per te, non hai fatto niente e nessuno oserà infastidirti. Inoltre qui hai una casa e un lavoro, mentre io non ho nulla da offrirti". Eterik si rassegnò di buon grado all'opinione di Fausto, che rimase irremovibile nella decisione di partire al più presto. Nel pomeriggio il pastore si rasò la barba e i capelli bruciacchiati, poi gli amici lo aiutarono a preparare i bagagli e qualche provvista. Senza la barba, con il volto deturpato dalle bruciature e solcato da una brutta cicatrice, Fausto aveva un aspetto terribile. Ummidio gli diede tutto il denaro che possedeva, una sorta di liquidazione per la quota della segheria, e una specie di carriola munita di due ruote e una stanga per poterla tirare. Su quel trabiccolo caricavano e legavano le poche cose da portare. Fausto spiegava agli amici: "Andremo a Roma, a casa di mia suocera. Cèrcherò di allevare un gregge..." Dispiaciuto, Ummidio si torceva le mani: "Viaggia solo di giorno e in compagnia, ricorda che ci sono molti banditi!" Vibio affermava: "Roma ormai è finita! Non riesce a difendere neppure se stessa, ti converrebbe..." Seccato, Fausto replicò: "La città è stata saccheggiata ma si riprenderà. Roma non può scomparire, sarebbe la fine di tutto, anche di Alba!".
Cap. VII Una Roma diversa, una vita incerta. L'indomani, alle prime luci dell'alba, accompagnata per un tratto da Eterik, Ummidio e Fabia, la famiglia di Fausto Licino uscì da Alba e imboccò la via Valeria accodandosi a un gruppo di mercanti diretti a Roma.
Quando si separarono erano tutti commossi; Ummidio non la finiva più di raccomandarsi: "State attenti! Un giorno di questi ci rivedremo. Fausto, torna quando vuoi e se trovi qualcuno diretto da queste parti, mandaci notizie!" "Addio amici! Tenete duro e pregate gli Dei per noi. Ora fateci andare, altrimenti i mercanti ci lasceranno indietro!" Ben presto le mura di Alba scomparvero alla loro vista; vi avevano trascorso solo due mesi, ma si era trattato di un periodo denso di avvenimenti. Fausto smise di pensare al ato per concentrarsi sul viaggio. Oltre alla moglie incinta e ai figlioli, conduceva il suo pregiato montone e cinque pecore. Aveva lasciato ai suoi amici il cavallo, necessario per trainare i tronchi, e con quei pochi capi era intenzionato a riprendere il suo mestiere. Nonostante il carretto da tirare, le pecore a cui badare e i bambini che si stancavano, i Licino riuscivano con fatica a tenere il o dei mercanti, armati e scortati da servi, che conducevano somari carichi di sacchi e fagotti. Anche Fausto portava la spada al fianco, ma in quella prima giornata non accadde nulla di particolare. Prima del tramonto giunsero alla mansio presso Carseoli, a 46 miglia da Roma; avevano percorso 22 miglia ed erano molto stanchi. Fausto affittò una stanzetta per i suoi familiari e uno spazio nella stalla per le pecore, però non acquistò cibo perchè Ummidio e Fabia avevano stipato molte provviste sul carretto. La notte trascorse tranquilla e ripartirono all'alba con lo stesso gruppo di mercanti. Il lastricato della via Valeria, prolungamento della Tiburtina, era in qualche tratto sconnesso e rovinato, ma tutto sommato la strada era ancora in discrete condizioni. Talvolta incrociavano altri viaggiatori, sempre in gruppo e armati. Che il pericolo di venir rapinati fosse reale, lo confermavano anche i drappelli di soldati che incontravano, incaricati di pattugliare la strada. Il secondo giorno percorsero 24 miglia e giunsero al calar delle tenebre alla mansio Prima, l'ultima per chi, percorrendo la Tiburtina, fosse diretto a Roma.
Essendo Quirina e i bambini molto affaticati, Fausto decise che l’indomani avrebbero sostato presso la mansio. Mancavano 22 miglia per arrivare a Roma e le avrebbero percorse con un altro convoglio, dopo essersi riposati. In fondo non avevano fretta e il pastore non voleva stancare troppo la moglie, vista l'avanzata gravidanza. Quel giorno di riposo restituì alla famigliola le forze e il buon umore. Quirina aveva lasciato Alba a malincuore, pur comprendendo le ragioni del marito. Ora però era contenta di tornare a Roma, ove sperava di riabbracciare la madre. Fecero l'ultima parte del viaggio con una eterogenea compagnia di attori e giocolieri, che lasciarono i bambini a bocca aperta per lo stupore. arono per Tibur, devastata e spopolata, e la sera giunsero a Roma, stanchi ma pieni di speranze. Alla porta Tiburtina dovettero pagare un dazio per le pecore che conducevano e subire l'interrogatorio del centurione che comandava il posto di guardia: "Andiamo da mia suocera, ha una casa presso il porto". "Quale porto? Dove sarebbe questa casa?" "L'emporium, il porto grande sul Tevere. La casa è al vicus oleario, presso il monte dei cocci". Il centurione fece segno di are; gli avevano raccomandato di non andare troppo per il sottile, bisognava ripopolare l'Urbe, le cui strade erano semideserte e buie. Fausto accese una torcia che affidò a Curzio; era buio pesto quando giunsero dinanzi alla casa dei suoceri. Alle loro grida e ai ripetuti colpi sul portone tuttavia non rispondeva nessuno. Fausto stava già per arrampicarsi sul muro quando dalla finestrella di una casa vicina spuntò la testa di una vecchia: "Chi siete? Che volete?" "Salve Vullia, sono Quirina! Dov'è andata mia madre?"
