LEONARDO BRUNI
CADUTA E
OFFERTA DI SALVEZZA
Quinto Evangelista
CAP. I LA CADUTA E LA CONDANNA
La tentazione del serpente. [Genesi 3, 1-5] Per illustrare la nostra situazione esistenziale, gli arcani e tormentosi interrogativi della nostra vita, quali il desiderio di felicità, l'esperienza del dolore, dell'angoscia e della morte i filosofi -nel corso della storia- hanno scritto migliaia di libri. C'è però un libro, un piccolo documento di poche pagine, che riesce a spiegare, ad affrontare con decisione e a rispondere agli interrogativi più profondi del nostro cuore. Si tratta del libro della Genesi, il primo della Sacra Bibbia. In esso sono racchiuse le principali verità della religione cristiana. Dio, come supremo Creatore e Signore, principio di tutte le cose non si limita a crearle, facendole esistere. In ultimo crea anche l'uomo a sua immagine e somiglianza, superiore agli uomini e animali, posti al suo servizio per la salvaguardia del cosmo. Adamo ed Eva, con la capacità di procrearsi, di occupare la terra e di dominare la natura, furono costituiti nostri progenitori e capostipiti del genere umano. Non solo dal punto di vista fisico, ma anche morale e spirituale. Tutti noi sappiamo come andò, e di come Dio misericordioso promise un redentore, avendo comione dell'uomo caduto nel male e nella morte. Dopo aver illustrato la creazione il racconto della Genesi prosegue. L'uomo nel creato trova, però, la tentazione. Essa proviene da un essere che, pur essendo creato buono da Dio, ora evidentemente gli è avversario. L'autore lo simboleggia sotto le spoglie del «serpente» il più astuto degli animali. Non è a caso che l'agiografo sceglie questo simbolo: il serpente, infatti, era venerato come un idolo in tutto l'oriente antico. Quale dio della fertilità e della vita. Perciò lo scrittore lo ha preso dalla letteratura e cultura circostante, dove veniva adorato e venerato, facendogli fare una parte avversaria a Dio. Con questo ottiene due verità evidenti e nello stesso tempo molto importanti: (a) Mettere in chiaro che Dio non ha alcuna colpa nella caduta dell'uomo. Come pure nessuna responsabilità. Egli, Bene Infinito, ha chiamato all'esistenza tutte le cose buone e perfette. In questo senso il testo del libro della Sapienza: «ma la morte è entrata
nel mondo per l'invidia del diavolo; e ne fanno esperienza coloro che gli appartengono» è il miglior commento alla apologia di Dio. Si corre, infatti, il rischio di addebitare, di bestemmiare Dio per il male subito. (b) La prima coppia è irretita e condotta alla morte da qualcuno, più colpevole di loro. Fissato irrevocabilmente ed eternamente impenitente nel male dell'odio e della invidia a Dio. Il serpente non è onnipotente come Dio, ma solo una creatura diventata diventata mostruosa ed orripilante. Essa, però, si presenta all'uomo sotto mentite spoglie: come un idolo attraente ed una falsa divinità. Se si presentasse davanti ad Adamo com'è diventata veramente, l'uomo fuggirebbe inorridito. Per l'autore adorare, come fanno i popoli circostanti, questa creatura è una forma d'idolatria. Di infedeltà e adulterio, verso l'alleanza d'amore stipulata con il Signore. La tentazione comincia con una menzogna smaccata, per attaccare discorso. Presentando Dio, come uno che vieta tutti gli alberi del giardino. In pratica un dittatore cosmico, invece che un Padre amoroso. Eva risponde rettificando, ma esagera dicendo che Dio ha dato loro di potersi cibare di tutti gli alberi del giardino, all'infuori di quello «della conoscenza del bene e del male». Di quello non si deve fare esperienza: tutto il bene è stato donato, e la conoscenza del male non sarebbe un aumento, ma una diminuzione della felicità. Cominciato il contatto l'avversario procede mettendo Dio in una luce completamente diversa dal reale. Agli occhi dei progenitori viene dipinto cattivo non buono; geloso delle proprie prerogative non datore di vita. La tentazione si dirige primariamente contro la fede e l'amore da donare a Dio. Noi ci fidiamo di chi amiamo. A questo punto il serpente rende nota la sua “verità”; che apre gli occhi della prima coppia su un orizzonte sconosciuto. Dio è geloso del suo potere. Solo per questo non vuole che il frutto dell'albero della conoscenza “del bene e del male” venga mangiato. Attraverso questa ipotesi Dio mi diventa il nemico, che mi vieta di arrivare dove le mie capacità mi permetterebbero. In pochi versetti, di una sconcertante profondità spirituale e psicologica, l'agiografo ci pone davanti ai grandi temi del libero arbitrio: la tentazione e il peccato. Quest'ultimo consiste proprio, nella sua essenza, nel volersi staccare dalla paternità divina. Vista ora come una tutele opprimente. Si tratta di diventare legge a sé stessi, di diventare in pratica dèi da sé medesimi.
