STANISLAO CREMISINI
Alcune considerazioni sulla crisi
2008-2012
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Prima edizione digitale 2011
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PICCOLA PRESENTAZIONE
A mio padre
Questo mio lavoro è composto di due parti. La prima, ovvero i due capitoli premesse e considerazioni, è stata scritta nell’agosto 2011 e doveva rappresentare un mio contributo immediato ai fatti che stavano accadendo, raccogliendo e sintetizzando alcune idee che avevo maturato da tempo. Successivamente ho pensato di farne un breve saggio aggiungendo gli altri capitoli dedicati alle vie d’uscita. Pensavo di poterlo fare nel mese di settembre ma per varie ragioni sono riuscito a mettere mano agli altri due capitoli solo tra novembre e dicembre. Malgrado siano ati sei mesi, che di questi tempi sono molti, ho lasciato la prima parte esattamente come era perché credo mantenga intatta la sua validità.
L’importanza del tema meriterebbe uno sviluppo più ampio ma ho, comunque, tentato di esporre le idee che ritengo più significative. In alcuni casi ho anche insistito particolarmente, tornandoci più volte, su alcuni temi che ritengo cruciali.
Roma, Gennaio 2012
“Non si risolvono i problemi con le stesse idee che li hanno generati”
ALBERT EINSTEIN
Alcune considerazioni sulla crisi 2008-2012
PREMESSE
La crisi ha avuto origine ed epicentro nel paese che più di altri è stato guidato negli ultimi decenni da politiche turbo capitalistiche e super liberiste. In particolare nel periodo 2000-2008 queste hanno assunto dei veri e propri connotati ideologici oltranzisti.
La crisi attuale, estate 2011, legata al debito sovrano di alcuni stati, non è altro che l’evoluzione della crisi del 2008, mai realmente superata. Anzi il vero inizio della crisi risale a molto prima, al 2000-2001, quando il disastro delle torri gemelle non ha, ne provocato (era iniziata prima), ne aggravato (se non nell’immediato) la caduta dei listini, in particolare it-tec, ma l’ha prima bloccata e poi invertita, scostando totalmente l’attenzione¹ dalla crisi sottostante già in atto. L’ondata emotiva seguita all’attentato terroristico è stata incanalata nell’ambito dell’ideologia dominante e sfruttata, coscientemente o no, per generare quella straordinaria crescita virtuale, puramente finanziaria, dal 2001 al 2008; principalmente negli USA ma poi a caduta in quasi tutti i paesi sviluppati.
La crescita virtuale dal 2001 al 2008 ha determinato la creazione di un’enorme ricchezza virtuale la quale, a sua volta, ha accelerato la crescita virtuale. Questa ricchezza finta è finita nelle tasche di quasi tutti, chi più chi meno, direttamente o indirettamente, ma molta di essa si trovava nel 2008, ancora nelle mani di quelle istituzioni finanziarie che sostanzialmente l’avevano creata. Da allora queste stanno cercando di disfarsene rifilandola in parte agli stati in parte al mercato. Usando l’asimmetria sempre più marcata dei mercati stessi, dovuta alla loro dimensione globale e alla mancanza di regole, i soggetti più forti stanno scaricando, da allora, su quelli più deboli denaro finto pretendendo in cambio,
alla pari, denaro vero; è quello che sta accadendo anche ora, estate del 2011, crisi dei debiti sovrani.
Si dice che siamo vissuti al di sopra delle nostre possibilità. Non vero. Si dice che ci siamo illusi di esseri più ricchi di quanto eravamo. Vero, vedi punto 3, ma solo in parte e in un senso diverso da quello normalmente inteso. Se è vero come è vero che qualsiasi crisi finanziaria è anche una crisi economica in quanto determina l’errata allocazione delle risorse, quindi il loro spreco, è pur vero che non pare che ci sia in generale un’ impossibilità a produrre quanto necessario al benessere globale. Quindi questo significa che, malgrado l’enorme distrazione di risorse avvenuta per l’impazzimento della finanza nel decennio ato ( ed anche prima), nel 2008² avevamo ancora intatta la capacità di produrre molto oltre il necessario³ . Si era in una situazione per cui se gli stabilimenti fossero stati utilizzati anche solo al 70% delle loro potenzialità si sarebbero inondati i mercati di merci oltre ogni ipotizzabile capacità di consumo. Per questo, e per un altro motivo che vedremo più tardi, malgrado l’indebitamento generale sia salito alle stelle, malgrado ci sia in circolazione una quantità enorme di denaro finto, creato su basi virtuali, non abbiamo sinora assistito ad una pesante dinamica inflattiva⁴di natura depressiva⁵ . Questo significa che, malgrado tutto, nel 2008 ancora possedevamo tutte le risorse necessarie. Anche considerando che molte merci di grande uso, come l’elettronica sono ormai principalmente prodotte in Cina (tuttavia i brevetti sono ancora, in buona parte, americani e giapponesi, eventualmente europei e coreani) non si sposta la questione di fondo. Infine non pare che le fonti energetiche attualmente siano da considerarsi scarseggianti e quindi di nuovo non pare che siano sorti problemi da un’eventuale sottoinvestimento nella produzione di energia .
Esistono beni e servizi che hanno un’utilità superiore rispetto ad altri, tale che una loro produzione anche in “eccesso” conduce comunque ad un miglioramento della qualità della vita delle popolazioni interessate senza particolari controindicazioni e senza determinare effetti di saturazione . Inoltre il prezzo di alcuni prodotti risulta sottostimato perché chi li produce può scaricare, in maniera surrettizia, parte dei costi o sulla comunità o sulle generazioni future (costi sociali, costi ambientali). D’altra parte altri prodotti che presentano costi apparentemente alti, e quindi attualmente fuori mercato, presentano in realtà
costi reali assolutamente competitivi rispetto ai primi se appunto venisse incorporato il risparmio di quei costi impropriamente omessi. In questa situazione ritroviamo, ad esempio, la dicotomia energetica petrolio-fonti rinnovabili, la competizione tra prodotti altamente riciclabili e/o a lunga vita rispetto a prodotti usa e getta bassamente riciclabili, le produzioni che sfruttano il dumping sociale.
Tutta la liquidità che la banca centrale americana ha immesso nel mercato (ovvero ha dato alle banche) non ha sortito finora nessun sostanziale effetto in patria , ne positivo (crescita, consumi, disoccupazione) ne negativo (inflazione, almeno per ora). Questa montagna di denaro è sostanzialmente rimasta intrappolata nel circuito finanziario globale andando ad alimentare ulteriori squilibri a medio lungo termine in giro per il mondo (vedi Brasile, India, ecc). Alle imprese, soprattutto medio-piccole (ovvero quelle che non possono accedere direttamente al mercato), ed al consumatore americano non è arrivato quasi nulla.
I paesi sviluppati che, per ora (ma alla lunga non sarà così in assenza di provvedimenti globali), hanno sostenuto meglio l’impatto della crisi non sono quelli più liberisti, turbo capitalisti, poche regole, welfare leggero e tanta finanza (come qualcuno andava dicendo prima della crisi del 2008 e purtroppo va ancora professando). Sono invece i paesi scandinavi , la Germania, la Francia, la Svizzera, ecc. Ovvero paesi con molto più stato sociale dell’America (ma anche dell’Italia e della Spagna) lavoro flessibile ma tutelato, salari alti, impianti di regole solidi e razionali che vincolano l’attività economica (senza eccessi ovviamente), infrastrutture pubbliche imponenti, tassazione fortemente redistributiva (perché principalmente progressiva).
Alcuni dei paesi che attualmente sono sulla cresta dell’onda (vedi Brasile, India, Turchia, ecc.) ed attirano grandi quantità di investimenti e liquidità hanno spesso livelli di produttività ed efficienza inferiori a quelli nordamericano o europei, hanno burocrazie assai impervie, sistemi legali farraginosi. Inoltre non hanno mai seriamente applicato i dettami che il fondo monetario (noto profeta della
religione mercatista) aveva proposto in occasione delle loro ate crisi. Eppure eccoli là che annegano in un mare di soldi che gli piovono addosso da ogni parte del mondo.
I debiti sovrani attuali, anche quelli degli stati più disastrati, sono meno eclatanti di quelli che aveva (ed ha ancora) il sistema finanziario globale, e specialmente quello americano, nel 2008, eppure allora i mercati si sono scatenati su quei debiti comunque meno di quanto stiano facendo adesso con i debiti sovrani. Senza contare che molti di questi debiti sono stati accumulati per tentare di salvare il sistema finanziario (ovvero le banche più esposte) e non per squilibri interni ai bilanci dei paesi.
Il mercato è uno strumento ottimo per trasformare la somma degli interessi individuali in un beneficio comune. Questo però avviene solo se è sottoposto ad alcune regole codificate che non può certo produrre da se. Ma queste regole scritte non bastano a loro volta a garantire la funzionalità del mercato. E’ necessario anche che la società possieda alcuni valori basilari (regole non scritte), riguardanti i rapporti tra gli individui e tra questi e la comunità, che anche in questo caso non possono che essere esterni al mercato ma nello stesso tempo sono la condizione necessaria alla sua sostenibilità. Le regole tecniche da sole non bastano e del resto non possono che essere il prodotto di quel sistema di valori e delle conoscenze economiche.
Nel decennio 98-08 (e già prima) il tenore di vita della classe media americana non è stato sostenuto dalle retribuzioni da lavoro ma dal credito facile. Al contrario negli anni precedenti i momenti di crescita, vedi ad esempio ’50 e ’60, sono stati caratterizzati da aumenti consistenti delle retribuzioni e questo ha determinato il benessere della classe media. A questo proposito si tenga presente che generalmente la media e piccola borghesia condividono con gli operai il fatto di avere un reddito prodotto principalmente con il proprio lavoro⁷ , sia esso dipendente o indipendente, sia esso professionale di alto rango o operaio a bassa specializzazione. Si badi inoltre che la maggior parte delle spese che le famiglie medie americane hanno affrontato negli ultimi anni non hanno riguardato, come
spesso si pensa, beni di consumo, bensì hanno riguardato principalmente i settori dell’istruzione, della sanità e della casa, i cui costi sono aumentati vertiginosamente senza per altro che ne sia stata modificata sostanzialmente la qualità (anzi il contrario).
¹ Ed in questo possiamo anche dire che abbia aggravato la crisi. ² E vedremo poi se ora, nell’estate del 2011, è ancora così. ³ Vedi meglio il punto 6 delle considerazioni. ⁴ Anche, in secondo ordine, per i motivi specificati al seguente punto 6. ⁵ Per intenderci, tipo quella degli anni ’30 in molti paesi occidentali. Anche la sparata dei prezzi energetici del 2006-2007-parte2008, ovvero nel pieno del boom globale, era dovuta più alla speculazione che non ad un effettivo problema quantitativo. ⁷ E non dall’accumulo di valore generato dal lavoro altrui.
CAP. 1 - CONSIDERAZIONI
Per quanto detto relativamente all’epicentro della crisi ed ai paesi più colpiti si deve ritenere che la crisi attuale sia tutta da riferire al sistema economico di mercato; ai suoi eccessi, alle sue distorsioni, ad alcune sue necessarie premesse che sono andate parzialmente dissolte. Lo sviluppo cinese, ed in generale dei paesi emergenti, i relazione agli squilibri in atto, appare un aggravante e non un determinante.