La vecchia si sporse per guardare meglio, poi rispose: "Non ti riconoscevo, sei cambiata! Aspetta che ti porto la chiave". La famigliola attese pazientemente che la vicina scendesse. Quirina era inquieta, temeva per la sorte della madre mentre Fausto cercava di rassicurarla: "Vedrai che sarà da qualche amica, forse non se la sentiva di vivere da sola". Vullia giunse con una lucerna, porse una chiave e subito li disilluse: "Tua madre è morta! Ormai sarà più di un anno, io e mio figlio abbiamo pensato a tutto, tenuto in ordine la casa e..." Ma i Licino non l'ascoltavano più, Fausto aveva aperto il cigolante portone e spingeva dentro i bambini, le pecore e il bagaglio, mentre la moglie singhiozzava sommessamente. Vullia entrò con loro per fare luce e per raccontare; Fausto si affrettò a fissare la torcia a una parete del cortile e poi la congedò: "Grazie signora. Domani ci darà altre notizie e la ricompenseremo per quanto ha fatto. Ora devo pensare ai bambini, sono molto stanchi e anche Quirina è esausta". Serrato il portone, accese una lucerna, condusse i figlioli in un cubicolo e prese delle coperte da un baule. Quirina pareva essersi ripresa e lo aiutava, allora Fausto scese a sistemare le pecore nel piccolo cortile. Doveva anche scaricare il carrettino, ma si limitò a prendere un pezzo di formaggio prima di tornare dalla moglie: "Coraggio Quirina! Ora dobbiamo pensare ai bambini. Mangia un pezzo di cacio, fatti forza!" La moglie scuoteva la testa e si rifugiò tra le sue braccia, piangendo sommessamente. Anche Fausto era addolorato, i suoceri erano delle brave persone, sapeva che durante l'assedio avevano fatto di tutto per sfamare i nipotini. Riuscì a far mangiare qualche boccone alla moglie prima di condurla a dormire. Lei non voleva coricarsi, diceva di avere tante cose da fare, ma il marito si impose e la tenne abbracciata sino a che non la colse un sonno tormentato.
Il giorno seguente, col sole le cose apparivano meno fosche: Vullia raccontò a Quirina come si era spenta la madre, mai ripresasi dagli stenti dell'assedio e dal dolore per la scomparsa del marito. La vicina sosteneva di aver provveduto alle esequie e a custodire intatta la casa, da cui infatti non mancava nulla. Per compensarla Fausto le diede del denaro, parte del gruzzolo riportato da Alba, e le promise un agnello non appena una pecora avesse figliato. Per superare l'angoscia del lutto, il corpo della madre era stato arso, le ceneri disperse, e non c'era neppure una tomba su cui piangere, Quirina si mise alacremente al lavoro: puliva e sistemava la casa in cui intendeva restare. Fausto avrebbe voluto tornare alla sua terra a nord di Roma, tuttavia si rendeva conto che vivere fuori dalle mura di una città era diventato troppo rischioso. Per il momento doveva restare in quella casa e trovare il modo di sfamare le pecore. All'interno delle mura fatte costruire da Aureliano c’erano dei prati ove era possibile pascolare, ma a Fausto mancava la campagna, il respiro ampio e fresco della natura, il contatto quotidiano con la terra, le piante, i boschi. In un vano del cortile aveva ricavato un piccolo ovile, ma Quirina si lamentava perché la puzza, che si sentiva per tutta la casa. Fausto non poteva darle torto, prima o poi avrebbero protestato anche i vicini. Era autunno inoltrato e ben presto la zona portuale presso il Tevere, una volta trafficatissima e ora poco animata, sarebbe diventata deserta, perché in inverno si navigava raramente, così il pastore si mise alla ricerca di uno spazio che fe al caso suo. Dopo alcune ricerche trovò un locale vuoto a ridosso dei magazzini portuali, quasi tutti abbandonati perché con l'assedio Roma si era spopolata e i commerci languivano. Fausto era disposto a pagare un affitto, ma il proprietario era introvabile, così dopo aver montato una serratura, occupò il locale per utilizzarlo come ovile.
Vi condusse le pecore, sistemò i recipienti e gli attrezzi per fare il formaggio, e riprese a svolgere il suo mestiere. All' interno delle mura c’erano molti terreni abbandonati e incolti, ma lui per pascolare preferiva uscire dalla città. La porta più vicina era quella sulla via Ostiense, da cui usciva quotidianamente. La bianca piramide, l'insolito monumento funebre di Caio Cestio ormai inglobato nelle mura, si stagliava inconfondibile nel paesaggio. Il candore del marmo faceva da riferimento al suo vagabondare per la campagna. Non si allontanava mai troppo dalle mura e spesso portava con se il figlio per insegnargli qualcosa, pur non avendo bisogno di aiuto perchè il gregge era di pochi capi. Per motivi igienici e per una questione di rispetto, Fausto si decise a traslare i resti del suocero, sepolto da due anni nel cortile della casa. Lasciati i figli da una vicina, dissotterrò quel che restava del corpo e con Quirina lo trasportò col carretto in una necropoli sulla via Ostiense. Lo deposero in un antico sepolcro abbandonato, che il pastore chiuse con una lastra di travertino trovata nei paraggi, su cui incise il nome del defunto. I bambini non avevano assistito alla macabra operazione, ma in seguito furono condotti alla tomba del nonno, a cui resero i dovuti onori funebri. Curzio aveva quasi dieci anni ed era fiero di uscire col padre, che gli insegnava i segreti della pastorizia e della natura. Nelle belle giornate Fausto conduceva anche la moglie e Annia, che aveva compiuto otto anni, per farle stare un po' all'aperto. In quelle occasioni Quirina raccoglieva funghi o verdure commestibili, era però il marito a istruire i.figli sulle proprietà delle piante che trovavano. Sino all' arrivo dei Visigoti quelle terre erano state coltivate, ora molte erano in abbandono e su queste Fausto pascolava e raccoglieva molte piante e verdure.