La caduta e le conseguenze del peccato. [Genesi 3, 6-24].
Quello che è in sé un male oggettivo si presenta ai loro occhi come “buono da mangiare, gradito agli occhi e desiderabile”. Qui è concepito il peccato anche se materialmente non è partorito. Ma l'intenzione e l'opzione profonda del cuore ha già scelto: essi hanno già deciso. Il resto è solo una conseguenza. Così facendo l'uomo ha deciso di rimanere ad uno stadio pericoloso della libertà. Non è salito allo stadio a cui Dio l'aveva appellato. Al livello della libertà-per, al livello della libertà d'amare solo il bene. Ma credere bene il male, e rifiutare l'amore di Dio porta tutt'altri frutti di quelli sperati. La prima conseguenza, il primo risultato di quell'atto non è la divinizzazione, ma la perdita della condizione privilegiata e perfetta, elargita gratuitamente da Dio. Subentra la vergogna della loro nudità, come pure della paura d'incontrare il Signore. Inizia l'egoismo e la menzogna nei rapporti interpersonali. Di fronte alle domande di Dio, l'uomo accusa la donna, la donna accusa il serpente: manca completamente il pentimento e la conversione. Dalla condizione perfetta, sponsale della innocenza originaria, con la mancanza di vergogna c'è un abisso: il male divide non unisce. Separa, divide non solo l'uomo da Dio, ma anche le persone tra loro. Il rapporto coniugale tra i due non avrà più la stessa trasparenza dell'innocenza originaria. Dio emette la sentenza di giudizio e di punizione, in quanto manca il pentimento, e non c'è volontà di cambiamento. E' interessante fermarsi sui versetti 14-19. Il serpente satana è maledetto e non ci sarà mai più pace tra lui e Dio. L'agiografo qui introduce un versetto di profondo ottimismo. Nonostante tutte le sue apparenti vittorie, in realtà l'avversario è uno sconfitto, un vinto. Alla fine il bene trionferà. L'apice del racconto è rappresentato dalla promessa di un liberatore. Il figlio della donna che schiaccerà il capo al serpente. Quest'annuncio di salvezza è stato chiamato dalla tradizione cristiana il proto (=primo) vangelo. Anche la donna subisce il suo castigo. Essa si troverà di fronte a due sofferenze che feriranno la sua vita: partorirà attraverso le sofferenze e i dolori del parto, e si sentirà attratta dall'uomo; ma verrà da lui dominata. La concupiscenza farà sì che il disegno di Dio, che la voleva pari in dignità all'uomo, sia dissolto. La donna si ritroverà ridotta in sottomissione all'uomo. Sottoposta al maschio. Non è intenzione dell'agiografo fare una analisi medico psicologica sui dolori dell'esistenza femminile. Egli vuole solo mettere in chiaro che determinate realtà, non hanno la radice ultima in Dio, ma vengono fuori come frutti avvelenati dal peccato. Uscendo fuori da questa colpa primordiale, la concupiscenza avvelena il rapporto coniugale tra maschio e femmina. Anche l'uomo è colpito dal castigo nella sua qualità più essenziale: nel lavoro. Invece di essere il giardiniere di Dio nell'Eden, l'uomo dovrà lottare contro un
suolo divenuto ostile. C'è una differenza sostanziale di condizione tra il prima e ora. L'autore non vuole insinuare che il lavoro sia una punizione per il peccato. In quanto anche prima l'uomo avrebbe dovuto lavorare. Ma con il peccato inizia “la fatica e la sofferenza” nel lavoro. Vale a dire una condizione di mutamento in peggio e di sproporzione tra le energie spese ed il risultato ottenuto. Mentre prima con la sua opera l'uomo avrebbe contribuito a completare una creazione, sottomessa completamente al suo dominio; adesso dovrà faticare con la probabilità terribile di ritrovarsi con un pugno di mosche in mano. Nonostante tutto l'amore divino è più potente del peccato dell'uomo. Questo non riesce a scoraggiare il Signore. Per questo l'autore ci tramanda l'immagine suggestiva di Dio, che fa il sarto e riveste i due rimasti nudi. In definitiva il Signore non abbandona l'uomo al suo destino, ma è sempre per lui Provvidenza. Colui che si preoccupa della sue esigenze, anche se l'uomo gli è diventato nemico con il peccato.