Uno dei due fattori principali determinanti la crisi è stato il fatto che si sia inceppato il meccanismo di redistribuzione della ricchezza prodotta. Questo meccanismo dovrebbe funzionare in primo luogo attraverso la giusta retribuzione del lavoro ed in secondo luogo, ma con intensità minore (vista la probabilità di ottenere effetti indesiderati¹ ), attraverso la tassazione progressiva, la quale, tra l’altro dovrebbe premiare le attività produttive e penalizzare le rendite. Dalla metà degli anni ’80, però, in alcuni stati prima, in altri dopo, grazie alla rivoluzione liberista Thatcher-Regan, si è assistitito ad un processo sempre più rapido di concentrazione della ricchezza, dovuto in parte alla perdita di “potere contrattuale² ” del lavoro ed in parte alla sostanziale riduzione della componente progressiva della tassazione. Risulta chiaro che all’inizio la rivoluzione liberista di cui si è detto avesse un senso in quanto l’economia negli anni ’70 aveva accumulato caratteri di eccessiva ed irrazionale regolamentazione (ovvero burocrazia), ma dovrebbe essere altrettanto chiaro che già agli inizi degli anni ’90 si era andati troppo oltre, continuando poi a sconfinare senza ritegno nell’eccesso contrario per altri venti anni, sotto la guida di un pensiero unico che aveva ormai assunto i caratteri di una vera e propria ideologia³ . Il lavoro, sia quello operaio che quello professionale risultava progressivamente penalizzato offrendo retribuzioni sempre meno conformi al valore prodotto. In questo, la classe⁴ protagonista dello sviluppo degli anni ’50 e ’60, ovvero la piccola e media borghesia, risulterà alla fine penalizzata quasi quanto gli strati sociali inferiore. Quindi stiamo assistendo ad un processo, in atto con sempre maggiore incisività, in cui la classe media si sta progressivamente assottigliando avvicinando pochi alla condizione dei super ricchi e molti a quella dei poveri. Di questo processo si accorgeva poco, in primo luogo perché all’inizio è stato più
intenso con le categorie sociali più svantaggiate, riguardando sostanzialmente il lavoro dipendente a bassa qualifica, e solo più tardi e con minore intensità, ma crescente, ha iniziato a riguardare gli strati sociali medi, ed in secondo luogo per vecchi preconcetti culturali e per quell’orgoglio di classe che fanno ancora molti ritenere di appartenere ad una condizione che in realtà non gli appartiene ( basti pensare che oggi il 17% degli americani ritiene di appartenere all’1% più ricco)⁵ . Infine la facilità di finanziamento, rivolta soprattutto al ceto medio proprietario di case, ha contribuito in maniera determinante nel decennio 98-08 a mantenere in piedi questa illusione di privilegio, consentendo di compensare, in maniera ovviamente impropria ed insostenibile, la perdita del reddito effettivo da lavoro.
Il processo di concentrazione della ricchezza e di svalutazione del lavoro di cui si è detto sopra ha subito una forte accelerazione con la caduta del muro di Berlino che, da un lato ha portato alla scomparsa di un modello teoricamente alternativo a quello capitalista che imponeva indirettamente ai modelli economici occidentali quei salutari correttivi che ne hanno mantenuto per molto tempo la funzionalità, e dall’altro ha scongelato enormi bacini di manodopera a basso costo come quello cinese.
Molti hanno ritenuto che la concentrazione della ricchezza è in realtà un processo salutare per lo sviluppo e la crescita economica. Infatti, dopo essere stata concentrata in un primo momento sui vertici della piramide del profitto, la ricchezza sarebbe poi “sgocciolata” su tutta la struttura sociale nel modo più efficiente possibile. Ovvero, dando il controllo del denaro, delle risorse, a chi ne ha di più, questi sceglierà il modo più opportuno per impiegarlo. Le cose, però, non sono andate così e la concentrazione, oltre un certo limite, costituisce un freno ed alla fine un blocco alla crescita. Questo in primo luogo per un meccanismo di saturazione del consumo, il quale riguarda in realtà tutta la società delle economie sviluppate, e che quindi tratterò anche dopo, ma che qui prenderò in considerazione con riferimento ai ceti più ricchi. In secondo luogo per la naturale tendenza del profitto a tramutarsi in rendita tipico delle situazioni di forza non vigilata. Le potenzialità di consumo dei soggetti ad elevatissima ricchezza, infatti, non sono superiori e neanche equivalenti a quelle del proporzionale numero di soggetti a media o bassa ricchezza e si concentrano su
beni posizionali⁷ (rif. Adam Smith di Carlo Scognamiglio, ed. Luiss), ovvero di prestigio, che solitamente incorporano una quantità di lavoro (per produrli) in proporzione (al loro costo) inferiore rispetto ai beni di consumo comune. Mi spiego con un esempio. Una Ferrari costa, mettiamo, 500.000 euro, ovvero come 50 Punto. Ma per costruire una Ferrari è impiegato molto meno lavoro di quello necessario a realizzare le 50 Punto, ed infatti rende di più produrre Ferrari che Punto. Ancora peggio se pensiamo al paragone tra una casa al centro di Milano e vari appartamenti in zone meno pregiate. Quindi il consumo di 50 Punto o la costruzione di vari appartamenti a Rho, attivano più lavoro e più sviluppo che non una Ferrari o una casa in centro. D’altra parte per quanto potranno consumare, sia di beni posizionali che di consumo, in genere i ceti maggiormente ricchi non potranno comunque spendere il profitto generato da grandi concentrazione di ricchezza per limitazioni soggettive: tempo limitato, sazietà, emersione di bisogni non materiali, ecc. La parte del profitto non assorbita dal consumo, spesso la maggior parte ovvero quantità enormi, verrà reinvestita per generare altro profitto. Da queste posizioni di forza⁸ , alla quali si sono sommati gli impieghi puramente finanziari degli utili delle imprese altamente profittevoli, è stato naturale imporre, con la complicità di un mercato privo di regole appropriate e di controlli efficaci, che il capitale venisse trasformato in elemento capace di generare più rendita che profitto; per cui il denaro invece di essere investito nelle imprese, ovvero ritrasformato in risorse impiegate nella produzione, ha finito per rigenerare se stesso senza generare risorse reali, intrappolato nei mercati finanziari autoreferenziali che hanno caratterizzato questi ultimi anni e che sono nati proprio per impiegare gli enormi capitali originati dalla concentrazioni. Quindi la concentrazione della ricchezza, lungi dall’aver incentivato il consumo e ottimizzato l’impiego delle risorse, ha contribuito (insieme alla più generale saturazione di cui si dirà dopo) a dinamiche esattamente contrarie.
Come accennato, la saturazione del consumo non riguarda solo i ceti più ricchi, anche se in questi risulta emblematica, ma è un noto fenomeno (anche se regolarmente sottovalutato) che accompagna lo sviluppo delle economie di mercato. La questione si potrebbe riassumere dicendo che è più facile vendere il frigorifero a chi non ce l’ha che il quinto televisore a chi ne ha già quattro, soprattutto se a questi gli si chiede di lavorare qualche ora in più al mese a questo scopo. Quindi la naturale sazietà si aggrava in presenza di concentrazione della ricchezza e di svalutazione del lavoro (ed in assenza di credito facile) per
cui alle persone si chiede di lavorare sempre più per mantenere elevati ed immotivati standard di consumo, andando contemporaneamente a limitare sia il tempo che le energie da dedicare proprio al consumo stesso. Rimane intatto l’appetito per i beni posizionali i quali, però,come si è detto, per loro natura non sono accessibili alla maggioranza, finendo per creare frustrazione e conseguente apatia. Il fenomeno ( di nuovo, soprattutto se accompagnato da concentrazione) finisce con il mettere in chiara contraddittorietà l’aumento della produttività data dallo sviluppo tecnologico con la domanda di lavoro in quanto rende impossibile re-distribuire le risorse liberate dalla migliore produttività non potendo collocare sul mercato tutto il potenziale produttivo. Questo spiega perché, se all’inizio è stata la presenza di manodopera a bassissimo costo a guidare lo sviluppo di alcuni paesi (vedi Cina), oggi è più la presenza di mercati non saturi ad attrarre capitali, anche in assenza di elevate produttività (vedi Brasile ed, in parte, India).
La saturazione e la concentrazione se abbandonate nelle mani di economie altamente deregolate possono conducono a dinamiche depressive. Sono due fenomeni complementari che interferiscono in maniera distruttiva rafforzandosi a vicenda. Bisogna tornare ad avere chiaro un concetto che le sofisticazioni finanziarie¹ degli ultimi anni hanno alla fine nascosto: il denaro deve corrispondere a risorse reali, esso non è altro che la garanzia di scambio di risorse reali. Capita in situazioni di bolla che si sopravvaluti il valore di scambio di alcune risorse per cui si finisca con l’emettere denaro in eccedenza rispetto alle risorse sottostanti. Questo è quello che è successo con il mercato immobiliare americano o con le attività finanziarie. Quindi, come detto nel paragrafo precedente, la saturazione e la concentrazione, con il concorse di altre circostanze, hanno determinato l’investimento dei capitali non in attività realmente produttive (o potenzialmente produttive come, comunque, era avvenuto nella bolla dell’internet tecnology), bensì in circuiti finanziari autoreferenziali, creati appunto per riceverli, i quali si sono virtualmente appoggiati su una risorsa fittizia data dal mercato immobiliare e dalle loro stesse attività. Si sono parcheggiate delle risorse in maniera improduttiva e contemporaneamente è stato emesso (ed ancora si emette) denaro non corrispondente al sottostante. Questo denaro finto è stato riato ai consumatori in maniera non sostenibile attraverso il credito facile che a sua volta è andato a rafforzare uno sviluppo finto creando un consumo forzato¹¹ . A ciò si deve aggiungere la dispersione di risorse legata ai temi della sicurezza,
soprattutto militare, le cui gigantesche voci di spesa sono tra i maggiori responsabili delle esposizioni debitorie del bilancio USA¹² . Quindi in definitiva una quantità enorme di risorse impiegate male (quindi sprecate) accompagnate dalla creazione di una montagna di soldi finti. Allora si potrebbe facilmente dire (come fanno quasi tutti) che ci siamo impoveriti, che bisogna creare più risorse, che dobbiamo produrre di più o, addirittura, che abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilit๳ . Ma una tale analisi, come accennato nelle premesse, sarebbe superficiale, sostanzialmente errata e gravida di scelte nefaste (come sta accadendo, purtroppo). In realtà la capacità produttiva dei paesi sviluppati nel 2008 era, ed ancora malgrado tutto è, tale da risultare decisamente eccedente la limitata capacità di assorbimento di economie che si trovavano intrappolate in forti situazioni di saturazione e concentrazione, per cui quelle risorse che sono state disperse non sarebbero potute essere comunque impiegate nella produzione, ed infatti sono state parcheggiate nei circuiti finanziari. Anche se consideriamo che in alcuni casi la produzione era orientata su dei prodotti che da un certo punto di vista erano “obsoleti”, almeno nelle forme in cui erano prodotti (vedi automobili), la situazione generale non cambia e tuttora, malgrado tre anni di azioni disastrose, non v’è comunque risorsa produttiva che si possa considerare realmente scarseggiante. Quindi ricordando che il denaro alla fine deve corrispondere a risorse reali e si possiedono i mezzi per produrre largamente tutto ciò di cui si potrebbe aver bisogno (e molto oltre)diventa difficile sostenere che ci siamo realmente impoveriti. Certo è che continuando sulla strada attuale, con inutili misure sintomatiche, senza risolvere i problemi di fondo di cui si è detto, saturazione e concentrazione, alla fine si arriverà alla distruzione reale dei mezzi di produzione e delle risorse utili, giungendo a quella depressione¹⁴ che tanto ci spaventa ed i cui primi segni purtroppo si intravedono.