Per lui quasi nessuna pianta era sconosciuta o inutile; se non commestibili, cucinate in un modo o nell' altro quasi tutte lo erano, avevano comunque qualche proprietà da tenere a mente. Persino la fastidiosa ortica si poteva mangiare cotta e aveva qualità curative, per non parlare dei cardi spinosi, della profumata menta o della malva amara. Fausto sosteneva che anche le piante ritenute velenose, la cicuta, il colchico, la ruta, lo stramonio, la dulcamara, prese in piccole dosi e opportunamente trattate, potevano diventare buoni rimedi per molti malanni. Annia era entusiasta di quelle eggiate per la campagna, come suo fratello avrebbe voluto seguire spesso il padre, però Quirina non era d'accordo, preferiva restasse in casa con lei a imparare i mestieri femminili. Pur non allontanandosi troppo dalla città, Fausto portava con se la spada e l'affilato coltello da caccia. Le sue pecore potevano far gola a qualche malintenzionato e lui era sempre molto prudente, soprattutto se portava i figli. Col sopraggiungere dell'inverno preferiva uscire da solo, lasciando a casa anche Curzio per risparmiargli il freddo e la pioggia. Lui non si curava del maltempo, era abituato e indossava il pesante mantello impermeabile provvisto di cappuccio e foderato di calda lana. Solo nelle giornate più inclementi cercava un rifugio o riportava le pecore all'ovile. La città non si era ripresa dall'assedio e dal saccheggio; era semideserta, sfiduciata, deturpata e immiserita. Nonostante i mesi trascorsi e l'apparente ritorno alla normalità, le devastazioni erano state riparate solo in parte. Se i danni materiali sembravano ingenti, quelli morali e psicologici erano ancor maggiori perché, caduto il mito dell'invulnerabilità di Roma, i suoi abitanti e tutti i cittadini dell'impero erano sbigottiti e incerti sul futuro. In città regnava una strana atmosfera intrisa di rassegnazione e avvilimento; si sperava che l'imperatore venisse a riportare l'ordine e a restaurare l'antico splendore, ma Onorio era preso da ben altre preoccupazioni.
Ora i Visigoti erano guidati da Ataulfo, fratello di Alarico, che aveva preso in moglie Galla Placidia, la sorella di Onorio rapita durante il sacco di Roma. Grazie a questa unione Ataulfo sperava che l'imperatore lo riconoscesse come alleato e gli assegnasse un regno ove condurre il suo popolo. Onorio fu costretto ad accettare il matrimonio della sorella e concesse ad Ataulfo di condurre i Visigoti in Gallia, sulle cui fertili terre ebbero il permesso di insediarsi. In realtà la Gallia era funestata da invasioni e razzie di popoli germanici che avevano varcato il limes²³ e Onorio sperava che Ataulfo riuscisse a riportare un po’ d’ordine in quelle terre tormentate. Lui era troppo inetto per intervenire o forse, come era solito giustificarsi, non aveva un esercito adeguato. Per recarsi in Gallia i Visigoti attraversarono di nuovo l'Italia, ma stavolta Ataulfo limitò al minimo disordini e saccheggi, essendo divenuto alleato dell'impero. Nell'eco di questi eventi, gli abitanti di Roma si aggiravano come fantasmi tra antichi fori abbandonati e grandiosi monumenti devastati, impegnati solo a sopravvivere. Il Senato non si riuniva quasi più, le famiglie illustri erano decimate e c'erano pochi soldati della milizia urbana a garantire la sicurezza di quella che era stata la città più popolosa e potente del mondo. La carestia e le malattie causate dal lungo assedio, le stragi, le migliaia di schiavi e ostaggi portati via dai Visigoti, avevano dimezzato e prostrato la popolazione. Molti dei sopravvissuti erano fuggiti nelle campagne, ove era più facile trovare di che sfamarsi. Nonostante fossero trascorsi quasi due anni dalla caduta della città, regnava ancora l'inquietudine e la rassegnazione; la vita politica, economica e sociale ristagnava.
Benché tutti i templi fossero stati distrutti o trasformati in chiese, c'era una ripresa dei culti pagani, ufficialmente proibiti, che i cristiani, detentori del potere, cercavano di contrastare in ogni modo. Fausto avvertiva l'incertezza dei tempi; fosse dipeso da lui avrebbe abbandonato la città demoralizzata e spopolata. Caduto il mito dell'inespugnabilità, Roma ancora piena di ricchezze rischiava un nuovo assalto di altri barbari. Tuttavia il pastore non sapeva dove condurre la famiglia e Quirina non intendeva più vagare per le campagne in cerca di un luogo sicuro, così si era rassegnato a restare in città traendo un magro sostentamento dalle pecore e dall'agro romano semiabbandonato. In quell'inverno sua moglie, assistita da una levatrice, diede alla luce una bimba a cui fu imposto il nome di Tullia in memoria del nonno. La bimba sembrava robusta e sana, tutto il vicinato si rallegrava della nascita, finalmente un lieto evento dopo tanti lutti. Per festeggiare la nascita Fausto piantò un olivo presso l'ovile: l'albero sarebbe stato un simbolico fratello vegetale per Tullia. Una volta cresciuto auspicava che, come sua figlia, l'olivo avrebbe dato frutti in abbondanza. Anche in occasione della nascita degli altri figli aveva piantato degli ulivi sulla sua terra. Quegli alberi non c'erano più e Quirina suggerì di piantarne di nuovi, affinché anche Curzio e Annia avessero i loro fratelli vegetali. Il pastore acconsentì: sarebbero state piante diverse, ognuna a simboleggiare il diverso carattere dei figli. Per Curzio scelse un pioppo, che piantò presso un fosso, per Annia piantò un melo accanto all'olivo. Infine presso il sepolcreto ove era sepolto il suocero, interrò un cipresso in memoria di Tito. Ai figli spiegava le caratteristiche degli alberi piantati: il pioppo si sarebbe innalzato alto e possente, vivrebbe a lungo, più di un secolo se nessuno lo disturbava, e sarebbe diventato un punto di riferimento all'orizzonte.