CAP. SECONDO. IL DILAGARE DEL MALE NEL MONDO.
[Genesi 4, 1-16]. Molti interpretano questo o, questa pericope, come una unità narrativa autonoma, che lo scrittore avrebbe inserito e cucito nel contesto. Si tratta del famoso episodio di Caino e Abele. Il fondamento del peccato è rappresentato dalla rottura della amicizia con Dio. Ovvero con la sua vita eternamente felice. Dalla rottura con Dio ne consegue la rottura con i fratelli e all'uccisione anche della vita fisica. Il peccato è morte in tutti i sensi: questo il messaggio di questo o. Anche qui possiamo arguire come l'autore prenda spunto da una situazione particolare, per farla diventare emblema della condizione generale dell'uomo. Il brano infatti, originariamente, ha potuto riferirsi “non ai figli del primo uomo, ma all'antenato eponimo dei Kenìti”. Invero la somiglianza del nome CAINO, che in ebraico può avere il significato sia di acquistare, sia di creare o generare, sottinteso un uomo, ha fatto propendere all'antenato di questa tribù dei Kenìti. Tale “Qayin”. Erano tribù nomadi che vivevano nel deserto. Pur venerando anch'esse Jahwèh avevano sempre rifiutato di diventare sedentari. Per questo non partecipando alla conquista e alla divisione della terra promessa, erano rimasti fuori dalle benedizioni divine. L'autore allarga questa situazione particolare, ad una dimensione universale. Il nome ABELE, invece, significa “soffio, nulla”. Proprio per indicare la precarietà e vacuità dell'esistenza. Il testo prosegue notando la differenza tra i loro mestieri: Abele era pastore, Caino agricoltore. Entrambi offrono sacrifici a Dio, sia Caino, sia Abele. Ma proprio qui l'autore fa presente il comportamento, a prima vista strano, di Dio: «il Signore gradì Abele e la sua offerta, ma non gradì Caino e la sua offerta». L'altro importante o è dove il Signore, paternamente, avvisa Caino di stare attento alla forza della concupiscenza. E' il fomite, l'istinto del peccato che “sta accovacciato alla tua porta”. Egli è chiamato a dominarlo. Ci sembra che in queste due pericopi si nasconda la nascita dell'avvenimento. Evidentemente non possiamo concludere che Dio non amasse Caino, perché non gradisce la sua offerta. Possiamo solo concludere che Dio ama tutti, ma ognuno in modo
personale. Ognuno è amato secondo le proprie caratteristiche, le proprie peculiarità. Il Signore certamente ama Caino, solo in modo “diverso” da Abele. Intanto lo ha voluto primogenito, e con lui parla e parecchio. Al contrario, non esiste parola che proferisce ad Abele. La nostra difficoltà interpretativa nasce solo dal voler “giustificare” il modo di fare di Dio. In quanto ci riesce ostico comprendere che il Signore con la sua libera scelta e volontà è sovrano di amare uno in un modo, uno nell'altro. Dandogli doni e caratteristiche diverse. Il peccato di Caino sta proprio lì: non accetta questa preferenza sovrana di Dio verso Abele, e nonostante Dio gli stia vicino e lo aiuti, consigliandolo paternamente, fa entrare l'invidia dentro di sé fino all'uccisione del fratello. Alcuni recepiscono questo episodio con la prima apparizione del tema del figlio minore preferito al maggiore. Con cui si manifesta la libera scelta di Dio, il suo disprezzo per le grandezze e mentalità terrestri, con la sua predilezione degli umili. Questo tema ritorna spesso attraverso la Scrittura: Isacco preferito a Ismaele; Giacobbe ad Esaù; Rachele a Lia; Davide ai fratelli maggiori. Così come Dio aveva chiesto ad Adamo:”dove sei?”