In questo quadro, la Cina ed i paesi emergenti (ormai quasi emersi ) giocano un ruolo particolare; non è stata la loro emersione a provocare gli squilibri in atto, i quali, come detto sono iniziati prima ed autonomamente, ma li ha accelerati. La concorrenza sul costo della manodopera ha accelerato la svalutazione del lavoro e la concentrazione della ricchezza inceppando la circolazione delle risorse, mentre la prospettiva di mercati lontani dalla saturazione ha convogliato, più recentemente, grandi capitali in direzioni esotiche. Per alcuni paesi, Cina in testa, il trasferimento di risorse e tecnologie produttive, avvenuto grazie al basso costo della manodopera, purchè in presenza di un’organizzazione affidabile del paese, è stato cruciale per innescare quel gigantesco processo di crescita reale a
cui abbiamo assistito. Per altri paesi dotati di organizzazioni meno affidabili, stiamo assistendo ad un afflusso di capitali guidato principalmente dalla presenza di mercati insaturi, in assenza, spesso, di elevati tassi di produttività e strutture statali efficienti. Anche nei casi migliori, la velocità dei cambiamenti in atto è tale per cui gli squilibri legati allo sviluppo che sono apparsi negli ultimi venti anni in occidente, già si presentano nei paesi emergenti. Infatti in tali paesi la fase di crescita è avvenuta in epoca di dominio assoluto proprio di quei modelli economici che sono responsabili di gran parte degli squilibri in atto. Su questi modelli guida è stata impostata tutta la loro crescita e quindi i problemi connessi con essa arriveranno più rapidamente e senza contrappesi¹⁵ . In modelli che inclinano alla concentrazione accade che la saturazione arrivi prima e sia molto più difficile da combattere. Purtroppo nella maggior parte dei paesi emergenti gran parte dei fattori, regolamentazione¹ del lavoro, stato sociale, sistema previdenziale, sistema legale farraginoso (meno in Cina), corruzione, società civile debole, inclinano alla concentrazione¹⁷ . Quindi, se sul breve termine l’emersione dei paesi in via di sviluppo ha accentuato gli squilibri dei sistemi economici occidentali, sul lungo termine non li riequilibrerà, neanche in una prospettiva globale, ma andrà a diffonderli e moltiplicarli. Certo, qualcuno dirà che comunque nel frattempo un miliardo di cinesi sono usciti dalla fame ma, se non si cambiano i modelli attuali, la tendenza presto (in parte già ora) verrà invertita e comunque i benefici finora avuti dalla maggioranza della popolazione rischiano di non subire il sacrosanto, necessario e possibile ulteriore incremento. Per cui abbiamo un livellamento verso il basso in cui le popolazioni dei paesi sviluppati perdono le loro prospettive di benessere diffuso senza che proporzionalmente si accrescano, soprattutto sul medio-lungo termine, quelle delle popolazioni in via di sviluppo, innestando un circuito vizioso associato anche ad una depressione globale. Alla fine, per dirla in maniera figurata, con la globalizzazione avremo importato più povertà¹⁸ di quanto avremo esportato ricchezza.
Alle misure per uscire dalla crisi e per scongiurare fenomeni depressivi, che necessariamente dovranno ridurre la concentrazione¹ ed aggirare la saturazione² , si darà spazio in altra sede ma intanto mi preme rilevare che comunque andranno incontro ad almeno due grandi problemi preliminari. In primo luogo, infatti, le misure non possono che essere globali per essere efficaci ma i paesi più importanti hanno una percezione molto diversa della situazione in atto a seconda della fase di sviluppo in cui si trovano e della struttura
socioeconomica che li caratterizza. Per cui le opinioni pubbliche a cui, più o meno, i governanti devono rispondere, mantengono giudizi molto diversi sulla posizione che i rispettivi paesi hanno rispetto alla situazione attuale, determinando agende di governo spesso contrapposte. Certo queste contrapposizioni corrispondono anche ad esigenze reali oggettivamente concorrenti ma, come illustrato, sottovalutano certamente che la radice dei problemi emersi , o che emergeranno, nelle varie nazioni risulta in ultima analisi comune e che una fase depressiva generale non risparmierebbe neanche quelle attualmente meglio posizionate. Purtroppo una presa di coscienza in tale direzione sembra abbastanza lontana, per cui abbiamo assistito agli Stati Uniti che hanno pensato di fare da soli, alla Cina ed i paesi emergenti che hanno ritenuto di poter solo guadagnare dalle difficoltà dei paesi sviluppati, alla Germania che si è sentita minacciata solo dall’inaffidabilità dei paesi del sud Europa, all’Inghilterra che, come al solito, crede di essere un impero che con l’Europa non c’entra ed al Giappone che da oltre venti anni non sa a chi rivolgersi per combattere la sua stagnazione-saturazione. In secondo luogo perché, come accennato al punto 10 delle premesse, la degenerazione dei sistemi economici di mercato è potuta determinarsi per la disgregazioni di un sistema di valori comunitari che è necessariamente alla base di ogni società sana che a sua volta è alla base di ogni economia forte. Anche i due fenomeni, di cui si è parlato come responsabili principali della situazione in atto, si manifestano con particolare intensità in un tale contesto di disgregazione. Ogni complesso di misure tecnico-economiche volte a combattere la crisi in atto, per quanto giuste, difficilmente potranno essere efficaci prescindendo da un moto di rigenerazione civile e “morale”, senza la cui spinta, del resto, probabilmente non verrebbero neanche attuate. Questo moto si vede solo allo stato embrionale in alcuni movimenti emersi di recente in alcuni paesi, troppo farraginosi, tuttavia, per determinare cambiamenti sostanziali. Nota di conforto e speranza sono comunque la forte coscienza civile, tuttora non erosa, di alcuni paesi del nord Europa e la vitalità, anche “morale”²¹ , delle popolazioni emergenti, le quali però scontano, come accennato, un difetto di “ingenuità” dato da una storia di sviluppo spesso troppo recente e veloce. Assolutamente da non trascurare (come purtroppo si sta facendo) è la forza di rinnovamento manifestatasi nei paesi del Nord Africa; se accompagnata con lungimirante intelligenza può rappresentare una immensa risorsa per tutti, altrimenti può rappresentare un’occasione sprecata che non possiamo permetterci.
In tale quadro l’Italia presenta con una situazione molto peculiare²² . Se infatti è vero come è vero che alcuni degli eccessi caratterizzanti lo sviluppo globale degli ultimi decenni l’hanno riguardata solo marginalmente è anche vero che questo non è avvenuto per una particolare saggezza o una intrinseca virtuosità del sistema socio-economico ma per fattori di sostanziale arretratezza²³ ; e non si combatte certo uno sviluppo difettoso con il sottosviluppo. Per cui alla fine ci troviamo esposti alle tempeste globali non meno, ma più, di altri.
Agosto 2011
¹ Infatti così come una buona tassazione ed un sistema statale efficiente, oltre a garantire ottimi standar di vita a tutti i cittadini, possono trasferire risorse dalla rendita alla produzione, nel caso di tassazione farraginosa e stato inefficientecorrotto-clientelare può accadere esattamente il contrario. ² In senso lato. ³ Caratteristica tipica di un’ideologia è quella di rifiutare o cancellare quella parte di realtà non coerente con il modello proposto. ⁴ Ho parlato qui di classe perché in quell’epoca ancora si poteva usare facilmente tale termine. Oggi per la fluidità, soprattutto in alcuni paesi (non proprio l’Italia), delle posizioni sociali intermedie risulta difficile usare questa categoria, se non in un’accezione temporanea come una condizione di reddito spesso transitoria, anche nella vita di una stessa persona, e quindi non immediatamente trasferibile ai discendenti, tale da non determinare una “cultura”. ⁵ Questo spiega in buona parte il successo del Te-party in USA. Parlo di reddito effettivo perché, come accennato, bisogna anche tenere in considerazione come, soprattutto negli USA, siano aumentate vertiginosamente alcune voci di spesa cruciali per la classe media ovvero, istruzione di qualità, sanità, case. ⁷ Sono quei beni, appunto di prestigio, il cui pregio non risiede nella loro utilità
pratica ma nella capacità di rappresentare una posizione sociale apicale. Quindi il loro valore dipende proprio dal fatto che solo una ristretta elite li possiede, o li può comprare, e quindi per loro natura devono essere limitati nella quantità disponibile. Anche con la crescita del benessere di una società tali beni rimarranno necessariamente limitati ed il loro prezzo tenderà a discostarsi sempre più dalle risorse e dal lavoro impiegate per realizzarlo e mantenerlo. ⁸ Vedi la graduale concentrazione in atto anche nel mercato degli investitori (privati e non) con la crescente importanza dei private equity ed hedge fund rispetto a forme di risparmio più diffuso come i tradizionali fondi comuni di investimento. Il problema, tra gli altri, è che lo sfruttamento di questi mercati è spesso guidato dal credito facile senza aver inciso sui meccanismi di circolazione e distribuzione della ricchezza. ¹ Qui non si intende criminalizzare tutto il comparto finanziario e le sue innovazioni tecnologiche ritenendole necessariamente dannose o inutili. In realtà praticamente tutte le innovazioni, spesso di assai grande e raffinata complessità, sono nate per offrire strumenti più potenti e sicuri per ottimizzare l’impiego delle risorse. Quindi sono nati come strumenti a servizio della produzione e dell’economia reale. Purtroppo, proprio grazie alla loro complessità (che li rendeva opachi) ed all’assenza di regole e controlli, sono diventati facile strumento per scopi impropri. Tanto che, tecniche nate per compensare e quindi ridurre il rischio, hanno finito per divenire, in mano alla speculazione, elementi di moltiplicazione del rischio stesso. Del resto non si può tacere che ci siano stati casi in cui la creazione di strumenti particolarmente esotici, di cui si vede francamente poco la necessità e per niente l’opportunità, possa ritenersi puramente strumentale ad un loro uso distorto. ¹¹Consumo forzato che ha temporaneamente bucato l’effetto saturazione in primo luogo perché era appunto forzato, ovvero grazie al credito facile metteva a disposizione soldi senza chiedere incrementi di lavoro, ed in secondo luogo perché, contrariamente a quanto si sente spesso dire, vedi paragrafo 11 delle premesse, non era tutto concentrato su beni di consumo ma anzi assorbito in buona parte dai tre capitoli di spesa, sanità, istruzione di qualità, case, che sono cresciuti fuori da ogni logica, alimentati appunto dalla finta crescita, e che sono incomprimibili soprattutto per il ceto medio. Il grande surplus commerciale degli USA con la Cina non è stato creato da un aumento netto della richiesta di beni di
consumo da parte delle famiglie ma dal fatto che, a parità di richiesta, il consumo si è rivolto in maniera assai preponderante ai prodotti cinesi con prezzi favorevoli rispetto a quelli nazionali (o dei paesi occidentali). ¹² Anche in tale caso, contrariamente a come spesso si va dicendo, bisogna rilevare che tali spese sono poco produttive nel lungo termine (anche considerando le ricadute tecnologiche sulla società civile) perché accompagnate da fenomeni di accentuata concentrazione ¹³ Malgrado che, chiaramente, il responsabile della crisi non è stato il tenore reale della vita della maggioranza delle popolazioni occidentali che, anzi, in alcuni casi è in calo dalla fine degli anni ’80. ¹⁴ A quel punto accompagnata da alte inflazioni. ¹⁵ Nei paesi sviluppati questi contrappesi, che hanno potuto formarsi lentamente nel corso del secolo scorso, hanno rallentato e tuttora rallentano, dove non sono stati smantellati completamente, i processi degenerativi delle economie di mercato. ¹ Sarebbe più calzante dire de-regolamentazione ¹⁷ La quale si mostra con forza appena superata una fase iniziale in cui la presenza di maggior lavoro determina comunque una reale e larga distribuzione di benessere nelle società. ¹⁸ E bruttezze. ¹ In particolare, come accennato, ri-valorizzando il lavoro. ² Vedi accenni al punto 5 delle premesse. A questo proposito si consideri che quei prodotti il cui prezzo risulta sovrastimato perché non se ne considerano i risparmi sociali ed ambientali incorporano generalmente una quantità di lavoro superiore rispetto agli altri e quindi se da una parte contribuirebbero validamente all’occupazione dall’altra il loro maggior prezzo risulterebbe accessibile in un contesto di circolazione virtuosa della ricchezza, la quale sarebbe alimentata anche dalla stessa occupazione creata (in una spirale, una volta tanto, virtuosa). ²¹ Quando uso questo termine mi riferisco sempre a qui valori pubblici di rispetto del prossimo e della comunità sostanziali per una società civile solida.
²² Situazione che ci si propone di analizzare in altra sede. ²³ In alcuni casi delle vere e proprie regressioni manifestatesi negli ultimi ventitrenta anni.
CAP. 2 - VIE D’USCITA
Nell’analizzare le azioni che potrebbero invertire il processo attuale e risparmiarci una recessione dalle conseguenze imprevedibili ma certamente epocali, dobbiamo in primo luogo operare una semplificazione strumentale. Dobbiamo immaginare che lo scenario sia quello di una società globale con istituzioni democratiche globali, ovvero pensare che tutto stia succedendo in un unico stato completamente autarchico, senza relazioni e scambi con altre entità. In questo modo è chiaro che andiamo a verificare la possibilità di recupero di un sistema come quello attuale nel suo complesso, trascurando, in prima approssimazione, le problematiche relative al frazionamento della sovranità ed alla conflittualità tra nazioni.