Il melo sarebbe cresciuto al ritmo di Annia, simboleggiava la fecondità femminile e come lei avrebbe dato buoni frutti, mentre il cipresso, maestoso e austero, era l'albero dei morti e avrebbe ricordato a lungo lo sfortunato Tito. Il pastore si era fatto ricrescere la barba per nascondere l'ampia cicatrice e i segni delle ustioni; la teneva corta e ordinata, mentre tagliava corti i capelli da quando avevano cominciato a brizzolarsi. Di qualche anno più giovane di lui, Quirina viveva una ritrovata serenità: la nascita di Tullia le aveva restituito gioia di vivere e tranquillità. Nella casa in cui erano morti i suoi genitori e si era consumato Tito, germogliava una nuova esistenza e i figli crescevano sani e contenti. Malgrado la ritrovata serenità dei familiari, Fausto Licino si sentiva scontento e irrequieto. Sempre più spesso pensava al suo podere abbandonato e avvertiva acuto il desiderio di andare a vedere che ne era stato. Ora che una parvenza di ordine era stata ristabilita a Roma, l'inquietudine lo assaliva spesso. La moglie coglieva il suo turbamento, ne intuiva i motivi e una sera affrontò l’argomento mentre allattava la bimba: "Se vuoi andare a vedere che ne è del podere, vai pure. Per qualche giorno possiamo fare a meno di te". Fausto rovistava con un bastone tra le braci del focolare e le rispose accigliato; "Che dici? Non posso certo lasciarti sola, con la piccolina non potresti badare alle pecore!" Quirina allungò il braccio, gli fece un'insolita carezza e mormorò: "Perché no? Mi aiuterà Curzio, ormai è grandicello, pascolerà entro le mura inoltre c'è del foraggio nell'ovile. Vai a vedere la tua terra, a a trovare Anco e Crisia. Ti raccomando solo di tornare presto e di essere prudente!" Il pastore fissava la moglie, grato. Quello era uno dei motivi per cui l'amava e l'ammirava, lei gli leggeva nell'animo e cercava sempre di assecondarlo. "Grazie Quirina! Ti prometto che tornerò presto e sarò cauto. Partirò domattina all'alba, dopo aver munto e sistemato le pecore".
La moglie sospirò, si levò e sistemò nella culla la bimba che, sazia, si era addormentata sul seno: "Ti vado a preparare lo zaino. Bada che i ragazzi non la sveglino!" Annia e Curzio stavano giocando in un angolo della stanza con un carrettino di legno, trascinato da un topolino che vi avevano legato, e i loro strepiti crescevano di tono. Il padre li guardò con tenerezza e batté il piede in terra per richiamare la loro attenzione: "Fate piano o vi mando a dormire! Curzio, domani parto, aiuterai tua madre e baderai alle pecore..." “Dove vai, papà? Posso venire con te?” “No Curzio, mi servi qui per proteggere le nostre donne”. Fiero per quelle parole, il bambino non insistette. Il giorno seguente, dopo aver sistemato l'ovile, Fausto attraversò la città sino ad uscire sulla via Flaminia. Portava con se la spada, l'arco e uno zaino con viveri, panni e un paio di coperte. Il commiato dai familiari era stato semplice e breve, anche se Quirina nel vederlo partire era stata presa dall'angoscia. Cosa avrebbe fatto se gli fosse successo qualcosa? La sorte sua e dei bambini sarebbe stata ben misera! Non aveva detto nulla ma Fausto percepiva l'ansia della moglie e vi rimuginava mentre procedeva di buon o. Uscito dalla porta Flaminia, fece una sosta sotto la quercia ove, due anni prima, aveva sepolto Tito. Il pezzo di legno che aveva inciso era sparito, ne fece un altro, rivolse un’invòcazione ai Mani e gettò delle briciole sulle zolle. Era come se il figlio mangiasse pane e cacio con lui.
Dopo essersi rifocillato si rimise in cammino con o costante e veloce. Il panorama che si presentava ai suoi occhi era desolante: campi incolti, casolari diroccati, frutteti e vigneti devastati o inselvatichiti. Fausto aveva sperato che i contadini fossero tornati e le devastazioni riparate, però non era accaduto e tutto si trovava nello stato di abbandono deIl'anno precedente. Le ville rustiche, i poderi e i casolari che per molte miglia fiancheggiavano la Flaminia, erano abbandonati, se non bruciati o distrutti. Lungo il cammino incontrava ben poca gente, armata e circospetta. Da alcuni contadini Fausto seppe che più innanzi la via non era sicura: gruppi di sbandati bivaccavano nei boschi, assalivano viandanti e mercanti indifesi. Il pastore decise allora di lasciare la Flaminia e tagliare per sentieri nascosti che ben conosceva. Al tramonto raggiunse la sua terra: il casolare era completamente distrutto, persino gli alberi da frutto sull’aia erano scomparsi, tagliati per sfregio o per alimentare i fuochi dei bivacchi. Col cuore gonfio d'amarezza Fausto esplorò le rovine e, senza accendere il fuoco, si preparò un giaciglio per la notte. Tra le rovine della sua casa rifletté a lungo: no, non poteva riportare la famiglia in quel luogo! Anche se fosse riuscito a ricostruire la casa, a rimettere in sesto il fondo, non sarebbero bastati dieci uomini armati per sentirsi al sicuro. Prima di tornare a Roma sarebbe andato in Sabina per salutare Anco. Chissà come se la cavava con tante minacce che lo circondavano? Dopo aver mangiato pane, noci e formaggio, si abbandonò al sonno pensando ad Anco: se lui ce l'aveva fatta, forse in Sabina c'era la possibilità di ricominciare... L'indomani pioveva ma il freddo era sopportabile; col capo coperto dal cappuccio del mantello, Fausto si diresse di buon o verso nordest, al podere dei Rulliano.