. Ora chiede a Caino: “dov'è tuo fratello?”. A Dio non resta che tirare le conseguenze e dare la sentenza. Caino viene punito ed in modo più grave di Adamo: non solo la terra non gli darà più prodotti, ma sarà costretto a fuggire per evitare la vendetta. La risposta di Caino “è troppo grande la mia colpa per ottenere perdono”, evidenzia una situazione peggiore di quella di Adamo ed Eva. Un progresso della signoria e del dominio del male sull'uomo. Nasce una nuova realtà mai vista prima: la disperazione. Tremenda condizione spirituale, che considera la misericordia divina inferiore al proprio peccato. Qui l'autore introduce la paternità e l'amore di Dio, che non si fa sconfiggere dall'omicidio. Il Signore si comporta come con Adamo ed Eva: si prende cura anche di Caino. Segnandolo con un segno, che nelle sue intenzioni non è un sigillo infamante. Ma un marchio di protezione, affinché nessuno lo colpisca. “Nessuno tocchi Caino”. Dio assicura la sua provvidenza anche a Caino, gli dona la possibilità ed il tempo di pentirsi, se lo vorrà.
CAPITOLO TERZO. IL DILUVIO.
[Genesi 6,5-8,22]. Su questo episodio famosissimo nell'immaginario popolare gli studiosi sostengono che vi confluiscono due tradizioni. Che questa sezione del libro della Genesi, sia in realtà una mescolanza di due modi popolari di trasmettere a voce lo stesso avvenimento. Il redattore finale, però, non ha messo i due blocchi narrativi uno dietro l'altro. Li ha incastrati tra loro come due trame di diversi colore, che concorrono alla formazione del medesimo tessuto. In più, rispettando queste due testimonianze che venivano da tali racconti popolari, non si è curato di sopprimere eventuali divergenze di dettagli. A lui interessava quello che interessa a noi: prendere spunto da un fatto storico. Riflettere sulla tragedia dell'alluvione più potente avvenuta nella regione, alla luce della rivelazione di Dio. In pratica una delle tante alluvioni che si succedevano nella Mesopotamia. Molti altri documenti orientali parlano di tali catastrofi, per es. all'epoca di Gilgamesh. Tuttavia il documento biblico si stacca nettamente da queste narrazioni babilonesi. Il distacco non si avverte tanto nella forma culturale, che per vicinanza di mentalità presenta notevoli affinità. Ma piuttosto sull'insegnamento essenziale che lo scrittore vuole dare. Cioè sulla sua essenza, sul significato più profondo. L'autore sacro non si limita a far presente la portata universale del cataclisma. Cosa contenuta anche nei documenti babilonesi. Ma eleva la storia del diluvio, dandogli il significato di un insegnamento eterno sulla giustizia e sulla misericordia di Dio; sulla malizia dell'uomo e sulla salvezza accordata al giusto”. (Lettera agli Ebrei 11,7). Infatti i babilonesi non spiegano chiaramente il significato di tale fatto preistorico. Se c'era da castigare, per loro il castigo fu eccessivo. Quasi che la divinità si comportasse in modo capriccioso, permaloso, come un uomo scocciato. Questo appare chiaro dal poema di Gilgamesh: « Come mai, come mai non hai tu riflettuto e fatto venire il diluvio? Invece di fare il diluvio poteva venire un leone a decimare le genti».