Come si è illustrato, i principali processi degenerativi dell’economia occidentale, e, per propagazione, di quella globale, negli ultimi 30 anni, sono la drastica concentrazione della ricchezza e la progressiva saturazione dei tradizionali bacini di consumo, ai quali erroneamente e maliziosamente si è tentato di sostituire nuovi bacini creatisi in seguito ai processi di concentrazione. Purtroppo questi nuovi bacini si sono rivelati inadeguati a sostituire, anche solo parzialmente, i primi, o perché strutturalmente insufficienti o perché squisitamente virtuali. Alla fine si è compromessa la sana circolazione delle risorse
L’elemento concreto che più di altri ha determinato il processo di concentrazione è stata la progressiva svalutazione del lavoro, iniziata negli anni ’80 con le politiche liberiste Regan-Thatcher e letteralmente esplosa dopo la caduta del blocco comunista sovietico con la globalizzazione che ne è seguita. Quindi, per invertire il processo in maniera sostenibile e duratura, bisogna in primo luogo rivalutare il lavoro, che deve tornare a rappresentare un valore chiave della società ed un diritto della persona; in questo modo potrà divenire anche un formidabile stabilizzatore del sistema economico. Rivalutare il lavoro significa anche concretamente assicurarne una più equa retribuzione ed una più intelligente distribuzione. Come illustrato in precedenza, se assumiamo la
prospettiva globale, il sistema produttivo dei paesi sviluppati e di quelli a nuovo sviluppo sarebbe ancora perfettamente in grado di produrre molto più di quanto necessario e desiderabile. E questo malgrado i consistenti ed irrazionali tagli alla capacità produttiva ed al capitale umano di lavoro che sono stati la conseguenza di una gestione nefasta della crisi attuale ¹ . Quindi se si pensa che per uscire dalla crisi sia necessario, sufficiente o anche semplicemente utile, ad esempio, lavorare tutti di più, magari a parità di retribuzione, stiamo chiaramente fuori strada.
Se vogliamo che la gente consumi dobbiamo garantire retribuzioni congrue a tutta quella fascia di popolazione, la grande maggioranza, che va dagli operai ai professionisti (onesti), ando per i piccoli imprenditori, gli artigiani, gli impiegati (ceto medio e medio e medio-basso produttivo). In questo modo possiamo avere una capacità di consumo diffusa ² tale da giustificare una produzione sostenuta di beni di consumo, la quale, a sua volta, è in grado di ridistribuire le risorse ai consumatori in quanto lavoratori. Questo, ovviamente, purché si garantisca anche una disoccupazione minima ed una quantità di tempo libero utile ad acquistare ed a fruire dei bene acquistati. D’altra parte , in generale, il progresso tecnologico riduce la quantità di lavoro necessaria a produrre uno stesso oggetto o servizio più velocemente di quanto non riesca a creare spontaneamente nuovi bisogni ed aspettative. La saturazione, anche nelle migliori condizioni distributive della ricchezza è comunque un fenomeno presente nelle società sviluppate. Pensare quindi semplicemente di forzare i consumi creando bisogni indotti per beni inutili usando le risorse sempre più aggressive del marketing è una risposta che ormai non funziona neanche sul breve periodo e comunque non è sostenibile sul lungo periodo. Infatti la crescita indiscriminata della produzione e del consumo pongono comunque enormi problemi di sostenibilità sia sul fronte dello sfruttamento di risorse limitate sia su quello degli squilibri ambientali.
Dal quadro precedente risulta che la strada è pressoché segnata. Diminuzione dell’orario di lavoro ed aumento delle retribuzioni. Così facendo si sarà adattato il potenziale produttivo a quello di consumo e nello stesso tempo si sarà combattuta, in grande parte, quella quota innaturale della saturazione che risulta da una distribuzione inefficiente della ricchezza. Non basta. La quantità di lavoro
che ancora sarà avanzata, perché non conviene ridurre oltre un certo limite il tempo di lavoro e perché comunque sarà rimasta ancora una quota di saturazione importante, dovrà essere impiegata per creare le basi di sostenibilità alla produzione. Ecco che in questo ritroviamo il tema della green economy come motore di sviluppo per i prossimi anni. Imponendo, o incentivando, a seconda dei casi, che la produzione ed il consumo siano ecologicamente sostenibili, attraverso lo sviluppo e l’utilizzo di nuove tecnologie ecologiche nonché di buone pratiche, non facciamo altro che sfruttare con intelligenza quel surplus di lavoro che altri vorrebbero impiegato irrazionalmente in produzioni inutili e dannose (vedi finanza, cemento, automobili, ecc.). Pensate a quante braccia e quanti intelletti sono ora sprecati per fare buchi con la finanza, garantiti da colate di cemento inutili, intorno alle quali girano senza sosta milioni di automobili che inquinano. Alcuni prodotti dovranno sicuramente costare di più, in quanto andranno ad incorporare una quantità ed una qualità maggiore di lavoro, ma questo, oltre a garantire una maggiore e migliore occupazione, permetterà di risparmiare presenti e futuri catastrofi. Sarà utile rispolverare anche la culturale, come industria ed investimento: ogni soldo utilizzato in questo senso sicuramente non farà danni, aiuterà le persone a stare meglio le une con le altre e gli permetterà di capire meglio quello che accade nel mondo ³ , cosa utile a tutelare i propri diritti ma anche ad orientare nel modo migliore la propria attività economica e lavorativa.
Per chiarire ulteriormente quanto detto sopra, insisterò su un concetto che ritengo fondamentale, ovvero la produzione reale di valore. Nel sistema attuale, in realtà, non tutto ciò che produce fatturato, produce ricchezza, anzi, sarebbe un compito interessante quantificare con esattezza, quanto alcuni comparti, come ad esempio la finanza ipertrofica degli ultimi anni, abbiano consumato molto più di quello che abbiano prodotto; ed il danno non si è limitato al mantenimento di una struttura inutile, dal momento che questa struttura per conservare le sue fonti di approvvigionamento distorceva il mercato sviando enormi flussi di ricchezza da quegli impieghi che sarebbero stati, invece, razionali ed utili. Potremmo dire che sarebbe stato enormemente conveniente mantenere tutta questa gente in una lussuosa vacanza perpetua, senza dargli la possibilità, almeno, di fare grande danno con la propria opera ⁴ . In pratica, si sono mantenute enormi strutture parassitarie, le quali non si sono accontentate di nutrirsi alle spalle dell’organismo produttivo, ma alla fine l’hanno pure infettato. Ed ora ci vengono a dire che non possiamo mantenere qualche pensionato? Almeno non fanno
danni! E’, quindi, molto importante sottolineare che, anche limitandosi ad una visione prettamente economicista della società, taluni processi e strutture appaiono produttive solo perché si è consentito che parte dei costi venissero trascurati, quando non proprio occultati, e quindi surrettiziamente scaricati sulla collettività o sulle generazioni future. Quando si fa un’analisi onesta del valore e dei costi da una prospettiva d’insieme, prendendo in considerazione tutti i fattori interagenti (anche effetti ambientali, costi sociali, sostenibilità sul lungo periodo, ecc.) si scopre che non sono affatto ne produttivi ne efficienti, ma spesso addirittura dannosi. Altro esempio eclatante di quanto detto, è l’agricoltura super intensiva confrontata con quella biologica. Spesso ci viene detto che si, l’agricoltura biologica è certo una bella cosa, ma alla fine è un vezzo, è un lusso per paesi opulenti, perché non essendo realmente produttiva sostanzialmente non conviene e quindi non tutti se la possono permettere. Ebbene, se andiamo a fare un’analisi complessiva costi/benefici ci accorgiamo che è esattamente il contrario. Questo perché l’agricoltura super intensiva, con la filiera industriale alimentare che si porta dietro, ha enormi costi, ambientali e sociali, occulti, oltre a determinare inefficienze e sprechi pazzeschi lungo tutta la filiera. Pensate solo a quanta energia consuma la catena del freddo, ovvero il sistema dei surgelati; pensate quanta ce ne vuole per raffreddare e conservare a basse temperature gli alimenti che, per arrivare nel nostro congelatore, hanno spesso fatto il giro del mondo. Non sarebbe forse più razionale farsi portare a casa, magari una volta a settimana, frutta e verdura fresche dall’agricoltore locale? Oppure pensate a chi dovrà poi pagare l’inquinamento dei terreni e delle falde acquifere dovuto dall’eccesso di concimi chimici dell’agricoltura super intensiva. O ancora riflettete sul fatto che tutto il cibo sprecato, per colpa del sistema anzidetto, nei paesi occidentali, basterebbe ed avanzerebbe a sfamare tutti gli affamanti del mondo. Esempi come questi se potrebbero fare infiniti ⁵ . Come si vede il problema non è nella quantità di risorse che le nostre società possono produrre, che è enorme, ma nella qualità di queste e nel modo di distribuirle. Qualità e distribuzione che devono essere valutate, proprio nel senso di “assegnargli valore” , guardando onestamente il sistema nel suo complesso.
Altrimenti ci ritroviamo in quella che io chiamo “l’economia delle buche in terra”. Nell’esercito era uso, forse è ancora, dire che i soldati non dovevano mai stare senza far nulla. Quindi era meglio fargli fare una cosa inutile piuttosto che tenerli con le mani in mano. A limite bisogna far scavare buche ad un plotone e farle ricoprire ad un altro. L’importante era che fossero occupati, altrimenti c’era
il rischio che si lasciassero andare o addirittura che si mettessero a pensare. Ebbene oggi mi pare che l’economia, soprattutto quella delle società che più hanno seguito le tendenze iperliberiste, assomigli proprio a questa pratica. Questa è un’altra faccia della stessa medaglia di cui si è appena detto riflettendo sulla reale produzione di valore. Il sistema, così come è strutturato, costringe a mantenere e sviluppare un’infinita quantità di attività , le quali sono in realtà o perfettamente inutili o addirittura dannose, o che comunque sarebbero superflui nel contesto di un’organizzazione complessiva più onesta e razionale. Questa circostanza, che è comunemente associata al settore pubblico, in generale non viene percepita, almeno nella sua valenza sistemica, come una caratteristica associata, per ragioni molto diverse, anche al settore privato. E sono proprio quei sistemi che a suggello della supremazia del liberissimo mercato pongono l’efficienza e la produttività al primo posto a presentare con maggior evidenza questa caratteristica. Così come nella valutazione del rischio è necessaria una visione d’insieme (sistemica) per capirne la reale struttura e criticità, anche in questo caso, se si osservano le singole attività separatamente e senza prendere in considerazione contesti alternativi, non se ne percepisce il reale apporto produttivo alla ricchezza generale, per cui possono apparire perfettamente utili e necessarie. Invece, come detto, sono il prodotto di un’idea di laissez-faire estremo che preclude una programmazione razionale svincolando completamente la singola attività da considerazioni di interesse comune. In questo modo il conflitto economico tra le parti si attua liberamente in una situazione di asimmetria ⁷ tra i diversi soggetti e determina relazioni di forza spesso assolutamente arbitrarie e/o casuali, le quali a loro volta impongono, a cascata, altrettante posizioni parassitarie. Per cui nel tessuto economico si sviluppano delle entità che per giustificare e riprodurre la loro esistenza hanno bisogno di imporre all’ambiente circostante bisogni inutili che solo queste possono soddisfare. Entità che non nascono dalla riflessione di chissà quale mente geniale ma dal concorso sconnesso di tante piccole parti che perseguono avidamente quello che credono il loro interesse in assenza di una prospettiva organica generale. Chiaramente tutto il tempo lavorativo e le risorse impiegate in queste attività, come abbiamo visto, potrebbero essere restituite alle persone per usarle in maniera più giusta, costruttiva, gratificante e produttiva.
Quanto detto ci permette di mettere nuovamente in guardia coloro che continuano a prospettare soluzioni miracolistiche date da liberalizzazioni indiscriminate, le quali come mostrato portano agli stesso problemi, agli stessi
sprechi, agli stessi abusi, agli stessi squilibri, ai quali conducono i classici monopoli di stato o di categoria, tipici dei paesi statalisti e/o corporativi. Non dico che non possano essere necessari, in alcuni casi (vedi Italia), degli interventi anche di forte liberalizzazione, ma semplicemente che vanno calibrati volta per volta, con razionalità ed onestà, senza furori ideologici, avendo ben presente che eccedendo si ricreano, in un contesto diverso, gli stessi problemi di partenza.