Giunto al Tevere cercò il solito guado e lo attraversò senza particolari difficoltà. Attorno non si vedeva nessuno, ma allo sguardo esperto del pastore non sfuggivano le tracce impresse sul suolo bagnato. Non si trattava di piste di pastori o mercanti diretti in qualche luogo, era gente che vagava senza meta, sbandati e probabilmente armati. Fausto trovò persino il corpo di un uomo morto da alcuni giorni: aveva la gola tagliata ed era completamente nudo, sulle carni i segni dei denti di qualche animale selvatico. Era un viandante rapinato o un malfattore giustiziato? Non si sarebbe mai saputo, tuttavia il pastore coprì con un lieve strato di terra il cadavere dilaniato. Da quel punto in avanti i suoi i si fecero ancor più circospetti, era combattuto tra il desiderio di tornare indietro e la curiosità di rivedere la famiglia di Anco. Il giorno dopo giunse sulle terre dei Rulliano, ma quel che vedeva lo inquietava: la campagna sembrava abbandonata, non da molto, tuttavia era evidente che nessuno la curava. La casa era ancora in piedi, la si scorgeva in lontananza, attorno però non c’era segno di vita e dal camino non usciva fumo. Fausto avanzava cautamente; il casolare sembrava intatto e sprangato, non si capiva se dall'esterno o dall'interno. Si fece coraggio e cominciò a chiamare con voce sommessa: "Anco! Crisia, sono Fausto! Apritemi". Nessuno rispondeva; il pastore era inquieto e pensava di tornarsene indietro, tuttavia concluse che era da stupidi aver fatto tanta strada per arrestarsi dinanzi a un uscio chiuso. Con calma si mise ad esaminare la porta e l’unica finestra. Aveva costruito lui quegli infissi e sapeva come forzarli. Non voleva però fare troppi danni e cercava di infilare la lama del coltello in una fessura tra le ante
della finestra onde sollevare il paletto. Mentre era intento in quell'operazione gli sembrò di udire dei rumori all' interno, tuttavia nessuno rispose ai suoi richiami. Alla fine la lama riuscì a sbloccare il paletto e la finestra si sbloccò. Lentamente, con grande prudenza, Fausto aprì le ante di legno e gettò uno sguardo all'interno. Nel buio della stanza non vide nessuno, chiamò ancora e infine si decise a penetrare in casa. Si arrampicò, entrò e spalancò l' imposta per avere luce; in mano reggeva la spada e il suo sguardo esaminava attentamente ogni angolo. Perlustrò tutte le stanze: la casa era vuota ma non doveva esserlo da molto, perché tutto era in ordine e senza polvere. Il pastore era perplesso, la porta e le finestre erano chiuse dall'interno, tuttavia la casa era deserta! Nel focolare c’era della brace ed egli si avvicinò per esaminarla: era ancora calda! Fausto ebbe un'intuizione e sorrise; era mai possibile che Anco fosse diventato così pauroso? Andò verso la botola che nascondeva la dispensa e la sollevò con prudenza, chi c’era nascosto poteva tirare qualche colpo micidiale. Nel piccolo spazio sottostante qualcosa si muoveva e lui si affrettò a rassicurare: "Sono Fausto, non abbiate paura!" Nel buio apparve un visetto affilato, poi un secondo e alla fine un terzo, erano i figli di Anco. I bambini si affrettarono a uscire dal buco, magri e spauriti, mentre Fausto teneva sollevata la botola e domandava: "Salve Spurio, dove sono i vostri genitori?" Il maggiore dei tre, che aveva circa undici anni, si rabbuiò e senza piangere esclamò: "Sono morti! Li hanno ammazzati i banditi un mese or sono!"