L'autore ispirato, invece, riconosce la vera ragione, la causa di tale catastrofe. Essa è dovuta ad una purificazione, ad un castigo per depravazioni morali, rivelatesi impenitenti e insanabili. Non ci vogliamo dilungare oltre: il fatto che l'autore ha dietro di sé una letteratura sumerica e babilonese molto antica, non deve trarre in inganno. Questa ha per l'agiografo solo un valore strumentale, di mezzo. Altrimenti diventiamo etimologi o filologi. Il credente, invece, ha un'altra visione della realtà. Quella donatagli dalla fede nella Rivelazione. Il brano inizia con la constatazione che la malvagità umana era veramente grande. Per cui Dio dà un giudizio sulla volontà umana inclinata al male. Al punto che il Signore “si pentì” di aver creato l'uomo. Forte antropomorfismo, cioè un modo di descrivere Dio quale uomo. Non trovando in ogni uomo che male Dio soffriva, in quanto era offeso il suo amore e dileggiata la sua giustizia. Ma un uomo, Noè, trovò grazia agli occhi suoi. Poiché in quest'uomo Dio vuole far rifulgere la sua misericordia e la sua volontà salvifica. Il testo prosegue con la figura di Noè che inizia a fare l'arca come ordinato dal Signore. Appare qui, in modo chiaro, la figura del giusto. Egli si dimostra tale, perché nel suo comportamento di vita è conforme alla volontà divina. All'alleanza d'amore con Jahwèh. Parallelamente il giusto, proprio perché segue Dio e i suoi voleri è dileggiato dagli uomini, e dalla società in cui vive. Un altro aspetto, importantissimo, della rivelazione biblica è nel modo di intendere il “giusto”. Da sempre nelle altre religioni è colui che segue i culti e le pratiche religiose. Per la Genesi, invece, non è chi fa le pratiche religiose ma colui che si affida nella mani del Signore. Come Abramo e Noè. Prima di sapere come andrà a finire la storia, senza pretendere di vederci chiaro. Anzi nell'oscurità, razionalmente assurda, dei fatti che gli si presentano dinanzi. Il giusto è l'OBBEDIENTE a Jahwèh, colui che non pretende tutte le spiegazioni dal Signore. Che non vuole sapere i fatti futuri per filo e per segno. Non per nulla il versetto, che spiega la ragione per cui solo Noè e la sua famiglia viene salvata, è ripetuto quattro volte. Esso suona così: «perché aveva fatto come aveva ordinato il Signore Dio». Segue la narrazione del diluvio con la sua tremenda potenza distruttrice. Finito, Noè edifica un altare e fa sacrifici a Dio graditi. Qui è chiaramente espresso l'ottimismo storico e spirituale dell'autore sacro. Questo episodio, nel racconto biblico del diluvio, acquista una valenza nuova. Certamente Dio per l'esigenza intrinseca della sua santità non può convivere con il peccato. Non può essere indifferente al male liberamente scelto e voluto. Per
questo lo riprova: anche la riprovazione è un segno dell'amore di Dio. Come un genitore riprova un figlio scapestrato, continuando a volergli bene. Ma questa è solo la prima parte del messaggio. Se osserviamo attentamente il finale della narrazione, vediamo chiaramente espresso l'ottimismo. In quanto Dio non colpirà più l'uomo con lo sterminio. Il segno della nuova alleanza, l'arcobaleno, seguito da queste parole solenni del Signore; dimostra proprio questo. Si tratta di un rilancio, di una ripresa dell'alleanza con l'umanità. Certo l'autore non si fa soverchie illusioni: l'ottimismo non è nei riguardi dell'uomo; ma nei riguardi di Dio. «Il cuore umano è inclina al male fin dall'adolescenza». (Genesi 8,21). Quindi l'uomo nell'arco di tutta la storia umana continuerà nei suoi peccati, nei suoi abomini. Ma la volontà salvifica di Dio è talmente potente, che gli sa accettare tale situazione e portarla verso la salvezza definitiva.