Si deve pensare anche di ridurre la concentrazione attraverso un rinnovato criterio di equità nel sistema fiscale ma, come accennato in precedenza, la questione è molto delicata e bisogna pesare con intelligenza effetti e benefici, calandosi nelle singole realtà socio economiche. In generale negli ultimi trenta anni abbiamo certamente assistito ad un costante allontanamento dal criterio di equità distributiva nel sistema fiscale dei paesi occidentali (gli altri semplicemente non l’hanno mai avuto), giustificato dal teorema, verificatosi poi errato, che la ricchezza sarebbe stata comunque ripartita poi dal mercato nel modo più efficiente possibile. Chiaramente le differenze da paese a paese sono stati rilevantissime. Se questo processo è stato assai spiccato nei paesi di impostazione anglosassone, meno lo è stato nei paesi europei continentali, ma ha comunque rappresentato una tendenza comune, capace di plasmare sul nascere anche le economie delle potenze emergenti (tranne parte di quelle sud-americane che avevano già costatato sulla loro pelle la criticità delle ricette super liberiste degli anni ’90). Quindi è più che naturale ripristinare nei sistemi fiscali quegli elementi a carattere progressivo che sono stati via via ridotti ⁸ , in particolar modo per quanto riguarda la tassazione sui redditi dei privati, mentre, per quanto riguarda le imprese, andrà fatto un discorso separato. Tuttavia bisogna tenere presente che, a mio parere, una strategia per ridurre la concentrazione basata semplicemente o principalmente sul forte aumento delle tasse ai redditi più alti non è necessariamente vincente. Il primo sforzo, come illustrato deve essere posto alla rivalutazione del lavoro. Infatti , in assenza di un forte senso di lealtà dei cittadini nei confronti dello stato, tipico, ad esempio, dei paesi nordeuropei, si potrebbe , da un lato andare incontro ad effetti depressivi sull’iniziativa privata, dall’altro difficilmente si riuscirebbe a rendere effettive le misure applicate. Quando la tassazione sui redditi supera una soglia psicologica, che indicativamente si può considerare attorno al 40%, in assenza di quel forte vincolo di lealtà di cui si è detto, il vantaggio dato da comportamenti illeciti diviene tale da giustificare e stimolare l’impiego di ingenti risorse allo scopo di progettare ed attuare pratiche evasive o elusive, per cui, rimanendo nell’ambito
di uno stato di diritto su impostazione garantista, anche un contrasto incisivo a questi comportamenti diviene assai difficoltoso e costoso. In pratica, se si dispone di grandi capitali da investire in frotte di avvocati, commercialisti, consulenti finanziari, ecc., pagati per studiare come evadere e farla franca, è molto probabile che qualche risultato si ottenga. Del resto, se non siamo in presenza di una cultura che gratifica l’individuo quando questi si opera per la comunità, ma al contrario, domina una cultura che esalta principalmente l’interesse privato, una tassazione troppo alta finisce per disincentivare l’iniziativa economica. Al contrario di quanto spesso si pensa, fanno eccezione alcune misure una tantum applicabili in particolari momenti di necessità, come ad esempio una tassazione sui patrimoni privati. In primo luogo tali imposte sono difficili da evadere perché colpiscono beni che comunque lasciano traccia e che quindi sono localizzabili anche a posteriori, scoraggiando eventuali fughe prima della realizzazione di un generale inventario. In secondo luogo la loro caratteristica occasionale ed emergenziale generalmente non induce quell’effetto inibente l’iniziativa, di cui si è detto sopra, in quanto vengono percepite come fenomeni eccezionali e temporanei. Infine questo tipo di imposte vanno a colpire il patrimonio privato, non il reddito , per cui, se ben calibrate, possono determinare una benefica riallocazione delle risorse improduttive, con la conseguente riattivazione di una circolazione virtuosa della ricchezza. Quindi sul fronte fiscale è necessario calibrare con intelligenza lo sforzo , concentrandosi soprattutto su quei paesi che più hanno subito negli ultimi anni provvedimenti fortemente liberisti, utilizzando, caso per caso gli strumenti più idonei, conservando comunque chiaro l’obiettivo da raggiungere.
Bisogna anche riprendere in considerazione il ruolo che l’impegno pubblico può avere nel riequilibrio del sistema, tema ovviamente connesso strettamente con il tema fiscale. Anche in questo caso negli ultimi trenta anni la cultura dominante ha determinato, con grandi differenze da paese a paese, che il settore pubblico fosse posto a priori sul banco degli imputati, accusato di remare contro lo sviluppo economico perché necessariamente inefficiente e dispersivo. In particolare l’insieme di strutture e servizi necessari a sostenere il cosiddetto welfare sono stati spesso semplicisticamente considerati superflui se non dannosi alla causa dello sviluppo. Ora, appare chiaro che le risorse raccolte attraverso le tasse dovranno essere re-impiegate e re-distribuite secondo criteri che non ne vanifichino il prelievo e quindi in primo luogo bisogna rendersi conto che alcuni compiti non possono essere delegati all’iniziativa privata, al mercato, senza che
perdano la loro ragion d’essere. D’altra parte se lo Stato impiega le risorse raccolte per fornire, con efficienza accettabile, questi servizi, non solo opererà una ridistribuzione del reddito ed un miglioramento della qualità della vita delle persone ma metterà anche il privato nella condizione di operare al meglio in un contesto di tranquillità ed equilibrio. Questo è un dato che spesso viene trascurato nelle analisi correnti. La possibilità di esentare i cittadini da alcune incombenze basilari determina che questi possano dedicarsi con migliore energia ad attività realmente produttive e con questo determinare maggior sviluppo e ricchezza per tutta la società. Tuttavia i servizi offerti dallo stato generalmente non contribuiscono al calcolo del PIL di un paese in proporzione al proprio valore reale. E quindi ritorniamo a quanto detto precedentemente in relazione alla produzione reale di valore, ma con gli addendi invertiti. Anche ciò che non produce fatturato può produrre ricchezza. Per cui si vede quanto è importante poter riformulare e ricalcolare il valore, i costi, l’efficienza, con un approccio d’insieme, il quale metterebbe in luce l’importanza che alcuni servizi pubblici basilari hanno in relazione alla ricchezza (anche prettamente economica) di un paese. Un caso che ritengo illuminante a questo proposito è la sanità negli USA. Se andiamo a vedere cosa è successo negli ultimi 20 anni scopriamo che i costi dell’assistenza sono aumentati in maniera vertiginosa ed incontrollata, mettendo in crisi per buona parte i bilanci delle famiglie americane. Gli Stati Uniti sono tra i paesi che spendono più per la sanità, eppure tutte le classifiche che misurano la qualità del sistema sanitario di una nazione li collocano assai indietro nella graduatoria. Del resto, come tutti sanno, in quel paese la sanità è prettamente privata, se escludiamo qualche presidio pubblico ed i programmi di assistenza minima ad anziani e bambini poveri (sempre messi in discussione dalle ali estreme del partito repubblicano). Se ai costi diretti aggiungiamo tutto il tempo e la tensione che le persone, in particolare della classe media, impiegano per districarsi tra un mare di assicurazioni malattia, quasi sempre truffaldine perché poco regolate dalle leggi e poco sorvegliate dallo stato, se aggiungiamo inoltre tutte le risorse impiegate in un mare di cause devastanti tra assicurazioni ed utenti che finiscono solo per mantenere schiere di avvocati, ci rendiamo conto della reale efficienza del sistema americano. Eppure in quel caso il settore contribuisce in maniera piena e sostanziale al PIL, dando una falsa informazione di reale creazione di ricchezza equivalente ed una falsa informazione di benessere collettivo. Detto questo, a scanso di equivoci, dirò chiaramente che proprio per garantire che lo stato svolga un ruolo costruttivo e decisivo nello sviluppo, favorendo la circolazione e la distribuzione virtuosa della ricchezza, con la sua funzione regolatorio e con i suoi servizi, non se ne può accettare una struttura burocratica, inefficiente e clientelare. Altrimenti è chiaro che il prelievo
fiscale, anche se strutturato in maniera virtuosa, finisce per contribuire a rafforzare le dinamiche di concentrazione e dissipazione invece che combatterle. Ai fini di un’analisi dei metodi per combattere la crisi attuale, il modo in cui lo stato impiega le risorse è altrettanto importante rispetto al modo in cui le raccoglie ed a quante ne raccoglie. Del resto parlando di Stato ho usato una parola con la quale spesso si usa contraddistinguere in genere la cosa pubblica ma proprio questa identificazione totale tra la Cosa Pubblica e lo Stato Centrale è, spesso, radice delle degenerazioni della sua struttura. In realtà la Cosa Pubblica è un concetto molto più ampio che non si esaurisce con lo stato centrale ma nemmeno con le amministrazioni locali andando, invece, a coinvolgere in maniera attiva l’idea di comunità. Riscoprire ed attuare il pubblico in questa chiave è il miglior sistema per metterlo al riparo da derive burocratiche e dirigiste (vedi anche nota 51).
Altro punto cruciale è il sistema delle regole poste a guardia del mercato e dell’attività economica in generale. Come già accennato io sono tra coloro che ritengono ancora che il mercato, sotto certe condizioni, è uno strumento utile e necessario per gestire al meglio l’attività economica determinando una efficiente allocazione delle risorse. Detto questo, dovrebbe essere evidente che nessun mercato può essere totalmente libero ¹ senza entrare in contraddizione con se stesso e determinando, infine, la propria rapida dissoluzione. Neanche i fondatori della cosiddetta scuola classica hanno mai partorito un concetto così bislacco come un mercato totalmente libero, supponendo, comunque, che questo si esplicasse in una società con solidi valori etici. Qualsiasi forma di mercato è inserita in un contesto sociale in cui vigono leggi, regole e consuetudini che chiaramente ne determinano le dinamiche. Quindi la questione non può essere scioccamente quella di minimizzare i vincoli , ma quella di stabilire quale regolamentazione è necessaria, quale inutile, quale dannosa, avendo ben presente che un solido apparato di regole è indispensabile alla salute del mercato stesso e necessario per mantenerlo al servizio del benessere comune. Senza addentrarmi in un’analisi completa di questo tema, cosa che comporterebbe ben altra estensione, mi limiterò a dare alcuni spunti.