Il pastore rimase di sasso, poi fece cenno al ragazzino di continuare; "Un giorno sono arrivati degli uomini armati. Papà ci ha fatto nascondere là sotto, mamma è voluta restare con lui. Abbiamo sentito delle grida, dei rumori, ma siamo usciti solo dopo molto tempo, quando era tornato il silenzio e quasi non riuscivamo più a respirare. Papà era stato ucciso con una lancia, l’abbiamo sepolto dietro la casa. Della mamma non c'era traccia!" Fausto fece altre domande a cui Spurio rispondeva con calma, mentre i fratellini piangevano al ricordo della tragedia. I bambini erano sopravvissuti barricati in casa, cibandosi di ciò che era conservato nella dispensa, in cui si rifugiavano ogni volta che udivano qualcuno avvicinarsi. Probabilmente Crisia era stata rapita e fatta schiava, ma questo Fausto non lo disse, era impossibile ritrovarla e forse era meglio che i figli la credessero morta. "Bravo Spurio! Sei stato coraggioso e intelligente. Quanto cibo c'è rimasto nella dispensa?" "Ne è rimasto poco, signore. Ci porterai con te? Non ci abbandonare qui da soli!" Vedendo che stava per piangere, Fausto gli fece una carezza per rassicurarlo mentre osservava gli altri due; Gaia aveva circa sette anni e Albino, il figlio di Bruto adottato dallo zio dopo la morte dei genitori, era un po’ più piccolo: Erano rimasti soli per un mese; il fatto che fossero ancora vivi e in buone condizioni sembrava un miracolo. Li aveva salvati il buon senso e il coraggio di Spurio, impedendo che cadessero vittime della disperazione e dell'imprudenza. Che doveva fare di quei bambini? Portarli con sé sembrava un azzardo, però non poteva certo lasciarli lì, da soli. E quand'anche fosse riuscito a portarli a Roma, cosa sarebbe stato di loro? Non poteva tenerli con se, aveva già tre tigli da sfamare e non poteva mantenerne altri. Pensava: "Chissà se funzionano ancora i collegi per gli orfani?" Quando però incrociò gli sguardi imploranti dei bambini, il suo razionale ragionamento divenne pietà: avevano l'età dei suoi figli! Ricordava anche di aver
promesso al vecchio Rulliane di badare ai suoi familiari. Per non farsi vedere turbato ordinò in tono fermo al maggiore: "Scendi sotto e tira fuori tutto il cibo rimasto!" Spurio scese agilmente nella buia dispensa ed emerse con un paio di sacchetti, uno di legumi e l'altro di orzo. Fausto era perplesso: "Questo è tutto? Prendete tutti i panni e le coperte che possedete, faremo una cernita di ciò che conviene portare". In casa però c'era ben poco, i banditi si erano già presi tutto ciò che aveva un valore o poteva essere utile. Fausto osservava sconcertato le poche cose che i bambini portavano; non avevano neppure abbastanza per ripararsi dal freddo invernale. Guardò fuori dalla finestra e sospirò: "Ormai è tardi per mettersi in viaggio, partiremo domattina all' alba. Accendi il fuoco, Spurio. lo vado a vedere se trovo qualcosa di più appetitoso!" Nel vederlo uscire i bambini si misero a piangere, avevano paura di venir abbandonati; Fausto però non esitò e raccomandò a Spurio di sprangare bene la porta. Tornò al crepuscolo con una lepre e della verdura raccolta nei campi. I bambini erano felici più per il suo ritorno che per la lepre, avendo temuto di venir abbandonati. "L'ho presa proprio quando stavo per rinunciare! Non sono bravo quanto Ummidio con l'arco. Ora la cuoceremo e dopo mangiato ce ne andremo a dormire, domani dobbiamo fare molta strada". La lepre fu arrostita e divorata voracemente, era da tanto che non mangiavano carne, poi si coricarono tutti assieme. I bambini si stringevano gli uni agli altri sia per combattere il freddo, che per sentirsi protetti.
Gaia e Albino si addormentarono subito, Spurio invece fissava Fausto coi suoi grandi occhi malinconici. Solo dopo un po’ trovò il coraggio di domandare: "Dove ci porterai, signore? Dov'è la tua famiglia? Davvero ti prenderai cura di noi?" "Andremo a Roma. Curzio e Annia saranno contenti di rivedervi. Ora dormi, domani sarà una giornata faticosa”. La fredda alba invernale li trovò pronti; Fausto coprì i bambini con tutti i panni che aveva trovato, compresi i suoi di ricambio. Lui e Spurio si erano sistemati due zaini sulle spalle e ciò che non era possibile portare fu nascosto sotto la botola. Dopo una breve preghiera sul semplice tumulo sotto cui giaceva Anco, si misero in cammino. Il pastore prendeva i sentieri più nascosti, anche se lunghi e tortuosi; con i bambini era sin troppo vulnerabile e lui intendeva evitare ogni pericolo. L'andatura era lenta, Albino e Gaia camminavano lentamente e si lamentavano. Il fratello li spronava e cercava di aiutarli, ma Fausto si rese presto conto che su quei sentieri avrebbero perso troppo tempo, allora decise di riprendere la strada battuta onde arrivare al guado in giornata. Giunsero al Tevere nel pomeriggio inoltrato, senza aver fatto brutti incontri. Trovarono un guado fatto di massi e di tronchi collegati che sembrava praticabile e Fausto legò i bambini l’uno dietro l’altro. Con circospezione si avventurarono sulla precaria struttura aiutandosi l'un l'altro. Per fortuna i bambini erano agili e il guado andò bene; stavano sciogliendo la corda che li univa quando, da un bosco che fiancheggiava la riva appena raggiunta, sbucarono tre uomini armati e minacciosi. Evidentemente quei brutti ceffi erano appostati proprio in quel punto per sorprendere i malcapitati appena usciti dal guado. Le loro intenzioni erano inequivocabili: "Posate a terra gli zaini e le armi! Non tentate di scappare se avete cara la vita!" Fausto era furibondo e sgomento al tempo stesso. Fissava attentamente i tre che avanzavano da direzioni diverse per
chiudere ogni via di fuga, e decise che avrebbe lasciato loro ogni cosa pur di salvare la vita sua e dei bambini. Depose l'arco e lo zaino in terra. Stava per poggiare anche la spada, quando le sue narici furono colpite da un inconfondibile fetore. Le parole sussurrate da Spurio fugarono ogni dubbio: "Laggiù ci sono dei morti, signore!" Fausto si sentì gelare il sangue e fu sicuro che li avrebbero uccisi. I cadaveri di cui percepiva il fetore erano di certo vittime dei banditi, viandanti rapinati e ammazzati per evitare il rischio di un futuro riconoscimento. Che poteva fare? Era troppo tardi per fuggire, combattere era un suicidio... Non restava che sperare nella pietà di quei tipacci. Aveva slegato la spada e la teneva tra le mani, incerto se deporla o impugnarla. Fissava l'uomo che gli veniva incontro e il ghigno che scorse lo persuase: non avrebbero avuto pietà neppure dei bambini! "Spurio, ti ricordi quando gareggiavi con Curzio nel tirare i sassi? Sei ancora preciso come allora?" Fausto si chinò e posò cautamente la spada in terra, ma quando si rialzò reggeva tra le mani l'arco e una freccia. Il suo tiro però fu frettoloso e poco preciso: il dardo ferì a un braccio l'uomo che avanzava maneggiando una pesante picca. I! grido di dolore del ferito precipitò la situazione; i banditi si gettarono innanzi con le armi levate e i bambini cominciarono a gridare, terrorizzati. Fausto si sentiva perduto, deposto l'arco aveva afferrato la spada, ma non si decideva a sguainarla. La sua mente lavorava freneticamente cercando una via d’uscita, però non ne vedeva, ogni via di fuga era preclusa. Si rendeva conto che sarebbe stato assassinato, non c’era rimedio.