CAPITOLO QUARTO. LA TORRE DI BABELE.
[Genesi 11, 1-9]. Possiamo definire questo capitolo, l'ultimo della preistoria biblica, come il castigo per una colpa collettiva. Essa come quella dei progenitori è sempre riconducibile alla superbia. In questo episodio l'autore ci fa toccare con mano la dimensione “sociale” del peccato, e delle sue conseguenze negative. Anche qui si parte da tradizioni precedenti. Si parla di uomini, popolazioni, che emigrando si stabilirono nella regione di Sennaar, ovvero babilonia. Essi, forti della scoperta del mattone e del bitume, vollero farsi una città, per non disperdersi sul tutta la terra. Questo è il versetto chiave per le due interpretazioni possibili (Genesi 11,4). (a) Alcuni sostengono che la costruzione della città di Bab-ilu (Babele), che etimologicamente significa “Porta di Dio” è in realtà un'impresa di orgoglio insensato. In quanto vogliono fare una torre alta fino al cielo. Dio discende per vedere la città e la torre, decidendo di confondere (balal) questo luogo. Lo scrittore tenta quindi di accreditare una etimologia di Babele che è inesatta. A lui poco importa la vera origine del nome “Porta di Dio”. In suo invece è un intento più profondo. Vuole andare alla ragione vera, vuol cercare la spiegazione alle diverse lingue e alla varietà dei popoli. (b) Altri, invece, sostengono e mettono l'accento che la torre di Babele rappresenti il progetto umano sconfitto dal progetto divino. Il progetto di quella unità etnica aveva tutte le garanzie della riuscita, ma Dio non volle. Perché non volle? Certamente vi sarà stato una affermazione di superbia da parte loro. L'uomo non può elevarsi con le sue forze fino al cielo. Ma non traspare dal contesto un castigo evidente di Dio. L'autore sacro sembra insinuare che, anche le civiltà più grandi, quando non vanno d'accordo con i piani di Dio, si disintegrano. L'idea centrale dell'episodio sarebbe allora questa: Dio non permise nell'ordine della sua Provvidenza divina, che è sovrana, che il tentativo d'unione etnico/politico voluto da quel gruppo avesse successo. Appare in questo o la subordinazione della potenza umana alla sovranità divina. Questo concetto è espresso, a volte, anche dai profeti. Per es. l'oracolo di Geremia contro
Babilonia: «A causa dello sdegno irato del Signore non sarà più abitata, sarà tutta una desolazione». (Geremia 50,13). la sovranità divina non conculca la volontà umana. L'uomo è libero di fare ciò che vuole. Adoperando tutte le sue forze. Certi regimi e civiltà inumani possono durare anche decenni o secoli. Però alla fine crollano, perché non sono aderenti alla volontà divina, che è sempre una volontà d'amore tra gli uomini. In tal senso i regimi del secolo appena trascorso ne sono un riferimento più che valido. Il ventesimo secolo è stato il secolo dei regimi più mostruosi dell'umanità. Il fascismo, il nazismo, il comunismo sono stati tre modi superbi dell'uomo di costruire delle specie di religioni umane. Ma non sono durati. E' evidente che in questo contesto l'esempio opposto alla superbia e orgoglio è la penuria di mezzi. Il riconoscimento della propria povertà, però aiutata dalla onnipotenza divina. Perciò dopo questo episodio che termine il periodo storicamente non databile degli avvenimenti biblici, viene narrato l'esempio di Abramo. Il primo personaggio biblico sicuramente databile e di cui è storicamente certificata l'esistenza. Lui avrà successo, perché si riconoscerà bisognoso. Non avendo né un figlio, né una terra in cui abitare. Lì ci sarà l'aiuto della Provvidenza divina.