Cominciamo con le attività finanziarie, che all’interno del mercato hanno assunto, negli ultimi tempi, un ruolo tanto importante da risultare decisamene
centrale, nel bene e soprattutto nel male. Un ruolo che, come accennato in precedenza, ha travalicato potentemente quello di attività a servizio della produzione finendo per divenire in grande parte un’attività fine a se stessa e determinando, in questo modo, colossali distorsioni a tutto l’apparato economico. Chiariamo subito che ogni azione volta a stabilizzare il sistema necessariamente comporterà un ridimensionamento del comparto, il quale, come accennato ha assunto una dimensione assolutamente inaccettabile sia per le risorse che consuma inutilmente (e quindi spreca) sia per le distorsioni che introduce nel sistema. Del resto bisogna rendersi conto che in oltre 20 anni di crescita incontrollata il sistema finanziario ha innervato tutto il tessuto economico e produttivo per cui ci troviamo in una condizione simile a quella in cui si trova il chirurgo che pensasse di rimuovere con il bisturi un tumore molto sviluppato: sarebbe costretto a rimuovere anche alcuni organi vitali e finirebbe inesorabilmente per uccidere il paziente. Coloro che immaginano facili misure punitive per banche, hedge found, private equity, finanziarie, ecc. non si rendono conto appunto di questo fatto, per cui non vedono quali poi sarebbero le reali conseguenze di tali misure e chi finirebbe per pagarne il prezzo. Il processo di de-finanziarizzazione dell’economia è complesso e delicato, richiede un certo tempo, ed è continuamente sotto pressione da parte del potere finanziario, il quale non rimane certo con le mani in mano ad assistere al proprio ridimensionamento (basti vedere a quanto poco si è potuto fare sinora negli USA ) . Comunque è un processo tecnicamente possibile che, però, per le ragioni di cui si è detto , richiede una forte spinta politica e sociale che può trarre origine solo da una diffusa consapevolezza della necessità di ridurre drasticamente il peso della finanza nelle nostre economie. La strategia è quella di “affamare la bestia” ¹¹ , ovvero ridurre progressivamente i canali di approvvigionamento del sistema finanziario senza permettere che questo possa aprirne di nuovi o minacciare ritorsioni sul sistema economico. Quindi bisogna procedere su due fronti contemporaneamente: da una lato sconnettere progressivamente la finanza , la parte artificiosa ovviamente (del resto la gran parte), dai comparti produttivi e dall’altro applicare imposte mirate che rendano sconveniente la circolazione forzata di denaro fine a se stessa. Nel primo caso, solo per citare alcune utili misure normative: si dovrebbe ripristinare la separazione tra banche commerciale ¹² e banche di investimento (riservando eventuali garanzie statali solo alle prime); limitare l’utilizzo di strumenti derivati solo ai casi di reale riduzione del rischio ¹³ (cosa per la quale, del resto erano nati), ridurre contestualmente tutti gli strumenti che amplificano esageratamente l’effetto leva e che quindi divengono facilmente mezzi speculativi; regolare i mercati dei derivati similmente ai mercati cui fanno riferimento i sottostanti, che è assurdo
regolare un mercato e lasciarne completamente libero un altro che influisce pesantemente sul primo; riformare le agenzie di raiting, ipotizzando anche agenzie indipendenti ma statali (eventualmente internazionali ¹⁴ ) , tali quindi da ridurre gli infiniti conflitti di interessi con le istituzione economiche sottoposte alle loro analisi e migliorare la trasparenza del proprio operato; aumentare i poteri delle autorità di vigilanza e creare, come è stato in parte fatto da Obama, in ambito nazionale, un’istituzione che esegua un monitoraggio del rischio sistemico ¹⁵ (potrebbe essere la stessa agenzia di raiting internazionale); ridurre le possibilità di cartolarizzazione e la circolazione dei crediti ¹ . Per quanto riguarda le imposte bisogna tener presente quanto già si è detto in precedenza in riferimento alla circolazione forzosa dei capitali attraverso i canali finanziari. Facendoli circolare all’infinito, senza che in realtà siano impiegati e trasformati in risorse, tra un’applicazione finanziaria e l’altra, ad ogni aggio i vari operatori del mercato ne scremano una parte, la quale può anche essere piccola (e generalmente non lo è) ma considerando la mole enorme dei capitali ed il numero dei aggi ecco che siamo di fronte a flussi indicibili di denaro direttamente nelle casse delle grandi banche d’affari. Per evitare alcune particolari applicazioni di tali meccanismi si è pensato , ad esempio, di istituire la cosiddetta Tobin Tax , la quale non è altro che una piccola tassa sulle transazioni volta appunto a scoraggiare una parte di questa circolazione forzosa, rendendola non più conveniente. Del resto una tale tassa potrebbe anche essere provvisoria ¹⁷ , in quanto se si correggono in generale i processi di concentrazione e saturazione di cui si è detto, automaticamente la finanza tornerà a svolgere un ruolo costruttivo al servizio della produzione e dell’economia reale. Comunque se non si disarma prima la finanza difficilmente si potrà riequilibrare il sistema e correggere le dinamiche attuali, le quali sono funzionali allo sviluppo ipertrofico della finanza stessa. Quindi questo tipo di tassazioni allo stato attuale sarebbe assolutamente necessaria mentre in futuro potrebbe essere rimossa.
Chiudo riallacciandomi a quanto detto al punto 10 delle premesse. Tutte le misure “tecniche”, affinché siano attuabili e produttive, presuppongono, sia a monte che a valle, comunque, il recupero di quei valori etici pubblici che solitamente tengono insieme le società e ne articolano la convivenza. Il rispetto della persona, il rispetto della comunità, il valore di cittadinanza. Il sentimento di appartenenza ad una comunità che va oltre la propria famiglia, il proprio villaggio, la propria nazione. Perché, in generale, le società moralmente sane
(nel senso indicato prima) sono anche economicamente sane.
¹ Certo continuando di questo o la situazione cambierà portandoci ad una vera depressione globale con iperinflazione, ma al momento le cose non sono ancora a questo punto. ² Come si è visto solo se la capacità di consumo è diffusa nella grande maggioranza della popolazione si può pensare di avere una virtuosa circolazione della ricchezza. ³ La possibilità di aver tempo per informarsi e per comprendere il mondo circostante è la migliore ricetta contro ogni possibile degenerazione della democrazia ed è per questo combattuta ed ostacolata da tutti i nemici della libertà. ⁴ Con questo non si intende, ovviamente, mettere sul banco degli imputati l’intera moltitudine di coloro che operano in questo comparto, i quali in grandissima parte erano e sono del tutto ignari del funzionamento complessivo del sistema a cui appartengono. Grazie ad un’ideologia che ha distorto di molto la realtà, capita che anche i vertici di alcune banche d’affari, dedite massimamente alle arti speculative, credano in realtà di svolgere un compito che ha una sua utilità generale. Figuriamoci quindi che responsabilità possa avere l’impiegato medio! Va tutte le mattine a lavorare, esce alla sera, ha fatto il proprio lavoro, spesso molto lavoro, non gli si può certo imputare che, sostanzialmente, gli abbiano fatto fare buche per poi ricoprirle, magari con qualche cadavere dentro. E’ l’economia, caro, è la finanza, è il futuro, è il progresso, si diceva! ⁵ Altri esempi. Alcuni casi molto differenti tra loro ma per questo esplicativi: il proliferare di società di consulenza (advisor e consulting), le finte virtù di un commercio onnipresente, il mercato immobiliare ed il connesso settore delle costruzioni (di cui ho già parlato), il settore della sicurezza in alcuni paesi (in USA meriterebbe un libro a parte), ecc. ecc. Soprattutto servizi, sia al cittadino che alle imprese, alcuni già citati nella nota precente.
⁷ Soprattutto a livello di informazione. ⁸ a favore di imposte non progressive come quelle sui consumi. Con buona pace di chi dice che imposte sul patrimonio sono sempre imposte sul reddito. ¹ A questo proposito non ci si stancherà mai di stupirsi delle ideologie estreme che sono fiorite negli ultimi trenta anni. ¹¹ Come si diceva in era Regan a proposito dello Stato e della sua bulimia. ¹² Alle banche commerciali dovrebbero essere consentite solo attività tradizionali di sostegno e servizio all’economia reale. E’ chiaro che con malizia tutto si può cercare di ricondurre ad un servizio all’economia reale, e nel ato così è stato, ma l’esperienza degli ultimi anni mostra chiaramente i limiti oltre i quali alcuni strumenti divengono solo fini a se stessi. ¹³ Quello degli strumenti “assicurativi” sugli investimenti è, come accennato un caso emblematico dell’assurdità dell’evoluzione finanziaria nelle economie occidentali e del lassismo normativo che lo ha permesso. Nati, infatti, per ridurre il rischio con complesse architetture di contro investimento, sono stati progressivamente svincolati dall’investimento primario, finendo per divenire, grazie allo loro natura di moltiplicatori della leva, strumenti puramente speculativi (derivati, collaterali, vendite allo scoperto, ecc.) . Ora è chiaro che fintanto che sono rimasti agganciati all’investimento primario la loro natura era giustificata ed il loro effetto era realmente quello di ridurre il rischio. Una volta sganciati, però,e lasciati liberi di fluttuare da soli nei mercati, si sono trasformati in armi micidiali nelle mani della speculazione più becera ed alla fine in vere e proprie mine vaganti tali da destabilizzare l’intero sistema. Altro che riduzione del rischio! Pensiamo solo in quale altra situazione è possibile acquistare un’assicurazione sulla proprietà di qualcun altro come è invece possibile con i CDS. Sarebbe dovuto essere chiaro che se vendo un’assicurazione di €500, su una casa che ne vale un milione, ad altri che non il proprietario, forse creo qualche interesse illegittimo di troppo a che quella casa vada a fuoco , no? E comunque se andrà a fuoco può darsi che ci siano in giro assicurazioni per un ammontare totale di 10 milioni, assai superiore al valore della casa, aumentando enormemente gli effetti negativi di un evento avverso. E’ come se mi fosse consentito di assicurare la mia casa dieci volte il valore con dieci diverse
compagnie. Sembra assurdo nel mondo normale, eppure tutto ciò è possibile nel favoloso mondo della finanza, dove negli anni d’oro tutte queste trovate da circo erano considerate delle meraviglie che avrebbero generato dal nulla infiniti anni di prosperità ed opulenza. ¹⁴ Potrebbero essere un’agenzia dell’ONU o della WTO, meglio dell’ONU. ¹⁵ Questa è un’altra questione molto interessante. Immaginiamo che A assicuri B per un credito di x che questi ha con C. Inoltre immaginiamo che C abbia a sua volta un credito sempre di x con D e che questi possegga una parte del capitale di A. Prese singolarmente, le posizione di A, B, C, D, possono sembrare perfettamente sostenibili ma se andiamo a vedere il sistema nel suo complesso ci accorgiamo che in realtà il collasso di D potrebbe innescare un processo a catena in quanto tutte le garanzie individuali si annullano le une con le altre. D non paga C che non paga B il quale si ritrova con un’assicurazione di un soggetto che a sua volta risente del fallimento di D. Il sistema è interconnesso in maniera circolare per cui in realtà, debiti, crediti, assicurazioni, sono sostanzialmente virtuali. In pratica se non interviene un’entità superiore a bloccare la reazione, può saltare l’intero sistema. Nella realtà il sistema economico è infinitamente più complesso ma il nocciolo del problema rimane lo stesso. Per questo è necessaria un’istituzione che analizzi il sistema nel suo complesso per rendere visibili le criticità attive su scala globale ed un’autorità in grado di intervenire per risolverle. ¹ Infatti, se da una lato la facilità con cui vengono impacchettati e trasferiti i crediti determina una deresponsabilizzazione del soggetto che li ha prodotti, favorendo le pratiche illecite o comunque incaute, dall’altro distribuisce eventuali infezioni anche nei tessuti sani dell’apparato economico, rendendo arduo contrastarle (vedi il fatto che alla fine molti soggetti estranei alle pratiche di cui si è detto si ritrovano con oggetti misteriosi, tipo CDO spazzatura, nel portafoglio). Inoltre la possibilità di trasformare facilmente in denaro beni che in realtà non si è interessati a scambiare realmente, comporta che l’effetto di eventuali bolle valutative su quei beni vengano enormemente amplificate, determinando immediatamente creazione impropria di moneta. ¹⁷ Qui nessuno si nasconde che le tasse è tanto difficile metterle quanto toglierle.
CAP. 3 - APPLICABILITA’ DELLE POSSIBILI SOLUZIONI NEL CONTESTO GLOBALE ATTUALE
Come esplicitato all’inizio del capitolo riferito alle soluzioni per la crisi, si è fatta l’ipotesi di studio in cui fosse presente un’unica sovranità nazionale la quale avesse, almeno in linea di principio il controllo dell’apparato economico, senza condizionamenti esterni, trascurando, quindi, in prima approssimazione, la complessità del quadro internazionale. Del resto è evidente che il quadro reale è molto lontano dall’ipotesi di studio ed in questo capitolo cercheremo di capire, almeno in via preliminare, come applicare le soluzioni accennate nel precedente capitolo ad un contesto fatto di molte sovranità nazionali legate, direttamente o indirettamente, le une alle altre da una moltitudine di interazioni economiche , politiche e sociale. Una costellazione di realtà, spesso assai diverse tra loro, per storia, cultura e struttura interna, raggruppate secondo geometrie sempre più variabili in macroaree ¹ contraddistinte da locali strutture sovranazionali (vedi UE, ad esempio) e/o da paesi localmente egemoni.