Quel pensiero lo colpiva nel profondo; in un lampo comprese che non sarebbe stata solo la sua fine, bensì anche quella di Quirina, dei suoi figli e dei tre bimbi che scortava. L'ingiustizia di quel destino scatenò il suo furore: se così doveva essere, avrebbe venduto cara la pelle! Sguainò la spada e si gettò innanzi con un grido di rabbia e disperazione. La sua reazione sconcertò l'assalitore, la cui stoccata andò a vuoto e che sullo slancio venne trafitto al petto. L'impetuoso assalto aveva condotto Fausto oltre l'accerchiamento e si rendeva conto di poter fuggire. Senza il peso dello zaino, se si metteva a correre aveva buone possibilità di farla franca, ma nel volgersi vide Spurio intento a tirare sassi ai banditi esitanti, e i due più piccoli che si abbracciavano piangendo. "Non posso abbandonarli!" Si disse; corse verso quello che reggeva la picca, ferito al braccio sinistro dal suo dardo. La sassaiola di Spurio era temibile, raramente i pezzi di ghiaia fallivano il bersaglio costituito ora da uno, ora dall'altro bandito. L'uomo con la picca si era voltato per fronteggiare l'assalto del pastore, il cui fendente fu parato con l'asta. Ora lo scontro si faceva difficile, la picca era molto più lunga e micidiale della spada. Il malfattore stava per vibrare l’affondo decisivo, quando un sasso lo colse alla tempia. Il colpo lo sconcertò, riuscì a restare in piedi, però era mezzo tramortito e Fausto fu fulmineo nell'assalirlo e a infilargli la lama nel ventre. Bersagliato dai sassi di Spurio e intimorito dalla sorte toccata ai complici, il terzo bandito cominciava lentamente a retrocedere verso il bosco. Galvanizzato dalla piega presa dagli eventi, Fausto corse nel punto in cui aveva deposto i bagagli e afferrò l'arco.
Quando il malfattore lo vide incoccare la freccia, iniziò a fuggire zigzagando, tuttavia non fu un dardo ad atterrarlo, bensì un ciottolo che lo colse alla nuca. "Ottimo, Spurio!" Esclamò Fausto balzando innanzi con la corda dell'arco tesa. Benché intontito, il bandito si era rialzato e correva curvo verso il bosco, ma una freccia lo colse in un gluteo e ne arrestò la fuga. Fausto gli si avvicinò restando a qualche o, perché il ferito agitava una lunga spada ricurva. Per non rischiare lo finì con un paio di frecce scoccate da distanza ravvicinata. Galvanizzato dal successo, Spurio lo aveva seguito ma il pastore lo spinse indietro: "Torna dai tuoi fratelli e non vi muovete. Potrebbero essercene altri!" Con cautela Fausto esplorò la zona sino a giungere presso i corpi di cui aveva avvertito il fetore. Tra l'erba alta giacevano una decina di corpi in putrefazione, non solo uomini ma anche donne e bambini, tutti seminudi, tutti scannati senza pietà. Inorridito da quello spettacolo, in preda a un grande turbamento, si affrettò a tornare dai bambini. Adesso sapeva con certezza che, se non si fosse difeso, anche loro avrebbero fatto la stessa fine. Stava raccogliendo lo zaino quando Spurio gli indicò un punto dinanzi a loro: "Uno è ancora vivo, signore!" Improvvisamente Fausto si ricordò del bandito colpito al ventre, afferrò le armi e corse in quella direzione. Il ferito si trascinava lentamente tra l'erba premendosi una mano sul ventre. Nello scorgere il suo feritore, giunse le mani insanguinate per implorare pietà, ma il pastore fu implacabile e gli immerse la lama nel petto. A Spurio che l’aveva seguito e l’interrogava con lo sguardo, colpito da tanta spietatezza, Fausto spiegò: "Aveva una brutta ferita, sarebbe morto tra atroci dolori. Ho avuto più pietà di quanta lui e i suoi compari ne abbiano avuta per i disgraziati che giacciono laggiù! Chiama i tuoi fratelli e andiamocene subito da
questo lugubre posto!" Fausto aveva raccolto le armi, svuotato le tasche e le bisacce dei banditi, in cui rinvenne del cibo e molte monete, tra cui tre solidi²⁴ d'oro. Lasciò insepolti i corpi dei malfattori e delle loro vittime, non aveva tempo da perdere: doveva cercare un riparo per la notte, i bambini non potevano dormire all'addiaccio. Per fortuna conosceva la zona e ricordava l'esistenza di alcune caverne ove era possibile pernottare. Prima che fe buio trovò una grotta e la esplorò con cautela. Era vuota e asciutta, vi si installarono e accesero il fuoco; la vegetazione nascondeva l'ingresso e dalI'esterno non si scorgeva neppure il fumo. In un pentolino Fausto mise a cuocere cereali, legumi e delle verdure che aveva raccolto. Quella minestra calda placò gli appetiti e li ritemprò. I bambini erano ancora scossi dallo scontro a cui avevano assistito, tuttavia la stanchezza ebbe il sopravvento e crollarono ben presto addormentati. Fausto rimase a vegliare alimentando il fuoco; faceva freddo e aveva lasciato le coperte ai piccoli. L'indomani fu Spurio a svegliarsi per primo e a destare Fausto, sdraiato presso le braci residue. Il bambino sembrava un cane bastonato e negli occhi gli si leggeva la solita domanda: "Che ne sarà di noi?" Fausto era intirizzito, nel ravvivare il fuoco gli fece una carezza; ripensava con ammirazione al coraggio di Spurio dinanzi ai banditi, i sassi da lui scagliati lo avevano salvato! Non persero tempo in chiacchiere: svegliati i piccini, si prepararono in fretta e si misero in cammino. Giunti nei pressi della Flaminia si nascosero in una macchia e attesero il