CAPITOLO QUINTO. SINTESI E CONCLUSIONI.
Dopo aver dato uno sguardo ai principali i di questi primi 11 capitoli del libro della Genesi, cerchiamo di trarre delle conclusioni. Ciò per comprendere il significato di tali capitoli, che ripetiamo si situano in un periodo buio della storia umana. Nel senso che la storiografia ufficiale non li può datare. Essendo il primo personaggio databile la figura di Abramo (1900 a.C.) al tempo dei faraoni egiziani. La prima potrebbe essere quella delle sovranità universale di Dio. Sia sulla creazione, sia sull'uomo. Il Dio d'Israele non è semplicemente il grande architetto dell'universo, freddo e chiuso nella sua lontananza. E' invece colui che eggia alla brezza della sera nel giardino. Perché sente il desiderio di stare con la sua creatura prediletta: l'uomo. La sola che possa entrare in contatto con lui attraverso una relazione d'amore. Perciò l'agiografo usa frasi audaci antropomorfiche, riferite a Dio. Lungi da essere delle rozze definizioni dell'essenza divina, sono invece portatrici di un profondo messaggio spirituale. Di come Dio voglia impostare il suo rapporto di comunione con l'umanità e con ognuno di noi. La seconda. Nonostante fin dall'inizio ci sia la tragedia del peccato originale e del suo dilagare nel mondo, lo scrittore ha chiara la vittoria della bontà divina sul peccato. Anche se tutti questi episodi scavano un abisso sempre più profondo, tra Dio e noi, il Signore non si fa mai scoraggiare. Egli giudica severamente il peccato, ma vuol salvare e recuperare il peccatore. Censura il fatto, non l'autore. Terzo. L'autore ha un'idea ben precisa della storia della salvezza. Volgendo lo sguardo indietro, alla luce della storia d'Israele, riesce ad abbracciare con un'unica occhiata tutto il progressivo delinearsi delle promesse divine sull'umanità. L'inizio della salvezza va al di là dell'alleanza stabilita con Abramo (Genesi 12, 1-3). Come pure delle promesse a lui rivolte. Essa si situa all'inizio della creazione, nel momento in cui 'Adāmāh [=Il terroso] è vivificato dal soffio vitale. Dallo spirito di Dio. Possiamo concludere sostenendo che solo in quest'ottica si può comprendere la “preistoria” delle origini. I racconti sedimentati in questi primi 11 capitoli hanno qui il loro significato più profondo.
LA CREAZIONE E' L'INIZIO DELLA SALVEZZA. SIAMO CHIAMATI ALLA VITA TERRENA, PREDESTINATI ALLA GLORIA DELLA VITA ETERNA. QUESTO FIN DALL'INIZIO DEL MONDO, E' IL VOLERE DI DIO SU CIASCUNO DI NOI.
Index
CAP. I LA CADUTA E LA CONDANNA
CAP. SECONDO. IL DILAGARE DEL MALE NEL MONDO.
CAPITOLO TERZO. IL DILUVIO.
CAPITOLO QUARTO. LA TORRE DI BABELE.
CAPITOLO QUINTO. SINTESI E CONCLUSIONI.
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