Precedentemente all’implosione del blocco sovietico la situazione globale era molto più semplice (ma non per questo migliore) di quella attuale, constando principalmente di due blocchi contrapposti che si coagulavano attorno ai due paesi leader USA e URSS. A questi due blocchi, che costituivano il nucleo del sistema, si affiancava una periferia composta da una variegata costellazione di stati non immediatamente riconducibili ai due blocchi ma che comunque ne subivano le dinamiche senza, del resto, poterle realmente condizionare. Eccezione a questo scenario bipolare ha costituito sin dagli anni ’60 la Cina (vedi visita di Nixon del 1972 ) la quale, anche se era ancora sostanzialmente estranea e separata dalle dinamiche economiche globali, rappresentava già un blocco non trascurabile (e non allineato ² ), soprattutto nell’ottica di uno scontro USA-URSS. Successivamente allo dissoluzione del blocco comunista sovietico il mondo si è improvvisamente scongelato e la situazione globale si è resa più liquida e complessa. Da un’architettura bipolare siamo ati per breve tempo ad una monopolare incompleta, e quindi all’attuale situazione multipolare in rapida evoluzione. Tuttavia, se dal punto di vista politico abbiamo assistito alla moltiplicazione dei centri di attrazione politica locale, con le loro rispettive
macroaree, da un punto di vista economico invece il sistema si è globalizzato secondo le linee guida dell’economia di mercato occidentale (modello Regan). Per cui ci ritroviamo in uno scenario in cui il modello economico è sostanzialmente unico, il mercato è globale, ma la sovranità è altamente frammentata. Si è creata, perciò, una forte asimmetria tra lo spazio locale di influenza delle realtà politiche, siano esse democratiche o no, e lo spazio globale in cui si generano e si sviluppano le dinamiche economiche. Ne segue che il concetto stesso di sovranità diviene assai relativo, se non illusorio, per cui è il mercato che determina, in base alle sue dinamiche interne, le sorti degli stati e delle persone. Ma come abbiamo visto un mercato autoreferenziale è instabile e non può esistere senza arrecare gravi danni alla propria stessa struttura economica, determinando in ultima istanza la propria dissoluzione. Questa asimmetria è il dato più grave e l’ostacolo più grande che bisogna prendere in considerazione quando si pensa di applicare correttivi per arginare la crisi economica. Se, ad esempio, volessimo applicare in una nazione alcune misure per la rivalutazione del lavoro, dovremmo tenere in considerazione che, le grandi imprese (ora anche le medio piccole), libere di muovere le loro produzioni in giro per il mondo, potrebbero ritenere più vantaggioso spostarle in quei paesi dove il lavoro fosse meno tutelato. Questo è ciò a cui abbiamo assistito, almeno negli ultimo 20 anni. Stessa cosa potrebbe accadere nel caso si applicassero misure volte a ridimensionare il ruolo della finanza. Anche in questo caso la prima obiezione sarebbe che, se la finanza può agevolmente spostare i capitali in tutto il mondo, probabilmente li disimpegnerà da quei paesi in cui vigono le restrizioni per indirizzarli verso quei paesi che ne sono privi, causando danni ai primi e vantaggio ai secondi. In entrambe gli esempi le cose, in realtà non stanno esattamente così ³ , ma in linea generale il problema di sovranità nazionali ricattate da un mercato globale è attualissimo e gravissimo. Il superamento più limpido di tale situazione sarebbe, chiaramente, la costruzione di una sovranità democratica a livello globale. Ma, a parte il fatto che nelle condizioni attuali siamo lontani anni luce da una simile prospettiva, c’è anche da considerare che la soluzione più limpida potrebbe essere anche la più ingenua. Mi spiego. Nel ato e nel presente, il più delle volte, si è assistito ad una relazione di proporzionalità inversa tra la qualità democratica della sovranità in una data comunità e la sua ampiezza. E’chiaro infatti che più è numerosa la comunità più la partecipazione dei singoli individui alla gestione del potere sarà mediata; e più la catena delle mediazioni è lunga, maggiore sarà la possibilità che la comunità perda l’effettivo controllo della sovranità. Anche l’informazione, necessaria per farsi un’idea sull’andamento della comunità, sarà necessariamente mediata da grandi mezzi d’informazione, essendo impossibile per il singolo, anche armato
della più grande volontà, avere cognizione di quanto avviene in posti remoti ed in ambienti sociali con cui non viene abitualmente in contatto. Del resto, la produzione delle notizie da parte dei mass media determina notoriamente quelle distorsioni tipiche dei grandi numeri, anche nell’ipotesi che non vi sia un deliberato controllo da parte delle elite al potere. Per cui invece di aiutare alla formazione di un coscienza matura di cittadinanza, la quale determinerebbe una partecipazione libera e costruttiva alle scelte della comunità, si operano per eccitare emotivamente le persone e confonderle sul piano razionale . Alla fine nella vita della comunità accade quello che si osserva nelle folle in presenza di situazioni critiche, ovvero si generano comportamenti irrazionali ed autolesionistici contrari agli interessi di ciascuna delle persone coinvolte (si pensi ai casi di panico). Inoltre, un’informazione di massa è un’informazione molto permeabile alle manipolazioni attuate da quei poteri e da quelle elite che intendessero orientare illecitamente il consenso a loro favore. Le democrazie più mature si sono sviluppate in paesi piccoli e medi, con un limite superiore che si può approssimativamente indicare in una dimensione come quella dell’attuale Germania; già gli Stati Uniti, visti da taluni come il modello ideale, mostrano, in realtà, molti di difetti a cui si è accennato. Difetti che si ritrovano moltiplicati in alcuni giganti demografici come l’India, dove, ritengo, la parola democrazia venga usata spesso con eccessiva leggerezza. Immaginiamo, quindi, quale sarebbero le problematicità di uno “stato” che avesse una popolazione di 6 o 7 miliardi di persone ⁴ . Essendo tuttavia lontana la possibilità di una sovranità globale, questa digressione mi ha dato la possibilità di accennare alla natura strutturale di alcune lacerazione al tessuto democratico di alcuni paesi, le quali hanno una forte connessione con le criticità economiche a cui assistiamo. Per questo stesso motivo bisogna osservare con molta più attenzione e distacco all’ascesa economica di alcuni paesi con caratteristiche strutturali poco promettenti.
Rimane quindi totalmente presente l’ostacolo che l’asimmetria tra sovranità politica e mercato ci pone di fronte. Il punto è che, non avendo, tranne che in Europa, un orizzonte concreto di sovranità sovranazionale, bisognerebbe sviluppare (in piccola parte già esiste) una imponente rete transnazionale di organizzazioni e movimenti tali da porre in relazione le opinioni pubbliche dei vari paesi sui temi cruciali dell’attuale fase storica. Attraverso il confronto e la reciproca conoscenza si potrebbero far emergere esigenze ed urgenze comuni, al di là delle barriere e delle rivalità nazionali. In questo modo potrebbe nascere
una consapevolezza transnazionale su temi cruciali come il lavoro, lo stato sociale, il mercato, le libertà, i diritti, l’ambiente, la quale sarebbe base e propulsore per un’efficace azione comune (ed eventualmente coordinata) nei vari contesti nazionali. Le tecnologie attuali ci permettono, se usate con intelligenza, di creare tali reti con maggiore rapidità di come non si potesse neanche immaginare 20 anni fa. La gente, sia che appartenga ai paesi direttamente coinvolti dalla crisi che ai paesi che tuttora ne sono colpiti solo marginalmente, ma che manifestano problemi a dare prospettive credibili di sano sviluppo (praticamente tutti) , sente il bisogno di confrontarsi ed interrogarsi su di un mondo di cui non si capisce più la direzione ma intuisce che non è quella giusta. Le organizzazioni ed i movimenti promotori dovrebbero essere tutti quelli che stanno cercando di stimolare, da vari punti di vista, le opinioni pubbliche per renderle consapevoli delle reali criticità dei sistemi attuali e per individuare una via di uscita che sia di rottura con le tendenze che ci hanno portato dove siamo ⁵ . Stiamo pensando ai sindacati (che se vogliono incidere veramente non possono rimanere prettamente nazionali), ai vari movimenti degli indignati sparsi nei vari paesi, ai movimenti che lottano per la libertà in varie regioni del mondo (vedi primavere arabe, dissidenti cinesi, ecc.), alle organizzazioni per i diritti civili, quelle impegnate per il recupero della cittadinanza e la valorizzazione dell’impegno sociale, gli stessi partiti nazionali che non si ritrovano nell’attuale assetto delle vicende economico-politiche . Si consideri che reti simili già esistono e sono poderose ma, purtroppo, sono quelle dedicate alla concertazione e pianificazioni dei grandi interessi economici e finanziari privati, mentre non sono particolarmente sviluppate quelle sul fronte opposto ⁷ . Come si vede anche in ambito sociale ritroviamo quell’asimmetria di cui ci stiamo occupando, ma in questo caso ci sono buone possibilità che venga superata. Chiaramente la circolazione delle idee e la possibilità di associarsi liberamente nel mondo trovano spesso ostacoli dati dalla natura dispotica ed illiberale di molti stati. In questo caso tutto si complica ulteriormente ma, soprattutto nel caso che le nazioni in questione stiano subendo pesantemente gli squilibri dell’attuale congiuntura economica, la stessa può rivelarsi l’elemento di rottura, la scintilla, che determini l’implosioni di taluni regimi (vedi nuovamente il Nord Africa). Anche paesi come la Cina in cui lo sviluppo ancora cammina spedito (almeno per quanto riguarda il PIL e comunque meno di prima), ma in cui gli squilibri sociali stanno crescendo esponenzialmente, sono da ritenere sensibili a questo tipo di evoluzione.
Sul brevissimo periodo, mi preme mettere in guardia da quanto sta accadendo sui mercati e, di riflesso nelle economie, sin dal 2008. Come accennato, le grandi istituzioni finanziarie che sono state le principali responsabili della crisi, almeno come cause scatenanti (abbiamo visto che i motivi sono poi più profondi), hanno avuto tre anni per scaricare sui mercati le proprie debolezze. Tutta quella ricchezza virtuale creata negli ultimi 15 anni grazie ai loro virtuosismi, oltre ad essere stata distribuita allegramente a tutti, quando è cominciata la crisi, ancora si trovava in parte nelle mani di coloro che l’avevano creata. Il fatto che il potere della finanza non sia stato, nel frattempo, particolarmente intaccata, ha permesso che costoro lo usassero per cambiare, il più possibile vicino alla parità, la carta staccia con carta buona. Per cui alla fine, in alcuni casi, il costo degli errori fatti è stato fatto ricadere su coloro che questi errori, in massima parte, non avevano commesso. Caso eclatante è quanto sta tuttora accadendo con alcuni debiti sovrani europei e non solo. Senza voler assolutamente minimizzare le responsabilità delle classi governanti che hanno gestito alcuni paesi negli ultimi anni , vedi Grecia, Portogallo, Irlanda, Italia, ecc., corrotte ed inconcludenti , sarebbe tapparsi gli occhi non vedere che in realtà sui mercati globali questo è stato poco più di un pretesto. Un pretesto per fare soldi facili e per colpire molto più in alto. La Grecia, infatti, date le dimensioni economiche, non poteva essere considerata un reale problema, ne globale, ne europeo. Stesso dicasi per Irlanda e Portogallo, che tra l’altro hanno avuto un percorso assai diverso ⁸ . Per quanto riguarda Spagna ed Italia, che certo hanno una dimensione economica tale da mettere in crisi sia il sistema dell’euro che l’economia globale, nel caso dovessero collassare, non si capisce perché dovrebbero essere valutati assai peggio di paesi come il Giappone o gli stessi Stati Uniti o la Gran Bretagna. Il Giappone viaggia su un debito pubblico di oltre il 220% del PIL , crescita ferma dalla fine degli anni ’80 e prospettive identiche almeno sul breve termine, quindi probabilità nulla di veloce abbattimento del debito stesso, anzi. Stati Uniti e Gran Bretagna hanno debiti pubblici rispettivamente intorno al 100% ed al 85% ma con deficit colossali negli ultimi tre anni e con prospettive simili per i prossimi. Se al debito pubblico aggiungiamo quello privato siamo in entrambi i casi, secondo alcuni calcoli, abbondantemente oltre il 300%. L’Italia, ad esempio, ha si un debito pubblico intorno al 120% (comunque di gran lunga inferiore a quello giapponese) ma questo è rimasto sostanzialmente stabile negli ultimi anni, con deficit modesti, malgrado la crescita nulla (comunque un problema), ed ha prospettive stabili anche nei prossimi anni. Se aggiungiamo il debito privato siamo molto sotto il 300%. Eppure il paese, a differenza di quelli citati sopra, è stato letteralmente massacrato dai mercati. Allora di cosa stiamo parlando? Chiaramente ha contato la debolezza politica Italiana dovuta