aggio di qualche viaggiatore a cui si unirsi. Furono fortunati, poco dopo transitò un numeroso convoglio a cui si accodarono. Si trattava di un messo imperiale e della sua scorta, a cui si erano uniti mercanti e viandanti che profittavano della scorta per viaggiare sicuri. Da costoro il pastore conobbe le ultime novità: a parte il dilagante brigantaggio, l'Italia era abbastanza tranquilla, però a nord l'Impero d’Occidente era sconvolto dalle invasioni. Lo stesso imperatore sembrava impotente dinanzi a tante sciagure. Fausto era molto scosso da quelle cattive notizie, in preda allo sconforto mormorò: "Allora la civiltà di Roma è finita!" Il funzionario imperiale che procedeva a cavallo lo udì, si volse ed esclamò, fiero e pacato al tempo stesso: "La civiltà di Roma non finirà mai! Sinché vi sarà una città con dei magistrati intenti ad applicare le leggi o a badare al bene pubblico, lì Roma vivrà! Finché saremo consapevoli di questo, la civiltà di Roma non perirà mai, ricordatelo tutti!" Il pastore chinò la testa e tacque, mortificato da quelle parole su cui prese a riflettere. Il cammino sulla consolare, ancora in buono stato, fu celere e privo d’inconvenienti. Un'ora prima del tramonto entrarono in Roma, ove il gruppo si sciolse. Al tramonto il pastore e i bambini giungevano presso il monte dei cocci. Erano trascorsi cinque giorni dalla partenza del marito e Quirina era in grande apprensione. Nell'udire le voci presso il portone, la gioia sua e dei bambini furono al colmo. Non ci fu bisogno di molte parole per narrare la sorte dei loro amici e l'impossibilità di tornare a vivere in campagna. Quirina abbracciava il marito e guardava pensierosa i tre orfani, a cui Curzio e Annia mostravano la casa.
"Altri tre bambini! Come faremo? Non possiamo tenerli, patiremo la fame e non ho neppure di che coprirli..." Mentre la stringeva al petto, Fausto mostrò soddisfatto le monete d'oro tolte ai banditi e le sorrise: "Forse talvolta patiremo la fame e il freddo, però con sei figli la casa sarà piena d'allegria e non ci sentiremo mai soli!". FINE Romano Del Valli
Notes
[←1] Siamo nel 408 d.C. e l’impero è diviso in due, a Occidente regna Onorio, a Oriente Arcadio.
[←2] L’attuale Bologna.
[←3] I Goti erano originari della penisola scandinava, emigrati nella Prussia orientale alcuni secoli prima di Cristo.
[←4] Confine fortificato e sorvegliato, che può coincidere col corso di un fiume o una catena montuosa.
[←5] I libri dell’epoca, una lunga pergamena avvolta attorno a due bastoncini, da srotolare per essere letta.
[←6] L’attuale Vienna.
[←7] Imperatore sino al 395, padre di Onorio e Arcadio, vietò i culti pagani.
[←8] Milizie cittadine incaricate di badare all’ordine pubblico e spegnere gli incendi.
[←9] Si tratta del lago di Bracciano.
[←10] All’epoca era solo ii Vescovo di Roma, non aveva alcun primato sugli altri vescovi della chiesa.
[←11] Dei Mani (affidato agli Dei dei morti) Tito Licino di anni 3.
[←12] Popolo insediato molti secoli prima nei pressi dell’attuale Civita Castellana.
[←13] L’attuale Romania, all’epoca contesa da Goti e Unni.
[←14] Armata di campagna, posizionata dietro il limes e pronta ad accorrere ove necessitava.
[←15] I Romani contavano le ore dall’alba e dal tramonto, 12 per il giorno e 12 per la notte, di durata variabile secondo la stagione.
[←16] Orda germanica composta da un migliaio di famiglie, che godeva di una certa autonomia e forniva circa 1500 guerrieri.
[←17] Il 1163° dalla fondazione di Roma, il 410 d.C.
[←18] Comandante generale dell’esercito, carica che era stata di Stilicone.
[←19] Attuale Carsoli, in Abruzzo.
[←20] Matrimonio che si svolgeva come un acquisto rituale dal padre della sposa.
[←21] Stazioni di posta ubicate lungo le principali vie, a un giorno di viaggio l’una dall’altra (20-23 miglia).
[←22] Amici e persone che in qualche modo dipendono dal potente di turno; la clientela è un istituto tipicamente romano.
[←23] Nel
[←24] Moneta d’oro di grande valore, coniata sin dal tempo di Costantino.