principalmente ad un premier totalmente screditato agli occhi del mondo ( meno agli occhi degli italiani). Chiaramente ha contato che, se pur il paese non ha mostrato in maniera così evidente gli eccessi di finanziarizzazione tipici dello “sviluppo” degli ultimi anni, ha d’altra parte mostrato evidenti elementi regressivi e, come detto, non si combatte uno sviluppo farlocco con il sottosviluppo. Quindi, in un momento di grande incertezza, quando i pesi massimi (e non solo) del mercato tentano di rientrare delle loro perdite anche con ardite operazioni speculative, e considerando che in questi casi l’effetto psicologico è più importante nei mercati di qualsiasi analisi sui fondamentali, il debito Italiano è stato un bersaglio sin troppo facile. Quanto detto, però, non basta a capire quanto è avvenuto, soprattutto se lo si mette a sistema con quanto avvenuto anche ad altri paesi europei. In realtà siamo di fronte ad una guerra politico-economica che vede l’Unione Europea sotto attacco . Ora, come accennato in nota n. 53, io non vedo in questo il frutto di chi sa quale complotto mondiale, bensì il naturale congiunto di alcuni fatti importanti. In primo luogo la localizzazione di grande parte delle centrali finanziarie tra USA e UK. In un mondo globalizzato l’appartenenza ad una comunità nazionale, come si è visto, non rappresenta più un vincolo ne materiale ne morale particolarmente rilevante, però è chiaro che, potendo scegliere a chi addossare i costi dei disastri economici, almeno in prima battuta si tenta di scaricarli su altre comunità nazionali che non la propria. Escludendo obiettivi impossibili (per vari motivi) come Cina, Medio Oriente, e paesi emergenti, nei cui mercati, del resto, le grandi istituzioni economiche americane ed inglesi sono assai impegnate, ed escludendo il Giappone con il quale sono legate a doppia mandata sin dagli anni ottanta, e che comunque può stampare moneta a piacimento, di significativo rimane solo l’Europa continentale. Se a questo aggiungiamo, appunto, che gli altri stati possono stampare moneta senza i vincoli della BCE, per cui un attacco al debito potrebbe essere quasi del tutto vano, risolvendosi addirittura in un bumerang con la svalutazione degli asset detenuti dagli stessi aggressori, il quadro potrebbe essere quasi completo. Quasi, perché in realtà manca ancora il tassello, a mio avviso, più significativo. Nell’ambito delle potenze economiche mondiali l’Europa (in questo caso intesa come blocco economico) sembra essere l’unica ad aver maturato la consapevolezza che sia necessario ridurre drasticamente il peso della finanza nell’economia e regolare i mercati con maggiore vigore. Se a questo aggiungiamo una tradizionale maggior cautela nell’abbracciare in generale le tendenze turbo capitalistiche, risulta chiaro che i potentati maggiormente influenti sui mercati, anche, a limite, se sono europei, giudichino in maniera ostile il rafforzamento dell’Unione Europea, specialmente il nocciolo duro rappresentato dai paesi che adottano l’euro. Dal giudicare ostile
all’agire contro, il o è breve. Quindi non servono neanche riunioni particolari o fantomatici summit segreti tra banchieri, i quali comunque avvengono, a determinare un’azione comune di aggressione all’Europa ed all’Euro. E’ sufficiente un po’ di lucidità e molta spregiudicatezza. Cose che dubito possano mancare dalle parti di Wall Street o della City. Certamente si tratta di lucidità effimera in quanto il gioco è assai pericoloso, dato che una crisi dell’eurozona sicuramente trascinerebbe l’intero globo, anche ammesso che non ci sia già, in una depressione micidiale, dalla quale ovviamente non sarebbe esente neanche il mondo della finanza. Ma questo accadrebbe dopodomani mentre una regolamentazione, ad esempio dei flussi monetari o dei benefit dei dirigenti, potrebbe accadere domani. Per un mondo che ormai è abituato a vivere alla giornata la differenza è sostanziale. Intanto mi porto a casa i miei bei soldini e domani si vedrà! Quindi non bisogna farsi illusioni, non basterà che i governanti europei lavorino tecnicamente per il miglioramento dei fondamentali delle loro rispettive economie, se questi fondamentali sono recepiti senza serenità di giudizio da chi sta orientando i mercati. Sarà necessaria anche un’azione politica di forza, altrimenti la stessa applicabilità delle misure anticrisi, anche se fossero le migliori al mondo, potrebbero rivelarsi nulla ¹ . Azione che avrebbe l’effetto, da un lato di portare a più miti consigli i Signori della finanza, che comunque hanno nel vecchio continente consistenti interessi, e dall’altro di ridurre l’influenza di questi sul mercato, offrendo, non solo ai mercati, una guida forte ed alternativa. Del resto i mercati non sono fatti di sola finanza e molti dei soggetti che vi operano, imprese, fondi pensione, piccoli risparmiatori, piccole banche commerciali, hanno spesso interessi molto diversi da quelli dell’alta finanza, anche se poi da questa si sono lasciati condurre. Inoltre le popolazioni di molti dei paesi che ospitano i principali centri finanziari, in particolare USA ed UK, come si è visto, non hanno beneficiato in massa degli splendori della finanza, anzi il contrario, per cui dare un segnale forte di rinnovamento significherebbe are anche grandi movimenti critici all’interno di questi paesi come può essere, ad esempio, Occupy Wall Street. L’attacco all’Euro è uno snodo cruciale. Se i paesi del continente sapranno fare fronte comune ed intraprendere strade differenti da quelle sinora imposte dall’economia globalizzata si potranno invertire drasticamente le tendenze ora in atto, con grande beneficio non solo per questi paesi ma per tutto il consesso mondiale. Del resto solo l’Europa appare oggi, malgrado la sue debolezze, in grado di fare questo. Coloro che vogliono cambiare qualcosa nelle dinamiche della globalizzazione non possono che auspicarsi un rafforzamento dell’Unione Europea, unico esperimento di costruzione democratica sovranazionale in grado di contrastare, sia come forza economico-politica sia come esempio alternativo,
la deriva socioeconomico globale. Ovviamente, ed in questo hanno perfettamente ragione i critici, la costruzione europea deve subire un brusco cambio sia qualitativo che quantitativo, accelerando il processo verso una sovranità sovranazionale rafforzando, al contempo, il controllo democratico sulle istituzioni e, soprattutto, riprendendo con vigore e con orgoglio la discussione e la progettazione di migliori modelli di sviluppo. Non mi dilungo su questo tema, che merita altro sviluppo, ma rimarco che, se qualcuno pensa di fare meglio senza Unione Europea, o è uno sciocco, o sta guardando agli interessi della grande finanza, delle grandi compagnie, dei grandi capitali. Ci riflettano tutti quei movimenti antagonisti o indignati che hanno preso una piega antieuropea. Ma ci riflettano pure, anzi di più, alcuni paesi del nord Europa, in primis la Germania, che nell’anno ato sono sembrati più un ostacolo che uno stimolo per la messa in campo di una risposta forte ed unitaria alla grave crisi. Perplessi tra una grande visione unitaria di cui però non sono più troppo convinti ed una tentazione a fare da soli, bene e rapido, quel poco che si può fare da soli. Cerchino di svegliarsi e capire che l’attacco è rivolto anche a loro ed al loro modello di sviluppo (o almeno quello che è stato il loro modello di sviluppo) ; che senza l’Europa, una Grande Europa, non hanno futuro ne economicamente, ne politicamente, ne culturalmente. Quindi va bene pretendere che insieme ai diritti (ovvero le garanzie) si condividano anche i doveri (ovvero le regole), ma non aspettare di ottenere esattamente tutto quello che si pretende altrimenti potrebbe essere troppo tardi e comunque neanche utile ¹¹ . In questo momento ci vuole una vista ampia e lunga, guardarsi solo i piedi non conviene. Chi non ce l’ha di natura veda si farsela venire almeno con l’esercizio . Le buche sono tante ma si superano saltandole, non riempiendole. Altrimenti saremo stanchi morti molto prima di aver finito il percorso.
Dicembre 2011
¹ Quando di parla di macroaree e si una il temine “locale” non si considerano solamente adiacenze geografiche, ormai non sempre realmente indicative, ma aree di forte connessione economica e politica, le quali possono anche, a limite, estendersi a macchia di leopardo su tutto il globo. ² La natura del regime e dell’ideologia comunista cinese è sempre stata molto
diversa da quella sovietica, per cui sia le diversità strutturali e culturali, sia l’orgogliosa coscienza nazionale e le relative ambizioni egemoni, ne facevano più dei concorrenti che degli alleati. In questo contesto gli Stati Uniti pensavano che nell’evenienza di un conflitto la Cina si sarebbe collocata più probabilmente a lato degli USA che non dell’URSS, o che comunque sarebbe rimasta neutrale. ³ Le cose non stanno esattamente così perché, in realtà, sia nel caso di trasferire produzioni sia nel caso di trasferire i capitali, è necessario che nei paesi di arrivo siano presenti strutture ed infrastrutture tali da garantirne la corretta, efficiente ad affidabile gestione. Non si crea dall’oggi al domani uno stabilimento tedesco dove capita e non si trasporta una City o una Wall Street immediatamente dove si vuole. Questo fa si che alcune delle misure menzionate per sanare la crisi, se applicate con intelligenza, possono dare qualche risultato anche se rimane immutata l’asimmetria di cui si è detto. Del resto, nel caso della finanza, dato che quei capitali attualmente non approdano ai circuiti virtuosi dell’economia reale, non importa poi così tanto se prendano qualsivoglia direzione, a meno che, ovviamente, non si sia un paese che di finanza vive (vedi Gran Bretagna, in parte Svizzera, in parte USA, paradisi fiscali, ecc.). ⁴ E’ tuttora da indagare la possibilità che una struttura statale fortemente decentrata, in cui le comunità locali abbiano il controllo diretto almeno di quella parte dei beni comuni e dei mezzi di produzione che le coinvolgono più da vicino, e che, allo stesso tempo concorrano in maniera paritaria e partecipata, oltre che alle decisioni centrali, anche alla formazione della conoscenza e dell’informazione, e che infine siano legate insieme da una forte consapevolezza di unità, possa concretamente ridurre tali problematicità andando a configurare una democrazia di qualità accettabile anche in presenza di un’enorme popolazione. L’esempio attuale in questa direzione è certamente rappresentato dal processo di unificazione europea, il quale però, oltre ad essere piuttosto distante dalla struttura appena descritta, dà segnali tuttora contrastanti, tra tendenze ad un eccessivo accentramento burocratico, opposte pretese di mantenimento integrale delle sovranità nazionali, e tendenza alla concentrazione del potere economico. ⁵ Diceva Einstein: non si risolvono i problemi con le stesse idee che li hanno provocati. Spesso, pur non condividendo (almeno non del tutto) finiscono con l’accettare i modelli dominanti e le dinamiche globali perché isolati nella loro dimensione
locale. ⁷ Vorrei specificare che in questa sede non si da peso a teorie generali su complotti mondiali o altre amenità simili. Complotti di vario genere ci sono, ci sono stati e ci saranno, ma non sono questi a determinare i grandi flussi della storia. Piuttosto è chiaro che soprattutto in una situazione di incertezza le strutture più organizzate hanno la meglio. Del resto se non si da una prospettiva globale di sviluppo, credibile e condivisa, se non c’è una struttura di regole efficaci, se non abbiamo una base di valori guida generalmente accettati, chiaramente rimane solo l’interesse personale. Ognuno si fa i propri interessi, o almeno quello che ritiene essere i propri interessi, con i mezzi che ha a disposizione; chi ha più potere meglio se li farà. ⁸ E’ istruttivo che l’Irlanda, la cui situazione di quasi bancarotta è derivata principalmente dall’avidità e dall’irresponsabilità delle banche, sia stata trattata dai mercati meglio di paesi come il Portogallo o, addirittura come Italia e Spagna, che hanno oggettivamente situazioni incomparabilmente migliori. Evidentemente, potendo scegliere, i malandrini preferiscono non pestarsi i piedi tra loro. Alcune volte, sembra, a sua insaputa. ¹ Si pensi all’azione delle agenzie di raiting, che ormai sono delegate dai mercati (anche se ultimamente con sempre maggior sospetto) a giudicare anche le politiche economiche degli stati. Considerando che l’acqua in cui nuotano è la stessa, ad esempio, delle grandi banche d’affari, le quali, tra l’altro, sono loro ottimi clienti, risulta chiara la loro scarsa obiettività nel giudicare chi quell’acqua vuole prosciugare. ¹¹ Non esiste un sistema assolutamente giusto per tutti. Ognuno deve adattare il sistema per far emergere le proprie qualità e ridurre l’impatto dei propri difetti. Sempre, tuttavia, in un ottica di recupero della centralità dell’individuo cittadino e della comunità, sia nei riguardi dello stato che del mercato.